SIGMUND FREUD E LA LEZIONE DI IMMANUEL KANT: L’UOMO MOSE’, L’ UOMO SUPREMO, E LA BANALITÀ DEL MALE. I SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA ATEA E DEVOTA E LA RIVOLUZIONE COPERNICANA. NOTE PER UNA RI-LETTURA
QUESTO L’INDICE (il testo completo è allegato - qui in fondo - in pdf):
I
PRIMA PARTE:
SIGMUND FREUD, I DIRITTI UMANI, E IL PROBLEMA DELL’ “UNO”. Appunti per una rilettura di “L’uomo Mosè e la religione monoteistica” e della rivoluzione copernicana in psicoanalisi. Prefazione di Riccardo Pozzo
PREFAZIONE DI RICCARDO POZZO
NOTA INTRODUTTIVA - ESSERE GIUSTI CON KANT - E CON FREUD.
PREMESSA - A FREUD, GLORIA ETERNA!!!
INTRODUZIONE - VIAGGIO DI “LAIO”, DEL “SANTO PADRE” A MALTA SULLE ORME DI PAOLO DI TARSO: 2010 d. C
CAP. 1 - “L’UOMO MOSE’ E LA RELIGIONE MONOTEISTICA”.
CAP. 2 - EICHMANN A GERUSALEMME NEL 1961: DOPO AUSCHWITZ, KANT "ALLA BERLINA". Hannah Arendt, Emil Fackenheim, e l’ “Imperativo Categorico del Terzo Reich”.
CAP. 3 - KANT, IL “MOSE’ DELLA NAZIONE TEDESCA” E LE ORIGINI DELL’“IMPERATIVO CATEGORICO” DI HEIDEGGER E DI EICHMANN.
CAP. 4 - KANT, UN ALTRO KANT. LA LEZIONE DI MICHEL FOUCAULT E LA SORPRESA DI JURGEN HABERMAS.
CAP. 5 - FREUD, LA LEGGE DEL FARAONE-DIO, E LA LEGGE MORALE DI KANT. Incompresa la lezione del “Tu devi” di Kant, Freud con gran difficoltà riesce a liberarsi dal “Super-Io” del Faraone.
CAP. 6 - UNA ‘CONCLUSIONE’ DI KANT (1766): L’AUTOANALISI, E LA BILANCIA
DELLA GIUSTIZIA (CON LA SPERANZA) RITROVATA.
UNA PAGINA DALLA “CONCLUSIONE TEORETICA RICAVATA DAL COMPLESSO DELLE CONSIDERAZIONI DELLA PRIMA PARTE” DELLA INTERPRETAZIONE DEI “SOGNI DI UN VISIONARIO
SPIEGATI CON I SOGNI DELLA METAFISICA”
II
SECONDA PARTE:
KANT CONTRO L’IDEOLOGIA DELL’ “UOMO SUPREMO” DEI VISIONARI E DEI FILOSOFI DELLA TEOLOGIA-POLITICA ATEA E DEVOTA.
NOTA INTRODUTTIVA
CAP. 1 - KANT E LA “STRADA MAESTRA” DELLA “CRITICA". Note per una rilettura di "I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica",
CAP. 2 - KANT: LA BUSSOLA DELLA SANA RAGIONE, L’ATTACCO DEGLI “ILLUMINATI” METAFISICI, E L’ESPERIMENTO GALILEIANO DELLA NAVE. Note per una rilettura di “che cosa significa orientarsi nel pensiero”.
CAP. 3 - KANT: IL MARE SENZA RIVA, LA BUSSOLA INAFFONDABILE, E IL PROBLEMA DELL’ “IO”.
CAP. 4 - KANT E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA. L’unità inscindibile di sensibilità e intelletto.
CAP. 5 - KANT E L’ “IO PENSO” DELL’ “UOMO SUPREMO” DEI VISIONARI E DEI FILOSOFI DELLA TEOLOGIA-POLITICA ATEA E DEVOTA.
APPENDICE:
A. KANT E L’ANTROPOLOGIA DELLA CONOSCENZA. COME ALL’INTERNO, COSI’ ALL’ESTERNO: "VERE DUO IN CARNE UNA". NOTE SUL PROGRAMMA DI KANT
B. MONOTEISMO, CRISTIANESIMO E DEMOCRAZIA
Nota bibliografica
Federico La Sala (19.08.2010)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
Disagio della civiltà: "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità critiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione. Non fu un puro caso che il sogno germanico del dominio del mondo facesse appello all’antisemitismo come a suo complemento, e non è inconcepibile che il tentativo di stabilire una nuova civiltà comunista in Russia trovi il suo sostegno psicologico nella persecuzione della borghesia. Ci si chiede soltanto, con apprensione, che cosa si metteranno a fare i Sovieti, dopo che avranno sterminato la loro borghesia [...]" (S. Freud, Il disagio della civiltà, 1929).
"L’immagine del corpo mistico di Cristo è molto seducente, ma l’importanza che si annette oggi a questa immagine mi pare uno dei sintomi più gravi della nostra decadenza. La nostra vera dignità infatti non sta nell’essere membra di un corpo, anche se mistico, anche se qu ello di Cristo, ma in questo: nello stato di perfezione, al quale tutti aspiriamo, noi non viviamo più in noi stessi, ma è Cristo che vive in noi; in questa condizione, Cristo nella sua integrità, nella sua unità indivisibile, diviene, in certo senso, ognu no di noi, come è tutto intero nell’ostia. Le ostie non sono frammenti del suo corpo. L’importanza attuale dell’immagine del corpo mistico dimostra quanto i cristiani siano miseramente esposti alle influenze esterne. certo inebriante sentirsi membro del co rpo mistico del Cristo: ma oggi molti altri corpi mistici, che non hanno Cristo come capo, procurino alle proprie membra un’ebbrezza, a mio parere, della stessa natura" (Simone Weil, 1942.)
Federico La Sala
MONDO (ATLANTE), VOLONTA’ (FILOSOFIA), E RAPPRESENTAZIONE (TEATRO): UNA #HAMLETICA TERAPEUTICA "TRAPPOLA DEL TOPO" ("THE MOUSETRAP"), PER SCHOPENHAUER (1788-1860), CHE PENSAVA CHE, "SOGNANDO, CHIUNQUE DIVENTA UNO SHAKESPEARE"!
NEI "Parerga e Paralipomena", Arthur Schopenhauer, sicuro del suo punto di vista, scrive: “La socievolezza appartiene alle inclinazioni più pericolose, persino distruttive, poiché ci mette in contatto con esseri la cui grande maggioranza è moralmente cattiva e intellettualmente ottusi o pervertiti”. Questa "superficiale" riflessione, porta a galla (a mio parere) tutta l’incomprensione, da parte di Schopenhauer e del suo "punto di vista", non solo del problema sociologico, ma anche del problema antropologico, sulla "socievolezza" in generale, e sul tema della #interpretazionedeisogni di "un #visionario" e della "#metafisica", già portata avanti da #Kant (a partire dal 1766), e, infine, sulla intera ricerca antropologico-politica e artistica portata avanti da #Shakespeare (all’epoca di #Elisabetta I d’Inghilterra, da non dimenticare).
ANTROPOLOGIA, #TEOLOGIA-POLITICA E #SOCIETA’: "COME NASCONO I BAMBINI" (S. Freud, Analisi terminabile e interminabile", 1937). Nei "Parerga e paralipomena", ancora, scrivendo che «Sognando, chiunque diventa uno Shakespeare», il grande filosofo mette in evidenza tutta la sua grande approssimazione nell’#analisi dei #sogni e, in particolare, delle opere in cui Shakespeare ha prodotto riflessioni importanti e su cui ancor oggi è bene riflettere (con Freud e oltre #Freud), come nell’#Amleto, sulla figura del "#corpomistico" del Re, sulla figura del #Macroantropo, come in "Antonio e Cleopatra", e, in generale, sulla #piramide androcentrica di tutti i teorici della #produzione della "società" della tradizione teologico-politica dell’#Occidente, compreso lo stesso Schopenhauer.
NOTA:
ANTROPOLOGIA FILOSOFIA E ANDROCENTRISMO: "ECCE HOMO" (NIETZSCHE, 1888).
LA SFINGE CHIESE AD EDIPO, "CHI SEI ?"; EDIPO "PLATONICAMENTE" RISPOSE: "L’#UOMO!" [#ANTHROPOS].
STORIA #LETTERATURA E #STORIOGRAFIA. #PILATO INDICO’ #GESU’ ALLA #FOLLA E DISSE: "ECCE HOMO" ( «Ecco l’uomo», «ἰδοὺ ὁ #ἄνθρωπος»).
#TEOLOGIA-POLITICA E #COSMOTEANDRIA. LA LEZIONE DI #PAOLODITARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [ἀνήρ], e capo di Cristo è Dio [ ὅτι παντὸς ἀνδρὸς ἡ κεφαλὴ ὁ Χριστός ἐστιν, κεφαλὴ δὲ γυναικὸς ὁ ἀνήρ, κεφαλὴ δὲ ⸀τοῦ Χριστοῦ ὁ θεός.]"(1 Cor. 11, 1-3).
"PERSONA E DEMOCRAZIA. La storia sacrificale" (M. Zambrano, 1958): "María Zambrano non ha venduto l’anima all’Idea" (Emil M. Cioran, "Esercizi di ammirazione. Saggi e ritratti", Adelphi, 1988).
Sul tema, cfr. "Le parole di Antigone nella riscrittura novecentesca di María Zambrano" (di Camilla Tibaldo, Treccani, 13 gennaio 2020).
CHI INSEGNA A CHI CHE COSA COME?! INSEGNAMENTO E COSTITUZIONE: CHI INSEGNA AI MAESTRI E ALLE MAESTRE A INSEGNARE?!
L’ALGORITMO DELLA TRAGEDIA (SOCRATE-PLATONE-PAOLO DI TARSO-HEGEL) E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA POSTA DA KANT ("LOGICA", 1800). L’autonomia dello apprendimento e l’#apprendimento dell’autonomia, concepito l’una e l’altro, secondo le indicazioni dell’#illuminismo kantiano (1784), a mio parere, riposa sul #coraggio ("aude") del servirsi della propria intelligenza, sulla propria #capacità e sulla propria #volontà di "mangiare" e "bere" ("#sàpere") da parte dell’alunno e dell’alunna, e non sulla #maieutica di un Socrate che gioca a "sapere di non sapere" con l’alunno-schiavo ("#Menone") a dargli lezioni sul "non sapere di sapere"!
COME NASCONO I BAMBINI (LE IDEE, E I SOGNI): "SAPERE AUDE!" Il "problema Socrate", posto da #Nietzsche e nonostante Nietzsche, è del tutto ignorato e la sollecitazione di Michel Foucault a ripensare il rapporto "illuminismo e critica" (1984) è ancora fuori dall’agenda dei lavori del mondo della "platonica" Accademia e dell’"aristotelico" Liceo: che il trecentesimo anniversario della nascita di Kant (1724-2024) possa essere una buona occasione per cominciare!
PIANETA TERRA E COSMOTEANDRIA:
TRACCIA PER UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA (KANT, 1724- 2024).
STORIA DELLA #CIVILTA’ E #FILOLOGIA: COME IL #PRINCIPIO ANTROPOLOGICO (TEOLOGICO E COSMOLOGICO) E’ STATO DECLINATO DALL’ANDROCENTRISMO (PLATONICO-PAOLINO ED HEGELIANO), NEI SECOLI DEI SECOLI, FINO A DIVENTARE PRINCIPIO "ANTROPICO", IN UNA SINTETICA "#PIRAMIDE" PROPOSTA DAL "#SAPIENTE" (1510) DI #BOVILLUS (v. allegato).
PSICOANALISI DELLA SOCIETA’ CONTEMPORANEA:
I GIGANTI SULLE SPALLE DEI BAMBINI E "LA SOCIETA’ SANA" ("THE SANE SOCIETY", 1955).
UNA NOTA SUL "TEMPO FUORI DAI CARDINI" E L’ANSIA DELLA "DE-GENERAZIONE" DELLO STORICO PRESENTE
SOCIOLOGIA, PEDAGOGIA, E PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE. SE DA MOLTI DECENNI I #PIFFERAI GIGANTI dei "mass-media" e dei "social media" (veri e propri "cavalieri dell’apocalisse"), a cui "abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi" (come denunciava McLuhan), si sono ormai seduti sulle spalle dei "#bambini" e degli stessi "#genitori", non è forse il caso di uscire, con Dante Alighieri, dal #letargo e dall’#inferno, e cercare di ripensare e chiarirsi le idee, con "Amleto" (III.2), sulla "trappola per topi" ("The Mousetrap"), e portare sulla scena il "giogo" del "pifferaio" dello "stato di Danimarca" planetario"? Se non ora, quando?!
P.S. - IL #BAMBINO SULLE SPALLE DEL GIGANTE: SAN CRISTOFORO.
UN "BAMBINO" SULLA SPIAGGIA DELL’#OCEANOCELESTE (KEPLERO A #GALILEO, 1611): ISAAC NEWTON (1643 - 1727).
ANTROPOLOGIA FILOSOFICA, RIVOLUZIONE COPERNICANA, E IMMAGINAZIONE SCIENTIFICA E TEOLOGICO-POLITICA...
“If I have seen further it is by standing on ye sholders of Giants.” (Isaac Newton). A ben riflettere, nel trecentesimo anniversario della #nascita di #Kant (1724 -2024), è bene anche ripensare all’intera opera di Newton ("Trattato sull’Apocalisse") e, dalle sue stesse parole, a un possibile "sottile" richiamo "cristologico", a sé stesso come un "#bambino" (#Cristo), portato sulle spalle dal #gigante "#Cristoforo" (che a sua volta diventa un altissimo "#Cristofaro", come da parola di #Alexander #Pope, poeta amatissimo da Kant).
NOTA. #Filologia #Antropologia #Teologia e #Pedagogia. "On The #Shoulders Of #Giants" (#OTSOG). "Senza di loro non vedremmo nulla, su di loro vediamo più lontano di questi San Cristoforo" (cfr. #Umberto #Eco, Introduzione all’edizione italiana: "Dicebat Bernardus Carnotensis" del libro di Robert K. #Merton, "Sulle spalle dei giganti", Società editrice il Mulino, Bologna1991).
IL DISAGIO DELLA CIVILTA’ E IL PROBLEMA "KARL MARX": LEWIS MUMFORD E LA GRANDE MACCHINA. Alcuni appunti sul tema*
Lewis Mumford e la Grande Macchina
di Alfonso Berardinelli (Una Città n° 292 / 2023 aprile-maggio)
Eminente e tipico umanista americano, storico della cultura, del lavoro e della tecnica, Lewis Mumford (1895-1990) è stato fin dagli anni Trenta del Novecento un pensatore sociale che non ha cessato di indagare sulle strutture materiali, sulle utopie e sulla loro influenza sulla vita individuale e collettiva. L’eccezionale ampiezza dei suoi orizzonti di ricerca, che vanno dalla preistoria al mondo attuale, ne fanno uno degli autori tutt’ora più utili alla riflessione sul destino della civiltà umana. I suoi maestri connazionali, soprattutto Emerson e Veblen, fanno di Mumford un filosofo sociale che ha sempre stentato a entrare nella cultura italiana. Oggi che si parla di tramonto dell’umanesimo, sempre più minacciato dal “postumano” tecnologico, Mumford va riletto: e colui che più lo ha riletto e usato è il francese Serge Latouche, nel suo saggio La Megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso (Bollati Boringhieri, 1995).
Il termine “Megamacchina” ripreso da Latouche viene in effetti da Mumford, che ne ha fatto ripetutamente uso approfondendone e ampliandone il significato nella storia delle civiltà. I suoi libri più importanti e famosi sono Storia delle utopie (1922), La cultura delle città (1938), La città nella storia (1961), Le trasformazioni dell’uomo (1956), Il mito della macchina (1967). Per Mumford la Megamacchina è un insieme organico, un’organizzazione sociale complessa e funzionale che produce e controlla forme di lavoro e di vita, il tipo di individui e il loro rapporto reciproco.
Nel suo libro sul pensiero di Mumford e i suoi sviluppi dell’interpretazione del presente e del futuro prossimo, Latouche comincia anzitutto con questo riassunto:
Lewis Mumford ci ha insegnato che la macchina più straordinaria inventata e costruita dall’uomo non era altro che l’organizzazione sociale. La falange macedone, l’organizzazione dell’Egitto faraonico, la burocrazia celeste dell’impero dei Ming sono “macchine” di cui la storia ricorda l’incredibile potenza. L’impero di Alessandro ha durevolmente sconvolto i destini del mondo; le piramidi d’Egitto stupiscono ancora l’uomo del XX secolo e la grande muraglia cinese resta fino a oggi la costruzione umana più visibile dalla Luna. In queste organizzazioni di massa, che combinano la forza militare, l’efficienza economica, l’autorità religiosa, la performance tecnica e il potere politico, l’uomo diventa l’ingranaggio di un meccanismo complesso che raggiunge una potenza quasi assoluta: una Megamacchina. Le macchine semplici o complesse partecipano al funzionamento dell’insieme e ne forniscono il modello. (Latouche, op. cit., pagina 9)
Si parte da lontano, come ha fatto Mumford nelle sue opere, per arrivare al Novecento e al futuro. Dai “tempi moderni” rappresentati genialmente da Chaplin negli anni Trenta (in cui l’uomo che lavora viene nutrito roboticamente alla catena di montaggio) all’imprenditore tedesco Walter Rathenau, che nella Germania di Weimar parlò di “meccanizzazione del mondo”, si arriva comunque al “grande automa”, che è la fabbrica della grande industria capitalistica, di cui aveva parlato Marx.
A conclusione dei suoi vari studi storici sulle trasformazioni tecniche e sociali, Mumford si rivela uno dei più decisi analisti e critici del Progresso. Prima di dare un certo spazio alla speranza, in spirito di utopia morale e perfino spirituale, Mumford delinea un ritratto particolarmente pessimistico degli attuali esiti a cui arriva il progresso meccanico-organizzativo:
Con lo sviluppo futuro dei sistemi cibernetici che permettono di prendere decisioni su problemi che, a causa della loro complessità e delle loro astronomiche serie numeriche, superano le capacità umane di pazienza e di calcolo, l’uomo post-storico sarà in grado di spodestare il solo organo umano di cui sembra importargli qualcosa: il lobo frontale del cervello. Creando la macchina pensante, l’uomo avrà compiuto l’ultimo passo verso l’assoggettamento alla meccanizzazione: e l’abdicazione finale davanti al suo stesso ingegno gli fornirà un nuovo oggetto da adorare: il dio cibernetico. Questa nuova religione richiederà ai suoi fedeli una fede ancora più cieca di quella pretesa dal Dio dei monoteismi: la certezza che tale demiurgo, i cui calcoli non potranno essere umanamente verificati, darà solo risposte corrette...
Generalizziamo tale risultato e vediamolo per quello che è. Una volta che l’automa avrà raggiunto la perfezione, l’uomo diventerà completamente estraneo al suo mondo e sarà ridotto a nulla: il regno, il potere e la gloria apparterranno alla macchina. Piuttosto che stabilire una ricca relazione di senso con la natura per guadagnarsi il suo pane quotidiano, l’uomo sarà condannato, a condizione di accontentarsi dei prodotti e dei surrogati forniti dalla macchina, a una vita di benessere senza sforzi. Tale benessere, più precisamente, sarà privo di sforzi se egli imporrà a se stesso di consumare esclusivamente i prodotti che di continuo la macchina gli fornirà, indipendentemente dal proprio grado di sazietà. Lo stimolo a pensare, a sentire e ad agire, in definitiva lo stimolo a vivere, scompariranno presto.
Negli Stati Uniti l’uomo, a causa della sua dipendenza dall’automobile, ha già cominciato a perdere l’uso delle gambe. Fra non molto condurrà una vita puramente viscerale, basata sullo stomaco e le parti genitali, benché ci siano ragioni per pensare che anche qui si applicherà il principio del minimo sforzo. Le madri americane non sono forse incoraggiate da molti medici a non allattare i loro figli? Da un punto di vista post-storico il latte in polvere è ben più soddisfacente dell’esperienza psicosomatica della tenerezza materna procurata dall’allattamento al seno. La scienza farà in modo di procurarci un orgasmo privo di sforzi per mezzo di una macchina eliminando così le incertezze dell’attaccamento umano e il bisogno di contatto fisico. Sarà questo un aiuto necessario all’inseminazione artificiale? Oggi si comincia solo a intravedere gli effetti del disprezzo per i processi organici e il tentativo ostinato di sostituirli a tutti i costi con surrogati meccanizzati. (Mumford, Le trasformazioni dell’uomo, 1972, a cura e con un saggio di Massimo Rizzante, Mimesis, 2021, pp. 178-79)
Il quadro che ci offre Mumford sembra integrare e aggiornare in un orizzonte di tecnoscienza in continua crescita quanto venti anni prima previde politicamente e socialmente Orwell in 1984. La prospettiva è tale che il suo esito non potrà che essere autodistruttivo. È solo per questa ragione che forse non si arriverà a realizzare una così totale meccanizzazione dell’umano. Mumford perciò aggiunge: “L’uomo post-storico, questa creatura completamente assoggettata alla macchina e che tristemente si è adeguata alla pseudo-vita dei suoi sistemi automatizzati, è una possibilità teorica, non una probabilità storica [...]. Malgrado tutto il potere della tecnica e la forza dei numeri, l’uomo post-storico possiede ancora una limitata speranza di vita” (ibid., p. 183). Come disse Orwell a proposito del suo 1984, “Non permettete che questo accada. Dipende da voi”.
A sua volta Mumford tenta di disinnescare l’incubo che lui stesso ha messo a fuoco con tanta precisione. La sua proposta potrebbe essere confortante, ma richiederà condizioni particolarmente favorevoli e uno sforzo assai arduo: “Oggi il compito principale dell’uomo è quello di creare un nuovo io, capace di dominare le forze che agiscono in modo tanto rischioso quanto costrittivo”. Un tale “io nuovo” ha qualcosa di utopico poiché dovrà combattere contro una potente tendenza storica: “cercherà di non imporre una uniformità meccanizzata, ma di costruire un’unità organica basata sulla piena realizzazione di tutte le risorse che la natura e la Storia hanno messo a disposizione dell’uomo moderno [...] è venuto di nuovo il momento di una grande trasformazione storica. L’unità politica dell’umanità può essere concepita realisticamente solo come parte integrante di un tale sforzo di autotrasformazione” (ibid., p. 185). Sarà necessario, niente di meno, che “creare e tramandare una cultura mondiale” che sappia unire Occidente e Oriente, con le loro più antiche e migliori tradizioni religiose e filosofiche.
Nel suo La Megamacchina, quale uso ha fatto vent’anni dopo Serge Latouche delle idee di Mumford? Anche nel suo caso l’utopia riappare. Una formula da lui usata è che per “scegliere il progresso dell’uomo” sarà necessario “cambiare l’uomo del progresso”, cambiare cioè la tradizione culturale che negli ultimi due secoli ha trasformato l’idea illuministica di progresso nell’ideologia di una società centrata sulla produttività e sul commercio. Dal Settecento in poi, per dirla ancora con Mumford, “se i signori e i padroni della società hanno adorato qualcosa, questa cosa è stata la macchina”. Le varie Megamacchine tecniche e organizzative sono infatti state create per fare soldi: “La combinazione di un potere tecnico incontrollato -e incontrollabile- e della decomposizione dell’ordine mondiale rappresenta esattamente la miscela esplosiva più terrificante che si possa concepire per rendere invivibile il pianeta” (Latouche, op. cit., pp. 192-93). Se è vero che attualmente siamo a questo, il nostro sonnambulismo storico potrà esserci fatale.
*
"BEN SCAVATO VECCHIA #TALPA!" (MARX, 1852): #FILOSOFIA "#GOLEMANTICA", #PEDAGOGIA DEL "#CORPOMISTICO" DELLA "MACCHINA" SOCIALE DEL "CAPITALE", E #ANTROPOLOGIA.
Uno "#Spirito" ("#Ghost") si aggira ancora per l’#Europa. Con i "maestri del sospetto" (P. #Ricoeur), #Marx e #Freud e #Nietzsche, è bene riprendere la lettura dell’opera di #Shakespeare...
#KANT (1724-2024). #OGGI, ANCORA A #SCUOLA della androcentrica #macchina teologico-politica "niceale" (Nicea, 325 - 2025)?!
UN ALTRO "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE" E’ POSSIBILE: "#SÀPERE #AUDE! (KANT, 1784). Una "brillante" e "sorprendente" sollecitazione di #MaurizioFerraris a uscire dal #letargo (#Dante Alighieri) e a riconsiderare il problema della #liberazione, dell’uscita dallo "stato di minorità":
"BEN DETTO, VECCHIA TALPA" ("#AMLETO, I.5)! CON SHAKESPEARE, NON E’ TEMPO DI PORTARSI #OLTRE LA TRAGICA DOTTRINA ATEO-DEVOTA DEL "CORPO MISTICO" DEL RE ("#GOLEM"), OLTRE IL #PLATONISMO E IL #PAOLINISMO "CATTOLICO", "UNIVERSALE" - SE NON ORA, QUANDO?!
ANTROPOLOGIA (KANT), COSMOTEANDRIA, E "PREISTORIA" (#MARX): IL "NODO GORDIANO" DELLA STORIA D’EUROPA.
"RIFLESSIONI SISTEMICHE" (AIEMS - Associazione Italiana di Epistemologia e Metodologia Sistemiche). Una nota a margine della ripresa lodevolissima di una sollecitazione batesoniana a ripensare criticamente il "patrimonio" (del "matrimonio" ) della "caduta" biblica e della "cronica" tradizione "olimpica".
"La testura del sistema. La relazione nel pensiero di #GregoryBateson"(cfr. Lucilla Ruffilli e Giulia Testi, "Riflessioni Sistemiche", N° 30 - "Relazioni e cura", giugno 2024):
"[...] Nel 1970 Bateson propone una idea forte, la ’flessibilità’. [...]
Anche una cultura è un sistema adattativo, se una società sopravvive diciamo che la sua cultura è adattativa. Ma può darsi invece che la società vada verso l’autodistruzione. [...] Questo ci dovrebbe dar da pensare, suggerire di concentrarci non sul problema degli adattamenti immediati, ma sui cambiamenti a lunga scadenza.
Chiederci se questo adattamento è davvero tale che lo possiamo sopportare.
[...].
È adattativo abituarsi a sciogliere il nodo gordiano con la violenza del taglio?
Scrive Nora #Bateson:
Il mito è arrivato fino a noi, portato dalla sabbia del tempo, con il culto della Madonna che scioglie i nodi.
(statua della Madonna che scioglie i nodi nella basilica dei Santi Vitale, Valeria, Gervasio e Protasio al Quirinale) [...]" (cfr. Lucilla Ruffilli e Giulia Testi, "Riflessioni Sistemiche", N° 30 - "Relazioni e cura", giugno 2024).
UN’ASSENZA DELL’IO-SONO DI TRE SECOLI: KANT (1724-1804) E LA DANZA DEL PENSIERO, IN COMPAGNIA DI SAMUEL BECKETT, "ASPETTANDO GODOT" ("Dance first. Think later. / It`s the natural order"):
"L’IO ERA ASSENTE
di Pietro Barbetta ("Doppiozero, 11 aprile 2024).
Patologie, il breve testo di Antonella Moscati uscito per la collana storie di Quodlibet, si apre con un ironico omaggio al padre, “medico non medico”, esperto di dermosifilide - dermosifiloiatra, dermosifilologo, che, erroneamente, si autodefinisce dermosifilopatico - in un mondo che sta cambiando: il mondo attraverso cui abbiamo trascorso l’infanzia e l’adolescenza, che ha sostituito il buon senso romantico dell’igiene con la più sicura epidemiologia.
Antonella Moscati racconta la propria storia familiare attraverso la nomenclatura medica, sanitaria e igienica: vi si descrivono scene della quotidianità di una famiglia, con la madre impegnata a tenere insieme le relazioni, il padre, supposto medico, poco accreditato dentro e fuori dalle relazioni familiari, e infine le sorelle, apprensive. Nomenclatura medica ma anche nomenclatura casalinga che riguarda comunque la salute, come l’alimentazione, dove ciò che conta è la sostanza, dalla quale vengono escluse verdura e frutta, prediletta dall’autrice, a vantaggio di carne, pesce e pasta.
Il capo famiglia, nel racconto, combatte il batterio in epoca antibiotica, ma - in un certo senso - nega o ripudia il virus. Si può leggere questa prima parte dell’opera come un glossario sarcastico, a tratti grottesco, della vita quotidiana di una famiglia di “uomini di medicina” - il padre, lo zio, il cognato - e di donne, l’autrice, la madre, le sorelle, che si confrontano, si interessano - tutte a leggere la sera, a letto, il Manuale medico di diagnostica e terapia Roversi - ma che esercitano una doverosa scepsi nei confronti dell’ossessività medica paterna. -Il Roversi sembra essere, nel racconto, la bibbia familiare, pietra miliare della medicina, così come la interpreta il padre. Ma, qui e là nel testo, emerge anche un altro tratto paterno, l’affezione da qualche disordine psichico, che lo porta a essere ossessivo riguardo ad alcune malattie o sintomatologie e del tutto negligente riguardo ad altre - come spesso capita agli ossessivi.
Il testo scorre sotto gli occhi del lettore, rapito dal linguaggio. L’autrice usa il metodo dello straniero, coniato da Alfred Schutz e ripreso dall’etno-metodologia: guardare il mondo come fossi un estraneo, un marziano, che, venendo da fuori, rende il dato-per-scontato, strano e singolare.
Insomma, bisogna leggerlo, questo testo, per sentirsi a casa e per sentire il clima di uno strano paese, l’Italia, in una particolare epoca storica, il secondo dopoguerra. Personalmente, benché cresciuto e allevato da una famiglia nel Nord, ho riconosciuto gli stessi discorsi, gli stessi umori, le stesse classificazioni, benché in famiglia non ci fossero medici. Del resto, in quell’epoca, i medici erano comunque frequentemente dentro casa, si chiamavano medici condotti perché si muovevano dall’ambulatorio, visitavano i pazienti e facevano tutti quei discorsi che Moscati rievoca nel suo racconto. Era un sapere diverso, meno rigoroso, più fantasioso. Oggi che questo mondo se n’è andato definitivamente, non possiamo che ricordarlo con nostalgia, ed è in effetti la nostalgia, assieme all’ironia, l’altra protagonista della prima parte di Patologie: una meravigliosa ironia nostalgica.
La memoria ha molti aspetti differenti, è molteplice. Può essere retrograda, quando si ricordano tempi lontani, o anterograda, quando si ricorda ciò che sta accadendo ora. C’è una memoria episodica, il ricordo di eventi del passato, e una memoria semantica, che permette di riconoscere il significato delle cose. Definiamo una memoria prassica, che permette di suonare il piano anche dopo anni di astinenza dall’esercizio, e una memoria implicita, che permette di ricordare ciò che si dichiara di non ricordare. Vari organi del sistema nervoso, e in particolare della corteccia, concorrono, in maniera complessa, alla formazione della memoria. Ci sono inoltre aree di codifica e decodifica tra loro separate: quanto ricordiamo non è mai precisamente ciò che è accaduto; per ogni decodifica dell’episodio che racconto, nel mio racconto ci sono nuove codifiche che modificano la situazione e le circostanze originarie.
Abbiamo creato la scrittura e, prima della scrittura, i cliché, le rime e la metrica per sovra-codificare quanto accaduto, creare una seconda memoria, come insegna Platone nel Fedro. Ma la memoria ha a che fare con l’immaginario. Per questa ragione ognuno di noi si trova sovente - o forse sempre - di fronte a sensazioni di déjà vu, oppure a quel fenomeno definito da Daniel Schacter nei termini di falsa memoria. Ogni volta che ricordiamo qualcosa, contemporaneamente, immaginiamo qualcosa che si discosta dalla cosa che stiamo ricordando. Insomma: siamo un po’ autori dei nostri ricordi, così come quando traduciamo un testo, siamo un po’ co-autori del testo che abbiamo tradotto.
La questione che pone Moscati è filosofica, ma ha una componente neurologica specifica, si tratta dell’avvedersi, che i filosofi, sulla scorta di Leibnitz, chiamano appercezione. Quando percepisco, nel mio percepire c’è anche la coscienza di essere là a percepire. Moscati traduce una frase di Leibnitz: “La percezione della luce o del colore di cui ci avvediamo (dont nous nous appercevons) è composta, per esempio, da una quantità di piccole percezioni delle quali non ci avvediamo (nous ne nous appercevons pas) e un suono (forse un rumore?) di cui abbiamo percezione, ma al quale non prestiamo attenzione, diventa appercepibile con una piccola addizione, con un piccolo incremento”.
Ci vuole dunque un’addizione, un piccolo incremento, così piccolo da restare, a sua volta, sotto la soglia della consapevolezza. Carlo Emilio Gadda ha chiamato questo fenomeno “cognizione”. William Weaver, traduttore inglese di molti scrittori italiani, ha tradotto “aquaintance”, o meglio “to be aquainted”, che non è propriamente consapevolezza, forse ha più a che fare con l’abitudine, l’habitus. Forse, come suggerisce David Hume, l’io non è che l’abitudine alla ripetizione. Per questo la perdita dell’io, come è accaduto ad Antonella Moscati, è la perdita di un mondo, perché è la perdita di un’abitudine.
Ma da dove viene l’habitus dell’io? Viene da quel piccolo incremento, quella piccola addizione che ci rende coscienti di percepire ciò che percepiamo: l’immaginazione. Le piccole percezioni di cui non ci avvediamo, vengono raccolte, poste sotto l’attenzione, da un’istanza immaginaria. Forse l’inconscio è una relazione tra il caos dell’infinità priva di senso e l’unificazione di questo caos nel senso: caosmos. La quidditas che vediamo, quando guardiamo un cesto, o una mela, quando le riconosciamo, come il suono della voce di Clemens, il compagno di Antonella, dipende dal nostro sistema nervoso. Forse per questo Emily Dickinson aveva composto i versi che seguono, dei quali tento una traduzione a misura della filosofia di Antonella Moscati:
Il cervello - è più grande del cielo -
perché - mettili fianco a fianco -
l’uno l’altro conterrà
facilmente - e anche te
Il cervello è più profondo del mare -
perché - se li tieni - blu su blu -
l’uno l’altro assorbirà
come spugna col secchio fa
Il cervello è proprio il peso di Dio -
perché - alzali - libbra su libbra -
ed essi differiranno - semmai -
come suono da sillaba -
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VITA E FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA: "SAPERE AUDE! (IMMANUEL KANT, 1784 - MICHEL FOUCAULT, 1984). CONTRARIAMENTE a quanto stabilito e codificato dalla storiografia idealistica, già solo le poche indicazioni sopra citate smuovono profondamente l’immagine "accademica" di Kant e sollecitano a rivedere unitariamente (nel trecentesimo anniversario della sua nascita) tutta la sua produzione ( della fase "precritica", come della "critica") e a riconsiderare di nuovo e meglio le sue lezioni sul "che cosa significa orientarsi" con le mani nella realtà e con la coscienza nel pensiero.
Kant, da una parte, è con Cartesio: nell’ordine cronologico, il "Cogito" ("Think") viene prima ("first"), e, dopo ("later"), l’ "ergo sum" ("Dance"); dall’altra parte, per dirla in breve, è con Samuel Beckett, la "Dance" della vita viene prima ("first") e il "Think" dopo ("later"): "It`s the natural order".
L’aver messo per lo più l’accento solo sul lato dell’ "io penso" del lavoro di Kant ha prodotto il totale #insabbiamento storico e storiografico del lato dell’ "Io sono" - con tutte le conseguenze del caso sulla "rivoluzione copernicana" (in filosofia, in antropologia, e in astronomia): un’ assenza dell’Io_sono (almeno) di tre secoli. A che gioco giochiamo? Ancora alla cosmoteandria? Cerchiamo di "non dare i numeri": il "Logos" non è un "Logo", e la "Charitas" non è la "caritas"!!!
LA "RIFLESSIVITÀ" DI BOURDIEU, COME IL "SENSO COMUNE DEGLI SCIENZIATI", ANCORA NELLA "CAVERNA" DI PLATONE E NEL "CERCHIO DEI CERCHI" DELL’ASSOLUTO DI DI HEGEL.
Bourdieu e il senso comune degli scienziati
di Alfonso Maurizio Iacono (Doppiozero, 23 Agosto 2024)
Il ricercatore dovrebbe forse provare per metodo ciò che provò Vitangelo Moscarda guardandosi allo specchio quando si accorse che il suo naso era ben diverso da come pensava che fosse. Ma non deve oscillare tra l’essere uno, nessuno o centomila, deve solo essere sé stesso proprio mentre si vede come altro. Ma in fondo è ciò che dovremmo fare tutti quando ci interroghiamo e poniamo la domanda sul nostro stesso fare. Ma è difficile tanto quanto trovare una buona relazione tra conoscere e fare. È questo il dramma della limitatezza umana, perché noi, come ricorda Giambattista Vico, non possiamo conoscere e fare simultaneamente. Ma possiamo riflettere su questa impossibilità e trasformare il riflettere in un fare.
Un tempo si sarebbe detto che includere l’osservatore nel processo di osservazione sarebbe stata una perdita di oggettività del sapere scientifico, lusso che si sarebbero potuto permettere forse le scienze storico-sociali, ma non certo quelle naturali. Da qui la separazione tra le scienze storico-sociali e quelle naturali oppure la riduzione delle prime al criterio di verità determinata dall’esattezza e dall’evidenza delle seconde. Nel ‘900 invece il tema dell’inclusione dell’osservatore nel contesto dell’osservazione è diventato centrale nell’epistemologia scientifica. Ciò che precedentemente sarebbe stata considerata un’eresia è diventato un interesse metodologico centrale in fisica, in biologia, nelle scienze sociali. Negli anni ’30 del ‘900 Ludwig Fleck aveva già posto il problema dell’osservatore nel campo della ricerca, ma il suo libro, uscito nel 1935, non suscitò alcun interesse, negli anni ’60, il successo del contributo di Thomas Kuhn La struttura delle rivoluzioni scientifiche (Einaudi, Torino 1969), dipese certamente dal fatto che, come si dice, arrivò al momento giusto.
La visione di Giambattista Vico non è poi così lontana da tale interesse metodologico.
Pierre Bourdieu, nel solco del mutamento epistemologico operato da Ludwig Fleck (Genesi e sviluppo di un fatto scientifico, Il Mulino, Bologna 1983) e da Thomas Kuhn, ha chiesto alla sociologia qualcosa di più. Ha posto il problema metodologico dell’oggettività del soggetto scientifico che indaga e ha a che fare, a sua volta, con l’oggettività di ciò che è indagato.
Il libro Sulla riflessività (Edizione italiana a cura di G. Ienna, C. Lombardo, L. Sabetta, M. Santoro, Meltemi, Milano 2024, pp. 117) presenta quattro contributi di Bourdieu sulla riflessività che percorrono un arco della sua ricerca dagli anni ’60 agli anni ’90. Bourdieu chiama questa ricerca dell’oggettività del soggetto riflessività. Cosa significa oggettività del soggetto e cosa significa riflessività? Scrive Bourdieu: “la riflessività non è la riflessione nel senso della cogitatio cogitationis, cioè pensiero di un pensiero, riflessione di un pensiero sul mio pensiero. Non è un semplice ritorno del soggetto conoscente su sé stesso: il soggetto conoscente che prova a conoscersi. La riflessività, così come la intendo io, è effettivamente questo, ma passa attraverso un processo di oggettivazione. Il soggetto conoscente, che si tratti di un sociologo, uno storico, un etnologo e addirittura un economista, è qualcuno che possiede strumenti di conoscenza che può applicare a sé stesso, soggetto conoscente, e più precisamente all’universo sociale in cui questo soggetto conoscente è inserito” (p. 49). Si va dunque oltre l’inclusione dell’osservatore nel contesto di osservazione. Bourdieu aggiunge le condizioni oggettive in cui si trova l’osservatore scientifico quando osserva e fa le sue considerazioni.
In altre parole, la riflessività implica la localizzazione sociale del punto di vista. Si tratta di applicare il metodo sociologico di osservazione allo stesso osservatore. “L’ipotesi, continua Bourdieu, è che il soggetto conoscente non abbia accesso, per semplice riflessione, all’essenziale di ciò che è e di ciò che fa. Per accedere, deve passare attraverso un’esplorazione delle condizioni oggettive in cui è stato prodotto così com’è, e nelle quali fa quel che fa. In altre parole, si tratta di fare sociologia come la facciamo sempre, ma sull’universo delle scienze sociali, sul nostro proprio mondo, sul nostro proprio campo” (ibidem). Bisogna tenere conto degli habitus degli scienziati, di ciò che a loro appare ed è vissuto come ovvio, insomma il loro senso comune che, come direbbe Vico, in assenza di riflessione diventa pregiudizio, e che invece va interpretato criticamente. Husserl e Schutz sono qui presenti con la messa in questione del mondo dato per scontato. Ma si possono anche fare altri due riferimenti teorici, tra i molti indicati da Bourdieu. Il primo è Marx con la sua teoria del rapporto tra ideologia e classe sociale (K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, 1977). Non ci accorgiamo che le idee dominanti, le quali si presentano semplicemente come idee, esprimono l’ideologia della classe dominante. Il secondo è Wittgenstein con la sua critica a Frazer (Note sul ‘Ramo d’oro’ di Frazer, Adelphi, 1975) il quale fa apparire il passaggio dalla magia alla scienza come qualcosa di evolutivamente oggettivo e non come il suo modo di vedere il mondo.
Gli autori della Postfazione (G. Ienna, C. Lombardo, L. Sabetta, M. Santoro) chiamano il metodo di Bourdieu “razionalismo storicista... vera matrice stilistica della riflessività” (Bourdieu, cit. 101). In effetti due concetti importanti che attraversano il pensiero di Bourdieu sono quello di relazione e quello di storia. Richiamarsi alla critica degli habitus sociali e mentali del ricercatore come campo decisivo della riflessione significa richiamarsi alla loro storia e al fatto che le stesse categorie sovrastoriche dell’osservazione scientifica hanno comunque a che fare con la storia. Infine, in Bourdieu troviamo il tema del corpo. “...ci sono due modi di guardare il corpo. C’è quello di guardare il corpo altrui o di guardare il proprio corpo allo specchio come un oggetto, oppure quello che consiste nell’essere in esso, di essere con esso, di essere tutt’uno con il proprio corpo. Il punto di vista scolastico è il punto di colui che guarda gli altri è ha una filosofia dello spettatore. Possiamo andare molto oltre grazie a Maurice Merleau-Ponty e non è fare filosofia. È usare la filosofia per sbarazzarsi della filosofia che si fa quando non si ha alcuna filosofia” (ivi, p. 61). Oggi noi assistiamo a un forte ritorno a una filosofia che si fa quando non si ha una filosofia. Un vecchio tema che risorge ogni qual volta si usa la riflessione sulla conoscenza scientifica più come rassicurazione e bisogno di autorità che come ricerca critica e autonoma.
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LA RIFLESSIVITA’ DI BOURDIEU COME IL "SENSO COMUNE DEGLI SCIENZIATI" ANCORA NELLA "CAVERNA" DI HEGEL. "Gli autori della Postfazione (G. Ienna, C. Lombardo, L. Sabetta, M. Santoro) chiamano il metodo di Bourdieu “razionalismo storicista... vera matrice stilistica della riflessività” (Bourdieu, cit. 101). In effetti due concetti importanti che attraversano il pensiero di Bourdieu sono quello di relazione e quello di storia." (A. I. Iacono, cit.).
A TRECENTO ANNI DALLA NASCITA DI #KANT, NON E’ IL CASO DI DARE IL VIA A UNA #SECONDA "#RIVOLUZIONECOPERNICANA" E PORTARSI OLTRE IL #PLATONISMO E IL #PAOLINISMO DELLA #DOTTAIGNORANZA E DELLA SUA #COSMOTEANDRIA?!
#PSICOANALISI, #STORIA, E #CRITICA DELLA #RAGIONE "PURA". A mio parere, benché Bourdieu abbia fatto un lavoro eccezionale, di lui, come egli stesso dice di Freud ("mi piace citare la frase di un grande storico"), è possibile dire altrettanto: "[Bourdieu] Freud dimentica che Edipo era un figlio di re."! Non è proprio ora, con #Kafka, come con #Dante, di uscire dalla "#tana", dall’#inferno epistemologico ed antropologico della #tragedia, e ri-scoprire la nostra propria personale e politica #autonomia e #sovranità ?! Se non ora, quando?
"IL BUON DIO STA NEL DETTAGLIO" (ERNST #CASSIRER - ABY #WARBURG): L’#UOMOIMMAGINARIO E IL "#CINEMA" DI #PLATONE.
"SAPEREAUDE!" (KANT, 1724-2024): IL NODO DEL "#CORPOMISTICO" E LA #TEOLOGIA-#POLITICA: UNA #LEZIONE E UN #RICORDO DI #SIMONE #WEIL. Per #fermare il #tempo e riflettere sugli #effettispeciali del "cinema" sulla #storia dell’#Europa (e del #PianetaTerra), forse, una buona "occasione" e una brillante sollecitazione per riflettere sul dominante #androcentrismo platonico.paolino ed hegeliano e, ancor di più e urgentemente, sulla #hamlet-ica #question antropologica e "cristologica" (#Kant, 1724-2024):
SIMONE WEIL: "L’immagine del corpo mistico di Cristo è molto seducente, ma l’importanza che si annette oggi a questa immagine mi pare uno dei sintomi più gravi della nostra decadenza. La nostra vera dignità infatti non sta nell’essere membra di un corpo, anche se mistico, anche se quello di Cristo, ma in questo: nello stato di perfezione, al quale tutti aspiriamo, noi non viviamo più in noi stessi, ma è Cristo che vive in noi; in questa condizione, Cristo nella sua integrità, nella sua unità indivisibile, diviene, in certo senso, ognu no di noi, come è tutto intero nell’ostia. Le ostie non sono frammenti del suo corpo. L’importanza attuale dell’immagine del corpo mistico dimostra quanto i cristiani siano miseramente esposti alle influenze esterne. certo inebriante sentirsi membro del corpo mistico del Cristo: ma oggi molti altri corpi mistici, che non hanno Cristo come capo, procurano alle proprie membra un’ebbrezza, a mio parere, della stessa natura" (Simone Weil, 1942).
Nota:
FILOSOFIA LINGUISTICA ANTROPOLOGIA E CRITICA:
UNA HAMLETICA QUESTIONE DI TEMPO E DI RAPPRESENTAZIONE (KANT).
SE, COME SCRIVE ERACLITO DI EFESO, "Il tempo [#aìon] è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo" (fr. 52), E, COME SCRIVE SHAKESPEARE NEL SUO "AMLETO", "il tempo è fuori dai cardini" ("The time is out of joint": "Hamlet", I.5), RICORDANDO KANT (1724-1804), E CONSIDERANDO "IL TEMPO ESAURITO" (Enrico Castelli, 1900-1977), alla luce di una sintetica "lezione" grafica di Umberto Eco, forse, è opportuno una ripresa di riflessione sul tema.
MEMORIA E STORIA. LA sollecitazione viene da una importante testimonianza di Franco Lo Piparo: "Mi sono ricordato di una vignetta filosofica sul tempo che Eco ideò in occasione di una mia conferenza all’Università di San Marino. Era il 26 gennaio 1995 [...]" (cfr. "UNA VIGNETTA FILOSOFICA DI ECO SUL TEMPO E ALTRE ANCORA",16 agosto 2024):
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("CRISTOLOGICA"). Umberto Eco, oso pensare (#sàpereaude!"), rendeva "silenziosamente" omaggio a Kant e alla sua "Critica della ragion pura": forse, egli aveva cominciato a lavorare intorno al libro che uscirà due anni dopo, "Kant e l’ornitorinco" (Bompiani 1997 - La nave di Teseo 2016) e stava già riflettendo sul rapporto "essere e tempo" e "tempo ed essere" a livello antropologico (nel tentativo di gettare luce sul lavoro di Kant e, infine, anche di Heidegger).
NOTA:
PIANETA TERRA (PROMESSA), ONU (=UNO), E "UmaNITÀ" ("HUMANITAS"):
PROFEZIA, ANTROPOLOGIA, E TEOLOGIA-POLITICA.
SE E’ VERO CHE "DA TEMPO I PROFETI PARLANO A UNA CITTA’ CHE NON LI VUOLE PIU’ ASCOLTARE!" (Nicola Fanizza), E’ ALTRETTANTO VERO CHE, DA #TEMPO, DA MOLTO TEMPO, nonostante tutta la #storia (già solo quella) dell’#arte e, in particolare, la grande lezione di #Michelangelo #Buonarroti, che sapeva anche di #anatomia e di "vecchio" e "nuovo" #testamento" , è anche colpa dei #PROFETI che hanno "silenziato" le #Sibille, hanno buttato via la #bilancia (Vermeer ), e vogliono continuare a "pesare" solo "l’ #oro"!!!
CON DANTE ALIGHIERI, GIORDANO BRUNO, GALILEO GALILEI, SPINOZA, FREUD, ED EINSTEIN, #OLTRE. Senza #Kant, solo milioni di milioni di "mille piani", vecchi "ritornelli", e "dotta ignoranza" (1440) a volontà.
NOTE:
ANTROPOLOGIA E SCIENZA: "DATEMI UN PUNTO DI APPOGGIO E SOLLEVERO’ IL MONDO".
LA VITA DI ARCHIMEDE, LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN E L’IMMAGINARIO DELLA TEOLOGIA-POLITICA DI PAPPO DI ALESSANDRIA, NEL TEMPO DELL’IMPERATORE #COSTANTINO E DEL PRIMO CONCILIO DI NICEA (IV SEC. d. C).
A Galileo Galilei e a Immanuel Kant, in memoria...
"ARCHIMEDE", UN "UOMO SUPREMO" DEL IV SEC. d. C.!!! "Datemi un punto di appoggio, e sposterò la Terra"; "Datemi un punto d’appoggio e solleverò il mondo" ("Dā mihi, inquit, ubi cōnsistam, et terram commovēbō"": se ancora oggi si dà per scontata l’attribuzione della frase da parte di Pappo di Alessandria (290- 350 d. C. /III-IV sec. d. C), ad Archimede (Siracusa, 287 a.C. circa - 212 a.C.), alludendo alla scoperta della proprietà della leva, forse, è opportuno, "con i tempi che corrono", interrogarsi "sul carattere ampiamente e profondamente mitico di ogni razionalità" (come sollecitava tempo fa Kostas Axelos), e, in particolare, su questa locuzione, carica di teoria "superomistica" (teologico-politica), sia sul piano specifico della fisica sia sul "preteso" piano della metafisica (dell’"uomo, del "mondo", e di "dio").
ANTROPOLOGIA E RELIGIONE (PROFETI, SIBILLE, SIRENE, E MUSE). Plutarco (Cheronea, 50 d. C. - Delfi, 120), che, da sacerdote di Apollo a Delfi sapeva della Sibilla e degli oracoli, probabilmente ne sapeva ben di più di Pappo di Alessandria della vita di Archimede, e, forse, si fidava già del detto latino che " una donna dotata di spirito regge l’uomo" (“Dotata animi mulier virum regit”), o, come è stato per millenni, che "dietro ogni grande uomo, c’è una grande donna" (ricordare Virginia Woolf), così scrive: "Viveva continuamente incantato dalla geometria, che potremmo chiamare una Sirena a lui familiare e domestica, al punto di scordarsi persino di mangiare e curare il proprio corpo. Spesso, quando i servitori lo trascinavano a viva forza nel bagno per lavarlo e ungerlo, egli disegnava sulla cenere della stufa alcune figure geometriche; e appena lo avevano spalmato d’olio, tracciava sulle proprie membra delle linee col dito, tanto lo tormentava il diletto ed era veramente prigioniero delle Muse" (Plutarco, Vita di Marcello, XVII, 6).
STORIA, LETTERATURA, ANTROPOLOGIA, E METATEATRO:
IL "VANGELO" DI SHAKESPEARE. CHI E’ AMLETO ("Gesù") E CHI OFELIA ("Maria Maddalena)?
Una domanda "solare" nell’Europa della rivoluzione copernicana, di Tommaso Campanella e di Giordano Bruno ...
SE, NELLO "STATO DI DANIMARCA", IL "NUOVO" RE-PADRE (CLAUDIO) DI TUTTI I CITTADINI E DI TUTTE E’ UN ASSASSINO E UN ADULTERO (COME SOTTOLINEA ANCHE #NIETZCHE IN "#ZARATHUSTRA"), IL FIGLIO-PRINCIPE DEL "VECCHIO" RE-PADRE ("AMLETO"/"GIUSEPPE") E DELLA "VECCHIA" REGINA-MADRE ("GERTRUDE"/"MARIA"), NON PUO’ NON RICORDARSI DELLA SUA #IDENTITÀ E CONTESTARE RADICALMENTE IL SUO RUOLO DI "FIGLIO-PRINCIPE" DELLA "NUOVA" #FAMIGLIA E DEL "NUOVO" #PRESEPE... E NON PUO’ NON FARE IL "PAZZO"!
ALL’INTERNO DI TALE "QUADRO", LA "RISPOSTA" DI #OFELIA AL "RE CLAUDIO":
APPARE ESSERE CON I SUOI RIMANDI SIA ESPLICITI, COME A QUELLO DELLA "CIVETTA" FIGLIA DEL #FORNAIO (#PANETTIERE), SIA IMPLICITI, COME A QUELLO DEL "PAZZO" FIGLIO (#AMLETO - #CRISTO) DEL "#DIO - #PANETTIERE" ("#PADRE #NOSTRO" E "#RE NOSTRO"), CHE DÀ IL SUO "PANE QUOTIDIANO" (LA #CHARITAS, IL CIBO "EU-#CHARIS-TICO" A TUTTI ("By Gis and by Saint #Charity,", IV. 5. 59), SEMBRANO DELINEARE (ANCHE CON IL RICHIAMO ALLA FESTA DI "SAN VALENTINO") UNA "FIGURA" DI GRANDE AUTONOMIA E DI FORTE CONSAPEVOLEZZA NEL SUO RUOLO DI "#HAMLETICA" FIGLIA-PRINCIPESSA, COME DI UNA POSSIBILE NUOVA "#EVA" ACCANTO AL POSSIBILE NUOVO "#ADAMO".
L’#AMORE "CHE MOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE", IL "PANE QUOTIDIANO" E IL "SÀPERE AUDE" (IL "CORAGGIO DI ASSAGGIARE" DI #ORAZIO E #KANT). DOPO #LUTERO (1517) E DOPO IL RE #ENRICO VIII (1534) E LA REGINA #ELISABETTA DI #INGHILTERRA (1533-1603), SHAKESPEARE riprende il filo di Gioacchino da Fiore, di Francesco d’#Assisi, di Dante Alighieri, Michelangelo, e #GiordanoBruno, e guarda ben oltre la "donazione di #Costantino" (#Nicea 325-2025), e oltre il "#presepe" della tragica e "cattolica" #preistoria del suo tempo.
PSICOANALISI E "ODISSEA" (LETTERATURA):
UN SEGNAVIA PER "ORIENTARSI NEL PENSIERO" (KANT2024) E USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO E ANTROPOLOGICO.
Due variazioni sul tema...
A). #DANTEALIGHIERI E LA DISCESA ALL’INFERNO DI #SIGMUNDFREUD. "L’Interpretazione dei Sogni" (1899) ha il suo legame con l’#Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, #Acheronta movebo") di #Virgilio e "L’#uomo #Mosè e la #religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della #DivinaCommedia (Pg. II, 46-48) di Dante.
B). "COSTRUZIONI NELL’ANALISI (S. #FREUD, 1937): CON FREUD, OLTRE LA #CADUTA (IL "COMPROMESSO" ADAMITICO) E OLTRE LA #TRAGEDIA (IL COMPROMESSO "APOLLINEO", "OLIMPICO"), #OLTRE LA "PSICOANALISI"!
Freud ha guardato più lontano di #Lacan, ha saputo oltrepassare Scilla e Cariddi e le colonne d’Ercole, e, infine, prendere le distanze dall’interpretazione platonico-paolina della questione dell’#uomosupremo e del suo "#corpomistico" (come di "Mosè", "Cristo", e ogni altro #Superuomo).
"ECCE HOMO" (NIETZSCHE, 1888). Freud è con #Michelangelo e #Shakespeare e guarda oltre la "donazione di Costantino" (#Nicea 325-2025), e oltre il "#presepe" della presente edipica "#preistoria".
ANTROPOLOGIA, GEOLOGIA, FILOSOFIA (#KANT2024), E FILOLOGIA (#PARIS2024):
LA FOSSA DELLE MARIANNE E LA TORRE DI BABELE, UN "BINOMIO FANTASTICO" (GIANNI RODARI).
DUE #SEGNAVIA (COME "DUE SOLI") PER RI-COMINCIARE A RI-PENSARE DA #CAPO E A RI-ESPLORARE "L’#UOMO", IL "#MONDO", E "#DIO".
>"SÀPERE AUDE" (Orazio). Un omaggio alla #memoria di Immanuel Kant (1724 - 2024)
A). LA FOSSA DELLE MARIANNE. "La fossa delle Marianne è la più profonda depressione oceanica conosciuta al mondo, localizzata nella zona nord-occidentale dell’Oceano Pacifico a est delle isole Marianne, a 11° 21’ nord di latitudine e 142° 12’ est di longitudine, tra Giappone a nord, Filippine a ovest e Nuova Guinea a sud; il suo punto più profondo, l’abisso Challenger, si trova a 10.994 m sotto il livello del mare. [...]".
B). LA TORRE DI BABELE. "La Torre di Babele: Babilonia tra realtà e mito: [...] La costruzione della Torre di Babele, insieme ai noti e suggestivi riferimenti biblici, ha affascinato l’umanità fin dall’Antichità, essendo divenuta il monumento per eccellenza della città di Babilonia ed espressione del culto del dio Marduk. Il mito della torre di Babele e della sua costruzione, così come è raccontato nel testo biblico, è il soggetto di molte rappresentazioni nel Medioevo, nel Rinascimento, in età moderna ed anche contemporanea e Babilonia e la sua torre sono state spesso considerate un simbolo del mondo antico babilonese. [...]" (Treccani).
NOTE:
PER LA PACE PERPETUA
di Leonardo Ceppa (Le parole e le cose, 2 Agosto 2024)
La società internazionale dei filosofi avrebbe voluto festeggiare a Königsberg i trecento anni della nascita di Kant. Sennonché quella città, a suo tempo strappata dagli Alleati ai nazisti, oggi si chiama Kaliningrad, ed è nelle mani di quel nuovo dittatore (Vladimir Putin) che, invadendo l’Ukraina, ha infranto due anni fa il diritto internazionale e riportato l’Apocalisse nel cuore dell’Europa. Così la società kantiana ha deciso di festeggiare il tricentenario riunendosi a Bonn nel prossimo settembre, cioè nella capitale provinciale della vecchia Repubblica federale tedesca.
Da parte sua, il cancelliere Olaf Scholz ha sottolineato l’attualità politica del saggio kantiano Per la pace perpetua (1795) in un notevole discorso del 23 aprile 2024 (si trova pubblicato nel Bulletin der Bundesregierung 37-4). Fondare politicamente la pace significa pensarla non come lo stato normale e naturale del diritto internazionale, bensì come una nuova situazione garantita dalla forza della democrazia. Dopo l’invasione della Ukraina e la guerra all’Occidente scatenata da Putin, Olaf Scholz parla di un punto di svolta (Zeitenwende) della politica mondiale: l’ordine internazionale dev’essere oggi difeso dalla forza militare, dal riarmo dell’esercito, dalle sanzioni economiche, dalla rinuncia alla collaborazione scientifica. Certo si deve, oggi come ieri, cercare la pace, ma non una pace a qualunque prezzo: a volte anche la guerra rientra nel prezzo con cui dobbiamo pagare la pace.
In questa prospettiva, la festa del tricentenario kantiano rischia di essere strumentalizzata dalla guerra in corso tra Est e Ovest, facendo rinascere la guerra fredda. A questo punto, un filosofo tedesco di 53 anni, Gunnar Hindrichs - docente a Basilea, già presidente della Società filosofica svizzera e vicepresidente della Associazione internazionale hegeliana - fa oggi uscire sull’ultimo numero di Merkur (luglio 2024, pp. 49-58) un saggio davvero fulminante che, ristabilendo il senso normativo della Pace perpetua kantiana, ne vieta qualsiasi lettura egoisticamente interessata.
Tra parentesi ricordiamo che qualcosa di analogo aveva fatto anche Habermas nei confronti della interpretazione teologico-apologetica di Kant avanzata da Rudolf Langthaler in due convegni internazionali su “Fede e sapere” tenuti a Vienna nel marzo 2004 e nel settembre 2005 (cioè nel bicentenario della morte di Kant. Sul punto cfr. Leonardo Ceppa, Habermas. Le radici religiose del moderno, Morcelliana 2017, pp. 73-87). Il discorso del cancelliere tedesco e una celebrazione banale del tricentenario kantiano rischiano oggi di leggere la Pace perpetua come la rifondazione di un diritto alla guerra in difesa dell’ordine democratico. Vorrei qui cercare di riassumere le tesi di Gunnar Hindrichs, in quanto mi paiono di grande interesse.
Nessuno più di Kant era consapevole del tono bombastico e ironico della sua impresa normativa. Infatti la pace di cui intendeva trattare non era quella degli armistizi occasionali, separanti nella storia un conflitto dall’altro, laddove la dimensione satirica era benissimo espressa “sull’insegna di un certo oste olandese sulla quale era dipinto un cimitero” (Per la pace perpetua, in Kant, Scritti di storia, politica e diritto, a cura di Filippo Gonnelli, Laterza 1995, p. 163).
Che il luogo della pace perpetua non dovesse ridursi alla metafora del camposanto fu la grande pretesa morale di tutto l’illuminismo, dall’Abbé de Saint-Pierre (1713) a Jean-Jacques Rousseau (1712-1778). Solo quest’ultimo intuì che la pace perpetua non doveva essere vista come un problema privato di uomini, prìncipi e filosofi, bensì come il problema pubblico dei popoli. Gli uomini - quel “legno storto” di cui parla Kant nel saggio sulla Religione - trovano effettivamente pace solo da morti, i prìncipi sono sempre “smaniosi di guerra” (Kriegslüstern è la bellissima parola kantiana), i filosofi non fanno altro che sognarla come utopia.
Nessuno è più realista di Kant nel disegnare questa triplice clausola ironica della pace: caducità dell’uomo, egoismo dei prìncipi, utopismo dei filosofi. L’idea trascendente e normativa contro questa clausola si chiama in Kant Friedensbund: lega di pace, foedus pacis, cosmopolitismo repubblicano. E nel saggio di Gunnar Hinrichs ne troviamo una brillante ricostruzione sul piano del diritto, della filosofia-della-storia, della filosofia-della-religione. Cerchiamo di riassumere.
Sul piano giuridico vale la contrapposizione di stato di natura e stato di legalità (o legittimità). Uomini e stati - quando risultano semplicementi motivati da interessi, bisogni e desideri particolari - infrangono qualunque armistizio e si autoconservano con la guerra. Quando invece risultano motivati dallo spirito-delle-leggi (Geist von Gesetzen) escono dallo stato di natura ed entrano in quell’ordine civile di cui aveva parlato Hobbes. E statu naturali exeundum esse. Allora la pace interstatale che ne deriva, lungi dall’essere un temporaneo armistizio, diventa un ordine cosmopolitico. E la pace perpetua come fine della storia, lungi dall’essere un obiettivo transitorio, diventa il senso filosofico sotteso a questa uscita dallo stato di natura, dunque il senso giuridico dell’intera traiettoria e parabola storica della specie. -Qui s’innesta per Kant una filosofia-della-storia che non si presenta né come Wunschgedanke né come empirica Feststellung, cioè né come utopia idealistica né come empirica constatazione. Si ricordino qui due magniloquenti tesi dalla Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784, in Scritti di storia politica e diritto, a cura di Filippo Gonnelli, cit. pp. 29-44). Tesi quinta: “Il massimo problema per il genere umano, alla cui soluzione la natura lo costringe, è il raggiungimento di una società civile che faccia valere universalmente il diritto” (p. 34, corsivo mio). Tesi ottava: “Si vede bene come qui anche la filosofia possa avere il proprio chiliasmo” - il proprio millenarismo, cioè l’attesa del regno di Cristo in terra - la cui attuazione, continua Kant, non ha più nulla di esaltato, come nella Apocalisse biblica, in quanto si limita a segnalare il possibile sviluppo di tutte le disposizioni dell’umanità. Il punto di vista dell’autoconservazione animale va inteso come l’accettazione di una finitezza umana che acquista il suo vero significato solo alla luce di un “Non ancora”, di un Noch nicht normativo.
Dal punto di vista di una filosofia-della-religione, infine, la pace perpetua indicherebbe il raddrizzamento del legno storto dell’umanità, cioè la speranza di un chiliasmo non utopistico, né semplicemente morale, bensì addirittura metafisico: vale a dire il rifiuto di arrendersi alla visione realistica di una autoconservazione meramente animale. “Lasciate ogni speranza - scrive qui Gunnar Hindrichs citando Dante in italiano - non è infatti l’insegna del mondo di Dio, bensì dell’inferno” (Merkur, cit., p. 55).
Dunque, conclude Gunnar Hindrichs, celebrare Kant non significa oggi esaltare la guerra come una difesa della pace democratica contro i despoti asiatico-orientali. Certo, la istituzionalizzazione normativa della pace perpetua può anche suonare come una tesi kantiana esaltata, stravagante, eccentrica (verstiegen). In tal caso lasciamo perdere Kant e volgiamoci alle filosofie che legittimano l’idea di pace come esito di una guerra infinita. Antonio Negri e Michael Hardt, per esempio, esaltano la lotta tra impero e moltitudine, mentre Fracis Fukuyama vede la pace perpetua come il destino di un liberalismo capitalistico globale. Anche Peter Sloterdijk e Olaf Scholz continuano a intendere la pace kantiana come quell’area - interna al capitalismo democratico - che si tratta di difendere contro barbari, mafie e stati canaglia. Ma questa è, secondo Hindrichs, una torsione ideologica dell’idea kantiana. Il concetto kantiano è invece la nostalgia di qualcosa di diverso, vale a dire di una speranza che smentisce e sbugiarda l’idea di un ordine globale fondato sulla guerra.
PER LA PACE PERPETUA
di Leonardo Ceppa (Le parole e le cose, 2 Agosto 2024)
La società internazionale dei filosofi avrebbe voluto festeggiare a Königsberg i trecento anni della nascita di Kant. Sennonché quella città, a suo tempo strappata dagli Alleati ai nazisti, oggi si chiama Kaliningrad, ed è nelle mani di quel nuovo dittatore (Vladimir Putin) che, invadendo l’Ukraina, ha infranto due anni fa il diritto internazionale e riportato l’Apocalisse nel cuore dell’Europa. Così la società kantiana ha deciso di festeggiare il tricentenario riunendosi a Bonn nel prossimo settembre, cioè nella capitale provinciale della vecchia Repubblica federale tedesca.
Da parte sua, il cancelliere Olaf Scholz ha sottolineato l’attualità politica del saggio kantiano Per la pace perpetua (1795) in un notevole discorso del 23 aprile 2024 (si trova pubblicato nel Bulletin der Bundesregierung 37-4). Fondare politicamente la pace significa pensarla non come lo stato normale e naturale del diritto internazionale, bensì come una nuova situazione garantita dalla forza della democrazia. Dopo l’invasione della Ukraina e la guerra all’Occidente scatenata da Putin, Olaf Scholz parla di un punto di svolta (Zeitenwende) della politica mondiale: l’ordine internazionale dev’essere oggi difeso dalla forza militare, dal riarmo dell’esercito, dalle sanzioni economiche, dalla rinuncia alla collaborazione scientifica. Certo si deve, oggi come ieri, cercare la pace, ma non una pace a qualunque prezzo: a volte anche la guerra rientra nel prezzo con cui dobbiamo pagare la pace.
In questa prospettiva, la festa del tricentenario kantiano rischia di essere strumentalizzata dalla guerra in corso tra Est e Ovest, facendo rinascere la guerra fredda. A questo punto, un filosofo tedesco di 53 anni, Gunnar Hindrichs - docente a Basilea, già presidente della Società filosofica svizzera e vicepresidente della Associazione internazionale hegeliana - fa oggi uscire sull’ultimo numero di Merkur (luglio 2024, pp. 49-58) un saggio davvero fulminante che, ristabilendo il senso normativo della Pace perpetua kantiana, ne vieta qualsiasi lettura egoisticamente interessata.
Tra parentesi ricordiamo che qualcosa di analogo aveva fatto anche Habermas nei confronti della interpretazione teologico-apologetica di Kant avanzata da Rudolf Langthaler in due convegni internazionali su “Fede e sapere” tenuti a Vienna nel marzo 2004 e nel settembre 2005 (cioè nel bicentenario della morte di Kant. Sul punto cfr. Leonardo Ceppa, Habermas. Le radici religiose del moderno, Morcelliana 2017, pp. 73-87). Il discorso del cancelliere tedesco e una celebrazione banale del tricentenario kantiano rischiano oggi di leggere la Pace perpetua come la rifondazione di un diritto alla guerra in difesa dell’ordine democratico. Vorrei qui cercare di riassumere le tesi di Gunnar Hindrichs, in quanto mi paiono di grande interesse.
Nessuno più di Kant era consapevole del tono bombastico e ironico della sua impresa normativa. Infatti la pace di cui intendeva trattare non era quella degli armistizi occasionali, separanti nella storia un conflitto dall’altro, laddove la dimensione satirica era benissimo espressa “sull’insegna di un certo oste olandese sulla quale era dipinto un cimitero” (Per la pace perpetua, in Kant, Scritti di storia, politica e diritto, a cura di Filippo Gonnelli, Laterza 1995, p. 163).
Che il luogo della pace perpetua non dovesse ridursi alla metafora del camposanto fu la grande pretesa morale di tutto l’illuminismo, dall’Abbé de Saint-Pierre (1713) a Jean-Jacques Rousseau (1712-1778). Solo quest’ultimo intuì che la pace perpetua non doveva essere vista come un problema privato di uomini, prìncipi e filosofi, bensì come il problema pubblico dei popoli. Gli uomini - quel “legno storto” di cui parla Kant nel saggio sulla Religione - trovano effettivamente pace solo da morti, i prìncipi sono sempre “smaniosi di guerra” (Kriegslüstern è la bellissima parola kantiana), i filosofi non fanno altro che sognarla come utopia.
Nessuno è più realista di Kant nel disegnare questa triplice clausola ironica della pace: caducità dell’uomo, egoismo dei prìncipi, utopismo dei filosofi. L’idea trascendente e normativa contro questa clausola si chiama in Kant Friedensbund: lega di pace, foedus pacis, cosmopolitismo repubblicano. E nel saggio di Gunnar Hinrichs ne troviamo una brillante ricostruzione sul piano del diritto, della filosofia-della-storia, della filosofia-della-religione. Cerchiamo di riassumere.
Sul piano giuridico vale la contrapposizione di stato di natura e stato di legalità (o legittimità). Uomini e stati - quando risultano semplicementi motivati da interessi, bisogni e desideri particolari - infrangono qualunque armistizio e si autoconservano con la guerra. Quando invece risultano motivati dallo spirito-delle-leggi (Geist von Gesetzen) escono dallo stato di natura ed entrano in quell’ordine civile di cui aveva parlato Hobbes. E statu naturali exeundum esse. Allora la pace interstatale che ne deriva, lungi dall’essere un temporaneo armistizio, diventa un ordine cosmopolitico. E la pace perpetua come fine della storia, lungi dall’essere un obiettivo transitorio, diventa il senso filosofico sotteso a questa uscita dallo stato di natura, dunque il senso giuridico dell’intera traiettoria e parabola storica della specie. -Qui s’innesta per Kant una filosofia-della-storia che non si presenta né come Wunschgedanke né come empirica Feststellung, cioè né come utopia idealistica né come empirica constatazione. Si ricordino qui due magniloquenti tesi dalla Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784, in Scritti di storia politica e diritto, a cura di Filippo Gonnelli, cit. pp. 29-44). Tesi quinta: “Il massimo problema per il genere umano, alla cui soluzione la natura lo costringe, è il raggiungimento di una società civile che faccia valere universalmente il diritto” (p. 34, corsivo mio). Tesi ottava: “Si vede bene come qui anche la filosofia possa avere il proprio chiliasmo” - il proprio millenarismo, cioè l’attesa del regno di Cristo in terra - la cui attuazione, continua Kant, non ha più nulla di esaltato, come nella Apocalisse biblica, in quanto si limita a segnalare il possibile sviluppo di tutte le disposizioni dell’umanità. Il punto di vista dell’autoconservazione animale va inteso come l’accettazione di una finitezza umana che acquista il suo vero significato solo alla luce di un “Non ancora”, di un Noch nicht normativo.
Dal punto di vista di una filosofia-della-religione, infine, la pace perpetua indicherebbe il raddrizzamento del legno storto dell’umanità, cioè la speranza di un chiliasmo non utopistico, né semplicemente morale, bensì addirittura metafisico: vale a dire il rifiuto di arrendersi alla visione realistica di una autoconservazione meramente animale. “Lasciate ogni speranza - scrive qui Gunnar Hindrichs citando Dante in italiano - non è infatti l’insegna del mondo di Dio, bensì dell’inferno” (Merkur, cit., p. 55).
Dunque, conclude Gunnar Hindrichs, celebrare Kant non significa oggi esaltare la guerra come una difesa della pace democratica contro i despoti asiatico-orientali. Certo, la istituzionalizzazione normativa della pace perpetua può anche suonare come una tesi kantiana esaltata, stravagante, eccentrica (verstiegen). In tal caso lasciamo perdere Kant e volgiamoci alle filosofie che legittimano l’idea di pace come esito di una guerra infinita. Antonio Negri e Michael Hardt, per esempio, esaltano la lotta tra impero e moltitudine, mentre Fracis Fukuyama vede la pace perpetua come il destino di un liberalismo capitalistico globale. Anche Peter Sloterdijk e Olaf Scholz continuano a intendere la pace kantiana come quell’area - interna al capitalismo democratico - che si tratta di difendere contro barbari, mafie e stati canaglia. Ma questa è, secondo Hindrichs, una torsione ideologica dell’idea kantiana. Il concetto kantiano è invece la nostalgia di qualcosa di diverso, vale a dire di una speranza che smentisce e sbugiarda l’idea di un ordine globale fondato sulla guerra.
L’#HAMLET E UNA "INSTAURATIO MAGNA" TEOLOGICO-POLITICA NELLA SCIA DI #DANTEALIGHIERI E #GIORDANOBRUNO, ALLA WILLIAM #SHAKESPEARE, NON ALLA FRANCESCO #BACONE CON IL SUO "PARTO MASCHIO DEL TEMPO".
IL #TEATRO, IL #METATEATRO, E "IL #VANGELO DI #AMLETO". "THE #MOUSETRAP" ("LA #TRAPPOLA PER #TOPI" ) E IL TENTATIVO DI PORTARE ALLA LUCE L’INGANNO DEL "#SERPENTE" E RICOSTRUIRE IL "#PRESEPE", IL "#CORPOMISTICO DELLA "#SACRAFAMIGLIA" IN "#DANIMARCA":
RICORDANDO QUANTO detto nella nota relativa alla "Part 55" sul tema, e, in particolare, mi sia lecito, che il "rendere sempre più esplicita l’#analogia tra Amleto e Gesù, sollecita a guardare a #Ofelia... come a #MariaMaddalena, la donna della tradizione evangelica, legata strettamente alla vita stessa di Gesù (uno scrittore nato nel mio paese di origine, nel 1564, di nome Paolo Silvio, scrive nel 1599, in coincidenza con un miracolo avvenuto a #Fabriano, un’opera di grandissimo successo dal titolo "La Madalena penitente" ), forse, per meglio comprendere tutta l’mportanza del commento di Ofelia (""You are as good as a chorus") sull’operazione per smascherare il "#serpente -re" camuffato da "#topo - re", occorre rileggere e ricontestualizzare la frase (almeno a partire da Amleto, III. 2. 110 e ss.):
"#Amleto [...] (A #Polonio) Sicché, signore, un tempo avete anche voi recitato all’università. Non è così?
#Polonio Infatti, monsignore, ed ero reputato un buon attore.
#Amleto E che parte faceste?
#Polonio Giulio Cesare. Venivo pugnalato in Campidoglio. Era Bruto ad uccidermi.
#Amleto E dev’essere stato un vero bruto per uccidere un tale vitellone!
(Va a sedersi a fianco di #Ofelia) Sono pronti gli attori?
#Rosencrantz Sì, signore, aspettano soltanto un vostro cenno.
#Regina Vieni, mio buon Amleto, vieni a sederti qui, vicino a me.
#Amleto Vogliate perdonarmi, buona madre: ho qui una più attirante calamita.
#Polonio (A parte al #re) Oh, oh, avete visto?
#Amleto Posso giacermi in seno a voi, signora?
#Ofelia No, questo no, signore.
#Amleto La testa, intendo, sopra al vostro grembo.
#Ofelia Oh, questo sì, signore, accomodatevi.
#Amleto Pensavate che avessi per la mente pensieri da villano?
#Ofelia Non ho pensato a nulla, mio signore.
#Amleto È un pensiero gentile dopotutto sdraiarsi tra le gambe di ragazze.
#Ofelia Che dite, monsignore?
#Amleto Niente, niente.
#Ofelia Siete allegro, signore.
#Amleto Allegro, io?
Ofelia Così mi sembra, mio signore.").
NOTA:
ANTROPOLOGIA FILOSOFICA (KANT, 1724-2024), PSICOANALISI E BIOGRAFIA: "ECCE HOMO" (NIETZSCHE, 1888).
"INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" (1899) E "COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (1937):
LEONARDO DA VINCI SUL LETTINO DI FREUD (MA NON DI JUNG NE’ DI LACAN).
VITA E FILOSOFIA E ILLUMINISMO KANTIANO: "SAPEREAUDE" (Kant, 1784). Freud aveva capito l’essenziale (di sua madre e) della madre di Leonardo da #Vinci, aveva colto il "nucleo di fuoco" (dell’alleanza di fuoco, alla base della sua vita): che la madre era una donna autonoma e indipendente (una "Madonna", non una Signora "Costantiniana", nata dalla costola dell’Adamo "mammonico"), così come di Michelangelo ha intuito il messaggio del "Tondo Doni" e del "Mosè", di essere figlio dell’amore di "Maria e Giuseppe", di diritto e di fatto (Immanuel Kant): in principio era il Logos, non un Logo di un frainteso (antropologicamente) Uomo ("Vir") Supremo "Vitruviano".
NOTA:
ANTROPOLOGIA FILOSOFICA (#KANT, 1724-2024), #STORIA, E #TEOLOGIA:
"N. S. #MONTE #CARMELO", "MADONNA DEL #CARMINE, #16LUGLIO. Un filo di memoria e di tradizione culturale europea e mediterranea, carico di teoria, che tocca nel profondo la #questione antropologica dell’attuale #presentestorico , e richiama l’eccezionale intervento "critico" e "cristico" di #TeresadAvila (1515-1582) e, al contempo, dell’opera del filosofo e teologo Jakob #Boehme (Jacob #Böhme, 1575-1624).
I CARMELITANI SCALZI NEL #REGNO DI NAPOLI (VICEREAME SPAGNOLO) E L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’#ECUMENISMO RINASCIMENTALE. Nel mio paese d’origine (#ContursiTerme, #Salerno), nella "vecchia" Chiesa della #MadonnadelCarmine, dedicata con i #CarmelitaniScalzi alla B.V. del Monte Carmelo (nel 1613), con una pala d’altare del 1608 (v. allegato), sono riemerse dopo il #terremoto del 1980 e il restauro completato nel 1989), le figure di 12 #Sibille (un richiamo forte ed esplicito alla lezione umanistico-rinascimentale, e a #Michelangelo #Buonarroti e alla sua "Sacra Famiglia" - il #TondoDoni).
NOTE:
ANTROPOLOGIA, STORIA, E METATEATRO (SHAKESPEARE).
"THE MOUSETRAP" ("LA TRAPPOLA PER TOPI") DI "AMLETO" E IL CASO DEL "PIFFERARIO" DELLO "STATO DI DANIMARCA".
"SAPERE AUDE!" (Q. ORAZIO F. ; KANT, 1784; M. FOUCAULT, 1984). AL DI LA’ DEL MACHIAVELLISMO E DELL’ #ANDROCENTRISMO TEOLOGICO-POLITICO PLATONICO-PAOLINO, a mio parere, ciò che resta del "discorso filosofico della #modernità" (J. Habermas), come ha riepilogato Kant alla fine del suo lungo lavoro di critica delle pretese della "olimpica" #ragione "pura", è proprio quanto indicava quel "Socrate pazzo" di Diogene ("Amleto"): la domanda antropologica, vale a dire il gioco del "gatto" e del "topo" (Shakespeare, "Hamlet", III. 4. 203-212), la questione "hamletica" del "come nascono i bambini" (e non solo)!
NOTE:
CON AMLETO (ED EDIPO), A SCUOLA DA MACHIAVELLI: TEATRO (FILOSOFIA) E METATEATRO (METAFILOSOFIA).
QUANDO IL "TOPO" DIVENTA UN "#GATTO" (UNA "GATTA") E SVELA IL "GOLPE" (DEL "LIONE"). Una traccia per una ri-lettura dell’opera di Shakespeare ...
SHAKESPEARE E COLLODI. Se è vero, come è stato detto da qualcuno, che "L’ Amleto è antiamletico come Pinocchio è antipinocchiesco; totalmente e quindi ambiguamente", c’è da chiarire e precisare che Amleto non diventa un "ragazzino per bene" (un "Pinocchio"), ma vince la sua battaglia (personale e politica), resta fedele a se stesso, alla Legge, e al ricordo del Padre-Re, e restituisce onorevolmente a "Fortebraccio" la #corona della "Danimarca".
UNA QUESTIONE DI #STATO: "IL PRINCIPE". Se la "sconfitta" di Pinocchio passa per la morte e l’impiccagione (cap. XV) prima e poi per la falsa "rinascita" finale (Geppetto: "quando i ragazzi cattivi diventano buoni", cap. XXXVI), al contrario, la "storia" di Amleto passa per il ribaltamento della posizione e la vittoria: "Stasera si recita in presenza del re:/ una scena del dramma s’avvicina ai fatti/che t’ho detto sulla morte di mio padre. /Ti prego, quando vedi cominciare quell’episodio /con tutto l’acume della tua anima osserva mio zio." (III. 2.85-90).
LA VOLPE E IL LEONE. "Sendo, dunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi." (N. Machiavelli, "Il Principe", cap. XVIII).
EDUCAZIONE CIVICA E CITTADINANZA ATTIVA E CRITICA: UN GATTO ("THE MOUSETRAP") E UN ("SERPENTE" CAMUFFATO DA) "TOPO". Amleto, ben consapevole (come chiarisce a Orazio) del fatto che, «se la sua [del Re Claudio] colpa occulta non si stana a un certo discorso, è uno spettro dannato quello che noi abbiam visto» (III.2. 90-92), per chiarire a sé stesso e a tutti e a tutte i dubbi, da "cacciato" si fa "#cacciatore" e aziona la "trappola per topi" ("The Mousetrap"), per mostrare come chiarire gli "amletici" dubbi: "Questo dramma è la rappresentazione di un assassinio compiuto a Vienna. Gonzago è il nome del Duca, quello di sua moglie Battista. [...] l’assassino è un certo Luciano, #nipote del Re [...]. Lo avvelena nel #giardino per prendergli il #regno. Il suo nome è Gonzago. La storia è dei nostri giorni, e scritta in italiano scelto. Ora vedrete come l’assassino ottiene l’#amore della moglie di Gonzago" (III.2.247).
NOTE:
ANTROPOLOGIA FILOSOFIA, PSICOANALISI, E CIVILTA’ (KANT 2024): CRITICA DELLA COSMOTEANDRIA OCCIDENTALE.
RIATTIVARE IL "CIRCUITO DELLA PAROLE". Oltre il lacanismo (e il paolinismo), l’omaggio di Sigmund Freud a Marie Bonaparte:
"La grande domanda, alla quale nemmeno io ho saputo rispondere, è questa: che cosa vuole la donna?” (Freud 1933). *
PIANETATERRA: ALLA LUCE DEL "CANTICO DEI CANTICI" (è "l’amor che move il sole e le altre stelle"), DOPO MILLENNI DI COLONIZZAZIONE DEL " LOGOS" (DIVENTATO UN "#LOGO"), e, dopo aver gettato in pasto all’algoritmo la "lingua" ("#langue" ) del "Corso di linguistica generale" di Ferdinand de #Saussure, forse, è ora di ri-attivare antropologicamente il "circuito della #parole", e, al contempo, fare chiarezza sulle #ideologie falloforiche nelle loro tragiche pretese androcentriche e platonizzanti e passare alla "commedia" (#DanteAlighieri): almeno dai lavori di #Michelangelo Buonarroti, per riflettere teologicamente sul tema, le Sibille camminano insieme ai #Profeti nella Volta della #CappellaSistina e l’ amore di ogni "Maria" e ogni "Giuseppe" cerca di illuminare non solo il cammino di ogni loro bambino e di ogni loro bambina ("Gesù"), ma anche le loro stesse comunicazioni e le loro stesse relazioni tra di loro e con tutti gli esseri umani (e non solo).
Note:
TEATRO E METATEATRO: "REMEMBER ME" (SHAKESPEARE, "HAMLET", I.5). MEMORIA STORIA LETTERATURA E FILOLOGIA (2 LUGLIO 2024).
PER AMLETO, LA "CASA DEL PADRE" (IL "RE DEL MONDO", L’ AMORE) CON LE SUE "MOLTE DIMORE" (Gv. 14, 2) E’ DIVENTATA UNA "PRISON" (PRIGIONE):
PSICOANALISI E STORIOGRAFIA. COME IL #LOGOS DEL PRINCIPIO (#ARCHE’) DI #ERACLITO DI EFESO E DELL’APOSTOLO GIOVANNI (Gv. 1.1) DIVENNE UN #LOGO E LE ENCLOSURES (RECINZIONI) SI DIFFUSERO SU TUTTA LA TERRA:
Sigmund Freud, che ha scavato a lungo, e continuò a scavare nei sotterranei della cultura greca, ebraica, e cattolico-romana fino alla morte (Londra, 1939), e conosceva molto bene non solo la "tragedia" di "Edipo Re" (Sofocle), ma anche del principe "Amleto" (Shakespeare), nel 1929, così scrive: "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’#amore #universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori" (S. Freud, "Disagio della civiltà", 1929).
ARTE E TEOLOGIA. Alla luce del sempre più "brillante" presente storico, forse, è bene tenere conto dell’analisi di Freud, rimeditare sulla hamlet-ica "Mousetrap" (III.2) di Shakespeare, e, al contempo, riflettere sulla enigmatica figura del futuro #padre di Gesù, #Giuseppe ("De domo David"), che prepara una "trappola per #topi" nello straordinario "Trittico di Mérode", dedicato al tema dell’#Annunciazione, di Robert Campin.
Nota:
A CHE #GIOCO GIOCHIAMO, IN #REALTÀ?! LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA DEL DIVANO DI #FREUD E IL PERMANERE DEL COMPROMESSO "OLIMPICO" (PLATONICO E ARISTOTELICO) SUL PROBLEMA DEL "COME NASCONO I BAMBINI".
ANTROPOLOGIA E STORIA: #UNO (#ONU). Alla luce dell’eredità tragica di #Edipo (#Sofocle) e #Amleto (#Shakespeare), sulla questione antropologica (e cristologica) la cultura europea (e planetaria) ancora non è riuscita a fare chiarezza sulla dimensione "nexologica" (da "#nexus") e confonde ancora "nexuno", con "#nessuno", e non comprende nemmeno un semplice "nesso"!
PSICOANALISI ("L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI", 1899): "IL DIALOGO PSICOANALITICO" (Jean-Jacques #Abrahams, "Les Temps Modernes", 1969). A partire dal caso dell’«uomo dei topi» (Freud, 1909) e dell’«uomo con il magnetofono, dramma in un atto con grida d’aiuto di uno psicoanalista» (Jean-Jacques Abrahams, 1977), il problema è ancora sul divano di #SigmundFreud (non di #Lacan), e l’#enigma del "come nascono i bambini" non è stato ancora risolto... A gloria eterna della sollecitazione di "Sigismondo di Vindobona" e di Franca Ongaro Basaglia (cfr. "Così parlò Edipo a #Cuernavaca", "pM - Panorama mese", novembre 1982), che fare? Continuare i giochi "olimpici" di enigmistica nello spirito di Edipo e di cruciverba nello spirito di Amleto?
STORIA, STORIOGRAFIA E "DIVINA COMMEDIA" (#DANTE2021): L’IMMAGINARIO APOLLINEO E LA SOPRAVVIVENZA DELL’ #ALGORITMO DELLA TRAGEDIA. Se è vero, come è vero, che per la religione greca «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda» (#Eschilo, "Eumenidi"), è anche vero che dopo la nascita di Cristo e dopo la diffusione del Cristianesimo, come ha scritto Franca Ongaro Basaglia (1978), continua ad essere "possibile un’operazione #matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo".
NOTE:
"SHAKESPEARE GLOBE", ELIOCENTRISMO, E "RIVOLUZIONE COPERNICANA" (KANT): FILOSOFIA (GIUSTIZIA - LOGOS), CRISTIANESIMO (AMORE - "AGAPE"), E CATTOLICESIMO (NICEA 325 -2025). Con (Parmenide ed Eraclito e) Aristotele, oltre: "In principio era il Logos" (Gv. I.1) - non un Logo.
PREMESSO CHE la #question #hamletica è storica e storiografica e che, per comprendere il lavoro di Shakespeare, forse, è opportuno pensare il rapporto tra "Shakespeare, Christianity, and Aristotele’s Poetics" all’interno di un contesto europeo segnato dalla Riforma Protestante, dalla Riforma Anglicana, e dell’attacco cattolico-spagnolo all’Inghilterra della Regina e Papessa, Elisabetta I, figlia di Enrico VIII, e dalla Rivoluzione astronomica e scientifica, aperta dall’opera di Copernico, e rilanciata alla grande da Tommaso Campanella e da Giordano Bruno, condannato come eretico e bruciato sul rogo (17 febbraio 1600).
CONSIDERANDO IL CONTRIBUTO (ASSOLUTAMENTE "MODERNO", COME HA SCRITTO UNA VOLTA LO STORICO DELLA FILOSOFIA GILSON) DEL COSIDDETTO #MEDIOEVO DELLA "PRIMA #RINASCITA" (GRAZIE A FRANCESCO D’ASSISI, GIOACCHINO DA FIORE, E DANTE ALIGHIERI) E IL RAPPORTO DI DANTE CON "IL #MAESTRO DI COLOR CHE SANNO" (Inf. IV, 131), c’è da dire e da pensare che tra Aristotele e Shakespeare (come con lo stesso Dante) c’è molta amicizia, nello spirito dell’antico e nuovo Logos (e non del #Logo di una azienda personale).
NEL PORRE AL CENTRO DELL’#AMLETO la questione antropologica (e cristologica), Shakespeare pone "aristotelicamente" un problema di #legalità e di #giustizia e di #verità: la #critica al "nuovo" Re e Padre, che è un impostore, un mentitore, e un assassino, e l’introduzione nell’opera teatrale moderna (lo stesso "Hamlet") di un’opera teatrale "aristotelica", "The Mousetrap" ("La trappola per topi"). La Rivoluzione inglese è già iniziata...
SCIOLTO QUESTO NODO E, DANDO A SHAKESPEARE CIO’ CHE DI SHAKESPEARE E DI ARISTOTELE CIO’ CHE E DI ARISTOTELE, e, ancora, chiarito che il principe "Amleto" è figlio del "Re Amleto" e della "Regina Gertrude", si può senz’altro condividere l’opinione che "[...] for Aristotle, tragedy is amoral: it’s like the process of legal discovery that occurs in a court of law." (Patrick Grey).
NOTA:
PIANETATERRA, DISAGIO NELLA #CIVILTA’ (1929) E "COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (S. #FREUD, 1937).
Una nota sul tema della questione antropologica e sul #corpomistico dell’#uomosupremo, nel trecentesimo anniversario della nascita di Immanuel Kant (1724-2024).
ALCUNE RIFLESSIONI ICONOLOGICHE SU DUE BACI CHE HANNO SEGNATO L’IMMAGINARIO E LA STORIA DELL’#EUROPA. TRADIZIONE, "TRADUZIONE", E RAPPRESENTAZIONE ARTISTICA...
IL BACIO DELL’APOSTOLO PIETRO E DELL’«APOSTOLO» PAOLO, ICONOGRAFICAMENTE E FILOLOGICAMENTE, RICHIAMA IL PROBLEMATICO "NODO" DEL BACIO DI GIUDA A GESU’ RAPPRESENTATO DA GIOTTO E, SIMBOLICAMENTE E STORICAMENTE, LA NASCITA DEL #PAOLINISMO E DELLA RELIGIONE IMPERIALISTICA DELLO "IN HOC SIGNO VINCES" DI COSTANTINO.
ARTE, FILOLOGIA, STORIOGRAFIA, E "PROPAGANDA E FEDE". Sicuramente le indicazioni date da Gesù all’apostolo Pietro per "organizzare" la vita della comunità cristiana non erano né filologicamente né evangelicamente queste di Paolo di Tarso: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il #capo è #Cristo, e capo della #donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
Questa dichiarazione di #cosmoteandria assoluta va molto più indietro delle stesse dichiarazioni rintracciabili nella tradizione religiosa greca di Zeus, di Apollo, e di Atena (Eschilo, Sofocle, ed Euripide) e così, e fondamentalmente, dopo la "donazione" di Pietro a Paolo, si apre la strada alla "donazione" decisiva, quella detta di Costantino e al suo "algoritmico" programma di imperialismo teologico-politico (Nicea 325-2025).
«È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"» (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010).
NOTE:
LA PSICOANALISI E I QUATTRO "MOSCHETTIERI": FREUD ("L’UOMO DEI TOPI"), ABRAHAMS" (L’UOMO COL MAGNETOFONO"), MUSATTI ("CONDIZIONI DELL’ESPERIENZA E FONDAZIONE DELLA PSICOLOGIA") E FACHINELLI ("IL BAMBINO DALLE UOVA D’ORO". Appunti sul tema...
A sua memoria, "vent’anni dopo" (1989-2009).
FACHINELLI intuì CHE J.-J.ABRAHAMS, L’UOMO COL MAGNETOFONO, ERA UN SINGOLARE (KIERKEGAARD) GATTO, MA GLI SFUGGì il legame CON I TOPI, CON LA "MOUSETRAP" DI "AMLETO" E L’OPERA DI ALEXANDRE DUMAS.
ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA E NEXOLOGIA CHIASMATICA: "ACHERONTA MOVEBO". Aprire gli occhi (Freud), tutti e due, è difficile, ma solo sciogliendo il nesso ("nexus") tragico, il nodo edipico, è possibile uscire dall’orizzonte della tragedia e della claustrofilia (Elvio Fachinelli, 1983) e andare oltre le colonne d’#Ercole e, con Virgilio e Dante, oltre... "Sàpere aude! (Orazio-Kant).
PSICOANALISI (NEXOLOGIA) E ANTROPOLOGIA CHIASMATICA: CON KIERKEGAARD ("AUT - AUT"), OLTRE. Mi auguro che le poche indicazioni date siano buone sollecitazioni a riprendere il filo: "L’uomo dei topi" è "radioattivamente" carico di teoria. Freud s’è l’è portato dietro tutta la vita, fino alle "costruzioni nell’analisi" (1937) e oltre.
DA FREUD A FACHINELLI: CON KIERKEGAARD, OLTRE. "L’uomo col magnetofono", fondamentalmente, è lo stesso Fachinelli (v. "La parola contaminata", nel testo), andato a "scuola" di Cesare Musatti, e, al contempo, critico nel rapporto con la Società Psicoanalitica Italiana (che ancora oggi si attarda a parlare alla Platone, "Psiche e Polis").
Federico La Sala
QUALE "NESSO"* TRA IL MITO E LA STORIA DELL’EUROPA? UNA IPOTESI DI CHIARIMENTO A MARGINE DEI "SOGNI DI UN VISIONARIO CHARITI CON I SOGNI DELLA METAFISICA".
DEL #PIANETATERRA E DEL SUO BRILLANTECOLORE: IL #CORPOMISTICO DELL’#ANDROCENTRISMO TEOLOGICO-POLITICO DI PLATONE E COSTANTINO (#NICEA 325-2025) BLOCCA DA MILLENNI LA #NAVIGAZIONE NELL’#OCEANOCELESTE (#KEPLERO, 1611) DEL #GALILEO #GALILEI "CHE HA VINTO" SIA SUL PIANO CELESTE SIA SUL PIANO TERRESTRE E, ancora oggi (#2giugno2024) RENDE DIFFICILE CAPIRE UN’ #ACCA E PORTARSI FUORI DALL’ORIZZONTE DI #MAMMONA ("CARITAS").
"COME NASCONO I BAMBINI": INCARNAZIONE (#MENSCHWERDUNG), ANTROPOLOGIA, E #FILOLOGIA. Riprendendo il filo della "#Charitas" di #GioacchinodaFiore e #DanteAlighieri, forse, è meglio uscire dal "letargo" (Par. XXXIII, 94), e con il #Boehme della "De incarnatione Verbi" riflettere sulla "Charis" (gr. #Xapis") e sul Cristogramma.
NOTA: IL "TRATTATO" DEL "MASTRILLO" (#MAASTRICT), E LA "DIRITTA VIA" (DANTE ALIGHIERI). L’amicizia e l’amore della parola sono decisivi e fondamentali: senza filologia non si va da nessuna parte e non si comprende più il #nesso tra il #prima e il #dopo, si dimentica che "in #principio era il #Logos", e tutti gli erculei esseri umana finiscono per indossare le camicie con il "logo" di #NESSunO.
STORIOGRAFIA FILOSOFICA E FILOLOGIA.
L’ “UOMO SUPREMO” DEI VISIONARI E DEI FILOSOFI DELLA TEOLOGIA -POLI TICA ATEA E DEVOTA. La memoria della "lezione" di Orazio ("sàpere aude"), il sogno di Swedenborg («Non mangiare tanto!»), e "I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica". *
Swedenborg e la visione dell’Uomo che gli ordina di «Non mangiare troppo»**.
"EMANUELE SWEDENBORG (1688- 1772) di Paola Giovetti : [...] Swedenborg prega, si interroga, attende, studia la Bibbia. Nel 1745, mentre è a Londra, grazie a un’altra visione supera definitivamente la crisi. E’ la metà di aprile, è passato un anno esatto dalla prima visione. In quest’anno Swedenborg ha pubblicato il terzo volume del Regnum Animale e i due volumi di Della saggezza e dell’amore di Dio. Ecco, con le parole di Swedenborg, l’esperienza determinante:
Poi tutto si oscurò di nuovo, ma di colpo si rifece luce e mi ritrovai solo nella stanza. Questa visione mi indusse a tornare rapidamente a casa. Durante la notte mi si ripresentò lo stesso uomo, il quale mi disse che era Dio, il creatore del mondo e redentore, e che mi aveva scelto per spiegare agli uomini il senso spirituale delle Sacre Scritture; lui stesso mi avrebbe dettato quello che avrei dovuto scrivere su questo soggetto. In quella stessa notte, per convincermi, mi fu mostrato il mondo spirituale, l’inferno e il cielo, dove incontrai parecchie persone di mia conoscenza e di tutti i ceti sociali. Da quel giorno rinunciai a ogni interesse scientifico terreno e lavorai soltanto alle cose spirituali, secondo quello che il Signore mi aveva ordinato. In seguito il Signore aprì gli occhi del mio spirito, così che mi trovai in grado di vedere mentre ero pienamente desto quello che avviene nell’altro mondo, e di parlare con gli angeli e gli spiriti».
Il veggente
Si può affermare che tutta l’opera scientifica finora compiuta da Swedenborg costituisca una sorta di preparazione a quello che doveva essere l’autentico compito della sua vita, quello per il quale è rimasto famoso. Nella sua carriera di scienziato aveva acquisito capacità di osservazione, di analisi e di sintesi, sapeva autodisciplinarsi e valutare il valore del proprio lavoro e delle teorie che formulava; aveva una notevolissima abilità organizzativa e una straordinaria capacità di lavoro. Sapeva come si prepara un manoscritto, era in grado di confezionare copie perfette pronte per la pubblicazione. Era pronto per il gran balzo. La visione di Londra gli diede le ali: ora sapeva in che cosa consistesse il compito che lo attendeva. Doveva rivelare il vero senso della Bibbia e descrivere l’altra dimensione: spiriti e angeli saranno d’ora in poi suoi maestri. La sua vita ha uno scopo nuovo, al quale si dedica con tutto se stesso. [...]" (cfr. Paola Giovetti, op. cit.).
Note:
** Su "Emanuel Swedenborg: «Non mangiare troppo»", si cfr. Guido Almansi - Claude Béguin, "Teatro del sonno. Antologia dei sogni letterari", Oscar Mondadori, Milano 1991: "Questo sogno di Swedenborg è raccontato dal suo biografo, William White, in un libro pubblicato nel 1869. Ignoriamo la fonte d’informazione di White" pp. 406-407.
Federico La Sala
LA #MONARCHIA DEI "DUE SOLI" (DANTE ALIGHIERI) E LA "CHIMERA" DEL "POST-UMANO".
A) LA #QUESTION DI #SHAKESPEARE,
B) LA DOMANDA DI PASCAL:
C) LA "QUARTA" DOMANDA DI #KANT: "COSA E’ L’UOMO? (1800). "SAPERE AUDE!": "RIPENSANDO A #SOFOCLE (E ALLA SUA "#ANTIGONE"), OLTRE CHE A SHAKESPEARE (E AL SUO "AMLETO"), E’ BENE RIPARTIRE DA PASCAL CHE CON LA SUA «CHARITE’» SA PENSARE INSIEME "UOMO" E "CHIMERA" E OSA, ALL’INTERNO DELL’ORIZZONTE DELLA #RIVOLUZIONECOPERNICANA, RI-APRIRE LA #QUESTIONEANTROPOLOGICA E TEOLOGICA.
D) LA "MONARCHIA" DEI "DUE SOLI" (#DANTE2021) E IL "POST-UMANO". Con Pascal (Clermont-Ferrand, 19 giugno 1623 - Parigi, 19 agosto 1662) e Kant (Königsberg, 22 aprile 1724 - Königsberg, 12 febbraio 1804), non è forse l’ora e il tempo, oggi, di riprendere il filo di #MArianna, "la #saggezza, come un’altra #Arianna" e portarsi fuori dal "labirinto delle cose umane" (cfr. #VictorHugo, "Notre-Dame de Paris", L. I, cap. III), e, finalmente, dal #letargo (#Dante Alighieri, Par. XXXIII, v. 94)?!
NOTA:
LA FINE DELL’ ERA "ICEBERGHIANA" E DEL #DESTINO DELLA #NECESSITA’ ( #ANANKE: #VICTORHUGO):
Una breve nota su una metafora "ghiacciata" e "agghiacciante"!
PSICOANALISI, #ANTROPOLOGIA, ED #ECOLOGIA: SOTTO LA #MONTAGNA (#BERG) DI #GHACCIO (#ICE), COSA C’E’ SE NON SOLO L’ ACQUA "SPORCA" E "RISCALDATA" DELLO STESSO CHIACCIO? Continuare ad usare l’ #iceberg, come metafora della coscienza della "specie" umana, non porta fuori dalla "diritta via" e impedisce di conoscere sé e, al contempo, che ciò che "galleggia" sull’oceano è solo la #testa, la #coscienza capovolta del luciferino Signore del #ghiaccio infernale, come aveva ben capito #Dante, nel momento stesso in cui con #Virgilio riesce ad attaccarsi al #vello di #Lucifero e venir fuori dalla #caverna in cui si era smarrito e da cui pensava di non poter più uscire? Non è forse meglio rimettere i piedi a terra (Inf. XXXIV, vv. 88-90: "Io levai li occhi e credetti vedere /Lucifero com’io l’avea lasciato, /e vidili le gambe in sù tenere") e rileggere non solo con Dante e Virgilio, ma anche con Maria Beatrice e Lucia il viaggio di ogni essere umano nello spazio-tempo cosmico in cui si svolge la #Commedia umana, la "divina Commedia"?
NOTA:
Lacan dice pure la verità (come tutti e tutte), ma "a metà"! Si mette a "spacciare" ("#joyce-#mente") come un grande "pifferaio", in nome dello "#spirito" di #Freud, che il "Nome di «Freud» significa «gioia»" (1956), alla "lettera", "#joy", "#Freude" (cioè, alla #Beethoven e alla #Schiller), e diventa un fedele "niceano" (#Nicea 325, alla costantiniana maniera), sia contro #Kant, contro #Marx, contro #Nietzsche, e, ovviamente, contro lo stesso #Freud!
DESTINO DELLA #NECESSITA’ ( #ANANKE: #VICTORHUGO). Da "visconte dimezzato", #JacquesLacan come avrebbe potuto prevedere il salire della la temperatura, lo scioglimento dell’io #iceberg _hiano, e il fiorire dei prati a #Maresfield, là dove le cavalle e i cavalli si rincorrono ancora e di nuovo gioiosamente?!
STORIA, FILOLOGIA, E FILOSOFIA: L’ OPERA INCOMPIUTA DELL’EUROPA E IL PERDURARE DEL "SONNO DOGMATICO"
Un piccolo invito "filologico" a riaprire la riflessione sulla domanda kantiana del "che cosa posso sapere?" e, possibilmente, cercare, mangiando sano e con gusto, di riprendere il cammino nell’#oceanoceleste (#Keplero, 1611)
SALUTE E SAPERE. L’aver dimenticato la lezione di Orazio ("Chi bene incomincia è già a metà dell’opera; risolviti a diventare saggio: incomincia [dimidium facti, qui coepit, habet: sàpere aude, incipe]") dice di una cosa terribile non solo a ogni persona e a ogni cittadino e a ogni cittadina della luminosa e solare Venosa (Basilicata, Potenza), ma dell’intera Europa (e del Pianeta Terra)!
ANTROPOLOGIA E PEDAGOGIA. "L’UOMO E’ CIO’ CHE MANGIA" (FEUERBACH), A TUTTI I LIVELLI. Materialmente e spiritualmente, è un cosiddetto segreto di "Pulcinella. Il filosofo che fu chiamato pazzo" (Romeo De Maio, 1989), non si sa più nemmeno mangiare e, cosa ancora più grave, non sapendo nemmeno più assaporare e "as-saggiare", si ignora che cosa mangia e "che cosa" sia (diventato) il cosiddetto "uomo", antropologicamente!
COSTITUZIONE, "RAPPORTO SOCIALE DI #PRODUZIONE", E CIBO. Non solo a Casa, ma nelle Scuole e nelle Università e nelle Accademie (atee e devote), cosa insegnano, cosa danno da "mangiare": "Prendete e mangiate", ma che cosa?! Non è il caso di suonare le campane a martello, uscire dal letargo, e decidersi a riprendere lo studio della filologia e della letteratura e della #storia e della filosofia e ad affrontare i lavori dell’Incompiuta, del "Complesso della Santissima Trinità"?!
L’INNO ALLA GIOIA ("AN DIE FREUDE") E LA FILOLOGIA: KANT, SCHILLER, BEETHOVEN, "FREUD ... E" LACAN.
LA CULTURA EUROPEA, SIGMUND FREUD, E L’INNO ALLA GIOIA (F. #Schiller, "An die Freude", 1785).
NEL "NOME DI FREUD", LA "PSICOANALISI" DEL «JOYOSO» JACQUES LACAN. Due brevi note a margine della seguente "dichiarazione":
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA. A CHE GIOCO GIOCHIAMO?!
FREUD O LACAN? "SÀPERE AUDE" (ORAZIO - KANT). Nella ricorrenza del XXI Congresso Nazionale della Societa’ Psicoanalitica italiana, RICORDANDO ELVIO FACHINELLI (con le parole di Francesco Marchioro: "Spirito curioso, ironico, indipendente e analista non ortodosso denuncia con forza una sorta di «freudolente» uso della terapia e accusa la sua stessa istituzione di praticare una “psicoanalisi della risposta”, nel senso che si limita a «dare ragione all’esistente, razionalizzare le irrazionalità, tamponare i conflitti», offrire una terapia dell’adattamento invece di essere una psicoanalisi interrogante, capace di sollevare domande radicali sullo statuto del soggetto e la sua relazione alla Lebenswelt, al mondo della vita.": Altoadige.it, 22.12.2019), non è il caso di svegliarsi dal sonno dogmatico e riprendere il filo da Kant (1724-2024), dalla interpretazione dei "sogni di un visionario" (1766), e riprendere coraggiosamente a "servirsi della propria intelligenza ("1784), e, insieme, far un so critico della propria facoltà di giudizio, come ha fatto e sollecitato a fare in prima persona Michel Foucault nel 1984?
Al di là del #paolinismo (dell’#hegelismo e del #lacanismo): "Psiche e Polis" (#Platonismo) e "#Costruzioni nell’#analisi" (S. Freud, 1937).
ANTROPOLOGIA E #PSICOANALISI: "LA FERMA FERMA" (E. Fachinelli, 1979). Purtroppo, bisogna dirlo la Società Psicoanalitica Italiana, all’altezza del XXI Congresso (in coincidenza con l’anniversario della #nascita di #Kant, trecento anni fa, 1724) ha perso tutto il coraggio degli inizi (del "#sàpereaude!" oraziano come dell’#illuminismo kantiano) del suo "fondatore" (#COPERNICO, #DARWIN, e #FREUD): non riesce ad "#apriregliocchi" su una vera e propria "seconda" #rivoluzionecopernicana in progress e continua ad agitare "la_can_na" per l’aria - almeno dal 1989, dalla morte contemporanea di #CesareMusatti e di #ElvioFachinelli.
MEMORIA E STORIA: L’ITALIA, IL VECCHIO E NUOVO #FASCISMO, E "LA FRECCIA FERMA". La lezione sorprendente e preveggente di Elvio Fachinelli.
ARCHEOLOGIA, #STORIAELETTERATURA, E "DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (1929): "RIVEDERE IL SOLE E LE ALTRE STELLE" E’ POSSIBILE. "L’#Interpretazione dei #Sogni" (1899) ha il suo legame con l’#Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo") di #Virgilio e "L’uomo Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della "Divina Commedia" (Pg. II, 46-48) di #DanteAlighieri.
NOTA:
PSICOANALISI E #SOCIETA’: "TENTATIVI DI ANNULLARE IL #TEMPO" E "#COSTRUZIONI NELL’ #ANALISI" ...
Una breve nota a margine di un intervento di Sergio Benvenuto ("Anti-Deleuze", "Le parole e le cose", 29 aprile 2024).
IL TITOLO DEL XXI CONGRESSO NAZIONALE DELLA Società Psicoanalitica Italiana (Roma, 24-25-26 MAGGIO 2024) E’ “PSICHE E POLIS”. Incapaci di riuscire ad “aprire gli occhi” fuori dalla famosa “caverna” e guardare il “mondo” al di là della luce “del sapere del “Maestro di color che sanno”, del sole e delle altre stelle del cielo aristotelico, è più che “verosimile la tesi promossa da George #Lakoff (in #Moral #Politics): che i grandi conflitti politici, quelli che portano anche a distruzioni e miserie immani, sono una proiezione espansiva, cosmica, delle nostre primitive relazioni con mamma, papà, la balia, la zia... In analisi, emerge la straordinaria pregnanza del Piccolo Mondo Antico”. (cfr. S. Benvenuto, "Anti-Deleuze", cit.).
"ANTI-EDIPO": "[...] Il primato dei crucci privati mi ha certamente colpito ma non sorpreso. Perché non ho mai creduto alla predicazione di #Deleuze e #Guattari. Come è noto, costoro rimproveravano alla psicoanalisi soprattutto freudiana di voler “familiizzare” tutto, di ridurre tutti i conflitti detti psichici a storie di mamma, papà, inauspicato fratellino, toccamenti di pisellino o patatina tra bambini... Mentre, altroché, i veri problemi inconsci sono cose serie, politiche, lotta di classe, rivoluzione degli oppressi, ecc. Gli schizofrenici, in particolare, vibrano per le sorti drammatiche del mondo. [...]" (Benvenuto, cit.).
"LA #FRECCIA #FERMA". A quanto pare, l’evidenza appare al massimo del suo livello: il tempo si è fermato! A questo punto, a che vale chiedersi ”se certi colleghi possano portarmi esperienze ben diverse”, quando “La freccia [è] ferma” (E. Fachinelli, 1979), per quanto qualche “vecchia #talpa” possa essere ancora benvenuta nella sua volontà di scavare, può mai contribuire a trovare la via d’uscita? Così non si butta la "Psiche" del #Bambino ("Edipo") e l’acqua sporca della Città di #Tebe?, della "Polis" t(al)ebana?! Boh e bah?!
PIANETA TERRA (#EARTHRISE). Individuo ("Psiche") e Società ("Polis"): una relazione chiasmatica aperta alla luce del Sole copernicano (e galileiano e kantiano)! Nel 1989, il tema del 36º congresso internazionale dell’ International Psychoanalytical Association (IPA), tenutosi a Roma (con #Musatti, morto il #21marzo 1989, e #Fachinelli, morto il 21 dicembre 1989) era quello dell’#oikos, del "terreno comune" in psicoanalisi - e non solo!
Nota:
Telegramma di Freud alla figlia Anna in Ialia (24 aprile 1927): "𝗟’𝗲𝘀𝘀𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗼 𝘀𝗽𝗶𝗿𝗶𝘁𝗼 𝗲̀ 𝗶𝗻𝗻𝗮𝗻𝘇𝗶𝘁𝘂𝘁𝘁𝗼 𝗹𝗮 𝗹𝗶𝗯𝗲𝗿𝘁𝗮̀, 𝗰𝗵𝗲 𝗼𝗿𝗮 𝗲̀ 𝗶𝗻 𝗽𝗲𝗿𝗶𝗰𝗼𝗹𝗼 𝗲 𝗰𝗵𝗲 𝘀𝗶𝗮𝗺𝗼 𝘁𝗲𝗻𝘂𝘁𝗶 𝗮 𝗽𝗿𝗼𝘁𝗲𝗴𝗴𝗲𝗿𝗲 (...)". *
𝗕𝘂𝗼𝗻𝗮 𝗙𝗲𝘀𝘁𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗟𝗶𝗯𝗲𝗿𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲! (Anna Cordioli - 25 aprile 2024)
CON #KANT E #FREUD, #OLTRE. "UNA SCELTA DECISIVA PER L’INDIVIDUO E PER LA SPECIE". Un nuovo #paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO #FACHINELLI. Antropologia, psicoanalisi, e #critica della #ragione hegeliana (e lacaniana).
Una nota a margine del lavoro di Pietro Barbetta: *
Brillante breve saggio sulla storica figura della cultura psicoanalitica e filosofica italiana, "Elvio Fachinelli - Psychoanalysis of Dissension in Italy" ("Qeios", 24 aprile 2024): pur partendo dall’importante #caso dell’#uomo con il #magnetofono (cfr. J.-J. #Abrahams, "L’uomo col magnetofono: dramma in un atto con grida d’aiuto di uno psicoanalista", con note di J.-P. #Sartre, J.-B #Pontalis, B. #Pingaud e E. #Fachinelli, edizioni L’erba voglio, Milano 1977), seguendo il filo di una obsoleta #storiografia freudiana (e fachinelliana), a mio parere, si perde l’equilibrio e ne esce una #visione della ricerca fachinelliana del tutto riduttiva, schiacciata nella valorizzazione pure importante dell’indicazioni di Sándor #Ferenczi.
Sul tema, mi sia lecito, si cfr. il capitolo intitolato "Il punto di svolta. L’indicazione di Fachinelli" all’interno di un mio "vecchio" lavoro, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica" (Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 138-161): "Con #Freud, #oltre - in una nuova direzione e in modo nuovo: contro le sfingi e contro l’imbalsamazione degli uomini come delle teorie".
DA RICORDARE: "L’#Interpretazione dei #Sogni" (1899) ha il suo legame con l’#Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo") di #Virgilio e "L’uomo Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della #DivinaCommedia (Pg. II, 46-48) di #DanteAlighieri.
Note:
L’ipotesi della distruzione in Sigmund Freud
di Elvio Fachinelli ("Il Corpo", 1, marzo 1965).*
"[...] Si pensi al programma ambizioso iscritto sul frontespizio della Interpretazione dei sogni: Acheronta movebo; trent’anni dopo, nelle ultime pagine de Il disagio nella civiltà, la mantenuta coerenza del proposito appare velata d’amarezza: "M’inchino al rimprovero... di non saper recare alcuna consolazione."Né disperazione, è chiaro; ma piuttosto la consapevolezza del profilarsi - al limite di separazione fra ciò che siamo e il futuro visibile dell’utopia - di una scelta decisiva per l’individuo e per la specie" (* ).
* Cfr. AA, VV., "La negazione freudiana", "Nuova Corrente", 61/62, 1973, 159-171; poi, in E. Fachinelli, "Il bambino dalle uova d’oro", Milano, Feltrinelli 1974, pp. 13-29).
Anniversario.
Kant: tre secoli sull’abisso della filosofia
Il 22 aprile del 1724 nasceva il filosofo di Königsberg. Un ospite scomodo e oggi purtroppo inascoltato: basti pensare alla riflessione sulla pace dal forte tono evangelico
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, lunedì 22 aprile 2024)
La “rivoluzione copernicana” che Immanuel Kant (di cui il 22 aprile ricordiamo i trecento anni dalla nascita) intendeva attuare col suo progetto speculativo non poteva non interpellare la teologia e sollecitarla in rapporto alle grandi tematiche che il filosofo di Königsberg ha affrontato nelle tre critiche e nelle opere di filosofia della religione. In realtà, Kant è un ospite scomodo per il pensiero cattolico e per la teologia in particolare, tanto che l’apologetica neoscolastica ebbe a coniare la formula del “venenum kantianum”, dal quale cercava di tenere lontane le giovani menti di quanti venivano introdotti agli studi teologici.
La stessa apologetica si incaricava altresì di annoverare fra i pensatori poco affidabili, se non addirittura nocivi, colui che Bertrando Spaventa prima e la critica neoidealista poi avevano denominato il “Kant italiano”: il beato Antonio Rosmini. Questi in età giovanile, aveva letto le opere kantiane in una edizione latina (Lipsia 1816) e sul frontespizio aveva scritto di suo pugno la lapidaria espressione “vorago orribilis!”.
Prudenza speculativa suggerirebbe di tenersi a distanza dalla voragine kantiana, invece quanti, a partire dal Roveretano, l’hanno affrontata non senza spirito critico, ma anche senza pregiudiziali aprioristiche, insegnano a noi tutti che tale incontro può, a lungo andare, risultare catartico per il pensiero credente e la stessa teologia. Allorché, infatti, si riemerge dall’abisso, innanzitutto si può scoprire un pensatore molto diverso da quello che la manualistica apologetica tende, ancora oggi a proporre. Colui che ha indicato nell’illuminismo un processo attraverso il quale il mondo e l’uomo raggiungono lo stato adulto, aveva, in diverse occasioni, pensato i limiti della pura ragione persino in rapporto alla conoscenza della natura delle cose (= noumeno) e, quanto al problema dell’esistenza di Dio, si era fatto carico di smascherare i “paralogismi” caratterizzanti i diversi tentativi di dimostrazione, finendo con l’assumere una sorta di prospettiva apofatica, non lontana da quanto Tommaso d’Aquino, nel famoso quaresimale del 1273 aveva segnalato, dicendo: «La nostra mente è tanto debole che mai alcun filosofo è riuscito a sondare fino in fondo la natura di una semplice mosca».
Certo tale apofatismo non potrà essere condiviso da esponenti del neotomismo che si incaricarono di contrastare i tentativi, peraltro proficui, di adottare il metodo trascendentale in teologia messi in atto, ad esempio, da Joseph Maréchal (contro cui si scagliò Réginald Garrigou-Lagrange) e da Karl Rahner (contro la cui “svolta antropologica” lanciò i suoi strali Cornelio Fabro). Eppure, il tentativo di padre Maréchal di pensare un “tomismo trascendentale”, capace di attualizzare il pensiero dell’Aquinate, proprio nel confronto con quello kantiano ha certamente avuto il grande merito di rivitalizzare la lezione tommasiana. I cinque cahiers, sul punto di partenza della metafisica, editi a Bruges-Lovanio fra il 1922 e il 1947 costituiscono il grembo da cui muovono il modello antropologico-trascendentale di Karl Rahner e quello metodologico-trascendentale di Bernard Lonergan. Rimaniamo così nell’ambito della Compagnia di Gesù e dei grandi teologi che l’ordine ignaziano ha consegnato al Novecento.
Le grandi questioni attraverso cui orientarsi nel pensiero kantiano: che cosa posso conoscere? Che cosa devo fare? Che cosa posso sperare? Chi è l’uomo? entrano a pieno titolo nel sapere teologico e contribuiscono ad aprirlo alla modernità, pur nella consapevolezza delle sue criticità. Un aspetto particolarmente intrigante della riflessione di Kant riguarda il terribile problema del male radicale e del suo senso. Da tale questione prende le mosse La religione nei limiti della semplice ragione (1793-94), preceduta dal testo Sull’insuccesso di ogni saggio filosofico di teodicea (1791). il Kant che da un lato si misura con il tentativo leibniziano e dall’altro con la tragedia del sisma di Lisbona, che aveva suggerito l’irridente satira voltairiana verso il migliore dei mondi possibili, imposta non soltanto la propria riflessione sulla teodicea, ma oseremmo dire la propria “filosofia della religione” a partire dal “male radicale”, sviluppandola nei termini dell’antagonismo con il principio del bene, la cui vittoria non solo auspica, ma ritiene possibile, per il tramite dell’impegno morale dell’uomo.
Affermando l’impossibilità di ogni teodicea razionale (o dottrinale), Kant rimanda di fatto alla necessità di postularne almeno i principi, allorché il discorso si sposta dal piano puramente teoretico della ragion pura a quello dell’etica e quindi della ragion pratica. Ritenere, il divieto kantiano, interpretandolo nei termini scettici di una radicale chiusura al soprannaturale e alla trascendenza, aprirebbe le porte al nichilismo, ossia farebbe sì che l’itinerario filosofico del pensatore tedesco si affacci su quella orribile voragine, che il Roveretano aveva intravisto, e che - secondo un suggestivo passaggio heideggeriano - Kant stesso avrebbe percepito, ritraendosi inorridito dal compiere l’ultimo passo cui l’avrebbe condotto l’esercizio dell’immaginazione trascendentale: l’abisso del nulla e del non senso nel quale rischia di soccombere (e del quale oggi spesso si nutre) ogni pensiero che non tenga conto, oltre che delle proprie immense potenzialità, anche dei propri limiti o confini.
Ecco come Kant esprime l’invalicabilità del limite: «[...] solo colui che si spinge sino alla conoscenza del mondo soprasensibile (intelligibile) e a capire il modo in cui sta a fondamento del mondo sensibile, giunge però a comprenderla. Solo su questa conoscenza si può fondare la prova della saggezza morale del Creatore nel mondo sensibile, poiché quest’ultimo ci presenta soltanto l’apparenza di quello soprasensibile: ma ad essa nessun mortale può giungere ». Sarà necessario il “salto” della fede perché sia superato il fossato orrendo e ci raggiunga la comprensione del senso del dolore innocente, di cui Giobbe, con la sua teodicea apofatica, è figura emblematica e decisiva (per Kant). «Giobbe parla come pensa e secondo i sentimenti che prova e che ogni altro uomo al suo posto proverebbe. I suoi amici invece parlano come se segretamente fossero uditi da quell’Onnipotente, la cui causa essi giudicano, e come se stesse loro a cuore più il ricevere il favore di Dio per il loro giudizio che non la verità. Questa loro perfidia, di affermare solo per l’apparenza cose che essi debbono confessare che non hanno comprese e di simulare una convinzione che non hanno, urta contro la franchezza di Giobbe così lontana dall’adulazione, che sebbene sia al limite dell’arroganza, finisce con il tornare a suo vantaggio.
Egli dice: «Volete forse difendere Dio ingiustamente? Volete far parzialità per Lui? Volete parlare per Lui? Egli vi punirà se in segreto farete parzialità! Nessun ipocrita verrà al suo cospetto! ». La conclusione della storia conferma effettivamente queste ultime parole. Infatti, Dio apprezza Giobbe e gli pone di fronte agli occhi la saggezza della sua creazione, soprattutto nell’aspetto per cui essa è insondabile ». Torniamo così alla prospettiva apofatica del pensiero kantiano. Certo non sappiamo se e quanto i modelli teologici sopra evocati e che Kant ha senz’altro ispirato possano reggere, data la loro tendenza all’antropocentrismo, all’impatto con l’antropocene oggi dominante. Di qui l’inattualità del pensiero kantiano che si mostra altresì a partire dall’inascoltato testo
Per la pace perpetua (1795), di cui invece avremmo dovuto fare tesoro e a cui la teologia, che si arrampica sugli specchi per giustificare i conflitti armati, dovrebbe guardare: «Gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono con il tempo scomparire del tutto» e «Non devono essere fatti debiti pubblici in vista di conflitti esterni dello Stato»: ideali più che teologici, che oserei chiamare semplicemente evangelici, oltre che razionali.
ARTE E STORIOGRAFIA: "IL POLITTICO DELL’AGNELLO MISTICO", UN MANIFESTO DELLA TEOLOGIA-POLITICA DEL CATTOLICESIMO EUROPEO.
"Il Polittico dell’Agnello Mistico, o Polittico di #Gand, è un’opera monumentale di Jan van Eyck (e del misterioso Hubert van Eyck), dipinta tra il 1426 e il 1432 per la cattedrale di San Bavone a Gand, dove si trova tutt’oggi. Si tratta di un polittico apribile composto da dodici pannelli di legno di quercia, otto dei quali sono dipinti anche sul lato posteriore, in maniera da essere visibili quando il polittico è chiuso. La tecnica usata è la pittura a olio e le misure totali sono 375x258 cm da aperto. [...]" (https://it.wikipedia.org/wiki/Polittico_dell%27Agnello_Mistico ):
Per una contestualizzazione di questo straordinario "testo", forse, è proprio necessario ri-#leggere il lavoro di Johan #Huizinga, "L’autunno del Medioevo" (Sansoni Editore, I ed. it. 1940): "Il desiderio di conoscere - egli scrive nella "Prefazione alla prima edizione dell’opera" del 1919 - un po’ meglio l’arte dei van Eyck e dei loro successori, in stretto rapporto colla vita di quel tempo, m’indusse a scrivere questo libro". Su quanto sia importante il risultato di tale sforzo, è bene ricordare gli anni della metà del Quattrocento con le sue tensioni riformistiche di tipo teologico-politico all’interno della Chiesa e i crescenti attacchi del mondo musulmano: del 1453 è la caduta di #Costantinopoli).
CORPO MISTICO DI #CRISTO. PER COGLIERE IL SENSO SIMBOLICO DEL #SACRIFICIO DELL’«AGNELLO MISTICO», occorre richiamare il tema (e il problema) delle #indulgenze (che darà il via alla #RiformaProtestante), e chiarire, con lo stesso Huizinga, "la dottrina del «thesaurus ecclesiae» o tesoro delle opere superogatorie di Cristo e dei santi. L’idea di tale tesoro, di cui è partecipe ogni credente, come membro del corpo mistico di Cristo, cioè della Chiesa, è molto antica, ma la dottrina che tali buone opere costituiscano una riserva inesauribile, che può essere distribuita dalla Chiesa e più precisamente dal papa, fa la sua comparsa solo nel secolo XIII. [...]. La dottrina si diffuse non senza opposizioni, finché trovò la sua perfetta enunciazione ed illustrazione nella bolla papale «Unigenitus» di Clemente VI nel 1343. In essa il tesoro è considerato come un capitale, che Cristo affidò a S. Pietro e ai suoi discepoli [...]".
NOTE:
"ESSERE, O NON ESSERE" (#SHAKESPEARE): "CHE VUOL DIRE #LEGGEMORALE IN NOI #PROFESSORE?", OGGI (#KANT2024)
ILLUMINISMO, #ILLUMINAZIONE, E "#SAPEREAUDE!" (#KANT): UNA RISPOSTA ALLA #DOMANDA.
Riconosciuta gratitudine per l’attenzione e per l’intervento, che cosa rispondere (in breve) a chi ha posto la #questione e desidera sapere?
Innanzitutto, che Il "professore" è il "tu" stesso con "te" stesso; secondo, che il sapere di non sapere e il #decidere con "te" stesso se si vuole sapere ("essere") o non sapere ("non essere") è già un primo passo, quello decisivo e fondamentale, per uscire dallo "stato di #minorità" (Kant, 1784); e, terzo, che cominciare a #dialogare con "#te" stesso come un #altro, apre al grande "aut aut"! "Che fare?" (Lenin), "Che cosa devo fare?" (Kant). Nel #ribaltamento e nel #riconoscimento di "sé" come un "altro" (Paul #Ricoeur) prende il via la "#fenomenologia dello #spirito" (alla #Hegel) o la #divinacommedia (alla #DanteAlighieri): "To be, or not to be, that is the question" (#Shakespeare, "Amleto", III.1). Uscire dall’inferno, dal #letargo (Inf. XXXIV, 94) è possibile: "#Amore è più forte di #Morte" (Ct. 8.6, trad. di Giovanni Garbini). #ESPERIENZA E CRITICA DELLA FACOLTA’ DI #GIUDIZIO. "Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così succede. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, è così accade. Ipocriti, sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?" (Lc. 12, 56-57).
Note:
IL CRESCERE DEL "DISAGIO DELLA CIVILTÀ", IL PROBLEMA DEL "LATO MATERNO" NELL’EDIPICO CAMMINO DI #SIGMUNDFREUD, E L’INDICAZIONE DI #DANTEALIGHIERI.
***Tracce per una #svolta_antropologica...
La considerazione di Freud del 1917, relativa al fatto che, “Se un uomo è stato il beniamino incontestato della madre, conserva poi per tutta la vita quel sentire da #conquistatore, quella fiducia nel successo che non di rado trascina davvero il successo con sé" (cfr. S. Freud “«Un ricordo d’infanzia» tratto da «Poesia e verità» di Goethe”, OSF 9, Torino 1977), ha una potente carica ’radioattiva’ di teoria.
LA QUESTIONE DELL’#EDIPOCOMPLETO: SOFOCLE ("EDIPO RE") E FREUD ("L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI"):
IL LEGAME "PARADIGMATICO" DI #GIOCASTA, MADRE E REGINA, ED #EDIPO, FIGLIO E PRINCIPE), CHE REGNA ANCORA "COME IN TERRA COSI’ IN CIELO", PENSATO COERENTEMENTE, COME FREUD HA CERCATO DI FARE, METTE IN EVIDENZA IL DOMINIO "NASCOSTO" DI #MAMMONA, L’ ALLEANZA "MADRE-FIGLIO", SU TUTTO IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE" E RIPRODUZIONE, CHE ASSICURA IL COMANDO SUL CICLICO RIPETERSI DELLE #STAGIONI E DELLE #GENERAZIONI, COME HA SANCITO IL TRAGICO "#COMPROMESSO OLIMPICO" TRA #DEMETRA (VITA) E #PLUTONE (MORTE) PROPRIO PER ASSICURARE LA VITA A #PERSEFONE STESSA, ALLA #MADRETERRA, E ... AGLI STESSI DEI E ALLE STESSE DEE DELL’ #OLIMPO - PER "SEMPRE"!?
#pasqua2024 #buonapasqua #Dantedì #25marzo #31marzo ...
LA "STORIA" DEL "CAPRO ESPIATORIO" (RENE’ GIRARD): COME UN ARIETE, UN MONTONE, DIVENNE UN "CAPRONE".
PRIMAVERA2024, #21MARZO: UNA "NOTA" SULLE "COSE NASCOSTE SIN DALL’ORIGINE DELLA FONDAZIONE DEL MONDO" (Mt. 13, 35).
Ariete ♈️: #25marzo (#Dantedì). Considerando (e accogliendo) astrologicamente che da #oggi "il segno dell’Ariete, simbolo per eccellenza dell’#Equinozio di Primavera", è il #segno "che ci accompagnerà fino al 20 aprile, e che la sua "figura mitologica si collega al Dio primaverile che nelle varie culture poteva rappresentare colui che apre l’anno, colui che abita il bosco sacro, il guardiano del Ponte #Arcobaleno, colui che si sacrifica, ecc." e, ancora, che l’ Ariete "è un segno cardinale di fuoco, governato da #Marte e opposto al segno della #Bilancia" (#LeaCimino, "#Calendariopagano"), forse, è opportuno ricordare che l’Ariete ė una delle figure centrali della storia dell’immaginario occidentale, decisiva per la comprensione stessa non solo dell’importanza dell’ impresa di #Giasone alla ricerca del "Vello d’Oro", come della fuga di #Ulisse dall’antro di #Polifemo, ma anche e soprattutto della "Divina #Commedia" di #DanteAlighieri (e della stessa possibilità di uscita dall’orizzonte della tragedia e dall’inferno, a tutti i livelli).
ARCHEOLOGIA FILOLOGICA A E ANTROPOLOGICA. BENCHE’ SULLA IMPORTANZA DELLA FIGURA DELL’ARIETE SI SIA IN UNA CONFUSIONE "BESTIALE", E SI FACCIA FINTA DI NULLA, FORSE, VALE LA PENA PRENDERE ATTO DI UNA ELOQUENTE "RISPOSTA" DELL’ANTROPOLOGO RENE’ GIRARD.
Per Girard (ma così per tutte le storiche Accademie della tradizione culturale europea), un capro, un "capro espiatorio», non è altro che l’«#agnello di Dio», il #Figlio del "Padre Nostro":
"DISAGIO DELLA #CIVILTÀ" (S. FREUD, 1929). René Girard confonde ’ciecamente’ i livelli e nega l’immortale acquisizione di Sigmund Freud. L’ "edipo completo" permette di capire la rivalità dei #fratelli (e delle #sorelle) e lo stesso messaggio evangelico, non viceversa. L’incomprensione della lezione di Freud spinge ad una cieca apologia del cattolicesimo costantiniano (#Nicea 325 - 2025): il #cristianesimo non è un cattolicismo... e in #Principio non c’era un #Logo (altrimenti, si cade e si ricade sempre e ancora tra le "braccia" del ’tragico’ #caprone)!
"LO #ZODIACO DELLA #VITA" E LA #FILOLOGIA DEL #RINASCIMENTO: NELL’ARTISTICO #SPAZIOTEMPO DI #MICHELANGELOBUONARROTI, UNA "RILETTURA" DELLE FIGURE DI "MARIA" E "GIUSEPPE" E DELLA LORO #RELAZIONE CON LE "#SIBILLE" E I "#PROFETI" DELLA "#SACRAFAMIGLIA".
DAL #LAOCOONTE (ROMA, 1506) AL #TONDODONI (FIRENZE, 1506-1508). NELLA "STORICA" LEZIONE ANTROPOLOGICA DELLA #CORNICE LIGNEA DEL #TONDODONI (E NELLA "NARRAZIONE" DELLA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA), CON DUE PROFETI E #DUE SIBILLE, #MICHELANGELO "INDICA" LA PARADIGMATICA #NASCITA "ETERNA" DEL #FIGLIO DI "MARIA E GIUSEPPE" NEL TEMPO.
*
NOTE:
STORIA E IMMAGINARIO: GUGLIELMO IL CONQUISTATORE, NAPOLEONE (E IL #SOGNO DI #FREUD, ARRIVANDO IN #INGHILTERRA, DI SBARCARE A #PEVENSEY, 1938).
Arazzo di #Bayeux: "[...] L’arazzo di Bayeux ha un valore documentario inestimabile per la conoscenza della Normandia e dell’Inghilterra dell’XI secolo. Costituito di varie pezze per una lunghezza totale di 68,30 metri, sino alla fine del XVIII secolo era conservato nella collezione della Cattedrale di Bayeux, mentre ora è esposto al pubblico nel Centre Guillaume-le-Conquérant di Bayeux.
Nel 2007 l’#UNESCO lo ha inserito nel Registro della Memoria del mondo. [...].
Progettando l’invasione dell’Inghilterra, Napoleone lo volle a Parigi a fini di propaganda nel novembre 1803 [...].
il 6 dicembre 1803, nel pieno dei preparativi per l’invasione, su #Dover era apparso un luminoso corpo celeste (probabilmente un bolide) con traiettoria sud-nord, che consentiva paragoni benauguranti, ai fini della spedizione, con la #cometa apparsa nel 1066. L’arazzo tornò a Bayeux nel febbraio 1804, ormai noto a livello nazionale ed internazionale [...]"(https://it.wikipedia.org/wiki/Arazzo_di_Bayeux).
PSICOANALISI E #CRISTIANESIMO: #PAOLINISMO ("#ANDROLOGIA", "#VIROLOGIA", DEL "#CORPOMISTICO"). Freud scrive nell’estate-autunno del 1929 “Il disagio della civiltà”, in cui discute del senso del comandamento biblico “amerai il prossimo tuo come te stesso” ... e comprende anche, come precisa, che "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori [...]" ("Disagio della civiltà", 1929), ma non riesce ad andare oltre l’orizzonte della tragedia della polis tebana (e della biblica "caduta").
"KANT, FREUD, E LA BANALITA’ DEL MALE". Avendo mosso l’#Acheronte (con l’aiuto di Virgilio), Sigmund Freud riesce sì a venir fuori dall’inferno ma, sognando di essere Guglielmo il Conquistatore, a raggiungere Londra nel 1938 e a non sciogliere il #nodo della tradizione mosaica, cristiana, e romana, e, cum grano salis, a essere trascinato fino alla fine dalla corrente "acherontica" della tradizione faraonica, paolina, e costantiniana (#Nicea 325-2025):
PENELOPE- IDEA E COMMEDIA: FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA. Con lo spirito dell’opera “The Penelopiad” di Margaret Atwood e della "Divina Commedia" di Dante Alighieri, un segnavia di uscita dall’orizzonte della tragedia...
#STORIAELETTERATURA. Data la immersione totale di tutta la cultura occidentale nell’immaginario dell’#Odissea, "étudier, très succinctement, la technique d’« écriture féminine » de Margaret Atwood, à travers son ouvrage «The Penelopiad» et plus précisément, à travers l’ironie dans son rapport aux «métamorphoses» apportées au texte de l’Odyssée d’Homère" (cfr. Rebecca Plewinski, "La technique d’«écriture féminine» de Margaret Atwood: l’exemple de The Penelopiad») che con mente "penelope-idea" sa catturare e aggiogare persone e popoli con il proprio "canto" e l’ esperienza tragica della sua "fenomenologia dello #spirito".
L’ALBA DELLA MERAVIGLIA ("Earthrise"). Per #Dante, con l’aiuto del "padre" #Virgilio ("Eneide") su sollecitazione della "#bella e beata" #madre Beatrice (sollecitata a sua volta da Lucia, inviata da Maria, madre di Gesù "Cristo"), la "folle impresa" di uscire dalla "selva oscura" e ritrovare la "diritta via", con il vecchio "Ulisse" e con la vecchia "Penelope" sulle proprie spalle, è possibile: è l’amore che muove il sole e le altre stelle.
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E "PACE PERPETUA" (#KANT2024):
A CHE #GIOGO GIOCHIAMO?! ANCORA ALLA "SPADA DI DAMOCLE"?!
RIPETIZIONE E DIFFERENZA: EUROPA 2024. Dopo millenni di #cosmoteandria, si ricorda ancora la lezione del vecchio dogmatico pro-ver-#dio "chi di spada ("gladio") ferisce, di spada ("gladio") perisce"?!
A quanto pare la filologia e la teologia-politica della #tragedia non sa nulla dell’#hamlet _ ica questione dell’#enigma (e della visione) del "#crepuscolo degli #idoli": «Come? L’uomo è soltanto un errore di Dio? O forse è Dio soltanto un errore dell’uomo?».
Nonostante la sollecitazione dell’ #EcceHomo (#Nietzsche, 1888) si continua a non aver il coraggio di fare buon uso della propria facoltà di giudizio ("#Sàpere aude!", #Koenigsberg 1784/ #Kaliningrad 2024) nulla del "buon messaggio" (Matteo 26,52) e, l’anno prossimo, ci si appresta a celebrare, l’imperatore cosmoteandrico, il figlio del dio Mammona, #Costantino (Nicea, 325-2025)?!
Non è forse meglio, per il #Dantedì, per il #25marzo, rileggere la "divina commedia", la fenomenologia dello spirito dei due Soli e cercare di uscire dall’orizzonte della tragica #caduta nel luciferino #buconero?!
#QUESTIONE ANTROPOLOGICA (#KANT2024), #ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E #FILOLOGIA COSMOTEANDRICA: IL #TRAMONTO DEGLI #ORACOLI, IL #CREPUSCOLO DEGLI #IDOLI *, E LA #FINE DELL’#ANDROCENTRISMO PLATONICO-HEGELIANO (#SAPEREAUDE!).
"IL #TRAMONTO DEGLI ORACOLI": IL GRANDE #PAN E’ MORTO (#PLUTARCO, #Cheronea, 46/48 d.C. - #Delfi, 125/127 d.C.):
"«Quanto alla morte di questi esseri, io ho sentito la storia di un uomo che non era né uno sciocco né un imbroglione. Alcuni di voi hanno ascoltato il retore Emiliano, che era figlio di Epiterse, mio concittadino e maestro di grammatica. Proprio lui mi raccontò che una volta si era imbarcato per l’Italia su un mercantile con molti passeggeri a bordo: alla sera, quando già si trovavano presso le isole Echinadi, il vento cadde di colpo, e la nave fu trasportata dalla corrente fino a Paxo [isola di fronte all’Epiro, a sud di Corfù ]. Quasi tutti i passeggeri erano svegli, e molti, terminata la cena, stavano ancora bevendo.
All’improvviso si sentì una voce dall’isola di Paxo, come di uno che gridasse il nome di Tamo. Tutti restarono sbalorditi. Questo Tamo era un pilota egiziano, ma quasi nessuno dei passeggeri lo conosceva per nome. Due volte la voce dell’uomo lo chiamò, e lui stava zitto. Alla terza rispose, e allora quello con tono più alto disse: “Quando sarai a Palode [porto della città di Butroto in Epiro] , annuncia che il grande Pan è morto”.
«A queste parole, diceva Epiterse, tutti restarono sbalorditi, e si domandavano se fosse meglio eseguire l’ordine oppure non darsene cura. Allora Tamo decise che, se ci fosse stato vento, avrebbero costeggiato la riva in silenzio; se invece giunti là avessero trovato bonaccia, avrebbe riferito la notizia. Quando infinearrivarono a Palode, non un soffio di vento, non un’onda. Allora Tamo, sulla poppa, guardò verso terra e gridò: “Il grande Pan è morto”. Non aveva quasi finito di dirlo, che subito si levò un gran gemito, non di una persona sola, ma di tante, pieno di stupore. [...]». (Plutarco, "Il tramonto degli oracoli", in "Dialoghi delfici", trad. di M. Cavalli, Adelphi, Milano 1995, pp. 82-83).
* "Il crepuscolo degli idoli" (e la fine dell’#androcentrismo): «Come? L’uomo è soltanto un errore di Dio? O forse è Dio soltanto un errore dell’uomo?» (Nietzsche).
CITTADINANZA ATTIVA, FACOLTA’ DI GIUDIZIO, E ANTROPOLOGIA: #SAPEREAUDE! (#KANT2024).
LA #LINGUA (LA COSTITUZIONE) BATTE DOVE I DENTI (I PARTITI) DOLGONO. *
Tutte le articolazioni del corpomistico della democratica società italiana scricchiolano alla grande, a tutti i livelli, e da tempo: e la radice è non solo locale, ma globale (antropologica, teologica, e cosmologica)!
*
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, "RELIGIONE DEL DOVERE", E "DIVINA COMMEDIA":
BENEDETTO CROCE E LA PUNTA FILOSOFICA DI UN ICEBERG COSMOTEANDRICO.
Sul "lascito morale di Benedetto Croce", forse, è opportuno ricordare storiograficamente (filologicamente e antropologicamente) che "la lingua batte dove il dente duole": può essere condivisibile, oggi, la considerazione che “ciò che si richiede e che si ubbidisca ad una necessità morale. La quale comanda che si attenda con ogni rischio, a tutelare gli umani valori e le umane virtù, il rispetto della personalità, il dir no al male e sì al bene, ciò che si chiama insomma il culto della libertà; la quale è il principio direttivo a cui sempre deve si deve far ricorso. Quale che sia lo schema di ciò verso cui il mondo va, quello schema sarà riempito da uomini e sarà reale solo nei pensieri, nei sentimenti e negli atti degli uomini, e avrà quella realtà che essi gli daranno, e tanto migliore quanto migliori quegli uomini. Non vi date dunque pensiero di dove vada il mondo, ma dove bisogna che andiate voi, per non calpestare cinicamente la vostra coscienza, per non vergognarvi di voi stessi” (cfr. Tito Lucrezio Rizzo, "Il lascito morale di Benedetto Croce", L’Opinione delle Libertà, 08 febbraio 2024)?!
All’interno dell’attuale presente storico (dell’Europa del 2024), proprio per non vergognarsi di sé e ri-accogliere come indicazione antropologica piena l’affermazione che «L’uomo morale - affermerà nuovamente il #Croce - è il "Vir bonus agendi peritus", chiamato ad operare nel quotidiano sorretto da una retta #coscienza che ne ispirava l’agire concreto, perseguendo i fini di utilità generale da raggiungere e di cui farsi strumento» (T. L. Rizzo, cit.), non è , forse, necessario re-interrogarsi e re-interpretare il rapporto tra la tradizione greco-romana e la tradizione cristiana (con spirito critico, con le famose "virgolette" crociane, del saggio del 1942), proprio a partire da questa "ovvia" (ma indebita) generalizzazione, in cui l’uomo (#Vir) vale immediatamente come l’Uomo (#Homo), come il #genereumano nella sua totalità (cioè, per l’#uomo e per la #donna, per "Adamo ed Eva", e per "Giuseppe e Maria")?
Non è bene riprendere il filo almeno dalla "Divina Commedia" e reinterrogarsi non solo sul significato della lezione di #Beatrice a #Dante sul senso di quel "sarai meco sanza fine cive / di quella #Roma onde #Cristo è romano" (Purg. XXXII, 101-102), ma anche sul "Tu devi" kantiano, sul problema dell’imperativo categorico di Immanuel Kant, se si vuole vivere secondo Coscienza, cioè secondo la Costituzione della Repubblica italiana?
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA, ARCHEOLOGIA, E #FILOLOGIA (PROTAGORA: "L’UOMO E’ LA #MISURA" ), FILOSOFIA TEOLOGIA E DEMIURGIA (PLATONE: #ZEUS, "IL DIO E’ LA MISURA"), E LA LOGICA DELLA COSMOTEANDRIA DELL’ #OCCIDENTE...
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA. Quando la filologia è in #letargo (Par. XXXIII, 94), perso il senso stesso del #principio antropologico e cosmologico di tutte le cose come di tutti gli esseri umani ("arché"), anche la possibilità filosofica di comprendere la semplice massima del sapiente #Pittaco di Mitilene viene meno:
quando "uno dei #due" dei componenti del "genere umano" assume il comando dell’uno e dell’#altro componente, mostra chiaramente la sua parzialità andrologica e androcentrica e, al contempo, permette di comprendere il trucco dell’operazione "zeus_ica" del demiurgo platonico e le radici stesse della teologia-politica costantiniana (Nicea 325) della in-segnatura rinascimenale della "Scuola di Atene" e del "Sapiente" di #Bovillus (1510).
L’EUROPA NEL "TEMPO FUORI DAI CARDINI":
SHAKESPEARE, CON IL ’MULINO’ DI "AMLETO" (1602), SOLLECITA A PORTARSI OLTRE "SCILLA E CARIDDI", OLTRE LA COSMOTEANDRIA CATTOLICA E PROTESTANTE.
UN’IPOTESI DI LAVORO PER USCIRE DAL #LETARGO (DANTE ALIGHIERI, PAR. XXXIII, 94) E PER MEGLIO RIFLETTERE SULLA QUESTIONE TEOLOGICO-POLITICA (ENRICO VIII, 1534) E ANTROPOLOGICA ALL’ORDINE DEL GIORNO DELL’EUROPA DEL SEICENTO (MA ANCORA IN PIEDI, SI PENSI A NICEA 2025) SEGNATA DAL CONFLITTO POLITICO-RELIGIOSO TRA SPAGNA E INGHILTERRA, FORSE, E’ OPPORTUNO NON DIMENTICARE LA LEZIONE DELLA "SORELLA" DELLO STESSO SHAKESPEARE, "JUDITH" (VIRGINIA WOOLF), E TENERE CONTO DELLO SPIRITO DI TERESA D’AVILA CHE SOFFIA FORTISSIMO NEL CAMPO CATTOLICO-SPAGNOLO E DEL "CORPO DI CRISTO" DELLA #REGINA E #PAPESSA, ELISABETTA I D’INGHILTERRA, CHE REGNA NEL CAMPO INGLESE E PROTESTANTE-ANGLICANO.
NOTE:
LA GRAVIDANZA DI ADAMO, IL "PARTO MASCHIO DEL TEMPO O LA GRANDE INSTAURAZIONE DELL’IMPERO DELL’UOMO SULL’UNIVERSO" (FRANCIS BACON / BACONE, 1602), E UNA #QUESTION ANTROPOLOGICO-POLITICA EPOCALE (SHAKESPEARE, #AMLETO, 1602): LA PUNTA DI UN ICEBERG.
Quanto emerge dalle cronache relative alla "gravidanza durante la #transizione" (cfr. Clemente Pistilli, "Gravidanza durante la transizione, i medici: “Marco è al 5° mese, rischi per lui e per il bambino”",
"La Repubblica, 19 gennaio 2024) è un evento, a mio parere, che mostra la punta di un iceberg gigantesco, che porta a galla i miti e i detriti di un #immaginario cosmo-te-andrico, biblico (da "#caduta") e platonico (da "#tragedia"), più che millenario, e sollecita a un immane e straordinario lavoro collettivo di presa di coscienza antropologica (se non si vuole andare a picco #titanic-amente): le sollecitazioni "cosmicomiche" (#Calvino) di #Dante Alighieri a uscire dal "letargo" (Par. XXXIII, 94) sono ancora del tutto ignorate!
Forse è proprio il tempo di riaprire la #Commedia e non rinchiuderla ancora nell’orizzonte del "Boccaccio" e del "Petrarca" ...
ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA) E FILOLOGIA. In principio era il Logos di Eraclito (non il "logo" androcentrico dell’Adamo di Paolo di Tarso: 1 Cor. 15, 45-47=C.E.I.]).
#21GENNAIO 2024.
Nota:
LA FILOSOFIA E LA "RISPOSTA" SU "CHE COSA E’ L’ ILLUMINISMO?", OGGI: IL "CORAGGIO DI ASSAGGIARE" ("Sàpere aude!")" DI KANT E L’ANALISI SU "L’UOMO E’ CIO’ CHE MANGIA" ("Der Mensch ist, was er ißt") DI FRIEDRICH GEDIKE, nella «Berlinische Monatsschrift» del 1784.
UN "INVITO A RIFLETTERE" SU UNA QUESTIONE DI SOSTANZA, PROPAGANDA (FEDE), FILOLOGIA, E "FACOLTA’ DI GIUDIZIO" (#KANT2024) E, INSIEME, AD ACCOGLIERE "L’AFFASCINANTE «SFIDA» AL PANETTONE LOMBARDO" (si cfr. Emiliano Antonino Morrone, "Federica Greco, l’orgoglio calabro e l’affascinante «sfida» al panettone lombardo", Corriere della Calabria, 19 gennaio 2024):
Per meglio accogliere la sollecitazione del giornalista Emiliano Antonino Morrone, e, possibilmente, riprendere il filo dall’amore (#charitas) di Gioacchino da Fiore (San Giovanni in Fiore) e dal coraggio di assaggiare ("#Sàpere aude") di Orazio (Venosa), mi sia lecito, ricordare alcuni contributi storiografici sul tema del cibo e della antropologia filosofica:
a) Ludwig Feuerbach, "L’uomo è coà che mangia", a c. di Franco Tomasoni, Morcelliana, Brescia 2015.
b) Ludwig Feuerbach, L’uomo è ciò che mangia, a c. di Andrea Tagliapietra, Boringhieri, Torino 2017.
c) Gianfranco Ravasi, "L’uomo è ciò che mangia", Famiglia Cristiana,18 maggio 2023.
"Sàpere aude!" (Kant, 1784). L’Illuminismo e il buon uso della propria intelligenza, della propria facoltà di giudizio, per uscire dallo "stato di minorità":
A)
ANDREA TAGLIAPIETRA, "La metafora gustosa. Feuerbach e la gastroteologia": "[...] Il detto italiano «parla come mangi», al di là dell’invettiva del luogo comune, rivela un fondo di verità difficilmente smentibile. La cultura umana si specchia, infatti, vuoi nelle parole del linguaggio che dalla bocca escono, vuoi in quegli alimenti e in quelle pietanze che nella bocca, invece, entrano.
Si inizia a intravedere, quindi, tutto lo spessore e la ricchezza che la frase di Feuerbach racchiude e che sta alla base del suo successo e della capacità di condensare molti motivi del pensiero del filosofo tedesco ben oltre l’immagine scolastica e polverosa dei manuali, che ne hanno fatto una sorta di mero raccordo della storia della filosofia fra Hegel e Marx. Del resto l’efficacia della massima appartiene già alla dimensione del significante e all’ambivalenza fonetica che ne fa oscillare il significato fra l’affermazione ontologica e la descrizione dell’azione di mangiare. Il gioco di parole Mensch ist, was er ißt è di fatto intraducibile nella nostra lingua, come anche nei principali idiomi europei correnti di cui abbiamo dato conto in apertura di questo saggio.
Traducendo «l’uomo è ciò che mangia», infatti, noi rendiamo il significato principale della «formula», ma non quello allusivo, veicolato non dal significato ma dal significante delle parole. Esso nasce dall’assonanza, nella lingua tedesca, fra ist (= «è», terza persona singolare dell’indicativo presente del verbo sein, «essere») e ißt, ossia isst con la «s» raddoppiata (= «mangia», analoga voce del verbo essen, «mangiare»).
Per dare un’idea di ciò che qui risulta intraducibile ci viene in soccorso la lingua latina che, in virtù di un gioco linguistico affine al tedesco e, anzi, ancora più sofisticato, dal momento che l’ambiguità non è solo fonetica ma anche grafica, ci permette di volgere la formula feuerbachiana in homo est quod est, dove il primo est è la terza persona singolare dell’indicativo presente del verbo essere, mentre il secondo est è la terza persona singolare del verbo edere, cioè «mangiare». In questo caso, l’ambiguità grafica consente di leggere la «formula» in perfetta specularità, per cui possiamo tradurre sia con «l’uomo è ciò che mangia» sia con «l’uomo mangia ciò che è».
Questi parallelismi linguistici avevano già una loro tradizione in cui forse Feuerbach, nelle sue ricerche intorno alla religione e al tema del sacrificio, può essersi imbattuto.
Nel 1784 Friedrich Gedike, un teologo protestante di simpatie illuministe che, proprio per queste ultime, era incorso nella censura prussiana, aveva scritto il breve articolo Su «mangia» ed «è». Un contributo alla spiegazione dell’origine del sacrificio, pubblicandolo nello stesso numero della «Berlinische Monatsschrift» che conteneva il saggio sull’Illuminismo di Moses Mendelssohn a cui rispose, com’è noto, quello celeberrimo di Kant.
Nel saggio Gedike paragonava la prospettiva ontologica dell’uomo civilizzato, condensata nella massima cartesiana per cui cogito ergo sum («penso dunque sono») e per la quale il pensiero fa da fondamento all’essere, alla condizione naturale dei nostri progenitori, per i quali valeva piuttosto il detto edo ergo sum («mangio dunque sono»). La frase, volta alla terza persona singolare, suona, in latino, est, ergo est, con una coincidenza tra l’essere e il mangiare che la lingua tedesca conserva nella somiglianza fonetica fra ißt e ist. È quindi in questa prospettiva naturalistica ed elementare, concludeva Gedike, che mostra lo stretto legame, suggerito anche dal linguaggio, tra l’idea dell’essere e quella del nutrimento, che dobbiamo comprendere illuministicamente l’origine e l’importanza religiosa dei sacrifici e del pasto sacrificale.
Comincia a risaltare, allora, l’assonanza decisiva della massima, il suo senso duplice, ambivalente e intraducibile che, mentre afferma che l’«uomo è ciò che mangia», ribadisce anche che l’«uomo è ciò che è», richiamando la citazione diretta e, quindi, sottilmente dissacrante, del famoso versetto del libro biblico dell’Esodo in cui l’Altissimo, il Dio degli ebrei e dei cristiani, nomina se stesso. Un passo che ha, nell’originale ebraico, ehyeh asher ehyeh, un significato puramente negativo e antidolatrico, suonando più o meno come «io sarò quel che sarò», ossia un rifiuto da parte del Signore di rispondere all’impertinente domanda di Mosè su quale fosse il Suo nome. Eppure, già la Septuaginta, la Bibbia greca, in età alessandrina, trasporta l’enigmatico versetto scritturistico nei termini del linguaggio ontologico dei filosofi ellenici (egó eimí ho on) e la Vulgata traduce in latino ego sum qui sum, espressione che verrà interpretata dalla tradizione della Chiesa prevalentemente come un’affermazione. Anzi, come la dichiarazione stessa del fondamento metafisico dell’esistenza: «io sono colui che è». Si tratta del Qui est che, secondo la Summa Teologiae di Tommaso d’Aquino, è il nome proprio che più si addice a Dio.
L’uomo, come la sua proiezione teologica alienata e fantasmatica, afferma dunque di essere ciò che è. Soltanto che, a differenza di Dio, ossia del desiderio che sublima se stesso nella vertigine dell’immaginazione, per essere ciò che è, l’uomo ha la necessità di mangiare, di nutrire il suo corpo, di misurarsi con la realtà della natura, con il bisogno e le difficoltà di soddisfarlo." (cfr. Ludwig Feuerbach, "L’uomo è ciò che mangia", di Andrea Tagliapietra, Boringhieri, Torino 2017, pp. 20-22. senza le note).
B) FRANCESCO TOMASONI, "Ludwig Feuerbach: l’uomo e la sua alimentazione":
"Nel 2015 si è svolto a Milano l’Expo, una manifestazione fieristica dal titolo “Nutrire il pianeta. Energia per la vita” che in 184 giorni e con 145 nazioni partecipanti, fra cui ovviamente il Brasile, ha avuto 21 milioni di visitatori. Sull’onda di questo evento è tornato di attualità il celebre motto di Feuerbach: «L’uomo è (ist) ciò che mangia (isst)». Nella lingua tedesca l’assonanza fra le terze persone del verbo essere e del verbo mangiare è evidente e suggerisce una stretta relazione fra essere e mangiare. Non a caso i critici dell’epoca vi videro un’espressione di rozzo materialismo, che poteva essere avvicinata alla frase di Karl Vogt: «I pensieri stanno press’a poco nel medesimo rapporto col cervello, come la bile al fegato o l’urina alle reni». Vogt era ben consapevole di usare un’espressione «in un certo senso rozza», ma intendeva dire che «tutte le attività psichiche» erano «solo funzioni della sostanza cerebrale».
Eppure l’assonanza fra essere e mangiare era già stata messa in rilievo più di sessant’anni prima da un teologo protestante di tendenze razionalistiche, Friedrich Gedike, in un articolo della prestigiosa rivista “Berlinische Monatsschrift”, in cui comparvero anche gli interventi di Kant, Mendelssohn e altri sul significato dell’illuminismo.
Già nel titolo [Friedrich Gedike, Über ißt und ist. Ein Beitrag zur Erklärung der Opfer, „Berlinische Monatsschrift“, Hrsg. F. Gedike u. J.E. Biester, Vierter Bd., Julius bis December 1784, pp. 175-180.] egli evidenziava l’assonanza e mostrava che, ancor più che nel tedesco, in latino e in greco i due verbi coincidevano per alcune forme della flessione. Non si trattava dunque di un caso, bensì dell’effetto di un processo naturale. Per i popoli primitivi i concetti astratti erano troppo ardui, perciò al loro posto subentravano riferimenti materiali. Così «per l’uomo rozzo e ancora del tutto sensuale il concetto di essere, nei tempi della prima origine delle lingue, era troppo sottile e remoto [...] al contrario il concetto del mangiare era certamente uno dei primi sviluppatisi in lui».
Poteva dunque argomentare nel modo seguente: mangia, dunque è (in latino: est, ergo est). La terza persona, nella quale la coincidenza era perfetta, rifletteva la mentalità primitiva secondo cui il soggetto osservava le cose fuori di sé, ma non era ancora giunto all’autocoscienza. L’identità fra essere e mangiare aveva anche indotto i primitivi a concludere che se gli dei esistevano, dovevano mangiare.
Da qui i banchetti sacrificali, in cui si invitavano le divinità a condividere la mensa con gli uomini. Quanto più però questi si convincevano della superiorità degli dei, tanto più offrivano loro cibi preziosi, addirittura carne umana. Secondo Gedike i sacrifici umani erano venuti non alle origini, bensì in un periodo «intermedio di civiltà». Solo il raggiungimento pieno dell’illuminazione (Aufklärung) e della civiltà aveva fatto percepire l’abominio di quelle pratiche. In antitesi all’identità fra essere e mangiare, Gedike ricordava l’affermazione di Cartesio: «cogito ergo sum». L’autocoscienza dell’uomo civile si fondava sull’identità fra essere e pensiero. Per il teologo dunque al materialismo del primitivo si contrapponeva il razionalismo o lo spiritualismo dell’uomo moderno.
Benché non esistano prove del fatto che Feuerbach abbia letto questo articolo, esso è utile per comprendere il suo distacco da Hegel e i suoi due interventi sull’alimentazione e sui sacrifici. Anch’egli nel suo periodo giovanile aveva sottoscritto la concezione cartesiana, secondo cui l’essenza umana era data dal pensiero o dall’autocoscienza. Poi però nei Principi della filosofia dell’avvenire aveva negato che il carattere distintivo dell’uomo risiedesse semplicemente in quelli. La sua essenza era una totalità che si rifletteva nel complesso della sua sensibilità. Non si trattava solo della capacità di sentire e percepire, bensì di tutta la relazione corporea con la natura. Anche lo stomaco umano era essenzialmente diverso da quello degli animali: «Dagli animali l’uomo non si distingue solo grazie al pensiero. Tutta la sua essenza costituisce piuttosto tale differenza [...] Anzi, persino lo stomaco dell’uomo, malgrado noi lo guardiamo dall’alto in basso con disprezzo non è un’essenza ferina, ma umana, perché è universale, perché non deve servirsi di un tipo determinato di alimenti. Proprio per questo l’uomo non è affetto da quel furore vorace (Freßbegierde) con cui l’animale si getta sulla preda».
L’universalità, che già nell’Essenza del cristianesimo Feuerbach aveva attribuito al genere umano, faceva sì che questo non si limitasse a un tipo di alimenti e quindi dimostrasse, anche nel mangiare, la sua libertà. In proposito egli si appoggiava alla distinzione, presente nella lingua tedesca, fra “essen”, mangiare proprio degli umani, e “fressen”, divorare tipico degli animali, aggiungendo come nel secondo caso lo stomaco assumesse il predominio su tutto, mentre nel primo caso esso era in armonia con la testa, ossia con la ragione e l’etica.
Un amico di famiglia, Georg Friedrich Daumer, criticò l’esaltazione che in questo passo Feuerbach aveva fatto dell’uomo rispetto agli animali [...] Daumer toccava un punto, al quale Feuerbach era stato sensibile fin dai primi scritti, quello della fame.
Nello stesso brano della Storia della filosofia moderna che prima abbiamo ricordato per l’identificazione dell’essenza umana col pensiero, Feuerbach accennava alla fame come esempio per distinguere vari gradi di essere: «Un essere con uno stomaco riempito in modo da star bene è un essere molto più reale di un essere con stomaco vuoto». Lo stomaco vuoto rappresentava sensibilmente la contraddizione fra la presenza ideale dell’oggetto e la sua assenza reale, ossia la separazione da un ente, al quale per natura si era uniti. Già nella dissertazione De ratione Feuerbach si era soffermato su questa situazione per mettere in luce la tensione dialettica del desiderio.
Nelle Lezioni tenute a Erlangen come Privatdozent era tornato sull’argomento trattando dell’impulso o della pulsione (Trieb), un concetto già elaborato da Fichte, che avrebbe avuto grande fortuna nell’Ottocento fino a Freud e al suo famoso saggio della Metapsicologia: Le pulsioni e i loro destini (Triebe und Triebschicksale). Aveva affermato: «Un altro esempio è l’appagamento dell’impulso (Triebes) stesso; quando calmo la fame, questo calmarla in quanto appagamento è affermazione della mia vita, un godimento, ma questo godimento c’è in me soltanto in quanto c’è la fame, il non godimento [...] al godimento spetta l’essere e il non essere». Nel Leibniz Feuerbach aveva spiegato ulteriormente il rapporto con l’oggetto, presente negli impulsi e, in particolare, nella fame e nella sete: «A dispetto di tutti gli empiristi fame e sete sono due filosofi a priori; esse anticipano e deducono a priori l’esistenza dei loro oggetti». Nella loro struttura ontica era dunque insito l’oggetto, prima che si presentasse nelle cose sensibili.
Questa visione caratterizza nell’Essenza del cristianesimo la relazione del soggetto con l’oggetto: «L’uomo non è nulla senza oggetto [...] Tuttavia l’oggetto al quale un soggetto si riferisca essenzialmente, necessariamente non è altro che l’essenza propria di questo soggetto, ma resa oggettiva».
La conclusione dell’opera consisteva nell’esaltazione dell’eucarestia secondo il suo significato etimologico, ossia come solenne ringraziamento per il pane e il vino grazie all’esperienza della fame: «Per comprendere il significato religioso della consumazione del pane e del vino mettiti nella situazione in cui quell’atto altrimenti quotidiano venga, contro natura, violentemente, interrotto. La fame e la sete non distruggono solo la forza fisica, bensì anche quella spirituale e morale dell’uomo, lo spogliano dell’umanità, dell’intelletto, della coscienza. Oh! Se tu mai provassi tale mancanza, tale infelicità, allora come benediresti e loderesti la qualità naturale del pane e del vino che ti ridonano la tua umanità, il tuo intelletto! Così basta solo interrompere il consueto, comune corso delle cose per restituire a quanto è comune un significato non comune, alla vita in quanto tale un significato assolutamente religioso. Santo sia per noi quindi il pane, santo il vino, ma santa anche l’acqua! Amen» [...]" (cfr. Francesco Tomasoni, Università del Piemonte Orientale, Vercelli - ripresa parziale, senza le note, pp. 109-112).
FLS
CULTURA E SOCIETA’.
UNA NOTA A MARGINE DI UNA DISCUSSIONE E DI UNA RILESSIONE IN CORSO SUL TEMA: "LA PSICOANALISI HA UN FUTURO?" *
#FILOLOGIA E #ANTROPOLOGIA. IL PROBLEMA DEL "CONOSCI TE STESSO" E DEL "CONOSCI TE STESSA", E LA "#CRITICA DELLA #FACOLTÀ DI #GIUDIZIO: IL CORAGGIO DEL "#SÀPERE AUDE" (#ORAZIO).
#A GLORIA DI #FREUD E A OMAGGIO DI #KANT2024. Ricordando l’eccezionale #coraggio degli #inizi della #psicoanalisi ("L’#interpretazione dei #sogni", 1899) e il coraggio di servirsi della propria intelligenza dell’#illuminismo kantiano ("Risposta alla domanda: che cosa è l’Illuminismo",1784), e, al contempo, il #grido di allarme di #SigmundFreud, lanciato da #Vienna nel 1929, sul "#Disagiodellaciviltà" (e nella #civiltà), a riguardo, può essere interessante e utile un ulteriore approfondimento e una riflessione supplementare, alla luce di una personale #ricerca (del 2010), proprio sul tema storico-filosofico relativo alle ragioni stesse della #domanda sul futuro della tradizione filosofica, picoanalitica, e della stessa civiltà (cfr. "KANT, FREUD, E LA BANALITA’ DEL MALE" ).
*
NOTA: LA PSICOANALISI HA UN FUTURO?-> (REGISTRAZIONE INCONTRO - organizzato da Casa della cultura [MILANO], Fondazione Lelio e Lisli Basso).
ENCLOSURES MATERIALI E IMMATERIALI DELL’UMANITÀ E DISAGIO DELLA CIVILTÀ: "A CHE GIOCO GIOCHIAMO", ANCORA?!
STORIA, #CULTURA, #PSICOANALISI E #SOCIETÀ: ALCUNI APPUNTI A MARGINE DEL CONGRESSO MONDIALE DI #FILOSOFIA #ROMA2024 (#WCP2024 - XXV World Congress of #Philosophy).
RECINZIONI. Dopo la "storica" presa di coscienza di #Rousseau e di #Freud, del primo, sul piano della #critica dell’economia-politica, relativamente al problema delle "enclosures" (recinzioni) materiali della tradizione dei rapporti sociali fondati sulla #disuguaglianza
e, del secondo, cioè di #SIGMUNDFREUD Freud, relativamente alle complementari recinzioni spirituali dell’ #androcentrismo edipico (platonico, paolino, ed hegelo-marxista e lacaniano):
non è il caso di togliere i fiori dalle catene e uscire dalla #caverna? Se non ora, quando?!
STORIA E LETTERATURA: PER ORIENTARSI SUL "PROBLEMA ROUSSEAU", RICORDARE ALESSANDRO MANZONI. Per lo spirito illuministico-cristiano (non cattolico-paolino) del figlio di Giulia Beccaria, pur se con cedimenti teologico-politici, all’immaginario napoleonico-costantiniano, da #SacroRomanoImpero ("Il #cinquemaggio"), vale il #principio che
EPIFANIA (APPARIZIONE) E IMMAGINAZIONE ("EPINOIA"), #6 GENNAIO 2024. Per "orientarsi nel pensiero" (#Kant) e nella realtà (#Marx), e cercare di non scambiare il gioco dell’illusione (#Schein) con la realtà dell’apparenza (#Erscheinung),
Un "invito alla lettura" dello studio sulla storia del #cibo "eu- caristico" ("EU-#CHARIS-TICO) del teologo, docente di "Storia della Chiesa", Anselm #Schubert, "Pasto divino. Storia culinaria dell’eucaristia" (Carocci editore 2019):
NOTA:
Epifania2024. #Memoria e #archeologia di un evento epocale: i #Magi erano #sapienti e sapevano #distinguere tra il #Bambino-re (#Gesù) e il #Re-bambinone "giocastolaio" (#Erode). Ma, oggi, dove sono i magi?
Kafka ancora agli inizi del secolo scorso sapeva la differenza tra la #manifestazione epifanica e il #giogo dei "giocastolai" e delle "giocastolaie", e ricordava: "[...] alla nascita di Cristo nella capanna semiaperta era subito presente il mondo intero, i pastori e i savi d’Oriente" (Lettera a Helli Hermann, autunno 1921).
Anselm Schubert, “Pasto divino”
di Luca Arcari (Storica_mente.Laboratorio di storia)
Affrontare la storia dell’eucaristia dal punto di vista degli alimenti utilizzati e della loro preparazione rappresenta la novità principale del volume di Anselm Schubert, originariamente pubblicato in tedesco (Gott essen, München, C.H. Beck oHG, 2018). Il volume si pone nel ricco filone storiografico della recente storia dell’alimentazione, applicandola però alla storia dell’eucaristia, che in questo modo non emerge più, o non solo, come una storia di dottrine teologiche, ma come un complesso di pratiche di simbolizzazione di un atto culinario, con tutto ciò che questa prospettiva sembra implicare.
Nonostante una certa tensione verso l’istituzionalizzazione, che nella storia dei gruppi di seguaci di Gesù appare con una certa nitidezza alla fine del IV secolo, quando il concilio di Laodicea (363-364 e.v.) cerca di formulare la netta distinzione tra eucaristia e pasto comune, il focus chiarisce la varietà delle pratiche di ritualizzazione presenti nel frastagliato universo cristiano, a partire dai gruppi di giudei credenti in Gesù del I-II sec. e.v. (cap. 1), passando per quelli bollati come eretici da alcuni Padri della Chiesa del III-IV sec. - che in molti casi continuano a celebrare i loro riti imbandendo cibi vari (gli artotiriti menzionati da Epifanio di Salamina, nel IV sec., ad esempio consumano pane e formaggio) -, fino alle definizioni teologico-dottrinali di Agostino (cap. 2), e alle divaricazioni che distinguono sempre più l’Oriente e l’Occidente tra tardoantico e medioevo (cap. 3). Il medioevo sancisce anche quella che, di fatto, emerge come una vera e propria “clericalizzazione delle sostanze” (cap. 4), sia in Oriente (dalla “nuova Roma” alla chiesa russa) che in Occidente, con cibi e modalità di ritualizzazione del mangiare comune che appaiono sempre più come specchi identitari paralleli al consolidarsi dei vari cristianesimi come strumenti di auto-definizione “proto-nazionale”: «L’introduzione nella Chiesa franca della liturgia romana [scil. l’uso di orazioni da recitare durante l’eucaristia, che ormai è chiaramente definita come pasto rituale amministrato interamente da personale altamente specializzato e che prevede il consumo comunitario di pane e vino “purissimi”] determinò un cambiamento, in tutto l’Occidente latino, decisivo per il futuro del cristianesimo. Se all’inizio l’eucaristia era intesa ancora come un ringraziamento da parte della comunità, o come rievocazione del sacrificio espiatorio di Cristo, da quel momento divenne un atto sacro, con cui il sacerdote richiamava la divinità in terra sotto gli occhi dei fedeli» (51). Tra il 1050 e il 1525 la chiesa soprattutto latina vede inoltre una vera e propria esplosione di teologie e religiosità eucaristiche, che raggiungono il loro pieno sviluppo all’inizio del XIII secolo. Emergono soprattutto le ostie consacrate e il calice di vino, che diventeranno, per secoli, almeno in Occidente, «il vero e proprio centro religioso e culturale della cristianità. Nella trasformazione soprannaturale che la loro materia subisce, l’unità tra Dio e l’uomo si rende percepibile, sperimentabile, palpabile, commestibile» (65).
Una notevole attenzione Schubert la pone anche su quella che lui definisce come “la disputa sul corpo di Dio”, un ricco ambito interconnesso di problemi e questioni che attraversano la storia dei cristianesimi soprattutto occidentali tra il 1525 e il 1830 (cap. 6). Le varie scissioni e i multiformi gruppi soprattutto europei dibattono e si dividono anche per quanto concerne l’effettiva presenza di Cristo nella comunione e su quale fosse il significato di questa presenza più o meno “reale” per i fedeli. La luterana centralità della Bibbia come unica cartina al tornasole attraverso cui misurare l’aderenza all’originario messaggio di Gesù, mostra tutti i suoi riverberi anche per quanto concerne le pratiche di ritualizzazione della “comunione” all’interno delle varie forme di protestantesimo succedute alla esegesi e alla riflessione teologica di Lutero. Lutero, come già Hus, raccomanda di reintrodurre il vino della comunione anche per i laici, nonostante la forte propensione per l’acqua pura, mentre Calvino mostra una fondamentale apertura verso alimenti diversi oltre al pane e al vino, dato che non sono gli ingredienti terreni del pasto ritualizzato a contenere il Cristo celeste, rinviando, in quanto nutrimento corporeo, al nutrimento spirituale dell’anima che si realizza durante il pasto comunitario. Questa apertura a cibi diversi, d’altronde, si riscontra inevitabilmente anche nel cattolicesimo “mondiale” del XVI secolo che, nonostante il tentativo dichiarato di un ritorno esclusivo alla “tradizione” (con tutta le problematicità che questo termine implica e pone), mostra di avere coscienza di un dilemma rispetto alle chiese extraeuropee quando prescrive che le ostie siano fatte «perlomeno per la maggior parte di frumento» (111).
La disamina di Schubert prosegue con le dinamiche legate alle pratiche eucaristiche nell’epoca della riproducibilità industriale (1830-1970), che evidenziano alcune delle questioni connesse, da un lato, alla diffidenza soprattutto protestante nei confronti del pane industriale, che non si sapeva esattamente di cosa fosse fatto, e, dall’altro, alle critiche nei confronti del vino, a loro modo figlie delle istanze proprie dei movimenti di opposizione nei confronti dell’alcolismo (cap. 7). Per quanto concerne il mondo protestante, comunque, si sottolinea anche come a partire dagli anni Settanta del Novecento si verifichi un mutamento per quanto riguarda il dibattito sulla forma e sugli ingredienti dell’eucaristia, allora ripreso con una intensità che non si vedeva almeno dal Seicento, a fronte della maggiore uniformità propria nel mondo cattolico, nonostante alcune delle posizioni espresse nella Sacrosanctum Concilium del 1963 (cap. 8).
Il volume di Schubert, che si raccomanda per la chiarezza espositiva e la ricchezza di dettagli, evidenzia con particolare attenzione quanto le pratiche di ritualizzazione del pasto eucaristico nella storia dei cristianesimi siano, proprio in una prospettiva di lunga durata, strettamente intrecciate all’utilizzo di particolari alimenti e bevande o di specifiche modalità di preparazione dei cibi. Ne deriva un affresco per nulla omogeneo, che mostra quanto i processi di ritualizzazione - stando alla prospettiva inaugurata, tra gli altri, da C. Bell (di cui si veda almeno Ritual Theory, Ritual Practice, Oxford, Oxford University Press, 1992) - siano il frutto di dinamiche culturali mai totalmente definibili in maniera precostituita o predeterminata. In sostanza, dalla rigidità del concetto di “rito”, il volume invita a porsi nella prospettiva dei processi di ritualizzazione, con tutte le complessità diacroniche e diatopiche che tale prospettiva inevitabilmente implica.
FLS
#RITORNO AL FUTURO, 4:
AL DI LA’ DELLA LUNGA DURATA DEL FEUDALESIMO TEOLOGICO-POLITICO (PLATONICO-PAOLINO) DELLA TRADIZIONE OCCIDENTALE.
CITTADINANZA E #SOVRANITA’ NELLA #CITTA’ DEL #SOLE, COME SI DICE "NOI" NELLA #NAPOLI DI IERI, DI OGGI, E DI DOMANI. UNA INDICAZIONE "MESSIANICA" DI GAETANO #FILANGIERI:
#FILOLOGIA #ANTROPOLOGIA E #STORIOGRAFIA D’EUROPA. Alla "fine" della sua "storia" la "coscienza europea", imperterrita continua a mantenere in piedi la sua idea di regalità teo-androcentrica; e, a 800 anni dal #presepe di Greccio (1223), a 700 anni e più dalla lezione "cosmicomica" di teologia e antropologia di #DanteAlighieri sulla "Monarchia" dei #DueSoli, OLTRE CHE dalla sollecitazione della Riforma Protestante (1517), dalla Riforma Anglicana (1534), e dalla presenza del #corpomistico sul trono di Inghilterra di #Elisabetta I («Sono solo un corpo, dal punto di vista naturale, ma, con il permesso di Dio, un Corpo politico fatto per governare»), che l’ultimo capitolo (l’ottavo) dei "Due corpi del re" di Kantorowicz sia intitolato "La regalità antropocentrica: Dante" non sollecita alcuno a interrogarsi ancora e di nuovo sulla "Divina #Commedia" e sulla quarta #domanda, quella da cui tutto dipende, quella antropologica, posta da #Kant, nella sua "Logica", all’inizio del 1800. Che dire? Avanti tutta, titanic-amente.
RITORNO AL FUTURO, 3:
PER UN "BUON 2024", PER ORIENTARSI NEL PENSIERO E NELLA REALTA’ (#KANT, 1724-1804), RIPARTIRE DA #DUE (DAL #2GENNAIO, "QUI E ORA"), DAI "#DUESOLI" (#DANTE2021), DA #ROMA2024 (DAL "WCP2024 - XXV World Congress of Philosophy"), E DA #NICEA (325-2025).
#RICAPITOLAZIONE: UN "INVITO" A RIPARTIRE DA "CAPO", DAL #CAPO, FILOLOGICAMENTE LINGUISTICAMENTE, E ANTROPOLOGICAMENTE, E TEOLOGICAMENTE. In #principio era il #Logos...
ANDROCENTRISMO E "COMPROMESSO DORICO" (NASCITA DELLA TRAGEDIA): RIPENSARE LA "RICAPITOLAZIONE" NON PIù SECONDO LA LOGICA TEANDRICA DEL PAOLINISMO
E RIORGANIZZARE LA RELAZIONE DI #AMORE ("#CHARITAS") TRA LE FIGURE DEL #PRESEPE DI FRANCESCO DI #ASSISI (#GRECCIO, 1223).
DOTTA IGNORANZA (1440), "PACE DELLA FEDE" (1453), E RILANCIO DI UN "NUOVO" #PRESEPE "FRANCESCANO" (ALL’ORIGINE DELLA "#CAPPELLASISTINA"): #ARCHEOLOGIA, #FILOLOGIA, E #STORIAELETTERATURA ...
Un invito alla lettura di un "vecchio" lavoro di #ricerca di Arnalda Dallaj:
"#ORAZIONE E #PITTURA TRA «#PROPAGANDA» E #DEVOZIONE AL TEMPO DI #SISTOIV. [...] A proposito del dibattito sull’Immacolata Concezione e delle vivacissime forme che lo caratterizzarono tra l’ottavo decennio del #Quattrocento e gli inizi del #Cinquecento sono state utilizzate di recente espressioni come « mezzi pubblicitari » e «manifesti dottrinali» ponendo così l’accento sull’intensa ricerca, da parte delle istituzioni ecclesiastiche, di appropriati canali di comunicazione per ampliare il confronto sulla dottrina che, proprio in quel secolo, aveva conquistato basi più salde, anche se il definitivo assestamento maturerà solo nel 1854. Una data cardine fu il 1477, allorché il #papa #francescano Sisto IV autorizzò la celebrazione della festa e approvò l’Ufficio, appositamente composto da Leonardo Nogarolo, concedendo ampia indulgenza per la partecipazione alla liturgia. La tesi della « preservazione » di Maria dal peccato originale, pur trovando sempre maggiori consensi, continuò ad essere avversata soprattutto dai Domenicani. [...]" (cf. Arnalda DALLAJ: "IL CASO DELLA MADONNA DELLA MISERICORDIA DI GANNA").
TEATRO E METATEATRO: "THE TIME IS OUT OF JOINT" (HAMLET, I.5).
Una nota a margine del lavoro in corso di Paul Adrian Fried (cfr. "Shepherds in Shakespeare, Oedipus, Hamlet, and the Bible", December 24, 2023):
IL "PRESEPE" NON MI PIACE (EDUARDO DE FILIPPO, "NATALE IN CASA CUPIELLO", 1931). SENZA PENSARE COL "SENNO DEL POI", STORIOGRAFICAMENTE E INDIPENDENTEMENTE DA FREUD, si può benissimo pensare che a Shakespeare il "presepe" dell’Europa "cattolico-spagnola" non piaccia e, al contempo, che egli, sul filo della tradizione umanistico-rinascimentale (e delle specifiche sollecitazioni della riforma protestante e della riforma anglicana, di Giordano Bruno, e alla presenza di Elisabetta I) collabori dentro a un ampio lavoro culturale del tempo alla ripresa della tradizione dei pastori dell’Arcadia e abbia consapevolmente sollecitato a riflettere su un programma teologico-politico di riforma storico-sociale epoca, di un "ritorno" al "Paradiso terrestre" (come già Dante Alighieri, "Monarchia"). Ieri, come oggi, non è bene riprendere il filo della sollecitazione ad uscire dal letargo?!
Antropologia, Presepe, e cosmoteandria: origine storica dell’antisemitismo "francescano" (contro ebrei e musulmani). La progressiva riduzione del messaggio evangelico e francescano, caduto nelle maglie della tradizione ecclesiastica (paolina-costantiniana), trova il suo momento culminante nell’incapacità di risolvere pacificamente il rapporto con l’ Islam nel 1453 ("caduta di Costantinopoli e e fallimento della teologia "ecumenica" della "pace della fede", il "De pace fidei" del cardinale Cusano) e nella decisione di innescare la marcia sull’Immacolata concezione (della Madre del Figlio di Dio) proprio da parte del papa "francescano" Sisto IV della Rovere, con la fondazione (1475-1478) del suo personale "presepe" (la "Cappella Sistina").
FILOLOGIA STORIA FILOSOFIA ANTROPOLOGIA:
USCIRE DAL SONNO DOGMATICO (KANT). Chi di potenza ferisce, di potenza perisce. Queste le "regole del gioco" dell’Occidente? A quanto pare, l’#Europa è ancora ferma a Niccolò #Cusano e alla sua teologia-politica delle "congetture": con l’#astuzia paolina della "dotta ignoranza" (1440), quale "setaccio" ("cribratio") può fondare il #dialogo tra le religioni e la "pace della fede" (1453)? Non è meglio ripartire dalla "caduta" ("donazione") di #Costantino (#LorenzoValla, 1440), per capire e andare oltre la "caduta di #Costantinopoli (1453) e, #oggi (nell’anno dell’#Incarnazione del #Natale2023), oltre #Nicea (325-2025)?! Se non ora, quando?
#STORIAELETTERATURA E #STORIOGRAFIA: LE “#REGOLEDELGIOCO" DELL’EUROPA (DI #IERI). A partire dal 1492: "Su cosa è stato edificato il nuovo mondo? Genocidi e stermini. Chi ha dato il nome a questo nuovo mondo? Un Vespucci (in verità non lui direttamente, ma ricordiamoci dei ragni e delle formiche di Bacone). Chi ha chiamato così l’Amazzonia? E, chi così il Brasile? A Napoli, sì sempre a Nea-polis, questo nome ricorda la brace, il braciere, persone intorno a un fuoco che riscalda, un cerchio familiare che si apre e accoglie chi ha freddo - non la devastazione e il deserto di chi cieco e folle si mette a distruggere tutto: Edipo con in mano il lancia-fiamme a volontà - Platone, il Tecno-crate. Di fronte alla Foresta gli uomini ciechi e folli di potenza (ma qui si parla anche delle donne-amazzoni) vedono nulla e fanno e ... faranno il Brasile?” (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Antonio Pellicani Editore, Roma 1991, pp. 180-181).
NASCERE E RINASCERE: "NATO DA DONNA, SOTTO LA LEGGE", MA DI QUALE LEGGE?!
Ancora quella della tradizione tragica e del paolinismo?
ANTROPOLOGIA FILOLOGIA PREISTORIA, E PSICOANALISI: USCIRE DAL LETARGO E DALL’INFERNO (Dante, Par. XXXIII, 94).
COME NASCONO I BAMBINI, COME NASCONO I GENITORI - OGGI?! Una nota a margine dell’anno dell’Incarnazione del Natale 2023 - e del Presepe di Greccio di Francesco di Assisi dell’anno 1223.
TRAGEDIA. La difficoltà di "aprire gli occhi" (Freud) sul fatto antropologico (Kant) e sociologico (Marx) che ogni essere umano nasce ed è nato da un essere umano donna ("nato da donna, sotto la Legge"), dice solo della profondità "oceanica" della follia planetaria e della più che millenaria caduta "cosmologica" nell’orizzonte tragico della ragione e religione della cosmoteandria atea (platonico-aristotelica) e devota (paolina)!
COMMEDIA. Non è il caso di rimeditare il significato dell’art. 3 della sana e robusta Costituzione della Repubblica italiana e riprendere il cammino alla luce del Sole e dei "due Soli" (Dante Alighieri)?
LA TRAGEDIA DEL CD. "PATRIARCATO", OVVERO IL "COMPROMESSO DORICO" DELLA RAGIONE OLIMPICA (ELEUSIS2023).
Una nota a margine della "metafisica concreta" dell’Occidente... *
DOTTA IGNORANZA (CUSANO,1440) CONTRO FILOLOGIA (LORENZO VALLA, 1440):#COME NASCONO I BAMBINI...
STORIA #STORIOGRAFIA E #ANTROPOLOGIA. MASSIMO #CACCIARI, a mio parere, sta ancora a difendere, il #compromesso "dorico" della #tragedia tebana di #Giocasta ed #Edipo (e della #caduta biblica): con tutta la stima nei suoi confronti personali, ma la logica della sua metafisica concreta resta tutta dentro l’orizzonte del #paolinismo e della #cosmoteandria atea e devota! (Nicea, 325-2025).
#DANTE2021 #BOVILLUS #COSMICOMICHE (#calvino100)
STORIA DELLA CULTURA EUROPEA:
UNA FILOSOFICA QUESTIONE D’AMORE (CHARITAS).
Una nota sul "disagio della civiltà" (e nella civiltà).
Hannah Arendt, sul "concetto d’#amore in Agostino" (1929), titola il cap. 2 della Parte Prima ("Amor qua appetitus") e della Parte Seconda ("Creator - Creatura"): "Caritas e cupiditas"; ma il Dottore della #Grazia ("Charis") non scrive "Ecce unde incipit Charitas"?
Martin Heidegger, in "Essere e Tempo" (1927), a proposito di Max "Scheler, sotto l’influenza di Agostino e di Pascal", ricorda la frase del’uno e dell’altro, e, cita in nota: "Non intratur in veritatem nisi per charitatem"; "n’entre dans la vérité que par la charité" ("Non si entra nella verità se non con la carità"). Che fare?!
Amore (Charitas") o Mammona ("Caritas"): "Essere, o non essere" (Shakespeare, "Amleto": III,1). Sul "Deus caritas est" non è forse ora di fare chiarezza (claritas)? O, per assurdo, l’amore è "lo zimbello del Tempo" (Shakespeare, Sonetto 116)?!
Non è bene ricordare, filologicamente, che "in principio era il Logos"?! Se non ora, quando?!
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a) Cfr. Hannah Arendt, "Il concetto d’amore in Agostino", a c. di Laura Boella, SE, 2021.
b) Cfr. Max Scheler, "Ordo amoris", Morcelliana, Brescia.
c) Cfr. S. Freud, "Disagio della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino.
L’UMANITÀ (ANTROPOLOGIA), IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE" (ECONOMIA POLITICA) E IL PERSISTERE DI UN "PREISTORICO" SIMPOSIO ALL’OMBRA DELLA "EU+CARESTIA"!!!
MINIMALISMO ED ESSENZIALISMO: "SÀPERE AUDE" (DECIDERSI A DIVENTARE SAGGIO, AD AS-SAGGIARE, A USCIRE DALLO "STATO DI MINORITÀ" (ORAZIO E KANT). A ben riflettere sulla "essenza del cristianesimo" di Ludwig Feuerbach, e, al contempo, sul problema della "eucharistia", del cibarsi della grazia ("charis") di Dio ("charitas"), forse, si può meglio cominciare a capire la profondità teologico-politica ed economica della sua "banalizzatissima" considerazione che «L’uomo è ciò che mangia»!
IN UN TESTO BRILLANTISSIMO, all’interno di un "presente storico" di secoli, segnato da una grande carestia filologica e logica, così è scritto: "La vita spirituale - di chi «nasce un seconda volta» aderendo a Cristo - poggia sulla preghiera continua e sull’#eucarestia [...]" (cfr. Flavio Piero Cuniberto, "SUL CRISTIANESIMO COME MITO E COME MISTERO). E, proseguendo; si arriva a fare propria la tesi di #RenéGirard: "L’idea che la morte di Cristo sulla croce sia il prezzo del riscatto («redenzione» da «red-imere», «riscattare») non è che una versione cristianizzata della pratica ancestrale del #bouc #émissaire, il #caproespiatorio di Girard. Una versione mitologica del mistero cristiano." (op. cit.).
IL CANTO DEL CAPRO E LA FENOMENOLOGIA DELLA TRAGEDIA: "ECCE HOMO" (PILATO). Accecati dall’astuzia della ragione platonico-hegeliana, invece di fare chiarezza sul "capro espiatorio", si rinnova la confusione e la condanna a morte proprio dell’agnello (dell’#ariete, del montone) che ha portato Ulisse (e Dante) in salvo, fuori dalla caverna e dall’inferno!
Dopo Nietzsche ("Ecce Homo", 1888), che ha denunciato l’imbroglio storico-antropologico del #paolinismo, a partire dalla morte di Dio, e di Gesù ("Ecce Homo"), chi ha mai più visto sulla Terra un cristiano, una cristiana?
Nonostante Gioacchino da Fiore, Francesco d’Assisi, Chiara di Assisi, Dante Alighieri, e, addirittura, il lavoro iperstorico ("preistorico" e archeologico) sulle radici "Cosmicomiche" della Terra (Italo Calvino), Diogene di Sinope, definito dalla tradizione "Socrate pazzo", continua ad andare con la sua lanterna accesa, alla luce del sole, per i mercati, a cercare l’uomo ("anthropos") e a sognare il #sorgeredellaterra...
L’ AMLETICA “QUESTION” DI ELISABETTA I (REGINA D’INGHILTERRA E PAPA DELLA CHIESA ANGLICANA), LA LEZIONE SULLA “VISIBILITA” (“VISIBILITY”) DI ITALO CALVINO, E IL PROBLEMA DEL “MODELLO PATRIARCALE”.
A MARGINE E A PROPOSITO DELL’ “USO PERSUASIVO E PROPAGANDISTICO DELLA FAMIGLIA” (DEL “PRESEPE”) E DEGLI ANTROPOMORFISMI MESSI IN LUCE NELLA RIFLESSIONE SUL “BENTORNATO MASCHIO” (Gianfranco Pellegrino, "Le parole e le cose", 26 ottobre 2023), FORSE, non sarebbe male se la sollecitazione a riflettere venisse accolta soprattutto dalle antropologhe, dalle filosofe, dalle psicoanaliste, e dalle teologhe:
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VISTO CHE il “modello patriarcale” come strumento di analisi fa acqua da tutte le parti, almeno dal tempo della “dialettica” di Hegel, e, ancor di più, dopo Freud e la sua indicazione a muoversi ad usare il “modello edipico completo”, è più che augurabile fare qualche passo avanti teorico e pensare a un modello “patriarcale-matriarcale” (padrone-serva e padrona-servo), alla luce delle “Lezioni americane” (non solo la quarta, la “Visibilità”) e del “Castello dei destini incrociati” (in particolare, del capitolo della seconda parte, “La taverna dei destini incrociati”, col titolo “Anch’io cerco di dire la mia”).
Federico La Sala
P. S. - LETTERATURA E PSICOANALISI: “IL CASTELLO DEI #DESTINI INCROCIATI” (ITALO CALVINO). L’INCONTRO CON “SIGISMONDO DI VINDIBONA” [VIENNA] NELLA “TAVERNA DEI DESTINI INCROCIATI”. Una “presentazione” del mito di Edipo con le carte dei Tarocchi:
“ANCH’IO CERCO DI DIRE LA MIA. [...] Tutto questo è come un sogno che la parola porta in sé e che passando attraverso chi scrive si libera e lo libera. Nella scrittura ciò che parla è il represso. E allora Il Papa dalla barba bianca potrebbe essere il gran pastore d’anime e interprete di sogni Sigismondo di Vindobona, e per averne conferma non c’è che verificare se da qualche parte del quadrato dei tarocchi si riesce a leggere la storia che, a quanto insegna la sua dottrina, si nasconde nell’ordito di tutte le storie. [...]” (cfr. I. Calvino, “Anch’io cerco di dire la mia”, “Romanzi e racconti” II, Meridiani, Mondadori, 1992, pp. 592-595).
Federico La Sala
P. S. 2 - ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, MATEMATICA, E FILOLOGIA...
“Bentornato maschio”( v. sopra) non è solo una chiamata in causa di intellettuali di ogni genere e di ogni specie, ma anche, e prima di tutto, è un segnavia “storico” per ogni cittadino e ogni cittadina per dare alla amletica “question” teologico-politica posta da Shakespeare, in stretto collegamento alla presenza sul trono d’Inghilterra di Elisabetta I, regina e papessa della Chiesa anglicana, una propria risposta all’altezza dell’attuale “presente storico” - è una chiamata ad uscire dall’epocale “stato di minorità”, personale e politico (Immanuel Kant, 1784 - Michel Foucault, 1984) !
“DUE SOLI” (DANTE ALIGHIERI). Re-interrogarsi alla Kantorowicz sulla “regalità antropocentrica: Dante”, sui “due corpi del re” e, ovviamente, anche sui “due corpi della regina”, forse, può essere una buona occasione per svegliarsi dal sonno dogmatico e portarsi fuori dalla cosmoteandria, atea e devota! Se non ora, quando?!
QUESTIONE MATEMATICA E ANTROPOLOGICA. Per approfondimenti, volendo accogliere alcune indicazioni sul tema, si potrebbe ricominciare a contare da almeno da due o, meglio da “Quattro”, dal poema di Italo Testa (“Le parole e le cose”, 3 Settembre 2021).
ARCHEOLOGIA, ANTROPOLOGIA, PSICOANALISI ("COSTRUZIONI NELL’ANALISI, 1937)", E FILOLOGIA.
«GRANDE E’ LA #DIANA DEGLI EFESINI» (S. FREUD, 1911): EFESO, LA DEA MADRE, IL DIO FIGLIO, E L’INTERPRETAZIONE PAOLINA DEL MESSAGGIO EVANGELICO. Alcuni appunti:
«Grande è la Diana degli Efesini»
di Sigmund Freud (Opere, VI, 1911)*
L’antica città greca di Efeso, in Asia Minore (a questo proposito dobbiamo essere grati alla nostra archeologia austriaca per l’esplorazione delle sue rovine), era particolarmente celebrata nell’antichità per lo splendido tempio dedicato ad Artemide (Diana). Gli invasori ionici, forse nell’ottavo secolo avanti Cristo, conquistarono la città, che da lungo tempo era abitata da popoli di razza asiatica, e quivi trovarono il culto di un’antica dea-madre, il cui nome era probabilmente Oupis, la quale fu da loro identificata con Artemide, divinità della loro patria di origine. Gli scavi hanno dimostrato che, nel corso dei secoli, parecchi templi furono eretti nello stesso luogo in onore della dea.
Il quarto di questi templi è quello che fu distrutto dal fuoco appiccato dal folle Erostrato, nel 356, la notte stessa in cui nasceva Alessandro Magno. Il tempio fu ricostruito, più splendido che mai. La metropoli commerciale di Efeso, con il suo affollarsi di sacerdoti, maghi e pellegrini, con le sue botteghe, ove erano posti in vendita amuleti, ricordi ed ex-voto, potrebbe essere paragonata alla moderna Lourdes.
Attorno al 54 d.C. l’apostolo Paolo passò diversi anni ad Efeso. Quivi predicò, compì dei miracoli, trovando un largo seguito tra la popolazione. Perseguitato ed accusato dagli Ebrei, si staccò da questi, fondando una comunità cristiana indipendente. A cagione del diffondersi della sua dottrina, vi fu un calo del commercio degli orafi, che solevano fabbricare ricordi del luogo sacro (figurine di Artemide e modellini del tempio) per i fedeli e i pellegrini, che venivano da tutte le parti del mondo (Cfr. anche la poesia di Goethe.) Paolo era troppo rigido per tollerare che l’antica divinità sopravvivesse sotto diverso nome, per ribattezzarla come avevano fatto i conquistatori ionii con la dea Oupis, per cui i pii artigiani e artisti della città cominciarono a sentirsi preoccupati per la sorte della loro dea e anche per quella dei loro guadagni. Si ribellarono e, al grido senza fine ripetuto, di «Grande è la Diana degli Efesini», sciamarono lungo la via principale, detta «Arcadiana», fino al teatro, dove il loro capo, Demetrio, pronunciò un discorso infuocato, contro gli Ebrei e contro Paolo. Le autorità riuscirono con difficoltà a sedare il tumulto con l’assicurazione che la maestà della dea era intoccabile e fuori della portata di qualsiasi attacco ( Atti, XIX.)
La chiesa, fondata da Paolo a Efeso, non gli rimase fedele a lungo. Cadde sotto l’influenza di un uomo chiamato Giovanni, la cui personalità è stata un serio problema per i critici. Potrebbe trattarsi dell’autore dell’Apocalisse, che abbonda in invettive contro l’apostolo Paolo. La tradizione lo identifica con l’apostolo Giovanni, al quale si attribuisce il quarto vangelo. Secondo questo vangelo, quando Gesù era sulla croce gridò al discepolo favorito, accennando a Maria: «Ecco tua madre!», e da quel momento Giovanni prese Maria con sé.
Quindi, quando Giovanni andò a Efeso, Maria lo accompagnava. Di conseguenza, accanto alla chiesa dell’apostolo a Efeso, fu eretta la prima basilica in onore della dea-madre dei cristiani. La sua esistenza è attestata fin dal quarto secolo. E allora la città ebbe di nuovo la sua grande dea e, salvo il nome, scarsi furono i mutamenti. Anche gli orefici ripresero il loro lavoro, consistente nel fabbricare modelli del tempio e immagini della dea per i nuovi pellegrini. Però la funzione di Artemide, espressa dall’attributo Kourotrophos. [che alleva i figli] fu assunta da S. Artemidoro, che si prendeva cura delle donne in travaglio.
Poi venne la conquista della città da parte dell’Islam, e infine la rovina e l’abbandono, dovuti al fatto che il fiume, lungo il quale sorgeva, fu soffocato dalle sabbie. Ma nemmeno allora la grande dea di Efeso abbandonò le sue pretese. Ai nostri giorni essa è apparsa, come una santa vergine, ad una pia fanciulla tedesca, Katharina Emmerich, a Dùlmen. Essa le ha descritto il viaggio ad Efeso, l’arredamento della casa in cui era vissuta ed era morta, la forma del suo letto, e via dicendo. Sia la casa che il letto sono stati effettivamente ritrovati, esattamente quali la vergine li aveva descritti, e ora sono nuovamente meta di pellegrinaggi di fedeli.
*Fonte: "Opere di Sigmund Freud", Vol. VI, Bollati Boringhieri, Torino.
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IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON IL LOGO). IL FILOLOGICO "COLPO DI STATO" DEL "FIGLIO DELL’UOMO", PAOLO DI TARSO:
a) QUESTIONE ANTROPOLOGICA E CRISTOLOGICA. Chi è il "Figlio dell’Uomo" (Gv. 12, 34: "Filius hominis", "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου")?!
b) LEZIONE "ANDROLOGICA" DI PAOLO DI TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
c) "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" ("Das Ungluck in der Kultur"): "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione [...]" (S. Freud, "Il disagio della civiltà", 1929).
L’#EUROPA (#GRANADA), #KOENIGSBERG / #KALININGRAD (E #ODESSA), LA "#DEMOCRAZIA" (COME "#STATO DI #MINORITÀ"), E IL PROBLEMA DELLA #TRASPARENZA TEOLOGICO-POLITICA. Alcuni appunti...
Un omaggio alla memoria di Dante Alighieri e William Shakespeare...
LA #TALPA E LA #CIVETTA: LA TRACCIA DI UNA FENOMENOLOGIA DELLO #SPIRITO DI "#DUE #IO" (DI #DUESOLI"). Già per #Shakespeare, ai suoi tempi (1600), Amleto e Ofelia (con il metodo della loro #follia) guardano ben oltre la linea dell’orizzonte teologico-politico di #Erasmo di Rotterdam e #TommasoMoro e lottano per portarsi fuori da un’Europa ormai avviatasi nella "marcia" del tramonto (#Nicea 325/2025).
LE PAROLE DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE. Al centro e al fondo della questione posta da #CarloGalli, nel recente "Democrazia, ultimo atto?"(cfr. estratto: https://www.einaudi.it/.../democrazia-ultimo-atto-carlo.../ ), al di là dei suoi contributi e risultati specifici, vi sono "le idee moderne di libertà, di uguaglianza, di trasparenza, che sono esposte alla contingenza (...) e che meritano ancora una volta di essere il centro intorno a cui ruota la politica".
"DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (#FREUD, 1929). Sul tema, nel suo commento, Francesco Fistetti accoglie con riserva la proposta di variazione e scrive: "[...] Al terzo termine del trinomio #libertà / #eguaglianza / #fraternità Galli sostituisce quello di "trasparenza". Trasparenza nell’accezione già di Bobbio che non devono esserci zone oscure e opacità nell’esercizio del potere e nel governo delle istituzioni, ma il sale della critica e del dibattito razionale. Ma in questo modo, cancellando la fraternità, può cassare senza colpo ferire tutta la storia del socialismo e della lotta per il socialismo come organici alla storia della modernità democratica e dello stesso liberalismo (il liberalsocialismo di un Rosselli e tanti altri). Operata questa amputazione "genealogica’ (almeno per la Modernità) resta una pallida e spettrale idea di liberaldemocrazia. Peraltro, quest’ultima viene declinata come l’ideologia e la pratica di quello che l’autore chiama il "secondo Occidente", quello degli Usa e delle istituzioni dell’Onu: un nuovo Occidente "a guida americana", di cui dalla fine della Seconda Guerra Mondiale "fa parte l’Europa" e la cui "espressione è la Nato" [...]"(cfr. https://www.facebook.com/francesco.fistetti.5/posts/10211262489754567).
"LA SOCIETÀ TRASPARENTE" (GIANNI VATTIMO, 1989), A mio parere, sulla trasparenza, un nodo decisivo legato al problema proprio di una "#societàtrasparente" (#GianniVattimo, 1989) , il dibattito è in alto mare ed è ancora tutto da affrontare, al suo livello antropologico-politico fondamentale, dalla radice (#Marx)!
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("CRISTOLOGICA") E CULTURA CRITICA. La questione è "metafisica", ma, a quanto pare, nessuno si ricorda più di #Kant e del suo illumiNATO "sàpere".
#PACEPERPETUA, Se non si rende trasparente il nodo antropologico e teologico-politico, non è possibile (come è stato dimostrato storicamente, almeno fino ad oggi, fino alla "tappa" europea di Granada 1492/2023) alcuna fraternità (libertà e uguaglianza) e la "pace perpetua" (Kant) è definitivamente assicurata.
Nota:
#FILOSOFIA #STORIA E#METATEATRO: #METAFOROLOGIA.
"La #civetta e la #talpa. Sistema ed epoca in #Hegel" di #RemoBodei (1975, 2021): "[...] Quale il rapporto fra la civetta della filosofia, che interpreta coscientemente l’epoca, e la talpa dello spirito, che la trasforma inconsciamente con il suo cieco lavorio? A tali interrogativi Remo Bodei cerca una risposta in questo saggio ormai classico, che ha offerto una prospettiva originale della filosofia hegeliana." ( https://www.mulino.it/isbn/9788815291226 ).
FLS
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, E TEOLOGIA-POLITICA, OGGI (12 SETTEMBRE 2023).
UN "INVITO ALLA LETTURA" di una breve annotazione di Giorgio Agamben (Quodlibet, 30 agosto 2023) sulla "fede" e sulla "esperienza della parola":
La neve in Romania
di Giorgio Agamben (Quodlibet, 30 agosto 2023)
A che cosa siamo fedeli, che cosa significa aver fede? Credere in un codice di opinioni, in un sistema di idee formulate in un’ideologia o in un «credo» religioso o politico? Se così fosse, fedeltà e fede sarebbero una triste faccenda, nient’altro che il tetro, compiaciuto dovere di eseguire prescrizioni dalle quali per qualche ragione ci sentiamo vincolati e obbligati. Una tale fede non sarebbe qualcosa di vivo, sarebbe lettera morta come quella che il giudice o lo sbirro ritengono di applicare nello svolgimento delle loro funzioni. L’idea che il fedele sia una specie di funzionario della sua fede è così ripugnante, che una ragazza, che aveva sopportato la tortura pur di non rivelare il nome dei suoi compagni, a coloro che elogiavano la sua fedeltà alle proprie idee rispose semplicemente: «non l’ho fatto per questo, l’ho fatto per capriccio».
Che cosa intendeva dire la ragazza, che esperienza della fedeltà voleva esprimere con le sue parole? Una riflessione su quella fede per eccellenza, che fino a qualche decennio fa era ancora considerata la fede religiosa, può fornirci indizi e riscontri per una risposta. Tanto più che proprio in questo ambito la Chiesa a partire dal Simbolo niceno (325 d.C.) ha ritenuto di dover fissare in una serie di dogmi, cioè di proposizioni vere, il contenuto della fede, ogni discordanza rispetto alle quali costituiva un’eresia condannabile. Nella lettera ai Romani Paolo sembra dirci anzi esattamente il contrario. Egli lega innanzitutto la fede alla parola («la fede viene dall’ascolto attraverso la parola di Cristo») e descrive l’esperienza della parola che è in questione nella fede come una immediata vicinanza di bocca e cuore: «Vicina (eggys, letteralmente alla mano) a te è la parola, nella tua bocca e nel tuo cuore, questa è la parola della fede... Col cuore infatti si crede nella giustizia, con la bocca si professa per la salvezza». Paolo riprende qui un passo del Deuteronomio che affermava questa stessa prossimità: «la parola è vicinissima nella tua bocca e nel tuo cuore ed è nelle tue mani attuarla».
L’esperienza della parola che è in questione nella fede non si riferisce al suo carattere denotativo, al suo corrispondere a dei fatti e a delle cose esteriori: è, piuttosto, esperienza di una vicinanza che ha luogo nell’intima corrispondenza tra bocca e cuore. Testimoniare della propria fede non significa fare delle affermazioni fattualmente vere (o false) come si fa in un processo. Non siamo fedeli, come nel credo o nel giuramento, a una serie di enunciati che corrispondono o non corrispondono a dei fatti. Siamo fedeli a un’esperienza della parola che sentiamo così vicina, che non c’è spazio per separarla da ciò che dice.
La fede è, cioè, innanzitutto un’altra esperienza della parola rispetto a quella di cui crediamo di servirci per comunicare dei messaggi e dei significati ad essa esterni. A questa parola siamo fedeli perché, nella misura in cui non possiamo separare la bocca e il cuore, viviamo in essa e essa vive in noi. È una tale esperienza che doveva avere in mente quella ragazza berbera che, mentre un giorno le chiedevo che cosa la legava così fortemente a un uomo che diceva di aver amato e con il quale era vissuta per un anno in una capanna nelle montagne rumene, rispose: «io non sono fedele a lui, sono fedele alla neve in Romania».
CON FREUD, OLTRE: MEMORIA DI W.R. BION.
Sogno in W.R. BION
Per evidenziare il contributo innovativo di Bion alla teoria psicoanalitica del sogno è utile partire dal concetto di lavoro onirico, introdotto da Freud nel sesto capitolo della Interpretazione dei sogni (1899).
A cura di Michele Bezoari *
Il lavoro psichico da cui scaturisce il sogno consiste, per Freud, di due fasi successive: la produzione dei pensieri inconsci e la loro trasformazione nel contenuto manifesto del sogno. Solo questa seconda operazione, in quanto specifica dei sogni, è stata da lui considerata come il vero e proprio lavoro onirico e descritta mettendone in luce le modalità impiegate per eludere la censura (condensazione, spostamento, raffigurazione simbolica, elaborazione secondaria).
La ricerca di Bion si è, invece, focalizzata sulla prima fase, cioè sulla formazione dei pensieri inconsci mediante un processo dal quale derivano, come lo stesso Freud aveva ipotizzato, anche i pensieri coscienti. Per indicare la novità del suo apporto Bion ha usato inizialmente il termine lavoro-del-sogno-alfa, ridefinito in seguito funzione alfa (1962, 1992).
Questa funzione opera trasformando le impressioni emotivo-sensoriali (elementi beta) in immagini (gli elementi alfa) idonee alla costruzione dei pensieri sia consci che inconsci. Si tratta di un lavoro onirico basilare e necessario per la vita psichica: lavoro che, a differenza di quello che porta alla formazione del sogno, si svolge di continuo, non solo quando dormiamo ma anche quando siamo svegli. È un processo paragonabile, secondo Bion, alla digestione.
Nell’ottica bioniana il contenuto manifesto del sogno è un’aggregazione di elementi alfa articolati in forma narrativa durante il sonno e successivamente rielaborati durante la veglia. Il nucleo del sogno come evento vissuto dal soggetto dormiente è un’esperienza emotiva, che la funzione alfa elabora nel tentativo di renderla pensabile, analogamente a quanto accade per le esperienze emotive vissute nello stato di veglia.
Parlando di “sogno necessario” e affermando che ogni uomo deve poter “sognare” un’esperienza emotiva mentre gli capita, sia che gli capiti nel sonno sia che gli capiti da sveglio, Bion (1962) si riferisce dunque al primo livello di pensiero onirico. Per evitare di essere frainteso dal lettore, egli usa - almeno inizialmente - le virgolette quando con i termini “sogno” e “sognare” intende il prodotto e l’attività della funzione alfa, non il sogno e il sognare propriamente detti (che devono la loro specificità allo stato di coscienza peculiare del sonno), né le fantasticherie della veglia talvolta chiamate, nel linguaggio comune e anche da Freud, “sogni a occhi aperti”.
La nuova teoria è compatibile, come dichiara lo stesso Bion, con i concetti classici di rimozione, censura e resistenza impiegati da Freud a proposito del sogno. Ma questi meccanismi vengono ora considerati al servizio della funzione alfa, che crea e differenzia i pensieri inconsci e quelli consci per mezzo di una membrana virtuale in continuo sviluppo denominata barriera di contatto. Più che prodotti dall’inconscio, essi sarebbero dunque meccanismi produttori dell’inconscio.
Con Bion viene pienamente riconosciuta al sogno quella capacità di generare nuovi significati della vita emotiva che Freud aveva solo in parte e tardivamente ammesso, legato com’era al suo assunto teorico di considerare il sogno come una deformazione di significati già presenti nell’inconscio (Riolo 1983).
Ma non tutti i sogni sognati, ricordati ed eventualmente raccontati hanno lo stesso valore per la pensabilità dell’esperienza emotiva. Adottare la prospettiva bioniana non significa considerare il contenuto manifesto del sogno come se raccontasse “la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità” (Meltzer 1984).
Per Bion il lavoro simbolopoietico della funzione alfa, nelle sue varie fasi, è soggetto a influenze contrastanti che tendono ad evitare invece che a favorire la consapevolezza di emozioni troppo dolorose. Il materiale onirico può essere inconsciamente usato come bugia - invece che per accostarsi alla verità - e la stessa funzione alfa può invertire il suo corso, come accade nei disturbi psicotici, trasformando anche i simboli già prodotti in elementi quasi concreti (simili agli elementi beta originari), non più utilizzabili per il pensiero ma destinati all’evacuazione nel corpo, nel comportamento o nel mondo esterno con modalità allucinatorie.
Alla luce degli sviluppi bioniani anche il posto del sogno in analisi viene in parte riconfigurato.
Mentre il sogno della notte è un tentativo di rendere pensabile l’esperienza emotiva del sognatore addormentato, nella seduta analitica il sogno raccontato dal paziente si inserisce nel contesto di un dialogo che ha come nucleo emotivo ciò che egli sta vivendo nella relazione con l’analista. È compito dell’analista cercare di sintonizzarsi con questa esperienza emotiva in atto per favorirne la simbolizzazione condivisa, mettendo la propria funzione alfa al servizio di quella del paziente grazie a una disposizione mentale definita da Bion reverie [], che integra il concetto freudiano di attenzione fluttuante.
L’analista, afferma Bion (1992), deve poter “sognare” l’analisi mentre questa avviene, ma naturalmente - precisa con un pizzico di umorismo - non deve addormentarsi. Obiettivo dell’analista è realizzare insieme al paziente una “trasformazione in sogno” (Ferro 2009) dei fatti della seduta. Tra questi fatti il racconto di un sogno ha un carattere speciale in quanto è espressione (più o meno riuscita) del lavoro onirico notturno del paziente e, soprattutto, in quanto può offrire al pensiero associativo della coppia analitica spunti inediti per esplorare nuove prospettive di senso (Bezoari e Ferro 1994).
Interpretare il sogno equivale per Freud a disfare i travisamenti del lavoro onirico notturno per risalire ai pensieri già presenti nell’inconscio del sognatore. Per Bion si tratta piuttosto di portare avanti il lavoro del sogno nella veglia, mettendo a frutto anche le potenzialità creative delle trasformazioni oniriche descritte da Freud (condensazione, spostamento, raffigurazione) per produrre nuovi pensieri, idonei a rappresentare l’esperienza emotiva in divenire. Come dice Ogden (2005) ispirandosi a Bion, scopo dell’analisi è migliorare nell’analizzando la capacità di “sognare i suoi sogni non sognati o interrotti”.
Bibliografia
Bezoari M., Ferro A. (1994). Il posto del sogno all’interno di una teoria del campo analitico. Riv.Psicoanal., 40, 251-272.
Bion W.R. (1962). Apprendere dall’esperienza. Roma, Armando, 1972.
Bion W.R. (1992). Cogitations. Pensieri. Roma, Armando, 1996.
Ferro A. (2009). Trasformazioni in sogno e personaggi del campo psicoanalitico. Riv.Psicoanal., 55, 395-420.
Freud S. (1899). L’interpretazione dei sogni. O.S.F., 3.
Meltzer D. (1984). La vita onirica. Roma, Borla, 1989.
Ogden T. (2005). L’arte della psicoanalisi. Milano, Cortina, 2008.
Reverie, Spipedia enciclopedia SPIWEB https://www.spiweb.it/la-ricerca/ricerca/spipedia/
Riolo F. (1983). Sogno e teoria della conoscenza in psicoanalisi. Riv.Psicoanal., 29, 279-295.
NOTA.
A) FILOSOFIA E "SAPERE AUDE!" (1784). Ricordando W. R. Bion, non è male ricordare anche la lezione (di Kant e) del suo amico e filosofo H. J. Paton ("Kant’s metaphysics of experience", 1936). A scuola da Kant (https://www.academia.edu/12356078/KANT_FREUD_E_LA_BANALITA_DEL_MAL ): Wilfred Bion "rammentò sempre con gratitudine le conversazioni da lui avute col filosofo H. J. Paton" (Francesca Bion, 1982).
B) PSICOANALISI E RICERCA SCIENTIFICA. Ricordando il "contributo innovativo" di W. R. Bion (1897 - 1979) alle indicazioni di Freud, non è male ricordare anche il lavoro "consonante" di ricerca psicoanalitica e antropologica portato avanti da Elvio Fachinelli (1928-1989), sul tema della "mente estatica".
PSICOANALISI, ANTROPOLOGIA, E COSMOLOGIA:
"IL MOVIMENTO DI UN’ANALISI" (NELLA "STANZA" DI FREUD) E IL "DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO" (NELLA "NAVE" DI GALILEO GALILEI).
Una nota sul tema, in memoria di Sigmund Freud (1939), Elvio Fachinelli (1989) e di Jean-Bertrand Pontalis (2013).
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI (*). Nella "#culla" di Freud, a ben considerare, c’è la #memoria della #rivoluzionescientifica, e, al contempo, ci sono le #tracce per una ripresa della #rivoluzionecopernicana kantiana e una #svolta_antropologica epocale: la sollecitazione pontalisiana a "trasmettere il movimento di un’analisi" è un grande invito a rileggere il "#Dialogo sopra i #due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano" (#GalileoGalilei, 1632) e riprendere il lavoro nella "stanza" della "grande nave":
PSICOLOGIA, FILOSOFIA, E CRITICA DELLA RAGIONE "PURA":
USCIRE DALLO "STATO DI MINORITÀ"(I. KANT, 1784 - M. FOUCAULT, 1984).
SUL "MOVIMENTO DELL’ANALISI" (J.-B. PONTALIS) E SULLA "MATURITÀ" DELL’ ANALISTA,
QUESTA LA RISPOSTA DI FREUD (1° maggio 1932) A S. H. FOULKES:
L’ORDINE DEI DISCORSI
Mondi nuovi mai visti prima
La porta delle madri di Manuela Fraire.
di Felice Cimatti (FataMorgana-Web, 16 Settembre 2023)
“Domattina ci metteremo in viaggio per il sud”, dice fra sé e sé Nia, l’aliena del capolavoro di Eleanor Arnason, Sigma Draconis (A Woman of the Iron People, 1991), alla fine dell’avventura che l’ha portata a conoscere gli alieni (che in questo caso sono i terrestri, e in particolare Lixia, l’antropologa della spedizione), sbarcati per la prima volta sul suo pianeta. Nia è una vivente simile agli umani ma ricoperta da una folta pelliccia che appartiene ad una civiltà preindustriale, in cui i ruoli di quelli che sulla Terra sarebbero donne e uomini sono profondamente diversi. Le “donne” di Sigma Draconis vivono infatti insieme nei villaggi con i loro figli, mentre gli “uomini”, vivono da soli nelle immense pianure del pianeta (i giovani “maschi” lasciano i villaggi all’inizio della pubertà).
L’eterosessualità è un tabù che può essere infranto solo durante la breve stagione degli amori. Nel romanzo si allude ad eventuali relazioni omosessuali fra le donne dei villaggi (non a quella maschile), alcune delle quali non sono interessate neanche ad avere figli. Nia, tuttavia, è stata cacciata via dal suo popolo - il popolo del ferro; Nia infatti è un’abile fabbro (fabbra?), su Sigma Draconis un tipico lavoro “femminile” - perché aveva voluto vivere stabilmente con un “uomo”. Dopo la fine tragica di questa relazione vive da sola nelle sconfinate praterie delpianeta. Nia, in sostanza, non vive come il suo popolo, e la sua conformazione fisica, avevano deciso che avrebbe dovuto vivere. Nia è libera.
A questo serve la fantascienza, a immaginare forme di vita diverse da quelle che la nostra mancanza di immaginazione, o la nostra paura, ci impedisce di sperimentare. È questo il punto di contatto fra la fantascienza e la psicoanalisi, almeno la psicoanalisi così come la teorizza e la pratica la femminista e psicoanalista Manuela Fraire: il lavoro psicoanalitico, infatti, «mette fuori gioco l’illusione di una ricostruzione da erigere sui resti del passato, poiché a guidare la navicella spaziale in cui si trovano per un certo tempo paziente e analista è pur sempre il desiderio di incontrare mondi nuovi mai visti prima» (Fraire 2023, p. 75). Non è il passato l’oggetto della psicoanalisi, e quindi il rimosso e il già stato (che per sua natura non cerca altro che di ripetersi), è piuttosto l’invenzione di un futuro non ancora immaginato. Si tratta, come scrivevano Deleuze e Guattari, di produrre nuovo inconscio, ossia nuova impensabile vita.
Ma perché, si chiede Fraire, non riusciamo proprio a vederli (e appunto, nemmeno a immaginarli), questi “mondi nuovi”? Perché non riusciamo a vedere l’aliena Nia - una “donna” pelosa con le mani da fabbro - che virtualmente è in ciascuna di noi? Perché ciascuna di noi è intrappolata, come invece non è Nia, nello schema delle identità e dei ruoli che ogni identità sembra inevitabilmente destinata a portarsi con sé. Fraire, abbiamo detto, è prima di tutto una femminista, e quindi è di Nia che ci stiamo occupando. Ecco perché Fraire ci aiuta a sbrogliare il groviglio di associazioni fra identità e doveri che rende così asfissiante la posizione femminile. Si parte, intanto, dalla differenza fra i sessi: «La differenza sessuale nel discorso del femminismo non è quella della donna dall’uomo ma il quid che li unisce e li separa al di là di ogni complementarità. Se femminile e maschile si spartissero tutte le parti che appartengono all’una o all’altro, non vi sarebbe alcun resto, mentre nella differenza sessuale c’è un resto che per la psicoanalisi è il sessuale» (Fraire 2023, pp. 16-17).
Il sessuale, o per usare la formulazione di Laplanche il sexuale, è il campo della sessualità non riproduttiva, ossia il campo vastissimo della sessualità libera e creativa - «il sessuale infantile perverso e polimorfo che precede le assegnazioni» (ivi, p. 45) identitarie sociali - che non rientra nello strettissimo spazio della sessualità al servizio della riproduzione della specie. Il sexuale è libero. Che succede, si chiede Fraire, se questo campo di virtualità non identitarie viene lasciato libero di sperimentare? Si pensi, ad esempio, alla «opportunità che donne e uomini si stanno dando reciprocamente di fare esperienza di una genitorialità risultato della disgiunzione tra procreazione e maternità [che] apre ad un’impresa comune senza cui è difficile immaginare un futuro della specie» (ivi, p. 37). Perché Nia deve per forza essere madre per avere dei figli? E ancora, perché non poter immaginare un mondo in cui «la maternità non è legata al corpo» (ivi, p. 46)? Già, perché no? O perché non accorgersi (una scoperta che Fraire ricava da tante analisi di donne) «che l’esperienza della gravidanza può essere desiderata come fine a sé stessa» (ivi, p. 47) e non per diventare madre?
E ancora, perché non prendere atto con sollievo, e non con rimpianto, che «spettacolare è dunque non il declino del padre, ma del patriarcato come sistema che ha regolato il rapporto tra i sessi. Ci sono le condizioni perché la funzione paterna si smarchi dall’ombra del padre patriarcale?» (ivi, p. 77). Si può essere “padre” senza essere padre biologico, come si può essere “madre” senza essere state le portatrici del neonato? È solo l’utero che definisce l’essenza di una donna? Questo ci mostra Nia, un mondo molto diverso dal nostro ma anche molto simile al nostro, un mondo che in realtà è già presente, è già il nostro mondo, ma non riusciamo a vederlo, come l’esploratrice Lixia che all’inizio non riusciva a capire la stranezza di un mondo in cui l’eterosessualità è quasi un peccato contro natura (un tema simile viene esplorato in un altro appassionante romanzo di Eleanor Arnason, Meduse, Ring of Swords, 1993).
Mettere in campo il sexuale significa allora salire sulla “navicella spaziale” per provare a fare esperienza di “mondi nuovi” in cui «la donna non è colei che NON ha il pene, così l’uomo non è colui che NON ha il seno» (ivi, p. 86). Si tratta di immaginare una “identità” non costruita in contrapposizione ad un’altra identità, come se maschile e femminile esaurissero tutto lo spazio delle possibilità di individuazione. C’è sempre quel “resto”, ci ricorda Fraire, ossia il sexuale, che non è assimilabile alle identità precostituite e già da sempre assegnate. C’è sempre la possibilità di prendere la strada di Nia l’aliena.
Già la sentiamo la scontata obiezione: ma che cos’è una donna se non un vivente che appunto “non ha il pene”? E che cos’è un uomo se non un vivente “che non ha il seno”, e che quindi non può allattare? Ma si può essere madre solo in un modo? E padre soltanto in un modo? In realtà “la novità” del nostro tempo «riguarda una genitorialità non identificata né con il materno né con il paterno, una posizione non di genere, non binaria» (ivi, p. 92). Che una genitorialità del genere sia al momento impensabile (anche se non per tutti) non vuol dire che sia sbagliata o contro natura, ché la storia di Nia ci mostra che la natura è un vincolo di cui non possiamo non tenere conto, ma non un impedimento assoluto. Nia è “donna”, ma questo non significa che non possa scegliere una vita diversa da quella che la sua costituzione fisica, e le tradizioni del popolo del ferro, avevano deciso per lei. Non si tratta nemmeno di inventarsi a capriccio una identità; si tratta piuttosto del faticoso lavoro che porta ogni corpo umano, o quasi umano come quello di Nia, a costruire una identità in cui diventare sé stessi.
E non è certo una caso che Nia sia una “donna”, perché è sul corpo delle donne che è più forte la pressione sociale a identificarsi prevalentemente, se non esclusivamente, con il ruolo di madre. Nia sperimenta sé stessa, sperimenta la propria identità quando si accompagna agli alieni terrestri per scoprire una vita completamente diversa dalla sua. Come scrive Fraire, è «spaventoso ammettere che una donna possiede un corpo dentro il quale può, oltre che fare, anche disfare il vivente. (Frankenstein è il parto della fantasia di una donna e non di un uomo, non bisognerebbe dimenticarlo). Nelle pratiche abortive quando liberamente scelte dalla donna è lei stessa che occupa il posto dello scienziato sperimentatore» (ivi, p. 97). In questo senso aprire “la porta delle madri” (un’espressione usata da Freud) significa liberarle dall’unica identità - quella materna - che sempre di nuovo le si vuole attribuire. Fare la madre, ovunque tale desiderio si manifesti, come reiterazione del dono d’amore che da quella abbiamo ricevuto o come risarcimento per ciò che è mancato nel suo amore, è un’illusione pericolosa. Vuol dire negare ciò che la persona/madre sta a ricordare e testimoniare: che nel legame con la madre c’è fin dall’origine una mancanza, il cui senso in potenza consiste in un’apertura a impedire la fusione, la reduplicazione dell’identità, l’annessione a sé dell’altro (ivi, pp. 116-117).
Torna qui il tema di quel “resto” inassimilabile che sfugge alla presa delle identità precostituite. La madre è madre, ma non è solo madre né principalmente madre. C’è anche questo dietro “la porta delle madri”, un mistero, una “apertura” che non si può rinchiudere in una identità definita una volta per tutte. Torna, soprattutto, il tema della libertà, che è al centro di questo libro. Una libertà che non significa tanto libertà di affermare sé stessi (secondo la formula tautologica dell’identità, A = A), al contrario, è la libertà di perdere sé stessi, cioè di offrirsi all’incontro con l’altro, come Nia nei confronti dell’aliena terrestre Lixia. È questo il desiderio femminile secondo Fraire, un desiderio che non è alla ricerca di ciò che manca, al fine di ricostituire un’unità (sul modello di quella fusionale della madre con il corpo che le cresce dentro), al contrario, un desiderio che cerca l’impensabile e inassimilabile reale del mondo. Fraire pone allora una distinzione radicale fra l’atteso e l’ospite. Nel primo caso «desiderio sta qui per vagheggiamento di qualcuno o qualcosa che appaia al momento dell’incontro come ciò che attendevamo e per ciò stesso conforme. Chiamiamo “l’atteso” l’oggetto che presenta al momento dell’incontro questa caratteristica. Per differenza chiamiamo “l’ospite” quell’oggetto che si presenta con caratteristiche di non riconoscibilità e per ciò stesso difforme» (ivi, p. 138). Anche se quando poi l’incontriamo lo detestiamo, è l’ospite che desideriamo di incontrare (come Nia verso Lixia, e Lixia verso Nia), perché solo l’ospite ci cambia la vita:
I “mondi nuovi mai visti prima” si aprono solo quando ci esponiamo alla possibilità dell’incontro con l’ospite inatteso. Finisce un mondo, ne comincia un altro. La psicoanalisi, e il femminismo, per Manuela Fraire sono due pratiche che non hanno altro scopo che vincere la paura dell’ospite. L’atteso, il noto, l’identità. Quant’era bella la vita prima che arrivassero gli alieni dalla Terra. Ma gli alieni sono ormai sbarcati, in realtà sono già da sempre arrivati. La vita comincia solo quando si apre “la porta delle madri”. Poi non resta che seguire Nia, l’aliena: “Domattina ci metteremo in viaggio per il sud”.
Riferimenti bibliografici
E. Arnason, Sigma Draconis, Mondadori, Milano 1991.
Antropologia.
De Martino, il tarantismo e ciò che la ragione occidentale non ha capito
di Franco Cardini (Avvenire, mercoledì 30 agosto 2023)
I grandi libri sono come gli esami secondo il grande Eduardo: non finiscono mai: E rileggerli è sempre un’avventura, sempre una scoperta: perché è vero ch’essi non cambiano, ma altresì che in realtà cambiamo noi. L’editore Einaudi procede nel suo benemerito impegno di restituirci, per mezzo di nuove edizioni, l’intera storia di Ernesto De Martino (La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, a cura di Marcello Massenzio. Pagine LII-407, euro 27,00).
Lo conosciamo bene, direte voi; e magari molti aggiungeranno di avere tanti suoi libri in casa. è qui che vi sbagliate. Ne conoscete le edizioni precedenti, e magari ne avrete letto - e ne avete presente - il contenuto, esaminato però alla luce di considerazioni critiche sia pur eccellenti, ma ormai sorpassate: perché studiare, e capire, significa anzitutto aggiornarsi.
De Martino è stato un idolo, o magari l’oggetto di critiche durissime, comunque un “mostro sacro” della nostra cultura accademica del terzo quarto del secolo scorso, un venticinquennio circa attraversato da enormi novità. Ne conoscevamo il pensiero ispirato a una visione storicistica di segno liberamente marxiano e d’impegno meridionalista, certo non dimentica dell’originaria lezione crociana e profondamente toccata da una passione civica socialista, sulla quale tuttavia la lettura di Antonio Gramsci era stata determinante; e chi ad esempio ha letto le pagine gramsciane dedicate a Giacomo Matteotti (che magari non sono le sue migliori) sa bene come nel pensiero “di sinistra”, che pur sapppiamo non omogeneo, si possa essere lontanissimi da quel crepuscolo nel quale tutte le vacche sono bigie. Ma a De Martino dobbiamo scritti davvero incontournables, che a tutt’oggi continuano ad esserlo: pensiamo a Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, del 1948 (riedito da Einaudi nel 2022); al commovente e sconvolgente Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, del 1958 (riedito nel 2021); all’ancor oggi fondamentale Magia e civiltà, del 1962; e ai molti saggi suoi e di altri, taluno epocale, contenuti nelle raccolte Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro edito nel 1995, Furore simbolo valore edito nel 2002, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, edito nel 2019.
Uno studioso così non lo si cataloga: certo, fu storico delle religioni, etnologo, filosofo della storia aperto precocemente a ogni sorta di esperimento interdisciplinare, pioniere della ricerca sul campo nel “suo” Meridione e perfino - com’è stato arditamente ma non arbitrariamente definito - etnopsichiatra orientato a una conoscenza della historia rerum gestarum sicura e definitiva in sé ma tesa alla conoscenza di un’historia condenda, una realtà futura possibile che consenta di far rivivere il passato angosciante trasformandolo in un futuro migliore.
La terra del rimorso, dedicata al mito diffuso nell’àmbito dell’area di Taranto del morso della tarantola che provocherebbe nelle vittime una danza frenetica, e al rinnovato morso di essa (il “rimorso”, appunto), che darebbe luogo a un rituale di liberazione dall’angoscia frenetica grazie al sapiente uso da parte di esperti locali di un apparato di musiche, di danza (tutti conoscono la “tarantella”...) e di colori, aveva e nei rituali a tutt’oggi praticati ad esempio a Galatina conserva un suo valore testimoniale preciso.
Si tratta basicamente di uno studio sugli usi magico-religiosi folklorici del Mezzogiorno, che fu preceduto da una larga inchiesta (“sul campo” nel 1959) e che, uscendo nel 1961, venne messo in rapporto - com’era indicato dallo stesso De Martino - col capolavoro dell’antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss, Tristes tropiques, edito nel 1955 e tradotto in italiano nel 1960. E grande era il debito di entrambi gli studiosi nei confronti di Sigmund Freud e in particolare della sua monografia dedicata nel 1920 al tema Al di là del principio del piacere, con le pagine assolutamente rivoluzionarie su quel che la psicanalisi definisce “abreazione”, cioè «il momento decisivo della cura - come appunto spiegava Lévi-Strauss in Anthropologie structurale - in cui il malato rivive la situazione all’origine del suo squilibrio, prima di superarlo definitivamente». Ed esistono gli “abreatori professionali”: sciamani o psicanalisti che siano.
Ed ecco il punto. Studiando le “tarantate” sul campo e rileggendo tutta la letteratura a ciò connessa, a cominciare dal trattato che nel Quattrocento dedicò loro l’umanista Giovanni Pontano e nel Seicento il gesuita Athanasius Kircher, il nostro Ernesto De Martino ci ricondusse alle radici dell’arretratezza e del disagio del Meridione italico, abbandonato, illuso e tradito dalle classi dirigenti italiane dall’Ottocento a oggi. Su ciò, s’innestò una polemica durissima e vivacissima.
Oggi però il “rimorso” di una falsa partenza critica deve cedere il passo al disincanto. A guidarci è proprio il curatore della nuova edizione einaudiana della Terra del rimorso, Marcello Massenzio, storico delle religioni tanto severo e appartato quanto critico “da sempre” delle mode intellettuali; con un coraggio che in certi momenti gli ha procurato qualche difficoltà, non ha esitato a servirsi di autori sempre autorevoli ma non sempre “graditi”, quali Mircea Eliade.
Il vero disagio provato da De Martino dinanzi al mito e al rito della taranta era il medesimo provato da Lévi-Strauss dinanzi ai miti e ai riti da lui studiati nell’America tropicale: quello della coscienza di una cultura occidentale moderna dotata d’una capacità violentissima di distruzione di qualunque altra civiltà e di un’immensa superbia che per circa quattro secoli l’ha autorizzata non solo a cancellare, ma anche a condannare come “false”, “arcaiche”, “illusorie”, “superate” tutte le altre civiltà che l’avevano preceduta; e addirittura a parlare anche indiscriminatamente, delle loro “pseudoscienze”. Lo aveva già notato nel 1960, un giovane studioso peraltro simpatizzante della sinistra socialista, Sergio Moravia, che all’ancora non troppo conosciuto Lévi-Strauss dedicava un breve saggio che fu sottovalutato, La ragione nascosta, che indagava sul valore delle culture “altre” rispetto a quella che sentiamo “nostra” e nel nome della quale ci sentiamo sempre e comunque “nel vero”.
Ecco la nostra “nuova Terra del Rimorso”. In questi anni di matura globalizzazione, mentre il mondo sembra avviato a una nuova fase multipolarista nel suo assetto politico, si profilano all’orizzonte anche nuove infauste forme di occidentocentrismo, nuovi suprematismi a loro volta suscettibili di provocare risposte di segno contrario ma di pari violenza antagonista. Riflettere non già sugli errori delle culture del passato o residuali del presente, bensì sul dogmatismo delle nostre pretese suprematiste di oggi, sarà necessario e salutare: se non lo faremo, andremo incontro a pericoli davvero seri. Anche in questo senso la rilettura del capolavoro demartiniano sarà salutare.
Storia, Filosofia, Psicoanalisi, e Antropologia:
Mente accogliente: "Il cristianesimo deve contenere in sé tutte le vocazioni senza eccezione, perché è #cattolico. Di conseguenza, anche la Chiesa. Ma, ai miei occhi, il cristianesimo è cattolico di diritto e non di fatto. Tante cose ne sono #fuori" (Simone Weil, 1942 - Parigi, 3 febbraio 1909 - Ashford, 24 agosto 1943).
P. S. - "Il disagio della civiltà": "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori [...]" (S. Freud, 1929).
#PIANETATERRA, #RECINZIONI (#ENCLOSURES) E #CIVILTA’:
L’#ABC DELLA #FILOLOGIA, DELLA#LOGICA, E DELLA FILO-#SOFIA DELLA #DIGNITA’ DELL’#UOMO ("DE HOMINIS DIGNITATE").
"COME FARE COSE CON LE PAROLE" (J. L. Austin). LA "PREMESSA" DI UN "ANTICO" SILLOGISMO.
"Avevo cinque anni. L’insegnante ha scritto sulla lavagna: "Tutti gli uomini sono mortali". -Ho provato un enorme sollievo, una grande gioia.
Quel pomeriggio, quando uscii da scuola, corsi a casa e abbracciai molto strettamente mia madre.
"Che fortuna mamma, tu non morirai mai! "Gli ho detto, rapito.
"Cosa? " chiese mia madre, sorpresa.
Mi sono separato appena da lei e le ho spiegato:
La maestra ha scritto sulla lavagna che gli uomini sono mortali.
E tu sei una donna!. Per fortuna sei una donna, ho detto e l’ho riabbracciata.
Mia madre mi ha teneramente separato dalle sue braccia.
Questa frase, mia cara, include uomini e donne. Tutti e tutte moriremo un giorno.
Mi sono sentita completamente sconvolta e delusa.
Allora perché non l’ha scritto? : "Tutti gli uomini e le donne sono mortali"? Ho chiesto.
Beh - ha detto mia madre, in realtà, per semplificare, noi donne siamo rinchiuse nella parola "uomini".
Chiuse? - Ho chiesto. Perché?
Perché siamo donne - mi rispose mia madre.
La risposta mi ha sconcertato.
E perché ci rinchiudono? Gliel’ho chiesto.
È molto lungo da spiegare, rispose mia madre. Ma accettalo così. Ci sono cose che non sono facili da cambiare.
Ma se dico "tutte le donne sono mortali"? Rinchiude anche gli uomini?
No- rispose mia madre. Questa frase riguarda solo le donne.
Ho avuto una crisi di pianto.
Ho capito all’improvviso molte cose e alcune molto spiacevoli, come che il linguaggio non era la realtà, ma un modo per rinchiudere cose e persone, a seconda del loro genere, anche se sapevo a malapena cosa fosse il genere: oltre a servire a fare gonne, il genere era una forma di prigione. "
* Cristina Peri Rossi - Scrittrice uruguaiana vincitrice 2021 del Premio Cervantes.
#SONNODOGMATICO (#KANT), #PREISTORIA (#MARX) #LETARGO (#Dante2021)! A ONORE E OMAGGIO DELL’ Attacco Poetico di #CristinaPeriRossi ... ALLEGO LA #SINTESI DELLA #TEORIA PLATONICO-ARISTOTELICA DEL "#SAPIENTE" (#BOVILLUS. 1510), #CRITICA-#MENTE AL CENTRO DEL LORO LAVORO DA #STEFANOMANCUSO E #ALESSANDRAVIOLA NEL LIBRO "VERDE BRILLANTE. SENSIBILITà E INTELLIGENZA DEL MONDO VEGETALE" (Giunti Editore).
SOCIOLOGIA, PSICOANALISI, E CRITICA DELLO "STATO NASCENTE" E DELLO "STATO PUTRESCENTE":
"MOVIMENTO E ISTITUZIONE" (1977) E "INNAMORAMENTO E AMORE" (1979) .... E "LA FRECCIA FERMA. TRE TENTATIVI DI ANNULLARE IL TEMPO" (1979).
Due appunti sulle ricerche di Elvio Fachinelli e di Francesco Alberoni:
A) - "Alberoni, ’Innamoramento e amore’ bestseller internazionale (Adnkronos):
"Era il 1979 quando dall’editore Garzanti usciva il saggio che lo rese il sociologo più famoso d’Italia [...] Dopo un lungo periodo di #ideologie che avevano negato ogni valore alla coppia, all’#innamoramento e ridicolizzato l’esclusività e la gelosia, "Innamoramento e amore" fu come un lampo che fece improvvisamente vedere una realtà nascosta. Ed ebbe un immediato successo con traduzioni in 25 lingue. Criticando le correnti filosofiche e psicologiche dominanti che riducevano l’innamoramento a una #rimozione sessuale o a una #regressione infantile, il libro lo colloca nel #campo dei processi collettivi in cui #due individui si ribellano ai loro legami precedenti e danno origine, attraverso l’entusiasmo dello stato nascente, a una nuova comunità: la coppia innamorata, proiettata sul futuro." (AdnKronos).
B) - STATO "PUTRESCENTE": SOCIETA’ ARCAICA, NEVROSI OSSESSIVA, E FASCISMO. Sul tema, e sul percorso "sociologico" di Francesco Alberoni, forse, è opportuno richiamare anche il contesto storico e riconsiderare il lavoro critico della rivista "L’erba voglio" e il "soprendente" saggio del 1979 dello psicoanalista Elvio Fachinelli, dal filosofico titolo "LA FRECCIA FERMA. Tre tentativi di annullare il tempo" (cfr. la mia recensione su BELFAGOR, 3, 1980, pp. 363-365).
Individuo e società... questione antropologica e paradosso del mentitore:
Sociologia, filosofia, psicoanalisi e critica della ragione "pura", troppo "pura"!
Una nota in ricordo e in omaggio al lavoro del sociologo Francesco Alberoni... *
Nonostante Alberoni abbia scritto un lavoro molto interessante e creativo, a partire dal suo celebre "Movimento e istituzione" (1977), intitolato "Genesi" (1989), l’ambiguità del suo orizzonte sociologico è rimasto per così dire intrappolato nella logica dell’individualismo (e non solo metodologico), ha chiuso un occhio (ricordare anche Freud) e non ha saputo sciogliere il nodo della nascita dell’ in_divi_duo, (dal e) del "due in uno" (da non dividere).
Il problema antropologico epocale è ancora quello evangelico giovanneo (e cristologico) di Nicodemo (Enzo Paci, 1944): "come si ri-nasce", "come nascono i bambini".
Buon ferragosto (15 agosto 2023).
PIANETA TERRA: ANTROPOLOGIA FILOSOFICA E "APOCALISSE". "SAPERE AUDE!" (KANT): UNA "RIVELATIVA" QUESTIONE DI "CRITICA DELL’ ECONOMIA POLITICA" *
L’eredità del nostro tempo
di Giorgio Agamben (Quodlibet, 31 luglio 2023)
La meditazione sulla storia e la tradizione che Hannah Arendt pubblica nel 1954 porta il titolo, certo non casuale, Tra passato e futuro. Si trattava, per la filosofa ebreo-tedesca da un quindicennio rifugiata a New York, di interrogarsi sul vuoto tra passato e futuro che si era prodotto nella cultura dell’Occidente, cioè sulla rottura ormai irrevocabile della continuità di ogni tradizione. È per questo che la prefazione al libro si apre con l’aforisma di René Char Notre héritage n’est précédé d’aucun testament. In questione era, cioè, il problema storico cruciale della ricezione di un’eredità che non è più in alcun modo possibile trasmettere.
Circa venti anni prima, Ernst Bloch in esilio a Zurigo aveva pubblicato col titolo L’eredità del nostro tempo una riflessione sull’eredità che egli cercava di recuperare frugando nei sotterranei e nei depositi nella cultura borghese ormai in disfacimento («l’epoca è in putrefazione e al tempo stesso ha le doglie» è l’insegna che apre la prefazione al libro). È possibile che il problema di un’eredità inaccessibile o praticabile solo per vie scabrose e spiragli seminascosti che i due autori, ciascuno a suo modo, sollevano non sia per nulla obsoleto e ci riguardi, anzi, da vicino - così intimamente che a volte sembriamo dimenticarcene. Anche noi facciamo esperienza di un vuoto e di una rottura fra passato e futuro, anche noi in una cultura in agonia dobbiamo cercare se non una doglia del parto, almeno qualcosa come una parcella di bene sopravvissuta allo sfacelo.
Un’indagine preliminare su questo concetto squisitamente giuridico - l’eredità - che, come spesso avviene nella nostra cultura, si espande al di là dei suoi limiti disciplinari fino a coinvolgere il destino stesso dell’Occidente, non sarà pertanto inutile. Come gli studi di un grande storico del diritto - Yan Thomas - mostrano con chiarezza, la funzione dell’eredità è quella di assicurare la continuatio dominii, cioè la continuità della proprietà dei beni che passano dal morto al vivo. Tutti i dispositivi che il diritto escogita per sopperire al vuoto che rischia di prodursi alla morte del proprietario non hanno altro scopo che garantire senza interruzioni la successione nella proprietà.
Eredità non è forse allora il termine adatto per pensare il problema che tanto Arendt che Bloch avevano in mente. Dal momento che nella tradizione spirituale di un popolo qualcosa come una proprietà non ha semplicemente senso, in questo ambito un’eredità come continuatio dominii non esiste né può in alcun modo interessarci. Accedere al passato, conversare coi morti è anzi possibile solo spezzando la continuità della proprietà ed è nell’intervallo fra passato e futuro che ogni singolo deve necessariamente situarsi. Non siamo eredi di nulla e da nessuna parte abbiamo eredi ed è solo a questo patto che possiamo riallacciare la conversazione col passato e coi morti. Il bene è, infatti, per definizione adespota e inappropriabile e l’ostinato tentativo di accaparrarsi la proprietà della tradizione definisce il potere che rifiutiamo in ogni ambito, nella politica come nella poesia, nella filosofia come nella religione, nelle scuole come nei templi e nei tribunali.
* Nota:
PIANETA TERRA, 13 AGOSTO 2023.
DOPO MILLENNI DI "RECINZIONI" E DI DIRITTO ALLA "SUCCESSIONE DELLA PROPRIETA’, L’ APOCALITTICA RIVELAZIONE DI RINO GAETANO: "MIO FRATELLO E’ FIGLIO UNICO" (1976) COMINCIA AD ESSERE ACCOLTA: "FRATELLI TUTTI", E SORELLE TUTTE.
SEMBRA CHE SIA GIUNTA L’ORA DI USCIRE DAL "LETARGO" (DANTE ALIGHIERI), DI SVEGLIARSI DAL "SONNO DOGMATICO" (KANT), E LASCIARSI ALLE SPALLE LA "TERRA" DEL PLATONISMO E DEL PAOLINISMO: SEMBRA CHE SIA GIUNTA L’ORA DI USCIRE DAL "LETARGO" (DANTE ALIGHIERI), DI SVEGLIARSI DAL "SONNO DOGMATICO" (KANT), E DI LASCIARSI ALLE SPALLE LA "RICAPITOLAZIONE" DEL PLATONISMO, DEL PAOLINISMO, E DELL’HEGELISMO:
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON UN LOGO): "IO SONO L’ ALFA E L’OMEGA".
MARXISMO, PAOLINISMO E LENINISMO: STORIA E STORIOGRAFIA. UNA NOTA A MARGINE DELL’INTRODUZIONE A "IL POLITICO. Da Machiavelli a Cromwell" (Mario Tronti, 1979).
In memoria di Mario Tronti... credo che non sia proprio il caso di lasciar cadere l’importanza dei suoi studi sul tema del "politico" :
"INTRODUZIONE: 1. Il politico ha una storia. E’ la storia moderna del rapporto di potere [...] Il passato ha una storia borghese. Non si può saltare. non si può arrivare subito a un politico "altro", senza aver attraversato e sperimentato e conosciuto quello che già c’è. Il passato pesa. Il capitalismo ha prodotto fin qui potere, ma anche il potere ha prodotto capitalismo. Quest’ultima cosa è difficile da accettare. [...] Il politico ha una storia borghese moderna. Molte delle cose che facciamo oggi male, sono state ben fatte qualche secolo fa. E’ impressionante quanto poco di nuovo ci sia sotto il sole della politica. No, non è la tesi banale che la politica è sempre quella. Non è sempre quella [...] La nascita del politico come problema è alle origini della scienza capitalistica. L’impatto, l’intreccio, lo scambio, il conflitto è tra soggetto statale e transizione al capitalismo. Senza Stato, fin dalle origini, niente capitalismo. Senza politica moderna, subito, fin dagli inizi, nessuna rivoluzione borghese. Rileggiamo il caso "marxiano" dell’Inghilterra [...].
Con Hobbes, in epoca borghese, prende inizio una vera e propria età dello Stato. Da Machiavelli a Cromwell, - questa è l’età della politica moderna. Nasce un fare, un agire, che è di un individuo singolo, ma è per tutti gli altri, o su tutti gli altri. E’ l’azione pubblica della persona isolata, è l’attività politica. Nascono delle leggi per l’azione, delle regole per dirigere gli uomini, delle forme per dominarli. Nasce la razionalità della politica: dentro, c’è la reiterazione del comportqamnto umano e il disprezzo per la vocazione naturalmente subalterna dell’uomo, il cittadino come suddito; fuori, c’è il gusto dell’abilità e il senso della forza, la coltura della virtù e il comando sulla fortuna, "quelli principi sono deboli, che non stanno in su la guerra." Questo è l’orizzonte borghese della politica: l’unico che finora si sia dato." (cfr. "IL POLITICO. Antologia di testi" a cura di Mario Tronti. Vol. primo, Tomo primo, Feltrinelli 1979).
MARX- LENIN, CRISTO - SAN PAOLO: A. GRAMSCI, "POSIZIONE DEL PROBLEMA: [...] Marx inizia intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità, 〈superata〉 da concezione della libertà). Fare un parallelo tra Marx e Ilici per giungere a una gerarchia è stolto e ozioso: esprimono due fasi: scienza-azione, che 〈sono〉 omogenee ed eterogenee nello stesso tempo. Così, storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo: Cristo-Weltanschauung, S. Paolo organizzazione, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessarii nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, non teorico)." (A. Gramsci, "Quaderno 7 (VII) § (33)").
PENSARE L’ALDI LA’ DELLA TRADIZIONE TEOLOGICO-POLITICA DI SAN PAOLO. Riaprire l’orizzonte storiografico stretto nei limiti "da Machiavelli a Cromwell" e ripartire, recuperando il filo della lezione di Dante Alighieri ("Monarchia") presente nel lavoro di Mercurino da Gattinara (con Carlo V) e la critica tensione teologico-politica alla base dell elisabettiano "Amleto" di Shakespeare.
TEATRO, METATEATRO, E CRITICA DELLA TEOLOGIA-POLITICA CATTOLICO-SPAGNOLA:
SHAKESPEARE, CON "AMLETO" (E DANTE), CERCA LA VIA D’USCITA PER PORTARSI OLTRE LUTERO E OLTRE ERASMO E TOMMASO MORO.
iN "The Book of Sir Thomas More", Shakespeare prende le distanze dalle posizioni teologiche di Tommaso Moro (ed Erasmo) e chiarisce le ragioni antropologiche, politiche e teologiche della Riforma anglicana.
Sir Thomas Moore
da Maria Borio (Nuovi Argomenti, 18 Dic. 2017) *
Il libro di Sir Tommaso Moro
Scena 6 Entrano Lincoln, Doll, Clown [Betts" class="spip_out">William Shakespeare, Tutte le opere, coordinamento generale di Franco Marenco, Volume terzo, I drammi storici, Bompiani, Milano, 2017, George Betts, Williamson, [Sherwin] e altri: [Cittadini, armati][i]
LINCOLN
Silenzio, ascoltatemi! Chi non vuol vedere un’aringa affumicata a quattro centesimi[ii], il burro a undici centesimi alla libbra, la farina a nove scellini allo staio[iii] e il manzo a quattro nobili[iv] per sei chili, mi ascolti[v].
UN ALTRO GEORGE BETTS
Arriveremo a tanto se continuiamo a tollerare gli stranieri. Dategli retta.
LINCOLN
Per il cibo il nostro è un grande paese; argo[vi], questi mangiano più da noi che in patria.
UN ALTRO CLOWN BETTS
Almeno una pagnotta da mezzo centesimo al giorno, pesata alla francese[vii].
LINCOLN
Loro importano qui verdure straniere giusto per rovinare i poveri apprendisti: cos’è mai una misera pastinaca rispetto al nostro buon cuore?
UN ALTRO WILLIAMSON Schifezze, schifezze! Infiammano gli occhi, e questo basta per impestare la città con un’ondata di paralisi cerebrale[viii].
LINCOLN
Con quella l’hanno già impestata: queste bastarde piante del letame (lo sapete, no? che crescono nel letame!) ci hanno impestato, e la nostra infezione farà tremare tutta la città, cosa che in parte succede a mangiar pastinache.
UN ALTRO CLOWN BETTS
È vero, e anche le zucche.
GUARDIA
Che cosa rispondete alla clemenza del re? La rifiutate?
LINCOLN
Vorreste prenderci in contropiede, non è vero? Niente affatto, non la rifiutiamo. Accettiamo la clemenza del re, ma non avremo compassione degli stranieri.
GUARDIA
Siete gli esseri più ingenui che si siano mai infilati in un pasticcio del genere.
LINCOLN
Che ne dite adesso, apprendisti? Apprendisti ingenui? Diamogli una lezione.
TUTTI
Apprendisti ingenui? Ingenui noi?
SHREWSBURY SINDACO
Fermi, in nome del re, fermi!
SURREY
Amici, maestri, compatrioti...
SINDACO
Silenzio, oh, silenzio! Vi ordino di stare calmi!
SHREWSBURY
Maestri miei, compatrioti...
SHERWIN WILLIAMSON
Il nobile conte di Shrewsbury! Ascoltiamolo!
GEORGE BETTS
Vogliamo sentire il conte di Surrey!
LINCOLN
Il conte di Shrewsbury!
GEORGE BETTS
Vogliamo sentirli tutti e due!
TUTTI I CITTADINI
Tutti e due, tutti e due, tutti e due, tutti e due!
LINCOLN
Silenzio, vi dico, silenzio! Siete persone assennate o che cosa?
SURREY
Tutto quel che volete, tranne che persone di buon senso.
ALCUNI CITTADINI
Non vogliamo sentire lord Surrey!
ALTRI CITTADINI
No, no, no, no, no! Shrewsbury, Shrewsbury!
MORO
Hanno oltrepassato l’argine dell’obbedienza, e così travolgeranno ogni cosa.
LINCOLN
Parla lo sceriffo[ix] Moro! Vogliamo sentirlo, lo sceriffo Moro?
DOLL
Sentiamolo! Il suo è uno sceriffato[x] generoso, e ha fatto diventare mio fratello, Arthur Watchins, attendente del sergente Safe. Sentiamo lo sceriffo Moro!
TUTTI I CITTADINI
Sceriffo Moro, Moro, Moro, sceriffo Moro!
MORO
Secondo l’autorità in vigore fra di voi, ordinategli di ascoltare in silenzio.
ALCUNI CITTADINI
Surrey, Surrey!
ALTRI CITTADINI
Moro, Moro!
LINCOLN e GEORGE BETTS
Zitti, zitti, silenzio, zitti!
MORO
Voi che avete autorità e credito presso la folla, ordinategli di fare silenzio.
LINCOLN
Gli venga un accidente, non vogliono star zitti. Neanche il diavolo può governarli.
MORO
Che incarico spinoso e difficile avete, guidare gente che neanche il diavolo è in grado di governare. Cari maestri, ascoltate le mie parole.
DOLL
Sì, corpo di Cristo, vi ascolteremo, Moro. Siete un buon padrone di casa, e ringrazio vostra altezza per mio fratello Arthur Watchins.
TUTTI GLI ALTRI CITTADINI
Zitti, pace!
MORO
Attenti, voi offendete proprio quello che invocate, cioè la pace. Nessuno di voi sarebbe qui presente, se quando eravate bambini fossero vissuti dei vostri simili che avessero travolto[xi] la pace come voi volete fare adesso; quella pace in cui finora siete cresciuti vi sarebbe stata tolta, e i tempi sanguinari non vi avrebbero permesso di diventare adulti. Poveri voi! Che cosa otterrete se anche vi concediamo quello che cercate?
GEORGE BETTS
Per la Madonna, mandar via gli stranieri, cosa che senz’altro porterà grandissimo vantaggio ai poveri artigiani della città.
MORO
Mettiamo che vengano allontanati, e mettiamo che la vostra baraonda abbia soffocato[xii] tutta l’autorità reale dell’Inghilterra. Immaginate di vedere i disgraziati stranieri trascinarsi verso la costa e i porti per imbarcarsi, con i loro miseri bagagli e i bambini dietro[xiii], mentre voi ve ne state a soddisfare i vostri desideri come sovrani, con le autorità ammutolite dal vostro berciare e voi tronfi nella gorgiera della vostra arroganza: che cosa avrete ottenuto? Ve lo dico io: avrete mostrato come la superbia e la forza possono prevalere e come l’ordine può essere distrutto. Ma in questo schema di cose non uno di voi giungerebbe alla vecchiaia, poiché altri furfanti, seguendo le loro ubbie, con identiche mani, identiche ragioni e identico diritto, vi spolperebbero, e gli uomini si divorerebbero fra loro come pesci voraci.
DOLL
Dio mi sia testimone, questo è vero come il vangelo.
GEORGE BETTS LINCOLN
Sì, questo è uno pieno di buon senso, parola mia. Stiamo attenti a quello che dice.
MORO
Miei cari amici, lasciate che sottoponga un’ipotesi alla vostra riflessione. Se ci pensate bene, vi accorgerete quale forma orribile hanno in sé le vostre novità rivoluzionarie. Anzitutto, è un peccato verso il quale l’Apostolo ci ha ammonito spesso di stare in guardia, raccomandandoci di obbedire alle autorità[xiv]; e non sbaglierei se vi dicessi che voi siete insorti contro Dio.
TUTTI I CITTADINI
Santa Vergine, che Dio non voglia!
MORO
Eppure è così, perché al re Dio prestò il proprio ufficio di terrore, giustizia, potere e comando. A lui ingiunse di governare e volle che voi obbediste. E per aggiungere a questo una più ampia maestà, prestò al re non soltanto la sua figura, il trono e la spada, ma gli diede il suo stesso nome, chiamandolo dio in terra. Che cosa fate dunque voi, ribellandovi contro un uomo insediato da Dio in persona, se non ribellarvi contro Dio? Facendo così, che cosa fate alle vostre anime? Oh sconsiderati, lavate di lacrime le vostre menti corrotte; e le stesse mani che da ribelli levate contro la pace, a favore della pace alzatele, e le vostre ginocchia sacrileghe trasformatele in piedi. Inginocchiarsi per il perdono è la guerra[xv] più sicura che potete fare voi, la cui tattica[xvi] è la ribellione. Su, su, tornate a obbedire! Perfino questa sommossa può proseguire solo con l’obbedienza. Ditemi soltanto: quando una rivolta sta per scoppiare, quale capopopolo è in grado di sedare la turba nel proprio nome? Chi vuole obbedire a un traditore? O quanto bene suonerà l’elezione di qualcuno che come titolo abbia solo quello di ‘ribelle’ per definire un ribelle?
Voi volete schiacciare gli stranieri, ucciderli, tagliargli la gola, impadronirvi delle loro case e condurre al guinzaglio[xvii] la maestà della legge, per aizzarla come un segugio. Ahimè, ahimè! Supponiamo adesso che il re, nella sua clemenza verso i trasgressori pentiti, giudicasse il vostro grave reato limitandosi a punirvi con l’esilio: dove andreste, allora? Quale paese vi accoglierebbe vedendo la natura del vostro errore? Che andiate in Francia o nelle Fiandre, in qualsiasi provincia della Germania, in Spagna o in Portogallo, anzi no, un luogo qualunque diverso dall’Inghilterra, vi ritroverete inevitabilmente stranieri.
Vi farebbe piacere trovare una nazione dal carattere così barbaro che, in un’esplosione di odiosa violenza, non vi offrisse dimora sulla terra, affilasse i suoi detestabili coltelli sulle vostre gole, vi cacciasse via come cani, quasi che Dio non vi avesse creati né vi riconoscesse come suoi figli, o che gli elementi naturali non fossero stati fatti per il vostro benessere ma riservati per legge esclusivamente a loro? Che cosa pensereste se vi trattassero così? Questa è la condizione degli stranieri, e questa la vostra barbara disumanità.
TUTTI I CITTADINI
In fede, dice la verità. Facciamo agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi stessi.
TUTTI I CITTADINI LlNCOLN
Ci faremo governare da voi, mastro Moro, se ci sarete amico e ci procurerete il perdono.
MORO
Sottomettetevi a questi nobili signori[xviii], implorate la loro mediazione presso il Re, assumete un comportamento ortodosso, obbedite al magistrato, e senza dubbio troverete misericordia, se la cercate in questo modo.
* Fonte: Nuovi Argomenti, Dic 18, 2017 (ripresa parziale, senza le note).
HEGELISMO, PLATONISMO, FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA)*
"MENSCHWERDUNG" ("DIVENTARE UN ESSERE UMANO"). "Dio è amore" ("Deus charitas est"), condivido (è una questione di "h": "Charitas", gr. "Xapitas"). Hegel ha messo il dito nella piaga: "La vita di Dio e il conoscere divino potranno bene venire espressi come un gioco dell’#amore ["ein Spielen der Liebe"] con se stesso; questa idea degrada fino all’edificazione e addirittura all’insipidezza, quando mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio ["Arbeit"] del negativo" ("Fenomenologia dello Spirito", §19).
A ben "orientarsi nel pensiero" (Kant) e, al contempo, nel sollecitare una ri-considerazione unitaria della "Prefazione" ("Vorrede") della "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel e la figura della profetessa di Mantinea, Diotima, a mio parere, emerge chiaramente il #nodo antropologico di fronte a cui Hegel si è trovato e che ha sciolto in modalità tragica, edipica e paolina, con tutta la "socratica" potenza di un #Napoleone (Alessandro Magno); non con lo spirito del #Logos (di Eraclito e dell’evangelista Giovanni) né della #Giustizia di Parmenide, egli ruba "alla #Platone" l’anima a Diotima ("Simposio") e ripropone una demiurgica e demogorgonica #cosmoteandria t(al)ebana: "[...] che il vero sia effettuale solo come sistema o che la sostanza sia essenzialmente soggetto ciò è espresso in quella rappresentazione che enuncia l’#assoluto come #spirito - elevatissimo concetto appartenente all’età moderna e alla sua #religione" (Fenom. d. spir., § 22).
A che gioco giochiamo, a che giogo vogliamo continuare a giocare? Non è meglio, forse, riprendere il filo proprio da Diotima e, con Dante Alighieri ("Due Soli") e portarsi fuori dalla tragedia dei "Tempi moderni" (Charlie Chaplin)?
P. S. 1 - «Senza Hegel non sarebbe stato possibile neppure Darwin, afferma Nietzsche, e l’avrebbe potuto dire anche di se stesso; infatti chi si ammali una volta di hegelite - così mordacemente si era espresso un decennio prima - non ne guarirà mai del tutto. E che cosa sarebbe la critica alla religione di Fuerbach e di Marx, o anche quella odierna di Ernst Bloch e Georg Lukács senza Hegel?» (Hans Küng, "Incarnazione di Dio. Introduzione al pensiero teologico di Hegel, prolegomeni ad una futura cristologia", Queriniana, 1972).
P. S. 2 - EUROPA: CRISTIANESIMO CATTOLICESIMO COSTITUZIONE E SPIRITO DI ASSISI (1986). Quando Benedetto Croce pubblicò il suo «Perché non possiamo non dirci "cristiani"» (1942), don Giuseppe De Luca ’confessò’ al Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai: si è "rincristianito per dispetto". Come concordato...!!!
*
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E TEOLOGIA.
UN PIANETA TERRA DA RIPENSARE E UN IMMAGINARIO DA RISTRUTTURARE: PENSARE L’ EDIPO COMPLETO (S. FREUD). UNA QUESTIONE DI ILLUMINAZIONE (E DI ILLUMINISMO KANTIANO): "NOI ALUNNI DEL SOLE". In memoria di Italo Calvino.
Appunti su un tema del "genere" (il Sole, l’astro del cielo, un dio o una dea?):
A) IL SOLE ("DIE SONNE") DI ZARATHUSTRA (NIETZSCHE):
"Quand’ebbe compiuto il trentesimo anno, Zarathustra lasciò la sua patria e il lago natìo, e si recò su la montagna. Là per dieci anni gioì, senza stancarsene, del suo spirito e della sua solitudine.
Ma al fine il suo cuore si mutò; e un mattino egli si levò con l’aurora, s’avanzò verso il sole e così gli disse:
«Oh grande astro! Che sarebbe della tua felicità, se tu non avessi a chi splendere?
Per dieci anni tu sei venuto alla mia caverna: ti saresti recato a noja la tua luce e il tuo cammino senza di me e del mio serpente.
Ma noi ti attendevamo tutte le mattine, tu ci davi il tuo superfluo e ne avevi ricambio di benedizioni." ("Così parlò #Zarathustra/Parte prima/Prefazione");
B) MITOLOGIA NORRENA ("EDDA DI SNORRI"). LA SIGNORA DEL SOLE ("FRAU SUNNE"):
"Sól era, nella mitologia norrena, la dea del Sole, figlia di Mundilfœri e moglie di Glenr.
Ogni giorno, Sól guida attraverso il cielo il suo carro, tirato da due cavalli, Árvakr e Alsviðr.
Così se ne parla nel Gylfaginning, la prima parte dell’Edda in prosa basso-medievale di Snorri Sturluson (circa 1220 d.C.) [...]
Sól era chiamata anche Sunna e Sunne, e inoltre Frau Sunne (Signora del Sole) [...]" (Sól);
C) AMATERASU ("LA DEA DEL SOLE"):
"Amaterasu-ō-mi-kami (天照大御神 lett. "Grande dea che splende nei cieli"?), generalmente abbreviato in Amaterasu, è la dea del Sole nello shintoismo giapponese. È considerata la mitica antenata diretta della famiglia imperiale giapponese.
Amaterasu è comunemente indicata come di genere femminile, nonostante il Kojiki, il più antico documento scritto della storia nipponica, dia pochi indizi riguardo al suo genere [...]" (Amaterasu);
D) QUESTIONE ANTROPOLOGICA E PSICOANALISI. L’ESISTENZA DEL "COMPLESSO EDIPICO COMPLETO" (S. FREUD, 1923);
"[...] Vedere il caso del Giappone - nella cultura giapponese c’è la Dea in cielo, e l’imperatore sulla terra; ora-oggi!!!, dal momento che alla coppia imperiale è nata una bambina, si parla di cambiare la Costituzione per far sì che Lei possa accedere al trono ... ma il problema è più complesso - come si può ben immaginare - perché ... deve essere cambiata anche la Costituzione celeste dell’Impero del Sol Levante!!! Se no, l’Imperatrice con Chi si ’sposerà’?! Con la Dea?!!
Non è questa forse la ragione nascosta del “disagio della civiltà” dell’Oriente e dell’Occidente ..... e anche della sua fine, se non ci portiamo velocemente fuori da questo orizzonte edipico-capitalistico di peste, di guerra e di morte? [...]" (Costituzione dogmatica della chiesa "cattolica"... e costituzione dell’Impero del Sol Levante).
TEOLOGIA ANTROPOLOGIA E SCIENZA:
COME NASCE LA COSCIENZA? COME NASCONO LE IDEE? COME NASCONO I BAMBINI?!
LA "NAVE" DI GALILEO GALILEI E IL "DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO" *
La sfida.
E il filosofo vinse sullo scienziato la scommessa sulla coscienza
25 anni fa il neuroscienziato Koch aveva scommesso con il filosofo Chalmers che entro il 2023 si sarebbe scoperto come i neuroni producono la coscienza. Ha pagato con una cassa di porto
di Andrea Lavazza (Avvenire, sabato 1 luglio 2023
Che i filosofi abbiano la meglio sugli scienziati non è esperienza comune nel panorama intellettuale di oggi. Quando poi vincono una scommessa venticinquennale in uno dei campi di ricerca più importanti e significativi per la nostra vita, allora siamo di certo davanti a una grande notizia. Nel 1998, il neuroscienziato Christof Koch aveva messo in palio una ricompensa alcolica con il filosofo David Chalmers, nella certezza che sarebbe stato scoperto entro il 2023 il modo in cui i neuroni del cervello producono la coscienza. Il 23 giugno scorso, in occasione della riunione annuale dell’Associazione per lo Studio Scientifico della Coscienza alla New York University, entrambi i contendenti hanno convenuto pubblicamente che la ricerca nel campo è ben lungi dall’essere giunta a un risultato definitivo e hanno dichiarato Chalmers vincitore. Nessuno nella comunità scientifica ha avuto da obiettare.
La coscienza è ciò di cui facciamo esperienza in prima persona, in modo spesso ineffabile: il gusto del gelato al cioccolato, la rossezza di un pomodoro, il mal di denti o la gioia profonda nel ritrovare un figlio che sembrava scomparso. In sintesi, “l’effetto che ci fa” qualcosa a livello soggettivo. Secondo molti pensatori, ciò che dà significato e valore alla nostra esistenza (ma possiamo scegliere un’azione buona rispetto a una cattiva anche se non proviamo nulla nel compierla). Qualcosa di assolutamente scontato e normale, ma che sembra sfuggire a chiare descrizioni. Tanto che va ancora per la maggiore la definizione proposta da William James: “La coscienza è quella cosa che scompare quando facciamo un sonno senza sogni e ricompare al risveglio”.
Per tanti secoli è stata associata a un elemento immateriale, l’anima o lo spirito, infine la mente. Ma la scienza contemporanea l’ha dichiarata un fenomeno naturale, che non può sfuggire alle leggi fisiche, e perciò indagabile con gli strumenti utilizzati per esplorare il cervello, dove si pensa risieda. Il giovane Chalmers ebbe l’intuizione di distinguere un “problema semplice”, ovvero trovare le basi neuronali della cognizione - alle quali ci stiamo avvicinando - da un “problema difficile”, ovvero come sorgano da un’entità materiale le sensazioni mentali che non sembrano condividere nessuna proprietà con la loro presunta fonte, ovvero le cellule nervose. Koch lavorava con il premio Nobel Francis Crick ed era attivamente impegnato a identificare i correlati della coscienza, ovvero quelle regioni del cervello che appaiono indispensabili per la presenza dei fenomeni coscienti. Di qui la scommessa che nulla aveva a che fare con le convinzioni esistenziali dei proponenti, dato che il “materialista” Koch era allora un cattolico praticante e il dualista Chalmers - ovvero sostenitore alla Cartesio (più o meno) dell’esistenza di due sostanze - un agnostico.
In un quarto di secolo la scienza è andata veloce e diverse teorie che ambiscono a spiegare la nascita e il funzionamento della coscienza sono oggi sul mercato. La circostanza che ha portato oggi a dirimere la contesa fra i due studiosi risiede nel fatto che si è da poco conclusa un’altra sfida legata proprio al tentativo di testare la migliore spiegazione. Sono infatti due le proposte - empiricamente validabili - che si contendono oggi i favori della comunità dei ricercatori. La teoria dell’informazione integrata (IIT), dovuta principalmente a Giulio Tononi e allo stesso Koch, e la teoria dello spazio di lavoro globale (GNWT), sostenuta da Stanislas Daheane e Jean-Pierre Changeux. La IIT sostiene che la coscienza è legata a una “struttura” cerebrale formata da uno specifico tipo di connessioni neuronali che rimane attivo per tutto il tempo in cui si verifica una determinata esperienza, come per esempio la visione di un oggetto. Si ritiene che questa struttura si trovi nella corteccia occipitale, nella parte posteriore del cervello. La GNWT, invece, suggerisce che la coscienza nasce quando le informazioni vengono trasmesse a diverse aree del cervello attraverso una rete interconnessa. La trasmissione avviene all’inizio e alla fine di un’esperienza e coinvolge la corteccia prefrontale, nella parte anteriore del cervello.
Sei laboratori indipendenti, come riferisce “Nature”, hanno condotto il più grande esperimento collettivo in merito, seguendo un protocollo preregistrato e utilizzando vari metodi complementari per misurare l’attività cerebrale. I risultati anticipati - ancora da sottoporre alla revisione per la pubblicazione - non corrispondono perfettamente a nessuna delle due teorie, sebbene il modello dell’informazione integrata appaia leggermente più preciso. John Horgan, “su Scientific American”, è stato più tranchant: i dati sono inconcludenti, alcuni favoriscono la IIT, altri lo spazio di lavoro globale. L’esito non sorprende, posto che il cervello è così complesso e la coscienza così poco definita, mentre la ricerca, lungi dal convergere verso un paradigma unificante, è diventata più che mai frammentaria e caotica.
Ecco che allora i prudenti filosofi, rappresentati da Chalmers, hanno portato a casa una cassa di porto offerta con stile da un Koch pronto a rilanciare per i prossimi 25 anni. Sapremo allora come emerge la coscienza dal cervello o sarà ancora un mistero? Più facile dire “Impossibile” che trovare una spiegazione, obietterà qualcuno. Vero, ma il fatto è che la coscienza pare proprio refrattaria a essere ridotta a un puro prodotto della materia.
* COME NASCE LA COSCIENZA? COME NASCONO LE IDEE? COME NASCONO I BAMBINI?
Appunti sul tema:
A) LA "NAVE" DI GALILEI E IL "DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO": IL "LABORATORIO" DELLA "CONVERSAZIONE CONOSCITIVA". «Rinserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti: siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vada versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca che sia posto a basso; e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza(...)
Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia mentre il vascello sta fermo non debbano succedere così: fate muovere la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur di moto uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti; né da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina, o pure sta ferma. »
(Galileo Galilei, "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano", 1632 - Salviati, giornata II).
B) COME NASCONO I BAMBINI. EUROPA: "EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva".
C) ANTROPOLOGIA, FILOSOFIA E PSICOANALISI: APPRENDERE DALLA "METAFISICA" DELL’ESPERIENZA...
LA NASCITA DELL’ESSERE UMANO E IL GIOCO DEL ROCCHETTO. Al di là del giogo di Edipo e Giocasta.
Federico La Sala
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA), COSMOTEANDRIA, E STORIOGRAFIA.
"PARADISO PERDUTO" E SCOMPENSI EPOCALI DI CUORE: "SÀPERE AUDE!" (ORAZIO -> #KANT).
CARDIOCENTRISMO, CARDIOPATIE, E MEDICINA. Forse, oggi, è proprio giunto il tempo di riprendere il filo e rievocare la memoria del giardino (paradiso perduto) e sollecitare un ripensamento della questione antropologica (della cristologia e del "corpus domini", del "corpo del signore" - ateo e/o devoto).
Se è vero. come è vero da sempre, che il cuore è l’organo dell’intelligenza spirituale, dell’intelligenza-che-ama o intelletto d’amore e, come ha chiarito Dante, è l’amore ("CHARITAS") che muove il sole e le altre #stelle, non è ora di uscire dal letargo (Pd. XXXIII, 94), e rendere praticabile il cammino ad ogni essere umano (cristo- logica-mente, non "paolinamente") sì che ognuno e ognuna, "dal suo proprio grembo [ἐκ τῆς κοιλίας αὐτοῦ]", possa far sgorgare "fiumi di acqua viva" (Gv 7, 38-39)?! E, finalmente, ammirare il sorgere della Terra , "della Terra, il brillante colore"?
P. S. - DANTE, MILTON, E FREUD. Alla fidanzata Martha, il 7 agosto 1882, Sigmund Freud scrive che, nel "Paradiso perduto" (John Milton, 1667), «ancora di recente, in un momento in cui non mi sono sentito sicuro del tuo amore, ho trovato consolazione e conforto».
Federico La Sala
LA CENA DELLA VITTORIA: PLATONISMO, ILLUMINISMO, E INTERPRETAZIONE DEI SOGNI DEI VISIONARI.
ANTROPOLOGIA, ECONOMIA POLITICA E METAFISICA. PREMESSO CHE "Il sapere visuale è una sorta di dannazione della filosofia. Le idee di Platone non sono visibili eppure la radice greca che dà vita alla parola idea ha a che fare con il visibile." (Alfonso M. Iacono), FORSE, è meglio cercare di vedere chi cucina "la cena della vittoria" (B. Brecht), di non affidarsi ai freudolenti "sogni di un visionario", e seguire l’indicazione di Orazio Shakespeare Kant Marx Nietzsche Freud e Foucault: "Sàpere aude!" .
FILOLOGIA E CRITICA: "SÀPERE AUDE!" (ORAZIO/KANT). A ben riflettere, accogliendo l’importante sollecitazione, si tratta di cambiare rotta e registro (oltre il platonismo e il paolinismo) e avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza, di "aprire gli occhi" (Sigmund Freud) sulla lezione evangelica di Gioacchino da Fiore sull’amore ("charitas") e, al contempo, di "sàpere" che cosa "mangiamo" a cena, se "grazia di dio" ("eu-charis-tia") o cibo avvelenato (di una tragica bimillenaria "buona-carestia"). Se non ora, quando?!
Federico La Sala
FILOSOFIA (DELLA CAVERNA) E PSICOANALISI:
L’OMBRA MINACCIOSA DELL’IMMAGINARIO DI EDIPO E PLATONE SULLE SPALLE DELL’INTERA EUROPA.
Una lettera di Sigmund Freud a Lou Andreas Salomé del 25 novembre del 1914, da ri-leggere:
***
PER NON BUTTARE IL BAMBINO INSIEME ALL’ACQUA SPORCA. A gloria di Freud, nonostante la catena che lo teneva legato alla Madre e, come Edipo, si sia comportato da #Padrino ("Pater Freudenreich* - Padre Freud"), fin dal "caso Dora" e, poi, sia arrivato alla disperazione e al pessimismo più nero ("Perché la #guerra?". Carteggio #Einstein-Freud, 1932/1933) sulle possibilità di portarsi fuori dalla tradizionale cosmoteandria di Platone (e Socrate), bisogna dire che, con (e come) Mosè, riuscì a salvarsi dalle grinfie del "Faraone" del XX secolo e a raggiungere Londra!
A mio parere, la sua lettera a #Lou Salomé è una grande sollecitazione a pensare ancora, di più, e meglio, alle difficoltà gigantesche che sono sì del Freud del 1914, ma che sono ancora, oggi - dopo la morte di Nietzsche (1900) e la stessa morte di Freud (1939) - quelle dell’Europa del 2023, governata dalla logica della tragedia di Edipo e dall’algoritmo demiurgico del "Grande Sconosciuto".
PSICOANALISI, CRISTIANESIMO, ANTROPOLOGIA E LETTERATURA:
"PSICOLOGIA DELLE MASSE E ANALISI DELL’ IO" (S. FREUD, 1921): DANTE ("Io non Enëa, io non Paulo sono": Inf. II, 32) SA "DOVE METTE CRISTOFORO IL PIEDE" (cfr. Wilhelm Stekel, "Il ’Piccolo Kohn’ ", 1903, tradotto e curato da Michele Lualdi).
"IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS", "CRITICA DELLA RAGION PURA" (KANT), E "IDEALE DELL’IO" (S. FREUD). CON GIASONE (OVIDIO) E CON ASTREA (LA "VIRGO" DI VIRGILIO) E MARIA-BEATRICE (LA "VERGINE" DI SAN BERNARDO), DANTE RIPRENDE IL CAMMINO, dall’ INIZIO (dall’Inferno) ma dal PRINCIPIO (Par. XXXIII: "Vergine Madre, figlia del tuo figlio [...] l’amor che move il sole e l’altre stelle") e racconta come è riuscito a ritrovare "LA DIRITTA VIA" e a capire il senso antropologico di sé: "Io sono l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine" (Ap., XXII, 13).
SPIRITO CRITICO E AMORE CONOSCITIVO: ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA E MATEMATICA:
IMPARARE A #CONTARE. Uscire dall’inferno epistemologico
#UNO: "SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI" (2005). In principio era il Logos (Eraclito, Efeso), non il #logo di una azienda sul cui cancello d’entrata sta scritto "il lavoro rende liberi".
"DUE SOLI" (#DANTE2021). Ri-#pensare l’ONU - a partire da Due, "almeno due" (Gregory Bateson):
#ELEUSIS2023 #Metaphysics #Anthropology #Theology #Cosmology #Koyaanisqatsi #Ubuntu #EARTHRISE
#PSICOANALISI, #ANTROPOLOGIA, E "#COSTRUZIONI NELL’#ANALISI" (1937): STORIA E STORIOGRAFIA.
IL #TRAUMA DELLA #NASCITA, IL TRAUMA DELLA #CIRCONCISIONE (#MASCHILE E #FEMMINILE), "L’#INTERPRETAZIONE DEI #SOGNI" (1899), E "L’#UOMO #MOSÈ" (1938).
Plaudendo all’originale percorso storiografico relativo all’origine della psicoanalisi di cui scrive Carlo Bonomi nel suo libro, ad evitare riduzionismi e fraintendimenti storiografici, forse, è opportuno ricordare con lo stesso Carlo Bonomi (cfr. l’ Introduzione di "A Brief Apocalyptic History of Psychoanalysis: Erasing Trauma") non solo il significato della «parola "(b)rith milah", circoncisione in ebraico, letteralmente “Patto del Taglio”», ma anche il legame che essa ha con la parola #Alleanza (#berît), quella propria tra "Dio" e Abramo («Porrò la mia alleanza tra me e te»: Genesi 17,2) e Mosè («Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi»: Esodo 24,8), e ancora, e al contempo, con le parole scritte da #Freud nel discorso per la festa data in suo onore dalla #Loggia "B’nai B’rith" [“Figli dell’Alleanza”], in occasione del suo settantesimo compleanno, che dicono della sua diversa #interpretazionedeisogni (di #Abramo, di #Giuseppe, e di #Mosè):
LA PSICOANALISI E IL TRAUMA DELLA CIRCONCISIONE (MASCHILE E FEMMINILE): "L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" (1899) E LE "COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (1937). *
Recensione di Rita CORSA al numero monografico di
Quando mi sono trovata a parlare con Franco Borgogno del numero monografico di The Wise Baby - Il poppante saggio (1/2022), dedicato interamente alle trentennali indagini storiche di Carlo Bonomi, mi è subito venuto in mente il provocatorio concetto di “piglio antistorico della psicoanalisi” (2019, 268), coniato da Borgogno per indicare come la psicoanalisi tenda ad accomodarsi in una confortevole storiografia narratologica, spesso vacua, incompleta e talvolta priva di qualsivoglia traccia documentale. Questo non è di certo il caso dell’opera di Bonomi. Le ricerche archivistiche da lui effettuate, partite proprio per colmare “una circoscritta lacuna storiografica” (2022, 7), hanno successivamente preso un respiro assai ampio, giungendo a offrire una delle più accattivanti e stimolanti proposte interpretative delle origini della psicoanalisi.
I suoi pluridecennali studi, già da tempo affermatisi a livello internazionale, trovano finalmente una ricca esposizione in lingua italiana sul periodico in esame. Il numero monografico è centrato su un lungo saggio del 1994, già tradotto in molte lingue, che racchiude i frutti delle esplorazioni effettuate da Bonomi, transitando per archivi tedeschi e austriaci, alla ricerca di prove che consentissero di formulare delle ipotesi innovative sul primo Freud e sulla teoria traumatica freudiana, pilastro della metapsicologia psicoanalitica. È così germinata una tesi folgorante, che trova la sua radice nel gigantesco scotoma storiografico del giovane Freud, medico pediatra. Bonomi si chiede: Perché abbiamo ignorato il Freud “pediatra”? - che è anche il titolo del saggio del 1994 e dell’attuale numero della rivista. È questo il primo contributo di Bonomi su una materia che scandaglierà per diversi decenni.
Il trauma della castrazione è il fil rouge che scorre, impetuoso, negli scritti di Bonomi. È il tema che aveva svolto compiutamente nel libro Sulla soglia della psicoanalisi. Freud e la follia infantile (2007) e che riprende nel secondo articolo pubblicato sulla rivista(Cura o punizione? Contraddizioni e paradossi nell’incontro di Freud con la pediatria), dove l’Autore ridisegna i contorni della costruzione psicoanalitica freudiana in dialogo con il cambiamento di paradigma che avviene a fine Ottocento nel mondo della pediatria.
Il punto d’avvio di questa coraggiosa avventura è puramente storiografico, nel suo ripercorrere le vicissitudini della sessualità infantile nella pediatria tardo ottocentesca, pervasa dall’ossessione per l’onanismo, considerato causa di follia nei bambini e curato con la castrazione. La castrazione chirurgica di donne e bambine. Una pratica assai frequente, nonché terribilmente invasiva e violenta, in cui si è imbattuto Bonomi nel 1992, durante la disamina di articoli e cartelle mediche custodite nell’archivio dell’Istituto di Storia della Medicina dell’Università di Tubinga, allora diretto dal professor Gerhard Fichtner.
Bonomi rileva che Freud non solo conosce, ma deve aver osservato in prima persona tale odiosa tecnica terapeutica. Una pagina del percorso medico freudiano incomprensibilmente trascurata dai biografi. O francamente scissa dal profilo identitario medico di Freud. Perché ciò sia potuto accadere non è chiaro. Certo è, come fa notare Bonomi, che lo stesso Freud sminuì o cancellò del tutto il suo decennale impegno con i bambini, compiuto proprio in un periodo cruciale per la nascita della psicoanalisi e, in particolare, per la scoperta della sessualità infantile. Questa lacuna biografica si trasforma in un “disturbo della memoria” e in un vuoto teorico, che Bonomi indagherà negli scritti successivi.
Mi permetto di indugiare sul Freud “pediatra”. Nel marzo del 1886, dopo aver seguito le lezioni di Charcot a Parigi, Freud si recò a Berlino, da Adolf Baginsky, per acquisire una veloce formazione pediatrica in vista dell’assunzione dell’incarico offertogli da Max Kassowitz presso l’Istituto Pubblico per le Malattie dei Bambini di Vienna. Egli manterrà l’incarico di responsabile del reparto neurologico dell’ospedale per l’infanzia per 10 anni, fino al 1896. Bonomi ci informa che la struttura verrà chiusa e distrutta in seguito all’Anschluss, portando via con sé atti amministrativi e cartelle cliniche dell’epoca. Non resta quindi alcuna testimonianza degli anni trascorsi da Freud a Vienna in qualità di medico pediatra. Rimane, invece, qualche segno del breve training che Freud svolse con Adolf Baginsky a Berlino, in un momento storico in cui era preminente l’idea che la masturbazione provocasse dei gravi danni neurologici e psichici: «per Baginsky l’onanismo era una malattia del sistema nervoso che prosperava nelle cattive condizioni igieniche» e che era particolarmente pericolosa, perché contagiosa (Bonomi, 2022, 16). Ad esso era inoltre addebitata l’eziologia della maggior parte delle isterie infantili e pure di quelle in età adulta. -------Questa localizzazione genitale dell’isteria, presente fin dall’infanzia, spinse la medicina a considerare l’ablazione della clitoride e delle piccole labbra e l’asportazione delle ovaie come terapie d’elezione nell’isteria. Bonomi correda tale barbaro, ma a quel tempo molto attuato, esercizio chirurgico con un nutrito ventaglio di riferimenti bibliografici. In estrema sintesi, a suo avviso sarebbe proprio la giovanile esperienza in ambito pediatrico a giustificare l’iniziale “personale avversione” di Freud nei riguardi della teoria sessuale delle nevrosi (Freud, 1896, 340), dovuta specialmente agli orrori della castrazione femminile. Freud si riavvicinerà «alla vecchia teoria sessuale» col rafforzarsi del sodalizio con Wilhelm Fliess, che profila «una nuova soluzione terapeutica “etiologica”, basata sulla teoria della nevrosi nasale riflessa» (Bonomi, 2022, 27), una teoria che vede il locus morbi trasferito dai genitali ai “punti genitali” nel naso (Freud, 1888). Osservato alla luce della tremenda ablazione genitale, lo spostamento a livello nasale, con l’asportazione dei turbinanti, sembra certamente una soluzione più accettabile e umana. Annota invero Bonomi, che Freud «riteneva l’operazione al naso “innocua” e fu profondamente scosso dal drammatico esito dell’operazione di Emma Eckstein» (ibid., 29), come racconta l’accorata lettera a Fliess dell’11 aprile 1895 (Freud, 1986).
La vicenda è nota. All’inizio del 1895, Emma Eckstein, paziente di Freud, che da piccola aveva subito la mutilazione genitale, venne operata al naso da Fliess. L’operazione ebbe delle serie complicanze emorragiche a causa di un errore del medico - una garza emostatica fu dimenticata nella narice (Schur, 1972). Da qui il celebre “sogno dell’iniezione di Irma”, fatto da Freud nel luglio del 1895 e riportato nell’Interpretazione dei sogni (1899). Un sogno “post-traumatico” e “oto-ginecologico”, come viene definito da Anzieu (1975). Non mi soffermo su questo sogno, analizzato minuziosamente in una gran mole di scritti psicoanalitici. Segnalo solo che Bonomi lo esamina con dovizia e gran originalità, richiamandosi al mito classico e alla cultura greca.
Rimando al lettore l’approfondimento di questi dotti passaggi, il cui sunto non sarebbe in grado di rendergli pienamente giustizia. Quel che è certo, l’effetto ultimo del sogno di Irma su Freud «sembra essere stato quello di chiudere il periodo delle operazioni chirurgiche per inaugurare quello della psicoanalisi» (2022, 29). Negli anni di fine secolo ha infatti luogo la profonda trasformazione delle nozioni di nevrosi, isteria e sessualità, che perdono il loro riferimento ai “nervi” e agli organi genitali, mutandosi in disturbi senza sede anatomica: «in breve (...) diventano psicologiche» (ibid., 84). E il rivoluzionario apporto del pensiero freudiano a tale sovvertimento di paradigma è sostanziale.
Tuttavia, si può affermare che delle aree d’ombra non mancano nel primo apparato teorico freudiano: «Con l’ausilio della mitologia greca e della “metafora archeologica”, Freud costruì (...) un imponente monumento agli orrori della castrazione» (ibid., 48). Un monumento alla castrazione maschile, innalzato da un ebreo circonciso che non volle che i propri figli maschi fossero sottoposti alla medesima operazione. Eppure, osserva Bonomi, egli difettò di includere nel suo edificio teorico «la castrazione e mutilazione femminile che pure deve aver avuto un ruolo principale nelle sue esperienze mediche giovanili». Una lacuna che «sembra essere strettamente connessa con quegli aspetti di lutto incompiuto che attraversano sia la sua vita che la sua opera» (ivi). Nonostante ciò egli fu capace di creare uno strumento da usare «per entrare nel mondo delle paure del paziente ed esplorare i suoi “traumi”», aprendo la «più straordinaria indagine sulla paura mai trattata dall’uomo» (ibid., 91).
Chiarisce Bonomi che il terzo articolo (L’abisso del controtransfert. Commento a Freud pediatra), scritto appositamente per questo numero speciale, consente allo studioso di oltrepassare “la soglia”, quella del controtransfert, per trovar ragione dell’abbandono della teoria del trauma reale da parte di Freud. Qui si entra nel vivo del discorso psicoanalitico. Bonomi ipotizza che, durante l’analisi della trentenne Emma Eckstein, Freud si trovò di fronte al racconto della “scena della circoncisione” di lei bambina. Bonomi considera che Emma è la paziente principale di Freud all’alba della psicoanalisi. Il lavoro con questa donna «abitò i suoi sogni»; lo influenzò in modo decisivo nell’ipotizzare la teoria della seduzione, ma pure nella sua ritrattazione; ispirò «quella autoanalisi da cui si sviluppa il capolavoro (...) L’interpretazione dei sogni» (2022, 113). Ma quando appare in seduta la “scena della circoncisione di una fanciulla”, lo scenario relazionale si sovverte radicalmente. La vita del medico, che aveva conosciuto nella sua decennale attività pediatrica la ferocia della castrazione femminile e che, pur essendo ebreo, non aveva fatto circoncidere i suoi figli maschi, e quella della sua paziente, si intersecano indissolubilmente. E Freud si trova affacciato in maniera imprevista all’ “abisso del controtransfert”. Questa illuminante espressione viene presa in prestito da Ferenczi, che la adopera nella pagina del primo maggio 1932 del suo Diario clinico per risolvere il rompicapo del motivo dell’abbandono di Freud del concetto di trauma reale. Bonomi aggiunge un altro essenziale tassello alla sua comprensione: è proprio il racconto di Emma Eckstein relativo alla sua esperienza di bambina circoncisa, che spalanca il controtransfert di Freud, rievocando con violenza dentro di sé gli anni trascorsi a operare in qualità di neuropediatra. Bonomi chiosa che «ormai gli ingredienti fondamentali per spiegare la nascita della psicoanalisi c’erano tutti», ed essi «si erano via via chiariti a partire dallo studio su “Freud pediatra”». Essi richiedevano ormai «una narrazione degli inizi radicalmente diversa da quella a cui ci siamo abituati» (2022, 110).
Il quarto contributo (Breve storia apocalittica della psicoanalisi) è una chicca. Riguarda la traduzione in italiano dell’Introduzione al suo ultimo libro, A Brief Apocalyptic History of Psychoanalysis: Erasing Trauma, pubblicato nel 2023 da Routledge, e in uscita in francese per l’Édition Amsterdam. Questo testo chiude il cerchio di un discorso complesso, dipanatosi per decenni, che è progredito aggiungendo via via delle tessere fino a creare un elegante, inedito mosaico delle origini della psicoanalisi. La tesi esposta torna ancora all’analisi di Emma Eckstein e alla mutilazione genitale patita in infanzia. Il disvelamento in seduta provoca profonda angoscia in Freud, che però non riconosce la natura traumatica di questa Beschneidung (circoncisione). Ma l’impatto emotivo controtransferale è travolgente e si intreccia con la sua storia personale di ebreo circonciso, in conflitto con il padre al punto da decidere di non sottomettere i figli a tale rito. Ed è proprio qua, nel rispecchiamento controtransferale di Freud nel trauma della circoncisione, sofferto dalla sua paziente ma che rievoca il suo proprio trauma e quello del suo popolo, che Bonomi individua il fattore principale della nascita della psicoanalisi. E nelle pagine finali della rivista, l’Autore ipotizza «che il trauma non riconosciuto è iscritto nel pensiero di Freud come un lascito amputato da cui germoglieranno e fioriranno i sogni, le fantasie, i pensieri dei discepoli più intimi di Freud» (2022, 113). In particolare Sàndor Ferenczi, che contribuirà in maniera decisiva «a riparare questo lascito amputato, ponendo così le basi per una rifondazione della psicoanalisi» (ivi).
Forse, però, questi antichi nuclei traumatici in parte permangono ancor’oggi. Resti incistati, perché mai fino in fondo pensati, che vengono fatalmente a erodere, in silenzio, quello che per oltre un secolo è stato il granitico edificio psicoanalitico freudiano. Forse.
Riferimenti bibliografici
ANZIEU D. (1975). L’autoanalisi di Freud e la scoperta della psicoanalisi. Vol. 1.Roma, Astrolabio, 1976.
BONOMI C. (1994). Why have we ignored Freud the “Paediatrician”? The relevance of Freud’s paediatric training for the origins of psychoanalysis. In A. Haynal and E. Falzeder (eds.), 100 years of psychoanalysis. Contributions to the history of psychoanalysis. Special issue of Cahiers Psychiatriques Genevois. London, Karnac, 55-99.
BONOMI C. (2007). Sulla soglia della psicoanalisi. Freud e la follia infantile. Torino, Bollati Boringhieri.
BONOMI, C. (2023). A Brief Apocalyptic History of Psychoanalysis. Erasing Trauma. London & New York, Routledge.
BORGOGNO F. (2019). Sándor Ferenczi, psicoanalista classico e contemporaneo. Rivista di Psicoanalisi, 2, 267-279.
FERENCZI S. (1932). Diario clinico. Gennaio-Ottobre 1932. Milano, Raffaello Cortina, 1988.
FREUD S. (1888). Isteria. OSF, 1.
FREUD S. (1896). Etiologia dell’isteria. OSF, 2.
FREUD S. (1899). L’interpretazione dei sogni. OSF, 3.
FREUD S. (1985). Lettere a Wilhelm Fliess 1887-1904. Torino, Bollati Boringhieri, 1986.
SCHUR M. (1972). Freud in vita e in morte. Torino, Bollati Boringhieri, 1976.
*Fonte: SpiWeb, 28.03.203
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Plaudendo alla recensione di Rita Corsa e al formidabile lavoro di Carlo Bonomi, ad evitare equivoci e fraintendimenti storiografici, forse, è opportuno ricordare con lo stesso Carlo Bonomi (cfr. l’ Introduzione di "A Brief Apocalyptic History of Psychoanalysis: Erasing Trauma") che «la parola "(b)rith milah", circoncisione in ebraico, letteralmente “Patto del Taglio”» e, al contempo, che le parole scritte da Freud nel discorso per la festa data in suo onore dal "B’nai B’rith" [“Figli dell’Alleanza”], in occasione del suo settantesimo compleanno, sono le seguenti: "[...] Non so se sono un vero Figlio dell’Alleanza, nel senso che voi intendete. Ne ho quasi dubitato, nel mio caso erano troppe le resistenze. Ma vi posso assicurare che avete significato molto per me, che avete realizzato molto negli anni in cui vi ho frequentato. Ricevete dunque, per ieri come per oggi, il mio più caloroso grazie. Vostro, Sigmund Freud".
Federico La Sala
ARTE, ANTROPOLOGIA, E STORIOGRAFIA.
TROVATO L’AGO NEL PAGLIAIO:
"IL MISTERO DI GESÙ BAMBINA" (*)
Ringraziando il prof. Flavio Piero Cuniberto per la generosa condivisione della sorprendente opera di Nicola di Maestro Antonio, forse, è cosa buona e giusta tentare qualche riflessione e porre qualche domanda sul tema.
Considerata l’epoca di Nicola di Maestro Antonio d’Ancona (Ancona, fine XV secolo - dopo il 1511), perché considerare una stravaganza, che Giorgio Pasquali avrebbe definito "quarta e suprema", che il Bambino sia una Bambina?
Con le necessarie riserve, non è bene tener presente la tempesta non solo culturale che ha sconvolto l’ Italia a partire quantomeno dal 1440 (Lorenzo Valla), dal 1453 (caduta di Costantinopoli), e negli anni seguenti e, al contempo, immaginare che si sia potuto pensare alla figura di #Gesù come una "#bambina", antropologicamente ("Ecce Homo"), e non "androcentricamente" ("Ecce Vir")?!
Già Christine De Pizan (1364-1430), cosa scrive: «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable» («Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi»? Cosa succederà di lì a poco con la Riforma Protestante e, poco dopo, con #Elisabetta I, in Inghilterra?! Non trema la "cristologia" costantiniana (Nicea 325-2025)?!
Questione antropologica (filologica e cristologica), oggi (19 marzo 2023): "chi è questo Figlio dell’Uomo" (Gv. 12, 34). Come mai il silenzio totale di tutte le Accademie "platoniche" sulla declinazione antropologica del messaggio evangelico ("Ecce Homo") in chiave andrologica e costantiniana ("Ecce Vir")? Non è questo un "meccanismo di rimozione" profondissima (S. Freud, Disagio della civiltà, 1929), che ha finito per spezzare le reni alla Grecia e fatto diventare l’#antropologia una #andrologia e, addirittura, il Logos di Efeso, il logo di una "fattoria degli animali"?! A che gioco giochiamo?!
(*) Cfr. Flavio Piero Cuniberto, "Il mistero di Gesù Bambina", Facebook, 17 marzo 2023.
COSMOTEANDRIA DEL XXI SECOLO: IL MONDO COME VOLONTÀ E RAPPRESENTAZIONE DELL’UOMO SUPREMO.
PIANETA TERRA:
RIPENSARE COSTANTINO.
DOPO 1700 ANNI DAL PRIMO CONCILIO DI NICEA (325), DI "QUALE" ECUMENISMO, LA CHIESA CATTOLICO-ROMANA E L’INTERA EUROPA (LAICA E RELIGIOSA) VUOLE FARE MEMORIA?
A) - NICEA 325. "Il concilio di Nicea, tenutosi nel 325, è stato il primo concilio ecumenico cristiano. Venne convocato e presieduto dall’imperatore #Costantino I, il quale intendeva ristabilire la pace religiosa e raggiungere l’unità dogmatica, minata da varie dispute, in particolare sull’arianesimo; il suo intento era anche politico, dal momento che i forti contrasti tra i cristiani indebolivano anche la società e, con essa, lo Stato romano. Con queste premesse, il concilio ebbe inizio il 20 maggio del 325. Data la posizione geografica di Nicea, la maggior parte dei vescovi partecipanti proveniva dalla parte orientale dell’Impero. [...]".
B) STORIA #STORIOGRAFIA ED ECUMENISMO: QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("CRISTOLOGICA") E ASSEDIO DI COSTANTINOPOLI (1453). Riprendendo il filo dalla "Dotta Ignoranza" (Niccolò Cusano, 1440), la "Donazione di Costantino" (Lorenzo Valla, 1440), e dalla caduta di Costantinopoli (1453) e il fallimento della proposta "cristologica" del "De pace fidei" (N. Cusano, "La pace della fede", 1453), non è forse tempo di corre ai ripari, di ristrutturare il campo e riequilibrare la bilancia antropologica e teologica?!
C) BILANCIA DELLA COSTITUZIONE, BILANCIA DELL’ETICA, E PACE PERPETUA. Una "foto" per riflettere non solo l’8 marzo 2023, ma anche l’ 8 marzo 2025...
#Earthrise #Metaphysics #Anthropology #Theology #Cosmology #InternationalWomensDay #Eleusis2023 #Roma2024
ECOLOGIA DELLA "MENTE ACCOGLIENTE. TRACCE PER UNA SVOLTA ANTROPOLOGICA".
Un omaggio al prof. Gianni Vattimo e un augurio di buon lavoro a Elly Schlein.
COME NASCONO I BAMBINI: "LlNGUAGGIO DEL #CAMBIAMENTO. Elementi di comunicazione terapeutica" (Paul Watzlawick): per uscire dalla storica e tragica caverna della cosmoteandria (atea e devota), a mio parere, occorre riprendere il programma di Kant dei "sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica", riaprire la questione antropologica e portare avanti le indicazioni della Scuola di Palo Alto, in particolare, di Paul Watzlawick (1977), e cominciare a pensare con le "due metà del cervello (cfr. Federico La Sala , "Alfabeta" - Rivista, 17, 1980, p.11), sia all’interno e sia all’esterno.
#Metaphysics #Anthropology #Europa2023 #Eleusis2023 #Roma2024
NOTA: L’ITALIA E IL "CORPO MISTICO" DELLA "REGINA" (DELLE PRIMARIE DEL PD, DEL PARTITO DEMOCRATICO).
Cosmoteandria e "disagio della civiltà" (S. Freud, 1929). "Cum grano salis" e. con le dovute proprorzioni, guardando allo #Stato della #Terra (con un #UNO - #ONU - che non esiste ancora), l’evento "Elly Shlein" ha rotto l’incantesimo e ha aperto la porta a un sottile e tuttavia forte vento di sollecitazione antropologica e teologico-politica a ristrutturare il campo e rimettere in sesto i cardini del #tempo (Shakespeare, "Amleto", I.5) e, a svegliarsi dal sonno dogmatico (Kant).
L’ILLUMINISMO LOMBARDO, LA FENOMENOLOGIA "DELLO SPIRITO DELLA FAMIGLIA", E LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA. Un invito a leggere l’opera dell’economista Cesare Beccaria ...
EUROPA2023: STORIA STORIOGRAFIA E FILOLOGIA. Il libro di Cesare Beccaria, "Dei #delitti e delle #pene" (1764), contrariamente a quanto si continua a credere, è un libro tutto da rileggere e da collocare a fianco dell’opera di Jean-Jacques Rousseau, il "DISCORSO SULL’ORIGINE E I FONDAMENTI DELLA DISUGUAGLIANZA FRA GLI UOMINI" (1755):
A) "SOCIETÀ CIVILE" E RECINZIONI ("ENCLOSURES"): «Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare questo è mio, e trovò altri cosí ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile. Quanti #delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie, quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pali o colmando il fosso, avrebbe gridato ai suoi simili: “Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; se dimenticherete che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, sarete perduti!”» (J.-J. Rousseau, op. cit.).
B) "DEI DELITTI E DELLE PENE" E IL CAP. XXVI: "DELLO SPIRITO DELLA FAMIGLIA. Queste funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche piú illuminati, ed esercitate dalle repubbliche piú libere, per aver considerato piuttosto la società come un’unione di famiglie che come un’unione di uomini. Vi siano cento mila uomini, o sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque persone, compresovi il capo che la rappresenta: se l’associazione è fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi; se l’associazione è di uomini, vi saranno cento mila cittadini e nessuno schiavo.
Nel primo caso vi sarà una repubblica, e ventimila piccole monarchie che la compongono; nel secondo lo spirito repubblicano non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura, dove sta gran parte della felicità o della miseria degli uomini. Nel primo caso, come le leggi ed i costumi sono l’effetto dei sentimenti abituali dei membri della repubblica, o sia dei capi della famiglia, lo spirito monarchico s’introdurrà a poco a poco nella repubblica medesima; e i di lui effetti saranno frenati soltanto dagl’interessi opposti di ciascuno, ma non già da un sentimento spirante libertà ed uguaglianza. [...]" (Cesare Beccaria, "Dei delitti e delle pene", cap. XXVI).
C) SIGMUND FREUD, LA RECINZIONE DELL’AMORE, E "L’INFELICITÀ NELLA CIVILTÀ" ("Das Ungluck in der Kultur"): "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori [...]" (S. Freud, "Disagio della civiltà", 1929).
D)PRIMA DI HEGEL E DI MARX, CESARE BECCARIA, E’ GIÀ SULLA STRADA DI UN’ALTRA "FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO" E DÀ AD ALESSANDRO MANZONI UNA TRACCIA FONDAMENTALE PER DISTINGUERE TRA DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", FAMIGLIA E "FAMIGLIA", E ACCOMPAGNARE I "PROMESSI SPOSI" FUORI DALLA PESTE E DALL’INFERNO.
L’ESCA DI "POLONIO" E LA "CARPA DELLA VERITÀ": IL PUNTO DEL CAPITONE (LACAN) E LE ANGUILLE DI "AMLETO" (FREUD).
UN PUNTO DA APPROFONDIRE.Una citazione da le "Costruzioni in analisi" (S. #Freud, 1937):
JACQUES LACAN E IL GIOCO DEL DEMIURGO PLATONICO. "IL PUNTO DI CAPITONE": "Al tempo di Lacan, i materassi erano fatti di lana e i materassai li facevano cucendo la fodera con dei punti tramite un ago ritorto. I punti che tengono insieme le due fodere e la lana si chiamano “punti di capitone”.
Il punto di capitone è il nodo dell’imbottitura e Lacan ne fa la metafora del nodo che lega il piano dei significanti con il piano dei significati, altrimenti separati, come accade nella psicosi. [...] Lacan dice che il rapporto del significante e il significato è mobile, tende a disfarsi, invece nei punti in cui il significante si incrocia con il significato si producono effetti di senso. Il punto di capitone è la nozione necessaria per situare l’intenzione di significazione, cioè l’intenzione che mobiliterebbe il significante. Per colui che ascolta, ma anche per chi parla, quando si ascolta qualcosa che è stato detto è sempre nel momento successivo, in après coup, che si può accedere a quest’intenzione di capire qualcosa." (Cinzia Crosali, 2014).
FREUD E LE ANGUILLE (BURATELLI maschi E CAPITONI femmine), E L’ANATOMIA DEGLI ORGANI RIPRODUTTIVI. TRIESTE 1876: "il giovane Sigmund Freud, grazie ad una borsa di studio ministeriale, svolge presso la Stazione Zoologica di S.Andrea una ricerca sul sistema riproduttivo dell’anguilla. Freud esamina circa 400 anguille e scrive la sua prima pubblicazione: Beobachtungen über Gestaltung und feineren Bau der als Hoden beschriebenen Lappenorgane des Aals (osservazioni sulla conformazione e intima costituzione dell’organo globoso dell’anguilla, descritto come testicolo)." (OGS-ISTITUTO DI OCEANOGRAFIA).
PSICOANALISI, "NEXOLOGIA", E DISAGIO DELLA CIVILTÀ: "[...] Il paradosso di Freud è stato quello di tentare una scienza dell’individuo [...]. E se il suo tentativo può dirsi, in parte, riuscito, ciò si deve al fatto che la sua non è stata una ricerca individualizzante; non è stata una ricerca di psicologia, nel senso stretto, nel senso classico della psicologia individuale. E’ stata sin dal principio una rilevazione dei nessi, dei rapporti peculiari attraverso i quali passa l’individuo singolo dalla sua nascita, e attraverso i quali egli si forma come individuo. In questo senso il termine psicoanalisi, da lui dato al campo di ricerca da lui dato al campo di ricerca messo in luce, è fuorviante, significa un aggancio e un compromesso con la disciplina accademica chiamata psicologia [...] Con Freud, invece si apre il campo di una ricerca sui rapporti interindividuali; comincia una sorta di nexologia umana (dal latino nexus: legame, intreccio), che include il corpo come parte in causa e interlocutore. Di essa, la psicoanalisi comunemente intesa è solo un momento parziale, limitato, anche se di grande fecondità. La sua prima linea di sviluppo, non l’unica, è in direzione dell’analisi della struttura familiare" (cfr. E. Fachinelli, "Il paradosso della ripetizione","L’erba voglio" - Rivista, n. 5, 1972; poi, in E. F., "Il bambino dalle uova d’oro", Feltrinelli, Milano, 1974).
Federico La Sala
FILOLOGIA, ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, E COSMOLOGIA: IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON UN LOGO).
Una breve nota su un labirintico abbaglio, in cui si vive da millenni:
ANTROPOLOGIA O ANDROLOGIA?! Alla fine, pur pulendo "le porte della percezione", l’uomo (l’essere umano - maschio, lat. "vir") non vedrebbe altro e ancora che "il mondo come volontà e rappresentazione" di sé stesso: la visione dell’androcentrico vitruviano macroantropo della tradizione platonico-paolina e schopenhaueriana.
"CHI" ("X") SIAMO NOI, IN REALTÀ: DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVO PRINCIPIO DI CARITÀ.
LA FATTORIA DI PLATONE, IL PIFFERAIO ALGORITMICO, E L’ ARCHEOLOGIA FILOSOFICA:
#STORIA E #MEMORIA. Al #tramonto dell’#Occidente e alla #fine della #storia, qualche musicista constata amaramente che oggi la più bella delle arie d’opera viene utilizzata per #pubblicizzare un profumo. Verissimo, ma questo cosa significa? Non è una "bellissima" realizzazione storica dello #Stato sognato dal pitagorico Platone, quello della famosa teoria del #re filosofo (#sofista) e del filosofo (sofista) re?
#FILOLOGIA E #ANTROPOLOGIA. Le #Muse, le #Grazie, le #Sibille, dove sono?! Non sono state rapite come #Persefone da #Plutone e sono tutte rinchiuse nel #Circo (della buon’anima) della #Moira di #Orfeo? Dov’è Diotima, dove Arianna? Non è ora di cambiare musica e uscire dall’Inferno (Dante 2021)?! Se non ora, quando?!
#Eleusis2023 #Earthrise
(*) La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica
#QUESTIONEANTROPOLOGICA (#FILOLOGIA E #CRISTOLOGIA ): SHAKESPEARE E NIETZSCHE.
La grande eroica ricerca di #Nietzsche è stata quella di rispondere alla domanda già di #Shakespeare , alla #question di Amleto, e portare il discorso oltre #Wittenberg (la #RiformaProtestante ), e chiarirsi e chiarire le idee relative all’ #essere degli esseri umani, figli e figlie del "#Re dei Re", di "Dio", e di andare oltre la tragica #logica del "sapere di non sapere" platonica, del #mentitore, e dell’ #adulterio e dell’#incesto ("Così parlò #Zarathustra ", parte IV). Egli, a mio parere, ha aperto la strada e dato indicazioni per sciogliere il nodo e non nella direzione del #supeuomo cosmoteandrico (cfr. Federico La Sala , "La #menteaccogliente. Tracce per una #svolta_antropologica ", Roma 1991).
#ANTROPOLOGIA O #ANDROLOGIA? #Gesù, chi era? Quello del "parto maschio del tempo" di san #Paolo e #Costantino (e #Bacone ), o quello del tempo di san #Francesco ("Cantico delle #Creature " o "Cantico di Frate #Sole ") e #DanteAlighieri ("l’amor che muove il sole e le altre stelle") e di ogni #essereumano nato di donna e di uomo nel pianeta Terra?
COSMOTEANDRIA (ATEA E DEVOTA), QUESTIONE ANTROPOLOGICA, E FILOLOGIA.
IL MACROANTROPO. "Alla chiusa della mia esposizione possono trovare il loro posto alcune considerazioni sulla mia #filosofia stessa. [...] che l’interno essere di tutte le cose sia assolutamente uno e medesimo, lo aveva già visto e compreso il mio tempo, dopo che gli elatici, Scoto Eriugena, Giordano Bruno e Spinoza l’avevano estesamente insegnato e Schelling aveva rinfrescato questa dottrina. Ma che cosa sia quest’Uno e come esso giunga a rappresentarsi come Molto, è un problema, di cui la soluzione si trova per la prima volta presso di me. - Parimenti si era, fin dai tempi più antichi, riconosciuto l’uomo come microcosmo.
Io ho rovesciato il principio e dimostrato il mondo come #macroantropo, in quanto volontà e rappresentazione esauriscono l’essere dell’uno e dell’altro. Evidentemente però è più giusto, imparare a comprendere il mondo dall’uomo, che l’uomo dal mondo, perché si ha da spiegare ciò che è dato mediatamente ossia il dato dell’intuizione esterna, da quel che è dato immediatamente, ossia dal lato dell’autocoscienza, non viceversa."
(ARTHUR SCHOPENHAUER, Supplementi al "Mondo", II, Editori Laterza, Bari 1986).
*
COSMOLOGIA E #ANDROCENTRISMO: "CONOSCENZA E RESPONSABILITÀ. [...] Il contrasto forte fra il progresso scientifico e l’arretratezza di alcune scelte di gestione e sfruttamento dell’#ambiente ci racconta di quanto sia difficile per alcuni di noi fare tesoro della conoscenza ed assumere responsabilità rispetto a se stessi e al mondo esterno. Si pensi ancora ad esempio a quanto #oggi si sa del mondo vegetale che possiede una sua “intelligenza” (#StefanoMancuso e #AlessandraViola, Verdebrillante - Sensibilità e intelligenza del mondo vegetale, Giunti Editore, Firenze 2013). Questa intelligenza viene ignorata dai più, anche grazie a #Linneo, il padre della nomenclatura (ancora in auge nei libri scolastici) per la classificazione scientifica degli organismi viventi. Dal diciottesimo secolo, i vegetali sono posti sul gradino più basso in una #scala “naturale” degli esseri viventi. Essi, in realtà, non sono solo una risorsa del pianeta che l’uomo può utilizzare a suo piacimento per motivi estetici, alimentari o terapeutici; hanno una vita autonoma, ricchissima e degna di rispetto, e spesso hanno trovato, attraverso geniali forme di adattamento ed anche di comunicazione, innumerevoli strategie di convivenza, fra loro e con gli altri esseri viventi. [...]" (cfr. Rosanna Bologna, Insula Europea, 18 gennaio 2023
FILOLOGIA FILOSOFIA PSICOANALISI
"ABBRACCIATEVI, MOLTITUDINI" (F. SCHILLER, "INNO ALLA GIOIA", 1785): "INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" (S. FREUD, 1899) DEI NIPOTINI E DELLE NIPOTINE DI PLATONE...
«Che cos’è, o uomini ["anthropoi"], che volete ottenere l’uno dall’altro? [...] Forse è questo che volete: diventare la medesima cosa l’uno con l’altro, in modo che non vi dobbiate lasciare né giorno, né notte? Se è questo che desiderate, io voglio fondervi e unirvi insieme nella medesima cosa, in modo che diventiate da #due che siete #uno solo, e finché vivrete, in quanto venite ad essere in questo modo uno solo viviate insieme la vita, e quando morirete, anche laggiù nell’Ade, invece di due siate ancora uno, uniti insieme anche nella morte. Orsù vedete se è questo che volete e se vi farebbe lieti ottenerlo...» (Platone, Simposio, 192 d-e)
PLATONISMO E TECNOCRAZIA. Dopo interi millenni di letargo, non è meglio svegliarsi e capire che l’intenzione di "Platone" (e di Efesto) è pure lodevole, ma molto, molto artigianale (demiurgica), il suo amore è avido e cieco (Cupìdo) e il suo fare "di due che siete uno solo" sembra voler correggere la divisione fatta da Zeus, ma alla fine fa tutto all’incontrario e fa solo un campo di sterminio, un deserto. All’altezza del 2023, come scriveva Nietzsche, siamo ancora ignoti a noi (stessi e stesse).
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA. Forse conviene riprendere il filo da ELEUSI (quest’anno è una delle capitali europee della cultura: Eleusis2023) e cercare di capire il segreto dei misteri eleusini, come nascono i bambini, e, finalmente, scoprire (immergendosi, battesimalmente, nel) l’acqua calda, che ognuno e ognuna è già uno, una, in due; ripartire da sé e riprendere il cammino: "Sàpere aude! (Kant, 1784 - Michel Foucault, 1984). Ricominciare a contare da due, non da uno (dei due, che fa il furbo): "un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (Franca Ongaro Basaglia). In principio era il Logos - non il logo di una "fattoria degli animali"!
ANTROPOLOGIA, STORIA, E FILOSOFIA: IL PAOLINISMO (ATEO E DEVOTO).
Alcuni appunti per riflettere sull’attuale presente storico. In memoria di Paolo di Tarso, di Antonio Gramsci, e di Ernesto De Martino ...
A) AL DI LA’ DELLA LEZIONE DI PAOLO DI TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
B) MARX e LENIN, CRISTO e SAN PAOLO. A. GRAMSCI, "POSIZIONE DEL PROBLEMA: [...] Marx inizia intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità, 〈superata〉 da concezione della libertà). Fare un parallelo tra Marx e Ilici per giungere a una gerarchia è stolto e ozioso: esprimono due fasi: scienza-azione, che 〈sono〉 omogenee ed eterogenee nello stesso tempo. Così, storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo: Cristo-Weltanschauung, S. Paolo organizzazione, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessarii nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, non teorico)." (A. Gramsci, "Quaderno 7 (VII), § 33).
C) IL PAOLINISMO ANTROPOLOGICO. ERNESTO DE MARTINO: “Essere comunista vuol dire essere umano, rinnovare in termini moderni l’esperienza paolina: “sono diventato tutto con tutti per tutti fare salvi”. Essere comunista vuol dire volgersi al mondo dei poveri e dei semplici, e quella parte dell’umanità che gli uomini cercano di mantenere fuori della storia e che vive orfana nella nostalgia di una cultura che sta come un al di là vago e misterioso. Essere comunista significa sentire la vergogna, anzi la colpa, di tutto lo spirito che potrebbe essere e che non è, di tutta la bellezza deviata, di tutta la verità rimasta a bella strada, di tutta la vita morale soffocata, di tutta l’umanità e la cultura insidiate a cagione del modo di esistere e della società” (Cfr. "Compagni e amici Lettere di Ernesto de Martino e Pietro Secchia", a c. di Riccardo Di Donato - “Un contributo su de Martino politico” - La Nuova Italia, 1993, p. II).
D) "CRITICA DELLA RAGION PURA" E ILLUMINISMO (1784): "IN OGNI MODO OCCORRE STUDIARE KANT E RIVEDERE I SUOI CONCETTI ESATTAMENTE" (Antonio Gramsci, "Quaderni del carcere", 10 (XXXIII), § 40).
ANTROPOLOGIA ED "ETICA DELLA PSICOANALISI".
FREUD E LACAN: ATTO PSICOANALITICO, METAFISICA DELL’ESPERIENZA ED ETICA DELLA PSICOANALISI. Un omaggio al prof. di Filosofia, H. J. PATON, amico di Wilfred Bion ...
RIPARTENDO DA LONDRA, (J. Lacan, "LA #PSICHIATRIA INGLESE E LA #GUERRA", 1947) E RITENENDO IMPORTANTE OGGI PIù DI IERI, QUANTO SCRITTO nell’editoriale degli #Appunti della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi del Campo Freudiano (Giugno 2016), che l’atto_analitico è "un concetto nuovo" che si deve a Lacan: “L’atto psicoanalitico, mai visto né sentito se non da noi, vale a dire mai notato, e ancor meno messo in discussione, ecco che invece noi lo poniamo come il momento elettivo del passaggio dello psicoanalizzante a psicoanalista”; “Ciò che chiamiamo la seduta è un lasso di tempo in cui si tratta dello stabilirsi di un rapporto con la dimensione fuori tempo dell’inconscio [...]” (cfr. SLPcf), FORSE, POTREBBE essere una buona idea, per riflettere di nuovo sul "tempo e l’atto nella pratica della psicoanalisi", mettere a disposizione in lingua italiana le opere di H.J. PATON: 1). "Kant’s Metaphysics of Experience (1936); 2) "The Categorical Imperative" (1947).
STORIA E STORIOGRAFIA: "APPRENDERE DALL’ESPERIENZA". A ben vedere, il titolo dell’opera di W. R. BION offre una indicazione-chiave, carica di teoria: richiama "ovviamente" l’amicizia di Wilfred R. Bion con Herbert James Paton e le sue indicazioni sulla via critica dell’imperativo categorico e della metafisica dell’ esperienza di Kant" (e, freudianamente e assolutamente, non la via paolina del "Kant con Sade" di Lacan).
Federico La Sala
IL PROBLEMA DELL’UNO (DELL’ONU) E DEI MOLTI: USCIRE DAL LETARGO.
PARMENIDE, IL PONTE DI ELEA, E LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA.
"IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS": UNA QUESTIONE LOGICA EPOCALE...
Costituzione e Società. Se in una Repubblica democratica (dove "tutti i giornali sono uguali" o "tutti i partiti sono uguali") viene fondato e registrato un giornale (o un partito) con un Nome più "uguale degli altri giornali" o, anche, "più uguale degli altri partiti" (es. "La Repubblica", "La Nazione", "La Verità", ecc.), già #solo il Nome non dice qualcosa di ermetico del programma comunicativo o politico di un tale giornale o di un tale partito?
Filosofia e ... Archeologia. "Cum grano salis", una domanda: ma non c’è un vizio logico-politico e psicoanalitico nel mettersi dietro lo scudo di un giornale battezzato "la Repubblica" (!) e raccontare a chi legge la storiella che la propria porta (in senso spaziale e figurato), attraverso cui passa l’acqua di un fiume di opinioni, sia il ponte repubblicano e costituzionale che permette di attraversarlo?
Non è meglio ritornare a Elea-Velia (da Parmenide e Zenone), seguire le inDICazioni della Giustizia (DIKe). e riprendere il cammino sul viadotto, sul ponte della cosiddetta "Porta Rosa" (https://it.wikipedia.org/wiki/Porta_Rosa)?
Federico La Sala
QUEL FREUD E’ PEGGIO DI KAFKA*
LONDRA - Non li divideva soltanto il dissidio ideologico sulla natura ultima dell’ uomo e sulla pratica psicoanalitica. Carl Gustav Jung detestava Sigmund Freud con tutto il cuore, e per lui finì per nutrire soprattutto disprezzo. "Mi dà sui nervi per il suo arido razionalismo", confessa Jung in una lettera ad una devota seguace, la psicologa ungherese Jolande Jacobi. Questa e altre ottantasei missive inedite, sempre con destinataria la Jacobi, saranno messe all’ asta a Londra da Sotheby’ s il 26 maggio e dovrebbero essere vendute ad un prezzo notevole: da sessanta a settantacinque milioni di lire.
Tra i primi e più zelanti discepoli del "padre della psicoanalisi" Freud, Jung ruppe ogni rapporto con l’ autorevole maestro nel 1913 dopo un sodalizio di sei anni: non ne accettava il principio basilare della libido sessuale come motore profondo della personalità. Dalle 87 lettere inedite (56 scritte a mano e 31 a macchina, la prima è del 1928 e l’ ultima del 1961) emerge con lampante chiarezza che le divergenze filosofiche si tramutarono in sprezzante antipatia: "Freud - denuncia ad esempio Jung - è troppo piatto per me. Ha la stessa psicologia di Kafka, che io trovo altrettanto intollerabile". "Freud - si legge in un altra polemica missiva a Iolande - è un dottrinario mentre io non ho dottrine ma descrivo i fatti. Io non insegno come si sviluppa la nevrosi ma descrivo che cosa si trova nelle persone nevrotiche". Pur avendo spesso e volentieri teorizzato e fantasticato sui simboli universali presenti nell’ inconscio collettivo (gli "archetipi"), Jung contesta a Freud anche l’ audace tentativo di una categorizzazione dei sogni e il discutibile metodo della "libera associazione".
L’epistolario non è importante soltanto per la nuova luce che getta sul tormentato rapporto con Freud ma per meglio capire il laborioso sviluppo della teoria psicologica junghiana.
Nato in Svizzera, morto nel 1961 a 86 anni, Jung rivela in una lettera che si guarda bene dal prendere in cura pazienti cattolici: "Io non mi metterò mai in opposizione alle credenze della chiesa cattolica. Rimanderò sempre un cattolico praticante e convinto al suo confessore, non pretendo di mettermi in opposizione al potere guaritore della Chiesa". In una missiva del giugno ’ 33 lo psichiatra elvetico si mostra lungimirante sull’ascesa del nazismo in quel "calderone di gorgoglianti streghe" che è la Germania.
* Fonte: la Repubblica (20 maggio 1994)
#SIMONEWEIL(1909-1943): #ARTE #CONOSCENZA E #MESSAGGIOEVANGELICO.
Una riflessione dai #Quaderni...
"Un #pittore non disegna il posto in cui si trova. Ma osservando il suo #quadro, io conosco la sua posizione rispetto alle cose disegnate. ... Secondo la concezione della vita umana espressa negli atti e nelle parole di un uomo, io so (...) se egli guarda questa vita da un punto situato quaggiù o dall’alto del cielo. ... Il #Vangelo contiene una #concezione della #vitaumana, non una #teologia. Se di notte all’aperto, accendo una torcia elettrica, non è guardando la #lampadina che ne giudico la potenza, ma guardando la quantità di oggetti illuminati. ... Il #valore di una #forma di #vitareligiosa, o più in generale spirituale, lo si valuta in base all’illuminazione proiettata sulle cose di quaggiù. Le #cosecarnali sono il #criterio delle #cosespirituali. [...]
Solo le cose spirituali hanno valore, ma le cose carnali sono le uniche ad avere un’esistenza constatabile. Quindi il valore delle prime è constatabile solo come illuminazione proiettata sulle seconde." (#SimoneWeil, "Quaderni" [1942], Q IV 185, Adelphi, Milano 1993).
Federico La Sala (30giugmo2022).
STORIA E MEMORIA... *
L’#ABIURA DI #GALILEOGALILEI (letta il #22giugno 1633), IL "MALEDETTO SIA #COPERNICO!" (L. #Pirandello, “Il fu Mattia Pascal”, 1904), E IL #DISAGIODELLACIVILTA’ (#SigmundFreud, 1929). #Storia e #memoria...
Ricordando che ieri (#28giugno) era il #giorno della #nascita nel 1867 di #LuigiPirandello e che una delle sue novelle più famose è "CIAULA SCOPRE LA #LUNA", non si può non ricordare ancora oggi alla #ChiesaCattolica (#29giugno, memoria di #PietroePaolo) la frase di #Keplero del 1611 : "Hai vinto, o #Galileo!" ("#Vicisti, #Galilaee": una #duplice #vittoria, sul piano scientifico e sul piano della preistorica #cosmoteandria "cattolica"!
La #rivoluzionecopernicana continua il suo #cammino... con #DanteAlighieri, #Shakespeare, #Kant, #Freud, #Ciaùla, e Samantha Cristoforetti, l’intero #genereumano è riuscito a "rivedere le stelle" (Inf. XXXIV, 139).
Io Galileo, fìg.lo del q. Vinc.o Galileo di Fiorenza, dell’età mia d’anni 70, constituto personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di voi Emin.mi e Rev.mi Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l’eretica pravità generali Inquisitori; avendo davanti gl’occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l’aiuto di Dio crederò per l’avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la S.a Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma perché da questo S. Off.o, per aver io, dopo d’essermi stato con precetto dall’istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere ne insegnare in qualsivoglia modo, ne in voce ne in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d’essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l’istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo e imobile e che la terra non sia centro e che si muova; Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze V.re e d’ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non fìnta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più ne asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò.
Giuro anco e prometto d’adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Off.o imposte; e contravenendo ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da’ sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate.
Così Dio m’aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani. Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633.
Io, Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria.
*
Federico La Sala (29 giugno 2022)
ESTETICA, TECNICA, FILOSOFIA E DEMOCRAZIA: SAPEREAUDE! (Kant, 1784 - M. Foucault, 1984).
Jameson legge Benjamin
di Giorgio Mascitelli *
"Non vorrei essere nei panni del recensore del Dossier Benjamin di Fredric Jameson ( trad.it di Flavia Gasperetti, a cura di Massimo Palma, Treccani, Roma, 2022, euro 26) perché sono tali e tanti gli stimoli che questo libro contiene che renderne conto, anche solo per sommi capi, nel breve spazio di una recensione è fatica improba. Eppure è possibile riassumere in maniera immediata il motivo per cui esso è di grande interesse anche per i non specialisti: infatti, sebbene non abbia senso indicare per un autore così poliedrico e improvviso quale Benjamin un erede spirituale, individuale o collettivo, ma tutt’al più una serie di snodi decisivi che sono stati sviluppati e talvolta pienamente compresi solo nelle epoche successive, bisogna indicare in Jameson colui che ha proseguito lo sviluppo di uno dei nodi più importanti. Alludo alla riflessione sugli stretti rapporti che intercorrono tra forme della cultura e dell’arte e quelle dell’esperienza sociale delle rispettive #contemporaneità, la tarda #modernità per il tedesco e la #postmodernità per lo statunitense, colti in una prospettiva analitica e straniante, che potremmo definire al contempo materialista e inattuale.
Il sintomo più eloquente di questa affinità tra i due è la libertà quasi iconoclasta di giudizio con cui Jameson tratta alcune delle opere più acclamate di Benjamin. Per soffermarsi sul discorso, a parer mio, più importante per un operatore culturale e per un artista del XXI secolo, vale la pena di ricordare il giudizio di Jameson su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, secondo il quale questo testo non ha un vero oggetto né una tesi centrale, quanto piuttosto ‘una serie di temi il cui centro di gravità non fa che oscillare di sezione in sezione’ ( pp.276-77), addirittura tale saggio andrebbe letto come un seguito della meno nota e più settoriale Breve storia della fotografia.
Alla base di queste oscillazioni starebbero lo stesso concetto di aura, che a parere di Jameson indicherebbe da un lato la bellezza, la pura contemplazione estetica, e dall’altro un’esperienza altamente mobile e completamente individuale, e in particolare il vano tentativo benjaminiano di fissarlo entro una categoria astratta coerente ( p.295). Non che in passato siano mancate le critiche anche autorevoli a questo concetto ( per esempio Adorno o Brecht), ma qui Jameson sembra sottolineare i limiti intrinseci ( e al contempo la sua irrinunciabilità) di un termine che aspirerebbe a tradurre in termini sociologici e percettivi un’esperienza estetica che sembra essere apparentata con la dimensione del sublime. L’aura appare il portato di un’esperienza individuale connessa con il sorgere tra il Seicento e il Settecento, a cominciare dalla Francia, dell’idea del buon gusto estetico, che entrerebbe in crisi con l’apparizione delle possibilità di riproducibilità tecnica dell’opera. Giova ricordare che non è la possibilità tecnica in sé, ma i rapporti di produzione entro cui questa opera che determinano la fine dell’aura. Il gusto, per quanto ragione di vita per alcuni di noi, non è per niente più definibile dell’aura in una maniera astratta entro una dottrina estetica, ma è una singolarità storica del tutto congiunturale. Non è forse un caso che Jameson spenda alcune pagine nel VI capitolo per descrivere il debito di Benjamin verso Riegl, che con il concetto di Kunstwollen ha messo in primo piano la possibilità di un giudizio estetico radicalmente storicistico.
La perdita dell’aura in Benjamin non è connotata come inestimabile, nel senso di una nostalgia alla francofortese di un rapporto di fruizione con l’opera d’arte presentato come ideale e assoluto, nonostante sia a sua volta nato in un momento storicamente dato, ma semplicemente come una trasformazione sia tecnologica sia sociale del rapporto di fruizione, che si incrocia pericolosamente con l’ascesa del fascismo e con la sua tendenza all’estetizzazione della politica. Il limite di Benjamin, secondo Jameson, si deve scorgere nel fatto che lo sforzo di collocare il fenomeno della perdita dell’aura entro quelli che sono i rapporti di produzione della società capitalistica produce un cortocircuito perché questo materialismo rigoroso tende a considerarli in maniera troppo statica, non tenendo conto dell’innovatività della tecnologia anche verso direzioni imprevedibili. ( p.334)
In realtà, secondo lo studioso americano, Benjamin in un altro saggio, L’autore come produttore, individua una nozione di tecnica più interessante: sebbene essa non coincida con la tecnologia, ma piuttosto con le pratiche dell’avanguardia, come per esempio il ready made dadaista, essa avrebbe la funzione rivoluzionaria di far uscire l’autore dal paradosso della letteratura impegnata, la cui forma contrasta con il contenuto di denuncia sociale perché la colloca ancora dentro le istituzioni borghesi. In questo caso la tecnica è l’elemento concreto di rottura e di differenziazione che svolge una funzione positiva. Da qui è possibile cogliere un aspetto centrale e fertile e attuale del pensiero benjaminiano ovvero la distinzione tra il progresso, concetto inutile che consiste nel prospettarsi un futuro a immagine e somiglianza delle proprie illusioni storiche o se si preferisce della propria filosofia della storia, e il nuovo che non è nient’altro che il punto di rottura del presente ‘così travolgente da far svanire qualsiasi vaga idea del futuro come le profezie di un mago’ ( p.330). Per Jameson, insomma, la tecnica così intesa può essere strumento di rottura e dell’esperienza del nuovo.
La lettura di Jameson tende in questo modo, da un lato, a staccare definitivamente Benjamin da qualsiasi critica francofortese all’industria culturale, e successive evoluzioni, per esempio la società dello spettacolo debordiana, e dall’altro nel farlo diventare un teorico dell’avanguardia come pratica rivoluzionaria e non solo meramente estetica. Non spetta a me discutere la pertinenza filologica di una simile lettura ( perdipiù relativa a un autore per cui la frammentarietà è una cifra epistemologica ed estetica del proprio discorso), dico solo che questa lettura mette Benjamin strettamente in contatto, sia come sale sulle ferite sia come caffeina, con le contraddizioni del nostro tempo e a questo livello il testo deve essere discusso.
Jameson individua tre circostanze in cui l’aura risorge nella contemporaneità a dispetto di ogni riproducibilità tecnica, anzi grazie a essa. La prima ha a che fare con quella che l’autore chiama l’Erfahrung televisiva collettiva, in cui in occasione di certi eventi, come nel caso dell’omicidio Kennedy, vi è una partecipazione del pubblico che non può essere ridotta a pura passività; il secondo è il lavoro informatico dei programmatori e degli hacker, che ha una sua dimensione di artigianalità; infine le nuove forme televisive delle serie sembrano favorire una nuova forma di hic et nunc che avrebbe una sua dimensione auratica. Innanzi tutto di queste proposte colpisce che due su tre riguardino ambiti non immediatamente estetici, segno che un’estetizzazione diffusa è ormai trionfante.
Ora, per quanto il senno di poi abbia mostrato che l’equazione benjaminiana tra estetizzazione della politica e fascismo funzioni solo negli anni Trenta, credo, in quanto concittadino di Berlusconi, di essere nelle condizioni di poter affermare che l’estetizzazione diffusa comporti anche in assenza di fascismo qualche problema per la democrazia e la politicizzazione delle masse. E del resto lo stesso Benjamin nei citati anni Trenta si trovò nelle condizioni di dover denunciare il ruolo di Marinetti, che, quanto a maestro di nuove tecniche, non fu certo inferiore ai dadaisti e ai surrealisti.
Se confrontiamo questo approccio jamesoniano con quello situazionista, cioè di quell’avanguardia che più sistematicamente ha coltivato quell’idea, e quella prassi, di stretto rapporto tra attività estetica e rivoluzionaria, ciò che colpisce è che in Debord lo spettacolo, il televisivo e forse il visuale in generale sono momenti del falso, di una forma di alienazione della coscienza umana che viene sottomessa dal feticismo delle merci, di cui lo spettacolo è la forma concreta e percepibile, mentre Jameson, pur consapevole di tutti questi elementi, sottolinea gli effetti imprevedibili di pratiche e tecniche magari nate per quelle finalità che i situazionisti denunciavano. Anzi, riconoscendo che la nozione di spettacolo è in qualche modo erede della riflessione benjaminiana sulla fantasmagoria delle merci ( p.245), Jameson tende ad attribuire un aspetto positivo al visuale in Debord, per cui almeno marginalmente la contemplazione avrebbe un effetto di conoscenza e di azione. Qui forse Jameson non tiene sufficientemente in considerazione che nell’autore francese l’azione è sempre azione di un’avanguardia, politica e artistica, che ha caratteri di superiore consapevolezza teorica. Ciononostante bisogna ammettere che la posizione di Jameson è dialetticamente più dinamica e vitale, ma a patto di riconoscere che l’esperienza del nuovo non è destinata di per sé a produrre nessuna dinamica positiva. Per esempio la forma di fruizione delle serie televisive non sembra affatto aver prodotto nuove forme di consapevolezza, abbiamo al contrario una fruizione che ha favorito nuove forme di conformismo ideologico, sia pure progressista, e nella quale l’hic et nunc si traduce in un senso di appartenenza a un club esclusivo di raffinati spettatori di opere cult, secondo i dettami di quel fenomeno postmoderno che è il camp.
Sembra insomma che la lettura di Jameson, in un’opera peraltro assolutamente importante e densa di stimoli, trovi il suo punto di arrivo in una considerazione delle possibilità dinamiche della tecnica come automaticamente e/o tendenzialmente liberatorie.
Vale allora la pena di ricordare che lo stesso Benjamin dell’Autore come produttore trova la possibilità di una dinamica positiva della tecnica in una presa di coscienza della posizione sociale dell’artista nella società che quindi attua consapevolmente la sua azione artistica. Si tratta cioè di un’azione volontaria o militante, se si preferisce, che può trasformare le situazioni create dalla tecnica in qualcosa di imprevedibile al di fuori delle dinamiche sociali vigenti. In altri termini la questione è quella di non affidare alla tecnica un ruolo salvifico oggettivo, prova ne sia che le tecniche dadaiste e surrealiste hanno avuto un significato rivoluzionario laddove gli artisti che le realizzavano erano legati a un’idea e a un prassi di trasformazione sociale, ma usate per esempio poi nella pubblicità hanno perso ogni significato del genere.
*Fonte: Nazione Indiana, 17 giugno 2022.
Nota:
ESTETICA, TECNICA, E DEMOCRAZIA: “SAPERE AUDE! (Kant, 1784 - M. Foucault, 1984).
UNA BUONA INDICAZIONE PER METTERE IN RAPPORTO SPECIALISTI E NON E, AL CONTEMPO, DARE LA DOVUTA ATTENZIONE CRITICA AL “DOSSIER BENJAMIN di Frederic Jameson”, forse, è accogliere la seguente notazione mascitelliana: “[...] per quanto il senno di poi abbia mostrato che l’equazione benjaminiana tra estetizzazione della politica e fascismo funzioni solo negli anni Trenta, credo, in quanto concittadino di Berlusconi, di essere nelle condizioni di poter affermare che l’estetizzazione diffusa comporti anche in assenza di fascismo qualche problema per la democrazia e la politicizzazione delle masse.” (Giorgio Mascitelli, cit.). E, possibilmente, riprendere a tutti i livelli, la critica del sogno tecnologico della ragione pura!
RISALIRE LA CORRENTE. Storia Filosofia, Antropologia, Psicoanalisi, e Costituzione (2 giugno 2022).
Europa e Giubileo di Platino di Elisabetta II d’Inghilterra. Presente storico e storia di lunga durata...
Per riflettere sull’idea di sovranità (e l’individualità dello Stato), oggi, associare (come ha fatto qualcuno) la figura della regina Elisabetta II con il testo della "Filosofia del diritto" (& 279) di Hegel è un ottimo invito a svegliarsi dal sonno dogmatico (Kant) e a riaprire la questione antropologica (e teologico-politica)!
Sollecita a ripensare la storia dell’Europa quanto meno dalla disfatta della Invincibile Armada, da Elisabetta I e da Shakespeare e, ancora, da Trafalgar e da Napoleone e, infine, dal successo di Hegel di proporsi (illuminato da Napoleone a Jena, 1806) come interprete della storia dell’ "anima del mondo", come figura del "Re del mondo"!
EDIPO, TEBE, E "DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (Freud, 1929). La questione antropologica e politica su cui si arrovella Shakespeare con il suo "Amleto" è ancora l’enigma della sfinge: "Che cos’è mai un uomo se del suo tempo non sa far altr’uso che per mangiare e dormire?" (Amleto, Atto IV, Sc. 4).
Federico La Sala
KANT E LA DOMANDA ANTROPO-LOGICA: CHI SONO "IO"? *
La corona della pace
Dall’Antico Testamento ai nostri giorni
di Piero Stefani (Il Regno/Attualità, 6/2022, 15/03/2022)
Nel rito preconciliare della messa in latino, non di rado il Vangelo iniziava con questa formula: «In illo tempore Iesus dixit...». Anche ora, quando non si è nelle condizioni di riportare l’ambientazione precisa dell’episodio, si ricorre a: «In quel tempo Gesù disse...». È una clausola che riguarda il passato. Di contro, nei profeti d’Israele l’espressione «in quel giorno (ba-yom ha-hu)» si proietta verso l’avvenire (cf. Zc 14,20); lo stesso vale per «Ecco, verranno giorni» (Ger 31,31). Vi è però una formula ancor più radicale: «Alla fine dei giorni (be‘aharit ha-yamin)», ed è proprio quest’ultima a contraddistinguere l’oracolo di pace presente, in termini identici, in due diversi profeti: Isaia e Michea.
Soltanto alla fine dei giorni un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo; solo allora si smetterà di fare guerra (cf. Is 2,2-4; Mi 4,1-3). La filologia si impegna a precisare il senso dell’espressione; resta fuor di dubbio che essa riguarda il futuro. La fine dei giorni non può essere mai declinata al presente. Dunque, finché ci sono i nostri giorni, non è dato sperare nella venuta di «quei giorni»?
Sperare comporta guardare in avanti; a volte conviene però voltarsi anche indietro per comprendere i modi in cui si è concepita questa porta dischiusa verso il futuro. Per pensare bisogna avere fiducia nella ragione, per farlo in modo maturo occorre individuarne i limiti. Questo procedere si definisce critico. Esso, a fine Settecento, raggiunse il proprio vertice con Kant, il filosofo vissuto a Königsberg, l’attuale Kaliningrad, enclave russa tra Lituania e Polonia.
Per Kant le questioni fondamentali di tutta la nostra esistenza si riducono a tre: che cosa posso sapere, che cosa debbo fare, in che cosa ho il diritto di sperare. Le domande, formulate in modo semplice, ricevono tutte e tre un trattamento filosofico molto articolato; tuttavia tra esse la questione più complessa è quella relativa alla speranza. La prima domanda infatti è solo teorica e speculativa, la seconda solo pratica, mentre la terza si collega a entrambe le componenti.
Per sperare non basta sapere semplicemente come vanno le cose, né è sufficiente impegnarsi nell’agire in modo giusto: è necessario trovare il punto di tangenza tra essere e dover essere. Secondo Kant, mentre il sapere giunge alla conclusione che qualcosa è poiché qualcosa accade, la speranza conclude che qualcosa sia poiché qualcosa deve accadere.
La speranza non può appoggiarsi solo sulla descrizione della realtà e non si limita neppure a prospettare il dovere: essa è indirizzata verso un dover essere chiamato a diventare reale in virtù di una forza non totalmente sottoposta al nostro controllo. Anche se la si pensa come un progetto, la speranza non è paragonabile ai programmi la cui realizzazione dipende dall’azione di chi ora li sta mettendo in pratica. Il farsi della speranza non è paragonabile al processo che porta la materia prima a diventare manufatto. La clausola in base alla quale qualcosa sarà perché qualcosa deve accadere sta a indicare la presenza di questo salto qualitativo.
Il progetto è, ovviamente, sulla carta e non ancora nella realtà. Il passaggio dal virtuale al reale è intrinsecamente esposto a rischi; tuttavia, il più delle volte, esso è connesso a quanto si fa e non già a quel che deve accadere. La speranza ha invece bisogno di appoggiarsi a una realtà - piccola o grande che sia - posta al di là della sfera del nostro agire.
La speranza si situa nello spazio posto tra l’agire e la meta che l’opera si prefigge di conseguire. Quando questo salto è molto grande il fine può apparire utopico. Non ci è dato di controllare la forza in grado di garantire che quanto deve essere effettivamente sia. Per questa ragione la pace messianica, allorché, secondo le parole di Isaia e Michea, le armi saranno convertite negli strumenti del buon operare umano, è apparsa ai più un’utopia. La storia parla il linguaggio della guerra o al più delle tregue, non quello di una pace che non conosce tramonto.
L’ideale della pace perpetua
Nel 1795, quando l’Europa era scossa dai sussulti della Rivoluzione francese, mentre Russia, Impero asburgico e Prussia si spartivano la Polonia ed erano in incubazione le grandi guerre del periodo napoleonico, Immanuel Kant scrisse l’opuscolo Progetto per una pace perpetua. Quelle pagine non si limitano a individuare le modalità per conseguire tregue prolungate in grado di garantire una tranquilla convivenza tra gli stati; esse prospettano un esito più alto in cui la pace sarà condizione normale e permanente per tutta l’umanità.
Il libretto assume la veste di progetto fornendo regole per fondare un diritto cosmopolitico (noi diremmo internazionale) in grado di garantire a tutti una pacifica convivenza. Nelle ultime righe dell’opera si legge: «Se è un dovere, ed anche una fondata speranza, realizzare uno stato di diritto pubblico,1 anche se solo con una approssimazione progressiva all’infinito, allora la pace perpetua, che succederà a quelli che sono stati sino a ora falsamente denominati trattati di pace (propriamente, armistizi), non è idea vuota. Ed anzi sarà un compito che, assolto per gradi, si avvicinerà sempre più velocemente al suo adempimento (perché è sperabile che i periodi di tempo in cui avverranno tali progressi si faranno sempre più brevi)».
Dovere e fondata speranza assumono l’aspetto di tangenza all’infinito: non li si raggiungerà mai, ma ci si può avvicinare sempre. La vera meta diviene così un continuo camminare. In termini consoni agli addetti ai lavori, si dovrebbe parlare di uso noumenico regolativo dell’idea di pace. L’aver definito «progetto» il trattato conferma il carattere laico del pensare di Kant. In questo ambito concettuale non si spera nell’irruzione dall’esterno di un evento messianico. L’operare umano non può andare al di là di un’approssimazione all’infinito. La pace perpetua conserverà sempre l’aspetto di un ideale ancora da realizzare. Non si arriverà mai a una pace definitiva; tuttavia la tensione per giungervi avvicinerà sempre più gli armistizi a veri e propri trattati di pace.
Come stanno le cose ai nostri giorni? Le attuali guerre hanno perso le connotazioni giuridiche un tempo a esse consuete. Oggi, in pratica, non è più dato pensare a trattati che pongano fine a guerre dichiarate perché queste ultime non esistono più.
Semplicemente si fanno guerre senza prendersi la briga di dichiararle. Per alludere a Ugo Grozio e al suo capolavoro De jure belli ac pacis, è arduo stabilire le regole della pace là dove non ci sono più le regole della guerra. La guerra civile sembra essere diventata il modello di ogni tipo di scontro bellico. Nei nostri giorni, quando le armi perdono di virulenza, a prolungarsi a tempo indeterminato sono, spesso, guerre condotte «a bassa intensità» (il Donbass ha molti, crudeli parenti in giro per il mondo).
La pace messianica
Se è lecito avere nostalgia, oltre che dei grandi ideali kantiani, anche delle regole della guerra e della pace, che dire della pace messianica di cui parlò il filosofo neo-kantiano Hermann Cohen? Egli, mentre l’Europa era sconvolta dalla Prima guerra mondiale, ripensò, alla fine della sua vita, alla propria origine ebraica e scrisse un’opera - uscita postuma nel 1918 - dal titolo che evoca a un tempo sia Kant (cf. La religione nei limiti della semplice ragione) sia l’antica sapienza d’Israele: La religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo.
Essa si conclude parlando di pace; lo fa però in termini messianici e non già noumenici. La pace è il fine assoluto che non può essere mai reso puro mezzo: «La pace in quanto fine dell’uomo è il Messia, che libera gli uomini e i popoli da ogni dissidio, che appiana il dissidio nell’uomo stesso e produce infine per l’uomo la riconciliazione con il suo Dio. (...) Il messianismo è e rimane la forza fondamentale della coscienza ebraica. E il Messia è il principe della pace (...) Qual è il compendio della vita umana nello spirito della Bibbia? È la pace. Tutto il senso, tutto il valore della vita risiede nella pace. Essa è l’unità di tutte le forze vitali, il loro equilibrio, è l’appianamento di tutti i contrasti. La pace è la corona della vita».2
«Corona della vita», l’espressione ebraica shalom ‘alekhem (al pari della sua forma sorella araba) resa alla lettera significa «pace su di voi». La pace è una realtà che scende dall’alto e si posa sul capo.
Il libro di Hermann Cohen termina con queste parole: «La pace è l’emblema dell’eternità, è la parola d’ordine della vita umana, tanto nel suo comportamento individuale quanto nell’eternità della sua missione storica. In questa eternità storica si compie la missione di pace dell’umanità messianica».3 In un mondo irredento solo la speranza in una pace messianica, di cui nei momenti felici è dato gustare già qualche anticipazione (la tradizione ebraica parla del sabato come di un sessantesimo del mondo avvenire), può, forse, reggere di fronte alla catastrofe.
In un mondo lacerato dalle guerre, la sfida lanciata dalla speranza messianica ebraica al Messia cristiano definito anch’esso «principe della pace» continua, questa volta senza alcun «forse», a stagliarsi all’orizzonte. Sta alla comunità dei credenti in Gesù Cristo cercare i modi per rispondervi.
1 Vale a dire l’esistenza di un effettivo diritto internazionale.
2 H. Cohen, La religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, 636-638.
3 Ivi, 640.
*
NOTA:
ANTROPOLOGIA E CRISTOLOGIA ("ECCE HOMO").
Al vertice del "cristianesimo" (cattolicesimo costantiniano), in realtà, non ci sono - come sostiene Piero Stefani - i "quattro Vangeli canonici (nella liturgia cattolica proclamati solo da un sacerdote o da un diacono e ascoltati stando in piedi)", ma - fondamentalmente - le lettere (e l’interpretazione "andrologica" della figura di Cristo) di Paolo di Tarso: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
Questo è il problema...
Federico La Sala
Religioni.
Cosa accade se Dio perde il corpo?
Fra storia e teologia una serrata analisi della progressiva affermazione di un’idea divina acorporea in contrasto con i testi biblici. Un fenomeno che ha aperto alla secolarizzazione
di Christoph Markschies (Avvenire, mercoledì 27 aprile 2022)
Quando si affronta il tema delle differenti rappresentazioni del corpo divino, si ha a che fare non con un pensiero oggi ormai liquidato dell’immagine di Dio di antenati poco illuminati, ma con una grande corrente di tradizioni ebraiche e cristiane e pagane: affermazioni sulla corporeità di Dio s’incontrano quasi a ogni pagina della Bibbia ebraica e cristiana e sono quindi ancor oggi un’eredità comune all’ebraismo e al cristianesimo, anche se dal medioevo queste tradizioni sono state via via rimosse e tolte di mezzo perché considerate ingenue.
Abbiamo visto che non possono essere interpretate semplicemente come concezioni antropomorfe ingenue; secondo queste tradizioni bibliche la corporalità è il culmine dell’operato di Dio in senso del tutto intenzionale - come già mostra la concezione che caratterizza il cristianesimo, di Dio che si fa uomo nella persona di Gesù di Nazaret. L’idea che la corporalità non solo si trova al culmine delle opere di Dio ma anche dice di Dio qualcosa di fondamentale, che è ciò di cui si parla nella tradizione ebraica e cristiana, è in ogni caso un’idea irrinunciabile se solo si vogliano prendere sul serio queste affermazioni bibliche. Detto in altre parole: il Dio testimoniato negli scritti biblici non può essere ridotto senza perdita sostanziale a essere incorporeo, assolutamente trascendente, come di solito avviene nella tradizione di un’interpretazione platonica della Bibbia.
Nelle tradizioni ebraiche e cristiane come in quelle religiose pagane si possono distinguere, con Marco Frenschkowski, tre forme nel discorso sulla corporeità di Dio: in primo luogo una forma «"epifaniale" (come possono apparire gli dei? Rientrano in ciò anche le tradizioni su cibi degli dei, ecc.)»; in secondo luogo una forma ’cosmica’ (il cosmo come corpo vivo della divinità), non necessariamente da intendersi in senso panteistico; in terzo luogo la forma «di un metaforismo monarchico del trono, per il quale i celebri testi attinenti allo Shi”ur Qoma sono da intendere come la versione più intensa, che com’è noto non è documentata unicamente nel giudaismo e inoltre reca in sé un corredo di altre illustrazioni degli dei». (...)
Il quadro tuttavia è esauriente nella misura in cui si è chiarito che nell’antichità pagana, ebraica e cristiana - a differenza del medioevo e dell’età moderna - tali rappresentazioni erano del tutto ovvie e le si poteva incontrare sia tra gli intellettuali sia tra la gente comune. Non si potrà certo contestare che nei testi biblici (e non solo) la concezione di una corporeità di Dio faccia parte di un’immagine del mondo mitica. Comunque si definisca la difficile nozione euristica di "mito", la sua caratteristica è che tutto vi è pensato come unità di materiale e spirituale, naturalmente anche il mondo degli dei e gli dei stessi. Il mito, inoltre, non conosce fondamentalmente confini, in quanto - come le misure fornite nei testi attinenti allo Shi”ur Qoma - oltrepassa ogni possibile confine di spazio e tempo. Quando secondo questi principi costruttivi si raccontano storie di dei rappresentative, che nella forma di racconti delle origini, di eventi decisivi o di trasformazioni mirano a spiegare il presente, per quanto vi si cerchi di sottolineare il confine tra dei e uomini, tali confini sono anche vaghi: gli dei agiscono come uomini e agiscono con un corpo, così come gli uomini agiscono con un corpo.
Negli ultimi decenni si è fatto chiaro che per l’antichità non si può in ogni caso descrivere tale immagine mitologica del mondo nei termini del semplice dualismo di alternativa ben definita al pensiero razionale (parlando per esempio di "infantile" o di "prerazionale"); l’immagine comporta anche risultati di una spiegazione razionale di Dio, mondo e uomo, che si accompagna peraltro a un sapere quotidiano poco elaborato e a esperienze comuni immediate. A questo punto è necessario avere chiaro che tale "razionalità" del mito corrispondeva a criteri di razionalità del tempo, che in tempi posteriori vennero recepiti soltanto in parte.
L’idea moderna che nelle concezioni bibliche della corporeità divina siano contenuti anche residui di un’immagine mitologica di Dio ha ulteriormente approfondito per il pensiero religioso la problematica dello iato fra i dati storici e le concezioni odierne di Dio. In una celebre conferenza tenuta in circostanze storiche particolari nell’aprile del 1941, il neotestamentarista Rudolf Bultmann (1884-1976) non solo affermava che l’«immagine del mondo del Nuovo Testamento è... mitica» (senza peraltro accennare all’idea della corporeità divina), ma anche faceva osservare che è impossibile «ripristinare l’immagine mitica del mondo», anche se in essa «si riscoprono verità che in tempi di illuminismo sono andate perdute». Nella conferenza ricorrevano affermazioni forti, che suscitarono un dibattito acceso: «nessuna persona adulta si rappresenta Dio come essere che sta in alto nel cielo; il ’cielo’ nel senso degli antichi per noi non esiste più». A mo’ di cantus firmus l’aggettivo erledigt (tolto di mezzo, liquidato) accompagna la prima parte della conferenza di Bultmann.
Per il collaudato marburghese, fra le rappresentazioni tolte di mezzo figura anche l’idea di provenienza platonica di un Dio pensato in termini meramente spirituali, che agisce in un mondo caratterizzato e condizionato dalla "corporalità naturale": «Chi comprenda se stesso in termini meramente biologici non capisce che qualcosa di soprannaturale, il pneuma, possa in generale intervenire ed essere attivo nel sistema unitario delle forze naturali». Da questa situazione (e dalla natura stessa del mito) consegue per Bultmann il compito della "demitologizzazione" del discorso teologico. Già nel 1925, riprendendo e interpretando in senso esistenzialista idee di Lutero e di Kierkegaard, Bultmann aveva formulato il principio fondamentale: «se si vuole parlare di Dio, si deve evidentemente parlare di se stessi».
Con simili premesse anche qualsiasi enunciato sulla corporeità divina è ovviamente "liquidato", poiché non rispetta i limiti argomentativi che l’opinione comune odierna impone al discorso. A sostegno di questo modo di vedere si potrebbe anche aggiungere che le rappresentazioni della corporeità di Dio, per quanto riguarda i particolari del corpo, sono rimaste ferme a tempi premoderni, come Robert Musil (1880-1942) affermava senza mezzi termini nel suo romanzo L’uomo senza qualità (1930/32): «Dio è profondamente non moderno: non possiamo pensarlo in frack, ben rasato e con la riga in mezzo, ma alla maniera dei patriarchi».
Il problema per cui nel discorso religioso su Dio vengono fatte affermazioni che soltanto in parte corrispondono a criteri odierni di razionalità non riguarda tuttavia unicamente l’idea di una corporeità divina. Lo mostrano i violenti scontri suscitati dalla polemica del filosofo Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) contro le idee di una personalità e sostanzialità di Dio, che fecero seguito alla pubblicazione di un suo saggio nel 1798 - si sta parlando del cosiddetto Atheismusstreit, la controversia sull’ateismo che al professore ienese costò la cattedra. Negli scontri in questione si fece chiaro che gli argomenti addotti fin dall’antichità contro l’idea della corporeità di Dio potevano frattanto essere portati anche contro il discorso della sua sostanza in quanto sostanza particolare ontologicamente diversa da ogni altra sostanza: già nel primo saggio che aveva suscitato la controversia Fichte sosteneva che la nozione di sostanza implica rapporti con spazio, tempo ed estensione, così che l’idea di un Dio sostanza in sé sussistente sarebbe insostenibile. Dio è una sorta di nozione limite di un ordine morale del mondo, che di conseguenza non può essere espresso mediante il predicato di "sostanza" o altri che vi si riferiscano. La concezione di un Dio sviluppata a partire da queste obiezioni, secondo la quale - come osserva in una lettera privata il pastore riformato zurighese Johann Caspar Lavater (1741-1801) - «non può dire: Io sono, un Dio che non è persona, che non ha esistenza, che nulla fa e non dà nulla», è la concezione che nelle sue risposte alla controversia Fichte non ha modificato, ma semmai ha accentuato.
Affermare che l’idea di una corporeità divina è inattuale e che di fronte alla cultura odierna della razionalità può dirsi "liquidata", è formulare un giudizio filosofico più o meno fondato, non è descrivere nell’ottica di una storia delle religioni la religiosità vigente. (...) L’Europa dell’età moderna conosce modi di fondare la dignità inalienabile dell’uomo che non solo rinunciano all’idea di un corpo divino ma anche a una fondazione ultima sul divino in generale. Vista così, la scomparsa progressiva della concezione di un corpo divino appare nella storia della cultura come la prima grande spinta alla secolarizzazione per quanto attiene all’idea di Dio.
Premessa
Elenco delle sigle
1. Il corpo di Dio dopo la fine dell’antichità
2. Il corpo di Dio nella Bibbia ebraica e cristiana e nei primi teologi cristiani
3. Il corpo di Dio e le statue degli dei nell’antichità
4. I corpi degli dei e i corpi delle anime nella tarda antichità
5. Il corpo di Dio e la mistica giudaica tardoantica
6. Il corpo di Dio nella teologia cristiana tardoantica
7. Il corpo di Dio e la cristologia antica
Conclusione. Rappresentazioni di Dio tolte di mezzo?
Bibliografia secondaria [...]
L’Europa, la guerra, la pace, e il disagio della civiltà...
UNA QUESTIONE DI LUNGA DURATA: INIZIO DELLA FINE DEL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO (LORENZO vALLA, 1440), "LA DOTTA IGNORANZA" (NICCOLO’ CUSANO, 1440) E "LA PACE DELLA FEDE" (NICCOLO’ CUSANO, "De Pace Fidei",1454)...
GIORNI FA (IL 24 MARZO 2022) E’ STATO DATO CONTO DELLA SCOPERTA DI UNA EPIGRAFE DELLA VISITA, AVVENUTA NEL 1452 A SERMONETA (LATINA), DELL’IMPERATORE DEL SACRO ROMANO IMPERO, FEDERICO III D’ASBURGO (PADRE DI MASSIMILIANO I). DA RICORDARE CHE L’ANNO SUCCESSIVO, NEL 1453, CI FU L’ASSEDIO, LA CADUTA, E LA CONQUISTA DI COSTANTINOPOLI E, NEL 1492, IN SPAGNA, NON CI FU SOLO L’AVVIO DELL’AVVENTUROSA "SCOPERTA DELL’ AMERICA", MA ANCHE E SOPRATTUTTO LA FINE DELLA GUERRA DI GRANADA E DELLA RECONQUISTA...
BRUXELLES, 1477: “[...] Il Molinet paragona l’imperatore Federico [III d’Asburgo] che manda suo figlio Massimiliano a sposare Maria di Borgogna, con Dio Padre che manda suo figlio in terra, e non risparmia termini religiosi per descrivere il viaggio dello sposo. Quando più tardi Federico e Massimiliano entrarono a Bruxelles col giovane Filippo il Bello, i Brussellesi, narra Molinet, avrebbero detto colle lagrime agli occhi: «Veez-ci figure de la Trinité, le Père, le Fil et Sanct Spirit». Il Molinet stesso offre una corona di fiori a Maria di Borgogna, come alla degna immagine della Madonna, «a parte la verginità».
«Non che io voglia deificare i principi», dice questo arcicortigiano. Può darsi che si tratti effettivamente di vuote frasi più che di venerazione realmente sentita, ma esse attestano ugualmente come l’uso quotidiano di termini sacri finisse per svalutarli. Del resto non sarebbe giusto rimproverare un poetastro di corte, quando un [Jean de] Gerson stesso attribuisce ai principeschi ascoltatori delle sue prediche speciali angeli custodi più elevati in grado di quelli degli altri mortali” (Johan Huizinga, “L’autunno del Medio Evo”, Sansoni Editore, Firenze 1978).
IL RINASCIMENTO, COME FINE DELL’AUTUNNO DEL MEDIO EVO
Mettendo insieme, con l’aiuto di Raffaello e Michelangelo, gli elementi dell’idea di famiglia di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, il Rinascimento mostra essere un "canto del cigno" dell"autunno del Medio Evo (Johan Huizinga). Il 1517, con le 95 Tesi di Lutero, non è lontano...
Questo, il problema: nonostante la grandezza della concezione teologica ed artistica della sacra famiglia che sta alla base della stessa costruzione della Cappella Sistina (1475/1481) prima e della operazione di Michelangelo dopo (1508-1512), ciò che viene detto e comunicato anche con il riferimento nei disegni dietro i ritratti di Raffaello (Agnolo Doni e Maddalena Strozzi: 1504-1508) è una dottrina fondata sulla dotta ignoranza (Niccolo Cusano, 1440), fiammingamente ispirata, di come nascono i bambini (Diluvio, Deucalione e Pirra): il problema dell’incarnazione e della nascita del Messia è ancora letta dal cardinale Cusano come da teologi e teologhe di oggi secondo la lezione dell’antropologia tebana, del codice della tragedia greca (Socrate, Platone, e Aristotele)!
Che dire? Che fare? Per il Sorgere della Terra, una linea di fuga messianica è proprio nella cornice del Tondo Doni. Dare a Giuseppe ciò che è di Giuseppe e a Maria ciò che è di Maria. La storia non è fatta da quattro profeti, ma due sibille e due profeti...
Federico La Sala
LA RIVOLUZIONE FRANCESE, HITLER, E "LA STRANA DISFATTA". Una storia di lunga durata...
Marc Bloch così concludeva la sua riflessione sulla "strana disfatta": «Hitler diceva, un giorno, a Rausching: "Facciamo bene a speculare più sui #vizi che sulle virtù degli uomini. La Rivoluzione francese si richiamava alla virtù. Sarà meglio per noi fare il contrario". Si perdonerà a un Francese, cioè a un uomo civile - che è la stessa cosa - di preferire, a questo insegnamento, quello della Rivoluzione e di Montesquieu: "In uno Stato popolare è necessaria una forza, che è la virtù"»(Marc Bloch,"La strana disfatta. Testimonianza scritta nel 1940").
Appunti sul tema, nel sito, si cfr.
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
FLS
COSMOTEANDRIA E SONNO DOGMATICO: SCHOPENHAUER E IL MACROANTROPO, IL CORPO MISTICO DEL MONDO.
Storia della filosofia
Le considerazioni di Schopenhauer sulla sua filosofia
di Saverio Mariani (Ritiri Filosofici, 20 Febbraio 2022)
In quella che abbiamo definito (almeno in parte) un’opera a sé stante di Arthur Schopenhauer, il filosofo tedesco si pone nella posizione di commentare il suo contributo filosofico in relazione alla storia della filosofia nella quale sente di ricoprire un posto. Nei Supplementi a «Il Mondo come volontà e rappresentazione» infatti, Schopenhauer è franco, diretto, in alcuni passaggi appare “scocciato” da un certo ambiente filosofico. Ci sono ampi passi dell’opera nei quali entra in un dialogo nient’affatto morbido con la filosofia del suo tempo. -L’ultimo capitolo dei Supplementi, il cinquantesimo, è sintomatico essenzialmente di due cose: dell’enorme contrasto che Schopenhauer ha vissuto con l’ambiente filosofico tedesco e del rapporto ambivalente con Spinoza [1]. Entrambe queste cose, a ritroso potremmo dire, ci permettono di capire ancora meglio quanto nelle pagine precedenti l’autore ha trattato con dovizia e una acutezza importante. In queste poche pagine l’autore condensa alcune coordinate fondamentali per apprezzare lo sforzo immane che nel Mondo e poi nei Supplementi egli ha compiuto.
Filosofia immanente ed esperienza
In apertura del capitolo Schopenhauer dice esplicitamente che, prima di chiudere, c’è ancora qualche considerazione sulla sua filosofia che si può svolgere. Ancora una volta, per i motivi che abbiamo già indagato, egli rivendica l’aderenza «ai dati di fatto dell’esperienza esteriore e interiore» (Schopenhauer 2013, 817), quasi a rimarcare la solidità delle premesse di tutto il suo ragionamento. Ciò che è fuori dell’esperienza non è oggetto della filosofia: la filosofia per questo è immanente, ovvero si occupa di ciò che è all’interno della sfera dell’esperienza («nel senso kantiano del termine», scrive).
Tuttavia, persistono delle domande che non possono non essere prese in considerazione; domande che però evadono il campo dell’esperienza e quindi si pongono su un livello diverso rispetto alla filosofia immanente di cui Schopenhauer si fa promotore. Sono le stesse questioni che Kant riconosceva come oggetto della metafisica, alle quali quindi il Principio di ragione - che per l’autore è «l’espressione della forma più generale e costante del nostro intelletto» (Schopenhauer 2013, 818) - non può rispondere. È il tentativo di applicare il Pdr a elementi esterni all’esperienza che ci porta a sbattere contro problemi senza soluzione, «contro le pareti del nostro carcere». L’imperscrutabilità di queste domande, si badi bene, è assoluta, non relativa: in nessun luogo e in nessun tempo si potrà dare, per mezzo dell’intelletto umano, una risposta a tali questioni. Questa zona insondabile non rientra nella forma della conoscenza, e per dare conto di ciò Schopenhauer si affida alle parole di Scoto Eriugena nel De divisione naturae: «Della meravigliosa divina ignoranza, per la quale Dio non capisce che cosa Egli stesso sia» (Schopenhauer 2013, 819).
Quello che sfugge è dunque l’essenza delle cose, una essenza che non è «conoscente, non è intelletto, bensì un’essenza priva di conoscenza», di essa se ne può avere una comprensione parziale, non «esauriente e capace di soddisfare ogni esigenza». Ma questo, conclude Schopenhauer, «concerne i limiti della mia e di ogni filosofia» (Schopenhauer 2013, 819-820).
L’unità
Fatte tutte queste premesse, Schopenhauer compie un passo in avanti. Scrive infatti che l’unità e unicità dell’essenza delle cose è qualcosa di già concepito da tempo: «gli Eleati, Scoto Eriugena, Giordano Bruno e Spinoza lo avevano ampiamente insegnato e Schelling aveva rinfrescato questa dottrina» (Schopenhauer 2013, 820). Il che cosa sia questa unità (Uno) e come si manifesti nella molteplicità (ovvero come si compia il processo di rarefazione da Uno a Molti), sono questioni «la cui soluzione si trova per la prima volta nella mia filosofia».
La svolta si ha grazie a un rovesciamento del punto di vista e al contempo del principio su cui si incardina la comprensione del mondo: non è l’uomo ad essere un microcosmo, piuttosto è il mondo ad essere un «macroantropo». Il mondo si comprende a partire dall’uomo, da ciò che è immediato (l’autocoscienza), per poi passare a quel che è mediato, ovvero all’intuizione esterna.
Il metodo analitico che Schopenhauer rivendica - installato nel quadro ineluttabile dell’esperienza - apre una nuova visuale filosofica nella quale i dati immediati della coscienza, come li chiamerà Bergson qualche anno dopo, ci mostrano la rete di rapporti e il tessuto che ci tiene connessi l’uno all’altro: la volontà.
Se questa posizione può sembrare affine a quella della filosofia panteista, Schopenhauer prende subito le distanza mostrando come esistano sì dei punti di contatto ma anche dei decisivi punti di distanza. Innanzitutto il metodo di conoscenza, ma anche la ricomprensione del male e delle storture del mondo nella “perfezione” di Dio o della Natura. Inoltre, scrive Schopenhauer «per i panteisti il mondo dell’intuizione, ossia il mondo come rappresentazione, è appunto una manifestazione intenzionale del Dio che abita in esso, ma questo non include alcuna spiegazione autentica del suo prodursi» (Schopenhauer 2013, 821-822).
Spinoza
Le riflessioni generali sui panteisti non sono che i prodromi del confronto che Schopenhauer sente di dover avere con Spinoza, e con il quale chiuderà la sua opera.
Dopo la critica kantiana, sostiene Schopenhauer, «i filosofanti tedeschi si sono nuovamente gettati quasi tutti su Spinoza», costruendo di fatto una filosofia post-kantiana che «altro non è che spinozismo agghindato senza gusto, avviluppato in discorsi incomprensibili d’ogni sorta e in vario modo deformato» (Schopenhauer 2013, 822). Il giudizio è sferzante, netto, inequivocabile e pienamente nello stile schopenhaueriano.
Il rapporto che c’è fra Spinoza e Schopenhauer, dice quest’ultimo, è quello che intercorre fra il Vecchio e il Nuovo Testamento: per entrambi «il mondo esiste per sua forza interiore e da se stesso». Ma se Spinoza si è limitato a spersonalizzare Jehova, il Dio-Creatore del Vecchio Testamento, la Volontà schopenhaueriana - «intima essenza del mondo» - è Gesù crocefisso, o il ladrone crocefisso al suo fianco. In Spinoza, infatti secondo Schopenhauer, il Deus è una perfezione di cui rallegrarsi, un’unità dalla quale nulla fuoriesce e tutto è divino. «Quello di Spinoza è ottimismo» (Schopenhauer 2013, 823); ottimismo a cui Schopenhauer guarda con sospetto, poiché tanto il neo-spinozismo, quanto ogni altra dottrina che riconduce l’esistenza del mondo a una qualche necessità assoluta, tanto le dottrine di chi crede che il mondo sia il frutto della creazione benevola di un Dio, ci pongono nell’alveo del fatalismo.
Schopenhauer sostiene di essere il primo ad aver liberato la filosofia da questo vincolo, perché «l’atto di volontà dal quale scaturisce il mondo è il nostro. È un atto libero, giacché il principio di ragione, dal quale solamente ogni necessità riceve il proprio significato, è la mera forma della sua manifestazione fenomenica» (Schopenhauer 2013, 824). E per questo nel momento in cui essa esiste si dipana secondo necessità. Il piano della rappresentazione, dunque, governato dal Principio di ragione ci mostra come necessario qualcosa che è invece, naturalmente, libero. La nostra libertà - conclude Schopenhauer - sta nell’arretrare alle spalle della rappresentazione, immergersi nella «costituzione di quell’atto di volontà e conseguentemente eventualiter volere altrimenti». In altre parole, risiede in quello “spazio” pre-umano che pone le condizioni del nostro mondo come rappresentazione.
Su quest’ultimo punto, per quanto Schopenhauer scriva, Spinoza risuona forte insieme a una piccola schiera di filosofi per cui la molteplicità è il mondo e la porta di accesso alla sfera comune entro la quale tutti ci ritroviamo a bagno sentendoci finalmente liberi.
Note:
[1] Su un altro rapporto ambivalente nei confronti di Spinoza ho provato a dare conto in: Bergson duplice. Spinoza nemico-amico della filosofia della durata, in Lo sguardo n. 26-2018 (I): http://www.losguardo.net/it/bergson-duplice-spinoza-nemico-amico-della-filosofia-della-durata/
Bibliografia:
Schopenhauer 2013: A. Schopenhauer, Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione», trad. Giorgio Brianese, Einaudi, 2013
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
SPINOZA, UN "FIGLIO" DEL "DEUS", NON UN "FIGLIO" DEL "LUPUS" (A FIANCO DI KANT, NON DI HEGEL).
Federico La Sala
Dante 2021: Disagio della civiltà e discorso dei due Soli (del papa della chiesa cattolica e del presidente della repubblica italiana).
Antropologia Filologia e Ricapitolazione. In memoria di Giovanni Garbini, William Shakespeare, Galileo Galilei, Sigmund Freud, Judith-VirginiaWoolf, Joyce 2022...
AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE (Cantico dei cantici, 8.6). L’amore non è lo zimbello del tempo...
QUESTIONE ANTROPOLOGICA: ECCE HOMO. L’ Amore "vince tutto": MA quello antropologico-evangelico di Gesù o quello andrologico di Paolo di Tarso ("di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio": 1 Cor. 11, 1-3)?!
SE DIO è amore ("Deus charitas est"), e "non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" ("non est Iudaeus neque Graecus, non est servus neque liber, non est masculus et femina; omnes enim vos #unus estis in Christo Iesu" - Galati, 3.28), NON "È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010)?!
A che gioco giochiamo, ancora?!
Non è ora di uscire dal tunnel (Dante Alighieri, Inf. XXXIV, 90)?!
Dopo Tebe, l’enigma della sfinge di Edipo non è stato risolto nemmeno con l’andata di Freud e Jung negli Usa! E l’intera umanità non ha ancora compreso né come nascono i bambini né che cosa significa vedere e aver visto il sorgere della terra!
Federico La Sala
ANCORA
IL #REGIME DELL’#UNO
E
LA #DOTTA IGNORANZA
!"#Dio non gioca a #dadi"
ma, dopo la #lezione di
#Georges de La Tour,
l’#Uno
è ancora
il più sfuggente
e misterioso
tra i #numeri?
#A che gioco giochiamo?!
Scheda editoriale *
GIULIO BUSI
Uno
Il battito invisibile
L’Uno ci avvolge, pulsa in noi. Troviamolo. L’Uno è stupore, incompletezza, mistero. A tratti, in una grande sventura o in una gioia profonda, per caso o dopo avere cercato a lungo, ci rendiamo conto d’essere parte di un tutto che ci sovrasta, ci avvolge e allo stesso tempo si sottrae alla nostra comprensione. Lo sentiamo, il tutto, senza poterlo distinguere con esattezza. Sebbene non ci sia consentito misurarlo con la ragione, ci pare quasi di toccarlo, tanto è vicino, intimo. Vecchie storie bibliche, sogni di mistici, saggezza indiana, inquietudini dei filosofi greci, poesia del Novecento. Sono i bracci di un fiume immenso e segreto, che questo libro risale passo dopo passo in cerca dell’Uno, del suo fulgore, del suo battito lieve, profondo, invisibile. L’Uno, il più sfuggente e misterioso tra i numeri.
Giulio Busi è esperto di mistica ebraica e di storia rinascimentale, insegna Giudaistica alla Freie Universität di Berlino. Collabora da molti anni alle pagine culturali del «Sole 24 Ore». Per il Mulino ha pubblicato «Indovinare il mondo. Le cento porte del destino» (2021).
* Fonte: Il Mulino
MEMORIA DELLA LIBERTÀ E DELLA COSTITUZIONE: LA LEZIONE DI RITA LEVI MONTALCINI.E SIGMUND FREUD.
Antropologia, matematica, filosofia, e "disagio della civiltà" e nella civiltà (Sigmund Freud, 1929).
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana...
Nel breve testo dalla intervista a Rita Levi Montalcini
ci sono straordinarie indicazioni di una strada aperta e di un cammino che non riguarda solo le donne e che riguarda tutti gli ambiti della società ancora oggi (2022) segnata dall’ombra di Platone (Adriana Cavarero, "NONOSTANTE PLATONE figure femminili nella filosofia antica", 1990). Una storia di lunga durata e una questione antropologica all’ordine del giorno...
Per uscire dall’orizzonte della cosmoteandria e dalla matematica della tradizione tragica di Edipo (Freud) e dalla Accademia di Platone, questo è il problema di tutti i problemi, le colonne d’Ercole da superare: riconoscere l’autodeterminazione, la libertà di disporre di sé a ogni essere umano, alla donna come all’uomo.
Non si possono truccare le carte e le regole del gioco per l’eternità!
DIVINA COMMEDIA. Il problema è proprio quello di non perdere la memoria, la coscienza e la ragione, e, non ricadere nel sonno eterno, del Faraone (e della Faraona), del Re e della Regina! In principio era il Logos - la Costituzione, non il logo di una fattoria, di una religione ...
Edipo non solo scioglie l’enigma della sfinge, ma soprattutto vuole sciogliere il nodo più grande che è quello con la madre-regina e di una Legge incestuosa...
La lotta di Rita Levi Montalcini con il padre richiama la lotta di Sigmund Freud con il padre! Alla fine, entrambi hanno saputo distinguere tra la Legge del Faraone e la Legge di Mosè.
Senza l’interpretazione dei sogni del Faraone, Freud non sarebbe mai arrivato a Londra e l’opera "L’uomo Mosè e la religione monoteistica" non avrebbe mai vista la luce (1938)!
#COSMOTEANDRIA E #ANTROPOLOGIA.
L’#autodeterminazione, la #libertà
di disporre di sé,
è
dell’#uomo come della #donna,
ma l’#Europa pensa come se vivesse
in una #terra piatta, nel suo #mare nostrum.
Non ha ancora visto il #Sorgere della Terra?!
PSICOANALISI: STORIA E STORIOGRAFIA. UN INVITO...
... A RIPARTIRE proprio da "Mosè e il monoteismo", da questa affermazione "difensiva" di Freud (a Charles Singer, del 31 ottobre 1938): "Un uomo vecchio non può avere idee nuove; non gli resta altro che ripetersi"!
INTERPRETARE BENE E, AL CONTRARIO, CAPOVOLGENDO LO SGUARDO, RILEGGERE PROPRIO A PARTIRE DAL CORAGGIO DI QUESTA ULTIMA OPERA (portata a compimento a Londra e pubblicata ad Amsterdam nel 1938), non solo TOTEM E TABU’ ma la stessa INTERPRETAZIONE DEI SOGNI.
Solo così lo straordinario "mosaico" dell’ampio e profondo lavoro archeologico di Sigmund Freud può apparire alla luce in tutta la sua audacia e brillantezza antropologica, filosofica e scientifica.
IL MONOTEISMO DI UNA LINGUA E DI UNA RELIGIONE E IL PROBLEMA MOSE’...
Il lavoro archeologico (e psicoanalitico) di Freud, a mio parere, non mira a "criticare" la propria o un’altra "lingua-religione" per imporre la sua "religione-lingua" (nonostante tentazioni nel suo percorso e di molti suoi psicoanalisti "seguaci" ci siano state e ci sono ancora), ma a "trovare" e capire la sorgente antropologica comune a tutte le "lingue-religioni", sì da evitare illusioni di fondamentalismo "linguistico-religioso", proprie del monoteismo faraonico (narcisistico ed edipico) di tutte le religioni e dialogare con tutte le altre "lingue-religioni".
USCIRE DALL’INFERNO. In questo Sigmund Freud è molto prossimo alla sollecitazione già e anche di Dante Alighieri (ricordare la sua Divina Commedia e la sua Monarchia e la lezione sui Due Soli) che ha criticato fortemente e duramente il patto di alleanza di lunga durata della Chiesa Cattolica con Costantino e s’interrogava su come entrare in comunicazione, in dialogo con altri esseri umani di terre lontane e di lingue diverse...
SAPERE AUDE! (Kant): AVERE IL CORAGGIO DI SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA - FINO ALLA FINE...
Sigmund Freud: "[...] Dunque, debbo rischiare" (Lettera a Charles Singer del 31 ottobre 1938)! A partire da "Mosè e il monoteismo" rileggere "Totem e Tabù", non viceversa!
Contrariamente a quanto Freud stesso dice ("io sono un incredulo radicale"), per lo più, si è finito per credere alla sua mezza verità, che l’opera sia una semplice ripetizione di vecchie idee: un giudizio assolutamente offensivo per Freud e autodistruttivo per la psicoanalisi!
Come se l’opera su "L’uomo Mosè e la religione monoteistica" non fosse mai stata scritta e Freud non fosse mai arrivato a Londra !
P. S. - GIOGO E GIOCO: REPRESSIONE, ESPRESSIONE, E DISAGIO NELLA CIVILTA’...
STORIA E CULTURA. Non è un caso che lo storico olandese, Johan Huizinga abbia scritto, nel 1935, "La crisi della civiltà" e tre anni dopo, nel 1938, un’opera fondamentale sul "gioco come funzione sociale", intitolata Homo Ludens. E, nello stesso anno, Freud riesce a raggiungere Londra e ad Amsterdam pubblica la sua ultima opera su "Mosè e il monoteismo".
Questioni teoretiche
Cantiere Spinoza
di Maurizio Morini (Ritiri Filosofici, 16 Gennaio 2022)
Così come per qualsiasi altra occupazione, anche in filosofia sono necessari strumenti adeguati per fare bene il proprio lavoro, tali soprattutto da superare le difficoltà che presto o tardi sempre si dovranno affrontare. In questo senso uno dei suoi strumenti principali è il concetto di definizione, stabilire il quale non è neutrale ed implica delle conseguenze decisive. Chi delle definizioni ha fatto l’essenza del proprio filosofare è stato Spinoza il quale ha costruito l’intero suo edificio proprio grazie al metodo geometrico. Molti però, tra gli stessi filosofi, ne hanno dichiarato l’inutilità o addirittura l’artificiosità. Adorno nelle sue lezioni confessava che, di fronte alle definizioni del filosofo olandese, si trovava «del tutto disorientato, come la mucca di fronte alla porta nuova». Il filosofo della Dialettica dell’Illuminismo finiva poi per dichiarare che in filosofia ci sono dei concetti che non sono passibili di definizione con la conseguenza che la sua ricerca era inutile. Adorno si rifaceva esplicitamente a Kant il quale aveva sostenuto a sua volta una ben precisa critica della definizione così come utilizzata in filosofia. Solo al termine delle sue lezioni, guardando ai risultati della filosofia contemporanea, Adorno (in maniera onesta) sembra spezzare una lancia a favore della definizione e addirittura ritirare la propria tesi.
La definizione in Aristotele e in Kant
Da un punto di vista etimologico, la parola definizione è composta dalla preposizione de e dal nome finis: discorso sul limite. La definizione quindi indica i confini entro i quali è racchiusa l’essenza o il concetto di qualche cosa. Essa pertanto deve cogliere gli aspetti comuni o differenziali di una certa cosa: in altre parole, la definizione si intende secondo il genere e la differenza specifica. Questa impostazione risale ad Aristotele il quale affermava che c’è definizione solo quando il termine significa qualcosa di primario, ovvero quando si parla di cose che non possono essere predicate di altre. Il genere è il primo elemento della definizione (dove per genere si intende il complesso di caratteri di un certo tipo riuniti sotto un certo nome); la differenza specifica invece, ciò invece che caratterizza la cosa che si intende definire rispetto a tutte le altre.
Kant, nella Dottrina trascendentale del metodo, assume un’altra prospettiva, per comprendere la quale è necessario distinguere due usi della ragione: il primo riguarda l’uso della ragione in base a concetti; il secondo l’uso della ragione in base alla costruzione di concetti. Al primo uso viene dato il nome di filosofia; al secondo il nome di matematica. In quest’ultima i concetti sono già determinati a priori dall’intuizione pura, senza che via sia necessario alcun dato empirico; la filosofia invece non può prescindere dall’esperienza in quanto essa sta a fondamento dei concetti. Posto ciò, Kant conclude che la fondatezza della matematica poggia su definizioni, assiomi e dimostrazioni, nei confronti dei quali la filosofia deve fare a meno («come il geometra, usando il suo metodo nella filosofia, non può costruire che castelli in aria, così il filosofo, applicando il proprio nella matematica, non dia luogo che a chiacchiere»). Kant sostiene che in filosofia la definizione non può essere utilizzata proprio perché i concetti empirici, più che essere definiti, andrebbero resi espliciti, chiariti, dichiarati (tutti termini che in tedesco fanno riferimento al termine Aufkärung). Sono fuori strada quindi tutti coloro che utilizzano termini come sostanza, causa, diritto: in altre parole una vera e propria stroncatura della filosofia di Spinoza.
La definizione in Spinoza
Cosa diceva Spinoza in merito? «Se si deve conoscere una cosa attraverso la definizione costituita da genere e differenza - scrive nel Breve Trattato - non possiamo mai perfettamente conoscere il genere supremo, che non ha alcun genere sopra di sé» (KV, I, 9). Piuttosto, bisogna seguire la vera logica, ovvero la divisione della natura in natura naturans e natura naturata.
Ma è in una corrispondenza epistolare, quella intrattenuta con un giovane mercante di Amsterdam, Simone De Vries, che Spinoza chiarisce meglio il suo pensiero. Chiesto su che cosa dovesse intendersi per definizione, egli rispondeva che bisogna distinguere la definizione della cosa in senso reale, in quanto fuori dall’intelletto, e la definizione della cosa in quanto è concepita in senso nominale. Alla prima si chiede di essere vera in quanto ha un oggetto determinato; la seconda si propone invece al solo scopo di ricerca. In altre parole: il primo genere di definizione deve essere necessariamente vero in quanto, se io ad esempio voglio definire l’essenza del tempio di Salomone, devo stabilire una descrizione esatta della cosa (altrimenti si ha una cattiva definizione). Il secondo tipo di definizione implica invece che si esplichi la sua progettualità, non importa che essa sia vera o no: in questo caso la definizione o si concepisce oppure non si concepisce. Chiariamo con un esempio: un conto che io debba definire l’orologio a parete che ho di fronte a me; un’altra è che io debba definire un orologio a parete che devo ancora costruire, in cui ciò che importa è che la sua costruzione non sia autocontraddittoria, tale cioè da renderlo inservibile allo scopo.
Il problema, insiste Spinoza, consiste nel fatto che la definizione tradizionale (quella aristotelica, che distingue genere e differenza specifica) riposa essenzialmente sull’esperienza, la quale però «non ci dà alcuna essenza delle cose», sicché noi dell’esperienza non abbiamo mai bisogno per la definizione. Infatti - si potrebbe dire - come si potrebbe definire una cosa soggetta al continuo divenire? Lo potremmo fare solo fingendo, per esigenze legate a questioni pratiche, come quello di intendersi su ciò di cui si sta discutendo. La prospettiva dunque sembra avvicinarsi a quella kantiana per poi però allontanarsi in modo radicale: se il tedesco sosteneva che l’esperienza è l’unico campo della filosofia (e per questo rinunciava alla definizione), l’olandese sosteneva che, proprio perchè l’esperienza non era l’unico campo della filosofia, la definizione era essenziale.
Un sistema aperto non una cattedrale di ghiaccio
Se il dialogo tra Spinoza e il suo giovane amico non può essere considerato un dialogo tra sordi, non si può non riconoscere però che i due parlano linguaggi diversi. Da esso si ricavano alcune impressioni (vedi le lettere 8, 9 e 10 dell’epistolario), soprattutto in merito all’oggetto della loro discussione, cioè le proposizioni dell’Etica.
La prima è che l’intero dialogo sulla definizione (tema piuttosto acceso nel circolo spinoziano, come ammette De Vries) è fondato sull’intelletto come strumento per accedere alla verità: cosa che oggi è talmente lontana dalla nostra sensibilità filosofica che facciamo difficoltà a seguirlo e a comprenderlo pienamente.
La seconda impressione è che, contro la retorica del “cristallo” e della “cattedrale di ghiaccio”, il sistema di Spinoza (riassunto nell’Etica) si rivela essere un cantiere aperto in cui, oltre alla scelta dei materiali, rimane determinante la capacità di costruire dei costruttori.
Questo conduce ad una terza domanda (da cui nasce l’impressione): le definizioni dell’Etica sono definizioni reali oppure definizioni nominali? Qui l’impressione è che Spinoza mescoli le carte, alternando le une alle altre senza un indice preordinato e dove la risposta sembra lasciata all’intelligenza del lettore, il quale è invitato a prendere parte alla costruzione. Diceva Wolfson che «l’Etica non è una comunicazione al mondo; è la comunicazione di Spinoza con se stesso». Questo non significa che le sue definizioni siano lasciate al relativismo delle interpretazioni o peggio al solipsismo. Tutt’altro: ciò significa che ogni definizione impegna il lettore nella forza del ragionamento, perché solo questo può mostrare la verità o la falsità di un asserto. Nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto Spinoza scrive: «ho dimostrato e ancora tendo a dimostrare il buon ragionamento, ragionando bene».
NOTA: SPINOZA, UN FIGLIO DEL "DEUS", NON UN FIGLIO DEL "LUPUS" (A FIANCO DI KANT, NON DI HEGEL).
CANTIERE SPINOZA. ETICA, MATEMATICA, E CRITICA DELLA DIALETTICA...
Se è vero, come è vero, che l’Etica di Spinoza è “un sistema aperto non una cattedrale di ghiaccio” e che è necessario sciogliere l’enigma se “le definizioni dell’Etica sono definizioni reali oppure definizioni nominali” (M. Morini, "Cantiere Spinoza", Ritiri Filosofici, 16.01.2022), non si può ricadere nella stesso passo falso dell’analisi del “Discorso del Re” (M. Morini), e portare l’acqua al mulino non di “Amleto” (Shakespeare), ma a quello di Hobbes!
Una interpretazioni riduttiva della “Critica della Ragion pura” e della concezione kantiana della “definizione”, dalla sez. della “Dottrina trascendentale del metodo”, riconduce direttamente e di nuovo il discorso sotto il “principio di Hobbes” (e nell’orizzonte di Hegel e di T. W. Adorno), nell’orizzonte del “Leviatano” (e, al contempo, della dialettica di Hegel e della “dialettica dell’illuminismo” di Adorno), “secondo cui le azioni del sovrano non possono mai essere accusate di ingiustizia dai sudditi e il sovrano non può né essere messo a morte né essere punito dai suoi sudditi” (M. Morini, “ [1]”, Ritiri Filosofici, 02.01.2022).
“HOMO HOMINI LUPUS EST”?! Pur condividendo l’impressione “che Spinoza mescoli le carte, alternando le une alle altre senza un indice preordinato e dove la risposta sembra lasciata all’intelligenza del lettore, il quale è invitato a prendere parte alla costruzione” (M. Morini, cit.), è assolutamente non condisibile una conclusione dell’analisi accogliendo la dichiarazione del “Figlio del Lupo” (“Wolf-son”) e dire davvero con Wolfson che «l’Etica non è una comunicazione al mondo; è la comunicazione di Spinoza con se stesso»! E’ posssibile asservire la “filosofia” (nel senso di Kant) di Spinoza al calcolo e alla matematica di Platone, di Cartesio, di Hobbes, ed Hegel, e dire che questo “significa che ogni definizione impegna il lettore nella forza del ragionamento, perché solo questo può mostrare la verità o la falsità di un asserto” (M. Morini, cit.)?!
Non è il caso di riprendere il discorso dalla figura del “capo”, dal “discorso del re”, e rimeditare la “filosofia” e la “matematica” di Kant?! Se no, come è possibile distinguere tra “essere e non essere”, definire, ragionare e, al contempo, decidere sul “che fare?”, qui ed ora?! Non è meglio uscire dall’inferno della “fenomenologia dello spirito” di Hegel e, con Dante e Virgilio, uscire dalla caverna (Inf. XXXIV, v. 90) e ammirare il “cielo stellato” di Koenigsberg?
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E PSICOANALISI. LA CRISI DELLE SCIENZE: ENZO PACI, "AUT AUT", E L’ENIGMA DEL SOGGETTO. *
Quel gesto fenomenologico che ha fatto cultura
di Pier Aldo Rovatti *
Se mi chiedessero di dire in una battuta che cosa ha prodotto il settantennio di vita della rivista “aut aut”, messa al mondo nel 1951 dal filosofo Enzo Paci e oggi tutt’altro che estinta, risponderei senza esitazione: “il gesto fenomenologico”.
A tale atteggiamento o pratica di pensiero è stato dedicato anche il fascicolo della rivista attualmente in circolazione, in cui si guarda tanto al lunghissimo passato quanto a un futuro ancora da realizzare: sì, perché siamo ancora lontani dall’avere ben compreso questo gesto e dall’essere riusciti a metterlo in atto.
Di cosa si tratta? È un tentativo di dar corpo alla parola “critica”, forse più facile da collegare a quella cultura che voleva prendere distanza dai dogmatismi e dagli ideologismi del ventennio fascista di quanto sia riconoscibile oggi in una situazione nella quale tutti ci riempiamo la bocca di un’idea di democrazia alquanto superficiale e di tanti propositi culturali che spesso risultano vuoti e dai piedi di argilla. Parliamo infatti di pensiero critico, di responsabilità e di etica pubblica, ma non sembra proprio che riusciamo a dare troppo peso a quello che diciamo, come se dalla bocca di molti intellettuali uscisse soltanto un esile vapore, un flatus vocis che si disperde subito nell’aria.
Il gesto fenomenologico avrebbe invece la pretesa di tenere i piedi ben piantati sulla terra e di non consumarsi subito in una vacua cortina fumogena, come capita alla gran parte dei prodotti dell’attuale mondo della comunicazione, frettolosi e dunque superficiali. Questo gesto è invece qualcosa che ci coinvolge integralmente: non un semplice pensiero, qualcosa che ci passa per la testa e che comunque si riduce all’ambito del mentale, al contrario riguarda la nostra intera soggettività. È un atteggiamento “concreto” che concentra l’insieme delle nostre facoltà e ci mette completamente in gioco.
Detto altrimenti, questo gesto ci espone agli altri, non è una postura comprimibile nella privatezza, perciò ha sempre una dimensione pubblica, nel senso appunto dell’esposizione e del confronto. Siamo lontani dall’idea di una filosofia come disciplina a sé, dotata di una sua autorevolezza, piuttosto siamo vicini a un impegno di pensiero che ci chiederebbe di uscire dal bozzolo di un “io” separato, vale a dire di tentare di liberarci dalla presa di qualunque egoismo (egologia, egolatria) e dunque anche di sospettare di ogni pervasiva psicologia.
Perciò il gesto fenomenologico, così difficile da mantenere, così facile da inquinare e infrangere, dunque raro, è innanzi tutto un atteggiamento autocritico: ciascuno di noi, ogni “soggetto”, dovrebbe cominciare con il togliersi di dosso la camicia di forza dell’egoismo, tentare almeno di farlo, se vuole che il suo gesto agisca come un gesto critico. Non è certo lo scenario che vediamo ogni giorno perché, invece, abbiamo costantemente davanti una scena opposta in cui non si scorge quasi nessuna traccia di tale necessaria critica di sé stessi.
Ma cosa significa quel parolone, “fenomenologico”, che accompagna la parola “gesto”? Qui compare la specificità filosofica che caratterizza i settant’anni della rivista. È chiaro che il rimando è a Husserl e soprattutto alla sua ultima opera La crisi delle scienze. Si parte da una diagnosi di perdita di senso, cioè appunto di “crisi”, che non investe soltanto il mondo scientifico e la sua tecnicizzazione, come aveva fatto negli anni Trenta lo stesso Heidegger (peraltro, inizialmente discepolo di Husserl), ma investe per intero la cultura poiché riguarda lo stile di vita di ciascuno. Il titolo preciso di quest’opera di Husserl, che davvero ha fatto testo per comprendere un’epoca, certo non ancora conclusa, è: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (in italiano è stata pubblicata dal Saggiatore, lo stesso editore di “aut aut”).
“Fenomenologia” e in più “trascendentale”? Non è poi così difficile arrivare al nocciolo di una frase che potrebbe giustamente allarmare i non addetti (tra i quali, in questo caso, vorrei potermi collocare a mia volta): quel “trascendentale” è lì per dirci che non dobbiamo confondere fenomenologia con fenomeno (o con qualcosa di semplicemente fenomenico) perché ciò che viene messo in gioco è l’idea di soggetto e di soggettività nella sua concretezza non superficiale.
Per mantenere o ritrovare il suo carattere fenomenologico, questa idea non dovrà essere soltanto la meno idealistica, categoriale, metafisica possibile, perché non basta che la concretezza equivalga a ciò che è empirico, ma dovrebbe riuscire a dar corpo a una soggettività che non è mai fissabile attraverso un’etichetta. Perciò il termine fenomenologia risulta essenziale per mettere in primo piano proprio il problema del soggetto.
Aggiungo, per far capire l’importanza di tale problema, che il soggetto che viene così evocato non è mai traducibile in un concetto chiuso, di cui si possa costruire una scienza comunemente intesa. È piuttosto, come diceva lo stesso Husserl, un “enigma” che non possiamo cessare di sondare e di rilanciare, qualcosa che ha a che fare con l’insieme dei nostri vissuti e con la nostra stessa vita.
Qualcosa che fa tutt’uno con lo stile di vita di ognuno di noi, come ha mostrato con chiarezza Paci nelle pagine del suo personale Diario fenomenologico (ora riedito da Orthotes). E proprio da qui discende l’intero corredo critico di “aut aut”, cioè - per indicarne solo qualche aspetto - l’importanza della “sospensione del giudizio” (la famosa epoché, rilanciata anche da Franco Basaglia nella sua critica alla psichiatria ufficiale), l’importanza di non isolare mai il sapere dall’etica con il rischio di svuotare il “gesto” facendolo diventare unicamente una tecnica di pensiero, o anche l’importanza di conservare a ogni costo l’apertura del dubbio e la possibilità del “sempre di nuovo”.
Perché questo gesto non può essere mai considerato un atteggiamento esclusivamente individuale? La tonalità “politica” della rivista, presente fin dal suo inizio, può ritrovarsi nella risposta a quest’ultima domanda, nel senso che non si dà soggettività senza intersoggettività, cioè che nel vissuto personale è sempre presente e attiva l’esperienza dell’“altro” ed è quindi comunque decisiva un’esperienza del noi.
Senza il compito dello stare assieme in una comunità possibile e necessaria di soggetti, il gesto fenomenologico perde il suo significato, letteralmente si annulla nel suo senso e nei suoi obiettivi. Siamo ancora lontani da questo telos, dall’impegnarci seriamente nella pratica di una simile finalità, e allora si comprende perché il tragitto che “aut aut” ha iniziato fin dal primo fascicolo non sia affatto esaurito.
[articolo uscito in versione ridotta su “La Stampa” il 20 settembre 2021]
*Fonte: Aut Aut, 23/09/2021
NOTA:
L’ENIGMA DEL SOGGETTO E LA PROVA DELL’ESISTENZA DI DIO. Note su un dialoghetto "platonico" diffuso in rete:
USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO” (KANT).
COSA PENSANO I due BAMBINI nella pancia della madre "della VITA DOPO IL PARTO"? Ma l’autore "scrittore" di questo "bel" testo (sopra) ha mai sollecitato i "due bambini" a pensare sul come sono ’arrivati’ là dove sono, su come nascono i bambini?, e ha mai visto il Sole? O vive ancora nel pancione della Mamma-Terra, nella caverna di Platone (ama il mondo chiuso e la claustrofilia) e, per il trauma della nascita, si è sempre rifiutato di aprire gli occhi alla luce del Sole e vedere la Terra dalla Luna, dallo spazio?!
"ACHERONTA MOVEBO" (IL "MUOVERE LE ACQUE INFERNALI" DI FREUD) E AFFRONTARE IL TRAUMA DELLA NASCITA (OTTO RANK): SAPERE AUDE! ("IL CORAGGIO DI SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA" DI KANT) !
Senza la critica di Kant del sogno dell’amore cieco e zoppo della ragion pura (di Socrate/Platone) non si può riconoscere a Diotima piena cittadinanza né nell’Accademia né nella Polis. La logica della tragedia (Edipo) porta davvero la peste!
La Sibilla Delfica (dell’oracolo di Apollo) a Socrate disse la verità, ma la storiografia ha preferito credere al sogno della nascita del cigno e alla storia di Platone, figlio di Zeus / Apollo!
Nietzsche perché ha scavato nella nascita della tragedia? Freud cosa cercava a Tebe?! Come Edipo, già a partire dal caso Dora, chiarirsi le idee sulla morte e uccisione del padre ("Interpretazione dei sogni") e sul desiderio incestuoso nei confronti della #madre, fare luce su "L’uomo #Mosè" e sull’esistenza di "Dio"! Con Dante e come Dante ha avuto il coraggio di agitare le acque infernali e uscirne: a Londra, è arrivato!
LA QUESTIONE DEL SOGGETTO, IL TRAUMA DELLA NASCITA, E LA VITA DOPO IL PARTO.
"OTTO RANK, IL DOPPIO E LA PSICOANALISI" (alcune mie note, in "Psicoterapia e Scienze Umane", 4, 1980, pp. 75-79) ). Se Freud osò agitare e rompere le acque infernali ("Acheronta movebo) e riuscì a portare alla luce la psicoanalisi, è da dire, però, che non fu altrettanto attento a riconoscere il trauma della nascita e a portarsi oltre le colonne d’Ercole dell’Edipo.
Andando in America, nel 1909, Freud era ancora fiducioso e ottimista nella possibilità della psicoanalisi di affrontare il diffondersi della peste; ma nel 1924, con la sua parziale comprensione del complesso di Edipo, non riesce ad accogliere la sollecitazione di Otto Rank a riflettere sul trauma della nascita e l’avvenire della sua stessa creatura comincia a oscurarsi.
Elvio Fachinelli (1928-1989) ha saputo vincere la Claustrofilia (1983), si è portato "Sulla spiaggia" (1985), ma l’ Accademia platonica della Filosofia come della Psicoanalisi ha continuato a chiudere un occhio su come nascono i bambini. E il platonismo continua a oscurare il cielo...
Federico La Sala
ORIGINE DELLA CULTURA E DELLA STORIA: ROMOLO E REMO, ROMA, E IL TERMITAIO...
Prima dell’inizio. Roma e le termiti
Roma. Il libro delle fondazioni di Michel Serres.
di FELICE CIMATTI (Fata-Morgana-web, 3 0ttobre 2021).
In questione è l’idea stessa di “inizio”. Se tutto comincia con un inizio assoluto, allora prima dell’inizio non può esserci nulla. Pertanto l’inizio deve essere un evento straordinario, appunto perché inaugura qualcosa che prima non c’era. Secondo René Girard all’inizio delle vicende umane c’è quella che chiama una «crisi mimetica» in cui si scontrano due desideri che vertono su uno stesso oggetto: «Essendo, per sua natura, il desiderio sempre imitativo, il soggetto desidererà lo stesso oggetto posseduto o desiderato dal suo modello» (Girard 2003, p. 31). In un caso del genere non è possibile alcun compromesso, o prevale il desiderio dell’uno oppure quello dell’altro. Questo contrasto irriducibile, prosegue Girard, scatena un conflitto generalizzato («rivalità mimetica») che minaccia di mettere in crisi l’istituzione sociale. Per porre fine al conflitto, allora, si addossano tutte le colpe ad un “capro espiatorio”, attraverso il cui sacrificio si salva la società. All’inizio, allora, c’è l’invidia, la guerra e soprattutto il rito: per questo, conclude Girard, «la religione è la madre di tutta la cultura» (ivi, p. 67). All’inizio c’è il sacro, appunto, l’evento straordinario. All’inizio c’è il Dio, non gli umani.
È per rovesciare questa idea della cultura e della storia che Michel Serres scrive Roma. Il libro delle fondazioni (Mimesis 2021, a cura di Gaspare Polizzi, prima edizione francese del 1983). La vicenda è nota, Romolo e Remo, gemelli, il loro scontro, l’omicidio. Il seguito lo conosciamo. Serres, però, fa cominciare la storia in un modo completamente diverso, a partire dalla stessa prima parola del libro, «seminagione» (Serres 2021, p. 23). Per seminare servono, evidentemente dei semi, che sono stati generati da una seminazione precedente. Serve un terreno, serve un mezzo (l’aratro) per rovesciare il terreno perché possa accogliere il seme. Se c’è un gesto che non è iniziale in senso assoluto è proprio quello della semina, ché anzi è un gesto possibile solo se si inserisce in una storia, un gesto in continuità con i tempi che lo precedono e lo rendono possibile. Subito dopo, ed è forse la mossa più sorprendente del libro, per raccontare la storia di come può nascere una città, Roma e tutte le altre città, Serres propone una sorta di apologo bestiale (dalla teologia all’etologia). Ci racconta come nasce un termitaio, cioè appunto la città delle termiti. Gli uomini e le termiti, esseri umani e gli insetti. Le cose nascono così, in natura:
All’inizio non c’è alcun evento straordinario, non c’è l’invidia e nemmeno Dio. C’è un insetto e una pallina di fango. Le termiti fanno così, è la loro natura. Non c’è alcun progetto, all’inizio. C’è qualcosa di minimo, un movimento “browniano” (il movimento disordinato di particelle minuscole, così piccole quasi da sfuggire alla gravità, scoperto agli inizi dell’Ottocento dal botanico scozzese Robert Brown), in cui ogni termite si muove senza un piano prestabilito. All’inizio ci sono degli insetti e del fango:
La massa di fango comincia ad ingrossarsi, così, semplicemente perché più una pallina è grande più è facile che altre termiti aggiungano altro fango alla massa iniziale. Il termitaio comincia così, fango, saliva, una miriade di animaletti che si muovono in modo febbrile. Il “modello” che sta usando Serres è quello, antichissimo, degli atomisti, di Democrito, Epicuro e Lucrezio: all’inizio, che per questa ragione non è mai iniziato, ci sono gli atomi eterni (in questo caso le palline di fango, ma vale lo stesso anche per le singole termiti), che talvolta si scontrano (è il clinamen del Rerum Natura, a cui Serres dedica un libro straordinario, Lucrezio e l’origine della fisica), e scontrandosi danno vita (anche in senso biologico) ad assembramenti più grandi.
Lo scontro-formazione del nuovo può ripetersi indefinitamente. La natura non è altro che l’insieme infinitamente intrecciato di questi incontri-scontri. In effetti gli “urti” fra le particelle non sempre costruiscono, è altrettanto probabile che mandino in pezzi una “costruzione” precedente. Ma allora, obietterà qualcuno a cui piace l’ipotesi teologica di Girard, è solo il caso a governare le vicende della storia naturale (in cui evidentemente rientra anche quella umana)?
Non c’è solo il caso, allora, c’è anche l’attrazione (sono quindi Democrito e Newton i riferimenti naturalistici della fondazione), che tiene insieme i fragili aggregati sempre sul punto di sfaldarsi. Attrazione, che tuttavia va ricordato che opera in modo del tutto inintenzionale, che favorisce la formazione di aggregati sempre più grandi. Il termitaio cresce, la città di Romolo, semplicemente perché c’è, attira profughi, ribelli, fuggitivi.
Roma diventa più grande: «E dunque può accadere che una pallina gigantesca attiri, a un certo punto, un insieme di palline già grosse e che, in definitiva, questo pozzo aspiri di colpo tutti i lavoratori: allora il termitaio comincia» (ivi, p. 25). Non c’è bisogno del sacrificio di un “capro espiatorio” che ponga fine al “conflitto mimetico”; all’inizio c’è la continuazione di qualcosa che era già cominciato, che non hai mai smesso di cominciare, termiti, fango, oppure gente che si sposta, che si ferma in un luogo, che costruisce una casa, per poi riprendere a spostarsi. La fondazione, allora, è sempre una rifondazione: «Come se non bastasse una fondazione per cominciare veramente. Come se ogni origine esigesse la sua propria origine» (ivi, p. 31). Serres interpreta in questo stesso modo i riti che precedono la fondazione di una città, e in generale un qualunque inizio:
Il “senso” non è mai soltanto, o principalmente, un’invenzione umana: la storia non comincia con noialtri umani. Il caso delle termiti, da questo punto di vista, è esemplare: non c’è termitaio senza un altro, antecedente nel tempo, termitaio, da cui provengono le termiti che ne stanno ora costruendo, senza volerlo, un altro, nuovo e diverso, ma anche antico e uguale. Un termitaio da cui nascerà, forse, un altro termitaio ancora. Il tempo è questo movimento della vita, e solo una presunzione sconfinata (che oggi prende il nome di antropocene) può pensare che tutto debba ruotare intorno ai progetti umani. Roma non è nata nel 753 A.C., allora, Roma continua a nascere, e quindi a morire, ogni giorno. Allo stesso modo c’era una Roma prima di Roma, non può non esserci stata, perché nessun termitaio nasce dal nulla («Omnis cellula e cellula», secondo la celebre formula di Rudolf Virchow).
Se ora torniamo a Girard, invece, si capisce meglio quale sia la posta in gioco sottesa all’ipotesi del sacrificio del “capro espiatorio”: si tratta in realtà del “peccato originale” in quanto «cattivo uso della mimesi, e il meccanismo mimetico è la conseguenza del peccato originale a livello collettivo» (Girard, p. 174). All’inizio c’è una colpa originaria, che solo un intervento divino può emendare. Se invece all’inizio ci sono le termiti, c’è il fango e il moto browniano, allora non c’è nessun peccato da scontare, non c’è nessuna colpa. C’è invece la vita, e città è la vita, Roma è la vita. In questo inizio già iniziato, e quindi da sempre già finito, Roma diventa il prototipo di una città senza identità, perché solo di ciò che è nato dal niente si può dire che ha una identità precisa, perché è arbitraria e senza storia. Ma Roma è la storia:
Riferimenti bibliografici
ORIGINE DELLA CULTURA E DELLA STORIA: ROMOLO E REMO, ROMA, E IL TERMITAIO...
Se è vero che «Il “senso” non è mai soltanto, o principalmente, un’invenzione umana: la storia non comincia con noialtri umani» (F. Cimatti, cit. - sopra), allora vuol dire che noialtri continuiamo a girare in tondo nella caverna platonica e ancora non sappiamo dare risposte risolutive né all’enigma della Sfinge né alla visione e all’enigma dell’eterno ritorno.
Serres ha cercato "il passaggio di Nord-Ovest" (1980), ha tentato di trovare la via del "Distacco" ("Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere", 1983), per uscire dalla "preistoria", e dall’orizzonte di "Rome. Le livre des fondations" (1983), ma non vi riesce: "Roma è sempre il bosco di rifugio, e cioè un insieme indistinto.[...] è ancora lì, indecisa, tra noi, fantomatica e mobile, ma straordinariamente presente e viva. È il segreto dell’impero"(Serres, Rome, cit.).
Anni dopo, egli continua la navigazione nell’ediphicante immaginario della filosofia platonica. Dopo Kant, Nietzsche e Freud, per Serres, Socrate è ancora una soluzione e non un problema. Nel 2015, nel "Mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente", così scrive:
"Una confessione. La filosofia, si dice, conduce alla saggezza [sagesse]. Secondo un altro significato della parola, prima di morire vorrei diventare levatrice - che in francese diciamo sage-femme, cioè letteralmente, «saggia donna» -, vorrei aiutare a partorire il mondo nuovo. La mia vita intera mi ci ha preparato, attraverso l’ascolto attento degli scricchiolii emessi dal vecchio. Sento le crisi che attraversiamo, le inquietudini che suscitano, come dei lamenti emessi nel travaglio del parto. Amo la madre, accolgo il bambino. Possa migliorare incessantemente la mia attività di medico ostetrico, il mio diventare sage-femme".
Non è giunto, forse, il tempo di interrogarsi di nuovo e ancora (come voleva Enzo Paci) su "come nascono i bambini": Caino e Abele, Romolo e Remo, e ... noialtri umani? O no?! Buon Natale...
Federico La Sala
#DIVINACOMMEDIA (#DANTE2021)!
IL CARDINALE #CUSANO CERCA DI PENSARE L’#INCARNAZIONE MA FA UN PASSO AVANTI E #TRE INDIETRO, VERSO LA #DIALETTTICA COSMOTEANDRICA DELL’#ASSOLUTO DI #HEGEL *
Le tre eresie di Cusano
di Maurizio Morini (Ritiri Filosofici, 21 Novembre 2021)
«Quando entra nel campo del potere-che-è, ossia nel campo dove il potere è in atto, l’intelletto va a caccia di un cibo estremamente nutriente». Con questa promessa, Cusano inizia la descrizione del secondo campo nel quale cercare la sapienza. La linea argomentativa è quella per cui ciò che non può essere, non è: quod esse potest non est. Ne discende una scoperta che Cusano definisce non di poco conto: e cioè che il non essere non è una creatura. In termini parmenidei si direbbe che il nulla non è pensabile e che la domanda “perché l’essere e non il nulla” non ha nemmeno senso perché il nulla non può mai essere. Di fatto, come dirà in altre opere, esiste solo ciò che può essere in quanto ciò che è impossibile non si realizza. Come conseguenza, noi vediamo l’attualità assoluta in virtù della quale le cose che sono in atto sono ciò che esse sono: hinc actualitatem conspicimus. Tutte queste affermazioni implicano uno scontro con le posizioni della tradizione filosofica aristotelico-tomistica.
Nel Possest la coincidenza di possibilità e necessità
Aristotele aveva stabilito il principio secondo cui l’atto è anteriore alla potenza. La potenza infatti, in quanto principio del divenire, non è sufficiente a realizzare il divenire in quanto è necessario che ci sia una causa che trasformi la potenza in atto. Ma questa causa, che Aristotele definisce come causa efficiente, deve necessariamente essere già in atto.
Cusano non accoglie lo schema aristotelico dell’anteriorità dell’atto sulla potenza in quanto né l’attualità né la possibilità possono avere una precedenza: se l’attualità precedesse la possibilità, allora essa non sarebbe più attualità (che attualità sarebbe infatti quella che si risolvesse in una non attualità?); se la possibilità precedesse l’attualità si avrebbe invece un regresso all’infinito (perché ogni attualità richiederebbe sempre una possibilità che la porta all’atto e via di seguito).
La conseguenza di questo ragionamento è quella di ammettere la coincidenza di possibilità e necessità. Tale coincidenza ha bisogno di un nome e Cusano inventa il neologismo possest, termine che nasce dalla composizione di due termini, posse-est, traducibile con l’espressione il poter essere che è. Con questo termine egli indica la coincidenza, nell’assoluto, del poter essere con l’essere in atto. Tutte le cose, nella realtà indicata da questo termine, sono complicate, perché tutto ciò che esiste, per esistere, deve poter esistere, e dunque deve esistere in quello che è il potere allo stato puro. Ma in questo potere assoluto, che è un potere che è, nel quale l’essere coincide con il potere e la possibilità con l’attualità, devono essere incluse (cioè complicate nel linguaggio cusaniano) tutte le cose. Nel termine possest il Cardinale conia un termine che esprime la congiunzione della potenza di divenire e della potenza divenuta. Poter essere è dunque poter essere in atto, per cui siccome questo poter essere è considerato in atto, si dice che questo poter essere è un posse. Si tratta di una conclusione talmente forte che, prima di proseguire, Cusano la nasconde dietro tre affermazioni che, con l’apparenza di essere devote, contengono altrettante eresie le quali, ad altri pensatori, in altri tempi e in altri modi, sono costate la libertà e la vita.
Un Dio glorioso che non compie miracoli
Quello che noi consideriamo come Dio nella nostra tradizione, afferma Cusano, non è altro che la coincidenza dell’atto puro e della potenza pura. Nonostante egli chiami questa coincidenza Dio glorioso, l’affermazione si risolve in una vera e propria eresia rispetto al pensiero ortodosso, perché la potenza pura era da sempre stata considerata il prodotto dell’atto: ad esempio, come applicazione di questo schema, la prima cosa che Dio produce è la materia la quale, nella tradizione scolastica, non ha niente a che vedere con Dio, il quale era considerato piuttosto come una sostanza costituita da un’essenza diversa da quella che possiede la sostanza materia. Cusano cancella un simile quadro teorico perché quello che era un effetto, la materia, lo inserisce nella causa, che egli chiama Dio, considerata simultaneamente come un soggetto di contrari.
Il risultato di questo ragionamento produce una seconda eresia consistente nel rifiuto del concetto di eminenza. Con questo termine la tradizione aveva designato un modo di esistenza in cui, ciò che si dà attualmente nel mondo, è presente in modo diverso nell’idea di Dio. Questo significa che la creatura è contenuta nella mente del creatore in modo qualitativamente diverso rispetto a quello della creatura: in Dio (ad esempio) anche il mio gatto esiste, ma non esiste così come esiste in sé o come esiste nella mia mente: esiste in un modo diverso (diversità intesa come perfezione) in quanto la sua vera natura non è attingibile dalla nostra conoscenza.
Come conseguenza di questo approccio teorico della Scolastica, la potenza di Dio poteva essere concepita contemporaneamente in due modi: potenza assoluta e potenza ordinata. In quanto Dio è Dio, la potenza di Dio è assoluta; se invece si considera la potenza di Dio espressa nel mondo, la potenza ordinata, questa potenza non è assoluta, perché si ritiene che il mondo non sia tutto ciò che Dio poteva creare e che esso sia una tra le creature di Dio. Nel caso del gatto, esso esiste ed è stato creato; ma il gatto non solo non poteva non essere stato creato ma esistono nella mente di Dio tutta una serie di gatti che, trattenuti nella sua mente, non sono stati creati. Si ritiene cioè che non tutto ciò che è nell’intelletto di Dio è stato da lui creato: la sua volontà infatti avrebbe fatto da filtro rispetto all’infinità delle idee che sono in Dio, idee che solo in parte si sono tradotte nel mondo.
Anche in questo caso Cusano liquida la tradizione perché il concetto di Dio coincide con la possibilità attuata in cui non vi è più alcun residuo di possibilità da esplicare. Se la creazione deriva dalla natura di Dio (e non dalla volontà), se questa natura è infinita, anche l’effetto è infinito, e quindi dobbiamo dire che nel mondo c’è la piena e totale espressione della potenza di Dio. Dire ciò significa anche abolire il principio dei miracoli, ovvero che Dio non può, a partire dalla sua volontà, porre in essere qualcosa che prima era nella sua mente.
La materia è parte di Dio
La coincidenza di possibilità e necessità provoca un mutamento anche nel concetto di materia e ciò dà luogo alla terza eresia, sicuramente quella più scandalosa. Nella Dotta ignoranza, Cusano aveva già spiegato che il concetto della possibilità coincideva con quello della materia. Il problema è che la tradizione aristotelica era giunta a quel concetto nella modalità del non sapere, pensandola come possibilità eretta come principio assoluto e che coesisteva con lo stesso Dio (il quale era pensato in termini puramente spirituali). I platonici chiamarono la possibilità assoluta mancanza, in quanto essa manca di ogni forma. Gli aristotelici la definivano “quasi niente”, perché la materia aveva soltanto in minimo grado le qualità della sostanza. Di conseguenza, essi sostenevano che le forme sono presenti nella materia solo allo stato di possibilità. concludendo poi con la tesi che nella possibilità è presente la totalità delle cose. Cusano stabilisce invece che è impossibile che vi sia una possibilità assoluta, non congiunta cioè con l’atto, perché altrimenti bisognerebbe ammettere conseguenze assurde, come riconoscere un’infinità che parte dalla mancanza: cosa del tutto contraria a Dio perché semmai, in lui, l’infinità non può che partire da un’abbondanza.
Nasce il modello della causalità immanente
Come osserva un interlocutore del cardinale, si deve dire che Dio è in tutte le cose in modo tale da non poter essere altro quello che è. Questa, dice Cusano, è una dottrina da sostenere nel modo più fermo perché la coincidenza nell’assoluto di potenza ed atto consente di spiegare altrimenti la sua dottrina della complicatio. Dio infatti è tutte le cose in modo tale da non essere una di esse più di quanto non sia un’altra. Dio è sole ma non secondo il modo di essere del sole, il quale non è tutto ciò che può essere. Se questa prospettiva si può definire panteistica, non si deve dimenticare il modo esatto in cui essa si qualifica. Nel potere-che-è sono complicate tutte le cose e nessun grado di conoscenza riesce a coglierlo. Ma, soprattutto, «il potere, considerato in senso assoluto, è ogni potere. Pertanto se io vedessi che ogni potere è in atto non resterebbe più nulla. Se infatti restasse qualcosa, si tratterebbe pur sempre di qualcosa che potrebbe essere, per cui non resterebbe se prima non fosse già stata compresa nel potere». La conseguenza di questo discorso è che qualcosa, per essere qualcosa, deve avere la potenza di essere ciò che è e quindi, se non c’è il poter essere, non esiste nulla. Così come non si porta un’onda fuori del mare, è necessario che tutte le cose che sono, siano esistite da sempre nell’eternità: ciò che è stato creato è sempre esistito nel poter essere. Tutte le cose che sono e che si muovono, sono e si muovono nel possest.
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SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
Federico La Sala
L’OMELIA PERFETTA DI NICCOLÒ CUSANO
L’INCARNAZIONE COMPLETA LA CREAZIONE
di PIERO STEFANI (Corriere della Sera, La Lettura, 19 Dec 2021)
Il rito cattolico romano prescrive, per il giorno di Natale, tre diverse messe: quella della notte, quella dell’aurora e quella del giorno. Ognuna prevede un Vangelo diverso. A mezzanotte si legge Luca (2,114): è la scena della nascita di Gesù a Betlemme, degli angeli e dell’annuncio ai pastori, un quadro che è quasi inevitabile associare al presepe. Al primo mattino i pochi presenti ascoltano i versi successivi (Luca 2,15-20) nei quali si descrive la stupita visita dei pastori a Maria, a Giuseppe e al bambino adagiato sulla mangiatoia. Quando il sole è già alto, il brano evangelico accantona la componente narrativa e si immerge nelle profondità del cosiddetto Prologo di Giovanni (1,1-18): una sequenza di versetti che culmina là dove si afferma che la Parola (termine spesso reso con Verbo, il greco ha logos) si fece carne.
Il senso del Natale è sospeso tra due estremi: da un lato vi è il richiamo alla nascita che accomuna tutti i viventi, dall’altro l’annuncio che il Figlio, la seconda persona della Trinità, si è fatto uomo. A differenza della prima, questa seconda convinzione è fatta propria solo da una parte minoritaria dell’umanità.
Come festa legata alla nascita, il Natale ha la potenzialità di accomunare tutti. Ognuno, se vi dedica qualche riflessione, comprende che la tenerezza suscitata da un neonato è un riflesso della legge, priva di eccezioni, secondo la quale tutti nasciamo non autosufficienti e bisognosi di aiuto. Il semplice fatto di essere vivi attesta che qualcuno si è preso cura di noi. Il senso di solidarietà avvertito a Natale trae alimento da queste remote radici. Dietro la banalità del detto «a Natale si è tutti più buoni» si celano profondità esistenziali.
Le visioni di fede sono di frequente paradossali. I credenti sanno di essere una minoranza ma nello stesso tempo devono essere certi che le loro convinzioni riguardano tutti, anzi concernono il tutto. Si tratta di una sproporzione avvertita anche quando la maggioranza della società era cristiana.
Nel Natale del 1440, lo stesso anno in cui scrisse De docta ignorantia, il suo libro più celebre, Niccolò Cusano tenne ad Augusta, in Germania, una lunga predica nella quale la dottrina superò l’ignoranza. Alcuni passaggi sono rivelatori della sua filosofia. Dio è infinito, il mondo è invece finito. Tra infinito e finito non c’è proporzione. Tuttavia il mondo non può esistere senza un rapporto con il suo Principio che infinitamente lo trascende.
Come fa dunque l’universo a esserci? Vi è un’unica risposta possibile: ciò avviene a motivo dell’Incarnazione, «infatti se Dio non avesse assunto la natura umana - la quale compendia in sé tutti gli altri esseri come loro centro unificante - l’universo nella sua totalità non sarebbe compiuto e perfetto, anzi non sarebbe affatto un universo». La convinzione umanistica che giudica l’uomo un «microcosmo» è chiamata in causa per dare ragione dell’esistenza di tutte le cose. Dio si incarna non a motivo del peccato umano ma perché il creato sia e sussista.
Nessuno esige dai presbiteri che predicheranno nella notte e nel giorno di Natale di misurarsi con le abissali prospettive cusaniane. La richiesta è più contenuta, sarebbe infatti sufficiente che gli immancabili appelli al bambinello e alla solidarietà fossero davvero capaci di misurarsi con la serietà dell’esistenza.
L’AMORE UNIVERSALE E UN’APPROPRIAZIONE INDEBITA: LA MEMORIA DI MOSÈ E IL CAMMINO DI SIGMUND FREUD
PSICOANALISI CATTOLICESIMO E "DISAGIO NELLA CIVILTÀ" ("Das Unbehagen in der Kultur"). Un’appropriazione indebita dell’amore universale e "L’infelicità nella civiltà" ("Das Ungluck in der Kultur"):
"[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità critiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione. Non fu un puro caso che il sogno germanico del dominio del mondo facesse appello all’antisemitismo come a suo complemento, e non è inconcepibile che il tentativo di stabilire una nuova civiltà comunista in Russia trovi il suo sostegno psicologico nella persecuzione della borghesia. Ci si chiede soltanto, con apprensione, che cosa si metteranno a fare i Sovieti, dopo che avranno sterminato la loro borghesia [...]".
“[...] mi manca il coraggio di erigermi a profeta di fronte ai miei simili e accetto il rimprovero di non saper portare loro nessuna consolazione, perché in fondo questo è ciò che tutti chiedono, i più fieri rivoluzionari non meno appassionatamente dei più virtuosi credenti. Il problema fondamentale del destino della specie umana a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile riuscirà a padroneggiare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla pulsione aggressiva e auto distruttrice degli uomini. In questo aspetto proprio il tempo presentemerita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno farà uno sforzo per affermarsi nella lotta contro il suo avversario parimenti immortale. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito?”(Sigmund Freud, "Il disagio della civiltà", 1929).
Per "orientarsi nel pensiero" (Kant), rileggere le note di Franca Ongaro Basaglia su "Così parlò Edipo a Cuernavaca" ("PM-Panorama Mese", novembre 1982) e ricordare il legame della "Interpretazione dei Sogni" (1900) con l’Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo") di Virgilio e "L’uomo Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della Divina Commedia (Pg. II, 46-48) di Dante Alighieri.
Federico La Sala
"QUATTRO" ... QUATTRO PROFETI? IL "TONDO DONI" E LA TRACCIA PER UN’ALTRA "INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" DI MICHELANGELO E DEL SUO RACCONTO NELLA CAPPELLA SISTINA...
di Federico La Sala (Le parole e le cose, 9 novembre 2021)
AL FINE DI UN’INTERPRETAZIONE non riduttiva del "Tondo Doni" di Michelangelo è opportuno fare bene attenzione alla cornice lignea che sta intorno.
NELLA SCHEDA DELLA Galleria degli Uffizi, relativa alla Sacra famiglia, detta “Tondo Doni” di Michelangelo #Buonarroti è scritto:
"QUATTRO PROFETI": MA "COME NASCONO I BAMBINI"?!
Se il tema è quello della nascita di Cristo ("il Figlio dell’Uomo"), il discorso di Michelangelo è semplicemente chiaro e tondo e già anticipa alla grande il programma della Sistina: nella cornice vi sono raffigurate la testa di Cristo (in alto) e ai lati le teste di due profeti e due sibille e, al centro (il fuoco del cammino dell’intero genere umano), Gesù, il "Figlio dell’Uomo" ("Ecce Homo" - ogni essere umano, come da antropologia e filologia), con le figure dei genitori, il "profeta" Giuseppe e la "sibilla" Maria.
L’Uomo non è più un Lupo! L’uomo è per l’uomo un Dio ("Homo homini deus est"), come ricorderà Spinoza nella sua "Etica".
Sacra famiglia, detta “Tondo Doni”
Michelangelo Buonarroti (Caprese 1475 - Roma 1564) *
Michelangelo dipinse questa Sacra Famiglia per Agnolo Doni, mercante fiorentino il cui prestigioso matrimonio nel 1504 con Maddalena Strozzi avvenne in un periodo cruciale per l’arte a Firenze di inizio secolo. La compresenza in città di Leonardo, Michelangelo e Raffaello apportò uno scatto di crescita al già vivace ambiente fiorentino, che nel primo decennio del secolo visse una stagione di altissimo fervore culturale. Agnolo poté quindi celebrare le sue nobili nozze e la nascita della sua primogenita con alcune delle massime espressioni di questa eccezionale fioritura: i ritratti dei due coniugi dipinti da Raffaello, e il tondo di Michelangelo, che è l’unico dipinto certo su tavola del maestro.
Michelangelo aveva da poco studiato le potenzialità del formato circolare, molto apprezzato nel primo Rinascimento per gli arredi devozionali domestici, nei marmi del “Tondo Pitti” (Museo Nazionale del Bargello) e del “Tondo Taddei” (Royal Academy di Londra): in entrambi i casi la Madonna, il Bambino e San Giovannino occupano prepotentemente tutta la superficie del rilievo. Anche il “Tondo Doni” è concepito come una scultura, in cui la composizione piramidale del gruppo si impone su quasi tutta l’altezza e la larghezza della tavola. E’ stato notato che, nella sua compattezza, il gruppo ricorda la struttura di una cupola, tuttavia animata al suo interno dalle torsioni dei corpi e dalla concatenazione dei gesti per il passaggio delicatissimo del Bambino dalle mani di San Giuseppe a quelle della Vergine.
Questa composizione così articolata ed espressiva scaturisce dalla conoscenza e dallo studio da parte di Michelangelo dei grandi marmi del periodo ellenistico (III-I secolo a. C.), contraddistinti da movimenti serpentinati e forte espressività, che stavano emergendo dagli scavi delle ville romane. Alcuni di questi importanti ritrovamenti, come l’Apollo del Belvedere e il Laocoonte scavato nel gennaio 1506, sono citati puntualmente nel quadro fra le figure di nudi in piedi, appoggiati a una balaustra (rispettivamente a sinistra e a destra di San Giuseppe).
La presenza di Laocoonte permette di avanzare per il tondo una datazione che coincide con la nascita di Maria Doni (settembre 1507). I giovani nudi, la cui identificazione è complessa, sembrano rappresentare l’umanità pagana, separata dalla Sacra Famiglia da un basso muretto che rappresenta il peccato originale, oltre il quale c’è anche San Giovannino, che favorirebbe l’interpretazione battesimale del dipinto.
La cornice del tondo, probabilmente su disegno di Michelangelo è stata intagliata da Francesco del Tasso, esponente della più alta tradizione dell’intaglio ligneo fiorentino. Vi sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di quattro profeti, circondate da grottesche e racemi, in cui sono nascoste, in alto a sinistra, delle mezze lune, insegne araldiche della famiglia Strozzi.
* GLI UFFIZI, 11.11.2021 (ripresa parziale)
PSICOANALISI E FILOSOFIA.
SU FREUD: RIPARTIRE DAL PRINCIPIO.
Per comprendere meglio Freud e la sua "rivoluzione psicoanalitica" ("Die Frage der Laienanalyse",“Il Problema dell’analisi profana”: «Non succede nulla di strano, i due si parlano. [...] L’analista dà appuntamento al paziente a una certa ora del giorno, lo lascia parlare, lo ascolta, poi gli parla e gli chiede di ascoltare ciò che ha da dirgli»"), c’è solo da salire su una grande nave, scendere nella stiva, e rileggere il "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano" di Galileo Galilei: a partire da Copernico, da qui (da questa opera) prende il via la navigazione nell’oceano celeste (Keplero) e si apre la strada alla relatività di Einstein (e non al relativismo culturale dell’antropologia culturale e di Gregory Bateson!), alla rivoluzione copernicana di Kant, e alla rivoluzione di Ferdinand de Saussure, proprio da "due persone che discorrono" ("Corso di Linguistica Generale").
Per andare oltre le robinsonate (Marx) e oltre l’edipo (Freud), e uscire dal terrapiattismo non c’è altra via: con Elvio Fachinelli, superare la claustrofilia (1983), portarsi "sulla spiaggia" (1985), andare oltre le colonne d’Ercole (di Edipo), e non naufragare (come Ulisse), ma uscire dall’inferno (Dante 2021) e rinascere! O no?!.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE E SAUSSURE: UNA SOLA TEORIA, QUELLA DEI "DUE SOLI". Ipotesi di lavoro
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
L’OPPIO DEI POPOLI E LO SPIRITO CRITICO.
JEAN-LUC NANCY, IL SOFFIO RIVOLUZIONARIO, E I PALLONI IN ARIA...
JEAN-LUC NANCY, in un suo ultimo intervento ad un convegno del maggio scorso, dice: "[...] Quando Marx dichiara che la religione è «l’oppio dei popoli, lo spirito di un mondo senza spirito» [Nella sua "Critica della filosofia del diritto di Hegel"] intende dire da un lato che la religione è un povero surrogato dell’oppio con cui i ricchi si stordiscono, ma anche e allo stesso tempo che c’è da qualche parte uno “spirito” riservato a coloro che ne hanno i mezzi. Beninteso, per lui, tutti gli uomini ne hanno i mezzi, tutti possono partecipare al vero Spirito, a condizione d’essere liberi dall’alienazione. Poiché l’alienazione non consiste essenzialmente nell’estorsione del plusvalore - che ne è piuttosto il segno. L’alienazione consiste nel non essere propriamente sé stessi, tanto in quanto individui concreti che in quanto comunità non meno concrete".
E CONTINUA: "Questo spirito soffia come tutti gli spiriti. Marx usa spesso la parola “soffio” (Atem, respirazione). Ci accontenteremo di un esempio: «Il governo prussiano è infastidito dalla resistenza passiva che incontra ovunque. Attraverso l’apparente apatia, percepisce il soffio rivoluzionario»[...]"(Jean-Luc Nancy, "Essere, Soffio / Être soufflé", Le parole e le cose", 4.10.2021).
IL MESSAGGIO EVANGELICO E IL "FIGLIO DELL’UOMO". "Allora la folla gli [a Gesù] rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo ["Filius hominis", "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου]?»"(Gv. 12,34).
QUESTIONE ANTROPOLOGICA. CHI è questo Figlio dell’Uomo, CHI il "Gesù Cristo" degli Evangelisti? COME è detto nell’Evangelo di Giovanni di "Gesù Cristo"? Ponzio Pilato disse: "«Ecco l’uomo» (gr. «idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)" (Gv. 19, 4).
QUALE SPIRITO? COME è detto nella Prima Lettera dell’Evangelista Giovanni?: "Carissimi, non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio [...] Dio è amore." (1 Gv. 4, 1-8).
IL PROBLEMA DEL MENTITORE: CHI È IL "GESÙ CRISTO" DI PAOLO DI TARSO?!: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
PSICOANALISI E CRISTOLOGIA: "OEDIPUS AT VERSAILLES" ED "EDIPO A CUERNAVACA". CHE FARE? Rileggere il testo di "Un frammento inedito di Freud del 1931" e dell’articolo di Franca Ongaro Basaglia ("PM", novembre 1982). SapereAude!
IL VENTO SOFFIA DOVE VUOLE (Gv. 3.8). QUANTI PALLONI IN ARIA ...
Federico La Sala
PIANETA TERRA: "UNA PALLA DI NEVE ALL’INFERNO". Fine della Storia o della Preistoria?!
QUAL è questa "direzione sbagliata"?! IN UNA CONFERENZA DEL 9 GENNAIO 1970, GREGORY BATESON, in una brillante sintesi, così riassume la visione del nostro rapporto storico con la natura:
"[...] Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e avete l’idea di essere stati creati a sua immagine, voi vi vedrete logicamente e naturalmente come fuori e contro le cose che vi circondano. E nel momento in cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza mente e quindi senza diritto a considerazione morale o etica. L’ambiente vi sembrerà da sfruttare a vostro vantaggio.
La vostra unità di sopravvivenza sarete voi e la vostra gente o gli individui della vostra specie, in antitesi con
l’ambiente formato da altre unità sociali, da altre razze e dagli animali e dalle piante.
Se questa è l’opinione che avete sul vostro rapporto con la natura e se possedete una tecnica progredita, la probabilità che avete di sopravvivere sarà quella di una palla di neve all’inferno.
Voi morrete a causa dei sottoprodotti tossici del vostro stesso odio o, semplicemente, per il sovrappopolamento e l’esagerato sfruttamento delle riserve. Le materie prime del mondo sono limitate.
Se io sono nel giusto, allora il nostro atteggiamento mentale rispetto a ciò che siamo e a ciò che sono gli altri dev’essere ristrutturato. Non si tratta di uno scherzo, e non so quanto tempo abbiamo ancora prima della fine"
(cfr. G. Bateson, "Verso un’ecologia della mente", Adelphi, Milano 976, p. 480).
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA PSICOANALISI E PSICHIATRIA. UNA QUESTIONE DI DIGNITÀ DI LUNGA DURATA.... *
Oltre il vicolo cieco degli uomini che uccidono le donne
Violenza maschile. Alla povertà di un gesto, opporre visioni diverse. Non c’è mai una un’unica scelta
di Tiziana Plebani (il manifesto, 17.09.2021)
Una donna uccisa quasi ogni giorno. Ma spostiamo la visuale e guardiamo dall’altra parte: quasi ogni giorno un uomo uccide una donna. Viene da pensare che sia divenuto un gesto imitativo, un modello da seguire, orrendamente, assurdamente, forse inconsapevolmente, ma che, tuttavia, si è imposto nell’immaginario, nel ventaglio di comportamenti e reazioni.
Nel momento della fragilità, della crisi, della necessità di riprogrammarsi, bisogna fare la fatica di trovare una soluzione, una via di uscita. Questa scelta costa. C’è bisogno di silenzio, pena, sofferenza. Cosa fare? Quello che hanno fatto tanti, che ogni giorno viene ripetuto dai media, che è visto di continuo in televisione. È un gesto che si insinua nella testa, e nel momento del bisogno emerge automatico, l’hanno fatto altri. È come se ci fosse una strada maestra di risposta che azzera l’infinità di opzioni a disposizione dell’umano per risolvere un dramma personale.
Ricordo che anni fa, durante la crisi economica del 2008, assistemmo a un’altra di queste associazioni a catena, tragicamente automatiche: più di 1600 imprenditori si tolsero la vita. Cominciò uno di loro a suicidarsi e in poco tempo anche questo gesto venne ripetuto di continuo: una risposta cieca che pure in questo caso si era imposta come l’unica percorribile.
Certo, quegli uomini che ammazzano le donne hanno alle spalle una pratica violenta, tengono armi in casa, hanno coltivato una confidenza con il linguaggio dell’offesa che non si inventa da un giorno all’altro. Sono tutte morti annunciate, come sappiamo.
Che fare dunque? Suggerisco due piani di azione, uno nell’ambito comunicativo, l’altro che riguarda le strategie di prevenzione.
I media ripropongono la sequela di omicidi e purtroppo imprimono e sedimentano questa risposta. Non si tratta ovviamente di tacere questi crimini bensì di accompagnare la notizia con commenti e interpretazioni che innanzitutto smentiscano l’idea che si tratti di raptus, di accecamento istintuale, di rabbia (rimando a questo articolo).
Quasi tutti questi delitti, avvengono dopo episodi di minacce e di brutalità. E soprattutto, come ci insegna la storia delle emozioni, esistono stili di comportamento che emergono rispetto ad altri in alcuni momenti storici, e che in questo caso ci parlano di un deserto e non di un eccesso emozionale, di un analfabetismo dei sentimenti (di cui la nostra società attuale è afflitta), e di un appiattimento delle risorse individuali e collettive ai drammi e alle fatiche della vita.
Televisioni, social media, carta stampata dovrebbero insistere piuttosto sul ventaglio di risposte al disagio, proponendo storie finite in altro modo (che poi sono la stragrande maggioranza). Si deve comunicare la possibilità di uscire da quella che appare in maniera distorta come una strada maestra ma che è invece un vicolo cieco e orrendo.
Opporre alla povertà di un gesto la visione di un paesaggio molteplice e vasto, di scelte multiple, di percorsi attraversati da mille sentieri. Non c’è mai un’unica scelta.
L’altro piano riguarda l’azione preventiva. Si tratta a parer mio di riprendere le modalità con cui si è affrontata la protezione dei testimoni di mafia, ma mutando direzione. Invece che far subire alla donna minacciata e che ha denunciato lo stalking o peggio, l’allontanamento dalla sua casa, dal suo ambiente, dal lavoro e dalle sue reti personali, si vada a trasferire l’uomo violento in un’altra città e almeno in un’altra regione, possibilmente molto distante. E che abbia l’obbligo di firma, come i mafiosi, in modo che si possano controllare i suoi spostamenti.
Perché ciò che non dobbiamo permettere è che le conseguenze di un comportamento violento maschile vengano pagate in qualità di libertà personale femminile. Affinché queste donne non siano viste solo come vittime ma come soggetti autonomi che perseguono le loro scelte di vita.
L’autrice è storica e scrittrice
*
NOTA:
QUASI OGNI GIORNO UN #UOMO UCCIDE UNA DONNA (ma chi l’addestrò per la vittoria?). Forse non è ora di svegliarsi dal sonno dogmatico e venir fuori dalla edipica tragedia della cosmoteandria e laica e religiosa?!
ANTROPOLOGIA E STORIOGRAFIA. Per uscire dal manicomio di una storia segnata (e raccontata, come Brecht ben illustra)) da una andrologia di lunga durata, dall’inferno della tragedia (Edipo), e vedere Lucifero a "gambe in sù" (Inf. XXXIV, 92) o, diversamente, la testa di Oloferne tagliata da Giuditta (Botticelli), oggi, è necessario non solo un radicale capovolgimento di ottica, ma soprattutto prendere coscienza della necessità di uscire da dentro un campo antropologico con la bilancia rotta (tutte le relazioni dell’intera società senza più giustizia)) e smetterla di continuare a fare "un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata" (come già denunciato da Franca Ongaro Basaglia). O, contro l’evidenza di Dante Alighieri, ogni speranza è ormai solo un’illusione?! E la storia è finita?!
COSTITUZIONE ("BIBBIA CIVILE") ED EPISTEMOLOGIA "BIBLICA"! . Benché sulla questione antropologica (Kant, "Logica", 1800) abbia richiamato tutta la sua attenzione, l’idealismo materialistico (o il materialismo idealistico) l’ha "conservata e negata" ("superata") nella grande "Scienza della Logica" dello Spirito Assoluto di Hegel (Napoleone). Recentemente, Gregory Bateson, benché (come egli stesso dice in una conferenza del 1979) abbia "all’enima della Sfinge" dedicato "cinquant’anni" della sua "vita di antropologo", non è riuscito a venir fuori dall’orizzonte della tragedia e dalla città di Edipo ed è ritornato sulla strada del "sacro"!
("DIGNITÀ DELL’UOMO". Non per sminuire nessuno, ma per uscire dalla "preistoria" (K. Marx), è bene ricordare che il "Dio" a cui guarda Gregory Bateson, è ancora il dio dell’antico patto, quello dell’andrologia di Paolo di Tarso: il cap. XIII di "Dove gli angeli esitano" (Adelphi,1989) è titolato "Il dio che non si può beffare" e mette in citazione la frase di san Paolo: "Non vi fate illusioni: Dio non lo si può beffare" (Gal., VI, 7)!!!
DIGNITÀ. Che dire?! l’antropologa Ida Magli non ha solo scritto "La femmina dell’uomo" (Laterza, 1982) ma anche scritto il libro "SULLA DIGNITA’ DELLA DONNA"; il sottotitolo è "La violenza sulle donne, il pensiero di Wojtyla". Che dire?! Continuare nello Spirito di Napoleone, Hegel, Bateson, Costantino?! Dopo Dante2021?!
Federico La Sala
PSICOANALISI, ANTROPOLOGIA, E MATEMATICA. NOTE PER RISCRIVERE UN “ROMANZO FAMILIARE” NUOVO...
ACHERONTA MOVEBO. “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” (Se non potrò piegare gli Dei, muoverò Acheronte: Virgilio, Eneide, VII, 312). A partire da questa citazione virgiliana, volendo, è possibile tentare di "rileggere" l’intero percorso della ricerca di Freud. Ricordando con lo stesso Freud della "Psicopatologia della vita quotidiana" (1901), l’altra importante citazione sempre ripresa dall’Eneide (IV, 625 ) : "Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor" (che nasca un giorno dalle mie ceneri un vendicatore), si comincia a capire cosa c’è nel "coraggio degli inizi" (Rubina Giorgi, 1977) e in questa identificazione di Freud con Giunone/Era (non solo la moglie di "Zeus", ma anche la sua stessa madre) con Didone e con Annibale, il grande nemico di Roma.
IL PROBLEMA DEL LIBERATORE. L’esergo dell’Interpretazione "dichiara" semplicemente la "natura" teologico-politica del suo progetto: cercare di fermare il matrimonio di Enea e la nascita della nuova Troia (Roma)! Con la stessa determinazione di Giunone/Era (Virgilio), Freud lavora a portare alla luce della coscienza europea la struttura edipica del sogno del Dio greco e cattolico-romano (di Platone come di Paolo di Tarso), e venir fuori dall’orizzonte della tragedia (come Dante e lo stesso Nietzsche). Con l’aiuto di "Zeus/Giove"" e di "Era/Giunone", pur tra mille difficoltà, egli riesce a venir fuori dall’inferno e a "nascere, di nuovo"! Nel 1938 arriva a Londra e porta a compimento il suo ultimo lavoro "L’uomo Mosè e la religione monoteistica". Un grande respiro di sollievo! Morirà l’anno successivo.
ANTROPOLOGIA, MATEMATICA, E PSICHIATRIA. Pur avendo Freud dato già dal 1907 chiare indicazioni per lavorare congiuntamente a una nuova educazione civica e a una nuova educazione sessuale per una "società sana" (Erich Fromm, 1955), l’Italia (comel’Europa e l’intero Pianeta) naviga ancora in un oceano illuminato da una diffusa cosmoteandria.
"UNA VOCE” FUORI DAL CORO. Come ha scritto Franca Ongaro Basaglia ("Una voce. Riflessioni sulla donna", il Saggiatore, 1982), continuiamo a fare "un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" e a leggere per lo più e sempre il vecchio "romanzo familiare", quello edipico! Che dire?! Che fare?! Non è meglio uscire dal "sonnodogmatico"?!
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA, TEOLOGIA, E CRISTIANESIMO. Michelangelo con Francesco d’Assisi e Dante o "con Agostino e Paolo nella mente"?!
CAPPELLA SISTINA
Il montaggio patetico della Salvezza
Giovanni Careri, Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina, Quodlibet: gli affreschi di Michelangelo in una lettura warburghiana, e eisensteiniana, che li restituisce quale organismo vivente attraversato da dialettiche «formule di pathos»
di Corrado Bologna *
«Il buon Dio vive nei dettagli», diceva Aby Warburg. Il suo progetto era di connettere dettagli e affinità, ombre delle idee fermate nei gesti delle opere d’arte, per edificare un atlante iconologico reticolare, capace di restituire un’intera morfologia della civiltà ricostruendo il gioco di energie e di opposizioni dinamiche che dà forma e senso alle immagini. S’innamorò della Ninfa riconoscendola nel movimento seducente della fanciulla che il Ghirlandaio aveva colto al volo come una farfalla nella Cappella Tornabuoni di Santa Maria Novella. Poi lo inseguì per anni, quel gesto, sui sarcofaghi, nei dipinti, in innumerevoli minuzie ricondotte genialmente a «far sistema» in un percorso mentale e culturale vastissimo.
Invece, di Michelangelo, il più grande allievo di Ghirlandaio, Warburg si occupò poco. Però almeno in due tavole dell’ormai celebre Atlante di Mnemosyne, la 53 e la 56, pose implicitamente in rapporto, accostandoli per esaltarne il dinamismo semantico, alcuni dettagli degli affreschi della Sistina, i giovanili Antenati di Cristo nelle lunette della volta (1511-’12) e il maturo Giudizio Universale (1535-’41). In essi intuì forse una traccia di quel maestoso, occulto progetto che Giovanni Careri definisce «fabbrica del corpo glorioso», ricostruendone la vicenda in un libro densissimo, di alto profilo culturale, elegantemente warburghiano nel metodo interpretativo e nell’ampiezza della documentazione (Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina, Quodlibet, pp. 293, € 28,00).
Questo libro affascinante, che «decostruisce» la Cappella smontandone il moto figurativo depositato lungo trent’anni di straordinaria concentrazione da uno dei più grandi artisti di ogni tempo, mi riporta alla memoria un piccolo capolavoro quasi dimenticato (e che conto di riproporre presto), La cattedrale come spazio dei tempi, pubblicato da Friedrich Ohly nel 1972. Ohly propose di «leggere» la Cattedrale di Siena come «immagine architettonica di storia della salvezza che parla attraverso le sue forme foggiate in gradi biblici al pari, su un altro piano, della cronaca universale nella letteratura e della rappresentazione del mondo figurata». Secondo la sua acuta interpretazione quello spazio sacro produce l’«inglobamento del passato e del futuro in un tutto che sta dinanzi agli occhi», recuperando l’effetto emozionale e devozionale di un «processo di visualizzazione» per cui «il fluire della storia diventa un bene stabile». Nella Cattedrale di Ohly, come nella Sistina di Careri, davvero «la storia del mondo si evolve in rappresentazione del mondo»: l’edificio si trasforma nello «spazio figurativo e temporale di una mappa mundi cosmica».
Nella Sistina, invece che la riproduzione dell’universo, il tema è la storia della Salvezza. Giovanni Careri dimostra con erudizione e sottigliezza ermeneutica quali energie spirituali, teologiche, ideologiche, si confrontano e si scontrano in quel luogo straordinario, in cui Michelangelo concentrò uno sforzo titanico, non solo artistico ma anche ermeneutico e teologico, depositandovi un pensiero nutrito dalla corrente degli Spirituali stretti intorno al cardinale Reginald Pole a Viterbo (con lui, a leggere il Beneficio di Cristo, c’erano anche Vittoria Colonna e Sebastiano dal Piombo).
Michelangelo raffigura in cifra, con Agostino e Paolo nella mente, «il passaggio dalla filiazione carnale alla filiazione divina dal punto di vista della storia cristiana, come pure la necessità antropologica di definire l’identità cristiana in rapporto al suo "altro"». Rappresenta così la salvezza dell’umanità che si staglia in un campo di tensione fra il tempo messianico e il paolino katéchon, la frenante forza d’inerzia con cui la temporalità storica incarnata negli Antenati, cioè insieme «gli ebrei "ostinati"» e «il cristiano negligente», ne ritarda l’adempimento. In questo senso la Cappella Sistina è attraversata da energie formidabili, e si trasforma in un teatro della memoria, in un dispositivo mnemotecnico di metamorfosi interiore simile a quello che Giulio Camillo ideò negli stessi anni: il percorso che lo spettatore compie nello spazio vivo, con il suo corpo e il suo sguardo, è un cammino iniziatico. L’«istanza del soggetto» coinvolge sia chi dipinge sia chi osserva, giacché «il corpo glorioso» dell’uomo può venir `fabbricato’ attraverso un’«inclusione» spirituale, che Careri definisce «conformazione per somiglianza» rispetto al corpo di Cristo.
Sono certo che a Warburg, e anche ad Ohly, sarebbe piaciuto questo Michelangelo segreto, colmo di straordinarie Pathosformeln, riportato alla luce da Giovanni Careri. Il metodo con cui è impostata la sua colta, molto documentata e originale «antropologia della Cappella Sistina», si fonda sull’«analisi cinematica della pittura» e sul riconoscimento di un «"montaggio" delle immagini messo a punto da Michelangelo stesso», che «il montaggio di Warburg non fa che riprendere e sviluppare». Questo montaggio è di fatto il cinema mentale dell’artista, che lo storico riporta in vita attraverso un’antropologia dell’immagine, e soprattutto del suo intrinseco dinamismo.
La Sistina è compresa come un organismo vivente, in cui le immagini invitano l’osservatore all’«attualizzazione del significato teologico e devozionale» che accennano, grazie al «montaggio patetico» con cui sono connesse. Proprio di un «montaggio patetico» che coinvolge le percezioni fisiche, le immagini mentali, gli affetti di chi entra nell’opera d’arte con il corpo e con la mente, Giovanni Careri parlava nel suo primo libro, Voli d’amore. Architettura, pittura e scultura nel «Bel composto» di Bernini. E anche allora si richiamava a quello che il grande regista russo Sergej Eizenstejn definiva «il montaggio delle attrazioni», «un’operazione estetica di scomposizione e ricomposizione di un molteplice eterogeneo che si compie nello spettatore».
Rimeditando l’intuizione di Eizenstejn, il quale come Warburg (probabilmente senza conoscerlo) parlava di «formule del pathos», Careri coglie, nel corpo vivente della Sistina, «la dinamica indotta dal passaggio da un sistema all’altro», e rilegge il Giudizio universale, accanto alle pareti di Perugino, Botticelli, Signorelli, Ghirlandaio, «come un’uscita dalle categorie visive della storicità umanista che regolano i cicli degli affreschi quattrocenteschi rispetto ai quali il grande affresco della parete di fondo viene non solo ad aggiungersi, bensì a "montarsi"».
Il Giudizio del Michelangelo maturo è in dialogo anche con la volta del Michelangelo trentenne: e Careri dimostra, con un’argomentazione serrata e molto solida, come gli Antenati, nelle lunette del soffitto, «incarnano il ruolo di contrappeso terreno al movimento d’ascensione e di caduta dei personaggi eroici», mentre il gesto possente del Cristo nel Giudizio, di fronte allo spettatore, diviene «il nucleo generativo di una serie di onde, espressione di una forza che attraversa i corpi, li lega fra loro e dà loro forma». Cristo, con «l’impulso dato dalla furia del movimento», nella serpentina del suo corpo immenso, non solo condanna i reprobi, ma accoglie e salva i giusti. Quel gesto costituisce un vortice ambivalente, fra parousia e terribilità, a cui gli astanti, nel dipinto e nello spazio della cappella, possono corrispondere compiendo l’«assunzione di somiglianza» che otterrà la loro «conformazione» gloriosa. Il tempo del Giudizio è quindi il paolino tempo che resta, «un tempo che si contrae e comincia a finire». E un’immagine dialettica, perfettamente benjaminiana: «corrisponde all’orizzonte temporale verso il quale gli affreschi delle pareti e quelli della volta dispiegavano le loro narrazioni e i loro annunci, ancor prima che il grande affresco della parete dell’altare venisse a dar figura visibile a questo punto di fuga del tempo, sino ad allora implicito». In una simile catastrofe il «punto di fuga del tempo della storia» si rovescia, messianicamente, «nel punto di vista privilegiato per comprenderla».
* Fonte: Quodlibet -«Alias - il manifesto», 25 aprile 2021
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
PER LA PACE PERPETUA. ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO....
MICHELANGELO PER UN RITRATTO A PROUST: UNA ILLUMINANTE INDICAZIONE DI WALTER BENJAMIN.
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE... *
Tenochtitlan 13 agosto 1521. Conquistadores, la storia di un grande «desencuentro»
Forse quella dell’America non fu né scoperta né conquista, ma incontro mancato. C’è ancora tempo per un’altra modalità di relazione con l’alterità?
di Lucia Capuzzi (Avvenire, giovedì 5 agosto 2021)
«Il sole si alza dal tuo letto di ossa [...]. L’alba lacera la cortina. Città, pila di parole rotte». Cinquecento anni dopo la sconfitta dell’impero azteca con la caduta di Tenochtitlan, la lacerante attualità dei versi di Octavio Paz vibra nel corpo giunonico di Città del Messico. Un organismo vivente più che una città. La spugnosa carne coloniale copre viscere dell’antica capitale precolombiana, per essere a sua volta ricoperta da una sottile pelle ultra-moderna. Gli strati coesistono, a volte confliggono, sempre si alimentano a vicenda. In questo flusso incessante, la megalopoli palpita, respira, sussiste. Impossibile separarli senza ucciderla. Una consapevolezza che, però, la città è incapace di tradurre in parole, come dimostra la polarizzazione delle narrative per l’anniversario. Perché implica fare i conti con l’evento che l’ha generata. E che, in fondo, ha generato l’America Latina.
Più ancora del 12 ottobre 1492, fu l’entrata a Tenochtitlan dei conquistadores al seguito di Hernán Cortés a segnare la nascita del mondo nuovo. E con esso il principio dell’età moderna. Fu “scoperta” o fu “conquista”? Fu incontro o fu scontro? Di sicuro, come afferma Tzvetan Todorov, fu l’esperienza più radicale, estrema, intensa di «scoprimento dell’altro». A differenza degli africani o degli asiatici, gli indo-americani e la loro esistenza erano del tutto ignorati dagli europei. Il confronto, dunque, fu di forza inedita. Mai come allora, gli uni e gli altri dovettero affrontare dei “simili diversi”.
Quel 13 agosto 1521 diviene, dunque, in un certo senso, il “parto” - per parafrasare Amalia Podetti - del globo, inteso come totalità. E del nostro tempo. Con tutte le sue contraddizioni. Non per niente, secondo Todorov, nel XVI secolo si è perpetrato il più grande genocidio della storia umana. Il massacro fu inaudito, questo è incontestabile. La sua definizione aritmetica, invece, è oggetto di dibattito tra gli studiosi ma tutti parlano di decine di milioni di esseri umani ingoiati in un vortice di violenza, schiavitù, epidemie. Magari una simile proporzione non fu voluta e intenzionale. Magari la leggenda nera anglobritannica - non proprio neutrale e benintenzionata - ha esagerato dettagli e crudeltà. Magari numerosi leader politici hanno cavalcato e cavalcano la strage per opportunismo. In questo, l’enfasi posta dal presidente Andrés Manuel López Obrador sul cinquecentesimo come sconfitta dei «veri messicani» è emblematica. Peccato che il Messico è - nel bene e nel male - è figlio di Cortés quanto di Monteczuma. Non sono, tuttavia, gli intenti, più o meno raffinati, di minimizzazione ad accelerare l’uscita dall’impasse.
Oltre che oggetto di studio, la mattanza d’America è soggetto di una storia di dolore, impressa, tuttora, nella carne e nel sangue dei discendenti dei nativi. Per costoro gli abusi antichi non sono che l’eco di quelli presenti, poiché la discriminazione e il rifiuto non sono terminati con la colonizzazione né con l’indipendenza né con le rivoluzioni e controrivoluzioni del secolo scorso. Per questo, gli occhi degli attuali maya si sono velati di lacrime nell’ascoltare papa Francesco affermare, a San Cristóbal de las Casas, il 15 febbraio 2016: «Perdono, fratelli! Il mondo di oggi, spogliato dalla cultura dello scarto, ha bisogno di voi!». Curiosa, dunque, l’ostinata richiesta di López Obrador nel domandare delle “scuse” già fatte senza alcuna sollecitazione. Farsi carico della memoria ferita è la grande occasione offerta dall’anniversario. Non solo per riconciliare il passato. In fondo, cinque secoli dopo, l’essere umano si trova di fronte ancora l’enigma di Cortés. Esiste l’uguaglianza al di fuori dell’identità? C’è spazio per una differenza che non implichi la subordinazione? La distruzione di Tenochtitlan ci ha mostrato le conseguenze di una risposta negativa, come quella del conquistador.
Forse, più che scoperta o conquista, quella d’America fu un grande desencuentro, un incontro mancato. Eppure non è l’unica alternativa. Desencuentro, intraducibile in italiano come unica parola, contiene in se la dimensione dell’encuentro, l’incontro. Anche questo ci ha mostrato la storia del Continente. Dieci anni dopo la devastazione dell’impero azteca, non lontano dalle ceneri ancora fumanti di Tenochtitlan, a Tepeyac, una Madonna dalle fattezze indigene scelse il nativo Juan Diego come proprio testimone. Nello sguardo non assimilativo della Morenita si intuisce un’altra modalità di relazione possibile con l’alterità.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
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Federico La Sala
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Habermas: anche una storia della filosofia
di Leonardo Ceppa (Le parole e le cose, 20 luglio 2021).
1. Una possibile idea di filosofia
Nella Prefazione dell’ultima opera (Auch eine Geschichte der Philosophie, Suhrkamp 2019) si nasconde il sale della gigantesca impresa. Che idea ha oggi Habermas della filosofia? Che compito vuole assegnarle? Nella cultura contemporanea è domanda grandiosa. Di fronte a questo libro ci chiediamo: si tratta del dettagliato racconto di uno sviluppo storico (che perlustra gli stadi secolari attraverso i quali si è formata la proposta di una filosofia postmetafisica) oppure di un’intuizione teorica proiettata all’indietro, che per un verso organizza a posteriori il passato e per l’altro verso si presenta ora (a fine carriera) in tutta la sua potenza come dichiarazione esistenziale, rivoluzione antipositivistica, battaglia argomentativa? Non vogliamo banalizzare la questione al vecchio circolo, tra filosofia e storia della filosofia, di cui prende coscienza ogni matricola studentesca. Come tutti sanno, a differenza delle altre materie scientifiche, della filosofia non si può raccontare la storia senza prima disporne di una implicita idea teorica, ma di tale idea non ci si impadronisce, senza prima averla trafugata (magari senza saperlo) ai materiali di una venerabile storia istituzionale.
Soggettivamente, Habermas si trova impigliato in una trappola. Si vergogna del sollievo (eigentlich unseriös) di non dover daccapo consultare la dilagante letteratura secondaria, di non dover ripetere dimostrazioni più volte sviluppate nei decenni precedenti. Ma sa anche che nessuna tesi filosofica può appoggiarsi sull’impegno soggettivo di chi la pronuncia, per quanto grande sia la sua convinzione. Così nello scavalcare, ponendola al centro, la biforcazione cruciale tra Hume e Kant da lui vista all’origine della spaccatura della modernità - tra necessitarismo scientistico, empiristico e positivistico, da un lato, e costruttivismo linguistico intersoggettivo e comunicativo, dall’altro - egli sceglie una via di mezzo: quella di limitarsi a sottolineare una differenza che sempre si ritrova tra gli opposti partiti. “Nella concorrenza delle impostazioni [mi sono accorto che] si presentava sempre una identica differenza nei loro assunti di fondo (...) le analisi di una parte poggiavano sempre su rappresentazioni e intenzioni individualistiche, singole disposizioni e comportamenti soggettivi, laddove le analisi della parte concorrente partivano dalle stesse questioni facendo però appello a simboli e regole intersoggettivamente condivise, linguaggi, pratiche, forme-di-vita e tradizioni, per poi soltanto alla fine analizzare, nei corrispondenti tipi di discorso, le necessarie condizioni soggettive per poter venire a capo di quelle strutture e di quelle competenze” (p. 10).
La filosofia è una scienza, ma non una scienza come tutte le altre: è una scienza sui generis. Le scienze normali restringono, specializzandolo, il loro campo di azione, la filosofia invece lo allarga. E lo allarga in maniera tanta smisurata da trascinarvi dentro occhio, oculare, e tutti gli strumenti del ricercatore. L’osservatore diventa un mago stregone. Lo scienziato della modernità è il novello Faust. Laddove, dice Habermas, la scienza specialistica lavora “nel dire sempre di più su sempre di meno” (p. 12), la filosofia mantiene tutta la sua faustiana (o hegeliana) presunzione della totalità, tanto da far dipendere il destino dello scienziato (e dell’uomo) dal modificarsi del suo sapere. Sapere del mondo e autocoscienza dell’uomo restano legati insieme dall’uso che l’uomo impara a fare delle sue conoscenze. In questo senso Habermas non separa la “scienza” dall’effetto di “rischiaramento” ch’essa produce. Dal XVIII secolo in poi, Wissenschaft e Aufklärung, scienza e presa di coscienza vanno di conserva, tenute insieme da quel trattino grammaticale (miracoloso nella sintesi tedesca), che lega Selbst- e Weltverständnis in una medesima emissione di fiato.
C’è anche qualcosa di cruciale che il sapere filosofico condivide con le scienze “normali” della nostra epoca: la tendenza alla specializzazione e alla divisione del lavoro. E’ una tendenza inevitabile, feconda, persino desiderabile, la quale tuttavia, nella versione positivistica della filosofia, minaccia di trascinar via (o far dimenticare) quel trattino miracoloso che lega il sapere del mondo sia al destino dell’uomo sia al destino di Dio. Ma perché, agli occhi di Habermas, questo pericolo del positivismo resta una minaccia reale per la filosofia contemporanea? Perché in realtà quest’ultima - per non perdere di vista il rapporto alla totalità - si trova oggi a fronteggiare una preoccupante e smisurata crescita di complessità: moltiplicandosi e arricchendosi il sapere del mondo, la struttura economica della società, le tecniche d’intervento sul corpo e sulla psiche. Con convinzione Habermas ripete la diagnosi di Marx: gli uomini rischiano di diventare le appendici organiche di una scienza e di una tecnica vampiresche, la cui organizzazione umana (il sapere umanistico del cosmo e dell’uomo) diventa sempre più inabbracciabile e inafferrabile (unüberschaubar, p. 12).
Di qui la tentazione (ecco la polemica di Habermas contro il positivismo filosofico) di arrendersi, di rinunciare all’impulso illuministico che ancora animava Kant e Faust, di abbandonare l’impresa umanistica di “dare forma” a sé stessi nella configurazione del mondo (il tema del Gestalten, ricco di risonanze). Allora del progetto moderno resterebbero in piedi soltanto le gloriose rovine. E al filosofo contemporaneo non resterebbe che ripiegare in un atteggiamento di ellenistico disincanto. Un fatalismo dal sapore classicistico verso cui Habermas ha sempre manifestato un orrore palese.
2. Un “processo di formazione” tra la sfida delle contingenze e le speranze della ragione
A che serve, si chiede Habermas a questo punto, ripercorrere nei dettagli - ancora una volta - tutta la storia della filosofia fino al suo punto di arrivo? Questa storia sembra talora diventare il virtuosistico e compiaciuto ricamo su una vicenda mille volte diagnosticata, difesa e omaggiata: il progetto di una modernità in pericolo, la facoltà di trascendere la contingenza nei processi dell’ apprendimento, il peso, infine, che con l’eredità millenaria della religione viene oggi a scaricarsi su una corrente di filosofia postmetafisica. Asse centrale su cui ruota tutto il progetto: la indissolubilità di Aufklärung e Wissenschaft, sapere del mondo e conoscenza dell’uomo, insomma il magico trattino (binde-strich) tra l’uomo e il suo ambiente. Dopo avere scritto, alla fine del libro, il capitolo sui posthegeliani, Habermas si accorge di aver capito una cosa. Il processo delle ramificate controversie teoriche non ha più bisogno di allargarsi: basta mettere in rilievo i presupposti sistematici e metodologici di cui lui si è servito in tutta la sua carriera professionale. La sua tenacia servirà allora a illustrare quella “implicita idea di filosofia” cui ha sempre lavorato, dando ai suoi problemi una impostazione metodologica, che è di di tipo esistenziale e personale, morale e politica, ancor prima che accademica e professionale. Alcuni dettagli diventano secondari e la filosofia-a-360 gradi scende dal cielo prendendo la forma di un Ansatz: di un approccio, di una visione, di un metodo costruito e perfezionato attraverso i decenni. Gli stessi strumenti metodologici illuminano senza sforzo la direzione del cammino: dalla “costellazione occidentale di fede e ragione”, cioè da quella “osmosi semantica” citata nella copertina del primo volume, alla “libertà della ragione” (genitivo soggettivo e insieme oggettivo) auspicata nel secondo volume come obbiettivo postmetafisico del processo.
Nella Prefazione a questi due volumi Habermas ricorda le drammatiche svolte della storia universale: 1) l’età assiale delle religioni mondiali, 2) l’arricchimento reciproco, nell’Europa cristiana, di fede e ragione, cioè quella simbiosi che nella modernità sfocia in scissione, 3) il dissolvimento della falsa metafisica hegeliana nell’impostazione intersoggettiva della pragmatica linguistica.
Le nobili domande della filosofia di Kant - cosa posso conoscere, cosa posso fare, in che cosa sperare - rimangono le stesse, ma presentandosi in un “formato” diverso: muovendo dalla “situatezza” dell’uomo finito queste domande non si camuffano più nella forma di un Assoluto, cioè come fossero formulate da un punto di vista divino oppure positivisticamente scientifico. E proprio l’approccio teorico di Habermas, tra quelli concorrenti oggi nella professione, è quello che più sottolinea la cosa. In questo senso il sistema filosofico di Habermas è personale e professionale nello stesso tempo. Dall’esercizio filosofico resta ineliminabile un momento “performativo” - di responsabilità soggettiva e morale, espressiva e politica - che caratterizza l’autore senza potersi nascondere.
Habermas ce ne dà subito la prova scendendo in lizza con alcuni avversari ( p. 11). Per lui è impossibile, per esempio, prendere sul serio i modelli di Kuhn, Foucault e Feyerabend, perché escluderebbero in via pregiudiziale la possibilità dell’apprendimento, l’occasione di dare al mondo una Gestaltung (un ordine umano). Le rivoluzioni scientifiche di Kuhn contro il falsificazionismo di Popper, il discorso come “maschera del potere” sviluppato da Foucault, l’anarchismo metodologico di Feyerabend, non muovono da una matrice situativo-esistenziale dell’uomo. Queste opzioni renderebbero impossibile concepire le svolte e i cambi-di-paradigma come “risposte fallibili” agli stimoli dell’apprendimento. Il processo di innovazione - sempre aperto agli esiti più diversi perché si impara anche dagli errori - resta per Habermas il campo di tensione intersoggettiva che collega le esigenze della situazione di radicamento - i bisogni della matrice e gli abissi della contingenza - alle risposte e ai tentativi di soluzione proposti da una ragione fallibile. Verso la fine di questa Prefazione, Habermas formula così la sua idea di genealogia: passare sugli abissi dell’esistenza (Abgründe) usando le ragioni (Gründe) come ponti avventurosi, p. 16)
3. Il discorso di “fede e ragione” nell’angolo di mondo chiamato Europa
Il rapporto tra religione e filosofia (che con bella espressione Habermas chiama “osmosi semantica”) incontra nell’occidente europeo un destino particolare. A quella metafisica greca nata nei commerci dell’Egeo e che, nell’era assiale, rappresentava una delle poche significative immagini-di-mondo, toccò in sorte un destino del tutto particolare. Infatti, lungo i secoli del platonismo cristiano che mise radici nell’impero romano, andava realizzandosi uno “doppio attraversamento” di contenuti lungo il confine che divideva la ragione dalla fede, la filosofia dalla religione. Per un verso, credenze sostanziali della narrativa cristiana passavano il confine con la filosofia diventando, in questo campo, saperi razionalmente dimostrabili. In senso contrario, verità metafisiche costruite dai filosofi platonici si trasformavano, appena giunte nel campo della fede, in elaborati teoremi della dogmatica religiosa.
Potremmo addirittura parlare di un destino “secolare e glorioso” se osserviamo come, nella prospettiva con cui Habermas ci racconta il lento formarsi della filosofia postmetafisica, un ininterrotto arco temporale si protende da Agostino fino alla Deutsche Klassik. Infatti, i temi della “autonomia” e della “libertà della ragione” - che caratterizzano la modernità dando sviluppi vertiginosi alla “ragion pratica” postkantiana - non avrebbero mai potuto nascere se non sulla base di quella “osmosi semantica” che Habermas sceglie come guida della sua ricostruzione storica (p. 15). Anzi, il pensiero secolare di un ramo della filosofia postmetafisica contemporanea si è oggi talmente emancipato dalle sue lontane origini teologiche da creare quasi “sproporzione” in favore di una filosofia tanto laica quanto risonante di echi religiosi (basti pensare ad autori come Adorno, Kafka o Levinas), a tutto svantaggio della teologia dogmatico-professionale. Per questo, nel panorama culturale contemporaneo, troviamo sempre piu’ scrittori e filosofi “secolari” (cioè laici e postmetafisici) che trattano temi di pertinenza pseudo-religiosa. Sono persino diventati più numerosi dei laicisti empiristi che, a partire da Hume, riducono psicologicamente la religione a favola consolatoria. Così, quando Habermas polemizza contro la sclerosi laicistica di molta filosofia contemporanea, lo fa anche per mostrare come (pur non essendosi mai interrotta la osmosi semantica tra fede e ragione) si siano oggi spostate le linee dei vecchi confini disciplinari. Nella disordinata polifonia dell’opinione pubblica, tocca spesso ai filosofi laici trattare temi morali, giuridici e politici, che tradiscono evidenti origini bibliche o religiose. E lo fanno più spesso dei filosofi empiristi, che considerano tali temi come superate zavorre oltrepassanti l’orizzonte delle loro divisioni specialistiche.
Questo spiega da ultimo la soverchiante responsabilità che Habermas accolla a quel ramo di filosofia postmetafisica (il ramo kantiano dei 360-gradi, non quello humeano dello sbaraccamento specialistico) che accetta di dialogare - sullo stesso piano - intra moenia coi filosofi ed extra moenia coi teologi. Trattando proprio di quelle questioni che vengono pudicamente evitate dai laicisti rigorosi (chiusi a riccio in quelle specializzazioni “che dicono sempre di più su sempre di meno”). Alla fine Habermas non esita a formulare una tesi coraggiosa di questa portata: “Al di là dei suoi aspetti palesemente postmetafisici, la questione che la filosofia deve sentirsi in grado di affrontare ed elaborare si decide oggi sulla rinnovata eredità del lascito religioso. Anche se questo è problema che riguarda soltanto uno dei rami in cui si è scisso il pensiero postmetafisico” (p. 15 corsivo mio,).
Sembrava infatti che il problema religioso, dopo la moderna scissione tra fede e ragione, dovesse sciogliersi come chiedeva Hume, per via pacifica e senza clamore, passando per la via naturalistica ed empiristica delle considerazioni antropologiche di empiristi e utilitaristi. Invece, scrive Habermas, vediamo con sorpresa scatenarsi nella Sinistra hegeliana una furiosa polemica antireligiosa contro le confessioni del protestantesimo borghese e contro l’assimilazione hegeliana della religione nell’automovimento idealistico dello Spirito. Autori come Feuerbach, Marx e Kierkegaard (ma possiamo anche includere Nietzsche) combattono le consolazioni della religione chiesastica con spirito ardentemente anticlericale. E c’è molto di paradossale, sembra aggiungere Habermas, in questo “anticlericalismo religioso” evocante quelle tracce kantiane di ragion pratica, autonomia e libertà-della-ragione, che paiono disperse lungo la storia di una insopprimibile e irriducibile “emancipazione umana” che rifiuta di sciogliersi in fatalismo stoico.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
#EDUCAZIONE CIVICA
#TRAGEDIA
E
#DIVINA COMMEDIA
#oggi.
Dopo #Dante (1321)
e la #rivoluzione delle #sfere celesti
(#Copernico 1543)
e terrestri
(#Giovanni Valverde, #Anatomia 1560),
celebra ancora la
#dotta ignoranza
di
Socrate
e
Niccolò Cusano
"IL GIOCO DELLA PALLA", SECONDO LA LOGICA "ANDROLOGICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO...:
#DANTE2021
E
#ANTROPOLOGIA (#HOMO LUDENS):
IL #GIOCO DELLA #PALLA
(#De ludo globi) DI
#NICCOLO’ CUSANO
riguarda «un gioco scoperto da poco che tutti comprendono facilmente e giocano volentieri»
E
LA #DOCTA IGNORANTIA
#FILOLOGIA
E
#STORIA.
#PILATO
(#Ecce Homo gr.: «idou ho #anthropos»),
#SAN PAOLO
(1Cor. 11, 3: "di ogni #uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ]"),
#GIUSEPPEFLAVIO
("Egli era il #Cristo")
#Parola Di Dante
...viro
(Paradiso XXIV, 34)
***
#Beatrice chiede al #proboviro
#SanPietro di verificare
se #Dante ha capito la differenza tra
l’#Ecce Homo dell’#antropologia
(#PonzioPilato: gr. «idou ho #anthropos»)
e
il #vir dell’#andrologia di
#SanPaolo
(#capo della #donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ]: 1 Cor 11,1-3).
#BIBBIA CIVILE
E
#MAGISTERO ANTROPOLOGICO:
#COME NASCONO I BAMBINI?
#Divina Commedia:
#Dante2021.
se #Maria è #madre e #maestra.. #Giuseppe non è #padre e #maestro?!
Per un’altra #fenomenologiadellospirito:
IO, dall’#AMORE di #Due IO.
In onore di Francesco e Chiara d’Assisi, dei Francescani (Dante Alighieri, compreso!) ... e di Leonard Boff
IGNOTI A SE’ STESSI ...ED ESPORTATORI DI ’CRISTIANESIMO’ E DI ’DEMOCRAZIA’!!!
La ’lezione’ (di Nietzsche e) di un aborigeno canadese ai ’registi’ della politica ’cattolica’ (e ’laica’).
di Federico La Sala (ildialogo.org, 22 novembre 2005)
Credo che ormai siamo proprio e davvero al capolinea - nella totale ignoranza di se stessi i componenti della Gerarchia della Chiesa ’cattolica’ si agitano ... alla ’grande’!!! Non hanno proprio più nulla da dire, evidentemente! Sono scesi in campo ... ma contro Chi?!, contro che cosa?! Contro lo spirito francescano!!!
In segno di solidarietà, qui ed ora - 2005 dopo Cristo, con i francescani in carne ed ossa, oggetto di un richiamo, con un Motu Proprio, da parte dell’ex- prefetto ’kantiano’ Ratzinger, il papa Benedetto sedicesimo, forse non è inutile un breve commento a margine... per cercare di stare svegli e di svegliarci, possibilmente - tutti e tutte!
Dennis McPherson, un aborigeno (che ormai ’ci’ conosce bene, evidentemente!) canadese, ecco cosa (sapientemente e sorprendentemente - per noi, occidentali!!!), alla domanda - “qual è l’essenza dell’essere umano? E’ una creatura speciale con una missione speciale?” - di un’antropologa-intervistatrice, ha risposto:
Se teniamo presente le famose parole “De nobis ipsis silemus [...]”(di Francesco Bacone), messe da Kant sopra (come una pietra tombale) e prima di iniziare il suo discorso della e nella Critica della ragion pura, si può dire che il ’nostro’ aborigeno ha capito e visto più che bene - e meglio di tutti i filosofi e teologi dell’Occide[re]nte!!! E ’ce’ lo ha detto in faccia - ’papale’, ’papale’: basta!!!
Noi che non conosciamo ancora noi stessi (Nietzsche) .... e che navighiamo nel più grande “oscurantismo” - quello (più importante!!!) relativo a noi stessi, vogliamo pure dare lezioni ed esportare ’cristianesimo’ e ’democrazia’ in tutto il mondo!? “Mi”!?, e “Mah”!!!?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo). HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"
FLS
Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza (Mc 12,29-30)
#Questione Antropologica.
La cit. di Mc 12, 29-30 ha un senso andrologico (e cosmo-te-andrico) o antropologico,
come il #Padre di ogni essere umano (#PonzioPilato: #Ecce homo),
quell’#Amore (di #Dante Alighieri),
che muove il #sole e le altre #stelle -
e anche la #Terra?!
(BEATO ANGELICO, 1437-1446).
#PONZIO PILATO
(«#Ecce #homo»: gr. «idou ho #anthropos»),
#PAOLO DI TARSO
("di ogni uomo il capo è Cristo, e
#capo della donna è l’uomo [«uomo»: gr. ἀνήρ, ἀνδρός], e
capo di Cristo è Dio" - 1Cor. 11, 1-3),
e
(LEONARDO DA VINCI).
Il Vaticano, il ddl Zan e il Concordato da abolire
L’entrata a gamba tesa del Vaticano nella discussione sul ddl Zan non sorprende e mostra come lo statuto privilegiato che lo Stato italiano accorda alla Chiesa può seriamente minarne l’indipendenza e la laicità.
di Cinzia Sciuto (MicroMega, 23 Giugno 2021)
Lo stracciarsi di vesti in seguito alla nota verbale del Vaticano sul Ddl Zan è francamente incomprensibile. Dal 1929 (pieno regime fascista), grazie ai Patti lateranensi, la Chiesa cattolica - una sorta di monstrum metà Stato (con tanto di governo, ministri, ambasciatori, leggi, giudici ecc.) e metà ente religioso (con tanto di testo sacro, dogmi, riti e una rete di parrocchie e diocesi e preti e suore estesa su tutto il globo terracqueo) - gode di uno statuto privilegiato nei rapporti con lo Stato italiano, che francamente non si capisce perché non dovrebbe sfruttare (se non per suo opportunismo).
La Repubblica nata nel 1946 ha confermato in tutto e per tutto questo statuto privilegiato, parzialmente modificato solo con la revisione del Concordato del 1984 che ha fatto un passo importante, senza però tirarne le dovute e logiche conseguenze: dal momento in cui infatti, la religione cattolica non è più religione di Stato (come invece stabiliva il Concordato in vigore fino a quel momento), viene meno il fondamento su cui questo statuto privilegiato si fondava. -Uno Stato laico non può infatti per definizione avere rapporti privilegiati con una religione (tanto più che questa si presenta come quel monstrum metà Stato e metà ente religioso di cui sopra). (Per inciso: uno Stato davvero laico non può avere rapporti privilegiati con le religioni in generale, ma questo è un altro tema).
Antonio Gramsci osservava che il Concordato rappresenta di fatto una limitazione unilaterale della sovranità dello Stato italiano nel proprio stesso territorio: “Mentre il concordato limita l’autorità statale di una parte contraente, nel suo proprio territorio, e influisce e determina la sua legislazione e la sua amministrazione, nessuna limitazione è accennata per il territorio dall’altra parte. [...] Il concordato è dunque il riconoscimento esplicito di una doppia sovranità in uno stesso territorio statale”[1]. Altro che libera Chiesa in libero Stato.
Prendiamo per esempio l’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica italiana. Come stabilisce il protocollo addizionale all’accordo di modifica del Concordato del 1984, questo insegnamento ha per legge carattere confessionale, in quanto impartito da insegnanti indicati dall’autorità religiosa e con contenuti non storico-critici ma dogmatici: “L’insegnamento della religione cattolica [...] è impartito - in conformità alla dottrina della Chiesa e nel rispetto della libertà di coscienza degli alunni - da insegnanti che siano riconosciuti idonei dall’autorità ecclesiastica, nominati, d’intesa con essa, dall’autorità scolastica” (corsivi miei).
Se le cose stanno così, dunque, è del tutto inutile, e anche francamente un po’ penoso, frignare e implorare la Chiesa di essere un po’ meno invadente. La Chiesa fa la Chiesa, e a seconda delle contingenze storico-politiche sceglie gli strumenti che più le sono utili per raggiungere i suoi scopi, apparendo talvolta più conciliante ma sapendo tirar fuori gli artigli quando si sente seriamente minacciata. Artigli che però le abbiamo affilato noi.
Purtroppo non possiamo neanche lontanamente sperare che questa occasione venga colta per recidere finalmente l’unico legame della nostra Repubblica con il regime fascista e completare il percorso per rendere questo Paese compiutamente laico. Stando alle anticipazioni della stampa Draghi oggi dirà che «dovranno essere valutati gli aspetti segnalati da uno Stato con cui abbiamo rapporti diplomatici», mentre Letta - il segretario di quello che dovrebbe essere il partito erede di Gramsci - si è già messo sull’attenti, dichiarando di essere “pronto al dialogo sui nodi giuridici”. Nodi giuridici che sono stati sollevati già da diverse realtà non reazionarie e non cattoliche, le quali però non hanno goduto dell’attenzione invece riservata al Vaticano.
Il ddl Zan è, come tutte le proposte di legge in un Paese laico e democratico, aperto alla discussione e agli apporti critici di tutta la cittadinanza. Solo che ci sono cittadini che a disposizione hanno solo gli strumenti della libera discussione politica, attraverso i partiti e la società civile. E poi ci sono cittadini più uguali degli altri che possono contare su quell’animale mitologico metà Stato e metà ente religioso che, quando la lotta si fa dura, tira fuori l’asso nella manica sparigliando le carte.
[1] A. Gramsci, Quaderni del carcere [1932-1935], edizione critica a cura di V. Gerratana, 4 voll., Einaudi, Torino 2007, vol. III, quaderno 16 (XXII), p. 1866.
MICHELANGELO (LA "PIETA’ BANDINI"), KANT , E UNA CITAZIONE DAL "KANT" DI PIERO MARTINETTI (1943).
Michelangelo Buonarroti, Pietà Bandini, 1555 ca, Museo dell’Opera del Duomo di Firenze. Si tratta di una delle ultime sculture prodotte dall’artista, che si pensa inserì nella figura di Nicodemo un proprio autoritratto.
Tweet di Il Caffè Letterario@SalaLettura:
Risposta:
#CAFFE’ E ILLUMINISMO: #SAPEREAUDE! (#KANT, 1784). Il #ditosullapiaga: non saper distinguere tra #Mosè-#Faraone e il Mosè-#Liberatore (#Freud), #Gesù #figlio dell’##amore di #Giuseppe_e_Maria e Gesù figlio di #Maria e "#Dio"
Federico La Sala
Intervista - "Letture" *
“Bibbia e Corano, un confronto” di Piero Stefani
Prof. Piero Stefani, Lei è autore del libro Bibbia e Corano, un confronto edito da Carocci: quanto sono simili i due testi sacri?
Comincio da una precisazione rilevante: i testi sacri sono in realtà tre. Occorre infatti distinguere tra Bibbia ebraica e Bibbia cristiana. Uno stereotipo ancora abbastanza diffuso parla di Bibbia e Vangelo. In realtà, esistono la Bibbia ebraica, e la Bibbia cristiana formata da Antico e Nuovo Testamento. I libri dell’Antico Testamento, salvo alcuni casi particolari, coincidono con quelli della Bibbia ebraica; tuttavia in questo caso si è trattato non di aggiungere alcuni libri a quelli precedenti bensì di creare un insieme da leggere e interpretare in maniera diversa.
La somiglianza più profonda è che Bibbia e Corano sono sacri soltanto a motivo dell’esistenza di tre comunità che li considerano tali, in quanto li ricevono, li leggono nella liturgia, li commentano e li trasmettono. Tutte e tre le comunità religiose condividono la convinzione che, nel corso della storia, Dio abbia fatto giungere agli esseri umani parole destinate in seguito ad assumere una forma scritta. Ciò è avvenuto grazie a specifici mediatori che hanno trascritto nella “lingua degli uomini” la volontà di Dio. Per ricorrere alla classificazione consueta, ebraismo, cristianesimo e islam sono «religioni rivelate». Tra esse ci sono molte e non lievi differenze, ma tutte emergono a partire da questo terreno comune. Le si può paragonare a un bosco in cui ci sono alberi molto differenti tra loro, anzi a volte uno di essi fa ombra a un altro, tutti però condividono lo stesso suolo.
Quali sono i più significativi punti comuni tra Bibbia e Corano?
Il primo, irrinunciabile punto in comune è che Dio è definito creatore. Ciò significa che la realtà nel suo insieme ha avuto inizio a causa di un atto libero di Dio. Per tutte e tre non si tratta di dimostrare l’esistenza di Dio a partire da quanto sperimentiamo in noi e attorno a noi; quanto affermato dalle tre religioni è che in noi e attorno a noi ci sono segni dell’opera creatrice di Dio. Per così dire, il Cantico delle creature di Francesco di Assisi esprime un convincimento comune a ebrei, cristiani e musulmani. Per tutte e tre le tradizioni religiose, specie di età moderna, nasce poi il problema di sapere come confrontarsi con la visione del cosmo e della natura proposta dalla ricerca scientifica. Qui le strategie sono in parte diverse.
Altro punto accomunante è che Dio abbia comunicato agli esseri umani delle leggi (per limitarci a un solo esempio, si pensi ai “Dieci comandamenti”) volte a regolare sia i rapporti interni alle singole comunità religiose sia quelli con le altre persone e società. In questo caso ci si deve confrontare con il problema di quale rapporto esista tra queste leggi credute di origine divina e i tempi storici in cui sono sorte. Nasce poi anche l’interrogativo di quale sia la relazione tra le leggi di natura divina e quelle, fondate su altri principi, che regolano la società civile. La questione è accomunante, le risposte sono invece molteplici e spesso non concordi. Sono tali non soltanto tra ebraismo, cristianesimo ed islam, ma anche tra i vari gruppi o membri interni alle singole comunità religiose.
Le tre grandi religioni monoteiste fondano sulla rivelazione divina la propria dottrina, tanto da meritare l’appellativo di ‘popolo del libro’: come definiscono, i due testi sacri, la comunità dei credenti?
Come accennato in precedenza è vero che tutte e tre le comunità hanno testi sacri, tutt’altro che certo è invece che le si possa chiamare concordemente «popolo del libro». Per limitarmi a un solo esempio, per il cristianesimo la fonte prima della rivelazione è Gesù stesso, di cui i Vangeli sono memoria e testimonianza. Si può affermare che tanto l’ebraismo quanto il cristianesimo definiscono i loro rispettivi testi sacri in modo gerarchizzato.
La Bibbia ebraica è costituita da tre parti: Torah (Legge, con parola derivata dal greco, detta Pentateuco), Neviim (Profeti) e Ketuvim (Scritti). Il ruolo decisivo è svolto della prima parte; nell’armadio sacro presente in ogni sinagoga è contenuta, non a caso, solo una copia manoscritta della Torah, l’unica che fonda i precetti osservati dagli ebrei.
Per il cristianesimo il vertice è invece costituito dai quattro Vangeli canonici (nella liturgia cattolica proclamati solo da un sacerdote o da un diacono e ascoltati stando in piedi). Essi sono incentrati sulla vita pubblica, morte e resurrezione di Gesù. I Vangeli sono colti come una specie di chiave interpretativa per leggere in modo unitario un libro, la Bibbia, composto da un vasto insieme di testi molto vari per origine e provenienza, sorti in un arco di tempo di parecchi secoli.
Il Corano ha avuto invece un processo redazionale molto più breve misurabile in qualche decennio. La sua scansione interna è tra sure (capitoli) “fatte scendere” (cioè rivelate) a Mecca e quelle, cosiddette medinesi, risalenti a un periodo successivo all’egira (622 d.C.). I contenuti del Corano si suddividono in annunci, narrazioni e leggi; queste ultime, che incidono maggiormente sulla vita della comunità, risalgono al periodo finale della vita di Muhammad, quando il Profeta esercitava già una forma di governo.
L’espressione «comunità dei credenti» calza bene per cristiani e musulmani in quanto l’appartenenza alla Chiesa e all’ Umma (comunità musulmana) presuppone la fede, meno agli ebrei che costituiscono un popolo vero e proprio, non a caso si è ebrei innanzitutto per nascita (secondo una discendenza matrilineare).
Come descrivono Bibbia e Corano l’origine del male?
Vi è una dimensione accomunante che individua l’origine del male nella trasgressione. Come ben compreso da Paolo nella Lettera ai Romani, perché ci sia una trasgressione bisogna che prima ci sia una legge o un comando. Occorre quindi trovare miti fondativi che si muovano in questa direzione; il più noto è quello della proibizione di mangiare l’albero della conoscenza del bene e del male. Non è difficile comprendere il suo valore simbolico incentrato propria sulla connessione tra divieto e violazione. Al pari di prospettive presenti nell’apocalittica tanto giudaica quanto cristiana, il Corano pensa a una violazione antecedente a quella compiuta dalle creature umane. Ecco allora irrompere il peccato angelico, nell’islam connesso alla figura di Iblis, angelo superbo e disobbediente. D’altra parte conviene riflettere sul fatto che una trasgressione c’è eppure non ci dovrebbe essere; in questo senso si vede chiaramente la sua connessione con il male, altra realtà che c’è ma non dovrebbe esserci. Individuare la radice del male nella trasgressione porta con sé però altri problemi: chi spinge a trasgredire? Ecco allora che si “personalizza” il peccato, presentandolo come una forza che induce a compiere atti brutali. Sia per la Bibbia sia per il Corano la storia di Caino rappresenta il simbolo più conosciuto di tutto ciò: quando uccise il fratello, il primo fra i nati da donna non aveva ricevuto il comando di non uccidere.
Aumentare a dismisura la forza del peccato o della tentazione come causa del male rischia però di fa scivolare la visione di insieme verso una forma troppo prossima al dualismo, vale a dire di prospettare l’esistenza di un Dio del male; ecco allora che in alcuni passi sia biblici sia coranici si legge che Dio crea il male (Isaia 45,7). Affermazione che non va assolutizzata ma neppure del tutto accantonata. La presenza del male rappresenta per tutti uno scoglio complesso.
In che modo Bibbia e Corano affrontano il tema della resurrezione dei morti?
Il tema è presentato in maniera per così dire defilata nella Bibbia ebraica, infatti lo si trova con chiarezza solo nel tardo e apocalittico libro di Daniele (che nella Bibbia ebraica non è annoverato neppure tra i libri profetici). La resurrezione dei morti svolge invece un ruolo centrale nel Nuovo Testamento; il motivo è evidente: il kerygma - cioè l’annuncio originario e fondamentale della fede - ha il proprio centro nella «buona novella» di Gesù Cristo morto e risorto. -
Come stabilito in modo definitivo da Paolo, per la fede cristiana vi è un legame inscindibile tra la risurrezione di Gesù Cristo e quella dei salvati. Anche per questo motivo nel cristianesimo, per quanto sia stato affermato più volte e venga attestato anche da alcuni passi neotestamentari, suscita sempre sconcerto la prospettiva secondo la quale ci sono dei risorti destinati alla dannazione eterna.
Nel Corano la resurrezione dei morti è affermata in maniera forte e inequivocabile. Per trovarne il fondamento basta rifarsi alla perenne attività del Dio creatore: Allah, che ha plasmato l’uomo dalla polvere, è ben capace di dare nuova vita a ossa disseccate. La resurrezione è però intrinsecamente legata al giudizio in virtù del quale si è o beati o dannati; una prospettiva tanto presente nell’islam da essere anticipata da una specie di interrogatorio che avviene dentro le tombe.
Piero Stefani, di formazione filosofica, insegna “Bibbia e cultura” presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano e “Diritto ebraico” all’Istituto internazionale di Diritto Canonico e Diritto comparato delle religioni dell’Università della Svizzera Italiana. È segretario generale di Biblia, associazione laica di cultura biblica. Tra le sue numerose pubblicazioni si segnalano Il grande racconto della Bibbia, il Mulino 2017 e per Carocci I volti della misericordia (2015).
* Fonte: Letture.org
Nota:
Al vertice del "cristianesimo" (cattolicesimo costantiniano), in realtà, non ci sono - come sostiene Piero Stefani - i "quattro Vangeli canonici (nella liturgia cattolica proclamati solo da un sacerdote o da un diacono e ascoltati stando in piedi)", ma - fondamentalmente - ma le lettere (e l’interpretazione "andrologica" della figura di Cristo) di Paolo di Tarso:
"Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
ISRAELE - PALESTINA /SENZA FINE
ABITARE DA STRANIERI UNA TERRA-SPOSA
Tra Israele e Palestina l’idea dei due popoli e due stati non regge più
Chi conosce i territori sa bene che sono strettamente intrecciati e che sotto ogni aspetto una divisione netta, oltre a essere irrealistica, sarebbe artificiosa e alla fin fine nociva. Quasi una resa. Per questo serve immaginare un laboratorio politico nuovo
di Donatella Di Cesare (L’Espresso, 25.05.2021)
«Quelli sono occupanti! E gli altri sono occupati». Più esplicitamente: «Quel paese è frutto di occupazione!». Oppure con il nuovo motto: «Basta con l’esproprio etnico!». Sono solo alcuni esempi di slogan che circolano ovunque, dal web alle piazze, e che rilanciano una vecchia, vecchissima accusa (quasi immemoriale): Israele non dovrebbe essere lì dov’è. Non ci sarebbe quasi altro da aggiungere.
Il «peccato originale» che avrebbe segnato la nascita di Israele sarebbe quello di aver scalzato un popolo che c’era prima, indigeno, nativo, insomma autoctono. Alla fin fine non si tratta neppure tanto di limiti e confini, di linea verde e territori contestati. Dietro calcolo e contabilità, a cui spesso si fermano statisti e politologi, si nascondono questioni ben più profonde che di solito vengono aggirate. Forse perché non riguardano solo Israele e Palestina, ma investono tutti noi, le nostre frontiere, gli stati nazionali in cui siamo inseriti, il nostro abitare e il rapporto con gli altri.
Perciò occorre forse una prospettiva nuova, un modo diverso a cui guardare quel terribile conflitto che non per caso ci turba e ci coinvolge tutti con un’ondata di emozioni talvolta irrefrenabili, al punto da rendere impossibile una riflessione. E se nella tragedia si nascondesse invece una chance? Se Israele e Palestina fossero il laboratorio politico della globalizzazione?
Forse bisognerebbe chiedersi anzitutto che cosa significa «occupare». Questo verbo, che è il punto dirimente, non sembra solo legato alla frontiera e al fronteggiarsi. Rinvia anche al possesso originario, alla mitologia dell’origine, a cui non si sottraggono neppure i palestinesi quando rivendicano di essere i primi abitanti. La battaglia delle cartine è arrivata anche su facebook. Colori e bandiere diversi si avvicendano per quello stretto lembo di terra che va dal Giordano al Mediterraneo. E di nuovo: lo scontro non è tanto sulla geografia, quanto sulla storia. Chi c’era prima? I palestinesi che sono stati poi scalzati. Sono loro gli abitanti originari, gli autoctoni. Quelli che sono arrivati dopo - gli ebrei, gli israeliani - sono occupanti, colonialisti, ecc. Ma i nomi contengono anche una testimonianza storica. L’etimologia di «palestinese» va ricondotta a liflosh, ovvero filisteo, cioè invasore, e si riferisce a un popolo venuto dal mare. Dopo aver raso al suolo Gerusalemme i romani chiamarono Palestina la terra di Israele per sottolineare la rottura rappresentata dall’Impero e cancellare anche nel nome il ricordo del popolo ebraico. I palestinesi di oggi, discendenti in gran parte dall’immigrazione araba intorno al 1930, sono andati costruendo una identità nazionale nel confronto-scontro con Israele rivendicando radicamento e possesso originario.
Sono allora gli ebrei i veri autoctoni? No - e lo dice il nome. Perché ivrì, cioè venuto da altrove, non può essere del luogo. Abramo, il primo emigrante, segue l’ingiunzione: «va, vattene!». E così lascia tutto per andare a vivere da straniero in una terra non sua, promessa. Insomma, quelli che credono di essere venuti prima sono invece sempre venuti dopo.
Chi sono allora gli abitanti originari, gli autoctoni, di questa terra, e di ogni terra? Ma forse sbagliata è proprio la domanda: nessun popolo può dimostrare di essere autoctono.
Eppure, questo mito potentissimo alimenta ancora oggi la politica degli stati nazionali. Basti pensare alla guerra contro i migranti. È l’idea della terra-madre che, mettendo fuori gioco le donne, genera direttamente i suoi figli, tutti maschi e tutti cittadini, perché nati proprio lì, in quella zolla di terra, nel suolo stesso della città. Perciò sono i proprietari esclusivi, i figli legittimi, ben nati, in grado di respingere gli altri, i bastardi e gli stranieri. Questo avviene nell’Atene patria del sé, modello fulgido di pura, presunta autoctonia. Ma l’esempio - lo sappiamo - può vantare una tradizione secolare che nulla ha interrotto, nemmeno l’hitlerismo, la forma più esasperata dello ius soli. E oggi quel mito continua ad affermarsi tra radici inestirpabili e malattia identitaria, che ovunque rischiano di ridurre la democrazia a etnocrazia, una forma politica dove valgono non i diritti del popolo, ma quelli della stessa etnia. Si può puntare l’indice solo su Israele, parlando di stato etnico e magari usando una parola grave come «apartheid»? Oppure non si dovrebbe guardare anzitutto a quel che avviene nei paesi europei, anzitutto in Italia, dove la cittadinanza è basata ancora sul sangue e sul suolo?
Chi conosce i territori israeliani e palestinesi sa bene che sono strettamente intrecciati e che sotto ogni aspetto una divisione netta, oltre a essere irrealistica, sarebbe artificiosa e alla fin fine nociva. Quasi una resa. E infatti sono sempre più le voci critiche che negli ultimi anni si sono levate contro la «soluzione dei due stati», giudicata una fantasia che dimentica la storia e ignora il contesto politico. D’altronde ovunque, sotto la spinta della globalizzazione, lo stato perde sovranità e i confini diventano un limite. In tale scenario quello tra Israele e Palestina è il conflitto tra uno stato post-nazionale e uno stato proto-nazionale. Sta qui in gran parte l’insolubilità.
Le due parti non si incontrano anche perché si trovano in fasi diverse della propria storia. Israele ha compiuto la «liberazione nazionale» e in molti ambiti (dallo high tech all’informatica) oltrepassa continuamente i referenti statuali. Resta allora la questione dello Stato palestinese. Al di là delle divisioni interne, si può essere sicuri che la fondazione di un nuovo stato sarebbe criterio di equità e favorirebbe la pace? La logica degli stati nazionali, che ancora nel secolo scorso poteva essere considerata la via dell’emancipazione, da tempo mostra tutte le proprie pecche, dall’aggressività nazionalistica alla costruzione di identità artificiali. Le «patrie» che gli stati nazionali hanno costruito per i propri popoli si sono rivelate trappole senza uscita.
Puntare a una comune cittadinanza deterritorializzata e denazionalizzata sarebbe invece la strada insieme più concreta, ma anche più lungimirante. Si tratta peraltro di un esperimento che viene praticato anche in altre parti del mondo, dove gli stati gomito a gomito impediscono la convivenza, oppure in alcune grandi città nelle quali è molto alto il numero degli immigrati (esemplare è il caso di New Haven che ha concesso stato civile e diritti politici). Tutto questo non potrebbe in nessun modo lasciare immutato lo stato di Israele che, anzi, proprio perciò, dovrebbe andare al di là dello stato.
Non avrebbe dovuto essere questo il suo compito? Mentre è accusato di occupare una terra non sua, mostrare la possibilità di un altro abitare? Era questo il senso della promessa, una promessa certo non dettata dalla Shoah, dei cui esiti atroci Israele ha dovuto semmai farsi carico. Eppure, ancora oggi Israele è inquisito nel suo essere: si contesta quel ritorno, negando la continuità della presenza su quella terra, e dunque la storia stessa del popolo ebraico. Capita che lo facciano subdolamente esimi storici che su youtube ironizzano sull’antico regno di Israele. Come se questo fosse il punto.
Ma che dire degli sfratti a Sheikh Jarrah? Soprattutto per ciò di cui sono simbolo? E tutta la miope e belligerante politica di espansione della destra che in questi ultimi anni ha provocato enormi e inutili tensioni? Si può ormai parlare di una tragicità del sionismo politico che sulla scia della normalizzazione ha inscritto Israele nella modernità al prezzo di un nazionalismo esasperato e una simbiosi con la terra. Proprio il popolo che dovrebbe mostrare la possibilità di un altro abitare, non nel solco del radicamento, bensì nella separazione. Questo vuol dire kadosh, santo, separato. Terra in cui si risiede come stranieri, venuti da fuori, come ospiti che non possono non concedere ospitalità.
Non una terra-madre, bensì una terra-sposa. Impossibile dimenticare l’estraneità, sacralizzando idolatricamente la terra. D’altronde in ebraico gher, straniero, è connesso con ghur, abitare. Si può e si deve abitare da stranieri. Nessun mito di autoctonia.
Abitare e coabitare sono verbi oggi politicamente decisivi e vanno al di là di vecchie categorie politiche che non rispondono più allo scenario attuale e all’ordine statocentrico. Si capisce che il conflitto tra Israele e Palestina abbia ripercussioni ovunque. Già solo perché viene tacitamente scossa la sovrana autocoscienza delle nazioni che vantano radici e possesso territoriali. Israele è una effrazione nel dimorare della Palestina e i palestinesi, i più prossimi, sono quasi delegati degli altri popoli, che d’un tratto si trovano faccia a faccia con il vuoto statuale e nazionale di cui Israele è memoria. In tal senso, guardando oltre il quadro bellico, è quello il laboratorio politico dove due popoli, loro malgrado, sono costretti a inaugurare nuove forme di coabitazione che saranno forse modello per gli altri.
#NiccoloCusano,
per indicare la #via alla
"#Visione di Dio" (1454),
si serve di
un quadro dell’artista Rogier Van der Wayden,
allievo di Robert #Campin,
autore del #TritticodiMerode
Con #Virgilio e #Beatrice (#dueSoli),
#NiccoloCusano,
(«Non è la madre che genera chi è chiamato figlio, ma solo nutrice è del seme gettato in lei»)
non esce dall’orbita
della #tragedia
(#Eschilo).
#Come nascono i bambini:
ripartendo dal #saperedinonsapere,
Niccolò Cusano
ricade nella #antropologia zoppa e cieca di #Aristotele
e propone nella #Docta Ignorantia (III, 5) del 1440
la visione (#teoria) del trittico di Merode (1427)
San Giuseppe e la trappola per topi
Il Trittico dell’Annunciazione di Robert Campin è una miniera di simboli mariani. Ma la cosa più curiosa è la bottega di San Giuseppe tutto intento a fabbricare una trappola per topi.
Doveva essere devotissimo di san Giuseppe il committente che sta all’origine della Pala di Robert Campin detta comunemente Pala di Mérode, dal nome della famiglia che la ospitava. Lo si vede, con la moglie, nel pannello di destra della pala. Non abbiamo la certezza circa l’identità dei due coniugi. Il Metropolitan Museum, dove risiede l’opera, identifica il committente con un ricco uomo d’affari del tempo, certo Jan Engelbrecht. Per altri era un mercante di stoffe di Colonia, prossimo alle nozze, Peter Inghelbrecht o Engelbrecht. Quel che rimane certo è il cognome: Engelbrecht che significa: breccia dell’Angelo.
Da qui si comprende il tema del pannello centrale: la rappresentazione dell’Annunciazione nel momento in cui, l’angelo, vero protagonista della scena, irrompe nella stanza di Maria.
La casa di Maria è una casa di pietra, sontuosa e solare, a dispetto della bottega di san Giuseppe, piuttosto piccola, raffigurata nel terzo pannello. Il contrasto è voluto e serve anche per mitigare la novità dell’ambientazione scelta per la Vergine annunciata. Se si confronta quest’opera con altre dello stesso periodo si nota come si fosse soliti rappresentare gli eventi dell’Infanzia del Salvatore, specie l’Annunciazione, dentro Chiese o Cattedrali, quasi a sottolineare la sacralità degli eventi. Qui Campin, per primo, registra invece l’assoluta normalità della casa di Maria.
San Giuseppe invece è presentato come un modesto artigiano, abile e capace, che lavora nel contesto di una città rispettabile. E ne vediamo chiaramente uno scorcio dalla finestra aperta. Anch’egli, del resto come si evince dal turbante, è uomo di tutto rispetto. Tra le altre opere di Robert Campin troviamo il ritratto di un anonimo signore facoltoso (e lo capiamo dall’abito foderato di pelliccia) che porta il medesimo turbante indossato da san Giuseppe. Solo il colore si differenzia: mentre nell’uomo ritratto, il copricapo è rosso, colore peraltro che designava l’alto rango, in San Giuseppe è blu, segno distintivo della diversa qualità del rango di San Giuseppe. Egli era nobile nello spirito e la sua dignità è da collocarsi appunto entro il mistero del piano divino. Insomma San Giuseppe è uomo voluto dal Cielo.
Nel XV secolo, molto prima quindi della proclamazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa universale (1621), ci fu un movimento popolare (analogo a quello legato al culto dell’Immacolata) che desiderava propagare il culto di San Giuseppe, collocando il Santo al pari degli Apostoli. Gli anni di punta di tale devozione furono proprio quelli in cui venne realizzata questa pala (tra il 1420 e il 1430).
Promotori di questo movimento giuseppino furono il Card Peter d’Ailly (1350-1425) vescovo di Cambrai e il suo pupillo John Gerson (1363-1429) che, nel concilio di Colonia (1416), proposero appunto di elevare San Giuseppe al livello degli apostoli.
Robert Campin ci permette di entrate nella bottega del Santo raccontandoci nei mini particolari il suo lavoro.
Il desco appare così inclinato, nella sua prospettiva, da dare l’impressione di volersi rovesciare. Siamo così costretti a guardare gli strumenti da lavoro di san Giuseppe: tenaglie, martello, chiodi. Sono chiari riferimenti alla croce, supplizio sopra il quale morirà quel Figlio che sta per essergli dato. Come si narra, appunto nel pannello centrale dell’Annunciazione della Vergine.
Sul desco di Giuseppe, però, c’è un oggetto, che pur riconoscendolo, fatichiamo a comprenderne il senso. Si tratta di una trappola per topi. A ben vedere ve ne sono due: una in via di costruzione e una seconda, in funzione, sul davanzale della finestra. Il senso di un simbolo tanto bizzarro lo spiega Sant’Agostino in uno dei suoi discorsi (256): «Il diavolo ha esultato quando Cristo è morto, ma per la morte di Cristo, il diavolo è stato vinto, come se avesse ingoiato l’esca nella trappola per topi. La croce del Signore era una trappola per il diavolo, l’esca con cui è stato catturato era la morte del Signore». Ecco, dunque, l’ignaro Giuseppe fabbricare quell’elemento che sarà per l’uomo simbolo di liberazione: «dov’è o morte la tua vittoria?». Ripete instancabilmente l’Apostolo: Cristo ci ha liberato. Anche Lorenzo Lotto, in una delle sue natività, colloca la propria firma sopra una trappola per topi.
Il topo, del resto, per la sua facilità riproduttiva e la rapidità del suo agire, è da sempre simbolo di lussuria e di disonestà. Fra il ricchissimo bestiario di Jeronimus Bosch, il topo compare sovente, proprio a significare l’ingannevole audacia del male. Mentre l’uomo si lascia ingannare dal tentatore, Cristo gioca il male sul suo stesso terreno. Il diavolo, infatti, ingannato dall’umanità del corpo di Cristo, addenta la preda, ma il veleno della vita, nascosto nella divinità di Cristo, lo ucciderà.
A questo significato attribuito alla trappola, in riferimento a Cristo e alla sua passione, concorrono altri elementi del pannello. Ai piedi di San Giuseppe c’è una sega, strumento che - secondo la predicazione del tempo - san Pietro usò per tagliare l’orecchio a Malco, nel giardino degli ulivi; mentre, più a lato, vediamo una scure piantata solidamente in un ceppo. «La scure è alle radici», proclama il Battista all’inizio della sua predicazione: di fronte alle malizie del male, cui l’uomo presta il fianco, c’è un giudizio inappellabile che si compie, quello della verità. Ora, con la venuta di Cristo e con la sua passione (come si vede nel pannello centrale dove Cristo raggiunge il grembo della Vergine imbracciando una piccola croce), si compie il tempo definitivo del giudizio sulla storia.
Non possiamo fare a meno di notare però che san Giuseppe è intento a tutt’altro lavoro che apparentemente poco ha a che fare con la trappola in fabbricazione collocata sul desco. San Giuseppe sta forando una tavola di legno con fori a intervalli regolari. Vediamo l’oggetto perfettamente compiuto nella casa di Maria, proprio dietro le sue spalle, Si tratta di un parafuoco. Il soggetto iconografico della Madonna del Fuoco o del parafuoco, è abbastanza frequente in quel secolo, lo stesso Campin ne realizza alcune, e vuole indicare la verginità della Vergine. Sia per il riferimento al roveto ardente che arde senza consumarsi, sia per il riferimento al fuoco della passione che rimase estranea alla Vergine e quindi anche al coniuge, san Giuseppe.
Allora comprendiamo il simbolo: san Giuseppe fu custode non solo del Redentore ma anche della castità di Maria. Il diavolo sapeva, per il versetto di Isaia 7,14, che Cristo sarebbe nato da una Vergine, ma mai si sarebbe immaginato che questa Vergine avrebbe contratto matrimonio. Sposando San Giuseppe e rimanendo illibata con lui nel matrimonio, il diavolo fu confuso e non comprese la natura divina del Cristo. Perciò, non solo Cristo fu trappola per il demonio, ma anche lo stesso San Giuseppe. La sua santità confuse le aberrate prospettive del Maligno, il quale è incapace di comprendere come le straordinarie vie di Dio possano intrecciarsi con l’ordinarietà della vita. Sì, una vita straordinariamente ordinaria quella di questo anziano Giuseppe che lavora placido accanto alla casa della sua futura sposa! Egli sa che il suo ruolo è quello di custode e si prepara, fabbricando quegli oggetti che più profondamente lo possono portare a identificarsi con il piano divino e ad aderirvi con tutta l’obbedienza del cuore.
* Fonte: Monache dell’Adorazione Eucaristica (Adoratrici.it, 15.03.2020 - ripresa parziale, senza immagini).
OLTRE LA #COSMOTEANDRIA DELLA #DOTTAIGNORANZA,
UNA #FENOMENOLOGIADELLOSPIRITO DI #DUESOLI:
UNA #COSMOLOGIA GALILEIANA (LEZIONE DI #KEPLERO!).
La #DivinaCommedia, un «Libro che sorvola i secoli»
#COSMOTEANDRIA E #ANTROPOLOGIA.
Paragonato con #Dante,
#NiccoloCusano
non trova la #dirittavia
sia filosofica (per il suo legame con #Socrate e #Platone)
sia religiosa (per aver scelto il primato dell’#uomosupremo, del #papa)
e... condivide
Del coraggio. L’abc di Wittgenstein
di Federico Ferrari *
Pensare significa avere coraggio. Affrontare le proprie paure, il proprio fondo di inautenticità. Non farsi mai sconti e, indifferenti al quieto vivere, non farli nemmeno agli altri. C’è della crudeltà nel coraggio, una forma di doloroso accanimento. L’impossibilità di tacere, di non dire esattamente quel che va detto, costi quel che costi. Il coraggio si paga. Rovina i rapporti umani. Spinge nella solitudine. Ma il coraggio ci rende un po’ meno pagliacci di quel che naturalmente siamo. Ci offre l’opportunità di diventare uomini e donne decenti - ein anständiger Mensch, scrive Wittgenstein, concependo il pensiero come un impietoso autosmascheramento. Il coraggio e la decenza sono due facce di una medesima medaglia. L’indecenza di ogni tempo nasce dalla mancanza di coraggio. Politici senza coraggio, intellettuali senza coraggio, uomini senza coraggio: la fine di una civiltà.
Poco importa se la lotta coraggiosa per difendere la propria dignità, le proprie idee, la propria esistenza non porterà a nulla, non cambierà il mondo. Il mondo non cambierà mai davvero. Il mondo è solo l’eterno confronto e scontro tra pavidi e coraggiosi. Tra coloro che salgono sul carro dei vincitori, in cerca di consenso, e coloro che percorrono il tempo sempre controvento, in cerca di se stessi. Questo scontro avviene in ogni luogo, in ogni momento e sempre, anche, in noi stessi.
La cosa più difficile non è essere all’altezza del mondo, ma all’altezza di se stessi. E’ abbastanza semplice non deludere gli altri. Molto più complesso non deludere se stessi. Pensare, dire, a volte, tacere coraggiosamente è un modo di darsi dignità, un modo di riconoscere la propria irripetibile unicità.
La dignità di un pensiero è data dal suo coraggio e dal coraggio che sa infondere. Il resto è vanità.
Questo testo è solo un eco (e un ricordo riconoscente) della prefazione di Aldo G. Gargani ai Diari segreti di Ludwig Wittgenstein (Laterza, 1987), letti molti anni fa e mai dimenticati.
* Fonte: Antinomie, 24/11/2020 (ripresa parziale, senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
Federico La Sala
"ESSERE E TEMPO" E FILOLOGIA. La "svolta" di Hannah Arendt. .... *
L’anniversario del processo.
Eichmann e il male, sempre relativo
Si apriva l’11 aprile 1961 il processo al criminale nazista che ispirò a Hannah Arendt la celebre riflessione sulla “banalità del male”: ancora oggi una sfida al pensiero
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, domenica 11 aprile 2021)
Sessant’anni or sono (precisamente l’11 aprile del 1961), si apriva a Gerusalemme il processo contro il criminale nazista Adolf Eichmann, che era stato prelevato in Argentina dal Mossad e condotto in Israele per essere lì giudicato, da quel popolo, ormai nazione, che aveva contribuito a massacrare. Nella sala stampa del tribunale, sedeva la pensatrice tedesca Hannah Arendt, una delle menti più perspicaci e lucide del XX secolo, inviata dal “The New Yorker”, per redigere il reportage delle varie sedute del tribunale. La Arendt trasforma la cronaca in interpretazione filosofica della storia, tanto che introduce nei suoi articoli anche delle parole greche, memore forse di quanto il suo antico maestro Martin Heidegger amava ripetere ai suoi allievi, dicendo loro che si può pensare solo in greco e in tedesco. Fino alla fine rivolse un accorato appello, inascoltato, al filosofo suo mentore perché ritrattasse la sua adesione al nazismo. Al direttore del periodico che le faceva osservare che i lettori non conoscevano il greco, l’inviata filosofa avrebbe risposto che possono sempre impararlo, se vogliono imparare a pensare.
Nel 2012 Margarethe von Trotta trasse dalla vicenda un film molto bello, titolato col nome della pensatrice. Dai reportage la stessa Arendt aveva tratto il suo libro più famoso, La banalità del male (qui citiamo l’edizione digitale Feltrinelli, Milano 2019), il cui titolo originale è Eichmann in Jerusalem. A report on the banality of Evil (1963). La prospettiva adottata, nel tentativo di districare una vicenda complessa, irta di ostacoli sul piano storico, giuridico (nel senso del diritto internazionale) ed emotivo, offrendone un’interpretazione filosofica, non poteva non avere una sporgenza teologica, almeno nel senso della “teo- dicea”, ovvero della riflessione sul misterium iniquitatis, di cui è intrisa l’esistenza dei singoli e dell’umanità.
L’attualità teo-logica della lezione che si può trarre dalla lettura del reportage, può essere intravista da alcuni passaggi che intendo sottolineare. Nel descrivere la posizione del criminale nazista che veniva processato a Gerusalemme, la Arendt non manca di evocare la sua teologia (che può essere quella del nazismo): «Secondo le sue credenze religiose, rimaste immutate dal tempo del nazismo (a Gerusalemme dichiarò di essere un Gottgläubiger, “credente in Dio” - il termine nazista per indicare chi ha rotto col cristianesimo - e rifiutò di giurare sulla Bibbia), questo avvenimento andava ascritto a un “Essere razionale superiore” (Höherer Sinnesträger), un’entità più o meno identica a quel “movimento dell’universo” a cui la vita umana, priva in sé di un “significato superiore”, è soggetta (La banalità del male, p. 63).
La Arendt avverte il lettore che denominare Dio Höherer Sinnesträger equivaleva ad assegnargli un posto di preminenza nella gerarchia militare. Rispetto a questa entità superiore, Eichmann si percepiva come un Befehlsempfänger, ovvero un portatore di ordini e al tempo stesso un depositario di segreti Geheimnisträger. Ed eccoci al punto decisivo, in cui si svela la “banalità del male”: la burocrazia del sistema. Infatti «il gergo burocratico era la sua lingua’, farcita di cliché, che rivelavano la sua ’incapacità di pensare». Non era un “mostro”, ma forse nemmeno un “buffone”, in lui si manifestava, come in molti oggi, in tutto il suo splendore, la mediocrità della burocrazia. Il suo avvocato ebbe a dire che Eichmann «si sentiva colpevole dinanzi a Dio, non dinanzi alla legge» ( ivi, p. 50), per certi aspetti un’Antigone capovolta.
Ma proprio al cospetto dell’epifania di tanta banalità, avviene la svolta nel pensiero della Arendt, che, nel suo saggio su Le origini del totalitarismo (1951), aveva interpretato i sistemi totalitari del secolo breve alla luce del “male radicale”.
E la traccia di tale Kehre (“svolta”) la rinveniamo in un’espressione particolarmente significativa, che si può leggere nel carteggio della filosofa con Gershom Scholem: «Ho cambiato idea - scrive l’allieva di Heidegger - e non parlo più di male radicale, ora credo che il male non sia mai “radicale”, ma che sia solamente estremo e che non possieda né profondità né spessore demoniaco». Agisce ed opera in quanto «sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di andare in profondità, di toccare le radici nel momento in cui si occupa del male, è frustrato perché non trova niente. È la sua banalità. Solo il bene ha profondità e può essere radicale» (Ebraismo e modernità, Unicopli, Milano 1986, p. 227). Ma la svolta esprime anche un rinon torno, ovvero la ripresa del pensiero agostiniano, oggetto della tesi dottorale (condotta sotto la guida di Karl Jaspers ad Heidelberg e pubblicata nel 1929 col titolo Il concetto d’amore in Agostino. Saggio di interpretazione filosofica). Il compianto Remo Bodei ha letto la parabola del pensiero della Arendt come un’inclusione agostiniana, che prendendo le mosse dal contenuto della tesi giunge al termine del percorso.
A noi pare decisiva per questa inclusione l’affermazione della radicalità del bene, che relativizza il male e lo sconfigge in un sempre nuovo inizio. Una citazione dell’Ipponense ricorre negli scritti della pensatrice tedesca:
«Initium ut esset, creatus est homo, ante quem nullus fuit» (“affinché ci fosse un inizio fu creato l’uomo, prima del quale non esisteva nessuno”). E «questo inizio non è come l’inizio del mondo, non è l’inizio di qualcosa, ma di qualcuno, che è a sua volta un iniziatore. Con la creazione dell’uomo, il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso, e questo, naturalmente, è solo un altro modo di dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo, ma non prima» (Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2012, p. 251, edizione digitale).
L’unicità della persona e la sua libertà responsabile trovano in questo inizio il loro fondamento. Noi in tale inizio rinveniamo la possibilità di “ricominciare”. Per quanto, infatti, allorché ci troviamo nel pieno della tempesta, pensiamo che il male che ci assale sia invincibile e assoluto, la Arendt viene invece a ricordarci che esso è sempre e comunque relativo, ossia contingente e che può e deve essere sconfitto nell’esercizio del nostro agire responsabile. Nella visione cristiana, che appartiene alla filosofa ebreo-tedesca, la possibilità di un nuovo inizio si fonda sull’evento pasquale, come ha ricordato papa Francesco, nell’omelia della veglia: «Ecco il primo annuncio di Pasqua che vorrei consegnarvi: è possibile ricominciare sempre, perché sempre c’è una vita nuova che Dio è capace di far ripartire in noi al di là di tutti i nostri fallimenti. Anche dalle macerie del nostro cuore - ognuno di noi sa, conosce le macerie del proprio cuore - anche dalle macerie del nostro cuore Dio può costruire un’opera d’arte, anche dai frammenti rovinosi della nostra umanità Dio prepara una storia nuova. Egli ci precede sempre: nella croce della sofferenza, della desolazione e della morte, così come nella gloria di una vita che risorge, di una storia che cambia, di una speranza che rinasce. E in questi mesi bui di pandemia sentiamo il Signore risorto che ci invita a ricominciare, a non perdere mai la speranza».
E tale fondamento deve trovare terreno fertile nelle nostre menti e nei nostri cuori, perché non resti nel passato, ma si renda vivo e presente. E in questa prospettiva “antropologica” la lezione della Arendt è attuale e feconda. Un motivo di incredibile attualità, nell’orizzonte della banalità del male lo abbiamo trovato in una lettera di Karl Jaspers alla Arendt, risalente al periodo bellico. Qui il filosofo, per esprimere la “normalità” del male si affida all’esempio dei batteri, capaci di provocare epidemie letali per intere popolazioni, ma che restano pur sempre microorganismi (H. Arendt - K. Jaspers, Carteggio (19261969): filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989, p. 71). Microorganismi che con la ricerca scientifica possiamo conoscere sempre meglio, per non soccombere e ricondurli alla loro contingenza, immunizzandoci dal loro potere distruttivo.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica. L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
Federico La Sala
LA POCA SAGGEZZA DELLA FILOSOFIA, I “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO DI DANTE E LA PRESENTE STORICA CRISI DELLA CULTURA EUROPEA...
CONSIDERATO CHE UN FILOSOFO, “Anche quando sbaglia di grosso, se è un vero filosofo sbaglia con argomenti non banali, fino al punto che, grazie a lui, l’errore brilla della luce convincente della verità” (cf. S. Benvenuto, cit. - su), E VISTO CHE EGLI HA MESSO IL DITO NELLA PIEGA (e nella piaga) della storia della filosofia, nel gioco sofistico di Socrate: «Malgrado lo slogan “so di non sapere”, tutti ci rendiamo conto che Socrate in realtà sapeva tante cose. Ma il suo sapere squisitamente filosofico era proprio quello di non sapere, ovvero, il suo appello all’epistheme come “ricominciare tutto daccapo”» (op. cit. - su), VISTO IL PERSISTERE E , AL CONTEMPO, L’ESAURIRSI DELLA “GRANDE INSTAURAZIONE” ANTROPOLOGICA ED EPISTEMOLOLOGICA apollinea-socratica (su questo, si cfr. la grande analisi di Nietzsche!), forse, è bene e salutare riprendere alla radice (Marx!) la questione e, riaccogliendo l’indicazione di Sofocle, ripensare le «perversioni» di tremila e più anni (come sapeva Dante, meglio di Goethe), rileggere il cap. 15 del manuale di “Anatomia” (Roma, 1560) di Giovani Valverde, e ripensare l’«edipo completo», come voleva Freud e Fachinelli. Altro che continuare a menare la canna per l’aria. O no?!
Sul tema,nel sito, si cfr.:
Antropologia, Storia e Diritto. Donne e Uomini.... PER LA VERITA’ E LA RICONCILIAZIONE. RIMEDITARE LA LEZIONE DI ESCHILO. Dalla storia di Clitennestra, si arriva anche a immaginare una nuova giustizia, all’interno di nuovi rapporti sociali e politici
FLS
MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".... *
"CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" , "CRITICA DELLA RAGION PRATICA" (E MEMORIA DI DANTE ALIGHIERI - ANNO 2021) . Alla luce del fatto che si è persa ogni cognizione dello "stato di cose presente", forse, è opportuno - come voleva Marx - riprendere il filo dalla indicazione delle note "Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione"): "La teoria è capace di impadronirsi delle masse non appena dimostra ad hominem, ed essa dimostra ad hominem non appena diviene radicale. Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso".
Si dice:
CONCORDO. Ma per ripartire bisogna riprendere il filo dalla "Logica" di Kant (non di Hegel, come si recita ancora oggi: http://www.leparoleelecose.it/?p=41116#comment-439785), dalla sua "quarta" (e prima!) domanda: "che cosa è l’uomo?", dalla sua "Critica della ragion pratica", e dal suo "imperativo categorico" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5635)! La questione è antropologica (non andrologica né ginecologica)! O no?!
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. la "Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam)": "CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4198); su COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?!, rileggere la lettera di Sigmund Freud (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2923).
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Controparola/
Donne al futuro
di Francesca Rigotti (Doppiozero, 20 marzo 2021)
Da quando ho scoperto che nella grammatica esistono termini marcati e termini non marcati - me li ha spiegati un illustre linguista amico di tastiera - non dico che non dormo di notte ma quasi. I termini non marcati, se ho capito bene, sono dominanti e includenti: per esempio il termine «giorno», che comprende il giorno e la notte; notte invece è un termine marcato, giacché designa soltanto il tempo dell’oscurità. Non marcato è uomo (ci avviciniamo al tema) in quanto comprende se stesso e anche la donna, la quale invece, guardacaso, è marcata quale «soltanto» donna.
Dovevo ripensare a questa disparità grammaticale nel leggere Donne al futuro, raccolta di saggi di donne che parlano «soltanto» di altre donne, uscito per il Mulino a cura delle amiche di Controparola. Si tratta di un gruppo di scrittrici e giornaliste, nato nel 1992 per iniziativa di Dacia Maraini, che ha pubblicato diversi libri sulle donne tra i quali Donne del Risorgimento, Donne nella Grande Guerra, nella Repubblica, nel Sessantotto e ora al futuro. Sono Paola Cioni, Eliana Di Caro, Paola Gaglianone, Dina Lauricella, Lia Levi, Dacia Maraini, Cristiana Palazzoni, Maria Serena Palieri, Valeria Papitto, Linda Laura Sabbadini, Francesca Sancin, Cristiana di San Marzano, Mirella Serri, cui si deve Donne al futuro (il Mulino, Bologna 2021). Sempre e soltanto donne. O donne sole, si potrebbe anche dire, che è un’espressione un po’ deprimente ma anche molto divertente, a leggerla con ironia, e con la quale si intendono donne in compagnia di altre donne ma non di uomini. Mentre la dicitura per soli uomini sta per luoghi e/o attività in cui le donne non possono entrare e a cui non devono partecipare (e così è intitolata l’eccellente analisi statistica Per soli uomini. Il maschilismo dei dati, dalla ricerca scientifica al design, appena pubblicata da Codice Edizioni e condotta dalla giornalista Emanuela Griglié e del collega Guido Romeo).
Le donne al futuro di questo libro, soltanto donne marcate nella loro donnità, sono di fatto figure straordinarie, proiettate, come dice il titolo, al futuro o declinate al futuro, visto che siamo partiti dalla grammatica (che innocentemente mi costringe qui a scrivere al maschile benché io sia donna che scrive di donne che scrivono di donne. La lingua sarà anche colpevole ma non nel modo semplificato e a tratti oltraggioso che le attribuiscono le interpretazioni corrive, come spiega puntualmente l’amico linguista il cui nome adesso svelo, Nunzio La Fauci, ma la dice lunga). Donne giovani che lavorano per fabbricare il futuro con l’arte e la musica, l’architettura e l’astrofisica; con l’impegno civile e umanitario (donnitario?), con la ricerca medica, l’economia, la pratica sportiva e l’insegnamento.
Le elenco qui tutte in fila in ordine alfabetico: Alice Pasquini (AliCè), Paola Antonelli, Marica Branchesi, Francesca Bria, Ilaria Capua, Silvia Colasanti, Ilaria Cucchi, Emma Dante, Sara Gama, Rita Giaretta, Giuseppina Multari, Eliana La Ferrara, Laila Abi Ahmed e Isabella Mancini, Barbara Riccardi, Fulvia Signani e le altre, Beatrice Vio. Un ricordo è dedicato alla cittadina del mondo Agitu Ideo Gudeta, uccisa nel dicembre scorso in Trentino, dove si era trasferita e portava avanti la sua attività di imprenditrice.
Non potendo parlare di tutte ho scelto di citarne una sola, l’unica tra l’altro che mi era del tutto ignota, lo confesso e chiedo venia: Sara Gama. Sara Gama, classe 1989, madre triestina e padre congolese, capitana della Nazionale azzurra femminile di calcio nonché vicepresidente dell’Assocalciatori (termine non marcato che comprende anche le calciatrici mentre le calciatrici, marcate dall’essere soltanto donne, non comprendono i calciatori).
Sara Gama, ho scoperto, non soltanto gioca al calcio femminile da quando era una bambinetta ma rivendica anche, per quel calcio di donne, assicurazione sanitaria, previdenze, stipendio e soprattutto dignità. Studentessa liceale, studentessa universitaria - sulla storia del calcio femminile in Europa ha anche scritto la tesi - Sara Gama, che nell’immagine di copertina sembra, coi suoi bei capelli ricci, l’Italia turrita, nel discorso del 4 luglio 2019 al Quirinale, di fronte al presidente Mattarella, ha ricordato l’articolo 3 della Costituzione che sancisce la dignità di tutti i cittadini «senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
E questo grazie alle donne della Costituzione, le madri costituient, che contro l’opinione di alcuni padri della costituzione insistettero affinché nell’art. 3 venisse inserita la specificazione «di sesso», perché senza quella la conquista della parità sarebbe stata ancor più difficile di quanto già lo sia.
LA “DIVINA COMMEDIA” E IL CUORE DEL “PADRE NOSTRO”, “L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE”...
PLAUDENDO ALL’ECCEZIONALE LAVORO DELLA REDAZIONE DELLA FONDAZIONE “TERRA D’OTRANTO”, ANCHE ALLA LUCE DI QUESTO ULTIMO CONTRIBUTO, CREDO CHE OGGI (19 MARZO 2021), ALL’INTERNO DI UN ORIZZONTE STORICO SEGNATO DA UNA PANDEMIA PLANETARIA, SIA OPPORTUNO RIFLETTERE SUL FATTO CHE QUESTO ANNO (2021) è l’anno dedicato all’Anniversario della morte (1321) di Dante Alighieri e che a Lui è stata dedicato come giorno di memoria il 25 marzo, giorno di memoria liturgica anche dell’Annunciazione (vale a dire del concepimento del Bambino).
Accogliendo la sollecitazione di questa importante connessione, forse, è meglio ripensare a “come nascono i bambini” (antropologicamente, filosoficamente e teologicamente), alla figura dell’uomo Gesù, all’”Ecce Homo”(«Ecco l’uomo», gr. «idou ho anthropos») di Ponzio Pilato, e, ancora, alla lezione di Dante.
A mio parere, la sua lezione non è solo “poetico-letteraria”, ma è anche teologica e politica: la sua “Monarchia” con l’indicazione relativa ai “due soli” ha, infatti, il suo fondamento teologico e antropologico nell’amore (charitas) del “Cantico dei cantici” (cioè, di Salomone - non di Costantino: rileggere il c. XIV del “Paradiso”) e pone le condizioni per rileggere l’intera figura di san Giuseppe! Egli non è affatto un falegname che prepara la croce per inchiodarci su il bambino che gli è stato affidato, ma lo sposo di Maria, discendente della casa di Davide (“de domo David”: -https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/10/de-domo-david-39-autori-per-i-400-anni-della-confraternita-di-san-giuseppe-di-nardo/#comment-257181) che, come Salomone, ha saputo decidere e portare in salvo la madre vera e il bambino vero! O no?!
SULLA SPIAGGIA. DINANZI AL MARE: MEMORIA , STORIA, E RICERCA ANTROPOLOGICA E FILOSOFICA...
PER RIPRENDERE E PROSEGUIRE, SE SI VUOLE, IL LAVORO E LA RIFLESSSIONE DI ELVIO FACHINELLI ("LA MENTE ESTATICA", FEBBRAIO 1989) E DI FRANCO CASSANO ("APPROSSIMAZIONE", APRILE 1989), CREDO, SIA OPPORTUNO PARTIRE DALLE LORO OPERE: RISPETTIVAMENTE, dal libro "La mente estatica" di Fachinelli (pubblicato da Adelphi nel febbraio del 1989) e, insieme, dal libro "Approssimazione. Esercizi di esperienza dell’altro" di Cassano (pubblicato dalla casa editrice "Il Mulino" nell’aprile del 1989) e, alla luce dei loro particolari programmi di ricerca volti a pensare e a superare "la frontiera", ricordare che la Caduta del Muro di Berlino avviene - senza violenza - nei primi giorni del mese di novembre del 1989.
"DEPORRE L’ELMO". Nel saggio dedicato all’analisi del lavoro di Fachinelli (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1568), contro i vari tentativi di neutralizzare la sua proposta ("Né demonizzare, né omologare"), così annotai :
A distanza di trenta e più anni, non sembrano esserci altre vie, se non quella di deporre l’elmo e uscire dall’orizzonte della dialettica hegeliana, e praticare "esercizi di esperienza dell’altro". O no?!
MATEMATICA, ANATOMIA, E BAMBINI E BAMBINE. UNA QUESTIONE DI CIVILTÀ..
Parlare dell’embrione per dimenticare il mondo
risponde Luigi Cancrini (l’Unità, 28.02.2005, p. 27)
«Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo».
Così inizia il capitolo 15 dell’Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato «De Testicoli delle donne» (p. 91). Dopo queste timide e tuttavia coraggiose ammissioni, ci vorranno altri secoli di ricerche e di lotte: «(...) fino al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti, quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle società prepatriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano (...) che l’uomo emettesse con l’eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e sviluppava come l’humus fa crescere il seme» (Françoise D’Eaubonne). Oggi, all’inizio del terzo millennio dopo Cristo, nello scompaginamento della procreazione, favorito dalle biotecnologie, corriamo il rischio di ricadere nel pieno di una nuova preistoria: «l’esistenza autonoma dell’embrione, indipendente dall’uomo e dalla donna che hanno messo a disposizione i gameti e dalla donna che può portarne a termine lo sviluppo» spinge lo Stato (con la Chiesa cattolico-romana - e il Mercato, in una vecchia e diabolica alleanza) ad avanzare la pretesa di padre surrogato che si garantisce il controllo sui figli a venire. Se tuttavia le donne e gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni residui dichiarassero quale destino pare loro preferibile, se un’improbabile adozione, la distruzione o la donazione alla ricerca scientifica, con la clausola che in nessun modo siano scambiati per denaro o ne derivi un profitto, la vita tornerebbe rivendicata alle relazioni umane piuttosto che al controllo delle leggi, ne avrebbe slancio la presa di coscienza dei vincoli che le tecnologie riproduttive impongono e più consenso la difesa della “libertà” di generare.
Federico La Sala
Ho molto apprezzato la citazione di Valverde soprattutto per un motivo: perché dimostra, con grande chiarezza il modo timido e spaventato con cui da sempre gli uomini di scienza si sono accostati al tema della procreazione. Il problema di quello che era un tempo “l’anima” dell’essere umano, la sua parte più preziosa e più peculiare, quella cui le religioni affidavano il senso della memoria e dell’immortalità è stata sempre monopolio, infatti, dei filosofi e dei teologi che hanno difeso accanitamente le loro teorie (i loro “pregiudizi”: nel senso letterale del termine, di giudizi dati prima, cioè, del momento in cui si sa come stanno le cose) dalle conquiste della scienza. Arrendendosi solo nel momento in cui le verità scientifiche erano troppo evidenti per essere ancora negate e dimenticando in fretta, terribilmente in fretta, i giudizi morali e gli anatemi lanciati fino ad un momento prima della loro resa. Proponendo uno spaccato estremamente interessante del modo in cui il bisogno di credere in una certa verità può spingere, per un certo tempo, a non vedere i fatti che la contraddicono. Come per primo ha dimostrato, scientificamente, Freud.
Ragionevolmente tutto questo si applica, mi pare, alle teorie fra il filosofico e il teologico (come origine: i filosofi e teologi “seri” non entrano in polemiche di questo livello) per cui l’essere umano è tale, e tale compiutamente, dal momento del concepimento. Parlando di diritti dell’embrione tutta una catena ormai di personaggi più o meno qualificati per farlo (da Buttiglione a Schifani, da Ruini a La Russa) si riempiono ormai la bocca di proclami (sulla loro, esibita, profonda, celestiale moralità) e di anatemi (nei confronti dei materialistici biechi di una sinistra senza Dio e senza anima).
In nome dell’embrione sentito come una creatura umana, la cui vita va tutelata, con costi non trascurabili, anche se nessuno accetterà mai di impiantarli in un utero. Mentre milioni di bambini continuano amorire nel mondo e intorno a loro senza destare nessun tipo di preoccupazione in chi, come loro, dovendo predisporre e votare leggi di bilancio, si preoccupa di diminuire la spesa sociale del proprio paese (condannando all’indigenza e alla mancanza di cure i bambini poveri che nascono e/o vivono in Italia) e le spese di sostegno ai piani dell’Onu (mantenendo, con freddezza e cinismo, le posizioni che la destra ha avuto da sempre sui problemi del terzo mondo e dei bambini che in esso hanno la fortuna di nascere).
Si apprende a non stupirsi di nulla, in effetti, facendo il mestiere che faccio io. Quando un paziente di quelli che si lavano continuamente e compulsivamente le mani fino a rovinarle, per esempio, ci dice (e ci dimostra con i suoi vestiti e con i suoi odori) che lava il resto del suo corpo solo quando vi è costretto da cause di forza maggiore, ci si potrebbe stupire, se non si è psichiatri, di questa evidente contraddizione. Quello che capita di capire essendolo, tuttavia, è che i due sintomi obbediscono ad una stessa logica (che è insieme aggressiva e autopunitiva) e che il primo serve di facciata, di schermo all’altro che è il più grave e il più serio. E accade a me di pensare, sentendo Buttiglione e La Russa che parlano di diritti dell’embrione e ignorando nei fatti quelli di tanti bambini già nati, che il problema sia, in fondo, lo stesso. Quello di un sintomo che ne copre un altro. Aiutando a evitare il confronto con la realtà e con i sensi di colpa. All’interno di ragionamenti che dovrebbero essere portati e discussi sul lettino dell’analista, non nelle aule parlamentari.
Così va, tuttavia, il mondo in cui viviamo. Perché quello che accomuna la Chiesa di ieri e tanta destra di oggi, in effetti, è la capacità di far germogliare il potere proprio dalle radici confuse della superficialità e del pregiudizio. Perché essere riconosciuti importanti ed essere votati, spesso, è il risultato di uno sforzo, anch’esso a suo modo assai faticoso, “di volare basso”, di accarezzare le tendenze più povere, le emozioni e i pensieri più confusi di chi non ama pensare. Parlando della necessità di uno Stato che pensi per lui, che decida al suo posto quello che è giusto e quello che non lo è. Liberandolo dal peso della ragione e del libero arbitrio. Come insegnava a Gesù, nella favola immaginata da Dostojevskji, il Grande Inquisitore quando Gesù aveva avuto l’ardire di tornare in terra per dire di nuovo agli uomini che erano uguali e liberi e rischiava di mettere in crisi, facendolo, l’autorità di una Chiesa che per 16 secoli aveva lavorato per lui e agito nel suo nome.
Del tutto inimmaginabile, sulla base di queste riflessioni, mi sembra l’idea che Buttiglione e Ruini, Schifani e La Russa possano accettare oggi l’idea da te riproposta nell’ultima parte della tua lettera per cui «le donne, gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni» potrebbero/ dovrebbero essere loro a decidere quale destino pare loro preferibile.
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#DANTE2021 A 700 anni dalla #morte di #Dante, ancora non compresi i #due significati (i #duesoli) del "vicisti, #Galilaee". PER #Keplero, come per #Kant, la vittoria di #GalileoGalilei è filosofico-scientifica!
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5061
#Mathematics #anthropology #Theology #philosophy In #memoria di #GalileoGalilei (nato il #15febbraio 1564), ricordare i #duesoli (#Dante2021) e i #duelibri di #Galilei e che il #logos non è un #logo
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1205
FLS
"ECCE HOMO" (PONZIO PILATO - NIETZSCHE). Chi ha perduto il filo del messaggio evangelico? ... *
Chi ha perduto il filo del cristianesimo?
Gli orrori del Novecento hanno favorito un nuovo “ateismo”. Occorre ritrovare la forza insostituibile del messaggio di Cristo. Due saggi di Ryrie e De Angelis
di Roberto Righetto (Avvenire, mercoledì 10 febbraio 2021)
«La filosofia hegeliana era stata la forma più compiuta di quella laicizzazione del cristianesimo in cui consiste il pensiero moderno, sì che la sua dissoluzione ha posto un’alternativa, ch’è ancora l’alternativa d’oggi: o condurre sino in fondo la secolarizzazione del cristianesimo verso le forme più radicali di ateismo e di nichilismo, o recuperare il cristianesimo nella sua genuinità religiosa. Insomma, fine o ritrovamento del cristianesimo, questa è l’alternativa d’oggi, e si tratta d’un’alternativa filosofica». Così il filosofo Luigi Pareyson in uno dei suoi ultimi scritti. Una linea radicale che suonava come un verdetto impietoso verso le filosofie contemporanee ridotte all’analisi dei giochi linguistici o alla sudditanza verso la scienza. In questa direzione muovono anche due saggi recenti: Il senso di non credere. Una storia emotiva del dubbio di Alec Ryrie (Utet, pagine 306, euro 23) e Serve ancora Dio? La via di Nietzsche oltre il nichilismo di Massimo De Angelis (Castelvecchi, pagine 288, euro 25).
Partiamo da quest’ultimo, dato che Nietzsche è visto da molti come il sostenitore della "morte di Dio" e l’iniziatore del nichilismo in Occidente. Ma è davvero così? Già il grande antropologo francese René Girard, nel volume Il caso Nietzsche, aveva definito il pensatore tedesco «il preteso distruttore del cristianesimo », anzi «la migliore conferma». Soprattutto negli ultimi tempi, quando firma i suoi aforismi a volte Dioniso a volte Cristo, e a volte entrambi, Nietzsche vuole parteggiare per l’antica divinità pagana e lo oppone a Gesù ma questo suo tremendo sforzo di autoconvincimento lo porterà alla pazzia.
Il saggista De Angelis, già direttore della rivista "Nuova civiltà delle macchine" rileva come la critica del filosofo di Sils Maria al cristianesimo fosse rivolta al suo impianto metafisico e morale, e ricorda l’analisi che fece della malattia il professor Kaftan, secondo cui Nietzsche «non riuscì mai a dimenticare e a superare completamente il cristianesimo, giacché a Dio era destinato e soltanto Dio avrebbe potuto dare una forma grande e armoniosa alla ricca vita spirituale che sgorgava in lui». Tesi contraddette dagli amici più prossimi come Overbeck e Koselitz, ma in un certo senso confermate da Lou Salomé, per la quale l’incontro- scontro con Cristo è rimasto in lui una questione irrisolta e causa di dolore estremo.
La lezione che ci lascia Nietzsche, dopo la demolizione della metafisica e la proclamazione della morte di Dio, è una sfida aperta per un pensiero cristiano che torni alle origini e riscopra la dimensione mistica. Come ha scritto Karl Jaspers: «Nietzsche, continuamente scosso dalla trascendenza che egli nega, prepara la trascendenza che egli non mostra». In questo senso ha ragione ancora Girard a definirlo un «pensatore religioso». Si ritorna al passo di Pareyson citato all’inizio, all’alternativa fra un ateismo nichilista e un cristianesimo genuino, non sentimentale né consolatorio.
E qui ci aiuta l’analisi di Ryrie, pastore anglicano e storico delle religioni. La sua è una difesa di un cristianesimo che non dimentica la sfida del dubbio. Ricostruendo la «storia dell’assassinio filosofico di Dio», a suo parere assai più lontana nel tempo rispetto al cliché consolidato del libertinismo e dell’illuminismo come padri della non credenza, Ryrie prende spunto dal dato di fatto inoppugnabile della crisi della fede oggi in America ed Europa a tutto vantaggio dell’agnosticismo e dell’ateismo. Ma contrasta quanto affermato da Charles Taylor nel suo famoso saggio L’età secolare: «Perché era virtualmente impossibile nella nostra società occidentale non credere in Dio, ad esempio, nel 1500, mentre nel 2000 a molti di noi questa appare come una scelta non solo facile, ma quasi inevitabile?». Secondo Ryrie anche durante i cosiddetti secoli cristiani coloro che avevano una fede vera non erano certo la maggioranza ed esisteva comunque chi si dichiarava ateo. E cita vari casi di rivolta verso la Chiesa già in età medievale, anche se all’epoca non si usava certo la parola "ateismo". Da Federico II a Jacopo Fiammenghi e Thomas Tailour, è lungo l’elenco di quanti espressero risentimento verso Dio e scetticismo sulla vita eterna, oltre che rancore verso vescovi e preti. E’ nel ’500 e ’600 poi soprattutto che la ribellione si fa ideologia, dagli umanisti Sozzini e Harvey ai più noti filosofi Hobbes e Spinoza e ai drammaturghi inglesi Marlowe e Jonson. È un ateismo fatto di rabbia e ansia insieme: rabbia per i tradimenti del cristianesimo commessi dai suoi leader e ansia per non essere all’altezza della fede. Così il poeta John Donne poteva distinguere fra «l’ateo presuntuoso, che non crede in alcun Dio», e «l’ateo pensoso, che crede che Gesù non sia sceso in terra per lui». E oggi?
Secondo il pastore anglicano il cristianesimo è inciampato negli orrori del nazismo. Non solo perché questa efferata ideologia è cresciuta in una terra cristiana, ma perché i suoi orrori hanno stabilito nel corso del ’900 un nuovo ordine morale da non oltrepassare, mettendo da parte la visione cristiana delle cose. ’Umanesimo’ è la nuova dottrina cui anche il cristianesimo si deve piegare. Una nuova struttura etica sempre più diffusa (Chesterton l’avrebbe definita ’umanitarismo’) e il cui sostegno è la sola ragione umana. La fede viene messa in disparte. Secondo Callum Brown, autore di una storia orale della miscredenza moderna (Becoming Atheist), col genocidio nazista il cristianesimo ha subito uno smacco. «Ha fallito - commenta Ryrie - non solo nel senso che molte chiese e moti cristiani erano più o meno collusi con nazismo e fascismo, ma in un senso più ampio: la crisi globale rivelò che le priorità morali del cristianesimo erano sbagliate. Era ormai evidente che crudeltà, discriminazione e omicidio erano espressioni del male in un modo ben diverso da fornicazione, blasfemia ed empietà».
Di fronte a questa sfida quale risposta è possibile? Essendo anglicano, Ryrie non cita la svolta del Concilio Vaticano II e gli ultimi pontificati: è convinto che il passato non può tornare e che bisogna riannodare i fili del dialogo fra un’etica cristiana e un’etica laica umanista. Rinunciando a ogni cedimento ai richiami nazionalistici che oggi subiscono molti cristiani europei ed essendo certi della forza insopprimibile della proposta: «Neanche l’ascesa umanista è una nuova realtà solida. Le strutture morali delle nostre culture sono state sempre mutevoli, e sempre lo saranno. Le nostre credenze, inevitabilmente, seguiranno le loro mutazioni. Il finale di questa storia riguarderà tutti, credenti e miscredenti».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Sul tema, le pagine dell’uno e dell’altro (con alcune note)
FLS
AL DI LA’ DELL’ORIZZONTE DI "PERICLE IL POPULISTA" E DI PLATONE...
PER NON CADERE (di nuovo e ancora, dopo millenni) NELLA TRAPPOLA DELLA TRACOTANZA E DELLA MALAFEDE DI "PERICLE", E NON DIMENTICARE CHE LA SUA LINEA POLITICA SEGNA L’INIZIO DELLA FINE DELLA GLORIA E DEL PROGETTO POLITICO DI ATENE, forse, è opportuno - ricordando la messa al bando di Omero e dei "poeti" dalla "Repubblica" di Platone - riprendere e rivedere (non solo i lavori di Eric A. Havelock, ma anche) la brillante analisi del cosiddetto "Elogio di Atene" da parte di Umberto Eco nella sua nota sul "Pericle il populista" di ieri e di oggi (la Repubblica, 14 gennaio 2012):
e, al contempo, volendo, rimeditare la storica lezione di Giambattista Vico sulla questione "Omero" e riflettere sulla sua proposta di una "Scienza Nuova", al di là dell’imbalsamazione crociana.
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE... *
Patristica. Sant’Ambrogio e i troppi Naboth dei nostri giorni
La grande attualità del vescovo di Milano è confermata dalla ripubblicata omelia dedicata al vignaiolo biblico vessato dal re Achab. Denuncia durissima contro i ricchi, potenti e sfruttatori
di Alessandro Capone (Avvenire, giovedì 28 gennaio 2021)
«La terra è di tutti, non solo dei ricchi, ma quelli che possono utilizzare ciò che appartiene loro sono assai pochi rispetto a chi non può farlo». Queste parole, che potremmo pensare di papa Francesco, sono in realtà del vescovo di Milano Ambrogio, il quale negli ultimi anni della vita scrisse un omelia su La storia di Naboth, appena pubblicata a cura di Domenico Lassandro e Stefania Palumbo (Loescher, pagine 336, euro 45,00), all’interno della giovane, ma molto promettente, serie patristica della Corona Patrum Erasmiana, promossa dal Centro europeo di studi umanistici ’Erasmo da Rotterdam’ di Torino sotto gli auspici di Renato Uglione.
Nell’opera Ambrogio trae spunto dalla vicenda dell’israelita Naboth (1 Re 21), che aveva una vigna vicino al palazzo del re Achab, il quale, spinto dalla brama di possesso, ordinò a Naboth di cedergli la sua vigna in cambio di un’altra o di denaro. Nulla poté Naboth, che rifiutò di obbedire perché quella vigna era eredità dei suoi padri: per mezzo di un inganno ordito dalla moglie del re, egli fu accusato di bestemmia e lapidato.
La vicenda di Naboth rappresenta il filo conduttore di tutto il testo ambrosiano e consente al vescovo di Milano, il quale oltre che sull’esperienza episcopale poteva far leva anche su quella di politico, di presentare una lucida denuncia del dramma dei poveri del suo tempo, di cui ci offre qualche vivido esempio. Egli infatti si sofferma sui sacrifici di vite umane per soddisfare la fame dei ricchi: uno cade dalla sommità di un tetto per preparare granai più ampi; un altro precipita dalla cima di un albero, mentre ispeziona i tipi di uva; un altro annega in mare per procurare pesci e ostriche... Vengono in mente i sempre attuali ’incidenti sul lavoro’, come osserva Lassandro, ma ancor di più la folla di uomini sfruttati e venduti, di turoldiana memoria, sparsi in tutto il mondo e asserviti a un lavoro mortale utile solo per il godimento di una minoranza.
E ancora il padre, di cui Ambrogio si professa testimone oculare, costretto a vendere all’asta i propri figli per rinviare la pena a cui era condannato per la mancanza di vino sulla tavola del potente. Di questo padre il vescovo descrive la tempesta interiore e la disperazione infinita e denuncia la situazione innaturale a cui l’uomo è costretto: «Come potrei dunque discernere tra i sentimenti della natura, come potrei dimenticarli, come potrei spogliarmi dei sentimenti di un padre?».
È evidente che lo scopo di Ambrogio non è di proporre semplicemente un’interpretazione del sopruso sofferto da Naboth, ma principalmente di sottolineare la necessità di rendere concreta ed efficiente una giustizia sociale basata sui valori evangelici.
Il testo ambrosiano rappresenta dunque la testimonianza drammatica di una società in cui i rapporti economici hanno conseguenze devastanti su quelli umani e sociali e allo stesso tempo propone il manifesto e l’auspicio di una società più equa e solidale, in cui il bene sia realmente, secondo la legge di natura, comune e non a vantaggio di un’élite: «Per tutti è stato creato il mondo, quel mondo che invece voi pochi ricchi tentate di rivendicare solo per voi».
Le parole del vescovo rappresentano pertanto un messaggio perennemente rivoluzionario, che ha conquistato personalità come Concetto Marchesi, Ernesto Buonaiuti e David Maria Turoldo, che nel duomo milanese in una sua predica lesse, senza riferire il nome dell’autore, alcuni passaggi proprio del testo ambrosiano, suscitando profondo scandalo e vibrate proteste dell’uditorio.
Un messaggio scomodo ancora oggi e in perfetta consonanza con quanto papa Francesco ha scritto al punto 120 dell’Enciclica Fratelli tutti: «Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società».
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI.
FLS
PER UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA. Ridiscendere nella "nave" di Galileo Galilei, ripartire da un nuovo "principio di carità" e riprendere la navigazione ... *
Se la fisica è tentata dalla metafisica
La teoria quantistica ha messo in crisi la fiducia della scienza di poter davvero “vedere” il reale.
di Roberto Timossi (Avvenire, martedì 19 gennaio 2021)
Che cos’è la realtà? Siamo in grado di conoscere la natura del reale così come effettivamente è e non semplicemente come appare? Si tratta di due domande classiche del pensiero filosofico, che hanno assunto particolare rilievo con la filosofia moderna.
È noto per esempio che per l’empirismo scettico di David Hume la conoscenza è condizionata dalle impressioni e quindi si riduce a ciò che appare alla nostra mente, per cui anche la scienza in definitiva non ha valore oggettivo, ma è il prodotto dalla nostra abitudine a generalizzare dei fenomeni solo apparentemente ricorrenti e concatenati.
Questa sfiducia nella possibilità di stabilire se quello che crediamo di conoscere corrisponde o meno alla realtà effettiva oppure risulta solamente una nostra raffigurazione mentale ha condotto Immanuel Kant a rinunciare alla ricerca del reale o cosa in sé (il “noumeno” ovvero il pensabile, ma non conoscibile) per limitarsi al “fenomeno”, ossia esclusivamente a quanto si manifesta nelle nostre percezioni sensoriali.
Con l’idealismo e con il positivismo il problema se la realtà sia davvero quella che ci appare è stato svuotato a priori, perché nel caso degli idealisti «ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale» (G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio) e nel caso dei positivisti il positum, ossia ciò che è osservato empiricamente dalla scienza, è indiscutibilmente reale (A. Comte, Discorso sullo spirito positivo). Come però purtroppo spesso è accaduto dal Novecento ai giorni nostri, laddove i filosofi hanno “gettato la spugna” ritendendo di dover abbandonare argomenti reputati metafisici, si sono invece fatti avanti gli scienziati.
La questione di che cosa sia la realtà e se davvero la conosciamo è stata infatti rilanciata prima con la teoria einsteiniana della relatività e poi soprattutto con la meccanica quantistica. Quest’ultima, sorta come una teoria che doveva spiegare il funzionamento del microcosmo delle particelle, ha finito inevitabilmente per coinvolgere tutto l’esistente, non fosse altro perché ogni cosa osservabile è fatta di materia, quindi possiede una struttura atomica.
Fin dalle sue origini, la teoria prevalente nella meccanica quantistica (la cosiddetta “interpretazione di Copenaghen”) iniziò a generare problemi al realismo, quantomeno a livello atomico e subatomico, conducendo a un contrasto rimasto famoso tra due grandi fisici premi Nobel: Albert Einstein e Niels Bohr.
Mentre infatti il primo da tenace realista non riusciva ad accettare l’indeterminismo implicito nella descrizione quantistica dei fenomeni (“Dio non gioca a dadi”), il secondo prendeva atto della situazione ritenendo che fosse sbagliato pensare che il compito della fisica sia dire come la natura è realmente. Presente nella filosofia della scienza nella forma di una disputa tra realismo e antirealismo scientifico, il tema ritorna oggi sempre più spesso in libri dall’intento divulgativo, che in fondo riproducono le stesse posizioni contrapposte di Einstein e Bohr.
Avviene così per esempio che il fisico statunitense Lee Smolin, che cerca un’alternativa realistica per la teoria dei quanti ( La rivoluzione incompiuta di Einstein, Einaudi), finisca per entrare in inevitabile conflitto con la teoria quantistica relazionale del fisico italiano Carlo Rovelli ( Helgoland, Adelphi), con la quale il reale sembra dissolversi in assenza di una relazione osservativa o di osservatori, per cui non esistono più una verità e una realtà oggettive, bensì tanti punti di vista. Ma dal momento che lo stesso Rovelli riconosce che «solo Dio può vedere in due luoghi nello stesso momento» e quindi solo Lui possiede il punto di vista assoluto sulla verità e la realtà delle cose, verrebbe paradossalmente da concludere che l’unica strada per salvare il realismo sembra essere quella dei filosofi occasionalisti: il mondo funziona, sta insieme e assume reale consistenza unicamente grazie all’intervento diretto e continuo di Dio.
In definitiva, sarebbe opportuno che gli scienziati non spacciassero speculazioni metafisiche per teorie scientifiche, seguendo in ciò l’atteggiamento del premio Nobel per la fisica Kip Thorne, il quale affrontando il problema di come sia realmente lo spazio-tempo descritto dalla teoria della relatività ha concluso: «Quale punto di vista dica la “verità autentica” è irrilevante ai fini degli esperimenti, è una questione dei filosofi, non dei fisici» ( Buchi neri e salti temporali. L’eredità di Einstein, Castelvecchi).
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI.
ALBERT EINSTEIN, LA MENTE ACCOGLIENTE. L’universo a cavallo di un raggio di luce (non di un manico di scopa!)
ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
FLS
Luoghi dell’Infinito.
Adamo dove sei? Tra la discarica e il Giardino
La bellezza ci abbraccia, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Una bellezza donata senza misura, quasi a sfiorare l’infinito. Maestosa, selvaggia, immensa. Una bellezza che anche noi abbiamo...
di Giovanni Gazzaneo (Avvenire, giovedì 14 gennaio 2021)
La bellezza ci abbraccia, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Una bellezza donata senza misura, quasi a sfiorare l’infinito. Maestosa, selvaggia, immensa. Una bellezza che anche noi abbiamo saputo generare nei millenni creando opere d’arte e meraviglie tecnologiche, modellando colline, facendo dei campi un tripudio di colori e di geometrie, progettando giardini e parchi che, consapevolmente o meno, sono la tangibile nostalgia del Paradiso perduto.
Scrive papa Francesco nella Laudato si’: «Prestare attenzione alla bellezza e amarla ci aiuta ad uscire dal pragmatismo utilitaristico. Quando non si impara a fermarsi ad apprezzare il bello, non è strano che ogni cosa si trasformi in oggetto di uso e abuso senza scrupoli» (215). Abuso che non conosce frontiere, dentro e fuori di noi: smog nei cieli e nei nostri polmoni, microplastiche nei ghiacciai e nelle profondità degli abissi marini, ma anche nel nostro sangue.
Abbiamo reso il mondo una discarica. Ma prima vittima della “cultura dello scarto”, come insegna papa Francesco, è proprio l’uomo: «L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale» (Laudato si’ 48).
La cultura meccanicistica e positivista - che si è accompagnata ai primi grandi successi tecnologici dell’epoca moderna e alla promessa dei paradisi in terra (comunisti o capitalisti in questo si equivalgono) - ha proposto una visione riduzionista dell’uomo e della natura. L’uomo è solo corpo, tassello intercambiabile nel mondo della produzione e contenitore di desideri (sempre indotti e mai appaganti) nel magico universo del mercato. La natura è solo materia da sfruttare per la produzione e, a partire dal dopoguerra, per le vacanze di massa.
Questo modo di vedere le cose e gli uomini si è evoluto, più nei linguaggi che nella sostanza. Come sostiene papa Benedetto nel 2012: «Lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi». Continuiamo a preferire l’ideologia - oggi destrutturata ma onnipresente con i suoi falsi idoli - alla realtà.
È cresciuta la sensibilità ambientale, ma l’ecologia integrale, proposta da Benedetto XVI e da papa Francesco, non può prescindere da un umanesimo integrale, che riconosca la dignità di ogni persona e di tutti i popoli. Sono tante le persone di buona volontà e le associazioni che lottano perché la natura non sia violata, per le trentamila specie a rischio, perché la foresta amazzonica sia preservata, e anche i cani non siano abbandonati... Ma cala il silenzio, anzi scatta la censura, se lottiamo perché a non essere violata e manipolata sia la natura umana, perché gli embrioni non siano “prodotti” di fabbrica, perché l’utero non si trasformi in un parcheggio a pagamento, perché cinquantasei milioni di bambini non vengano ogni anno democraticamente uccisi nel seno delle loro madri. «I deserti esteriori - afferma papa Benedetto nel 2005 - si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi» e continuano a crescere.
La natura è bellezza, ma bellezza sfigurata, fin dalla Genesi, fin dal peccato di Adamo. Ricomporre l’armonia perduta è possibile, come testimonia Francesco d’Assisi. Lui non si è convertito all’ecologismo. L’amore di Francesco per il Creato nasce dalla sua conversione a Cristo, da questa sua sequela che l’ha portato a vedere il mondo e i suoi abitanti con lo stesso sguardo del Figlio dell’uomo, a percepire la giusta e feconda relazione con gli elementi e le creature, ad amare la potenza e la bellezza della vita come riflesso di un atto creativo che non si ferma alla Genesi, ma che continua nello scorrere del tempo. Un sentimento, uno sguardo, un’invocazione che trasformano la vita nella poesia del Cantico delle creature, e poi, con Giotto, nei colori e nelle immagini della più straordinaria rivoluzione artistica. Francesco sapeva che il vertice della Creazione non è l’uomo, ma il Figlio dell’uomo, l’Increato che si fa creatura, l’Eterno che si fa storia, l’Infinito che abbraccia il limite.
La strada indicata da san Francesco è semplice e ardua: non può esserci autentica cura del Creato se dimentichiamo che il nostro abitare, nel segno della custodia e non del possesso e dello sfruttamento, nasce dal nostro essere voluti come figli da un Dio che ci è Padre. Siamo creature e non creatori (al massimo inventori e, con le arti, imitatori dell’atto creativo originario), ma siamo figli: siamo la Sua immagine, magari ferita, rugosa, infangata, perfino negata, combattuta. Eppure quell’immagine resta. È la parte di noi più vera, più gioiosa, più viva, più profonda. Da qui, da questa Presenza in noi, nasce l’amore per la terra, che è madre e sorella e figlia, per le sue creature, per gli uomini tutti. Francesco è stato il giullare del Gran Re, perché ha saputo vivere da figlio del Gran Re.
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@UNESCO #LogicDay Uscire dall’#infernoepistemologico: ripartire con #Quine e #Nozick da un nuovo #principiodicarità, ridiscendere nella #nave di #galileogalilei, e riprendere la #navigazione con #Einstein
LO SPIRITO DI ASSISI. LA LEZIONE DI GIOVANNI PAOLO II SULLA DONNA E SULL’UOMO E SU DIO... *
Papa: nuovi ruoli alle donne, apre a Lettorato e Accolitato
’Ma la Chiesa non può conferire loro l’ordinazione sacerdotale’
di Redazione ANSA *
CITTA DEL VATICANO. Papa Francesco ha stabilito con un Motu proprio che i ministeri del Lettorato e dell’Accolitato siano d’ora in poi aperti anche alle donne, in forma stabile e istituzionalizzata con un apposito mandato. Le donne che leggono la Parola di Dio durante le celebrazioni liturgiche o che svolgono un servizio all’altare in realtà già ci sono con una prassi autorizzata dai vescovi.
Fino ad oggi però tutto ciò avveniva senza un mandato istituzionale vero e proprio.
Aprire ufficialmente le porte alle donne nel Lettorato e nell’Accolitato non significa che potranno diventare sacerdoti. E’ quanto precisa lo stesso Papa facendo proprie le parole di Giovanni Paolo II: "Rispetto ai ministeri ordinati la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
* ANSA 11 gennaio 2021 - 19:06 (ripresa parziale).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FLS
I grandi temi che la Chiesa ha pensato di non vedere
Si parla poco della condizione di declino e di crisi gravissima che il Cristianesimo sembra conoscere attualmente
di Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 30 dicembre 2020)
È opinione diffusa che l’attuale pontificato si caratterizzerebbe per un indirizzo audacemente innovativo, si dice addirittura rivoluzionario. A causa vuoi di una pastorale tutta rivolta alle grandi questioni mondiali dell’ecologia e della giustizia economica tra le nazioni, vuoi di una straordinaria e quasi indiscriminata apertura alle diversità culturali, al dialogo tra le fedi, alla «carità». È però singolare che a questa proiezione del pontificato verso il mondo, e all’attivismo indefesso con cui essa viene alimentata, corrispondano tuttavia un silenzio e una mancanza pressoché assoluta di riflessioni e di iniziative sulla condizione generale che il mondo stesso riserva oggi alla fede cristiana e alla Chiesa stessa.
Una condizione di crisi gravissima. Nell’intero emisfero settentrionale del pianeta il Cristianesimo sembra conoscere, infatti, un tale declino da far pensare che esso stia addirittura sul punto di spegnersi. Lo mostra al semplice sguardo la quantità di edifici religiosi che in tutti Paesi europei hanno chiuso i battenti. Specialmente le chiese, trasformate in gran numero in supermercati, sale bingo o centri commerciali. Ma lo indicano in modo ancor più pregnante due fatti decisivi. Innanzi tutto la sparizione di ogni residuo di quella che un tempo era la Cristianità intesa come fatto pubblico, cioè come connessione tra istituzioni religiose e istituzioni politiche che per secoli ha caratterizzato tutti i regimi europei, ancora in sostanza sul modello dell’Impero romano. In secondo luogo, il fatto che ormai non rimane quasi più traccia di quel «compromesso cristiano-borghese» instauratosi dopo la Rivoluzione francese che fino a qualche decennio fa era tipico di tutte le classi dirigenti euro-occidentali. Un compromesso in forza del quale, pur laicizzandosi e modernizzandosi, esse erano però rimaste legate in qualche modo all’antica fede. Da tempo, invece, nei loro modelli di vita, nell’educazione dei figli, nell’autocoscienza di sé, nei loro valori pubblici, le élite delle società sviluppate appaiono virtualmente scristianizzate. E inevitabilmente il resto della società segue il loro esempio.
Ora, di fronte a questa gigantesca frattura storica - che oggi si manifesta in tutta la sua straordinaria ampiezza ma che nell’ultimo mezzo secolo non ha mancato di sollecitare le alte e tormentate riflessioni del magistero, da papa Montini a papa Ratzinger - appare davvero singolare il silenzio non solo dell’attuale Pontefice ma dell’insieme della gerarchia. L’attenzione e l’iniziativa dell’uno e dell’altra non sembrano attratte neppure da altre due questioni di enorme portata ormai arrivate drammaticamente al pettine. Tali, a me pare, da obbligare la Chiesa a mettere in discussione di fatto la propria intera vicenda identitaria, a riformularne gli esiti in misura radicale.
La prima di tali questioni è quella della democrazia. È vero naturalmente che la Chiesa non può essere una democrazia perché Dio non può essere messo ai voti. La democrazia però non è solo questione di voti. È anche - anzi soprattutto - una questione di diritti. Innanzi tutto di quei diritti della persona alla cui origine c’è il Cristianesimo e sui quali da decenni non a caso insiste in ogni occasione il magistero della Chiesa stessa. Ma allora la domanda ovvia che si pone è la seguente: come può essere compatibile con la tutela di tali diritti della persona il tipo di potere che esercita il Papa sul suo Stato e sull’istituzione ecclesiastica - un potere assoluto e incontrollato, arbitrario nel più vero senso della parola? Com’è compatibile ad esempio il diritto di ogni persona a conoscere le accuse che gli vengono mosse, a conoscerne i motivi, ad avere un giusto processo da parte di giudici indipendenti, con la sorte riservata al cardinale Becciu, il quale, spogliato dal Papa di alcune importanti prerogative legate alla sua carica senza nulla sapere dei motivi, in teoria aspetta giustizia - si noti il paradosso - da giudici nominati e revocabili ad nutum dal Papa stesso? Come si può chiedere al mondo di essere giusto, mi chiedo, se in casa propria le regole della giustizia sono queste? E d’altra parte, che in quella casa ci sia un problema vero di democrazia non è forse testimoniato anche dal fatto che ancora oggi in seguito a un episodio come quello appena detto (ma anche a mille altri) nessuno osi dire pubblicamente nulla? Sollevare qualche dubbio? Chiedere, Dio non voglia, qualche spiegazione? O l’obbligo democratico alla trasparenza tante volte invocato vale solo per gli altri?
Né si tratta solo di questo. Finora, infatti, a far da contrappeso alla natura autocratica del potere papale è stato il carattere elettivo della carica. Incontrollatamente elettivo, bisogna aggiungere: grazie al quale, quindi, a un Papa di un certo orientamento era possibilissimo (come infatti è accaduto quasi sempre) che succedesse un Papa di un orientamento affatto diverso. Ora invece, con la nomina da parte dell’attuale Pontefice di un sempre maggior numero di cardinali in tutto e per tutto a lui omogenei, minaccia di nascere di fatto al vertice dell’istituzione un vero e proprio «partito del Papa», detentore della maggioranza nel conclave. Grazie al quale al Papa regnante stesso diviene perciò possibile scegliere il proprio successore o perlomeno influenzarne in modo decisivo l’elezione. Determinando così il passaggio da un’autocrazia dalla titolarità incontrollata a una autocrazia dalla titolarità designata.
Infine, al problema della democrazia si ricollega direttamente pure la seconda delle grandi questioni arrivate al pettine che oggi interrogano la Chiesa e la sua storia: la questione del ruolo delle donne all’interno dell’istituzione ecclesiastica. O per dire meglio la questione della loro assoluta, continua, esclusione da qualsiasi ruolo significativo. Non mi riferisco al sacerdozio femminile. Mi riferisco al potere, alle cariche, che so, di presidente dello Ior, di governatore dello Stato, di nunzio o di segretario di Stato: che a mia conoscenza nessun passo dei Vangeli prescrive debbano essere affidate a uomini anziché a donne. Ma che la Chiesa invece continua imperterrita a credere un esclusivo monopolio maschile. Mi chiedo come possa immaginare di avere un qualsiasi futuro un’istituzione che nel mondo di oggi si muove in questo modo. Mostrando cioè una mancanza di senso storico che ricorda tristemente la vana battaglia che la stessa Chiesa cattolica ingaggiò per oltre un secolo contro i principi liberali. Oltre tutto - ancora una volta, come allora - smentendo in tal modo l’ispirazione più luminosa della propria storia e la testimonianza più straordinaria del proprio fondatore.
Ma se le cose stanno così, mi risulta allora abbastanza incomprensibile come possa essere definito innovativo, progressista o addirittura rivoluzionario, papa Francesco. Il quale esercita il suo potere al modo che ho detto e circa tutte le questioni e i problemi fin qui enumerati è convinto evidentemente che essi non esistano, o comunque che non meritino la sua attenzione. Per quel che conta la mia opinione, ho il sospetto che la sua via non porti lontano.
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO CON IL SUO TRADIZIONALE SOFISMA DELLA "FALLACIA ACCIDENTIS". LOGICA E REALTÀ .... *
Quando la logica va in vacanza
di Edoardo Camassa **
Il termine “fallacia” può essere inteso in almeno due modi. In senso lato designa una qualsiasi idea, opinione o credenza sbagliata; per esempio che le donne non sappiano guidare o che rompere uno specchio porti sette anni di disgrazie. Come si vede, stando a questa prima accezione del termine, le fallacie si fondano sugli stereotipi, sulla superstizione o comunque su detti e proverbi popolari, e perciò non ambiscono in nessun modo a risultare convincenti. Ma le cose cambiano se ci spostiamo dal linguaggio comune al linguaggio filosofico-scientifico.
In senso stretto, infatti, “fallacia” indica un’argomentazione o un ragionamento che sono logicamente viziati ma psicologicamente persuasivi; ciò può avvenire in modo consapevole e deliberato, quando vengono prodotti con l’intenzione di ingannare, e allora parleremo di sofismi, o inconsapevolmente, quando vengono prodotti senza volontà di inganno, e allora parleremo di paralogismi. In estrema sintesi, nella prospettiva della logica dell’argomentazione la fallacia è un ragionamento che ricorda un qualche tipo d’inferenza, ma che se sottoposto a un esame rigoroso si rivela scorretto[1].
Tra gli innumerevoli esempi possibili di fallacie intese in questa seconda accezione ce n’è uno su cui vale la pena di soffermarsi, se non altro perché compare in quello che è in assoluto il primo trattato sistematico sui ragionamenti viziati - il De sophisticis elenchis di Aristotele - e ha il pregio di essere estremamente chiaro[2]. Si tratta della fallacia d’accidente converso, un tipo di generalizzazione indebita che nasce dal considerare ciò che vale sotto un determinato aspetto (παρὰ τὸ πῄ, traducibile nei termini della logica medievale con secundum quid) come se valesse in assoluto, in sé e per sé (ἁπλῶς, corrispondente al latino simpliciter). In base a questo indebito procedimento generalizzante, dal fatto che un indiano è nero ma ha i denti bianchi si passa a concludere, erroneamente, che questo indiano è al contempo bianco e nero (Soph. el., 167a 7-9)[3]. Nel presente lavoro mi occuperò di fallacie intendendole in questo secondo senso, ossia nell’accezione ristretta; mi occuperò cioè di “fallacie logiche”. Più nel dettaglio, mi concentrerò su una particolare classe di ragionamenti scorretti: quella delle argomentazioni viziate che realizzano il loro potenziale comico.
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Per sgombrare il campo da ogni possibile equivoco, occorre però aggiungere subito che qui mi soffermerò sulle fallacie comiche per come appaiono nella letteratura.
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Per provare a esplicitare gli scopi delle fallacie comiche nella letteratura conviene rifarsi ancora una volta a Freud, e nello specifico all’analisi di ciò che egli chiama «storielle con una facciata logica» (o «motti concettuali sofistici»). Secondo Freud, se questo tipo di barzellette mostra una parvenza logica così robusta da rivelarsi come tale solo in seguito a un esame più attento è appunto perché lo scherzo tradisce qualcosa di serio, cela una logica ancor più profonda[4]. Orlando, che dal libro freudiano sul Witz ha tentato di estrapolare una teoria generale del comico letterario, scrive a ragione che i motti con una facciata logica sono «di una logica sofistica, esagerata, che dissimula anziché ostentarla l’erroneità dei propri ragionamenti secondo il livello della coscienza, e con ciò stesso ostenta fingendo di dissimularla la validità dei ragionamenti stessi secondo un’altra logica di fondo»[5].
È proprio questa dialettica di erroneità e validità, di illogicità e logicità che caratterizza le fallacie comiche rinvenibili nelle opere letterarie. Vale perciò la pena di approfondirne l’esame e di articolarne i momenti costitutivi. In prima battuta il lettore (mi riferisco al lettore modello) prende per buono il ragionamento incongruo; in altre parole si lascia persuadere dalla sua coerenza apparente. Il pensiero critico e la valutazione razionale subentrano in lui solo in un secondo momento, così da rendergli la fallacia palese, riconoscibile, e con ciò stesso da muoverlo al riso. Ma non è tutto: il lettore è infine portato a riconsiderare l’argomentazione comica e a intuire che quel che gli pareva erroneo così erroneo non è, dal momento che fa luce su verità paradossali ma profonde a cui la logica ordinaria non può né vuole accedere[6]. Da questa angolatura, assurdo non è più tanto e solo il ragionamento fallace, ma anche e soprattutto qualcos’altro di più generale. Se si vuole, il sistema di pensiero corrente e le sue leggi ritenute inattaccabili.
Un esempio chiarirà meglio cosa intendo: «L’unico modo per liberarsi di una tentazione è quello di cedervi»[7]. Tra tutte le massime che in The Picture of Dorian Gray (1890) Wilde mette in bocca a Lord Henry Wotton, irresistibile campione di freddure, questa è forse la più celebre. Essa di primo acchito sembra sensata, convincente. Tuttavia, a un esame più approfondito, l’aforisma rivela tutta la sua inconsistenza argomentativa. A rigor di logica, oltre a quella suggerita da Lord Wotton, vi sarebbe infatti un’altra e ben più valida soluzione per liberarsi di una tentazione: quella di metterla a tacere, di ignorarla e in definitiva di reprimerla. Come si vede, ci troviamo qui a ridere di una fallacia facilmente individuabile, che è nota come evidenza soppressa (o unilateralità) e che consiste nel dimenticare per strada alcune informazioni in grado di invalidare la tesi proposta. Benché tutto questo sia esatto, va pur detto che la massima sopra citata non si esaurisce nell’errore logico e nel comico puro. Nonostante l’incongruenza, e anzi proprio in virtù di questa, Wilde mira a farci intravedere qualcosa di serio: che tutto sommato non c’è davvero altro modo per liberarsi di una tentazione se non quello di cedervi. Per convincersene, basta leggere come il discorso di Lord Wotton continua: «Resistetele, e la vostra anima si ammalerà di bramosia per le cose che si è proibite da sola, di desiderio per ciò che le sue leggi mostruose (monstrous laws) hanno reso mostruoso e illegittimo (monstrous and unlawful)»[8]. Qui Wilde vagamente anticipa una idea che da lì a poco la psicanalisi cercherà di fondare su basi scientifiche. Per quanto proviamo a domarlo, il desiderio - mostruoso e proibito, sì, ma solo nell’ottica della ragione dispiegata - non si lascerà mai ammansire e combatterà con tutte le proprie forze per emergere. Con buona pace della mentalità borghese-puritana, additata come il “vero” bersaglio comico del ragionamento.
Quanto detto può essere riformulato e arricchito combinando la terminologia di Freud con quella del suo erede cileno Matte Blanco: le fallacie comiche della letteratura sono - un po’ come i sogni, i lapsus e i sintomi psiconevrotici, benché calcolate e coscienti - «formazioni intermedie e di compromesso»[9], frutti di un «sistema logico-antilogico»[10]. Esse ci spingono da un lato a ridere con superiore distacco di assurdità che a tutta prima paiono il risultato di una disattenzione, di un disimpegno mentale, e dall’altro a sentire in modo partecipe che il pensiero consueto in fondo non è altro che uno tra i molti tipi di pensiero possibili e immaginabili. Credo che D’Angeli e Paduano vogliano suggerire qualcosa del genere quando scrivono che nel riso diretto ai danni di chi pronuncia ragionamenti aberranti si maschera il timore che la sua logica altrettanto strutturata e resistente costituisca un grave rischio per la presunta inattaccabilità del sistema di pensiero corrente: le sue leggi, date senza verifica per completamente affidabili, se messe sotto la lente di un simile sguardo straniante, si rivelano discutibili e quindi incerte, e coinvolgono nel dubbio l’intero sistema logico[11].
Ricapitolando, le fallacie comiche in letteratura hanno un intento duplice e ambiguo: punire col riso le argomentazioni che si discostano dalla logica ordinaria e, contemporaneamente, rimarcare i limiti e i vincoli delle certezze comuni. Da ciò si ricava che nella finzione letteraria i ragionamenti ridicoli si presentano come un salvacondotto grazie a cui formidabili deviazioni dalla logica e dal pensiero razionale riescono a trapelare in modo socialmente fruibile. Lo scopo di questo lavoro è appunto mettere in luce, attraverso un congruo numero di esempi, in quali modi la letteratura può trasgredire la logica consueta e dare risalto alle verità paradossali e profonde che emergono proprio in virtù del sovvertimento della logica.
** Fonte: Le parole e le cose, 3 dicembre 2020 (ripresa parziale - senza note)
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NOTA
LOGICA E REALTÀ: LE FALLACIE “COMICHE” NELLA LETTERATURA DELLA TRAGEDIA.
E le fallacie tragiche nella letteratura della “Commedia” e della “Monarchia” di Dante Alighieri...
SE “le fallacie comiche in letteratura hanno un intento duplice e ambiguo: punire col riso le argomentazioni che si discostano dalla logica ordinaria e, contemporaneamente, rimarcare i limiti e i vincoli delle certezze comuni [....]”, alla fin fine, confermano il sentimento tragico della vita in cui si collocano. O no?
Se è così, non è meglio capovolgere il senso del cammino e mettere in luce le fallacie “tragiche” nella “Commedia”, e nella “Monarchia”, come da lezione di Dante?! O no?!
LE PAROLE E LE COSE:
"IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS" O IL "LOGO"?! Una questione antropo-logica! *
Riprendendo il filo del discorso dalla “Storia universale della natura e teoria del cielo” e dalla "Critica della ragion pura" di Kant, forse, è possibile comprendere che la proposta di interpretazione della meccanica quantistica di Carlo Rovelli è "un’idea della fisica assai lontana da quella boriosa “teoria del tutto” con cui alcuni fisici contemporanei intendono mettere un punto alla storia millenaria della riflessione umana" (Emilia Margoni - cit.).
Anzi, ripensando a Kant e, al contempo, accolta "l’ipotesi che Gesù conoscesse benissimo la meccanica quantistica" (Giovanni Megna - cit