SIGMUND FREUD E LA LEZIONE DI IMMANUEL KANT: L’UOMO MOSE’, L’ UOMO SUPREMO, E LA BANALITÀ DEL MALE. I SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA ATEA E DEVOTA E LA RIVOLUZIONE COPERNICANA. NOTE PER UNA RI-LETTURA
QUESTO L’INDICE (il testo completo è allegato - qui in fondo - in pdf):
I
PRIMA PARTE:
SIGMUND FREUD, I DIRITTI UMANI, E IL PROBLEMA DELL’ “UNO”. Appunti per una rilettura di “L’uomo Mosè e la religione monoteistica” e della rivoluzione copernicana in psicoanalisi. Prefazione di Riccardo Pozzo
PREFAZIONE DI RICCARDO POZZO
NOTA INTRODUTTIVA - ESSERE GIUSTI CON KANT - E CON FREUD.
PREMESSA - A FREUD, GLORIA ETERNA!!!
INTRODUZIONE - VIAGGIO DI “LAIO”, DEL “SANTO PADRE” A MALTA SULLE
ORME DI PAOLO DI TARSO: 2010 d. C
CAP. 1 - “L’UOMO MOSE’ E LA RELIGIONE MONOTEISTICA”.
CAP. 2 - EICHMANN A GERUSALEMME NEL 1961: DOPO AUSCHWITZ, KANT "ALLA
BERLINA". Hannah Arendt, Emil Fackenheim, e l’ “Imperativo Categorico del Terzo Reich”.
CAP. 3 - KANT, IL “MOSE’ DELLA NAZIONE TEDESCA” E LE ORIGINI
DELL’“IMPERATIVO CATEGORICO” DI HEIDEGGER E DI EICHMANN.
CAP. 4 - KANT, UN ALTRO KANT. LA LEZIONE DI MICHEL FOUCAULT E LA
SORPRESA DI JURGEN HABERMAS.
CAP. 5 - FREUD, LA LEGGE DEL FARAONE-DIO, E LA LEGGE MORALE DI KANT.
Incompresa la lezione del “Tu devi” di Kant, Freud con gran difficoltà riesce a liberarsi dal
“Super-Io” del Faraone.
CAP. 6 - UNA ‘CONCLUSIONE’ DI KANT (1766): L’AUTOANALISI, E LA BILANCIA
DELLA GIUSTIZIA (CON LA SPERANZA) RITROVATA.
UNA PAGINA DALLA “CONCLUSIONE TEORETICA RICAVATA DAL COMPLESSO DELLE CONSIDERAZIONI DELLA PRIMA PARTE” DELLA INTERPRETAZIONE DEI “SOGNI DI UN VISIONARIO
SPIEGATI CON I SOGNI DELLA METAFISICA”
II
SECONDA PARTE:
KANT CONTRO L’IDEOLOGIA DELL’ “UOMO SUPREMO” DEI VISIONARI E DEI FILOSOFI DELLA TEOLOGIA-POLITICA ATEA E DEVOTA.
NOTA INTRODUTTIVA
CAP. 1 - KANT E LA “STRADA MAESTRA” DELLA “CRITICA". Note per una rilettura di "I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica",
CAP. 2 - KANT: LA BUSSOLA DELLA SANA RAGIONE, L’ATTACCO DEGLI “ILLUMINATI” METAFISICI, E L’ESPERIMENTO GALILEIANO DELLA NAVE. Note per una rilettura di “che cosa significa orientarsi nel pensiero”.
CAP. 3 - KANT: IL MARE SENZA RIVA, LA BUSSOLA INAFFONDABILE, E IL PROBLEMA DELL’ “IO”.
CAP. 4 - KANT E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA. L’unità inscindibile di sensibilità e intelletto.
CAP. 5 - KANT E L’ “IO PENSO” DELL’ “UOMO SUPREMO” DEI VISIONARI E DEI FILOSOFI DELLA TEOLOGIA-POLITICA ATEA E DEVOTA.
APPENDICE:
A. KANT E L’ANTROPOLOGIA DELLA CONOSCENZA. COME ALL’INTERNO, COSI’ ALL’ESTERNO: "VERE DUO IN CARNE UNA". NOTE SUL PROGRAMMA DI KANT
B. MONOTEISMO, CRISTIANESIMO E DEMOCRAZIA
Nota bibliografica
Federico La Sala (19.08.2010)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
Disagio della civiltà: "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità critiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione. Non fu un puro caso che il sogno germanico del dominio del mondo facesse appello all’antisemitismo come a suo complemento, e non è inconcepibile che il tentativo di stabilire una nuova civiltà comunista in Russia trovi il suo sostegno psicologico nella persecuzione della borghesia. Ci si chiede soltanto, con apprensione, che cosa si metteranno a fare i Sovieti, dopo che avranno sterminato la loro borghesia [...]" (S. Freud, Il disagio della civiltà, 1929).
"L’immagine del corpo mistico di Cristo è molto seducente, ma l’importanza che si annette oggi a questa immagine mi pare uno dei sintomi più gravi della nostra decadenza. La nostra vera dignità infatti non sta nell’essere membra di un corpo, anche se mistico, anche se qu ello di Cristo, ma in questo: nello stato di perfezione, al quale tutti aspiriamo, noi non viviamo più in noi stessi, ma è Cristo che vive in noi; in questa condizione, Cristo nella sua integrità, nella sua unità indivisibile, diviene, in certo senso, ognu no di noi, come è tutto intero nell’ostia. Le ostie non sono frammenti del suo corpo. L’importanza attuale dell’immagine del corpo mistico dimostra quanto i cristiani siano miseramente esposti alle influenze esterne. certo inebriante sentirsi membro del co rpo mistico del Cristo: ma oggi molti altri corpi mistici, che non hanno Cristo come capo, procurino alle proprie membra un’ebbrezza, a mio parere, della stessa natura" (Simone Weil, 1942.)
Federico La Sala
ARCHEOLOGIA E #ANTROPOLOGIA TEOLOGICO-FILOSOFICA. IL "CERA UNA VOLTA..." DELLA #COSMOTEANDRIA E DEL #LETARGO DENUNCIATO DA #DANTEALIGHIERI E IL "C’ERA UNA VOLTA..." DELL’ESSERE SVEGLI, DELL’ESSERE PRONTI ("THE #READINESS IS ALL") DELL’#AMLETO DI #SHAKESPEARE.
C’E’ "MESSIANISMO" (ATEO-DEVOTO, COSTANTINIANO E ANDROCENTRICO) E MESSIANISMO (CRITICO, BENJAMINIANO, ANTROPOLOGICO ED EVANGELICO):
FILOLOGIA ("#CARITAS"), #CRITICA ("#CHARITAS), E #CHIAREZZA ("#CLARITAS"): C’E’ "DIO" ("#DEUS") E #DIO (DEUS),"PATRIA" E #PATRIA, E, "FAMIGLIA" E #FAMIGLIA. PRIMA DISTINGUERE E POI UNIRE: IN PRINCIPIO ERA LA PAROLA (IL "#LOGOS" DI #NESSUNO), NON LA "PAROLA" (IL "#LOGO" DI UN "PADRE-#PADRONE", DI UN "#DOMINUS").
UNA "CITAZIONE" ALL’ORDINE DEL GIORNO, DALLE "TESI DI FILOSOFIA DELLA STORIA" DI WALTER BENJAMIN:
"[16] Al concetto di un presente che non e’ passaggio, ma in bilico nel tempo ed immobile, il materialista storico non puo’ rinunciare. Poiche’ questo concetto definisce appunto il presente in cui egli per suo conto scrive storia. lo storicismo postula un’immagine "eterna" del passato, il materialista storico un’esperienza unica con esso. Egli lascia che altri sprechino le proprie forze con la meretrice "C’era una volta" nel bordello dello storicismo. Egli rimane signore delle sue forze: uomo abbastanza per far saltare il continuum della storia." (cit.).
CULTURA, #SOCIETÀ, #STORIA, E #METASTORIA:
RIPENSARE "COSTANTINO" (NICEA, 325-2025) E IL "SACRO ROMANO IMPERO" (PREMIO "CARLO MAGNO", 2016).
"SÀPERE #AUDE" (#ORAZIO-#KANT). ALLA LUCE DELLA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SU "LA #GERMANIA SENZA #IDEE, VENTRE MOLLE D’#EUROPA" (cfr. Donatella Di Cesare, "Il Fatto Quotidiano", 16 aprile 2025), FORSE, è IL CASO DI USCIRE DAL #LETARGO (#DANTE ALIGHIERI) in cui "naviga" la "nave" europea, ripartire da #Kant ( e dal presente "legame" #Koenigsberg - #Kaliningrad), e, seguendo il filo "dimenticato" di Herman v. #Helmholtz, e, di #Marya #Sklodowska-#Curie ("cum grano salis", rileggere i paragrafi a loro dedicati da Friedrich #Heer, nel capitolo finale della sua "Europa, madre di rivoluzioni", il Saggiatore, 1968, vol. II, pp. 556-561, e pp. 580-589), cercare di recuperare il "#tempo #perduto" (#Marcel Proust).
A tal fine, non è male rileggere il "Discorso pronunciato dal presidente del Parlamento europeo Martin Schulz", in occasione della consegna del "Premio Carlo Magno", a Papa Francesco, il 6 maggio 2016 (cfr. "Il Sole-24 Ore", 6 maggio 2016) e, possibilmente, riprendere a lavorare "per la #pace #perpetua".
A CHE GIOCO GIOCHIAMO?! DOPO DUEMILA ANNI DI CRISTIANESIMO COSTANTINIANO E PAOLINO, QUALE IDEA DI EUROPA ANCORA E’ POSSIBILE?!:
"ANTROPOLOGIA" E STORIA DELLA "EUROPA, MADRE DELLE RIVOLUZIONI". Lo storico Friedrich Heer chiude l’opera così intitolata, appunto "Europa, madre di rivoluzioni" (1964; ed. it., 2 voll.m Il Saggiatore, Milano 1968), con il capitolo finale riflettendo su "Il salto", cominciando con il paragrafo "il salto cifra per il XIX-XX secolo, Tutto è in movimento", e, concludendo con l’ultimo paragrafo, a "Marya Sklodowska-Curie", e così scrive: "[...] Marya Sklodowska-Curie appartiene agli uomini di una Nuova Era incipiente, i quali sanno che le battaglie sul fronte dell’uomo - contro la morte, l’assurdo, l’ingiusto, il male, la stupidità - devono essere combattute in nuove forme; richiedono l’intera vita; un pensiero rigoroso, autocritico, un sentimento puro [...]"; e, in nota, aggiunge e "insiste" (in modo "antropologicamente" e linguisticamente "cattolico"): "Nuove battaglie - sul fronte dell’uomo [...] Questo secolo (o per meglio dire: alcuni suoi uomini) ha cominciato a comprendere in modo nuovo, e a far propria, la parola oscura e profonda dell’apostolo Paolo: Noi uomini siamo gli eredi di Dio" (F. Heer, op. cit., II, p. 588 e p. 596).
Federico La Sala
STORIA, STORIOGRAFIA, E TEOLOGIA-POLITICA.
"COSTANTINO" E "COSTANTINISMO"- IL NODO DA SCIOGLIERE:
FLS
LA SORPRESA DI UN "NARCISO", L’ULTIMA "LEZIONE" DI SIGMUND FREUD (1939): DALLA PSICOANALISI ("INTERPRETAZIONE DEI #SOGNI", 1899) ALLE "COSTRUZIONI NELL’ ANALISI" (1937). *
VIRGINIA WOOLF, nel suo diario, dopo l’incontro (l’unico) con Freud, avvenuto il giorno prima, il 29 gennaio 1939, annota: «Un uomo vecchissimo, contratto e rinsecchito: con un lampo di furbizia negli occhi, movimenti spasmodici paralizzati, difficoltà a esprimersi: ma vigile. Un potenziale immenso, un fuoco antico che si sta spegnendo». Sigmund Freud morirà il 23 settembre 1939, Virginia Woolf il 28 marzo 1941.
"CHE COSA HA VERAMENTE DETTO FREUD?". Volendo osare un commento alla "Sherlock Holmes", si potrebbe ben risponder-si alla "domanda", con il suo famoso «Elementare, mio caro Watson!»: il significato del #messaggio sta nello stesso #omaggio.
Benché nel pieno dell’inverno londinese (e con il suo carico di anni e di traversie), Freud rende onore a Virginia Woolf con tutta la memoria della sua travagliata "#odissea" e con tutta la lucida consapevolezza possibile del percorso fatto: essere riuscito come "#Mosè" a venir fuori dall’ «Egitto» e, al contempo, essere rimasto ancora impigliato nelle maglie della #tragedia, e, così, a non aver portato a compimento come #Edipo la sua stessa autoanalisi e liberazione ("L’uomo Mosè e la religione monoteistica", 1939).
Virginia Woolf ha ben visto chi si è trovato dinanzi ("Un potenziale immenso, un fuoco antico che si sta spegnendo»); e, Freud, riconoscente, e più che fiero, La ringrazia con un "narcisistico" omaggio di un vecchio "#conquistador".
*
"Grandezza e limiti di Freud: «Su Freud» (a c. di Lamberto Boni, Adelphi, Milano 2012, e. 12, pp. 115) è un’ottima occasione per riconsiderare il percorso di Elvio Fachinelli e rendersi conto del suo lavoro (dal 1966 al 1989) per portare la psicoanalisi fuori dalla claudicanza e dalla cecità dell’orizzonte edipico. [...]" (cfr. Federico La Sala, "Dal labirinto si può uscire. Fachinelli, "Su Freud").
DANTE ALIGHIERI, LA "MONARCHIA" DEI "DUE SOLI" E IL "DXV", IL «CINQUECENTO E DIECI E CINQUE, MESSO DI DIO», ANCORA "RINCHIUSO" NELL’IMMAGINARIO DEL "DVX" ("DUCE") DELL’IMPERATORE #COSTANTINO ("IN HOC SIGNO VINCES", "I.H.S. VINCES"):
a) Dantedì (#25marzo 2025). Un’indicazione per uscire dal " #sottosuolo" (#DonDeLillo, "#Underworld", 1997):
«Trasumanar significar per verba / non si porìa; però l’essemplo basti / a cui esperienza grazia serba.» (Par. I, 70-71);
b) Il “messo di Dio” di Gian Luca Potestà *:
"«Io sono uno di quelli che si rinfrancano lo spirito con gli anagrammi. La teologia è un po’ fuori dal mio campo», ci avverte Don Delillo in Americana. Dante è quel che ci vuole per rinfrancare questo spirito! A partire dal Veltro di Inferno I, la Commedia presenta diversi personaggi i cui profili restano racchiusi in enigmi e giochi di parole. Nella sezione finale del Purgatorio - comunemente detta “l’apocalisse di Dante” - la scena è occupata da un gigante violento che, montato su di un carro, se lo porta via (è Filippo il Bello, che deporta la Chiesa romana in Francia). Poco più sotto Dante gli contrappone un erede imperiale indicato solo come «un cinquecento diece e cinque, | messo di Dio» (Purgatorio XXXIII 43-44). Di lui non dice altro. Forse perché, scrivendo dopo la morte di Enrico VII, non sa chi potrà prenderne il posto.
Ma perché lo chiama così? I trattati medievali di grammatica attestano l’abitudine di trasformare termini indicanti numeri nelle corrispettive cifre numeriche romane. In questo caso, “cinquecento diece e cinque” = DXV. E poiché DXV non dà senso, già i primi lettori della Commedia proposero di modificare la successione delle lettere, leggendo DVX (= DUX) al posto di DXV. Ma perché Dante, se vuole evocare un DVX, non scrive semplicemente “cinquecento cinque e diece”? [...] Si presuppone che il lettore conosca il celeberrimo seicentosessantasei, misterioso nome della “bestia” secondo l’Apocalisse. In cifre romane: DCLXVI. Prese in questa sequenza, le lettere non significano nulla. Lungo la tradizione teologica latina si era peraltro trovato un curioso espediente interpretativo. Basta disporle diversamente, e le lettere rivelano il tratto più caratteristico dell’Anticristo, la sua fascinazione abbagliante: DIC LVX (“di’: luce”).
Ora capiamo: Dante civetta con l’Apocalisse di Giovanni e, insieme, con la tradizione che aveva inteso e spiegato il 666 come un anagramma. Nella propria apocalisse, per dare un nome al messia vendicatore prende tre numeri trasformabili in lettere (tre delle sei di Giovanni) e li dispone in sequenza anagrammatica. Al lettore comprendere e risolvere. Pochi versi più sotto, precisa che si tratta di un “enigma forte”. Enigma al quadrato: spetterà infatti alla storia rivelare il vero nome dell’atteso liberatore. Se oggi “la teologia è un po’ fuori dal campo”, talvolta aiuta almeno a “rinfrancare lo spirito”. (cfr. AA. VV., "DANTE, PADRE DEL POPOLO ITALIANO", "Vita e Pensiero", 2025 - n. 1).
IL DANTEDI’ (25 MARZO 2025), LA "FENOMENOLOGIA DELLO #SPIRITO" DEI "DUE SOLI", E LA HAMLETICA QUESTIONE DELL’UNO IN #ANTROPOLOGIA, #MATEMATICA, #TEOLOGIA-#POLITICA E #PSICOANALISI.
DIVINA COMMEDIA: #PRIMA DELLA #PASQUA, forse, è meglio ricordarsi con #Freud di #apriregliocchi (sogno sulla morte del padre #Jacob Freud), e, con Dante, di non scambiare l’#agnello (l’#ariete, che "nascose" #Ulisse sì da portarlo fuori dalla #claustrofilia polifemica) con un capro (un #caproespiatorio, alla René #Girard).
Altrimenti, come è possibile ri-cominciare a contare antropologica-mente, capire la "Monarchia" dei "Due Soli", il "gioco" delle "Tre Corone per un Re", dei "#Tre Anelli", e il "cerchio di tutti i cerchi", «Quell’uno e due e tre che sempre vive/e regna sempre in tre e due e uno» (#DanteAlighieri, Par. XIV, 28-29), l’#amore "che move il sole e le altre stelle" Par. XXXIII, 145)?
PSICOANALISI ANTROPOLOGIA ANATOMIA E FILOSOFIA: "CLAUSTROFILIA" (ELVIO FACHINELLI, 1983) E "MENTE ACCOGLIENTE. Tracce per una svolta_antropologica" (Federico La Sala, 1991).
Una nota a margine dell’articolo di Gianfranco Ricci - Psicologo sul tema antropologico-psicoanalitico "Il vaso di Lacan" (v. allegato *):
Il "vas [o]" di "Lacan", a ben riflettere sulla "#concezione" lacaniana della donna e della #femminilità, è ancora pieno di memoria tragico-mammonico, di "spirito" #giocastolaio dello storico "compromesso olimpico" (apollineo-platonico-hegeliano e, "cum grano salis", nietzscheano).
PIANETA TERRA. Antropologicamente, e "terronicamente", invece, "uomo" e "donna" ("maschio" e "femmina"), sono, a "#coniugare" bene il discorso di #DanteAlighieri (come #RealdoColombo e #MichelangeloBuonarroti e #GiovanniValverde, e, ancora, di #GiordanoBruno, #GalileoG alilei e Immanuel #Kant), "#dueSoli" in Terra (illuminati) dal terzo "Sole" che è in Cielo. Questo attuale "presente storico", ormai, è, contro ogni evidenza, il tempo della Commedia, della #DivinaCommedia!
Il prossimo #25marzo 2025 è il giorno del #Dantedì, forse, è bene tenerne conto e uscire dal "#letargo" infernale.
*
IL VASO DI LACAN
di Gianfranco Ricci (20 mar 2024)
Jacques Lacan ha dedicato oltre trent’anni della sua vita all’insegnamento pubblico della psicoanalisi: le sue lezioni, raccolte nei celebri “Seminari”, erano un vero e proprio evento nella Parigi degli anni Sessanta e Settanta.
Nella sua ricerca, Lacan faceva riferimento ad altri grandi studiosi, come Jacobson, Sartre, Claude Levi - Strauss, Godel e molti altri.
In particolare, Lacan farà riferimento agli studi antropologici e culturali di Levi - Strauss per introdurre in psicoanalisi i tre registri che, per lo strutturalismo, organizzano la realtà: il simbolico, l’immaginario e il reale.
La prima fase dell’insegnamento di Lacan, gli anni della sua giovinezza, vedono al centro il registro dell’immaginario: sono gli anni della ricerca sulla psicosi e dello stadio dello specchio.
Il “Lacan classico” degli anni Cinquanta e Sessanta invece mette al centro della propria ricerca il primato del Simbolico sugli altri due registri: è il Lacan del “Ritorno a Freud” e dell’“inconscio strutturato come un linguaggio”.
Negli anni Settanta invece l’insegnamento di Lacan mette al centro il registro, criptico ed enigmatico, del Reale. Lacan cercherà in ogni modo di trattare il Reale: come definire il Reale? Lacan cerca di “bordarlo” da diversi versanti: il Reale sarebbe l’impossibile a dirsi, la dimensione del godimento, ciò che sfugge al simbolico, la pulsione, il registro della pulsione di morte.
Per affrontare il Reale, Lacan introdurrà la clinica dei nodi, detta anche “clinica Borromea”, in onore del nodo Borromeo. La clinica dei nodi cerca di superare la concezione classica della clinica psicoanalitica, mettendo al centro il modo unico e singolare in cui i tre registri si “annodano” tra loro nell’esperienza di ciascun paziente.
Abbiamo parlato della passione di Lacan per i nodi in questo articolo.
Nel corso del Seminario X, dedicato all’angoscia, Lacan introduce una metafora affascinante per descrivere il Reale; lo fa tramite la figura del vaso.
Come è fatto un vaso? Un vaso è un oggetto che “borda”, che circoscrive uno spazio, con vari scopi: metterci dei fiori e del terriccio, oppure dell’acqua o magari nulla!
L’uso che facciamo del vaso lo rende pieno o vuoto. Ma di per sé, al vaso manca qualcosa?
“Così si dice, per esempio, che il reale è sempre pieno. Fa un certo effetto, ha una certa qual aria che conferisce credito alla cosa, un’arietta come quella che tira dalle nostre parti, quella di un lacanismo di buona lega.
Chi può parlare del reale, se non io? Il guaio è che io non l’ho mai detto.
Il reale formicola di cavità, ci si può persino fare il vuoto.
Io dico una cosa completamente diversa, cioè che al reale non manca nulla.
Ho aggiunto, che se si fanno dei vasetti. anche quando li si fa tutti uguali, è sicuro che siano differenti...
La mia storia dei vasetti continua. Il momento successivo è che la loro identità - ossia ciò che è scambiabile fra i vasetti - è il vuoto attorno al quale un vasetto è fatto.
E il terzo tempo è che l’azione umana ha inizio quando questo vuoto viene barrato per essere riempito con quello che farà il vuoto del vasetto accanto, in altri termini quando per un vasetto essere mezzo-pieno è la stessa cosa che essere mezzo-vuoto.
Sempre che, evidentemente, il vasetto non perde da tutte le parti.
In tutte le culture possiamo essere certi che una civiltà è ormai completa e insediata quando si trovano le prime ceramiche. Talvolta contempo una bellissima collezione di vasi che ho nella mia casa di campagna. Manifestamente per quelle genti, alla loro epoca, come testimoniano molte altre culture, era quello il bene principale.
Anche se non siamo in grado di leggere quanto è magnificamente, lussuosamente dipinto sulla loro superfici, anche se non riusciamo a tradurlo in un linguaggio articolato di riti e miti, c’è una cosa che sappiamo, e cioè che in quel vaso c’è tutto.
Il vaso basta.
Il rapporto dell’uomo con l’oggetto e con il desiderio sta interamente lì, vi è percepibile e lì sopravvive.
È proprio questo a legittimare quel famoso vasetto di senape che ha fatto digrignare i denti ai miei colleghi per più di un anno, a tal punto che io, gentile come sempre, ho finito per riporlo sul ripiano dei vasetti della colla. E dire che mi serviva! Lo portavo come esempio del fatto che a tavola il vasetto di senape è sempre vuoto, come sapete per esperienza.” (Sem X, pag. 201)
Con il suo stile ironico e canzonatorio, Lacan parla del “vasetto in quanto tale”, al di là della sua funzione e del suo uso: in questo senso, fuori dal simbolico della funzione, il vasetto non manca di nulla.
Il vaso è per Lacan metafora della femminilità: i critici della psicoanalisi accusavano Freud di avere declassato la femminilità, riducendola ad una posizione di inferiorità rispetto al maschile, come se le mancasse qualcosa. Lacan farà ordine, ribadendo la natura simbolica e non reale della castrazione.
“Il vaso femminile è vuoto, è pieno? Che importanza ha dato che basta a se stesso, quandanche fosse per consumarsi stupidamente, come si esprime la mia paziente.
Non vi manca niente.
La presenza dell’oggetto è qui, se così possiamo dire, in sovrappiù. Perché? Perché è una presenza che non è legata alla mancanza dell’oggetto causa del desiderio al (-φ), al quale è collegata invece nell’uomo .
L’angoscia dell’uomo è legata alla possibilità di non potere.
Da qui, il mito, tutto maschile, che fa della donna l’equivalente di una delle sue costole. Gli è stata tolta una costola, non sappiamo quale, e del resto non gliene manca nessuna. Ma è chiaro che nel mito della costola si tratta proprio di quell’oggetto perduto.
La donna, per l’uomo, è un oggetto fatto di questo.” (Sem. X, pag. 205)
Per approfondire:
Jacques Lacan, Il Seminario, Libro X, L’angoscia.
Anche in Freud troviamo il vaso come oggetto metaforico per descrivere un aspetto della psiche. Ecco qui l’articolo in cui viene approfondito questo aspetto.
Il reale quindi, per Lacan, "non manca di nulla". Questo è un dettaglio decisivo: se l’immaginario si manifesta per la sua inconsistenza e il simbolico per la presenza stessa della mancanza e dell’incompletezza, il reale invece "non mancherebbe di nulla".
Pertanto, il reale segue una logica propria, quella del godimento e della soddisfazione, facendosi beffe dei limiti imposti dal simbolico.
[Gianfranco Ricci, 20 mar 2024.
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA: DA DANTE ALIGHIERI E MICHELANGELO #BUONARROTI, UNA SOLLECITAZIONE A RIPENSARE L’ UNO (#ONU), AL DI LA’ DEL #PLATONISMO E DEL #PAOLINISMO.
ARTE E ARITMETICA: IL "QUADRATO" DEL "CERCHIO". IL "TONDO DONI" E QUATTRO PROFETI (2+2= 4). Per la "Galleria degli Uffizi" nella cornice, sono "raffigurate la testa di Cristo e quelle di quattro profeti". Ma, per Michelangelo, non è la testa di Gesù Cristo e non sono le teste di due profeti e #due #sibille?!
Non è meglio ri-#contare? Oppure è da ritenersi la punta di un "iceberg", di una questione antropologico-teologica "eterna"?!
Questa la "question" (Shakespeare): una questione antropologica e teologico-politica. Ri-pensare #comenasconoibambini: ri-considerare la #Relazione di "#Giuseppe e #Maria" e ri-meditare la lezione di Michelangelo Buonarroti. Solo così, forse, è possibile capire cosa significa il "ritrovamento" del Laocoonte e, altrettanto, come sia possibile liberare OGNI "UNO", ogni INDIVIDUO ("1") dalla "solitudine" e dall’immaginario bellico ("Homo homini lupus") e uscire dalla polifemica e luciferina "caverna" della #tragedia. (#19marzo 2025).
IL "SAPERE AUDE" (1784) E L’ESERCIZIO DELLA "CRITICA".
UNA CIT. DALLA "PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE" DELLA "CRITICA DELLA RAGION PURA" (KANT, 1787):
"[...]Soltanto dalla critica possono essere tagliati alla radice il materialismo, il fatalismo, l’ateismo, l’incredulità dei liberi pensatori, il fanatismo, la superstizione, che possono diventare perniciosi a tutti, e infine anche l’idealismo e lo scetticismo, che sono dannosi più specialmente alle scuole, e difficilmente possono passare nel pubblico.
Se i governi trovano conveniente mescolarsi nelle faccende dei dotti, sarebbe più conveniente alla loro savia sollecitudine per le scienze come per gli uomini, favorire la libertà di una tale critica, per cui soltanto le produzioni della ragione potrebbero essere messe su un solido piede, anzi che sostenere il ridicolo dispotismo delle scuole, che mandano alte grida annunziando un pubblico danno, quando si strappano quelle loro ragnatele, di cui, pure, il pubblico non ha avuto mai notizia e non può avvertire perciò la perdita." (Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 2000)
ARCHEOLOGIA E FILOLOGIA DELLA TRADIZIONE CULTURALE EUROPEA: CON SHAKESPEARE (DANTE ALIGHIERI E GIORDANO BRUNO), PER UNA ANALISI CRITICA DEL"CESARICIDIO" E UNA COMPRENSIONE ANTROPOLOGICA DELLA #MONARCHIA DEI "#DUE SOLI" ("DIVINA COMMEDIA").
CHE NELLA MODALITA’ IN CUI SHAKESPEARE PRESENTA LA "RESA" DI BRUTO ALLE ARGOMENTAZIONI DI #CASSIO (ALLA "SOCRATE") PER COINVOLGERLO (COME UN "ALCIBIADE") NELL’AVVENTURA DEL "CESARICIDIO", IN CUI APPARE evidente il rinvio critico al "gioco" narcisistico del guardarsi nell’occhio dell’altro per conoscere sé stesso del dialogo di #Platone ("Alcibiade primo", 132c - 133b ), è già ben chiaro che egli pensi al di là del #platonismo e del #paolinismo storico:
"BRUTO
No, Cassio; perché l’occhio non vede se stesso
se non di riflesso, attraverso altri oggetti.
CASSIO
È così;
e ci si rammarica molto, Bruto, che tu non abbia
specchi che volgano ai tuoi occhi il tuo valore
nascosto, così che tu possa vedere la tua immagine
riflessa. Ho sentito molte persone di alta reputazione
qui a Roma - eccetto l’immortale Cesare -
che, parlando di Bruto, e gemendo sotto il giogo
di questa epoca, hanno espresso il desiderio
che il nobile Bruto abbia occhi.
BRUTO
In quali pericoli vorresti spingermi, Cassio,
invitandomi a cercare in me stesso
quello che in me non c’è?
CASSIO
Per questo, caro Bruto, preparati ad ascoltare.
E poiché tu sai di non poterti vedere bene
se non per riflesso, io, il tuo specchio,
rivelerò con discrezione a te stesso
quello che di te stesso tu ancora non conosci.
E non essere sospettoso con me, gentile Bruto.
Se io fossi un buffone qualsiasi, o fossi avvezzo
a svilire con volgari giuramenti il mio affetto
al primo venuto che mi assicuri il suo; se ti risulta
che scodinzolo con le persone e prima le abbraccio forte
e poi le calunnio; o se ti risulta
che, alle feste, io mi professo amico
di tutta la marmaglia, allora ritienimi pericoloso. "
("Giulio Cesare," Atto I, Scena 2).
Shakespeare, nel solco e sul filo della lezione di Dante e di Bruno, sollecita la riflessione sul legame antropologico-politico e teologico dei "due soli" della "Monarchia" di Dante, e delle "#Tre corone" dello "Spaccio della bestia trionfante" di Giordano Bruno: sotto la spinta della #RiformaProtestante (1517) e Anglicana (1534) e della #Rivoluzionescientitica (#Copernico, 1543), egli insegna a "vedere" nella figura di "Giulio Cesare" (e di "Amleto") la unità e la unificazione - nelle mani e nella testa - non solo del sovrano ("cristiano") o della sovrana ("cristiana") ma di ogni "cristiano" e "cristiana", di ogni "cittadino" e di ogni "cittadina", del potere sia politico ("#sovranità universale") che religioso ("#sacerdotalità universale"): "Sàpere aude!" (#Kant, 1784).
#Dantedì, #25marzo 2025
RICERCA SCIENTIFICA, "MALOCCHIO", #PSICOANALISI, E #CREATIVITÀ:
IL "SAPERE AUDE!" DI KANT, IL PROBLEMA DELL’ OCCHIO DI PLATONE, E UNA QUESTIONE DI #BELLO. UN INVITO A USCIRE DALLA #CAVERNA DI "#POLIFEMO" (CON #DANTEALIGHIERI).
RIAPRIRE IL PROGRAMMA SOCRATICO PLATONICO DELLA "CUPIDITA" ("EROS") DEL #VEDERE CON GLI OCCHI E DEL GUARDAR-SI NEGLI OCCHI PER CONOSCER-SI, FORSE, BISOGNA RI-PRENDERE IL CAMMINO PROPRIO DALLA #CRITICA DELLA "RAGIONE PLATONICA". Se è vero, come è vero, che Giorgio Colli inizia il suo cammino di ricerca da una rilettura attenta del "Simposio" e dall’ "Alcibiade primo" e che, poi, giunga a tradurre la "Critica della ragion pura" di Kant" (Alfonso M. Iacono, "Giorgio Colli: la dismisura nella misura", "Doppiozero", 04 Febbraio 2025), c’è da pensare che, per realizzare l’antichissimo desiderio «di fare, di due, uno», e così, di «guarire la natura umana» (Platone), probabilmente, si dovesse andare a fondo con Kant e reimpostare la questione.
"CHIUDERE UN OCCHIO" O "#APRIREGLIOCCHI"?! CON #FREUD, #OLTRE: CREDO CHE SIA UNA OTTIMA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SUL TEMA, RIPARTENDO da alcune domande poste in "An Inquiry into Beauty" (cfr. Vincent De Luise, Fbook, 02 febbraio 2025).
Chiedersi se "La bellezza è negli occhi di chi guarda? O la bellezza è nel cervello di tutti coloro che la guardano?"; e, al contempo, accogliere come validi i dati disponibili, che "suggeriscono la seconda ipotesi" (cit.), da una parte si richiamano antiche questioni che risalgono almeno a #Platone (appunto, con tutte le conseguenze del caso) e, dall’altra, si rinvia quantomeno a una rilettura del "Manuale di Ottica fisiologica" di un "discepolo" di Kant: Hermann von Helmholtz.
DUE OCCHI E UNA SOLA "#IDEA" ("VISIONE"). Helmholtz, nel varco aperto epistemologicamente da Kant, si porta sia al di là della dimensione euclidea dello #spazio e del #tempo (aprendo con #Riemann la via alle geometrie non euclidee e alla fisica di #Mach e #Einstein), e, ancora, sia sulla strada di studi "galileianamente" intesi sulla #fisiologia della #percezione, in #ottica e in #acustica, entro cui si colloca la stessa #neuroestetica.
Già solo capire che #Nietzsche, proprio dalla conoscenza delle ricerche di Helmholtz (mediata dalla lettura dell’opera di Friedrich A. #Lange, "Storia del materialismo e critica del suo significato nel presente"), scrive "#Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali" (1881), sollecita a ripensare meglio il suo rapporto non solo con Kant, ma anche lo stesso Socrate e Platone (il cristianesimo storico e la tradizione illuministica e scientifica) e il "#Crepuscolo degli #idoli".
"VERE DUO IN CARNE UNA": PER UNA STORIA CRITICA DELL’ARITMETICA E DELLA GEOMETRIA DELLA "SOLITUDINE".... E DEL "CONTRATTO #SOCIALE" TEOLOGICO-POLITICO DEL TRAGICO "PREISTORICO" PRESENTE,
RIPRENDERE IL #PROGRAMMA DI KANT (CON BERNHARD #RIEMANN E HERMANN VON #HELMHOLTZ) *
RICORDANDO (E RICORDATO) CHE JEAN PAUL RICHTER, sulla strada di Jean - Jacques Rousseau, precisa e chiarisce (prima di tanti altri e di tante altre) che "PER MANCANZA DEL #DUE NON [SI] PUO’ #CONTARE FINO A #UNO" ("Levana, 1807), sia opportuno fondamentale uscire dall’orizzonte del "#solipsismo" (e del #narcisismo edipico-tragico della "#cosmoteandria" teologico-politica) e ACCOGLIERE L’INDICAZIONE E LA LEZIONE DI #VITTORIO #MATHIEU:
OGNI ESSERE UMANO E’ UN "DUE IN UNO". SU QUESTA STRADA DI "UN SOGGETTO ATTIVO E RECETTIVO", si comprende come Kant abbia potuto aprire (così ULISSE E DANTE) la porta della caverna polifemica e platonico-paolina, comprendere le ragioni stesse della "#Claustrofilia (E. Fachinelli, 1983), e, con e oltre Newton, portarsi "sulla spiaggia" (E. Fachinelli, 1985), e offrire la chiave per un ri-orientamento gestaltico e antropologico, e, al contempo, per una ri-comprensione del #partorire, del nascere, e del rinascere (Federico LA Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", 1991).
* SUL "VERE DUO IN CARNE UNA". NOTE SUL PROGRAMMA DI KANT, mi sia lecito, cfr. il primo capitolo di un mio lavoro del 2010: Federico LA Sala, "KANT, FREUD, E LA BANALITA’ DEL MALE" ).
VITA E FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, E TEOLOGIA-POLITICA:
PER UN’ALTRA CONCEZIONE DEL CONCETTO (E DEL CONCEPITO).
UNA "VECCHIA" SOLLECITAZIONE AD USCIRE DALL’ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA E DEL PLATONISMO. "Sàpere aude": riprendere il "programma" di Kant, e, con Helmholtz, orientarsi meglio nel pensiero e nell’azione...
Ubuntu: una parola da e per non dimenticare.
Una nota a margine della Lettera enciclica SULL’ EUCARISTIA (del 17.04.2003):
"[...] La storia sembra finita: la Chiesa non permette a Milingo di essere sposato . .. e Maria promette di seguirlo nella sua missione. Che peccato e che confusione! A questo punto credo che sia necessario e doveroso mettere in evidenza il terreno e le radici da cui è nato e nasce lo scandalo. La questione ruota intorno alla parola-chiave padre o, se si vuole, abate (cfr. l’omonima voce del Dizionario filosofico di #Voltaire), e mette in gioco non tanto e solo la vita interna della Chiesa ma la libertà e la dignità di tutti gli uomini e di tutte le donne in carne ed ossa. Il cardinale Milingo è stato quello che è stato ed è quello che è, ma ora e in questo caso il suo Partito, quello dell’Uomo-Dio, se ha vinto un’altra battaglia, ha perso la faccia e la guerra. E per gli uomini dell’Apparato le parole di Voltaire saranno ancora e sempre più all’ordine del giorno: "badate che non venga il giorno della ragione".
[...] è da dire che è proprio dall’#Africa e, in particolare, dal #Sudafrica di Mandela, De Klerk e Tutu, che è venuta alla luce una grande novità - la fine dell’apartheid e la fondazione di una nuova repubblica democratica, e ci viene una bella indicazione. In occasione della giornata ONU alla memoria in onore dei milioni e milioni di esseri umani ridotti in schiavitù, Desmond Tutu ha ricordato a tutti e a tutte che nella lingua del Sudafrica hanno da sempre una parola-bussola per non perdersi nella disumanità e nella barbarie: ubuntu - le persone diventano persone attraverso altre persone. Forse vale la pena fissarla per sempre. Così sapremo orientarci sia nel pensiero sia nel mondo, ed evitare a noi stessi e a noi stesse come ai vari Milingo e alle varie Marie di vendere la propria anima, di rinnegare il rinnegamento della propria dignità di esseri umani, e costruire una società - come esortava don Milani - che sappia dire ai suoi giovani e alle sue giovani che sono tutti e tutte sovrani e sovrane o, che è lo stesso, figli e figlie del Dio di Maria e di Giuseppe.... non figli e figlie di Nessuno! Non cè alcuno che è sapiente o buono come Dio, così ha insegnato Socrate e così ha insegnato Gesù: perché continuare a confondere le idee e impedire il dialogo ... e l’eucaristia tra tutti gli esseri umani? ("Il dialogo.org", 30 aprile 2003)
* Pietro Barbetta: "Gilles Deleuze, matematiche dinamiche. Il testo di Andrea de Donato Morfogenesi del concetto. Matematica e stile a partire da Deleuze, immanenza e molteplicità, edito da Orthotes, fornisce un importante contributo per ripensare la matematica dal punto di vista filosofico. [...]
A partire dal libro di de Donato, potremmo sostenere che i sistemi patologici sono sistemi assiomatici, come la geometria euclidea" (PietroBarbetta, "Gilles Deleuze, matematiche dinamiche", Doppiozero 1 dicembre 2024).
QUALE EUROPA PER UN "BUON 2025"?: UNA STORIA DI LUNGA DURATA E
UNA ORAZIANA SOLLECITAZIONE SUL "SAPERE AUDE!" (KANT, KOENIGSBERG, 1784; KALININGRAD, 2024) DA RIPRENDERE...
RICORDANDO CHE “La guerra non si abolisce coi trattati, ma stimolando la riflessione e la cultura di tutti”, come sosteneva Gino Strada, forse, oggi alla fine del 2024, io renderei omaggio anche alla memoria di Enrico Berlinguer che, il 15 dicembre del 1981, dichiarò la fine della "spinta propulsiva" della rivoluzione sovietica, anticipando sia la svolta di #Gorbaciov sia la caduta e la fine del "comunismo" russo, e, con esso, del "muro di Berlino" (1989). Al contempo, e insieme, renderei allo stesso Michail Gorbaciov (cfr. foto, "vignetta" allegata, "Le Monde" 1989) e, ancora, ad Antonio Gramsci (1891-1937).
CULTURA E #SOCIETA’. Alla luce dell’avvio del #Giubileo2025 e delle celebrazioni dell’anniversario del #Primo #Concilio di #Nicea (325), una importante #analogia (carica di #teoria) sulla relazione tra il #cristianesimo e il #paolinismo e il #marxismo e il #leninismo, fatta da Gramsci:
"POSIZIONE DEL #PROBLEMA. [...] Marx è un creatore di Weltanschauung, ma quale è la posizione di Ilici? È puramente subordinata e subalterna? La spiegazione è nello stesso marxismo - scienza e azione -. Il passaggio dall’utopia alla scienza e dalla scienza all’azione (ricordare opuscolo relativo di Carlo Radek). La fondazione di una classe dirigente (cioè di uno Stato) equivale alla creazione di una Weltanschauung. [...] Marx inizia intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità, 〈superata〉 da concezione della libertà). Fare un parallelo tra Marx e Ilici per giungere a una gerarchia è stolto e ozioso: esprimono due fasi: scienza-azione, che 〈sono〉 omogenee ed eterogenee nello stesso tempo. Così, storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo: Cristo-Weltanschauung, S. Paolo organizzazione, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessarii nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, non teorico)." (A. Gramsci, "Quaderno 7 § 33").
Scienza e fede.
Big Bang o esistenza di Dio, le prove da sole non bastano
Il discorso sulla fede e quello sulla scienza ci costringono a riflettere in ultima analisi sull’umano e sulle coordinate fondamentali della vita, ivi compresa la capacità di pensare.
di Roberto Presilla (Avvenire, venerdì 27 dicembre 2024)
Nel numero 10 del supplemento Gutenberg - intitolato Tracce di Dio - vari studiosi sono intervenuti sul tema del rapporto tra scienza e fede. Quale contributo alla discussione, può essere utile soffermarsi su due questioni differenti ma collegate: in che senso possiamo dire che la teoria scientifica del Big Bang sia corroborata dai dati e in che modo possiamo intendere le cosiddette prove dell’esistenza di Dio.
Per quanto riguarda la teoria del Big Bang, non si tratta qui di spiegarne la tenuta scientifica o il tipo di considerazioni che la sostengono. Però si può ricordare che esistono dei risultati, come ad esempio un teorema di [David] Malament del 2009, che mostrano come la teoria cosmologica sia strutturalmente “sottodeterminata” dai dati. Da un punto di vista generale, relativo a una qualsiasi teoria scientifica, il problema è noto e relativamente semplice: la quantità di dati a disposizione non determina in modo univoco la struttura della teoria. Per capirlo possiamo immaginare di fare un esperimento su un minerale fittizio, l’artificialite, rielaborando un esempio di Quine.
In un primo esperimento supponiamo che qualcuno abbia scoperto che questo materiale, solido a temperatura ambiente, diventa liquido a 82°C. Tuttavia, al momento di replicare i risultati in un altro laboratorio, l’artificialite non fonde a quella temperatura, ma richiede 105° C. La nostra microteoria scientifica - l’artificialite fonde a 82°C - sembra smentita dai fatti: è quindi falsa e dovremmo abbandonarla? Prima di procedere oltre, lo scienziato rigoroso prova a ripetere nuovamente l’esperimento per escludere fattori imprevisti che potrebbero aver influenzato il risultato: controlla per esempio che l’apparecchio per la misurazione sia tarato a dovere e funzioni bene, che il campione di artificialite abbia lo stesso grado di purezza del primo, e così via. Si assicura insomma che una serie di ipotesi accessorie siano vere. Anche quando avesse scoperto che le cose stanno così, potrebbe comunque ancora difendere il primo risultato ipotizzando qualche cambiamento in una porzione di scienza più ampia.
Questa situazione viene normalmente definita “sottodeterminazione” empirica delle teorie: i risultati degli esperimenti non possono da soli dire se la teoria è sbagliata oppure no. Ci dicono piuttosto che qualcosa non torna: sta a noi e al nostro ingegno capire che cosa effettivamente vada cambiato. È una situazione del tutto normale nella scienza: il risultato di Malament relativo alla teoria cosmologica (più precisamente, alla struttura globale dello spazio-tempo) aggiunge che non c’è nessun esperimento in grado di indicarci quale teoria potrebbe essere sbagliata. Sulla base dei dati, insomma, possiamo costruire modelli cosmologici diversi, incompatibili tra loro. È un problema? Solamente se pensiamo che l’unico criterio di razionalità sia quello della pratica scientifica, se crediamo insomma che una domanda razionale ammetta solo risposte fondate su prove scientifiche.
La domanda cui cerchiamo risposta è prima di tutto filosofica: che cosa sono lo spazio e il tempo? Il modo in cui le teorie scientifiche ci costringono a rimodulare i concetti non può nascondere il fatto che, comunque, la questione che ci poniamo è metafisica; riguarda cioè la nostra concezione del tempo e dello spazio e il modo in cui riusciamo, per così dire, a “farcene una ragione”.
Che cosa ci dicono le “prove” dell’esistenza di Dio? Dio esiste o no? In un caso e nell’altro le argomentazioni non sono conclusive. Esse ci invitano, però, a riflettere sul tipo di razionalità che accettiamo. Come ha ben sottolineato MacIntyre in un volume del 2009 (God, Philosophy, Universities), la differenza tra il teista e l’ateo non riguarda l’enunciato “Dio esiste”. Il punto non è che il primo crede che l’enunciato sia vero, mentre il secondo crede che sia falso. La differenza reale riguarda gli standard di razionalità: per il teista è ammissibile riflettere razionalmente sulla domanda “l’universo è stato creato da Dio?”, mentre per l’ateo questa domanda non può essere nemmeno posta. Il teista ritiene che la domanda circa l’esistenza di Dio sia razionale e cerca una risposta altrettanto razionale; l’ateo espunge la domanda per avvalersi di una razionalità “puramente” scientifica. Molte cose passano per questa differenza: per esempio, discutere la fede appartiene allo spazio pubblico - come ha affermato papa Francesco lo scorso 15 dicembre in Corsica - o riguarda aspetti a cui ciascuno pensa per conto proprio? Ancora: è ammissibile che all’università si compiano studi teologici? O è contrario alla ragione stessa, una “cosa da pazzi”, per dirla in modo colloquiale?
La domanda su Dio, insomma, ci costringe a riflettere sullo spessore e l’ampiezza del nostro concetto di razionalità. È chiaro che una riflessione di questo tipo ha uno spessore teologico, ma il problema resta, alla radice, filosofico: parlare di Dio significa dire anche qualcosa sull’umano?
Come si vede, le due questioni sono in certa misura analoghe. Il discorso sulla fede e quello sulla scienza ci costringono a riflettere in ultima analisi sull’umano e sulle coordinate fondamentali della vita, ivi compresa la capacità di pensare. Forse da queste riflessioni può venire un aiuto a meglio situare la questione, oggi fin troppo dibattuta, di che cosa possa essere un’intelligenza “artificiale”.
CON "IL PANTHEON SUL PARTENONE", FATTO "SAN PIETRO DI ROMA" (VICTOR HUGO, 1831):
MICHELANGELO E IL TRAMONTO DEL "RINASCIMENTO" (O, DIVERSAMENTE, L’INIZIO DEL "CONTRORINASCIMENTO").
L’ ARCHITETTURA E IL LIBRO: L’INVENZIONE DELLA #STAMPA. Victor Hugo, in "Notre-Dame de Paris 1482", pubblicato nel 1831, in poche pagine sottolinea tutta l’importanza dell’#apertura di infiniti occhi, connessa al grande "occhio" che si apre nel #cielo culturale dell’#Europa #moderna con la invenzione di Gutenberg.
Nel cap. II del L. VII dell’opera, Hugo così inizia:
PIANETATERRA: UN #PANTHEON DA RIPENSARE E IL #SOLSTIZIO D’#INVERNO. UNA TRACCIA PER UN "RIORIENTAMENTO GESTALTICO" E UNA "#SVOLTA_ANTROPOLOGICA": APRIRE LA "PORTA" DELLA "#TERRA" ALLA #LUCE DEL #SOLE...
ARCHITETTURA #ECOLOGIA #FILOSOFIA E #OCULISTICA. Una nota sull’#occhio del Pantheon:
"[...] L’Oculus è un’apertura nel soffitto della cupola, realizzata con un diametro di oltre 8 metri, e rappresenta l’unica fonte di luce naturale all’interno dell’edificio. La sua creazione risale al I secolo d.C., quando l’imperatore romano Adriano fece ristrutturare l’antico Pantheon, che originariamente risaliva al 1 a.C.
Questo misterioso occhio circolare non solo illumina con la luce del sole l’interno del Pantheon, ma ha anche una funzione simbolica e mistica. L’Oculus rappresenta una connessione tra l’edificio e il cielo, come se un raggio di luce divina scendesse in quel santuario dedicato agli dei.
Inoltre, l’Oculus è stato progettato in modo tale da favorire una perfetta distribuzione dei pesi della cupola, che ha contribuito alla straordinaria stabilità e durevolezza di questo monumento. La cupola è in cemento e la sua costruzione fu una straordinaria opera di ingegneria per l’epoca.
L’Oculus del Pantheon offre anche un affascinante spettacolo naturale durante i giorni di pioggia. La pioggia che entra dal foro forma un effetto suggestivo, simile ad una cascata rovesciata, creando un’atmosfera mistica all’interno del tempio. [...]" (cfr. Accademia Studio Italia, "Il misterioso occhio del Pantheon: un buco nel paradiso!").
MITOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E CRITICA DELLA "RAGIONE OLIMPICA":
RIPRENDERE IL FILO DA ARTEMIDE E DALLA "APOLOGIA" DI #PLATONE DEL SOCRATE "LEVATRICE" E PORTARSI CON #DANTE E #VIRGILIO E #BEATRICE FUORI DALL’INFERNO...
Una sollecitazione a riflettere (ancora e meglio) sulla teologia-politica della relazione uomini e donne nell’antica Grecia (#Eschilo, #Sofocle, ed #Euripide) e sul tema del #comenasconoibambini (ancora oggi, all’ordine del giorno).
COME ARTEMIDE (#DIANA), LA #SORELLA DI #APOLLO, VENNE "AGGIOGATA" AL CARRO DELL’#ANIMA DI UN "APOLLINEO" PLATONE, SOSTENUTO DA UN SOCRATE, CHE "GIOCAVA" A FARE (COME LA #MADRE #FENARETE, DIVENUTA STERILE, E LA STESSA #VERGINE ARTEMIDE) L’OSTETRICO PER SOLI MASCHI.
#ARTE DELLA #MAIEUTICA E "#AGRICOLTURA". Nel "Cratilo", Platone, nell’etimologie dei nomi degli dei e delle dee, così scrive:
FILOSOFIA E SOCIETA’: "LA NASCITA DELLA TRAGEDIA". * All’altezza dell’anno 2024, e dopo la rivoluzione copernicana e dopo i "maestri del sospetto" (Marx, Nietzsche, e Freud), si continua a concepire la relazione uomo-donna secondo la concezione della tragica #segnatura della "Scuola di Atene" (Raffaello, 1509-1511) e del "#Sapiente" (1510) di #Bovillus, vale a dire come lezione di Platone dal "Teeteto":
SOCRATE E L’APOLOGIA DEL "COMPROMESSO OLIMPICO". Eschilo aveva già chiarito molto bene la "ragione" del volere di Apollo e Atena e dello stesso discorso di Platone nel "Teeteto": «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...» (Eschilo, "Eumenidi").
ANTROPOLOGIA, SOCIOLOGIA, ARCHEOLOGIA, E FILOLOGIA: L’HAMLETICA QUESTIONE DEL "#CORPO MISTICO" E DEL "#CAPO" DELLA "#POLIS" DI #EFESO AI TEMPI DI #ERACLITO...
RICORDANDO LE PAROLE-CHIAVI DELLA hashtag#FILOSOFIA,"IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS" (Gv., 1.1), QUALE LA #DIFFERENZA TRA IL LINGUAGGIO RELATIVO AL "PRIMOGENITO" (IL PRIMO "UNO" DI ALTRI #MOLTI "UNO") E IL #METALINGUAGGIO "COSTITUZIONALE" (DEL "LOGOS" E) DEL SUO "UNIGENITO" E MIGLIORE CITTADINO DI EFESO?!
QUALE LA DIFFERENZA TRA IL "PRESEPE" DI FRANCESCO DI ASSISI E QUELLO DELLA CHIESA "PAOLINA", FONDATA DA COSTANTINO (NICEA 325 - 2025)?
Per non perdere la bussola (e non confondere la Logica della #Costituzione (il #Logos) con la "logica" settaria e proprietaria di un partito o di un’azienda (il #logo), forse, può essere utile tenere presente la seguente riflessione dell arcivescovo di Poitiers, Albert Rouet (2010): «È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"» (2010):
A) UNIGENITO: unigènito agg. [dal lat. tardo, eccles., unigenĭtus, comp. di uni- «uno solo» e genĭtus, part. pass. di gignĕre «generare»]. - Che è l’unico generato, l’unico figlio; riferito quasi esclusivam. a Gesù Cristo, figlio unigenito di Dio secondo la teologia cattolica (anche s. m., l’U., Gesù Cristo). (Treccani)
B) PRIMOGENITO: primogènito agg. e s. m. (f. -a) [dal lat. tardo primogenĭtus, comp. di primo, avv., «dapprima» e genĭtus, part. pass. di gignĕre «generare»]. - 1. Detto di chi, tra più figli degli stessi genitori, è nato per primo: figlio p.; fratello p.; per estens., ramo p. (di una famiglia nobiliare), quello che ha per capostipite il figlio primogenito; come sost.: dei quattro figli, Alfredo è il p.; lo zio Alessandro era il primogenito. 2. fig. Che è venuto prima, più antico, e quindi più importante, o che tale per qualche motivo viene considerato (talora anche con il sign. di prediletto): la gramatica, primogenita del sapere e per ciò dagli antichi chiamata «arte prima» (V. Monti); la Francia è stata spesso chiamata la figlia p. della Chiesa. (Treccani)
PSICOANALISI, LETTERATURA, ANTROPOLOGIA, E FILOLOGIA...
"LUCIFERO-AMORE": UN NODO DA RIPENSARE E SCIOGLIERE. IL PROGRAMMA DI RICERCA E DI VITA DI SIGMUND FREUD
CONSIDERANDO CHE il titolo della #rivista di #storia della psicoanalisi, "#Luzifer-#Amor" (https://lnkd.in/darRW_ca ), rinvia consapevolmente a una lettera dello stesso #Freud, al suo amico #Fliess, del 10 luglio 1900, in cui egli scrive con grande lucidità che "I grossi problemi non sono ancora risolti. Tutto ondeggia e albeggia, un #inferno intellettuale, una cosa sopra l’altra, dall’abisso più profondo si profilano alla vista i tratti di Lucifero-Amore", a un anno dalla pubblicazione della "#Interpretazione dei #sogni" (1899), a ben ricordare, forse, è opportuno riflettere ancora su queste parole e ripensare a quelle connesse all’#Acheronta #movebo" (#Eneide VII, 312) in epigrafe all’opera.
L’associazione da parte di Freud, della figura della tradizione ebraico-cristiana di Lucifero e della figura greco-latina di Amore (#Virgilio, #Bucoliche, X. 69: "Omnia vincit Amor, et nos cedamus #Amori"), di #Eros-#Cupìdo, getta inedita #luce sul suo programma di #ricerca e sul suo cammino di #vita. (Sul tema, mi sia lecito, si cfr. FEDERICO LA SALA, "KANT, FREUD, E LA BANALITÀ DEL MALE").
NOTA:
Federico La Sala
L’#ANTROPOLOGIA, LA #LUCE DEL "#SÀPEREAUDE!" DELL’#ILLUMINISMO, E LA "SECONDA #RIVOLUZIONECOPERNICANA" IN #FILOSOFIA (ALL’O.D.G.).
HABERMAS, TRA HUME E KANT, IN GRAN DIFFICOLTÀ A VENIR FUORI DALL’ORIZZONTE DELLA #COSMOTEANDRIA PLATONICO-HEGELIANA E A FARE PASSI FUORI DALLA #CAVERNA, DALL0 "STATO DI MINORITÀ"...
ACCOGLIENDO LA CONSIDERAZIONE CHE HABERMAS, nella sua proposta di "Una storia della filosofia", a partire dal "Poscritto" della prima edizione del 2019, "comincia col sottolineare che, nella visione kantiana della postmetafisica, le #quattro domande sulla natura dell’uomo continuano a valere come prima. Anzi più di prima", "anche dopo la fine delle immagini-di-mondo - cioè anche dopo aver integrato al mondo della vita il sapere scientifico della natura - l’uomo allarga decisamente l’orizzonte della sua autoconoscenza",
SI PUO’ BEN CONDIVIDERE CHE ciò che ne segue e consegue non è solo e tanto il fatto che "Il sapere oggettivante della scienza non può non ampliare il rischiaramento soggettivo", ma ancor di più, quanto e proprio che le ragioni illuministiche stanno proprio nel "rischiaramento soggettivo" (da fare, storicamente) sollecitato dallo stesso Kant, con il suo oraziano "#sàpere #aude" (1784), che, forse, come ha intuito #MichelFoucault nel 1984 e meglio compreso, a suo tempo Theodor W. #Adorno, significava già ripartire dalla "quarta #domanda", quella antropologica ("che cosa è l’uomo?").
A PARTIRE DALLE INDICAZIONI della "Logica" (Kant, 1800), a mio parere, è da considerare, storiograficamente, che la domanda antropologica (e "cristologica", si pensi all’ "Ecce #Homo" di #Nietzsche, 1888), al di là delle pretese monoteistiche e androcentriche del #cattolicesimo paolino (un #paolinismo di lunga durata e delle illusioni swedenborghiane diffuse) ha già contribuito ad #aprire il #cantiere di una "#seconda rivoluzione copernicana", ma la cultura europea ha avuto paura di sé e ha preferito continuare sulla "tragica" visione ("monoculare", "ciclopica") dell’idealismo, del positivismo, e della tradizione religiosa paolina e costantiniana (atea e devota). (2 Novembre 2024).
FILOLOGIA E FILOSOFIA: CON KANT A EFESO, ALLA RICERCA DEL "LOGOS" PERDUTO...
Alcuni appunti a margine di UN CONTRIBUTO DI GRAMSCI PER "ORIENTARSI NEL PENSIERO" (#KANT) E TENTARE DI RIUSCIRE AD #ABITARE UN #PIANETATERRA COMUNE (ERACLITO): RI-PENSARE LA #QUESTIONEANTROPOLOGICA E #CRISTOLOGICA ("ECCE HOMO") E, AL CONTEMPO, LA #QUESTIONE TEOLOGICO-POLITICA DEL #CORPO MISTICO DELLA #COMUNITA’:
A) - "POSIZIONE DEL PROBLEMA: [...] Marx è un creatore di Weltanschauung, ma quale è la posizione di Ilici? È puramente subordinata e subalterna? La spiegazione è nello stesso marxismo - scienza e azione -. Il passaggio dall’utopia alla scienza e dalla scienza all’azione (ricordare opuscolo relativo di Carlo Radek). La fondazione di una classe dirigente (cioè di uno Stato) equivale alla creazione di una Weltanschauung. [...] Marx inizia intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità, 〈superata〉 da concezione della libertà). Fare un parallelo tra Marx e Ilici per giungere a una gerarchia è stolto e ozioso: esprimono due fasi: scienza-azione, che 〈sono〉 omogenee ed eterogenee nello stesso tempo. Così, storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo: Cristo-Weltanschauung, S. Paolo organizzazione, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessarii nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, non teorico)." (A. Gramsci, "Quaderno 7, § 33").
B) - PAOLO DI TARSO, IL "CITTADINO ROMANO", DIVENTA "CRISTIANO", E COSTRUISCE LA "WELTANSCHAUUNG" DEL SUO "PARTITO", FA DI #CRISTO IL "RE" DELLA "COSMOTEANDRIA" DELLA SOCIETA’ DEL SUO TEMPO, E COMINCIA A LAVORARE ALLA CONQUISTA DELL’#EGEMONIA SUI VARI "PARTITI" DEGLI APOSTOLI. Alcune note dai testi evangelici:
C) "IN PRINCIPIO ERA IL #LOGOS": STUDIANDO LE OPERE DI #SWEDENBORG, CON "I SOGNI DI UN VISIONARIO CHIARITI I SOGNI DELLA METAFISICA" (1766), PUR SE CON UN LAPSUS SIGNIFICATIVO DI "ARISTOTELISMO" RESIDUO, RISCOPRE LA LEZIONE DEL FILOSOFO DEL "LOGOS", #ERACLITO DI #EFESO ("Vegliando, noi abbiamo un mondo comune; ma sognando ciascuno ha il suo mondo") E INIZA A LAVORARE AL SUO PROGRAMMA DI CRITICA DELLA "RAGION "PURA, DELLA "RAGION PRATICA", E DELLA "CAPACITA’ DI GIUDIZIO" E,INFINE A RIFLETTERE SULLA "FINE DI TUTTE LE COSE" ( E SUL COSIDDETTO "CRISTIANESIMO") E, ANCORA, A RIPROPORRE E A RIAPRIRE LA QUESTIONE ANTROPOLOGICa ("LOGICA", 1800).
ANTROPOGENESI FILOLOGIA E FILOSOFIA: CHE GRANDE "PREISTORIA" DELL’INTERA #UMANITA’ DEL PIANETA TERRA!
RIPARTIRE DA CAPO, E IMPARARE A #CONTARE, A #CALCOLARE...
INDIVIDUO E #SPECIE: "L’ONTOGENESI RICAPITOLA LA FILOGENESI" (ERNST #HAECKEL).
MA QUALE "RICAPITOLAZIONE", COME DA #ANTROPOLOGIA COSMICA, QUALE QUELLA DI #DANTE ALIGHIERI ("L’#AMOR CHE MUOVE IL #SOLE E LE ALTRE #STELLE") O COME QUELLA (DELL’ATTUALE #PRESENTE STORICO) DA #ANDROCENTRISMO TEOLOGICO-POLITICO DA "#CAVERNA" PLATONICA E PAOLINA)?!
"SAPERE AUDE!" (#KANT, 1784). NON E’ IL CASO DI CORRERE AI RIPARI E, FINALMENTE, uscire dall’orizzonte della #tragedia e dal #letargo epistemologico e #correggere un’operazione #matematica "sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (#Franca Ongaro #Basaglia, 1978)!!!
COSMOTEANDRIA E STORIA. LA LEZIONE DI PAOLO DI TARSO:
"Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [ἀνήρ], e capo di Cristo è Dio [ ὅτι παντὸς ἀνδρὸς ἡ κεφαλὴ ὁ Χριστός ἐστιν, κεφαλὴ δὲ γυναικὸς ὁ ἀνήρ, κεφαλὴ δὲ ⸀τοῦ Χριστοῦ ὁ θεός.]"(1 Cor. 11, 1-3)
GIORNATA MONDIALE DELL’#ANATOMIA ("World Anatomy Day"): NON SOLO VESALIO.
GIOVANNI VALVERDE DE AMUSCO E LA "SCOPERTA" DEI "#TESTICOLI DELLE #DONNE" (cfr. allegato: cap. 15 del Libro III dell’ "Anatomia" di #GiovanniValverde, stampata a Roma nel 1560).
COME NASCONO I BAMBINI: #RIVOLUZIONE COPERNICANA (IN #TERRA E IN #CIELO) E #MENSCHWERDUNG. #AL TEMPO DI #FILIPPO II e #TERESA D’AVILA, il medico Giovanni Valverde riconosce alla #donna il ruolo attivo nell’atto del #concepimento e pone le premesse per l’#uguaglianza, per la "#ley de #igualdad".
MONDO (ATLANTE), VOLONTA’ (FILOSOFIA), E RAPPRESENTAZIONE (TEATRO): UNA #HAMLETICA TERAPEUTICA "TRAPPOLA DEL TOPO" ("THE MOUSETRAP"), PER SCHOPENHAUER (1788-1860), CHE PENSAVA CHE, "SOGNANDO, CHIUNQUE DIVENTA UNO SHAKESPEARE"!
NEI "Parerga e Paralipomena", Arthur Schopenhauer, sicuro del suo punto di vista, scrive: “La socievolezza appartiene alle inclinazioni più pericolose, persino distruttive, poiché ci mette in contatto con esseri la cui grande maggioranza è moralmente cattiva e intellettualmente ottusi o pervertiti”. Questa "superficiale" riflessione, porta a galla (a mio parere) tutta l’incomprensione, da parte di Schopenhauer e del suo "punto di vista", non solo del problema sociologico, ma anche del problema antropologico, sulla "socievolezza" in generale, e sul tema della #interpretazionedeisogni di "un #visionario" e della "#metafisica", già portata avanti da #Kant (a partire dal 1766), e, infine, sulla intera ricerca antropologico-politica e artistica portata avanti da #Shakespeare (all’epoca di #Elisabetta I d’Inghilterra, da non dimenticare).
ANTROPOLOGIA, #TEOLOGIA-POLITICA E #SOCIETA’: "COME NASCONO I BAMBINI" (S. Freud, Analisi terminabile e interminabile", 1937). Nei "Parerga e paralipomena", ancora, scrivendo che «Sognando, chiunque diventa uno Shakespeare», il grande filosofo mette in evidenza tutta la sua grande approssimazione nell’#analisi dei #sogni e, in particolare, delle opere in cui Shakespeare ha prodotto riflessioni importanti e su cui ancor oggi è bene riflettere (con Freud e oltre #Freud), come nell’#Amleto, sulla figura del "#corpomistico" del Re, sulla figura del #Macroantropo, come in "Antonio e Cleopatra", e, in generale, sulla #piramide androcentrica di tutti i teorici della #produzione della "società" della tradizione teologico-politica dell’#Occidente, compreso lo stesso Schopenhauer.
NOTA:
ANTROPOLOGIA FILOSOFIA E ANDROCENTRISMO: "ECCE HOMO" (NIETZSCHE, 1888).
LA SFINGE CHIESE AD EDIPO, "CHI SEI ?"; EDIPO "PLATONICAMENTE" RISPOSE: "L’#UOMO!" [#ANTHROPOS].
STORIA #LETTERATURA E #STORIOGRAFIA. #PILATO INDICO’ #GESU’ ALLA #FOLLA E DISSE: "ECCE HOMO" ( «Ecco l’uomo», «ἰδοὺ ὁ #ἄνθρωπος»).
#TEOLOGIA-POLITICA E #COSMOTEANDRIA. LA LEZIONE DI #PAOLODITARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [ἀνήρ], e capo di Cristo è Dio [ ὅτι παντὸς ἀνδρὸς ἡ κεφαλὴ ὁ Χριστός ἐστιν, κεφαλὴ δὲ γυναικὸς ὁ ἀνήρ, κεφαλὴ δὲ ⸀τοῦ Χριστοῦ ὁ θεός.]"(1 Cor. 11, 1-3).
"PERSONA E DEMOCRAZIA. La storia sacrificale" (M. Zambrano, 1958): "María Zambrano non ha venduto l’anima all’Idea" (Emil M. Cioran, "Esercizi di ammirazione. Saggi e ritratti", Adelphi, 1988).
Sul tema, cfr. "Le parole di Antigone nella riscrittura novecentesca di María Zambrano" (di Camilla Tibaldo, Treccani, 13 gennaio 2020).
CHI INSEGNA A CHI CHE COSA COME?! INSEGNAMENTO E COSTITUZIONE: CHI INSEGNA AI MAESTRI E ALLE MAESTRE A INSEGNARE?!
L’ALGORITMO DELLA TRAGEDIA (SOCRATE-PLATONE-PAOLO DI TARSO-HEGEL) E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA POSTA DA KANT ("LOGICA", 1800). L’autonomia dello apprendimento e l’#apprendimento dell’autonomia, concepito l’una e l’altro, secondo le indicazioni dell’#illuminismo kantiano (1784), a mio parere, riposa sul #coraggio ("aude") del servirsi della propria intelligenza, sulla propria #capacità e sulla propria #volontà di "mangiare" e "bere" ("#sàpere") da parte dell’alunno e dell’alunna, e non sulla #maieutica di un Socrate che gioca a "sapere di non sapere" con l’alunno-schiavo ("#Menone") a dargli lezioni sul "non sapere di sapere"!
COME NASCONO I BAMBINI (LE IDEE, E I SOGNI): "SAPERE AUDE!" Il "problema Socrate", posto da #Nietzsche e nonostante Nietzsche, è del tutto ignorato e la sollecitazione di Michel Foucault a ripensare il rapporto "illuminismo e critica" (1984) è ancora fuori dall’agenda dei lavori del mondo della "platonica" Accademia e dell’"aristotelico" Liceo: che il trecentesimo anniversario della nascita di Kant (1724-2024) possa essere una buona occasione per cominciare!
PIANETA TERRA E COSMOTEANDRIA:
TRACCIA PER UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA (KANT, 1724- 2024).
STORIA DELLA #CIVILTA’ E #FILOLOGIA: COME IL #PRINCIPIO ANTROPOLOGICO (TEOLOGICO E COSMOLOGICO) E’ STATO DECLINATO DALL’ANDROCENTRISMO (PLATONICO-PAOLINO ED HEGELIANO), NEI SECOLI DEI SECOLI, FINO A DIVENTARE PRINCIPIO "ANTROPICO", IN UNA SINTETICA "#PIRAMIDE" PROPOSTA DAL "#SAPIENTE" (1510) DI #BOVILLUS (v. allegato).
PSICOANALISI DELLA SOCIETA’ CONTEMPORANEA:
I GIGANTI SULLE SPALLE DEI BAMBINI E "LA SOCIETA’ SANA" ("THE SANE SOCIETY", 1955).
UNA NOTA SUL "TEMPO FUORI DAI CARDINI" E L’ANSIA DELLA "DE-GENERAZIONE" DELLO STORICO PRESENTE
SOCIOLOGIA, PEDAGOGIA, E PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE. SE DA MOLTI DECENNI I #PIFFERAI GIGANTI dei "mass-media" e dei "social media" (veri e propri "cavalieri dell’apocalisse"), a cui "abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi" (come denunciava McLuhan), si sono ormai seduti sulle spalle dei "#bambini" e degli stessi "#genitori", non è forse il caso di uscire, con Dante Alighieri, dal #letargo e dall’#inferno, e cercare di ripensare e chiarirsi le idee, con "Amleto" (III.2), sulla "trappola per topi" ("The Mousetrap"), e portare sulla scena il "giogo" del "pifferaio" dello "stato di Danimarca" planetario"? Se non ora, quando?!
P.S. - IL #BAMBINO SULLE SPALLE DEL GIGANTE: SAN CRISTOFORO.
UN "BAMBINO" SULLA SPIAGGIA DELL’#OCEANOCELESTE (KEPLERO A #GALILEO, 1611): ISAAC NEWTON (1643 - 1727).
ANTROPOLOGIA FILOSOFICA, RIVOLUZIONE COPERNICANA, E IMMAGINAZIONE SCIENTIFICA E TEOLOGICO-POLITICA...
“If I have seen further it is by standing on ye sholders of Giants.” (Isaac Newton). A ben riflettere, nel trecentesimo anniversario della #nascita di #Kant (1724 -2024), è bene anche ripensare all’intera opera di Newton ("Trattato sull’Apocalisse") e, dalle sue stesse parole, a un possibile "sottile" richiamo "cristologico", a sé stesso come un "#bambino" (#Cristo), portato sulle spalle dal #gigante "#Cristoforo" (che a sua volta diventa un altissimo "#Cristofaro", come da parola di #Alexander #Pope, poeta amatissimo da Kant).
NOTA. #Filologia #Antropologia #Teologia e #Pedagogia. "On The #Shoulders Of #Giants" (#OTSOG). "Senza di loro non vedremmo nulla, su di loro vediamo più lontano di questi San Cristoforo" (cfr. #Umberto #Eco, Introduzione all’edizione italiana: "Dicebat Bernardus Carnotensis" del libro di Robert K. #Merton, "Sulle spalle dei giganti", Società editrice il Mulino, Bologna1991).
IL DISAGIO DELLA CIVILTA’ E IL PROBLEMA "KARL MARX": LEWIS MUMFORD E LA GRANDE MACCHINA. Alcuni appunti sul tema*
Lewis Mumford e la Grande Macchina
di Alfonso Berardinelli (Una Città n° 292 / 2023 aprile-maggio)
Eminente e tipico umanista americano, storico della cultura, del lavoro e della tecnica, Lewis Mumford (1895-1990) è stato fin dagli anni Trenta del Novecento un pensatore sociale che non ha cessato di indagare sulle strutture materiali, sulle utopie e sulla loro influenza sulla vita individuale e collettiva. L’eccezionale ampiezza dei suoi orizzonti di ricerca, che vanno dalla preistoria al mondo attuale, ne fanno uno degli autori tutt’ora più utili alla riflessione sul destino della civiltà umana. I suoi maestri connazionali, soprattutto Emerson e Veblen, fanno di Mumford un filosofo sociale che ha sempre stentato a entrare nella cultura italiana. Oggi che si parla di tramonto dell’umanesimo, sempre più minacciato dal “postumano” tecnologico, Mumford va riletto: e colui che più lo ha riletto e usato è il francese Serge Latouche, nel suo saggio La Megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso (Bollati Boringhieri, 1995).
Il termine “Megamacchina” ripreso da Latouche viene in effetti da Mumford, che ne ha fatto ripetutamente uso approfondendone e ampliandone il significato nella storia delle civiltà. I suoi libri più importanti e famosi sono Storia delle utopie (1922), La cultura delle città (1938), La città nella storia (1961), Le trasformazioni dell’uomo (1956), Il mito della macchina (1967). Per Mumford la Megamacchina è un insieme organico, un’organizzazione sociale complessa e funzionale che produce e controlla forme di lavoro e di vita, il tipo di individui e il loro rapporto reciproco.
Nel suo libro sul pensiero di Mumford e i suoi sviluppi dell’interpretazione del presente e del futuro prossimo, Latouche comincia anzitutto con questo riassunto:
Lewis Mumford ci ha insegnato che la macchina più straordinaria inventata e costruita dall’uomo non era altro che l’organizzazione sociale. La falange macedone, l’organizzazione dell’Egitto faraonico, la burocrazia celeste dell’impero dei Ming sono “macchine” di cui la storia ricorda l’incredibile potenza. L’impero di Alessandro ha durevolmente sconvolto i destini del mondo; le piramidi d’Egitto stupiscono ancora l’uomo del XX secolo e la grande muraglia cinese resta fino a oggi la costruzione umana più visibile dalla Luna. In queste organizzazioni di massa, che combinano la forza militare, l’efficienza economica, l’autorità religiosa, la performance tecnica e il potere politico, l’uomo diventa l’ingranaggio di un meccanismo complesso che raggiunge una potenza quasi assoluta: una Megamacchina. Le macchine semplici o complesse partecipano al funzionamento dell’insieme e ne forniscono il modello. (Latouche, op. cit., pagina 9)
Si parte da lontano, come ha fatto Mumford nelle sue opere, per arrivare al Novecento e al futuro. Dai “tempi moderni” rappresentati genialmente da Chaplin negli anni Trenta (in cui l’uomo che lavora viene nutrito roboticamente alla catena di montaggio) all’imprenditore tedesco Walter Rathenau, che nella Germania di Weimar parlò di “meccanizzazione del mondo”, si arriva comunque al “grande automa”, che è la fabbrica della grande industria capitalistica, di cui aveva parlato Marx.
A conclusione dei suoi vari studi storici sulle trasformazioni tecniche e sociali, Mumford si rivela uno dei più decisi analisti e critici del Progresso. Prima di dare un certo spazio alla speranza, in spirito di utopia morale e perfino spirituale, Mumford delinea un ritratto particolarmente pessimistico degli attuali esiti a cui arriva il progresso meccanico-organizzativo:
Con lo sviluppo futuro dei sistemi cibernetici che permettono di prendere decisioni su problemi che, a causa della loro complessità e delle loro astronomiche serie numeriche, superano le capacità umane di pazienza e di calcolo, l’uomo post-storico sarà in grado di spodestare il solo organo umano di cui sembra importargli qualcosa: il lobo frontale del cervello. Creando la macchina pensante, l’uomo avrà compiuto l’ultimo passo verso l’assoggettamento alla meccanizzazione: e l’abdicazione finale davanti al suo stesso ingegno gli fornirà un nuovo oggetto da adorare: il dio cibernetico. Questa nuova religione richiederà ai suoi fedeli una fede ancora più cieca di quella pretesa dal Dio dei monoteismi: la certezza che tale demiurgo, i cui calcoli non potranno essere umanamente verificati, darà solo risposte corrette...
Generalizziamo tale risultato e vediamolo per quello che è. Una volta che l’automa avrà raggiunto la perfezione, l’uomo diventerà completamente estraneo al suo mondo e sarà ridotto a nulla: il regno, il potere e la gloria apparterranno alla macchina. Piuttosto che stabilire una ricca relazione di senso con la natura per guadagnarsi il suo pane quotidiano, l’uomo sarà condannato, a condizione di accontentarsi dei prodotti e dei surrogati forniti dalla macchina, a una vita di benessere senza sforzi. Tale benessere, più precisamente, sarà privo di sforzi se egli imporrà a se stesso di consumare esclusivamente i prodotti che di continuo la macchina gli fornirà, indipendentemente dal proprio grado di sazietà. Lo stimolo a pensare, a sentire e ad agire, in definitiva lo stimolo a vivere, scompariranno presto.
Negli Stati Uniti l’uomo, a causa della sua dipendenza dall’automobile, ha già cominciato a perdere l’uso delle gambe. Fra non molto condurrà una vita puramente viscerale, basata sullo stomaco e le parti genitali, benché ci siano ragioni per pensare che anche qui si applicherà il principio del minimo sforzo. Le madri americane non sono forse incoraggiate da molti medici a non allattare i loro figli? Da un punto di vista post-storico il latte in polvere è ben più soddisfacente dell’esperienza psicosomatica della tenerezza materna procurata dall’allattamento al seno. La scienza farà in modo di procurarci un orgasmo privo di sforzi per mezzo di una macchina eliminando così le incertezze dell’attaccamento umano e il bisogno di contatto fisico. Sarà questo un aiuto necessario all’inseminazione artificiale? Oggi si comincia solo a intravedere gli effetti del disprezzo per i processi organici e il tentativo ostinato di sostituirli a tutti i costi con surrogati meccanizzati. (Mumford, Le trasformazioni dell’uomo, 1972, a cura e con un saggio di Massimo Rizzante, Mimesis, 2021, pp. 178-79)
Il quadro che ci offre Mumford sembra integrare e aggiornare in un orizzonte di tecnoscienza in continua crescita quanto venti anni prima previde politicamente e socialmente Orwell in 1984. La prospettiva è tale che il suo esito non potrà che essere autodistruttivo. È solo per questa ragione che forse non si arriverà a realizzare una così totale meccanizzazione dell’umano. Mumford perciò aggiunge: “L’uomo post-storico, questa creatura completamente assoggettata alla macchina e che tristemente si è adeguata alla pseudo-vita dei suoi sistemi automatizzati, è una possibilità teorica, non una probabilità storica [...]. Malgrado tutto il potere della tecnica e la forza dei numeri, l’uomo post-storico possiede ancora una limitata speranza di vita” (ibid., p. 183). Come disse Orwell a proposito del suo 1984, “Non permettete che questo accada. Dipende da voi”.
A sua volta Mumford tenta di disinnescare l’incubo che lui stesso ha messo a fuoco con tanta precisione. La sua proposta potrebbe essere confortante, ma richiederà condizioni particolarmente favorevoli e uno sforzo assai arduo: “Oggi il compito principale dell’uomo è quello di creare un nuovo io, capace di dominare le forze che agiscono in modo tanto rischioso quanto costrittivo”. Un tale “io nuovo” ha qualcosa di utopico poiché dovrà combattere contro una potente tendenza storica: “cercherà di non imporre una uniformità meccanizzata, ma di costruire un’unità organica basata sulla piena realizzazione di tutte le risorse che la natura e la Storia hanno messo a disposizione dell’uomo moderno [...] è venuto di nuovo il momento di una grande trasformazione storica. L’unità politica dell’umanità può essere concepita realisticamente solo come parte integrante di un tale sforzo di autotrasformazione” (ibid., p. 185). Sarà necessario, niente di meno, che “creare e tramandare una cultura mondiale” che sappia unire Occidente e Oriente, con le loro più antiche e migliori tradizioni religiose e filosofiche.
Nel suo La Megamacchina, quale uso ha fatto vent’anni dopo Serge Latouche delle idee di Mumford? Anche nel suo caso l’utopia riappare. Una formula da lui usata è che per “scegliere il progresso dell’uomo” sarà necessario “cambiare l’uomo del progresso”, cambiare cioè la tradizione culturale che negli ultimi due secoli ha trasformato l’idea illuministica di progresso nell’ideologia di una società centrata sulla produttività e sul commercio. Dal Settecento in poi, per dirla ancora con Mumford, “se i signori e i padroni della società hanno adorato qualcosa, questa cosa è stata la macchina”. Le varie Megamacchine tecniche e organizzative sono infatti state create per fare soldi: “La combinazione di un potere tecnico incontrollato -e incontrollabile- e della decomposizione dell’ordine mondiale rappresenta esattamente la miscela esplosiva più terrificante che si possa concepire per rendere invivibile il pianeta” (Latouche, op. cit., pp. 192-93). Se è vero che attualmente siamo a questo, il nostro sonnambulismo storico potrà esserci fatale.
*
"BEN SCAVATO VECCHIA #TALPA!" (MARX, 1852): #FILOSOFIA "#GOLEMANTICA", #PEDAGOGIA DEL "#CORPOMISTICO" DELLA "MACCHINA" SOCIALE DEL "CAPITALE", E #ANTROPOLOGIA.
Uno "#Spirito" ("#Ghost") si aggira ancora per l’#Europa. Con i "maestri del sospetto" (P. #Ricoeur), #Marx e #Freud e #Nietzsche, è bene riprendere la lettura dell’opera di #Shakespeare...
#KANT (1724-2024). #OGGI, ANCORA A #SCUOLA della androcentrica #macchina teologico-politica "niceale" (Nicea, 325 - 2025)?!
UN ALTRO "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE" E’ POSSIBILE: "#SÀPERE #AUDE! (KANT, 1784). Una "brillante" e "sorprendente" sollecitazione di #MaurizioFerraris a uscire dal #letargo (#Dante Alighieri) e a riconsiderare il problema della #liberazione, dell’uscita dallo "stato di minorità":
"BEN DETTO, VECCHIA TALPA" ("#AMLETO, I.5)! CON SHAKESPEARE, NON E’ TEMPO DI PORTARSI #OLTRE LA TRAGICA DOTTRINA ATEO-DEVOTA DEL "CORPO MISTICO" DEL RE ("#GOLEM"), OLTRE IL #PLATONISMO E IL #PAOLINISMO "CATTOLICO", "UNIVERSALE" - SE NON ORA, QUANDO?!
ANTROPOLOGIA (KANT), COSMOTEANDRIA, E "PREISTORIA" (#MARX): IL "NODO GORDIANO" DELLA STORIA D’EUROPA.
"RIFLESSIONI SISTEMICHE" (AIEMS - Associazione Italiana di Epistemologia e Metodologia Sistemiche). Una nota a margine della ripresa lodevolissima di una sollecitazione batesoniana a ripensare criticamente il "patrimonio" (del "matrimonio" ) della "caduta" biblica e della "cronica" tradizione "olimpica".
"La testura del sistema. La relazione nel pensiero di #GregoryBateson"(cfr. Lucilla Ruffilli e Giulia Testi, "Riflessioni Sistemiche", N° 30 - "Relazioni e cura", giugno 2024):
"[...] Nel 1970 Bateson propone una idea forte, la ’flessibilità’. [...]
Anche una cultura è un sistema adattativo, se una società sopravvive diciamo che la sua cultura è adattativa. Ma può darsi invece che la società vada verso l’autodistruzione. [...] Questo ci dovrebbe dar da pensare, suggerire di concentrarci non sul problema degli adattamenti immediati, ma sui cambiamenti a lunga scadenza.
Chiederci se questo adattamento è davvero tale che lo possiamo sopportare.
[...].
È adattativo abituarsi a sciogliere il nodo gordiano con la violenza del taglio?
Scrive Nora #Bateson:
Il mito è arrivato fino a noi, portato dalla sabbia del tempo, con il culto della Madonna che scioglie i nodi.
(statua della Madonna che scioglie i nodi nella basilica dei Santi Vitale, Valeria, Gervasio e Protasio al Quirinale) [...]" (cfr. Lucilla Ruffilli e Giulia Testi, "Riflessioni Sistemiche", N° 30 - "Relazioni e cura", giugno 2024).
UN’ASSENZA DELL’IO-SONO DI TRE SECOLI: KANT (1724-1804) E LA DANZA DEL PENSIERO, IN COMPAGNIA DI SAMUEL BECKETT, "ASPETTANDO GODOT" ("Dance first. Think later. / It`s the natural order"):
"L’IO ERA ASSENTE
di Pietro Barbetta ("Doppiozero, 11 aprile 2024).
Patologie, il breve testo di Antonella Moscati uscito per la collana storie di Quodlibet, si apre con un ironico omaggio al padre, “medico non medico”, esperto di dermosifilide - dermosifiloiatra, dermosifilologo, che, erroneamente, si autodefinisce dermosifilopatico - in un mondo che sta cambiando: il mondo attraverso cui abbiamo trascorso l’infanzia e l’adolescenza, che ha sostituito il buon senso romantico dell’igiene con la più sicura epidemiologia.
Antonella Moscati racconta la propria storia familiare attraverso la nomenclatura medica, sanitaria e igienica: vi si descrivono scene della quotidianità di una famiglia, con la madre impegnata a tenere insieme le relazioni, il padre, supposto medico, poco accreditato dentro e fuori dalle relazioni familiari, e infine le sorelle, apprensive. Nomenclatura medica ma anche nomenclatura casalinga che riguarda comunque la salute, come l’alimentazione, dove ciò che conta è la sostanza, dalla quale vengono escluse verdura e frutta, prediletta dall’autrice, a vantaggio di carne, pesce e pasta.
Il capo famiglia, nel racconto, combatte il batterio in epoca antibiotica, ma - in un certo senso - nega o ripudia il virus. Si può leggere questa prima parte dell’opera come un glossario sarcastico, a tratti grottesco, della vita quotidiana di una famiglia di “uomini di medicina” - il padre, lo zio, il cognato - e di donne, l’autrice, la madre, le sorelle, che si confrontano, si interessano - tutte a leggere la sera, a letto, il Manuale medico di diagnostica e terapia Roversi - ma che esercitano una doverosa scepsi nei confronti dell’ossessività medica paterna. -Il Roversi sembra essere, nel racconto, la bibbia familiare, pietra miliare della medicina, così come la interpreta il padre. Ma, qui e là nel testo, emerge anche un altro tratto paterno, l’affezione da qualche disordine psichico, che lo porta a essere ossessivo riguardo ad alcune malattie o sintomatologie e del tutto negligente riguardo ad altre - come spesso capita agli ossessivi.
Il testo scorre sotto gli occhi del lettore, rapito dal linguaggio. L’autrice usa il metodo dello straniero, coniato da Alfred Schutz e ripreso dall’etno-metodologia: guardare il mondo come fossi un estraneo, un marziano, che, venendo da fuori, rende il dato-per-scontato, strano e singolare.
Insomma, bisogna leggerlo, questo testo, per sentirsi a casa e per sentire il clima di uno strano paese, l’Italia, in una particolare epoca storica, il secondo dopoguerra. Personalmente, benché cresciuto e allevato da una famiglia nel Nord, ho riconosciuto gli stessi discorsi, gli stessi umori, le stesse classificazioni, benché in famiglia non ci fossero medici. Del resto, in quell’epoca, i medici erano comunque frequentemente dentro casa, si chiamavano medici condotti perché si muovevano dall’ambulatorio, visitavano i pazienti e facevano tutti quei discorsi che Moscati rievoca nel suo racconto. Era un sapere diverso, meno rigoroso, più fantasioso. Oggi che questo mondo se n’è andato definitivamente, non possiamo che ricordarlo con nostalgia, ed è in effetti la nostalgia, assieme all’ironia, l’altra protagonista della prima parte di Patologie: una meravigliosa ironia nostalgica.
La memoria ha molti aspetti differenti, è molteplice. Può essere retrograda, quando si ricordano tempi lontani, o anterograda, quando si ricorda ciò che sta accadendo ora. C’è una memoria episodica, il ricordo di eventi del passato, e una memoria semantica, che permette di riconoscere il significato delle cose. Definiamo una memoria prassica, che permette di suonare il piano anche dopo anni di astinenza dall’esercizio, e una memoria implicita, che permette di ricordare ciò che si dichiara di non ricordare. Vari organi del sistema nervoso, e in particolare della corteccia, concorrono, in maniera complessa, alla formazione della memoria. Ci sono inoltre aree di codifica e decodifica tra loro separate: quanto ricordiamo non è mai precisamente ciò che è accaduto; per ogni decodifica dell’episodio che racconto, nel mio racconto ci sono nuove codifiche che modificano la situazione e le circostanze originarie.
Abbiamo creato la scrittura e, prima della scrittura, i cliché, le rime e la metrica per sovra-codificare quanto accaduto, creare una seconda memoria, come insegna Platone nel Fedro. Ma la memoria ha a che fare con l’immaginario. Per questa ragione ognuno di noi si trova sovente - o forse sempre - di fronte a sensazioni di déjà vu, oppure a quel fenomeno definito da Daniel Schacter nei termini di falsa memoria. Ogni volta che ricordiamo qualcosa, contemporaneamente, immaginiamo qualcosa che si discosta dalla cosa che stiamo ricordando. Insomma: siamo un po’ autori dei nostri ricordi, così come quando traduciamo un testo, siamo un po’ co-autori del testo che abbiamo tradotto.
La questione che pone Moscati è filosofica, ma ha una componente neurologica specifica, si tratta dell’avvedersi, che i filosofi, sulla scorta di Leibnitz, chiamano appercezione. Quando percepisco, nel mio percepire c’è anche la coscienza di essere là a percepire. Moscati traduce una frase di Leibnitz: “La percezione della luce o del colore di cui ci avvediamo (dont nous nous appercevons) è composta, per esempio, da una quantità di piccole percezioni delle quali non ci avvediamo (nous ne nous appercevons pas) e un suono (forse un rumore?) di cui abbiamo percezione, ma al quale non prestiamo attenzione, diventa appercepibile con una piccola addizione, con un piccolo incremento”.
Ci vuole dunque un’addizione, un piccolo incremento, così piccolo da restare, a sua volta, sotto la soglia della consapevolezza. Carlo Emilio Gadda ha chiamato questo fenomeno “cognizione”. William Weaver, traduttore inglese di molti scrittori italiani, ha tradotto “aquaintance”, o meglio “to be aquainted”, che non è propriamente consapevolezza, forse ha più a che fare con l’abitudine, l’habitus. Forse, come suggerisce David Hume, l’io non è che l’abitudine alla ripetizione. Per questo la perdita dell’io, come è accaduto ad Antonella Moscati, è la perdita di un mondo, perché è la perdita di un’abitudine.
Ma da dove viene l’habitus dell’io? Viene da quel piccolo incremento, quella piccola addizione che ci rende coscienti di percepire ciò che percepiamo: l’immaginazione. Le piccole percezioni di cui non ci avvediamo, vengono raccolte, poste sotto l’attenzione, da un’istanza immaginaria. Forse l’inconscio è una relazione tra il caos dell’infinità priva di senso e l’unificazione di questo caos nel senso: caosmos. La quidditas che vediamo, quando guardiamo un cesto, o una mela, quando le riconosciamo, come il suono della voce di Clemens, il compagno di Antonella, dipende dal nostro sistema nervoso. Forse per questo Emily Dickinson aveva composto i versi che seguono, dei quali tento una traduzione a misura della filosofia di Antonella Moscati:
Il cervello - è più grande del cielo -
perché - mettili fianco a fianco -
l’uno l’altro conterrà
facilmente - e anche te
Il cervello è più profondo del mare -
perché - se li tieni - blu su blu -
l’uno l’altro assorbirà
come spugna col secchio fa
Il cervello è proprio il peso di Dio -
perché - alzali - libbra su libbra -
ed essi differiranno - semmai -
come suono da sillaba -
*
VITA E FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA: "SAPERE AUDE! (IMMANUEL KANT, 1784 - MICHEL FOUCAULT, 1984). CONTRARIAMENTE a quanto stabilito e codificato dalla storiografia idealistica, già solo le poche indicazioni sopra citate smuovono profondamente l’immagine "accademica" di Kant e sollecitano a rivedere unitariamente (nel trecentesimo anniversario della sua nascita) tutta la sua produzione ( della fase "precritica", come della "critica") e a riconsiderare di nuovo e meglio le sue lezioni sul "che cosa significa orientarsi" con le mani nella realtà e con la coscienza nel pensiero.
Kant, da una parte, è con Cartesio: nell’ordine cronologico, il "Cogito" ("Think") viene prima ("first"), e, dopo ("later"), l’ "ergo sum" ("Dance"); dall’altra parte, per dirla in breve, è con Samuel Beckett, la "Dance" della vita viene prima ("first") e il "Think" dopo ("later"): "It`s the natural order".
L’aver messo per lo più l’accento solo sul lato dell’ "io penso" del lavoro di Kant ha prodotto il totale #insabbiamento storico e storiografico del lato dell’ "Io sono" - con tutte le conseguenze del caso sulla "rivoluzione copernicana" (in filosofia, in antropologia, e in astronomia): un’ assenza dell’Io_sono (almeno) di tre secoli. A che gioco giochiamo? Ancora alla cosmoteandria? Cerchiamo di "non dare i numeri": il "Logos" non è un "Logo", e la "Charitas" non è la "caritas"!!!
LA "RIFLESSIVITÀ" DI BOURDIEU, COME IL "SENSO COMUNE DEGLI SCIENZIATI", ANCORA NELLA "CAVERNA" DI PLATONE E NEL "CERCHIO DEI CERCHI" DELL’ASSOLUTO DI DI HEGEL.
Bourdieu e il senso comune degli scienziati
di Alfonso Maurizio Iacono (Doppiozero, 23 Agosto 2024)
Il ricercatore dovrebbe forse provare per metodo ciò che provò Vitangelo Moscarda guardandosi allo specchio quando si accorse che il suo naso era ben diverso da come pensava che fosse. Ma non deve oscillare tra l’essere uno, nessuno o centomila, deve solo essere sé stesso proprio mentre si vede come altro. Ma in fondo è ciò che dovremmo fare tutti quando ci interroghiamo e poniamo la domanda sul nostro stesso fare. Ma è difficile tanto quanto trovare una buona relazione tra conoscere e fare. È questo il dramma della limitatezza umana, perché noi, come ricorda Giambattista Vico, non possiamo conoscere e fare simultaneamente. Ma possiamo riflettere su questa impossibilità e trasformare il riflettere in un fare.
Un tempo si sarebbe detto che includere l’osservatore nel processo di osservazione sarebbe stata una perdita di oggettività del sapere scientifico, lusso che si sarebbero potuto permettere forse le scienze storico-sociali, ma non certo quelle naturali. Da qui la separazione tra le scienze storico-sociali e quelle naturali oppure la riduzione delle prime al criterio di verità determinata dall’esattezza e dall’evidenza delle seconde. Nel ‘900 invece il tema dell’inclusione dell’osservatore nel contesto dell’osservazione è diventato centrale nell’epistemologia scientifica. Ciò che precedentemente sarebbe stata considerata un’eresia è diventato un interesse metodologico centrale in fisica, in biologia, nelle scienze sociali. Negli anni ’30 del ‘900 Ludwig Fleck aveva già posto il problema dell’osservatore nel campo della ricerca, ma il suo libro, uscito nel 1935, non suscitò alcun interesse, negli anni ’60, il successo del contributo di Thomas Kuhn La struttura delle rivoluzioni scientifiche (Einaudi, Torino 1969), dipese certamente dal fatto che, come si dice, arrivò al momento giusto.
La visione di Giambattista Vico non è poi così lontana da tale interesse metodologico.
Pierre Bourdieu, nel solco del mutamento epistemologico operato da Ludwig Fleck (Genesi e sviluppo di un fatto scientifico, Il Mulino, Bologna 1983) e da Thomas Kuhn, ha chiesto alla sociologia qualcosa di più. Ha posto il problema metodologico dell’oggettività del soggetto scientifico che indaga e ha a che fare, a sua volta, con l’oggettività di ciò che è indagato.
Il libro Sulla riflessività (Edizione italiana a cura di G. Ienna, C. Lombardo, L. Sabetta, M. Santoro, Meltemi, Milano 2024, pp. 117) presenta quattro contributi di Bourdieu sulla riflessività che percorrono un arco della sua ricerca dagli anni ’60 agli anni ’90. Bourdieu chiama questa ricerca dell’oggettività del soggetto riflessività. Cosa significa oggettività del soggetto e cosa significa riflessività? Scrive Bourdieu: “la riflessività non è la riflessione nel senso della cogitatio cogitationis, cioè pensiero di un pensiero, riflessione di un pensiero sul mio pensiero. Non è un semplice ritorno del soggetto conoscente su sé stesso: il soggetto conoscente che prova a conoscersi. La riflessività, così come la intendo io, è effettivamente questo, ma passa attraverso un processo di oggettivazione. Il soggetto conoscente, che si tratti di un sociologo, uno storico, un etnologo e addirittura un economista, è qualcuno che possiede strumenti di conoscenza che può applicare a sé stesso, soggetto conoscente, e più precisamente all’universo sociale in cui questo soggetto conoscente è inserito” (p. 49). Si va dunque oltre l’inclusione dell’osservatore nel contesto di osservazione. Bourdieu aggiunge le condizioni oggettive in cui si trova l’osservatore scientifico quando osserva e fa le sue considerazioni.
In altre parole, la riflessività implica la localizzazione sociale del punto di vista. Si tratta di applicare il metodo sociologico di osservazione allo stesso osservatore. “L’ipotesi, continua Bourdieu, è che il soggetto conoscente non abbia accesso, per semplice riflessione, all’essenziale di ciò che è e di ciò che fa. Per accedere, deve passare attraverso un’esplorazione delle condizioni oggettive in cui è stato prodotto così com’è, e nelle quali fa quel che fa. In altre parole, si tratta di fare sociologia come la facciamo sempre, ma sull’universo delle scienze sociali, sul nostro proprio mondo, sul nostro proprio campo” (ibidem). Bisogna tenere conto degli habitus degli scienziati, di ciò che a loro appare ed è vissuto come ovvio, insomma il loro senso comune che, come direbbe Vico, in assenza di riflessione diventa pregiudizio, e che invece va interpretato criticamente. Husserl e Schutz sono qui presenti con la messa in questione del mondo dato per scontato. Ma si possono anche fare altri due riferimenti teorici, tra i molti indicati da Bourdieu. Il primo è Marx con la sua teoria del rapporto tra ideologia e classe sociale (K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, 1977). Non ci accorgiamo che le idee dominanti, le quali si presentano semplicemente come idee, esprimono l’ideologia della classe dominante. Il secondo è Wittgenstein con la sua critica a Frazer (Note sul ‘Ramo d’oro’ di Frazer, Adelphi, 1975) il quale fa apparire il passaggio dalla magia alla scienza come qualcosa di evolutivamente oggettivo e non come il suo modo di vedere il mondo.
Gli autori della Postfazione (G. Ienna, C. Lombardo, L. Sabetta, M. Santoro) chiamano il metodo di Bourdieu “razionalismo storicista... vera matrice stilistica della riflessività” (Bourdieu, cit. 101). In effetti due concetti importanti che attraversano il pensiero di Bourdieu sono quello di relazione e quello di storia. Richiamarsi alla critica degli habitus sociali e mentali del ricercatore come campo decisivo della riflessione significa richiamarsi alla loro storia e al fatto che le stesse categorie sovrastoriche dell’osservazione scientifica hanno comunque a che fare con la storia. Infine, in Bourdieu troviamo il tema del corpo. “...ci sono due modi di guardare il corpo. C’è quello di guardare il corpo altrui o di guardare il proprio corpo allo specchio come un oggetto, oppure quello che consiste nell’essere in esso, di essere con esso, di essere tutt’uno con il proprio corpo. Il punto di vista scolastico è il punto di colui che guarda gli altri è ha una filosofia dello spettatore. Possiamo andare molto oltre grazie a Maurice Merleau-Ponty e non è fare filosofia. È usare la filosofia per sbarazzarsi della filosofia che si fa quando non si ha alcuna filosofia” (ivi, p. 61). Oggi noi assistiamo a un forte ritorno a una filosofia che si fa quando non si ha una filosofia. Un vecchio tema che risorge ogni qual volta si usa la riflessione sulla conoscenza scientifica più come rassicurazione e bisogno di autorità che come ricerca critica e autonoma.
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LA RIFLESSIVITA’ DI BOURDIEU COME IL "SENSO COMUNE DEGLI SCIENZIATI" ANCORA NELLA "CAVERNA" DI HEGEL. "Gli autori della Postfazione (G. Ienna, C. Lombardo, L. Sabetta, M. Santoro) chiamano il metodo di Bourdieu “razionalismo storicista... vera matrice stilistica della riflessività” (Bourdieu, cit. 101). In effetti due concetti importanti che attraversano il pensiero di Bourdieu sono quello di relazione e quello di storia." (A. I. Iacono, cit.).
A TRECENTO ANNI DALLA NASCITA DI #KANT, NON E’ IL CASO DI DARE IL VIA A UNA #SECONDA "#RIVOLUZIONECOPERNICANA" E PORTARSI OLTRE IL #PLATONISMO E IL #PAOLINISMO DELLA #DOTTAIGNORANZA E DELLA SUA #COSMOTEANDRIA?!
#PSICOANALISI, #STORIA, E #CRITICA DELLA #RAGIONE "PURA". A mio parere, benché Bourdieu abbia fatto un lavoro eccezionale, di lui, come egli stesso dice di Freud ("mi piace citare la frase di un grande storico"), è possibile dire altrettanto: "[Bourdieu] Freud dimentica che Edipo era un figlio di re."! Non è proprio ora, con #Kafka, come con #Dante, di uscire dalla "#tana", dall’#inferno epistemologico ed antropologico della #tragedia, e ri-scoprire la nostra propria personale e politica #autonomia e #sovranità ?! Se non ora, quando?
"IL BUON DIO STA NEL DETTAGLIO" (ERNST #CASSIRER - ABY #WARBURG): L’#UOMOIMMAGINARIO E IL "#CINEMA" DI #PLATONE.
"SAPEREAUDE!" (KANT, 1724-2024): IL NODO DEL "#CORPOMISTICO" E LA #TEOLOGIA-#POLITICA: UNA #LEZIONE E UN #RICORDO DI #SIMONE #WEIL. Per #fermare il #tempo e riflettere sugli #effettispeciali del "cinema" sulla #storia dell’#Europa (e del #PianetaTerra), forse, una buona "occasione" e una brillante sollecitazione per riflettere sul dominante #androcentrismo platonico.paolino ed hegeliano e, ancor di più e urgentemente, sulla #hamlet-ica #question antropologica e "cristologica" (#Kant, 1724-2024):
SIMONE WEIL: "L’immagine del corpo mistico di Cristo è molto seducente, ma l’importanza che si annette oggi a questa immagine mi pare uno dei sintomi più gravi della nostra decadenza. La nostra vera dignità infatti non sta nell’essere membra di un corpo, anche se mistico, anche se quello di Cristo, ma in questo: nello stato di perfezione, al quale tutti aspiriamo, noi non viviamo più in noi stessi, ma è Cristo che vive in noi; in questa condizione, Cristo nella sua integrità, nella sua unità indivisibile, diviene, in certo senso, ognu no di noi, come è tutto intero nell’ostia. Le ostie non sono frammenti del suo corpo. L’importanza attuale dell’immagine del corpo mistico dimostra quanto i cristiani siano miseramente esposti alle influenze esterne. certo inebriante sentirsi membro del corpo mistico del Cristo: ma oggi molti altri corpi mistici, che non hanno Cristo come capo, procurano alle proprie membra un’ebbrezza, a mio parere, della stessa natura" (Simone Weil, 1942).
Nota:
FILOSOFIA LINGUISTICA ANTROPOLOGIA E CRITICA:
UNA HAMLETICA QUESTIONE DI TEMPO E DI RAPPRESENTAZIONE (KANT).
SE, COME SCRIVE ERACLITO DI EFESO, "Il tempo [#aìon] è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo" (fr. 52), E, COME SCRIVE SHAKESPEARE NEL SUO "AMLETO", "il tempo è fuori dai cardini" ("The time is out of joint": "Hamlet", I.5), RICORDANDO KANT (1724-1804), E CONSIDERANDO "IL TEMPO ESAURITO" (Enrico Castelli, 1900-1977), alla luce di una sintetica "lezione" grafica di Umberto Eco, forse, è opportuno una ripresa di riflessione sul tema.
MEMORIA E STORIA. LA sollecitazione viene da una importante testimonianza di Franco Lo Piparo: "Mi sono ricordato di una vignetta filosofica sul tempo che Eco ideò in occasione di una mia conferenza all’Università di San Marino. Era il 26 gennaio 1995 [...]" (cfr. "UNA VIGNETTA FILOSOFICA DI ECO SUL TEMPO E ALTRE ANCORA",16 agosto 2024):
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("CRISTOLOGICA"). Umberto Eco, oso pensare (#sàpereaude!"), rendeva "silenziosamente" omaggio a Kant e alla sua "Critica della ragion pura": forse, egli aveva cominciato a lavorare intorno al libro che uscirà due anni dopo, "Kant e l’ornitorinco" (Bompiani 1997 - La nave di Teseo 2016) e stava già riflettendo sul rapporto "essere e tempo" e "tempo ed essere" a livello antropologico (nel tentativo di gettare luce sul lavoro di Kant e, infine, anche di Heidegger).
NOTA:
PIANETA TERRA (PROMESSA), ONU (=UNO), E "UmaNITÀ" ("HUMANITAS"):
PROFEZIA, ANTROPOLOGIA, E TEOLOGIA-POLITICA.
SE E’ VERO CHE "DA TEMPO I PROFETI PARLANO A UNA CITTA’ CHE NON LI VUOLE PIU’ ASCOLTARE!" (Nicola Fanizza), E’ ALTRETTANTO VERO CHE, DA #TEMPO, DA MOLTO TEMPO, nonostante tutta la #storia (già solo quella) dell’#arte e, in particolare, la grande lezione di #Michelangelo #Buonarroti, che sapeva anche di #anatomia e di "vecchio" e "nuovo" #testamento" , è anche colpa dei #PROFETI che hanno "silenziato" le #Sibille, hanno buttato via la #bilancia (Vermeer ), e vogliono continuare a "pesare" solo "l’ #oro"!!!
CON DANTE ALIGHIERI, GIORDANO BRUNO, GALILEO GALILEI, SPINOZA, FREUD, ED EINSTEIN, #OLTRE. Senza #Kant, solo milioni di milioni di "mille piani", vecchi "ritornelli", e "dotta ignoranza" (1440) a volontà.
NOTE:
ANTROPOLOGIA E SCIENZA: "DATEMI UN PUNTO DI APPOGGIO E SOLLEVERO’ IL MONDO".
LA VITA DI ARCHIMEDE, LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN E L’IMMAGINARIO DELLA TEOLOGIA-POLITICA DI PAPPO DI ALESSANDRIA, NEL TEMPO DELL’IMPERATORE #COSTANTINO E DEL PRIMO CONCILIO DI NICEA (IV SEC. d. C).
A Galileo Galilei e a Immanuel Kant, in memoria...
"ARCHIMEDE", UN "UOMO SUPREMO" DEL IV SEC. d. C.!!! "Datemi un punto di appoggio, e sposterò la Terra"; "Datemi un punto d’appoggio e solleverò il mondo" ("Dā mihi, inquit, ubi cōnsistam, et terram commovēbō"": se ancora oggi si dà per scontata l’attribuzione della frase da parte di Pappo di Alessandria (290- 350 d. C. /III-IV sec. d. C), ad Archimede (Siracusa, 287 a.C. circa - 212 a.C.), alludendo alla scoperta della proprietà della leva, forse, è opportuno, "con i tempi che corrono", interrogarsi "sul carattere ampiamente e profondamente mitico di ogni razionalità" (come sollecitava tempo fa Kostas Axelos), e, in particolare, su questa locuzione, carica di teoria "superomistica" (teologico-politica), sia sul piano specifico della fisica sia sul "preteso" piano della metafisica (dell’"uomo, del "mondo", e di "dio").
ANTROPOLOGIA E RELIGIONE (PROFETI, SIBILLE, SIRENE, E MUSE). Plutarco (Cheronea, 50 d. C. - Delfi, 120), che, da sacerdote di Apollo a Delfi sapeva della Sibilla e degli oracoli, probabilmente ne sapeva ben di più di Pappo di Alessandria della vita di Archimede, e, forse, si fidava già del detto latino che " una donna dotata di spirito regge l’uomo" (“Dotata animi mulier virum regit”), o, come è stato per millenni, che "dietro ogni grande uomo, c’è una grande donna" (ricordare Virginia Woolf), così scrive: "Viveva continuamente incantato dalla geometria, che potremmo chiamare una Sirena a lui familiare e domestica, al punto di scordarsi persino di mangiare e curare il proprio corpo. Spesso, quando i servitori lo trascinavano a viva forza nel bagno per lavarlo e ungerlo, egli disegnava sulla cenere della stufa alcune figure geometriche; e appena lo avevano spalmato d’olio, tracciava sulle proprie membra delle linee col dito, tanto lo tormentava il diletto ed era veramente prigioniero delle Muse" (Plutarco, Vita di Marcello, XVII, 6).
STORIA, LETTERATURA, ANTROPOLOGIA, E METATEATRO:
IL "VANGELO" DI SHAKESPEARE. CHI E’ AMLETO ("Gesù") E CHI OFELIA ("Maria Maddalena)?
Una domanda "solare" nell’Europa della rivoluzione copernicana, di Tommaso Campanella e di Giordano Bruno ...
SE, NELLO "STATO DI DANIMARCA", IL "NUOVO" RE-PADRE (CLAUDIO) DI TUTTI I CITTADINI E DI TUTTE E’ UN ASSASSINO E UN ADULTERO (COME SOTTOLINEA ANCHE #NIETZCHE IN "#ZARATHUSTRA"), IL FIGLIO-PRINCIPE DEL "VECCHIO" RE-PADRE ("AMLETO"/"GIUSEPPE") E DELLA "VECCHIA" REGINA-MADRE ("GERTRUDE"/"MARIA"), NON PUO’ NON RICORDARSI DELLA SUA #IDENTITÀ E CONTESTARE RADICALMENTE IL SUO RUOLO DI "FIGLIO-PRINCIPE" DELLA "NUOVA" #FAMIGLIA E DEL "NUOVO" #PRESEPE... E NON PUO’ NON FARE IL "PAZZO"!
ALL’INTERNO DI TALE "QUADRO", LA "RISPOSTA" DI #OFELIA AL "RE CLAUDIO":
APPARE ESSERE CON I SUOI RIMANDI SIA ESPLICITI, COME A QUELLO DELLA "CIVETTA" FIGLIA DEL #FORNAIO (#PANETTIERE), SIA IMPLICITI, COME A QUELLO DEL "PAZZO" FIGLIO (#AMLETO - #CRISTO) DEL "#DIO - #PANETTIERE" ("#PADRE #NOSTRO" E "#RE NOSTRO"), CHE DÀ IL SUO "PANE QUOTIDIANO" (LA #CHARITAS, IL CIBO "EU-#CHARIS-TICO" A TUTTI ("By Gis and by Saint #Charity,", IV. 5. 59), SEMBRANO DELINEARE (ANCHE CON IL RICHIAMO ALLA FESTA DI "SAN VALENTINO") UNA "FIGURA" DI GRANDE AUTONOMIA E DI FORTE CONSAPEVOLEZZA NEL SUO RUOLO DI "#HAMLETICA" FIGLIA-PRINCIPESSA, COME DI UNA POSSIBILE NUOVA "#EVA" ACCANTO AL POSSIBILE NUOVO "#ADAMO".
L’#AMORE "CHE MOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE", IL "PANE QUOTIDIANO" E IL "SÀPERE AUDE" (IL "CORAGGIO DI ASSAGGIARE" DI #ORAZIO E #KANT). DOPO #LUTERO (1517) E DOPO IL RE #ENRICO VIII (1534) E LA REGINA #ELISABETTA DI #INGHILTERRA (1533-1603), SHAKESPEARE riprende il filo di Gioacchino da Fiore, di Francesco d’#Assisi, di Dante Alighieri, Michelangelo, e #GiordanoBruno, e guarda ben oltre la "donazione di #Costantino" (#Nicea 325-2025), e oltre il "#presepe" della tragica e "cattolica" #preistoria del suo tempo.
PSICOANALISI E "ODISSEA" (LETTERATURA):
UN SEGNAVIA PER "ORIENTARSI NEL PENSIERO" (KANT2024) E USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO E ANTROPOLOGICO.
Due variazioni sul tema...
A). #DANTEALIGHIERI E LA DISCESA ALL’INFERNO DI #SIGMUNDFREUD. "L’Interpretazione dei Sogni" (1899) ha il suo legame con l’#Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, #Acheronta movebo") di #Virgilio e "L’#uomo #Mosè e la #religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della #DivinaCommedia (Pg. II, 46-48) di Dante.
B). "COSTRUZIONI NELL’ANALISI (S. #FREUD, 1937): CON FREUD, OLTRE LA #CADUTA (IL "COMPROMESSO" ADAMITICO) E OLTRE LA #TRAGEDIA (IL COMPROMESSO "APOLLINEO", "OLIMPICO"), #OLTRE LA "PSICOANALISI"!
Freud ha guardato più lontano di #Lacan, ha saputo oltrepassare Scilla e Cariddi e le colonne d’Ercole, e, infine, prendere le distanze dall’interpretazione platonico-paolina della questione dell’#uomosupremo e del suo "#corpomistico" (come di "Mosè", "Cristo", e ogni altro #Superuomo).
"ECCE HOMO" (NIETZSCHE, 1888). Freud è con #Michelangelo e #Shakespeare e guarda oltre la "donazione di Costantino" (#Nicea 325-2025), e oltre il "#presepe" della presente edipica "#preistoria".
ANTROPOLOGIA, GEOLOGIA, FILOSOFIA (#KANT2024), E FILOLOGIA (#PARIS2024):
LA FOSSA DELLE MARIANNE E LA TORRE DI BABELE, UN "BINOMIO FANTASTICO" (GIANNI RODARI).
DUE #SEGNAVIA (COME "DUE SOLI") PER RI-COMINCIARE A RI-PENSARE DA #CAPO E A RI-ESPLORARE "L’#UOMO", IL "#MONDO", E "#DIO".
>"SÀPERE AUDE" (Orazio). Un omaggio alla #memoria di Immanuel Kant (1724 - 2024)
A). LA FOSSA DELLE MARIANNE. "La fossa delle Marianne è la più profonda depressione oceanica conosciuta al mondo, localizzata nella zona nord-occidentale dell’Oceano Pacifico a est delle isole Marianne, a 11° 21’ nord di latitudine e 142° 12’ est di longitudine, tra Giappone a nord, Filippine a ovest e Nuova Guinea a sud; il suo punto più profondo, l’abisso Challenger, si trova a 10.994 m sotto il livello del mare. [...]".
B). LA TORRE DI BABELE. "La Torre di Babele: Babilonia tra realtà e mito: [...] La costruzione della Torre di Babele, insieme ai noti e suggestivi riferimenti biblici, ha affascinato l’umanità fin dall’Antichità, essendo divenuta il monumento per eccellenza della città di Babilonia ed espressione del culto del dio Marduk. Il mito della torre di Babele e della sua costruzione, così come è raccontato nel testo biblico, è il soggetto di molte rappresentazioni nel Medioevo, nel Rinascimento, in età moderna ed anche contemporanea e Babilonia e la sua torre sono state spesso considerate un simbolo del mondo antico babilonese. [...]" (Treccani).
NOTE:
PER LA PACE PERPETUA
di Leonardo Ceppa (Le parole e le cose, 2 Agosto 2024)
La società internazionale dei filosofi avrebbe voluto festeggiare a Königsberg i trecento anni della nascita di Kant. Sennonché quella città, a suo tempo strappata dagli Alleati ai nazisti, oggi si chiama Kaliningrad, ed è nelle mani di quel nuovo dittatore (Vladimir Putin) che, invadendo l’Ukraina, ha infranto due anni fa il diritto internazionale e riportato l’Apocalisse nel cuore dell’Europa. Così la società kantiana ha deciso di festeggiare il tricentenario riunendosi a Bonn nel prossimo settembre, cioè nella capitale provinciale della vecchia Repubblica federale tedesca.
Da parte sua, il cancelliere Olaf Scholz ha sottolineato l’attualità politica del saggio kantiano Per la pace perpetua (1795) in un notevole discorso del 23 aprile 2024 (si trova pubblicato nel Bulletin der Bundesregierung 37-4). Fondare politicamente la pace significa pensarla non come lo stato normale e naturale del diritto internazionale, bensì come una nuova situazione garantita dalla forza della democrazia. Dopo l’invasione della Ukraina e la guerra all’Occidente scatenata da Putin, Olaf Scholz parla di un punto di svolta (Zeitenwende) della politica mondiale: l’ordine internazionale dev’essere oggi difeso dalla forza militare, dal riarmo dell’esercito, dalle sanzioni economiche, dalla rinuncia alla collaborazione scientifica. Certo si deve, oggi come ieri, cercare la pace, ma non una pace a qualunque prezzo: a volte anche la guerra rientra nel prezzo con cui dobbiamo pagare la pace.
In questa prospettiva, la festa del tricentenario kantiano rischia di essere strumentalizzata dalla guerra in corso tra Est e Ovest, facendo rinascere la guerra fredda. A questo punto, un filosofo tedesco di 53 anni, Gunnar Hindrichs - docente a Basilea, già presidente della Società filosofica svizzera e vicepresidente della Associazione internazionale hegeliana - fa oggi uscire sull’ultimo numero di Merkur (luglio 2024, pp. 49-58) un saggio davvero fulminante che, ristabilendo il senso normativo della Pace perpetua kantiana, ne vieta qualsiasi lettura egoisticamente interessata.
Tra parentesi ricordiamo che qualcosa di analogo aveva fatto anche Habermas nei confronti della interpretazione teologico-apologetica di Kant avanzata da Rudolf Langthaler in due convegni internazionali su “Fede e sapere” tenuti a Vienna nel marzo 2004 e nel settembre 2005 (cioè nel bicentenario della morte di Kant. Sul punto cfr. Leonardo Ceppa, Habermas. Le radici religiose del moderno, Morcelliana 2017, pp. 73-87). Il discorso del cancelliere tedesco e una celebrazione banale del tricentenario kantiano rischiano oggi di leggere la Pace perpetua come la rifondazione di un diritto alla guerra in difesa dell’ordine democratico. Vorrei qui cercare di riassumere le tesi di Gunnar Hindrichs, in quanto mi paiono di grande interesse.
Nessuno più di Kant era consapevole del tono bombastico e ironico della sua impresa normativa. Infatti la pace di cui intendeva trattare non era quella degli armistizi occasionali, separanti nella storia un conflitto dall’altro, laddove la dimensione satirica era benissimo espressa “sull’insegna di un certo oste olandese sulla quale era dipinto un cimitero” (Per la pace perpetua, in Kant, Scritti di storia, politica e diritto, a cura di Filippo Gonnelli, Laterza 1995, p. 163).
Che il luogo della pace perpetua non dovesse ridursi alla metafora del camposanto fu la grande pretesa morale di tutto l’illuminismo, dall’Abbé de Saint-Pierre (1713) a Jean-Jacques Rousseau (1712-1778). Solo quest’ultimo intuì che la pace perpetua non doveva essere vista come un problema privato di uomini, prìncipi e filosofi, bensì come il problema pubblico dei popoli. Gli uomini - quel “legno storto” di cui parla Kant nel saggio sulla Religione - trovano effettivamente pace solo da morti, i prìncipi sono sempre “smaniosi di guerra” (Kriegslüstern è la bellissima parola kantiana), i filosofi non fanno altro che sognarla come utopia.
Nessuno è più realista di Kant nel disegnare questa triplice clausola ironica della pace: caducità dell’uomo, egoismo dei prìncipi, utopismo dei filosofi. L’idea trascendente e normativa contro questa clausola si chiama in Kant Friedensbund: lega di pace, foedus pacis, cosmopolitismo repubblicano. E nel saggio di Gunnar Hinrichs ne troviamo una brillante ricostruzione sul piano del diritto, della filosofia-della-storia, della filosofia-della-religione. Cerchiamo di riassumere.
Sul piano giuridico vale la contrapposizione di stato di natura e stato di legalità (o legittimità). Uomini e stati - quando risultano semplicementi motivati da interessi, bisogni e desideri particolari - infrangono qualunque armistizio e si autoconservano con la guerra. Quando invece risultano motivati dallo spirito-delle-leggi (Geist von Gesetzen) escono dallo stato di natura ed entrano in quell’ordine civile di cui aveva parlato Hobbes. E statu naturali exeundum esse. Allora la pace interstatale che ne deriva, lungi dall’essere un temporaneo armistizio, diventa un ordine cosmopolitico. E la pace perpetua come fine della storia, lungi dall’essere un obiettivo transitorio, diventa il senso filosofico sotteso a questa uscita dallo stato di natura, dunque il senso giuridico dell’intera traiettoria e parabola storica della specie. -Qui s’innesta per Kant una filosofia-della-storia che non si presenta né come Wunschgedanke né come empirica Feststellung, cioè né come utopia idealistica né come empirica constatazione. Si ricordino qui due magniloquenti tesi dalla Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784, in Scritti di storia politica e diritto, a cura di Filippo Gonnelli, cit. pp. 29-44). Tesi quinta: “Il massimo problema per il genere umano, alla cui soluzione la natura lo costringe, è il raggiungimento di una società civile che faccia valere universalmente il diritto” (p. 34, corsivo mio). Tesi ottava: “Si vede bene come qui anche la filosofia possa avere il proprio chiliasmo” - il proprio millenarismo, cioè l’attesa del regno di Cristo in terra - la cui attuazione, continua Kant, non ha più nulla di esaltato, come nella Apocalisse biblica, in quanto si limita a segnalare il possibile sviluppo di tutte le disposizioni dell’umanità. Il punto di vista dell’autoconservazione animale va inteso come l’accettazione di una finitezza umana che acquista il suo vero significato solo alla luce di un “Non ancora”, di un Noch nicht normativo.
Dal punto di vista di una filosofia-della-religione, infine, la pace perpetua indicherebbe il raddrizzamento del legno storto dell’umanità, cioè la speranza di un chiliasmo non utopistico, né semplicemente morale, bensì addirittura metafisico: vale a dire il rifiuto di arrendersi alla visione realistica di una autoconservazione meramente animale. “Lasciate ogni speranza - scrive qui Gunnar Hindrichs citando Dante in italiano - non è infatti l’insegna del mondo di Dio, bensì dell’inferno” (Merkur, cit., p. 55).
Dunque, conclude Gunnar Hindrichs, celebrare Kant non significa oggi esaltare la guerra come una difesa della pace democratica contro i despoti asiatico-orientali. Certo, la istituzionalizzazione normativa della pace perpetua può anche suonare come una tesi kantiana esaltata, stravagante, eccentrica (verstiegen). In tal caso lasciamo perdere Kant e volgiamoci alle filosofie che legittimano l’idea di pace come esito di una guerra infinita. Antonio Negri e Michael Hardt, per esempio, esaltano la lotta tra impero e moltitudine, mentre Fracis Fukuyama vede la pace perpetua come il destino di un liberalismo capitalistico globale. Anche Peter Sloterdijk e Olaf Scholz continuano a intendere la pace kantiana come quell’area - interna al capitalismo democratico - che si tratta di difendere contro barbari, mafie e stati canaglia. Ma questa è, secondo Hindrichs, una torsione ideologica dell’idea kantiana. Il concetto kantiano è invece la nostalgia di qualcosa di diverso, vale a dire di una speranza che smentisce e sbugiarda l’idea di un ordine globale fondato sulla guerra.
PER LA PACE PERPETUA
di Leonardo Ceppa (Le parole e le cose, 2 Agosto 2024)
La società internazionale dei filosofi avrebbe voluto festeggiare a Königsberg i trecento anni della nascita di Kant. Sennonché quella città, a suo tempo strappata dagli Alleati ai nazisti, oggi si chiama Kaliningrad, ed è nelle mani di quel nuovo dittatore (Vladimir Putin) che, invadendo l’Ukraina, ha infranto due anni fa il diritto internazionale e riportato l’Apocalisse nel cuore dell’Europa. Così la società kantiana ha deciso di festeggiare il tricentenario riunendosi a Bonn nel prossimo settembre, cioè nella capitale provinciale della vecchia Repubblica federale tedesca.
Da parte sua, il cancelliere Olaf Scholz ha sottolineato l’attualità politica del saggio kantiano Per la pace perpetua (1795) in un notevole discorso del 23 aprile 2024 (si trova pubblicato nel Bulletin der Bundesregierung 37-4). Fondare politicamente la pace significa pensarla non come lo stato normale e naturale del diritto internazionale, bensì come una nuova situazione garantita dalla forza della democrazia. Dopo l’invasione della Ukraina e la guerra all’Occidente scatenata da Putin, Olaf Scholz parla di un punto di svolta (Zeitenwende) della politica mondiale: l’ordine internazionale dev’essere oggi difeso dalla forza militare, dal riarmo dell’esercito, dalle sanzioni economiche, dalla rinuncia alla collaborazione scientifica. Certo si deve, oggi come ieri, cercare la pace, ma non una pace a qualunque prezzo: a volte anche la guerra rientra nel prezzo con cui dobbiamo pagare la pace.
In questa prospettiva, la festa del tricentenario kantiano rischia di essere strumentalizzata dalla guerra in corso tra Est e Ovest, facendo rinascere la guerra fredda. A questo punto, un filosofo tedesco di 53 anni, Gunnar Hindrichs - docente a Basilea, già presidente della Società filosofica svizzera e vicepresidente della Associazione internazionale hegeliana - fa oggi uscire sull’ultimo numero di Merkur (luglio 2024, pp. 49-58) un saggio davvero fulminante che, ristabilendo il senso normativo della Pace perpetua kantiana, ne vieta qualsiasi lettura egoisticamente interessata.
Tra parentesi ricordiamo che qualcosa di analogo aveva fatto anche Habermas nei confronti della interpretazione teologico-apologetica di Kant avanzata da Rudolf Langthaler in due convegni internazionali su “Fede e sapere” tenuti a Vienna nel marzo 2004 e nel settembre 2005 (cioè nel bicentenario della morte di Kant. Sul punto cfr. Leonardo Ceppa, Habermas. Le radici religiose del moderno, Morcelliana 2017, pp. 73-87). Il discorso del cancelliere tedesco e una celebrazione banale del tricentenario kantiano rischiano oggi di leggere la Pace perpetua come la rifondazione di un diritto alla guerra in difesa dell’ordine democratico. Vorrei qui cercare di riassumere le tesi di Gunnar Hindrichs, in quanto mi paiono di grande interesse.
Nessuno più di Kant era consapevole del tono bombastico e ironico della sua impresa normativa. Infatti la pace di cui intendeva trattare non era quella degli armistizi occasionali, separanti nella storia un conflitto dall’altro, laddove la dimensione satirica era benissimo espressa “sull’insegna di un certo oste olandese sulla quale era dipinto un cimitero” (Per la pace perpetua, in Kant, Scritti di storia, politica e diritto, a cura di Filippo Gonnelli, Laterza 1995, p. 163).
Che il luogo della pace perpetua non dovesse ridursi alla metafora del camposanto fu la grande pretesa morale di tutto l’illuminismo, dall’Abbé de Saint-Pierre (1713) a Jean-Jacques Rousseau (1712-1778). Solo quest’ultimo intuì che la pace perpetua non doveva essere vista come un problema privato di uomini, prìncipi e filosofi, bensì come il problema pubblico dei popoli. Gli uomini - quel “legno storto” di cui parla Kant nel saggio sulla Religione - trovano effettivamente pace solo da morti, i prìncipi sono sempre “smaniosi di guerra” (Kriegslüstern è la bellissima parola kantiana), i filosofi non fanno altro che sognarla come utopia.
Nessuno è più realista di Kant nel disegnare questa triplice clausola ironica della pace: caducità dell’uomo, egoismo dei prìncipi, utopismo dei filosofi. L’idea trascendente e normativa contro questa clausola si chiama in Kant Friedensbund: lega di pace, foedus pacis, cosmopolitismo repubblicano. E nel saggio di Gunnar Hinrichs ne troviamo una brillante ricostruzione sul piano del diritto, della filosofia-della-storia, della filosofia-della-religione. Cerchiamo di riassumere.
Sul piano giuridico vale la contrapposizione di stato di natura e stato di legalità (o legittimità). Uomini e stati - quando risultano semplicementi motivati da interessi, bisogni e desideri particolari - infrangono qualunque armistizio e si autoconservano con la guerra. Quando invece risultano motivati dallo spirito-delle-leggi (Geist von Gesetzen) escono dallo stato di natura ed entrano in quell’ordine civile di cui aveva parlato Hobbes. E statu naturali exeundum esse. Allora la pace interstatale che ne deriva, lungi dall’essere un temporaneo armistizio, diventa un ordine cosmopolitico. E la pace perpetua come fine della storia, lungi dall’essere un obiettivo transitorio, diventa il senso filosofico sotteso a questa uscita dallo stato di natura, dunque il senso giuridico dell’intera traiettoria e parabola storica della specie. -Qui s’innesta per Kant una filosofia-della-storia che non si presenta né come Wunschgedanke né come empirica Feststellung, cioè né come utopia idealistica né come empirica constatazione. Si ricordino qui due magniloquenti tesi dalla Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784, in Scritti di storia politica e diritto, a cura di Filippo Gonnelli, cit. pp. 29-44). Tesi quinta: “Il massimo problema per il genere umano, alla cui soluzione la natura lo costringe, è il raggiungimento di una società civile che faccia valere universalmente il diritto” (p. 34, corsivo mio). Tesi ottava: “Si vede bene come qui anche la filosofia possa avere il proprio chiliasmo” - il proprio millenarismo, cioè l’attesa del regno di Cristo in terra - la cui attuazione, continua Kant, non ha più nulla di esaltato, come nella Apocalisse biblica, in quanto si limita a segnalare il possibile sviluppo di tutte le disposizioni dell’umanità. Il punto di vista dell’autoconservazione animale va inteso come l’accettazione di una finitezza umana che acquista il suo vero significato solo alla luce di un “Non ancora”, di un Noch nicht normativo.
Dal punto di vista di una filosofia-della-religione, infine, la pace perpetua indicherebbe il raddrizzamento del legno storto dell’umanità, cioè la speranza di un chiliasmo non utopistico, né semplicemente morale, bensì addirittura metafisico: vale a dire il rifiuto di arrendersi alla visione realistica di una autoconservazione meramente animale. “Lasciate ogni speranza - scrive qui Gunnar Hindrichs citando Dante in italiano - non è infatti l’insegna del mondo di Dio, bensì dell’inferno” (Merkur, cit., p. 55).
Dunque, conclude Gunnar Hindrichs, celebrare Kant non significa oggi esaltare la guerra come una difesa della pace democratica contro i despoti asiatico-orientali. Certo, la istituzionalizzazione normativa della pace perpetua può anche suonare come una tesi kantiana esaltata, stravagante, eccentrica (verstiegen). In tal caso lasciamo perdere Kant e volgiamoci alle filosofie che legittimano l’idea di pace come esito di una guerra infinita. Antonio Negri e Michael Hardt, per esempio, esaltano la lotta tra impero e moltitudine, mentre Fracis Fukuyama vede la pace perpetua come il destino di un liberalismo capitalistico globale. Anche Peter Sloterdijk e Olaf Scholz continuano a intendere la pace kantiana come quell’area - interna al capitalismo democratico - che si tratta di difendere contro barbari, mafie e stati canaglia. Ma questa è, secondo Hindrichs, una torsione ideologica dell’idea kantiana. Il concetto kantiano è invece la nostalgia di qualcosa di diverso, vale a dire di una speranza che smentisce e sbugiarda l’idea di un ordine globale fondato sulla guerra.
L’#HAMLET E UNA "INSTAURATIO MAGNA" TEOLOGICO-POLITICA NELLA SCIA DI #DANTEALIGHIERI E #GIORDANOBRUNO, ALLA WILLIAM #SHAKESPEARE, NON ALLA FRANCESCO #BACONE CON IL SUO "PARTO MASCHIO DEL TEMPO".
IL #TEATRO, IL #METATEATRO, E "IL #VANGELO DI #AMLETO". "THE #MOUSETRAP" ("LA #TRAPPOLA PER #TOPI" ) E IL TENTATIVO DI PORTARE ALLA LUCE L’INGANNO DEL "#SERPENTE" E RICOSTRUIRE IL "#PRESEPE", IL "#CORPOMISTICO DELLA "#SACRAFAMIGLIA" IN "#DANIMARCA":
RICORDANDO QUANTO detto nella nota relativa alla "Part 55" sul tema, e, in particolare, mi sia lecito, che il "rendere sempre più esplicita l’#analogia tra Amleto e Gesù, sollecita a guardare a #Ofelia... come a #MariaMaddalena, la donna della tradizione evangelica, legata strettamente alla vita stessa di Gesù (uno scrittore nato nel mio paese di origine, nel 1564, di nome Paolo Silvio, scrive nel 1599, in coincidenza con un miracolo avvenuto a #Fabriano, un’opera di grandissimo successo dal titolo "La Madalena penitente" ), forse, per meglio comprendere tutta l’mportanza del commento di Ofelia (""You are as good as a chorus") sull’operazione per smascherare il "#serpente -re" camuffato da "#topo - re", occorre rileggere e ricontestualizzare la frase (almeno a partire da Amleto, III. 2. 110 e ss.):
"#Amleto [...] (A #Polonio) Sicché, signore, un tempo avete anche voi recitato all’università. Non è così?
#Polonio Infatti, monsignore, ed ero reputato un buon attore.
#Amleto E che parte faceste?
#Polonio Giulio Cesare. Venivo pugnalato in Campidoglio. Era Bruto ad uccidermi.
#Amleto E dev’essere stato un vero bruto per uccidere un tale vitellone!
(Va a sedersi a fianco di #Ofelia) Sono pronti gli attori?
#Rosencrantz Sì, signore, aspettano soltanto un vostro cenno.
#Regina Vieni, mio buon Amleto, vieni a sederti qui, vicino a me.
#Amleto Vogliate perdonarmi, buona madre: ho qui una più attirante calamita.
#Polonio (A parte al #re) Oh, oh, avete visto?
#Amleto Posso giacermi in seno a voi, signora?
#Ofelia No, questo no, signore.
#Amleto La testa, intendo, sopra al vostro grembo.
#Ofelia Oh, questo sì, signore, accomodatevi.
#Amleto Pensavate che avessi per la mente pensieri da villano?
#Ofelia Non ho pensato a nulla, mio signore.
#Amleto È un pensiero gentile dopotutto sdraiarsi tra le gambe di ragazze.
#Ofelia Che dite, monsignore?
#Amleto Niente, niente.
#Ofelia Siete allegro, signore.
#Amleto Allegro, io?
Ofelia Così mi sembra, mio signore.").
NOTA:
ANTROPOLOGIA FILOSOFICA (KANT, 1724-2024), PSICOANALISI E BIOGRAFIA: "ECCE HOMO" (NIETZSCHE, 1888).
"INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" (1899) E "COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (1937):
LEONARDO DA VINCI SUL LETTINO DI FREUD (MA NON DI JUNG NE’ DI LACAN).
VITA E FILOSOFIA E ILLUMINISMO KANTIANO: "SAPEREAUDE" (Kant, 1784). Freud aveva capito l’essenziale (di sua madre e) della madre di Leonardo da #Vinci, aveva colto il "nucleo di fuoco" (dell’alleanza di fuoco, alla base della sua vita): che la madre era una donna autonoma e indipendente (una "Madonna", non una Signora "Costantiniana", nata dalla costola dell’Adamo "mammonico"), così come di Michelangelo ha intuito il messaggio del "Tondo Doni" e del "Mosè", di essere figlio dell’amore di "Maria e Giuseppe", di diritto e di fatto (Immanuel Kant): in principio era il Logos, non un Logo di un frainteso (antropologicamente) Uomo ("Vir") Supremo "Vitruviano".
NOTA:
ANTROPOLOGIA FILOSOFICA (#KANT, 1724-2024), #STORIA, E #TEOLOGIA:
"N. S. #MONTE #CARMELO", "MADONNA DEL #CARMINE, #16LUGLIO. Un filo di memoria e di tradizione culturale europea e mediterranea, carico di teoria, che tocca nel profondo la #questione antropologica dell’attuale #presentestorico , e richiama l’eccezionale intervento "critico" e "cristico" di #TeresadAvila (1515-1582) e, al contempo, dell’opera del filosofo e teologo Jakob #Boehme (Jacob #Böhme, 1575-1624).
I CARMELITANI SCALZI NEL #REGNO DI NAPOLI (VICEREAME SPAGNOLO) E L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’#ECUMENISMO RINASCIMENTALE. Nel mio paese d’origine (#ContursiTerme, #Salerno), nella "vecchia" Chiesa della #MadonnadelCarmine, dedicata con i #CarmelitaniScalzi alla B.V. del Monte Carmelo (nel 1613), con una pala d’altare del 1608 (v. allegato), sono riemerse dopo il #terremoto del 1980 e il restauro completato nel 1989), le figure di 12 #Sibille (un richiamo forte ed esplicito alla lezione umanistico-rinascimentale, e a #Michelangelo #Buonarroti e alla sua "Sacra Famiglia" - il #TondoDoni).
NOTE:
ANTROPOLOGIA, STORIA, E METATEATRO (SHAKESPEARE).
"THE MOUSETRAP" ("LA TRAPPOLA PER TOPI") DI "AMLETO" E IL CASO DEL "PIFFERARIO" DELLO "STATO DI DANIMARCA".
"SAPERE AUDE!" (Q. ORAZIO F. ; KANT, 1784; M. FOUCAULT, 1984). AL DI LA’ DEL MACHIAVELLISMO E DELL’ #ANDROCENTRISMO TEOLOGICO-POLITICO PLATONICO-PAOLINO, a mio parere, ciò che resta del "discorso filosofico della #modernità" (J. Habermas), come ha riepilogato Kant alla fine del suo lungo lavoro di critica delle pretese della "olimpica" #ragione "pura", è proprio quanto indicava quel "Socrate pazzo" di Diogene ("Amleto"): la domanda antropologica, vale a dire il gioco del "gatto" e del "topo" (Shakespeare, "Hamlet", III. 4. 203-212), la questione "hamletica" del "come nascono i bambini" (e non solo)!
NOTE:
CON AMLETO (ED EDIPO), A SCUOLA DA MACHIAVELLI: TEATRO (FILOSOFIA) E METATEATRO (METAFILOSOFIA).
QUANDO IL "TOPO" DIVENTA UN "#GATTO" (UNA "GATTA") E SVELA IL "GOLPE" (DEL "LIONE"). Una traccia per una ri-lettura dell’opera di Shakespeare ...
SHAKESPEARE E COLLODI. Se è vero, come è stato detto da qualcuno, che "L’ Amleto è antiamletico come Pinocchio è antipinocchiesco; totalmente e quindi ambiguamente", c’è da chiarire e precisare che Amleto non diventa un "ragazzino per bene" (un "Pinocchio"), ma vince la sua battaglia (personale e politica), resta fedele a se stesso, alla Legge, e al ricordo del Padre-Re, e restituisce onorevolmente a "Fortebraccio" la #corona della "Danimarca".
UNA QUESTIONE DI #STATO: "IL PRINCIPE". Se la "sconfitta" di Pinocchio passa per la morte e l’impiccagione (cap. XV) prima e poi per la falsa "rinascita" finale (Geppetto: "quando i ragazzi cattivi diventano buoni", cap. XXXVI), al contrario, la "storia" di Amleto passa per il ribaltamento della posizione e la vittoria: "Stasera si recita in presenza del re:/ una scena del dramma s’avvicina ai fatti/che t’ho detto sulla morte di mio padre. /Ti prego, quando vedi cominciare quell’episodio /con tutto l’acume della tua anima osserva mio zio." (III. 2.85-90).
LA VOLPE E IL LEONE. "Sendo, dunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi." (N. Machiavelli, "Il Principe", cap. XVIII).
EDUCAZIONE CIVICA E CITTADINANZA ATTIVA E CRITICA: UN GATTO ("THE MOUSETRAP") E UN ("SERPENTE" CAMUFFATO DA) "TOPO". Amleto, ben consapevole (come chiarisce a Orazio) del fatto che, «se la sua [del Re Claudio] colpa occulta non si stana a un certo discorso, è uno spettro dannato quello che noi abbiam visto» (III.2. 90-92), per chiarire a sé stesso e a tutti e a tutte i dubbi, da "cacciato" si fa "#cacciatore" e aziona la "trappola per topi" ("The Mousetrap"), per mostrare come chiarire gli "amletici" dubbi: "Questo dramma è la rappresentazione di un assassinio compiuto a Vienna. Gonzago è il nome del Duca, quello di sua moglie Battista. [...] l’assassino è un certo Luciano, #nipote del Re [...]. Lo avvelena nel #giardino per prendergli il #regno. Il suo nome è Gonzago. La storia è dei nostri giorni, e scritta in italiano scelto. Ora vedrete come l’assassino ottiene l’#amore della moglie di Gonzago" (III.2.247).
NOTE:
ANTROPOLOGIA FILOSOFIA, PSICOANALISI, E CIVILTA’ (KANT 2024): CRITICA DELLA COSMOTEANDRIA OCCIDENTALE.
RIATTIVARE IL "CIRCUITO DELLA PAROLE". Oltre il lacanismo (e il paolinismo), l’omaggio di Sigmund Freud a Marie Bonaparte:
"La grande domanda, alla quale nemmeno io ho saputo rispondere, è questa: che cosa vuole la donna?” (Freud 1933). *
PIANETATERRA: ALLA LUCE DEL "CANTICO DEI CANTICI" (è "l’amor che move il sole e le altre stelle"), DOPO MILLENNI DI COLONIZZAZIONE DEL " LOGOS" (DIVENTATO UN "#LOGO"), e, dopo aver gettato in pasto all’algoritmo la "lingua" ("#langue" ) del "Corso di linguistica generale" di Ferdinand de #Saussure, forse, è ora di ri-attivare antropologicamente il "circuito della #parole", e, al contempo, fare chiarezza sulle #ideologie falloforiche nelle loro tragiche pretese androcentriche e platonizzanti e passare alla "commedia" (#DanteAlighieri): almeno dai lavori di #Michelangelo Buonarroti, per riflettere teologicamente sul tema, le Sibille camminano insieme ai #Profeti nella Volta della #CappellaSistina e l’ amore di ogni "Maria" e ogni "Giuseppe" cerca di illuminare non solo il cammino di ogni loro bambino e di ogni loro bambina ("Gesù"), ma anche le loro stesse comunicazioni e le loro stesse relazioni tra di loro e con tutti gli esseri umani (e non solo).
Note:
TEATRO E METATEATRO: "REMEMBER ME" (SHAKESPEARE, "HAMLET", I.5). MEMORIA STORIA LETTERATURA E FILOLOGIA (2 LUGLIO 2024).
PER AMLETO, LA "CASA DEL PADRE" (IL "RE DEL MONDO", L’ AMORE) CON LE SUE "MOLTE DIMORE" (Gv. 14, 2) E’ DIVENTATA UNA "PRISON" (PRIGIONE):
PSICOANALISI E STORIOGRAFIA. COME IL #LOGOS DEL PRINCIPIO (#ARCHE’) DI #ERACLITO DI EFESO E DELL’APOSTOLO GIOVANNI (Gv. 1.1) DIVENNE UN #LOGO E LE ENCLOSURES (RECINZIONI) SI DIFFUSERO SU TUTTA LA TERRA:
Sigmund Freud, che ha scavato a lungo, e continuò a scavare nei sotterranei della cultura greca, ebraica, e cattolico-romana fino alla morte (Londra, 1939), e conosceva molto bene non solo la "tragedia" di "Edipo Re" (Sofocle), ma anche del principe "Amleto" (Shakespeare), nel 1929, così scrive: "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’#amore #universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori" (S. Freud, "Disagio della civiltà", 1929).
ARTE E TEOLOGIA. Alla luce del sempre più "brillante" presente storico, forse, è bene tenere conto dell’analisi di Freud, rimeditare sulla hamlet-ica "Mousetrap" (III.2) di Shakespeare, e, al contempo, riflettere sulla enigmatica figura del futuro #padre di Gesù, #Giuseppe ("De domo David"), che prepara una "trappola per #topi" nello straordinario "Trittico di Mérode", dedicato al tema dell’#Annunciazione, di Robert Campin.
Nota:
A CHE #GIOCO GIOCHIAMO, IN #REALTÀ?! LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA DEL DIVANO DI #FREUD E IL PERMANERE DEL COMPROMESSO "OLIMPICO" (PLATONICO E ARISTOTELICO) SUL PROBLEMA DEL "COME NASCONO I BAMBINI".
ANTROPOLOGIA E STORIA: #UNO (#ONU). Alla luce dell’eredità tragica di #Edipo (#Sofocle) e #Amleto (#Shakespeare), sulla questione antropologica (e cristologica) la cultura europea (e planetaria) ancora non è riuscita a fare chiarezza sulla dimensione "nexologica" (da "#nexus") e confonde ancora "nexuno", con "#nessuno", e non comprende nemmeno un semplice "nesso"!
PSICOANALISI ("L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI", 1899): "IL DIALOGO PSICOANALITICO" (Jean-Jacques #Abrahams, "Les Temps Modernes", 1969). A partire dal caso dell’«uomo dei topi» (Freud, 1909) e dell’«uomo con il magnetofono, dramma in un atto con grida d’aiuto di uno psicoanalista» (Jean-Jacques Abrahams, 1977), il problema è ancora sul divano di #SigmundFreud (non di #Lacan), e l’#enigma del "come nascono i bambini" non è stato ancora risolto... A gloria eterna della sollecitazione di "Sigismondo di Vindobona" e di Franca Ongaro Basaglia (cfr. "Così parlò Edipo a #Cuernavaca", "pM - Panorama mese", novembre 1982), che fare? Continuare i giochi "olimpici" di enigmistica nello spirito di Edipo e di cruciverba nello spirito di Amleto?
STORIA, STORIOGRAFIA E "DIVINA COMMEDIA" (#DANTE2021): L’IMMAGINARIO APOLLINEO E LA SOPRAVVIVENZA DELL’ #ALGORITMO DELLA TRAGEDIA. Se è vero, come è vero, che per la religione greca «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda» (#Eschilo, "Eumenidi"), è anche vero che dopo la nascita di Cristo e dopo la diffusione del Cristianesimo, come ha scritto Franca Ongaro Basaglia (1978), continua ad essere "possibile un’operazione #matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo".
NOTE:
"SHAKESPEARE GLOBE", ELIOCENTRISMO, E "RIVOLUZIONE COPERNICANA" (KANT): FILOSOFIA (GIUSTIZIA - LOGOS), CRISTIANESIMO (AMORE - "AGAPE"), E CATTOLICESIMO (NICEA 325 -2025). Con (Parmenide ed Eraclito e) Aristotele, oltre: "In principio era il Logos" (Gv. I.1) - non un Logo.
PREMESSO CHE la #question #hamletica è storica e storiografica e che, per comprendere il lavoro di Shakespeare, forse, è opportuno pensare il rapporto tra "Shakespeare, Christianity, and Aristotele’s Poetics" all’interno di un contesto europeo segnato dalla Riforma Protestante, dalla Riforma Anglicana, e dell’attacco cattolico-spagnolo all’Inghilterra della Regina e Papessa, Elisabetta I, figlia di Enrico VIII, e dalla Rivoluzione astronomica e scientifica, aperta dall’opera di Copernico, e rilanciata alla grande da Tommaso Campanella e da Giordano Bruno, condannato come eretico e bruciato sul rogo (17 febbraio 1600).
CONSIDERANDO IL CONTRIBUTO (ASSOLUTAMENTE "MODERNO", COME HA SCRITTO UNA VOLTA LO STORICO DELLA FILOSOFIA GILSON) DEL COSIDDETTO #MEDIOEVO DELLA "PRIMA #RINASCITA" (GRAZIE A FRANCESCO D’ASSISI, GIOACCHINO DA FIORE, E DANTE ALIGHIERI) E IL RAPPORTO DI DANTE CON "IL #MAESTRO DI COLOR CHE SANNO" (Inf. IV, 131), c’è da dire e da pensare che tra Aristotele e Shakespeare (come con lo stesso Dante) c’è molta amicizia, nello spirito dell’antico e nuovo Logos (e non del #Logo di una azienda personale).
NEL PORRE AL CENTRO DELL’#AMLETO la questione antropologica (e cristologica), Shakespeare pone "aristotelicamente" un problema di #legalità e di #giustizia e di #verità: la #critica al "nuovo" Re e Padre, che è un impostore, un mentitore, e un assassino, e l’introduzione nell’opera teatrale moderna (lo stesso "Hamlet") di un’opera teatrale "aristotelica", "The Mousetrap" ("La trappola per topi"). La Rivoluzione inglese è già iniziata...
SCIOLTO QUESTO NODO E, DANDO A SHAKESPEARE CIO’ CHE DI SHAKESPEARE E DI ARISTOTELE CIO’ CHE E DI ARISTOTELE, e, ancora, chiarito che il principe "Amleto" è figlio del "Re Amleto" e della "Regina Gertrude", si può senz’altro condividere l’opinione che "[...] for Aristotle, tragedy is amoral: it’s like the process of legal discovery that occurs in a court of law." (Patrick Grey).
NOTA:
PIANETATERRA, DISAGIO NELLA #CIVILTA’ (1929) E "COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (S. #FREUD, 1937).
Una nota sul tema della questione antropologica e sul #corpomistico dell’#uomosupremo, nel trecentesimo anniversario della nascita di Immanuel Kant (1724-2024).
ALCUNE RIFLESSIONI ICONOLOGICHE SU DUE BACI CHE HANNO SEGNATO L’IMMAGINARIO E LA STORIA DELL’#EUROPA. TRADIZIONE, "TRADUZIONE", E RAPPRESENTAZIONE ARTISTICA...
IL BACIO DELL’APOSTOLO PIETRO E DELL’«APOSTOLO» PAOLO, ICONOGRAFICAMENTE E FILOLOGICAMENTE, RICHIAMA IL PROBLEMATICO "NODO" DEL BACIO DI GIUDA A GESU’ RAPPRESENTATO DA GIOTTO E, SIMBOLICAMENTE E STORICAMENTE, LA NASCITA DEL #PAOLINISMO E DELLA RELIGIONE IMPERIALISTICA DELLO "IN HOC SIGNO VINCES" DI COSTANTINO.
ARTE, FILOLOGIA, STORIOGRAFIA, E "PROPAGANDA E FEDE". Sicuramente le indicazioni date da Gesù all’apostolo Pietro per "organizzare" la vita della comunità cristiana non erano né filologicamente né evangelicamente queste di Paolo di Tarso: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il #capo è #Cristo, e capo della #donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
Questa dichiarazione di #cosmoteandria assoluta va molto più indietro delle stesse dichiarazioni rintracciabili nella tradizione religiosa greca di Zeus, di Apollo, e di Atena (Eschilo, Sofocle, ed Euripide) e così, e fondamentalmente, dopo la "donazione" di Pietro a Paolo, si apre la strada alla "donazione" decisiva, quella detta di Costantino e al suo "algoritmico" programma di imperialismo teologico-politico (Nicea 325-2025).
«È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"» (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010).
NOTE:
LA PSICOANALISI E I QUATTRO "MOSCHETTIERI": FREUD ("L’UOMO DEI TOPI"), ABRAHAMS" (L’UOMO COL MAGNETOFONO"), MUSATTI ("CONDIZIONI DELL’ESPERIENZA E FONDAZIONE DELLA PSICOLOGIA") E FACHINELLI ("IL BAMBINO DALLE UOVA D’ORO". Appunti sul tema...
A sua memoria, "vent’anni dopo" (1989-2009).
FACHINELLI intuì CHE J.-J.ABRAHAMS, L’UOMO COL MAGNETOFONO, ERA UN SINGOLARE (KIERKEGAARD) GATTO, MA GLI SFUGGì il legame CON I TOPI, CON LA "MOUSETRAP" DI "AMLETO" E L’OPERA DI ALEXANDRE DUMAS.
ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA E NEXOLOGIA CHIASMATICA: "ACHERONTA MOVEBO". Aprire gli occhi (Freud), tutti e due, è difficile, ma solo sciogliendo il nesso ("nexus") tragico, il nodo edipico, è possibile uscire dall’orizzonte della tragedia e della claustrofilia (Elvio Fachinelli, 1983) e andare oltre le colonne d’#Ercole e, con Virgilio e Dante, oltre... "Sàpere aude! (Orazio-Kant).
PSICOANALISI (NEXOLOGIA) E ANTROPOLOGIA CHIASMATICA: CON KIERKEGAARD ("AUT - AUT"), OLTRE. Mi auguro che le poche indicazioni date siano buone sollecitazioni a riprendere il filo: "L’uomo dei topi" è "radioattivamente" carico di teoria. Freud s’è l’è portato dietro tutta la vita, fino alle "costruzioni nell’analisi" (1937) e oltre.
DA FREUD A FACHINELLI: CON KIERKEGAARD, OLTRE. "L’uomo col magnetofono", fondamentalmente, è lo stesso Fachinelli (v. "La parola contaminata", nel testo), andato a "scuola" di Cesare Musatti, e, al contempo, critico nel rapporto con la Società Psicoanalitica Italiana (che ancora oggi si attarda a parlare alla Platone, "Psiche e Polis").
Federico La Sala
QUALE "NESSO"* TRA IL MITO E LA STORIA DELL’EUROPA? UNA IPOTESI DI CHIARIMENTO A MARGINE DEI "SOGNI DI UN VISIONARIO CHARITI CON I SOGNI DELLA METAFISICA".
DEL #PIANETATERRA E DEL SUO BRILLANTECOLORE: IL #CORPOMISTICO DELL’#ANDROCENTRISMO TEOLOGICO-POLITICO DI PLATONE E COSTANTINO (#NICEA 325-2025) BLOCCA DA MILLENNI LA #NAVIGAZIONE NELL’#OCEANOCELESTE (#KEPLERO, 1611) DEL #GALILEO #GALILEI "CHE HA VINTO" SIA SUL PIANO CELESTE SIA SUL PIANO TERRESTRE E, ancora oggi (#2giugno2024) RENDE DIFFICILE CAPIRE UN’ #ACCA E PORTARSI FUORI DALL’ORIZZONTE DI #MAMMONA ("CARITAS").
"COME NASCONO I BAMBINI": INCARNAZIONE (#MENSCHWERDUNG), ANTROPOLOGIA, E #FILOLOGIA. Riprendendo il filo della "#Charitas" di #GioacchinodaFiore e #DanteAlighieri, forse, è meglio uscire dal "letargo" (Par. XXXIII, 94), e con il #Boehme della "De incarnatione Verbi" riflettere sulla "Charis" (gr. #Xapis") e sul Cristogramma.
NOTA: IL "TRATTATO" DEL "MASTRILLO" (#MAASTRICT), E LA "DIRITTA VIA" (DANTE ALIGHIERI). L’amicizia e l’amore della parola sono decisivi e fondamentali: senza filologia non si va da nessuna parte e non si comprende più il #nesso tra il #prima e il #dopo, si dimentica che "in #principio era il #Logos", e tutti gli erculei esseri umana finiscono per indossare le camicie con il "logo" di #NESSunO.
STORIOGRAFIA FILOSOFICA E FILOLOGIA.
L’ “UOMO SUPREMO” DEI VISIONARI E DEI FILOSOFI DELLA TEOLOGIA -POLI TICA ATEA E DEVOTA. La memoria della "lezione" di Orazio ("sàpere aude"), il sogno di Swedenborg («Non mangiare tanto!»), e "I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica". *
Swedenborg e la visione dell’Uomo che gli ordina di «Non mangiare troppo»**.
"EMANUELE SWEDENBORG (1688- 1772) di Paola Giovetti : [...] Swedenborg prega, si interroga, attende, studia la Bibbia. Nel 1745, mentre è a Londra, grazie a un’altra visione supera definitivamente la crisi. E’ la metà di aprile, è passato un anno esatto dalla prima visione. In quest’anno Swedenborg ha pubblicato il terzo volume del Regnum Animale e i due volumi di Della saggezza e dell’amore di Dio. Ecco, con le parole di Swedenborg, l’esperienza determinante:
Poi tutto si oscurò di nuovo, ma di colpo si rifece luce e mi ritrovai solo nella stanza. Questa visione mi indusse a tornare rapidamente a casa. Durante la notte mi si ripresentò lo stesso uomo, il quale mi disse che era Dio, il creatore del mondo e redentore, e che mi aveva scelto per spiegare agli uomini il senso spirituale delle Sacre Scritture; lui stesso mi avrebbe dettato quello che avrei dovuto scrivere su questo soggetto. In quella stessa notte, per convincermi, mi fu mostrato il mondo spirituale, l’inferno e il cielo, dove incontrai parecchie persone di mia conoscenza e di tutti i ceti sociali. Da quel giorno rinunciai a ogni interesse scientifico terreno e lavorai soltanto alle cose spirituali, secondo quello che il Signore mi aveva ordinato. In seguito il Signore aprì gli occhi del mio spirito, così che mi trovai in grado di vedere mentre ero pienamente desto quello che avviene nell’altro mondo, e di parlare con gli angeli e gli spiriti».
Il veggente
Si può affermare che tutta l’opera scientifica finora compiuta da Swedenborg costituisca una sorta di preparazione a quello che doveva essere l’autentico compito della sua vita, quello per il quale è rimasto famoso. Nella sua carriera di scienziato aveva acquisito capacità di osservazione, di analisi e di sintesi, sapeva autodisciplinarsi e valutare il valore del proprio lavoro e delle teorie che formulava; aveva una notevolissima abilità organizzativa e una straordinaria capacità di lavoro. Sapeva come si prepara un manoscritto, era in grado di confezionare copie perfette pronte per la pubblicazione. Era pronto per il gran balzo. La visione di Londra gli diede le ali: ora sapeva in che cosa consistesse il compito che lo attendeva. Doveva rivelare il vero senso della Bibbia e descrivere l’altra dimensione: spiriti e angeli saranno d’ora in poi suoi maestri. La sua vita ha uno scopo nuovo, al quale si dedica con tutto se stesso. [...]" (cfr. Paola Giovetti, op. cit.).
Note:
** Su "Emanuel Swedenborg: «Non mangiare troppo»", si cfr. Guido Almansi - Claude Béguin, "Teatro del sonno. Antologia dei sogni letterari", Oscar Mondadori, Milano 1991: "Questo sogno di Swedenborg è raccontato dal suo biografo, William White, in un libro pubblicato nel 1869. Ignoriamo la fonte d’informazione di White" pp. 406-407.
Federico La Sala
LA #MONARCHIA DEI "DUE SOLI" (DANTE ALIGHIERI) E LA "CHIMERA" DEL "POST-UMANO".
A) LA #QUESTION DI #SHAKESPEARE,
B) LA DOMANDA DI PASCAL:
C) LA "QUARTA" DOMANDA DI #KANT: "COSA E’ L’UOMO? (1800). "SAPERE AUDE!": "RIPENSANDO A #SOFOCLE (E ALLA SUA "#ANTIGONE"), OLTRE CHE A SHAKESPEARE (E AL SUO "AMLETO"), E’ BENE RIPARTIRE DA PASCAL CHE CON LA SUA «CHARITE’» SA PENSARE INSIEME "UOMO" E "CHIMERA" E OSA, ALL’INTERNO DELL’ORIZZONTE DELLA #RIVOLUZIONECOPERNICANA, RI-APRIRE LA #QUESTIONEANTROPOLOGICA E TEOLOGICA.
D) LA "MONARCHIA" DEI "DUE SOLI" (#DANTE2021) E IL "POST-UMANO". Con Pascal (Clermont-Ferrand, 19 giugno 1623 - Parigi, 19 agosto 1662) e Kant (Königsberg, 22 aprile 1724 - Königsberg, 12 febbraio 1804), non è forse l’ora e il tempo, oggi, di riprendere il filo di #MArianna, "la #saggezza, come un’altra #Arianna" e portarsi fuori dal "labirinto delle cose umane" (cfr. #VictorHugo, "Notre-Dame de Paris", L. I, cap. III), e, finalmente, dal #letargo (#Dante Alighieri, Par. XXXIII, v. 94)?!
NOTA:
LA FINE DELL’ ERA "ICEBERGHIANA" E DEL #DESTINO DELLA #NECESSITA’ ( #ANANKE: #VICTORHUGO):
Una breve nota su una metafora "ghiacciata" e "agghiacciante"!
PSICOANALISI, #ANTROPOLOGIA, ED #ECOLOGIA: SOTTO LA #MONTAGNA (#BERG) DI #GHACCIO (#ICE), COSA C’E’ SE NON SOLO L’ ACQUA "SPORCA" E "RISCALDATA" DELLO STESSO CHIACCIO? Continuare ad usare l’ #iceberg, come metafora della coscienza della "specie" umana, non porta fuori dalla "diritta via" e impedisce di conoscere sé e, al contempo, che ciò che "galleggia" sull’oceano è solo la #testa, la #coscienza capovolta del luciferino Signore del #ghiaccio infernale, come aveva ben capito #Dante, nel momento stesso in cui con #Virgilio riesce ad attaccarsi al #vello di #Lucifero e venir fuori dalla #caverna in cui si era smarrito e da cui pensava di non poter più uscire? Non è forse meglio rimettere i piedi a terra (Inf. XXXIV, vv. 88-90: "Io levai li occhi e credetti vedere /Lucifero com’io l’avea lasciato, /e vidili le gambe in sù tenere") e rileggere non solo con Dante e Virgilio, ma anche con Maria Beatrice e Lucia il viaggio di ogni essere umano nello spazio-tempo cosmico in cui si svolge la #Commedia umana, la "divina Commedia"?
NOTA:
Lacan dice pure la verità (come tutti e tutte), ma "a metà"! Si mette a "spacciare" ("#joyce-#mente") come un grande "pifferaio", in nome dello "#spirito" di #Freud, che il "Nome di «Freud» significa «gioia»" (1956), alla "lettera", "#joy", "#Freude" (cioè, alla #Beethoven e alla #Schiller), e diventa un fedele "niceano" (#Nicea 325, alla costantiniana maniera), sia contro #Kant, contro #Marx, contro #Nietzsche, e, ovviamente, contro lo stesso #Freud!
DESTINO DELLA #NECESSITA’ ( #ANANKE: #VICTORHUGO). Da "visconte dimezzato", #JacquesLacan come avrebbe potuto prevedere il salire della la temperatura, lo scioglimento dell’io #iceberg _hiano, e il fiorire dei prati a #Maresfield, là dove le cavalle e i cavalli si rincorrono ancora e di nuovo gioiosamente?!
STORIA, FILOLOGIA, E FILOSOFIA: L’ OPERA INCOMPIUTA DELL’EUROPA E IL PERDURARE DEL "SONNO DOGMATICO"
Un piccolo invito "filologico" a riaprire la riflessione sulla domanda kantiana del "che cosa posso sapere?" e, possibilmente, cercare, mangiando sano e con gusto, di riprendere il cammino nell’#oceanoceleste (#Keplero, 1611)
SALUTE E SAPERE. L’aver dimenticato la lezione di Orazio ("Chi bene incomincia è già a metà dell’opera; risolviti a diventare saggio: incomincia [dimidium facti, qui coepit, habet: sàpere aude, incipe]") dice di una cosa terribile non solo a ogni persona e a ogni cittadino e a ogni cittadina della luminosa e solare Venosa (Basilicata, Potenza), ma dell’intera Europa (e del Pianeta Terra)!
ANTROPOLOGIA E PEDAGOGIA. "L’UOMO E’ CIO’ CHE MANGIA" (FEUERBACH), A TUTTI I LIVELLI. Materialmente e spiritualmente, è un cosiddetto segreto di "Pulcinella. Il filosofo che fu chiamato pazzo" (Romeo De Maio, 1989), non si sa più nemmeno mangiare e, cosa ancora più grave, non sapendo nemmeno più assaporare e "as-saggiare", si ignora che cosa mangia e "che cosa" sia (diventato) il cosiddetto "uomo", antropologicamente!
COSTITUZIONE, "RAPPORTO SOCIALE DI #PRODUZIONE", E CIBO. Non solo a Casa, ma nelle Scuole e nelle Università e nelle Accademie (atee e devote), cosa insegnano, cosa danno da "mangiare": "Prendete e mangiate", ma che cosa?! Non è il caso di suonare le campane a martello, uscire dal letargo, e decidersi a riprendere lo studio della filologia e della letteratura e della #storia e della filosofia e ad affrontare i lavori dell’Incompiuta, del "Complesso della Santissima Trinità"?!
L’INNO ALLA GIOIA ("AN DIE FREUDE") E LA FILOLOGIA: KANT, SCHILLER, BEETHOVEN, "FREUD ... E" LACAN.
LA CULTURA EUROPEA, SIGMUND FREUD, E L’INNO ALLA GIOIA (F. #Schiller, "An die Freude", 1785).
NEL "NOME DI FREUD", LA "PSICOANALISI" DEL «JOYOSO» JACQUES LACAN. Due brevi note a margine della seguente "dichiarazione":
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA. A CHE GIOCO GIOCHIAMO?!
FREUD O LACAN? "SÀPERE AUDE" (ORAZIO - KANT). Nella ricorrenza del XXI Congresso Nazionale della Societa’ Psicoanalitica italiana, RICORDANDO ELVIO FACHINELLI (con le parole di Francesco Marchioro: "Spirito curioso, ironico, indipendente e analista non ortodosso denuncia con forza una sorta di «freudolente» uso della terapia e accusa la sua stessa istituzione di praticare una “psicoanalisi della risposta”, nel senso che si limita a «dare ragione all’esistente, razionalizzare le irrazionalità, tamponare i conflitti», offrire una terapia dell’adattamento invece di essere una psicoanalisi interrogante, capace di sollevare domande radicali sullo statuto del soggetto e la sua relazione alla Lebenswelt, al mondo della vita.": Altoadige.it, 22.12.2019), non è il caso di svegliarsi dal sonno dogmatico e riprendere il filo da Kant (1724-2024), dalla interpretazione dei "sogni di un visionario" (1766), e riprendere coraggiosamente a "servirsi della propria intelligenza ("1784), e, insieme, far un so critico della propria facoltà di giudizio, come ha fatto e sollecitato a fare in prima persona Michel Foucault nel 1984?
Al di là del #paolinismo (dell’#hegelismo e del #lacanismo): "Psiche e Polis" (#Platonismo) e "#Costruzioni nell’#analisi" (S. Freud, 1937).
ANTROPOLOGIA E #PSICOANALISI: "LA FERMA FERMA" (E. Fachinelli, 1979). Purtroppo, bisogna dirlo la Società Psicoanalitica Italiana, all’altezza del XXI Congresso (in coincidenza con l’anniversario della #nascita di #Kant, trecento anni fa, 1724) ha perso tutto il coraggio degli inizi (del "#sàpereaude!" oraziano come dell’#illuminismo kantiano) del suo "fondatore" (#COPERNICO, #DARWIN, e #FREUD): non riesce ad "#apriregliocchi" su una vera e propria "seconda" #rivoluzionecopernicana in progress e continua ad agitare "la_can_na" per l’aria - almeno dal 1989, dalla morte contemporanea di #CesareMusatti e di #ElvioFachinelli.
MEMORIA E STORIA: L’ITALIA, IL VECCHIO E NUOVO #FASCISMO, E "LA FRECCIA FERMA". La lezione sorprendente e preveggente di Elvio Fachinelli.
ARCHEOLOGIA, #STORIAELETTERATURA, E "DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (1929): "RIVEDERE IL SOLE E LE ALTRE STELLE" E’ POSSIBILE. "L’#Interpretazione dei #Sogni" (1899) ha il suo legame con l’#Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo") di #Virgilio e "L’uomo Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della "Divina Commedia" (Pg. II, 46-48) di #DanteAlighieri.
NOTA:
PSICOANALISI E #SOCIETA’: "TENTATIVI DI ANNULLARE IL #TEMPO" E "#COSTRUZIONI NELL’ #ANALISI" ...
Una breve nota a margine di un intervento di Sergio Benvenuto ("Anti-Deleuze", "Le parole e le cose", 29 aprile 2024).
IL TITOLO DEL XXI CONGRESSO NAZIONALE DELLA Società Psicoanalitica Italiana (Roma, 24-25-26 MAGGIO 2024) E’ “PSICHE E POLIS”. Incapaci di riuscire ad “aprire gli occhi” fuori dalla famosa “caverna” e guardare il “mondo” al di là della luce “del sapere del “Maestro di color che sanno”, del sole e delle altre stelle del cielo aristotelico, è più che “verosimile la tesi promossa da George #Lakoff (in #Moral #Politics): che i grandi conflitti politici, quelli che portano anche a distruzioni e miserie immani, sono una proiezione espansiva, cosmica, delle nostre primitive relazioni con mamma, papà, la balia, la zia... In analisi, emerge la straordinaria pregnanza del Piccolo Mondo Antico”. (cfr. S. Benvenuto, "Anti-Deleuze", cit.).
"ANTI-EDIPO": "[...] Il primato dei crucci privati mi ha certamente colpito ma non sorpreso. Perché non ho mai creduto alla predicazione di #Deleuze e #Guattari. Come è noto, costoro rimproveravano alla psicoanalisi soprattutto freudiana di voler “familiizzare” tutto, di ridurre tutti i conflitti detti psichici a storie di mamma, papà, inauspicato fratellino, toccamenti di pisellino o patatina tra bambini... Mentre, altroché, i veri problemi inconsci sono cose serie, politiche, lotta di classe, rivoluzione degli oppressi, ecc. Gli schizofrenici, in particolare, vibrano per le sorti drammatiche del mondo. [...]" (Benvenuto, cit.).
"LA #FRECCIA #FERMA". A quanto pare, l’evidenza appare al massimo del suo livello: il tempo si è fermato! A questo punto, a che vale chiedersi ”se certi colleghi possano portarmi esperienze ben diverse”, quando “La freccia [è] ferma” (E. Fachinelli, 1979), per quanto qualche “vecchia #talpa” possa essere ancora benvenuta nella sua volontà di scavare, può mai contribuire a trovare la via d’uscita? Così non si butta la "Psiche" del #Bambino ("Edipo") e l’acqua sporca della Città di #Tebe?, della "Polis" t(al)ebana?! Boh e bah?!
PIANETA TERRA (#EARTHRISE). Individuo ("Psiche") e Società ("Polis"): una relazione chiasmatica aperta alla luce del Sole copernicano (e galileiano e kantiano)! Nel 1989, il tema del 36º congresso internazionale dell’ International Psychoanalytical Association (IPA), tenutosi a Roma (con #Musatti, morto il #21marzo 1989, e #Fachinelli, morto il 21 dicembre 1989) era quello dell’#oikos, del "terreno comune" in psicoanalisi - e non solo!
Nota:
Telegramma di Freud alla figlia Anna in Ialia (24 aprile 1927): "𝗟’𝗲𝘀𝘀𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗼 𝘀𝗽𝗶𝗿𝗶𝘁𝗼 𝗲̀ 𝗶𝗻𝗻𝗮𝗻𝘇𝗶𝘁𝘂𝘁𝘁𝗼 𝗹𝗮 𝗹𝗶𝗯𝗲𝗿𝘁𝗮̀, 𝗰𝗵𝗲 𝗼𝗿𝗮 𝗲̀ 𝗶𝗻 𝗽𝗲𝗿𝗶𝗰𝗼𝗹𝗼 𝗲 𝗰𝗵𝗲 𝘀𝗶𝗮𝗺𝗼 𝘁𝗲𝗻𝘂𝘁𝗶 𝗮 𝗽𝗿𝗼𝘁𝗲𝗴𝗴𝗲𝗿𝗲 (...)". *
𝗕𝘂𝗼𝗻𝗮 𝗙𝗲𝘀𝘁𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗟𝗶𝗯𝗲𝗿𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲! (Anna Cordioli - 25 aprile 2024)
CON #KANT E #FREUD, #OLTRE. "UNA SCELTA DECISIVA PER L’INDIVIDUO E PER LA SPECIE". Un nuovo #paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO #FACHINELLI. Antropologia, psicoanalisi, e #critica della #ragione hegeliana (e lacaniana).
Una nota a margine del lavoro di Pietro Barbetta: *
Brillante breve saggio sulla storica figura della cultura psicoanalitica e filosofica italiana, "Elvio Fachinelli - Psychoanalysis of Dissension in Italy" ("Qeios", 24 aprile 2024): pur partendo dall’importante #caso dell’#uomo con il #magnetofono (cfr. J.-J. #Abrahams, "L’uomo col magnetofono: dramma in un atto con grida d’aiuto di uno psicoanalista", con note di J.-P. #Sartre, J.-B #Pontalis, B. #Pingaud e E. #Fachinelli, edizioni L’erba voglio, Milano 1977), seguendo il filo di una obsoleta #storiografia freudiana (e fachinelliana), a mio parere, si perde l’equilibrio e ne esce una #visione della ricerca fachinelliana del tutto riduttiva, schiacciata nella valorizzazione pure importante dell’indicazioni di Sándor #Ferenczi.
Sul tema, mi sia lecito, si cfr. il capitolo intitolato "Il punto di svolta. L’indicazione di Fachinelli" all’interno di un mio "vecchio" lavoro, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica" (Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 138-161): "Con #Freud, #oltre - in una nuova direzione e in modo nuovo: contro le sfingi e contro l’imbalsamazione degli uomini come delle teorie".
DA RICORDARE: "L’#Interpretazione dei #Sogni" (1899) ha il suo legame con l’#Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo") di #Virgilio e "L’uomo Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della #DivinaCommedia (Pg. II, 46-48) di #DanteAlighieri.
Note:
L’ipotesi della distruzione in Sigmund Freud
di Elvio Fachinelli ("Il Corpo", 1, marzo 1965).*
"[...] Si pensi al programma ambizioso iscritto sul frontespizio della Interpretazione dei sogni: Acheronta movebo; trent’anni dopo, nelle ultime pagine de Il disagio nella civiltà, la mantenuta coerenza del proposito appare velata d’amarezza: "M’inchino al rimprovero... di non saper recare alcuna consolazione."Né disperazione, è chiaro; ma piuttosto la consapevolezza del profilarsi - al limite di separazione fra ciò che siamo e il futuro visibile dell’utopia - di una scelta decisiva per l’individuo e per la specie" (* ).
* Cfr. AA, VV., "La negazione freudiana", "Nuova Corrente", 61/62, 1973, 159-171; poi, in E. Fachinelli, "Il bambino dalle uova d’oro", Milano, Feltrinelli 1974, pp. 13-29).
Anniversario.
Kant: tre secoli sull’abisso della filosofia
Il 22 aprile del 1724 nasceva il filosofo di Königsberg. Un ospite scomodo e oggi purtroppo inascoltato: basti pensare alla riflessione sulla pace dal forte tono evangelico
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, lunedì 22 aprile 2024)
La “rivoluzione copernicana” che Immanuel Kant (di cui il 22 aprile ricordiamo i trecento anni dalla nascita) intendeva attuare col suo progetto speculativo non poteva non interpellare la teologia e sollecitarla in rapporto alle grandi tematiche che il filosofo di Königsberg ha affrontato nelle tre critiche e nelle opere di filosofia della religione. In realtà, Kant è un ospite scomodo per il pensiero cattolico e per la teologia in particolare, tanto che l’apologetica neoscolastica ebbe a coniare la formula del “venenum kantianum”, dal quale cercava di tenere lontane le giovani menti di quanti venivano introdotti agli studi teologici.
La stessa apologetica si incaricava altresì di annoverare fra i pensatori poco affidabili, se non addirittura nocivi, colui che Bertrando Spaventa prima e la critica neoidealista poi avevano denominato il “Kant italiano”: il beato Antonio Rosmini. Questi in età giovanile, aveva letto le opere kantiane in una edizione latina (Lipsia 1816) e sul frontespizio aveva scritto di suo pugno la lapidaria espressione “vorago orribilis!”.
Prudenza speculativa suggerirebbe di tenersi a distanza dalla voragine kantiana, invece quanti, a partire dal Roveretano, l’hanno affrontata non senza spirito critico, ma anche senza pregiudiziali aprioristiche, insegnano a noi tutti che tale incontro può, a lungo andare, risultare catartico per il pensiero credente e la stessa teologia. Allorché, infatti, si riemerge dall’abisso, innanzitutto si può scoprire un pensatore molto diverso da quello che la manualistica apologetica tende, ancora oggi a proporre. Colui che ha indicato nell’illuminismo un processo attraverso il quale il mondo e l’uomo raggiungono lo stato adulto, aveva, in diverse occasioni, pensato i limiti della pura ragione persino in rapporto alla conoscenza della natura delle cose (= noumeno) e, quanto al problema dell’esistenza di Dio, si era fatto carico di smascherare i “paralogismi” caratterizzanti i diversi tentativi di dimostrazione, finendo con l’assumere una sorta di prospettiva apofatica, non lontana da quanto Tommaso d’Aquino, nel famoso quaresimale del 1273 aveva segnalato, dicendo: «La nostra mente è tanto debole che mai alcun filosofo è riuscito a sondare fino in fondo la natura di una semplice mosca».
Certo tale apofatismo non potrà essere condiviso da esponenti del neotomismo che si incaricarono di contrastare i tentativi, peraltro proficui, di adottare il metodo trascendentale in teologia messi in atto, ad esempio, da Joseph Maréchal (contro cui si scagliò Réginald Garrigou-Lagrange) e da Karl Rahner (contro la cui “svolta antropologica” lanciò i suoi strali Cornelio Fabro). Eppure, il tentativo di padre Maréchal di pensare un “tomismo trascendentale”, capace di attualizzare il pensiero dell’Aquinate, proprio nel confronto con quello kantiano ha certamente avuto il grande merito di rivitalizzare la lezione tommasiana. I cinque cahiers, sul punto di partenza della metafisica, editi a Bruges-Lovanio fra il 1922 e il 1947 costituiscono il grembo da cui muovono il modello antropologico-trascendentale di Karl Rahner e quello metodologico-trascendentale di Bernard Lonergan. Rimaniamo così nell’ambito della Compagnia di Gesù e dei grandi teologi che l’ordine ignaziano ha consegnato al Novecento.
Le grandi questioni attraverso cui orientarsi nel pensiero kantiano: che cosa posso conoscere? Che cosa devo fare? Che cosa posso sperare? Chi è l’uomo? entrano a pieno titolo nel sapere teologico e contribuiscono ad aprirlo alla modernità, pur nella consapevolezza delle sue criticità. Un aspetto particolarmente intrigante della riflessione di Kant riguarda il terribile problema del male radicale e del suo senso. Da tale questione prende le mosse La religione nei limiti della semplice ragione (1793-94), preceduta dal testo Sull’insuccesso di ogni saggio filosofico di teodicea (1791). il Kant che da un lato si misura con il tentativo leibniziano e dall’altro con la tragedia del sisma di Lisbona, che aveva suggerito l’irridente satira voltairiana verso il migliore dei mondi possibili, imposta non soltanto la propria riflessione sulla teodicea, ma oseremmo dire la propria “filosofia della religione” a partire dal “male radicale”, sviluppandola nei termini dell’antagonismo con il principio del bene, la cui vittoria non solo auspica, ma ritiene possibile, per il tramite dell’impegno morale dell’uomo.
Affermando l’impossibilità di ogni teodicea razionale (o dottrinale), Kant rimanda di fatto alla necessità di postularne almeno i principi, allorché il discorso si sposta dal piano puramente teoretico della ragion pura a quello dell’etica e quindi della ragion pratica. Ritenere, il divieto kantiano, interpretandolo nei termini scettici di una radicale chiusura al soprannaturale e alla trascendenza, aprirebbe le porte al nichilismo, ossia farebbe sì che l’itinerario filosofico del pensatore tedesco si affacci su quella orribile voragine, che il Roveretano aveva intravisto, e che - secondo un suggestivo passaggio heideggeriano - Kant stesso avrebbe percepito, ritraendosi inorridito dal compiere l’ultimo passo cui l’avrebbe condotto l’esercizio dell’immaginazione trascendentale: l’abisso del nulla e del non senso nel quale rischia di soccombere (e del quale oggi spesso si nutre) ogni pensiero che non tenga conto, oltre che delle proprie immense potenzialità, anche dei propri limiti o confini.
Ecco come Kant esprime l’invalicabilità del limite: «[...] solo colui che si spinge sino alla conoscenza del mondo soprasensibile (intelligibile) e a capire il modo in cui sta a fondamento del mondo sensibile, giunge però a comprenderla. Solo su questa conoscenza si può fondare la prova della saggezza morale del Creatore nel mondo sensibile, poiché quest’ultimo ci presenta soltanto l’apparenza di quello soprasensibile: ma ad essa nessun mortale può giungere ». Sarà necessario il “salto” della fede perché sia superato il fossato orrendo e ci raggiunga la comprensione del senso del dolore innocente, di cui Giobbe, con la sua teodicea apofatica, è figura emblematica e decisiva (per Kant). «Giobbe parla come pensa e secondo i sentimenti che prova e che ogni altro uomo al suo posto proverebbe. I suoi amici invece parlano come se segretamente fossero uditi da quell’Onnipotente, la cui causa essi giudicano, e come se stesse loro a cuore più il ricevere il favore di Dio per il loro giudizio che non la verità. Questa loro perfidia, di affermare solo per l’apparenza cose che essi debbono confessare che non hanno comprese e di simulare una convinzione che non hanno, urta contro la franchezza di Giobbe così lontana dall’adulazione, che sebbene sia al limite dell’arroganza, finisce con il tornare a suo vantaggio.
Egli dice: «Volete forse difendere Dio ingiustamente? Volete far parzialità per Lui? Volete parlare per Lui? Egli vi punirà se in segreto farete parzialità! Nessun ipocrita verrà al suo cospetto! ». La conclusione della storia conferma effettivamente queste ultime parole. Infatti, Dio apprezza Giobbe e gli pone di fronte agli occhi la saggezza della sua creazione, soprattutto nell’aspetto per cui essa è insondabile ». Torniamo così alla prospettiva apofatica del pensiero kantiano. Certo non sappiamo se e quanto i modelli teologici sopra evocati e che Kant ha senz’altro ispirato possano reggere, data la loro tendenza all’antropocentrismo, all’impatto con l’antropocene oggi dominante. Di qui l’inattualità del pensiero kantiano che si mostra altresì a partire dall’inascoltato testo
Per la pace perpetua (1795), di cui invece avremmo dovuto fare tesoro e a cui la teologia, che si arrampica sugli specchi per giustificare i conflitti armati, dovrebbe guardare: «Gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono con il tempo scomparire del tutto» e «Non devono essere fatti debiti pubblici in vista di conflitti esterni dello Stato»: ideali più che teologici, che oserei chiamare semplicemente evangelici, oltre che razionali.
ARTE E STORIOGRAFIA: "IL POLITTICO DELL’AGNELLO MISTICO", UN MANIFESTO DELLA TEOLOGIA-POLITICA DEL CATTOLICESIMO EUROPEO.
"Il Polittico dell’Agnello Mistico, o Polittico di #Gand, è un’opera monumentale di Jan van Eyck (e del misterioso Hubert van Eyck), dipinta tra il 1426 e il 1432 per la cattedrale di San Bavone a Gand, dove si trova tutt’oggi. Si tratta di un polittico apribile composto da dodici pannelli di legno di quercia, otto dei quali sono dipinti anche sul lato posteriore, in maniera da essere visibili quando il polittico è chiuso. La tecnica usata è la pittura a olio e le misure totali sono 375x258 cm da aperto. [...]" (https://it.wikipedia.org/wiki/Polittico_dell%27Agnello_Mistico ):
Per una contestualizzazione di questo straordinario "testo", forse, è proprio necessario ri-#leggere il lavoro di Johan #Huizinga, "L’autunno del Medioevo" (Sansoni Editore, I ed. it. 1940): "Il desiderio di conoscere - egli scrive nella "Prefazione alla prima edizione dell’opera" del 1919 - un po’ meglio l’arte dei van Eyck e dei loro successori, in stretto rapporto colla vita di quel tempo, m’indusse a scrivere questo libro". Su quanto sia importante il risultato di tale sforzo, è bene ricordare gli anni della metà del Quattrocento con le sue tensioni riformistiche di tipo teologico-politico all’interno della Chiesa e i crescenti attacchi del mondo musulmano: del 1453 è la caduta di #Costantinopoli).
CORPO MISTICO DI #CRISTO. PER COGLIERE IL SENSO SIMBOLICO DEL #SACRIFICIO DELL’«AGNELLO MISTICO», occorre richiamare il tema (e il problema) delle #indulgenze (che darà il via alla #RiformaProtestante), e chiarire, con lo stesso Huizinga, "la dottrina del «thesaurus ecclesiae» o tesoro delle opere superogatorie di Cristo e dei santi. L’idea di tale tesoro, di cui è partecipe ogni credente, come membro del corpo mistico di Cristo, cioè della Chiesa, è molto antica, ma la dottrina che tali buone opere costituiscano una riserva inesauribile, che può essere distribuita dalla Chiesa e più precisamente dal papa, fa la sua comparsa solo nel secolo XIII. [...]. La dottrina si diffuse non senza opposizioni, finché trovò la sua perfetta enunciazione ed illustrazione nella bolla papale «Unigenitus» di Clemente VI nel 1343. In essa il tesoro è considerato come un capitale, che Cristo affidò a S. Pietro e ai suoi discepoli [...]".
NOTE:
"ESSERE, O NON ESSERE" (#SHAKESPEARE): "CHE VUOL DIRE #LEGGEMORALE IN NOI #PROFESSORE?", OGGI (#KANT2024)
ILLUMINISMO, #ILLUMINAZIONE, E "#SAPEREAUDE!" (#KANT): UNA RISPOSTA ALLA #DOMANDA.
Riconosciuta gratitudine per l’attenzione e per l’intervento, che cosa rispondere (in breve) a chi ha posto la #questione e desidera sapere?
Innanzitutto, che Il "professore" è il "tu" stesso con "te" stesso; secondo, che il sapere di non sapere e il #decidere con "te" stesso se si vuole sapere ("essere") o non sapere ("non essere") è già un primo passo, quello decisivo e fondamentale, per uscire dallo "stato di #minorità" (Kant, 1784); e, terzo, che cominciare a #dialogare con "#te" stesso come un #altro, apre al grande "aut aut"! "Che fare?" (Lenin), "Che cosa devo fare?" (Kant). Nel #ribaltamento e nel #riconoscimento di "sé" come un "altro" (Paul #Ricoeur) prende il via la "#fenomenologia dello #spirito" (alla #Hegel) o la #divinacommedia (alla #DanteAlighieri): "To be, or not to be, that is the question" (#Shakespeare, "Amleto", III.1). Uscire dall’inferno, dal #letargo (Inf. XXXIV, 94) è possibile: "#Amore è più forte di #Morte" (Ct. 8.6, trad. di Giovanni Garbini). #ESPERIENZA E CRITICA DELLA FACOLTA’ DI #GIUDIZIO. "Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così succede. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, è così accade. Ipocriti, sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?" (Lc. 12, 56-57).
Note:
IL CRESCERE DEL "DISAGIO DELLA CIVILTÀ", IL PROBLEMA DEL "LATO MATERNO" NELL’EDIPICO CAMMINO DI #SIGMUNDFREUD, E L’INDICAZIONE DI #DANTEALIGHIERI.
***Tracce per una #svolta_antropologica...
La considerazione di Freud del 1917, relativa al fatto che, “Se un uomo è stato il beniamino incontestato della madre, conserva poi per tutta la vita quel sentire da #conquistatore, quella fiducia nel successo che non di rado trascina davvero il successo con sé" (cfr. S. Freud “«Un ricordo d’infanzia» tratto da «Poesia e verità» di Goethe”, OSF 9, Torino 1977), ha una potente carica ’radioattiva’ di teoria.
LA QUESTIONE DELL’#EDIPOCOMPLETO: SOFOCLE ("EDIPO RE") E FREUD ("L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI"):
IL LEGAME "PARADIGMATICO" DI #GIOCASTA, MADRE E REGINA, ED #EDIPO, FIGLIO E PRINCIPE), CHE REGNA ANCORA "COME IN TERRA COSI’ IN CIELO", PENSATO COERENTEMENTE, COME FREUD HA CERCATO DI FARE, METTE IN EVIDENZA IL DOMINIO "NASCOSTO" DI #MAMMONA, L’ ALLEANZA "MADRE-FIGLIO", SU TUTTO IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE" E RIPRODUZIONE, CHE ASSICURA IL COMANDO SUL CICLICO RIPETERSI DELLE #STAGIONI E DELLE #GENERAZIONI, COME HA SANCITO IL TRAGICO "#COMPROMESSO OLIMPICO" TRA #DEMETRA (VITA) E #PLUTONE (MORTE) PROPRIO PER ASSICURARE LA VITA A #PERSEFONE STESSA, ALLA #MADRETERRA, E ... AGLI STESSI DEI E ALLE STESSE DEE DELL’ #OLIMPO - PER "SEMPRE"!?
#pasqua2024 #buonapasqua #Dantedì #25marzo #31marzo ...
LA "STORIA" DEL "CAPRO ESPIATORIO" (RENE’ GIRARD): COME UN ARIETE, UN MONTONE, DIVENNE UN "CAPRONE".
PRIMAVERA2024, #21MARZO: UNA "NOTA" SULLE "COSE NASCOSTE SIN DALL’ORIGINE DELLA FONDAZIONE DEL MONDO" (Mt. 13, 35).
Ariete ♈️: #25marzo (#Dantedì). Considerando (e accogliendo) astrologicamente che da #oggi "il segno dell’Ariete, simbolo per eccellenza dell’#Equinozio di Primavera", è il #segno "che ci accompagnerà fino al 20 aprile, e che la sua "figura mitologica si collega al Dio primaverile che nelle varie culture poteva rappresentare colui che apre l’anno, colui che abita il bosco sacro, il guardiano del Ponte #Arcobaleno, colui che si sacrifica, ecc." e, ancora, che l’ Ariete "è un segno cardinale di fuoco, governato da #Marte e opposto al segno della #Bilancia" (#LeaCimino, "#Calendariopagano"), forse, è opportuno ricordare che l’Ariete ė una delle figure centrali della storia dell’immaginario occidentale, decisiva per la comprensione stessa non solo dell’importanza dell’ impresa di #Giasone alla ricerca del "Vello d’Oro", come della fuga di #Ulisse dall’antro di #Polifemo, ma anche e soprattutto della "Divina #Commedia" di #DanteAlighieri (e della stessa possibilità di uscita dall’orizzonte della tragedia e dall’inferno, a tutti i livelli).
ARCHEOLOGIA FILOLOGICA A E ANTROPOLOGICA. BENCHE’ SULLA IMPORTANZA DELLA FIGURA DELL’ARIETE SI SIA IN UNA CONFUSIONE "BESTIALE", E SI FACCIA FINTA DI NULLA, FORSE, VALE LA PENA PRENDERE ATTO DI UNA ELOQUENTE "RISPOSTA" DELL’ANTROPOLOGO RENE’ GIRARD.
Per Girard (ma così per tutte le storiche Accademie della tradizione culturale europea), un capro, un "capro espiatorio», non è altro che l’«#agnello di Dio», il #Figlio del "Padre Nostro":
"DISAGIO DELLA #CIVILTÀ" (S. FREUD, 1929). René Girard confonde ’ciecamente’ i livelli e nega l’immortale acquisizione di Sigmund Freud. L’ "edipo completo" permette di capire la rivalità dei #fratelli (e delle #sorelle) e lo stesso messaggio evangelico, non viceversa. L’incomprensione della lezione di Freud spinge ad una cieca apologia del cattolicesimo costantiniano (#Nicea 325 - 2025): il #cristianesimo non è un cattolicismo... e in #Principio non c’era un #Logo (altrimenti, si cade e si ricade sempre e ancora tra le "braccia" del ’tragico’ #caprone)!
"LO #ZODIACO DELLA #VITA" E LA #FILOLOGIA DEL #RINASCIMENTO: NELL’ARTISTICO #SPAZIOTEMPO DI #MICHELANGELOBUONARROTI, UNA "RILETTURA" DELLE FIGURE DI "MARIA" E "GIUSEPPE" E DELLA LORO #RELAZIONE CON LE "#SIBILLE" E I "#PROFETI" DELLA "#SACRAFAMIGLIA".
DAL #LAOCOONTE (ROMA, 1506) AL #TONDODONI (FIRENZE, 1506-1508). NELLA "STORICA" LEZIONE ANTROPOLOGICA DELLA #CORNICE LIGNEA DEL #TONDODONI (E NELLA "NARRAZIONE" DELLA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA), CON DUE PROFETI E #DUE SIBILLE, #MICHELANGELO "INDICA" LA PARADIGMATICA #NASCITA "ETERNA" DEL #FIGLIO DI "MARIA E GIUSEPPE" NEL TEMPO.
*
NOTE:
STORIA E IMMAGINARIO: GUGLIELMO IL CONQUISTATORE, NAPOLEONE (E IL #SOGNO DI #FREUD, ARRIVANDO IN #INGHILTERRA, DI SBARCARE A #PEVENSEY, 1938).
Arazzo di #Bayeux: "[...] L’arazzo di Bayeux ha un valore documentario inestimabile per la conoscenza della Normandia e dell’Inghilterra dell’XI secolo. Costituito di varie pezze per una lunghezza totale di 68,30 metri, sino alla fine del XVIII secolo era conservato nella collezione della Cattedrale di Bayeux, mentre ora è esposto al pubblico nel Centre Guillaume-le-Conquérant di Bayeux.
Nel 2007 l’#UNESCO lo ha inserito nel Registro della Memoria del mondo. [...].
Progettando l’invasione dell’Inghilterra, Napoleone lo volle a Parigi a fini di propaganda nel novembre 1803 [...].
il 6 dicembre 1803, nel pieno dei preparativi per l’invasione, su #Dover era apparso un luminoso corpo celeste (probabilmente un bolide) con traiettoria sud-nord, che consentiva paragoni benauguranti, ai fini della spedizione, con la #cometa apparsa nel 1066. L’arazzo tornò a Bayeux nel febbraio 1804, ormai noto a livello nazionale ed internazionale [...]"(https://it.wikipedia.org/wiki/Arazzo_di_Bayeux).
PSICOANALISI E #CRISTIANESIMO: #PAOLINISMO ("#ANDROLOGIA", "#VIROLOGIA", DEL "#CORPOMISTICO"). Freud scrive nell’estate-autunno del 1929 “Il disagio della civiltà”, in cui discute del senso del comandamento biblico “amerai il prossimo tuo come te stesso” ... e comprende anche, come precisa, che "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori [...]" ("Disagio della civiltà", 1929), ma non riesce ad andare oltre l’orizzonte della tragedia della polis tebana (e della biblica "caduta").
"KANT, FREUD, E LA BANALITA’ DEL MALE". Avendo mosso l’#Acheronte (con l’aiuto di Virgilio), Sigmund Freud riesce sì a venir fuori dall’inferno ma, sognando di essere Guglielmo il Conquistatore, a raggiungere Londra nel 1938 e a non sciogliere il #nodo della tradizione mosaica, cristiana, e romana, e, cum grano salis, a essere trascinato fino alla fine dalla corrente "acherontica" della tradizione faraonica, paolina, e costantiniana (#Nicea 325-2025):
PENELOPE- IDEA E COMMEDIA: FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA. Con lo spirito dell’opera “The Penelopiad” di Margaret Atwood e della "Divina Commedia" di Dante Alighieri, un segnavia di uscita dall’orizzonte della tragedia...
#STORIAELETTERATURA. Data la immersione totale di tutta la cultura occidentale nell’immaginario dell’#Odissea, "étudier, très succinctement, la technique d’« écriture féminine » de Margaret Atwood, à travers son ouvrage «The Penelopiad» et plus précisément, à travers l’ironie dans son rapport aux «métamorphoses» apportées au texte de l’Odyssée d’Homère" (cfr. Rebecca Plewinski, "La technique d’«écriture féminine» de Margaret Atwood: l’exemple de The Penelopiad») che con mente "penelope-idea" sa catturare e aggiogare persone e popoli con il proprio "canto" e l’ esperienza tragica della sua "fenomenologia dello #spirito".
L’ALBA DELLA MERAVIGLIA ("Earthrise"). Per #Dante, con l’aiuto del "padre" #Virgilio ("Eneide") su sollecitazione della "#bella e beata" #madre Beatrice (sollecitata a sua volta da Lucia, inviata da Maria, madre di Gesù "Cristo"), la "folle impresa" di uscire dalla "selva oscura" e ritrovare la "diritta via", con il vecchio "Ulisse" e con la vecchia "Penelope" sulle proprie spalle, è possibile: è l’amore che muove il sole e le altre stelle.
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E "PACE PERPETUA" (#KANT2024):
A CHE #GIOGO GIOCHIAMO?! ANCORA ALLA "SPADA DI DAMOCLE"?!
RIPETIZIONE E DIFFERENZA: EUROPA 2024. Dopo millenni di #cosmoteandria, si ricorda ancora la lezione del vecchio dogmatico pro-ver-#dio "chi di spada ("gladio") ferisce, di spada ("gladio") perisce"?!
A quanto pare la filologia e la teologia-politica della #tragedia non sa nulla dell’#hamlet _ ica questione dell’#enigma (e della visione) del "#crepuscolo degli #idoli": «Come? L’uomo è soltanto un errore di Dio? O forse è Dio soltanto un errore dell’uomo?».
Nonostante la sollecitazione dell’ #EcceHomo (#Nietzsche, 1888) si continua a non aver il coraggio di fare buon uso della propria facoltà di giudizio ("#Sàpere aude!", #Koenigsberg 1784/ #Kaliningrad 2024) nulla del "buon messaggio" (Matteo 26,52) e, l’anno prossimo, ci si appresta a celebrare, l’imperatore cosmoteandrico, il figlio del dio Mammona, #Costantino (Nicea, 325-2025)?!
Non è forse meglio, per il #Dantedì, per il #25marzo, rileggere la "divina commedia", la fenomenologia dello spirito dei due Soli e cercare di uscire dall’orizzonte della tragica #caduta nel luciferino #buconero?!
#QUESTIONE ANTROPOLOGICA (#KANT2024), #ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E #FILOLOGIA COSMOTEANDRICA: IL #TRAMONTO DEGLI #ORACOLI, IL #CREPUSCOLO DEGLI #IDOLI *, E LA #FINE DELL’#ANDROCENTRISMO PLATONICO-HEGELIANO (#SAPEREAUDE!).
"IL #TRAMONTO DEGLI ORACOLI": IL GRANDE #PAN E’ MORTO (#PLUTARCO, #Cheronea, 46/48 d.C. - #Delfi, 125/127 d.C.):
"«Quanto alla morte di questi esseri, io ho sentito la storia di un uomo che non era né uno sciocco né un imbroglione. Alcuni di voi hanno ascoltato il retore Emiliano, che era figlio di Epiterse, mio concittadino e maestro di grammatica. Proprio lui mi raccontò che una volta si era imbarcato per l’Italia su un mercantile con molti passeggeri a bordo: alla sera, quando già si trovavano presso le isole Echinadi, il vento cadde di colpo, e la nave fu trasportata dalla corrente fino a Paxo [isola di fronte all’Epiro, a sud di Corfù ]. Quasi tutti i passeggeri erano svegli, e molti, terminata la cena, stavano ancora bevendo.
All’improvviso si sentì una voce dall’isola di Paxo, come di uno che gridasse il nome di Tamo. Tutti restarono sbalorditi. Questo Tamo era un pilota egiziano, ma quasi nessuno dei passeggeri lo conosceva per nome. Due volte la voce dell’uomo lo chiamò, e lui stava zitto. Alla terza rispose, e allora quello con tono più alto disse: “Quando sarai a Palode [porto della città di Butroto in Epiro] , annuncia che il grande Pan è morto”.
«A queste parole, diceva Epiterse, tutti restarono sbalorditi, e si domandavano se fosse meglio eseguire l’ordine oppure non darsene cura. Allora Tamo decise che, se ci fosse stato vento, avrebbero costeggiato la riva in silenzio; se invece giunti là avessero trovato bonaccia, avrebbe riferito la notizia. Quando infinearrivarono a Palode, non un soffio di vento, non un’onda. Allora Tamo, sulla poppa, guardò verso terra e gridò: “Il grande Pan è morto”. Non aveva quasi finito di dirlo, che subito si levò un gran gemito, non di una persona sola, ma di tante, pieno di stupore. [...]». (Plutarco, "Il tramonto degli oracoli", in "Dialoghi delfici", trad. di M. Cavalli, Adelphi, Milano 1995, pp. 82-83).
* "Il crepuscolo degli idoli" (e la fine dell’#androcentrismo): «Come? L’uomo è soltanto un errore di Dio? O forse è Dio soltanto un errore dell’uomo?» (Nietzsche).
CITTADINANZA ATTIVA, FACOLTA’ DI GIUDIZIO, E ANTROPOLOGIA: #SAPEREAUDE! (#KANT2024).
LA #LINGUA (LA COSTITUZIONE) BATTE DOVE I DENTI (I PARTITI) DOLGONO. *
Tutte le articolazioni del corpomistico della democratica società italiana scricchiolano alla grande, a tutti i livelli, e da tempo: e la radice è non solo locale, ma globale (antropologica, teologica, e cosmologica)!
*
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, "RELIGIONE DEL DOVERE", E "DIVINA COMMEDIA":
BENEDETTO CROCE E LA PUNTA FILOSOFICA DI UN ICEBERG COSMOTEANDRICO.
Sul "lascito morale di Benedetto Croce", forse, è opportuno ricordare storiograficamente (filologicamente e antropologicamente) che "la lingua batte dove il dente duole": può essere condivisibile, oggi, la considerazione che “ciò che si richiede e che si ubbidisca ad una necessità morale. La quale comanda che si attenda con ogni rischio, a tutelare gli umani valori e le umane virtù, il rispetto della personalità, il dir no al male e sì al bene, ciò che si chiama insomma il culto della libertà; la quale è il principio direttivo a cui sempre deve si deve far ricorso. Quale che sia lo schema di ciò verso cui il mondo va, quello schema sarà riempito da uomini e sarà reale solo nei pensieri, nei sentimenti e negli atti degli uomini, e avrà quella realtà che essi gli daranno, e tanto migliore quanto migliori quegli uomini. Non vi date dunque pensiero di dove vada il mondo, ma dove bisogna che andiate voi, per non calpestare cinicamente la vostra coscienza, per non vergognarvi di voi stessi” (cfr. Tito Lucrezio Rizzo, "Il lascito morale di Benedetto Croce", L’Opinione delle Libertà, 08 febbraio 2024)?!
All’interno dell’attuale presente storico (dell’Europa del 2024), proprio per non vergognarsi di sé e ri-accogliere come indicazione antropologica piena l’affermazione che «L’uomo morale - affermerà nuovamente il #Croce - è il "Vir bonus agendi peritus", chiamato ad operare nel quotidiano sorretto da una retta #coscienza che ne ispirava l’agire concreto, perseguendo i fini di utilità generale da raggiungere e di cui farsi strumento» (T. L. Rizzo, cit.), non è , forse, necessario re-interrogarsi e re-interpretare il rapporto tra la tradizione greco-romana e la tradizione cristiana (con spirito critico, con le famose "virgolette" crociane, del saggio del 1942), proprio a partire da questa "ovvia" (ma indebita) generalizzazione, in cui l’uomo (#Vir) vale immediatamente come l’Uomo (#Homo), come il #genereumano nella sua totalità (cioè, per l’#uomo e per la #donna, per "Adamo ed Eva", e per "Giuseppe e Maria")?
Non è bene riprendere il filo almeno dalla "Divina Commedia" e reinterrogarsi non solo sul significato della lezione di #Beatrice a #Dante sul senso di quel "sarai meco sanza fine cive / di quella #Roma onde #Cristo è romano" (Purg. XXXII, 101-102), ma anche sul "Tu devi" kantiano, sul problema dell’imperativo categorico di Immanuel Kant, se si vuole vivere secondo Coscienza, cioè secondo la Costituzione della Repubblica italiana?
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA, ARCHEOLOGIA, E #FILOLOGIA (PROTAGORA: "L’UOMO E’ LA #MISURA" ), FILOSOFIA TEOLOGIA E DEMIURGIA (PLATONE: #ZEUS, "IL DIO E’ LA MISURA"), E LA LOGICA DELLA COSMOTEANDRIA DELL’ #OCCIDENTE...
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA. Quando la filologia è in #letargo (Par. XXXIII, 94), perso il senso stesso del #principio antropologico e cosmologico di tutte le cose come di tutti gli esseri umani ("arché"), anche la possibilità filosofica di comprendere la semplice massima del sapiente #Pittaco di Mitilene viene meno:
quando "uno dei #due" dei componenti del "genere umano" assume il comando dell’uno e dell’#altro componente, mostra chiaramente la sua parzialità andrologica e androcentrica e, al contempo, permette di comprendere il trucco dell’operazione "zeus_ica" del demiurgo platonico e le radici stesse della teologia-politica costantiniana (Nicea 325) della in-segnatura rinascimenale della "Scuola di Atene" e del "Sapiente" di #Bovillus (1510).
L’EUROPA NEL "TEMPO FUORI DAI CARDINI":
SHAKESPEARE, CON IL ’MULINO’ DI "AMLETO" (1602), SOLLECITA A PORTARSI OLTRE "SCILLA E CARIDDI", OLTRE LA COSMOTEANDRIA CATTOLICA E PROTESTANTE.
UN’IPOTESI DI LAVORO PER USCIRE DAL #LETARGO (DANTE ALIGHIERI, PAR. XXXIII, 94) E PER MEGLIO RIFLETTERE SULLA QUESTIONE TEOLOGICO-POLITICA (ENRICO VIII, 1534) E ANTROPOLOGICA ALL’ORDINE DEL GIORNO DELL’EUROPA DEL SEICENTO (MA ANCORA IN PIEDI, SI PENSI A NICEA 2025) SEGNATA DAL CONFLITTO POLITICO-RELIGIOSO TRA SPAGNA E INGHILTERRA, FORSE, E’ OPPORTUNO NON DIMENTICARE LA LEZIONE DELLA "SORELLA" DELLO STESSO SHAKESPEARE, "JUDITH" (VIRGINIA WOOLF), E TENERE CONTO DELLO SPIRITO DI TERESA D’AVILA CHE SOFFIA FORTISSIMO NEL CAMPO CATTOLICO-SPAGNOLO E DEL "CORPO DI CRISTO" DELLA #REGINA E #PAPESSA, ELISABETTA I D’INGHILTERRA, CHE REGNA NEL CAMPO INGLESE E PROTESTANTE-ANGLICANO.
NOTE:
LA GRAVIDANZA DI ADAMO, IL "PARTO MASCHIO DEL TEMPO O LA GRANDE INSTAURAZIONE DELL’IMPERO DELL’UOMO SULL’UNIVERSO" (FRANCIS BACON / BACONE, 1602), E UNA #QUESTION ANTROPOLOGICO-POLITICA EPOCALE (SHAKESPEARE, #AMLETO, 1602): LA PUNTA DI UN ICEBERG.
Quanto emerge dalle cronache relative alla "gravidanza durante la #transizione" (cfr. Clemente Pistilli, "Gravidanza durante la transizione, i medici: “Marco è al 5° mese, rischi per lui e per il bambino”",
"La Repubblica, 19 gennaio 2024) è un evento, a mio parere, che mostra la punta di un iceberg gigantesco, che porta a galla i miti e i detriti di un #immaginario cosmo-te-andrico, biblico (da "#caduta") e platonico (da "#tragedia"), più che millenario, e sollecita a un immane e straordinario lavoro collettivo di presa di coscienza antropologica (se non si vuole andare a picco #titanic-amente): le sollecitazioni "cosmicomiche" (#Calvino) di #Dante Alighieri a uscire dal "letargo" (Par. XXXIII, 94) sono ancora del tutto ignorate!
Forse è proprio il tempo di riaprire la #Commedia e non rinchiuderla ancora nell’orizzonte del "Boccaccio" e del "Petrarca" ...
ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA) E FILOLOGIA. In principio era il Logos di Eraclito (non il "logo" androcentrico dell’Adamo di Paolo di Tarso: 1 Cor. 15, 45-47=C.E.I.]).
#21GENNAIO 2024.
Nota:
LA FILOSOFIA E LA "RISPOSTA" SU "CHE COSA E’ L’ ILLUMINISMO?", OGGI: IL "CORAGGIO DI ASSAGGIARE" ("Sàpere aude!")" DI KANT E L’ANALISI SU "L’UOMO E’ CIO’ CHE MANGIA" ("Der Mensch ist, was er ißt") DI FRIEDRICH GEDIKE, nella «Berlinische Monatsschrift» del 1784.
UN "INVITO A RIFLETTERE" SU UNA QUESTIONE DI SOSTANZA, PROPAGANDA (FEDE), FILOLOGIA, E "FACOLTA’ DI GIUDIZIO" (#KANT2024) E, INSIEME, AD ACCOGLIERE "L’AFFASCINANTE «SFIDA» AL PANETTONE LOMBARDO" (si cfr. Emiliano Antonino Morrone, "Federica Greco, l’orgoglio calabro e l’affascinante «sfida» al panettone lombardo", Corriere della Calabria, 19 gennaio 2024):
Per meglio accogliere la sollecitazione del giornalista Emiliano Antonino Morrone, e, possibilmente, riprendere il filo dall’amore (#charitas) di Gioacchino da Fiore (San Giovanni in Fiore) e dal coraggio di assaggiare ("#Sàpere aude") di Orazio (Venosa), mi sia lecito, ricordare alcuni contributi storiografici sul tema del cibo e della antropologia filosofica:
a) Ludwig Feuerbach, "L’uomo è coà che mangia", a c. di Franco Tomasoni, Morcelliana, Brescia 2015.
b) Ludwig Feuerbach, L’uomo è ciò che mangia, a c. di Andrea Tagliapietra, Boringhieri, Torino 2017.
c) Gianfranco Ravasi, "L’uomo è ciò che mangia", Famiglia Cristiana,18 maggio 2023.
"Sàpere aude!" (Kant, 1784). L’Illuminismo e il buon uso della propria intelligenza, della propria facoltà di giudizio, per uscire dallo "stato di minorità":
A)
ANDREA TAGLIAPIETRA, "La metafora gustosa. Feuerbach e la gastroteologia": "[...] Il detto italiano «parla come mangi», al di là dell’invettiva del luogo comune, rivela un fondo di verità difficilmente smentibile. La cultura umana si specchia, infatti, vuoi nelle parole del linguaggio che dalla bocca escono, vuoi in quegli alimenti e in quelle pietanze che nella bocca, invece, entrano.
Si inizia a intravedere, quindi, tutto lo spessore e la ricchezza che la frase di Feuerbach racchiude e che sta alla base del suo successo e della capacità di condensare molti motivi del pensiero del filosofo tedesco ben oltre l’immagine scolastica e polverosa dei manuali, che ne hanno fatto una sorta di mero raccordo della storia della filosofia fra Hegel e Marx. Del resto l’efficacia della massima appartiene già alla dimensione del significante e all’ambivalenza fonetica che ne fa oscillare il significato fra l’affermazione ontologica e la descrizione dell’azione di mangiare. Il gioco di parole Mensch ist, was er ißt è di fatto intraducibile nella nostra lingua, come anche nei principali idiomi europei correnti di cui abbiamo dato conto in apertura di questo saggio.
Traducendo «l’uomo è ciò che mangia», infatti, noi rendiamo il significato principale della «formula», ma non quello allusivo, veicolato non dal significato ma dal significante delle parole. Esso nasce dall’assonanza, nella lingua tedesca, fra ist (= «è», terza persona singolare dell’indicativo presente del verbo sein, «essere») e ißt, ossia isst con la «s» raddoppiata (= «mangia», analoga voce del verbo essen, «mangiare»).
Per dare un’idea di ciò che qui risulta intraducibile ci viene in soccorso la lingua latina che, in virtù di un gioco linguistico affine al tedesco e, anzi, ancora più sofisticato, dal momento che l’ambiguità non è solo fonetica ma anche grafica, ci permette di volgere la formula feuerbachiana in homo est quod est, dove il primo est è la terza persona singolare dell’indicativo presente del verbo essere, mentre il secondo est è la terza persona singolare del verbo edere, cioè «mangiare». In questo caso, l’ambiguità grafica consente di leggere la «formula» in perfetta specularità, per cui possiamo tradurre sia con «l’uomo è ciò che mangia» sia con «l’uomo mangia ciò che è».
Questi parallelismi linguistici avevano già una loro tradizione in cui forse Feuerbach, nelle sue ricerche intorno alla religione e al tema del sacrificio, può essersi imbattuto.
Nel 1784 Friedrich Gedike, un teologo protestante di simpatie illuministe che, proprio per queste ultime, era incorso nella censura prussiana, aveva scritto il breve articolo Su «mangia» ed «è». Un contributo alla spiegazione dell’origine del sacrificio, pubblicandolo nello stesso numero della «Berlinische Monatsschrift» che conteneva il saggio sull’Illuminismo di Moses Mendelssohn a cui rispose, com’è noto, quello celeberrimo di Kant.
Nel saggio Gedike paragonava la prospettiva ontologica dell’uomo civilizzato, condensata nella massima cartesiana per cui cogito ergo sum («penso dunque sono») e per la quale il pensiero fa da fondamento all’essere, alla condizione naturale dei nostri progenitori, per i quali valeva piuttosto il detto edo ergo sum («mangio dunque sono»). La frase, volta alla terza persona singolare, suona, in latino, est, ergo est, con una coincidenza tra l’essere e il mangiare che la lingua tedesca conserva nella somiglianza fonetica fra ißt e ist. È quindi in questa prospettiva naturalistica ed elementare, concludeva Gedike, che mostra lo stretto legame, suggerito anche dal linguaggio, tra l’idea dell’essere e quella del nutrimento, che dobbiamo comprendere illuministicamente l’origine e l’importanza religiosa dei sacrifici e del pasto sacrificale.
Comincia a risaltare, allora, l’assonanza decisiva della massima, il suo senso duplice, ambivalente e intraducibile che, mentre afferma che l’«uomo è ciò che mangia», ribadisce anche che l’«uomo è ciò che è», richiamando la citazione diretta e, quindi, sottilmente dissacrante, del famoso versetto del libro biblico dell’Esodo in cui l’Altissimo, il Dio degli ebrei e dei cristiani, nomina se stesso. Un passo che ha, nell’originale ebraico, ehyeh asher ehyeh, un significato puramente negativo e antidolatrico, suonando più o meno come «io sarò quel che sarò», ossia un rifiuto da parte del Signore di rispondere all’impertinente domanda di Mosè su quale fosse il Suo nome. Eppure, già la Septuaginta, la Bibbia greca, in età alessandrina, trasporta l’enigmatico versetto scritturistico nei termini del linguaggio ontologico dei filosofi ellenici (egó eimí ho on) e la Vulgata traduce in latino ego sum qui sum, espressione che verrà interpretata dalla tradizione della Chiesa prevalentemente come un’affermazione. Anzi, come la dichiarazione stessa del fondamento metafisico dell’esistenza: «io sono colui che è». Si tratta del Qui est che, secondo la Summa Teologiae di Tommaso d’Aquino, è il nome proprio che più si addice a Dio.
L’uomo, come la sua proiezione teologica alienata e fantasmatica, afferma dunque di essere ciò che è. Soltanto che, a differenza di Dio, ossia del desiderio che sublima se stesso nella vertigine dell’immaginazione, per essere ciò che è, l’uomo ha la necessità di mangiare, di nutrire il suo corpo, di misurarsi con la realtà della natura, con il bisogno e le difficoltà di soddisfarlo." (cfr. Ludwig Feuerbach, "L’uomo è ciò che mangia", di Andrea Tagliapietra, Boringhieri, Torino 2017, pp. 20-22. senza le note).
B) FRANCESCO TOMASONI, "Ludwig Feuerbach: l’uomo e la sua alimentazione":
"Nel 2015 si è svolto a Milano l’Expo, una manifestazione fieristica dal titolo “Nutrire il pianeta. Energia per la vita” che in 184 giorni e con 145 nazioni partecipanti, fra cui ovviamente il Brasile, ha avuto 21 milioni di visitatori. Sull’onda di questo evento è tornato di attualità il celebre motto di Feuerbach: «L’uomo è (ist) ciò che mangia (isst)». Nella lingua tedesca l’assonanza fra le terze persone del verbo essere e del verbo mangiare è evidente e suggerisce una stretta relazione fra essere e mangiare. Non a caso i critici dell’epoca vi videro un’espressione di rozzo materialismo, che poteva essere avvicinata alla frase di Karl Vogt: «I pensieri stanno press’a poco nel medesimo rapporto col cervello, come la bile al fegato o l’urina alle reni». Vogt era ben consapevole di usare un’espressione «in un certo senso rozza», ma intendeva dire che «tutte le attività psichiche» erano «solo funzioni della sostanza cerebrale».
Eppure l’assonanza fra essere e mangiare era già stata messa in rilievo più di sessant’anni prima da un teologo protestante di tendenze razionalistiche, Friedrich Gedike, in un articolo della prestigiosa rivista “Berlinische Monatsschrift”, in cui comparvero anche gli interventi di Kant, Mendelssohn e altri sul significato dell’illuminismo.
Già nel titolo [Friedrich Gedike, Über ißt und ist. Ein Beitrag zur Erklärung der Opfer, „Berlinische Monatsschrift“, Hrsg. F. Gedike u. J.E. Biester, Vierter Bd., Julius bis December 1784, pp. 175-180.] egli evidenziava l’assonanza e mostrava che, ancor più che nel tedesco, in latino e in greco i due verbi coincidevano per alcune forme della flessione. Non si trattava dunque di un caso, bensì dell’effetto di un processo naturale. Per i popoli primitivi i concetti astratti erano troppo ardui, perciò al loro posto subentravano riferimenti materiali. Così «per l’uomo rozzo e ancora del tutto sensuale il concetto di essere, nei tempi della prima origine delle lingue, era troppo sottile e remoto [...] al contrario il concetto del mangiare era certamente uno dei primi sviluppatisi in lui».
Poteva dunque argomentare nel modo seguente: mangia, dunque è (in latino: est, ergo est). La terza persona, nella quale la coincidenza era perfetta, rifletteva la mentalità primitiva secondo cui il soggetto osservava le cose fuori di sé, ma non era ancora giunto all’autocoscienza. L’identità fra essere e mangiare aveva anche indotto i primitivi a concludere che se gli dei esistevano, dovevano mangiare.
Da qui i banchetti sacrificali, in cui si invitavano le divinità a condividere la mensa con gli uomini. Quanto più però questi si convincevano della superiorità degli dei, tanto più offrivano loro cibi preziosi, addirittura carne umana. Secondo Gedike i sacrifici umani erano venuti non alle origini, bensì in un periodo «intermedio di civiltà». Solo il raggiungimento pieno dell’illuminazione (Aufklärung) e della civiltà aveva fatto percepire l’abominio di quelle pratiche. In antitesi all’identità fra essere e mangiare, Gedike ricordava l’affermazione di Cartesio: «cogito ergo sum». L’autocoscienza dell’uomo civile si fondava sull’identità fra essere e pensiero. Per il teologo dunque al materialismo del primitivo si contrapponeva il razionalismo o lo spiritualismo dell’uomo moderno.
Benché non esistano prove del fatto che Feuerbach abbia letto questo articolo, esso è utile per comprendere il suo distacco da Hegel e i suoi due interventi sull’alimentazione e sui sacrifici. Anch’egli nel suo periodo giovanile aveva sottoscritto la concezione cartesiana, secondo cui l’essenza umana era data dal pensiero o dall’autocoscienza. Poi però nei Principi della filosofia dell’avvenire aveva negato che il carattere distintivo dell’uomo risiedesse semplicemente in quelli. La sua essenza era una totalità che si rifletteva nel complesso della sua sensibilità. Non si trattava solo della capacità di sentire e percepire, bensì di tutta la relazione corporea con la natura. Anche lo stomaco umano era essenzialmente diverso da quello degli animali: «Dagli animali l’uomo non si distingue solo grazie al pensiero. Tutta la sua essenza costituisce piuttosto tale differenza [...] Anzi, persino lo stomaco dell’uomo, malgrado noi lo guardiamo dall’alto in basso con disprezzo non è un’essenza ferina, ma umana, perché è universale, perché non deve servirsi di un tipo determinato di alimenti. Proprio per questo l’uomo non è affetto da quel furore vorace (Freßbegierde) con cui l’animale si getta sulla preda».
L’universalità, che già nell’Essenza del cristianesimo Feuerbach aveva attribuito al genere umano, faceva sì che questo non si limitasse a un tipo di alimenti e quindi dimostrasse, anche nel mangiare, la sua libertà. In proposito egli si appoggiava alla distinzione, presente nella lingua tedesca, fra “essen”, mangiare proprio degli umani, e “fressen”, divorare tipico degli animali, aggiungendo come nel secondo caso lo stomaco assumesse il predominio su tutto, mentre nel primo caso esso era in armonia con la testa, ossia con la ragione e l’etica.
Un amico di famiglia, Georg Friedrich Daumer, criticò l’esaltazione che in questo passo Feuerbach aveva fatto dell’uomo rispetto agli animali [...] Daumer toccava un punto, al quale Feuerbach era stato sensibile fin dai primi scritti, quello della fame.
Nello stesso brano della Storia della filosofia moderna che prima abbiamo ricordato per l’identificazione dell’essenza umana col pensiero, Feuerbach accennava alla fame come esempio per distinguere vari gradi di essere: «Un essere con uno stomaco riempito in modo da star bene è un essere molto più reale di un essere con stomaco vuoto». Lo stomaco vuoto rappresentava sensibilmente la contraddizione fra la presenza ideale dell’oggetto e la sua assenza reale, ossia la separazione da un ente, al quale per natura si era uniti. Già nella dissertazione De ratione Feuerbach si era soffermato su questa situazione per mettere in luce la tensione dialettica del desiderio.
Nelle Lezioni tenute a Erlangen come Privatdozent era tornato sull’argomento trattando dell’impulso o della pulsione (Trieb), un concetto già elaborato da Fichte, che avrebbe avuto grande fortuna nell’Ottocento fino a Freud e al suo famoso saggio della Metapsicologia: Le pulsioni e i loro destini (Triebe und Triebschicksale). Aveva affermato: «Un altro esempio è l’appagamento dell’impulso (Triebes) stesso; quando calmo la fame, questo calmarla in quanto appagamento è affermazione della mia vita, un godimento, ma questo godimento c’è in me soltanto in quanto c’è la fame, il non godimento [...] al godimento spetta l’essere e il non essere». Nel Leibniz Feuerbach aveva spiegato ulteriormente il rapporto con l’oggetto, presente negli impulsi e, in particolare, nella fame e nella sete: «A dispetto di tutti gli empiristi fame e sete sono due filosofi a priori; esse anticipano e deducono a priori l’esistenza dei loro oggetti». Nella loro struttura ontica era dunque insito l’oggetto, prima che si presentasse nelle cose sensibili.
Questa visione caratterizza nell’Essenza del cristianesimo la relazione del soggetto con l’oggetto: «L’uomo non è nulla senza oggetto [...] Tuttavia l’oggetto al quale un soggetto si riferisca essenzialmente, necessariamente non è altro che l’essenza propria di questo soggetto, ma resa oggettiva».
La conclusione dell’opera consisteva nell’esaltazione dell’eucarestia secondo il suo significato etimologico, ossia come solenne ringraziamento per il pane e il vino grazie all’esperienza della fame: «Per comprendere il significato religioso della consumazione del pane e del vino mettiti nella situazione in cui quell’atto altrimenti quotidiano venga, contro natura, violentemente, interrotto. La fame e la sete non distruggono solo la forza fisica, bensì anche quella spirituale e morale dell’uomo, lo spogliano dell’umanità, dell’intelletto, della coscienza. Oh! Se tu mai provassi tale mancanza, tale infelicità, allora come benediresti e loderesti la qualità naturale del pane e del vino che ti ridonano la tua umanità, il tuo intelletto! Così basta solo interrompere il consueto, comune corso delle cose per restituire a quanto è comune un significato non comune, alla vita in quanto tale un significato assolutamente religioso. Santo sia per noi quindi il pane, santo il vino, ma santa anche l’acqua! Amen» [...]" (cfr. Francesco Tomasoni, Università del Piemonte Orientale, Vercelli - ripresa parziale, senza le note, pp. 109-112).
FLS
CULTURA E SOCIETA’.
UNA NOTA A MARGINE DI UNA DISCUSSIONE E DI UNA RILESSIONE IN CORSO SUL TEMA: "LA PSICOANALISI HA UN FUTURO?" *
#FILOLOGIA E #ANTROPOLOGIA. IL PROBLEMA DEL "CONOSCI TE STESSO" E DEL "CONOSCI TE STESSA", E LA "#CRITICA DELLA #FACOLTÀ DI #GIUDIZIO: IL CORAGGIO DEL "#SÀPERE AUDE" (#ORAZIO).
#A GLORIA DI #FREUD E A OMAGGIO DI #KANT2024. Ricordando l’eccezionale #coraggio degli #inizi della #psicoanalisi ("L’#interpretazione dei #sogni", 1899) e il coraggio di servirsi della propria intelligenza dell’#illuminismo kantiano ("Risposta alla domanda: che cosa è l’Illuminismo",1784), e, al contempo, il #grido di allarme di #SigmundFreud, lanciato da #Vienna nel 1929, sul "#Disagiodellaciviltà" (e nella #civiltà), a riguardo, può essere interessante e utile un ulteriore approfondimento e una riflessione supplementare, alla luce di una personale #ricerca (del 2010), proprio sul tema storico-filosofico relativo alle ragioni stesse della #domanda sul futuro della tradizione filosofica, picoanalitica, e della stessa civiltà (cfr. "KANT, FREUD, E LA BANALITA’ DEL MALE" ).
*
NOTA: LA PSICOANALISI HA UN FUTURO?-> (REGISTRAZIONE INCONTRO - organizzato da Casa della cultura [MILANO], Fondazione Lelio e Lisli Basso).
ENCLOSURES MATERIALI E IMMATERIALI DELL’UMANITÀ E DISAGIO DELLA CIVILTÀ: "A CHE GIOCO GIOCHIAMO", ANCORA?!
STORIA, #CULTURA, #PSICOANALISI E #SOCIETÀ: ALCUNI APPUNTI A MARGINE DEL CONGRESSO MONDIALE DI #FILOSOFIA #ROMA2024 (#WCP2024 - XXV World Congress of #Philosophy).
RECINZIONI. Dopo la "storica" presa di coscienza di #Rousseau e di #Freud, del primo, sul piano della #critica dell’economia-politica, relativamente al problema delle "enclosures" (recinzioni) materiali della tradizione dei rapporti sociali fondati sulla #disuguaglianza
e, del secondo, cioè di #SIGMUNDFREUD Freud, relativamente alle complementari recinzioni spirituali dell’ #androcentrismo edipico (platonico, paolino, ed hegelo-marxista e lacaniano):
non è il caso di togliere i fiori dalle catene e uscire dalla #caverna? Se non ora, quando?!
STORIA E LETTERATURA: PER ORIENTARSI SUL "PROBLEMA ROUSSEAU", RICORDARE ALESSANDRO MANZONI. Per lo spirito illuministico-cristiano (non cattolico-paolino) del figlio di Giulia Beccaria, pur se con cedimenti teologico-politici, all’immaginario napoleonico-costantiniano, da #SacroRomanoImpero ("Il #cinquemaggio"), vale il #principio che
EPIFANIA (APPARIZIONE) E IMMAGINAZIONE ("EPINOIA"), #6 GENNAIO 2024. Per "orientarsi nel pensiero" (#Kant) e nella realtà (#Marx), e cercare di non scambiare il gioco dell’illusione (#Schein) con la realtà dell’apparenza (#Erscheinung),
Un "invito alla lettura" dello studio sulla storia del #cibo "eu- caristico" ("EU-#CHARIS-TICO) del teologo, docente di "Storia della Chiesa", Anselm #Schubert, "Pasto divino. Storia culinaria dell’eucaristia" (Carocci editore 2019):
NOTA:
Epifania2024. #Memoria e #archeologia di un evento epocale: i #Magi erano #sapienti e sapevano #distinguere tra il #Bambino-re (#Gesù) e il #Re-bambinone "giocastolaio" (#Erode). Ma, oggi, dove sono i magi?
Kafka ancora agli inizi del secolo scorso sapeva la differenza tra la #manifestazione epifanica e il #giogo dei "giocastolai" e delle "giocastolaie", e ricordava: "[...] alla nascita di Cristo nella capanna semiaperta era subito presente il mondo intero, i pastori e i savi d’Oriente" (Lettera a Helli Hermann, autunno 1921).
Anselm Schubert, “Pasto divino”
di Luca Arcari (Storica_mente.Laboratorio di storia)
Affrontare la storia dell’eucaristia dal punto di vista degli alimenti utilizzati e della loro preparazione rappresenta la novità principale del volume di Anselm Schubert, originariamente pubblicato in tedesco (Gott essen, München, C.H. Beck oHG, 2018). Il volume si pone nel ricco filone storiografico della recente storia dell’alimentazione, applicandola però alla storia dell’eucaristia, che in questo modo non emerge più, o non solo, come una storia di dottrine teologiche, ma come un complesso di pratiche di simbolizzazione di un atto culinario, con tutto ciò che questa prospettiva sembra implicare.
Nonostante una certa tensione verso l’istituzionalizzazione, che nella storia dei gruppi di seguaci di Gesù appare con una certa nitidezza alla fine del IV secolo, quando il concilio di Laodicea (363-364 e.v.) cerca di formulare la netta distinzione tra eucaristia e pasto comune, il focus chiarisce la varietà delle pratiche di ritualizzazione presenti nel frastagliato universo cristiano, a partire dai gruppi di giudei credenti in Gesù del I-II sec. e.v. (cap. 1), passando per quelli bollati come eretici da alcuni Padri della Chiesa del III-IV sec. - che in molti casi continuano a celebrare i loro riti imbandendo cibi vari (gli artotiriti menzionati da Epifanio di Salamina, nel IV sec., ad esempio consumano pane e formaggio) -, fino alle definizioni teologico-dottrinali di Agostino (cap. 2), e alle divaricazioni che distinguono sempre più l’Oriente e l’Occidente tra tardoantico e medioevo (cap. 3). Il medioevo sancisce anche quella che, di fatto, emerge come una vera e propria “clericalizzazione delle sostanze” (cap. 4), sia in Oriente (dalla “nuova Roma” alla chiesa russa) che in Occidente, con cibi e modalità di ritualizzazione del mangiare comune che appaiono sempre più come specchi identitari paralleli al consolidarsi dei vari cristianesimi come strumenti di auto-definizione “proto-nazionale”: «L’introduzione nella Chiesa franca della liturgia romana [scil. l’uso di orazioni da recitare durante l’eucaristia, che ormai è chiaramente definita come pasto rituale amministrato interamente da personale altamente specializzato e che prevede il consumo comunitario di pane e vino “purissimi”] determinò un cambiamento, in tutto l’Occidente latino, decisivo per il futuro del cristianesimo. Se all’inizio l’eucaristia era intesa ancora come un ringraziamento da parte della comunità, o come rievocazione del sacrificio espiatorio di Cristo, da quel momento divenne un atto sacro, con cui il sacerdote richiamava la divinità in terra sotto gli occhi dei fedeli» (51). Tra il 1050 e il 1525 la chiesa soprattutto latina vede inoltre una vera e propria esplosione di teologie e religiosità eucaristiche, che raggiungono il loro pieno sviluppo all’inizio del XIII secolo. Emergono soprattutto le ostie consacrate e il calice di vino, che diventeranno, per secoli, almeno in Occidente, «il vero e proprio centro religioso e culturale della cristianità. Nella trasformazione soprannaturale che la loro materia subisce, l’unità tra Dio e l’uomo si rende percepibile, sperimentabile, palpabile, commestibile» (65).
Una notevole attenzione Schubert la pone anche su quella che lui definisce come “la disputa sul corpo di Dio”, un ricco ambito interconnesso di problemi e questioni che attraversano la storia dei cristianesimi soprattutto occidentali tra il 1525 e il 1830 (cap. 6). Le varie scissioni e i multiformi gruppi soprattutto europei dibattono e si dividono anche per quanto concerne l’effettiva presenza di Cristo nella comunione e su quale fosse il significato di questa presenza più o meno “reale” per i fedeli. La luterana centralità della Bibbia come unica cartina al tornasole attraverso cui misurare l’aderenza all’originario messaggio di Gesù, mostra tutti i suoi riverberi anche per quanto concerne le pratiche di ritualizzazione della “comunione” all’interno delle varie forme di protestantesimo succedute alla esegesi e alla riflessione teologica di Lutero. Lutero, come già Hus, raccomanda di reintrodurre il vino della comunione anche per i laici, nonostante la forte propensione per l’acqua pura, mentre Calvino mostra una fondamentale apertura verso alimenti diversi oltre al pane e al vino, dato che non sono gli ingredienti terreni del pasto ritualizzato a contenere il Cristo celeste, rinviando, in quanto nutrimento corporeo, al nutrimento spirituale dell’anima che si realizza durante il pasto comunitario. Questa apertura a cibi diversi, d’altronde, si riscontra inevitabilmente anche nel cattolicesimo “mondiale” del XVI secolo che, nonostante il tentativo dichiarato di un ritorno esclusivo alla “tradizione” (con tutta le problematicità che questo termine implica e pone), mostra di avere coscienza di un dilemma rispetto alle chiese extraeuropee quando prescrive che le ostie siano fatte «perlomeno per la maggior parte di frumento» (111).
La disamina di Schubert prosegue con le dinamiche legate alle pratiche eucaristiche nell’epoca della riproducibilità industriale (1830-1970), che evidenziano alcune delle questioni connesse, da un lato, alla diffidenza soprattutto protestante nei confronti del pane industriale, che non si sapeva esattamente di cosa fosse fatto, e, dall’altro, alle critiche nei confronti del vino, a loro modo figlie delle istanze proprie dei movimenti di opposizione nei confronti dell’alcolismo (cap. 7). Per quanto concerne il mondo protestante, comunque, si sottolinea anche come a partire dagli anni Settanta del Novecento si verifichi un mutamento per quanto riguarda il dibattito sulla forma e sugli ingredienti dell’eucaristia, allora ripreso con una intensità che non si vedeva almeno dal Seicento, a fronte della maggiore uniformità propria nel mondo cattolico, nonostante alcune delle posizioni espresse nella Sacrosanctum Concilium del 1963 (cap. 8).
Il volume di Schubert, che si raccomanda per la chiarezza espositiva e la ricchezza di dettagli, evidenzia con particolare attenzione quanto le pratiche di ritualizzazione del pasto eucaristico nella storia dei cristianesimi siano, proprio in una prospettiva di lunga durata, strettamente intrecciate all’utilizzo di particolari alimenti e bevande o di specifiche modalità di preparazione dei cibi. Ne deriva un affresco per nulla omogeneo, che mostra quanto i processi di ritualizzazione - stando alla prospettiva inaugurata, tra gli altri, da C. Bell (di cui si veda almeno Ritual Theory, Ritual Practice, Oxford, Oxford University Press, 1992) - siano il frutto di dinamiche culturali mai totalmente definibili in maniera precostituita o predeterminata. In sostanza, dalla rigidità del concetto di “rito”, il volume invita a porsi nella prospettiva dei processi di ritualizzazione, con tutte le complessità diacroniche e diatopiche che tale prospettiva inevitabilmente implica.
FLS
#RITORNO AL FUTURO, 4:
AL DI LA’ DELLA LUNGA DURATA DEL FEUDALESIMO TEOLOGICO-POLITICO (PLATONICO-PAOLINO) DELLA TRADIZIONE OCCIDENTALE.
CITTADINANZA E #SOVRANITA’ NELLA #CITTA’ DEL #SOLE, COME SI DICE "NOI" NELLA #NAPOLI DI IERI, DI OGGI, E DI DOMANI. UNA INDICAZIONE "MESSIANICA" DI GAETANO #FILANGIERI:
#FILOLOGIA #ANTROPOLOGIA E #STORIOGRAFIA D’EUROPA. Alla "fine" della sua "storia" la "coscienza europea", imperterrita continua a mantenere in piedi la sua idea di regalità teo-androcentrica; e, a 800 anni dal #presepe di Greccio (1223), a 700 anni e più dalla lezione "cosmicomica" di teologia e antropologia di #DanteAlighieri sulla "Monarchia" dei #DueSoli, OLTRE CHE dalla sollecitazione della Riforma Protestante (1517), dalla Riforma Anglicana (1534), e dalla presenza del #corpomistico sul trono di Inghilterra di #Elisabetta I («Sono solo un corpo, dal punto di vista naturale, ma, con il permesso di Dio, un Corpo politico fatto per governare»), che l’ultimo capitolo (l’ottavo) dei "Due corpi del re" di Kantorowicz sia intitolato "La regalità antropocentrica: Dante" non sollecita alcuno a interrogarsi ancora e di nuovo sulla "Divina #Commedia" e sulla quarta #domanda, quella da cui tutto dipende, quella antropologica, posta da #Kant, nella sua "Logica", all’inizio del 1800. Che dire? Avanti tutta, titanic-amente.
RITORNO AL FUTURO, 3:
PER UN "BUON 2024", PER ORIENTARSI NEL PENSIERO E NELLA REALTA’ (#KANT, 1724-1804), RIPARTIRE DA #DUE (DAL #2GENNAIO, "QUI E ORA"), DAI "#DUESOLI" (#DANTE2021), DA #ROMA2024 (DAL "WCP2024 - XXV World Congress of Philosophy"), E DA #NICEA (325-2025).
#RICAPITOLAZIONE: UN "INVITO" A RIPARTIRE DA "CAPO", DAL #CAPO, FILOLOGICAMENTE LINGUISTICAMENTE, E ANTROPOLOGICAMENTE, E TEOLOGICAMENTE. In #principio era il #Logos...
ANDROCENTRISMO E "COMPROMESSO DORICO" (NASCITA DELLA TRAGEDIA): RIPENSARE LA "RICAPITOLAZIONE" NON PIù SECONDO LA LOGICA TEANDRICA DEL PAOLINISMO
E RIORGANIZZARE LA RELAZIONE DI #AMORE ("#CHARITAS") TRA LE FIGURE DEL #PRESEPE DI FRANCESCO DI #ASSISI (#GRECCIO, 1223).
DOTTA IGNORANZA (1440), "PACE DELLA FEDE" (1453), E RILANCIO DI UN "NUOVO" #PRESEPE "FRANCESCANO" (ALL’ORIGINE DELLA "#CAPPELLASISTINA"): #ARCHEOLOGIA, #FILOLOGIA, E #STORIAELETTERATURA ...
Un invito alla lettura di un "vecchio" lavoro di #ricerca di Arnalda Dallaj:
"#ORAZIONE E #PITTURA TRA «#PROPAGANDA» E #DEVOZIONE AL TEMPO DI #SISTOIV. [...] A proposito del dibattito sull’Immacolata Concezione e delle vivacissime forme che lo caratterizzarono tra l’ottavo decennio del #Quattrocento e gli inizi del #Cinquecento sono state utilizzate di recente espressioni come « mezzi pubblicitari » e «manifesti dottrinali» ponendo così l’accento sull’intensa ricerca, da parte delle istituzioni ecclesiastiche, di appropriati canali di comunicazione per ampliare il confronto sulla dottrina che, proprio in quel secolo, aveva conquistato basi più salde, anche se il definitivo assestamento maturerà solo nel 1854. Una data cardine fu il 1477, allorché il #papa #francescano Sisto IV autorizzò la celebrazione della festa e approvò l’Ufficio, appositamente composto da Leonardo Nogarolo, concedendo ampia indulgenza per la partecipazione alla liturgia. La tesi della « preservazione » di Maria dal peccato originale, pur trovando sempre maggiori consensi, continuò ad essere avversata soprattutto dai Domenicani. [...]" (cf. Arnalda DALLAJ: "IL CASO DELLA MADONNA DELLA MISERICORDIA DI GANNA").
TEATRO E METATEATRO: "THE TIME IS OUT OF JOINT" (HAMLET, I.5).
Una nota a margine del lavoro in corso di Paul Adrian Fried (cfr. "Shepherds in Shakespeare, Oedipus, Hamlet, and the Bible", December 24, 2023):
IL "PRESEPE" NON MI PIACE (EDUARDO DE FILIPPO, "NATALE IN CASA CUPIELLO", 1931). SENZA PENSARE COL "SENNO DEL POI", STORIOGRAFICAMENTE E INDIPENDENTEMENTE DA FREUD, si può benissimo pensare che a Shakespeare il "presepe" dell’Europa "cattolico-spagnola" non piaccia e, al contempo, che egli, sul filo della tradizione umanistico-rinascimentale (e delle specifiche sollecitazioni della riforma protestante e della riforma anglicana, di Giordano Bruno, e alla presenza di Elisabetta I) collabori dentro a un ampio lavoro culturale del tempo alla ripresa della tradizione dei pastori dell’Arcadia e abbia consapevolmente sollecitato a riflettere su un programma teologico-politico di riforma storico-sociale epoca, di un "ritorno" al "Paradiso terrestre" (come già Dante Alighieri, "Monarchia"). Ieri, come oggi, non è bene riprendere il filo della sollecitazione ad uscire dal letargo?!
Antropologia, Presepe, e cosmoteandria: origine storica dell’antisemitismo "francescano" (contro ebrei e musulmani). La progressiva riduzione del messaggio evangelico e francescano, caduto nelle maglie della tradizione ecclesiastica (paolina-costantiniana), trova il suo momento culminante nell’incapacità di risolvere pacificamente il rapporto con l’ Islam nel 1453 ("caduta di Costantinopoli e e fallimento della teologia "ecumenica" della "pace della fede", il "De pace fidei" del cardinale Cusano) e nella decisione di innescare la marcia sull’Immacolata concezione (della Madre del Figlio di Dio) proprio da parte del papa "francescano" Sisto IV della Rovere, con la fondazione (1475-1478) del suo personale "presepe" (la "Cappella Sistina").
FILOLOGIA STORIA FILOSOFIA ANTROPOLOGIA:
USCIRE DAL SONNO DOGMATICO (KANT). Chi di potenza ferisce, di potenza perisce. Queste le "regole del gioco" dell’Occidente? A quanto pare, l’#Europa è ancora ferma a Niccolò #Cusano e alla sua teologia-politica delle "congetture": con l’#astuzia paolina della "dotta ignoranza" (1440), quale "setaccio" ("cribratio") può fondare il #dialogo tra le religioni e la "pace della fede" (1453)? Non è meglio ripartire dalla "caduta" ("donazione") di #Costantino (#LorenzoValla, 1440), per capire e andare oltre la "caduta di #Costantinopoli (1453) e, #oggi (nell’anno dell’#Incarnazione del #Natale2023), oltre #Nicea (325-2025)?! Se non ora, quando?
#STORIAELETTERATURA E #STORIOGRAFIA: LE “#REGOLEDELGIOCO" DELL’EUROPA (DI #IERI). A partire dal 1492: "Su cosa è stato edificato il nuovo mondo? Genocidi e stermini. Chi ha dato il nome a questo nuovo mondo? Un Vespucci (in verità non lui direttamente, ma ricordiamoci dei ragni e delle formiche di Bacone). Chi ha chiamato così l’Amazzonia? E, chi così il Brasile? A Napoli, sì sempre a Nea-polis, questo nome ricorda la brace, il braciere, persone intorno a un fuoco che riscalda, un cerchio familiare che si apre e accoglie chi ha freddo - non la devastazione e il deserto di chi cieco e folle si mette a distruggere tutto: Edipo con in mano il lancia-fiamme a volontà - Platone, il Tecno-crate. Di fronte alla Foresta gli uomini ciechi e folli di potenza (ma qui si parla anche delle donne-amazzoni) vedono nulla e fanno e ... faranno il Brasile?” (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Antonio Pellicani Editore, Roma 1991, pp. 180-181).
NASCERE E RINASCERE: "NATO DA DONNA, SOTTO LA LEGGE", MA DI QUALE LEGGE?!
Ancora quella della tradizione tragica e del paolinismo?
ANTROPOLOGIA FILOLOGIA PREISTORIA, E PSICOANALISI: USCIRE DAL LETARGO E DALL’INFERNO (Dante, Par. XXXIII, 94).
COME NASCONO I BAMBINI, COME NASCONO I GENITORI - OGGI?! Una nota a margine dell’anno dell’Incarnazione del Natale 2023 - e del Presepe di Greccio di Francesco di Assisi dell’anno 1223.
TRAGEDIA. La difficoltà di "aprire gli occhi" (Freud) sul fatto antropologico (Kant) e sociologico (Marx) che ogni essere umano nasce ed è nato da un essere umano donna ("nato da donna, sotto la Legge"), dice solo della profondità "oceanica" della follia planetaria e della più che millenaria caduta "cosmologica" nell’orizzonte tragico della ragione e religione della cosmoteandria atea (platonico-aristotelica) e devota (paolina)!
COMMEDIA. Non è il caso di rimeditare il significato dell’art. 3 della sana e robusta Costituzione della Repubblica italiana e riprendere il cammino alla luce del Sole e dei "due Soli" (Dante Alighieri)?
LA TRAGEDIA DEL CD. "PATRIARCATO", OVVERO IL "COMPROMESSO DORICO" DELLA RAGIONE OLIMPICA (ELEUSIS2023).
Una nota a margine della "metafisica concreta" dell’Occidente... *
DOTTA IGNORANZA (CUSANO,1440) CONTRO FILOLOGIA (LORENZO VALLA, 1440):#COME NASCONO I BAMBINI...
STORIA #STORIOGRAFIA E #ANTROPOLOGIA. MASSIMO #CACCIARI, a mio parere, sta ancora a difendere, il #compromesso "dorico" della #tragedia tebana di #Giocasta ed #Edipo (e della #caduta biblica): con tutta la stima nei suoi confronti personali, ma la logica della sua metafisica concreta resta tutta dentro l’orizzonte del #paolinismo e della #cosmoteandria atea e devota! (Nicea, 325-2025).
#DANTE2021 #BOVILLUS #COSMICOMICHE (#calvino100)
STORIA DELLA CULTURA EUROPEA:
UNA FILOSOFICA QUESTIONE D’AMORE (CHARITAS).
Una nota sul "disagio della civiltà" (e nella civiltà).
Hannah Arendt, sul "concetto d’#amore in Agostino" (1929), titola il cap. 2 della Parte Prima ("Amor qua appetitus") e della Parte Seconda ("Creator - Creatura"): "Caritas e cupiditas"; ma il Dottore della #Grazia ("Charis") non scrive "Ecce unde incipit Charitas"?
Martin Heidegger, in "Essere e Tempo" (1927), a proposito di Max "Scheler, sotto l’influenza di Agostino e di Pascal", ricorda la frase del’uno e dell’altro, e, cita in nota: "Non intratur in veritatem nisi per charitatem"; "n’entre dans la vérité que par la charité" ("Non si entra nella verità se non con la carità"). Che fare?!
Amore (Charitas") o Mammona ("Caritas"): "Essere, o non essere" (Shakespeare, "Amleto": III,1). Sul "Deus caritas est" non è forse ora di fare chiarezza (claritas)? O, per assurdo, l’amore è "lo zimbello del Tempo" (Shakespeare, Sonetto 116)?!
Non è bene ricordare, filologicamente, che "in principio era il Logos"?! Se non ora, quando?!
*
a) Cfr. Hannah Arendt, "Il concetto d’amore in Agostino", a c. di Laura Boella, SE, 2021.
b) Cfr. Max Scheler, "Ordo amoris", Morcelliana, Brescia.
c) Cfr. S. Freud, "Disagio della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino.
L’UMANITÀ (ANTROPOLOGIA), IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE" (ECONOMIA POLITICA) E IL PERSISTERE DI UN "PREISTORICO" SIMPOSIO ALL’OMBRA DELLA "EU+CARESTIA"!!!
MINIMALISMO ED ESSENZIALISMO: "SÀPERE AUDE" (DECIDERSI A DIVENTARE SAGGIO, AD AS-SAGGIARE, A USCIRE DALLO "STATO DI MINORITÀ" (ORAZIO E KANT). A ben riflettere sulla "essenza del cristianesimo" di Ludwig Feuerbach, e, al contempo, sul problema della "eucharistia", del cibarsi della grazia ("charis") di Dio ("charitas"), forse, si può meglio cominciare a capire la profondità teologico-politica ed economica della sua "banalizzatissima" considerazione che «L’uomo è ciò che mangia»!
IN UN TESTO BRILLANTISSIMO, all’interno di un "presente storico" di secoli, segnato da una grande carestia filologica e logica, così è scritto: "La vita spirituale - di chi «nasce un seconda volta» aderendo a Cristo - poggia sulla preghiera continua e sull’#eucarestia [...]" (cfr. Flavio Piero Cuniberto, "SUL CRISTIANESIMO COME MITO E COME MISTERO). E, proseguendo; si arriva a fare propria la tesi di #RenéGirard: "L’idea che la morte di Cristo sulla croce sia il prezzo del riscatto («redenzione» da «red-imere», «riscattare») non è che una versione cristianizzata della pratica ancestrale del #bouc #émissaire, il #caproespiatorio di Girard. Una versione mitologica del mistero cristiano." (op. cit.).
IL CANTO DEL CAPRO E LA FENOMENOLOGIA DELLA TRAGEDIA: "ECCE HOMO" (PILATO). Accecati dall’astuzia della ragione platonico-hegeliana, invece di fare chiarezza sul "capro espiatorio", si rinnova la confusione e la condanna a morte proprio dell’agnello (dell’#ariete, del montone) che ha portato Ulisse (e Dante) in salvo, fuori dalla caverna e dall’inferno!
Dopo Nietzsche ("Ecce Homo", 1888), che ha denunciato l’imbroglio storico-antropologico del #paolinismo, a partire dalla morte di Dio, e di Gesù ("Ecce Homo"), chi ha mai più visto sulla Terra un cristiano, una cristiana?
Nonostante Gioacchino da Fiore, Francesco d’Assisi, Chiara di Assisi, Dante Alighieri, e, addirittura, il lavoro iperstorico ("preistorico" e archeologico) sulle radici "Cosmicomiche" della Terra (Italo Calvino), Diogene di Sinope, definito dalla tradizione "Socrate pazzo", continua ad andare con la sua lanterna accesa, alla luce del sole, per i mercati, a cercare l’uomo ("anthropos") e a sognare il #sorgeredellaterra...
L’ AMLETICA “QUESTION” DI ELISABETTA I (REGINA D’INGHILTERRA E PAPA DELLA CHIESA ANGLICANA), LA LEZIONE SULLA “VISIBILITA” (“VISIBILITY”) DI ITALO CALVINO, E IL PROBLEMA DEL “MODELLO PATRIARCALE”.
A MARGINE E A PROPOSITO DELL’ “USO PERSUASIVO E PROPAGANDISTICO DELLA FAMIGLIA” (DEL “PRESEPE”) E DEGLI ANTROPOMORFISMI MESSI IN LUCE NELLA RIFLESSIONE SUL “BENTORNATO MASCHIO” (Gianfranco Pellegrino, "Le parole e le cose", 26 ottobre 2023), FORSE, non sarebbe male se la sollecitazione a riflettere venisse accolta soprattutto dalle antropologhe, dalle filosofe, dalle psicoanaliste, e dalle teologhe:
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VISTO CHE il “modello patriarcale” come strumento di analisi fa acqua da tutte le parti, almeno dal tempo della “dialettica” di Hegel, e, ancor di più, dopo Freud e la sua indicazione a muoversi ad usare il “modello edipico completo”, è più che augurabile fare qualche passo avanti teorico e pensare a un modello “patriarcale-matriarcale” (padrone-serva e padrona-servo), alla luce delle “Lezioni americane” (non solo la quarta, la “Visibilità”) e del “Castello dei destini incrociati” (in particolare, del capitolo della seconda parte, “La taverna dei destini incrociati”, col titolo “Anch’io cerco di dire la mia”).
Federico La Sala
P. S. - LETTERATURA E PSICOANALISI: “IL CASTELLO DEI #DESTINI INCROCIATI” (ITALO CALVINO). L’INCONTRO CON “SIGISMONDO DI VINDIBONA” [VIENNA] NELLA “TAVERNA DEI DESTINI INCROCIATI”. Una “presentazione” del mito di Edipo con le carte dei Tarocchi:
“ANCH’IO CERCO DI DIRE LA MIA. [...] Tutto questo è come un sogno che la parola porta in sé e che passando attraverso chi scrive si libera e lo libera. Nella scrittura ciò che parla è il represso. E allora Il Papa dalla barba bianca potrebbe essere il gran pastore d’anime e interprete di sogni Sigismondo di Vindobona, e per averne conferma non c’è che verificare se da qualche parte del quadrato dei tarocchi si riesce a leggere la storia che, a quanto insegna la sua dottrina, si nasconde nell’ordito di tutte le storie. [...]” (cfr. I. Calvino, “Anch’io cerco di dire la mia”, “Romanzi e racconti” II, Meridiani, Mondadori, 1992, pp. 592-595).
Federico La Sala
P. S. 2 - ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, MATEMATICA, E FILOLOGIA...
“Bentornato maschio”( v. sopra) non è solo una chiamata in causa di intellettuali di ogni genere e di ogni specie, ma anche, e prima di tutto, è un segnavia “storico” per ogni cittadino e ogni cittadina per dare alla amletica “question” teologico-politica posta da Shakespeare, in stretto collegamento alla presenza sul trono d’Inghilterra di Elisabetta I, regina e papessa della Chiesa anglicana, una propria risposta all’altezza dell’attuale “presente storico” - è una chiamata ad uscire dall’epocale “stato di minorità”, personale e politico (Immanuel Kant, 1784 - Michel Foucault, 1984) !
“DUE SOLI” (DANTE ALIGHIERI). Re-interrogarsi alla Kantorowicz sulla “regalità antropocentrica: Dante”, sui “due corpi del re” e, ovviamente, anche sui “due corpi della regina”, forse, può essere una buona occasione per svegliarsi dal sonno dogmatico e portarsi fuori dalla cosmoteandria, atea e devota! Se non ora, quando?!
QUESTIONE MATEMATICA E ANTROPOLOGICA. Per approfondimenti, volendo accogliere alcune indicazioni sul tema, si potrebbe ricominciare a contare da almeno da due o, meglio da “Quattro”, dal poema di Italo Testa (“Le parole e le cose”, 3 Settembre 2021).
ARCHEOLOGIA, ANTROPOLOGIA, PSICOANALISI ("COSTRUZIONI NELL’ANALISI, 1937)", E FILOLOGIA.
«GRANDE E’ LA #DIANA DEGLI EFESINI» (S. FREUD, 1911): EFESO, LA DEA MADRE, IL DIO FIGLIO, E L’INTERPRETAZIONE PAOLINA DEL MESSAGGIO EVANGELICO. Alcuni appunti:
«Grande è la Diana degli Efesini»
di Sigmund Freud (Opere, VI, 1911)*
L’antica città greca di Efeso, in Asia Minore (a questo proposito dobbiamo essere grati alla nostra archeologia austriaca per l’esplorazione delle sue rovine), era particolarmente celebrata nell’antichità per lo splendido tempio dedicato ad Artemide (Diana). Gli invasori ionici, forse nell’ottavo secolo avanti Cristo, conquistarono la città, che da lungo tempo era abitata da popoli di razza asiatica, e quivi trovarono il culto di un’antica dea-madre, il cui nome era probabilmente Oupis, la quale fu da loro identificata con Artemide, divinità della loro patria di origine. Gli scavi hanno dimostrato che, nel corso dei secoli, parecchi templi furono eretti nello stesso luogo in onore della dea.
Il quarto di questi templi è quello che fu distrutto dal fuoco appiccato dal folle Erostrato, nel 356, la notte stessa in cui nasceva Alessandro Magno. Il tempio fu ricostruito, più splendido che mai. La metropoli commerciale di Efeso, con il suo affollarsi di sacerdoti, maghi e pellegrini, con le sue botteghe, ove erano posti in vendita amuleti, ricordi ed ex-voto, potrebbe essere paragonata alla moderna Lourdes.
Attorno al 54 d.C. l’apostolo Paolo passò diversi anni ad Efeso. Quivi predicò, compì dei miracoli, trovando un largo seguito tra la popolazione. Perseguitato ed accusato dagli Ebrei, si staccò da questi, fondando una comunità cristiana indipendente. A cagione del diffondersi della sua dottrina, vi fu un calo del commercio degli orafi, che solevano fabbricare ricordi del luogo sacro (figurine di Artemide e modellini del tempio) per i fedeli e i pellegrini, che venivano da tutte le parti del mondo (Cfr. anche la poesia di Goethe.) Paolo era troppo rigido per tollerare che l’antica divinità sopravvivesse sotto diverso nome, per ribattezzarla come avevano fatto i conquistatori ionii con la dea Oupis, per cui i pii artigiani e artisti della città cominciarono a sentirsi preoccupati per la sorte della loro dea e anche per quella dei loro guadagni. Si ribellarono e, al grido senza fine ripetuto, di «Grande è la Diana degli Efesini», sciamarono lungo la via principale, detta «Arcadiana», fino al teatro, dove il loro capo, Demetrio, pronunciò un discorso infuocato, contro gli Ebrei e contro Paolo. Le autorità riuscirono con difficoltà a sedare il tumulto con l’assicurazione che la maestà della dea era intoccabile e fuori della portata di qualsiasi attacco ( Atti, XIX.)
La chiesa, fondata da Paolo a Efeso, non gli rimase fedele a lungo. Cadde sotto l’influenza di un uomo chiamato Giovanni, la cui personalità è stata un serio problema per i critici. Potrebbe trattarsi dell’autore dell’Apocalisse, che abbonda in invettive contro l’apostolo Paolo. La tradizione lo identifica con l’apostolo Giovanni, al quale si attribuisce il quarto vangelo. Secondo questo vangelo, quando Gesù era sulla croce gridò al discepolo favorito, accennando a Maria: «Ecco tua madre!», e da quel momento Giovanni prese Maria con sé.
Quindi, quando Giovanni andò a Efeso, Maria lo accompagnava. Di conseguenza, accanto alla chiesa dell’apostolo a Efeso, fu eretta la prima basilica in onore della dea-madre dei cristiani. La sua esistenza è attestata fin dal quarto secolo. E allora la città ebbe di nuovo la sua grande dea e, salvo il nome, scarsi furono i mutamenti. Anche gli orefici ripresero il loro lavoro, consistente nel fabbricare modelli del tempio e immagini della dea per i nuovi pellegrini. Però la funzione di Artemide, espressa dall’attributo Kourotrophos. [che alleva i figli] fu assunta da S. Artemidoro, che si prendeva cura delle donne in travaglio.
Poi venne la conquista della città da parte dell’Islam, e infine la rovina e l’abbandono, dovuti al fatto che il fiume, lungo il quale sorgeva, fu soffocato dalle sabbie. Ma nemmeno allora la grande dea di Efeso abbandonò le sue pretese. Ai nostri giorni essa è apparsa, come una santa vergine, ad una pia fanciulla tedesca, Katharina Emmerich, a Dùlmen. Essa le ha descritto il viaggio ad Efeso, l’arredamento della casa in cui era vissuta ed era morta, la forma del suo letto, e via dicendo. Sia la casa che il letto sono stati effettivamente ritrovati, esattamente quali la vergine li aveva descritti, e ora sono nuovamente meta di pellegrinaggi di fedeli.
*Fonte: "Opere di Sigmund Freud", Vol. VI, Bollati Boringhieri, Torino.
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IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON IL LOGO). IL FILOLOGICO "COLPO DI STATO" DEL "FIGLIO DELL’UOMO", PAOLO DI TARSO:
a) QUESTIONE ANTROPOLOGICA E CRISTOLOGICA. Chi è il "Figlio dell’Uomo" (Gv. 12, 34: "Filius hominis", "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου")?!
b) LEZIONE "ANDROLOGICA" DI PAOLO DI TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
c) "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" ("Das Ungluck in der Kultur"): "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione [...]" (S. Freud, "Il disagio della civiltà", 1929).
L’#EUROPA (#GRANADA), #KOENIGSBERG / #KALININGRAD (E #ODESSA), LA "#DEMOCRAZIA" (COME "#STATO DI #MINORITÀ"), E IL PROBLEMA DELLA #TRASPARENZA TEOLOGICO-POLITICA. Alcuni appunti...
Un omaggio alla memoria di Dante Alighieri e William Shakespeare...
LA #TALPA E LA #CIVETTA: LA TRACCIA DI UNA FENOMENOLOGIA DELLO #SPIRITO DI "#DUE #IO" (DI #DUESOLI"). Già per #Shakespeare, ai suoi tempi (1600), Amleto e Ofelia (con il metodo della loro #follia) guardano ben oltre la linea dell’orizzonte teologico-politico di #Erasmo di Rotterdam e #TommasoMoro e lottano per portarsi fuori da un’Europa ormai avviatasi nella "marcia" del tramonto (#Nicea 325/2025).
LE PAROLE DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE. Al centro e al fondo della questione posta da #CarloGalli, nel recente "Democrazia, ultimo atto?"(cfr. estratto: https://www.einaudi.it/.../democrazia-ultimo-atto-carlo.../ ), al di là dei suoi contributi e risultati specifici, vi sono "le idee moderne di libertà, di uguaglianza, di trasparenza, che sono esposte alla contingenza (...) e che meritano ancora una volta di essere il centro intorno a cui ruota la politica".
"DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (#FREUD, 1929). Sul tema, nel suo commento, Francesco Fistetti accoglie con riserva la proposta di variazione e scrive: "[...] Al terzo termine del trinomio #libertà / #eguaglianza / #fraternità Galli sostituisce quello di "trasparenza". Trasparenza nell’accezione già di Bobbio che non devono esserci zone oscure e opacità nell’esercizio del potere e nel governo delle istituzioni, ma il sale della critica e del dibattito razionale. Ma in questo modo, cancellando la fraternità, può cassare senza colpo ferire tutta la storia del socialismo e della lotta per il socialismo come organici alla storia della modernità democratica e dello stesso liberalismo (il liberalsocialismo di un Rosselli e tanti altri). Operata questa amputazione "genealogica’ (almeno per la Modernità) resta una pallida e spettrale idea di liberaldemocrazia. Peraltro, quest’ultima viene declinata come l’ideologia e la pratica di quello che l’autore chiama il "secondo Occidente", quello degli Usa e delle istituzioni dell’Onu: un nuovo Occidente "a guida americana", di cui dalla fine della Seconda Guerra Mondiale "fa parte l’Europa" e la cui "espressione è la Nato" [...]"(cfr. https://www.facebook.com/francesco.fistetti.5/posts/10211262489754567).
"LA SOCIETÀ TRASPARENTE" (GIANNI VATTIMO, 1989), A mio parere, sulla trasparenza, un nodo decisivo legato al problema proprio di una "#societàtrasparente" (#GianniVattimo, 1989) , il dibattito è in alto mare ed è ancora tutto da affrontare, al suo livello antropologico-politico fondamentale, dalla radice (#Marx)!
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("CRISTOLOGICA") E CULTURA CRITICA. La questione è "metafisica", ma, a quanto pare, nessuno si ricorda più di #Kant e del suo illumiNATO "sàpere".
#PACEPERPETUA, Se non si rende trasparente il nodo antropologico e teologico-politico, non è possibile (come è stato dimostrato storicamente, almeno fino ad oggi, fino alla "tappa" europea di Granada 1492/2023) alcuna fraternità (libertà e uguaglianza) e la "pace perpetua" (Kant) è definitivamente assicurata.
Nota:
#FILOSOFIA #STORIA E#METATEATRO: #METAFOROLOGIA.
"La #civetta e la #talpa. Sistema ed epoca in #Hegel" di #RemoBodei (1975, 2021): "[...] Quale il rapporto fra la civetta della filosofia, che interpreta coscientemente l’epoca, e la talpa dello spirito, che la trasforma inconsciamente con il suo cieco lavorio? A tali interrogativi Remo Bodei cerca una risposta in questo saggio ormai classico, che ha offerto una prospettiva originale della filosofia hegeliana." ( https://www.mulino.it/isbn/9788815291226 ).
FLS
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, E TEOLOGIA-POLITICA, OGGI (12 SETTEMBRE 2023).
UN "INVITO ALLA LETTURA" di una breve annotazione di Giorgio Agamben (Quodlibet, 30 agosto 2023) sulla "fede" e sulla "esperienza della parola":
La neve in Romania
di Giorgio Agamben (Quodlibet, 30 agosto 2023)
A che cosa siamo fedeli, che cosa significa aver fede? Credere in un codice di opinioni, in un sistema di idee formulate in un’ideologia o in un «credo» religioso o politico? Se così fosse, fedeltà e fede sarebbero una triste faccenda, nient’altro che il tetro, compiaciuto dovere di eseguire prescrizioni dalle quali per qualche ragione ci sentiamo vincolati e obbligati. Una tale fede non sarebbe qualcosa di vivo, sarebbe lettera morta come quella che il giudice o lo sbirro ritengono di applicare nello svolgimento delle loro funzioni. L’idea che il fedele sia una specie di funzionario della sua fede è così ripugnante, che una ragazza, che aveva sopportato la tortura pur di non rivelare il nome dei suoi compagni, a coloro che elogiavano la sua fedeltà alle proprie idee rispose semplicemente: «non l’ho fatto per questo, l’ho fatto per capriccio».
Che cosa intendeva dire la ragazza, che esperienza della fedeltà voleva esprimere con le sue parole? Una riflessione su quella fede per eccellenza, che fino a qualche decennio fa era ancora considerata la fede religiosa, può fornirci indizi e riscontri per una risposta. Tanto più che proprio in questo ambito la Chiesa a partire dal Simbolo niceno (325 d.C.) ha ritenuto di dover fissare in una serie di dogmi, cioè di proposizioni vere, il contenuto della fede, ogni discordanza rispetto alle quali costituiva un’eresia condannabile. Nella lettera ai Romani Paolo sembra dirci anzi esattamente il contrario. Egli lega innanzitutto la fede alla parola («la fede viene dall’ascolto attraverso la parola di Cristo») e descrive l’esperienza della parola che è in questione nella fede come una immediata vicinanza di bocca e cuore: «Vicina (eggys, letteralmente alla mano) a te è la parola, nella tua bocca e nel tuo cuore, questa è la parola della fede... Col cuore infatti si crede nella giustizia, con la bocca si professa per la salvezza». Paolo riprende qui un passo del Deuteronomio che affermava questa stessa prossimità: «la parola è vicinissima nella tua bocca e nel tuo cuore ed è nelle tue mani attuarla».
L’esperienza della parola che è in questione nella fede non si riferisce al suo carattere denotativo, al suo corrispondere a dei fatti e a delle cose esteriori: è, piuttosto, esperienza di una vicinanza che ha luogo nell’intima corrispondenza tra bocca e cuore. Testimoniare della propria fede non significa fare delle affermazioni fattualmente vere (o false) come si fa in un processo. Non siamo fedeli, come nel credo o nel giuramento, a una serie di enunciati che corrispondono o non corrispondono a dei fatti. Siamo fedeli a un’esperienza della parola che sentiamo così vicina, che non c’è spazio per separarla da ciò che dice.
La fede è, cioè, innanzitutto un’altra esperienza della parola rispetto a quella di cui crediamo di servirci per comunicare dei messaggi e dei significati ad essa esterni. A questa parola siamo fedeli perché, nella misura in cui non possiamo separare la bocca e il cuore, viviamo in essa e essa vive in noi. È una tale esperienza che doveva avere in mente quella ragazza berbera che, mentre un giorno le chiedevo che cosa la legava così fortemente a un uomo che diceva di aver amato e con il quale era vissuta per un anno in una capanna nelle montagne rumene, rispose: «io non sono fedele a lui, sono fedele alla neve in Romania».
CON FREUD, OLTRE: MEMORIA DI W.R. BION.
Sogno in W.R. BION
Per evidenziare il contributo innovativo di Bion alla teoria psicoanalitica del sogno è utile partire dal concetto di lavoro onirico, introdotto da Freud nel sesto capitolo della Interpretazione dei sogni (1899).
A cura di Michele Bezoari *
Il lavoro psichico da cui scaturisce il sogno consiste, per Freud, di due fasi successive: la produzione dei pensieri inconsci e la loro trasformazione nel contenuto manifesto del sogno. Solo questa seconda operazione, in quanto specifica dei sogni, è stata da lui considerata come il vero e proprio lavoro onirico e descritta mettendone in luce le modalità impiegate per eludere la censura (condensazione, spostamento, raffigurazione simbolica, elaborazione secondaria).
La ricerca di Bion si è, invece, focalizzata sulla prima fase, cioè sulla formazione dei pensieri inconsci mediante un processo dal quale derivano, come lo stesso Freud aveva ipotizzato, anche i pensieri coscienti. Per indicare la novità del suo apporto Bion ha usato inizialmente il termine lavoro-del-sogno-alfa, ridefinito in seguito funzione alfa (1962, 1992).
Questa funzione opera trasformando le impressioni emotivo-sensoriali (elementi beta) in immagini (gli elementi alfa) idonee alla costruzione dei pensieri sia consci che inconsci. Si tratta di un lavoro onirico basilare e necessario per la vita psichica: lavoro che, a differenza di quello che porta alla formazione del sogno, si svolge di continuo, non solo quando dormiamo ma anche quando siamo svegli. È un processo paragonabile, secondo Bion, alla digestione.
Nell’ottica bioniana il contenuto manifesto del sogno è un’aggregazione di elementi alfa articolati in forma narrativa durante il sonno e successivamente rielaborati durante la veglia. Il nucleo del sogno come evento vissuto dal soggetto dormiente è un’esperienza emotiva, che la funzione alfa elabora nel tentativo di renderla pensabile, analogamente a quanto accade per le esperienze emotive vissute nello stato di veglia.
Parlando di “sogno necessario” e affermando che ogni uomo deve poter “sognare” un’esperienza emotiva mentre gli capita, sia che gli capiti nel sonno sia che gli capiti da sveglio, Bion (1962) si riferisce dunque al primo livello di pensiero onirico. Per evitare di essere frainteso dal lettore, egli usa - almeno inizialmente - le virgolette quando con i termini “sogno” e “sognare” intende il prodotto e l’attività della funzione alfa, non il sogno e il sognare propriamente detti (che devono la loro specificità allo stato di coscienza peculiare del sonno), né le fantasticherie della veglia talvolta chiamate, nel linguaggio comune e anche da Freud, “sogni a occhi aperti”.
La nuova teoria è compatibile, come dichiara lo stesso Bion, con i concetti classici di rimozione, censura e resistenza impiegati da Freud a proposito del sogno. Ma questi meccanismi vengono ora considerati al servizio della funzione alfa, che crea e differenzia i pensieri inconsci e quelli consci per mezzo di una membrana virtuale in continuo sviluppo denominata barriera di contatto. Più che prodotti dall’inconscio, essi sarebbero dunque meccanismi produttori dell’inconscio.
Con Bion viene pienamente riconosciuta al sogno quella capacità di generare nuovi significati della vita emotiva che Freud aveva solo in parte e tardivamente ammesso, legato com’era al suo assunto teorico di considerare il sogno come una deformazione di significati già presenti nell’inconscio (Riolo 1983).
Ma non tutti i sogni sognati, ricordati ed eventualmente raccontati hanno lo stesso valore per la pensabilità dell’esperienza emotiva. Adottare la prospettiva bioniana non significa considerare il contenuto manifesto del sogno come se raccontasse “la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità” (Meltzer 1984).
Per Bion il lavoro simbolopoietico della funzione alfa, nelle sue varie fasi, è soggetto a influenze contrastanti che tendono ad evitare invece che a favorire la consapevolezza di emozioni troppo dolorose. Il materiale onirico può essere inconsciamente usato come bugia - invece che per accostarsi alla verità - e la stessa funzione alfa può invertire il suo corso, come accade nei disturbi psicotici, trasformando anche i simboli già prodotti in elementi quasi concreti (simili agli elementi beta originari), non più utilizzabili per il pensiero ma destinati all’evacuazione nel corpo, nel comportamento o nel mondo esterno con modalità allucinatorie.
Alla luce degli sviluppi bioniani anche il posto del sogno in analisi viene in parte riconfigurato.
Mentre il sogno della notte è un tentativo di rendere pensabile l’esperienza emotiva del sognatore addormentato, nella seduta analitica il sogno raccontato dal paziente si inserisce nel contesto di un dialogo che ha come nucleo emotivo ciò che egli sta vivendo nella relazione con l’analista. È compito dell’analista cercare di sintonizzarsi con questa esperienza emotiva in atto per favorirne la simbolizzazione condivisa, mettendo la propria funzione alfa al servizio di quella del paziente grazie a una disposizione mentale definita da Bion reverie [], che integra il concetto freudiano di attenzione fluttuante.
L’analista, afferma Bion (1992), deve poter “sognare” l’analisi mentre questa avviene, ma naturalmente - precisa con un pizzico di umorismo - non deve addormentarsi. Obiettivo dell’analista è realizzare insieme al paziente una “trasformazione in sogno” (Ferro 2009) dei fatti della seduta. Tra questi fatti il racconto di un sogno ha un carattere speciale in quanto è espressione (più o meno riuscita) del lavoro onirico notturno del paziente e, soprattutto, in quanto può offrire al pensiero associativo della coppia analitica spunti inediti per esplorare nuove prospettive di senso (Bezoari e Ferro 1994).
Interpretare il sogno equivale per Freud a disfare i travisamenti del lavoro onirico notturno per risalire ai pensieri già presenti nell’inconscio del sognatore. Per Bion si tratta piuttosto di portare avanti il lavoro del sogno nella veglia, mettendo a frutto anche le potenzialità creative delle trasformazioni oniriche descritte da Freud (condensazione, spostamento, raffigurazione) per produrre nuovi pensieri, idonei a rappresentare l’esperienza emotiva in divenire. Come dice Ogden (2005) ispirandosi a Bion, scopo dell’analisi è migliorare nell’analizzando la capacità di “sognare i suoi sogni non sognati o interrotti”.
Bibliografia
Bezoari M., Ferro A. (1994). Il posto del sogno all’interno di una teoria del campo analitico. Riv.Psicoanal., 40, 251-272.
Bion W.R. (1962). Apprendere dall’esperienza. Roma, Armando, 1972.
Bion W.R. (1992). Cogitations. Pensieri. Roma, Armando, 1996.
Ferro A. (2009). Trasformazioni in sogno e personaggi del campo psicoanalitico. Riv.Psicoanal., 55, 395-420.
Freud S. (1899). L’interpretazione dei sogni. O.S.F., 3.
Meltzer D. (1984). La vita onirica. Roma, Borla, 1989.
Ogden T. (2005). L’arte della psicoanalisi. Milano, Cortina, 2008.
Reverie, Spipedia enciclopedia SPIWEB https://www.spiweb.it/la-ricerca/ricerca/spipedia/
Riolo F. (1983). Sogno e teoria della conoscenza in psicoanalisi. Riv.Psicoanal., 29, 279-295.
NOTA.
A) FILOSOFIA E "SAPERE AUDE!" (1784). Ricordando W. R. Bion, non è male ricordare anche la lezione (di Kant e) del suo amico e filosofo H. J. Paton ("Kant’s metaphysics of experience", 1936). A scuola da Kant (https://www.academia.edu/12356078/KANT_FREUD_E_LA_BANALITA_DEL_MAL ): Wilfred Bion "rammentò sempre con gratitudine le conversazioni da lui avute col filosofo H. J. Paton" (Francesca Bion, 1982).
B) PSICOANALISI E RICERCA SCIENTIFICA. Ricordando il "contributo innovativo" di W. R. Bion (1897 - 1979) alle indicazioni di Freud, non è male ricordare anche il lavoro "consonante" di ricerca psicoanalitica e antropologica portato avanti da Elvio Fachinelli (1928-1989), sul tema della "mente estatica".
PSICOANALISI, ANTROPOLOGIA, E COSMOLOGIA:
"IL MOVIMENTO DI UN’ANALISI" (NELLA "STANZA" DI FREUD) E IL "DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO" (NELLA "NAVE" DI GALILEO GALILEI).
Una nota sul tema, in memoria di Sigmund Freud (1939), Elvio Fachinelli (1989) e di Jean-Bertrand Pontalis (2013).
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI (*). Nella "#culla" di Freud, a ben considerare, c’è la #memoria della #rivoluzionescientifica, e, al contempo, ci sono le #tracce per una ripresa della #rivoluzionecopernicana kantiana e una #svolta_antropologica epocale: la sollecitazione pontalisiana a "trasmettere il movimento di un’analisi" è un grande invito a rileggere il "#Dialogo sopra i #due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano" (#GalileoGalilei, 1632) e riprendere il lavoro nella "stanza" della "grande nave":
PSICOLOGIA, FILOSOFIA, E CRITICA DELLA RAGIONE "PURA":
USCIRE DALLO "STATO DI MINORITÀ"(I. KANT, 1784 - M. FOUCAULT, 1984).
SUL "MOVIMENTO DELL’ANALISI" (J.-B. PONTALIS) E SULLA "MATURITÀ" DELL’ ANALISTA,
QUESTA LA RISPOSTA DI FREUD (1° maggio 1932) A S. H. FOULKES:
L’ORDINE DEI DISCORSI
Mondi nuovi mai visti prima
La porta delle madri di Manuela Fraire.
di Felice Cimatti (FataMorgana-Web, 16 Settembre 2023)
“Domattina ci metteremo in viaggio per il sud”, dice fra sé e sé Nia, l’aliena del capolavoro di Eleanor Arnason, Sigma Draconis (A Woman of the Iron People, 1991), alla fine dell’avventura che l’ha portata a conoscere gli alieni (che in questo caso sono i terrestri, e in particolare Lixia, l’antropologa della spedizione), sbarcati per la prima volta sul suo pianeta. Nia è una vivente simile agli umani ma ricoperta da una folta pelliccia che appartiene ad una civiltà preindustriale, in cui i ruoli di quelli che sulla Terra sarebbero donne e uomini sono profondamente diversi. Le “donne” di Sigma Draconis vivono infatti insieme nei villaggi con i loro figli, mentre gli “uomini”, vivono da soli nelle immense pianure del pianeta (i giovani “maschi” lasciano i villaggi all’inizio della pubertà).
L’eterosessualità è un tabù che può essere infranto solo durante la breve stagione degli amori. Nel romanzo si allude ad eventuali relazioni omosessuali fra le donne dei villaggi (non a quella maschile), alcune delle quali non sono interessate neanche ad avere figli. Nia, tuttavia, è stata cacciata via dal suo popolo - il popolo del ferro; Nia infatti è un’abile fabbro (fabbra?), su Sigma Draconis un tipico lavoro “femminile” - perché aveva voluto vivere stabilmente con un “uomo”. Dopo la fine tragica di questa relazione vive da sola nelle sconfinate praterie delpianeta. Nia, in sostanza, non vive come il suo popolo, e la sua conformazione fisica, avevano deciso che avrebbe dovuto vivere. Nia è libera.
A questo serve la fantascienza, a immaginare forme di vita diverse da quelle che la nostra mancanza di immaginazione, o la nostra paura, ci impedisce di sperimentare. È questo il punto di contatto fra la fantascienza e la psicoanalisi, almeno la psicoanalisi così come la teorizza e la pratica la femminista e psicoanalista Manuela Fraire: il lavoro psicoanalitico, infatti, «mette fuori gioco l’illusione di una ricostruzione da erigere sui resti del passato, poiché a guidare la navicella spaziale in cui si trovano per un certo tempo paziente e analista è pur sempre il desiderio di incontrare mondi nuovi mai visti prima» (Fraire 2023, p. 75). Non è il passato l’oggetto della psicoanalisi, e quindi il rimosso e il già stato (che per sua natura non cerca altro che di ripetersi), è piuttosto l’invenzione di un futuro non ancora immaginato. Si tratta, come scrivevano Deleuze e Guattari, di produrre nuovo inconscio, ossia nuova impensabile vita.
Ma perché, si chiede Fraire, non riusciamo proprio a vederli (e appunto, nemmeno a immaginarli), questi “mondi nuovi”? Perché non riusciamo a vedere l’aliena Nia - una “donna” pelosa con le mani da fabbro - che virtualmente è in ciascuna di noi? Perché ciascuna di noi è intrappolata, come invece non è Nia, nello schema delle identità e dei ruoli che ogni identità sembra inevitabilmente destinata a portarsi con sé. Fraire, abbiamo detto, è prima di tutto una femminista, e quindi è di Nia che ci stiamo occupando. Ecco perché Fraire ci aiuta a sbrogliare il groviglio di associazioni fra identità e doveri che rende così asfissiante la posizione femminile. Si parte, intanto, dalla differenza fra i sessi: «La differenza sessuale nel discorso del femminismo non è quella della donna dall’uomo ma il quid che li unisce e li separa al di là di ogni complementarità. Se femminile e maschile si spartissero tutte le parti che appartengono all’una o all’altro, non vi sarebbe alcun resto, mentre nella differenza sessuale c’è un resto che per la psicoanalisi è il sessuale» (Fraire 2023, pp. 16-17).
Il sessuale, o per usare la formulazione di Laplanche il sexuale, è il campo della sessualità non riproduttiva, ossia il campo vastissimo della sessualità libera e creativa - «il sessuale infantile perverso e polimorfo che precede le assegnazioni» (ivi, p. 45) identitarie sociali - che non rientra nello strettissimo spazio della sessualità al servizio della riproduzione della specie. Il sexuale è libero. Che succede, si chiede Fraire, se questo campo di virtualità non identitarie viene lasciato libero di sperimentare? Si pensi, ad esempio, alla «opportunità che donne e uomini si stanno dando reciprocamente di fare esperienza di una genitorialità risultato della disgiunzione tra procreazione e maternità [che] apre ad un’impresa comune senza cui è difficile immaginare un futuro della specie» (ivi, p. 37). Perché Nia deve per forza essere madre per avere dei figli? E ancora, perché non poter immaginare un mondo in cui «la maternità non è legata al corpo» (ivi, p. 46)? Già, perché no? O perché non accorgersi (una scoperta che Fraire ricava da tante analisi di donne) «che l’esperienza della gravidanza può essere desiderata come fine a sé stessa» (ivi, p. 47) e non per diventare madre?
E ancora, perché non prendere atto con sollievo, e non con rimpianto, che «spettacolare è dunque non il declino del padre, ma del patriarcato come sistema che ha regolato il rapporto tra i sessi. Ci sono le condizioni perché la funzione paterna si smarchi dall’ombra del padre patriarcale?» (ivi, p. 77). Si può essere “padre” senza essere padre biologico, come si può essere “madre” senza essere state le portatrici del neonato? È solo l’utero che definisce l’essenza di una donna? Questo ci mostra Nia, un mondo molto diverso dal nostro ma anche molto simile al nostro, un mondo che in realtà è già presente, è già il nostro mondo, ma non riusciamo a vederlo, come l’esploratrice Lixia che all’inizio non riusciva a capire la stranezza di un mondo in cui l’eterosessualità è quasi un peccato contro natura (un tema simile viene esplorato in un altro appassionante romanzo di Eleanor Arnason, Meduse, Ring of Swords, 1993).
Mettere in campo il sexuale significa allora salire sulla “navicella spaziale” per provare a fare esperienza di “mondi nuovi” in cui «la donna non è colei che NON ha il pene, così l’uomo non è colui che NON ha il seno» (ivi, p. 86). Si tratta di immaginare una “identità” non costruita in contrapposizione ad un’altra identità, come se maschile e femminile esaurissero tutto lo spazio delle possibilità di individuazione. C’è sempre quel “resto”, ci ricorda Fraire, ossia il sexuale, che non è assimilabile alle identità precostituite e già da sempre assegnate. C’è sempre la possibilità di prendere la strada di Nia l’aliena.
Già la sentiamo la scontata obiezione: ma che cos’è una donna se non un vivente che appunto “non ha il pene”? E che cos’è un uomo se non un vivente “che non ha il seno”, e che quindi non può allattare? Ma si può essere madre solo in un modo? E padre soltanto in un modo? In realtà “la novità” del nostro tempo «riguarda una genitorialità non identificata né con il materno né con il paterno, una posizione non di genere, non binaria» (ivi, p. 92). Che una genitorialità del genere sia al momento impensabile (anche se non per tutti) non vuol dire che sia sbagliata o contro natura, ché la storia di Nia ci mostra che la natura è un vincolo di cui non possiamo non tenere conto, ma non un impedimento assoluto. Nia è “donna”, ma questo non significa che non possa scegliere una vita diversa da quella che la sua costituzione fisica, e le tradizioni del popolo del ferro, avevano deciso per lei. Non si tratta nemmeno di inventarsi a capriccio una identità; si tratta piuttosto del faticoso lavoro che porta ogni corpo umano, o quasi umano come quello di Nia, a costruire una identità in cui diventare sé stessi.
E non è certo una caso che Nia sia una “donna”, perché è sul corpo delle donne che è più forte la pressione sociale a identificarsi prevalentemente, se non esclusivamente, con il ruolo di madre. Nia sperimenta sé stessa, sperimenta la propria identità quando si accompagna agli alieni terrestri per scoprire una vita completamente diversa dalla sua. Come scrive Fraire, è «spaventoso ammettere che una donna possiede un corpo dentro il quale può, oltre che fare, anche disfare il vivente. (Frankenstein è il parto della fantasia di una donna e non di un uomo, non bisognerebbe dimenticarlo). Nelle pratiche abortive quando liberamente scelte dalla donna è lei stessa che occupa il posto dello scienziato sperimentatore» (ivi, p. 97). In questo senso aprire “la porta delle madri” (un’espressione usata da Freud) significa liberarle dall’unica identità - quella materna - che sempre di nuovo le si vuole attribuire. Fare la madre, ovunque tale desiderio si manifesti, come reiterazione del dono d’amore che da quella abbiamo ricevuto o come risarcimento per ciò che è mancato nel suo amore, è un’illusione pericolosa. Vuol dire negare ciò che la persona/madre sta a ricordare e testimoniare: che nel legame con la madre c’è fin dall’origine una mancanza, il cui senso in potenza consiste in un’apertura a impedire la fusione, la reduplicazione dell’identità, l’annessione a sé dell’altro (ivi, pp. 116-117).
Torna qui il tema di quel “resto” inassimilabile che sfugge alla presa delle identità precostituite. La madre è madre, ma non è solo madre né principalmente madre. C’è anche questo dietro “la porta delle madri”, un mistero, una “apertura” che non si può rinchiudere in una identità definita una volta per tutte. Torna, soprattutto, il tema della libertà, che è al centro di questo libro. Una libertà che non significa tanto libertà di affermare sé stessi (secondo la formula tautologica dell’identità, A = A), al contrario, è la libertà di perdere sé stessi, cioè di offrirsi all’incontro con l’altro, come Nia nei confronti dell’aliena terrestre Lixia. È questo il desiderio femminile secondo Fraire, un desiderio che non è alla ricerca di ciò che manca, al fine di ricostituire un’unità (sul modello di quella fusionale della madre con il corpo che le cresce dentro), al contrario, un desiderio che cerca l’impensabile e inassimilabile reale del mondo. Fraire pone allora una distinzione radicale fra l’atteso e l’ospite. Nel primo caso «desiderio sta qui per vagheggiamento di qualcuno o qualcosa che appaia al momento dell’incontro come ciò che attendevamo e per ciò stesso conforme. Chiamiamo “l’atteso” l’oggetto che presenta al momento dell’incontro questa caratteristica. Per differenza chiamiamo “l’ospite” quell’oggetto che si presenta con caratteristiche di non riconoscibilità e per ciò stesso difforme» (ivi, p. 138). Anche se quando poi l’incontriamo lo detestiamo, è l’ospite che desideriamo di incontrare (come Nia verso Lixia, e Lixia verso Nia), perché solo l’ospite ci cambia la vita:
I “mondi nuovi mai visti prima” si aprono solo quando ci esponiamo alla possibilità dell’incontro con l’ospite inatteso. Finisce un mondo, ne comincia un altro. La psicoanalisi, e il femminismo, per Manuela Fraire sono due pratiche che non hanno altro scopo che vincere la paura dell’ospite. L’atteso, il noto, l’identità. Quant’era bella la vita prima che arrivassero gli alieni dalla Terra. Ma gli alieni sono ormai sbarcati, in realtà sono già da sempre arrivati. La vita comincia solo quando si apre “la porta delle madri”. Poi non resta che seguire Nia, l’aliena: “Domattina ci metteremo in viaggio per il sud”.
Riferimenti bibliografici
E. Arnason, Sigma Draconis, Mondadori, Milano 1991.
Antropologia.
De Martino, il tarantismo e ciò che la ragione occidentale non ha capito
di Franco Cardini (Avvenire, mercoledì 30 agosto 2023)
I grandi libri sono come gli esami secondo il grande Eduardo: non finiscono mai: E rileggerli è sempre un’avventura, sempre una scoperta: perché è vero ch’essi non cambiano, ma altresì che in realtà cambiamo noi. L’editore Einaudi procede nel suo benemerito impegno di restituirci, per mezzo di nuove edizioni, l’intera storia di Ernesto De Martino (La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, a cura di Marcello Massenzio. Pagine LII-407, euro 27,00).
Lo conosciamo bene, direte voi; e magari molti aggiungeranno di avere tanti suoi libri in casa. è qui che vi sbagliate. Ne conoscete le edizioni precedenti, e magari ne avrete letto - e ne avete presente - il contenuto, esaminato però alla luce di considerazioni critiche sia pur eccellenti, ma ormai sorpassate: perché studiare, e capire, significa anzitutto aggiornarsi.
De Martino è stato un idolo, o magari l’oggetto di critiche durissime, comunque un “mostro sacro” della nostra cultura accademica del terzo quarto del secolo scorso, un venticinquennio circa attraversato da enormi novità. Ne conoscevamo il pensiero ispirato a una visione storicistica di segno liberamente marxiano e d’impegno meridionalista, certo non dimentica dell’originaria lezione crociana e profondamente toccata da una passione civica socialista, sulla quale tuttavia la lettura di Antonio Gramsci era stata determinante; e chi ad esempio ha letto le pagine gramsciane dedicate a Giacomo Matteotti (che magari non sono le sue migliori) sa bene come nel pensiero “di sinistra”, che pur sapppiamo non omogeneo, si possa essere lontanissimi da quel crepuscolo nel quale tutte le vacche sono bigie. Ma a De Martino dobbiamo scritti davvero incontournables, che a tutt’oggi continuano ad esserlo: pensiamo a Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, del 1948 (riedito da Einaudi nel 2022); al commovente e sconvolgente Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, del 1958 (riedito nel 2021); all’ancor oggi fondamentale Magia e civiltà, del 1962; e ai molti saggi suoi e di altri, taluno epocale, contenuti nelle raccolte Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro edito nel 1995, Furore simbolo valore edito nel 2002, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, edito nel 2019.
Uno studioso così non lo si cataloga: certo, fu storico delle religioni, etnologo, filosofo della storia aperto precocemente a ogni sorta di esperimento interdisciplinare, pioniere della ricerca sul campo nel “suo” Meridione e perfino - com’è stato arditamente ma non arbitrariamente definito - etnopsichiatra orientato a una conoscenza della historia rerum gestarum sicura e definitiva in sé ma tesa alla conoscenza di un’historia condenda, una realtà futura possibile che consenta di far rivivere il passato angosciante trasformandolo in un futuro migliore.
La terra del rimorso, dedicata al mito diffuso nell’àmbito dell’area di Taranto del morso della tarantola che provocherebbe nelle vittime una danza frenetica, e al rinnovato morso di essa (il “rimorso”, appunto), che darebbe luogo a un rituale di liberazione dall’angoscia frenetica grazie al sapiente uso da parte di esperti locali di un apparato di musiche, di danza (tutti conoscono la “tarantella”...) e di colori, aveva e nei rituali a tutt’oggi praticati ad esempio a Galatina conserva un suo valore testimoniale preciso.
Si tratta basicamente di uno studio sugli usi magico-religiosi folklorici del Mezzogiorno, che fu preceduto da una larga inchiesta (“sul campo” nel 1959) e che, uscendo nel 1961, venne messo in rapporto - com’era indicato dallo stesso De Martino - col capolavoro dell’antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss, Tristes tropiques, edito nel 1955 e tradotto in italiano nel 1960. E grande era il debito di entrambi gli studiosi nei confronti di Sigmund Freud e in particolare della sua monografia dedicata nel 1920 al tema Al di là del principio del piacere, con le pagine assolutamente rivoluzionarie su quel che la psicanalisi definisce “abreazione”, cioè «il momento decisivo della cura - come appunto spiegava Lévi-Strauss in Anthropologie structurale - in cui il malato rivive la situazione all’origine del suo squilibrio, prima di superarlo definitivamente». Ed esistono gli “abreatori professionali”: sciamani o psicanalisti che siano.
Ed ecco il punto. Studiando le “tarantate” sul campo e rileggendo tutta la letteratura a ciò connessa, a cominciare dal trattato che nel Quattrocento dedicò loro l’umanista Giovanni Pontano e nel Seicento il gesuita Athanasius Kircher, il nostro Ernesto De Martino ci ricondusse alle radici dell’arretratezza e del disagio del Meridione italico, abbandonato, illuso e tradito dalle classi dirigenti italiane dall’Ottocento a oggi. Su ciò, s’innestò una polemica durissima e vivacissima.
Oggi però il “rimorso” di una falsa partenza critica deve cedere il passo al disincanto. A guidarci è proprio il curatore della nuova edizione einaudiana della Terra del rimorso, Marcello Massenzio, storico delle religioni tanto severo e appartato quanto critico “da sempre” delle mode intellettuali; con un coraggio che in certi momenti gli ha procurato qualche difficoltà, non ha esitato a servirsi di autori sempre autorevoli ma non sempre “graditi”, quali Mircea Eliade.
Il vero disagio provato da De Martino dinanzi al mito e al rito della taranta era il medesimo provato da Lévi-Strauss dinanzi ai miti e ai riti da lui studiati nell’America tropicale: quello della coscienza di una cultura occidentale moderna dotata d’una capacità violentissima di distruzione di qualunque altra civiltà e di un’immensa superbia che per circa quattro secoli l’ha autorizzata non solo a cancellare, ma anche a condannare come “false”, “arcaiche”, “illusorie”, “superate” tutte le altre civiltà che l’avevano preceduta; e addirittura a parlare anche indiscriminatamente, delle loro “pseudoscienze”. Lo aveva già notato nel 1960, un giovane studioso peraltro simpatizzante della sinistra socialista, Sergio Moravia, che all’ancora non troppo conosciuto Lévi-Strauss dedicava un breve saggio che fu sottovalutato, La ragione nascosta, che indagava sul valore delle culture “altre” rispetto a quella che sentiamo “nostra” e nel nome della quale ci sentiamo sempre e comunque “nel vero”.
Ecco la nostra “nuova Terra del Rimorso”. In questi anni di matura globalizzazione, mentre il mondo sembra avviato a una nuova fase multipolarista nel suo assetto politico, si profilano all’orizzonte anche nuove infauste forme di occidentocentrismo, nuovi suprematismi a loro volta suscettibili di provocare risposte di segno contrario ma di pari violenza antagonista. Riflettere non già sugli errori delle culture del passato o residuali del presente, bensì sul dogmatismo delle nostre pretese suprematiste di oggi, sarà necessario e salutare: se non lo faremo, andremo incontro a pericoli davvero seri. Anche in questo senso la rilettura del capolavoro demartiniano sarà salutare.
Storia, Filosofia, Psicoanalisi, e Antropologia:
Mente accogliente: "Il cristianesimo deve contenere in sé tutte le vocazioni senza eccezione, perché è #cattolico. Di conseguenza, anche la Chiesa. Ma, ai miei occhi, il cristianesimo è cattolico di diritto e non di fatto. Tante cose ne sono #fuori" (Simone Weil, 1942 - Parigi, 3 febbraio 1909 - Ashford, 24 agosto 1943).
P. S. - "Il disagio della civiltà": "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori [...]" (S. Freud, 1929).
#PIANETATERRA, #RECINZIONI (#ENCLOSURES) E #CIVILTA’:
L’#ABC DELLA #FILOLOGIA, DELLA#LOGICA, E DELLA FILO-#SOFIA DELLA #DIGNITA’ DELL’#UOMO ("DE HOMINIS DIGNITATE").
"COME FARE COSE CON LE PAROLE" (J. L. Austin). LA "PREMESSA" DI UN "ANTICO" SILLOGISMO.
"Avevo cinque anni. L’insegnante ha scritto sulla lavagna: "Tutti gli uomini sono mortali". -Ho provato un enorme sollievo, una grande gioia.
Quel pomeriggio, quando uscii da scuola, corsi a casa e abbracciai molto strettamente mia madre.
"Che fortuna mamma, tu non morirai mai! "Gli ho detto, rapito.
"Cosa? " chiese mia madre, sorpresa.
Mi sono separato appena da lei e le ho spiegato:
La maestra ha scritto sulla lavagna che gli uomini sono mortali.
E tu sei una donna!. Per fortuna sei una donna, ho detto e l’ho riabbracciata.
Mia madre mi ha teneramente separato dalle sue braccia.
Questa frase, mia cara, include uomini e donne. Tutti e tutte moriremo un giorno.
Mi sono sentita completamente sconvolta e delusa.
Allora perché non l’ha scritto? : "Tutti gli uomini e le donne sono mortali"? Ho chiesto.
Beh - ha detto mia madre, in realtà, per semplificare, noi donne siamo rinchiuse nella parola "uomini".
Chiuse? - Ho chiesto. Perché?
Perché siamo donne - mi rispose mia madre.
La risposta mi ha sconcertato.
E perché ci rinchiudono? Gliel’ho chiesto.
È molto lungo da spiegare, rispose mia madre. Ma accettalo così. Ci sono cose che non sono facili da cambiare.
Ma se dico "tutte le donne sono mortali"? Rinchiude anche gli uomini?
No- rispose mia madre. Questa frase riguarda solo le donne.
Ho avuto una crisi di pianto.
Ho capito all’improvviso molte cose e alcune molto spiacevoli, come che il linguaggio non era la realtà, ma un modo per rinchiudere cose e persone, a seconda del loro genere, anche se sapevo a malapena cosa fosse il genere: oltre a servire a fare gonne, il genere era una forma di prigione. "
* Cristina Peri Rossi - Scrittrice uruguaiana vincitrice 2021 del Premio Cervantes.
#SONNODOGMATICO (#KANT), #PREISTORIA (#MARX) #LETARGO (#Dante2021)! A ONORE E OMAGGIO DELL’ Attacco Poetico di #CristinaPeriRossi ... ALLEGO LA #SINTESI DELLA #TEORIA PLATONICO-ARISTOTELICA DEL "#SAPIENTE" (#BOVILLUS. 1510), #CRITICA-#MENTE AL CENTRO DEL LORO LAVORO DA #STEFANOMANCUSO E #ALESSANDRAVIOLA NEL LIBRO "VERDE BRILLANTE. SENSIBILITà E INTELLIGENZA DEL MONDO VEGETALE" (Giunti Editore).
SOCIOLOGIA, PSICOANALISI, E CRITICA DELLO "STATO NASCENTE" E DELLO "STATO PUTRESCENTE":
"MOVIMENTO E ISTITUZIONE" (1977) E "INNAMORAMENTO E AMORE" (1979) .... E "LA FRECCIA FERMA. TRE TENTATIVI DI ANNULLARE IL TEMPO" (1979).
Due appunti sulle ricerche di Elvio Fachinelli e di Francesco Alberoni:
A) - "Alberoni, ’Innamoramento e amore’ bestseller internazionale (Adnkronos):
"Era il 1979 quando dall’editore Garzanti usciva il saggio che lo rese il sociologo più famoso d’Italia [...] Dopo un lungo periodo di #ideologie che avevano negato ogni valore alla coppia, all’#innamoramento e ridicolizzato l’esclusività e la gelosia, "Innamoramento e amore" fu come un lampo che fece improvvisamente vedere una realtà nascosta. Ed ebbe un immediato successo con traduzioni in 25 lingue. Criticando le correnti filosofiche e psicologiche dominanti che riducevano l’innamoramento a una #rimozione sessuale o a una #regressione infantile, il libro lo colloca nel #campo dei processi collettivi in cui #due individui si ribellano ai loro legami precedenti e danno origine, attraverso l’entusiasmo dello stato nascente, a una nuova comunità: la coppia innamorata, proiettata sul futuro." (AdnKronos).
B) - STATO "PUTRESCENTE": SOCIETA’ ARCAICA, NEVROSI OSSESSIVA, E FASCISMO. Sul tema, e sul percorso "sociologico" di Francesco Alberoni, forse, è opportuno richiamare anche il contesto storico e riconsiderare il lavoro critico della rivista "L’erba voglio" e il "soprendente" saggio del 1979 dello psicoanalista Elvio Fachinelli, dal filosofico titolo "LA FRECCIA FERMA. Tre tentativi di annullare il tempo" (cfr. la mia recensione su BELFAGOR, 3, 1980, pp. 363-365).
Individuo e società... questione antropologica e paradosso del mentitore:
Sociologia, filosofia, psicoanalisi e critica della ragione "pura", troppo "pura"!
Una nota in ricordo e in omaggio al lavoro del sociologo Francesco Alberoni... *
Nonostante Alberoni abbia scritto un lavoro molto interessante e creativo, a partire dal suo celebre "Movimento e istituzione" (1977), intitolato "Genesi" (1989), l’ambiguità del suo orizzonte sociologico è rimasto per così dire intrappolato nella logica dell’individualismo (e non solo metodologico), ha chiuso un occhio (ricordare anche Freud) e non ha saputo sciogliere il nodo della nascita dell’ in_divi_duo, (dal e) del "due in uno" (da non dividere).
Il problema antropologico epocale è ancora quello evangelico giovanneo (e cristologico) di Nicodemo (Enzo Paci, 1944): "come si ri-nasce", "come nascono i bambini".
Buon ferragosto (15 agosto 2023).
PIANETA TERRA: ANTROPOLOGIA FILOSOFICA E "APOCALISSE". "SAPERE AUDE!" (KANT): UNA "RIVELATIVA" QUESTIONE DI "CRITICA DELL’ ECONOMIA POLITICA" *
L’eredità del nostro tempo
di Giorgio Agamben (Quodlibet, 31 luglio 2023)
La meditazione sulla storia e la tradizione che Hannah Arendt pubblica nel 1954 porta il titolo, certo non casuale, Tra passato e futuro. Si trattava, per la filosofa ebreo-tedesca da un quindicennio rifugiata a New York, di interrogarsi sul vuoto tra passato e futuro che si era prodotto nella cultura dell’Occidente, cioè sulla rottura ormai irrevocabile della continuità di ogni tradizione. È per questo che la prefazione al libro si apre con l’aforisma di René Char Notre héritage n’est précédé d’aucun testament. In questione era, cioè, il problema storico cruciale della ricezione di un’eredità che non è più in alcun modo possibile trasmettere.
Circa venti anni prima, Ernst Bloch in esilio a Zurigo aveva pubblicato col titolo L’eredità del nostro tempo una riflessione sull’eredità che egli cercava di recuperare frugando nei sotterranei e nei depositi nella cultura borghese ormai in disfacimento («l’epoca è in putrefazione e al tempo stesso ha le doglie» è l’insegna che apre la prefazione al libro). È possibile che il problema di un’eredità inaccessibile o praticabile solo per vie scabrose e spiragli seminascosti che i due autori, ciascuno a suo modo, sollevano non sia per nulla obsoleto e ci riguardi, anzi, da vicino - così intimamente che a volte sembriamo dimenticarcene. Anche noi facciamo esperienza di un vuoto e di una rottura fra passato e futuro, anche noi in una cultura in agonia dobbiamo cercare se non una doglia del parto, almeno qualcosa come una parcella di bene sopravvissuta allo sfacelo.
Un’indagine preliminare su questo concetto squisitamente giuridico - l’eredità - che, come spesso avviene nella nostra cultura, si espande al di là dei suoi limiti disciplinari fino a coinvolgere il destino stesso dell’Occidente, non sarà pertanto inutile. Come gli studi di un grande storico del diritto - Yan Thomas - mostrano con chiarezza, la funzione dell’eredità è quella di assicurare la continuatio dominii, cioè la continuità della proprietà dei beni che passano dal morto al vivo. Tutti i dispositivi che il diritto escogita per sopperire al vuoto che rischia di prodursi alla morte del proprietario non hanno altro scopo che garantire senza interruzioni la successione nella proprietà.
Eredità non è forse allora il termine adatto per pensare il problema che tanto Arendt che Bloch avevano in mente. Dal momento che nella tradizione spirituale di un popolo qualcosa come una proprietà non ha semplicemente senso, in questo ambito un’eredità come continuatio dominii non esiste né può in alcun modo interessarci. Accedere al passato, conversare coi morti è anzi possibile solo spezzando la continuità della proprietà ed è nell’intervallo fra passato e futuro che ogni singolo deve necessariamente situarsi. Non siamo eredi di nulla e da nessuna parte abbiamo eredi ed è solo a questo patto che possiamo riallacciare la conversazione col passato e coi morti. Il bene è, infatti, per definizione adespota e inappropriabile e l’ostinato tentativo di accaparrarsi la proprietà della tradizione definisce il potere che rifiutiamo in ogni ambito, nella politica come nella poesia, nella filosofia come nella religione, nelle scuole come nei templi e nei tribunali.
* Nota:
PIANETA TERRA, 13 AGOSTO 2023.
DOPO MILLENNI DI "RECINZIONI" E DI DIRITTO ALLA "SUCCESSIONE DELLA PROPRIETA’, L’ APOCALITTICA RIVELAZIONE DI RINO GAETANO: "MIO FRATELLO E’ FIGLIO UNICO" (1976) COMINCIA AD ESSERE ACCOLTA: "FRATELLI TUTTI", E SORELLE TUTTE.
SEMBRA CHE SIA GIUNTA L’ORA DI USCIRE DAL "LETARGO" (DANTE ALIGHIERI), DI SVEGLIARSI DAL "SONNO DOGMATICO" (KANT), E LASCIARSI ALLE SPALLE LA "TERRA" DEL PLATONISMO E DEL PAOLINISMO: SEMBRA CHE SIA GIUNTA L’ORA DI USCIRE DAL "LETARGO" (DANTE ALIGHIERI), DI SVEGLIARSI DAL "SONNO DOGMATICO" (KANT), E DI LASCIARSI ALLE SPALLE LA "RICAPITOLAZIONE" DEL PLATONISMO, DEL PAOLINISMO, E DELL’HEGELISMO:
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON UN LOGO): "IO SONO L’ ALFA E L’OMEGA".
MARXISMO, PAOLINISMO E LENINISMO: STORIA E STORIOGRAFIA. UNA NOTA A MARGINE DELL’INTRODUZIONE A "IL POLITICO. Da Machiavelli a Cromwell" (Mario Tronti, 1979).
In memoria di Mario Tronti... credo che non sia proprio il caso di lasciar cadere l’importanza dei suoi studi sul tema del "politico" :
"INTRODUZIONE: 1. Il politico ha una storia. E’ la storia moderna del rapporto di potere [...] Il passato ha una storia borghese. Non si può saltare. non si può arrivare subito a un politico "altro", senza aver attraversato e sperimentato e conosciuto quello che già c’è. Il passato pesa. Il capitalismo ha prodotto fin qui potere, ma anche il potere ha prodotto capitalismo. Quest’ultima cosa è difficile da accettare. [...] Il politico ha una storia borghese moderna. Molte delle cose che facciamo oggi male, sono state ben fatte qualche secolo fa. E’ impressionante quanto poco di nuovo ci sia sotto il sole della politica. No, non è la tesi banale che la politica è sempre quella. Non è sempre quella [...] La nascita del politico come problema è alle origini della scienza capitalistica. L’impatto, l’intreccio, lo scambio, il conflitto è tra soggetto statale e transizione al capitalismo. Senza Stato, fin dalle origini, niente capitalismo. Senza politica moderna, subito, fin dagli inizi, nessuna rivoluzione borghese. Rileggiamo il caso "marxiano" dell’Inghilterra [...].
Con Hobbes, in epoca borghese, prende inizio una vera e propria età dello Stato. Da Machiavelli a Cromwell, - questa è l’età della politica moderna. Nasce un fare, un agire, che è di un individuo singolo, ma è per tutti gli altri, o su tutti gli altri. E’ l’azione pubblica della persona isolata, è l’attività politica. Nascono delle leggi per l’azione, delle regole per dirigere gli uomini, delle forme per dominarli. Nasce la razionalità della politica: dentro, c’è la reiterazione del comportqamnto umano e il disprezzo per la vocazione naturalmente subalterna dell’uomo, il cittadino come suddito; fuori, c’è il gusto dell’abilità e il senso della forza, la coltura della virtù e il comando sulla fortuna, "quelli principi sono deboli, che non stanno in su la guerra." Questo è l’orizzonte borghese della politica: l’unico che finora si sia dato." (cfr. "IL POLITICO. Antologia di testi" a cura di Mario Tronti. Vol. primo, Tomo primo, Feltrinelli 1979).
MARX- LENIN, CRISTO - SAN PAOLO: A. GRAMSCI, "POSIZIONE DEL PROBLEMA: [...] Marx inizia intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità, 〈superata〉 da concezione della libertà). Fare un parallelo tra Marx e Ilici per giungere a una gerarchia è stolto e ozioso: esprimono due fasi: scienza-azione, che 〈sono〉 omogenee ed eterogenee nello stesso tempo. Così, storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo: Cristo-Weltanschauung, S. Paolo organizzazione, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessarii nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, non teorico)." (A. Gramsci, "Quaderno 7 (VII) § (33)").
PENSARE L’ALDI LA’ DELLA TRADIZIONE TEOLOGICO-POLITICA DI SAN PAOLO. Riaprire l’orizzonte storiografico stretto nei limiti "da Machiavelli a Cromwell" e ripartire, recuperando il filo della lezione di Dante Alighieri ("Monarchia") presente nel lavoro di Mercurino da Gattinara (con Carlo V) e la critica tensione teologico-politica alla base dell elisabettiano "Amleto" di Shakespeare.
TEATRO, METATEATRO, E CRITICA DELLA TEOLOGIA-POLITICA CATTOLICO-SPAGNOLA:
SHAKESPEARE, CON "AMLETO" (E DANTE), CERCA LA VIA D’USCITA PER PORTARSI OLTRE LUTERO E OLTRE ERASMO E TOMMASO MORO.
iN "The Book of Sir Thomas More", Shakespeare prende le distanze dalle posizioni teologiche di Tommaso Moro (ed Erasmo) e chiarisce le ragioni antropologiche, politiche e teologiche della Riforma anglicana.
Sir Thomas Moore
da Maria Borio (Nuovi Argomenti, 18 Dic. 2017) *
Il libro di Sir Tommaso Moro
Scena 6 Entrano Lincoln, Doll, Clown [Betts" class="spip_out">William Shakespeare, Tutte le opere, coordinamento generale di Franco Marenco, Volume terzo, I drammi storici, Bompiani, Milano, 2017, George Betts, Williamson, [Sherwin] e altri: [Cittadini, armati][i]
LINCOLN
Silenzio, ascoltatemi! Chi non vuol vedere un’aringa affumicata a quattro centesimi[ii], il burro a undici centesimi alla libbra, la farina a nove scellini allo staio[iii] e il manzo a quattro nobili[iv] per sei chili, mi ascolti[v].
UN ALTRO GEORGE BETTS
Arriveremo a tanto se continuiamo a tollerare gli stranieri. Dategli retta.
LINCOLN
Per il cibo il nostro è un grande paese; argo[vi], questi mangiano più da noi che in patria.
UN ALTRO CLOWN BETTS
Almeno una pagnotta da mezzo centesimo al giorno, pesata alla francese[vii].
LINCOLN
Loro importano qui verdure straniere giusto per rovinare i poveri apprendisti: cos’è mai una misera pastinaca rispetto al nostro buon cuore?
UN ALTRO WILLIAMSON Schifezze, schifezze! Infiammano gli occhi, e questo basta per impestare la città con un’ondata di paralisi cerebrale[viii].
LINCOLN
Con quella l’hanno già impestata: queste bastarde piante del letame (lo sapete, no? che crescono nel letame!) ci hanno impestato, e la nostra infezione farà tremare tutta la città, cosa che in parte succede a mangiar pastinache.
UN ALTRO CLOWN BETTS
È vero, e anche le zucche.
GUARDIA
Che cosa rispondete alla clemenza del re? La rifiutate?
LINCOLN
Vorreste prenderci in contropiede, non è vero? Niente affatto, non la rifiutiamo. Accettiamo la clemenza del re, ma non avremo compassione degli stranieri.
GUARDIA
Siete gli esseri più ingenui che si siano mai infilati in un pasticcio del genere.
LINCOLN
Che ne dite adesso, apprendisti? Apprendisti ingenui? Diamogli una lezione.
TUTTI
Apprendisti ingenui? Ingenui noi?
SHREWSBURY SINDACO
Fermi, in nome del re, fermi!
SURREY
Amici, maestri, compatrioti...
SINDACO
Silenzio, oh, silenzio! Vi ordino di stare calmi!
SHREWSBURY
Maestri miei, compatrioti...
SHERWIN WILLIAMSON
Il nobile conte di Shrewsbury! Ascoltiamolo!
GEORGE BETTS
Vogliamo sentire il conte di Surrey!
LINCOLN
Il conte di Shrewsbury!
GEORGE BETTS
Vogliamo sentirli tutti e due!
TUTTI I CITTADINI
Tutti e due, tutti e due, tutti e due, tutti e due!
LINCOLN
Silenzio, vi dico, silenzio! Siete persone assennate o che cosa?
SURREY
Tutto quel che volete, tranne che persone di buon senso.
ALCUNI CITTADINI
Non vogliamo sentire lord Surrey!
ALTRI CITTADINI
No, no, no, no, no! Shrewsbury, Shrewsbury!
MORO
Hanno oltrepassato l’argine dell’obbedienza, e così travolgeranno ogni cosa.
LINCOLN
Parla lo sceriffo[ix] Moro! Vogliamo sentirlo, lo sceriffo Moro?
DOLL
Sentiamolo! Il suo è uno sceriffato[x] generoso, e ha fatto diventare mio fratello, Arthur Watchins, attendente del sergente Safe. Sentiamo lo sceriffo Moro!
TUTTI I CITTADINI
Sceriffo Moro, Moro, Moro, sceriffo Moro!
MORO
Secondo l’autorità in vigore fra di voi, ordinategli di ascoltare in silenzio.
ALCUNI CITTADINI
Surrey, Surrey!
ALTRI CITTADINI
Moro, Moro!
LINCOLN e GEORGE BETTS
Zitti, zitti, silenzio, zitti!
MORO
Voi che avete autorità e credito presso la folla, ordinategli di fare silenzio.
LINCOLN
Gli venga un accidente, non vogliono star zitti. Neanche il diavolo può governarli.
MORO
Che incarico spinoso e difficile avete, guidare gente che neanche il diavolo è in grado di governare. Cari maestri, ascoltate le mie parole.
DOLL
Sì, corpo di Cristo, vi ascolteremo, Moro. Siete un buon padrone di casa, e ringrazio vostra altezza per mio fratello Arthur Watchins.
TUTTI GLI ALTRI CITTADINI
Zitti, pace!
MORO
Attenti, voi offendete proprio quello che invocate, cioè la pace. Nessuno di voi sarebbe qui presente, se quando eravate bambini fossero vissuti dei vostri simili che avessero travolto[xi] la pace come voi volete fare adesso; quella pace in cui finora siete cresciuti vi sarebbe stata tolta, e i tempi sanguinari non vi avrebbero permesso di diventare adulti. Poveri voi! Che cosa otterrete se anche vi concediamo quello che cercate?
GEORGE BETTS
Per la Madonna, mandar via gli stranieri, cosa che senz’altro porterà grandissimo vantaggio ai poveri artigiani della città.
MORO
Mettiamo che vengano allontanati, e mettiamo che la vostra baraonda abbia soffocato[xii] tutta l’autorità reale dell’Inghilterra. Immaginate di vedere i disgraziati stranieri trascinarsi verso la costa e i porti per imbarcarsi, con i loro miseri bagagli e i bambini dietro[xiii], mentre voi ve ne state a soddisfare i vostri desideri come sovrani, con le autorità ammutolite dal vostro berciare e voi tronfi nella gorgiera della vostra arroganza: che cosa avrete ottenuto? Ve lo dico io: avrete mostrato come la superbia e la forza possono prevalere e come l’ordine può essere distrutto. Ma in questo schema di cose non uno di voi giungerebbe alla vecchiaia, poiché altri furfanti, seguendo le loro ubbie, con identiche mani, identiche ragioni e identico diritto, vi spolperebbero, e gli uomini si divorerebbero fra loro come pesci voraci.
DOLL
Dio mi sia testimone, questo è vero come il vangelo.
GEORGE BETTS LINCOLN
Sì, questo è uno pieno di buon senso, parola mia. Stiamo attenti a quello che dice.
MORO
Miei cari amici, lasciate che sottoponga un’ipotesi alla vostra riflessione. Se ci pensate bene, vi accorgerete quale forma orribile hanno in sé le vostre novità rivoluzionarie. Anzitutto, è un peccato verso il quale l’Apostolo ci ha ammonito spesso di stare in guardia, raccomandandoci di obbedire alle autorità[xiv]; e non sbaglierei se vi dicessi che voi siete insorti contro Dio.
TUTTI I CITTADINI
Santa Vergine, che Dio non voglia!
MORO
Eppure è così, perché al re Dio prestò il proprio ufficio di terrore, giustizia, potere e comando. A lui ingiunse di governare e volle che voi obbediste. E per aggiungere a questo una più ampia maestà, prestò al re non soltanto la sua figura, il trono e la spada, ma gli diede il suo stesso nome, chiamandolo dio in terra. Che cosa fate dunque voi, ribellandovi contro un uomo insediato da Dio in persona, se non ribellarvi contro Dio? Facendo così, che cosa fate alle vostre anime? Oh sconsiderati, lavate di lacrime le vostre menti corrotte; e le stesse mani che da ribelli levate contro la pace, a favore della pace alzatele, e le vostre ginocchia sacrileghe trasformatele in piedi. Inginocchiarsi per il perdono è la guerra[xv] più sicura che potete fare voi, la cui tattica[xvi] è la ribellione. Su, su, tornate a obbedire! Perfino questa sommossa può proseguire solo con l’obbedienza. Ditemi soltanto: quando una rivolta sta per scoppiare, quale capopopolo è in grado di sedare la turba nel proprio nome? Chi vuole obbedire a un traditore? O quanto bene suonerà l’elezione di qualcuno che come titolo abbia solo quello di ‘ribelle’ per definire un ribelle?
Voi volete schiacciare gli stranieri, ucciderli, tagliargli la gola, impadronirvi delle loro case e condurre al guinzaglio[xvii] la maestà della legge, per aizzarla come un segugio. Ahimè, ahimè! Supponiamo adesso che il re, nella sua clemenza verso i trasgressori pentiti, giudicasse il vostro grave reato limitandosi a punirvi con l’esilio: dove andreste, allora? Quale paese vi accoglierebbe vedendo la natura del vostro errore? Che andiate in Francia o nelle Fiandre, in qualsiasi provincia della Germania, in Spagna o in Portogallo, anzi no, un luogo qualunque diverso dall’Inghilterra, vi ritroverete inevitabilmente stranieri.
Vi farebbe piacere trovare una nazione dal carattere così barbaro che, in un’esplosione di odiosa violenza, non vi offrisse dimora sulla terra, affilasse i suoi detestabili coltelli sulle vostre gole, vi cacciasse via come cani, quasi che Dio non vi avesse creati né vi riconoscesse come suoi figli, o che gli elementi naturali non fossero stati fatti per il vostro benessere ma riservati per legge esclusivamente a loro? Che cosa pensereste se vi trattassero così? Questa è la condizione degli stranieri, e questa la vostra barbara disumanità.
TUTTI I CITTADINI
In fede, dice la verità. Facciamo agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi stessi.
TUTTI I CITTADINI LlNCOLN
Ci faremo governare da voi, mastro Moro, se ci sarete amico e ci procurerete il perdono.
MORO
Sottomettetevi a questi nobili signori[xviii], implorate la loro mediazione presso il Re, assumete un comportamento ortodosso, obbedite al magistrato, e senza dubbio troverete misericordia, se la cercate in questo modo.
* Fonte: Nuovi Argomenti, Dic 18, 2017 (ripresa parziale, senza le note).
HEGELISMO, PLATONISMO, FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA)*
"MENSCHWERDUNG" ("DIVENTARE UN ESSERE UMANO"). "Dio è amore" ("Deus charitas est"), condivido (è una questione di "h": "Charitas", gr. "Xapitas"). Hegel ha messo il dito nella piaga: "La vita di Dio e il conoscere divino potranno bene venire espressi come un gioco dell’#amore ["ein Spielen der Liebe"] con se stesso; questa idea degrada fino all’edificazione e addirittura all’insipidezza, quando mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio ["Arbeit"] del negativo" ("Fenomenologia dello Spirito", §19).
A ben "orientarsi nel pensiero" (Kant) e, al contempo, nel sollecitare una ri-considerazione unitaria della "Prefazione" ("Vorrede") della "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel e la figura della profetessa di Mantinea, Diotima, a mio parere, emerge chiaramente il #nodo antropologico di fronte a cui Hegel si è trovato e che ha sciolto in modalità tragica, edipica e paolina, con tutta la "socratica" potenza di un #Napoleone (Alessandro Magno); non con lo spirito del #Logos (di Eraclito e dell’evangelista Giovanni) né della #Giustizia di Parmenide, egli ruba "alla #Platone" l’anima a Diotima ("Simposio") e ripropone una demiurgica e demogorgonica #cosmoteandria t(al)ebana: "[...] che il vero sia effettuale solo come sistema o che la sostanza sia essenzialmente soggetto ciò è espresso in quella rappresentazione che enuncia l’#assoluto come #spirito - elevatissimo concetto appartenente all’età moderna e alla sua #religione" (Fenom. d. spir., § 22).
A che gioco giochiamo, a che giogo vogliamo continuare a giocare? Non è meglio, forse, riprendere il filo proprio da Diotima e, con Dante Alighieri ("Due Soli") e portarsi fuori dalla tragedia dei "Tempi moderni" (Charlie Chaplin)?
P. S. 1 - «Senza Hegel non sarebbe stato possibile neppure Darwin, afferma Nietzsche, e l’avrebbe potuto dire anche di se stesso; infatti chi si ammali una volta di hegelite - così mordacemente si era espresso un decennio prima - non ne guarirà mai del tutto. E che cosa sarebbe la critica alla religione di Fuerbach e di Marx, o anche quella odierna di Ernst Bloch e Georg Lukács senza Hegel?» (Hans Küng, "Incarnazione di Dio. Introduzione al pensiero teologico di Hegel, prolegomeni ad una futura cristologia", Queriniana, 1972).
P. S. 2 - EUROPA: CRISTIANESIMO CATTOLICESIMO COSTITUZIONE E SPIRITO DI ASSISI (1986). Quando Benedetto Croce pubblicò il suo «Perché non possiamo non dirci "cristiani"» (1942), don Giuseppe De Luca ’confessò’ al Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai: si è "rincristianito per dispetto". Come concordato...!!!
*
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E TEOLOGIA.
UN PIANETA TERRA DA RIPENSARE E UN IMMAGINARIO DA RISTRUTTURARE: PENSARE L’ EDIPO COMPLETO (S. FREUD). UNA QUESTIONE DI ILLUMINAZIONE (E DI ILLUMINISMO KANTIANO): "NOI ALUNNI DEL SOLE". In memoria di Italo Calvino.
Appunti su un tema del "genere" (il Sole, l’astro del cielo, un dio o una dea?):
A) IL SOLE ("DIE SONNE") DI ZARATHUSTRA (NIETZSCHE):
"Quand’ebbe compiuto il trentesimo anno, Zarathustra lasciò la sua patria e il lago natìo, e si recò su la montagna. Là per dieci anni gioì, senza stancarsene, del suo spirito e della sua solitudine.
Ma al fine il suo cuore si mutò; e un mattino egli si levò con l’aurora, s’avanzò verso il sole e così gli disse:
«Oh grande astro! Che sarebbe della tua felicità, se tu non avessi a chi splendere?
Per dieci anni tu sei venuto alla mia caverna: ti saresti recato a noja la tua luce e il tuo cammino senza di me e del mio serpente.
Ma noi ti attendevamo tutte le mattine, tu ci davi il tuo superfluo e ne avevi ricambio di benedizioni." ("Così parlò #Zarathustra/Parte prima/Prefazione");
B) MITOLOGIA NORRENA ("EDDA DI SNORRI"). LA SIGNORA DEL SOLE ("FRAU SUNNE"):
"Sól era, nella mitologia norrena, la dea del Sole, figlia di Mundilfœri e moglie di Glenr.
Ogni giorno, Sól guida attraverso il cielo il suo carro, tirato da due cavalli, Árvakr e Alsviðr.
Così se ne parla nel Gylfaginning, la prima parte dell’Edda in prosa basso-medievale di Snorri Sturluson (circa 1220 d.C.) [...]
Sól era chiamata anche Sunna e Sunne, e inoltre Frau Sunne (Signora del Sole) [...]" (Sól);
C) AMATERASU ("LA DEA DEL SOLE"):
"Amaterasu-ō-mi-kami (天照大御神 lett. "Grande dea che splende nei cieli"?), generalmente abbreviato in Amaterasu, è la dea del Sole nello shintoismo giapponese. È considerata la mitica antenata diretta della famiglia imperiale giapponese.
Amaterasu è comunemente indicata come di genere femminile, nonostante il Kojiki, il più antico documento scritto della storia nipponica, dia pochi indizi riguardo al suo genere [...]" (Amaterasu);
D) QUESTIONE ANTROPOLOGICA E PSICOANALISI. L’ESISTENZA DEL "COMPLESSO EDIPICO COMPLETO" (S. FREUD, 1923);
"[...] Vedere il caso del Giappone - nella cultura giapponese c’è la Dea in cielo, e l’imperatore sulla terra; ora-oggi!!!, dal momento che alla coppia imperiale è nata una bambina, si parla di cambiare la Costituzione per far sì che Lei possa accedere al trono ... ma il problema è più complesso - come si può ben immaginare - perché ... deve essere cambiata anche la Costituzione celeste dell’Impero del Sol Levante!!! Se no, l’Imperatrice con Chi si ’sposerà’?! Con la Dea?!!
Non è questa forse la ragione nascosta del “disagio della civiltà” dell’Oriente e dell’Occidente ..... e anche della sua fine, se non ci portiamo velocemente fuori da questo orizzonte edipico-capitalistico di peste, di guerra e di morte? [...]" (Costituzione dogmatica della chiesa "cattolica"... e costituzione dell’Impero del Sol Levante).
TEOLOGIA ANTROPOLOGIA E SCIENZA:
COME NASCE LA COSCIENZA? COME NASCONO LE IDEE? COME NASCONO I BAMBINI?!
LA "NAVE" DI GALILEO GALILEI E IL "DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO" *
La sfida.
E il filosofo vinse sullo scienziato la scommessa sulla coscienza
25 anni fa il neuroscienziato Koch aveva scommesso con il filosofo Chalmers che entro il 2023 si sarebbe scoperto come i neuroni producono la coscienza. Ha pagato con una cassa di porto
di Andrea Lavazza (Avvenire, sabato 1 luglio 2023
Che i filosofi abbiano la meglio sugli scienziati non è esperienza comune nel panorama intellettuale di oggi. Quando poi vincono una scommessa venticinquennale in uno dei campi di ricerca più importanti e significativi per la nostra vita, allora siamo di certo davanti a una grande notizia. Nel 1998, il neuroscienziato Christof Koch aveva messo in palio una ricompensa alcolica con il filosofo David Chalmers, nella certezza che sarebbe stato scoperto entro il 2023 il modo in cui i neuroni del cervello producono la coscienza. Il 23 giugno scorso, in occasione della riunione annuale dell’Associazione per lo Studio Scientifico della Coscienza alla New York University, entrambi i contendenti hanno convenuto pubblicamente che la ricerca nel campo è ben lungi dall’essere giunta a un risultato definitivo e hanno dichiarato Chalmers vincitore. Nessuno nella comunità scientifica ha avuto da obiettare.
La coscienza è ciò di cui facciamo esperienza in prima persona, in modo spesso ineffabile: il gusto del gelato al cioccolato, la rossezza di un pomodoro, il mal di denti o la gioia profonda nel ritrovare un figlio che sembrava scomparso. In sintesi, “l’effetto che ci fa” qualcosa a livello soggettivo. Secondo molti pensatori, ciò che dà significato e valore alla nostra esistenza (ma possiamo scegliere un’azione buona rispetto a una cattiva anche se non proviamo nulla nel compierla). Qualcosa di assolutamente scontato e normale, ma che sembra sfuggire a chiare descrizioni. Tanto che va ancora per la maggiore la definizione proposta da William James: “La coscienza è quella cosa che scompare quando facciamo un sonno senza sogni e ricompare al risveglio”.
Per tanti secoli è stata associata a un elemento immateriale, l’anima o lo spirito, infine la mente. Ma la scienza contemporanea l’ha dichiarata un fenomeno naturale, che non può sfuggire alle leggi fisiche, e perciò indagabile con gli strumenti utilizzati per esplorare il cervello, dove si pensa risieda. Il giovane Chalmers ebbe l’intuizione di distinguere un “problema semplice”, ovvero trovare le basi neuronali della cognizione - alle quali ci stiamo avvicinando - da un “problema difficile”, ovvero come sorgano da un’entità materiale le sensazioni mentali che non sembrano condividere nessuna proprietà con la loro presunta fonte, ovvero le cellule nervose. Koch lavorava con il premio Nobel Francis Crick ed era attivamente impegnato a identificare i correlati della coscienza, ovvero quelle regioni del cervello che appaiono indispensabili per la presenza dei fenomeni coscienti. Di qui la scommessa che nulla aveva a che fare con le convinzioni esistenziali dei proponenti, dato che il “materialista” Koch era allora un cattolico praticante e il dualista Chalmers - ovvero sostenitore alla Cartesio (più o meno) dell’esistenza di due sostanze - un agnostico.
In un quarto di secolo la scienza è andata veloce e diverse teorie che ambiscono a spiegare la nascita e il funzionamento della coscienza sono oggi sul mercato. La circostanza che ha portato oggi a dirimere la contesa fra i due studiosi risiede nel fatto che si è da poco conclusa un’altra sfida legata proprio al tentativo di testare la migliore spiegazione. Sono infatti due le proposte - empiricamente validabili - che si contendono oggi i favori della comunità dei ricercatori. La teoria dell’informazione integrata (IIT), dovuta principalmente a Giulio Tononi e allo stesso Koch, e la teoria dello spazio di lavoro globale (GNWT), sostenuta da Stanislas Daheane e Jean-Pierre Changeux. La IIT sostiene che la coscienza è legata a una “struttura” cerebrale formata da uno specifico tipo di connessioni neuronali che rimane attivo per tutto il tempo in cui si verifica una determinata esperienza, come per esempio la visione di un oggetto. Si ritiene che questa struttura si trovi nella corteccia occipitale, nella parte posteriore del cervello. La GNWT, invece, suggerisce che la coscienza nasce quando le informazioni vengono trasmesse a diverse aree del cervello attraverso una rete interconnessa. La trasmissione avviene all’inizio e alla fine di un’esperienza e coinvolge la corteccia prefrontale, nella parte anteriore del cervello.
Sei laboratori indipendenti, come riferisce “Nature”, hanno condotto il più grande esperimento collettivo in merito, seguendo un protocollo preregistrato e utilizzando vari metodi complementari per misurare l’attività cerebrale. I risultati anticipati - ancora da sottoporre alla revisione per la pubblicazione - non corrispondono perfettamente a nessuna delle due teorie, sebbene il modello dell’informazione integrata appaia leggermente più preciso. John Horgan, “su Scientific American”, è stato più tranchant: i dati sono inconcludenti, alcuni favoriscono la IIT, altri lo spazio di lavoro globale. L’esito non sorprende, posto che il cervello è così complesso e la coscienza così poco definita, mentre la ricerca, lungi dal convergere verso un paradigma unificante, è diventata più che mai frammentaria e caotica.
Ecco che allora i prudenti filosofi, rappresentati da Chalmers, hanno portato a casa una cassa di porto offerta con stile da un Koch pronto a rilanciare per i prossimi 25 anni. Sapremo allora come emerge la coscienza dal cervello o sarà ancora un mistero? Più facile dire “Impossibile” che trovare una spiegazione, obietterà qualcuno. Vero, ma il fatto è che la coscienza pare proprio refrattaria a essere ridotta a un puro prodotto della materia.
* COME NASCE LA COSCIENZA? COME NASCONO LE IDEE? COME NASCONO I BAMBINI?
Appunti sul tema:
A) LA "NAVE" DI GALILEI E IL "DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO": IL "LABORATORIO" DELLA "CONVERSAZIONE CONOSCITIVA". «Rinserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti: siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vada versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca che sia posto a basso; e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza(...)
Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia mentre il vascello sta fermo non debbano succedere così: fate muovere la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur di moto uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti; né da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina, o pure sta ferma. »
(Galileo Galilei, "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano", 1632 - Salviati, giornata II).
B) COME NASCONO I BAMBINI. EUROPA: "EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva".
C) ANTROPOLOGIA, FILOSOFIA E PSICOANALISI: APPRENDERE DALLA "METAFISICA" DELL’ESPERIENZA...
LA NASCITA DELL’ESSERE UMANO E IL GIOCO DEL ROCCHETTO. Al di là del giogo di Edipo e Giocasta.
Federico La Sala
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA), COSMOTEANDRIA, E STORIOGRAFIA.
"PARADISO PERDUTO" E SCOMPENSI EPOCALI DI CUORE: "SÀPERE AUDE!" (ORAZIO -> #KANT).
CARDIOCENTRISMO, CARDIOPATIE, E MEDICINA. Forse, oggi, è proprio giunto il tempo di riprendere il filo e rievocare la memoria del giardino (paradiso perduto) e sollecitare un ripensamento della questione antropologica (della cristologia e del "corpus domini", del "corpo del signore" - ateo e/o devoto).
Se è vero. come è vero da sempre, che il cuore è l’organo dell’intelligenza spirituale, dell’intelligenza-che-ama o intelletto d’amore e, come ha chiarito Dante, è l’amore ("CHARITAS") che muove il sole e le altre #stelle, non è ora di uscire dal letargo (Pd. XXXIII, 94), e rendere praticabile il cammino ad ogni essere umano (cristo- logica-mente, non "paolinamente") sì che ognuno e ognuna, "dal suo proprio grembo [ἐκ τῆς κοιλίας αὐτοῦ]", possa far sgorgare "fiumi di acqua viva" (Gv 7, 38-39)?! E, finalmente, ammirare il sorgere della Terra , "della Terra, il brillante colore"?
P. S. - DANTE, MILTON, E FREUD. Alla fidanzata Martha, il 7 agosto 1882, Sigmund Freud scrive che, nel "Paradiso perduto" (John Milton, 1667), «ancora di recente, in un momento in cui non mi sono sentito sicuro del tuo amore, ho trovato consolazione e conforto».
Federico La Sala
LA CENA DELLA VITTORIA: PLATONISMO, ILLUMINISMO, E INTERPRETAZIONE DEI SOGNI DEI VISIONARI.
ANTROPOLOGIA, ECONOMIA POLITICA E METAFISICA. PREMESSO CHE "Il sapere visuale è una sorta di dannazione della filosofia. Le idee di Platone non sono visibili eppure la radice greca che dà vita alla parola idea ha a che fare con il visibile." (Alfonso M. Iacono), FORSE, è meglio cercare di vedere chi cucina "la cena della vittoria" (B. Brecht), di non affidarsi ai freudolenti "sogni di un visionario", e seguire l’indicazione di Orazio Shakespeare Kant Marx Nietzsche Freud e Foucault: "Sàpere aude!" .
FILOLOGIA E CRITICA: "SÀPERE AUDE!" (ORAZIO/KANT). A ben riflettere, accogliendo l’importante sollecitazione, si tratta di cambiare rotta e registro (oltre il platonismo e il paolinismo) e avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza, di "aprire gli occhi" (Sigmund Freud) sulla lezione evangelica di Gioacchino da Fiore sull’amore ("charitas") e, al contempo, di "sàpere" che cosa "mangiamo" a cena, se "grazia di dio" ("eu-charis-tia") o cibo avvelenato (di una tragica bimillenaria "buona-carestia"). Se non ora, quando?!
Federico La Sala
FILOSOFIA (DELLA CAVERNA) E PSICOANALISI:
L’OMBRA MINACCIOSA DELL’IMMAGINARIO DI EDIPO E PLATONE SULLE SPALLE DELL’INTERA EUROPA.
Una lettera di Sigmund Freud a Lou Andreas Salomé del 25 novembre del 1914, da ri-leggere:
***
PER NON BUTTARE IL BAMBINO INSIEME ALL’ACQUA SPORCA. A gloria di Freud, nonostante la catena che lo teneva legato alla Madre e, come Edipo, si sia comportato da #Padrino ("Pater Freudenreich* - Padre Freud"), fin dal "caso Dora" e, poi, sia arrivato alla disperazione e al pessimismo più nero ("Perché la #guerra?". Carteggio #Einstein-Freud, 1932/1933) sulle possibilità di portarsi fuori dalla tradizionale cosmoteandria di Platone (e Socrate), bisogna dire che, con (e come) Mosè, riuscì a salvarsi dalle grinfie del "Faraone" del XX secolo e a raggiungere Londra!
A mio parere, la sua lettera a #Lou Salomé è una grande sollecitazione a pensare ancora, di più, e meglio, alle difficoltà gigantesche che sono sì del Freud del 1914, ma che sono ancora, oggi - dopo la morte di Nietzsche (1900) e la stessa morte di Freud (1939) - quelle dell’Europa del 2023, governata dalla logica della tragedia di Edipo e dall’algoritmo demiurgico del "Grande Sconosciuto".
PSICOANALISI, CRISTIANESIMO, ANTROPOLOGIA E LETTERATURA:
"PSICOLOGIA DELLE MASSE E ANALISI DELL’ IO" (S. FREUD, 1921): DANTE ("Io non Enëa, io non Paulo sono": Inf. II, 32) SA "DOVE METTE CRISTOFORO IL PIEDE" (cfr. Wilhelm Stekel, "Il ’Piccolo Kohn’ ", 1903, tradotto e curato da Michele Lualdi).
"IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS", "CRITICA DELLA RAGION PURA" (KANT), E "IDEALE DELL’IO" (S. FREUD). CON GIASONE (OVIDIO) E CON ASTREA (LA "VIRGO" DI VIRGILIO) E MARIA-BEATRICE (LA "VERGINE" DI SAN BERNARDO), DANTE RIPRENDE IL CAMMINO, dall’ INIZIO (dall’Inferno) ma dal PRINCIPIO (Par. XXXIII: "Vergine Madre, figlia del tuo figlio [...] l’amor che move il sole e l’altre stelle") e racconta come è riuscito a ritrovare "LA DIRITTA VIA" e a capire il senso antropologico di sé: "Io sono l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine" (Ap., XXII, 13).
SPIRITO CRITICO E AMORE CONOSCITIVO: ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA E MATEMATICA:
IMPARARE A #CONTARE. Uscire dall’inferno epistemologico
#UNO: "SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI" (2005). In principio era il Logos (Eraclito, Efeso), non il #logo di una azienda sul cui cancello d’entrata sta scritto "il lavoro rende liberi".
"DUE SOLI" (#DANTE2021). Ri-#pensare l’ONU - a partire da Due, "almeno due" (Gregory Bateson):
#ELEUSIS2023 #Metaphysics #Anthropology #Theology #Cosmology #Koyaanisqatsi #Ubuntu #EARTHRISE
#PSICOANALISI, #ANTROPOLOGIA, E "#COSTRUZIONI NELL’#ANALISI" (1937): STORIA E STORIOGRAFIA.
IL #TRAUMA DELLA #NASCITA, IL TRAUMA DELLA #CIRCONCISIONE (#MASCHILE E #FEMMINILE), "L’#INTERPRETAZIONE DEI #SOGNI" (1899), E "L’#UOMO #MOSÈ" (1938).
Plaudendo all’originale percorso storiografico relativo all’origine della psicoanalisi di cui scrive Carlo Bonomi nel suo libro, ad evitare riduzionismi e fraintendimenti storiografici, forse, è opportuno ricordare con lo stesso Carlo Bonomi (cfr. l’ Introduzione di "A Brief Apocalyptic History of Psychoanalysis: Erasing Trauma") non solo il significato della «parola "(b)rith milah", circoncisione in ebraico, letteralmente “Patto del Taglio”», ma anche il legame che essa ha con la parola #Alleanza (#berît), quella propria tra "Dio" e Abramo («Porrò la mia alleanza tra me e te»: Genesi 17,2) e Mosè («Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi»: Esodo 24,8), e ancora, e al contempo, con le parole scritte da #Freud nel discorso per la festa data in suo onore dalla #Loggia "B’nai B’rith" [“Figli dell’Alleanza”], in occasione del suo settantesimo compleanno, che dicono della sua diversa #interpretazionedeisogni (di #Abramo, di #Giuseppe, e di #Mosè):
LA PSICOANALISI E IL TRAUMA DELLA CIRCONCISIONE (MASCHILE E FEMMINILE): "L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" (1899) E LE "COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (1937). *
Recensione di Rita CORSA al numero monografico di
Quando mi sono trovata a parlare con Franco Borgogno del numero monografico di The Wise Baby - Il poppante saggio (1/2022), dedicato interamente alle trentennali indagini storiche di Carlo Bonomi, mi è subito venuto in mente il provocatorio concetto di “piglio antistorico della psicoanalisi” (2019, 268), coniato da Borgogno per indicare come la psicoanalisi tenda ad accomodarsi in una confortevole storiografia narratologica, spesso vacua, incompleta e talvolta priva di qualsivoglia traccia documentale. Questo non è di certo il caso dell’opera di Bonomi. Le ricerche archivistiche da lui effettuate, partite proprio per colmare “una circoscritta lacuna storiografica” (2022, 7), hanno successivamente preso un respiro assai ampio, giungendo a offrire una delle più accattivanti e stimolanti proposte interpretative delle origini della psicoanalisi.
I suoi pluridecennali studi, già da tempo affermatisi a livello internazionale, trovano finalmente una ricca esposizione in lingua italiana sul periodico in esame. Il numero monografico è centrato su un lungo saggio del 1994, già tradotto in molte lingue, che racchiude i frutti delle esplorazioni effettuate da Bonomi, transitando per archivi tedeschi e austriaci, alla ricerca di prove che consentissero di formulare delle ipotesi innovative sul primo Freud e sulla teoria traumatica freudiana, pilastro della metapsicologia psicoanalitica. È così germinata una tesi folgorante, che trova la sua radice nel gigantesco scotoma storiografico del giovane Freud, medico pediatra. Bonomi si chiede: Perché abbiamo ignorato il Freud “pediatra”? - che è anche il titolo del saggio del 1994 e dell’attuale numero della rivista. È questo il primo contributo di Bonomi su una materia che scandaglierà per diversi decenni.
Il trauma della castrazione è il fil rouge che scorre, impetuoso, negli scritti di Bonomi. È il tema che aveva svolto compiutamente nel libro Sulla soglia della psicoanalisi. Freud e la follia infantile (2007) e che riprende nel secondo articolo pubblicato sulla rivista(Cura o punizione? Contraddizioni e paradossi nell’incontro di Freud con la pediatria), dove l’Autore ridisegna i contorni della costruzione psicoanalitica freudiana in dialogo con il cambiamento di paradigma che avviene a fine Ottocento nel mondo della pediatria.
Il punto d’avvio di questa coraggiosa avventura è puramente storiografico, nel suo ripercorrere le vicissitudini della sessualità infantile nella pediatria tardo ottocentesca, pervasa dall’ossessione per l’onanismo, considerato causa di follia nei bambini e curato con la castrazione. La castrazione chirurgica di donne e bambine. Una pratica assai frequente, nonché terribilmente invasiva e violenta, in cui si è imbattuto Bonomi nel 1992, durante la disamina di articoli e cartelle mediche custodite nell’archivio dell’Istituto di Storia della Medicina dell’Università di Tubinga, allora diretto dal professor Gerhard Fichtner.
Bonomi rileva che Freud non solo conosce, ma deve aver osservato in prima persona tale odiosa tecnica terapeutica. Una pagina del percorso medico freudiano incomprensibilmente trascurata dai biografi. O francamente scissa dal profilo identitario medico di Freud. Perché ciò sia potuto accadere non è chiaro. Certo è, come fa notare Bonomi, che lo stesso Freud sminuì o cancellò del tutto il suo decennale impegno con i bambini, compiuto proprio in un periodo cruciale per la nascita della psicoanalisi e, in particolare, per la scoperta della sessualità infantile. Questa lacuna biografica si trasforma in un “disturbo della memoria” e in un vuoto teorico, che Bonomi indagherà negli scritti successivi.
Mi permetto di indugiare sul Freud “pediatra”. Nel marzo del 1886, dopo aver seguito le lezioni di Charcot a Parigi, Freud si recò a Berlino, da Adolf Baginsky, per acquisire una veloce formazione pediatrica in vista dell’assunzione dell’incarico offertogli da Max Kassowitz presso l’Istituto Pubblico per le Malattie dei Bambini di Vienna. Egli manterrà l’incarico di responsabile del reparto neurologico dell’ospedale per l’infanzia per 10 anni, fino al 1896. Bonomi ci informa che la struttura verrà chiusa e distrutta in seguito all’Anschluss, portando via con sé atti amministrativi e cartelle cliniche dell’epoca. Non resta quindi alcuna testimonianza degli anni trascorsi da Freud a Vienna in qualità di medico pediatra. Rimane, invece, qualche segno del breve training che Freud svolse con Adolf Baginsky a Berlino, in un momento storico in cui era preminente l’idea che la masturbazione provocasse dei gravi danni neurologici e psichici: «per Baginsky l’onanismo era una malattia del sistema nervoso che prosperava nelle cattive condizioni igieniche» e che era particolarmente pericolosa, perché contagiosa (Bonomi, 2022, 16). Ad esso era inoltre addebitata l’eziologia della maggior parte delle isterie infantili e pure di quelle in età adulta. -------Questa localizzazione genitale dell’isteria, presente fin dall’infanzia, spinse la medicina a considerare l’ablazione della clitoride e delle piccole labbra e l’asportazione delle ovaie come terapie d’elezione nell’isteria. Bonomi correda tale barbaro, ma a quel tempo molto attuato, esercizio chirurgico con un nutrito ventaglio di riferimenti bibliografici. In estrema sintesi, a suo avviso sarebbe proprio la giovanile esperienza in ambito pediatrico a giustificare l’iniziale “personale avversione” di Freud nei riguardi della teoria sessuale delle nevrosi (Freud, 1896, 340), dovuta specialmente agli orrori della castrazione femminile. Freud si riavvicinerà «alla vecchia teoria sessuale» col rafforzarsi del sodalizio con Wilhelm Fliess, che profila «una nuova soluzione terapeutica “etiologica”, basata sulla teoria della nevrosi nasale riflessa» (Bonomi, 2022, 27), una teoria che vede il locus morbi trasferito dai genitali ai “punti genitali” nel naso (Freud, 1888). Osservato alla luce della tremenda ablazione genitale, lo spostamento a livello nasale, con l’asportazione dei turbinanti, sembra certamente una soluzione più accettabile e umana. Annota invero Bonomi, che Freud «riteneva l’operazione al naso “innocua” e fu profondamente scosso dal drammatico esito dell’operazione di Emma Eckstein» (ibid., 29), come racconta l’accorata lettera a Fliess dell’11 aprile 1895 (Freud, 1986).
La vicenda è nota. All’inizio del 1895, Emma Eckstein, paziente di Freud, che da piccola aveva subito la mutilazione genitale, venne operata al naso da Fliess. L’operazione ebbe delle serie complicanze emorragiche a causa di un errore del medico - una garza emostatica fu dimenticata nella narice (Schur, 1972). Da qui il celebre “sogno dell’iniezione di Irma”, fatto da Freud nel luglio del 1895 e riportato nell’Interpretazione dei sogni (1899). Un sogno “post-traumatico” e “oto-ginecologico”, come viene definito da Anzieu (1975). Non mi soffermo su questo sogno, analizzato minuziosamente in una gran mole di scritti psicoanalitici. Segnalo solo che Bonomi lo esamina con dovizia e gran originalità, richiamandosi al mito classico e alla cultura greca.
Rimando al lettore l’approfondimento di questi dotti passaggi, il cui sunto non sarebbe in grado di rendergli pienamente giustizia. Quel che è certo, l’effetto ultimo del sogno di Irma su Freud «sembra essere stato quello di chiudere il periodo delle operazioni chirurgiche per inaugurare quello della psicoanalisi» (2022, 29). Negli anni di fine secolo ha infatti luogo la profonda trasformazione delle nozioni di nevrosi, isteria e sessualità, che perdono il loro riferimento ai “nervi” e agli organi genitali, mutandosi in disturbi senza sede anatomica: «in breve (...) diventano psicologiche» (ibid., 84). E il rivoluzionario apporto del pensiero freudiano a tale sovvertimento di paradigma è sostanziale.
Tuttavia, si può affermare che delle aree d’ombra non mancano nel primo apparato teorico freudiano: «Con l’ausilio della mitologia greca e della “metafora archeologica”, Freud costruì (...) un imponente monumento agli orrori della castrazione» (ibid., 48). Un monumento alla castrazione maschile, innalzato da un ebreo circonciso che non volle che i propri figli maschi fossero sottoposti alla medesima operazione. Eppure, osserva Bonomi, egli difettò di includere nel suo edificio teorico «la castrazione e mutilazione femminile che pure deve aver avuto un ruolo principale nelle sue esperienze mediche giovanili». Una lacuna che «sembra essere strettamente connessa con quegli aspetti di lutto incompiuto che attraversano sia la sua vita che la sua opera» (ivi). Nonostante ciò egli fu capace di creare uno strumento da usare «per entrare nel mondo delle paure del paziente ed esplorare i suoi “traumi”», aprendo la «più straordinaria indagine sulla paura mai trattata dall’uomo» (ibid., 91).
Chiarisce Bonomi che il terzo articolo (L’abisso del controtransfert. Commento a Freud pediatra), scritto appositamente per questo numero speciale, consente allo studioso di oltrepassare “la soglia”, quella del controtransfert, per trovar ragione dell’abbandono della teoria del trauma reale da parte di Freud. Qui si entra nel vivo del discorso psicoanalitico. Bonomi ipotizza che, durante l’analisi della trentenne Emma Eckstein, Freud si trovò di fronte al racconto della “scena della circoncisione” di lei bambina. Bonomi considera che Emma è la paziente principale di Freud all’alba della psicoanalisi. Il lavoro con questa donna «abitò i suoi sogni»; lo influenzò in modo decisivo nell’ipotizzare la teoria della seduzione, ma pure nella sua ritrattazione; ispirò «quella autoanalisi da cui si sviluppa il capolavoro (...) L’interpretazione dei sogni» (2022, 113). Ma quando appare in seduta la “scena della circoncisione di una fanciulla”, lo scenario relazionale si sovverte radicalmente. La vita del medico, che aveva conosciuto nella sua decennale attività pediatrica la ferocia della castrazione femminile e che, pur essendo ebreo, non aveva fatto circoncidere i suoi figli maschi, e quella della sua paziente, si intersecano indissolubilmente. E Freud si trova affacciato in maniera imprevista all’ “abisso del controtransfert”. Questa illuminante espressione viene presa in prestito da Ferenczi, che la adopera nella pagina del primo maggio 1932 del suo Diario clinico per risolvere il rompicapo del motivo dell’abbandono di Freud del concetto di trauma reale. Bonomi aggiunge un altro essenziale tassello alla sua comprensione: è proprio il racconto di Emma Eckstein relativo alla sua esperienza di bambina circoncisa, che spalanca il controtransfert di Freud, rievocando con violenza dentro di sé gli anni trascorsi a operare in qualità di neuropediatra. Bonomi chiosa che «ormai gli ingredienti fondamentali per spiegare la nascita della psicoanalisi c’erano tutti», ed essi «si erano via via chiariti a partire dallo studio su “Freud pediatra”». Essi richiedevano ormai «una narrazione degli inizi radicalmente diversa da quella a cui ci siamo abituati» (2022, 110).
Il quarto contributo (Breve storia apocalittica della psicoanalisi) è una chicca. Riguarda la traduzione in italiano dell’Introduzione al suo ultimo libro, A Brief Apocalyptic History of Psychoanalysis: Erasing Trauma, pubblicato nel 2023 da Routledge, e in uscita in francese per l’Édition Amsterdam. Questo testo chiude il cerchio di un discorso complesso, dipanatosi per decenni, che è progredito aggiungendo via via delle tessere fino a creare un elegante, inedito mosaico delle origini della psicoanalisi. La tesi esposta torna ancora all’analisi di Emma Eckstein e alla mutilazione genitale patita in infanzia. Il disvelamento in seduta provoca profonda angoscia in Freud, che però non riconosce la natura traumatica di questa Beschneidung (circoncisione). Ma l’impatto emotivo controtransferale è travolgente e si intreccia con la sua storia personale di ebreo circonciso, in conflitto con il padre al punto da decidere di non sottomettere i figli a tale rito. Ed è proprio qua, nel rispecchiamento controtransferale di Freud nel trauma della circoncisione, sofferto dalla sua paziente ma che rievoca il suo proprio trauma e quello del suo popolo, che Bonomi individua il fattore principale della nascita della psicoanalisi. E nelle pagine finali della rivista, l’Autore ipotizza «che il trauma non riconosciuto è iscritto nel pensiero di Freud come un lascito amputato da cui germoglieranno e fioriranno i sogni, le fantasie, i pensieri dei discepoli più intimi di Freud» (2022, 113). In particolare Sàndor Ferenczi, che contribuirà in maniera decisiva «a riparare questo lascito amputato, ponendo così le basi per una rifondazione della psicoanalisi» (ivi).
Forse, però, questi antichi nuclei traumatici in parte permangono ancor’oggi. Resti incistati, perché mai fino in fondo pensati, che vengono fatalmente a erodere, in silenzio, quello che per oltre un secolo è stato il granitico edificio psicoanalitico freudiano. Forse.
Riferimenti bibliografici
ANZIEU D. (1975). L’autoanalisi di Freud e la scoperta della psicoanalisi. Vol. 1.Roma, Astrolabio, 1976.
BONOMI C. (1994). Why have we ignored Freud the “Paediatrician”? The relevance of Freud’s paediatric training for the origins of psychoanalysis. In A. Haynal and E. Falzeder (eds.), 100 years of psychoanalysis. Contributions to the history of psychoanalysis. Special issue of Cahiers Psychiatriques Genevois. London, Karnac, 55-99.
BONOMI C. (2007). Sulla soglia della psicoanalisi. Freud e la follia infantile. Torino, Bollati Boringhieri.
BONOMI, C. (2023). A Brief Apocalyptic History of Psychoanalysis. Erasing Trauma. London & New York, Routledge.
BORGOGNO F. (2019). Sándor Ferenczi, psicoanalista classico e contemporaneo. Rivista di Psicoanalisi, 2, 267-279.
FERENCZI S. (1932). Diario clinico. Gennaio-Ottobre 1932. Milano, Raffaello Cortina, 1988.
FREUD S. (1888). Isteria. OSF, 1.
FREUD S. (1896). Etiologia dell’isteria. OSF, 2.
FREUD S. (1899). L’interpretazione dei sogni. OSF, 3.
FREUD S. (1985). Lettere a Wilhelm Fliess 1887-1904. Torino, Bollati Boringhieri, 1986.
SCHUR M. (1972). Freud in vita e in morte. Torino, Bollati Boringhieri, 1976.
*Fonte: SpiWeb, 28.03.203
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Plaudendo alla recensione di Rita Corsa e al formidabile lavoro di Carlo Bonomi, ad evitare equivoci e fraintendimenti storiografici, forse, è opportuno ricordare con lo stesso Carlo Bonomi (cfr. l’ Introduzione di "A Brief Apocalyptic History of Psychoanalysis: Erasing Trauma") che «la parola "(b)rith milah", circoncisione in ebraico, letteralmente “Patto del Taglio”» e, al contempo, che le parole scritte da Freud nel discorso per la festa data in suo onore dal "B’nai B’rith" [“Figli dell’Alleanza”], in occasione del suo settantesimo compleanno, sono le seguenti: "[...] Non so se sono un vero Figlio dell’Alleanza, nel senso che voi intendete. Ne ho quasi dubitato, nel mio caso erano troppe le resistenze. Ma vi posso assicurare che avete significato molto per me, che avete realizzato molto negli anni in cui vi ho frequentato. Ricevete dunque, per ieri come per oggi, il mio più caloroso grazie. Vostro, Sigmund Freud".
Federico La Sala
ARTE, ANTROPOLOGIA, E STORIOGRAFIA.
TROVATO L’AGO NEL PAGLIAIO:
"IL MISTERO DI GESÙ BAMBINA" (*)
Ringraziando il prof. Flavio Piero Cuniberto per la generosa condivisione della sorprendente opera di Nicola di Maestro Antonio, forse, è cosa buona e giusta tentare qualche riflessione e porre qualche domanda sul tema.
Considerata l’epoca di Nicola di Maestro Antonio d’Ancona (Ancona, fine XV secolo - dopo il 1511), perché considerare una stravaganza, che Giorgio Pasquali avrebbe definito "quarta e suprema", che il Bambino sia una Bambina?
Con le necessarie riserve, non è bene tener presente la tempesta non solo culturale che ha sconvolto l’ Italia a partire quantomeno dal 1440 (Lorenzo Valla), dal 1453 (caduta di Costantinopoli), e negli anni seguenti e, al contempo, immaginare che si sia potuto pensare alla figura di #Gesù come una "#bambina", antropologicamente ("Ecce Homo"), e non "androcentricamente" ("Ecce Vir")?!
Già Christine De Pizan (1364-1430), cosa scrive: «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable» («Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi»? Cosa succederà di lì a poco con la Riforma Protestante e, poco dopo, con #Elisabetta I, in Inghilterra?! Non trema la "cristologia" costantiniana (Nicea 325-2025)?!
Questione antropologica (filologica e cristologica), oggi (19 marzo 2023): "chi è questo Figlio dell’Uomo" (Gv. 12, 34). Come mai il silenzio totale di tutte le Accademie "platoniche" sulla declinazione antropologica del messaggio evangelico ("Ecce Homo") in chiave andrologica e costantiniana ("Ecce Vir")? Non è questo un "meccanismo di rimozione" profondissima (S. Freud, Disagio della civiltà, 1929), che ha finito per spezzare le reni alla Grecia e fatto diventare l’#antropologia una #andrologia e, addirittura, il Logos di Efeso, il logo di una "fattoria degli animali"?! A che gioco giochiamo?!
(*) Cfr. Flavio Piero Cuniberto, "Il mistero di Gesù Bambina", Facebook, 17 marzo 2023.
COSMOTEANDRIA DEL XXI SECOLO: IL MONDO COME VOLONTÀ E RAPPRESENTAZIONE DELL’UOMO SUPREMO.
PIANETA TERRA:
RIPENSARE COSTANTINO.
DOPO 1700 ANNI DAL PRIMO CONCILIO DI NICEA (325), DI "QUALE" ECUMENISMO, LA CHIESA CATTOLICO-ROMANA E L’INTERA EUROPA (LAICA E RELIGIOSA) VUOLE FARE MEMORIA?
A) - NICEA 325. "Il concilio di Nicea, tenutosi nel 325, è stato il primo concilio ecumenico cristiano. Venne convocato e presieduto dall’imperatore #Costantino I, il quale intendeva ristabilire la pace religiosa e raggiungere l’unità dogmatica, minata da varie dispute, in particolare sull’arianesimo; il suo intento era anche politico, dal momento che i forti contrasti tra i cristiani indebolivano anche la società e, con essa, lo Stato romano. Con queste premesse, il concilio ebbe inizio il 20 maggio del 325. Data la posizione geografica di Nicea, la maggior parte dei vescovi partecipanti proveniva dalla parte orientale dell’Impero. [...]".
B) STORIA #STORIOGRAFIA ED ECUMENISMO: QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("CRISTOLOGICA") E ASSEDIO DI COSTANTINOPOLI (1453). Riprendendo il filo dalla "Dotta Ignoranza" (Niccolò Cusano, 1440), la "Donazione di Costantino" (Lorenzo Valla, 1440), e dalla caduta di Costantinopoli (1453) e il fallimento della proposta "cristologica" del "De pace fidei" (N. Cusano, "La pace della fede", 1453), non è forse tempo di corre ai ripari, di ristrutturare il campo e riequilibrare la bilancia antropologica e teologica?!
C) BILANCIA DELLA COSTITUZIONE, BILANCIA DELL’ETICA, E PACE PERPETUA. Una "foto" per riflettere non solo l’8 marzo 2023, ma anche l’ 8 marzo 2025...
#Earthrise #Metaphysics #Anthropology #Theology #Cosmology #InternationalWomensDay #Eleusis2023 #Roma2024
ECOLOGIA DELLA "MENTE ACCOGLIENTE. TRACCE PER UNA SVOLTA ANTROPOLOGICA".
Un omaggio al prof. Gianni Vattimo e un augurio di buon lavoro a Elly Schlein.
COME NASCONO I BAMBINI: "LlNGUAGGIO DEL #CAMBIAMENTO. Elementi di comunicazione terapeutica" (Paul Watzlawick): per uscire dalla storica e tragica caverna della cosmoteandria (atea e devota), a mio parere, occorre riprendere il programma di Kant dei "sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica", riaprire la questione antropologica e portare avanti le indicazioni della Scuola di Palo Alto, in particolare, di Paul Watzlawick (1977), e cominciare a pensare con le "due metà del cervello (cfr. Federico La Sala , "Alfabeta" - Rivista, 17, 1980, p.11), sia all’interno e sia all’esterno.
#Metaphysics #Anthropology #Europa2023 #Eleusis2023 #Roma2024
NOTA: L’ITALIA E IL "CORPO MISTICO" DELLA "REGINA" (DELLE PRIMARIE DEL PD, DEL PARTITO DEMOCRATICO).
Cosmoteandria e "disagio della civiltà" (S. Freud, 1929). "Cum grano salis" e. con le dovute proprorzioni, guardando allo #Stato della #Terra (con un #UNO - #ONU - che non esiste ancora), l’evento "Elly Shlein" ha rotto l’incantesimo e ha aperto la porta a un sottile e tuttavia forte vento di sollecitazione antropologica e teologico-politica a ristrutturare il campo e rimettere in sesto i cardini del #tempo (Shakespeare, "Amleto", I.5) e, a svegliarsi dal sonno dogmatico (Kant).
L’ILLUMINISMO LOMBARDO, LA FENOMENOLOGIA "DELLO SPIRITO DELLA FAMIGLIA", E LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA. Un invito a leggere l’opera dell’economista Cesare Beccaria ...
EUROPA2023: STORIA STORIOGRAFIA E FILOLOGIA. Il libro di Cesare Beccaria, "Dei #delitti e delle #pene" (1764), contrariamente a quanto si continua a credere, è un libro tutto da rileggere e da collocare a fianco dell’opera di Jean-Jacques Rousseau, il "DISCORSO SULL’ORIGINE E I FONDAMENTI DELLA DISUGUAGLIANZA FRA GLI UOMINI" (1755):
A) "SOCIETÀ CIVILE" E RECINZIONI ("ENCLOSURES"): «Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare questo è mio, e trovò altri cosí ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile. Quanti #delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie, quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pali o colmando il fosso, avrebbe gridato ai suoi simili: “Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; se dimenticherete che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, sarete perduti!”» (J.-J. Rousseau, op. cit.).
B) "DEI DELITTI E DELLE PENE" E IL CAP. XXVI: "DELLO SPIRITO DELLA FAMIGLIA. Queste funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche piú illuminati, ed esercitate dalle repubbliche piú libere, per aver considerato piuttosto la società come un’unione di famiglie che come un’unione di uomini. Vi siano cento mila uomini, o sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque persone, compresovi il capo che la rappresenta: se l’associazione è fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi; se l’associazione è di uomini, vi saranno cento mila cittadini e nessuno schiavo.
Nel primo caso vi sarà una repubblica, e ventimila piccole monarchie che la compongono; nel secondo lo spirito repubblicano non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura, dove sta gran parte della felicità o della miseria degli uomini. Nel primo caso, come le leggi ed i costumi sono l’effetto dei sentimenti abituali dei membri della repubblica, o sia dei capi della famiglia, lo spirito monarchico s’introdurrà a poco a poco nella repubblica medesima; e i di lui effetti saranno frenati soltanto dagl’interessi opposti di ciascuno, ma non già da un sentimento spirante libertà ed uguaglianza. [...]" (Cesare Beccaria, "Dei delitti e delle pene", cap. XXVI).
C) SIGMUND FREUD, LA RECINZIONE DELL’AMORE, E "L’INFELICITÀ NELLA CIVILTÀ" ("Das Ungluck in der Kultur"): "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori [...]" (S. Freud, "Disagio della civiltà", 1929).
D)PRIMA DI HEGEL E DI MARX, CESARE BECCARIA, E’ GIÀ SULLA STRADA DI UN’ALTRA "FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO" E DÀ AD ALESSANDRO MANZONI UNA TRACCIA FONDAMENTALE PER DISTINGUERE TRA DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", FAMIGLIA E "FAMIGLIA", E ACCOMPAGNARE I "PROMESSI SPOSI" FUORI DALLA PESTE E DALL’INFERNO.
L’ESCA DI "POLONIO" E LA "CARPA DELLA VERITÀ": IL PUNTO DEL CAPITONE (LACAN) E LE ANGUILLE DI "AMLETO" (FREUD).
UN PUNTO DA APPROFONDIRE.Una citazione da le "Costruzioni in analisi" (S. #Freud, 1937):
JACQUES LACAN E IL GIOCO DEL DEMIURGO PLATONICO. "IL PUNTO DI CAPITONE": "Al tempo di Lacan, i materassi erano fatti di lana e i materassai li facevano cucendo la fodera con dei punti tramite un ago ritorto. I punti che tengono insieme le due fodere e la lana si chiamano “punti di capitone”.
Il punto di capitone è il nodo dell’imbottitura e Lacan ne fa la metafora del nodo che lega il piano dei significanti con il piano dei significati, altrimenti separati, come accade nella psicosi. [...] Lacan dice che il rapporto del significante e il significato è mobile, tende a disfarsi, invece nei punti in cui il significante si incrocia con il significato si producono effetti di senso. Il punto di capitone è la nozione necessaria per situare l’intenzione di significazione, cioè l’intenzione che mobiliterebbe il significante. Per colui che ascolta, ma anche per chi parla, quando si ascolta qualcosa che è stato detto è sempre nel momento successivo, in après coup, che si può accedere a quest’intenzione di capire qualcosa." (Cinzia Crosali, 2014).
FREUD E LE ANGUILLE (BURATELLI maschi E CAPITONI femmine), E L’ANATOMIA DEGLI ORGANI RIPRODUTTIVI. TRIESTE 1876: "il giovane Sigmund Freud, grazie ad una borsa di studio ministeriale, svolge presso la Stazione Zoologica di S.Andrea una ricerca sul sistema riproduttivo dell’anguilla. Freud esamina circa 400 anguille e scrive la sua prima pubblicazione: Beobachtungen über Gestaltung und feineren Bau der als Hoden beschriebenen Lappenorgane des Aals (osservazioni sulla conformazione e intima costituzione dell’organo globoso dell’anguilla, descritto come testicolo)." (OGS-ISTITUTO DI OCEANOGRAFIA).
PSICOANALISI, "NEXOLOGIA", E DISAGIO DELLA CIVILTÀ: "[...] Il paradosso di Freud è stato quello di tentare una scienza dell’individuo [...]. E se il suo tentativo può dirsi, in parte, riuscito, ciò si deve al fatto che la sua non è stata una ricerca individualizzante; non è stata una ricerca di psicologia, nel senso stretto, nel senso classico della psicologia individuale. E’ stata sin dal principio una rilevazione dei nessi, dei rapporti peculiari attraverso i quali passa l’individuo singolo dalla sua nascita, e attraverso i quali egli si forma come individuo. In questo senso il termine psicoanalisi, da lui dato al campo di ricerca da lui dato al campo di ricerca messo in luce, è fuorviante, significa un aggancio e un compromesso con la disciplina accademica chiamata psicologia [...] Con Freud, invece si apre il campo di una ricerca sui rapporti interindividuali; comincia una sorta di nexologia umana (dal latino nexus: legame, intreccio), che include il corpo come parte in causa e interlocutore. Di essa, la psicoanalisi comunemente intesa è solo un momento parziale, limitato, anche se di grande fecondità. La sua prima linea di sviluppo, non l’unica, è in direzione dell’analisi della struttura familiare" (cfr. E. Fachinelli, "Il paradosso della ripetizione","L’erba voglio" - Rivista, n. 5, 1972; poi, in E. F., "Il bambino dalle uova d’oro", Feltrinelli, Milano, 1974).
Federico La Sala
FILOLOGIA, ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, E COSMOLOGIA: IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON UN LOGO).
Una breve nota su un labirintico abbaglio, in cui si vive da millenni:
ANTROPOLOGIA O ANDROLOGIA?! Alla fine, pur pulendo "le porte della percezione", l’uomo (l’essere umano - maschio, lat. "vir") non vedrebbe altro e ancora che "il mondo come volontà e rappresentazione" di sé stesso: la visione dell’androcentrico vitruviano macroantropo della tradizione platonico-paolina e schopenhaueriana.
"CHI" ("X") SIAMO NOI, IN REALTÀ: DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVO PRINCIPIO DI CARITÀ.
LA FATTORIA DI PLATONE, IL PIFFERAIO ALGORITMICO, E L’ ARCHEOLOGIA FILOSOFICA:
#STORIA E #MEMORIA. Al #tramonto dell’#Occidente e alla #fine della #storia, qualche musicista constata amaramente che oggi la più bella delle arie d’opera viene utilizzata per #pubblicizzare un profumo. Verissimo, ma questo cosa significa? Non è una "bellissima" realizzazione storica dello #Stato sognato dal pitagorico Platone, quello della famosa teoria del #re filosofo (#sofista) e del filosofo (sofista) re?
#FILOLOGIA E #ANTROPOLOGIA. Le #Muse, le #Grazie, le #Sibille, dove sono?! Non sono state rapite come #Persefone da #Plutone e sono tutte rinchiuse nel #Circo (della buon’anima) della #Moira di #Orfeo? Dov’è Diotima, dove Arianna? Non è ora di cambiare musica e uscire dall’Inferno (Dante 2021)?! Se non ora, quando?!
#Eleusis2023 #Earthrise
(*) La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica
#QUESTIONEANTROPOLOGICA (#FILOLOGIA E #CRISTOLOGIA ): SHAKESPEARE E NIETZSCHE.
La grande eroica ricerca di #Nietzsche è stata quella di rispondere alla domanda già di #Shakespeare , alla #question di Amleto, e portare il discorso oltre #Wittenberg (la #RiformaProtestante ), e chiarirsi e chiarire le idee relative all’ #essere degli esseri umani, figli e figlie del "#Re dei Re", di "Dio", e di andare oltre la tragica #logica del "sapere di non sapere" platonica, del #mentitore, e dell’ #adulterio e dell’#incesto ("Così parlò #Zarathustra ", parte IV). Egli, a mio parere, ha aperto la strada e dato indicazioni per sciogliere il nodo e non nella direzione del #supeuomo cosmoteandrico (cfr. Federico La Sala , "La #menteaccogliente. Tracce per una #svolta_antropologica ", Roma 1991).
#ANTROPOLOGIA O #ANDROLOGIA? #Gesù, chi era? Quello del "parto maschio del tempo" di san #Paolo e #Costantino (e #Bacone ), o quello del tempo di san #Francesco ("Cantico delle #Creature " o "Cantico di Frate #Sole ") e #DanteAlighieri ("l’amor che muove il sole e le altre stelle") e di ogni #essereumano nato di donna e di uomo nel pianeta Terra?
COSMOTEANDRIA (ATEA E DEVOTA), QUESTIONE ANTROPOLOGICA, E FILOLOGIA.
IL MACROANTROPO. "Alla chiusa della mia esposizione possono trovare il loro posto alcune considerazioni sulla mia #filosofia stessa. [...] che l’interno essere di tutte le cose sia assolutamente uno e medesimo, lo aveva già visto e compreso il mio tempo, dopo che gli elatici, Scoto Eriugena, Giordano Bruno e Spinoza l’avevano estesamente insegnato e Schelling aveva rinfrescato questa dottrina. Ma che cosa sia quest’Uno e come esso giunga a rappresentarsi come Molto, è un problema, di cui la soluzione si trova per la prima volta presso di me. - Parimenti si era, fin dai tempi più antichi, riconosciuto l’uomo come microcosmo.
Io ho rovesciato il principio e dimostrato il mondo come #macroantropo, in quanto volontà e rappresentazione esauriscono l’essere dell’uno e dell’altro. Evidentemente però è più giusto, imparare a comprendere il mondo dall’uomo, che l’uomo dal mondo, perché si ha da spiegare ciò che è dato mediatamente ossia il dato dell’intuizione esterna, da quel che è dato immediatamente, ossia dal lato dell’autocoscienza, non viceversa."
(ARTHUR SCHOPENHAUER, Supplementi al "Mondo", II, Editori Laterza, Bari 1986).
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COSMOLOGIA E #ANDROCENTRISMO: "CONOSCENZA E RESPONSABILITÀ. [...] Il contrasto forte fra il progresso scientifico e l’arretratezza di alcune scelte di gestione e sfruttamento dell’#ambiente ci racconta di quanto sia difficile per alcuni di noi fare tesoro della conoscenza ed assumere responsabilità rispetto a se stessi e al mondo esterno. Si pensi ancora ad esempio a quanto #oggi si sa del mondo vegetale che possiede una sua “intelligenza” (#StefanoMancuso e #AlessandraViola, Verdebrillante - Sensibilità e intelligenza del mondo vegetale, Giunti Editore, Firenze 2013). Questa intelligenza viene ignorata dai più, anche grazie a #Linneo, il padre della nomenclatura (ancora in auge nei libri scolastici) per la classificazione scientifica degli organismi viventi. Dal diciottesimo secolo, i vegetali sono posti sul gradino più basso in una #scala “naturale” degli esseri viventi. Essi, in realtà, non sono solo una risorsa del pianeta che l’uomo può utilizzare a suo piacimento per motivi estetici, alimentari o terapeutici; hanno una vita autonoma, ricchissima e degna di rispetto, e spesso hanno trovato, attraverso geniali forme di adattamento ed anche di comunicazione, innumerevoli strategie di convivenza, fra loro e con gli altri esseri viventi. [...]" (cfr. Rosanna Bologna, Insula Europea, 18 gennaio 2023
FILOLOGIA FILOSOFIA PSICOANALISI
"ABBRACCIATEVI, MOLTITUDINI" (F. SCHILLER, "INNO ALLA GIOIA", 1785): "INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" (S. FREUD, 1899) DEI NIPOTINI E DELLE NIPOTINE DI PLATONE...
«Che cos’è, o uomini ["anthropoi"], che volete ottenere l’uno dall’altro? [...] Forse è questo che volete: diventare la medesima cosa l’uno con l’altro, in modo che non vi dobbiate lasciare né giorno, né notte? Se è questo che desiderate, io voglio fondervi e unirvi insieme nella medesima cosa, in modo che diventiate da #due che siete #uno solo, e finché vivrete, in quanto venite ad essere in questo modo uno solo viviate insieme la vita, e quando morirete, anche laggiù nell’Ade, invece di due siate ancora uno, uniti insieme anche nella morte. Orsù vedete se è questo che volete e se vi farebbe lieti ottenerlo...» (Platone, Simposio, 192 d-e)
PLATONISMO E TECNOCRAZIA. Dopo interi millenni di letargo, non è meglio svegliarsi e capire che l’intenzione di "Platone" (e di Efesto) è pure lodevole, ma molto, molto artigianale (demiurgica), il suo amore è avido e cieco (Cupìdo) e il suo fare "di due che siete uno solo" sembra voler correggere la divisione fatta da Zeus, ma alla fine fa tutto all’incontrario e fa solo un campo di sterminio, un deserto. All’altezza del 2023, come scriveva Nietzsche, siamo ancora ignoti a noi (stessi e stesse).
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA. Forse conviene riprendere il filo da ELEUSI (quest’anno è una delle capitali europee della cultura: Eleusis2023) e cercare di capire il segreto dei misteri eleusini, come nascono i bambini, e, finalmente, scoprire (immergendosi, battesimalmente, nel) l’acqua calda, che ognuno e ognuna è già uno, una, in due; ripartire da sé e riprendere il cammino: "Sàpere aude! (Kant, 1784 - Michel Foucault, 1984). Ricominciare a contare da due, non da uno (dei due, che fa il furbo): "un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (Franca Ongaro Basaglia). In principio era il Logos - non il logo di una "fattoria degli animali"!
ANTROPOLOGIA, STORIA, E FILOSOFIA: IL PAOLINISMO (ATEO E DEVOTO).
Alcuni appunti per riflettere sull’attuale presente storico. In memoria di Paolo di Tarso, di Antonio Gramsci, e di Ernesto De Martino ...
A) AL DI LA’ DELLA LEZIONE DI PAOLO DI TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
B) MARX e LENIN, CRISTO e SAN PAOLO. A. GRAMSCI, "POSIZIONE DEL PROBLEMA: [...] Marx inizia intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità, 〈superata〉 da concezione della libertà). Fare un parallelo tra Marx e Ilici per giungere a una gerarchia è stolto e ozioso: esprimono due fasi: scienza-azione, che 〈sono〉 omogenee ed eterogenee nello stesso tempo. Così, storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo: Cristo-Weltanschauung, S. Paolo organizzazione, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessarii nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, non teorico)." (A. Gramsci, "Quaderno 7 (VII), § 33).
C) IL PAOLINISMO ANTROPOLOGICO. ERNESTO DE MARTINO: “Essere comunista vuol dire essere umano, rinnovare in termini moderni l’esperienza paolina: “sono diventato tutto con tutti per tutti fare salvi”. Essere comunista vuol dire volgersi al mondo dei poveri e dei semplici, e quella parte dell’umanità che gli uomini cercano di mantenere fuori della storia e che vive orfana nella nostalgia di una cultura che sta come un al di là vago e misterioso. Essere comunista significa sentire la vergogna, anzi la colpa, di tutto lo spirito che potrebbe essere e che non è, di tutta la bellezza deviata, di tutta la verità rimasta a bella strada, di tutta la vita morale soffocata, di tutta l’umanità e la cultura insidiate a cagione del modo di esistere e della società” (Cfr. "Compagni e amici Lettere di Ernesto de Martino e Pietro Secchia", a c. di Riccardo Di Donato - “Un contributo su de Martino politico” - La Nuova Italia, 1993, p. II).
D) "CRITICA DELLA RAGION PURA" E ILLUMINISMO (1784): "IN OGNI MODO OCCORRE STUDIARE KANT E RIVEDERE I SUOI CONCETTI ESATTAMENTE" (Antonio Gramsci, "Quaderni del carcere", 10 (XXXIII), § 40).
ANTROPOLOGIA ED "ETICA DELLA PSICOANALISI".
FREUD E LACAN: ATTO PSICOANALITICO, METAFISICA DELL’ESPERIENZA ED ETICA DELLA PSICOANALISI. Un omaggio al prof. di Filosofia, H. J. PATON, amico di Wilfred Bion ...
RIPARTENDO DA LONDRA, (J. Lacan, "LA #PSICHIATRIA INGLESE E LA #GUERRA", 1947) E RITENENDO IMPORTANTE OGGI PIù DI IERI, QUANTO SCRITTO nell’editoriale degli #Appunti della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi del Campo Freudiano (Giugno 2016), che l’atto_analitico è "un concetto nuovo" che si deve a Lacan: “L’atto psicoanalitico, mai visto né sentito se non da noi, vale a dire mai notato, e ancor meno messo in discussione, ecco che invece noi lo poniamo come il momento elettivo del passaggio dello psicoanalizzante a psicoanalista”; “Ciò che chiamiamo la seduta è un lasso di tempo in cui si tratta dello stabilirsi di un rapporto con la dimensione fuori tempo dell’inconscio [...]” (cfr. SLPcf), FORSE, POTREBBE essere una buona idea, per riflettere di nuovo sul "tempo e l’atto nella pratica della psicoanalisi", mettere a disposizione in lingua italiana le opere di H.J. PATON: 1). "Kant’s Metaphysics of Experience (1936); 2) "The Categorical Imperative" (1947).
STORIA E STORIOGRAFIA: "APPRENDERE DALL’ESPERIENZA". A ben vedere, il titolo dell’opera di W. R. BION offre una indicazione-chiave, carica di teoria: richiama "ovviamente" l’amicizia di Wilfred R. Bion con Herbert James Paton e le sue indicazioni sulla via critica dell’imperativo categorico e della metafisica dell’ esperienza di Kant" (e, freudianamente e assolutamente, non la via paolina del "Kant con Sade" di Lacan).
Federico La Sala
IL PROBLEMA DELL’UNO (DELL’ONU) E DEI MOLTI: USCIRE DAL LETARGO.
PARMENIDE, IL PONTE DI ELEA, E LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA.
"IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS": UNA QUESTIONE LOGICA EPOCALE...
Costituzione e Società. Se in una Repubblica democratica (dove "tutti i giornali sono uguali" o "tutti i partiti sono uguali") viene fondato e registrato un giornale (o un partito) con un Nome più "uguale degli altri giornali" o, anche, "più uguale degli altri partiti" (es. "La Repubblica", "La Nazione", "La Verità", ecc.), già #solo il Nome non dice qualcosa di ermetico del programma comunicativo o politico di un tale giornale o di un tale partito?
Filosofia e ... Archeologia. "Cum grano salis", una domanda: ma non c’è un vizio logico-politico e psicoanalitico nel mettersi dietro lo scudo di un giornale battezzato "la Repubblica" (!) e raccontare a chi legge la storiella che la propria porta (in senso spaziale e figurato), attraverso cui passa l’acqua di un fiume di opinioni, sia il ponte repubblicano e costituzionale che permette di attraversarlo?
Non è meglio ritornare a Elea-Velia (da Parmenide e Zenone), seguire le inDICazioni della Giustizia (DIKe). e riprendere il cammino sul viadotto, sul ponte della cosiddetta "Porta Rosa" (https://it.wikipedia.org/wiki/Porta_Rosa)?
Federico La Sala
QUEL FREUD E’ PEGGIO DI KAFKA*
LONDRA - Non li divideva soltanto il dissidio ideologico sulla natura ultima dell’ uomo e sulla pratica psicoanalitica. Carl Gustav Jung detestava Sigmund Freud con tutto il cuore, e per lui finì per nutrire soprattutto disprezzo. "Mi dà sui nervi per il suo arido razionalismo", confessa Jung in una lettera ad una devota seguace, la psicologa ungherese Jolande Jacobi. Questa e altre ottantasei missive inedite, sempre con destinataria la Jacobi, saranno messe all’ asta a Londra da Sotheby’ s il 26 maggio e dovrebbero essere vendute ad un prezzo notevole: da sessanta a settantacinque milioni di lire.
Tra i primi e più zelanti discepoli del "padre della psicoanalisi" Freud, Jung ruppe ogni rapporto con l’ autorevole maestro nel 1913 dopo un sodalizio di sei anni: non ne accettava il principio basilare della libido sessuale come motore profondo della personalità. Dalle 87 lettere inedite (56 scritte a mano e 31 a macchina, la prima è del 1928 e l’ ultima del 1961) emerge con lampante chiarezza che le divergenze filosofiche si tramutarono in sprezzante antipatia: "Freud - denuncia ad esempio Jung - è troppo piatto per me. Ha la stessa psicologia di Kafka, che io trovo altrettanto intollerabile". "Freud - si legge in un altra polemica missiva a Iolande - è un dottrinario mentre io non ho dottrine ma descrivo i fatti. Io non insegno come si sviluppa la nevrosi ma descrivo che cosa si trova nelle persone nevrotiche". Pur avendo spesso e volentieri teorizzato e fantasticato sui simboli universali presenti nell’ inconscio collettivo (gli "archetipi"), Jung contesta a Freud anche l’ audace tentativo di una categorizzazione dei sogni e il discutibile metodo della "libera associazione".
L’epistolario non è importante soltanto per la nuova luce che getta sul tormentato rapporto con Freud ma per meglio capire il laborioso sviluppo della teoria psicologica junghiana.
Nato in Svizzera, morto nel 1961 a 86 anni, Jung rivela in una lettera che si guarda bene dal prendere in cura pazienti cattolici: "Io non mi metterò mai in opposizione alle credenze della chiesa cattolica. Rimanderò sempre un cattolico praticante e convinto al suo confessore, non pretendo di mettermi in opposizione al potere guaritore della Chiesa". In una missiva del giugno ’ 33 lo psichiatra elvetico si mostra lungimirante sull’ascesa del nazismo in quel "calderone di gorgoglianti streghe" che è la Germania.
* Fonte: la Repubblica (20 maggio 1994)
#SIMONEWEIL(1909-1943): #ARTE #CONOSCENZA E #MESSAGGIOEVANGELICO.
Una riflessione dai #Quaderni...
"Un #pittore non disegna il posto in cui si trova. Ma osservando il suo #quadro, io conosco la sua posizione rispetto alle cose disegnate. ... Secondo la concezione della vita umana espressa negli atti e nelle parole di un uomo, io so (...) se egli guarda questa vita da un punto situato quaggiù o dall’alto del cielo. ... Il #Vangelo contiene una #concezione della #vitaumana, non una #teologia. Se di notte all’aperto, accendo una torcia elettrica, non è guardando la #lampadina che ne giudico la potenza, ma guardando la quantità di oggetti illuminati. ... Il #valore di una #forma di #vitareligiosa, o più in generale spirituale, lo si valuta in base all’illuminazione proiettata sulle cose di quaggiù. Le #cosecarnali sono il #criterio delle #cosespirituali. [...]
Solo le cose spirituali hanno valore, ma le cose carnali sono le uniche ad avere un’esistenza constatabile. Quindi il valore delle prime è constatabile solo come illuminazione proiettata sulle seconde." (#SimoneWeil, "Quaderni" [1942], Q IV 185, Adelphi, Milano 1993).
Federico La Sala (30giugmo2022).
STORIA E MEMORIA... *
L’#ABIURA DI #GALILEOGALILEI (letta il #22giugno 1633), IL "MALEDETTO SIA #COPERNICO!" (L. #Pirandello, “Il fu Mattia Pascal”, 1904), E IL #DISAGIODELLACIVILTA’ (#SigmundFreud, 1929). #Storia e #memoria...
Ricordando che ieri (#28giugno) era il #giorno della #nascita nel 1867 di #LuigiPirandello e che una delle sue novelle più famose è "CIAULA SCOPRE LA #LUNA", non si può non ricordare ancora oggi alla #ChiesaCattolica (#29giugno, memoria di #PietroePaolo) la frase di #Keplero del 1611 : "Hai vinto, o #Galileo!" ("#Vicisti, #Galilaee": una #duplice #vittoria, sul piano scientifico e sul piano della preistorica #cosmoteandria "cattolica"!
La #rivoluzionecopernicana continua il suo #cammino... con #DanteAlighieri, #Shakespeare, #Kant, #Freud, #Ciaùla, e Samantha Cristoforetti, l’intero #genereumano è riuscito a "rivedere le stelle" (Inf. XXXIV, 139).
Io Galileo, fìg.lo del q. Vinc.o Galileo di Fiorenza, dell’età mia d’anni 70, constituto personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di voi Emin.mi e Rev.mi Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l’eretica pravità generali Inquisitori; avendo davanti gl’occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l’aiuto di Dio crederò per l’avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la S.a Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma perché da questo S. Off.o, per aver io, dopo d’essermi stato con precetto dall’istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere ne insegnare in qualsivoglia modo, ne in voce ne in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d’essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l’istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo e imobile e che la terra non sia centro e che si muova; Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze V.re e d’ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non fìnta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più ne asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò.
Giuro anco e prometto d’adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Off.o imposte; e contravenendo ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da’ sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate.
Così Dio m’aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani. Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633.
Io, Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria.
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Federico La Sala (29 giugno 2022)
ESTETICA, TECNICA, FILOSOFIA E DEMOCRAZIA: SAPEREAUDE! (Kant, 1784 - M. Foucault, 1984).
Jameson legge Benjamin
di Giorgio Mascitelli *
"Non vorrei essere nei panni del recensore del Dossier Benjamin di Fredric Jameson ( trad.it di Flavia Gasperetti, a cura di Massimo Palma, Treccani, Roma, 2022, euro 26) perché sono tali e tanti gli stimoli che questo libro contiene che renderne conto, anche solo per sommi capi, nel breve spazio di una recensione è fatica improba. Eppure è possibile riassumere in maniera immediata il motivo per cui esso è di grande interesse anche per i non specialisti: infatti, sebbene non abbia senso indicare per un autore così poliedrico e improvviso quale Benjamin un erede spirituale, individuale o collettivo, ma tutt’al più una serie di snodi decisivi che sono stati sviluppati e talvolta pienamente compresi solo nelle epoche successive, bisogna indicare in Jameson colui che ha proseguito lo sviluppo di uno dei nodi più importanti. Alludo alla riflessione sugli stretti rapporti che intercorrono tra forme della cultura e dell’arte e quelle dell’esperienza sociale delle rispettive #contemporaneità, la tarda #modernità per il tedesco e la #postmodernità per lo statunitense, colti in una prospettiva analitica e straniante, che potremmo definire al contempo materialista e inattuale.
Il sintomo più eloquente di questa affinità tra i due è la libertà quasi iconoclasta di giudizio con cui Jameson tratta alcune delle opere più acclamate di Benjamin. Per soffermarsi sul discorso, a parer mio, più importante per un operatore culturale e per un artista del XXI secolo, vale la pena di ricordare il giudizio di Jameson su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, secondo il quale questo testo non ha un vero oggetto né una tesi centrale, quanto piuttosto ‘una serie di temi il cui centro di gravità non fa che oscillare di sezione in sezione’ ( pp.276-77), addirittura tale saggio andrebbe letto come un seguito della meno nota e più settoriale Breve storia della fotografia.
Alla base di queste oscillazioni starebbero lo stesso concetto di aura, che a parere di Jameson indicherebbe da un lato la bellezza, la pura contemplazione estetica, e dall’altro un’esperienza altamente mobile e completamente individuale, e in particolare il vano tentativo benjaminiano di fissarlo entro una categoria astratta coerente ( p.295). Non che in passato siano mancate le critiche anche autorevoli a questo concetto ( per esempio Adorno o Brecht), ma qui Jameson sembra sottolineare i limiti intrinseci ( e al contempo la sua irrinunciabilità) di un termine che aspirerebbe a tradurre in termini sociologici e percettivi un’esperienza estetica che sembra essere apparentata con la dimensione del sublime. L’aura appare il portato di un’esperienza individuale connessa con il sorgere tra il Seicento e il Settecento, a cominciare dalla Francia, dell’idea del buon gusto estetico, che entrerebbe in crisi con l’apparizione delle possibilità di riproducibilità tecnica dell’opera. Giova ricordare che non è la possibilità tecnica in sé, ma i rapporti di produzione entro cui questa opera che determinano la fine dell’aura. Il gusto, per quanto ragione di vita per alcuni di noi, non è per niente più definibile dell’aura in una maniera astratta entro una dottrina estetica, ma è una singolarità storica del tutto congiunturale. Non è forse un caso che Jameson spenda alcune pagine nel VI capitolo per descrivere il debito di Benjamin verso Riegl, che con il concetto di Kunstwollen ha messo in primo piano la possibilità di un giudizio estetico radicalmente storicistico.
La perdita dell’aura in Benjamin non è connotata come inestimabile, nel senso di una nostalgia alla francofortese di un rapporto di fruizione con l’opera d’arte presentato come ideale e assoluto, nonostante sia a sua volta nato in un momento storicamente dato, ma semplicemente come una trasformazione sia tecnologica sia sociale del rapporto di fruizione, che si incrocia pericolosamente con l’ascesa del fascismo e con la sua tendenza all’estetizzazione della politica. Il limite di Benjamin, secondo Jameson, si deve scorgere nel fatto che lo sforzo di collocare il fenomeno della perdita dell’aura entro quelli che sono i rapporti di produzione della società capitalistica produce un cortocircuito perché questo materialismo rigoroso tende a considerarli in maniera troppo statica, non tenendo conto dell’innovatività della tecnologia anche verso direzioni imprevedibili. ( p.334)
In realtà, secondo lo studioso americano, Benjamin in un altro saggio, L’autore come produttore, individua una nozione di tecnica più interessante: sebbene essa non coincida con la tecnologia, ma piuttosto con le pratiche dell’avanguardia, come per esempio il ready made dadaista, essa avrebbe la funzione rivoluzionaria di far uscire l’autore dal paradosso della letteratura impegnata, la cui forma contrasta con il contenuto di denuncia sociale perché la colloca ancora dentro le istituzioni borghesi. In questo caso la tecnica è l’elemento concreto di rottura e di differenziazione che svolge una funzione positiva. Da qui è possibile cogliere un aspetto centrale e fertile e attuale del pensiero benjaminiano ovvero la distinzione tra il progresso, concetto inutile che consiste nel prospettarsi un futuro a immagine e somiglianza delle proprie illusioni storiche o se si preferisce della propria filosofia della storia, e il nuovo che non è nient’altro che il punto di rottura del presente ‘così travolgente da far svanire qualsiasi vaga idea del futuro come le profezie di un mago’ ( p.330). Per Jameson, insomma, la tecnica così intesa può essere strumento di rottura e dell’esperienza del nuovo.
La lettura di Jameson tende in questo modo, da un lato, a staccare definitivamente Benjamin da qualsiasi critica francofortese all’industria culturale, e successive evoluzioni, per esempio la società dello spettacolo debordiana, e dall’altro nel farlo diventare un teorico dell’avanguardia come pratica rivoluzionaria e non solo meramente estetica. Non spetta a me discutere la pertinenza filologica di una simile lettura ( perdipiù relativa a un autore per cui la frammentarietà è una cifra epistemologica ed estetica del proprio discorso), dico solo che questa lettura mette Benjamin strettamente in contatto, sia come sale sulle ferite sia come caffeina, con le contraddizioni del nostro tempo e a questo livello il testo deve essere discusso.
Jameson individua tre circostanze in cui l’aura risorge nella contemporaneità a dispetto di ogni riproducibilità tecnica, anzi grazie a essa. La prima ha a che fare con quella che l’autore chiama l’Erfahrung televisiva collettiva, in cui in occasione di certi eventi, come nel caso dell’omicidio Kennedy, vi è una partecipazione del pubblico che non può essere ridotta a pura passività; il secondo è il lavoro informatico dei programmatori e degli hacker, che ha una sua dimensione di artigianalità; infine le nuove forme televisive delle serie sembrano favorire una nuova forma di hic et nunc che avrebbe una sua dimensione auratica. Innanzi tutto di queste proposte colpisce che due su tre riguardino ambiti non immediatamente estetici, segno che un’estetizzazione diffusa è ormai trionfante.
Ora, per quanto il senno di poi abbia mostrato che l’equazione benjaminiana tra estetizzazione della politica e fascismo funzioni solo negli anni Trenta, credo, in quanto concittadino di Berlusconi, di essere nelle condizioni di poter affermare che l’estetizzazione diffusa comporti anche in assenza di fascismo qualche problema per la democrazia e la politicizzazione delle masse. E del resto lo stesso Benjamin nei citati anni Trenta si trovò nelle condizioni di dover denunciare il ruolo di Marinetti, che, quanto a maestro di nuove tecniche, non fu certo inferiore ai dadaisti e ai surrealisti.
Se confrontiamo questo approccio jamesoniano con quello situazionista, cioè di quell’avanguardia che più sistematicamente ha coltivato quell’idea, e quella prassi, di stretto rapporto tra attività estetica e rivoluzionaria, ciò che colpisce è che in Debord lo spettacolo, il televisivo e forse il visuale in generale sono momenti del falso, di una forma di alienazione della coscienza umana che viene sottomessa dal feticismo delle merci, di cui lo spettacolo è la forma concreta e percepibile, mentre Jameson, pur consapevole di tutti questi elementi, sottolinea gli effetti imprevedibili di pratiche e tecniche magari nate per quelle finalità che i situazionisti denunciavano. Anzi, riconoscendo che la nozione di spettacolo è in qualche modo erede della riflessione benjaminiana sulla fantasmagoria delle merci ( p.245), Jameson tende ad attribuire un aspetto positivo al visuale in Debord, per cui almeno marginalmente la contemplazione avrebbe un effetto di conoscenza e di azione. Qui forse Jameson non tiene sufficientemente in considerazione che nell’autore francese l’azione è sempre azione di un’avanguardia, politica e artistica, che ha caratteri di superiore consapevolezza teorica. Ciononostante bisogna ammettere che la posizione di Jameson è dialetticamente più dinamica e vitale, ma a patto di riconoscere che l’esperienza del nuovo non è destinata di per sé a produrre nessuna dinamica positiva. Per esempio la forma di fruizione delle serie televisive non sembra affatto aver prodotto nuove forme di consapevolezza, abbiamo al contrario una fruizione che ha favorito nuove forme di conformismo ideologico, sia pure progressista, e nella quale l’hic et nunc si traduce in un senso di appartenenza a un club esclusivo di raffinati spettatori di opere cult, secondo i dettami di quel fenomeno postmoderno che è il camp.
Sembra insomma che la lettura di Jameson, in un’opera peraltro assolutamente importante e densa di stimoli, trovi il suo punto di arrivo in una considerazione delle possibilità dinamiche della tecnica come automaticamente e/o tendenzialmente liberatorie.
Vale allora la pena di ricordare che lo stesso Benjamin dell’Autore come produttore trova la possibilità di una dinamica positiva della tecnica in una presa di coscienza della posizione sociale dell’artista nella società che quindi attua consapevolmente la sua azione artistica. Si tratta cioè di un’azione volontaria o militante, se si preferisce, che può trasformare le situazioni create dalla tecnica in qualcosa di imprevedibile al di fuori delle dinamiche sociali vigenti. In altri termini la questione è quella di non affidare alla tecnica un ruolo salvifico oggettivo, prova ne sia che le tecniche dadaiste e surrealiste hanno avuto un significato rivoluzionario laddove gli artisti che le realizzavano erano legati a un’idea e a un prassi di trasformazione sociale, ma usate per esempio poi nella pubblicità hanno perso ogni significato del genere.
*Fonte: Nazione Indiana, 17 giugno 2022.
Nota:
ESTETICA, TECNICA, E DEMOCRAZIA: “SAPERE AUDE! (Kant, 1784 - M. Foucault, 1984).
UNA BUONA INDICAZIONE PER METTERE IN RAPPORTO SPECIALISTI E NON E, AL CONTEMPO, DARE LA DOVUTA ATTENZIONE CRITICA AL “DOSSIER BENJAMIN di Frederic Jameson”, forse, è accogliere la seguente notazione mascitelliana: “[...] per quanto il senno di poi abbia mostrato che l’equazione benjaminiana tra estetizzazione della politica e fascismo funzioni solo negli anni Trenta, credo, in quanto concittadino di Berlusconi, di essere nelle condizioni di poter affermare che l’estetizzazione diffusa comporti anche in assenza di fascismo qualche problema per la democrazia e la politicizzazione delle masse.” (Giorgio Mascitelli, cit.). E, possibilmente, riprendere a tutti i livelli, la critica del sogno tecnologico della ragione pura!
RISALIRE LA CORRENTE. Storia Filosofia, Antropologia, Psicoanalisi, e Costituzione (2 giugno 2022).
Europa e Giubileo di Platino di Elisabetta II d’Inghilterra. Presente storico e storia di lunga durata...
Per riflettere sull’idea di sovranità (e l’individualità dello Stato), oggi, associare (come ha fatto qualcuno) la figura della regina Elisabetta II con il testo della "Filosofia del diritto" (& 279) di Hegel è un ottimo invito a svegliarsi dal sonno dogmatico (Kant) e a riaprire la questione antropologica (e teologico-politica)!
Sollecita a ripensare la storia dell’Europa quanto meno dalla disfatta della Invincibile Armada, da Elisabetta I e da Shakespeare e, ancora, da Trafalgar e da Napoleone e, infine, dal successo di Hegel di proporsi (illuminato da Napoleone a Jena, 1806) come interprete della storia dell’ "anima del mondo", come figura del "Re del mondo"!
EDIPO, TEBE, E "DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (Freud, 1929). La questione antropologica e politica su cui si arrovella Shakespeare con il suo "Amleto" è ancora l’enigma della sfinge: "Che cos’è mai un uomo se del suo tempo non sa far altr’uso che per mangiare e dormire?" (Amleto, Atto IV, Sc. 4).
Federico La Sala
KANT E LA DOMANDA ANTROPO-LOGICA: CHI SONO "IO"? *
La corona della pace
Dall’Antico Testamento ai nostri giorni
di Piero Stefani (Il Regno/Attualità, 6/2022, 15/03/2022)
Nel rito preconciliare della messa in latino, non di rado il Vangelo iniziava con questa formula: «In illo tempore Iesus dixit...». Anche ora, quando non si è nelle condizioni di riportare l’ambientazione precisa dell’episodio, si ricorre a: «In quel tempo Gesù disse...». È una clausola che riguarda il passato. Di contro, nei profeti d’Israele l’espressione «in quel giorno (ba-yom ha-hu)» si proietta verso l’avvenire (cf. Zc 14,20); lo stesso vale per «Ecco, verranno giorni» (Ger 31,31). Vi è però una formula ancor più radicale: «Alla fine dei giorni (be‘aharit ha-yamin)», ed è proprio quest’ultima a contraddistinguere l’oracolo di pace presente, in termini identici, in due diversi profeti: Isaia e Michea.
Soltanto alla fine dei giorni un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo; solo allora si smetterà di fare guerra (cf. Is 2,2-4; Mi 4,1-3). La filologia si impegna a precisare il senso dell’espressione; resta fuor di dubbio che essa riguarda il futuro. La fine dei giorni non può essere mai declinata al presente. Dunque, finché ci sono i nostri giorni, non è dato sperare nella venuta di «quei giorni»?
Sperare comporta guardare in avanti; a volte conviene però voltarsi anche indietro per comprendere i modi in cui si è concepita questa porta dischiusa verso il futuro. Per pensare bisogna avere fiducia nella ragione, per farlo in modo maturo occorre individuarne i limiti. Questo procedere si definisce critico. Esso, a fine Settecento, raggiunse il proprio vertice con Kant, il filosofo vissuto a Königsberg, l’attuale Kaliningrad, enclave russa tra Lituania e Polonia.
Per Kant le questioni fondamentali di tutta la nostra esistenza si riducono a tre: che cosa posso sapere, che cosa debbo fare, in che cosa ho il diritto di sperare. Le domande, formulate in modo semplice, ricevono tutte e tre un trattamento filosofico molto articolato; tuttavia tra esse la questione più complessa è quella relativa alla speranza. La prima domanda infatti è solo teorica e speculativa, la seconda solo pratica, mentre la terza si collega a entrambe le componenti.
Per sperare non basta sapere semplicemente come vanno le cose, né è sufficiente impegnarsi nell’agire in modo giusto: è necessario trovare il punto di tangenza tra essere e dover essere. Secondo Kant, mentre il sapere giunge alla conclusione che qualcosa è poiché qualcosa accade, la speranza conclude che qualcosa sia poiché qualcosa deve accadere.
La speranza non può appoggiarsi solo sulla descrizione della realtà e non si limita neppure a prospettare il dovere: essa è indirizzata verso un dover essere chiamato a diventare reale in virtù di una forza non totalmente sottoposta al nostro controllo. Anche se la si pensa come un progetto, la speranza non è paragonabile ai programmi la cui realizzazione dipende dall’azione di chi ora li sta mettendo in pratica. Il farsi della speranza non è paragonabile al processo che porta la materia prima a diventare manufatto. La clausola in base alla quale qualcosa sarà perché qualcosa deve accadere sta a indicare la presenza di questo salto qualitativo.
Il progetto è, ovviamente, sulla carta e non ancora nella realtà. Il passaggio dal virtuale al reale è intrinsecamente esposto a rischi; tuttavia, il più delle volte, esso è connesso a quanto si fa e non già a quel che deve accadere. La speranza ha invece bisogno di appoggiarsi a una realtà - piccola o grande che sia - posta al di là della sfera del nostro agire.
La speranza si situa nello spazio posto tra l’agire e la meta che l’opera si prefigge di conseguire. Quando questo salto è molto grande il fine può apparire utopico. Non ci è dato di controllare la forza in grado di garantire che quanto deve essere effettivamente sia. Per questa ragione la pace messianica, allorché, secondo le parole di Isaia e Michea, le armi saranno convertite negli strumenti del buon operare umano, è apparsa ai più un’utopia. La storia parla il linguaggio della guerra o al più delle tregue, non quello di una pace che non conosce tramonto.
L’ideale della pace perpetua
Nel 1795, quando l’Europa era scossa dai sussulti della Rivoluzione francese, mentre Russia, Impero asburgico e Prussia si spartivano la Polonia ed erano in incubazione le grandi guerre del periodo napoleonico, Immanuel Kant scrisse l’opuscolo Progetto per una pace perpetua. Quelle pagine non si limitano a individuare le modalità per conseguire tregue prolungate in grado di garantire una tranquilla convivenza tra gli stati; esse prospettano un esito più alto in cui la pace sarà condizione normale e permanente per tutta l’umanità.
Il libretto assume la veste di progetto fornendo regole per fondare un diritto cosmopolitico (noi diremmo internazionale) in grado di garantire a tutti una pacifica convivenza. Nelle ultime righe dell’opera si legge: «Se è un dovere, ed anche una fondata speranza, realizzare uno stato di diritto pubblico,1 anche se solo con una approssimazione progressiva all’infinito, allora la pace perpetua, che succederà a quelli che sono stati sino a ora falsamente denominati trattati di pace (propriamente, armistizi), non è idea vuota. Ed anzi sarà un compito che, assolto per gradi, si avvicinerà sempre più velocemente al suo adempimento (perché è sperabile che i periodi di tempo in cui avverranno tali progressi si faranno sempre più brevi)».
Dovere e fondata speranza assumono l’aspetto di tangenza all’infinito: non li si raggiungerà mai, ma ci si può avvicinare sempre. La vera meta diviene così un continuo camminare. In termini consoni agli addetti ai lavori, si dovrebbe parlare di uso noumenico regolativo dell’idea di pace. L’aver definito «progetto» il trattato conferma il carattere laico del pensare di Kant. In questo ambito concettuale non si spera nell’irruzione dall’esterno di un evento messianico. L’operare umano non può andare al di là di un’approssimazione all’infinito. La pace perpetua conserverà sempre l’aspetto di un ideale ancora da realizzare. Non si arriverà mai a una pace definitiva; tuttavia la tensione per giungervi avvicinerà sempre più gli armistizi a veri e propri trattati di pace.
Come stanno le cose ai nostri giorni? Le attuali guerre hanno perso le connotazioni giuridiche un tempo a esse consuete. Oggi, in pratica, non è più dato pensare a trattati che pongano fine a guerre dichiarate perché queste ultime non esistono più.
Semplicemente si fanno guerre senza prendersi la briga di dichiararle. Per alludere a Ugo Grozio e al suo capolavoro De jure belli ac pacis, è arduo stabilire le regole della pace là dove non ci sono più le regole della guerra. La guerra civile sembra essere diventata il modello di ogni tipo di scontro bellico. Nei nostri giorni, quando le armi perdono di virulenza, a prolungarsi a tempo indeterminato sono, spesso, guerre condotte «a bassa intensità» (il Donbass ha molti, crudeli parenti in giro per il mondo).
La pace messianica
Se è lecito avere nostalgia, oltre che dei grandi ideali kantiani, anche delle regole della guerra e della pace, che dire della pace messianica di cui parlò il filosofo neo-kantiano Hermann Cohen? Egli, mentre l’Europa era sconvolta dalla Prima guerra mondiale, ripensò, alla fine della sua vita, alla propria origine ebraica e scrisse un’opera - uscita postuma nel 1918 - dal titolo che evoca a un tempo sia Kant (cf. La religione nei limiti della semplice ragione) sia l’antica sapienza d’Israele: La religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo.
Essa si conclude parlando di pace; lo fa però in termini messianici e non già noumenici. La pace è il fine assoluto che non può essere mai reso puro mezzo: «La pace in quanto fine dell’uomo è il Messia, che libera gli uomini e i popoli da ogni dissidio, che appiana il dissidio nell’uomo stesso e produce infine per l’uomo la riconciliazione con il suo Dio. (...) Il messianismo è e rimane la forza fondamentale della coscienza ebraica. E il Messia è il principe della pace (...) Qual è il compendio della vita umana nello spirito della Bibbia? È la pace. Tutto il senso, tutto il valore della vita risiede nella pace. Essa è l’unità di tutte le forze vitali, il loro equilibrio, è l’appianamento di tutti i contrasti. La pace è la corona della vita».2
«Corona della vita», l’espressione ebraica shalom ‘alekhem (al pari della sua forma sorella araba) resa alla lettera significa «pace su di voi». La pace è una realtà che scende dall’alto e si posa sul capo.
Il libro di Hermann Cohen termina con queste parole: «La pace è l’emblema dell’eternità, è la parola d’ordine della vita umana, tanto nel suo comportamento individuale quanto nell’eternità della sua missione storica. In questa eternità storica si compie la missione di pace dell’umanità messianica».3 In un mondo irredento solo la speranza in una pace messianica, di cui nei momenti felici è dato gustare già qualche anticipazione (la tradizione ebraica parla del sabato come di un sessantesimo del mondo avvenire), può, forse, reggere di fronte alla catastrofe.
In un mondo lacerato dalle guerre, la sfida lanciata dalla speranza messianica ebraica al Messia cristiano definito anch’esso «principe della pace» continua, questa volta senza alcun «forse», a stagliarsi all’orizzonte. Sta alla comunità dei credenti in Gesù Cristo cercare i modi per rispondervi.
1 Vale a dire l’esistenza di un effettivo diritto internazionale.
2 H. Cohen, La religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, 636-638.
3 Ivi, 640.
*
NOTA:
ANTROPOLOGIA E CRISTOLOGIA ("ECCE HOMO").
Al vertice del "cristianesimo" (cattolicesimo costantiniano), in realtà, non ci sono - come sostiene Piero Stefani - i "quattro Vangeli canonici (nella liturgia cattolica proclamati solo da un sacerdote o da un diacono e ascoltati stando in piedi)", ma - fondamentalmente - le lettere (e l’interpretazione "andrologica" della figura di Cristo) di Paolo di Tarso: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
Questo è il problema...
Federico La Sala
Religioni.
Cosa accade se Dio perde il corpo?
Fra storia e teologia una serrata analisi della progressiva affermazione di un’idea divina acorporea in contrasto con i testi biblici. Un fenomeno che ha aperto alla secolarizzazione
di Christoph Markschies (Avvenire, mercoledì 27 aprile 2022)
Quando si affronta il tema delle differenti rappresentazioni del corpo divino, si ha a che fare non con un pensiero oggi ormai liquidato dell’immagine di Dio di antenati poco illuminati, ma con una grande corrente di tradizioni ebraiche e cristiane e pagane: affermazioni sulla corporeità di Dio s’incontrano quasi a ogni pagina della Bibbia ebraica e cristiana e sono quindi ancor oggi un’eredità comune all’ebraismo e al cristianesimo, anche se dal medioevo queste tradizioni sono state via via rimosse e tolte di mezzo perché considerate ingenue.
Abbiamo visto che non possono essere interpretate semplicemente come concezioni antropomorfe ingenue; secondo queste tradizioni bibliche la corporalità è il culmine dell’operato di Dio in senso del tutto intenzionale - come già mostra la concezione che caratterizza il cristianesimo, di Dio che si fa uomo nella persona di Gesù di Nazaret. L’idea che la corporalità non solo si trova al culmine delle opere di Dio ma anche dice di Dio qualcosa di fondamentale, che è ciò di cui si parla nella tradizione ebraica e cristiana, è in ogni caso un’idea irrinunciabile se solo si vogliano prendere sul serio queste affermazioni bibliche. Detto in altre parole: il Dio testimoniato negli scritti biblici non può essere ridotto senza perdita sostanziale a essere incorporeo, assolutamente trascendente, come di solito avviene nella tradizione di un’interpretazione platonica della Bibbia.
Nelle tradizioni ebraiche e cristiane come in quelle religiose pagane si possono distinguere, con Marco Frenschkowski, tre forme nel discorso sulla corporeità di Dio: in primo luogo una forma «"epifaniale" (come possono apparire gli dei? Rientrano in ciò anche le tradizioni su cibi degli dei, ecc.)»; in secondo luogo una forma ’cosmica’ (il cosmo come corpo vivo della divinità), non necessariamente da intendersi in senso panteistico; in terzo luogo la forma «di un metaforismo monarchico del trono, per il quale i celebri testi attinenti allo Shi”ur Qoma sono da intendere come la versione più intensa, che com’è noto non è documentata unicamente nel giudaismo e inoltre reca in sé un corredo di altre illustrazioni degli dei». (...)
Il quadro tuttavia è esauriente nella misura in cui si è chiarito che nell’antichità pagana, ebraica e cristiana - a differenza del medioevo e dell’età moderna - tali rappresentazioni erano del tutto ovvie e le si poteva incontrare sia tra gli intellettuali sia tra la gente comune. Non si potrà certo contestare che nei testi biblici (e non solo) la concezione di una corporeità di Dio faccia parte di un’immagine del mondo mitica. Comunque si definisca la difficile nozione euristica di "mito", la sua caratteristica è che tutto vi è pensato come unità di materiale e spirituale, naturalmente anche il mondo degli dei e gli dei stessi. Il mito, inoltre, non conosce fondamentalmente confini, in quanto - come le misure fornite nei testi attinenti allo Shi”ur Qoma - oltrepassa ogni possibile confine di spazio e tempo. Quando secondo questi principi costruttivi si raccontano storie di dei rappresentative, che nella forma di racconti delle origini, di eventi decisivi o di trasformazioni mirano a spiegare il presente, per quanto vi si cerchi di sottolineare il confine tra dei e uomini, tali confini sono anche vaghi: gli dei agiscono come uomini e agiscono con un corpo, così come gli uomini agiscono con un corpo.
Negli ultimi decenni si è fatto chiaro che per l’antichità non si può in ogni caso descrivere tale immagine mitologica del mondo nei termini del semplice dualismo di alternativa ben definita al pensiero razionale (parlando per esempio di "infantile" o di "prerazionale"); l’immagine comporta anche risultati di una spiegazione razionale di Dio, mondo e uomo, che si accompagna peraltro a un sapere quotidiano poco elaborato e a esperienze comuni immediate. A questo punto è necessario avere chiaro che tale "razionalità" del mito corrispondeva a criteri di razionalità del tempo, che in tempi posteriori vennero recepiti soltanto in parte.
L’idea moderna che nelle concezioni bibliche della corporeità divina siano contenuti anche residui di un’immagine mitologica di Dio ha ulteriormente approfondito per il pensiero religioso la problematica dello iato fra i dati storici e le concezioni odierne di Dio. In una celebre conferenza tenuta in circostanze storiche particolari nell’aprile del 1941, il neotestamentarista Rudolf Bultmann (1884-1976) non solo affermava che l’«immagine del mondo del Nuovo Testamento è... mitica» (senza peraltro accennare all’idea della corporeità divina), ma anche faceva osservare che è impossibile «ripristinare l’immagine mitica del mondo», anche se in essa «si riscoprono verità che in tempi di illuminismo sono andate perdute». Nella conferenza ricorrevano affermazioni forti, che suscitarono un dibattito acceso: «nessuna persona adulta si rappresenta Dio come essere che sta in alto nel cielo; il ’cielo’ nel senso degli antichi per noi non esiste più». A mo’ di cantus firmus l’aggettivo erledigt (tolto di mezzo, liquidato) accompagna la prima parte della conferenza di Bultmann.
Per il collaudato marburghese, fra le rappresentazioni tolte di mezzo figura anche l’idea di provenienza platonica di un Dio pensato in termini meramente spirituali, che agisce in un mondo caratterizzato e condizionato dalla "corporalità naturale": «Chi comprenda se stesso in termini meramente biologici non capisce che qualcosa di soprannaturale, il pneuma, possa in generale intervenire ed essere attivo nel sistema unitario delle forze naturali». Da questa situazione (e dalla natura stessa del mito) consegue per Bultmann il compito della "demitologizzazione" del discorso teologico. Già nel 1925, riprendendo e interpretando in senso esistenzialista idee di Lutero e di Kierkegaard, Bultmann aveva formulato il principio fondamentale: «se si vuole parlare di Dio, si deve evidentemente parlare di se stessi».
Con simili premesse anche qualsiasi enunciato sulla corporeità divina è ovviamente "liquidato", poiché non rispetta i limiti argomentativi che l’opinione comune odierna impone al discorso. A sostegno di questo modo di vedere si potrebbe anche aggiungere che le rappresentazioni della corporeità di Dio, per quanto riguarda i particolari del corpo, sono rimaste ferme a tempi premoderni, come Robert Musil (1880-1942) affermava senza mezzi termini nel suo romanzo L’uomo senza qualità (1930/32): «Dio è profondamente non moderno: non possiamo pensarlo in frack, ben rasato e con la riga in mezzo, ma alla maniera dei patriarchi».
Il problema per cui nel discorso religioso su Dio vengono fatte affermazioni che soltanto in parte corrispondono a criteri odierni di razionalità non riguarda tuttavia unicamente l’idea di una corporeità divina. Lo mostrano i violenti scontri suscitati dalla polemica del filosofo Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) contro le idee di una personalità e sostanzialità di Dio, che fecero seguito alla pubblicazione di un suo saggio nel 1798 - si sta parlando del cosiddetto Atheismusstreit, la controversia sull’ateismo che al professore ienese costò la cattedra. Negli scontri in questione si fece chiaro che gli argomenti addotti fin dall’antichità contro l’idea della corporeità di Dio potevano frattanto essere portati anche contro il discorso della sua sostanza in quanto sostanza particolare ontologicamente diversa da ogni altra sostanza: già nel primo saggio che aveva suscitato la controversia Fichte sosteneva che la nozione di sostanza implica rapporti con spazio, tempo ed estensione, così che l’idea di un Dio sostanza in sé sussistente sarebbe insostenibile. Dio è una sorta di nozione limite di un ordine morale del mondo, che di conseguenza non può essere espresso mediante il predicato di "sostanza" o altri che vi si riferiscano. La concezione di un Dio sviluppata a partire da queste obiezioni, secondo la quale - come osserva in una lettera privata il pastore riformato zurighese Johann Caspar Lavater (1741-1801) - «non può dire: Io sono, un Dio che non è persona, che non ha esistenza, che nulla fa e non dà nulla», è la concezione che nelle sue risposte alla controversia Fichte non ha modificato, ma semmai ha accentuato.
Affermare che l’idea di una corporeità divina è inattuale e che di fronte alla cultura odierna della razionalità può dirsi "liquidata", è formulare un giudizio filosofico più o meno fondato, non è descrivere nell’ottica di una storia delle religioni la religiosità vigente. (...) L’Europa dell’età moderna conosce modi di fondare la dignità inalienabile dell’uomo che non solo rinunciano all’idea di un corpo divino ma anche a una fondazione ultima sul divino in generale. Vista così, la scomparsa progressiva della concezione di un corpo divino appare nella storia della cultura come la prima grande spinta alla secolarizzazione per quanto attiene all’idea di Dio.
Premessa
Elenco delle sigle
1. Il corpo di Dio dopo la fine dell’antichità
2. Il corpo di Dio nella Bibbia ebraica e cristiana e nei primi teologi cristiani
3. Il corpo di Dio e le statue degli dei nell’antichità
4. I corpi degli dei e i corpi delle anime nella tarda antichità
5. Il corpo di Dio e la mistica giudaica tardoantica
6. Il corpo di Dio nella teologia cristiana tardoantica
7. Il corpo di Dio e la cristologia antica
Conclusione. Rappresentazioni di Dio tolte di mezzo?
Bibliografia secondaria [...]
L’Europa, la guerra, la pace, e il disagio della civiltà...
UNA QUESTIONE DI LUNGA DURATA: INIZIO DELLA FINE DEL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO (LORENZO vALLA, 1440), "LA DOTTA IGNORANZA" (NICCOLO’ CUSANO, 1440) E "LA PACE DELLA FEDE" (NICCOLO’ CUSANO, "De Pace Fidei",1454)...
GIORNI FA (IL 24 MARZO 2022) E’ STATO DATO CONTO DELLA SCOPERTA DI UNA EPIGRAFE DELLA VISITA, AVVENUTA NEL 1452 A SERMONETA (LATINA), DELL’IMPERATORE DEL SACRO ROMANO IMPERO, FEDERICO III D’ASBURGO (PADRE DI MASSIMILIANO I). DA RICORDARE CHE L’ANNO SUCCESSIVO, NEL 1453, CI FU L’ASSEDIO, LA CADUTA, E LA CONQUISTA DI COSTANTINOPOLI E, NEL 1492, IN SPAGNA, NON CI FU SOLO L’AVVIO DELL’AVVENTUROSA "SCOPERTA DELL’ AMERICA", MA ANCHE E SOPRATTUTTO LA FINE DELLA GUERRA DI GRANADA E DELLA RECONQUISTA...
BRUXELLES, 1477: “[...] Il Molinet paragona l’imperatore Federico [III d’Asburgo] che manda suo figlio Massimiliano a sposare Maria di Borgogna, con Dio Padre che manda suo figlio in terra, e non risparmia termini religiosi per descrivere il viaggio dello sposo. Quando più tardi Federico e Massimiliano entrarono a Bruxelles col giovane Filippo il Bello, i Brussellesi, narra Molinet, avrebbero detto colle lagrime agli occhi: «Veez-ci figure de la Trinité, le Père, le Fil et Sanct Spirit». Il Molinet stesso offre una corona di fiori a Maria di Borgogna, come alla degna immagine della Madonna, «a parte la verginità».
«Non che io voglia deificare i principi», dice questo arcicortigiano. Può darsi che si tratti effettivamente di vuote frasi più che di venerazione realmente sentita, ma esse attestano ugualmente come l’uso quotidiano di termini sacri finisse per svalutarli. Del resto non sarebbe giusto rimproverare un poetastro di corte, quando un [Jean de] Gerson stesso attribuisce ai principeschi ascoltatori delle sue prediche speciali angeli custodi più elevati in grado di quelli degli altri mortali” (Johan Huizinga, “L’autunno del Medio Evo”, Sansoni Editore, Firenze 1978).
IL RINASCIMENTO, COME FINE DELL’AUTUNNO DEL MEDIO EVO
Mettendo insieme, con l’aiuto di Raffaello e Michelangelo, gli elementi dell’idea di famiglia di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, il Rinascimento mostra essere un "canto del cigno" dell"autunno del Medio Evo (Johan Huizinga). Il 1517, con le 95 Tesi di Lutero, non è lontano...
Questo, il problema: nonostante la grandezza della concezione teologica ed artistica della sacra famiglia che sta alla base della stessa costruzione della Cappella Sistina (1475/1481) prima e della operazione di Michelangelo dopo (1508-1512), ciò che viene detto e comunicato anche con il riferimento nei disegni dietro i ritratti di Raffaello (Agnolo Doni e Maddalena Strozzi: 1504-1508) è una dottrina fondata sulla dotta ignoranza (Niccolo Cusano, 1440), fiammingamente ispirata, di come nascono i bambini (Diluvio, Deucalione e Pirra): il problema dell’incarnazione e della nascita del Messia è ancora letta dal cardinale Cusano come da teologi e teologhe di oggi secondo la lezione dell’antropologia tebana, del codice della tragedia greca (Socrate, Platone, e Aristotele)!
Che dire? Che fare? Per il Sorgere della Terra, una linea di fuga messianica è proprio nella cornice del Tondo Doni. Dare a Giuseppe ciò che è di Giuseppe e a Maria ciò che è di Maria. La storia non è fatta da quattro profeti, ma due sibille e due profeti...
Federico La Sala
LA RIVOLUZIONE FRANCESE, HITLER, E "LA STRANA DISFATTA". Una storia di lunga durata...
Marc Bloch così concludeva la sua riflessione sulla "strana disfatta": «Hitler diceva, un giorno, a Rausching: "Facciamo bene a speculare più sui #vizi che sulle virtù degli uomini. La Rivoluzione francese si richiamava alla virtù. Sarà meglio per noi fare il contrario". Si perdonerà a un Francese, cioè a un uomo civile - che è la stessa cosa - di preferire, a questo insegnamento, quello della Rivoluzione e di Montesquieu: "In uno Stato popolare è necessaria una forza, che è la virtù"»(Marc Bloch,"La strana disfatta. Testimonianza scritta nel 1940").
Appunti sul tema, nel sito, si cfr.
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
FLS
COSMOTEANDRIA E SONNO DOGMATICO: SCHOPENHAUER E IL MACROANTROPO, IL CORPO MISTICO DEL MONDO.
Storia della filosofia
Le considerazioni di Schopenhauer sulla sua filosofia
di Saverio Mariani (Ritiri Filosofici, 20 Febbraio 2022)
In quella che abbiamo definito (almeno in parte) un’opera a sé stante di Arthur Schopenhauer, il filosofo tedesco si pone nella posizione di commentare il suo contributo filosofico in relazione alla storia della filosofia nella quale sente di ricoprire un posto. Nei Supplementi a «Il Mondo come volontà e rappresentazione» infatti, Schopenhauer è franco, diretto, in alcuni passaggi appare “scocciato” da un certo ambiente filosofico. Ci sono ampi passi dell’opera nei quali entra in un dialogo nient’affatto morbido con la filosofia del suo tempo. -L’ultimo capitolo dei Supplementi, il cinquantesimo, è sintomatico essenzialmente di due cose: dell’enorme contrasto che Schopenhauer ha vissuto con l’ambiente filosofico tedesco e del rapporto ambivalente con Spinoza [1]. Entrambe queste cose, a ritroso potremmo dire, ci permettono di capire ancora meglio quanto nelle pagine precedenti l’autore ha trattato con dovizia e una acutezza importante. In queste poche pagine l’autore condensa alcune coordinate fondamentali per apprezzare lo sforzo immane che nel Mondo e poi nei Supplementi egli ha compiuto.
Filosofia immanente ed esperienza
In apertura del capitolo Schopenhauer dice esplicitamente che, prima di chiudere, c’è ancora qualche considerazione sulla sua filosofia che si può svolgere. Ancora una volta, per i motivi che abbiamo già indagato, egli rivendica l’aderenza «ai dati di fatto dell’esperienza esteriore e interiore» (Schopenhauer 2013, 817), quasi a rimarcare la solidità delle premesse di tutto il suo ragionamento. Ciò che è fuori dell’esperienza non è oggetto della filosofia: la filosofia per questo è immanente, ovvero si occupa di ciò che è all’interno della sfera dell’esperienza («nel senso kantiano del termine», scrive).
Tuttavia, persistono delle domande che non possono non essere prese in considerazione; domande che però evadono il campo dell’esperienza e quindi si pongono su un livello diverso rispetto alla filosofia immanente di cui Schopenhauer si fa promotore. Sono le stesse questioni che Kant riconosceva come oggetto della metafisica, alle quali quindi il Principio di ragione - che per l’autore è «l’espressione della forma più generale e costante del nostro intelletto» (Schopenhauer 2013, 818) - non può rispondere. È il tentativo di applicare il Pdr a elementi esterni all’esperienza che ci porta a sbattere contro problemi senza soluzione, «contro le pareti del nostro carcere». L’imperscrutabilità di queste domande, si badi bene, è assoluta, non relativa: in nessun luogo e in nessun tempo si potrà dare, per mezzo dell’intelletto umano, una risposta a tali questioni. Questa zona insondabile non rientra nella forma della conoscenza, e per dare conto di ciò Schopenhauer si affida alle parole di Scoto Eriugena nel De divisione naturae: «Della meravigliosa divina ignoranza, per la quale Dio non capisce che cosa Egli stesso sia» (Schopenhauer 2013, 819).
Quello che sfugge è dunque l’essenza delle cose, una essenza che non è «conoscente, non è intelletto, bensì un’essenza priva di conoscenza», di essa se ne può avere una comprensione parziale, non «esauriente e capace di soddisfare ogni esigenza». Ma questo, conclude Schopenhauer, «concerne i limiti della mia e di ogni filosofia» (Schopenhauer 2013, 819-820).
L’unità
Fatte tutte queste premesse, Schopenhauer compie un passo in avanti. Scrive infatti che l’unità e unicità dell’essenza delle cose è qualcosa di già concepito da tempo: «gli Eleati, Scoto Eriugena, Giordano Bruno e Spinoza lo avevano ampiamente insegnato e Schelling aveva rinfrescato questa dottrina» (Schopenhauer 2013, 820). Il che cosa sia questa unità (Uno) e come si manifesti nella molteplicità (ovvero come si compia il processo di rarefazione da Uno a Molti), sono questioni «la cui soluzione si trova per la prima volta nella mia filosofia».
La svolta si ha grazie a un rovesciamento del punto di vista e al contempo del principio su cui si incardina la comprensione del mondo: non è l’uomo ad essere un microcosmo, piuttosto è il mondo ad essere un «macroantropo». Il mondo si comprende a partire dall’uomo, da ciò che è immediato (l’autocoscienza), per poi passare a quel che è mediato, ovvero all’intuizione esterna.
Il metodo analitico che Schopenhauer rivendica - installato nel quadro ineluttabile dell’esperienza - apre una nuova visuale filosofica nella quale i dati immediati della coscienza, come li chiamerà Bergson qualche anno dopo, ci mostrano la rete di rapporti e il tessuto che ci tiene connessi l’uno all’altro: la volontà.
Se questa posizione può sembrare affine a quella della filosofia panteista, Schopenhauer prende subito le distanza mostrando come esistano sì dei punti di contatto ma anche dei decisivi punti di distanza. Innanzitutto il metodo di conoscenza, ma anche la ricomprensione del male e delle storture del mondo nella “perfezione” di Dio o della Natura. Inoltre, scrive Schopenhauer «per i panteisti il mondo dell’intuizione, ossia il mondo come rappresentazione, è appunto una manifestazione intenzionale del Dio che abita in esso, ma questo non include alcuna spiegazione autentica del suo prodursi» (Schopenhauer 2013, 821-822).
Spinoza
Le riflessioni generali sui panteisti non sono che i prodromi del confronto che Schopenhauer sente di dover avere con Spinoza, e con il quale chiuderà la sua opera.
Dopo la critica kantiana, sostiene Schopenhauer, «i filosofanti tedeschi si sono nuovamente gettati quasi tutti su Spinoza», costruendo di fatto una filosofia post-kantiana che «altro non è che spinozismo agghindato senza gusto, avviluppato in discorsi incomprensibili d’ogni sorta e in vario modo deformato» (Schopenhauer 2013, 822). Il giudizio è sferzante, netto, inequivocabile e pienamente nello stile schopenhaueriano.
Il rapporto che c’è fra Spinoza e Schopenhauer, dice quest’ultimo, è quello che intercorre fra il Vecchio e il Nuovo Testamento: per entrambi «il mondo esiste per sua forza interiore e da se stesso». Ma se Spinoza si è limitato a spersonalizzare Jehova, il Dio-Creatore del Vecchio Testamento, la Volontà schopenhaueriana - «intima essenza del mondo» - è Gesù crocefisso, o il ladrone crocefisso al suo fianco. In Spinoza, infatti secondo Schopenhauer, il Deus è una perfezione di cui rallegrarsi, un’unità dalla quale nulla fuoriesce e tutto è divino. «Quello di Spinoza è ottimismo» (Schopenhauer 2013, 823); ottimismo a cui Schopenhauer guarda con sospetto, poiché tanto il neo-spinozismo, quanto ogni altra dottrina che riconduce l’esistenza del mondo a una qualche necessità assoluta, tanto le dottrine di chi crede che il mondo sia il frutto della creazione benevola di un Dio, ci pongono nell’alveo del fatalismo.
Schopenhauer sostiene di essere il primo ad aver liberato la filosofia da questo vincolo, perché «l’atto di volontà dal quale scaturisce il mondo è il nostro. È un atto libero, giacché il principio di ragione, dal quale solamente ogni necessità riceve il proprio significato, è la mera forma della sua manifestazione fenomenica» (Schopenhauer 2013, 824). E per questo nel momento in cui essa esiste si dipana secondo necessità. Il piano della rappresentazione, dunque, governato dal Principio di ragione ci mostra come necessario qualcosa che è invece, naturalmente, libero. La nostra libertà - conclude Schopenhauer - sta nell’arretrare alle spalle della rappresentazione, immergersi nella «costituzione di quell’atto di volontà e conseguentemente eventualiter volere altrimenti». In altre parole, risiede in quello “spazio” pre-umano che pone le condizioni del nostro mondo come rappresentazione.
Su quest’ultimo punto, per quanto Schopenhauer scriva, Spinoza risuona forte insieme a una piccola schiera di filosofi per cui la molteplicità è il mondo e la porta di accesso alla sfera comune entro la quale tutti ci ritroviamo a bagno sentendoci finalmente liberi.
Note:
[1] Su un altro rapporto ambivalente nei confronti di Spinoza ho provato a dare conto in: Bergson duplice. Spinoza nemico-amico della filosofia della durata, in Lo sguardo n. 26-2018 (I): http://www.losguardo.net/it/bergson-duplice-spinoza-nemico-amico-della-filosofia-della-durata/
Bibliografia:
Schopenhauer 2013: A. Schopenhauer, Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione», trad. Giorgio Brianese, Einaudi, 2013
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
SPINOZA, UN "FIGLIO" DEL "DEUS", NON UN "FIGLIO" DEL "LUPUS" (A FIANCO DI KANT, NON DI HEGEL).
Federico La Sala
Dante 2021: Disagio della civiltà e discorso dei due Soli (del papa della chiesa cattolica e del presidente della repubblica italiana).
Antropologia Filologia e Ricapitolazione. In memoria di Giovanni Garbini, William Shakespeare, Galileo Galilei, Sigmund Freud, Judith-VirginiaWoolf, Joyce 2022...
AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE (Cantico dei cantici, 8.6). L’amore non è lo zimbello del tempo...
QUESTIONE ANTROPOLOGICA: ECCE HOMO. L’ Amore "vince tutto": MA quello antropologico-evangelico di Gesù o quello andrologico di Paolo di Tarso ("di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio": 1 Cor. 11, 1-3)?!
SE DIO è amore ("Deus charitas est"), e "non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" ("non est Iudaeus neque Graecus, non est servus neque liber, non est masculus et femina; omnes enim vos #unus estis in Christo Iesu" - Galati, 3.28), NON "È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010)?!
A che gioco giochiamo, ancora?!
Non è ora di uscire dal tunnel (Dante Alighieri, Inf. XXXIV, 90)?!
Dopo Tebe, l’enigma della sfinge di Edipo non è stato risolto nemmeno con l’andata di Freud e Jung negli Usa! E l’intera umanità non ha ancora compreso né come nascono i bambini né che cosa significa vedere e aver visto il sorgere della terra!
Federico La Sala
ANCORA
IL #REGIME DELL’#UNO
E
LA #DOTTA IGNORANZA
!"#Dio non gioca a #dadi"
ma, dopo la #lezione di
#Georges de La Tour,
l’#Uno
è ancora
il più sfuggente
e misterioso
tra i #numeri?
#A che gioco giochiamo?!
Scheda editoriale *
GIULIO BUSI
Uno
Il battito invisibile
L’Uno ci avvolge, pulsa in noi. Troviamolo. L’Uno è stupore, incompletezza, mistero. A tratti, in una grande sventura o in una gioia profonda, per caso o dopo avere cercato a lungo, ci rendiamo conto d’essere parte di un tutto che ci sovrasta, ci avvolge e allo stesso tempo si sottrae alla nostra comprensione. Lo sentiamo, il tutto, senza poterlo distinguere con esattezza. Sebbene non ci sia consentito misurarlo con la ragione, ci pare quasi di toccarlo, tanto è vicino, intimo. Vecchie storie bibliche, sogni di mistici, saggezza indiana, inquietudini dei filosofi greci, poesia del Novecento. Sono i bracci di un fiume immenso e segreto, che questo libro risale passo dopo passo in cerca dell’Uno, del suo fulgore, del suo battito lieve, profondo, invisibile. L’Uno, il più sfuggente e misterioso tra i numeri.
Giulio Busi è esperto di mistica ebraica e di storia rinascimentale, insegna Giudaistica alla Freie Universität di Berlino. Collabora da molti anni alle pagine culturali del «Sole 24 Ore». Per il Mulino ha pubblicato «Indovinare il mondo. Le cento porte del destino» (2021).
* Fonte: Il Mulino
MEMORIA DELLA LIBERTÀ E DELLA COSTITUZIONE: LA LEZIONE DI RITA LEVI MONTALCINI.E SIGMUND FREUD.
Antropologia, matematica, filosofia, e "disagio della civiltà" e nella civiltà (Sigmund Freud, 1929).
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana...
Nel breve testo dalla intervista a Rita Levi Montalcini
ci sono straordinarie indicazioni di una strada aperta e di un cammino che non riguarda solo le donne e che riguarda tutti gli ambiti della società ancora oggi (2022) segnata dall’ombra di Platone (Adriana Cavarero, "NONOSTANTE PLATONE figure femminili nella filosofia antica", 1990). Una storia di lunga durata e una questione antropologica all’ordine del giorno...
Per uscire dall’orizzonte della cosmoteandria e dalla matematica della tradizione tragica di Edipo (Freud) e dalla Accademia di Platone, questo è il problema di tutti i problemi, le colonne d’Ercole da superare: riconoscere l’autodeterminazione, la libertà di disporre di sé a ogni essere umano, alla donna come all’uomo.
Non si possono truccare le carte e le regole del gioco per l’eternità!
DIVINA COMMEDIA. Il problema è proprio quello di non perdere la memoria, la coscienza e la ragione, e, non ricadere nel sonno eterno, del Faraone (e della Faraona), del Re e della Regina! In principio era il Logos - la Costituzione, non il logo di una fattoria, di una religione ...
Edipo non solo scioglie l’enigma della sfinge, ma soprattutto vuole sciogliere il nodo più grande che è quello con la madre-regina e di una Legge incestuosa...
La lotta di Rita Levi Montalcini con il padre richiama la lotta di Sigmund Freud con il padre! Alla fine, entrambi hanno saputo distinguere tra la Legge del Faraone e la Legge di Mosè.
Senza l’interpretazione dei sogni del Faraone, Freud non sarebbe mai arrivato a Londra e l’opera "L’uomo Mosè e la religione monoteistica" non avrebbe mai vista la luce (1938)!
#COSMOTEANDRIA E #ANTROPOLOGIA.
L’#autodeterminazione, la #libertà
di disporre di sé,
è
dell’#uomo come della #donna,
ma l’#Europa pensa come se vivesse
in una #terra piatta, nel suo #mare nostrum.
Non ha ancora visto il #Sorgere della Terra?!
PSICOANALISI: STORIA E STORIOGRAFIA. UN INVITO...
... A RIPARTIRE proprio da "Mosè e il monoteismo", da questa affermazione "difensiva" di Freud (a Charles Singer, del 31 ottobre 1938): "Un uomo vecchio non può avere idee nuove; non gli resta altro che ripetersi"!
INTERPRETARE BENE E, AL CONTRARIO, CAPOVOLGENDO LO SGUARDO, RILEGGERE PROPRIO A PARTIRE DAL CORAGGIO DI QUESTA ULTIMA OPERA (portata a compimento a Londra e pubblicata ad Amsterdam nel 1938), non solo TOTEM E TABU’ ma la stessa INTERPRETAZIONE DEI SOGNI.
Solo così lo straordinario "mosaico" dell’ampio e profondo lavoro archeologico di Sigmund Freud può apparire alla luce in tutta la sua audacia e brillantezza antropologica, filosofica e scientifica.
IL MONOTEISMO DI UNA LINGUA E DI UNA RELIGIONE E IL PROBLEMA MOSE’...
Il lavoro archeologico (e psicoanalitico) di Freud, a mio parere, non mira a "criticare" la propria o un’altra "lingua-religione" per imporre la sua "religione-lingua" (nonostante tentazioni nel suo percorso e di molti suoi psicoanalisti "seguaci" ci siano state e ci sono ancora), ma a "trovare" e capire la sorgente antropologica comune a tutte le "lingue-religioni", sì da evitare illusioni di fondamentalismo "linguistico-religioso", proprie del monoteismo faraonico (narcisistico ed edipico) di tutte le religioni e dialogare con tutte le altre "lingue-religioni".
USCIRE DALL’INFERNO. In questo Sigmund Freud è molto prossimo alla sollecitazione già e anche di Dante Alighieri (ricordare la sua Divina Commedia e la sua Monarchia e la lezione sui Due Soli) che ha criticato fortemente e duramente il patto di alleanza di lunga durata della Chiesa Cattolica con Costantino e s’interrogava su come entrare in comunicazione, in dialogo con altri esseri umani di terre lontane e di lingue diverse...
SAPERE AUDE! (Kant): AVERE IL CORAGGIO DI SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA - FINO ALLA FINE...
Sigmund Freud: "[...] Dunque, debbo rischiare" (Lettera a Charles Singer del 31 ottobre 1938)! A partire da "Mosè e il monoteismo" rileggere "Totem e Tabù", non viceversa!
Contrariamente a quanto Freud stesso dice ("io sono un incredulo radicale"), per lo più, si è finito per credere alla sua mezza verità, che l’opera sia una semplice ripetizione di vecchie idee: un giudizio assolutamente offensivo per Freud e autodistruttivo per la psicoanalisi!
Come se l’opera su "L’uomo Mosè e la religione monoteistica" non fosse mai stata scritta e Freud non fosse mai arrivato a Londra !
P. S. - GIOGO E GIOCO: REPRESSIONE, ESPRESSIONE, E DISAGIO NELLA CIVILTA’...
STORIA E CULTURA. Non è un caso che lo storico olandese, Johan Huizinga abbia scritto, nel 1935, "La crisi della civiltà" e tre anni dopo, nel 1938, un’opera fondamentale sul "gioco come funzione sociale", intitolata Homo Ludens. E, nello stesso anno, Freud riesce a raggiungere Londra e ad Amsterdam pubblica la sua ultima opera su "Mosè e il monoteismo".
Questioni teoretiche
Cantiere Spinoza
di Maurizio Morini (Ritiri Filosofici, 16 Gennaio 2022)
Così come per qualsiasi altra occupazione, anche in filosofia sono necessari strumenti adeguati per fare bene il proprio lavoro, tali soprattutto da superare le difficoltà che presto o tardi sempre si dovranno affrontare. In questo senso uno dei suoi strumenti principali è il concetto di definizione, stabilire il quale non è neutrale ed implica delle conseguenze decisive. Chi delle definizioni ha fatto l’essenza del proprio filosofare è stato Spinoza il quale ha costruito l’intero suo edificio proprio grazie al metodo geometrico. Molti però, tra gli stessi filosofi, ne hanno dichiarato l’inutilità o addirittura l’artificiosità. Adorno nelle sue lezioni confessava che, di fronte alle definizioni del filosofo olandese, si trovava «del tutto disorientato, come la mucca di fronte alla porta nuova». Il filosofo della Dialettica dell’Illuminismo finiva poi per dichiarare che in filosofia ci sono dei concetti che non sono passibili di definizione con la conseguenza che la sua ricerca era inutile. Adorno si rifaceva esplicitamente a Kant il quale aveva sostenuto a sua volta una ben precisa critica della definizione così come utilizzata in filosofia. Solo al termine delle sue lezioni, guardando ai risultati della filosofia contemporanea, Adorno (in maniera onesta) sembra spezzare una lancia a favore della definizione e addirittura ritirare la propria tesi.
La definizione in Aristotele e in Kant
Da un punto di vista etimologico, la parola definizione è composta dalla preposizione de e dal nome finis: discorso sul limite. La definizione quindi indica i confini entro i quali è racchiusa l’essenza o il concetto di qualche cosa. Essa pertanto deve cogliere gli aspetti comuni o differenziali di una certa cosa: in altre parole, la definizione si intende secondo il genere e la differenza specifica. Questa impostazione risale ad Aristotele il quale affermava che c’è definizione solo quando il termine significa qualcosa di primario, ovvero quando si parla di cose che non possono essere predicate di altre. Il genere è il primo elemento della definizione (dove per genere si intende il complesso di caratteri di un certo tipo riuniti sotto un certo nome); la differenza specifica invece, ciò invece che caratterizza la cosa che si intende definire rispetto a tutte le altre.
Kant, nella Dottrina trascendentale del metodo, assume un’altra prospettiva, per comprendere la quale è necessario distinguere due usi della ragione: il primo riguarda l’uso della ragione in base a concetti; il secondo l’uso della ragione in base alla costruzione di concetti. Al primo uso viene dato il nome di filosofia; al secondo il nome di matematica. In quest’ultima i concetti sono già determinati a priori dall’intuizione pura, senza che via sia necessario alcun dato empirico; la filosofia invece non può prescindere dall’esperienza in quanto essa sta a fondamento dei concetti. Posto ciò, Kant conclude che la fondatezza della matematica poggia su definizioni, assiomi e dimostrazioni, nei confronti dei quali la filosofia deve fare a meno («come il geometra, usando il suo metodo nella filosofia, non può costruire che castelli in aria, così il filosofo, applicando il proprio nella matematica, non dia luogo che a chiacchiere»). Kant sostiene che in filosofia la definizione non può essere utilizzata proprio perché i concetti empirici, più che essere definiti, andrebbero resi espliciti, chiariti, dichiarati (tutti termini che in tedesco fanno riferimento al termine Aufkärung). Sono fuori strada quindi tutti coloro che utilizzano termini come sostanza, causa, diritto: in altre parole una vera e propria stroncatura della filosofia di Spinoza.
La definizione in Spinoza
Cosa diceva Spinoza in merito? «Se si deve conoscere una cosa attraverso la definizione costituita da genere e differenza - scrive nel Breve Trattato - non possiamo mai perfettamente conoscere il genere supremo, che non ha alcun genere sopra di sé» (KV, I, 9). Piuttosto, bisogna seguire la vera logica, ovvero la divisione della natura in natura naturans e natura naturata.
Ma è in una corrispondenza epistolare, quella intrattenuta con un giovane mercante di Amsterdam, Simone De Vries, che Spinoza chiarisce meglio il suo pensiero. Chiesto su che cosa dovesse intendersi per definizione, egli rispondeva che bisogna distinguere la definizione della cosa in senso reale, in quanto fuori dall’intelletto, e la definizione della cosa in quanto è concepita in senso nominale. Alla prima si chiede di essere vera in quanto ha un oggetto determinato; la seconda si propone invece al solo scopo di ricerca. In altre parole: il primo genere di definizione deve essere necessariamente vero in quanto, se io ad esempio voglio definire l’essenza del tempio di Salomone, devo stabilire una descrizione esatta della cosa (altrimenti si ha una cattiva definizione). Il secondo tipo di definizione implica invece che si esplichi la sua progettualità, non importa che essa sia vera o no: in questo caso la definizione o si concepisce oppure non si concepisce. Chiariamo con un esempio: un conto che io debba definire l’orologio a parete che ho di fronte a me; un’altra è che io debba definire un orologio a parete che devo ancora costruire, in cui ciò che importa è che la sua costruzione non sia autocontraddittoria, tale cioè da renderlo inservibile allo scopo.
Il problema, insiste Spinoza, consiste nel fatto che la definizione tradizionale (quella aristotelica, che distingue genere e differenza specifica) riposa essenzialmente sull’esperienza, la quale però «non ci dà alcuna essenza delle cose», sicché noi dell’esperienza non abbiamo mai bisogno per la definizione. Infatti - si potrebbe dire - come si potrebbe definire una cosa soggetta al continuo divenire? Lo potremmo fare solo fingendo, per esigenze legate a questioni pratiche, come quello di intendersi su ciò di cui si sta discutendo. La prospettiva dunque sembra avvicinarsi a quella kantiana per poi però allontanarsi in modo radicale: se il tedesco sosteneva che l’esperienza è l’unico campo della filosofia (e per questo rinunciava alla definizione), l’olandese sosteneva che, proprio perchè l’esperienza non era l’unico campo della filosofia, la definizione era essenziale.
Un sistema aperto non una cattedrale di ghiaccio
Se il dialogo tra Spinoza e il suo giovane amico non può essere considerato un dialogo tra sordi, non si può non riconoscere però che i due parlano linguaggi diversi. Da esso si ricavano alcune impressioni (vedi le lettere 8, 9 e 10 dell’epistolario), soprattutto in merito all’oggetto della loro discussione, cioè le proposizioni dell’Etica.
La prima è che l’intero dialogo sulla definizione (tema piuttosto acceso nel circolo spinoziano, come ammette De Vries) è fondato sull’intelletto come strumento per accedere alla verità: cosa che oggi è talmente lontana dalla nostra sensibilità filosofica che facciamo difficoltà a seguirlo e a comprenderlo pienamente.
La seconda impressione è che, contro la retorica del “cristallo” e della “cattedrale di ghiaccio”, il sistema di Spinoza (riassunto nell’Etica) si rivela essere un cantiere aperto in cui, oltre alla scelta dei materiali, rimane determinante la capacità di costruire dei costruttori.
Questo conduce ad una terza domanda (da cui nasce l’impressione): le definizioni dell’Etica sono definizioni reali oppure definizioni nominali? Qui l’impressione è che Spinoza mescoli le carte, alternando le une alle altre senza un indice preordinato e dove la risposta sembra lasciata all’intelligenza del lettore, il quale è invitato a prendere parte alla costruzione. Diceva Wolfson che «l’Etica non è una comunicazione al mondo; è la comunicazione di Spinoza con se stesso». Questo non significa che le sue definizioni siano lasciate al relativismo delle interpretazioni o peggio al solipsismo. Tutt’altro: ciò significa che ogni definizione impegna il lettore nella forza del ragionamento, perché solo questo può mostrare la verità o la falsità di un asserto. Nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto Spinoza scrive: «ho dimostrato e ancora tendo a dimostrare il buon ragionamento, ragionando bene».
NOTA: SPINOZA, UN FIGLIO DEL "DEUS", NON UN FIGLIO DEL "LUPUS" (A FIANCO DI KANT, NON DI HEGEL).
CANTIERE SPINOZA. ETICA, MATEMATICA, E CRITICA DELLA DIALETTICA...
Se è vero, come è vero, che l’Etica di Spinoza è “un sistema aperto non una cattedrale di ghiaccio” e che è necessario sciogliere l’enigma se “le definizioni dell’Etica sono definizioni reali oppure definizioni nominali” (M. Morini, "Cantiere Spinoza", Ritiri Filosofici, 16.01.2022), non si può ricadere nella stesso passo falso dell’analisi del “Discorso del Re” (M. Morini), e portare l’acqua al mulino non di “Amleto” (Shakespeare), ma a quello di Hobbes!
Una interpretazioni riduttiva della “Critica della Ragion pura” e della concezione kantiana della “definizione”, dalla sez. della “Dottrina trascendentale del metodo”, riconduce direttamente e di nuovo il discorso sotto il “principio di Hobbes” (e nell’orizzonte di Hegel e di T. W. Adorno), nell’orizzonte del “Leviatano” (e, al contempo, della dialettica di Hegel e della “dialettica dell’illuminismo” di Adorno), “secondo cui le azioni del sovrano non possono mai essere accusate di ingiustizia dai sudditi e il sovrano non può né essere messo a morte né essere punito dai suoi sudditi” (M. Morini, “ [1]”, Ritiri Filosofici, 02.01.2022).
“HOMO HOMINI LUPUS EST”?! Pur condividendo l’impressione “che Spinoza mescoli le carte, alternando le une alle altre senza un indice preordinato e dove la risposta sembra lasciata all’intelligenza del lettore, il quale è invitato a prendere parte alla costruzione” (M. Morini, cit.), è assolutamente non condisibile una conclusione dell’analisi accogliendo la dichiarazione del “Figlio del Lupo” (“Wolf-son”) e dire davvero con Wolfson che «l’Etica non è una comunicazione al mondo; è la comunicazione di Spinoza con se stesso»! E’ posssibile asservire la “filosofia” (nel senso di Kant) di Spinoza al calcolo e alla matematica di Platone, di Cartesio, di Hobbes, ed Hegel, e dire che questo “significa che ogni definizione impegna il lettore nella forza del ragionamento, perché solo questo può mostrare la verità o la falsità di un asserto” (M. Morini, cit.)?!
Non è il caso di riprendere il discorso dalla figura del “capo”, dal “discorso del re”, e rimeditare la “filosofia” e la “matematica” di Kant?! Se no, come è possibile distinguere tra “essere e non essere”, definire, ragionare e, al contempo, decidere sul “che fare?”, qui ed ora?! Non è meglio uscire dall’inferno della “fenomenologia dello spirito” di Hegel e, con Dante e Virgilio, uscire dalla caverna (Inf. XXXIV, v. 90) e ammirare il “cielo stellato” di Koenigsberg?
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E PSICOANALISI. LA CRISI DELLE SCIENZE: ENZO PACI, "AUT AUT", E L’ENIGMA DEL SOGGETTO. *
Quel gesto fenomenologico che ha fatto cultura
di Pier Aldo Rovatti *
Se mi chiedessero di dire in una battuta che cosa ha prodotto il settantennio di vita della rivista “aut aut”, messa al mondo nel 1951 dal filosofo Enzo Paci e oggi tutt’altro che estinta, risponderei senza esitazione: “il gesto fenomenologico”.
A tale atteggiamento o pratica di pensiero è stato dedicato anche il fascicolo della rivista attualmente in circolazione, in cui si guarda tanto al lunghissimo passato quanto a un futuro ancora da realizzare: sì, perché siamo ancora lontani dall’avere ben compreso questo gesto e dall’essere riusciti a metterlo in atto.
Di cosa si tratta? È un tentativo di dar corpo alla parola “critica”, forse più facile da collegare a quella cultura che voleva prendere distanza dai dogmatismi e dagli ideologismi del ventennio fascista di quanto sia riconoscibile oggi in una situazione nella quale tutti ci riempiamo la bocca di un’idea di democrazia alquanto superficiale e di tanti propositi culturali che spesso risultano vuoti e dai piedi di argilla. Parliamo infatti di pensiero critico, di responsabilità e di etica pubblica, ma non sembra proprio che riusciamo a dare troppo peso a quello che diciamo, come se dalla bocca di molti intellettuali uscisse soltanto un esile vapore, un flatus vocis che si disperde subito nell’aria.
Il gesto fenomenologico avrebbe invece la pretesa di tenere i piedi ben piantati sulla terra e di non consumarsi subito in una vacua cortina fumogena, come capita alla gran parte dei prodotti dell’attuale mondo della comunicazione, frettolosi e dunque superficiali. Questo gesto è invece qualcosa che ci coinvolge integralmente: non un semplice pensiero, qualcosa che ci passa per la testa e che comunque si riduce all’ambito del mentale, al contrario riguarda la nostra intera soggettività. È un atteggiamento “concreto” che concentra l’insieme delle nostre facoltà e ci mette completamente in gioco.
Detto altrimenti, questo gesto ci espone agli altri, non è una postura comprimibile nella privatezza, perciò ha sempre una dimensione pubblica, nel senso appunto dell’esposizione e del confronto. Siamo lontani dall’idea di una filosofia come disciplina a sé, dotata di una sua autorevolezza, piuttosto siamo vicini a un impegno di pensiero che ci chiederebbe di uscire dal bozzolo di un “io” separato, vale a dire di tentare di liberarci dalla presa di qualunque egoismo (egologia, egolatria) e dunque anche di sospettare di ogni pervasiva psicologia.
Perciò il gesto fenomenologico, così difficile da mantenere, così facile da inquinare e infrangere, dunque raro, è innanzi tutto un atteggiamento autocritico: ciascuno di noi, ogni “soggetto”, dovrebbe cominciare con il togliersi di dosso la camicia di forza dell’egoismo, tentare almeno di farlo, se vuole che il suo gesto agisca come un gesto critico. Non è certo lo scenario che vediamo ogni giorno perché, invece, abbiamo costantemente davanti una scena opposta in cui non si scorge quasi nessuna traccia di tale necessaria critica di sé stessi.
Ma cosa significa quel parolone, “fenomenologico”, che accompagna la parola “gesto”? Qui compare la specificità filosofica che caratterizza i settant’anni della rivista. È chiaro che il rimando è a Husserl e soprattutto alla sua ultima opera La crisi delle scienze. Si parte da una diagnosi di perdita di senso, cioè appunto di “crisi”, che non investe soltanto il mondo scientifico e la sua tecnicizzazione, come aveva fatto negli anni Trenta lo stesso Heidegger (peraltro, inizialmente discepolo di Husserl), ma investe per intero la cultura poiché riguarda lo stile di vita di ciascuno. Il titolo preciso di quest’opera di Husserl, che davvero ha fatto testo per comprendere un’epoca, certo non ancora conclusa, è: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (in italiano è stata pubblicata dal Saggiatore, lo stesso editore di “aut aut”).
“Fenomenologia” e in più “trascendentale”? Non è poi così difficile arrivare al nocciolo di una frase che potrebbe giustamente allarmare i non addetti (tra i quali, in questo caso, vorrei potermi collocare a mia volta): quel “trascendentale” è lì per dirci che non dobbiamo confondere fenomenologia con fenomeno (o con qualcosa di semplicemente fenomenico) perché ciò che viene messo in gioco è l’idea di soggetto e di soggettività nella sua concretezza non superficiale.
Per mantenere o ritrovare il suo carattere fenomenologico, questa idea non dovrà essere soltanto la meno idealistica, categoriale, metafisica possibile, perché non basta che la concretezza equivalga a ciò che è empirico, ma dovrebbe riuscire a dar corpo a una soggettività che non è mai fissabile attraverso un’etichetta. Perciò il termine fenomenologia risulta essenziale per mettere in primo piano proprio il problema del soggetto.
Aggiungo, per far capire l’importanza di tale problema, che il soggetto che viene così evocato non è mai traducibile in un concetto chiuso, di cui si possa costruire una scienza comunemente intesa. È piuttosto, come diceva lo stesso Husserl, un “enigma” che non possiamo cessare di sondare e di rilanciare, qualcosa che ha a che fare con l’insieme dei nostri vissuti e con la nostra stessa vita.
Qualcosa che fa tutt’uno con lo stile di vita di ognuno di noi, come ha mostrato con chiarezza Paci nelle pagine del suo personale Diario fenomenologico (ora riedito da Orthotes). E proprio da qui discende l’intero corredo critico di “aut aut”, cioè - per indicarne solo qualche aspetto - l’importanza della “sospensione del giudizio” (la famosa epoché, rilanciata anche da Franco Basaglia nella sua critica alla psichiatria ufficiale), l’importanza di non isolare mai il sapere dall’etica con il rischio di svuotare il “gesto” facendolo diventare unicamente una tecnica di pensiero, o anche l’importanza di conservare a ogni costo l’apertura del dubbio e la possibilità del “sempre di nuovo”.
Perché questo gesto non può essere mai considerato un atteggiamento esclusivamente individuale? La tonalità “politica” della rivista, presente fin dal suo inizio, può ritrovarsi nella risposta a quest’ultima domanda, nel senso che non si dà soggettività senza intersoggettività, cioè che nel vissuto personale è sempre presente e attiva l’esperienza dell’“altro” ed è quindi comunque decisiva un’esperienza del noi.
Senza il compito dello stare assieme in una comunità possibile e necessaria di soggetti, il gesto fenomenologico perde il suo significato, letteralmente si annulla nel suo senso e nei suoi obiettivi. Siamo ancora lontani da questo telos, dall’impegnarci seriamente nella pratica di una simile finalità, e allora si comprende perché il tragitto che “aut aut” ha iniziato fin dal primo fascicolo non sia affatto esaurito.
[articolo uscito in versione ridotta su “La Stampa” il 20 settembre 2021]
*Fonte: Aut Aut, 23/09/2021
NOTA:
L’ENIGMA DEL SOGGETTO E LA PROVA DELL’ESISTENZA DI DIO. Note su un dialoghetto "platonico" diffuso in rete:
USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO” (KANT).
COSA PENSANO I due BAMBINI nella pancia della madre "della VITA DOPO IL PARTO"? Ma l’autore "scrittore" di questo "bel" testo (sopra) ha mai sollecitato i "due bambini" a pensare sul come sono ’arrivati’ là dove sono, su come nascono i bambini?, e ha mai visto il Sole? O vive ancora nel pancione della Mamma-Terra, nella caverna di Platone (ama il mondo chiuso e la claustrofilia) e, per il trauma della nascita, si è sempre rifiutato di aprire gli occhi alla luce del Sole e vedere la Terra dalla Luna, dallo spazio?!
"ACHERONTA MOVEBO" (IL "MUOVERE LE ACQUE INFERNALI" DI FREUD) E AFFRONTARE IL TRAUMA DELLA NASCITA (OTTO RANK): SAPERE AUDE! ("IL CORAGGIO DI SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA" DI KANT) !
Senza la critica di Kant del sogno dell’amore cieco e zoppo della ragion pura (di Socrate/Platone) non si può riconoscere a Diotima piena cittadinanza né nell’Accademia né nella Polis. La logica della tragedia (Edipo) porta davvero la peste!
La Sibilla Delfica (dell’oracolo di Apollo) a Socrate disse la verità, ma la storiografia ha preferito credere al sogno della nascita del cigno e alla storia di Platone, figlio di Zeus / Apollo!
Nietzsche perché ha scavato nella nascita della tragedia? Freud cosa cercava a Tebe?! Come Edipo, già a partire dal caso Dora, chiarirsi le idee sulla morte e uccisione del padre ("Interpretazione dei sogni") e sul desiderio incestuoso nei confronti della #madre, fare luce su "L’uomo #Mosè" e sull’esistenza di "Dio"! Con Dante e come Dante ha avuto il coraggio di agitare le acque infernali e uscirne: a Londra, è arrivato!
LA QUESTIONE DEL SOGGETTO, IL TRAUMA DELLA NASCITA, E LA VITA DOPO IL PARTO.
"OTTO RANK, IL DOPPIO E LA PSICOANALISI" (alcune mie note, in "Psicoterapia e Scienze Umane", 4, 1980, pp. 75-79) ). Se Freud osò agitare e rompere le acque infernali ("Acheronta movebo) e riuscì a portare alla luce la psicoanalisi, è da dire, però, che non fu altrettanto attento a riconoscere il trauma della nascita e a portarsi oltre le colonne d’Ercole dell’Edipo.
Andando in America, nel 1909, Freud era ancora fiducioso e ottimista nella possibilità della psicoanalisi di affrontare il diffondersi della peste; ma nel 1924, con la sua parziale comprensione del complesso di Edipo, non riesce ad accogliere la sollecitazione di Otto Rank a riflettere sul trauma della nascita e l’avvenire della sua stessa creatura comincia a oscurarsi.
Elvio Fachinelli (1928-1989) ha saputo vincere la Claustrofilia (1983), si è portato "Sulla spiaggia" (1985), ma l’ Accademia platonica della Filosofia come della Psicoanalisi ha continuato a chiudere un occhio su come nascono i bambini. E il platonismo continua a oscurare il cielo...
Federico La Sala
ORIGINE DELLA CULTURA E DELLA STORIA: ROMOLO E REMO, ROMA, E IL TERMITAIO...
Prima dell’inizio. Roma e le termiti
Roma. Il libro delle fondazioni di Michel Serres.
di FELICE CIMATTI (Fata-Morgana-web, 3 0ttobre 2021).
In questione è l’idea stessa di “inizio”. Se tutto comincia con un inizio assoluto, allora prima dell’inizio non può esserci nulla. Pertanto l’inizio deve essere un evento straordinario, appunto perché inaugura qualcosa che prima non c’era. Secondo René Girard all’inizio delle vicende umane c’è quella che chiama una «crisi mimetica» in cui si scontrano due desideri che vertono su uno stesso oggetto: «Essendo, per sua natura, il desiderio sempre imitativo, il soggetto desidererà lo stesso oggetto posseduto o desiderato dal suo modello» (Girard 2003, p. 31). In un caso del genere non è possibile alcun compromesso, o prevale il desiderio dell’uno oppure quello dell’altro. Questo contrasto irriducibile, prosegue Girard, scatena un conflitto generalizzato («rivalità mimetica») che minaccia di mettere in crisi l’istituzione sociale. Per porre fine al conflitto, allora, si addossano tutte le colpe ad un “capro espiatorio”, attraverso il cui sacrificio si salva la società. All’inizio, allora, c’è l’invidia, la guerra e soprattutto il rito: per questo, conclude Girard, «la religione è la madre di tutta la cultura» (ivi, p. 67). All’inizio c’è il sacro, appunto, l’evento straordinario. All’inizio c’è il Dio, non gli umani.
È per rovesciare questa idea della cultura e della storia che Michel Serres scrive Roma. Il libro delle fondazioni (Mimesis 2021, a cura di Gaspare Polizzi, prima edizione francese del 1983). La vicenda è nota, Romolo e Remo, gemelli, il loro scontro, l’omicidio. Il seguito lo conosciamo. Serres, però, fa cominciare la storia in un modo completamente diverso, a partire dalla stessa prima parola del libro, «seminagione» (Serres 2021, p. 23). Per seminare servono, evidentemente dei semi, che sono stati generati da una seminazione precedente. Serve un terreno, serve un mezzo (l’aratro) per rovesciare il terreno perché possa accogliere il seme. Se c’è un gesto che non è iniziale in senso assoluto è proprio quello della semina, ché anzi è un gesto possibile solo se si inserisce in una storia, un gesto in continuità con i tempi che lo precedono e lo rendono possibile. Subito dopo, ed è forse la mossa più sorprendente del libro, per raccontare la storia di come può nascere una città, Roma e tutte le altre città, Serres propone una sorta di apologo bestiale (dalla teologia all’etologia). Ci racconta come nasce un termitaio, cioè appunto la città delle termiti. Gli uomini e le termiti, esseri umani e gli insetti. Le cose nascono così, in natura:
All’inizio non c’è alcun evento straordinario, non c’è l’invidia e nemmeno Dio. C’è un insetto e una pallina di fango. Le termiti fanno così, è la loro natura. Non c’è alcun progetto, all’inizio. C’è qualcosa di minimo, un movimento “browniano” (il movimento disordinato di particelle minuscole, così piccole quasi da sfuggire alla gravità, scoperto agli inizi dell’Ottocento dal botanico scozzese Robert Brown), in cui ogni termite si muove senza un piano prestabilito. All’inizio ci sono degli insetti e del fango:
La massa di fango comincia ad ingrossarsi, così, semplicemente perché più una pallina è grande più è facile che altre termiti aggiungano altro fango alla massa iniziale. Il termitaio comincia così, fango, saliva, una miriade di animaletti che si muovono in modo febbrile. Il “modello” che sta usando Serres è quello, antichissimo, degli atomisti, di Democrito, Epicuro e Lucrezio: all’inizio, che per questa ragione non è mai iniziato, ci sono gli atomi eterni (in questo caso le palline di fango, ma vale lo stesso anche per le singole termiti), che talvolta si scontrano (è il clinamen del Rerum Natura, a cui Serres dedica un libro straordinario, Lucrezio e l’origine della fisica), e scontrandosi danno vita (anche in senso biologico) ad assembramenti più grandi.
Lo scontro-formazione del nuovo può ripetersi indefinitamente. La natura non è altro che l’insieme infinitamente intrecciato di questi incontri-scontri. In effetti gli “urti” fra le particelle non sempre costruiscono, è altrettanto probabile che mandino in pezzi una “costruzione” precedente. Ma allora, obietterà qualcuno a cui piace l’ipotesi teologica di Girard, è solo il caso a governare le vicende della storia naturale (in cui evidentemente rientra anche quella umana)?
Non c’è solo il caso, allora, c’è anche l’attrazione (sono quindi Democrito e Newton i riferimenti naturalistici della fondazione), che tiene insieme i fragili aggregati sempre sul punto di sfaldarsi. Attrazione, che tuttavia va ricordato che opera in modo del tutto inintenzionale, che favorisce la formazione di aggregati sempre più grandi. Il termitaio cresce, la città di Romolo, semplicemente perché c’è, attira profughi, ribelli, fuggitivi.
Roma diventa più grande: «E dunque può accadere che una pallina gigantesca attiri, a un certo punto, un insieme di palline già grosse e che, in definitiva, questo pozzo aspiri di colpo tutti i lavoratori: allora il termitaio comincia» (ivi, p. 25). Non c’è bisogno del sacrificio di un “capro espiatorio” che ponga fine al “conflitto mimetico”; all’inizio c’è la continuazione di qualcosa che era già cominciato, che non hai mai smesso di cominciare, termiti, fango, oppure gente che si sposta, che si ferma in un luogo, che costruisce una casa, per poi riprendere a spostarsi. La fondazione, allora, è sempre una rifondazione: «Come se non bastasse una fondazione per cominciare veramente. Come se ogni origine esigesse la sua propria origine» (ivi, p. 31). Serres interpreta in questo stesso modo i riti che precedono la fondazione di una città, e in generale un qualunque inizio:
Il “senso” non è mai soltanto, o principalmente, un’invenzione umana: la storia non comincia con noialtri umani. Il caso delle termiti, da questo punto di vista, è esemplare: non c’è termitaio senza un altro, antecedente nel tempo, termitaio, da cui provengono le termiti che ne stanno ora costruendo, senza volerlo, un altro, nuovo e diverso, ma anche antico e uguale. Un termitaio da cui nascerà, forse, un altro termitaio ancora. Il tempo è questo movimento della vita, e solo una presunzione sconfinata (che oggi prende il nome di antropocene) può pensare che tutto debba ruotare intorno ai progetti umani. Roma non è nata nel 753 A.C., allora, Roma continua a nascere, e quindi a morire, ogni giorno. Allo stesso modo c’era una Roma prima di Roma, non può non esserci stata, perché nessun termitaio nasce dal nulla («Omnis cellula e cellula», secondo la celebre formula di Rudolf Virchow).
Se ora torniamo a Girard, invece, si capisce meglio quale sia la posta in gioco sottesa all’ipotesi del sacrificio del “capro espiatorio”: si tratta in realtà del “peccato originale” in quanto «cattivo uso della mimesi, e il meccanismo mimetico è la conseguenza del peccato originale a livello collettivo» (Girard, p. 174). All’inizio c’è una colpa originaria, che solo un intervento divino può emendare. Se invece all’inizio ci sono le termiti, c’è il fango e il moto browniano, allora non c’è nessun peccato da scontare, non c’è nessuna colpa. C’è invece la vita, e città è la vita, Roma è la vita. In questo inizio già iniziato, e quindi da sempre già finito, Roma diventa il prototipo di una città senza identità, perché solo di ciò che è nato dal niente si può dire che ha una identità precisa, perché è arbitraria e senza storia. Ma Roma è la storia:
Riferimenti bibliografici
ORIGINE DELLA CULTURA E DELLA STORIA: ROMOLO E REMO, ROMA, E IL TERMITAIO...
Se è vero che «Il “senso” non è mai soltanto, o principalmente, un’invenzione umana: la storia non comincia con noialtri umani» (F. Cimatti, cit. - sopra), allora vuol dire che noialtri continuiamo a girare in tondo nella caverna platonica e ancora non sappiamo dare risposte risolutive né all’enigma della Sfinge né alla visione e all’enigma dell’eterno ritorno.
Serres ha cercato "il passaggio di Nord-Ovest" (1980), ha tentato di trovare la via del "Distacco" ("Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere", 1983), per uscire dalla "preistoria", e dall’orizzonte di "Rome. Le livre des fondations" (1983), ma non vi riesce: "Roma è sempre il bosco di rifugio, e cioè un insieme indistinto.[...] è ancora lì, indecisa, tra noi, fantomatica e mobile, ma straordinariamente presente e viva. È il segreto dell’impero"(Serres, Rome, cit.).
Anni dopo, egli continua la navigazione nell’ediphicante immaginario della filosofia platonica. Dopo Kant, Nietzsche e Freud, per Serres, Socrate è ancora una soluzione e non un problema. Nel 2015, nel "Mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente", così scrive:
"Una confessione. La filosofia, si dice, conduce alla saggezza [sagesse]. Secondo un altro significato della parola, prima di morire vorrei diventare levatrice - che in francese diciamo sage-femme, cioè letteralmente, «saggia donna» -, vorrei aiutare a partorire il mondo nuovo. La mia vita intera mi ci ha preparato, attraverso l’ascolto attento degli scricchiolii emessi dal vecchio. Sento le crisi che attraversiamo, le inquietudini che suscitano, come dei lamenti emessi nel travaglio del parto. Amo la madre, accolgo il bambino. Possa migliorare incessantemente la mia attività di medico ostetrico, il mio diventare sage-femme".
Non è giunto, forse, il tempo di interrogarsi di nuovo e ancora (come voleva Enzo Paci) su "come nascono i bambini": Caino e Abele, Romolo e Remo, e ... noialtri umani? O no?! Buon Natale...
Federico La Sala
#DIVINACOMMEDIA (#DANTE2021)!
IL CARDINALE #CUSANO CERCA DI PENSARE L’#INCARNAZIONE MA FA UN PASSO AVANTI E #TRE INDIETRO, VERSO LA #DIALETTTICA COSMOTEANDRICA DELL’#ASSOLUTO DI #HEGEL *
Le tre eresie di Cusano
di Maurizio Morini (Ritiri Filosofici, 21 Novembre 2021)
«Quando entra nel campo del potere-che-è, ossia nel campo dove il potere è in atto, l’intelletto va a caccia di un cibo estremamente nutriente». Con questa promessa, Cusano inizia la descrizione del secondo campo nel quale cercare la sapienza. La linea argomentativa è quella per cui ciò che non può essere, non è: quod esse potest non est. Ne discende una scoperta che Cusano definisce non di poco conto: e cioè che il non essere non è una creatura. In termini parmenidei si direbbe che il nulla non è pensabile e che la domanda “perché l’essere e non il nulla” non ha nemmeno senso perché il nulla non può mai essere. Di fatto, come dirà in altre opere, esiste solo ciò che può essere in quanto ciò che è impossibile non si realizza. Come conseguenza, noi vediamo l’attualità assoluta in virtù della quale le cose che sono in atto sono ciò che esse sono: hinc actualitatem conspicimus. Tutte queste affermazioni implicano uno scontro con le posizioni della tradizione filosofica aristotelico-tomistica.
Nel Possest la coincidenza di possibilità e necessità
Aristotele aveva stabilito il principio secondo cui l’atto è anteriore alla potenza. La potenza infatti, in quanto principio del divenire, non è sufficiente a realizzare il divenire in quanto è necessario che ci sia una causa che trasformi la potenza in atto. Ma questa causa, che Aristotele definisce come causa efficiente, deve necessariamente essere già in atto.
Cusano non accoglie lo schema aristotelico dell’anteriorità dell’atto sulla potenza in quanto né l’attualità né la possibilità possono avere una precedenza: se l’attualità precedesse la possibilità, allora essa non sarebbe più attualità (che attualità sarebbe infatti quella che si risolvesse in una non attualità?); se la possibilità precedesse l’attualità si avrebbe invece un regresso all’infinito (perché ogni attualità richiederebbe sempre una possibilità che la porta all’atto e via di seguito).
La conseguenza di questo ragionamento è quella di ammettere la coincidenza di possibilità e necessità. Tale coincidenza ha bisogno di un nome e Cusano inventa il neologismo possest, termine che nasce dalla composizione di due termini, posse-est, traducibile con l’espressione il poter essere che è. Con questo termine egli indica la coincidenza, nell’assoluto, del poter essere con l’essere in atto. Tutte le cose, nella realtà indicata da questo termine, sono complicate, perché tutto ciò che esiste, per esistere, deve poter esistere, e dunque deve esistere in quello che è il potere allo stato puro. Ma in questo potere assoluto, che è un potere che è, nel quale l’essere coincide con il potere e la possibilità con l’attualità, devono essere incluse (cioè complicate nel linguaggio cusaniano) tutte le cose. Nel termine possest il Cardinale conia un termine che esprime la congiunzione della potenza di divenire e della potenza divenuta. Poter essere è dunque poter essere in atto, per cui siccome questo poter essere è considerato in atto, si dice che questo poter essere è un posse. Si tratta di una conclusione talmente forte che, prima di proseguire, Cusano la nasconde dietro tre affermazioni che, con l’apparenza di essere devote, contengono altrettante eresie le quali, ad altri pensatori, in altri tempi e in altri modi, sono costate la libertà e la vita.
Un Dio glorioso che non compie miracoli
Quello che noi consideriamo come Dio nella nostra tradizione, afferma Cusano, non è altro che la coincidenza dell’atto puro e della potenza pura. Nonostante egli chiami questa coincidenza Dio glorioso, l’affermazione si risolve in una vera e propria eresia rispetto al pensiero ortodosso, perché la potenza pura era da sempre stata considerata il prodotto dell’atto: ad esempio, come applicazione di questo schema, la prima cosa che Dio produce è la materia la quale, nella tradizione scolastica, non ha niente a che vedere con Dio, il quale era considerato piuttosto come una sostanza costituita da un’essenza diversa da quella che possiede la sostanza materia. Cusano cancella un simile quadro teorico perché quello che era un effetto, la materia, lo inserisce nella causa, che egli chiama Dio, considerata simultaneamente come un soggetto di contrari.
Il risultato di questo ragionamento produce una seconda eresia consistente nel rifiuto del concetto di eminenza. Con questo termine la tradizione aveva designato un modo di esistenza in cui, ciò che si dà attualmente nel mondo, è presente in modo diverso nell’idea di Dio. Questo significa che la creatura è contenuta nella mente del creatore in modo qualitativamente diverso rispetto a quello della creatura: in Dio (ad esempio) anche il mio gatto esiste, ma non esiste così come esiste in sé o come esiste nella mia mente: esiste in un modo diverso (diversità intesa come perfezione) in quanto la sua vera natura non è attingibile dalla nostra conoscenza.
Come conseguenza di questo approccio teorico della Scolastica, la potenza di Dio poteva essere concepita contemporaneamente in due modi: potenza assoluta e potenza ordinata. In quanto Dio è Dio, la potenza di Dio è assoluta; se invece si considera la potenza di Dio espressa nel mondo, la potenza ordinata, questa potenza non è assoluta, perché si ritiene che il mondo non sia tutto ciò che Dio poteva creare e che esso sia una tra le creature di Dio. Nel caso del gatto, esso esiste ed è stato creato; ma il gatto non solo non poteva non essere stato creato ma esistono nella mente di Dio tutta una serie di gatti che, trattenuti nella sua mente, non sono stati creati. Si ritiene cioè che non tutto ciò che è nell’intelletto di Dio è stato da lui creato: la sua volontà infatti avrebbe fatto da filtro rispetto all’infinità delle idee che sono in Dio, idee che solo in parte si sono tradotte nel mondo.
Anche in questo caso Cusano liquida la tradizione perché il concetto di Dio coincide con la possibilità attuata in cui non vi è più alcun residuo di possibilità da esplicare. Se la creazione deriva dalla natura di Dio (e non dalla volontà), se questa natura è infinita, anche l’effetto è infinito, e quindi dobbiamo dire che nel mondo c’è la piena e totale espressione della potenza di Dio. Dire ciò significa anche abolire il principio dei miracoli, ovvero che Dio non può, a partire dalla sua volontà, porre in essere qualcosa che prima era nella sua mente.
La materia è parte di Dio
La coincidenza di possibilità e necessità provoca un mutamento anche nel concetto di materia e ciò dà luogo alla terza eresia, sicuramente quella più scandalosa. Nella Dotta ignoranza, Cusano aveva già spiegato che il concetto della possibilità coincideva con quello della materia. Il problema è che la tradizione aristotelica era giunta a quel concetto nella modalità del non sapere, pensandola come possibilità eretta come principio assoluto e che coesisteva con lo stesso Dio (il quale era pensato in termini puramente spirituali). I platonici chiamarono la possibilità assoluta mancanza, in quanto essa manca di ogni forma. Gli aristotelici la definivano “quasi niente”, perché la materia aveva soltanto in minimo grado le qualità della sostanza. Di conseguenza, essi sostenevano che le forme sono presenti nella materia solo allo stato di possibilità. concludendo poi con la tesi che nella possibilità è presente la totalità delle cose. Cusano stabilisce invece che è impossibile che vi sia una possibilità assoluta, non congiunta cioè con l’atto, perché altrimenti bisognerebbe ammettere conseguenze assurde, come riconoscere un’infinità che parte dalla mancanza: cosa del tutto contraria a Dio perché semmai, in lui, l’infinità non può che partire da un’abbondanza.
Nasce il modello della causalità immanente
Come osserva un interlocutore del cardinale, si deve dire che Dio è in tutte le cose in modo tale da non poter essere altro quello che è. Questa, dice Cusano, è una dottrina da sostenere nel modo più fermo perché la coincidenza nell’assoluto di potenza ed atto consente di spiegare altrimenti la sua dottrina della complicatio. Dio infatti è tutte le cose in modo tale da non essere una di esse più di quanto non sia un’altra. Dio è sole ma non secondo il modo di essere del sole, il quale non è tutto ciò che può essere. Se questa prospettiva si può definire panteistica, non si deve dimenticare il modo esatto in cui essa si qualifica. Nel potere-che-è sono complicate tutte le cose e nessun grado di conoscenza riesce a coglierlo. Ma, soprattutto, «il potere, considerato in senso assoluto, è ogni potere. Pertanto se io vedessi che ogni potere è in atto non resterebbe più nulla. Se infatti restasse qualcosa, si tratterebbe pur sempre di qualcosa che potrebbe essere, per cui non resterebbe se prima non fosse già stata compresa nel potere». La conseguenza di questo discorso è che qualcosa, per essere qualcosa, deve avere la potenza di essere ciò che è e quindi, se non c’è il poter essere, non esiste nulla. Così come non si porta un’onda fuori del mare, è necessario che tutte le cose che sono, siano esistite da sempre nell’eternità: ciò che è stato creato è sempre esistito nel poter essere. Tutte le cose che sono e che si muovono, sono e si muovono nel possest.
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SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
Federico La Sala
L’OMELIA PERFETTA DI NICCOLÒ CUSANO
L’INCARNAZIONE COMPLETA LA CREAZIONE
di PIERO STEFANI (Corriere della Sera, La Lettura, 19 Dec 2021)
Il rito cattolico romano prescrive, per il giorno di Natale, tre diverse messe: quella della notte, quella dell’aurora e quella del giorno. Ognuna prevede un Vangelo diverso. A mezzanotte si legge Luca (2,114): è la scena della nascita di Gesù a Betlemme, degli angeli e dell’annuncio ai pastori, un quadro che è quasi inevitabile associare al presepe. Al primo mattino i pochi presenti ascoltano i versi successivi (Luca 2,15-20) nei quali si descrive la stupita visita dei pastori a Maria, a Giuseppe e al bambino adagiato sulla mangiatoia. Quando il sole è già alto, il brano evangelico accantona la componente narrativa e si immerge nelle profondità del cosiddetto Prologo di Giovanni (1,1-18): una sequenza di versetti che culmina là dove si afferma che la Parola (termine spesso reso con Verbo, il greco ha logos) si fece carne.
Il senso del Natale è sospeso tra due estremi: da un lato vi è il richiamo alla nascita che accomuna tutti i viventi, dall’altro l’annuncio che il Figlio, la seconda persona della Trinità, si è fatto uomo. A differenza della prima, questa seconda convinzione è fatta propria solo da una parte minoritaria dell’umanità.
Come festa legata alla nascita, il Natale ha la potenzialità di accomunare tutti. Ognuno, se vi dedica qualche riflessione, comprende che la tenerezza suscitata da un neonato è un riflesso della legge, priva di eccezioni, secondo la quale tutti nasciamo non autosufficienti e bisognosi di aiuto. Il semplice fatto di essere vivi attesta che qualcuno si è preso cura di noi. Il senso di solidarietà avvertito a Natale trae alimento da queste remote radici. Dietro la banalità del detto «a Natale si è tutti più buoni» si celano profondità esistenziali.
Le visioni di fede sono di frequente paradossali. I credenti sanno di essere una minoranza ma nello stesso tempo devono essere certi che le loro convinzioni riguardano tutti, anzi concernono il tutto. Si tratta di una sproporzione avvertita anche quando la maggioranza della società era cristiana.
Nel Natale del 1440, lo stesso anno in cui scrisse De docta ignorantia, il suo libro più celebre, Niccolò Cusano tenne ad Augusta, in Germania, una lunga predica nella quale la dottrina superò l’ignoranza. Alcuni passaggi sono rivelatori della sua filosofia. Dio è infinito, il mondo è invece finito. Tra infinito e finito non c’è proporzione. Tuttavia il mondo non può esistere senza un rapporto con il suo Principio che infinitamente lo trascende.
Come fa dunque l’universo a esserci? Vi è un’unica risposta possibile: ciò avviene a motivo dell’Incarnazione, «infatti se Dio non avesse assunto la natura umana - la quale compendia in sé tutti gli altri esseri come loro centro unificante - l’universo nella sua totalità non sarebbe compiuto e perfetto, anzi non sarebbe affatto un universo». La convinzione umanistica che giudica l’uomo un «microcosmo» è chiamata in causa per dare ragione dell’esistenza di tutte le cose. Dio si incarna non a motivo del peccato umano ma perché il creato sia e sussista.
Nessuno esige dai presbiteri che predicheranno nella notte e nel giorno di Natale di misurarsi con le abissali prospettive cusaniane. La richiesta è più contenuta, sarebbe infatti sufficiente che gli immancabili appelli al bambinello e alla solidarietà fossero davvero capaci di misurarsi con la serietà dell’esistenza.
L’AMORE UNIVERSALE E UN’APPROPRIAZIONE INDEBITA: LA MEMORIA DI MOSÈ E IL CAMMINO DI SIGMUND FREUD
PSICOANALISI CATTOLICESIMO E "DISAGIO NELLA CIVILTÀ" ("Das Unbehagen in der Kultur"). Un’appropriazione indebita dell’amore universale e "L’infelicità nella civiltà" ("Das Ungluck in der Kultur"):
"[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità critiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione. Non fu un puro caso che il sogno germanico del dominio del mondo facesse appello all’antisemitismo come a suo complemento, e non è inconcepibile che il tentativo di stabilire una nuova civiltà comunista in Russia trovi il suo sostegno psicologico nella persecuzione della borghesia. Ci si chiede soltanto, con apprensione, che cosa si metteranno a fare i Sovieti, dopo che avranno sterminato la loro borghesia [...]".
“[...] mi manca il coraggio di erigermi a profeta di fronte ai miei simili e accetto il rimprovero di non saper portare loro nessuna consolazione, perché in fondo questo è ciò che tutti chiedono, i più fieri rivoluzionari non meno appassionatamente dei più virtuosi credenti. Il problema fondamentale del destino della specie umana a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile riuscirà a padroneggiare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla pulsione aggressiva e auto distruttrice degli uomini. In questo aspetto proprio il tempo presentemerita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno farà uno sforzo per affermarsi nella lotta contro il suo avversario parimenti immortale. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito?”(Sigmund Freud, "Il disagio della civiltà", 1929).
Per "orientarsi nel pensiero" (Kant), rileggere le note di Franca Ongaro Basaglia su "Così parlò Edipo a Cuernavaca" ("PM-Panorama Mese", novembre 1982) e ricordare il legame della "Interpretazione dei Sogni" (1900) con l’Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo") di Virgilio e "L’uomo Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della Divina Commedia (Pg. II, 46-48) di Dante Alighieri.
Federico La Sala
"QUATTRO" ... QUATTRO PROFETI? IL "TONDO DONI" E LA TRACCIA PER UN’ALTRA "INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" DI MICHELANGELO E DEL SUO RACCONTO NELLA CAPPELLA SISTINA...
di Federico La Sala (Le parole e le cose, 9 novembre 2021)
AL FINE DI UN’INTERPRETAZIONE non riduttiva del "Tondo Doni" di Michelangelo è opportuno fare bene attenzione alla cornice lignea che sta intorno.
NELLA SCHEDA DELLA Galleria degli Uffizi, relativa alla Sacra famiglia, detta “Tondo Doni” di Michelangelo #Buonarroti è scritto:
"QUATTRO PROFETI": MA "COME NASCONO I BAMBINI"?!
Se il tema è quello della nascita di Cristo ("il Figlio dell’Uomo"), il discorso di Michelangelo è semplicemente chiaro e tondo e già anticipa alla grande il programma della Sistina: nella cornice vi sono raffigurate la testa di Cristo (in alto) e ai lati le teste di due profeti e due sibille e, al centro (il fuoco del cammino dell’intero genere umano), Gesù, il "Figlio dell’Uomo" ("Ecce Homo" - ogni essere umano, come da antropologia e filologia), con le figure dei genitori, il "profeta" Giuseppe e la "sibilla" Maria.
L’Uomo non è più un Lupo! L’uomo è per l’uomo un Dio ("Homo homini deus est"), come ricorderà Spinoza nella sua "Etica".
Sacra famiglia, detta “Tondo Doni”
Michelangelo Buonarroti (Caprese 1475 - Roma 1564) *
Michelangelo dipinse questa Sacra Famiglia per Agnolo Doni, mercante fiorentino il cui prestigioso matrimonio nel 1504 con Maddalena Strozzi avvenne in un periodo cruciale per l’arte a Firenze di inizio secolo. La compresenza in città di Leonardo, Michelangelo e Raffaello apportò uno scatto di crescita al già vivace ambiente fiorentino, che nel primo decennio del secolo visse una stagione di altissimo fervore culturale. Agnolo poté quindi celebrare le sue nobili nozze e la nascita della sua primogenita con alcune delle massime espressioni di questa eccezionale fioritura: i ritratti dei due coniugi dipinti da Raffaello, e il tondo di Michelangelo, che è l’unico dipinto certo su tavola del maestro.
Michelangelo aveva da poco studiato le potenzialità del formato circolare, molto apprezzato nel primo Rinascimento per gli arredi devozionali domestici, nei marmi del “Tondo Pitti” (Museo Nazionale del Bargello) e del “Tondo Taddei” (Royal Academy di Londra): in entrambi i casi la Madonna, il Bambino e San Giovannino occupano prepotentemente tutta la superficie del rilievo. Anche il “Tondo Doni” è concepito come una scultura, in cui la composizione piramidale del gruppo si impone su quasi tutta l’altezza e la larghezza della tavola. E’ stato notato che, nella sua compattezza, il gruppo ricorda la struttura di una cupola, tuttavia animata al suo interno dalle torsioni dei corpi e dalla concatenazione dei gesti per il passaggio delicatissimo del Bambino dalle mani di San Giuseppe a quelle della Vergine.
Questa composizione così articolata ed espressiva scaturisce dalla conoscenza e dallo studio da parte di Michelangelo dei grandi marmi del periodo ellenistico (III-I secolo a. C.), contraddistinti da movimenti serpentinati e forte espressività, che stavano emergendo dagli scavi delle ville romane. Alcuni di questi importanti ritrovamenti, come l’Apollo del Belvedere e il Laocoonte scavato nel gennaio 1506, sono citati puntualmente nel quadro fra le figure di nudi in piedi, appoggiati a una balaustra (rispettivamente a sinistra e a destra di San Giuseppe).
La presenza di Laocoonte permette di avanzare per il tondo una datazione che coincide con la nascita di Maria Doni (settembre 1507). I giovani nudi, la cui identificazione è complessa, sembrano rappresentare l’umanità pagana, separata dalla Sacra Famiglia da un basso muretto che rappresenta il peccato originale, oltre il quale c’è anche San Giovannino, che favorirebbe l’interpretazione battesimale del dipinto.
La cornice del tondo, probabilmente su disegno di Michelangelo è stata intagliata da Francesco del Tasso, esponente della più alta tradizione dell’intaglio ligneo fiorentino. Vi sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di quattro profeti, circondate da grottesche e racemi, in cui sono nascoste, in alto a sinistra, delle mezze lune, insegne araldiche della famiglia Strozzi.
* GLI UFFIZI, 11.11.2021 (ripresa parziale)
PSICOANALISI E FILOSOFIA.
SU FREUD: RIPARTIRE DAL PRINCIPIO.
Per comprendere meglio Freud e la sua "rivoluzione psicoanalitica" ("Die Frage der Laienanalyse",“Il Problema dell’analisi profana”: «Non succede nulla di strano, i due si parlano. [...] L’analista dà appuntamento al paziente a una certa ora del giorno, lo lascia parlare, lo ascolta, poi gli parla e gli chiede di ascoltare ciò che ha da dirgli»"), c’è solo da salire su una grande nave, scendere nella stiva, e rileggere il "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano" di Galileo Galilei: a partire da Copernico, da qui (da questa opera) prende il via la navigazione nell’oceano celeste (Keplero) e si apre la strada alla relatività di Einstein (e non al relativismo culturale dell’antropologia culturale e di Gregory Bateson!), alla rivoluzione copernicana di Kant, e alla rivoluzione di Ferdinand de Saussure, proprio da "due persone che discorrono" ("Corso di Linguistica Generale").
Per andare oltre le robinsonate (Marx) e oltre l’edipo (Freud), e uscire dal terrapiattismo non c’è altra via: con Elvio Fachinelli, superare la claustrofilia (1983), portarsi "sulla spiaggia" (1985), andare oltre le colonne d’Ercole (di Edipo), e non naufragare (come Ulisse), ma uscire dall’inferno (Dante 2021) e rinascere! O no?!.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE E SAUSSURE: UNA SOLA TEORIA, QUELLA DEI "DUE SOLI". Ipotesi di lavoro
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
L’OPPIO DEI POPOLI E LO SPIRITO CRITICO.
JEAN-LUC NANCY, IL SOFFIO RIVOLUZIONARIO, E I PALLONI IN ARIA...
JEAN-LUC NANCY, in un suo ultimo intervento ad un convegno del maggio scorso, dice: "[...] Quando Marx dichiara che la religione è «l’oppio dei popoli, lo spirito di un mondo senza spirito» [Nella sua "Critica della filosofia del diritto di Hegel"] intende dire da un lato che la religione è un povero surrogato dell’oppio con cui i ricchi si stordiscono, ma anche e allo stesso tempo che c’è da qualche parte uno “spirito” riservato a coloro che ne hanno i mezzi. Beninteso, per lui, tutti gli uomini ne hanno i mezzi, tutti possono partecipare al vero Spirito, a condizione d’essere liberi dall’alienazione. Poiché l’alienazione non consiste essenzialmente nell’estorsione del plusvalore - che ne è piuttosto il segno. L’alienazione consiste nel non essere propriamente sé stessi, tanto in quanto individui concreti che in quanto comunità non meno concrete".
E CONTINUA: "Questo spirito soffia come tutti gli spiriti. Marx usa spesso la parola “soffio” (Atem, respirazione). Ci accontenteremo di un esempio: «Il governo prussiano è infastidito dalla resistenza passiva che incontra ovunque. Attraverso l’apparente apatia, percepisce il soffio rivoluzionario»[...]"(Jean-Luc Nancy, "Essere, Soffio / Être soufflé", Le parole e le cose", 4.10.2021).
IL MESSAGGIO EVANGELICO E IL "FIGLIO DELL’UOMO". "Allora la folla gli [a Gesù] rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo ["Filius hominis", "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου]?»"(Gv. 12,34).
QUESTIONE ANTROPOLOGICA. CHI è questo Figlio dell’Uomo, CHI il "Gesù Cristo" degli Evangelisti? COME è detto nell’Evangelo di Giovanni di "Gesù Cristo"? Ponzio Pilato disse: "«Ecco l’uomo» (gr. «idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)" (Gv. 19, 4).
QUALE SPIRITO? COME è detto nella Prima Lettera dell’Evangelista Giovanni?: "Carissimi, non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio [...] Dio è amore." (1 Gv. 4, 1-8).
IL PROBLEMA DEL MENTITORE: CHI È IL "GESÙ CRISTO" DI PAOLO DI TARSO?!: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
PSICOANALISI E CRISTOLOGIA: "OEDIPUS AT VERSAILLES" ED "EDIPO A CUERNAVACA". CHE FARE? Rileggere il testo di "Un frammento inedito di Freud del 1931" e dell’articolo di Franca Ongaro Basaglia ("PM", novembre 1982). SapereAude!
IL VENTO SOFFIA DOVE VUOLE (Gv. 3.8). QUANTI PALLONI IN ARIA ...
Federico La Sala
PIANETA TERRA: "UNA PALLA DI NEVE ALL’INFERNO". Fine della Storia o della Preistoria?!
QUAL è questa "direzione sbagliata"?! IN UNA CONFERENZA DEL 9 GENNAIO 1970, GREGORY BATESON, in una brillante sintesi, così riassume la visione del nostro rapporto storico con la natura:
"[...] Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e avete l’idea di essere stati creati a sua immagine, voi vi vedrete logicamente e naturalmente come fuori e contro le cose che vi circondano. E nel momento in cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza mente e quindi senza diritto a considerazione morale o etica. L’ambiente vi sembrerà da sfruttare a vostro vantaggio.
La vostra unità di sopravvivenza sarete voi e la vostra gente o gli individui della vostra specie, in antitesi con
l’ambiente formato da altre unità sociali, da altre razze e dagli animali e dalle piante.
Se questa è l’opinione che avete sul vostro rapporto con la natura e se possedete una tecnica progredita, la probabilità che avete di sopravvivere sarà quella di una palla di neve all’inferno.
Voi morrete a causa dei sottoprodotti tossici del vostro stesso odio o, semplicemente, per il sovrappopolamento e l’esagerato sfruttamento delle riserve. Le materie prime del mondo sono limitate.
Se io sono nel giusto, allora il nostro atteggiamento mentale rispetto a ciò che siamo e a ciò che sono gli altri dev’essere ristrutturato. Non si tratta di uno scherzo, e non so quanto tempo abbiamo ancora prima della fine"
(cfr. G. Bateson, "Verso un’ecologia della mente", Adelphi, Milano 976, p. 480).
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA PSICOANALISI E PSICHIATRIA. UNA QUESTIONE DI DIGNITÀ DI LUNGA DURATA.... *
Oltre il vicolo cieco degli uomini che uccidono le donne
Violenza maschile. Alla povertà di un gesto, opporre visioni diverse. Non c’è mai una un’unica scelta
di Tiziana Plebani (il manifesto, 17.09.2021)
Una donna uccisa quasi ogni giorno. Ma spostiamo la visuale e guardiamo dall’altra parte: quasi ogni giorno un uomo uccide una donna. Viene da pensare che sia divenuto un gesto imitativo, un modello da seguire, orrendamente, assurdamente, forse inconsapevolmente, ma che, tuttavia, si è imposto nell’immaginario, nel ventaglio di comportamenti e reazioni.
Nel momento della fragilità, della crisi, della necessità di riprogrammarsi, bisogna fare la fatica di trovare una soluzione, una via di uscita. Questa scelta costa. C’è bisogno di silenzio, pena, sofferenza. Cosa fare? Quello che hanno fatto tanti, che ogni giorno viene ripetuto dai media, che è visto di continuo in televisione. È un gesto che si insinua nella testa, e nel momento del bisogno emerge automatico, l’hanno fatto altri. È come se ci fosse una strada maestra di risposta che azzera l’infinità di opzioni a disposizione dell’umano per risolvere un dramma personale.
Ricordo che anni fa, durante la crisi economica del 2008, assistemmo a un’altra di queste associazioni a catena, tragicamente automatiche: più di 1600 imprenditori si tolsero la vita. Cominciò uno di loro a suicidarsi e in poco tempo anche questo gesto venne ripetuto di continuo: una risposta cieca che pure in questo caso si era imposta come l’unica percorribile.
Certo, quegli uomini che ammazzano le donne hanno alle spalle una pratica violenta, tengono armi in casa, hanno coltivato una confidenza con il linguaggio dell’offesa che non si inventa da un giorno all’altro. Sono tutte morti annunciate, come sappiamo.
Che fare dunque? Suggerisco due piani di azione, uno nell’ambito comunicativo, l’altro che riguarda le strategie di prevenzione.
I media ripropongono la sequela di omicidi e purtroppo imprimono e sedimentano questa risposta. Non si tratta ovviamente di tacere questi crimini bensì di accompagnare la notizia con commenti e interpretazioni che innanzitutto smentiscano l’idea che si tratti di raptus, di accecamento istintuale, di rabbia (rimando a questo articolo).
Quasi tutti questi delitti, avvengono dopo episodi di minacce e di brutalità. E soprattutto, come ci insegna la storia delle emozioni, esistono stili di comportamento che emergono rispetto ad altri in alcuni momenti storici, e che in questo caso ci parlano di un deserto e non di un eccesso emozionale, di un analfabetismo dei sentimenti (di cui la nostra società attuale è afflitta), e di un appiattimento delle risorse individuali e collettive ai drammi e alle fatiche della vita.
Televisioni, social media, carta stampata dovrebbero insistere piuttosto sul ventaglio di risposte al disagio, proponendo storie finite in altro modo (che poi sono la stragrande maggioranza). Si deve comunicare la possibilità di uscire da quella che appare in maniera distorta come una strada maestra ma che è invece un vicolo cieco e orrendo.
Opporre alla povertà di un gesto la visione di un paesaggio molteplice e vasto, di scelte multiple, di percorsi attraversati da mille sentieri. Non c’è mai un’unica scelta.
L’altro piano riguarda l’azione preventiva. Si tratta a parer mio di riprendere le modalità con cui si è affrontata la protezione dei testimoni di mafia, ma mutando direzione. Invece che far subire alla donna minacciata e che ha denunciato lo stalking o peggio, l’allontanamento dalla sua casa, dal suo ambiente, dal lavoro e dalle sue reti personali, si vada a trasferire l’uomo violento in un’altra città e almeno in un’altra regione, possibilmente molto distante. E che abbia l’obbligo di firma, come i mafiosi, in modo che si possano controllare i suoi spostamenti.
Perché ciò che non dobbiamo permettere è che le conseguenze di un comportamento violento maschile vengano pagate in qualità di libertà personale femminile. Affinché queste donne non siano viste solo come vittime ma come soggetti autonomi che perseguono le loro scelte di vita.
L’autrice è storica e scrittrice
*
NOTA:
QUASI OGNI GIORNO UN #UOMO UCCIDE UNA DONNA (ma chi l’addestrò per la vittoria?). Forse non è ora di svegliarsi dal sonno dogmatico e venir fuori dalla edipica tragedia della cosmoteandria e laica e religiosa?!
ANTROPOLOGIA E STORIOGRAFIA. Per uscire dal manicomio di una storia segnata (e raccontata, come Brecht ben illustra)) da una andrologia di lunga durata, dall’inferno della tragedia (Edipo), e vedere Lucifero a "gambe in sù" (Inf. XXXIV, 92) o, diversamente, la testa di Oloferne tagliata da Giuditta (Botticelli), oggi, è necessario non solo un radicale capovolgimento di ottica, ma soprattutto prendere coscienza della necessità di uscire da dentro un campo antropologico con la bilancia rotta (tutte le relazioni dell’intera società senza più giustizia)) e smetterla di continuare a fare "un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata" (come già denunciato da Franca Ongaro Basaglia). O, contro l’evidenza di Dante Alighieri, ogni speranza è ormai solo un’illusione?! E la storia è finita?!
COSTITUZIONE ("BIBBIA CIVILE") ED EPISTEMOLOGIA "BIBLICA"! . Benché sulla questione antropologica (Kant, "Logica", 1800) abbia richiamato tutta la sua attenzione, l’idealismo materialistico (o il materialismo idealistico) l’ha "conservata e negata" ("superata") nella grande "Scienza della Logica" dello Spirito Assoluto di Hegel (Napoleone). Recentemente, Gregory Bateson, benché (come egli stesso dice in una conferenza del 1979) abbia "all’enima della Sfinge" dedicato "cinquant’anni" della sua "vita di antropologo", non è riuscito a venir fuori dall’orizzonte della tragedia e dalla città di Edipo ed è ritornato sulla strada del "sacro"!
("DIGNITÀ DELL’UOMO". Non per sminuire nessuno, ma per uscire dalla "preistoria" (K. Marx), è bene ricordare che il "Dio" a cui guarda Gregory Bateson, è ancora il dio dell’antico patto, quello dell’andrologia di Paolo di Tarso: il cap. XIII di "Dove gli angeli esitano" (Adelphi,1989) è titolato "Il dio che non si può beffare" e mette in citazione la frase di san Paolo: "Non vi fate illusioni: Dio non lo si può beffare" (Gal., VI, 7)!!!
DIGNITÀ. Che dire?! l’antropologa Ida Magli non ha solo scritto "La femmina dell’uomo" (Laterza, 1982) ma anche scritto il libro "SULLA DIGNITA’ DELLA DONNA"; il sottotitolo è "La violenza sulle donne, il pensiero di Wojtyla". Che dire?! Continuare nello Spirito di Napoleone, Hegel, Bateson, Costantino?! Dopo Dante2021?!
Federico La Sala
PSICOANALISI, ANTROPOLOGIA, E MATEMATICA. NOTE PER RISCRIVERE UN “ROMANZO FAMILIARE” NUOVO...
ACHERONTA MOVEBO. “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” (Se non potrò piegare gli Dei, muoverò Acheronte: Virgilio, Eneide, VII, 312). A partire da questa citazione virgiliana, volendo, è possibile tentare di "rileggere" l’intero percorso della ricerca di Freud. Ricordando con lo stesso Freud della "Psicopatologia della vita quotidiana" (1901), l’altra importante citazione sempre ripresa dall’Eneide (IV, 625 ) : "Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor" (che nasca un giorno dalle mie ceneri un vendicatore), si comincia a capire cosa c’è nel "coraggio degli inizi" (Rubina Giorgi, 1977) e in questa identificazione di Freud con Giunone/Era (non solo la moglie di "Zeus", ma anche la sua stessa madre) con Didone e con Annibale, il grande nemico di Roma.
IL PROBLEMA DEL LIBERATORE. L’esergo dell’Interpretazione "dichiara" semplicemente la "natura" teologico-politica del suo progetto: cercare di fermare il matrimonio di Enea e la nascita della nuova Troia (Roma)! Con la stessa determinazione di Giunone/Era (Virgilio), Freud lavora a portare alla luce della coscienza europea la struttura edipica del sogno del Dio greco e cattolico-romano (di Platone come di Paolo di Tarso), e venir fuori dall’orizzonte della tragedia (come Dante e lo stesso Nietzsche). Con l’aiuto di "Zeus/Giove"" e di "Era/Giunone", pur tra mille difficoltà, egli riesce a venir fuori dall’inferno e a "nascere, di nuovo"! Nel 1938 arriva a Londra e porta a compimento il suo ultimo lavoro "L’uomo Mosè e la religione monoteistica". Un grande respiro di sollievo! Morirà l’anno successivo.
ANTROPOLOGIA, MATEMATICA, E PSICHIATRIA. Pur avendo Freud dato già dal 1907 chiare indicazioni per lavorare congiuntamente a una nuova educazione civica e a una nuova educazione sessuale per una "società sana" (Erich Fromm, 1955), l’Italia (comel’Europa e l’intero Pianeta) naviga ancora in un oceano illuminato da una diffusa cosmoteandria.
"UNA VOCE” FUORI DAL CORO. Come ha scritto Franca Ongaro Basaglia ("Una voce. Riflessioni sulla donna", il Saggiatore, 1982), continuiamo a fare "un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" e a leggere per lo più e sempre il vecchio "romanzo familiare", quello edipico! Che dire?! Che fare?! Non è meglio uscire dal "sonnodogmatico"?!
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA, TEOLOGIA, E CRISTIANESIMO. Michelangelo con Francesco d’Assisi e Dante o "con Agostino e Paolo nella mente"?!
CAPPELLA SISTINA
Il montaggio patetico della Salvezza
Giovanni Careri, Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina, Quodlibet: gli affreschi di Michelangelo in una lettura warburghiana, e eisensteiniana, che li restituisce quale organismo vivente attraversato da dialettiche «formule di pathos»
di Corrado Bologna *
«Il buon Dio vive nei dettagli», diceva Aby Warburg. Il suo progetto era di connettere dettagli e affinità, ombre delle idee fermate nei gesti delle opere d’arte, per edificare un atlante iconologico reticolare, capace di restituire un’intera morfologia della civiltà ricostruendo il gioco di energie e di opposizioni dinamiche che dà forma e senso alle immagini. S’innamorò della Ninfa riconoscendola nel movimento seducente della fanciulla che il Ghirlandaio aveva colto al volo come una farfalla nella Cappella Tornabuoni di Santa Maria Novella. Poi lo inseguì per anni, quel gesto, sui sarcofaghi, nei dipinti, in innumerevoli minuzie ricondotte genialmente a «far sistema» in un percorso mentale e culturale vastissimo.
Invece, di Michelangelo, il più grande allievo di Ghirlandaio, Warburg si occupò poco. Però almeno in due tavole dell’ormai celebre Atlante di Mnemosyne, la 53 e la 56, pose implicitamente in rapporto, accostandoli per esaltarne il dinamismo semantico, alcuni dettagli degli affreschi della Sistina, i giovanili Antenati di Cristo nelle lunette della volta (1511-’12) e il maturo Giudizio Universale (1535-’41). In essi intuì forse una traccia di quel maestoso, occulto progetto che Giovanni Careri definisce «fabbrica del corpo glorioso», ricostruendone la vicenda in un libro densissimo, di alto profilo culturale, elegantemente warburghiano nel metodo interpretativo e nell’ampiezza della documentazione (Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina, Quodlibet, pp. 293, € 28,00).
Questo libro affascinante, che «decostruisce» la Cappella smontandone il moto figurativo depositato lungo trent’anni di straordinaria concentrazione da uno dei più grandi artisti di ogni tempo, mi riporta alla memoria un piccolo capolavoro quasi dimenticato (e che conto di riproporre presto), La cattedrale come spazio dei tempi, pubblicato da Friedrich Ohly nel 1972. Ohly propose di «leggere» la Cattedrale di Siena come «immagine architettonica di storia della salvezza che parla attraverso le sue forme foggiate in gradi biblici al pari, su un altro piano, della cronaca universale nella letteratura e della rappresentazione del mondo figurata». Secondo la sua acuta interpretazione quello spazio sacro produce l’«inglobamento del passato e del futuro in un tutto che sta dinanzi agli occhi», recuperando l’effetto emozionale e devozionale di un «processo di visualizzazione» per cui «il fluire della storia diventa un bene stabile». Nella Cattedrale di Ohly, come nella Sistina di Careri, davvero «la storia del mondo si evolve in rappresentazione del mondo»: l’edificio si trasforma nello «spazio figurativo e temporale di una mappa mundi cosmica».
Nella Sistina, invece che la riproduzione dell’universo, il tema è la storia della Salvezza. Giovanni Careri dimostra con erudizione e sottigliezza ermeneutica quali energie spirituali, teologiche, ideologiche, si confrontano e si scontrano in quel luogo straordinario, in cui Michelangelo concentrò uno sforzo titanico, non solo artistico ma anche ermeneutico e teologico, depositandovi un pensiero nutrito dalla corrente degli Spirituali stretti intorno al cardinale Reginald Pole a Viterbo (con lui, a leggere il Beneficio di Cristo, c’erano anche Vittoria Colonna e Sebastiano dal Piombo).
Michelangelo raffigura in cifra, con Agostino e Paolo nella mente, «il passaggio dalla filiazione carnale alla filiazione divina dal punto di vista della storia cristiana, come pure la necessità antropologica di definire l’identità cristiana in rapporto al suo "altro"». Rappresenta così la salvezza dell’umanità che si staglia in un campo di tensione fra il tempo messianico e il paolino katéchon, la frenante forza d’inerzia con cui la temporalità storica incarnata negli Antenati, cioè insieme «gli ebrei "ostinati"» e «il cristiano negligente», ne ritarda l’adempimento. In questo senso la Cappella Sistina è attraversata da energie formidabili, e si trasforma in un teatro della memoria, in un dispositivo mnemotecnico di metamorfosi interiore simile a quello che Giulio Camillo ideò negli stessi anni: il percorso che lo spettatore compie nello spazio vivo, con il suo corpo e il suo sguardo, è un cammino iniziatico. L’«istanza del soggetto» coinvolge sia chi dipinge sia chi osserva, giacché «il corpo glorioso» dell’uomo può venir `fabbricato’ attraverso un’«inclusione» spirituale, che Careri definisce «conformazione per somiglianza» rispetto al corpo di Cristo.
Sono certo che a Warburg, e anche ad Ohly, sarebbe piaciuto questo Michelangelo segreto, colmo di straordinarie Pathosformeln, riportato alla luce da Giovanni Careri. Il metodo con cui è impostata la sua colta, molto documentata e originale «antropologia della Cappella Sistina», si fonda sull’«analisi cinematica della pittura» e sul riconoscimento di un «"montaggio" delle immagini messo a punto da Michelangelo stesso», che «il montaggio di Warburg non fa che riprendere e sviluppare». Questo montaggio è di fatto il cinema mentale dell’artista, che lo storico riporta in vita attraverso un’antropologia dell’immagine, e soprattutto del suo intrinseco dinamismo.
La Sistina è compresa come un organismo vivente, in cui le immagini invitano l’osservatore all’«attualizzazione del significato teologico e devozionale» che accennano, grazie al «montaggio patetico» con cui sono connesse. Proprio di un «montaggio patetico» che coinvolge le percezioni fisiche, le immagini mentali, gli affetti di chi entra nell’opera d’arte con il corpo e con la mente, Giovanni Careri parlava nel suo primo libro, Voli d’amore. Architettura, pittura e scultura nel «Bel composto» di Bernini. E anche allora si richiamava a quello che il grande regista russo Sergej Eizenstejn definiva «il montaggio delle attrazioni», «un’operazione estetica di scomposizione e ricomposizione di un molteplice eterogeneo che si compie nello spettatore».
Rimeditando l’intuizione di Eizenstejn, il quale come Warburg (probabilmente senza conoscerlo) parlava di «formule del pathos», Careri coglie, nel corpo vivente della Sistina, «la dinamica indotta dal passaggio da un sistema all’altro», e rilegge il Giudizio universale, accanto alle pareti di Perugino, Botticelli, Signorelli, Ghirlandaio, «come un’uscita dalle categorie visive della storicità umanista che regolano i cicli degli affreschi quattrocenteschi rispetto ai quali il grande affresco della parete di fondo viene non solo ad aggiungersi, bensì a "montarsi"».
Il Giudizio del Michelangelo maturo è in dialogo anche con la volta del Michelangelo trentenne: e Careri dimostra, con un’argomentazione serrata e molto solida, come gli Antenati, nelle lunette del soffitto, «incarnano il ruolo di contrappeso terreno al movimento d’ascensione e di caduta dei personaggi eroici», mentre il gesto possente del Cristo nel Giudizio, di fronte allo spettatore, diviene «il nucleo generativo di una serie di onde, espressione di una forza che attraversa i corpi, li lega fra loro e dà loro forma». Cristo, con «l’impulso dato dalla furia del movimento», nella serpentina del suo corpo immenso, non solo condanna i reprobi, ma accoglie e salva i giusti. Quel gesto costituisce un vortice ambivalente, fra parousia e terribilità, a cui gli astanti, nel dipinto e nello spazio della cappella, possono corrispondere compiendo l’«assunzione di somiglianza» che otterrà la loro «conformazione» gloriosa. Il tempo del Giudizio è quindi il paolino tempo che resta, «un tempo che si contrae e comincia a finire». E un’immagine dialettica, perfettamente benjaminiana: «corrisponde all’orizzonte temporale verso il quale gli affreschi delle pareti e quelli della volta dispiegavano le loro narrazioni e i loro annunci, ancor prima che il grande affresco della parete dell’altare venisse a dar figura visibile a questo punto di fuga del tempo, sino ad allora implicito». In una simile catastrofe il «punto di fuga del tempo della storia» si rovescia, messianicamente, «nel punto di vista privilegiato per comprenderla».
* Fonte: Quodlibet -«Alias - il manifesto», 25 aprile 2021
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
PER LA PACE PERPETUA. ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO....
MICHELANGELO PER UN RITRATTO A PROUST: UNA ILLUMINANTE INDICAZIONE DI WALTER BENJAMIN.
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE... *
Tenochtitlan 13 agosto 1521. Conquistadores, la storia di un grande «desencuentro»
Forse quella dell’America non fu né scoperta né conquista, ma incontro mancato. C’è ancora tempo per un’altra modalità di relazione con l’alterità?
di Lucia Capuzzi (Avvenire, giovedì 5 agosto 2021)
«Il sole si alza dal tuo letto di ossa [...]. L’alba lacera la cortina. Città, pila di parole rotte». Cinquecento anni dopo la sconfitta dell’impero azteca con la caduta di Tenochtitlan, la lacerante attualità dei versi di Octavio Paz vibra nel corpo giunonico di Città del Messico. Un organismo vivente più che una città. La spugnosa carne coloniale copre viscere dell’antica capitale precolombiana, per essere a sua volta ricoperta da una sottile pelle ultra-moderna. Gli strati coesistono, a volte confliggono, sempre si alimentano a vicenda. In questo flusso incessante, la megalopoli palpita, respira, sussiste. Impossibile separarli senza ucciderla. Una consapevolezza che, però, la città è incapace di tradurre in parole, come dimostra la polarizzazione delle narrative per l’anniversario. Perché implica fare i conti con l’evento che l’ha generata. E che, in fondo, ha generato l’America Latina.
Più ancora del 12 ottobre 1492, fu l’entrata a Tenochtitlan dei conquistadores al seguito di Hernán Cortés a segnare la nascita del mondo nuovo. E con esso il principio dell’età moderna. Fu “scoperta” o fu “conquista”? Fu incontro o fu scontro? Di sicuro, come afferma Tzvetan Todorov, fu l’esperienza più radicale, estrema, intensa di «scoprimento dell’altro». A differenza degli africani o degli asiatici, gli indo-americani e la loro esistenza erano del tutto ignorati dagli europei. Il confronto, dunque, fu di forza inedita. Mai come allora, gli uni e gli altri dovettero affrontare dei “simili diversi”.
Quel 13 agosto 1521 diviene, dunque, in un certo senso, il “parto” - per parafrasare Amalia Podetti - del globo, inteso come totalità. E del nostro tempo. Con tutte le sue contraddizioni. Non per niente, secondo Todorov, nel XVI secolo si è perpetrato il più grande genocidio della storia umana. Il massacro fu inaudito, questo è incontestabile. La sua definizione aritmetica, invece, è oggetto di dibattito tra gli studiosi ma tutti parlano di decine di milioni di esseri umani ingoiati in un vortice di violenza, schiavitù, epidemie. Magari una simile proporzione non fu voluta e intenzionale. Magari la leggenda nera anglobritannica - non proprio neutrale e benintenzionata - ha esagerato dettagli e crudeltà. Magari numerosi leader politici hanno cavalcato e cavalcano la strage per opportunismo. In questo, l’enfasi posta dal presidente Andrés Manuel López Obrador sul cinquecentesimo come sconfitta dei «veri messicani» è emblematica. Peccato che il Messico è - nel bene e nel male - è figlio di Cortés quanto di Monteczuma. Non sono, tuttavia, gli intenti, più o meno raffinati, di minimizzazione ad accelerare l’uscita dall’impasse.
Oltre che oggetto di studio, la mattanza d’America è soggetto di una storia di dolore, impressa, tuttora, nella carne e nel sangue dei discendenti dei nativi. Per costoro gli abusi antichi non sono che l’eco di quelli presenti, poiché la discriminazione e il rifiuto non sono terminati con la colonizzazione né con l’indipendenza né con le rivoluzioni e controrivoluzioni del secolo scorso. Per questo, gli occhi degli attuali maya si sono velati di lacrime nell’ascoltare papa Francesco affermare, a San Cristóbal de las Casas, il 15 febbraio 2016: «Perdono, fratelli! Il mondo di oggi, spogliato dalla cultura dello scarto, ha bisogno di voi!». Curiosa, dunque, l’ostinata richiesta di López Obrador nel domandare delle “scuse” già fatte senza alcuna sollecitazione. Farsi carico della memoria ferita è la grande occasione offerta dall’anniversario. Non solo per riconciliare il passato. In fondo, cinque secoli dopo, l’essere umano si trova di fronte ancora l’enigma di Cortés. Esiste l’uguaglianza al di fuori dell’identità? C’è spazio per una differenza che non implichi la subordinazione? La distruzione di Tenochtitlan ci ha mostrato le conseguenze di una risposta negativa, come quella del conquistador.
Forse, più che scoperta o conquista, quella d’America fu un grande desencuentro, un incontro mancato. Eppure non è l’unica alternativa. Desencuentro, intraducibile in italiano come unica parola, contiene in se la dimensione dell’encuentro, l’incontro. Anche questo ci ha mostrato la storia del Continente. Dieci anni dopo la devastazione dell’impero azteca, non lontano dalle ceneri ancora fumanti di Tenochtitlan, a Tepeyac, una Madonna dalle fattezze indigene scelse il nativo Juan Diego come proprio testimone. Nello sguardo non assimilativo della Morenita si intuisce un’altra modalità di relazione possibile con l’alterità.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
#QUESTIONE ANTROPOLOGICA
#FILOLOGICA
E
#ARCHEOLOGICA.
#IMPERATIVO CATEGORICO
E
#SONNO DOGMATICO:
E
#GATTUNGSWESEN.
#DIVINA COMMEDIA:
I #TRADITIONIS CUSTODES,
IL #LATINO,
#CARITAS (#KAPITAS)
O DELLA
#CHARITAS (#XAPITAS)?
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#QUESTIONE ANTROPOLOGICA
#FILOLOGICA
E
#ARCHEOLOGICA:
#EUROPA.
#DIVINA COMMEDIA (#DANTE2021)
E #SONNO DOGMATICO:
IL PROBLEMA DEL #LATINO
E
I #CUSTODI DELLLA #TRADIZIONE CATTOLICO-ROMANA
(#TRADITIONIS CUSTODES),
QUELLA DELLA
#CARITAS (#KAPITAS)
O DELLA
#CHARITAS (#XAPITAS)?
Habermas: anche una storia della filosofia
di Leonardo Ceppa (Le parole e le cose, 20 luglio 2021).
1. Una possibile idea di filosofia
Nella Prefazione dell’ultima opera (Auch eine Geschichte der Philosophie, Suhrkamp 2019) si nasconde il sale della gigantesca impresa. Che idea ha oggi Habermas della filosofia? Che compito vuole assegnarle? Nella cultura contemporanea è domanda grandiosa. Di fronte a questo libro ci chiediamo: si tratta del dettagliato racconto di uno sviluppo storico (che perlustra gli stadi secolari attraverso i quali si è formata la proposta di una filosofia postmetafisica) oppure di un’intuizione teorica proiettata all’indietro, che per un verso organizza a posteriori il passato e per l’altro verso si presenta ora (a fine carriera) in tutta la sua potenza come dichiarazione esistenziale, rivoluzione antipositivistica, battaglia argomentativa? Non vogliamo banalizzare la questione al vecchio circolo, tra filosofia e storia della filosofia, di cui prende coscienza ogni matricola studentesca. Come tutti sanno, a differenza delle altre materie scientifiche, della filosofia non si può raccontare la storia senza prima disporne di una implicita idea teorica, ma di tale idea non ci si impadronisce, senza prima averla trafugata (magari senza saperlo) ai materiali di una venerabile storia istituzionale.
Soggettivamente, Habermas si trova impigliato in una trappola. Si vergogna del sollievo (eigentlich unseriös) di non dover daccapo consultare la dilagante letteratura secondaria, di non dover ripetere dimostrazioni più volte sviluppate nei decenni precedenti. Ma sa anche che nessuna tesi filosofica può appoggiarsi sull’impegno soggettivo di chi la pronuncia, per quanto grande sia la sua convinzione. Così nello scavalcare, ponendola al centro, la biforcazione cruciale tra Hume e Kant da lui vista all’origine della spaccatura della modernità - tra necessitarismo scientistico, empiristico e positivistico, da un lato, e costruttivismo linguistico intersoggettivo e comunicativo, dall’altro - egli sceglie una via di mezzo: quella di limitarsi a sottolineare una differenza che sempre si ritrova tra gli opposti partiti. “Nella concorrenza delle impostazioni [mi sono accorto che] si presentava sempre una identica differenza nei loro assunti di fondo (...) le analisi di una parte poggiavano sempre su rappresentazioni e intenzioni individualistiche, singole disposizioni e comportamenti soggettivi, laddove le analisi della parte concorrente partivano dalle stesse questioni facendo però appello a simboli e regole intersoggettivamente condivise, linguaggi, pratiche, forme-di-vita e tradizioni, per poi soltanto alla fine analizzare, nei corrispondenti tipi di discorso, le necessarie condizioni soggettive per poter venire a capo di quelle strutture e di quelle competenze” (p. 10).
La filosofia è una scienza, ma non una scienza come tutte le altre: è una scienza sui generis. Le scienze normali restringono, specializzandolo, il loro campo di azione, la filosofia invece lo allarga. E lo allarga in maniera tanta smisurata da trascinarvi dentro occhio, oculare, e tutti gli strumenti del ricercatore. L’osservatore diventa un mago stregone. Lo scienziato della modernità è il novello Faust. Laddove, dice Habermas, la scienza specialistica lavora “nel dire sempre di più su sempre di meno” (p. 12), la filosofia mantiene tutta la sua faustiana (o hegeliana) presunzione della totalità, tanto da far dipendere il destino dello scienziato (e dell’uomo) dal modificarsi del suo sapere. Sapere del mondo e autocoscienza dell’uomo restano legati insieme dall’uso che l’uomo impara a fare delle sue conoscenze. In questo senso Habermas non separa la “scienza” dall’effetto di “rischiaramento” ch’essa produce. Dal XVIII secolo in poi, Wissenschaft e Aufklärung, scienza e presa di coscienza vanno di conserva, tenute insieme da quel trattino grammaticale (miracoloso nella sintesi tedesca), che lega Selbst- e Weltverständnis in una medesima emissione di fiato.
C’è anche qualcosa di cruciale che il sapere filosofico condivide con le scienze “normali” della nostra epoca: la tendenza alla specializzazione e alla divisione del lavoro. E’ una tendenza inevitabile, feconda, persino desiderabile, la quale tuttavia, nella versione positivistica della filosofia, minaccia di trascinar via (o far dimenticare) quel trattino miracoloso che lega il sapere del mondo sia al destino dell’uomo sia al destino di Dio. Ma perché, agli occhi di Habermas, questo pericolo del positivismo resta una minaccia reale per la filosofia contemporanea? Perché in realtà quest’ultima - per non perdere di vista il rapporto alla totalità - si trova oggi a fronteggiare una preoccupante e smisurata crescita di complessità: moltiplicandosi e arricchendosi il sapere del mondo, la struttura economica della società, le tecniche d’intervento sul corpo e sulla psiche. Con convinzione Habermas ripete la diagnosi di Marx: gli uomini rischiano di diventare le appendici organiche di una scienza e di una tecnica vampiresche, la cui organizzazione umana (il sapere umanistico del cosmo e dell’uomo) diventa sempre più inabbracciabile e inafferrabile (unüberschaubar, p. 12).
Di qui la tentazione (ecco la polemica di Habermas contro il positivismo filosofico) di arrendersi, di rinunciare all’impulso illuministico che ancora animava Kant e Faust, di abbandonare l’impresa umanistica di “dare forma” a sé stessi nella configurazione del mondo (il tema del Gestalten, ricco di risonanze). Allora del progetto moderno resterebbero in piedi soltanto le gloriose rovine. E al filosofo contemporaneo non resterebbe che ripiegare in un atteggiamento di ellenistico disincanto. Un fatalismo dal sapore classicistico verso cui Habermas ha sempre manifestato un orrore palese.
2. Un “processo di formazione” tra la sfida delle contingenze e le speranze della ragione
A che serve, si chiede Habermas a questo punto, ripercorrere nei dettagli - ancora una volta - tutta la storia della filosofia fino al suo punto di arrivo? Questa storia sembra talora diventare il virtuosistico e compiaciuto ricamo su una vicenda mille volte diagnosticata, difesa e omaggiata: il progetto di una modernità in pericolo, la facoltà di trascendere la contingenza nei processi dell’ apprendimento, il peso, infine, che con l’eredità millenaria della religione viene oggi a scaricarsi su una corrente di filosofia postmetafisica. Asse centrale su cui ruota tutto il progetto: la indissolubilità di Aufklärung e Wissenschaft, sapere del mondo e conoscenza dell’uomo, insomma il magico trattino (binde-strich) tra l’uomo e il suo ambiente. Dopo avere scritto, alla fine del libro, il capitolo sui posthegeliani, Habermas si accorge di aver capito una cosa. Il processo delle ramificate controversie teoriche non ha più bisogno di allargarsi: basta mettere in rilievo i presupposti sistematici e metodologici di cui lui si è servito in tutta la sua carriera professionale. La sua tenacia servirà allora a illustrare quella “implicita idea di filosofia” cui ha sempre lavorato, dando ai suoi problemi una impostazione metodologica, che è di di tipo esistenziale e personale, morale e politica, ancor prima che accademica e professionale. Alcuni dettagli diventano secondari e la filosofia-a-360 gradi scende dal cielo prendendo la forma di un Ansatz: di un approccio, di una visione, di un metodo costruito e perfezionato attraverso i decenni. Gli stessi strumenti metodologici illuminano senza sforzo la direzione del cammino: dalla “costellazione occidentale di fede e ragione”, cioè da quella “osmosi semantica” citata nella copertina del primo volume, alla “libertà della ragione” (genitivo soggettivo e insieme oggettivo) auspicata nel secondo volume come obbiettivo postmetafisico del processo.
Nella Prefazione a questi due volumi Habermas ricorda le drammatiche svolte della storia universale: 1) l’età assiale delle religioni mondiali, 2) l’arricchimento reciproco, nell’Europa cristiana, di fede e ragione, cioè quella simbiosi che nella modernità sfocia in scissione, 3) il dissolvimento della falsa metafisica hegeliana nell’impostazione intersoggettiva della pragmatica linguistica.
Le nobili domande della filosofia di Kant - cosa posso conoscere, cosa posso fare, in che cosa sperare - rimangono le stesse, ma presentandosi in un “formato” diverso: muovendo dalla “situatezza” dell’uomo finito queste domande non si camuffano più nella forma di un Assoluto, cioè come fossero formulate da un punto di vista divino oppure positivisticamente scientifico. E proprio l’approccio teorico di Habermas, tra quelli concorrenti oggi nella professione, è quello che più sottolinea la cosa. In questo senso il sistema filosofico di Habermas è personale e professionale nello stesso tempo. Dall’esercizio filosofico resta ineliminabile un momento “performativo” - di responsabilità soggettiva e morale, espressiva e politica - che caratterizza l’autore senza potersi nascondere.
Habermas ce ne dà subito la prova scendendo in lizza con alcuni avversari ( p. 11). Per lui è impossibile, per esempio, prendere sul serio i modelli di Kuhn, Foucault e Feyerabend, perché escluderebbero in via pregiudiziale la possibilità dell’apprendimento, l’occasione di dare al mondo una Gestaltung (un ordine umano). Le rivoluzioni scientifiche di Kuhn contro il falsificazionismo di Popper, il discorso come “maschera del potere” sviluppato da Foucault, l’anarchismo metodologico di Feyerabend, non muovono da una matrice situativo-esistenziale dell’uomo. Queste opzioni renderebbero impossibile concepire le svolte e i cambi-di-paradigma come “risposte fallibili” agli stimoli dell’apprendimento. Il processo di innovazione - sempre aperto agli esiti più diversi perché si impara anche dagli errori - resta per Habermas il campo di tensione intersoggettiva che collega le esigenze della situazione di radicamento - i bisogni della matrice e gli abissi della contingenza - alle risposte e ai tentativi di soluzione proposti da una ragione fallibile. Verso la fine di questa Prefazione, Habermas formula così la sua idea di genealogia: passare sugli abissi dell’esistenza (Abgründe) usando le ragioni (Gründe) come ponti avventurosi, p. 16)
3. Il discorso di “fede e ragione” nell’angolo di mondo chiamato Europa
Il rapporto tra religione e filosofia (che con bella espressione Habermas chiama “osmosi semantica”) incontra nell’occidente europeo un destino particolare. A quella metafisica greca nata nei commerci dell’Egeo e che, nell’era assiale, rappresentava una delle poche significative immagini-di-mondo, toccò in sorte un destino del tutto particolare. Infatti, lungo i secoli del platonismo cristiano che mise radici nell’impero romano, andava realizzandosi uno “doppio attraversamento” di contenuti lungo il confine che divideva la ragione dalla fede, la filosofia dalla religione. Per un verso, credenze sostanziali della narrativa cristiana passavano il confine con la filosofia diventando, in questo campo, saperi razionalmente dimostrabili. In senso contrario, verità metafisiche costruite dai filosofi platonici si trasformavano, appena giunte nel campo della fede, in elaborati teoremi della dogmatica religiosa.
Potremmo addirittura parlare di un destino “secolare e glorioso” se osserviamo come, nella prospettiva con cui Habermas ci racconta il lento formarsi della filosofia postmetafisica, un ininterrotto arco temporale si protende da Agostino fino alla Deutsche Klassik. Infatti, i temi della “autonomia” e della “libertà della ragione” - che caratterizzano la modernità dando sviluppi vertiginosi alla “ragion pratica” postkantiana - non avrebbero mai potuto nascere se non sulla base di quella “osmosi semantica” che Habermas sceglie come guida della sua ricostruzione storica (p. 15). Anzi, il pensiero secolare di un ramo della filosofia postmetafisica contemporanea si è oggi talmente emancipato dalle sue lontane origini teologiche da creare quasi “sproporzione” in favore di una filosofia tanto laica quanto risonante di echi religiosi (basti pensare ad autori come Adorno, Kafka o Levinas), a tutto svantaggio della teologia dogmatico-professionale. Per questo, nel panorama culturale contemporaneo, troviamo sempre piu’ scrittori e filosofi “secolari” (cioè laici e postmetafisici) che trattano temi di pertinenza pseudo-religiosa. Sono persino diventati più numerosi dei laicisti empiristi che, a partire da Hume, riducono psicologicamente la religione a favola consolatoria. Così, quando Habermas polemizza contro la sclerosi laicistica di molta filosofia contemporanea, lo fa anche per mostrare come (pur non essendosi mai interrotta la osmosi semantica tra fede e ragione) si siano oggi spostate le linee dei vecchi confini disciplinari. Nella disordinata polifonia dell’opinione pubblica, tocca spesso ai filosofi laici trattare temi morali, giuridici e politici, che tradiscono evidenti origini bibliche o religiose. E lo fanno più spesso dei filosofi empiristi, che considerano tali temi come superate zavorre oltrepassanti l’orizzonte delle loro divisioni specialistiche.
Questo spiega da ultimo la soverchiante responsabilità che Habermas accolla a quel ramo di filosofia postmetafisica (il ramo kantiano dei 360-gradi, non quello humeano dello sbaraccamento specialistico) che accetta di dialogare - sullo stesso piano - intra moenia coi filosofi ed extra moenia coi teologi. Trattando proprio di quelle questioni che vengono pudicamente evitate dai laicisti rigorosi (chiusi a riccio in quelle specializzazioni “che dicono sempre di più su sempre di meno”). Alla fine Habermas non esita a formulare una tesi coraggiosa di questa portata: “Al di là dei suoi aspetti palesemente postmetafisici, la questione che la filosofia deve sentirsi in grado di affrontare ed elaborare si decide oggi sulla rinnovata eredità del lascito religioso. Anche se questo è problema che riguarda soltanto uno dei rami in cui si è scisso il pensiero postmetafisico” (p. 15 corsivo mio,).
Sembrava infatti che il problema religioso, dopo la moderna scissione tra fede e ragione, dovesse sciogliersi come chiedeva Hume, per via pacifica e senza clamore, passando per la via naturalistica ed empiristica delle considerazioni antropologiche di empiristi e utilitaristi. Invece, scrive Habermas, vediamo con sorpresa scatenarsi nella Sinistra hegeliana una furiosa polemica antireligiosa contro le confessioni del protestantesimo borghese e contro l’assimilazione hegeliana della religione nell’automovimento idealistico dello Spirito. Autori come Feuerbach, Marx e Kierkegaard (ma possiamo anche includere Nietzsche) combattono le consolazioni della religione chiesastica con spirito ardentemente anticlericale. E c’è molto di paradossale, sembra aggiungere Habermas, in questo “anticlericalismo religioso” evocante quelle tracce kantiane di ragion pratica, autonomia e libertà-della-ragione, che paiono disperse lungo la storia di una insopprimibile e irriducibile “emancipazione umana” che rifiuta di sciogliersi in fatalismo stoico.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
#EDUCAZIONE CIVICA
#TRAGEDIA
E
#DIVINA COMMEDIA
#oggi.
Dopo #Dante (1321)
e la #rivoluzione delle #sfere celesti
(#Copernico 1543)
e terrestri
(#Giovanni Valverde, #Anatomia 1560),
celebra ancora la
#dotta ignoranza
di
Socrate
e
Niccolò Cusano
"IL GIOCO DELLA PALLA", SECONDO LA LOGICA "ANDROLOGICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO...:
#DANTE2021
E
#ANTROPOLOGIA (#HOMO LUDENS):
IL #GIOCO DELLA #PALLA
(#De ludo globi) DI
#NICCOLO’ CUSANO
riguarda «un gioco scoperto da poco che tutti comprendono facilmente e giocano volentieri»
E
LA #DOCTA IGNORANTIA
#FILOLOGIA
E
#STORIA.
#PILATO
(#Ecce Homo gr.: «idou ho #anthropos»),
#SAN PAOLO
(1Cor. 11, 3: "di ogni #uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ]"),
#GIUSEPPEFLAVIO
("Egli era il #Cristo")
#Parola Di Dante
...viro
(Paradiso XXIV, 34)
***
#Beatrice chiede al #proboviro
#SanPietro di verificare
se #Dante ha capito la differenza tra
l’#Ecce Homo dell’#antropologia
(#PonzioPilato: gr. «idou ho #anthropos»)
e
il #vir dell’#andrologia di
#SanPaolo
(#capo della #donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ]: 1 Cor 11,1-3).
#BIBBIA CIVILE
E
#MAGISTERO ANTROPOLOGICO:
#COME NASCONO I BAMBINI?
#Divina Commedia:
#Dante2021.
se #Maria è #madre e #maestra.. #Giuseppe non è #padre e #maestro?!
Per un’altra #fenomenologiadellospirito:
IO, dall’#AMORE di #Due IO.
In onore di Francesco e Chiara d’Assisi, dei Francescani (Dante Alighieri, compreso!) ... e di Leonard Boff
IGNOTI A SE’ STESSI ...ED ESPORTATORI DI ’CRISTIANESIMO’ E DI ’DEMOCRAZIA’!!!
La ’lezione’ (di Nietzsche e) di un aborigeno canadese ai ’registi’ della politica ’cattolica’ (e ’laica’).
di Federico La Sala (ildialogo.org, 22 novembre 2005)
Credo che ormai siamo proprio e davvero al capolinea - nella totale ignoranza di se stessi i componenti della Gerarchia della Chiesa ’cattolica’ si agitano ... alla ’grande’!!! Non hanno proprio più nulla da dire, evidentemente! Sono scesi in campo ... ma contro Chi?!, contro che cosa?! Contro lo spirito francescano!!!
In segno di solidarietà, qui ed ora - 2005 dopo Cristo, con i francescani in carne ed ossa, oggetto di un richiamo, con un Motu Proprio, da parte dell’ex- prefetto ’kantiano’ Ratzinger, il papa Benedetto sedicesimo, forse non è inutile un breve commento a margine... per cercare di stare svegli e di svegliarci, possibilmente - tutti e tutte!
Dennis McPherson, un aborigeno (che ormai ’ci’ conosce bene, evidentemente!) canadese, ecco cosa (sapientemente e sorprendentemente - per noi, occidentali!!!), alla domanda - “qual è l’essenza dell’essere umano? E’ una creatura speciale con una missione speciale?” - di un’antropologa-intervistatrice, ha risposto:
Se teniamo presente le famose parole “De nobis ipsis silemus [...]”(di Francesco Bacone), messe da Kant sopra (come una pietra tombale) e prima di iniziare il suo discorso della e nella Critica della ragion pura, si può dire che il ’nostro’ aborigeno ha capito e visto più che bene - e meglio di tutti i filosofi e teologi dell’Occide[re]nte!!! E ’ce’ lo ha detto in faccia - ’papale’, ’papale’: basta!!!
Noi che non conosciamo ancora noi stessi (Nietzsche) .... e che navighiamo nel più grande “oscurantismo” - quello (più importante!!!) relativo a noi stessi, vogliamo pure dare lezioni ed esportare ’cristianesimo’ e ’democrazia’ in tutto il mondo!? “Mi”!?, e “Mah”!!!?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo). HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"
FLS
Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza (Mc 12,29-30)
#Questione Antropologica.
La cit. di Mc 12, 29-30 ha un senso andrologico (e cosmo-te-andrico) o antropologico,
come il #Padre di ogni essere umano (#PonzioPilato: #Ecce homo),
quell’#Amore (di #Dante Alighieri),
che muove il #sole e le altre #stelle -
e anche la #Terra?!
(BEATO ANGELICO, 1437-1446).
#PONZIO PILATO
(«#Ecce #homo»: gr. «idou ho #anthropos»),
#PAOLO DI TARSO
("di ogni uomo il capo è Cristo, e
#capo della donna è l’uomo [«uomo»: gr. ἀνήρ, ἀνδρός], e
capo di Cristo è Dio" - 1Cor. 11, 1-3),
e
(LEONARDO DA VINCI).
Il Vaticano, il ddl Zan e il Concordato da abolire
L’entrata a gamba tesa del Vaticano nella discussione sul ddl Zan non sorprende e mostra come lo statuto privilegiato che lo Stato italiano accorda alla Chiesa può seriamente minarne l’indipendenza e la laicità.
di Cinzia Sciuto (MicroMega, 23 Giugno 2021)
Lo stracciarsi di vesti in seguito alla nota verbale del Vaticano sul Ddl Zan è francamente incomprensibile. Dal 1929 (pieno regime fascista), grazie ai Patti lateranensi, la Chiesa cattolica - una sorta di monstrum metà Stato (con tanto di governo, ministri, ambasciatori, leggi, giudici ecc.) e metà ente religioso (con tanto di testo sacro, dogmi, riti e una rete di parrocchie e diocesi e preti e suore estesa su tutto il globo terracqueo) - gode di uno statuto privilegiato nei rapporti con lo Stato italiano, che francamente non si capisce perché non dovrebbe sfruttare (se non per suo opportunismo).
La Repubblica nata nel 1946 ha confermato in tutto e per tutto questo statuto privilegiato, parzialmente modificato solo con la revisione del Concordato del 1984 che ha fatto un passo importante, senza però tirarne le dovute e logiche conseguenze: dal momento in cui infatti, la religione cattolica non è più religione di Stato (come invece stabiliva il Concordato in vigore fino a quel momento), viene meno il fondamento su cui questo statuto privilegiato si fondava. -Uno Stato laico non può infatti per definizione avere rapporti privilegiati con una religione (tanto più che questa si presenta come quel monstrum metà Stato e metà ente religioso di cui sopra). (Per inciso: uno Stato davvero laico non può avere rapporti privilegiati con le religioni in generale, ma questo è un altro tema).
Antonio Gramsci osservava che il Concordato rappresenta di fatto una limitazione unilaterale della sovranità dello Stato italiano nel proprio stesso territorio: “Mentre il concordato limita l’autorità statale di una parte contraente, nel suo proprio territorio, e influisce e determina la sua legislazione e la sua amministrazione, nessuna limitazione è accennata per il territorio dall’altra parte. [...] Il concordato è dunque il riconoscimento esplicito di una doppia sovranità in uno stesso territorio statale”[1]. Altro che libera Chiesa in libero Stato.
Prendiamo per esempio l’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica italiana. Come stabilisce il protocollo addizionale all’accordo di modifica del Concordato del 1984, questo insegnamento ha per legge carattere confessionale, in quanto impartito da insegnanti indicati dall’autorità religiosa e con contenuti non storico-critici ma dogmatici: “L’insegnamento della religione cattolica [...] è impartito - in conformità alla dottrina della Chiesa e nel rispetto della libertà di coscienza degli alunni - da insegnanti che siano riconosciuti idonei dall’autorità ecclesiastica, nominati, d’intesa con essa, dall’autorità scolastica” (corsivi miei).
Se le cose stanno così, dunque, è del tutto inutile, e anche francamente un po’ penoso, frignare e implorare la Chiesa di essere un po’ meno invadente. La Chiesa fa la Chiesa, e a seconda delle contingenze storico-politiche sceglie gli strumenti che più le sono utili per raggiungere i suoi scopi, apparendo talvolta più conciliante ma sapendo tirar fuori gli artigli quando si sente seriamente minacciata. Artigli che però le abbiamo affilato noi.
Purtroppo non possiamo neanche lontanamente sperare che questa occasione venga colta per recidere finalmente l’unico legame della nostra Repubblica con il regime fascista e completare il percorso per rendere questo Paese compiutamente laico. Stando alle anticipazioni della stampa Draghi oggi dirà che «dovranno essere valutati gli aspetti segnalati da uno Stato con cui abbiamo rapporti diplomatici», mentre Letta - il segretario di quello che dovrebbe essere il partito erede di Gramsci - si è già messo sull’attenti, dichiarando di essere “pronto al dialogo sui nodi giuridici”. Nodi giuridici che sono stati sollevati già da diverse realtà non reazionarie e non cattoliche, le quali però non hanno goduto dell’attenzione invece riservata al Vaticano.
Il ddl Zan è, come tutte le proposte di legge in un Paese laico e democratico, aperto alla discussione e agli apporti critici di tutta la cittadinanza. Solo che ci sono cittadini che a disposizione hanno solo gli strumenti della libera discussione politica, attraverso i partiti e la società civile. E poi ci sono cittadini più uguali degli altri che possono contare su quell’animale mitologico metà Stato e metà ente religioso che, quando la lotta si fa dura, tira fuori l’asso nella manica sparigliando le carte.
[1] A. Gramsci, Quaderni del carcere [1932-1935], edizione critica a cura di V. Gerratana, 4 voll., Einaudi, Torino 2007, vol. III, quaderno 16 (XXII), p. 1866.
MICHELANGELO (LA "PIETA’ BANDINI"), KANT , E UNA CITAZIONE DAL "KANT" DI PIERO MARTINETTI (1943).
Michelangelo Buonarroti, Pietà Bandini, 1555 ca, Museo dell’Opera del Duomo di Firenze. Si tratta di una delle ultime sculture prodotte dall’artista, che si pensa inserì nella figura di Nicodemo un proprio autoritratto.
Tweet di Il Caffè Letterario@SalaLettura:
Risposta:
#CAFFE’ E ILLUMINISMO: #SAPEREAUDE! (#KANT, 1784). Il #ditosullapiaga: non saper distinguere tra #Mosè-#Faraone e il Mosè-#Liberatore (#Freud), #Gesù #figlio dell’##amore di #Giuseppe_e_Maria e Gesù figlio di #Maria e "#Dio"
Federico La Sala
Intervista - "Letture" *
“Bibbia e Corano, un confronto” di Piero Stefani
Prof. Piero Stefani, Lei è autore del libro Bibbia e Corano, un confronto edito da Carocci: quanto sono simili i due testi sacri?
Comincio da una precisazione rilevante: i testi sacri sono in realtà tre. Occorre infatti distinguere tra Bibbia ebraica e Bibbia cristiana. Uno stereotipo ancora abbastanza diffuso parla di Bibbia e Vangelo. In realtà, esistono la Bibbia ebraica, e la Bibbia cristiana formata da Antico e Nuovo Testamento. I libri dell’Antico Testamento, salvo alcuni casi particolari, coincidono con quelli della Bibbia ebraica; tuttavia in questo caso si è trattato non di aggiungere alcuni libri a quelli precedenti bensì di creare un insieme da leggere e interpretare in maniera diversa.
La somiglianza più profonda è che Bibbia e Corano sono sacri soltanto a motivo dell’esistenza di tre comunità che li considerano tali, in quanto li ricevono, li leggono nella liturgia, li commentano e li trasmettono. Tutte e tre le comunità religiose condividono la convinzione che, nel corso della storia, Dio abbia fatto giungere agli esseri umani parole destinate in seguito ad assumere una forma scritta. Ciò è avvenuto grazie a specifici mediatori che hanno trascritto nella “lingua degli uomini” la volontà di Dio. Per ricorrere alla classificazione consueta, ebraismo, cristianesimo e islam sono «religioni rivelate». Tra esse ci sono molte e non lievi differenze, ma tutte emergono a partire da questo terreno comune. Le si può paragonare a un bosco in cui ci sono alberi molto differenti tra loro, anzi a volte uno di essi fa ombra a un altro, tutti però condividono lo stesso suolo.
Quali sono i più significativi punti comuni tra Bibbia e Corano?
Il primo, irrinunciabile punto in comune è che Dio è definito creatore. Ciò significa che la realtà nel suo insieme ha avuto inizio a causa di un atto libero di Dio. Per tutte e tre non si tratta di dimostrare l’esistenza di Dio a partire da quanto sperimentiamo in noi e attorno a noi; quanto affermato dalle tre religioni è che in noi e attorno a noi ci sono segni dell’opera creatrice di Dio. Per così dire, il Cantico delle creature di Francesco di Assisi esprime un convincimento comune a ebrei, cristiani e musulmani. Per tutte e tre le tradizioni religiose, specie di età moderna, nasce poi il problema di sapere come confrontarsi con la visione del cosmo e della natura proposta dalla ricerca scientifica. Qui le strategie sono in parte diverse.
Altro punto accomunante è che Dio abbia comunicato agli esseri umani delle leggi (per limitarci a un solo esempio, si pensi ai “Dieci comandamenti”) volte a regolare sia i rapporti interni alle singole comunità religiose sia quelli con le altre persone e società. In questo caso ci si deve confrontare con il problema di quale rapporto esista tra queste leggi credute di origine divina e i tempi storici in cui sono sorte. Nasce poi anche l’interrogativo di quale sia la relazione tra le leggi di natura divina e quelle, fondate su altri principi, che regolano la società civile. La questione è accomunante, le risposte sono invece molteplici e spesso non concordi. Sono tali non soltanto tra ebraismo, cristianesimo ed islam, ma anche tra i vari gruppi o membri interni alle singole comunità religiose.
Le tre grandi religioni monoteiste fondano sulla rivelazione divina la propria dottrina, tanto da meritare l’appellativo di ‘popolo del libro’: come definiscono, i due testi sacri, la comunità dei credenti?
Come accennato in precedenza è vero che tutte e tre le comunità hanno testi sacri, tutt’altro che certo è invece che le si possa chiamare concordemente «popolo del libro». Per limitarmi a un solo esempio, per il cristianesimo la fonte prima della rivelazione è Gesù stesso, di cui i Vangeli sono memoria e testimonianza. Si può affermare che tanto l’ebraismo quanto il cristianesimo definiscono i loro rispettivi testi sacri in modo gerarchizzato.
La Bibbia ebraica è costituita da tre parti: Torah (Legge, con parola derivata dal greco, detta Pentateuco), Neviim (Profeti) e Ketuvim (Scritti). Il ruolo decisivo è svolto della prima parte; nell’armadio sacro presente in ogni sinagoga è contenuta, non a caso, solo una copia manoscritta della Torah, l’unica che fonda i precetti osservati dagli ebrei.
Per il cristianesimo il vertice è invece costituito dai quattro Vangeli canonici (nella liturgia cattolica proclamati solo da un sacerdote o da un diacono e ascoltati stando in piedi). Essi sono incentrati sulla vita pubblica, morte e resurrezione di Gesù. I Vangeli sono colti come una specie di chiave interpretativa per leggere in modo unitario un libro, la Bibbia, composto da un vasto insieme di testi molto vari per origine e provenienza, sorti in un arco di tempo di parecchi secoli.
Il Corano ha avuto invece un processo redazionale molto più breve misurabile in qualche decennio. La sua scansione interna è tra sure (capitoli) “fatte scendere” (cioè rivelate) a Mecca e quelle, cosiddette medinesi, risalenti a un periodo successivo all’egira (622 d.C.). I contenuti del Corano si suddividono in annunci, narrazioni e leggi; queste ultime, che incidono maggiormente sulla vita della comunità, risalgono al periodo finale della vita di Muhammad, quando il Profeta esercitava già una forma di governo.
L’espressione «comunità dei credenti» calza bene per cristiani e musulmani in quanto l’appartenenza alla Chiesa e all’ Umma (comunità musulmana) presuppone la fede, meno agli ebrei che costituiscono un popolo vero e proprio, non a caso si è ebrei innanzitutto per nascita (secondo una discendenza matrilineare).
Come descrivono Bibbia e Corano l’origine del male?
Vi è una dimensione accomunante che individua l’origine del male nella trasgressione. Come ben compreso da Paolo nella Lettera ai Romani, perché ci sia una trasgressione bisogna che prima ci sia una legge o un comando. Occorre quindi trovare miti fondativi che si muovano in questa direzione; il più noto è quello della proibizione di mangiare l’albero della conoscenza del bene e del male. Non è difficile comprendere il suo valore simbolico incentrato propria sulla connessione tra divieto e violazione. Al pari di prospettive presenti nell’apocalittica tanto giudaica quanto cristiana, il Corano pensa a una violazione antecedente a quella compiuta dalle creature umane. Ecco allora irrompere il peccato angelico, nell’islam connesso alla figura di Iblis, angelo superbo e disobbediente. D’altra parte conviene riflettere sul fatto che una trasgressione c’è eppure non ci dovrebbe essere; in questo senso si vede chiaramente la sua connessione con il male, altra realtà che c’è ma non dovrebbe esserci. Individuare la radice del male nella trasgressione porta con sé però altri problemi: chi spinge a trasgredire? Ecco allora che si “personalizza” il peccato, presentandolo come una forza che induce a compiere atti brutali. Sia per la Bibbia sia per il Corano la storia di Caino rappresenta il simbolo più conosciuto di tutto ciò: quando uccise il fratello, il primo fra i nati da donna non aveva ricevuto il comando di non uccidere.
Aumentare a dismisura la forza del peccato o della tentazione come causa del male rischia però di fa scivolare la visione di insieme verso una forma troppo prossima al dualismo, vale a dire di prospettare l’esistenza di un Dio del male; ecco allora che in alcuni passi sia biblici sia coranici si legge che Dio crea il male (Isaia 45,7). Affermazione che non va assolutizzata ma neppure del tutto accantonata. La presenza del male rappresenta per tutti uno scoglio complesso.
In che modo Bibbia e Corano affrontano il tema della resurrezione dei morti?
Il tema è presentato in maniera per così dire defilata nella Bibbia ebraica, infatti lo si trova con chiarezza solo nel tardo e apocalittico libro di Daniele (che nella Bibbia ebraica non è annoverato neppure tra i libri profetici). La resurrezione dei morti svolge invece un ruolo centrale nel Nuovo Testamento; il motivo è evidente: il kerygma - cioè l’annuncio originario e fondamentale della fede - ha il proprio centro nella «buona novella» di Gesù Cristo morto e risorto. -
Come stabilito in modo definitivo da Paolo, per la fede cristiana vi è un legame inscindibile tra la risurrezione di Gesù Cristo e quella dei salvati. Anche per questo motivo nel cristianesimo, per quanto sia stato affermato più volte e venga attestato anche da alcuni passi neotestamentari, suscita sempre sconcerto la prospettiva secondo la quale ci sono dei risorti destinati alla dannazione eterna.
Nel Corano la resurrezione dei morti è affermata in maniera forte e inequivocabile. Per trovarne il fondamento basta rifarsi alla perenne attività del Dio creatore: Allah, che ha plasmato l’uomo dalla polvere, è ben capace di dare nuova vita a ossa disseccate. La resurrezione è però intrinsecamente legata al giudizio in virtù del quale si è o beati o dannati; una prospettiva tanto presente nell’islam da essere anticipata da una specie di interrogatorio che avviene dentro le tombe.
Piero Stefani, di formazione filosofica, insegna “Bibbia e cultura” presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano e “Diritto ebraico” all’Istituto internazionale di Diritto Canonico e Diritto comparato delle religioni dell’Università della Svizzera Italiana. È segretario generale di Biblia, associazione laica di cultura biblica. Tra le sue numerose pubblicazioni si segnalano Il grande racconto della Bibbia, il Mulino 2017 e per Carocci I volti della misericordia (2015).
* Fonte: Letture.org
Nota:
Al vertice del "cristianesimo" (cattolicesimo costantiniano), in realtà, non ci sono - come sostiene Piero Stefani - i "quattro Vangeli canonici (nella liturgia cattolica proclamati solo da un sacerdote o da un diacono e ascoltati stando in piedi)", ma - fondamentalmente - ma le lettere (e l’interpretazione "andrologica" della figura di Cristo) di Paolo di Tarso:
"Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
ISRAELE - PALESTINA /SENZA FINE
ABITARE DA STRANIERI UNA TERRA-SPOSA
Tra Israele e Palestina l’idea dei due popoli e due stati non regge più
Chi conosce i territori sa bene che sono strettamente intrecciati e che sotto ogni aspetto una divisione netta, oltre a essere irrealistica, sarebbe artificiosa e alla fin fine nociva. Quasi una resa. Per questo serve immaginare un laboratorio politico nuovo
di Donatella Di Cesare (L’Espresso, 25.05.2021)
«Quelli sono occupanti! E gli altri sono occupati». Più esplicitamente: «Quel paese è frutto di occupazione!». Oppure con il nuovo motto: «Basta con l’esproprio etnico!». Sono solo alcuni esempi di slogan che circolano ovunque, dal web alle piazze, e che rilanciano una vecchia, vecchissima accusa (quasi immemoriale): Israele non dovrebbe essere lì dov’è. Non ci sarebbe quasi altro da aggiungere.
Il «peccato originale» che avrebbe segnato la nascita di Israele sarebbe quello di aver scalzato un popolo che c’era prima, indigeno, nativo, insomma autoctono. Alla fin fine non si tratta neppure tanto di limiti e confini, di linea verde e territori contestati. Dietro calcolo e contabilità, a cui spesso si fermano statisti e politologi, si nascondono questioni ben più profonde che di solito vengono aggirate. Forse perché non riguardano solo Israele e Palestina, ma investono tutti noi, le nostre frontiere, gli stati nazionali in cui siamo inseriti, il nostro abitare e il rapporto con gli altri.
Perciò occorre forse una prospettiva nuova, un modo diverso a cui guardare quel terribile conflitto che non per caso ci turba e ci coinvolge tutti con un’ondata di emozioni talvolta irrefrenabili, al punto da rendere impossibile una riflessione. E se nella tragedia si nascondesse invece una chance? Se Israele e Palestina fossero il laboratorio politico della globalizzazione?
Forse bisognerebbe chiedersi anzitutto che cosa significa «occupare». Questo verbo, che è il punto dirimente, non sembra solo legato alla frontiera e al fronteggiarsi. Rinvia anche al possesso originario, alla mitologia dell’origine, a cui non si sottraggono neppure i palestinesi quando rivendicano di essere i primi abitanti. La battaglia delle cartine è arrivata anche su facebook. Colori e bandiere diversi si avvicendano per quello stretto lembo di terra che va dal Giordano al Mediterraneo. E di nuovo: lo scontro non è tanto sulla geografia, quanto sulla storia. Chi c’era prima? I palestinesi che sono stati poi scalzati. Sono loro gli abitanti originari, gli autoctoni. Quelli che sono arrivati dopo - gli ebrei, gli israeliani - sono occupanti, colonialisti, ecc. Ma i nomi contengono anche una testimonianza storica. L’etimologia di «palestinese» va ricondotta a liflosh, ovvero filisteo, cioè invasore, e si riferisce a un popolo venuto dal mare. Dopo aver raso al suolo Gerusalemme i romani chiamarono Palestina la terra di Israele per sottolineare la rottura rappresentata dall’Impero e cancellare anche nel nome il ricordo del popolo ebraico. I palestinesi di oggi, discendenti in gran parte dall’immigrazione araba intorno al 1930, sono andati costruendo una identità nazionale nel confronto-scontro con Israele rivendicando radicamento e possesso originario.
Sono allora gli ebrei i veri autoctoni? No - e lo dice il nome. Perché ivrì, cioè venuto da altrove, non può essere del luogo. Abramo, il primo emigrante, segue l’ingiunzione: «va, vattene!». E così lascia tutto per andare a vivere da straniero in una terra non sua, promessa. Insomma, quelli che credono di essere venuti prima sono invece sempre venuti dopo.
Chi sono allora gli abitanti originari, gli autoctoni, di questa terra, e di ogni terra? Ma forse sbagliata è proprio la domanda: nessun popolo può dimostrare di essere autoctono.
Eppure, questo mito potentissimo alimenta ancora oggi la politica degli stati nazionali. Basti pensare alla guerra contro i migranti. È l’idea della terra-madre che, mettendo fuori gioco le donne, genera direttamente i suoi figli, tutti maschi e tutti cittadini, perché nati proprio lì, in quella zolla di terra, nel suolo stesso della città. Perciò sono i proprietari esclusivi, i figli legittimi, ben nati, in grado di respingere gli altri, i bastardi e gli stranieri. Questo avviene nell’Atene patria del sé, modello fulgido di pura, presunta autoctonia. Ma l’esempio - lo sappiamo - può vantare una tradizione secolare che nulla ha interrotto, nemmeno l’hitlerismo, la forma più esasperata dello ius soli. E oggi quel mito continua ad affermarsi tra radici inestirpabili e malattia identitaria, che ovunque rischiano di ridurre la democrazia a etnocrazia, una forma politica dove valgono non i diritti del popolo, ma quelli della stessa etnia. Si può puntare l’indice solo su Israele, parlando di stato etnico e magari usando una parola grave come «apartheid»? Oppure non si dovrebbe guardare anzitutto a quel che avviene nei paesi europei, anzitutto in Italia, dove la cittadinanza è basata ancora sul sangue e sul suolo?
Chi conosce i territori israeliani e palestinesi sa bene che sono strettamente intrecciati e che sotto ogni aspetto una divisione netta, oltre a essere irrealistica, sarebbe artificiosa e alla fin fine nociva. Quasi una resa. E infatti sono sempre più le voci critiche che negli ultimi anni si sono levate contro la «soluzione dei due stati», giudicata una fantasia che dimentica la storia e ignora il contesto politico. D’altronde ovunque, sotto la spinta della globalizzazione, lo stato perde sovranità e i confini diventano un limite. In tale scenario quello tra Israele e Palestina è il conflitto tra uno stato post-nazionale e uno stato proto-nazionale. Sta qui in gran parte l’insolubilità.
Le due parti non si incontrano anche perché si trovano in fasi diverse della propria storia. Israele ha compiuto la «liberazione nazionale» e in molti ambiti (dallo high tech all’informatica) oltrepassa continuamente i referenti statuali. Resta allora la questione dello Stato palestinese. Al di là delle divisioni interne, si può essere sicuri che la fondazione di un nuovo stato sarebbe criterio di equità e favorirebbe la pace? La logica degli stati nazionali, che ancora nel secolo scorso poteva essere considerata la via dell’emancipazione, da tempo mostra tutte le proprie pecche, dall’aggressività nazionalistica alla costruzione di identità artificiali. Le «patrie» che gli stati nazionali hanno costruito per i propri popoli si sono rivelate trappole senza uscita.
Puntare a una comune cittadinanza deterritorializzata e denazionalizzata sarebbe invece la strada insieme più concreta, ma anche più lungimirante. Si tratta peraltro di un esperimento che viene praticato anche in altre parti del mondo, dove gli stati gomito a gomito impediscono la convivenza, oppure in alcune grandi città nelle quali è molto alto il numero degli immigrati (esemplare è il caso di New Haven che ha concesso stato civile e diritti politici). Tutto questo non potrebbe in nessun modo lasciare immutato lo stato di Israele che, anzi, proprio perciò, dovrebbe andare al di là dello stato.
Non avrebbe dovuto essere questo il suo compito? Mentre è accusato di occupare una terra non sua, mostrare la possibilità di un altro abitare? Era questo il senso della promessa, una promessa certo non dettata dalla Shoah, dei cui esiti atroci Israele ha dovuto semmai farsi carico. Eppure, ancora oggi Israele è inquisito nel suo essere: si contesta quel ritorno, negando la continuità della presenza su quella terra, e dunque la storia stessa del popolo ebraico. Capita che lo facciano subdolamente esimi storici che su youtube ironizzano sull’antico regno di Israele. Come se questo fosse il punto.
Ma che dire degli sfratti a Sheikh Jarrah? Soprattutto per ciò di cui sono simbolo? E tutta la miope e belligerante politica di espansione della destra che in questi ultimi anni ha provocato enormi e inutili tensioni? Si può ormai parlare di una tragicità del sionismo politico che sulla scia della normalizzazione ha inscritto Israele nella modernità al prezzo di un nazionalismo esasperato e una simbiosi con la terra. Proprio il popolo che dovrebbe mostrare la possibilità di un altro abitare, non nel solco del radicamento, bensì nella separazione. Questo vuol dire kadosh, santo, separato. Terra in cui si risiede come stranieri, venuti da fuori, come ospiti che non possono non concedere ospitalità.
Non una terra-madre, bensì una terra-sposa. Impossibile dimenticare l’estraneità, sacralizzando idolatricamente la terra. D’altronde in ebraico gher, straniero, è connesso con ghur, abitare. Si può e si deve abitare da stranieri. Nessun mito di autoctonia.
Abitare e coabitare sono verbi oggi politicamente decisivi e vanno al di là di vecchie categorie politiche che non rispondono più allo scenario attuale e all’ordine statocentrico. Si capisce che il conflitto tra Israele e Palestina abbia ripercussioni ovunque. Già solo perché viene tacitamente scossa la sovrana autocoscienza delle nazioni che vantano radici e possesso territoriali. Israele è una effrazione nel dimorare della Palestina e i palestinesi, i più prossimi, sono quasi delegati degli altri popoli, che d’un tratto si trovano faccia a faccia con il vuoto statuale e nazionale di cui Israele è memoria. In tal senso, guardando oltre il quadro bellico, è quello il laboratorio politico dove due popoli, loro malgrado, sono costretti a inaugurare nuove forme di coabitazione che saranno forse modello per gli altri.
#NiccoloCusano,
per indicare la #via alla
"#Visione di Dio" (1454),
si serve di
un quadro dell’artista Rogier Van der Wayden,
allievo di Robert #Campin,
autore del #TritticodiMerode
Con #Virgilio e #Beatrice (#dueSoli),
#NiccoloCusano,
(«Non è la madre che genera chi è chiamato figlio, ma solo nutrice è del seme gettato in lei»)
non esce dall’orbita
della #tragedia
(#Eschilo).
#Come nascono i bambini:
ripartendo dal #saperedinonsapere,
Niccolò Cusano
ricade nella #antropologia zoppa e cieca di #Aristotele
e propone nella #Docta Ignorantia (III, 5) del 1440
la visione (#teoria) del trittico di Merode (1427)
San Giuseppe e la trappola per topi
Il Trittico dell’Annunciazione di Robert Campin è una miniera di simboli mariani. Ma la cosa più curiosa è la bottega di San Giuseppe tutto intento a fabbricare una trappola per topi.
Doveva essere devotissimo di san Giuseppe il committente che sta all’origine della Pala di Robert Campin detta comunemente Pala di Mérode, dal nome della famiglia che la ospitava. Lo si vede, con la moglie, nel pannello di destra della pala. Non abbiamo la certezza circa l’identità dei due coniugi. Il Metropolitan Museum, dove risiede l’opera, identifica il committente con un ricco uomo d’affari del tempo, certo Jan Engelbrecht. Per altri era un mercante di stoffe di Colonia, prossimo alle nozze, Peter Inghelbrecht o Engelbrecht. Quel che rimane certo è il cognome: Engelbrecht che significa: breccia dell’Angelo.
Da qui si comprende il tema del pannello centrale: la rappresentazione dell’Annunciazione nel momento in cui, l’angelo, vero protagonista della scena, irrompe nella stanza di Maria.
La casa di Maria è una casa di pietra, sontuosa e solare, a dispetto della bottega di san Giuseppe, piuttosto piccola, raffigurata nel terzo pannello. Il contrasto è voluto e serve anche per mitigare la novità dell’ambientazione scelta per la Vergine annunciata. Se si confronta quest’opera con altre dello stesso periodo si nota come si fosse soliti rappresentare gli eventi dell’Infanzia del Salvatore, specie l’Annunciazione, dentro Chiese o Cattedrali, quasi a sottolineare la sacralità degli eventi. Qui Campin, per primo, registra invece l’assoluta normalità della casa di Maria.
San Giuseppe invece è presentato come un modesto artigiano, abile e capace, che lavora nel contesto di una città rispettabile. E ne vediamo chiaramente uno scorcio dalla finestra aperta. Anch’egli, del resto come si evince dal turbante, è uomo di tutto rispetto. Tra le altre opere di Robert Campin troviamo il ritratto di un anonimo signore facoltoso (e lo capiamo dall’abito foderato di pelliccia) che porta il medesimo turbante indossato da san Giuseppe. Solo il colore si differenzia: mentre nell’uomo ritratto, il copricapo è rosso, colore peraltro che designava l’alto rango, in San Giuseppe è blu, segno distintivo della diversa qualità del rango di San Giuseppe. Egli era nobile nello spirito e la sua dignità è da collocarsi appunto entro il mistero del piano divino. Insomma San Giuseppe è uomo voluto dal Cielo.
Nel XV secolo, molto prima quindi della proclamazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa universale (1621), ci fu un movimento popolare (analogo a quello legato al culto dell’Immacolata) che desiderava propagare il culto di San Giuseppe, collocando il Santo al pari degli Apostoli. Gli anni di punta di tale devozione furono proprio quelli in cui venne realizzata questa pala (tra il 1420 e il 1430).
Promotori di questo movimento giuseppino furono il Card Peter d’Ailly (1350-1425) vescovo di Cambrai e il suo pupillo John Gerson (1363-1429) che, nel concilio di Colonia (1416), proposero appunto di elevare San Giuseppe al livello degli apostoli.
Robert Campin ci permette di entrate nella bottega del Santo raccontandoci nei mini particolari il suo lavoro.
Il desco appare così inclinato, nella sua prospettiva, da dare l’impressione di volersi rovesciare. Siamo così costretti a guardare gli strumenti da lavoro di san Giuseppe: tenaglie, martello, chiodi. Sono chiari riferimenti alla croce, supplizio sopra il quale morirà quel Figlio che sta per essergli dato. Come si narra, appunto nel pannello centrale dell’Annunciazione della Vergine.
Sul desco di Giuseppe, però, c’è un oggetto, che pur riconoscendolo, fatichiamo a comprenderne il senso. Si tratta di una trappola per topi. A ben vedere ve ne sono due: una in via di costruzione e una seconda, in funzione, sul davanzale della finestra. Il senso di un simbolo tanto bizzarro lo spiega Sant’Agostino in uno dei suoi discorsi (256): «Il diavolo ha esultato quando Cristo è morto, ma per la morte di Cristo, il diavolo è stato vinto, come se avesse ingoiato l’esca nella trappola per topi. La croce del Signore era una trappola per il diavolo, l’esca con cui è stato catturato era la morte del Signore». Ecco, dunque, l’ignaro Giuseppe fabbricare quell’elemento che sarà per l’uomo simbolo di liberazione: «dov’è o morte la tua vittoria?». Ripete instancabilmente l’Apostolo: Cristo ci ha liberato. Anche Lorenzo Lotto, in una delle sue natività, colloca la propria firma sopra una trappola per topi.
Il topo, del resto, per la sua facilità riproduttiva e la rapidità del suo agire, è da sempre simbolo di lussuria e di disonestà. Fra il ricchissimo bestiario di Jeronimus Bosch, il topo compare sovente, proprio a significare l’ingannevole audacia del male. Mentre l’uomo si lascia ingannare dal tentatore, Cristo gioca il male sul suo stesso terreno. Il diavolo, infatti, ingannato dall’umanità del corpo di Cristo, addenta la preda, ma il veleno della vita, nascosto nella divinità di Cristo, lo ucciderà.
A questo significato attribuito alla trappola, in riferimento a Cristo e alla sua passione, concorrono altri elementi del pannello. Ai piedi di San Giuseppe c’è una sega, strumento che - secondo la predicazione del tempo - san Pietro usò per tagliare l’orecchio a Malco, nel giardino degli ulivi; mentre, più a lato, vediamo una scure piantata solidamente in un ceppo. «La scure è alle radici», proclama il Battista all’inizio della sua predicazione: di fronte alle malizie del male, cui l’uomo presta il fianco, c’è un giudizio inappellabile che si compie, quello della verità. Ora, con la venuta di Cristo e con la sua passione (come si vede nel pannello centrale dove Cristo raggiunge il grembo della Vergine imbracciando una piccola croce), si compie il tempo definitivo del giudizio sulla storia.
Non possiamo fare a meno di notare però che san Giuseppe è intento a tutt’altro lavoro che apparentemente poco ha a che fare con la trappola in fabbricazione collocata sul desco. San Giuseppe sta forando una tavola di legno con fori a intervalli regolari. Vediamo l’oggetto perfettamente compiuto nella casa di Maria, proprio dietro le sue spalle, Si tratta di un parafuoco. Il soggetto iconografico della Madonna del Fuoco o del parafuoco, è abbastanza frequente in quel secolo, lo stesso Campin ne realizza alcune, e vuole indicare la verginità della Vergine. Sia per il riferimento al roveto ardente che arde senza consumarsi, sia per il riferimento al fuoco della passione che rimase estranea alla Vergine e quindi anche al coniuge, san Giuseppe.
Allora comprendiamo il simbolo: san Giuseppe fu custode non solo del Redentore ma anche della castità di Maria. Il diavolo sapeva, per il versetto di Isaia 7,14, che Cristo sarebbe nato da una Vergine, ma mai si sarebbe immaginato che questa Vergine avrebbe contratto matrimonio. Sposando San Giuseppe e rimanendo illibata con lui nel matrimonio, il diavolo fu confuso e non comprese la natura divina del Cristo. Perciò, non solo Cristo fu trappola per il demonio, ma anche lo stesso San Giuseppe. La sua santità confuse le aberrate prospettive del Maligno, il quale è incapace di comprendere come le straordinarie vie di Dio possano intrecciarsi con l’ordinarietà della vita. Sì, una vita straordinariamente ordinaria quella di questo anziano Giuseppe che lavora placido accanto alla casa della sua futura sposa! Egli sa che il suo ruolo è quello di custode e si prepara, fabbricando quegli oggetti che più profondamente lo possono portare a identificarsi con il piano divino e ad aderirvi con tutta l’obbedienza del cuore.
* Fonte: Monache dell’Adorazione Eucaristica (Adoratrici.it, 15.03.2020 - ripresa parziale, senza immagini).
OLTRE LA #COSMOTEANDRIA DELLA #DOTTAIGNORANZA,
UNA #FENOMENOLOGIADELLOSPIRITO DI #DUESOLI:
UNA #COSMOLOGIA GALILEIANA (LEZIONE DI #KEPLERO!).
La #DivinaCommedia, un «Libro che sorvola i secoli»
#COSMOTEANDRIA E #ANTROPOLOGIA.
Paragonato con #Dante,
#NiccoloCusano
non trova la #dirittavia
sia filosofica (per il suo legame con #Socrate e #Platone)
sia religiosa (per aver scelto il primato dell’#uomosupremo, del #papa)
e... condivide
Del coraggio. L’abc di Wittgenstein
di Federico Ferrari *
Pensare significa avere coraggio. Affrontare le proprie paure, il proprio fondo di inautenticità. Non farsi mai sconti e, indifferenti al quieto vivere, non farli nemmeno agli altri. C’è della crudeltà nel coraggio, una forma di doloroso accanimento. L’impossibilità di tacere, di non dire esattamente quel che va detto, costi quel che costi. Il coraggio si paga. Rovina i rapporti umani. Spinge nella solitudine. Ma il coraggio ci rende un po’ meno pagliacci di quel che naturalmente siamo. Ci offre l’opportunità di diventare uomini e donne decenti - ein anständiger Mensch, scrive Wittgenstein, concependo il pensiero come un impietoso autosmascheramento. Il coraggio e la decenza sono due facce di una medesima medaglia. L’indecenza di ogni tempo nasce dalla mancanza di coraggio. Politici senza coraggio, intellettuali senza coraggio, uomini senza coraggio: la fine di una civiltà.
Poco importa se la lotta coraggiosa per difendere la propria dignità, le proprie idee, la propria esistenza non porterà a nulla, non cambierà il mondo. Il mondo non cambierà mai davvero. Il mondo è solo l’eterno confronto e scontro tra pavidi e coraggiosi. Tra coloro che salgono sul carro dei vincitori, in cerca di consenso, e coloro che percorrono il tempo sempre controvento, in cerca di se stessi. Questo scontro avviene in ogni luogo, in ogni momento e sempre, anche, in noi stessi.
La cosa più difficile non è essere all’altezza del mondo, ma all’altezza di se stessi. E’ abbastanza semplice non deludere gli altri. Molto più complesso non deludere se stessi. Pensare, dire, a volte, tacere coraggiosamente è un modo di darsi dignità, un modo di riconoscere la propria irripetibile unicità.
La dignità di un pensiero è data dal suo coraggio e dal coraggio che sa infondere. Il resto è vanità.
Questo testo è solo un eco (e un ricordo riconoscente) della prefazione di Aldo G. Gargani ai Diari segreti di Ludwig Wittgenstein (Laterza, 1987), letti molti anni fa e mai dimenticati.
* Fonte: Antinomie, 24/11/2020 (ripresa parziale, senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
Federico La Sala
"ESSERE E TEMPO" E FILOLOGIA. La "svolta" di Hannah Arendt. .... *
L’anniversario del processo.
Eichmann e il male, sempre relativo
Si apriva l’11 aprile 1961 il processo al criminale nazista che ispirò a Hannah Arendt la celebre riflessione sulla “banalità del male”: ancora oggi una sfida al pensiero
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, domenica 11 aprile 2021)
Sessant’anni or sono (precisamente l’11 aprile del 1961), si apriva a Gerusalemme il processo contro il criminale nazista Adolf Eichmann, che era stato prelevato in Argentina dal Mossad e condotto in Israele per essere lì giudicato, da quel popolo, ormai nazione, che aveva contribuito a massacrare. Nella sala stampa del tribunale, sedeva la pensatrice tedesca Hannah Arendt, una delle menti più perspicaci e lucide del XX secolo, inviata dal “The New Yorker”, per redigere il reportage delle varie sedute del tribunale. La Arendt trasforma la cronaca in interpretazione filosofica della storia, tanto che introduce nei suoi articoli anche delle parole greche, memore forse di quanto il suo antico maestro Martin Heidegger amava ripetere ai suoi allievi, dicendo loro che si può pensare solo in greco e in tedesco. Fino alla fine rivolse un accorato appello, inascoltato, al filosofo suo mentore perché ritrattasse la sua adesione al nazismo. Al direttore del periodico che le faceva osservare che i lettori non conoscevano il greco, l’inviata filosofa avrebbe risposto che possono sempre impararlo, se vogliono imparare a pensare.
Nel 2012 Margarethe von Trotta trasse dalla vicenda un film molto bello, titolato col nome della pensatrice. Dai reportage la stessa Arendt aveva tratto il suo libro più famoso, La banalità del male (qui citiamo l’edizione digitale Feltrinelli, Milano 2019), il cui titolo originale è Eichmann in Jerusalem. A report on the banality of Evil (1963). La prospettiva adottata, nel tentativo di districare una vicenda complessa, irta di ostacoli sul piano storico, giuridico (nel senso del diritto internazionale) ed emotivo, offrendone un’interpretazione filosofica, non poteva non avere una sporgenza teologica, almeno nel senso della “teo- dicea”, ovvero della riflessione sul misterium iniquitatis, di cui è intrisa l’esistenza dei singoli e dell’umanità.
L’attualità teo-logica della lezione che si può trarre dalla lettura del reportage, può essere intravista da alcuni passaggi che intendo sottolineare. Nel descrivere la posizione del criminale nazista che veniva processato a Gerusalemme, la Arendt non manca di evocare la sua teologia (che può essere quella del nazismo): «Secondo le sue credenze religiose, rimaste immutate dal tempo del nazismo (a Gerusalemme dichiarò di essere un Gottgläubiger, “credente in Dio” - il termine nazista per indicare chi ha rotto col cristianesimo - e rifiutò di giurare sulla Bibbia), questo avvenimento andava ascritto a un “Essere razionale superiore” (Höherer Sinnesträger), un’entità più o meno identica a quel “movimento dell’universo” a cui la vita umana, priva in sé di un “significato superiore”, è soggetta (La banalità del male, p. 63).
La Arendt avverte il lettore che denominare Dio Höherer Sinnesträger equivaleva ad assegnargli un posto di preminenza nella gerarchia militare. Rispetto a questa entità superiore, Eichmann si percepiva come un Befehlsempfänger, ovvero un portatore di ordini e al tempo stesso un depositario di segreti Geheimnisträger. Ed eccoci al punto decisivo, in cui si svela la “banalità del male”: la burocrazia del sistema. Infatti «il gergo burocratico era la sua lingua’, farcita di cliché, che rivelavano la sua ’incapacità di pensare». Non era un “mostro”, ma forse nemmeno un “buffone”, in lui si manifestava, come in molti oggi, in tutto il suo splendore, la mediocrità della burocrazia. Il suo avvocato ebbe a dire che Eichmann «si sentiva colpevole dinanzi a Dio, non dinanzi alla legge» ( ivi, p. 50), per certi aspetti un’Antigone capovolta.
Ma proprio al cospetto dell’epifania di tanta banalità, avviene la svolta nel pensiero della Arendt, che, nel suo saggio su Le origini del totalitarismo (1951), aveva interpretato i sistemi totalitari del secolo breve alla luce del “male radicale”.
E la traccia di tale Kehre (“svolta”) la rinveniamo in un’espressione particolarmente significativa, che si può leggere nel carteggio della filosofa con Gershom Scholem: «Ho cambiato idea - scrive l’allieva di Heidegger - e non parlo più di male radicale, ora credo che il male non sia mai “radicale”, ma che sia solamente estremo e che non possieda né profondità né spessore demoniaco». Agisce ed opera in quanto «sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di andare in profondità, di toccare le radici nel momento in cui si occupa del male, è frustrato perché non trova niente. È la sua banalità. Solo il bene ha profondità e può essere radicale» (Ebraismo e modernità, Unicopli, Milano 1986, p. 227). Ma la svolta esprime anche un rinon torno, ovvero la ripresa del pensiero agostiniano, oggetto della tesi dottorale (condotta sotto la guida di Karl Jaspers ad Heidelberg e pubblicata nel 1929 col titolo Il concetto d’amore in Agostino. Saggio di interpretazione filosofica). Il compianto Remo Bodei ha letto la parabola del pensiero della Arendt come un’inclusione agostiniana, che prendendo le mosse dal contenuto della tesi giunge al termine del percorso.
A noi pare decisiva per questa inclusione l’affermazione della radicalità del bene, che relativizza il male e lo sconfigge in un sempre nuovo inizio. Una citazione dell’Ipponense ricorre negli scritti della pensatrice tedesca:
«Initium ut esset, creatus est homo, ante quem nullus fuit» (“affinché ci fosse un inizio fu creato l’uomo, prima del quale non esisteva nessuno”). E «questo inizio non è come l’inizio del mondo, non è l’inizio di qualcosa, ma di qualcuno, che è a sua volta un iniziatore. Con la creazione dell’uomo, il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso, e questo, naturalmente, è solo un altro modo di dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo, ma non prima» (Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2012, p. 251, edizione digitale).
L’unicità della persona e la sua libertà responsabile trovano in questo inizio il loro fondamento. Noi in tale inizio rinveniamo la possibilità di “ricominciare”. Per quanto, infatti, allorché ci troviamo nel pieno della tempesta, pensiamo che il male che ci assale sia invincibile e assoluto, la Arendt viene invece a ricordarci che esso è sempre e comunque relativo, ossia contingente e che può e deve essere sconfitto nell’esercizio del nostro agire responsabile. Nella visione cristiana, che appartiene alla filosofa ebreo-tedesca, la possibilità di un nuovo inizio si fonda sull’evento pasquale, come ha ricordato papa Francesco, nell’omelia della veglia: «Ecco il primo annuncio di Pasqua che vorrei consegnarvi: è possibile ricominciare sempre, perché sempre c’è una vita nuova che Dio è capace di far ripartire in noi al di là di tutti i nostri fallimenti. Anche dalle macerie del nostro cuore - ognuno di noi sa, conosce le macerie del proprio cuore - anche dalle macerie del nostro cuore Dio può costruire un’opera d’arte, anche dai frammenti rovinosi della nostra umanità Dio prepara una storia nuova. Egli ci precede sempre: nella croce della sofferenza, della desolazione e della morte, così come nella gloria di una vita che risorge, di una storia che cambia, di una speranza che rinasce. E in questi mesi bui di pandemia sentiamo il Signore risorto che ci invita a ricominciare, a non perdere mai la speranza».
E tale fondamento deve trovare terreno fertile nelle nostre menti e nei nostri cuori, perché non resti nel passato, ma si renda vivo e presente. E in questa prospettiva “antropologica” la lezione della Arendt è attuale e feconda. Un motivo di incredibile attualità, nell’orizzonte della banalità del male lo abbiamo trovato in una lettera di Karl Jaspers alla Arendt, risalente al periodo bellico. Qui il filosofo, per esprimere la “normalità” del male si affida all’esempio dei batteri, capaci di provocare epidemie letali per intere popolazioni, ma che restano pur sempre microorganismi (H. Arendt - K. Jaspers, Carteggio (19261969): filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989, p. 71). Microorganismi che con la ricerca scientifica possiamo conoscere sempre meglio, per non soccombere e ricondurli alla loro contingenza, immunizzandoci dal loro potere distruttivo.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica. L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
Federico La Sala
LA POCA SAGGEZZA DELLA FILOSOFIA, I “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO DI DANTE E LA PRESENTE STORICA CRISI DELLA CULTURA EUROPEA...
CONSIDERATO CHE UN FILOSOFO, “Anche quando sbaglia di grosso, se è un vero filosofo sbaglia con argomenti non banali, fino al punto che, grazie a lui, l’errore brilla della luce convincente della verità” (cf. S. Benvenuto, cit. - su), E VISTO CHE EGLI HA MESSO IL DITO NELLA PIEGA (e nella piaga) della storia della filosofia, nel gioco sofistico di Socrate: «Malgrado lo slogan “so di non sapere”, tutti ci rendiamo conto che Socrate in realtà sapeva tante cose. Ma il suo sapere squisitamente filosofico era proprio quello di non sapere, ovvero, il suo appello all’epistheme come “ricominciare tutto daccapo”» (op. cit. - su), VISTO IL PERSISTERE E , AL CONTEMPO, L’ESAURIRSI DELLA “GRANDE INSTAURAZIONE” ANTROPOLOGICA ED EPISTEMOLOLOGICA apollinea-socratica (su questo, si cfr. la grande analisi di Nietzsche!), forse, è bene e salutare riprendere alla radice (Marx!) la questione e, riaccogliendo l’indicazione di Sofocle, ripensare le «perversioni» di tremila e più anni (come sapeva Dante, meglio di Goethe), rileggere il cap. 15 del manuale di “Anatomia” (Roma, 1560) di Giovani Valverde, e ripensare l’«edipo completo», come voleva Freud e Fachinelli. Altro che continuare a menare la canna per l’aria. O no?!
Sul tema,nel sito, si cfr.:
Antropologia, Storia e Diritto. Donne e Uomini.... PER LA VERITA’ E LA RICONCILIAZIONE. RIMEDITARE LA LEZIONE DI ESCHILO. Dalla storia di Clitennestra, si arriva anche a immaginare una nuova giustizia, all’interno di nuovi rapporti sociali e politici
FLS
MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".... *
"CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" , "CRITICA DELLA RAGION PRATICA" (E MEMORIA DI DANTE ALIGHIERI - ANNO 2021) . Alla luce del fatto che si è persa ogni cognizione dello "stato di cose presente", forse, è opportuno - come voleva Marx - riprendere il filo dalla indicazione delle note "Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione"): "La teoria è capace di impadronirsi delle masse non appena dimostra ad hominem, ed essa dimostra ad hominem non appena diviene radicale. Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso".
Si dice:
CONCORDO. Ma per ripartire bisogna riprendere il filo dalla "Logica" di Kant (non di Hegel, come si recita ancora oggi: http://www.leparoleelecose.it/?p=41116#comment-439785), dalla sua "quarta" (e prima!) domanda: "che cosa è l’uomo?", dalla sua "Critica della ragion pratica", e dal suo "imperativo categorico" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5635)! La questione è antropologica (non andrologica né ginecologica)! O no?!
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. la "Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam)": "CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4198); su COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?!, rileggere la lettera di Sigmund Freud (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2923).
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Controparola/
Donne al futuro
di Francesca Rigotti (Doppiozero, 20 marzo 2021)
Da quando ho scoperto che nella grammatica esistono termini marcati e termini non marcati - me li ha spiegati un illustre linguista amico di tastiera - non dico che non dormo di notte ma quasi. I termini non marcati, se ho capito bene, sono dominanti e includenti: per esempio il termine «giorno», che comprende il giorno e la notte; notte invece è un termine marcato, giacché designa soltanto il tempo dell’oscurità. Non marcato è uomo (ci avviciniamo al tema) in quanto comprende se stesso e anche la donna, la quale invece, guardacaso, è marcata quale «soltanto» donna.
Dovevo ripensare a questa disparità grammaticale nel leggere Donne al futuro, raccolta di saggi di donne che parlano «soltanto» di altre donne, uscito per il Mulino a cura delle amiche di Controparola. Si tratta di un gruppo di scrittrici e giornaliste, nato nel 1992 per iniziativa di Dacia Maraini, che ha pubblicato diversi libri sulle donne tra i quali Donne del Risorgimento, Donne nella Grande Guerra, nella Repubblica, nel Sessantotto e ora al futuro. Sono Paola Cioni, Eliana Di Caro, Paola Gaglianone, Dina Lauricella, Lia Levi, Dacia Maraini, Cristiana Palazzoni, Maria Serena Palieri, Valeria Papitto, Linda Laura Sabbadini, Francesca Sancin, Cristiana di San Marzano, Mirella Serri, cui si deve Donne al futuro (il Mulino, Bologna 2021). Sempre e soltanto donne. O donne sole, si potrebbe anche dire, che è un’espressione un po’ deprimente ma anche molto divertente, a leggerla con ironia, e con la quale si intendono donne in compagnia di altre donne ma non di uomini. Mentre la dicitura per soli uomini sta per luoghi e/o attività in cui le donne non possono entrare e a cui non devono partecipare (e così è intitolata l’eccellente analisi statistica Per soli uomini. Il maschilismo dei dati, dalla ricerca scientifica al design, appena pubblicata da Codice Edizioni e condotta dalla giornalista Emanuela Griglié e del collega Guido Romeo).
Le donne al futuro di questo libro, soltanto donne marcate nella loro donnità, sono di fatto figure straordinarie, proiettate, come dice il titolo, al futuro o declinate al futuro, visto che siamo partiti dalla grammatica (che innocentemente mi costringe qui a scrivere al maschile benché io sia donna che scrive di donne che scrivono di donne. La lingua sarà anche colpevole ma non nel modo semplificato e a tratti oltraggioso che le attribuiscono le interpretazioni corrive, come spiega puntualmente l’amico linguista il cui nome adesso svelo, Nunzio La Fauci, ma la dice lunga). Donne giovani che lavorano per fabbricare il futuro con l’arte e la musica, l’architettura e l’astrofisica; con l’impegno civile e umanitario (donnitario?), con la ricerca medica, l’economia, la pratica sportiva e l’insegnamento.
Le elenco qui tutte in fila in ordine alfabetico: Alice Pasquini (AliCè), Paola Antonelli, Marica Branchesi, Francesca Bria, Ilaria Capua, Silvia Colasanti, Ilaria Cucchi, Emma Dante, Sara Gama, Rita Giaretta, Giuseppina Multari, Eliana La Ferrara, Laila Abi Ahmed e Isabella Mancini, Barbara Riccardi, Fulvia Signani e le altre, Beatrice Vio. Un ricordo è dedicato alla cittadina del mondo Agitu Ideo Gudeta, uccisa nel dicembre scorso in Trentino, dove si era trasferita e portava avanti la sua attività di imprenditrice.
Non potendo parlare di tutte ho scelto di citarne una sola, l’unica tra l’altro che mi era del tutto ignota, lo confesso e chiedo venia: Sara Gama. Sara Gama, classe 1989, madre triestina e padre congolese, capitana della Nazionale azzurra femminile di calcio nonché vicepresidente dell’Assocalciatori (termine non marcato che comprende anche le calciatrici mentre le calciatrici, marcate dall’essere soltanto donne, non comprendono i calciatori).
Sara Gama, ho scoperto, non soltanto gioca al calcio femminile da quando era una bambinetta ma rivendica anche, per quel calcio di donne, assicurazione sanitaria, previdenze, stipendio e soprattutto dignità. Studentessa liceale, studentessa universitaria - sulla storia del calcio femminile in Europa ha anche scritto la tesi - Sara Gama, che nell’immagine di copertina sembra, coi suoi bei capelli ricci, l’Italia turrita, nel discorso del 4 luglio 2019 al Quirinale, di fronte al presidente Mattarella, ha ricordato l’articolo 3 della Costituzione che sancisce la dignità di tutti i cittadini «senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
E questo grazie alle donne della Costituzione, le madri costituient, che contro l’opinione di alcuni padri della costituzione insistettero affinché nell’art. 3 venisse inserita la specificazione «di sesso», perché senza quella la conquista della parità sarebbe stata ancor più difficile di quanto già lo sia.
LA “DIVINA COMMEDIA” E IL CUORE DEL “PADRE NOSTRO”, “L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE”...
PLAUDENDO ALL’ECCEZIONALE LAVORO DELLA REDAZIONE DELLA FONDAZIONE “TERRA D’OTRANTO”, ANCHE ALLA LUCE DI QUESTO ULTIMO CONTRIBUTO, CREDO CHE OGGI (19 MARZO 2021), ALL’INTERNO DI UN ORIZZONTE STORICO SEGNATO DA UNA PANDEMIA PLANETARIA, SIA OPPORTUNO RIFLETTERE SUL FATTO CHE QUESTO ANNO (2021) è l’anno dedicato all’Anniversario della morte (1321) di Dante Alighieri e che a Lui è stata dedicato come giorno di memoria il 25 marzo, giorno di memoria liturgica anche dell’Annunciazione (vale a dire del concepimento del Bambino).
Accogliendo la sollecitazione di questa importante connessione, forse, è meglio ripensare a “come nascono i bambini” (antropologicamente, filosoficamente e teologicamente), alla figura dell’uomo Gesù, all’”Ecce Homo”(«Ecco l’uomo», gr. «idou ho anthropos») di Ponzio Pilato, e, ancora, alla lezione di Dante.
A mio parere, la sua lezione non è solo “poetico-letteraria”, ma è anche teologica e politica: la sua “Monarchia” con l’indicazione relativa ai “due soli” ha, infatti, il suo fondamento teologico e antropologico nell’amore (charitas) del “Cantico dei cantici” (cioè, di Salomone - non di Costantino: rileggere il c. XIV del “Paradiso”) e pone le condizioni per rileggere l’intera figura di san Giuseppe! Egli non è affatto un falegname che prepara la croce per inchiodarci su il bambino che gli è stato affidato, ma lo sposo di Maria, discendente della casa di Davide (“de domo David”: -https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/10/de-domo-david-39-autori-per-i-400-anni-della-confraternita-di-san-giuseppe-di-nardo/#comment-257181) che, come Salomone, ha saputo decidere e portare in salvo la madre vera e il bambino vero! O no?!
SULLA SPIAGGIA. DINANZI AL MARE: MEMORIA , STORIA, E RICERCA ANTROPOLOGICA E FILOSOFICA...
PER RIPRENDERE E PROSEGUIRE, SE SI VUOLE, IL LAVORO E LA RIFLESSSIONE DI ELVIO FACHINELLI ("LA MENTE ESTATICA", FEBBRAIO 1989) E DI FRANCO CASSANO ("APPROSSIMAZIONE", APRILE 1989), CREDO, SIA OPPORTUNO PARTIRE DALLE LORO OPERE: RISPETTIVAMENTE, dal libro "La mente estatica" di Fachinelli (pubblicato da Adelphi nel febbraio del 1989) e, insieme, dal libro "Approssimazione. Esercizi di esperienza dell’altro" di Cassano (pubblicato dalla casa editrice "Il Mulino" nell’aprile del 1989) e, alla luce dei loro particolari programmi di ricerca volti a pensare e a superare "la frontiera", ricordare che la Caduta del Muro di Berlino avviene - senza violenza - nei primi giorni del mese di novembre del 1989.
"DEPORRE L’ELMO". Nel saggio dedicato all’analisi del lavoro di Fachinelli (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1568), contro i vari tentativi di neutralizzare la sua proposta ("Né demonizzare, né omologare"), così annotai :
A distanza di trenta e più anni, non sembrano esserci altre vie, se non quella di deporre l’elmo e uscire dall’orizzonte della dialettica hegeliana, e praticare "esercizi di esperienza dell’altro". O no?!
MATEMATICA, ANATOMIA, E BAMBINI E BAMBINE. UNA QUESTIONE DI CIVILTÀ..
Parlare dell’embrione per dimenticare il mondo
risponde Luigi Cancrini (l’Unità, 28.02.2005, p. 27)
«Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo».
Così inizia il capitolo 15 dell’Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato «De Testicoli delle donne» (p. 91). Dopo queste timide e tuttavia coraggiose ammissioni, ci vorranno altri secoli di ricerche e di lotte: «(...) fino al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti, quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle società prepatriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano (...) che l’uomo emettesse con l’eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e sviluppava come l’humus fa crescere il seme» (Françoise D’Eaubonne). Oggi, all’inizio del terzo millennio dopo Cristo, nello scompaginamento della procreazione, favorito dalle biotecnologie, corriamo il rischio di ricadere nel pieno di una nuova preistoria: «l’esistenza autonoma dell’embrione, indipendente dall’uomo e dalla donna che hanno messo a disposizione i gameti e dalla donna che può portarne a termine lo sviluppo» spinge lo Stato (con la Chiesa cattolico-romana - e il Mercato, in una vecchia e diabolica alleanza) ad avanzare la pretesa di padre surrogato che si garantisce il controllo sui figli a venire. Se tuttavia le donne e gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni residui dichiarassero quale destino pare loro preferibile, se un’improbabile adozione, la distruzione o la donazione alla ricerca scientifica, con la clausola che in nessun modo siano scambiati per denaro o ne derivi un profitto, la vita tornerebbe rivendicata alle relazioni umane piuttosto che al controllo delle leggi, ne avrebbe slancio la presa di coscienza dei vincoli che le tecnologie riproduttive impongono e più consenso la difesa della “libertà” di generare.
Federico La Sala
Ho molto apprezzato la citazione di Valverde soprattutto per un motivo: perché dimostra, con grande chiarezza il modo timido e spaventato con cui da sempre gli uomini di scienza si sono accostati al tema della procreazione. Il problema di quello che era un tempo “l’anima” dell’essere umano, la sua parte più preziosa e più peculiare, quella cui le religioni affidavano il senso della memoria e dell’immortalità è stata sempre monopolio, infatti, dei filosofi e dei teologi che hanno difeso accanitamente le loro teorie (i loro “pregiudizi”: nel senso letterale del termine, di giudizi dati prima, cioè, del momento in cui si sa come stanno le cose) dalle conquiste della scienza. Arrendendosi solo nel momento in cui le verità scientifiche erano troppo evidenti per essere ancora negate e dimenticando in fretta, terribilmente in fretta, i giudizi morali e gli anatemi lanciati fino ad un momento prima della loro resa. Proponendo uno spaccato estremamente interessante del modo in cui il bisogno di credere in una certa verità può spingere, per un certo tempo, a non vedere i fatti che la contraddicono. Come per primo ha dimostrato, scientificamente, Freud.
Ragionevolmente tutto questo si applica, mi pare, alle teorie fra il filosofico e il teologico (come origine: i filosofi e teologi “seri” non entrano in polemiche di questo livello) per cui l’essere umano è tale, e tale compiutamente, dal momento del concepimento. Parlando di diritti dell’embrione tutta una catena ormai di personaggi più o meno qualificati per farlo (da Buttiglione a Schifani, da Ruini a La Russa) si riempiono ormai la bocca di proclami (sulla loro, esibita, profonda, celestiale moralità) e di anatemi (nei confronti dei materialistici biechi di una sinistra senza Dio e senza anima).
In nome dell’embrione sentito come una creatura umana, la cui vita va tutelata, con costi non trascurabili, anche se nessuno accetterà mai di impiantarli in un utero. Mentre milioni di bambini continuano amorire nel mondo e intorno a loro senza destare nessun tipo di preoccupazione in chi, come loro, dovendo predisporre e votare leggi di bilancio, si preoccupa di diminuire la spesa sociale del proprio paese (condannando all’indigenza e alla mancanza di cure i bambini poveri che nascono e/o vivono in Italia) e le spese di sostegno ai piani dell’Onu (mantenendo, con freddezza e cinismo, le posizioni che la destra ha avuto da sempre sui problemi del terzo mondo e dei bambini che in esso hanno la fortuna di nascere).
Si apprende a non stupirsi di nulla, in effetti, facendo il mestiere che faccio io. Quando un paziente di quelli che si lavano continuamente e compulsivamente le mani fino a rovinarle, per esempio, ci dice (e ci dimostra con i suoi vestiti e con i suoi odori) che lava il resto del suo corpo solo quando vi è costretto da cause di forza maggiore, ci si potrebbe stupire, se non si è psichiatri, di questa evidente contraddizione. Quello che capita di capire essendolo, tuttavia, è che i due sintomi obbediscono ad una stessa logica (che è insieme aggressiva e autopunitiva) e che il primo serve di facciata, di schermo all’altro che è il più grave e il più serio. E accade a me di pensare, sentendo Buttiglione e La Russa che parlano di diritti dell’embrione e ignorando nei fatti quelli di tanti bambini già nati, che il problema sia, in fondo, lo stesso. Quello di un sintomo che ne copre un altro. Aiutando a evitare il confronto con la realtà e con i sensi di colpa. All’interno di ragionamenti che dovrebbero essere portati e discussi sul lettino dell’analista, non nelle aule parlamentari.
Così va, tuttavia, il mondo in cui viviamo. Perché quello che accomuna la Chiesa di ieri e tanta destra di oggi, in effetti, è la capacità di far germogliare il potere proprio dalle radici confuse della superficialità e del pregiudizio. Perché essere riconosciuti importanti ed essere votati, spesso, è il risultato di uno sforzo, anch’esso a suo modo assai faticoso, “di volare basso”, di accarezzare le tendenze più povere, le emozioni e i pensieri più confusi di chi non ama pensare. Parlando della necessità di uno Stato che pensi per lui, che decida al suo posto quello che è giusto e quello che non lo è. Liberandolo dal peso della ragione e del libero arbitrio. Come insegnava a Gesù, nella favola immaginata da Dostojevskji, il Grande Inquisitore quando Gesù aveva avuto l’ardire di tornare in terra per dire di nuovo agli uomini che erano uguali e liberi e rischiava di mettere in crisi, facendolo, l’autorità di una Chiesa che per 16 secoli aveva lavorato per lui e agito nel suo nome.
Del tutto inimmaginabile, sulla base di queste riflessioni, mi sembra l’idea che Buttiglione e Ruini, Schifani e La Russa possano accettare oggi l’idea da te riproposta nell’ultima parte della tua lettera per cui «le donne, gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni» potrebbero/ dovrebbero essere loro a decidere quale destino pare loro preferibile.
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#DANTE2021 A 700 anni dalla #morte di #Dante, ancora non compresi i #due significati (i #duesoli) del "vicisti, #Galilaee". PER #Keplero, come per #Kant, la vittoria di #GalileoGalilei è filosofico-scientifica!
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5061
#Mathematics #anthropology #Theology #philosophy In #memoria di #GalileoGalilei (nato il #15febbraio 1564), ricordare i #duesoli (#Dante2021) e i #duelibri di #Galilei e che il #logos non è un #logo
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1205
FLS
"ECCE HOMO" (PONZIO PILATO - NIETZSCHE). Chi ha perduto il filo del messaggio evangelico? ... *
Chi ha perduto il filo del cristianesimo?
Gli orrori del Novecento hanno favorito un nuovo “ateismo”. Occorre ritrovare la forza insostituibile del messaggio di Cristo. Due saggi di Ryrie e De Angelis
di Roberto Righetto (Avvenire, mercoledì 10 febbraio 2021)
«La filosofia hegeliana era stata la forma più compiuta di quella laicizzazione del cristianesimo in cui consiste il pensiero moderno, sì che la sua dissoluzione ha posto un’alternativa, ch’è ancora l’alternativa d’oggi: o condurre sino in fondo la secolarizzazione del cristianesimo verso le forme più radicali di ateismo e di nichilismo, o recuperare il cristianesimo nella sua genuinità religiosa. Insomma, fine o ritrovamento del cristianesimo, questa è l’alternativa d’oggi, e si tratta d’un’alternativa filosofica». Così il filosofo Luigi Pareyson in uno dei suoi ultimi scritti. Una linea radicale che suonava come un verdetto impietoso verso le filosofie contemporanee ridotte all’analisi dei giochi linguistici o alla sudditanza verso la scienza. In questa direzione muovono anche due saggi recenti: Il senso di non credere. Una storia emotiva del dubbio di Alec Ryrie (Utet, pagine 306, euro 23) e Serve ancora Dio? La via di Nietzsche oltre il nichilismo di Massimo De Angelis (Castelvecchi, pagine 288, euro 25).
Partiamo da quest’ultimo, dato che Nietzsche è visto da molti come il sostenitore della "morte di Dio" e l’iniziatore del nichilismo in Occidente. Ma è davvero così? Già il grande antropologo francese René Girard, nel volume Il caso Nietzsche, aveva definito il pensatore tedesco «il preteso distruttore del cristianesimo », anzi «la migliore conferma». Soprattutto negli ultimi tempi, quando firma i suoi aforismi a volte Dioniso a volte Cristo, e a volte entrambi, Nietzsche vuole parteggiare per l’antica divinità pagana e lo oppone a Gesù ma questo suo tremendo sforzo di autoconvincimento lo porterà alla pazzia.
Il saggista De Angelis, già direttore della rivista "Nuova civiltà delle macchine" rileva come la critica del filosofo di Sils Maria al cristianesimo fosse rivolta al suo impianto metafisico e morale, e ricorda l’analisi che fece della malattia il professor Kaftan, secondo cui Nietzsche «non riuscì mai a dimenticare e a superare completamente il cristianesimo, giacché a Dio era destinato e soltanto Dio avrebbe potuto dare una forma grande e armoniosa alla ricca vita spirituale che sgorgava in lui». Tesi contraddette dagli amici più prossimi come Overbeck e Koselitz, ma in un certo senso confermate da Lou Salomé, per la quale l’incontro- scontro con Cristo è rimasto in lui una questione irrisolta e causa di dolore estremo.
La lezione che ci lascia Nietzsche, dopo la demolizione della metafisica e la proclamazione della morte di Dio, è una sfida aperta per un pensiero cristiano che torni alle origini e riscopra la dimensione mistica. Come ha scritto Karl Jaspers: «Nietzsche, continuamente scosso dalla trascendenza che egli nega, prepara la trascendenza che egli non mostra». In questo senso ha ragione ancora Girard a definirlo un «pensatore religioso». Si ritorna al passo di Pareyson citato all’inizio, all’alternativa fra un ateismo nichilista e un cristianesimo genuino, non sentimentale né consolatorio.
E qui ci aiuta l’analisi di Ryrie, pastore anglicano e storico delle religioni. La sua è una difesa di un cristianesimo che non dimentica la sfida del dubbio. Ricostruendo la «storia dell’assassinio filosofico di Dio», a suo parere assai più lontana nel tempo rispetto al cliché consolidato del libertinismo e dell’illuminismo come padri della non credenza, Ryrie prende spunto dal dato di fatto inoppugnabile della crisi della fede oggi in America ed Europa a tutto vantaggio dell’agnosticismo e dell’ateismo. Ma contrasta quanto affermato da Charles Taylor nel suo famoso saggio L’età secolare: «Perché era virtualmente impossibile nella nostra società occidentale non credere in Dio, ad esempio, nel 1500, mentre nel 2000 a molti di noi questa appare come una scelta non solo facile, ma quasi inevitabile?». Secondo Ryrie anche durante i cosiddetti secoli cristiani coloro che avevano una fede vera non erano certo la maggioranza ed esisteva comunque chi si dichiarava ateo. E cita vari casi di rivolta verso la Chiesa già in età medievale, anche se all’epoca non si usava certo la parola "ateismo". Da Federico II a Jacopo Fiammenghi e Thomas Tailour, è lungo l’elenco di quanti espressero risentimento verso Dio e scetticismo sulla vita eterna, oltre che rancore verso vescovi e preti. E’ nel ’500 e ’600 poi soprattutto che la ribellione si fa ideologia, dagli umanisti Sozzini e Harvey ai più noti filosofi Hobbes e Spinoza e ai drammaturghi inglesi Marlowe e Jonson. È un ateismo fatto di rabbia e ansia insieme: rabbia per i tradimenti del cristianesimo commessi dai suoi leader e ansia per non essere all’altezza della fede. Così il poeta John Donne poteva distinguere fra «l’ateo presuntuoso, che non crede in alcun Dio», e «l’ateo pensoso, che crede che Gesù non sia sceso in terra per lui». E oggi?
Secondo il pastore anglicano il cristianesimo è inciampato negli orrori del nazismo. Non solo perché questa efferata ideologia è cresciuta in una terra cristiana, ma perché i suoi orrori hanno stabilito nel corso del ’900 un nuovo ordine morale da non oltrepassare, mettendo da parte la visione cristiana delle cose. ’Umanesimo’ è la nuova dottrina cui anche il cristianesimo si deve piegare. Una nuova struttura etica sempre più diffusa (Chesterton l’avrebbe definita ’umanitarismo’) e il cui sostegno è la sola ragione umana. La fede viene messa in disparte. Secondo Callum Brown, autore di una storia orale della miscredenza moderna (Becoming Atheist), col genocidio nazista il cristianesimo ha subito uno smacco. «Ha fallito - commenta Ryrie - non solo nel senso che molte chiese e moti cristiani erano più o meno collusi con nazismo e fascismo, ma in un senso più ampio: la crisi globale rivelò che le priorità morali del cristianesimo erano sbagliate. Era ormai evidente che crudeltà, discriminazione e omicidio erano espressioni del male in un modo ben diverso da fornicazione, blasfemia ed empietà».
Di fronte a questa sfida quale risposta è possibile? Essendo anglicano, Ryrie non cita la svolta del Concilio Vaticano II e gli ultimi pontificati: è convinto che il passato non può tornare e che bisogna riannodare i fili del dialogo fra un’etica cristiana e un’etica laica umanista. Rinunciando a ogni cedimento ai richiami nazionalistici che oggi subiscono molti cristiani europei ed essendo certi della forza insopprimibile della proposta: «Neanche l’ascesa umanista è una nuova realtà solida. Le strutture morali delle nostre culture sono state sempre mutevoli, e sempre lo saranno. Le nostre credenze, inevitabilmente, seguiranno le loro mutazioni. Il finale di questa storia riguarderà tutti, credenti e miscredenti».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Sul tema, le pagine dell’uno e dell’altro (con alcune note)
FLS
AL DI LA’ DELL’ORIZZONTE DI "PERICLE IL POPULISTA" E DI PLATONE...
PER NON CADERE (di nuovo e ancora, dopo millenni) NELLA TRAPPOLA DELLA TRACOTANZA E DELLA MALAFEDE DI "PERICLE", E NON DIMENTICARE CHE LA SUA LINEA POLITICA SEGNA L’INIZIO DELLA FINE DELLA GLORIA E DEL PROGETTO POLITICO DI ATENE, forse, è opportuno - ricordando la messa al bando di Omero e dei "poeti" dalla "Repubblica" di Platone - riprendere e rivedere (non solo i lavori di Eric A. Havelock, ma anche) la brillante analisi del cosiddetto "Elogio di Atene" da parte di Umberto Eco nella sua nota sul "Pericle il populista" di ieri e di oggi (la Repubblica, 14 gennaio 2012):
e, al contempo, volendo, rimeditare la storica lezione di Giambattista Vico sulla questione "Omero" e riflettere sulla sua proposta di una "Scienza Nuova", al di là dell’imbalsamazione crociana.
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE... *
Patristica. Sant’Ambrogio e i troppi Naboth dei nostri giorni
La grande attualità del vescovo di Milano è confermata dalla ripubblicata omelia dedicata al vignaiolo biblico vessato dal re Achab. Denuncia durissima contro i ricchi, potenti e sfruttatori
di Alessandro Capone (Avvenire, giovedì 28 gennaio 2021)
«La terra è di tutti, non solo dei ricchi, ma quelli che possono utilizzare ciò che appartiene loro sono assai pochi rispetto a chi non può farlo». Queste parole, che potremmo pensare di papa Francesco, sono in realtà del vescovo di Milano Ambrogio, il quale negli ultimi anni della vita scrisse un omelia su La storia di Naboth, appena pubblicata a cura di Domenico Lassandro e Stefania Palumbo (Loescher, pagine 336, euro 45,00), all’interno della giovane, ma molto promettente, serie patristica della Corona Patrum Erasmiana, promossa dal Centro europeo di studi umanistici ’Erasmo da Rotterdam’ di Torino sotto gli auspici di Renato Uglione.
Nell’opera Ambrogio trae spunto dalla vicenda dell’israelita Naboth (1 Re 21), che aveva una vigna vicino al palazzo del re Achab, il quale, spinto dalla brama di possesso, ordinò a Naboth di cedergli la sua vigna in cambio di un’altra o di denaro. Nulla poté Naboth, che rifiutò di obbedire perché quella vigna era eredità dei suoi padri: per mezzo di un inganno ordito dalla moglie del re, egli fu accusato di bestemmia e lapidato.
La vicenda di Naboth rappresenta il filo conduttore di tutto il testo ambrosiano e consente al vescovo di Milano, il quale oltre che sull’esperienza episcopale poteva far leva anche su quella di politico, di presentare una lucida denuncia del dramma dei poveri del suo tempo, di cui ci offre qualche vivido esempio. Egli infatti si sofferma sui sacrifici di vite umane per soddisfare la fame dei ricchi: uno cade dalla sommità di un tetto per preparare granai più ampi; un altro precipita dalla cima di un albero, mentre ispeziona i tipi di uva; un altro annega in mare per procurare pesci e ostriche... Vengono in mente i sempre attuali ’incidenti sul lavoro’, come osserva Lassandro, ma ancor di più la folla di uomini sfruttati e venduti, di turoldiana memoria, sparsi in tutto il mondo e asserviti a un lavoro mortale utile solo per il godimento di una minoranza.
E ancora il padre, di cui Ambrogio si professa testimone oculare, costretto a vendere all’asta i propri figli per rinviare la pena a cui era condannato per la mancanza di vino sulla tavola del potente. Di questo padre il vescovo descrive la tempesta interiore e la disperazione infinita e denuncia la situazione innaturale a cui l’uomo è costretto: «Come potrei dunque discernere tra i sentimenti della natura, come potrei dimenticarli, come potrei spogliarmi dei sentimenti di un padre?».
È evidente che lo scopo di Ambrogio non è di proporre semplicemente un’interpretazione del sopruso sofferto da Naboth, ma principalmente di sottolineare la necessità di rendere concreta ed efficiente una giustizia sociale basata sui valori evangelici.
Il testo ambrosiano rappresenta dunque la testimonianza drammatica di una società in cui i rapporti economici hanno conseguenze devastanti su quelli umani e sociali e allo stesso tempo propone il manifesto e l’auspicio di una società più equa e solidale, in cui il bene sia realmente, secondo la legge di natura, comune e non a vantaggio di un’élite: «Per tutti è stato creato il mondo, quel mondo che invece voi pochi ricchi tentate di rivendicare solo per voi».
Le parole del vescovo rappresentano pertanto un messaggio perennemente rivoluzionario, che ha conquistato personalità come Concetto Marchesi, Ernesto Buonaiuti e David Maria Turoldo, che nel duomo milanese in una sua predica lesse, senza riferire il nome dell’autore, alcuni passaggi proprio del testo ambrosiano, suscitando profondo scandalo e vibrate proteste dell’uditorio.
Un messaggio scomodo ancora oggi e in perfetta consonanza con quanto papa Francesco ha scritto al punto 120 dell’Enciclica Fratelli tutti: «Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società».
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
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PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI.
FLS
PER UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA. Ridiscendere nella "nave" di Galileo Galilei, ripartire da un nuovo "principio di carità" e riprendere la navigazione ... *
Se la fisica è tentata dalla metafisica
La teoria quantistica ha messo in crisi la fiducia della scienza di poter davvero “vedere” il reale.
di Roberto Timossi (Avvenire, martedì 19 gennaio 2021)
Che cos’è la realtà? Siamo in grado di conoscere la natura del reale così come effettivamente è e non semplicemente come appare? Si tratta di due domande classiche del pensiero filosofico, che hanno assunto particolare rilievo con la filosofia moderna.
È noto per esempio che per l’empirismo scettico di David Hume la conoscenza è condizionata dalle impressioni e quindi si riduce a ciò che appare alla nostra mente, per cui anche la scienza in definitiva non ha valore oggettivo, ma è il prodotto dalla nostra abitudine a generalizzare dei fenomeni solo apparentemente ricorrenti e concatenati.
Questa sfiducia nella possibilità di stabilire se quello che crediamo di conoscere corrisponde o meno alla realtà effettiva oppure risulta solamente una nostra raffigurazione mentale ha condotto Immanuel Kant a rinunciare alla ricerca del reale o cosa in sé (il “noumeno” ovvero il pensabile, ma non conoscibile) per limitarsi al “fenomeno”, ossia esclusivamente a quanto si manifesta nelle nostre percezioni sensoriali.
Con l’idealismo e con il positivismo il problema se la realtà sia davvero quella che ci appare è stato svuotato a priori, perché nel caso degli idealisti «ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale» (G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio) e nel caso dei positivisti il positum, ossia ciò che è osservato empiricamente dalla scienza, è indiscutibilmente reale (A. Comte, Discorso sullo spirito positivo). Come però purtroppo spesso è accaduto dal Novecento ai giorni nostri, laddove i filosofi hanno “gettato la spugna” ritendendo di dover abbandonare argomenti reputati metafisici, si sono invece fatti avanti gli scienziati.
La questione di che cosa sia la realtà e se davvero la conosciamo è stata infatti rilanciata prima con la teoria einsteiniana della relatività e poi soprattutto con la meccanica quantistica. Quest’ultima, sorta come una teoria che doveva spiegare il funzionamento del microcosmo delle particelle, ha finito inevitabilmente per coinvolgere tutto l’esistente, non fosse altro perché ogni cosa osservabile è fatta di materia, quindi possiede una struttura atomica.
Fin dalle sue origini, la teoria prevalente nella meccanica quantistica (la cosiddetta “interpretazione di Copenaghen”) iniziò a generare problemi al realismo, quantomeno a livello atomico e subatomico, conducendo a un contrasto rimasto famoso tra due grandi fisici premi Nobel: Albert Einstein e Niels Bohr.
Mentre infatti il primo da tenace realista non riusciva ad accettare l’indeterminismo implicito nella descrizione quantistica dei fenomeni (“Dio non gioca a dadi”), il secondo prendeva atto della situazione ritenendo che fosse sbagliato pensare che il compito della fisica sia dire come la natura è realmente. Presente nella filosofia della scienza nella forma di una disputa tra realismo e antirealismo scientifico, il tema ritorna oggi sempre più spesso in libri dall’intento divulgativo, che in fondo riproducono le stesse posizioni contrapposte di Einstein e Bohr.
Avviene così per esempio che il fisico statunitense Lee Smolin, che cerca un’alternativa realistica per la teoria dei quanti ( La rivoluzione incompiuta di Einstein, Einaudi), finisca per entrare in inevitabile conflitto con la teoria quantistica relazionale del fisico italiano Carlo Rovelli ( Helgoland, Adelphi), con la quale il reale sembra dissolversi in assenza di una relazione osservativa o di osservatori, per cui non esistono più una verità e una realtà oggettive, bensì tanti punti di vista. Ma dal momento che lo stesso Rovelli riconosce che «solo Dio può vedere in due luoghi nello stesso momento» e quindi solo Lui possiede il punto di vista assoluto sulla verità e la realtà delle cose, verrebbe paradossalmente da concludere che l’unica strada per salvare il realismo sembra essere quella dei filosofi occasionalisti: il mondo funziona, sta insieme e assume reale consistenza unicamente grazie all’intervento diretto e continuo di Dio.
In definitiva, sarebbe opportuno che gli scienziati non spacciassero speculazioni metafisiche per teorie scientifiche, seguendo in ciò l’atteggiamento del premio Nobel per la fisica Kip Thorne, il quale affrontando il problema di come sia realmente lo spazio-tempo descritto dalla teoria della relatività ha concluso: «Quale punto di vista dica la “verità autentica” è irrilevante ai fini degli esperimenti, è una questione dei filosofi, non dei fisici» ( Buchi neri e salti temporali. L’eredità di Einstein, Castelvecchi).
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI.
ALBERT EINSTEIN, LA MENTE ACCOGLIENTE. L’universo a cavallo di un raggio di luce (non di un manico di scopa!)
ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
FLS
Luoghi dell’Infinito.
Adamo dove sei? Tra la discarica e il Giardino
La bellezza ci abbraccia, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Una bellezza donata senza misura, quasi a sfiorare l’infinito. Maestosa, selvaggia, immensa. Una bellezza che anche noi abbiamo...
di Giovanni Gazzaneo (Avvenire, giovedì 14 gennaio 2021)
La bellezza ci abbraccia, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Una bellezza donata senza misura, quasi a sfiorare l’infinito. Maestosa, selvaggia, immensa. Una bellezza che anche noi abbiamo saputo generare nei millenni creando opere d’arte e meraviglie tecnologiche, modellando colline, facendo dei campi un tripudio di colori e di geometrie, progettando giardini e parchi che, consapevolmente o meno, sono la tangibile nostalgia del Paradiso perduto.
Scrive papa Francesco nella Laudato si’: «Prestare attenzione alla bellezza e amarla ci aiuta ad uscire dal pragmatismo utilitaristico. Quando non si impara a fermarsi ad apprezzare il bello, non è strano che ogni cosa si trasformi in oggetto di uso e abuso senza scrupoli» (215). Abuso che non conosce frontiere, dentro e fuori di noi: smog nei cieli e nei nostri polmoni, microplastiche nei ghiacciai e nelle profondità degli abissi marini, ma anche nel nostro sangue.
Abbiamo reso il mondo una discarica. Ma prima vittima della “cultura dello scarto”, come insegna papa Francesco, è proprio l’uomo: «L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale» (Laudato si’ 48).
La cultura meccanicistica e positivista - che si è accompagnata ai primi grandi successi tecnologici dell’epoca moderna e alla promessa dei paradisi in terra (comunisti o capitalisti in questo si equivalgono) - ha proposto una visione riduzionista dell’uomo e della natura. L’uomo è solo corpo, tassello intercambiabile nel mondo della produzione e contenitore di desideri (sempre indotti e mai appaganti) nel magico universo del mercato. La natura è solo materia da sfruttare per la produzione e, a partire dal dopoguerra, per le vacanze di massa.
Questo modo di vedere le cose e gli uomini si è evoluto, più nei linguaggi che nella sostanza. Come sostiene papa Benedetto nel 2012: «Lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi». Continuiamo a preferire l’ideologia - oggi destrutturata ma onnipresente con i suoi falsi idoli - alla realtà.
È cresciuta la sensibilità ambientale, ma l’ecologia integrale, proposta da Benedetto XVI e da papa Francesco, non può prescindere da un umanesimo integrale, che riconosca la dignità di ogni persona e di tutti i popoli. Sono tante le persone di buona volontà e le associazioni che lottano perché la natura non sia violata, per le trentamila specie a rischio, perché la foresta amazzonica sia preservata, e anche i cani non siano abbandonati... Ma cala il silenzio, anzi scatta la censura, se lottiamo perché a non essere violata e manipolata sia la natura umana, perché gli embrioni non siano “prodotti” di fabbrica, perché l’utero non si trasformi in un parcheggio a pagamento, perché cinquantasei milioni di bambini non vengano ogni anno democraticamente uccisi nel seno delle loro madri. «I deserti esteriori - afferma papa Benedetto nel 2005 - si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi» e continuano a crescere.
La natura è bellezza, ma bellezza sfigurata, fin dalla Genesi, fin dal peccato di Adamo. Ricomporre l’armonia perduta è possibile, come testimonia Francesco d’Assisi. Lui non si è convertito all’ecologismo. L’amore di Francesco per il Creato nasce dalla sua conversione a Cristo, da questa sua sequela che l’ha portato a vedere il mondo e i suoi abitanti con lo stesso sguardo del Figlio dell’uomo, a percepire la giusta e feconda relazione con gli elementi e le creature, ad amare la potenza e la bellezza della vita come riflesso di un atto creativo che non si ferma alla Genesi, ma che continua nello scorrere del tempo. Un sentimento, uno sguardo, un’invocazione che trasformano la vita nella poesia del Cantico delle creature, e poi, con Giotto, nei colori e nelle immagini della più straordinaria rivoluzione artistica. Francesco sapeva che il vertice della Creazione non è l’uomo, ma il Figlio dell’uomo, l’Increato che si fa creatura, l’Eterno che si fa storia, l’Infinito che abbraccia il limite.
La strada indicata da san Francesco è semplice e ardua: non può esserci autentica cura del Creato se dimentichiamo che il nostro abitare, nel segno della custodia e non del possesso e dello sfruttamento, nasce dal nostro essere voluti come figli da un Dio che ci è Padre. Siamo creature e non creatori (al massimo inventori e, con le arti, imitatori dell’atto creativo originario), ma siamo figli: siamo la Sua immagine, magari ferita, rugosa, infangata, perfino negata, combattuta. Eppure quell’immagine resta. È la parte di noi più vera, più gioiosa, più viva, più profonda. Da qui, da questa Presenza in noi, nasce l’amore per la terra, che è madre e sorella e figlia, per le sue creature, per gli uomini tutti. Francesco è stato il giullare del Gran Re, perché ha saputo vivere da figlio del Gran Re.
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@UNESCO #LogicDay Uscire dall’#infernoepistemologico: ripartire con #Quine e #Nozick da un nuovo #principiodicarità, ridiscendere nella #nave di #galileogalilei, e riprendere la #navigazione con #Einstein
LO SPIRITO DI ASSISI. LA LEZIONE DI GIOVANNI PAOLO II SULLA DONNA E SULL’UOMO E SU DIO... *
Papa: nuovi ruoli alle donne, apre a Lettorato e Accolitato
’Ma la Chiesa non può conferire loro l’ordinazione sacerdotale’
di Redazione ANSA *
CITTA DEL VATICANO. Papa Francesco ha stabilito con un Motu proprio che i ministeri del Lettorato e dell’Accolitato siano d’ora in poi aperti anche alle donne, in forma stabile e istituzionalizzata con un apposito mandato. Le donne che leggono la Parola di Dio durante le celebrazioni liturgiche o che svolgono un servizio all’altare in realtà già ci sono con una prassi autorizzata dai vescovi.
Fino ad oggi però tutto ciò avveniva senza un mandato istituzionale vero e proprio.
Aprire ufficialmente le porte alle donne nel Lettorato e nell’Accolitato non significa che potranno diventare sacerdoti. E’ quanto precisa lo stesso Papa facendo proprie le parole di Giovanni Paolo II: "Rispetto ai ministeri ordinati la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
* ANSA 11 gennaio 2021 - 19:06 (ripresa parziale).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FLS
I grandi temi che la Chiesa ha pensato di non vedere
Si parla poco della condizione di declino e di crisi gravissima che il Cristianesimo sembra conoscere attualmente
di Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 30 dicembre 2020)
È opinione diffusa che l’attuale pontificato si caratterizzerebbe per un indirizzo audacemente innovativo, si dice addirittura rivoluzionario. A causa vuoi di una pastorale tutta rivolta alle grandi questioni mondiali dell’ecologia e della giustizia economica tra le nazioni, vuoi di una straordinaria e quasi indiscriminata apertura alle diversità culturali, al dialogo tra le fedi, alla «carità». È però singolare che a questa proiezione del pontificato verso il mondo, e all’attivismo indefesso con cui essa viene alimentata, corrispondano tuttavia un silenzio e una mancanza pressoché assoluta di riflessioni e di iniziative sulla condizione generale che il mondo stesso riserva oggi alla fede cristiana e alla Chiesa stessa.
Una condizione di crisi gravissima. Nell’intero emisfero settentrionale del pianeta il Cristianesimo sembra conoscere, infatti, un tale declino da far pensare che esso stia addirittura sul punto di spegnersi. Lo mostra al semplice sguardo la quantità di edifici religiosi che in tutti Paesi europei hanno chiuso i battenti. Specialmente le chiese, trasformate in gran numero in supermercati, sale bingo o centri commerciali. Ma lo indicano in modo ancor più pregnante due fatti decisivi. Innanzi tutto la sparizione di ogni residuo di quella che un tempo era la Cristianità intesa come fatto pubblico, cioè come connessione tra istituzioni religiose e istituzioni politiche che per secoli ha caratterizzato tutti i regimi europei, ancora in sostanza sul modello dell’Impero romano. In secondo luogo, il fatto che ormai non rimane quasi più traccia di quel «compromesso cristiano-borghese» instauratosi dopo la Rivoluzione francese che fino a qualche decennio fa era tipico di tutte le classi dirigenti euro-occidentali. Un compromesso in forza del quale, pur laicizzandosi e modernizzandosi, esse erano però rimaste legate in qualche modo all’antica fede. Da tempo, invece, nei loro modelli di vita, nell’educazione dei figli, nell’autocoscienza di sé, nei loro valori pubblici, le élite delle società sviluppate appaiono virtualmente scristianizzate. E inevitabilmente il resto della società segue il loro esempio.
Ora, di fronte a questa gigantesca frattura storica - che oggi si manifesta in tutta la sua straordinaria ampiezza ma che nell’ultimo mezzo secolo non ha mancato di sollecitare le alte e tormentate riflessioni del magistero, da papa Montini a papa Ratzinger - appare davvero singolare il silenzio non solo dell’attuale Pontefice ma dell’insieme della gerarchia. L’attenzione e l’iniziativa dell’uno e dell’altra non sembrano attratte neppure da altre due questioni di enorme portata ormai arrivate drammaticamente al pettine. Tali, a me pare, da obbligare la Chiesa a mettere in discussione di fatto la propria intera vicenda identitaria, a riformularne gli esiti in misura radicale.
La prima di tali questioni è quella della democrazia. È vero naturalmente che la Chiesa non può essere una democrazia perché Dio non può essere messo ai voti. La democrazia però non è solo questione di voti. È anche - anzi soprattutto - una questione di diritti. Innanzi tutto di quei diritti della persona alla cui origine c’è il Cristianesimo e sui quali da decenni non a caso insiste in ogni occasione il magistero della Chiesa stessa. Ma allora la domanda ovvia che si pone è la seguente: come può essere compatibile con la tutela di tali diritti della persona il tipo di potere che esercita il Papa sul suo Stato e sull’istituzione ecclesiastica - un potere assoluto e incontrollato, arbitrario nel più vero senso della parola? Com’è compatibile ad esempio il diritto di ogni persona a conoscere le accuse che gli vengono mosse, a conoscerne i motivi, ad avere un giusto processo da parte di giudici indipendenti, con la sorte riservata al cardinale Becciu, il quale, spogliato dal Papa di alcune importanti prerogative legate alla sua carica senza nulla sapere dei motivi, in teoria aspetta giustizia - si noti il paradosso - da giudici nominati e revocabili ad nutum dal Papa stesso? Come si può chiedere al mondo di essere giusto, mi chiedo, se in casa propria le regole della giustizia sono queste? E d’altra parte, che in quella casa ci sia un problema vero di democrazia non è forse testimoniato anche dal fatto che ancora oggi in seguito a un episodio come quello appena detto (ma anche a mille altri) nessuno osi dire pubblicamente nulla? Sollevare qualche dubbio? Chiedere, Dio non voglia, qualche spiegazione? O l’obbligo democratico alla trasparenza tante volte invocato vale solo per gli altri?
Né si tratta solo di questo. Finora, infatti, a far da contrappeso alla natura autocratica del potere papale è stato il carattere elettivo della carica. Incontrollatamente elettivo, bisogna aggiungere: grazie al quale, quindi, a un Papa di un certo orientamento era possibilissimo (come infatti è accaduto quasi sempre) che succedesse un Papa di un orientamento affatto diverso. Ora invece, con la nomina da parte dell’attuale Pontefice di un sempre maggior numero di cardinali in tutto e per tutto a lui omogenei, minaccia di nascere di fatto al vertice dell’istituzione un vero e proprio «partito del Papa», detentore della maggioranza nel conclave. Grazie al quale al Papa regnante stesso diviene perciò possibile scegliere il proprio successore o perlomeno influenzarne in modo decisivo l’elezione. Determinando così il passaggio da un’autocrazia dalla titolarità incontrollata a una autocrazia dalla titolarità designata.
Infine, al problema della democrazia si ricollega direttamente pure la seconda delle grandi questioni arrivate al pettine che oggi interrogano la Chiesa e la sua storia: la questione del ruolo delle donne all’interno dell’istituzione ecclesiastica. O per dire meglio la questione della loro assoluta, continua, esclusione da qualsiasi ruolo significativo. Non mi riferisco al sacerdozio femminile. Mi riferisco al potere, alle cariche, che so, di presidente dello Ior, di governatore dello Stato, di nunzio o di segretario di Stato: che a mia conoscenza nessun passo dei Vangeli prescrive debbano essere affidate a uomini anziché a donne. Ma che la Chiesa invece continua imperterrita a credere un esclusivo monopolio maschile. Mi chiedo come possa immaginare di avere un qualsiasi futuro un’istituzione che nel mondo di oggi si muove in questo modo. Mostrando cioè una mancanza di senso storico che ricorda tristemente la vana battaglia che la stessa Chiesa cattolica ingaggiò per oltre un secolo contro i principi liberali. Oltre tutto - ancora una volta, come allora - smentendo in tal modo l’ispirazione più luminosa della propria storia e la testimonianza più straordinaria del proprio fondatore.
Ma se le cose stanno così, mi risulta allora abbastanza incomprensibile come possa essere definito innovativo, progressista o addirittura rivoluzionario, papa Francesco. Il quale esercita il suo potere al modo che ho detto e circa tutte le questioni e i problemi fin qui enumerati è convinto evidentemente che essi non esistano, o comunque che non meritino la sua attenzione. Per quel che conta la mia opinione, ho il sospetto che la sua via non porti lontano.
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO CON IL SUO TRADIZIONALE SOFISMA DELLA "FALLACIA ACCIDENTIS". LOGICA E REALTÀ .... *
Quando la logica va in vacanza
di Edoardo Camassa **
Il termine “fallacia” può essere inteso in almeno due modi. In senso lato designa una qualsiasi idea, opinione o credenza sbagliata; per esempio che le donne non sappiano guidare o che rompere uno specchio porti sette anni di disgrazie. Come si vede, stando a questa prima accezione del termine, le fallacie si fondano sugli stereotipi, sulla superstizione o comunque su detti e proverbi popolari, e perciò non ambiscono in nessun modo a risultare convincenti. Ma le cose cambiano se ci spostiamo dal linguaggio comune al linguaggio filosofico-scientifico.
In senso stretto, infatti, “fallacia” indica un’argomentazione o un ragionamento che sono logicamente viziati ma psicologicamente persuasivi; ciò può avvenire in modo consapevole e deliberato, quando vengono prodotti con l’intenzione di ingannare, e allora parleremo di sofismi, o inconsapevolmente, quando vengono prodotti senza volontà di inganno, e allora parleremo di paralogismi. In estrema sintesi, nella prospettiva della logica dell’argomentazione la fallacia è un ragionamento che ricorda un qualche tipo d’inferenza, ma che se sottoposto a un esame rigoroso si rivela scorretto[1].
Tra gli innumerevoli esempi possibili di fallacie intese in questa seconda accezione ce n’è uno su cui vale la pena di soffermarsi, se non altro perché compare in quello che è in assoluto il primo trattato sistematico sui ragionamenti viziati - il De sophisticis elenchis di Aristotele - e ha il pregio di essere estremamente chiaro[2]. Si tratta della fallacia d’accidente converso, un tipo di generalizzazione indebita che nasce dal considerare ciò che vale sotto un determinato aspetto (παρὰ τὸ πῄ, traducibile nei termini della logica medievale con secundum quid) come se valesse in assoluto, in sé e per sé (ἁπλῶς, corrispondente al latino simpliciter). In base a questo indebito procedimento generalizzante, dal fatto che un indiano è nero ma ha i denti bianchi si passa a concludere, erroneamente, che questo indiano è al contempo bianco e nero (Soph. el., 167a 7-9)[3]. Nel presente lavoro mi occuperò di fallacie intendendole in questo secondo senso, ossia nell’accezione ristretta; mi occuperò cioè di “fallacie logiche”. Più nel dettaglio, mi concentrerò su una particolare classe di ragionamenti scorretti: quella delle argomentazioni viziate che realizzano il loro potenziale comico.
[...]
Per sgombrare il campo da ogni possibile equivoco, occorre però aggiungere subito che qui mi soffermerò sulle fallacie comiche per come appaiono nella letteratura.
[...]
Per provare a esplicitare gli scopi delle fallacie comiche nella letteratura conviene rifarsi ancora una volta a Freud, e nello specifico all’analisi di ciò che egli chiama «storielle con una facciata logica» (o «motti concettuali sofistici»). Secondo Freud, se questo tipo di barzellette mostra una parvenza logica così robusta da rivelarsi come tale solo in seguito a un esame più attento è appunto perché lo scherzo tradisce qualcosa di serio, cela una logica ancor più profonda[4]. Orlando, che dal libro freudiano sul Witz ha tentato di estrapolare una teoria generale del comico letterario, scrive a ragione che i motti con una facciata logica sono «di una logica sofistica, esagerata, che dissimula anziché ostentarla l’erroneità dei propri ragionamenti secondo il livello della coscienza, e con ciò stesso ostenta fingendo di dissimularla la validità dei ragionamenti stessi secondo un’altra logica di fondo»[5].
È proprio questa dialettica di erroneità e validità, di illogicità e logicità che caratterizza le fallacie comiche rinvenibili nelle opere letterarie. Vale perciò la pena di approfondirne l’esame e di articolarne i momenti costitutivi. In prima battuta il lettore (mi riferisco al lettore modello) prende per buono il ragionamento incongruo; in altre parole si lascia persuadere dalla sua coerenza apparente. Il pensiero critico e la valutazione razionale subentrano in lui solo in un secondo momento, così da rendergli la fallacia palese, riconoscibile, e con ciò stesso da muoverlo al riso. Ma non è tutto: il lettore è infine portato a riconsiderare l’argomentazione comica e a intuire che quel che gli pareva erroneo così erroneo non è, dal momento che fa luce su verità paradossali ma profonde a cui la logica ordinaria non può né vuole accedere[6]. Da questa angolatura, assurdo non è più tanto e solo il ragionamento fallace, ma anche e soprattutto qualcos’altro di più generale. Se si vuole, il sistema di pensiero corrente e le sue leggi ritenute inattaccabili.
Un esempio chiarirà meglio cosa intendo: «L’unico modo per liberarsi di una tentazione è quello di cedervi»[7]. Tra tutte le massime che in The Picture of Dorian Gray (1890) Wilde mette in bocca a Lord Henry Wotton, irresistibile campione di freddure, questa è forse la più celebre. Essa di primo acchito sembra sensata, convincente. Tuttavia, a un esame più approfondito, l’aforisma rivela tutta la sua inconsistenza argomentativa. A rigor di logica, oltre a quella suggerita da Lord Wotton, vi sarebbe infatti un’altra e ben più valida soluzione per liberarsi di una tentazione: quella di metterla a tacere, di ignorarla e in definitiva di reprimerla. Come si vede, ci troviamo qui a ridere di una fallacia facilmente individuabile, che è nota come evidenza soppressa (o unilateralità) e che consiste nel dimenticare per strada alcune informazioni in grado di invalidare la tesi proposta. Benché tutto questo sia esatto, va pur detto che la massima sopra citata non si esaurisce nell’errore logico e nel comico puro. Nonostante l’incongruenza, e anzi proprio in virtù di questa, Wilde mira a farci intravedere qualcosa di serio: che tutto sommato non c’è davvero altro modo per liberarsi di una tentazione se non quello di cedervi. Per convincersene, basta leggere come il discorso di Lord Wotton continua: «Resistetele, e la vostra anima si ammalerà di bramosia per le cose che si è proibite da sola, di desiderio per ciò che le sue leggi mostruose (monstrous laws) hanno reso mostruoso e illegittimo (monstrous and unlawful)»[8]. Qui Wilde vagamente anticipa una idea che da lì a poco la psicanalisi cercherà di fondare su basi scientifiche. Per quanto proviamo a domarlo, il desiderio - mostruoso e proibito, sì, ma solo nell’ottica della ragione dispiegata - non si lascerà mai ammansire e combatterà con tutte le proprie forze per emergere. Con buona pace della mentalità borghese-puritana, additata come il “vero” bersaglio comico del ragionamento.
Quanto detto può essere riformulato e arricchito combinando la terminologia di Freud con quella del suo erede cileno Matte Blanco: le fallacie comiche della letteratura sono - un po’ come i sogni, i lapsus e i sintomi psiconevrotici, benché calcolate e coscienti - «formazioni intermedie e di compromesso»[9], frutti di un «sistema logico-antilogico»[10]. Esse ci spingono da un lato a ridere con superiore distacco di assurdità che a tutta prima paiono il risultato di una disattenzione, di un disimpegno mentale, e dall’altro a sentire in modo partecipe che il pensiero consueto in fondo non è altro che uno tra i molti tipi di pensiero possibili e immaginabili. Credo che D’Angeli e Paduano vogliano suggerire qualcosa del genere quando scrivono che nel riso diretto ai danni di chi pronuncia ragionamenti aberranti si maschera il timore che la sua logica altrettanto strutturata e resistente costituisca un grave rischio per la presunta inattaccabilità del sistema di pensiero corrente: le sue leggi, date senza verifica per completamente affidabili, se messe sotto la lente di un simile sguardo straniante, si rivelano discutibili e quindi incerte, e coinvolgono nel dubbio l’intero sistema logico[11].
Ricapitolando, le fallacie comiche in letteratura hanno un intento duplice e ambiguo: punire col riso le argomentazioni che si discostano dalla logica ordinaria e, contemporaneamente, rimarcare i limiti e i vincoli delle certezze comuni. Da ciò si ricava che nella finzione letteraria i ragionamenti ridicoli si presentano come un salvacondotto grazie a cui formidabili deviazioni dalla logica e dal pensiero razionale riescono a trapelare in modo socialmente fruibile. Lo scopo di questo lavoro è appunto mettere in luce, attraverso un congruo numero di esempi, in quali modi la letteratura può trasgredire la logica consueta e dare risalto alle verità paradossali e profonde che emergono proprio in virtù del sovvertimento della logica.
** Fonte: Le parole e le cose, 3 dicembre 2020 (ripresa parziale - senza note)
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NOTA
LOGICA E REALTÀ: LE FALLACIE “COMICHE” NELLA LETTERATURA DELLA TRAGEDIA.
E le fallacie tragiche nella letteratura della “Commedia” e della “Monarchia” di Dante Alighieri...
SE “le fallacie comiche in letteratura hanno un intento duplice e ambiguo: punire col riso le argomentazioni che si discostano dalla logica ordinaria e, contemporaneamente, rimarcare i limiti e i vincoli delle certezze comuni [....]”, alla fin fine, confermano il sentimento tragico della vita in cui si collocano. O no?
Se è così, non è meglio capovolgere il senso del cammino e mettere in luce le fallacie “tragiche” nella “Commedia”, e nella “Monarchia”, come da lezione di Dante?! O no?!
LE PAROLE E LE COSE:
"IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS" O IL "LOGO"?! Una questione antropo-logica! *
Riprendendo il filo del discorso dalla “Storia universale della natura e teoria del cielo” e dalla "Critica della ragion pura" di Kant, forse, è possibile comprendere che la proposta di interpretazione della meccanica quantistica di Carlo Rovelli è "un’idea della fisica assai lontana da quella boriosa “teoria del tutto” con cui alcuni fisici contemporanei intendono mettere un punto alla storia millenaria della riflessione umana" (Emilia Margoni - cit.).
Anzi, ripensando a Kant e, al contempo, accolta "l’ipotesi che Gesù conoscesse benissimo la meccanica quantistica" (Giovanni Megna - cit.) e ricordate le parole di Ponzio Pilato proprio su Gesù ( «Ecco l’uomo» gr. «idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»), si potrebbe riguardare (ripensando meglio anche la "critica dell’economia politica") tutta la questione proprio dalla "quarta" domanda della "Logica" di Kant - quella antropologica!
"Chi abbia avuto la pazienza di giungere sin qui si starà forse chiedendo cosa l’interpretazione relazionale abbia da dire sul destino del gatto nella scatola" (Emilia Margoni - cit.): detto altrimenti, la questione antropologica ("in principio è la relazione" della meccanica ... "andrologica" e "ginecologica") è la questione più importante, rispetto a quella etica, metafisica, e religiosa.
"Come nascono i bambini?" (ricordare non solo Alfred N. Whitehead ma anche Enzo Paci e il suo "relazionismo"). Dopo Copernico, Keplero, Galileo, Newton, Kant, Freud, Einstein, è ancora tanto difficile allontanarsi da "mammona" e uscire dallo "stato di minorità" ?! Boh e bah?!
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Federico La Sala
UNA "FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO" ITALICO-ROMANO. L’antitesi Mosca e Nuova York non si supera che in un modo, con la dottrina e con la prassi di Roma: *
A) Mussolini, Discorso dell’anno IX - Roma, 27 ottobre 1930: "Oggi io affermo che il Fascismo in quanto idea, dottrina, realizzazione, è universale; italiano nei suoi particolari istituti, esso è universale nello spirito, né potrebbe essere altrimenti. -Lo spirito è universale per la sua stessa natura. Si può quindi prevedere una Europa fascista, unì Europa che ispiri le sue istituzioni alle dottrine e alla pratica del Fascismo. Una Europa cioè che risolva, in senso fascista, il problema dello Stato moderno, dello Stato del XX secolo, ben diverso dagli Stati che esistevano prima del 1789 o che si formarono dopo.
Il Fascismo oggi risponde ad esigenze di carattere universale. Esso risolve infatti il triplice problema dei rapporti fra Stato e individuo, fra Stato e gruppi, fra gruppi e gruppi organizzati. Per questo noi sorridiamo quando dei profeti funerei contano i nostri giorni. Di questi profeti non si troverà più non solo la polvere, ma nemmeno il ricordo, e il Fascismo sarà vivo ancora. Del resto ci occorre del tempo, moltissimo tempo, per compiere l’opera nostra. Non parlo di quella materiale, ma di quella morale. Noi dobbiamo scrostare e polverizzare, nel carattere e nella mentalità degli italiani, i sedimenti depostivi da quei terribili secoli di decadenza politica, militare, morale, che vanno dal 1600 al sorgere di Napoleone. È una fatica grandiosa.
Il Risorgimento non è stato che l’inizio, poiché fu opera di troppo esigue minoranze; la guerra mondiale fu invece profondamente educativa. Si tratta ora di continuare, giorno per giorno, in questa opera di rifacimento del carattere degli italiani [...]"(Messaggio per l’Anno Nono - Roma, 27 ottobre 1930, in B. Mussolini, Opera Omnia, vol. XXIV, p. 283).
B) Mussolini - Milano, Piazza Duomo, 25 ottobre 1932: "Oggi, con piena tranquillità di coscienza, dico a voi, moltitudine immensa, che questo secolo decimoventesimo darà il secolo del Fascismo. Sarà il secolo della potenza italiana. Sarà il secolo durante il quale l’Italia tornerà per la terza volta ad essere direttrice della civiltà umana. Perché fuori dai nostri principi, e soprattutto in tempi di crisi, non c’è salvezza né per gli individui e tanto meno per i popoli.
Fra dieci anni - lo si può dire. Senza fare i profeti - l’Europa sarà cambiata. Non da ora si sono commesse delle ingiustizie, anche contro di noi, soprattutto contro di noi. E niente di più triste il compito che vi spetta di dover difendere quello che è stato il sacrificio magnifico di sangue di tutto il popolo italiano. [...] Tra un decennio l’Europa sarà fascista o fascistizzata!
L’antitesi Mosca e Nuova York non si supera che in un modo, con la dottrina e con la prassi di Roma [...]" (B. Mussolini, Opera Omnia, XXV, pp. 147-148).
* Sul tema, mi sia consentito, si cfr.:
STORIA E STORIOGRAFIA DEL FASCISMO, "UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO" (A. GRAMSCI, 1924). IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO : MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
Recensione a:
Sappiamo che Socrate amava intrattenere conversazioni con i concittadini nell’agorà di Atene, ponendoli ironicamente di fronte a insolite questioni e sollecitandoli a spiegare e giustificare le proprie affermazioni al riguardo. Il filosofo non intendeva insegnare qualcosa ai suoi interlocutori e introiettare in loro una qualche conoscenza dall’esterno, bensì condurli a trovare la verità nascosta in se stessi, portandola alla luce attraverso l’interrogazione e lo sradicamento delle false doxai. Lo scopo era, cioè, quello di aiutare il soggetto a partorire la propria verità, seguendo la celebre metafora della maieutica proposta dallo stesso Socrate. L’obiettivo è realizzabile nel corso di una vita fatta di riflessione, interrogazione continua e messa in discussione dei convincimenti più radicati, poiché proprio dietro la più proclamata sicurezza può nascondersi una subdola ignoranza della verità. Solo a partire dalla conoscenza di se stessi e dal riconoscimento dei propri limiti, risulta possibile dare alla luce la verità. Precisamente in virtù dell’attività socratica, la filosofia inizia a delinearsi come conversazione dialettica e come disciplina caratterizzata da lineamenti precisi.
Non è un caso che la personalità di Socrate attraversi e accompagni la totalità della riflessione di Hannah Arendt, fornendo all’autrice un vivo esempio per la formulazione di tesi che ruotano intorno al controverso rapporto tra filosofia e politica, alla coscienza individuale e al tema del male.
Il saggio Socrate compare per la prima volta in traduzione italiana nel 2015, figurando in origine come terza e ultima parte di un corso tenuto presso la Notre Dame University nel 1954.
Il testo si apre con un’introduzione a cura di Ilaria Possenti, la quale contestualizza il contributo arendtiano nel contesto della produzione letteraria dell’autrice, e che nelle sue considerazioni prende avvio da una lettera indirizzata da Arendt a Karl Jaspers nell’estate del 1956, dove l’autrice individua nel processo a Socrate il principio del conflitto tra filosofia e politica. Ricostruendo la genesi di questa contrapposizione, Possenti spiega che Arendt non condanna la polis ateniese, bensì chiama in causa Platone, l’allievo di Socrate. Egli avrebbe lasciato in eredità alla storia del pensiero occidentale due convinzioni fondamentali: “che la politica, così come Atene l’aveva intesa, fosse una pericolosa fonte di ingiustizia; e che i criteri per porre rimedio all’ingiustizia dovessero essere trovati altrove, al di fuori e al di sopra della polis” (p. 9). Ciò è evidente se ci rivolgiamo alla Repubblica: la città ideale delineata nel dialogo si regge su un ideale statico di giustizia, definito a priori, che deve la sua realizzazione nel contesto sociale alla reggenza dei filosofi, coloro che, distanti dalla polis, hanno dedicato la loro vita al puro pensiero inteso come noein, come intuizione e contemplazione della verità.
Secondo Arendt, Platone definì “i termini del conflitto tra filosofia e politica” (p. 10), generando uno iato tra le due, di cui l’autrice lo accusa direttamente. L’allievo fallì così nel cogliere l’eredità del maestro, in cui filosofia e politica risultano invece coessenziali: “così facendo, Platone inaugura la ‘grande tradizione’ rendendo immortale la figura di Socrate e marginale il suo pensiero politico” (p. 11).
Arendt individua, invero, precisamente nella prospettiva socratica un’alternativa a una filosofia ormai esaurita, inserendola peraltro nella sua visione fenomenologica. Nell’ottica arendtiana, l’unica realtà è data dall’apparire e dal mondo comune, lo stesso mondo comune a cui si rivolgeva il filosofo greco. La sua concezione della “condizione umana, in qualche modo intesa come condizione ‘politica’, [...] dovrebbe aiutarci a ripensare da capo il senso della vita della polis [...] e l’oggetto stesso della ‘meraviglia’ filosofica - la pluralità che ci unisce, ci distingue e ci attraversa” (p. 18): è precisamente in ciò che possiamo individuare il fulcro delle riflessioni arendtiane contenute in Socrate.
Il saggio si apre con Il processo di Socrate e la replica di Platone. L’autrice inizia le sue considerazioni partendo dal contesto di appartenenza del filosofo, dominato dall’arte della persuasione, l’arte più elevata e più prettamente politica, che rappresenta ciò in cui fallì Socrate, non riuscendo a persuadere i giudici della sua innocenza. Il filosofo non avrebbe dovuto mirare a far partorire una verità che i giudici non erano disposti ad accogliere, bensì a persuaderli della validità del suo punto di vista.
Nell’ottica platonica, la causa della sconfitta del maestro è da ricercare nel fatto che Socrate si rivolse ai giudici nello stesso modo in cui era solito conversare con gli Ateniesi, secondo il metodo dialettico, e non retorico: il dialeghesthai, però, risulta possibile solo come dialogo tra due soggetti, mentre peitho si rivolge sempre a una moltitudine, ragione per cui Socrate avrebbe dovuto ricorrere alla persuasione piuttosto che alla dialettica. Ciò condusse Platone a dubitare del valore del peithein e con esso anche della doxa, che il maestro cercava di far esprimere agli interlocutori: “è lo spettacolo di Socrate che sottopone la propria doxa alle opinioni irresponsabili degli Ateniesi, e che viene infine sconfitto da una maggioranza, a spingere Platone al disprezzo delle opinioni e a fare di lui un ardente fautore di criteri assoluti” (pp. 26-27).
L’adesione platonica a una normatività suprema è, dunque, motivata da Arendt in base alla delusione provata di fronte alla condanna del maestro. A una politica basata sull’opinione plurale, Platone sostituì principi univoci e inequivocabili che non possono essere oggetto di persuasione. Ma egli andò ben oltre la vendetta del maestro affidando il governo ai filosofi, a quei sophoi che per definizione esulano dalla sfera degli affari della città, ribaltando il vecchio aneddoto di Talete deriso dalla servetta perché caduto nel pozzo, in quanto troppo intento a guardare il cielo. Cionondimeno, se Socrate fu il primo filosofo a rivestire un ruolo politico, Platone fu l’ultimo.
Nella seconda parte del saggio Arendt passa a discutere in maniera sistematica la posizione di Socrate. Nella ricostruzione arendtiana, egli fu indubbiamente il primo a ricorrere al dialeghesthai, ma senza considerarlo la controparte di peitho e della doxa, come arrivò invece a fare l’allievo.
Nella prospettiva socratica, la doxa corrisponde alla comprensione che ognuno ha del mondo, della maniera in cui la realtà si apre e si mostra al soggetto particolare, a seconda del posto occupato in essa. È lo stesso mondo comune a rivelarsi, presentandosi però a ciascuno in modo diverso. Ciò spiega perché la dialettica socratica prenda avvio da una serie di domande attraverso le quali il filosofo cerca di capire quale sia la posizione del suo interlocutore nella realtà, al fine di aiutarlo poi a portare alla luce la propria verità: “Socrate voleva rendere la città più veritiera facendo partorire a ogni cittadino la propria verità. Il metodo per farlo è il dialeghesthai, ma quest’arte dialettica [...] non distrugge la doxa, l’opinione; al contrario, ne rivela la veridicità” (p. 35).
La maieutica di Socrate assume dunque i tratti di un’attività politica, che mira a rendere migliori i cittadini, facendo di loro in ultima istanza degli amici, in contrasto con lo spirito agonale regnante nella polis, costituente una minaccia per il bene comune. In particolare, l’aspetto politico dell’amicizia risiede nel fatto che l’amico è capace di comprendere il modo in cui la realtà si apre all’altro, attraverso il dialeghesthai socratico: si tratta della stessa virtù dell’uomo politico, il quale dovrebbe dimostrarsi in grado di comprendere lo spettro più ampio possibile di realtà, al fine di rendere evidente l’essere-in-comune del mondo e formare su tale base una comunità, costruendola sulla comprensione propria degli amici.
È sul tema della philia che Arendt struttura la parte più dinamica del saggio, La scoperta del “due-in-uno”. -Premessa indispensabile di questo capitolo è il precetto delfico “Gnôthi sautón”, esemplificato dalla personalità socratica. Nell’ottica arendtiana, l’invito alla conoscenza di se stessi comporta che il principio guida del soggetto deve tradursi nella comprensione veritiera della propria doxa e nell’accordo dell’individuo con se stesso, ossia nella philia interiore. La paura di incorrere in questo genere di contraddizione è giustificata in base al fatto che ognuno di noi può parlare con se stesso: nel pensiero ognuno di noi è due-in-uno, e l’armonia di questa dualità si pone come la condizione imprescindibile per l’accordo con l’altro; la paura della contraddizione, dunque, altro non è che timore della scissione e della perdita della coerenza. La pluralità si rivela così come una condizione ineliminabile della natura umana, dacché è sì possibile l’allontanamento da qualsiasi forma di organizzazione sociale, ma mai dall’altro dentro di noi.
Ciò implica la convivenza con un testimone di tutte le azioni individuali, con uno spettatore giudicante a cui non è possibile sfuggire: è quel tribunale che la modernità chiamerà coscienza. L’io è così sdoppiato in imputato e testimone, in esecutore e pubblico.
Vista l’impossibilità della separazione da quest’ultimo, per il soggetto è preferibile essere in disaccordo con l’intera società piuttosto che con se stesso, col quale deve sempre convivere: si tratta precisamente della tesi affermata da Socrate nel Gorgia, dove egli dimostra peraltro con forza che è meglio subire un’ingiustizia piuttosto che commetterla (Gorg. 482b). Il compimento di un atto malvagio comporta la convivenza obbligata con un individuo che vorremmo invece evitare e col quale non è possibile essere in armonia, dacché nessuno sceglierebbe di accompagnarsi a un criminale. Ciò costituisce dunque una situazione di disaccordo interiore, accentuata dalla presenza di un testimone che giudica negativamente le nostre azioni malvagie.
La pluralità esterna può anzi distrarci dalla molteplicità più angosciante, rappresentata dal due-in-uno. Nella discussione, inoltre, l’altro ci riconosce come singolo, come una sola voce.
Poste queste premesse, abbiamo modo di comprendere in che modo le presenti considerazioni si pongano in stretta relazione con quanto affermato relativamente alla philia. Solo chi, vivendo l’esperienza del dialogo interiore, è in accordo con se stesso e una persona affidabile, che in quanto tale può diventare un amico, definito in termini aristotelici come un altro se stesso, secondo a quello che abbiamo dentro di noi. Se, cioè, l’individuo supera il giudizio del tribunale della coscienza presieduto da se medesimo, dimostrandosi un compagno leale, può rapportarsi con l’altro in quanto uno, in qualità di soggetto coerente con se stesso e degno di fiducia.
Nella quarta parte, La sconfitta di Socrate, Arendt riflette sulle conseguenze tangibili della visione socratica analizzata nelle pagine precedenti. “Il conflitto tra la filosofia e la politica, tra il filosofo e la polis, esplose dopo che Socrate, più che svolgere un ruolo politico, aveva voluto rendere la filosofia rilevante per la polis” (p. 48): l’opposizione si concluse con la sconfitta della filosofia e determinò la separazione tra pensiero e azione, conducendo la figura del filosofo a disinteressarsi degli affari della polis.
Nella lettura arendtiana, la filosofia venne così a trovarsi di fronte a un bivio: interpretare l’esperienza filosofica secondo le categorie degli affari umani, oppure giudicare quanto rientra nella sfera politica alla luce della visione filosofica. È in questa seconda direzione che è andato Platone, costruendo una polis retta dai filosofi. Nella parabola della caverna egli condensa la biografia del filosofo, il quale si trova ad attraversare emblematici momenti di ribaltamento del proprio essere.
Ma Platone non ci spiega perché il filosofo decida di intraprendere questo percorso. Per risolvere la questione, Arendt richiama quanto si legge nel Teeteto, dove Platone individua l’elemento alla base della nascita della filosofia: “la meraviglia è ciò che appassiona di più il filosofo, poiché non c’è altra origine della filosofia diversa dalla meraviglia” (Thaet. 155d). Ed è proprio con la questione del thaumazein che Arendt chiude questo scritto. A suo avviso, la meraviglia nell’ottica platonica consiste in un pathos, in qualcosa rispetto a cui il soggetto è passivo e che non può trovare espressione nelle parole, ma che consente al soggetto di cogliere l’autentico significato della formula socratica “So di non sapere”. Nel momento in cui l’individuo subisce il thaumazein, capisce cosa significa non sapere. Da tale consapevolezza deriva l’impulso alla filosofia e alla continua interrogazione socratica. Arendt conclude il saggio rivolgendosi ai filosofi contemporanei, i quali, se vorranno raggiungere una nuova filosofia politica in seguito al conflitto con la polis, dovranno “però assumere come oggetto del thaumazein la pluralità degli uomini, dalla quale sorge [...] l’intera sfera degli affari umani” (p. 62).
I due saggi critici di Adriana Cavarero e Simona Forti, in appendice al testo di Arendt, rappresentano un interessante ausilio alla riflessione sul saggio. Cavarero nel suo commento, Il Socrate di Hannah Arendt, si concentra sulla comparsa della personalità socratica in due particolari momenti della riflessione arendtiana, ripercorrendo anche le differenze originarie rispetto allo sviluppo platonico: la prima scena colloca Socrate all’origine di una “pratica filosofica e insieme genuinamente politica” (p. 73), e individua nell’antitesi tra il maestro e l’allievo la scissione della filosofia dalla sfera politica e la conseguente fuga del sophos da tale contesto; l’altra situazione riconosce in Socrate il fondatore di un modello di pensare critico, l’ideatore della coscienza moderna, intesa nei termini di un tribunale interiore in cui il soggetto si interroga e deve rendere conto di sé a se stesso.
Se, però, nelle sue riflessioni Arendt ci ha convinto a difendere Socrate, Cavarero nel suo commento prende invece le parti di Platone, il quale è messo sotto inchiesta nel saggio arendtiano. Nelle pagine precedenti, infatti, ci siamo imbattuti nella disamina delle colpe metafisiche dell’allievo, che si possono riassumere in ultima analisi nel sacrificio di quella pluralità al cuore dell’insegnamento socratico a favore del totalitarismo dell’Uno, che si pone come l’oggetto supremo della conoscenza muta e contemplativa del filosofo. Cionondimeno, Cavarero ricorda al lettore che l’istante della contemplazione è sì presentato da Platone come la forma più elevata del pensiero, ma il filosofo ammette l’esistenza anche di altre articolazioni del conoscere, tra cui quella del “dialogo senza voce che l’anima fa con se stessa” (Soph. 263e). Tuttavia, Arendt sembra attribuire questo riconoscimento esclusivamente a Socrate, ma risulta evidente la presenza del dialogo silenzioso nell’interiorità dell’individuo anche nel contesto della riflessione platonica. La lezione che indubbiamente è doveroso trarre dall’insegnamento socratico, a discapito dell’allievo, è quella di “ripensare l’umanità, o forse pensarla per la prima volta nei suoi tratti concreti [...] registrare la pluralità che rende ciascun essere umano un essere unico, diverso da ogni altro” (p. 97).
Il saggio di Simona Forti, Letture socratiche. Arendt, Foucault, Patočka, è dedicato alle interpretazioni posteriori della figura di Socrate, in particolare, all’analisi dei tratti di quella “grande tribù del socratismo novecentesco della filosofia come forma di vita” (p. 100). Questa corrente individua in Socrate una testimonianza vivente di una condotta “che si singolarizza scegliendo per quanto possibile lo spazio indeterminato della libertà” (p. 100), distaccandosi da un’etica fondata su regole universali che definiscono a priori il bene e il male, delineandosi peraltro come una soggettività immanente che si assume la responsabilità delle azioni individuali di fronte all’altro e al soggetto stesso. In particolare, l’autrice individua un’affinità concettuale tra la prospettiva socratica sul daimon e la parresia e la riflessione di Hannah Arendt, Michel Foucault e Jan Patočka, commentatori novecenteschi del filosofo greco.
Se al centro della riflessione arendtiana vi è la scoperta del due-in-uno, al cuore dell’indagine di Foucault vi è, invece, la parresia, sulla quale Arendt non si sarebbe soffermata, secondo la lettura di Forti. La parresia può dischiudere uno spazio etico nuovo in cui l’interiorità si apre all’altro e alla collettività, delineandosi come una prassi politica in antitesi con l’adulazione e la retorica tipiche delle strutture di potere, dacché assume ad oggetto la verità.
Per quanto concerne l’altra figura al centro del commento di Forti, Patočka, citato dallo stesso Foucault in un corso tenuto nel 1984, concepisce la cura di sé, dell’anima, come radice della cultura europea, nei termini di una pratica filosofica di continua riflessione e interrogazione del soggetto su se stesso, suscettibile di aprirsi alla prassi e così alla dissidenza nei confronti dei meccanismi di potere.
In ultima analisi, ciò che unisce i tre volti novecenteschi nel loro confronto con Socrate è “la convinzione che l’azione politica [...] deve essere la manifestazione visibile di un’etica [...] l’effetto collaterale di un ethos, di una postura e di una condotta che si radicano saldamente nelle pieghe del ‘modo di vita’ del singolo” (p. 117). Ritornare a Socrate costituisce, dunque, un richiamo alla possibilità del soggetto di opporre resistenza alla forza delle circostanze, “è il nome della possibilità, del potere di ciascuno di resistere a un altro potere” (p. 123).
* Fonte: Discipline Filosofiche.
Kant e quell’irrinunciabile fatica del pensare
di TERESA SIMEONE
Un bel libro di Carlo Sini e Telmo Pievani, pubblicato qualche mese fa, E avvertirono il cielo, riprende un’espressione di Gianbattista Vico con cui si fa riferimento al nascere della cultura. Cultura, ovviamente, è il segno che lascia l’intelligenza umana ogni volta che, davanti a un problema, si sforza per trovarvi una soluzione. Il che non è contrario alla natura, ma obbedisce alle prerogative della natura stessa, quella umana. -Non si tratta cioè di espungere la cultura dalla natura o viceversa, ma di individuare un ponte, come ha scritto Cavalli-Sforza, tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale. La questione, dunque, non è stabilire un primato tra ciò che è naturale e ciò che è culturale perché non possiamo fare a meno di comportarci come esseri dotati di ragione e dunque di una forza che cerchi di regolamentare le pulsioni istintuali, tenendo a bada la dimensione strettamente biologica, quanto piuttosto cercare le connessioni tra le due sfere.
Kant ha colto molto bene la bidimensionalità dell’essere umano nella necessaria tensione tra sensibilità e ragione che si svolge in campo pratico: noi siamo sempre in lotta tra due forze che vorrebbero prevalere l’una sull’altra e che dobbiamo equilibrare. In questo sta la nostra essenza di esseri liberi e morali. Se fossimo soltanto istinto non avremmo alcun merito o demerito nel comportarci in un certo modo perché non ci sarebbe libertà: un animale è determinato ad agire dalla sua natura e, come tale, non può essere giudicato secondo categorie morali. Non c’è un leone cattivo da un lato e una cerbiatta buona dall’altro, né un agnello tenero e un lupo crudele: i loro comportamenti sono insindacabili perché fuori dagli schemi concettuali e morali introdotti dall’essere umano. Allo stesso modo, se fossimo mossi soltanto dalla ragione, una ragione assolutizzata e sublimata, non saremmo meritevoli per le azioni corrette, dal momento che in noi agirebbe sempre tale pienezza di giudizio che non ci farebbe commettere errori. Saremmo nella “santità”. Non fallibili né condannabili e dunque non responsabili. Eticamente non connotati.
Nonostante sia guidato, ma non determinato dalla ragione, l’essere umano non segue, perciò, un piano razionale predefinito: essa procede per tentativi e, proprio per questo, suo compito è sviluppare le disposizioni naturali, pur nella consapevolezza che l’uomo, il cui tempo è insufficiente, non riuscirà mai a completarle in vita. Se la natura gli ha dato la ragione, scrive Kant, è perché ha voluto che fosse più destinato alla stima razionale di sé che al benessere, più a rendersi degno della felicità che a conseguire la felicità stessa.
In tal senso la morale non è la dottrina che ci insegna come dobbiamo farci felici, ma come dobbiamo diventare degni della felicità. L’uomo si agita nel mondo, lotta nella storia, mosso da ambizione, vanità, orgoglio non per conseguire felicità, ma per esprimere i propri talenti e rivendicare diritti. La terra, anche secondo Kant, non è, dunque, un’arcadia pacificata, ideale, metastorica ma uno spazio di contrasti e affermazioni di sé, come vuole e spinge la naturale, problematica e critica razionalità dell’uomo. E la moralità, infatti, altro non è che una costrizione che sentiamo operante dentro di noi. È una legge: universale, assoluta, incondizionata.
Eppure, anche se per Kant è incondizionata, agisce sempre all’interno di un essere umano finito e dunque influenzato dalla sua condizione. Ecco perché la ragione è sempre in lotta con la parte sensibile dell’uomo che le oppone una resistenza e fa sì che tale legge morale assuma la forma del “dovere”. Nello sforzo con cui l’uomo riesce a de-condizionarsi rispetto alla propria natura istintuale è la misura della sua moralità.
Sappiamo bene che quella di Kant è un’etica prescrittiva, non descrittiva: non riguarda l’uomo qual è, ma l’uomo quale dovrebbe essere, non come si comporta ma come dovrebbe comportarsi. Eppure questa necessità non nega la libertà, anzi la potenzia: nella tensione tra ragione e sensibilità c’è la consapevolezza che si debbano vincere le proprie inclinazioni naturali ma che vi si possa anche cedere così come possano essere violate le disposizioni che impone la ragione. Che, non dimentichiamolo, implica sempre l’assunzione di un rischio.
D’altronde Kant non sottovaluta i limiti della condizione umana, opponendosi al fanatismo morale di chi crede che sia possibile la perfezione etica. La santità, come realizzazione compiuta della virtù, non è di questo mondo. La virtù è “intenzione morale in lotta” e non adesione naturale spontanea.
Come hanno giustamente sottolineato a proposito della filosofia kantiana Abbagnano e Chiodi, la moralità non è la razionalità necessaria di un essere pensante infinito, ma la razionalità possibile di un essere che può decidere di assumere o non assumere la ragione come guida della condotta. A più riprese il filosofo salernitano ha ricordato che "se l’Illuminismo aveva portato dinanzi al tribunale della ragione l’intero mondo dell’uomo, Kant si propone di portare dinanzi al tribunale della ragione la ragione stessa, per chiarirne in modo esauriente strutture e possibilità"[1]. In questo senso, nella Critica della Ragione pura “la critica è “della” (der) ragione sia nel senso che la ragione è ciò che viene resa argomento di critica, sia nel senso che essa è ciò che mette in atto la critica”[2].
Ugualmente conclude Pietro Chiodi quando sottolinea che l’intento di Kant è proprio quello di "reperire nel limite della validità la validità del limite"[3]. Niente a che vedere con la ragione infinita di un Cartesio, giusto per intenderci, ma anche andando oltre gli stessi intenti dei philosophes.
Questo amor hominis intellectualis che impronta l’opera kantiana, l’impossibilità di “togliersi di dosso la qualità di uomo”, è il riconoscimento della grandezza/piccolezza dell’essere umano il cui pensiero è finito, certamente, ma, pascalianamente, consapevole di esserlo. La sua dignità è un dato incontrovertibile: affonda nella coerenza interiore, presupposto essenziale di ogni comportamento virtuoso, di ogni azione, cioè, la cui forza non sia nella conformità alla legge esterna, alle convenzioni, ai precetti religiosi, ma unicamente alla norma il cui fondamento è nella ragione. Si può, pertanto, essere d’accordo o dissentire riguardo al suo ferreo, quasi glaciale, rigorismo ma le pagine che ha scritto nella Fondazione della metafisica dei costumi, nella Critica della ragion pratica e negli altri scritti morali sul senso alto della dignità difficilmente hanno un riscontro altrettanto chiaro in altre opere filosofiche.
Innumerevoli sono gli esempi di agire morale che porta in esse. Anche da un punto di vista pragmatico, le formule dell’imperativo categorico, proprio perché formali e non condizionate da alcun contenuto, possono costituire una guida valida in ogni tempo e sganciata da situazioni storiche precise. Così quando scrive “Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale“[4], non ci dice cosa dobbiamo fare nello specifico ma, proprio per questo, ci dà un riferimento valido per qualsiasi nostra azione.
Antonio Cassese dedica al filosofo di Kӧnigsberg passi importanti: nel suo I diritti umani oggi scrive che tra i tanti pensatori, leader religiosi e politologi, chi ha colto meglio il concetto di dignità umana è stato proprio Immanuel Kant che nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785) osserva come “Nel regno dei fini, tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito con qualcosa d’altro a titolo equivalente; al contrario, ciò che è superiore a quel prezzo e che non ammette equivalenze, è ciò che ha una dignità.[...] L’umanità è essa stessa una dignità: l’uomo non può essere trattato dall’uomo (da un altro uomo o da se stesso) come un semplice mezzo, ma deve essere trattato sempre anche come un fine”.
L’uomo come homo phaenomenon, elemento del mondo sensibile, è mediocre, modesto, un essere naturale come tutti gli altri, ma come homo noumenon, membro del mondo intellegibile, non può essere considerato come un mezzo per i fini altrui o anche per i propri fini.
A tale proposito, Cassese riporta un episodio che fa capire quanto il discorso di Kant non rimanga su un piano puramente astratto, ma possa essere applicato alla vita reale ben più diffusamente di quanto si possa credere.
Nel 1991, in Francia, nella cittadina di Morsang-sur-Orge, il titolare di una discoteca decise di inserire tra le sue attrazioni il “lancio del nano”, con cui permetteva ai clienti di “giocare” e di vincere a chi l’avesse lanciato più lontano. Il sindaco vietò l’attrazione ma i proprietari si rivolsero al tribunale amministrativo di Versailles che diede ragione alla società. Il primo cittadino impugnò la sentenza davanti al Consiglio di Stato che a sua volta l’annullò in nome di quella che può essere definita la nozione di “dignità umana”. Rifacendosi alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, oltre che alla giurisprudenza francese, il supremo organo di giustizia osservò che utilizzare “come proiettile una persona affetta da un handicap fisico, e presentata come tale [...], lede la dignità della persona umana”. È vero, si riconobbe, che il nano aveva scelto liberamente di sottoporsi al lancio e che invocava il principio del “diritto al lavoro” e la “libertà dell’impresa e del commercio” ma si ritenne, altresì, che il rispetto della persona umana dovesse prevalere sia sulla volontà del nano sia sui diritti di libertà da lui accampati.
Kant avrebbe risposto che il nano non poteva accettare di ridurre se stesso a mezzo di divertimento di altri perché doveva considerarsi un fine in sé. [5] Nessuno, cioè, può rinunciare volontariamente alla propria dignità e fare della propria umanità merce di profitto.
Non è tanto lontano dai mille casi della vita l’etica rigorosa di Kant: lo vediamo anche in questi giorni quando il concetto di libertà è da alcuni assolutizzato e contrapposto a quello della sicurezza che lo limiterebbe e quando ci si chiede cosa significhi moralità in un sistema democratico, se scegliere di proteggere chi si sente vulnerabile o rivendicare fino in fondo le proprie libertà individuali.
Kant non è comodo, anzi è scomodissimo nell’impedire che ci costruiamo alibi per i nostri comportamenti o le nostre ipocrisie, quando riteniamo di tacitare la coscienza elargendo un obolo a chi mendica o sostituendo il rispetto, doveroso per ogni essere umano, anche il più riprovevole, con la pietà autoassolutoria.
Scomodissimo quando sostiene che non è la religione a fondare la morale, ma la morale, tutt’al più, la religione e che barattare una buona azione con l’ingresso in Paradiso non ha nulla di etico o quando bolla come immorale un’azione fatta nella fredda applicazione di una legge positiva e non come adesione al principio etico che dovrebbe informarla, quando stigmatizza la necessità di sanzioni là dove l’azione dovrebbe essere libera da imposizioni esterne, quando ci richiama a un’autonomia morale che un obbligo, quale quello di un controllo eteronomo, renderebbe condizionata.
È scomodo quando biasima il nostro bisogno di tutori, pur maggiorenni di età; quando ci ammonisce dall’affidare ad altri la salvezza della nostra anima o la cura della nostra mente; quando smaschera la speranza in qualcuno che ci guidi come attitudine a seguire piuttosto che ad assumerci l’onere della scelta. “Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me - scrive nel saggio Che cos’è l’illuminismo? - un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene, ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero per me. Purché io sia in grado di pagare, non ho bisogno dì pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione”.
Ci schermiamo tutti gridando che vogliamo essere “il capitano della nostra nave” salvo poi, alla prima occasione, quando guidare significa assumersi responsabilità, applaudire all’homme fatal, affidarci al capo-padre-signore, quello che ci protegge dagli sbagli e decide per noi dove dobbiamo andare.
Non è il caso di scomodare filosofi che hanno individuato nella scelta la fonte dell’angoscia e vissuto la libertà come condanna per capire quanto ansiogena sia la condizione dell’uomo che ha fatto del “Sapere aude!” la massima della propria condotta. Eppure è in quell’atto di coraggio, che apre a nuove possibilità, che diventa Sprung, cioè salto verso il futuro[6], la fonte della nostra dignità. È lì, nell’autonomia intellettuale e morale con cui la volontà si conforma alla razionalità, affrancandosi dall’eteronomia di un condizionamento.
La morale kantiana non è esente da critiche: molti sostengono che alla sua etica del dovere, per cui un’azione è buona in sé, indipendentemente dalle conseguenze, si dovrebbe preferire un’etica utilitaristica come quella di Bentham, ad esempio, ben più adatta a una realtà in cui si deve pur agire in vista di un principio di convenienza comune, sulla base, cioè, di un calcolo dei vantaggi e degli svantaggi e della ricerca della “massima felicità per il maggior numero di persone”. In tale dibattito più attuale potrebbe essere il ricorso a Weber e alla sua distinzione tra “etica della convinzione” e “etica della responsabilità”. Col riferimento alla prima, come sappiamo, Weber valuta l’agire in base alle intenzioni che ne sono a monte, ai convincimenti interiori, senza badare ai mezzi e alle conseguenze legati alla loro realizzazione; per quanto riguarda la seconda, invece, l’agire si giudica in base alle conseguenze esteriori che produce e ai mezzi utilizzati. Per il carattere “realistico”, quest’ultimo risulta una specie di equivalente etico dell’agire razionale rispetto allo scopo e quindi, in qualche modo, più consono all’agire politico anche se, quando scrive “Pertanto l’etica della convinzione e quella della responsabilità non sono assolutamente antitetiche, ma si completano a vicenda, e solo formano il vero uomo, quello che può avere la ‘vocazione alla politica’”, egli finisca per ammettere non una separazione ma una possibile integrazione tra le due forme.
Nell’essere umano agiscono tante forze: Hume, uno dei riferimenti culturali di Kant, parla di simpatia, il sentimento morale “comune a tutta l’umanità”, che si basa sulla percezione dell’utilità o dannosità di un’azione per i suoi simili per cui si può scegliere un’azione buona anche se non vantaggiosa per noi. Kant, in realtà, non sottovaluta che ci siano altri agenti alla base dei comportamenti umani ma nega che possano costituire una legge morale la quale, per essere tale, deve avere il carattere dell’universalità. Questa condizione è assolta dalla ragione che è presente in tutti gli uomini e che prescrive in maniera rigorosa di rinunciare a ogni piacere o vantaggio individuale. “La dignità del dovere non ha a che fare col godimento della vita; il dovere ha la sua legge speciale, ed anche il suo speciale tribunale”[7].
Per Kant ciò che è giusto è un bene perché è giusto, non giusto perché è un bene. Esclude, pertanto, una serie di giustificazioni che vorremmo addurre per i nostri comportamenti individuali: “Egli giudica dunque di potere fare qualche cosa, perché è conscio di doverlo fare, e conosce in sé la libertà che, altrimenti, senza la legge morale, gli sarebbe rimasta incognita”[8].
D’altronde, “Soddisfare il comando categorico della moralità è sempre in potere di ognuno”[9]. È per questo che il Devi! si accompagna al Puoi: “Devi, quindi puoi!” È nel comando che scopro la possibilità di non obbedirgli e quindi la mia libertà.
Solo l’uomo, d’altronde, si rappresenta il dovere di agire per il dovere; solo l’uomo è soggetto a pressioni psicologiche che possono assoggettare la sua volontà e solo l’uomo può pensarsi come tenuto a vincerle. Solo l’uomo, cioè, è capace di pensare come un dovere assoluto il dovere di essere libero.[10]
E allora ciò che farà, come agirà non sarà condizionato da un luogo, da una situazione, da un’occasione ma dall’imperativo che sentirà in sé e al quale, non per interessi, sentimenti o vantaggi particolari, risponderà. Quante volte, dopo un’azione scorretta, abbiamo cercato di autoassolverci, trovare degli alibi al senso di colpa, vincere quel fastidio, pungente, sotterraneo, insuperabile. È lì, in quel disagio, che è rappresentato quello che siamo, la nostra moralità e la nostra libertà: se avvertiamo quella sensazione d’inadeguatezza è perché sentiamo che nel fondo della nostra coscienza avremmo potuto comportarci diversamente, scopriamo che eravamo, che siamo liberi.
La persona che cercasse di rispondere a quel comando, che volesse obbedire alla legge morale vivrebbe le mille difficoltà di un’esistenza sempre in bilico tra scacco e sacrificio, difficilmente felice. Ma, d’altronde, non è la felicità il fine della vita umana, di chi non può fare a meno di essere com’è, di chi tra la comodità della superficialità e la fatica dell’approfondimento, sceglie di essere, lo aveva già annunciato un illustre efesino, tra gli svegli. Di chi sceglie di resistere, in nome di una tensione ideale, di una pulsione di verità sempre più difficile da sostanziare in un’epoca di cedimento come quella che stiamo vivendo.
Eppure c’è ancora chi resiste e cerca di non dimenticare che dopo di lui c’è una generazione che si troverà in eredità un mondo in cui dovrà poter continuare a vivere e a credere. In questo senso l’esempio di vita proprio di uno studioso di Kant, Pietro Chiodi, combattente e difensore della libertà, risalta limpido: egli stesso racconta, nella sua opera-diario Banditi, di come scelse di diventare partigiano dopo aver attraversato una strada piena di sangue, aver visto un carro con quattro cadaveri vicino al Mussotto e aver ascoltato un cantoniere che diceva: “È meglio morire che sopportare questo”. Di come non avrebbe potuto continuare ad accettare qualcosa che non l’avrebbe reso più degno di vivere. Perché c’è qualcosa in ognuno di noi che ci aiuta a non smarrire la strada e, anche se a fatica, a vigilare sulla nostra come sull’umanità di tutti gli esseri pensanti.
NOTE
[1] Abbagnano-Fornero, La ricerca del pensiero, Paravia, 2B, pag. 164.
[2] Abbagnano-Fornero, La ricerca del pensiero, Paravia, 2B, pag. 173.
[3] Kant, Scritti morali, a cura di P. Chiodi, UTET, Torino, 1970, pag. 13.
[4] Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, 2012, pag. 65.
[5] Antonio Cassese, I diritti umani oggi, Laterza, 2005, pp. 54-58.
[6] L’espressione è di Fenoglio: Il partigiano Johnny, Einaudi, 2014, pag. 22.
[7] Kant, Critica della ragion pratica, pp. 193-195.
[8] Kant, Critica della ragion pratica, pag. 65.
[9] Kant, Critica della ragion pratica, pag. 81.
[10] I. Kant, Fondazione di una metafisica dei costumi, a cura di Vittorio Mathieu, Rusconi, pag. 23.
* Fonte: MicroMega, 23 ottobre 2020.
STORIA E STORIOGRAFIA...
Storicizzare Freud
di Aurelio Musi (L’identità di Clio - 29 Febbraio 2016)
La traduzione italiana del bel libro di Elisabeth Roudinesco, Sigmund Freud nel suo tempo e nel nostro (Einaudi 2015) e la pubblicazione, nello stesso anno, del mio Freud e la storia (Rubbettino 2015) rappresentano una stimolante novità per gli studiosi e per la considerazione del rapporto tra storia e altre scienze. La parola d’ordine è: storicizzare Freud. Naturalmente i suoi significati possono essere diversi.
Per la Roudinesco si tratta di proporre un modello di biografia storica con due obiettivi fondamentali. Il primo consiste nel dimostrare come l’invenzione freudiana abbia cambiato il modo stesso di scrivere la Storia. Il secondo obiettivo, meglio riuscito rispetto al primo, è la collocazione della scrittura di Freud nella storia del suo tempo. Il che significa per la Roudinesco ricostruire la rete e il contesto nei quali ha operato il fondatore della psicoanalisi, discepoli e dissidenti, i pazienti, la fortuna internazionale.
Io ho voluto compiere un’operazione differente: ricostruire e approfondire l’idea di storia che aveva Freud e dimostrare come tutto il suo itinerario, dalla formazione alle opere della maturità , vada nella direzione di un elogio della storicità. Da tale punto di vista il padre della psicoanalisi si colloca nello spirito del suo tempo e ha ancora molto da dire alla nostra epoca. Nello spirito del suo tempo è la Bildung degli anni di formazione: la cultura classica, l’ebraismo, la vicinanza ai padri del metodo storico, Droysen e Ranke in particolare, l’attrazione per grandi personaggi storici come Alessandro, Cromwell e Napoleone.
Freud ha ancora molto da dire a noi soprattutto perchè supera radicalmente la dicotomia tra le due culture, quella umanistica e quella tecnico-scientifica e si proietta verso la prospettiva unitaria delle scienze della vita. Egli può essere così visto in una luce nuova e suggerire un programma di straordinaria attualità: fare entrare la vita nella storia e la storia nella vita.
*
NOTA:
STORICIZZARE FREUD? MISSIONE IMPOSSIBILE ...
VITA E FILOSOFIA. Se è vero, come è vero, che "Freud ha ancora molto da dire a noi soprattutto perchè supera radicalmente la dicotomia tra le due culture, quella umanistica e quella tecnico-scientifica e si proietta verso la prospettiva unitaria delle scienze della vita" (A. Musi, "Storicizzare Freud", L’identità di Clio, 29.02.2016), è altrettanto vero, a mio parere, che il progetto di "storicizzare Freud" è una missione impossibile, semplicemente perché egli ha conquistato un "luogo" storico, che è un luogo "meta-storico", che coincide con la messa in questione della stessa "coscienza" di chi fa "storia" e/o "storie"!
Dopo Copernico, dopo Darwin, non si può non riconoscere che è proprio Freud a stabilire che chi scrive la storia (a tutti i livelli) non è più padrone o padrona in casa sua. Vale a dire, diversamente, come sosteneva il maestro dello stesso Musi, Giuseppe Galasso (rievocando la lezione di Nietzsche): "non è la storia maestra di vita, ma la vita maestra di storia". O no?
Dopo i cosiddetti "maestri del sospetto" (Marx, Nietzsche, e lo stesso Freud), per evitare ricadute in fondamentalismi storiografici e nella fatale "dialettica dell’illuminismo", mi sia lecito, si cfr. un mio breve lavoro del 2010: "Kant, Freud, e la banalità del male. Note per una rilettura".
Federico La Sala
L’anima e la cetra /29.
Con lo stesso nome di Dio
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 17 ottobre 2020)
In alcune regioni italiane, e tra queste la mia, in certi dialoghi intimi le madri e i padri chiamano il figlio e la figlia con il loro stesso nome. Gli dicono: "Dai, mamma, fai il buono", "Ma quanto sei brava, babbo". Lo dicono ai bambini, ma a volte continuano a chiamarli così anche da adulti. Non è scritto in nessun libro di grammatica, non lo si impara a scuola. Lo ripetiamo perché lo abbiamo sentito dai nostri genitori, in giorni meravigliosi. Sono parole diverse assimilate per osmosi, e poi trasmesse da una generazione a un’altra, parte di quella trasmissione dell’essenziale della vita. Sono tra le parole più belle nei dialoghi del cuore, in quei tu-a-tu delicati e segreti, che contengono tutta la tipica e unica tenerezza che scorre tra genitori e figli, che nutre gli uni e gli altri, sempre, ma soprattutto nei momenti delle grandi gioie e dei grandi dolori.
La Bibbia ci dice che il primo che ci ha chiamato con il suo stesso nome è stato ed è Dio, quando ci ha creato "a sua immagine e somiglianza". Dicendoci disse se stesso, e ripete il nostro nome in ogni attimo. Perché se da una parte il Dio biblico è la divinità più trascendente e diversa di tutte, dall’altra non c’è nulla sulla Terra che gli assomigli più di un essere umano, non c’è cuore più simile al suo del nostro, non c’è nome che più del nostro abbia lo stesso suono del suo. La Bibbia ebraica ci ha tolto l’immagine di Dio, ma ci ha donato una meravigliosa immagine di uomo e di donna: nascondendoci il volto di Dio ha esaltato il nostro volto. E allora ogni volta che si ama e si rispetta il nome di un uomo o di una donna si sta amando e rispettando anche il nome di Dio; e, per la legge di reciprocità, ogni volta che un uomo prega e loda il nome di Dio sta pregando e lodando l’umanità intera, ogni uomo e ogni donna.
Nasce qui lo sguardo positivo che la Bibbia, con tenacia e resilienza, ha sugli uomini e sulle donne. Ne vede i limiti, i peccati, gli omicidi e i fratricidi, ma prima e soprattutto ne vede l’immagine di Dio riflessa, non è capace di uscire dall’Eden. Vede i molti gesti degli uomini, ma prima continua a vederlo nel suo dialogo con Elohim sul finire del giorno. Come le madri e i padri, che anche quando la vita porta i loro figli a fare cose brutte e pessime, per salvarsi e salvarli continuano a sognarli bambini puri e bellissimi, a chiamarli fino alla fine "babbo" e "mamma", anche dentro le carceri. Tra la fede, la speranza e l’agape c’è lo stesso tipo di rapporto che lega le tre Persone divine: in ognuna ci sono le altre due, ciascuna è rivolta contemporaneamente verso le altre, è impossibile separarle senza distruggerle tutte. E così nei Salmi, pur popolati da sentimenti di tristezza, di delusione e di dolore, più forte e più grande è lo sguardo di speranza-fede-amore che domina l’intero Salterio, che lo rende forse il libro più bello di tutti, perché il libro più capace di parlarci di paradiso dagli inferi, di speranza dentro la disperazione, di bellezza in mezzo alla bruttezza.
La forza dei Salmi sta nella loro verità. Un inferno vero è preferibile a un paradiso finto, perché finché chiamiamo l’inferno col suo vero nome possiamo sempre desiderare un paradiso, che invece non desideriamo più se pensiamo di averlo già raggiunto: «Alleluia. È bello cantare inni al nostro Dio, è dolce innalzare la lode. Il Signore ricostruisce Gerusalemme, raduna i dispersi d’Israele; risana i cuori affranti e fascia le loro ferite... Intonate al Signore un canto di grazie, sulla cetra cantate inni al nostro Dio» (Salmo 147,1-7). È bello cantare inni al Signore. È bello e buono lodare YHWH, è bello e buono per Dio ma è bello e buono anche per noi. Il salmo inizia con una lode della lode. È il momento di auto-coscienza dell’orante, che arriva (se arriva) quando ci rendiamo conto che il primo premio della lode è prendere coscienza della sua bellezza e del suo dono intrinseco. Quando scopriamo che noi preghiamo per lodare Dio, ma mentre cantiamo sentiamo che è Dio che sta lodando e cantando noi. Noi diciamo il suo nome e un giorno sentiamo che in realtà è Dio che sta dicendo il nostro, e che nel nostro nome dice il nome di tutti, il nome di ogni creatura, il nome delle stelle e dell’universo intero. Ed è meraviglia. E mentre cerchiamo le parole e le note più belle e alte per lodare Dio stiamo anche imparando le note e le parole più belle per lodarci gli uni gli altri. Forse non c’è stata una parola splendida pensata per dar lode a Dio che qualche poeta non abbia usata anche per una persona amata, e forse non c’è poesia d’amore che qualcuno, in un altro giorno, magari senza saperlo, ha usato per cantare Dio. Anche tutto questo è immagine e reciprocità. Benedicendo gli umani abbiamo imparato a benedire Dio, e benedicendo Dio stiamo già benedicendo uomini e donne, anche se non lo sappiamo.
L’essere immagine del Creatore rende immediatamente la nostra lode a Dio una lode cosmica: «Egli conta il numero delle stelle e chiama ciascuna per nome... Egli copre il cielo di nubi, prepara la pioggia per la terra, fa germogliare l’erba sui monti, provvede il cibo al bestiame, ai piccoli del corvo che gridano» (147,4;8-9). Essere immagine di Elohim ci rende più grandi della sola immagine umana. Sentiamo fin da piccoli una profonda fraternità cosmica - solo i bambini sanno sentire veramente fratelli e sorelle i gatti e gli uccellini, i fiori e le foglie -, dovremmo riuscire a non perderla invecchiando e se la vita funziona questa grande fraternità cresce con noi, e si conclude con il canto per sorella morte.
La fraternità inter-umana non ci basta, è troppo piccola sebbene già immensa. Perché la fraternità e sororità umana siano autentico umanesimo, dobbiamo imparare a sentire sorelle anche le stelle, il sole, gli uccellini, la natura intera - ci sono pochi canti (se ce ne sono) più biblici del Cantico di Francesco. Molto bello e delicato è qui il riferimento ai «piccoli del corvo che gridano». In questo verso ci sono i corvi che nutrivano Elia nella sua fuga (1 Re 17,6), ma ci sono anche gli uccellini del nido guardati dalla Legge di Mosè, che comanda di non catturare la madre-uccello che cova le sue uova o custodisce i suoi piccoli, di lasciarla volare via, «perché tu sia felice e goda lunga vita» (Dt 22,7). Una Legge di YHWH che scruta anche dentro un nido di uccelli, e poi pone una equivalenza che a noi può apparire ardita e stupenda. La promessa riservata a chi lascia volar via la madre senza catturarla è la stessa promessa del Quarto comandamento, Onora tuo padre e tua madre: «Perché si prolunghino i tuoi giorni e tu sia felice» (Dt 5,16).
Nella Bibbia tutto è creazione: tutto è figlio. Dio guarda così il mondo, è così che ci guarda, e noi, sua immagine, impariamo a guardare il mondo nello stesso modo, anche se ancora tutta la creazione "geme ed è in travaglio", perché "attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio" (Rm 8,19-23). Tutta la creazione geme e attende di essere guardata finalmente così. Mai come in questi anni di crisi ambientale e di distruzione del pianeta siamo nelle condizioni di poter capire i Salmi e quel misterioso passaggio di Paolo ai Romani: la terra soffre e attende che gli uomini finalmente si rivelino per quello che sono, che si comportino con essa da figli, e immagine, di Dio creatore e padre.
Il Salmo 147 si distingue poi anche per il suo essere un canto civile. Non ci sono né sacerdoti né re, non è menzionato Davide né si allude al tempio. Sono i cittadini a elevare il loro canto, coloro che conoscono i tempi e i ritmi delle stagioni e del lavoro, il valore della pace e del pane quotidiano. Un salmo molto amato da sempre dai contadini: «Dio ha messo la pace sulle tue frontiere, e ti sazia con fior di farina... Invia la neve come lana e sparge come cenere la brina, i suoi ghiacci formano blocchi: chi potrà reggere tanto gelo? Invia un ordine: ecco il disgelo, soffia il suo alito e scorrono le acque» (139,14-18). Tutta la terra è avvolta da uno sguardo buono, tutto è retto da provvidenza.
Dopo averci donato fin qui parole bellissime su Dio e su di noi, il Salmo termina lodando direttamente la parola, e l’Alleanza e la Legge che ne sono il culmine (147,19-20). La parola è vista come un messaggio inviato per noi, una intelligenza che ci fa scoprire l’ordine e il senso della creazione: «Manda sulla terra il suo messaggio: la sua parola corre veloce» (147,15). La parola è anche logos, è ragionamento e ordine. Israele ha stimato la parola in una misura altissima e per noi oggi incomprensibile. Ne ha fatto esperienza straordinaria con i Patriarchi, con Mosè e i profeti - "... e c’era soltanto una voce". Dovendo rinunciare all’immagine di Dio ha maturato una immensa competenza sulla parola, ha dovuto imparare a disegnare Dio con le parole, ha scoperto le mille dimensioni nascoste dentro la parola biblica e nelle parole umane. Una grande povertà produsse una ricchezza infinita. Forse non avremo la straordinaria tradizione letteraria occidentale senza questa parola biblica privata delle immagini, che la costrinse a diventare immagine senza diventare idolatria.
Quando Giovanni scrisse il Prologo del suo Vangelo, uno dei brani più geniali della storia, aveva in mente molte cose, ma certamente pensava alle parole dei Salmi, a quel logos capace di benedire l’uomo mentre benediceva e lodava Dio. Nel dirci che quel logos si era fatto carne, che era diventato uomo come noi, ci ha detto molte cose e tutte stupende, e ci ha chiamato ancora con lo stesso nome di Dio. E continua a chiamarci così ogni giorno.
PLATONE, KANT, E I SOGNI DI UN VISIONARIO....
Il Bene e il conveniente sono ciò che lega e tiene insieme l’universo. Platone (Tweet Filosofici)
Ma perché questa #idea, questa #novella (il "#Bene...tiene insieme l’#universo") possa essere e intendersi come una novella-buona, è necessario #verificare se non è una #FakeNews: se no, la #buona-novella (εὐ-αγγέλιον) può #velare il contrario, che #Tutto "Va-(i)n-gelo"! O no?! (Federico La Sala)
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Matematica e virtù civili: una recensione di “La matematica è politica” di Chiara Valerio
di Marco Verani (MaddMaths! Matematica Divulgazione, Didattica - 12 Settembre 2020)
“La matematica è politica” di Chiara Valerio ci parla di virtù civili, così importanti e così dimenticate, e del ruolo che la Matematica ha nel forgiarle.
Diverse sono le virtù civili che affiorano, come fari, tra le pagine di Chiara Valerio.
Amore per la verità. Verità che deve essere conosciuta, ricercata, detta anche quando e’ scomoda. Mai imposta, mai subita.
Perseveranza. La matematica è palestra per allenare la perseveranza, per coltivare l’attenzione.
Bello ricordare e affiancare a questo punto le parole indimenticabili sull’attenzione di Simone Weil e Cristina Campo.
Umiltà. Fare matematica è ripartire dai propri errori, spesso riconoscere la propria incapacità, confrontarsi con il limite, il non-possibile. Smantellare l’idea del tutto è possibile sempre, subito.
Cura del bene comune. Tra i beni comuni più preziosi che abbiamo vi è la democrazia. Fare matematica è difesa ed esercizio di democrazia.
Chiara Valerio usa una bella espressione: ci dice che la matematica è una “disciplina di manutenzione”, manutenzione della democrazia, del con-vivere nel rispetto e nella solidarietà. Bellissima parola “manutenzione” che richiama il gesto paziente, lento e accudente delle mani. Sì, e’ vero: la matematica è politica.
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Il caso Wilson
di Giancarlo Alfano *
Nel 1930, durante un periodo di degenza a Berlino, Freud riceve la visita di un ambasciatore e uomo politico americano, William C. Bullit, che gli rivela di avere in animo di scrivere un libro sui protagonisti degli accordi di Versailles, con cui si risolse la Prima guerra mondiale (nel contempo, in verità, gettando le basi per la Seconda). Tra questi c’era il Presidente degli Stati Uniti, Thomas Woodrow Wilson, universalmente noto per essere stato colui che concepì e sostenne - al punto da perdere di vista l’effettivo equilibrio politico complessivo che gli accordi avrebbero dovuto garantire - il progetto della Società delle Nazioni.
A questa notizia Freud si riprese improvvisamente dall’abbattimento che lo affliggeva in quei giorni (temeva infatti di avere solo poco tempo da vivere) e propose all’amico americano di scrivere insieme a lui un libro dedicato al Presidente. Quasi dieci anni dopo - una pausa dovuta forse a un disaccordo dovuto alle rispettive posizioni religiose - il padre della psicoanalisi avrebbe sottoscritto la versione definitiva dello scritto, pubblicato poi soltanto dopo la morte della seconda moglie di Wilson.
Quel libro, Il caso Wilson, appare adesso in Italia per le cure di Davide Tarizzo, che non esita a definirlo «una gemma»: sia «della letteratura psicoanalitica», sia «della storiografia novecentesca». -Personalmente non saprei dire se la seconda affermazione è del tutto condivisibile ma certo si tratta di un libro molto interessante, che sollecita nel lettore una serie di riflessioni sull’incidenza culturale e politica della psicoanalisi.
Come spiega il curatore nella sua elegante introduzione, il libro a doppia firma è stato infatti a lungo oggetto di imbarazzo, se non proprio di un’esplicita avversione: per la pochezza dei risultati o per lo stesso atteggiamento di Freud (apertamente ostile a Wilson). Tarizzo preferisce parlare a questo proposito di una «resistenza» dei lettori, che individua nell’incertezza con cui si è portato avanti il compito, indicato più volte dallo stesso Freud (soprattutto nella seconda parte della sua produzione), di applicare la psicoanalisi alle questioni più generali della vita umana.
L’idea del curatore è chiarita sin dall’epigrafe, tratta dal grande libro di Keynes sulle Conseguenze economiche della pace (1919), in cui l’economista osserva che il rapporto del Presidente con l’elaborazione del Trattato di Pace «tocca[va] sul vivo un complesso freudiano». Ed è proprio per la dimensione politica che è oggi importante leggere questo libro: così strano per chi conosce la scrittura freudiana, così analitico, a volte pedissequo, a tratti pedante. In esso infatti, al di là delle intenzioni del suo collaboratore, Sigmund Freud volle proseguire la riflessione avviata nel 1921 con Psicologia della masse e analisi dell’io, passando a un caso concreto - e anzi della massima rilevanza - di leadership contemporeanea.
Un caso che non assomigliava per niente all’immagine del padre primordiale disegnata nell’oramai lontano Totem e tabù (1912-13), e che anzi si segnalava per un’evidente debolezza di carattere del protagonista, pur mostrando - e con grande evidenza - che bastano pochi elementi per influenzare e trascinare le masse: pochi elementi che possono anche essere l’espressione stessa di quella debolezza.
È il frutto più impressionante dello studio freudiano, privo di ogni empatia per il personaggio di cui si occupa, in cui riconosce - nelle parole del curatore - «il mago indiscutibile dell’autoinganno». Gli ultimi capitoli del libro, almeno a partire dal XXXIII, seguono «il progressivo avvicinamento di Wilson al collasso fisico e mentale», dalla firma del Trattato di Versailles, 28 giugno 1919, al crollo del 26 settembre dello stesso anno. -È il racconto spietato del conflitto, nell’inconscio del Presidente, tra «la passività e l’attività aggressiva nei confronti del padre»; il conflitto tra la spinta narcisistica a proporsi come il Dio Figlio che porta, in ossequio al mandato di Dio Padre, la Pace tra gli uomini (cosa che, peraltro, gli uomini gli riconobbero con deliranti dimostrazioni di affetto) e la deriva depressiva di chi si vede tradito e reso incapace di agire.
Il caso Wilson si presenta allora davvero come l’altra faccia della Psicologia delle masse: se nel 1921 Freud aveva individuato lo spirito gregario delle masse e il legame ipnotico con il leader, dieci anni dopo egli lavorò sui processi psicologici di un leader effettivo, mostrando in che modo quei processi producessero leadership, tenendo insieme forza e debolezza, carisma e pochezza di carattere. Quello politico, evidentemente, è una degli aspetti della ricerca di Freud che dobbiamo ancora imparare a capire.
Sigmund Freud - William C. Bullit
Il caso Wilson
a cura di Davide Tarizzo, traduzione di Sarah Manocchio
Cronopio, 2014, 286 pp.
€ 19,00
Sigmund Freud
Psicologia della masse e analisi dell’io
a cura di Davide Tarizzo, traduzione di Enrico Ganni
Einaudi, 2013, LI-86 pp.
€ 16,00
* Fonte: Alfabeta-2, 6 giugno 2014
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA, PSICOANALISI, E POLITICA
ALTRO CHE LACAN, "RITORNARE" A FREUD E AD ALESSANDRO MANZONI...
FORSE è meglio riprendere il filo del discorso dalle riflessioni “fallimentari” di Freud sul “caso clinico di Dora” o, se si vuole e meglio, della “Madonna Sistina”(cfr. S. Freud, “Frammento di un’analisi d’isteria”, 1901/1905) e, rianalizzando la ‘possessione’ di Lacan per “L’origine del mondo” di Courbet, ripartire dalle indicazioni critiche di Alessandro Manzoni sul caso della monaca di Monza e di un’antropologia zoppa e cieca - edipica, appunto - fondata sull’ordine simbolico della madre. Vogliamo o non vogliamo uscire dalla caverna?! O no?! Sapere aude!
Federico La Sala
Papa Francesco : non valido battesimo con formula ’noi battezziamo’
La Congregazione per la Dottrina della Fede interviene per fermare la ’creatività’ di alcuni sacerdoti
di Redazione ANSA *
CITTA DEL VATICANO. La Congregazione per la Dottrina della Fede interviene dunque per fermare la ’creatività’ di alcuni sacerdoti che cambiano le formule dei riti dei sacramenti pensando di migliorarle. "Recentemente vi sono state celebrazioni del Sacramento del Battesimo amministrato con le parole : ’A nome del papà e della mamma, del padrino e della madrina, dei nonni, dei familiari, degli amici, a nome della comunità noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’. A quanto sembra, la deliberata modifica della formula sacramentale - riferisce la Congregazione per la Dottrina della Fede - è stata introdotta per sottolineare il valore comunitario del Battesimo, per esprimere la partecipazione della famiglia e dei presenti e per evitare l’idea della concentrazione di un potere sacrale nel sacerdote a discapito dei genitori e della comunità".
Ma l’"io", che il sacerdote deve pronunciare ha un valore dottrinale ben preciso : "segno-presenza dell’azione stessa di Cristo". "Nel caso specifico del Sacramento del Battesimo, il ministro non solo non ha l’autorità di disporre a suo piacimento della formula sacramentale, per i motivi di natura cristologica ed ecclesiologica sopra esposti, ma non può nemmeno dichiarare di agire a nome dei genitori, dei padrini, dei familiari o degli amici, e nemmeno a nome della stessa assemblea radunata per la celebrazione", spiega la Congregazione per la Dottrina della Fede.
Ora si apre la questione dei battesimi celebrati con questo rito errato. Al quesito "Coloro per i quali è stato celebrato il Battesimo con la suddetta formula devono essere battezzati in forma assoluta ?", la risposta del Vaticano è : "affermativamente". "Negativamente" è la risposta che si dà al quesito principale : "È valido il Battesimo conferito con la formula : ’Noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’ ?".
In pratica i battesimi con la formula ’noi’ è come se non fossero mai stati fatti. Anche se comunque nel Catechismo della Chiesa Cattolica - secondo quanto spiegato da esperti in Vaticano - potrebbe trovarsi una via d’uscita per evitare il ’ripetersi’ del sacramento. Anche perché senza il Battesimo, a cascata non sono validi neanche gli altri sacramenti, dalla Cresima alla Comunione, dal Matrimonio alla Confessione. Nel Catechismo si stabilisce infatti che "Dio ha legato la salvezza al sacramento del Battesimo, tuttavia egli non è legato ai suoi sacramenti". Sempre nel Catechismo ci sono aperture per i non battezzati : "Ogni uomo che, pur ignorando il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, cerca la verità e compie la volontà di Dio come la conosce, può essere salvato". (ANSA).
Sul tema, in rete, si cfr.:
Trasmettere ciò che si è ricevuto (di Angelo Lameri) - Congregazione per la dottrina della fede,Nota dottrinale circa la modifica della formula sacramentale del Battesimo (L’Osservatore Romano, 06.08.2020).
FLS
È morta Diana Russell, la sociologa e criminologa che coniò il concetto di femminicidio*
Diana E. H. Russell, attivista, studiosa e scrittrice femminista di fama mondiale, è morta il 28 luglio a Oakland, in California. Aveva 81 anni. A lei, sociologa e criminologa, si deve l’invenzione e la diffusione del termine femminicidio, diventato di uso comune negli ultimi anni per identificare chiaramente i crimini contro le donne - una battaglia a cui Russell ha dedicato la sua vita - ma da lei coniato già a metà degli anni Settanta.
Nata il 6 novembre 1938 a Città del Capo, in Sudafrica, Russell è cresciuta in una famiglia di sei figli, con padre sudafricano e madre britannica. Dopo la laurea all’Università di Città del Capo e la specializzazione in sociologia alla London School of Economics di Londra, nel 1961 diventò ricercatrice alla Harvard university dove prima studiò la nozione di rivoluzione, in particolare ispirata dalla sua partecipazione alla lotta contro l’apartheid in Sudafrica, e poi si dedicò alle indagini sociologiche sui crimini sessuali commessi contro le donne. Dal 1970 ha insegnato sociologia delle donne al Mills College di Oakland. Russell nel 1993 ha fondato Women United Against Incest, un’associazione che sostiene le vittime dell’incesto. Ha anche ideato il primo programma televisivo in Sudafrica dove le donne vittime di abusi raccontano le loro esperienze e condotto battaglie contro la pornografia.
E’ stato nel 1976 che Russell ha definito per la prima volta "l’uccisione di femmine da parte dei maschi in quanto femmine" come "femminicidio", mettendo in luce la valenza ’politicà della parola che voleva attirare l’attenzione sulla misoginia alla base dei crimini contro le donne. II termine si affermò all’interno nella campagna per la costruzione di un Tribunale internazionale sui crimini contro le donne, che culminò con un meeting a Bruxelles per la denuncia di tutte le forme di discriminazione e oppressione subite dalle donne nel mondo. E’ del 1992 la sua antologia "Femicide: The Politics of Woman Killing".
Su Facebook e Twitter sono tanti i gruppi femministi e le singole donne a ricordare il suo impegno civile. La ricorda su Facebook anche Valeria Valente, senatrice Pd e presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio : "Diana E. H. Russell, la sociologa femminista che ha coniato la parola "femminicidio", ci ha lasciati martedì all’età di 81 anni, dopo aver dedicato la sua vita intera allo studio dei crimini contro le donne. E’ stata la prima donna a identificare un termine preciso per un fenomeno che era (ed è) così radicato nella nostra società, da essere quasi irriconoscibile. Dare un nome, ha significato riconoscerne l’esistenza. È stato il punto di partenza per iniziare a lottare. E noi, anche con la Commissione di inchiesta del Senato sul fenomeno del femminicidio e della violenza di genere, continueremo la nostra battaglia. Grazie Diana E. H. Russell. Che la terra ti sia lieve".
*la Repubblica, Le Storie, 30.072020 (ripresa parziale).
RAGION PURA E RADICI DELL’IO. Introduzione alla Critica della filosofia ...
Che strano modo “storico” di proporre e portare avanti una riflessione sulla “passione” della “critica” e “l’autocritica delle passioni” (cfr. Paolo Costa, “La passione critica è l’autocritica delle passioni”, Le parole e le cose, 21.07.2020)! Come se la “Critica della Ragion Pura”, la “Critica della Ragion Pratica”, e la “Critica del Giudizio”, non fossero state mai scritte?!
Marx scrive (nonostante i “marxisti”) un “commento” continuo sul lavoro di “critica” portato avanti da Kant (da ricordare non solo la “Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel”, ma anche i “Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica”, il “Per la critica dell’economia politica”, e “Il Capitale. Critica dell’economia politica”) e ancora oggi, dopo Freud e Foucault e Derrida, “essere giusti con Kant” è più che difficile?! Boh e bah!?
RICORDANDO IL “MISTICO” WITTGENSTEIN (“L’Io è il mistero profondo”, “e non dell’io in senso psicologico”, Quaderni 1914-1916) E LA MADRE-LINGUA CHE VERRA’...
Una nota a margine di "Letteratura e mistica" *
“[...] 3. Una sponda sicura per sostenermi in quest’operazione la trovo in una recente monografia di Massimo Stella, Madreparola (Mimesis, Milano 2017), nella quale l’autore si preoccupa di osservare le “risorgenze” della Musa fra modernismo europeo e antichità classica: scrive Stella: “[...] la Musa, come sappiamo, è illetterata; è orale, gestuale, corporea. Non sa e dunque non rispetta le regole convenzionali della lingua [...]. La sua è poesia, parole non langue [...] tantomeno conosce il gioco meticoloso della scrittura” (p. 42). Osservare le metamorfosi della Musa da un punto di vista storico-letterario significa andare al centro del problema della generazione poetica, guardandolo da una distanza prospettica insieme antica e nuovissima (e in questo, Madreparola si dà come strumento preciso e acuminato, uno di quei rari testi che, costruendo un nuovo paradigma, necessariamente obbliga il lettore a un generale ripensamento del letterario): problema dell’indagine è quindi rintracciare l’origine della letteratura come forma di memoria collettiva” (Francesca Caraceni, “Letteratura e mistica” , Nazione Indiana, 9 luglio 2020).
SOLO “UNA SPONDA SICURA”, QUELLA DELLA “PAROLE”, NON BASTA. Se la Musa “non rispetta le regole convenzionali della lingua [...] è poesia, parole non langue [...] tantomeno conosce il gioco meticoloso della scrittura”, COME PUO’ PORTARE ALLA SPONDA DELLA “LANGUE”, “al centro del problema della generazione poetica” e, al contempo, ” rintracciare l’origine della letteratura come forma di memoria collettiva”?! Non è, forse, meglio ri-tornare sugli storici passi fatti fino al corrente antropocene, ri-seguire le indicazioni dei “profeti” e delle “sibille” e, ri-evitando gli edipici scogli di Scilla e Cariddi, portarci con l’Ulisse di Dante e Joyce, nell’oceano cosmico (Keplero) di una creatività antropologica all’altezza del pianeta Terra? “Sàpere aude!” O no?!
*
COSTITUZIONE (META-REGOLE), POLITICA (REGOLE), E RICORDI DI SCUOLA SULLA CRITICA DELLA “RAGIONE PURA” (“SOFISTICA”)!. Una nota*
SE E’ VERO CHE, “Per coloro che, come chi scrive, percorrono da molti anni i corridoi delle aule giudiziarie e degli altri palazzi del potere conoscendo le dinamiche sottese alle scelte della “politica giudiziaria”, diventa particolarmente fastidioso leggere e sentir raccontare autentiche favole metropolitane su quel che potrebbe ora accadere o sarebbe mai accaduto nelle proverbiali stanze dei bottoni”, NON E’ ALTRETTANTO VERO CHE, “Salvo cataclismi naturali e a dispetto dei clamori che fomentano il popolo con cronache enfatizzanti sul futuro panorama delle collusioni tra politica e giustizia, non accadrà assolutamente nulla, se non la futura giusta punizione a carico di coloro che non hanno rispettato le regole di appartenenza alle proprie aree di influenza del potere” (Laura Vasselli, "La giustizia, la politica e le relazioni pericolose", "InLibertà", 2 luglio 2020).
AD EVITARE eccessi di pericolose semplificazioni e produzioni di “nuvolose” illusioni, per contestualizzare meglio il problema, NON SOLO rileggerei l’ottimo “riassunto” di una questione complessa come quella affrontata nell’articolo in “#iorestoacasa, Forza Italia!” (di Italo Mastrolia, “InLibertà”, 16 aprile 2020), MA rivisiterei ANCHE i luoghi della memoria degli anni di scuola e riguarderei con maggiore attenzione la grande lezione di Aristofane (cfr. “Le nuvole”) su un “Socrate” che non è mai giunto a “conoscere sé stesso” e tuttavia viene “venduto” e “contrabbandato” (pubblicità-progresso!) come un grande saggio, non solo ieri (ad Atene) ma anche oggi (nel “villaggio globale”) - dopo Marshall McLuhan?! O no?!
ANCORA NON ABBIAMO TROVATO "LA GIUSTA DISTANZA" NEMMENO CON NOI STESSI... *
ABITARE LE PAROLE / Distanza.
Vedersi l’un l’altro stagliati nel cielo
DI NUNZIO GALANTINO (Il Sole-24 Ore, Domenica, 28.06.2020)
Distanza. Parola - non la sola, in verità! - che perde un po’ della sua evidenza semantica quando la si trova unita ad attributi particolari. Come capita, per esempio, nelle locuzioni: “distanza sociale”, “fisica”, “interpersonale”. Per coglierne la ricchezza, bisogna anzitutto evitare l’ambiguità - a volte, vera e propria confusione - ereditata dalle locuzioni inglesi social distancing (distanziamento sociale) e social distance (distanza sociale). In sociologia e in psicologia, sono espressioni che descrivono il livello di interazione o di rifiuto tra individui appartenenti a gruppi sociali, economici e culturali diversi. Non è corretto, quindi, ricorrervi per indicare la distanza di sicurezza interpersonale o la distanza necessaria per evitare contagi tra più persone.
Un’intensa considerazione di Rainer Maria Rilke ci aiuta a guardare con occhio diverso la distanza. «Una volta che si è accettato di capire che anche tra gli esseri umani più vicini continuano ad esistere infinite distanze, può crescere un meraviglioso affiatamento, se questi riescono ad amare la distanza che li separa, che rende possibile ad ognuno di vedersi reciprocamente, per intero, stagliati nel cielo».
Qui la parola distanza ha tutt’altro significato rispetto a quello che gli dà F. Nietzsche, quando parla di pathos della distanza. Questa espressione - nel filosofo tedesco e in parte anche nella ripresa di Italo Calvino - indica l’atteggiamento dell’aristocratico che, da una presunta posizione di superiorità, “tiene a distanza” e guarda da lontano quanti non gli sono pari.
Invece, “la distanza che rende possibile ad ognuno di vedersi reciprocamente, per intero, stagliati nel cielo”, è la “distanza giusta”. Quella che permette di stabilire e coltivare relazioni sane ed equilibrate, grazie alla modulazione e alla misurazione, non esclusivamente fisica, di vicinanza-lontananza, come nel «dilemma dei porcospini», evocato da A. Schopenhauer.
I porcospini, per ripararsi dal gran freddo, provano a farlo stringendosi l’un l’altro; ma, a causa dei loro aculei, sono costretti ad allontanarsi e a cercare comunque la distanza giusta, per riscaldarsi senza farsi male a vicenda. È, sostiene il filosofo tedesco, la stessa fatica che sono chiamati a far gli uomini. Anche loro hanno bisogno di stabilire tra loro una distanza giusta. Quella che fa passare messaggi e comunicare disposizioni interiori ed emozioni. Una distanza che può persistere, nonostante gesti di grande vicinanza fisica. Chi infatti può davvero decifrare i sentimenti e le autentiche intenzioni che accompagnano le relazioni intime, anche le più belle?
Lo ha capito bene René Magritte. Con stile surreale, il pittore belga, nelle due versioni (1928) di The Lovers, mostra di non avere dubbi: nonostante i gesti di grande tenerezza, i due amanti non possono guardarsi negli occhi, non possono penetrare la loro intimità. Ad impedirglielo è l’inevitabile distanza, non fisica, esistente tra loro, rappresentata dal telo che ne avvolge il volto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
FLS
In ricordo di Zeev Sternhell
di Redazione "Il Mulino" *
La maggior parte dei tuoi studi si è concentrata sul fascismo. Come mai ti sei interessato a questo argomento, e qual è stata la spinta iniziale ?
Mentre stavo compiendo i miei studi di Master scoprii i testi di Maurice Barrès, lavori che all’epoca erano praticamente dimenticati. Cominciai a leggerli e trovai riflessioni che mi colpirono profondamente. La prima fu quella che Barrès definì «il senso del relativo», vale a dire il rifiuto di norme universali, di tutta la tradizione occidentale dell’Illuminismo : una visione che conduce ad una guerra totale contro Kant e l’imperativo categorico. Tutto ciò emerge nel suo più importante romanzo politico, Les Déracinés (1897), nel quale egli esprime in maniera compiuta la sua visione del nazionalismo e della nazionalità, quella «della terra e dei morti». Quando uno lo legge si rende conto che non c’è alcuna differenza tra questa visione e quella del «Blut und Boden» (sangue e suolo). Studiando quindi le argomentazioni con le quali la destra radicale ha condotto la propria guerra contro il relativismo morale e Kant - che insieme a Jean-Jacques Rousseau è il principale rappresentante dell’Illuminismo - capii che lì, in quelle argomentazioni, c’era l’inizio di una risposta alle domande che mi stavo facendo io stesso : e cioè, perché tutto ciò accadeva in Francia ? Se fossi stato in Germania non mi avrebbe sorpreso, e se fossi stato in Italia avrei detto : beh, il fascismo... Ma perché in Francia ? Perché in una società identificata con i principi della rivoluzione del 1879 ?
Questi interrogativi rappresentano l’inizio della mia ricerca : stimolato da tutto ciò scrissi il libro su Barrès, Maurice Barrès et le nationalisme français (1972) derivato dalla mia tesi di dottorato. Questo saggio aprì un lungo percorso di ricerca. Il mio secondo libro, dedicato destra rivoluzionaria, è intitolato La droite revolutionaire (1885-1914), ma con un sottotitolo significativo, Les origines françaises du fascisme (1978). Infatti non intendevo parlare delle origini del fascismo francese, bensì delle origini francesi del fascismo. Per la prima volta si metteva l’accento sulle fonti intellettuali francesi del fascismo, e questo fu considerato molto originale. Questo lavoro, affiancato da quello precedente su Barrès, allargò il mio orizzonte e mi portò ad affrontare non solo elementi ideologici ma anche sociali e politici. In quel momento ero già convinto che l’origine del fascismo dovesse essere ricercata in Francia.
L’Italia venne dopo. Studiando la destra radicale e poi il boulangismo capii che in quella fase - gli anni Ottanta del XIX secolo - si manifestava la prima crisi del liberalismo, e ciò avveniva nella più avanzata società liberale dell’Europa, la Francia. Il boulangismo fu un fenomeno affascinante perché conteneva tutti gli elementi fondamentali dell’estrema destra : il nazionalismo radicale e organicista, l’antisemitismo, l’esaltazione del leader. Tutta l’animosità contro l’ordine liberale e borghese espressa dalla destra radicale, così come dalla sinistra radicale non-marxista, si presenta in una forma ancora embrionale in quegli anni. Tuttavia emerge in maniera evidente che la destra non deve essere di necessità conservatrice, ma può essere anche rivoluzionaria.
Così si arriva al fascismo del XX secolo?
Sì. Tutto ciò converge nel mio terzo libro La naissance de l’ideologie fasciste (1989) al quale hanno contribuito Maia Asheri e Mario Sznajder. Ma l’impianto concettuale è una prosecuzione, o piuttosto un esame più approfondito, di quanto era stato già elaborato nei precedenti lavori. Siamo arrivati a rintracciare il momento della nascita dell’ideologia fascista seguendone lo sviluppo lungo tutto il XIX secolo. In particolare abbiamo messo in luce il colpo di genio di questa ideologia : la separazione tra la struttura economica del liberalismo e i suoi contenuti morali e intellettuali. Il sindacalismo rivoluzionario di George Sorel catturò la mia attenzione fin da quando ero studente tanto che scrissi un paper su Sorel e Tocqueville per il corso di Jacob Talmon, l’autore del fondamentale studio sul totalitarismo. Nel XIX secolo la divaricazione tra liberalismo e democrazia si era considerevolmente ridotta e verso il 1880 si era praticamente chiusa. Fu in quel momento che Sorel e i sindacalisti rivoluzionari compresero che le due dimensioni potevano essere separate, accettando l’una e rigettando l’altra. Questa fu l’impostazione originale e geniale del fascismo.
L’ideologia fascista è nata da un’ideologia anti-razionalista, anti-materialista, anti-marxista e da un nazionalismo radicale preesistente. Tutti i fondamenti del nazionalismo organico, cioè il culto dei morti e la venerazione della tradizione, esistevano già nella destra radicale francese, e anche in Ernest Renan. Di Renan si ricorda spesso la sua immagine della nazione come «plebiscito quotidiano» ma per Renan la nazione è un’entità organica.
Quest’idea esisteva già in Johann Gottfried Herder. Quindi l’idea che la nazione fosse un organismo vivente non è un’invenzione italiana in quanto era già presente in una tradizione che va da Herder a Renan ; e Barrès la confeziona in una versione moderna che poi gli italiani adottano perché fa parte della loro stessa cultura. Quindi il nazionalismo storico, radicale e organico, unito alla venerazione degli antenati seppelliti nel proprio suolo e al richiamo al «Blut und Boden» (sangue e terra), da un lato, e la revisione anti-razionale e antimaterialista del marxismo avviata da Sorel, dall’altro, accomunati entrambi dall’idea che la violenza sia uno strumento necessario per il cambiamento dell’ordine sociale, diventano i principali ingredienti del fascismo. I sindacalisti rivoluzionari soreliani rifiutavano l’ordine esistente e volevano cambiarlo con la forza e la violenza. Se questa forza rivoluzionaria non può più essere fatta da una classe - il proletariato - può essere condotta da tutte le classi e dalla nazione intera. Questa è la situazione alla vigilia della prima guerra mondiale.
C’è allora un rapporto diretto tra la prima guerra mondiale e il fascismo?
Mussolini durante la guerra integrò tutti gli elementi nazionalisti dandogli forza politica. Ne La naissance de l’ideologie fasciste dimostriamo come questa ideologia esistesse già prima della prima guerra mondiale. E quindi il fascismo non è una conseguenza diretta della grande guerra. La nostra interpretazione non è condivisa da vari studiosi ; anche George Mosse, che pure ha attribuito molta importanza alla prima guerra mondiale, non concorda con la nostra impostazione e cioè che il fascismo esisteva, nella sua essenza, già prima della grande guerra.
Il conflitto rese possibile il passaggio dal regno delle idee all’azione politica concreta. Inoltre, a nostro avviso, il fascismo non è un fenomeno limitato al periodo tra le due guerre e non è certo finito dopo il 1945. Non c’è alcun valido motivo « metodologico » per sostenere che l’ideologia del fascismo si sia esaurita con l’esecuzione di Mussolini o con il suicidio di Hitler. Infine il fascismo può essere considerato il miglior prisma per studiare l’evoluzione della politica europea nel XX secolo, molto meglio del nazismo. Il fascismo fu una guerra contro la modernità razionalista universalista e contro il diritto naturale e i diritti umani : in una parola contro l’Illuminismo. Il nazismo fu invece una guerra contro l’umanità.
In che misura l’antisemitismo ha indirizzato il tuo interesse verso lo studio del fascismo?
Quando incominciai le mie ricerche non immaginavo quanto fosse forte l’antisemitismo nella Francia del 1880 e nemmeno quanto lo fosse nel periodo tra le due guerre. In particolare mi chiesi perché le leggi razziali francesi promulgate nell’estate del 1940 fossero più rigide di quelle italiane e addirittura delle leggi naziste di Norimberga. Il destino degli ebrei costituisce una cartina di tornasole per comprendere questa posizione. Vale a dire, la rivoluzione francese rese liberi sia gli ebrei che gli schiavi neri sulla base dei principi della Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, principi che si fondavano sui diritti umani e che stabilivano che la nazione era composta da tutte le persone che vivevano in un determinato territorio ed erano governati da un solo governo.
E questo era tutto. Non c’era nulla che riguardasse la storia o la religione. Il principio era politico e giuridico, e si basava sul valore dell’uguaglianza. Quindi, dato che il regime di Vichy rigettava i principi della rivoluzione francese e di conseguenza l’Illuminismo, l’eliminazione delle leggi di emancipazione degli ebrei costituivano il passaggio più significativo. Del resto, sin dalla fine dell’Ottocento l’antisemitismo incominciò ad essere usato come un’arma politica contro l’Illuminismo. Questa è la ragione per cui mi sono interessato alle vicende degli ebrei e all’antisemitismo. C’è comunque una differenza tra fascismo e nazismo su questo punto. Nel fascismo l’antisemitismo è uno strumento per una battaglia anti-illuminista, nel nazismo è un obiettivo in sé stesso. Il fascismo può usare antisemitismo a diverse gradazioni e consentire che anche gli ebrei siano fascisti, mentre non era immaginabile che anche un ebreo potesse essere nazista.
E veniamo ora al tuo libro più discusso, «Ni droite, ni gauche. L’idéologie fasciste en France», del 1983
Questo lavoro prosegue la linea di ricerca de La droite révolutionaire. È soprattutto un lavoro di storia delle idee e di quanto le élite intellettuali influenzarono l’opinione pubblica e la politica francesi. La sua pubblicazione ha suscitato grande scalpore e parecchie polemiche in Francia. Credo che questo sia addebitabile a tre aspetti. Il primo è che dimostrava ancora più chiaramente che nei lavori precedenti che il fascismo non è una imitazione del fascismo italiano bensì è un prodotto originale francese. In secondo luogo mostra la profondità e la presa del fascismo nella società francese e soprattutto nella sua élite intellettuale. In terzo luogo sottolinea il ruolo del regime di Vichy. Questi tre fattori crearono molto sconcerto in Francia, soprattutto la questione di Vichy. Il regime di Vichy non era conservatore bensì rivoluzionario e fascista, tant’è che ruppe con centocinquant’anni di storia francese. All’epoca fu difficile per i francesi accettare queste interpretazioni di Vichy anche se poi divenne chiaro che era una questione generazionale in quanto gli intellettuali di una generazione più giovane sostennero sostanzialmente questa interpretazione e inaugurarono un nuovo filone di ricerca sul tema.
Tutto quanto abbiamo discusso fin qui conduce al tuo ultimo lavoro, quello dedicato all’anti-Illuminismo, «Les anti-Lumières. Du XVIII siècle à la guerre froide» (2006). Come si connette con i tuoi lavori precedenti? E come sei arrivato a quest’opera?
Immagina uno che salendo una scala, gradualmente allarga il proprio orizzonte. In questi - orami lunghi - anni di studio mi sono imbattuto in tutta una serie di opposizioni all’illuminismo. Leggendo Barrès scoprii che in un suo romanzo, Les déracinés, descrive, con un riferimento biografico, come un insegnante sradichi i propri studenti dalla loro cultura originaria e dal loro ancoraggio alla terra trasformandoli, appunto, in déracinés. L’insegnante era professore di filosofia ed era un kantiano: insegnava l’«imperativo categorico» del filosofo di Könisberg che per Barrès rappresentava la «grande calamità» della cultura francese.
Ma ancora prima di Barrès, nel mio libro sottolineo come la più solida costruzione filosofico alternativa all’Illuminismo viene da Herder. Nel suo primo pamphlet, pubblicato nel 1774, ci sono tutti gli argomenti che saranno sviluppati in seguito : l’alternativa al razionalismo alla concezione giuridico-politica della nazione, al concetto kantiano dell’autonomia dell’individuo. Solo alcuni anni più tardi, dopo che Herder pubblica il suo grande libro Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1774-1791), Kant reagisce scrivendo una risposta ferocemente critica del lavoro di Herder. Questo scontro può essere interpretato come l’inizio del conflitto tra la tradizione razionalista kantiana-rousseouiana e la « seconda modernità », quella anti-razionalista.
Ho utilizzato questa chiave interpretativa per analizzare tutta la storia europea dell’Ottocento e del Novecento. Sono partito da Herder perché lo considero il vero capostipite di questa tradizione e perché il filosofo tedesco ha influenzato in maniera «insospettabile» molti anti-illuministi da Jules Michelet a Edgard Quinet a, persino, Isaiah Berlin. In particolare mi sono concentrato nel rintracciare la sua influenza e i rapporti incrociati tra i vari autori nel tempo per scoprire quanto delle iniziali critiche anti-illuministe venissero poi riprese e rilanciate nel corso degli ultimi due secoli.
In ricordo di Zeev Sternhell di Redazione "Il Mulino" *
-*** Riproponiamo l’intervista di Mario Snajder a Zeev Sternhell, lo storico e scienziato della politica israeliano scomparso oggi [21 giugno 2020].
[...]
Di recente hai scritto un importante lavoro sulla nascita dello Stato israeliano «Nascita d’Israele. Miti, storia, contraddizioni». Come è nato? E come si collega con gli altri tuoi lavori?
Qui c’è un aspetto autobiografico. Quando giunsi in Israele, nel 1951, sentivo sempre parlare di socialismo israeliano. Ma non capivo di che socialismo si trattasse. Non capivo il concetto di comunità di lavoro. Quando andavo a scuola vedevo i contadini della comunità di Magdiel (una delle prime quattro comunità di lavoro ebraiche, moshavot, fondate nel 1924) che andavano a lavorare molto presto alla mattina. Poi, oltre ai contadini proprietari, c’erano anche dei lavoratori salariati che lavoravano altrettanto duramente ma non erano considerati sullo stesso piano. Io non capivo la differenza tra questi due gruppi. Per me erano entrambi dei coloni lavoratori. Il punto è che il kibbutz originariamente era stato concepito anche come un’entità politica dove realizzare gli ideali socialisti. Infatti, quando dopo la guerra arrivarono nuove ondate di immigrati, nei kibbutz si discuteva sull’importanza del lavoro indipendente e autonomo, senza assumere forza lavoro dall’esterno. Eppure, al di là della fedeltà al principio teorico-ideologico socialista del non-sfruttamento c’era la necessità di dar lavoro ai nuovi arrivati. Inoltre, il lavoro è un grande fattore di integrazione.
Nel mio lavoro, che copre il periodo dal 1905 - inizio della seconda immigrazione sionista - al 1948 - fondazione dello Stato di Israele - analizzo le vicende della Confederazione del lavoro, l’Histadrut (che dispone di un immenso archivio, degno di una grande organizzazione burocratica qual era) e poi del partito laburista, il Mapai. Entrambi parlavano di socialismo : ma che tipo di socialismo avevano in mente ? Il socialismo era nel kibbutz, che voleva essere una società socialista esemplare. Ma fuori, la società non era diversa da quella borghese ; in più, era anche povera.
Il mio interrogativo centrale si rivolgeva al rapporto tra socialismo e nazionalismo. Da un lato volevano costruire una società ebraica che eventualmente avrebbe potuto costituirsi come Stato, e dall’altro volevano costruire una società giusta, egualitaria e democratica. Ma non riuscirono a mantenere un equilibrio tra i principi del nazionalismo che sono particolari e quelli del socialismo che sono universali. La costruzione dello Stato e la conquista dell’indipendenza si scontrarono con i principi del socialismo. Aaron David Gordon, il pensatore sionista e protosocialista di inizio secolo, diede un significato classico della nazione seguendo l’impostazione organicista e nazionalista. Per Gordon è la nazione che crea l’individuo, la cultura e il linguaggio. Intervenendo dal proprio kibbutz, Degania, il primo ad essere fondato, Gordon sosteneva che i lavoratori ebrei vogliono unirsi con gli ebrei borghesi, e non con i lavoratori di un altro Paese. Non pensava di modificare l’ordine sociale esistente. Non c’era alcuna intenzione di rompere con il capitalismo. La lotta di classe non era prevista mentre, al contrario, la cooperazione tra le classi era considerata necessaria per la costruzione della nazione. E infatti, negli anni Venti e Trenta si stringe un’alleanza tra il partito socialista e la borghesia. I sindacati non lottano per un mutamento sociale e, in sostanza, accettano il capitalismo mentre la borghesia « rinuncia » a esercitare direttamente il potere politico lasciando spazio ai laburisti. Ad esempio, Ben Gurion fin dall’inizio degli anni Trenta cerca di eliminare le scuole operaie gestite dall’Histadrut (ci riuscirà completamente solo negli anni Cinquanta quando verrà creato un sistema educativo statale). I sostenitori del progetto « nuova educazione », tutti giovani immigrati dall’Unione Sovietica, volevano scardinare l’impostazione esistente e creare una educazione libera che forgiasse bambini autonomi e consapevoli. Costoro vennero però emarginati e indirizzati in kibbutz dove potevano mettere in atto i loro esperimenti.
Ma che interpretazione dai del kibbutz?
Pensiamo a duecento giovani donne e uomini che sbarcano da una nave a Jaffa o ad Haifa e si disperdono nel Paese. Duecento persone come queste quando fondano un kibbutz e prendono possesso della terra diventano un vero e proprio corpo combattente. Il kibbutz diviene una postazione militare. Moltiplichiamo questi duecento per dieci, quindici o venti e si ha il controllo della Galilea, della Valle del Giordano, e di altre aree strategiche. In realtà il kibbutz fu uno strumento per la conquista del territorio e per la nascita del Paese ; non fu uno strumento per il cambiamento dell’ordine sociale. L’unico tentativo per riprodurre il kibbutz fu quello del «battaglione del lavoro» - Gdud Ha’Avoda - che però venne presto eliminato da Ben Gurion il quale voleva mantenere il ruolo centrale dell’Histadrut.
Un altro progetto egualitario fallì quasi subito. Negli anni Trenta, quando la situazione economica migliorò, venne introdotto il salario famigliare per finanziare soprattutto le spese mediche e di istruzione. Quest’idea egualitaria venne però abolita poco dopo la nascita di Israele. E questo comportò anche l’abbandono di ogni ipotesi di modifica del sistema capitalistico. Allo stesso tempo si rinunciò anche all’idea di una cooperazione tra i lavoratori arabi e quelli ebrei. Questo problema creava una forte conflittualità tra i vecchi insediamenti ebraici in Galilea che impiegavano forza lavoro araba e quelli nuovi, della quarta immigrazione, che impiegavano solo manodopera ebraica. I leader sindacali rinunciarono presto all’egualitarismo perché questo confliggeva con gli interessi nazionali. Il socialismo era concepito per favorire la costruzione dello Stato e della nazione. Il sindacato si identificava con i lavoratori ebraici della terra di Israele e quindi la collaborazione con gli arabi era praticamente inconcepibile. Del resto, nel 1922, lo stesso Ben Gurion disse che erano arrivati in Palestina non per organizzare qualcuno ma per conquistare la terra. Tutto era indirizzato all’obiettivo fondamentale, la costruzione dello Stato e della nazione.
Come vedi il futuro dello Stato di Israele?
Nella mia opinione l’acquisizione e occupazione delle terre fino al 1948 fu legittima in quanto necessaria : era una questione di sopravvivenza. Gli ebrei avevano bisogno di un pezzo di terra in cui andare a vivere. Del resto nessuno li voleva. Dopo la seconda guerra mondiale c’erano trecentomila rifugiati ebrei che non sapevano dove andare. Per questo non ho mai avuto nessun dubbio sulla legittimità del sionismo fino alla nascita dello Stato di Israele ; per questo penso che tutto quello che è stato fatto fino al 1949 fosse giusto, nonostante la Nakbah e l’espulsione degli arabi-palestinesi : era un’esigenza vitale.
Ma allo stesso tempo credo che tutto quello che è stato fatto dopo il 1967 non sia stato né legittimo né giusto perché non riguardava alcun interesse vitale. Tra il 1949 e il 1967 fu chiaro che tutti gli obiettivi del sionismo potevano essere raggiunti all’interno dei confini di allora (la « Linea Verde »). In precedenza, invece, vi era stata una situazione di guerra più o meno continua tra ebrei e arabi.
Gli insediamenti impiantatisi al di là della Linea Verde dopo il 1967 sono la più grande catastrofe nella storia del sionismo perché hanno creato una situazione coloniale. Hanno creato proprio quella situazione che il sionismo voleva evitare. In un certo senso la divisione tra lavoratori arabi ed ebrei lastricava la strada verso il colonialismo, e questo fu chiaro dopo il 1967. Pur tenendo conto di tutti i disagi inflitti agli arabi-palestinesi il sionismo salvò più di mezzo milione di ebrei che, se non avessero abbandonato l’Europa, non sarebbero sopravvissuti. Il sionismo però, a mio avviso, si fonda sui diritti naturali dei popoli all’autodeterminazione e all’autogoverno. Ne consegue che questi diritti sono anche propri dei palestinesi. Per questo il sionismo ha diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi.
Chi vuole precludere ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per sé stesso soltanto. Tutto ciò deve essere messo in pratica e richiede una visione liberale della nazione che non siè mai realizzata praticamente da nessuna parte. I diritti nazionali sono un’estensione dei diritti individuali e per questo sono universali : i diritti degli israeliani non sono differenti da quelli dei palestinesi.
Per questa ragione gli insediamenti devono fermarsi e l’unica soluzione logica sia per gli ebrei che per gli arabi è quella di due Paesi per due popoli. L’ipotesi di un unico Stato non solo porta all’eliminazione dello Stato ebraico ma apre la strada a conflitti sanguinosi per generazioni. Due Paesi, fianco a fianco, fondati su uguali diritti per entrambi i popoli, questa è la strada giusta e necessaria : ogni altra scelta condurrebbe o al colonialismo o alla eliminazione di Israele in uno Stato binazionale.
*[Da "il Mulino", n. 1/10, Doi : 10.1402/31091, Copyright © 2010 by Società editrice il Mulino, Bologna: qui è possibile scaricare il pdf, completo dell’introduzione]
ESSERE GIUSTI CON KANT E FREUD ....
Nota a margine di “Il male, un’illusione? Intervento al Convegno Internazionale UNESCO” *
A quanto pare, dopo Derrida e dopo Foucault, non è solo difficile “essere giusti con Freud” ma anche con Kant! Immersi nella palude “acherontica” del “monomito” (James Joyce) dell’ultimo uomo (Nietzsche), non riusciamo più a capire la ragione di Kant che riprende, per dare la sua “Risposta alla domanda: che cosa è l’Illuminismo?”, le parole del suo famoso motto (“sàpere aude”) da Orazio (Epistole, I, 2, v. 40) e, per affrontare il problema “della coesistenza del principio cattivo accanto a quello buono o del “male radicale nella natura umana” , nel capitolo primo di “La religione entro i limiti della sola ragione”, (Laterza, 1979), in testa al “§ 3. L’uomo è cattivo per natura”, cita ancora Orazio (Satire, I. 3. 67): “Vitiis nemo sine nascitur” (“nessuno nasce senza difetti”). Non è perché abbiamo perso il “ben dell’intelletto” e, con esso, il filo di Arianna -lo spirito critico e l’amore conoscitivo ?! O no?! Boh e bah?!
* Cfr. Sergio Benvenuto, di “Il male, un’illusione? Intervento al Convegno Internazionale UNESCO” , "Le parole e le cose", 15 giugno 2020.
RIPRENDERE IL LAVORO DI FREUD. IL MALE, L’AVVENIRE DI UN’ILLUSIONE ....
Nota a margine di "Il male, un’illusione? Intervento al Convegno Internazionale UNESCO” *
PRIMA DI FARE DICHIARAZIONI STORIOGRAFICHE DI GRANDE IMPEGNO A SOSTEGNO DELLE PROPRIE ARGOMENTAZIONI:
E PARLARE DI “divinizzazione retroattiva del marchese de Sade” è bene ricordare che l’associazione indebita di “Kant e Sade”, fatta da Lacan, nasce sulla base di una interpretazione edipico-hegeliana e di un vera e propria distruzione della kantiana “critica dell’idealismo”.
E, ancora, quando Freud richiama all’inizio del suo lavoro sulla “Interpretazione dei sogni” le parole di Giunone “flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” (Eneide, VII, 312), sa già (“sibillina-mente”) di che cosa sta parlando e di cosa c’è in gioco e, come Giunone (“Non mi sarà dato, ahimé, di impedirgli di regnare sui Latini e Lavinia, immutabile, resta sua sposa in forza del destino, ma ho il potere di tirare per il lungo, di imporre dei ritardi a eventi così grandi ...”: Eneide, VII, 312- 315 ), va avanti e ricordando-si di Napoli comincia capire cosa c’è dietro la questione “Didone” (Eneide, IV, 625 ) e la sua infatuazione per Annibale, per il vendicatore: la vittoria di Roma, dell’Amore sulla Morte. Fiducioso, continua il suo lavoro!
La “Horrenda Virgo” (Eneide XI, v. 507) , la “ragazza terribilmente bella”, come Giunone (e Freud), lo sa: deve cedere il passo ad un’altra “Virgo”, ad Astrea, alla Giustizia: «Già viene l’ultima era dell’oracolo di Cuma, / nasce di nuovo il grande ordine dei secoli. / Già ritorna la Vergine, ritornano i regni di Saturno, /già una nuova stirpe scende dall’alto del cielo.» (Ecloga IV, 4-7). La “Horrenda SYbilla” (Eneide VI, 11), ispirata da Apollo, il profeta di Delo, ha rivelato ad Enea tutto il futuro (Eneide VI, 11-12).
PERCHE’ HANNAH ARENDT, nella sua “Vita della mente” (alla luce di un inedito dialogo con Kant) richiama ancora e di nuovo Virgilio e Dante, e dal “Libro del malumore” di Goethe cita: “Chi di tremila anni / Non sa darsi conto, / Rimane all’oscuro inesperto, /Vuol vivere così di giorno in giorno”? Boh e bah?!
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IL DESIDERIO, IL “SOGNO D’AMORE”, E LA TRAPPOLA DELLA “TRUFFA ROMANTICA”.
PER CHI HA AVUTO L’OPPORTUNITA’ O IL MODO “di venire a conoscenza, se pur in modo fugace e non dettagliato, della vicenda del fantomatico Mark Caltagirone, promesso sposo virtuale della nota showgirl Pamela Prati”, CONSIGLIO UNA LETTURA ATTENTA DELL’ARTICOLO “La truffa esiste anche in danno alla vita sentimentale” (Laura Vasselli, "InLibertà"), TOCCA UNA QUESTIONE FONDAMENTALE DELLA STESSA VITA DI OGNI PERSONA, NON SOLO SUL PIANO DEI RAPPORTI PRIVATI MA ANCHE DEI RAPPORTI PUBBLICI: “[...] credere che la finzione si confonda con la realtà , [...] perdere la lucidità e il senso di realtà”!
QUANTO TALE “PROBLEMA” SIA DEGNO DI ESSERE PENSATO A FONDO (E A TUTTI I LIVELLI) è chiaramente detto - come scrive l’autrice - nella motivazione della Suprema Corte di Cassazione Penale che, con la sentenza n. 25165/2019 in materia di “truffa romantica” ha stabilito che essa “non si apprezza per l’inganno riguardante i sentimenti dell’agente rispetto a quelli della vittima, ma perché la menzogna circa i propri sentimenti è intonata con tutta una situazione atta a far scambiare il falso con il vero operando sulla psiche del soggetto passivo“ (cit.).
CHE DIRE?! E’ UNA SOLLECITAZIONE A SAPERSI CONDURRE CON SENNO SIA NELLE QUESTIONI PRIVATE SIA NELLE QUESTIONI PUBBLICHE E UN INVITO A NON PERDERE IL SENSO DELLA REALTA’ (sul tema, non sembri strano né casuale, si cfr. l’articolo di Italo Mastrolia, su “#iorestoacasa, Forza Italia”). NE VA DELLA NOSTRA STESSA VITA : E’ UN PROBLEMA DI SANA E ROBUSTA COSTITUZIONE, A TUTTI I LIVELLI.
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CALIPSO, PENELOPE, E LA COSTITUZIONE. PER LA CRITICA DEL “SOGNO D’AMORE” DELLA “RAGION PURA”...
SICCOME, E GIUSTAMENTE, va detto che, oggi, “il fenomeno è sommerso nel senso che molte persone sono vittime attive” (Laura Vasselli, cit), e che il problema è un problema di “psicoanalisi della società contemporanea” e di una società “malata” (si cfr. E. Fromm, “The sane society”, 1955), il mio invito - mi sia lecito - vuol essere solo una piccola sollecitazione a meglio contribuire a portare avanti il critico lavoro di “interpretazione dei sogni” (Freud), del “sogno d’amore”, e non perdere quanto messo a fuoco nella riflessione sul caso “Pamela Prati”.
CONSIDERATO CHE “è attraverso la mediazione delle cause interne - come ricordava ai suoi tempi il presidente della Repubblica popolare cinese, Mao Tse Tung - che quelle esterne producono il loro effetto”, e che le possibilità delle tentazioni e degli inganni sono “infiniti”, forse, vale la pena sfogliare l’album della memoria e ricordare quanto BENIAMINO PLACIDO “Agli amici alla vigilia di un cambiamento, un nuovo lavoro, un viaggio, una storia d’amore seria, amava chiedere: «Sai perché Odisseo non ascolta Calipso e non rimane con lei sull’isola felice, pur davanti alla promessa di diventare immortale, bello, sano e innamorato per sempre? Sai perché rinuncia a quella eterna felicità e si rimette in mare tra mostri, tempeste e nemici ferocissimi, umani e divini?». Di fronte allo sguardo perplesso dell’interlocutore, sgranava gli occhi bulbosi, accennava un sorriso malizioso, alzava l’indice da saggio e scandiva «Perché per noi umani l’identità è più importante dell’immortalità, capisci? Sempre!». L’identità era cambiare, studiare, viaggiare, praticare nuovi mestieri, ma senza cambiare il cuore a nessun costo, neanche in cambio dell’immortalità e di una Dea come amante” (si cfr. G. R., “Beniamino Placido (1929-2010) / Beniamino e il segreto di Odisseo”, "Il Sole-24 Ore", 7 gennaio 2010).
Questo, in altre parole, non vuol dire che solo un “sogno d’amore” con gli occhi aperti e la mente sveglia rende possibile l’«odissea» - e “Itaca”? E che per questo è fondamentale e decisivo la necessità e l’urgenza del lavoro della critica del “sogno d’amore” della “ragion pura” (Kant)?! O no?
"CRITICA DELLA RAGION PURA" (KANT) E DEL "MONOMITO" (JAMES JOYCE). UN OMAGGIO A JOSEPH CAMPBELL
LA METAFORA NEL MITO E NELLA RELIGIONE E I PROLEGOMENI AD OGNI FUTURA METAFISICA CHE SI PRESENTERA’ COME SCIENZA.... *
Siamo mito
di Moreno Montanari (Doppiozero, 20 marzo 2020).
“Come fuori, così dentro” si potrebbe riassumere così, parafrasando la celebre massima alchemica, la tesi dell’ultimo libro di Joseph Campbell, Le distese interiori del cosmo. La metafora nel mito e nella religione, Nottetempo, 2020. Si tratta di una raccolta di saggi che amplificano delle conferenze tenute tra il 1981 e il 1984 nello sforzo, consueto per Campbell, di illuminare la transculturalità, ossia gli elementi costanti, nonostante le variabili etnico-culturali, dei miti. Al cuore di ogni narrazione mitologica, che Campbell ha il merito indiscusso di mostrare ancora viva negli aspetti più comuni delle nostre culture, ci sono temi che Adolf Bastian (1826-1905) chiamava “idee elementari” e Carl Gustav Jung (1875-1961) “archetipi” ; si tratta di cristallizzazioni di risposte millenarie che la fantasia e l’immaginazione delle diverse civiltà umane hanno elaborato per affrontare questioni esistenziali che le hanno profondamente interrogate. Naturalmente queste forme archetipiche variano a seconda delle idee etniche che una determinata cultura esprime, ma esiste tra di loro una dialettica che Campbell riassume così : “l’idea elementare è radicata nella psiche ; l’idea etnica attraverso cui si manifesta è radicata nella geografia, nella storia e nella società” (p. 145) ; si accede al punto di vista del mito quando “nelle forme di un ambiente traspare la trascendenza” (p. 28).
Il suo lavoro più celebre sull’universalità del mito è sicuramente quello relativo a L’eroe dai mille volti (1949, tr. it. Lindau, Torino, 2012) figura che, nelle più disparate e diversificate espressioni culturali, lontanissime tra loro nello spazio e nel tempo, passa comunque sempre attraverso i seguenti snodi esistenziali : una nascita misteriosa, una relazione complicata con il padre, ad un certo momento della sua vita sente l’esigenza di ritirarsi dalla società e, in questa condizione, apprende una lezione, o elabora un sapere, che orienterà diversamente la sua vita, poi ritorna alla società per mettere al suo servizio la lezione che ha appreso, molte volte (ma non necessariamente) grazie ad un’arma che solo lui può usare.
In questo libro, invece, l’attenzione si rivolge alle diverse cosmologie e ai miti soteriologici elaborati nel corso dei millenni dalle differenti culture che si sono susseguite, e affiancate, nel nostro pianeta, comprese le attuali, e si organizza intorno alla felice intuizione kantiana che spazio e tempo siano categorie interiori della psiche che vengono applicate alla realtà esterna. Citando Novalis Campbell scrive : “La sede dell’anima è laddove il mondo esterno e il mondo interno s’incontrano”, e aggiunge, “è questo il paese delle meraviglie del mito” (p. 43).
Non si equivochi: il paese delle meraviglie, non è un mondo fantastico, illusorio, ma lo spazio nel quale apprendere a ridestare la meraviglia, ad attivare l’intero psichismo dell’uomo, a sviluppare una particolare capacità di attenzione che, facilitata dalla forma narrativa del mito, insegna ad aprirsi alla trascendenza, ossia all’eccedenza di senso e significato che incarna ogni simbolo, mai riducibile a una perfetta equazione con quanto rappresenterebbe.
Ed è qui che Campbell ci regala una delle sue pagine più interessanti:
Mi sembra un esempio realmente illuminante per comprendere il senso di ogni comparazione e di ogni ermeneutica simbolica. Lo ha spiegato bene Jung : il simbolo, centrale in ogni mito, non rimanda a una realtà significata, è esso stesso realtà operante, costituisce la specifica capacità umana di “orientare la coscienza verso ulteriori possibilità di senso”, poiché non è mai del tutto riconducibile ad un significato univoco e definitivo ; per questo non può essere ridotto alla semiotica perché la sua funzione è piuttosto psicagogica, vale cioè per gli effetti che produce nella psiche, per le energie, le immagini, le interpretazioni, i processi psichici che sa evocare, promuovere, mettere in gioco (C. G. Jung, Tipi psicologici, 1921 ; tr. it. Bollati Boringhieri, 1977 e sgg, p. 527). Ecco perché il ricorso a Kant, a quell’x che resta inconoscibile e che apre alla metafisica, a ciò che trascende ogni possibilità di possesso e de-finizione del senso ultimo, appare particolarmente pertinente.
I rapporti che vengono suggestivamente indagati da Campbell, dicevamo, sono quelli che comparano lo spazio interiore e quello esteriore, secondo la celebre analogia tra macrocosmo e microcosmo :
Attraverso un nutrito numero di calcoli e dati ricavati dagli studi di astronomia, i calendari ideati dalle diverse culture a partire dagli antichi babilonesi, le fonti bibliche, le arcaiche Upanisad induiste e i più remoti testi taoisti, Campbell giunge ad analizzare suggestivi - per un certo tipo di lettore - consonanze tra i cicli biologici del sistema solare (macrocosmo) e quelli dell’individuo (microcosmo). Ma non mi sembra questo il punto cruciale dei suoi sforzi, che consiste piuttosto nel promuovere una diversa prospettiva sul mondo e sulla vita, non più incentrata sulle nostre idee etniche, sui limiti delle nostre culture, ma aperta al riconoscimento di un’unica realtà “il cui centro è ovunque”, della quale dovremmo finalmente farci carico in maniera universale (si pensi agli assurdi sforzi dei singoli stati, in questi difficili giorni, di arginare il coronavirus secondo strategie nazionali, anziché comprenderne la portata globale che richiederebbe interventi condivisi, in tutti i sensi, su scala mondiale e non, addirittura, regionale - per non parlare delle differenti valutazioni a seconda delle fasce di età).
Dopo aver preso in esame i miti cosmologici e soteriologici delle diverse religioni delle nostre principali culture, Campbell giunge a questa conclusione :
Il pensiero mitologico, quando non viene letteralizzato, promuove dunque un’apertura alla transculturalità, alla trascendenza di ogni appartenenza storico-culturale e si propone, in maniera apparentemente contro intuitiva, come strumento di laicità. Qui incontra l’arte, per la sua capacità di trasformare la coscienza e la visione abitudinarie della realtà in favore di un punto di vista nel quale, “la mente viene fermata e innalzata al di sopra del desiderio e dell’odio” ; sono parole di Joyce che Campbell fa sue e che trova affini all’esperienza ascetica che dovette compiere il Buddha prima di raggiungere l’illuminazione : vincere i tre demoni del desiderio (Kāma), della paura della morte (Māra) e l’identificazione con i vincoli sociali (Dharma), per accedere a una condizione che li sappia trascendere (pp. 201-201).
Un percorso e un’opportunità che, in chiave individuativa, sono poste al centro del lavoro di Giovanna Morelli nel suo Poetica dell’incarnazione. Prospettive mitobiografiche nell’analisi filosofica (Mimesis, 2020). In questo libro - uscito per la collana di Mimesis “Philo-pratiche filosofiche” curata da Claudia Baracchi - l’arte appare lo sfondo dal quale può emergere una rappresentazione mitobiografica della vita di ciascuno di noi, ossia, secondo la lezione di Ernst Bernhard, il modo di riconoscere come ogni singola esistenza si apra, o meglio si riconosca, in alcuni mitologemi (singoli aspetti di un mito) che si prestano a leggerne alcune gesta. Lo sguardo mitobiografico con il quale Morelli invita a osservare la vita, a partire dal racconto della propria, permette di “scoprire e amare l’universale attraverso il particolare, preservando entrambe le dimensioni”, di “narrare la propria vita secondo il disegno di senso che la illumina, la magnifica, la collega a figure universali e pertanto la rende epica, emblematica” (p. 127).
L’arte che indaga l’analista filosofo è dunque quella incarnata, ossia, consapevole che la vita di ciascuno di noi accede al simbolico grazie e attraverso quelle che James Hillman chiamava “metafore radicali” offerte dall’inconscio collettivo, ossia le strutture percettive, gli archetipi, che organizzano l’esperienza umana come già da sempre sovrapersonale.
Lo specifico di ogni vicenda biografica non viene meno se riconosce nel suo sviluppo echi, modalità e variazioni di temi ricorrenti nella storia dell’umanità - di cui la psiche mantiene una traccia in forma, appunto, archetipica - ma procede al contrario verso la sua individuazione, la possibilità di autenticare in modo esclusivo la propria esistenza, “se comunica con se stessa alle più diverse latitudini spazio-temporali, attraverso le tante narrazioni-quadro che si sono avvicendate nella storia” (pp. 38-39).
L’arte è qui poiesis, anzi, mitopoiesi e la vita, vista dall’osservatorio privilegiato della stanza d’analisi, ne costituisce il principale teatro (Giovanna Morelli è anche regista d’opera e critica teatrale), lo spazio in cui s’incontrano e si scontrano le nostre maschere sociali e i nostri doppi impresentabili, ma anche dove si facilita una più profonda espressione di sé che, in una vicenda personale, sa scorgere tracce di qualcosa di universale - il che, osserva Jung, è già di per sé terapeutico :
Un’operazione che, in modo diverso, sia Campbell che Morelli, ci invitano a fare per riconoscere nei miti la via maestra alla coltivazione di quella trascendenza che non rimanda a mondi altri e paralleli ma anima l’immanenza, qui ed ora, da sempre.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO....
Addio al giurista e polemista. Franco Cordero, il più scomodo di tutti gli eclettici
A 91 anni scomparso il giurista e polemista, capace di spaziare dal diritto al romanzo, con forte inclinazione anticlericale
di Francesco D’Agostino (Avvenire, domenica 10 maggio 2020)
Personalità fuori dal comune, quella di Franco Cordero (scomparso due giorni fa a Roma a 91 anni): uomo poliedrico, capace di spaziare con sicurezza dalla giurisprudenza alla storia, dalla filosofia alla teologia, dall’antropologia alla politica; polemista memorabile, romanziere di notevole originalità, anche se di ardua leggibilità, inventore di stilemi linguistici suggestivi. Se su queste sue doti non c’è da dubitare, su altre probabilmente è difficile che si trovi un accordo tra i suoi colleghi, i suoi studiosi ed i suoi lettori.
È stato davvero, come alcuni sostengono, uno dei massimi giuristi italiani del Novecento? Sicuramente è stato un giurista fuori dal comune, che ha nobilitato la sua disciplina (il diritto processuale penale) oltre ogni aspettativa. Ma è stato anche vittima della sua intelligenza labirintica, della sua rigidità ideologica, della sua carenza di flessibilità. Ordinario da anni nell’Università Cattolica di Milano, entrò in tensione con il paradigma culturale che la governava e di cui egli aveva perfetta consapevolezza: non ebbe il buon senso (di cui ad esempio diede prova il filosofo Emanuele Severino) di chiedere il trasferimento ad altro Ateneo, che pure avrebbe immediatamente ottenuto; privato tra mille polemiche del necessario nulla-osta all’insegnamento, attivò un duro braccio di ferro con le autorità accademiche, che volle portare fino al giudizio della Corte Costituzionale.
Era ovviamente un suo diritto ricorrere alle vie legali, ma fu molto sgradevole vedere come il suo ricorso si saldasse con un anticlericalismo sempre più aspro, polemico e in definitiva sterile, che egli cercò faticosamente di nobilitare arrivando perfino a scrivere un fitto commento all’Epistola ai Romani di San Paolo.
È difficile dire se il suo anticlericalismo giunse infine a trasformarsi in un vero e proprio anticattolicesimo; è certo però che alla fine logorò anche la pubblica opinione, al punto che, per mantenere comunque un contatto col “suo” pubblico, Cordero trovò uno sfogo cominciando a scrivere numerosi romanzi, dedicando a Savonarola una sterminata biografia, e insinuandosi abilmente nel dibattito politico del tempo (fu lui a forgiare il soprannome di “caimano” per Berlusconi , soprannome che ebbe un certo successo, anche perché ripreso da Nanni Moretti in un suo film omonimo).
Gira la notizia che una nuova e brillante casa editrice starebbe per pubblicare un suo ultimo romanzo e che sarebbe anche in progettazione una nuova edizione di un suo importante testo di molti decenni fa, Gli Osservanti, del 1967, l’opera con la quale Cordero intendeva radicare definitivamente il suo pensiero nella filosofia del diritto. Gli Osservanti è un libro, pieno di riferimenti, provocazioni, citazioni, allusioni, polemiche; un libro col quale l’Autore voleva presentare ai suoi lettori nuovi e rivoluzionari paradigmi dottrinali. Ma si trattava anche di un libro troppo difficile e troppo costoso per divenire popolare tra gli studenti sessantottini e contestatori e troppo farraginoso per conquistare la platea dei giuristi di professione. Se esso, nella sua nuova edizione, avrà successo, ne sarò lieto, perché è pieno di intelligenza. Ma non si tratta di intelligenza né giuridica, né filosofica, ma di intelligenza polemica: ammirevole, ma sterile.
Morto Franco Cordero, il giurista che inventò il "Caimano"
Raffinato uomo di legge, anticlericale, intellettuale militante si è spento a 92 anni. Indimenticabili le sue polemiche contro Berlusconi al quale dedicò il soprannome
di ROBERTO ESPOSITO (la Repubblica, 08 maggio 2020)
Con Franco Cordero scompare una delle figure più raffinate e poliedriche della cultura italiana contemporanea. Ma anche un intellettuale militante, impegnato in battaglie civili contro il lato oscuro del potere politico ed ecclesiastico italiano. Nato a Cuneo nel 1928, ha attraversato l’ultimo secolo, lasciando una traccia indelebile non solo nel campo del diritto di cui è stato riconosciuto maestro, ma anche in quelli della riflessione filosofica, teologica, antropologica. E infine nella letteratura con una serie di romanzi - tra i quali Opus, Bellum civile, L’armatura - di lettura non semplice, ma scritti con uno stile personalissimo che gli assegna un ruolo non secondario nella letteratura degli ultimi decenni.
Allievo di Giuseppe Greco, ha insegnato in diverse Università italiane, tra cui Trieste, Torino, Roma, dove ha chiuso nel 2002 la propria brillante carriera accademica. Ma certamente l’esperienza che più lo ha segnato, diffondendo il suo nome anche all’estero, è stato l’insegnamento alla Cattolica di Milano, allora diretta da Agostino Gemelli, iniziato nel 1960. Entrato in conflitto per la sua posizione di intransigente polemica nei confronti della parte più retriva della gerarchia ecclesiastica, è stato espulso dalla Cattolica, scatenando quello che, sulle pagine dei quotidiani italiani e stranieri, ha assunto il nome di "caso Cordero". L’occasione dello scontro, non cercato ma neanche evitato da Cordero, è stata la pubblicazione del testo intitolato Gli osservanti (1967) ma soprattutto il successivo romanzo Genus che nel 1969 gli costerà l’allontanamento dalla cattedra. Accusato di eterodossia e attaccato frontalmente dalla destra cattolica, Cordero ha risposto con altrettanta nettezza, scatenando una polemica arrivata perfino alla Corte Costituzionale.
Da allora la sua persona è diventata occasione di continue controversie. Attaccato dagli ambienti confessionali, è diventato per altri una bandiera di indipendenza e di libero pensiero. I suoi scritti, alcuni memorabili, vanno dalla tecnica giuridica - il suo manuale di procedura penale, ristampato più volte, costituisce ancora riferimento essenziale per gli studi di diritto - alla filosofia, alla teologia, all’antropologia. Ciò che di essi colpisce è la straordinaria miscela di erudizione e originalità, di filologia e di spregiudicatezza ermeneutica.
Se la sua monumentale biografia di Savonarola in quattro volumi contiene ancora una miniera di informazioni per gli studiosi, il suo Commento alla Lettera ai Romani di Paolo di Tarso continua a sorprenderci per la radicalità della sua interpretazione, allo stesso tempo fedele ed estrema. Oggi, in una cultura accademica sempre più proclive a uno specialismo senza nerbo, la vastità e la poliedricità del suo sapere restano una sorta di unicum con cui è difficile stabilire confronti.
Ma questa molteplicità di interessi e di linguaggi non sfocia mai in una sorta di vacuo eclettismo, tanto meno in divulgazione. Al contrario il suo stile di scrittura, a volte denso fino all’ermetismo, costituisce per il lettore una sfida che non può lasciare indifferenti. Si può anzi dire che, nonostante l’ampiezza di orizzonti della sua cultura, tutti i suoi testi sembrano convergere verso un fuoco centrale, al contempo teoretico ed etico-politico.
La forza - nel senso pieno del termine - di Cordero stava nel rifiutare ogni compromesso, ogni risposta troppo facile a questioni complesse, come quella del rapporto tra sacro e profano, teologia e politica, eternità e tempo. Tra di essi, per Cordero, non c’è possibilità di sintesi dialettica. Ma continua tensione tra poli irriducibili, necessari l’uno ad illuminare l’altro non per analogia, ma per contrasto. Egli c’insegna che le grandi contraddizioni, nella vita e nel pensiero, non hanno mai soluzioni facili.
Il suo - potremmo dire - è un pensiero teologico-politico consapevole del rischio di ogni sovrapposizione tra teologia e politica. Come è impossibile fondare razionalmente il sacro, così va evitato ogni sacralizzazione del potere. Che anzi è ciò che Cordero ha combattuto per tutta la vita.
Alla fine dell’insegnamento universitario Cordero ha potenziato il proprio impegno politico attraverso una serie di interventi, articoli, polemiche rimaste insuperate per la loro radicalità e anche fantasia semantica. Come dimenticare le vere e proprie invenzioni lessicali, come quelle indirizzate contro Berlusconi, identificato ora con il "Caimano", ora con un Mackie Messer contemporaneo? Le sue polemiche nei confronti del collasso della cultura politica italiana dei due ultimi decenni hanno avuto un tono aspro e duro, come era il suo carattere.
Oggi forse non sono più di moda. Ma basta rileggere alcuni suoi titoli - da Nere lune d’Italia a Morbo italico - per accorgersi che quei libri parlano ancora di noi. La sua etica, lucida e disperata, è una luce della quale c’è ancora bisogno. Il suo discorso, leopardiano, sopra lo stato presente dei costumi italiani non ha smesso di interpellarci. Esso attende ancora una risposta e una promessa di riscatto all’altezza delle sue domande
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI")
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI ?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA" !!!
Federico La Sala
COSTANTINO, IL CONCILIO DI NICEA, E LA DICHIARAZIONE DELL’HOMOOUSIOS. *
BENEDETTO XVI
Il ritorno di Ratzinger: «Nozze gay e aborto segni dell’Anticristo»
L’anticipazione del nuovo libro del papa emerito
di Redazione Online (Corriere della Sera, 3 maggio 2020).
Il Papa emerito Ratzinger parla di crisi della società contemporanea paragonando al «matrimonio omosessuale» e l’«aborto» al «potere spirituale dell’Anticristo», in una nuova biografia scritta dal suo amico giornalista Peter Seewald, «Ein Leben» che esce lunedì, mentre per la versione italiana e inglese occorrerà aspettare l’autunno, con una intervista dal titolo «Le ultime domande a Benedetto XVI» e che, come nel libro di Sarah, propone ai lettori un verbo che scalda gli animi dell’ala conservatrice della Chiesa, quella parte che gli è rimasta fedele anche dopo la rinuncia dell’11 febbraio 2013. Lo anticipa il sito americano conservatore LifeSiteNews, lo stesso che in questi mesi ha diffuso le uscite anti-Francesco dell’ex nunzio a Washington Carlo Maria Viganò, attacca a testa bassa l’’ideologia dominante’ nella società e opponendosi alla quale, spiega, si è scomunicati. Si percepisce, nel suo dire, l’eco del testo di un anno fa dedicato alla pedofilia, con quella condanna delle aperture iniziate nel ‘68, l’incipit a detta sua del decadimento morale della società e di una crisi irreversibile della Chiesa.
Il nemico è sempre il medesimo: la rivoluzione degli anni Sessanta-Settanta. «Cento anni fa - afferma Benedetto - tutti avrebbero considerato assurdo parlare di un matrimonio omosessuale». Mentre oggi, dice, si è scomunicati dalla società se ci si oppone. E lo stesso vale per «l’aborto e la creazione di esseri umani in laboratorio». E ancora: «La società moderna è nel mezzo della formulazione di un credo anticristiano e se uno si oppone viene punito dalla società con la scomunica. La paura di questo potere spirituale dell’Anticristo è più che naturale e ha bisogno dell’aiuto delle preghiere da parte della Chiesa universale per resistere».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"NUOVA ALLEANZA" ?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
EPIDEMIA, POLITICA, E TEOLOGIA: IL PROBLEMA JEAN-JACQUES ROUSSEAU E L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO...
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO: "[...] Rousseau cerca in tutti i modi di impostare bene il "trattato le cui condizioni siano eque" (Virgilio, Eneide, XI), ma perde il filo e, alla fine, si ritrova a riproporre la religione dei romani - la "religione civile", contro la "religione romana", cattolica ! Senza volerlo, prepara la strada "cattolico-romana" a Fichte, a Hegel, a Marx, a Gentile e a Lenin.
Kant reimposta il problema e riparte, bene : "tutto proviene dall’esperienza, ma non tutto si risolve nell’esperienza" o, diversamente, tutto viene dalla natura ma non tutto si risolve nella natura ; alla fine egli non riesce a sciogliere il nodo e resta in trappola. Al di là del mare di nebbia non può andare e - per non distruggere i risultati della sua esplorazione - si accampa lì dove è riuscito ad arrivare e decide: Io voglio che Dio esista.
Per Kant, Rousseau e Newton, come Locke, non sono stati affatto cattive guide per il suo viaggio. Il suo cammino è stato lungo, fruttuoso e coraggioso : la Legge morale dentro di me, il Cielo stellato sopra di me ! E, onestamente, rilancia di nuovo la domanda antropologica, quella fondamentale: "Che cosa è l’uomo?". Teniamone conto.
Ciò che essi cercavano di capire e quindi di sciogliere era proprio il nodo che lega il problema "religioso", il legame "sociale", il problema di "Dio", il problema della Legge, non quello o quella dei Faraoni e quella di una Terra concepita come un "campo recintato" o assoggettata alla "Moira" di Orfeo e alla Necessità.
Filosoficamente, è il problema dell’inizio ... e, con esso, dell’origine e dei fondamenti della disuguaglianza tra gli esseri umani. Il problema J.J. Rousseau, dunque: No King, no Bishop! Il problema della Legge - e della Lingua: il problema stesso del principio di ogni parola, la Langue, Essai sur l’origine des langues! Da dove il Logos e la Legge?! E, con queste domande, siamo già all’oggi, agli inizi del ’900 : Ferdinand de Saussure ! Ma ritorniamo al problema politico, della Legge della Polis o, come scrive Rousseau, della Citè. La questione è decisiva ed epocale: ed è al contempo questione antropologica, politica, e "teologica". In generale è la questione del rapporto Uno-Molti - una questione lasciata in eredità da Platone, e riproposta da Rousseau, nei termini del rapporto volontà generale - volontà di tutti o del cosiddetto "uno frazionario", e risolta ancor oggi nell’orizzonte moderno (cartesiano) - dopo Cristo, come dopo Dante, Rousseau e Kant - in modo greco, platonico-aristotelico. Una tragedia, e non solo quella di Nietzsche. In tutti i sensi.
Se continuiamo a truccare le carte e confondiamo l’Uno al numeratore con un "uno" degli "uno" o delle "uno" al denominatore finiremo per cadere sempre nella trappola della dittatura, e nel dominio del "grande fratello". E non riusciremo mai a distinguere tra "Dio" Amore [Charitas], e "Dio" Mammona [Caritas] - tra la "volontà generale" dell’Uno e la "volontà generale" di "uno", camuffato da "Uno". Liberare il cielo, pensare l’ "edipo completo" - come da progetto di Freud.
Vedere solo i molti (gli individui, meglio gli uomini e donne in carne ed ossa, le persone) che agiscono, discutono e lottano, e non vedere l’Uno, che è il Rapporto e il Fondamento di tutti e il Rapporto dell’Uno stesso con tutti i vari sotto-rapporti (economici, politici, religiosi, giuridici, pedagogici, familiari, e, persino, di amicizia) dei molti e tra i molti ... non porta da nessuna parte, se non alla guerra e alla morte. In tale orizzonte (relativistico, scettico e nichilistico), chi vuole guidare chi, che cosa può fare, che cosa può insegnare, che cosa può produrre ... se non il suo stesso "uno" - allo specchio ? Un narcisismo personale e istituzionale, imperialistico e ... desertificante !
È elementare, ma è così - come scriveva l’oscuro di Efeso, Eraclito : "bisogna seguire ciò che è comune : e ciò che è comune è il Logos" - la Costituzione, prima di ogni calcolo, per ragionare bene. La Costituzione è il fondamento, il principio, e la bilancia!!! Questo è il problema : la cima dell’iceberg davanti ai nostri occhi, e il punto più profondo sotto i nostri stessi piedi !!! E se non vogliamo permanere nella "preistoria" e, anzi, vogliamo uscirne, dobbiamo stare attenti e attente e ripensare tutto da capo, dalla radice (Kant, Marx), dalle radici: gli uomini e le donne, i molti, e il Rapporto-Fondamento che li collega e li porta - al di là della natura - nella società, e li fa essere ed esseri umani - dopo il lavoro in generale, il rapporto sociale di produzione in generale è la questione all’ordine del giorno nostro, oggi. [....]" . (Cfr.L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana").
LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO, LA FEDELTA’ ALL’ AMORE DI HEIDEGGER ED HANNAH ARENDT, LA FINE DI UN MONOTEISMO CIECO E ZOPPO E LA COMUNITA’ CHE VIENE ... *
A) - UNA CASA DI CURA, UN OSPEDALE DA CAMPO: [...] Proprio un totalitarismo apolitico ed economico - fondato su una idea di soggetto come arbitrario e indefinito dispiegamento delle proprie potenzialità - ha impedito sinora di far fronte a tali questioni. Come la pandemia, si tratta di sfide che minano la sopravvivenza. Il virus ha scoperchiato il tetto e ci ha rigettato nella storia. Si può dunque iniziare da qui: dalla condizione storica in cui ci troviamo, che non è regredibile, e che è quella che la biopolitica analizza con acume. Se è vero che il potere sovrano si rivolge sempre più ai corpi, trovando un paradigma nell’oikos o nel campo, allora la “comunità che viene”, costituita da libertà non pure e astratte, ma malate e inchiodate a questi corpi, non potrà che iniziare a costituirsi nella forma di una casa di cura, o di un “ospedale da campo.” ( Francesco Valerio Tommasi, “Curarsi di. Una libertà inchiodata al corpo e alla storia”, Le parole e le cose, 14 aprile 2020);
B) - “UN NUOVO INIZIO”: “[...] Ma rimane altresì vero che ogni fine della storia contiene necessariamente un nuovo inizio; questo inizio è la promessa, l’unico «messaggio» che la fine possa presentare. L’inizio, prima di diventare avvenimento storico, è la suprema capacità dell’uomo; politicamente si identifica con la libertà umana. «Initium ut esset, creatus est homo», dice Agostino. Questo inizio è garantito da ogni nuova nascita; è in verità ogni uomo” (Hannah Arendt, “Le origini del totalitarismo”, Edizioni di Comunità, Milano 1996);
C) - ANTROPOLOGIA: KANT E LA RISCOPERTA DEL CORPO, LA RICERCA DI ENZO PACI SULLA NASCITA e la “fedeltà all’amore” di HEIDEGGER e ARENDT;
D) - CORONAVIRUS O SOVRANITA’ ( “CORONA VIRTUS”) ?! FILOLOGIA: ECCE HOMO! Ad evitare problemi di un cieco e zoppo monoteismo teologico-politico e biologico e uscire dal letargo e dalla caverna, ricordare che Ponzio Pilato disse: “«Ecco l’uomo» (gr. «idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)”;
E) - LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
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La realtà e i cowboy. A proposito del più grande evento mediatico della storia
di Pierangelo Di Vittorio ("Aut Aut", 07.04.2020)
Al contrario di altri scenari possibili - nei quali la catastrofe, provocando un blackout tecnologico, consegna la sopravvivenza a vecchie risorse “analogiche” - l’attuale pandemia, costringendoci a un confinamento domestico, ha invece esaltato l’uso delle tecnologie digitali. Collegarsi al computer o allo smartphone è diventata, non solo una necessità, per studiare, lavorare, comunicare, ma anche un’occasione per conservare o magari riscoprire le relazioni sociali. Chi in questi giorni non ha provato almeno una volta il piacere di ritrovarsi a chiacchierare con un gruppo di amici o di colleghi in una videochiamata collettiva? Questo potrebbe essere quindi il momento meno adatto per mettersi a fare le pulci al digitale.
Credo tuttavia che una delle poche riflessioni davvero urgenti in questo periodo riguardi, non tanto il digitale in sé, quanto alcuni effetti legati alla sua capacità di industrializzare e massificare alcune tendenze di più lungo periodo. Mi riferisco in particolare alla mediatizzazione o alla messa in spettacolo della vita quotidiana (che va beninteso di pari passo con la riduzione della realtà a merce-spettacolo). La cosiddetta rivoluzione digitale ha sicuramente introdotto delle novità rispetto all’epoca televisiva. In primo luogo, l’alta tecnologia è diventata “personale” (pc, tablet, smartphone); in secondo luogo, grazie all’accessibilità di tale tecnologia personale e di tutto quello che essa consente di fare, forse per la prima volta nella storia moderna è venuta meno la tradizionale distinzione tra proprietari dei mezzi di produzione e operai, tra produttori e consumatori, tra attori e spettatori. Si tratta quindi di una novità che introduce una discontinuità fondamentale, ma che può essere vista al tempo stesso come un ulteriore giro di vite nel lungo processo di “democratizzazione” delle nostre società, il cui esito, troppo spesso trascurato, è che l’uomo comune si ritrova al centro del sistema come una specie di divinità paradossale - essendo ciò che, per principio, si oppone a ogni forma di unicità, di eccezionalità, di trascendenza.
Ora, forse non ce ne siamo accorti, le priorità sono ben altre, ma quello che stiamo vivendo, anche per le ragioni che dicevo prima, è il più gigantesco evento mediatico della storia dell’umanità. Penso ai comunicati radio e ai cinegiornali durante la Seconda guerra mondiale; al processo contro Adolf Eichmann a Gerusalemme nel 1961; all’allunaggio di Armstrong e compagni nel 1969; alla caduta del muro di Berlino nel 1989 e agli eventi sportivi di rilevanza mondiale: la pandemia li ha surclassati tutti. Perché?
Per la sua globalità, certo. Per la sua durata, anche. Per la sua gravità, indubbiamente. Ma c’è dell’altro. Credo - e qui veniamo alla novità introdotta dal digitale - che la ragione stia soprattutto nel fatto che tutti, in tutto il mondo, tutti i giorni e per molti giorni, abbiamo contribuito alla “messa in scena” della realtà della catastrofe: dal papa che usa piazza San Pietro deserta come set di un thriller apocalittico alla Dan Brown; ai grandi filosofi che usano il virus come paesaggio su cui stagliare le loro più o meno logore o inopportune teorie; alle autorità governative e sanitarie che tengono messa ogni sera; ai sindaci che se vanno in giro nelle città deserte a fare i giustizieri stile Charles Bronson; all’esercito di politici, esperti, opinionisti, giornalisti che remano come schiavi dietro una prima pagina che non cambia mai; agli uomini e le donne del mondo della cultura, dell’arte e dello spettacolo che si autopromuovono con la scusa di #iorestoacasa; a ciascuno di noi, e siamo la maggior parte, persone comuni che, oltre a riverberare all’infinito le agenzie di cui sopra, offrendo al mondo le nostre quotidiane pillole di saggezza religiosa, filosofica, scientifica, politica ecc., celebriamo noi stessi attraverso l’auto(docu)fiction, i vari diari intimi della pandemia, gli improvvisati spettacolini firmati #iorestoacasa e #celafaremo, le continue valanghe di news e fake news, video, meme e altri contenuti “umoristici” che invadono i social network, saturano le chat di whatsapp ecc.
Sì, celebriamo noi stessi, perché l’uomo comune, non dimentichiamolo, è il centro del sistema, mentre la catastrofe fa da sfondo, come il Colosseo o la Tour Eiffel in tempi “normali”, anche se questo sfondo è fondamentale, trattandosi di “capitale mediatico”, anzi, in questo momento, della soglia mediatica che dà accesso a una condizione di “esistenza” (mediatica e tout court: si può esistere oggi senza passare dalla pandemia, senza parlare del virus, senza mostrarsi con il poster della catastrofe alle spalle?). Il selfie con il virus è diventato lo sport più praticato sul pianeta. Sarà salutare? In ogni caso sembra di assistere al più grande (auto)sciacallaggio mediatico della realtà che sia mai stato compiuto nella storia dell’umanità. Sarà giusto parlarne? O saremo tacciati di disfattismo, di terrorismo? Correremo il rischio. Però chi, in questi giorni, almeno una volta, non ha pensato che la viralità mediatica della pandemia fosse almeno pari a quella biologica del virus stesso? In fondo si tratta di questo. Poi ci sono le priorità. Certo.
A dire il vero, non abbiamo dovuto aspettare la pandemia per assistere all’affermarsi di tale fenomeno: da tempo l’uomo comune è diventato il protagonista del film ininterrotto (e autoprodotto: self-cinema, come si parla di self-publishing ecc.) della propria vita quotidiana. Un film nel quale la realtà stessa è l’unica scenografia, al punto da rendere difficile distinguere dove finisca il primo e dove inizi la seconda. Un film che è solo la mediatizzazione o la messa in spettacolo della realtà più immediata, banale o triviale. Un film che è il reality show della nostra vita quotidiana.
Sarà pure legittimo chiedersi che effetti produce tutto questo sulla nostra relazione con la realtà? E quindi sulla possibilità stessa di costruire delle relazioni - con noi stessi, con gli altri, con il mondo che ci circonda? Perché, attenzione: non si tratta di sostenere, ingenuamente, che la realtà è solo “quella cosa lì” che possiamo toccare, la realtà fisica, materiale, mentre tutto il resto, ossia ciò che chiamiamo genericamente “immateriale”, appartiene al mondo della fantasia. Nulla di tutto questo.
Si tratta invece di considerare la realtà come il piano delle relazioni “possibili” (in senso kantiano), materiali o immateriali che siano. E le relazioni sono possibili nella misura in cui c’è sempre qualcosa che ci sfugge, nel senso che in esse si apre una dimensione che non ci fa mai essere del tutto a casa nostra, che entra in gioco qualcosa che ha a che fare con l’“altro”.
La relazione di realtà è quel nesso che ci connette con e attraverso una forma di alterità (a cominciare dal rapporto con noi stessi), e che ci espone quindi a qualcosa che non “padroneggiamo” mai del tutto. La realtà è il non-padroneggiabile e la relazione di realtà è ciò che ci mette in contatto con l’altro, “alterandoci” in questo stesso contatto.
Intuiamo forse quanto la ricchezza, l’ipertrofia della nostra connessione sul piano mediatico (che tende a trasformare l’eterogeneo in omogeneo, l’estraneo in familiare) vada di pari passo con una profonda, galoppante miseria della nostra connessione sul piano della realtà. Il film continuo della nostra vita quotidiana, la sua trasformazione in reality ci dissocia in modo “sistematico”, e perciò drammatico, dalla realtà stessa; ci priva di quella rete di relazioni, rischiose ma creative, che ci fanno entrare in contatto con l’alterità, che ci fanno esperire la realtà stessa come e nella sua alterità; e che attraverso il gioco dei conflitti e delle alleanze, rendono possibile la trasformazione di quello che è in qualcos’altro.
Che cosa accade invece quando la realtà diventa la scenografia della nostra vita domestica? Quando è “addomesticata” in un dispositivo mediatico del quale siamo noi stessi gli artefici e i protagonisti? Gli eterni e immutabili padroni di casa? -Succede che la vertigine dell’alterità viene meno. E questo vuol dire che ci disconnettiamo dalla realtà come piano delle relazioni possibili, e cominciamo a coltivare l’idea che la realtà stessa sia come il giardino di casa: la pericolosa illusione che, qualsiasi cosa accada, noi siamo sempre in sella e teniamo saldamente le briglie. Che si tratti di migrazioni o di cambiamenti climatici, di crack finanziari o di epidemie, ci proiettiamo e ci vediamo come gagliardi cowboy che scorrazzano nella realtà. Il che, me lo concederete, più che infantile, è idiota.
L’idiozia del tizio che fa una rapina e poi si spara un selfie con il bottino in mano all’uscita della banca pubblicandolo immediatamente su facebook - è solo un esempio di fantasia, per ridere, cioè per non piangere citando il caso, realmente accaduto, di quei ragazzi di Manduria che per anni hanno vessato e picchiato un anziano, fino a causarne la morte, e che hanno continuato a filmare e diffondere in rete le loro belle gesta. Effettivamente, in questi casi, la dissociazione - dal rapporto con la realtà e dalle connessioni che il piano della realtà rende possibili - si nota con una certa evidenza. Ma sono casi singoli, si dirà. Eccezioni. Derive. D’accordo. Ma che dire allora del film apocalittico di massa, realizzato in tempo reale e intitolato vox populi “Ai tempi del coronavirus” (circa 1.400.000.000 risultati in 0,41 secondi, appena ho lanciato la ricerca, in italiano, di questa frase su Google: oggi 6 aprile 2020)?
Fare presa sul piano di realtà è sempre importante ma, potremmo chiederci, non diventa addirittura decisivo se la realtà ha un aspetto “catastrofico” - nel senso di un evento che, sottraendoci brutalmente alla nostra routine, ci obbliga a porci almeno il “problema” di come sopravvivere? Nel momento in cui la realtà è più altra e alterante del solito, quando la padroneggiamo meno del solito, o magari non la padroneggiamo affatto, non diventa primordiale costruire una serie di relazioni possibili - come per il naufrago diventa primordiale costruire una zattera con quel poco che ha a disposizione - invece di continuare a fare i cowboy?
Forse passeremo alla storia come i passeggeri di un nuovo Titanic, occupati a farci dei selfie mentre l’iceberg, a fauci spalancate, si avvicinava alle nostre spalle.
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ...
Chi è il mostro oggi? Il coronavirus, la Merkel, l’Europa o forse noi stessi?
di Nicla Vassallo e Sabino Maria Frassà *
In attesa di un picco che non arriva, chiusi nelle nostre case, attraversiamo giorni claustrofobici e interminabili. Perduti in noi stessi, ci aggiriamo nelle nostre abitazioni-prigioni come se queste fossero labirinti. Dalla mitologia greca riusciamo ad attingere, quasi sempre, un appiglio significativo al fine di evitare un panico illimitato, che può condurci ad azioni del tutto irragionevoli, quale quella ad esempio di spendere le giornate inseguendo il roboante susseguirsi di notizie e numeri (per dolo o colpa) poco chiari riguardo lo sviluppo della pandemia di Coronavirus. Cerchiamo perciò di conferire un senso alla claustrofobia, pure oggettiva, ragionando sull’accezione di mostro. Chi è il mostro oggi?
IL MINOTAURO CORONAVIRUS
Recependoci smarriti e intrappolati nel labirinto della nostra psiche, ci sovviene in mente il mito del labirinto di Cnosso, abitato dal Minotauro. Frutto della gelosia e punizione divina, il Minotauro è feroce, impietoso, mostruoso, pure sul piano figurativo: il suo corpo ricalca quello di un maschio/uomo, mentre la sua testa quella di un toro. Teseo si offre di uccidere il Mostro e vi riesce. Rimane il problema di uscire dal labirinto, problema che viene risolto grazie all’ingegnosità e intelligenza di Arianna, con il suo noto e semplice filo rosso. Molti possono ritenere che il Minotauro sia il Coronavirus, mentre le ricerche scientifiche somiglino al il filo d’Arianna: troveranno il vaccino e ci consentiranno di sopravvivere piuttosto bene anche al post-virus? In ogni caso, al cospetto del Coronavirus, il Minotauro pare mostruoso, in una misura decisamente inferiore. Il Minotauro, alla fin fine, esige da Atene solo sette ragazzini e altrettante ragazzine all’anno, mentre sulla strage causata dal Coronavirus, quando e se verrà sconfitto, il numero di persone morte si ipotizza assai alto a livello mondiale. Ed economicamente come ci ritroveremo? Cosa prevarrà nei sopravvissuti? Egoismo? Altruismo? Narcisismo? Individualismo? E che dire della possibile crescita esponenziale di populismi e nazionalismi?
LA MEDUSA GERMANIA-EUROPA
Sempre alla mitologia greca dobbiamo Medusa, mostro che a differenza di altri/e, è mortale e con un tratto specifico, ovvero una testa cinta soprattutto di serpenti. Siamo portati a credere che la “nostra” Medusa sia la Germania, in quanto pietrifica ogni generosità europea e che l’Europa ci salvERà. Invece, da qualche giorno, stiamo osservando il problema in modo diverso, dato che quest’Europa pare non risultare affatto Gli Stati Uniti d’Europa, ovvero una Repubblica Federale, composta da più membri (Stati), tra loro uniti. Occultare l’attuale realtà non serve a nulla, se non a precipitare in un pericoloso auto-inganno: un aspetto innegabile della realtà è il fatto che l’Unione Europea si è trasformata (grazie anche a una certa recente politica del nostro paese) in un coacervo di avidità nazionali, con in testa la Germania e i pochi Paesi “ricchi” e virtuosi Paesi, che mal tollerano gli “scapigliati” e “spreconi” cugini poveri e “meridionali”.
LA CICLOPICA MERKEL
Riflettiamo infine sulla narrazione politica di questi giorni che descrive una fredda nonché calcolatrice Merkel in quarantena dopo l’incontro con un medico, risultato positivo, mentre adotta rigide misure nei confronti dei tedeschi. E che lo stesso stiano facendo i suoi colleghi di mezzo Mondo (Gran Bretagna, USA, Olanda in ordine sparso). Occorre chiedersi perché, fino a poco fa, si siano tutti percepiti immuni dal virus. Siamo alle solite, o no? Merkel: un “mostro” che cavalca i “conformisti cervelli” tedeschi? Anche, ma forse ci dimentichiamo come negli anni la Germania abbia destinato più risorse del proprio PIL alla sanità rispetto ad altri Paesi (che hanno magari preferito “investire” in pensioni insostenibili) e come sia un Paese che non ha bisogno di impiegare esercito o forze dell’ordine per far rispettare regole e leggi anti pandemia.
“Questo Mostro - sempre così latente - dovrebbe renderci più umili. Invece la nostra debolezza ci conduce spesso ad affondare nella palude della paura e della tuttologia, per abbracciare una colpevole strategia comunicativa, di matrice politica, che ammicca tanto a una legittime angosce, tanto nell’antico amor di sé, da cui non ricaviamo alcun aiuto, né sostegno. Avendo perso il nostro filo rosso, aiutiamoci a volare più in alto per vedere insieme non il mostro, ma quale sia la via d’uscita dal labirinto.“. Nicla Vassallo e Sabino Maria Frassà
CHI E’ ALLORA IL MOSTRO?
Sarebbe preferibile ammettere che non riusciamo a conferire un nome al Mostro. Non solo la realtà è così complessa e non c’è un unico mostro/nemico, ma dobbiamo ammettere che il “colossale”, nonché più che ragionevole, consiste nel nostro palese coinvolgimento in una situazione di cui risulta difficile una “veduta a volo d’uccello”, più alta e serena, basilare al fine di discernere tra miti e realtà. Oggi è meglio sospendere giudizi univoci, mantenere la lucidità e nutrire dubbi piuttosto che sentenze.
Possiamo così affermare che il Mostro non è un virus, né un singolo Stato né un evento. Il Mostro risiede in noi e si alimenta dalle e nelle difficoltà e condizioni avverse. Cerchiamo di guardare ai Mostri finora elencati con uno sguardo a volo d’uccello: il coronavirus è probabilmente determinato da uno sviluppo umano non sostenibile e dal conseguente cambiamento climatico. L’egotismo tedesco rintraccia un terreno fertile in quella politica italiana che ha fatto schizzare la spesa pubblica e il debito per fini meramente populistici, non affatto ai fini della crescita sul medio-lungo termine del Paese. Dopo la clamorosa bocciatura della Costituzione, l’Europa ha perduto la propria generosità perché di fatto l’Europa sognata dai Padri fondatori oggi non esiste e non esiste a causa del prevalere di troppi sovranismi (anche nostrani) oggi recriminanti.
COME CURIAMO I NOSTRI MOSTRI?
Come ci insegnano i Miti greci, all’intelligenza, alla razionalità e a una qualche astuzia dobbiamo la salvezza dai nuovi e illimitati Mostri, che accompagnano le nostre esistenze dall’inizio dei tempi.
Nel presente momento di difficoltà ci si appella profusamente all’empatia, anche se sarebbe forse meglio richiamare il bisogno di compassione e sostegno reciproco. La differenza non è poca: si corre infatti il rischio di limitare il nostro potere di reazione a bandierine, canzoncine e disegni, ovvero alla tentazione di crogiolarsi nella sofferenza. Abbiamo invece bisogno di saper condividere tale sofferenza, il che, pur non rinnegando i limiti e le difficoltà dell’oggi, si situa all’opposto di azioni e linguaggi che generano panico nell’altro-da-sé. Il Coronavirus è sì il Mostro (o uno dei mostri) di turno, al pari di altre pandemie che ci hanno afflitto in passato, ma pure al pari dell’atomica, impiegata a fini militari, dell’11 settembre, dell’Isis, e via dicendo, il che dovrebbe farci riflettere con sulla nostra “universale” condizione errante, sulla finitezza umana, sull’impossibilità dell’onniscienza.
Questo Mostro - sempre così latente - dovrebbe renderci più umili. Invece la nostra debolezza ci conduce spesso ad affondare nella palude della paura e della tuttologia, per abbracciare una colpevole strategia comunicativa, di matrice politica, che ammicca tanto a legittime angosce, quanto all’antico amor di sé, da cui non ricaviamo alcun aiuto, né sostegno. Avendo perso il nostro filo rosso, aiutiamoci a volare più in alto per vedere insieme non il mostro, ma quale sia la via d’uscita dal labirinto.
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Nicla Vassallo e Sabino Maria Frassà, 1° aprile 2020 - dalla Quarantena ("amanutricresci").
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana .....
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. FACHINELLI, "SU FREUD".
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
SCIENZA, STORIA E MEMORIA. PORTARSI DOPO DEWEY ....
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ALLA LUCE DEL GRANDE “SUCCESSO” NELLA CAPACITA’ DI ANALISI DELLA DIFFUSIONE DEL CORONAVIRUS mostrato dal CNR, il Consiglio Nazionale delle Ricerche (“Coronavirus. Rischio basso, capire condizioni vittime”, 22/02/2020), e della condivisione dei suoi “risultati” da parte di Giorgio AGAMBEN (”Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata”, il manifesto, 26/02/2020) , CONDIVIDENDO l’urgenza di accogliere “La sfida del Covid-19 alle scienze umane”, mi sia lecito rinviare ad alcune note dell’anno scorso (2019) proprio sul tema del “processo di apprendimento nelle due culture”. Forse, è proprio ora di uscire dal letargo e riprendere la navigazione “sotto coverta” e “il dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” con Galileo Galilei. O no?!
LA SOVRANITA’ (LA “CORONA”) DEL “VIRUS”, LA “PACE PERPETUA”, E LA RISATA DI KANT. Nota ... *
* Nota:
LA SOVRANITA’ (LA “CORONA”) DEL “VIRUS”, LA “PACE PERPETUA”, E LA RISATA DI KANT...
CONSIDERATO, PURTROPPO, CHE ” Le riflessioni” di Agamben non riguardano l’epidemia del CORONAVIRUS, “ma ciò che possiamo capire dalle reazioni degli uomini ad essa”, ACCOLTA “L’ipotesi [...] che in qualche modo, sia pure inconsapevolmente, la peste c’era già [...]”
E CONDIVISA L’IDEA CHE BISOGNA RIFLETTERE SUL “[...] bisogno di religione che la situazione fa apparire. Ne è indizio, nel discorso martellante dei media, la terminologia presa in prestito dal vocabolario escatologico che, per descrivere il fenomeno, ricorre ossessivamente, soprattutto sulla stampa americana, alla parola «apocalisse» e evoca, spesso esplicitamente, la fine del mondo [...]”
E, ANCORA, CHE “come sempre in questi casi, alcuni esperti o sedicenti tali riescono ad assicurarsi il favore del monarca, che, come ai tempi delle dispute religiose che dividevano la cristianità, prende partito secondo i propri interessi per una corrente o per l’altra e impone le sue misure. [....] sulla paura di perdere la vita si può fondare solo una tirannia, solo il mostruoso Leviatano con la sua spada sguainata” (cf. G. Agamben, “Riflessioni...” : https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-riflessioni-sulla-peste),
PER NON PERDERE IL “FILO” DI “SOFIA” E, CON ESSA, ANCHE LA VITA E LA “SOVRANITA’ (LA “CORONA”) DEL SUO “SAPERE AUDE!”, IO RIPRENDEREI IL DISCORSO dalla citazione evangelica, utilizzata anche dallo stesso Agamben in “Pilato e Gesù” (nottetempo 2013), relativa al problema dell’ ECCE HOMO (cfr. RITORNARE A SCUOLA DA PONZIO PILATO ... http://www.leparoleelecose.it/?p=37854#comment-426632) e dalla LEZIONE DI KANT sull’UOMO SUPREMO DI EMANUEL SWEDENBORG (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5028) E SULLA “fine di tutte le cose” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5026). O no?! Boh e bah?!
Federico La Sala
MUSICA, POLITICA, E PIFFERAIO MAGICO...
PER CARITÀ...
MUSICA, POLITICA, E PIFFERAIO MAGICO: RIATTIVARE LA MEMORIA della TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE, della “Wohl-tätigkeit”, della carità! “THE SHAWSHANK REDEMPTION” : LA “MOS-ART” (“arte di Mosé”)! Una breve sequenza dal film “Le Ali della Libertà”.
Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus *
Il senso profondo della preghiera.
Con Lui davanti al Dio della vita
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, venerdì 27 marzo 2020)
Il Capo se ne sta, dritto e umile, tra Dio e il suo popolo. Non fronteggia l’assemblea degli anziani e la folla dei fedeli, per questa volta. Fronteggia il Signore suo e nostro, il Padre di tutti, il Dio della vita che mille volte già ci ha fatto uscire dalle prigioni della storia, rimettendoci in cammino, perché potessimo celebrare le sue benedizioni e testimoniare la sua misericordia.
Il Capo supplica Dio, per la nostra vita e per le sue promesse, di non abbandonarci. Non siamo stinchi di santi, ma siamo uomini e donne che portano - spesso loro malgrado - i segni della presenza dell’amore di Dio nella storia. Non ne siamo affatto all’altezza: non siamo i migliori che Dio avrebbe potuto trovare, portiamo il tesoro della sua benedizione in vasi di creta, raggiustati più volte, che stanno insieme per miracolo. Però, siamo quelli che Lui si è preso. E abbiamo arrancato per generazioni dietro a Lui: molti hanno perso il passo, molti sono rimasti indietro, molti hanno perso le forze e persino la fiducia. Siamo quello che siamo. Eppure, siamo uomini e donne che tutto vorrebbero, eccetto che essere separati da Lui.
E non abbiamo mai pensato veramente che una creatura umana - chiunque - possa essere abbandonata da Lui. Il Capo, da solo davanti a Dio, rappresenta solennemente tutti noi. E non si sottrae a questo legame profondissimo e struggente. Un vero capo è così. La sua preghiera, in più, ha in serbo una mossa che lo espone direttamente: irresistibile anche per Dio. ’Se tu pensassi di abbandonarli, Signore, con tutto il rispetto, abbandona anche me, perché neppure io potrei seguirti’. Un vero capo arriva a questo. Guardo il papa Francesco nel mezzo di piazza san Pietro, vuota del consueto assembramento, che sta in mezzo fra Dio e il popolo per caricare su di sé il simbolo stesso dell’intercessione, in nome di tutti i credenti e in favore di tutti i viventi. Non posso fare a meno di pensare a quel commovente passaggio della preghiera di Mosè per il popolo, quando osa dire a Dio che non sarebbe un buon segno - per Lui - se abbandonasse il popolo ora, dopo averlo salvato da mali ben peggiori.
Dopo l’episodio del vitello d’oro, infatti, Dio offre a Mosè un nuovo inizio, più o meno in questi termini: ’Facciamola finita con questi, farà di te l’inizio di un nuovo popolo e di una nuova storia’ Mosè, però, respinge l’offerta, supplicando per il popolo: ’Sono quelli ai cui padri e madri hai fatto promesse irrevocabili’ (cfr. Esodo, 32, 10). Il senso profondo della preghiera e dell’atteggiamento dell’intercessione si illumina, qui, di uno splendore emozionante. Così è un vero capo. Nello stesso modo si comporta un vero sacerdote, un vero testimone, un vero credente: ’si mette in mezzo’, esponendosi in prima persona di fronte a Dio stesso, per la vita di ognuno: ’Se li abbandoni, non contare su di me’. Gesù - il Capo reale della Chiesa - ha sigillato l’atto tenero e potente di questa intercessione dalla parte stessa di Dio, iscrivendolo nell’intimità profonda e insondabile del Padre. È il nostro dogma questo, il dogma di tutti i dogmi, capisci? Il Figlio si mette in mezzo, il Figlio intercede, il Figlio non ha nessuna intenzione di abbandonarci, anche quando siamo insopportabilmente inaffidabili.
Nell’orto degli Ulivi, Gesù chiese di essere preso lui soltanto, lasciando i discepoli (Giovanni 18, 7-9). In croce, inchiodato davanti al Padre, chiese di risparmiare i suoi stessi persecutori (Luca 23, 34). Riscoprire il gesto dell’intercessione fino a questa profondità è un miracolo. E nei tempi difficili per il popolo, una grazia insostituibile. Ciascuno di noi è chiamato a riscoprire, anche nel suo forzato isolamento, la benedizione del gesto di intercessione. Ognuno, per gli altri. L’essenza del cristianesimo sta qui, la certezza della redenzione sta qui. L’intercessione comunica un messaggio potente. Non pensate neppure per un istante che i nostri peccati possano indurre Dio ad abbandonarci nella prova. E non scaricate sul vostro prossimo i mali che ci affliggono, sostituendo l’intercessione con l’intimidazione. In momenti di straordinaria angoscia, il semplice e coraggioso gesto dell’intercessione, che supplica di Dio di non abbandonare nessuno, testimoniando che noi stessi non lo faremo, non ha prezzo. È un giuramento di fedeltà che ricompone la comunità: per ciascuno e per tutti. Non ci muoveremo da qui.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
NOTE ALLA "Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi". Il lavoro di Emilio Gentile.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
FLS
NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ": LO STATO DI "ECCEZIONE UMANA" ....*
La comunità degli abbandonati
di DIVYA DWIVEDI - SHAJ MOHAN *
Per molto tempo l’India è stata un paese ricco di gente eccezionale, il che ha svuotato di significato il concetto di ‘stato di eccezione’ o quello della sua ‘estensione’. I bramini sono eccezionali perché solo loro possono presiedere ai rituali che regolano l’ordine sociale e perché non possono essere toccati (meno che mai desiderati) da coloro che appartengono alle caste inferiori per tema di minare la purezza del rituale. In tempi moderni, in alcuni casi, questo prevede servizi igienici separati per loro. A loro volta anche i Dalit, le persone delle caste più basse, non possono essere toccate, e tantomeno desiderate, dalle caste superiori perché ritenute le più ‘impure’. Come si può notare, l’eccezione del bramino è diversa dall’esclusione del Dalit. Una delle caste dei Dalit chiamata ‘paria’ è diventata nell’opera di Arendt un ‘paradigma’, illuminandone tristemente la realtà di sofferenza. Nel 1896, quando la peste bubbonica arrivò a Bombay, l’amministrazione coloniale britannica cercò di contrastare il diffondersi della malattia con l’emanazione dell’Epidemic Diseases Act (legge sulle malattie epidemiche) del 1897. Ma le barriere tra le caste, tra cui la richiesta da parte delle caste più alte di ospedali separati e il rifiuto di ricevere assistenza medica da persone di caste inferiori appartenenti al personale medico, andarono a sommarsi alle cause di morte per più di dieci milioni di indiani.
La diffusione del coronavirus[1], che ha infettato più di 100.000 persone a quanto dicono le cifre ufficiali, porta allo scoperto la domanda che oggi ci poniamo su noi stessi - Vale la pena di salvarci, e a quale costo? Ci sono da un lato le teorie complottistiche, che vanno dalle ‘armi biologiche’ a un presunto progetto globale di frenare le ondate migratorie. Dall’altro, ci sono fastidiosi equivoci, dalla convinzione che il COVID-19 si propaghi attraverso la birra Corona, alle notazioni razziste sui cinesi. Ma ancora più preoccupante è che, in questa con-giuntura di morte di dio e di nascita del dio meccanico, perdura una crisi che riguarda direttamente il ‘valore’ dell’uomo. Si vede nelle reazioni alla crisi climatica, nell’‘esuberanza’ tecnologica, e nel coronavirus.
Prima l’uomo si conquistava il proprio valore tramite svariate teo-tecnologie. Per esempio, ci si poteva immaginare che creatore e creatura fossero la determinazione di qualcosa di precedente, per esempio “l’essere”, dove il primo si dava come infinito e il secondo come finito. In una divisione di questo tipo, si poteva pensare a dio come uomo infinito e all’uomo come dio finito. Nel nome dell’uomo infinito gli dei finiti eleggevano i loro scopi. Oggi, deleghiamo la determinazione degli scopi alla macchina, quindi il suo ambito a questo punto si può definire tecno-teologico.
È in questa con-giuntura particolare che vanno considerate le recenti osservazioni di Giorgio Agamben, secondo il quale le misure di contenimento contro il COVID-19 vengono impiegate come un’“eccezione” volta a permettere un incredibile ampliamento dei poteri dei governi nell’imporre restrizioni straordinarie alle nostre libertà. Cioè, le misure adottate, con notevole ritardo, dalla maggior parte degli stati per prevenire la diffusione di un virus che potenzialmente può uccidere almeno 1% della popolazione, potrebbero condurre al livello successivo di “eccezione”.
Agamben ci chiede di scegliere tra “l’eccezione” e l’ordinario benché la cosa che lo preoccupi sia che l’eccezione diventi la regola.[2]
Jean-Luc Nancy ha in seguito risposto a questa obiezione osservando che oggi ci sono solo eccezioni, vale a dire, tutto quello che un tempo consideravamo ordinario è ormai infranto.[3]
Nel suo ultimo saggio, Deleuze si riferiva a ciò che ci interpella alla fine di tutti i giochi tra ordinarietà ed eccezioni come a “una vita”[4]; ovvero che si è afferrati dalla responsabilità quando ci si confronta con una vita individuale che è nella presa della morte. Morte e responsabilità vanno insieme.
Occupiamoci allora della non-eccezionalità delle eccezioni. Fino alla fine del 1800, negli ospedali molte donne incinte dopo aver partorito morivano di febbre puerperale o di infezioni post-parto. A un certo punto, un medico ungherese, Ignác Semmelweis, si rese conto che ciò succedeva perché le mani degli operatori sanitari veicolavano agenti patogeni passando da un’autopsia a un paziente, o dall’utero di una donna a un’altra, provocando così infezioni e morte. La soluzione proposta da Semmelweis fu di lavarsi le mani dopo ogni contatto. Per questa ragione fu trattato come un’eccezione e messo al bando dalla comunità medica. Morì di setticemia in manicomio, pare contratta dopo essere stato bastonato dalle guardie. In realtà, i sensi delle eccezioni sono infiniti. Nel caso di Semmelweis, la tecnica stessa per combattere le infezioni rappresentava l’eccezione. Nella Politica, Aristotele ha parlato del caso dell’uomo eccezionale, come di colui che sa cantare meglio del coro, che viene messo al bando in quanto dio tra uomini.
Non c’è un unico paradigma per l’eccezione. La via di una patologia microbica è diversa di quella di un’altra. Per esempio, gli stafilococchi vivono all’interno del corpo umano senza arrecare difficoltà, anche se scatenano infezioni quando la risposta del nostro sistema immunitario è “eccessiva”. Al punto estremo dei rapporti non-patogeni, i cloroplasti nelle cellule vegetali e i mitocondri nelle cellule del nostro corpo rappresentano delle convivenze antiche e ben assorbite tra specie differenti. In particolare, virus e batteri non ‘intendono’ uccidere il loro ospite, perché non è sempre nel loro ‘interesse’[5] distruggere l’unico tramite che gli permette di sopravvivere. Sul lungo termine - milioni di anni di tempo della natura - “tutte le cose imparano a vivere insieme” o per lo meno raggiungono un equilibrio reciproco per lunghi periodi. Questo è il senso che ha il biologo della temporalità della natura.
In anni recenti, in parte in seguito a pratiche agricole, microrganismi che vivevano in modo indipendente l’uno dall’altro si sono uniti e hanno cominciato a scambiarsi materiale genetico, a volte solo frammenti di DNA e RNA. Quando questi organismi hanno fatto il “salto” e sono passati agli esseri umani, a volte per noi sono cominciati disastri. Il nostro sistema immunitario percepisce questi nuovi arrivati come uno shock e, sopravvalutandone le risorse, induce infiammazioni e febbre che spesso uccidono noi e anche i microrganismi.
Etimologicamente il “virus”[6] è legato al veleno. È un veleno nel senso che quando un nuovo virus trova una soluzione negoziata con gli animali umani, noi siamo già morti da un pezzo. Ossia, ogni cosa può essere considerata secondo il modello del pharmakon (che è sia veleno che cura) se ci basiamo sul tempo della natura. Ma la distinzione tra farmaco e veleno per lo più riguarda il tempo dell’uomo, l’animale meraviglioso. Ciò che si definisce ‘biopolitico’ prende posizione partendo dal presupposto di una temporalità della natura, e di conseguenza trascura quello che è un disastro nell’ottica del nostro interesse in - la nostra responsabilità per - “una vita”, cioè la vita di tutti coloro che rischiano di morire per aver contratto il virus.
Qui sta il nocciolo della questione: siamo stati in grado di determinare gli ‘interessi’ del nostro sistema immunitario dando luogo a eccezioni in natura, per esempio attraverso il metodo di Semmelweis di lavarsi le mani e attraverso le vaccinazioni. Siamo una specie animale che non ha epoche biologiche a sua disposizione per poter perfezionare ogni intervento. Per cui, anche noi, come la natura, commettiamo errori di codifica e generiamo mutazioni in natura, rispondendo a ogni necessità nei modi migliori che possiamo.
Come ha fatto notare Nancy, l’uomo come eccezionale artefice di tecnologie e meraviglioso a sé stesso, fu pensato molto tempo fa da Sofocle nella sua ode all’uomo. Analogamente, diversamente dal tempo della natura, gli esseri umani si preoccupano di questo momento, che deve condurre al successivo con la sensazione che noi siamo gli abbandonati: coloro che sono condannati a chiedere “il perché” del loro esistere ma senza avere i mezzi per chiedere. O, come precisava Nancy in una lettera privata, ‘abbandonati da nulla’.
Il potere di questo “essere abbandonati” è diverso dagli abbandoni rappresentati dall’assenza di cose particolari le une rispetto alle altre. Questo essere abbandonati esige, come abbiamo visto in Deleuze, che ci si prenda cura di ogni vita in quanto preziosa, pur sapendo al contempo che nelle comunità degli abbandonati possiamo sperimentare la chiamata della vita individuale abbandonata di cui noi soli possiamo prenderci cura. Altrove abbiamo chiamato l’esperienza di questa chiamata dell’abbandonato, e la possibile nascita della sua comunità dalla metafisica e l’ipofisica, ‘anastasis’[7]
Tradotto dall’inglese da Fiorenza Conte. A cura dell’European Journal of Psychoanalysis.
[1] Per pura coincidenza, il nome del virus è ‘corona’, la metonimia della sovranità.
[2] Il che ovviamente è stato percepito come una non-scelta da quasi tutti i governi dopo il 2001 per rendere sicuri tutti i rapporti sociali in nome del terrorismo. La tendenza importante in questi casi è che la securizzazione dello stato è proporzionata alla aziendalizzazione di quasi tutte le funzioni dello stato.
[3] Si veda, Jean-Luc Nancy, L’intruso, Cronopio, 2005.
[4] Si veda, Gilles Deleuze, Immanenza: una vita, Mimesis, 2010.
[5] È assurdo attribuire un interesse a un micro-organismo, e i chiarimenti a questo proposito potrebbero occupare più spazio di quanto concesso per questo intervento. Oggi è altrettanto impossibile determinare l’“interesse dell’uomo”
[6] Da notare che i “virus” esistono sulla linea critica tra vivente e non-vivente.
[7] Shaj Mohan, Divya Dwivedi, Gandhi and Philosophy: On Theological Anti-Politics, prefazione di J.-L. Nancy, Londra, 2019.
* Fonte: "Antinomie", 12/03/2020 (ripresa parziale).
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ" ! DI FRONTE A PONZIO PILATO E NON CAPIRE UN’ACCA ?!
Federico La Sala
L’ECCE HOMO, L’8 MARZO AL TEMPO DEL “CORONA VIRUS”, E LA MEMORIA DI CHRISTINE DE PIZAN ...
ALLA LUCE DEL CHIARIMENTO DEL SIGNIFICATO DELLE PAROLE DI PONZIO PILATO: “ECCE HOMO”(cfr. sopra : https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/26/dialetti-salentini-piticinu/#comment-269838), si comprende meglio anche il significato delle parole di Christine de Pizan, l’autrice della “Città delle dame” : «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable » (« Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi» - cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Christine_de_Pizan), che dicono ovviamente non della “metamorfosi” in “vir” - uomo, ma della “metanoia” in “homo” - essere umano (su questo, in particolare, si cfr. Michele Feo, “HOMO - Metanoia non Metamorfosi”, “dalla parte del torto”, Parma, autunno 2019, numero 86, pp. 12-13).
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ASTREA ! “IAM REDIT ET VIRGO” ...
CARO ARMANDO... RICORDANDO DI NUOVO E ANCORA IL TUO PREGEVOLISSIMO LAVORO SU- GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA (si cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/#comment-238474), E LA TUA CONNESSIONE TRA LA “PIZANA” CAPACE DI “CONDURRE LE NAVI” CON LA FIERA E NOBILE Carola Rackete, A SUO E TUO OMAGGIO, riprendo qui una breve scheda su:
Buon 8 marzo 2020 - e buon lavoro...
L’ORAZIONE SULLA DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE.
Da Giovanni Pico della Mirandola* a Herbert Marcuse** e ...
CARO ARMANDO, PER IMPARARE "a vivere meglio senza lasciarci condizionare dalla paura della morte, cioè dalla religione, qualunque essa sia", CREDO CHE SIA NECESSARIO riconsiderare il problema di "come nascono i bambini" (a tutti i livelli)! Hai ragione: "Non possiamo permetterci, con le Sibille, Maria Vergine, Cristo come dio, Maometto ed altre favolette l’illusione di un altro Messia"! Ci siamo addormentati nella tradizione cattolico-costantiniana e illuministica acritica (contro Kant), e abbiamo finito per "concepire" noi stessi e noi stesse secondo la bio-logia e l’andro-logia “unidimensionale” dell’omuncolo!
L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle "favolette" e di ogni "illusione di un altro Messia". Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’«omuncolo» di qualche "uomo supremo" o “superuomo”!):
SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO?! Non è una lezione critica contro i "sovranisti" laici e religiosi di ieri e di oggi?!
Che vogliamo fare? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo "Ecce Homo" e non capire una "H" (acca)?!
P.S. - RICORDANDO ... GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA.
L’”ECCE HOMO” (E LA “CORONA DI SPINE”)! Non c’è solo Ponzio Pilato, c’è anche Leonzio Pilato. Non dimentichiamolo... *
DAL PEDUNCOLO ALL’OMUNCOLO: UNA “VIA” PER USCIRE DALLA CAVERNA. Sulla parola “omuncolo”, forse, è utile (cfr. A. Polito, "Dialetti salentini: piticinu", Fondazione Terra d’Otranto) rifletterci un momento: a mio parere, tale parola sollecita a portare alla luce la implicita differenza che veicola in sé. Sorprendentemente, se da una parte dice di un giudizio sul comportamento di una persona di sesso maschile che dovrebbe essere “vir-ile” ma che tale non è, dall’altra, per la sua provenienza etimologica “da una base homo, genitivo hominis, che significa uomo”, veicola e produce una generalizzazione indebita che porta a nascondere la presenza dell’altra metà (il sesso femminile) del “genere umano”.
Come per il greco, la parola “antropologia” vale per ogni persona del “genere umano” (e, per il maschio e per la femmina, abbiamo, rispettivamente, l’andrologia e la ginecologia), così per il latino, la parola “umanità” (da “homo”) vale altrettanto per ogni persona del “genere umano”(e, in italiano, per l’homo-maschio, parliamo di “virile” e, per la homo-femmina, parliamo di “muliebre”).
“ECCE HOMO”. Quando Ponzio Pilato pronunciò la frase «Ecco l’uomo», mostrando alla folla Gesù flagellato cosa disse?! Parlò sì di un “uomo”, ma parlò dell’intero “genere umano”! O NO?! A CHE GIOCO GIOCHIAMO?! A METTERE ANCORA IN TESTA AL “GENERE UMANO” UNA BELLA “CORONA” DI SPINE?!
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Sul tema, mi sia consentito, si cfr.:
A) LA GRECIA, LA MEDIAZIONE DELLA CALABRIA, E IL RINASCIMENTO ITALIANO ED EUROPEO. In memoria di Barlaam (Bernardo) e di Leonzio Pilato ... PER BOCCACCIO, UNA GRANDE FESTA IN TUTTA L’ITALIA E L’EUROPA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5421)
B) PER NON DIVENTARE UN “BOCCALONE”, UNA “BOCCALONE” - PER NON FARE LA FIGURA DEL “FESSO” O DELLA FESSA” (cfr.: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/09/29/fessa-dialetto-salentino-sesso/#comment-63709)
DAL PIEDE ALLA TESTA E DALLA TESTA AL PIEDE: “ECCE HOMO”! *
CARO ARMANDO, credo che la “generalizzazione che finisce per escludere di fatto la donna”, alla luce del prezioso lavoro realizzato da te e dal dott. Marcello Gaballo su “Santa Maria di Casole a Copertino e le sue Sibille” (cfr.: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/24/santa-maria-casole-copertino-le-sue-sibille/), non dipende da generici “millenni di maschilismo”. La riemersione nel nostro presente storico del “piticinu” (“peduncolo”) dell’”ECCE HOMO”, sollecita a riflettere più in profondità sulla nascita dell’uomo Gesù, a reinterrogarci sui suoi genitori e, in particolare, come recentemente e lodevolmente ha fatto la stessa Redazione della Fondazione Terra d’Otranto, su suo padre Giuseppe (cfr. “3 Commenti a De Domo David. 39 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò”: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/10/de-domo-david-39-autori-per-i-400-anni-della-confraternita-di-san-giuseppe-di-nardo/#comment-257181), e a chiedere lumi alla SIBILLA DELFICA (vale a dire, oggi, alla “buonanima” di Sigmund Freud: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=406) per sapere la ragione del diffondersi della peste nella città di “Tebe”!!! La questione è decisamente antropologica e la situazione storica sollecita ancora e di nuovo a “conoscere sé stessi”, a conoscere sé stesse”, a comprendere finalmente “come nascono i bambini”, “come nascono le bambine”: certamente non da un “omuncolo”(cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2923 )! Ciò che è in gioco è la sopravvivenza della nostra stessa umanità, presente e futura. O no?!
*
QUESTIONE EPOCALE. Quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito....
Nota a margine “Su Agamben e il contagio. Il ruolo della filosofia e la comune umanità” *
E’ DA DIRE che, nonostante “La veglia per Finnegan” (James Joyce), la “Storia notturna” (Carlo Ginzburg) continua: “Ulisse” prosegue il suo “folle volo” ancora nel mare eracliteo (“la stessa cosa sono Ade e Dioniso”)! E, nell’orizzonte cartesiano-heideggeriano, la traccia della “fanciulla straniera” è perduta e, con essa, ogni possibilità di distinguere tra “charitas” e “caritas” (“virus” e “virtus”, “Forza, Italia” e “Forza Italia”, ecc.)!!! Il tempo scorre ... e Dante Alighieri è già oltre!
Non è forse ora di svegliar-si e uscire fuori dall’ inferno epistemologico paolino-hegeliano e dallo “stato di eccezione” schmittico-agambeniano?! Non si è ancora capita la “battuta” di Ponzio Pilato (“Ecce Homo”), di Giuliano l’Apostata e di Keplero (“Vicisti, Galilaee”, 1610)?! Ennio Flaiano , nella sua “Autobiografia del Blu di Prussia”, così scrive: “L’ Amor che muove il sole e le altre stelle. Ecco un verso di Dante che vede oltre il telescopio di Galileo”! Che dire?! In tempi di “peste”, non è male ricordare Manzoni, i “Promessi sposi”, e la sua “ardua sentenza” su Napoleone. Credo che sia meglio, ora e subito, uscire dal let-argo! O no?!
*
L’ASSASSINIO DI KANT, I CATTIVI MAESTRI E LA CATASTROFE DELL’EUROPA (COME DEGLI U.S.A.). LE "ALLEGRE" CONSEGUENZE DEL "DIMENTICARE KANT!" DI GUSTAVO BONTADINI ... *
Ricordando Bontadini nel giorno della sua nascita
Intervista raccolta da padre Aldo Bergamaschi
Domanda: Prof. Bontadini, se un oscuro ma assiduo frequentatoredel Perípatos avesse avuto l’opportunità di intervistare Aristotele con una macchina da presa, che cosa, secondo Lei, avrebbe dovuto chiedergli? Risposta: Beh, certo poteva chiedergli tante cose, presentargli tutto l’elenco delle cose che non sono accettabili nei suoi scritti, perché ce ne sono; ma se fossi stato io quell’oscuro frequentatore gli avrei chiesto - immagino di trovarlo ormai vecchio e quindi solo come sono tutti i vecchi, abbandonato: eh, ti sembra di essere stato giusto, equo col tuo maestro Platone, non senti qualche rimorsodi coscienza per averlo trattato come l’hai trattato? Intendo teoreticamente.
D: D’accordo, sicché Lei si sarebbe rivolto ad Aristotele teoretico e non certamente all’Aristotele empirico. Bene, io mi trovo nei medesimi panni, cioè io sono quest’oscuro intervistatore, però un assiduo frequentatore del Perípatos, diciamo, milanese. Le domando, anzitutto, quali sono i traguardi che Lei ha programmato e quali sono invece stati esplorati con successo?
R: Beh, i traguardi erano immensi, perché quando si è giovani non si pongono limiti alle proprie possibilità; poi, quelli che invece ho realizzato, sono pochissimi. Anzi, si riducono, si sono andati riducendo sempre di più; si riducono a quello che io e i miei amici chiamiamo volentieri il discorso breve, cioè l’essenzializzazione della metafisica dell’essere. Questo è un traguardo che ritengo ormai di avere sufficientemente conseguito: questa rigorizzazione del discorso metafisico.
D: D’accordo, ma prima di arrivare, appunto, alla discussione su questa rigorizzazione, io Le vorrei chiedere il risultato delle sue ricerche sullo gnoseologismo moderno. Può dirci, in breve, in che cosa consistono queste ricerche? R: Sì, la discussione dello gnoseologismo moderno è stata una delle tappe che ho dovuto percorrere per arrivare a quel risultato che ho detto prima, cioè per difendere e per fondare la metafisica e fare i conti col pensiero moderno, che è essenzialmente antimetafisico.
D: D’accordo.
R: E allora le analisi di struttura degli autori, dei grandi autori moderni, mi hanno, per dirlo naturalmente in modo sintetico, in brevi parole (perché il discorso qui sarebbe lunghissimo), mi hanno messo dinanzi questa situazione: la filosofia moderna è un ciclo di pensiero che fa dimenticare se stessa, perché la sua conclusione toglie il suo punto di partenza. Il suo punto di partenza è quello che io chiamo (e molti altri amici sono d’accordo nel chiamare) il presupposto realistico o il presupposto naturalistico: l’ammissione dogmatica della dualità di essere e di pensiero. La tematica, l’indagine dei filosofi moderni si svolge soprattutto su questo presupposto, traendone le conseguenze. La principale conseguenza è la concezione fenomenistica. Cioè: se l’essere è altro dal pensiero, ciò che noi conosciamo non è l’essere, ma è il fenomeno, ciò che appare. L’ulteriore passo della filosofia moderna può essere rappresentato (parlo sempre brevemente e sinteticamente, in forma molto approssimativa) dall’idealismo, il quale trae questa ulteriore conseguenza: se noi abbiamo a che fare soltanto col fenomeno, non possiamo neanche affermare l’esistenza del noumeno, e quindi il pensiero si chiude in qualche maniera in se stesso.
D: Scusi se La interrompo, ma se uno studente liceale Le dovesse chiedere una lezione breve sull’errore di Cartesio, Lei come strutturerebbe questa lezione breve?
R: Ecco, quello di Cartesio non è un errore; è anzi la presa di coscienza di una situazione speculativa in cui si trovava la sua epoca. Questa situazione speculativa Cartesio la eredita dalla tarda scolastica, dal tardo medioevo, come ha messo molto bene in luce Gilson, specialmente nel commento, nell’amplissimo commento fatto al Discours de la méthode, per mostrare quanti elementi medievali della tarda scolastica sono ancora presenti nella problematica cartesiana. Non è un errore. Anzi, il suo merito è quello di avere tratto le conseguenze di questo presupposto (e in metafisica, in buona dottrina, ogni presupposto deve essere eliminato e deve essere scartato); Cartesio ha indicato per quale via noi eravamo costretti a camminare sotto la pressione, sotto la spinta di questo presupposto, il quale ha portato poi alle varie tappe della filosofia moderna. In questo senso, Cartesio è stato veramente il padre della filosofia moderna.
D: Quindi Lei lo ritiene padre, ma c’è al fondo un errore? O non c’è? Ad esempio, lo smarrimento dell’essere?
R: C’è lo smarrimento dell’essere, e questo è un errore, ma non è di Cartesio, è del suo tempo; è di tutti. È un’eredità. È anche una condizione partecipe del senso comune che l’essere è qualche cosa di altro dal conoscere, no? È il cosiddetto realismo, al quale la filosofia moderna ha sostituito, dapprima il fenomenismo, e poi, addirittura, l’idealismo. Il significato speculativo dell’idealismo, con cui in qualche maniera si conclude il ciclo moderno, è il semplice toglimento del presupposto naturalistico - formalmente in quanto presupposto.
D: Ecco, abbia la cortesia di spiegarci in cosa consiste questo presupposto realistico.
R: È semplicissimo: è l’assunto che l’essere è altro dal pensiero. Io potrei dare - siamo nel secondo centenario della Critica della ragion pura, che fu pubblicata nel 1781 - ad uno studente di liceo, ma più che ad uno studente di liceo, anche a un contadino che incontrassi per la strada e mi chiedesse qualcosa di quest’opera, potrei dare, ecco, il più breve riassunto che si può fare di quest’opera (che consta di molte centinaia di pagine), ed è questo: dato che l’essere è altro dal pensiero, la scienza dell’essere, cioè la metafisica, non è possibile. Questo è il riassunto più sintetico della Critica della ragion pura. Poi c’è tutta quest’opera meravigliosa (da visitare), una delle opere più geniali che siano mai state scritte nella storia della filosofia. Vi si intrecciano una quantità di motivi che riguardano la possibilità della matematica come scienza, della fisica come scienza, poi l’esame di quelli che Kant riteneva fossero gli argomenti portati a sostegno della metafisica tradizionale. E allora qui, naturalmente, viene fatto subito di deliberare, da parte mia o da parte nostra, che la metafisica che Kant confutava non era assolutamente la metafisica classica: era strutturalmente diversa da quella che noi presentiamo come metafisica classica.
D: D’accordo. Adesso vorrei che, a conclusione di questo discorso sul dualismo gnoseologistico, come Lei lo chiama, ci risolvesse alcune perplessità dei cultori di scienze filmiche. Per esempio i cultori del linguaggio filmico sembrano accettare il dualismo gnoseologistico. Dicono: altra è la realtà, altro la sua immagine: l’evento non si identifica con la sua rappresentazione, quindi l’immagine di questo tavolo non è il tavolo. Ecco, io Le domando, filmicamente parlando, siamo o non siamo sull’essere?
R: Dunque, io sono ignorante in sede di filmologia; però direi che, dal punto di vista metafisico, è ente, cioè non nulla, sia l’immagine sia la realtà che il linguaggio filmico contrappone all’immagine stessa: sono tutte due realtà e vengono sia l’una che l’altra intenzionate dalla conoscenza. Il termine ‘intenzionare’ è importante, perché l’intenzionalità è proprio la figura che conclude tutta la vicenda del pensiero moderno e dà la possibilità di entrare in una nuova epoca.
D: D’accordo. Allora io tento di fare una verifica ulteriore. Noi conosciamo direttamente il tavolo o la immagine del tavolo?
R: Senz’altro il tavolo.
D: Conosciamo il tavolo, anche pur sapendo che il discorso filmico mi presenta una immagine del tavolo?
R: Sì, perché il dualismo filmico è un dualismo che è interno al non-dualismo della conoscenza umana. È un dualismo interno; cioè: dall’interno del globo della conoscenza umana si elevano questi due ordini, l’ordine filmico e l’ordine di quella verità che viene contrapposta a quella filmica.
D: Vediamo se riesco a identificare il senso di questo discorso: la realtà trascende la rappresentazione empirica, ma non trascende il pensiero. Dunque, il pensiero sarebbe comunque sulla realtà?
R: Certo, in ogni caso non si trascende il pensiero: è questa la verità.
D: Abbia la cortesia di spiegare il significato di questa frase.
R: Ecco: l’intrascendibilità del pensiero è la formula un po’ banalizzata dell’idealismo. Vero: fuori del pensiero non si salta, perchè se io dico che c’è una realtà che trascende il pensiero, per ciò stesso l’ho già pensata e quindi ricondotta dentro il pensiero.
D: D’accordo.
R: Ma, anche stando nella semplice orbita dell’Unità dell’Esperienza, o se vogliamo dire dell’esperienza, della percezione...
D: Scusi se La interrompo, Professore: questa ‘Unità dell’Esperienza’ è un’espressione che Lei ha introdotto cinquant’anni fa. Adesso direi che ha l’onere di spiegarla a chi la udisse per la prima volta.
R: Sì. L’Unità dell’Esperienza è la totalità delle cose che sono presenti e che vengono affermate in base al loro esser presenti.
D: Per esempio?
R: Tutto ciò che io constato, tutto ciò di cui io posso dire ‘consta’. Tutti quei giudizi che possono essere giustificati, fondati con questa formula: ‘perché consta’. Ad esempio: questo tavolo è di colore amaranto. Perché? Perché mi consta che sia di colore amaranto, perché è sperimentalmente dato, empiricamente dato che è tale. In questo momento è giorno, perché constato che in questo momento è giorno. Perché consta. Quindi l’Unità dell’Esperienza è l’unità dei dati, come tale.
D: Quindi, successivamente, noi cosa dovremmo scoprire? Che il dato è là e io sono?...
R: No. Io sono un dato. l’Unità dell’Esperienza include l’io, perché anche l’io nella forma dell’autocoscienza è dato. L’io è un dato. È un dato che l’esperienza è polare, cioè che ha la polarità del soggetto e dell’oggetto; io che ho presente questo tavolo, questo tavolo che è presente a me.
D: Quindi sarebbe la compresenza.
R: Nell’Unità dell’Esperienza è presente che le cose sono presenti a me. Questo è un rilievo fondamentale in ordine alla determinazione della struttura dell’Unità dell’Esperienza. L’Unità dell’Esperienza è la totalità delle cose presenti, ma c’è una caratteristica di queste cose presenti: anzitutto è quella di essere presenti, ma poi - determinatamente - di essere presenti a; in questo caso all’io, a me, a un soggetto.
D: D’accordo, adesso Le faccio una domanda che implica un riferimento storico. A Suo parere san Tommaso era immerso nell’errore gnoseologistico, cioè nel dualismo gnoseologistico, oppure aveva guadagnato questa Unità dell’Esperienza come punto di partenza?
R: Beh, che avesse proprio guadagnato l’Unità dell’Esperienza come punto di partenza, forse no; perché, altrimenti, io non avrei avuto niente da fare, se l’avesse guadagnata lui - va bene? Però, se san Tommaso fosse o non fosse libero dal presupposto gnoseologistico, questo è un argomento di esegesi storica molto interessante. San Tommaso era un aristotelico e un grande commentato-re di Aristotele. Ora, Aristotele era certamente immune dal presupposto dualistico.
D: Era immune?
R: Era immune, perchè era un suo teorema fondamentale che il ‘conoscente in atto’ e il ‘conosciuto in atto’ si identificano, e questa è già l’eliminazione del presupposto dualistico. Aristotele poi aggiunge che il ‘conoscente in potenza’ e il ‘conosciuto in potenza’ si distinguono, ma di questo essere distinti in potenza egli dà una fondazione; e in quanto dà una fondazione, riscatta il presupposto come presupposto: la fondazione è metafisica.
D: Probabilmente ci siamo avvicinati... ma io sto pensando a un ipotetico liceista, ecco... che...
R: Beh, ma forse se Lei mi farà altre domande che riguardino questi problemi fondamentali, potremmo dare una risposta esauriente anche per il liceista... di primo anno!
: Quindi, torniamo brevemente al discorso dell’inganno dei sensi, no? L’errore dei sensi...
R: No, ma il senso non inganna dice san Tommaso. Le ricordo che san Tommaso dice ‘il senso non inganna’, vero?
D: Quando io vedo il legno spezzato nell’acqua, in che cosa consisterebbe l’errore?
R: L’errore consisterebbe nel ritenere che, se io andassi a toccare il legno, lo troverei spezzato, mentre invece non lo trovo spezzato. Questo è un giudizio. La vista non mi inganna, perché è empiricamente dato che il legno si presenta come spezzato. È un giudizio ulteriore quando dico, io che vedo una torre in lontananza che mi sembra circolare, mentre è quadrata, che allora c’è un’illusione. Ma l’illusione in cosa consiste? La torre appare circolare, e, nella misura in cui appare, essa è tale. Poi, se usciamo anche da questo paragone della torre, e pensiamo al sogno, io sogno che accadono certe cose. Nella misura in cui quelle cose sono sognate, sono reali. Quindi non c’è nessun inganno. L’inganno consisterebbe nel giudizio che volesse riferire ad una realtà ulteriore al sogno, quella che si rivela nel sogno.
D: D’accordo, credo che questi esempi siano abbastanza chiari. Adesso dalla gnoseologia passiamo alla metafisica. Anzitutto Le domando: è davvero impossibile la metafisica dopo Kant oppure Lei ritiene che sia invece possibile?
R: Beh, dopo cinquant’anni di meditazione, ritengo che sia possibile, perché... ab esse ad posse valet illatio; perché la metafisica si costruisce! Quando io ero studente c’era lo slogan del dopo Kant: certe cose dopo Kant non si possono più sostenere, e quindi dopo Kant non si poteva più sostenere che fosse possibile la metafisica. Ma una attenta considerazione di quella metafisica che Kant criticava ci rende subito edotti che la struttura di tale metafisica ha poco a che vedere con la struttura di quella che noi chiamiamo la metafisica classica e che è quella che noi intendiamo difendere e sostenere. La metafisica classica è fuori dalla portata della critica kantiana; e, naturalmente, il discorso per mostrare questo dovrebbe essere abbastanza complesso, ma è un discorso che ormai in qualche maniera abbiamo messo al sicuro. Ritengo di averlo messo al sicuro.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’ATTIVISMO ACCECANTE DEL "FAR WEST" E IL "SAPERE AUDE" DELLA "CRITICA DELLA RAGION PURA": JOHN DEWEY SPARA A ZERO SU KANT, SCAMBIATO PER UN VECCHIO FILOSOFO "TOLEMAICO". Alcune sue pagine da "La ricerca della certezza" del 1929, con alcune note
ORIENTARSI, OGGI - E SEMPRE. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.
Federico La Sala
L’AMORE ("CHARITAS") NON E’ LO ZIMBELLO NE’ DEL TEMPO NE’ DELLA FILOLOGIA. IL SONNAMBULISMO DI HANNAH ARENDT E MARTIN HEIDEGGER (e dell’intera storiografia filosofica, teologica, e filologica):
Martin Heidegger e Hannah Arendt: la storia della fedeltà all’amore
A cura di bea *
Negli anni in cui Martin Heidegger andava elaborando "Essere e tempo" (1927) ebbe un’intensa avventura amorosa con una sua studentessa: Hannah Arendt aveva solo diciotto anni, ed era una giovane donna di un’ intelligenza vivace e profonda. Diventò a poco a poco una vera musa ispiratrice per il pensatore tedesco: tra i due, già dal 1925, ci furono intensi scambi epistolari, grazie ai quali è possibile non solo ricostruire il loro silenzioso amore, ma anche riflessioni più intime su temi profondi, quali il rapporto “verità-amore” e “fedeltà”.
Nel paragrafo 29 di “Essere e tempo”, l’opera più famosa di Martin Heidegger, troviamo due citazioni: la prima è di Pascal
La seconda, più incisiva, è di Agostino di Ippona
Anche se non sono citazioni dell’autore, queste prove bastano ad annullare quanto sostenne K. Jaspers, ovvero che la filosofia di Heidegger fosse “senza amore”.
Se da un lato possiamo capire la sua posizione, in quanto nell’opera i temi principali ruotano attorno all’essere, il Dasein, il tempo e la morte, dall’altra è fondamentale chiedersi il perchè di quelle due citazioni.
La spiegazione la troviamo nella vita reale del filosofo. Negli anni in cui andava elaborando Essere e tempo (1927) ebbe un’intensa avventura amorosa con una sua studentessa: Hannah Arendt aveva solo diciotto anni ed era una giovane donna di un’ intelligenza vivace e profonda.
Diventò a poco a poco una vera musa ispiratrice per il pensatore tedesco: tra i due, già dal 1925, ci furono intensi scambi epistolari, grazie ai quali è possibile non solo ricostruire il loro silenzioso amore, ma anche riflessioni più intime su temi profondi, quali il rapporto “verità-amore” e “fedeltà”.
Nelle ultime lezioni che Heidegger tenne a Marburgo nel semestre estivo del 1928 si fa riferimento alle due citazioni: egli riprende delle riflessioni che aveva scambiato con Max Scheler, per il quale amore e odio fondano la conoscenza, e sulla scia di una frase dell’Ordo Amoris “L’uomo, prima di essere un ente pensante o volente è un ente amante”, costruisce il motore immobile e invisibile che dà vita al suo Dasein, l’essere-nel-mondo.
Se Heidegger si appella ad Agostino e a Scheler, significa che l’amore è per lui un modo di apertura più originario di ogni conoscenza.
In riposta alla teoria delle passioni, la Arendt scrive nel 1953
Essere-nell’amore significa fare in primis esperienza dell’esistenza più “propria” e poi scoprire, in due, che l’essere nell’esistenza significa anche volere l’esistenza dell’altro. Amo, come dice Agostino, significa volo ut sis, ti amo, voglio che tu sia ciò che sei.
scriveva Heidegger alla sua studentessa.
Amare è anche lasciare libero l’altro, amare è cogliere il “tu” pur lasciandolo essere, senza cercare di possederlo: “... lasciar essere l’essere”
scrive il filosofo circa il concetto di libertà ne Lettere sull’umanismo.
Secondo la Arendt l’amore non consiste propriamente solo nei sentimenti verso l’ altro, ma prende una forma propria, che chiede qualcosa a entrambi gli amanti.
Se è fuori da ogni dubbio che Heidegger la amò, spingendola ad essere libera, resta tuttavia il fatto che rifiutò ostinatamente di cambiare per lei il corso della propria vita: non avrebbe mai lasciato il suo “punto fisso”, Elfride.
La concretizzazione del loro amore non avvenne mai. Avevano sì un mondo loro, ma era pur sempre circoscritto a qualche momento fuggitivo.
Hannah decise di chiudere la clandestina relazione, e lui, nonostante l’avesse ritenuta da sempre “molto più di una stella cadente”, non la trattenne, conservando però la speranza di riconquistarla.
In realtà tra i due ci fu sempre un collegamento, una sintonia che si riflette nelle numerose lettere che i due si spedirono anche dopo il primo matrimonio -poi fallito- della Arendt con G.Stern. Qualcosa cambiò nel 1933, quando Heidegger aderì al partito nazionalsocialista.
Nel frattempo la giovane Hannah si era trasferita a Parigi, dove sposò “il suo grande amore”, il filosofo tedesco H.Blucher, con il quale si imbarcò per gli Stati Uniti, lasciandosi alle spalle i ricordi del tormentato amore con quella “volpe” di Heidegger. Come un vero Don Giovanni, egli passa di donna in donna alla ricerca della Donna, vale a dire una “verità della Donna”, rifacendosi alle teorie filosofiche di Proust e Sartre:
Alla ricerca di questa verità, passa da graziose dottorande a giovani signore eleganti. Inoltre, si può notare che il suo Amore non si mostra affatto platonico, anzi l’amore si manifesta principalmente nell’effervescenza sessuale.
Non è dunque un caso che dedichi un libro su Platone alla sua “moglie-rifugio” Elfride, né che mandi alla Arendt alcuni versi dell’Antigone di Sofocle in cui il coro evoca il dio Eros.
Il 1950 è un anno di crisi per Hannah: se da una parte il secondo matrimonio sembra crollare a causa di un tradimento da parte del marito, dall’altra è un momento di riflessione feconda su un tema molto delicato, la fedeltà. Tra i due non c’erano più segreti, Blucher era al corrente delle lettere che mandava ancora al suo professore-amante, e addirittura la incoraggiava a riallacciare i rapporti.
Ma è nel suo Diario intellettuale che la filosofa trae le conclusioni dei vari episodi della sua vita.
Rispondere all’infedeltà - come è abitualmente intesa - con la gelosia equivale quindi a una perversione della fedeltà. L’infedeltà più grave e terribile che possa esistere, il peccato più grande è per la Arendt l’oblio, poiché spegne la Verità, la verità che è stata.
È per questo motivo che, pur con tutto l’orrore provato per l’adesione di Heidegger al partito nazista, decise di restare sempre in contatto, mentale e non, con lui. Un’affinità elettiva non priva di tormenti e sofferenze, incomprensioni e oscurità.
Più che di perdono, bisognerebbe parlare di una volontà di non rinnegare ciò che era stato “l’evento dell’amore”.
* A cura di bea - 30 Luglio 2014
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
DANTE 2021: DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica.
Federico La Sala
ERMENEUTICA, PRINCIPIO DI "CARITÀ", E ... CERVELLO FUORI DALLA CAVERNA!
Semplicità insormontabili
La macchina dell’esperienza
di Roberto Casati e Achille Varzi *
Lui (in vacanza, seduto in riva al mare, con fare filosofico). Che bella cosa, la felicità!
Lei. Non ti facevo così saggio.
Lui. Non scherzare. La felicità è una bella cosa e non c’è niente di male nel ripetercelo, di tanto in tanto. E ti dirò di più: gli edonisti avevano perfettamente ragione. Non è forse massimizzando il piacere che si può essere felici? Il piacere provoca felicità, quindi, più si prova piacere, più si è felici.
Lei. Addio saggezza. Guarda che il nesso tra piacere e felicità è ben più spurio di quanto pensassero gli edonisti.
Lui. A me non sembra proprio. Per me è un piacere essere qui, ed è proprio perché sto provando questo piacere che sono felice.
Lei. C’è un argomento di Robert Nozick che dimostrerebbe il contrario. Mai sentito parlare della "macchina dell’esperienza"?
Lui. Sentiamo.
Lei. La macchina dell’esperienza è un vero e proprio prodigio tecnologico. Funziona così: tu entri nella macchina, e quella è in grado di procurarti qualunque esperienza tu possa desiderare. C’è un casco, con degli elettrodi, e se lo indossi ecco che il tuo cervello viene stimolato in modo, appunto, da farti provare le sensazioni che vuoi. Desideri sperimentare che cosa si prova a scrivere una bella poesia, vincere un premio, innamorarsi di una persona, sentirsi ricambiati del proprio amore? Indossa il casco e voilà: proverai esattamente quelle sensazioni in modo assolutamente realistico.
Lui. Ma un conto è provarle davvero, quelle sensazioni; altro conto provarle dentro una macchina del genere.
Lei. Funziona in modo tale che mentre le provi non hai alcuna consapevolezza del fatto di essere all’interno della macchina.
Lui. E se io non desidero niente in particolare?
Lei. Gli ingegneri che hanno progettato la macchina si sono ben documentati e hanno fatto in modo che la macchina disponga, per così dire, di un menù veramente ricco di possibilità. Quindi, se vuoi, puoi davvero provare ogni tipo di esperienza, non solo quelle che ti vengono in mente. E naturalmente il menù è richissimo di esperienze piacevoli, ovvero esperienze di piacere.
Lui. Quindi, se voglio, posso entrare nella macchina e starci dentro tutta la vita, pre-programmando le cose in modo tale da provare piacere per tutti i giorni che mi restano da vivere?
Lei. Esattamente. Il punto è: lo faresti? Entreresti in una macchina così con la garanzia di provare piacere per il resto della tua vita?
Lui. Ovvio!
Lei. Secondo Nozick, no. Non solo non ci entrerebbe lui, ma pensa che nemmeno noi ci entreremmo.
Lui. E perché mai?
Lei. Per tre motivi. Primo: generalmente vogliamo fare certe cose, non solo provare l’esperienza di farle. Anzi, è proprio perché le vogliamo fare che ci sottoponiamo all’esperienza di farle. Invece la macchina fa il contrario. Secondo, vogliamo essere felici di ciò che siamo. Cioè vogliamo essere delle persone felici. Ma che persone saremmo, se ci chiudessimo nella macchina per il resto della nostra vita?
Lui. Beh, per la felicità si può anche rinunciare a essere delle persone...
Lei. Terzo, nella macchina non avremmo alcuna esperienza della realtà: proveremmo esperienze realistiche, ma sarebbero comunque esperienze di una realtà del tutto artificiale, virtuale. Un po’ come i cervelli nella vasca ipotizzati da Putnam, o i personaggi del film Matrix, mentre "combattono" contro l’agente Smith stando sdraiati nelle loro poltrone in laboratorio.
Lui. Vieni al punto.
Lei. Il punto è che provare piacere non basta. Anche ammesso che sia un importante ingrediente in una ricetta per la felicità, bisogna provarlo nel modo giusto.
Lui. Sarà come dici. Però questi esperimenti mentali lasciano un po’ il tempo che trovano.
Lei. A me non pare affatto un esperimento mentale. Non ti sembra che questo nostro mondo si stia trasformando in una grande macchina dell’esperienza, non molto diversa da quella ipotizzata da Nozick?
* Il Sole-24 Ore, 24.11. 2013.
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO
Dipartimento Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in FILOSOFIA.
Supervisore: Prof. Varzi Achille Carlo,
Co-Supervisore: Prof. Ghia Francesco,
Laureando: GANDELLINI Francesco
IL PRINCIPIO DI CARITÀ [2016]
Definizione e analisi critica tra ermeneutica e logica
a cura di Francesco Gandellini **
INTRODUZIONE
Il termine “carità” deriva etimologicamente dal latino caritas (acc. caritatem, «benevolenza», «amore», questo da carus, «caro», «costoso», «diletto», «amato»), e a sua volta dal greco χάρις, «grazia». Dal punto di vista dell’etimo, la parola cattura l’idea dell’amore disinteressato ma prezioso verso qualcuno, della benevolenza gratuitamente concessa al destinatario, senza riserve rispetto alla sua condizione. Gli etimologisti latini derivavano il lemma carus dalla prima persona singolare del presente del verbo carēre, ovvero careo, «manco», «sono privo di», e ritenevano di giustificare il valore di una cosa sul metro della mancanza della cosa stessa, in modo tale che tanto più se ne avverte l’assenza, tanto più essa acquista valore e pregio.
Passando per il greco χάρις e dal verbo χαίρω, «rallegrarsi», «provare piacere», si arriva alla radice sanscrita ka = ca (sscr. ka, kan, kam), presente in parole quali kâma, «amore», kamana, «desiderabile», «bello», kamara, «amoroso», kam-e, «desiderò», «amò». Si possono, inoltre, trovare affinità nel lettone kahrs, «cupido», nel gotico hors, da cui il tedesco Hure, «meretrice», ma che si riallaccia al latino quaero, «cercare», «ricercare», «bramare» ciò che è desiderato. Il termine “carità” afferisce, dunque, anche alla sfera dell’amore desiderato, del richiesto perché bramosamente bello e capace di dare piacere e rallegrare.
Il principio di carità rappresenta un criterio prezioso, disinteressato ma richiesto nella logica del dialogo. Esso fornisce una norma fondante, sebbene implicita, per la costruzione di un confronto fecondo e esente da appropriazioni o strumentalizzazioni di qualunque sorta. Il valore apportato dal principio di carità consiste, forse banalmente, nel rendersi disponibile all’ascolto dell’altro e nell’attribuire pregnanza di senso alle sue parole, almeno fino a un evidente punto di non ritorno.
La scelta di trattare il principio di carità come argomento di tesi va incontro alla necessità di indagare l’implicito, il sottinteso, il banale che sovente viene trascurato e passato sotto silenzio, col rischio di dimenticarne la validità e l’utilità concreta e portante nell’ambito dell’umano. Si tratta, perciò, di far riermegere agli occhi della coscienza i fondamenti troppo spesso dati per scontato e, proprio per questo, dimenticati, abbandonati e relegati a relitti a margine dell’edificio del sapere.
È compito primario della filosofia conferire dignità conoscitiva a quanto viene accolto come evidente, ovvio, lapalissiano perché in ciò, e nel suo oblio, si possono rinvenire “proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino” 1, ossia quegli interrogativi umani centrali in cui ne va della quotidianità tanto quanto dell’esistenza intera, oltre che di una convivenza pacifica. Spingendo la riflessione in direzione di ciò che pare assodato e fuori di dubbio ai fini della riflessione stessa, si giunge a capire e a rendere ragione di una complessità nuova, nella quale si gioca qualcosa come la comprensione o il fraintendimento tra gli individui.
Il principio di carità è una guida rimasta finora col capo coperto. Esso ha condotto e conduce gli uomini nei meandri tortuosi della comunicazione, del rapporto dialogante e dell’interpretazione reciproca. Può pregiudicare il buon andamento di una discussione, rimanendo nell’anonimato e nell’ombra. Determina e garantisce lo spazio minimo per l’intesa e l’accordo, ma può anche sancirne il definitivo naufragio.
Lo scopo della presente trattazione è di portarne alla luce, in un percorso storico e tematico, le caratteristiche principali, in modo da scoprirne il capo e segnalarne i lineamenti distintivi. La filosofia, nel suo decorso storico, si è raramente rivolta in modo esplicito al principio di carità. Fatta eccezione per Agostino, per il caso isolato dell’illuminista tedesco Georg Meier (che lo chiama principio di equità ermeneutica) e per la riflessione dei logici contemporanei (Wilson, Quine, Davidson), esso non viene pressoché mai menzionato o, almeno, non con questo appellativo con cui, soprattutto recentemente, è tornato alla ribalta.
Si tratta, quindi, e questo è l’intento del lavoro, di rimarcarne gli aspetti costituivi, laddove il criterio sia stato suggerito dagli autori, oppure di ricercare ed enucleare possibili edizioni, implicitamente consegnate dai filosofi alla riflessione sul principio in questione. Per questo la tesi potrebbe soffrire di discontinuità più o meno consistenti, dettate appunto dall’esigenza di scandagliare le profondità del pensiero filosofico, anche mediante salti temporali e concettuali rilevanti, in quei punti ritenuti significativi per una trattazione ampia e pregnante, ma filtrata sempre nel setaccio della carità ermeneutica e logica.
1 E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, il Saggiatore 2008, pag. 35
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE DELLA "H".... "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia" (di Antonio Rainone).
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Editoriale
PER LA CRITICA DELLA RAGIONE "OLIMPICA" .... *
Il discorso di Greta Thunberg alle Nazioni unite
di Greta Thunberg (il manifesto, 27.9.2019)
New York. E’ tutto sbagliato. Io non dovrei essere qui di fronte a voi. Dovrei essere a scuola dall’altra parte dell’oceano. Eppure venite tutti da me per avere speranza? Ma come osate! Voi avete rubato i miei sogni e la mia infanzia con le vostre vuote parole. Eppure io sono una persona fortunata.
Le persone soffrono. Le persone stanno morendo. Interi ecosistemi stanno crollando. Siamo all’inizio di un’estinzione di massa. E tutto ciò di cui riuscite a parlare sono i soldi e le favole della crescita economica infinita. Come osate!
Per più di 30 anni la scienza è stata di una chiarezza cristallina. Con che coraggio osate continuare a girarvi dall’altra parte e venire qui assicurando che state facendo abbastanza, quando la politica e le soluzioni necessarie non sono ancora nemmeno all’orizzonte.
Dite che “ci ascoltate” e che comprendete l’urgenza. Ma non importa quanto io sia triste e arrabbiata, non voglio crederci. Perché se comprendeste davvero la situazione e continuaste a non agire, allora sareste malvagi. E mi rifiuto di crederci.
L’idea più diffusa sul dimezzare le nostre emissioni in 10 anni ci dà solo il 50% di probabilità di rimanere al di sotto di 1,5 ° C e disinnescare così reazioni a catena irreversibili al di fuori del controllo umano.
Forse il 50% di probabilità è accettabile per voi. Ma questi numeri non includono i punti di non ritorno, la maggior parte dei circuiti di feedback, il riscaldamento aggiuntivo nascosto dall’inquinamento atmosferico tossico o gli aspetti di giustizia e di equità. Fanno anche affidamento sull’ipotesi che la mia generazione e quella dei miei figli riuscirà a risucchiare centinaia di miliardi di tonnellate di CO2 dall’atmosfera con tecnologie che oggi esistono a malapena.
Quindi un rischio del 50% non è semplicemente accettabile per noi - noi che dobbiamo convivere con le conseguenze.
Per avere una probabilità del 67% di rimanere al di sotto di un aumento della temperatura globale di 1,5 ° C - le migliori probabilità stimate dal Pannello intergovernativo sui cambiamenti climatici - il 1 ° gennaio 2018 il mondo aveva solo 420 gigatonnellate di anidride carbonica da poter rilasciare nell’atmosfera.
Oggi questa cifra è già sotto le 350 gigatonnellate. Come osate far finta che questo problema possa essere risolto con le solite soluzioni economiche e tecniche. Con i livelli di emissione odierni, la quantità di CO2 a disposizione sarà completamente sparita in meno di otto anni e mezzo.
Non ci saranno soluzioni o piani presentati secondo i dati di oggi. Perché questi numeri sono troppo scomodi. E voi non siete ancora abbastanza maturi per dire le cose come stanno.
Ci state deludendo e tradendo. Ma i giovani stanno iniziando a capire il vostro tradimento. Gli occhi di tutte le generazioni future sono su di voi. E se sceglierete di fallire, vi dico che non vi perdoneremo mai.
Non vi lasceremo andare via come se nulla fosse. Proprio qui, proprio adesso, è dove tracciamo la linea. Il mondo si sta svegliando. E il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no.
* Testo del discorso all’Assemblea generale delle Nazioni unite di New York del 23 settembre 2019 (traduzione dall’inglese a cura di Matteo Bartocci).
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE (LA LEZIONE DI NELSON MANDELA).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
GIORNO DELLA MEMORIA, PERCHÉ GLI EBREI?
Il dovere morale di preservare i valori moderni
di Francesco Bellusci (Casa della cultura, 24.01.2020)
“Perché gli ebrei?”. È questa la domanda che spesso giunge dal pubblico in coda alle manifestazioni del Giorno della Memoria, a scuola o in altri contesti, oppure rimane taciuta nel retro-pensiero, difficile da esternare, come se la sua imbarazzante e sconcertante semplicità, più che ad appagare una sete di conoscenza, sia diretta a placare l’angoscia che accompagna l’inevitabile senso di “colpa metafisica”, come l’avrebbe chiamata Karl Jaspers[1], cioè la colpa di essere “sopravvissuti” a loro, di avere goduto il privilegio della vita, ingiustamente e violentemente negata ai nostri simili, pur essendo, noi, lontani ed estranei ai soggetti direttamente imputabili della colpa politica o giuridica o morale di quel crimine spaventoso. Perché gli ebrei e non un’altra minoranza etnica o religiosa, allora? Perché la scelta del comodo capro espiatorio su cui polarizzare il risentimento e le frustrazioni di un popolo sconfitto in guerra e sconvolto dalla crisi economica è caduta sugli ebrei? Perché le ideologie del fascismo e del nazismo hanno fatto leva sull’antisemitismo e sulle leggi razziali contro gli ebrei per la loro cinica propaganda?
Hitler o Mussolini non hanno inventato il male, tantomeno l’antisemitismo. Certamente, però, in Germania, un’impressionante e contingente reazione favorita da enzimi ideologici (nazionalismo, darwinismo sociale, scientismo, xenofobia, razzismo), politici (la competizione accesa per il consenso in democrazie “giovani”, con istituzioni nascenti o fragili messe da subito a dura prova dalle conseguenze sociali ed economiche della Grande Guerra e, poi, dalle ripercussioni mondiali del primo “crac” della nuova potenza economica globale: gli Stati Uniti) e materiali e tecnologici (la disponibilità di burocrazie più efficienti, la sperimentazione di nuove armi letali) fece sì che dall’odio, dal disprezzo, dalla discriminazione nei confronti dell’ebreo si arrivasse, per la prima volta, al progetto efferato di un genocidio, concepito come un assassinio industrializzato di massa. E ha portato altri regimi fascisti come l’Italia o la Repubblica di Vichy a collaborarvi. Ma con la fine del nazifascismo, Hiroshima annunciava che l’irrazionale, la psicosi del potere, non si erano affatto ritirati dal mondo, subito piombato nella corsa agli armamenti e sempre sull’orlo dell’apocalisse nucleare. Un mondo dove la macchinazione tanatocratica di governi, laboratori scientifici e industria militare, in sinergia tra loro, sembravano preparare stavolta l’olocausto dell’umanità, al punto da far dire, provocatoriamente, al filosofo e storico della scienza Michel Serres, in un memorabile pamphlet:
La fine del mondo bipolare, con la disintegrazione dell’Unione Sovietica, ha per fortuna allontanato la minaccia di un olocausto della specie umana, ma se, come ricordava Serres nel suo saggio, la paranoia di Hitler era storica, e non individuale, rimane da chiedersi ancora perché le vittime di quella paranoia, e dell’unico olocausto sinora avvenuto, siano state proprio gli ebrei. -Diventa interessante farlo tanto più che la risposta a questa domanda ci costringe a risalire a un periodo storico, l’ultimo quarto di secolo dell’Ottocento, con il quale secondo il politologo David Runciman[3], il momento storico attuale con il suo strisciante rigetto diffuso della democrazia liberale, del cosmopolitismo, della multietnicità, intrattiene più analogie.
Allora si consumò, infatti, il più pericoloso cortocircuito culturale della modernità, con il rischio di un inabissamento della civiltà europea stessa, e coincise con il periodo d’incubazione dell’ideologia fascista, che, solo nelle circostanze critiche del dopoguerra, si sarebbe poi trasformata in un movimento politico di estrema destra organizzato e combattivo. Questa pista ci viene acutamente suggerita dagli importanti studi storici di Zeev Sternhell[4]. In quel periodo, infatti, germina e cresce rapidamente un rifiuto dell’Illuminismo, espresso da vari rivoli della cultura europea, che si declina come rifiuto del principio di uguaglianza naturale degli uomini, dell’universalismo, del razionalismo, dell’idea di progresso e che culmina nella scomunica di “materialismo”, indirizzata indistintamente a democrazia, liberalismo, socialismo, con le loro dottrine egualitarie e utilitaristiche, concepito come la malattia europea che era necessario sradicare, quella che più di altre minava l’“organismo vivo” della nazione. Il fascismo e il nazismo, pertanto, non sono tanto figli della reazione al bolscevismo e al comunismo, quanto l’emergenza più vistosa, aggressiva e radicale di quel rifiuto. Il che ne spiega l’appeal che esercitò sia sulle masse sia sull’élite intellettuale.
Si comprende allora la scelta del capro espiatorio ebraico. La “questione ebraica”, ovvero il tema della tolleranza e dell’emancipazione della minoranza ebraica da secoli discriminata o ghettizzata, si era affermata proprio con l’Illuminismo e gli illuministi l’avevano imposta già nell’agenda politica dei “sovrani illuminati”, per essere riconfermata nelle rivoluzioni liberali della prima metà dell’Ottocento (non a caso, La questione ebraica è il titolo di un libro fondamentale nella produzione di Marx, del 1843, dove ai sostenitori dell’emancipazione politica attraverso l’estensione universale dei diritti civili, anche agli ebrei, Marx replica denunciando i limiti intrinseci dell’emancipazione politica, a fronte dello scarto tra gli eguali diritti proclamati in astratto e le concrete condizioni di diseguaglianza presenti nella società).
Questo tema sarà ricorrente per tutto il XIX secolo in Europa, anche se maggiormente in Francia e in Germania rispetto ad altri Paesi europei, e, quindi, uno dei modi migliori per dichiarare morte ai valori dell’Illuminismo sarebbe stato proprio scagliarsi contro gli ebrei e archiviare, con il tema dell’emancipazione degli ebrei, il simbolo essenziale dell’Illuminismo. La presenza nella coscienza collettiva e nel dibattito intellettuale del nesso tra illuminismo e questione ebraica trova peraltro conferma in un articolo[5] di Hannah Arendt, pubblicato sulla Zeitschrift für Geschichte der Juden in Deutschland, alcuni mesi prima della nomina a cancelliere della Repubblica federale di Adolf Hitler, in cui la giovane filosofa ripercorreva il modo in cui gli stessi intellettuali ebrei (Lessing, Mendelssohn, Dohm) si collocavano nella tradizione illuminista, oscillando tra l’invito a mantenere la religione ebraica come “religione della ragione” o a rinunciarvi per una piena “naturalizzazione” e assimilazione nella società tedesca e europea. E certamente, come ci ricorda André Glucksmann, nel suo controverso libro-manifesto dei nouveaux philosophes[6], giocò nella scelta degli ebrei anche l’immagine di “nemico interno” costruita filosoficamente dagli idealisti tedeschi, che vi videro i rappresentanti o di uno “Stato nello Stato” (Fichte), nutrito e compattato dall’ostilità per il resto del genere umano, o peggio ancora, di un “anti-Stato” (Hegel), esempio aberrante di comunità che scardina l’equazione tra popolo, nazione, Stato e, quindi, ancora più inquietante agli occhi un movimento culturale politico come quello fascista e nazista, esplicitamente nazionalista, illiberale e razzista.
Bisogna aggiungere che, in questo attacco all’Illuminismo, che venne quasi naturalmente a combinarsi con l’attacco agli ebrei, il nazismo, rispetto al fascismo, con il suo dogma del Blut und Boden, si spinse oltre, fino a colpire la concezione dell’uomo ereditata dalla tradizione giudaico-cristiana, come aveva intuito Emmanuel Lévinas, in un articolo pubblicato nel 1934 sulla rivista Esprit: “L’essenza dell’uomo non è più nella libertà, ma in una sorta di incatenamento. Essere veramente se stessi, non significa risollevarsi al di sopra delle contingenze, sempre estranee alla libertà dell’Io: ma, al contrario, prendere coscienza dell’incatenamento originale, ineluttabile, unico al nostro corpo, significa soprattutto accettare questo incatenamento (...) Da questa concretizzazione dello spirito deriva immediatamente una società a base consanguinea (...) Incatenato al suo corpo, l’uomo si vede rifiutare il potere di sfuggire a se stesso”[7]. Un attacco, quindi, non solo all’Illuminismo e ai suoi valori (l’autonomia, la finalità umana delle nostre azioni, l’universalità morale e giuridica, senza distinzioni di razza, di ceto, di religione), ma anche alle radici spiritualiste da cui quei valori scaturivano nella loro distillazione secolarizzata.
E per avere la sensazione di quale potesse essere la condizione psicologica di un ebreo nel clima plumbeo e “anti-illuminista” in cui la crisi di civiltà europea era precipitata, basterà rileggere il passo di una delle lettere, scritte tra il 1920 e il 1923, di Franz Kafka a Milena Jesenská, che morirà nel 1944 nel campo di concentramento di Ravensbrück: “Per me tutto avviene all’incirca come per qualcuno che, ogni volta che uscisse, dovesse non soltanto lavarsi, pettinarsi ecc. - il che è già abbastanza faticoso - ma venendogli a mancare tutto una volta di più, ogni volta, dovesse anche cucirsi un vestito, fabbricarsi delle scarpe, confezionarsi un cappello, tagliarsi un bastone ecc. Naturalmente non tutto gli riuscirebbe bene, le cose reggerebbero per una strada o due (...) Alla fine, in via del Ferro, si imbatterebbe in una folla che sta dando la caccia agli ebrei”. Ecco, il Giorno della Memoria deve servire anche a ricordarci il dovere morale di preservare i valori moderni che permettono di costruire una società in cui nessuno si senta manchevole per essere uomo, come i suoi simili, e in cui nessuno venga considerato mai un “uomo di troppo”.
[1] Vedi: U. Galimberti, La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Feltrinelli, Milano 2005, cap. 25
[2] M. Serres, Trahison: la thanatocratie (1972), in: M. Serres, Hermès III. La traduction, Le Minuit, Paris 1974, p. 74
[3] D. Runciman, Così finisce la democrazia. Paradossi, presente e futuro di un’istituzione imperfetta, Bollati Boringhieri, Torino 2019.
[4] Storico israeliano di origine polacca, professore di Scienza politica presso la Hebrew University di Gerusalemme, autore di numerosi saggi, tra cui: Nascita dell’ideologia fascista, Baldini & Castoldi, Milano 1993; La destra rivoluzionaria, Corbaccio, Milano 1997; Né destra, né sinistra, Baldini & Castoldi, Milano 1997.
[5] H. Arendt, Illuminismo e questione ebraica, Cronopio, Napoli 2007
[6] A. Glucksmann, I padroni del pensiero, Garzanti, Milano 1977
[7] E. Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet, Macerata 2005, pp. 32, 34
HANNAH ARENDT E MARTIN HEIDEGGER: VITA E FILOSOFIA. IL PROBLEMA DELLA NASCITA... *
Arendt, sempre al di là del dove, e ora stretta in una striscia
Questioni tedesche/Graphic. Dall’infanzia prussiana, all’università con Strauss, Löwith, Marcuse, Lévinas, alla bohème berlinese, all’esilio parigino, a N.Y. «Le tre fughe di Hannah Arendt» di Krim Krimstein, da Guanda
di Alessandro Dal Lago (il manifesto, Alias Domenica, 13.10.2019)
Nell’opinione comune, i filosofi sono gente reclusa in studi foderati di libri e priva, in sostanza, di biografia e accessi al mondo. Fu Hannah Arendt, per esempio a citare una frase di Heidegger su Aristotele, secondo cui lo stagirita «visse, lavorò e morì». L’immagine del filosofo come essere estraneo alla vita e alla realtà è stata formata nell’Ottocento da un libretto divertente e maligno di Thomas de Quincey, Gli ultimi giorni di Immanuel Kant, in cui il gran saggio è mostrato come un vecchio un po’ rimbambito che vaga per le vie di Königsberg e si sbrodola a tavola.
In realtà, un buon numero di pensatori ebbe una vita turbolenta e attiva. Pitagora esaltava le pratiche sportive e Platone, oltre che essere esperto di lotta, tentò a più riprese di influenzare il governo di Siracusa, per essere infine venduto come schiavo dal vendicativo tiranno Dionisio il vecchio, con cui era entrato in conflitto. Quanto a Cartesio, si sa che prima di chiudersi in una capanna a meditare sul cogito era stato soldato nella guerra dei trent’anni. E non parliamo di Leibniz, matematico, diplomatico ed esperto di miniere, o di Voltaire che corrispondeva con i principi di tutta Europa e interveniva pubblicamente contro la tortura e la pena di morte.
La rinuncia alla filosofia
È forse pensando alla leggenda grigia dei filosofi maldestri e appartati che il cartoonist Krim Krimstein ha dedicato una storia a fumetti o graphic novel a Hannah Arendt, la filosofa che meno corrisponde all’immagine del pensiero solitario ed estraneo al mondo. In Le tre fughe di Hannah Arendt. La tirannia della verità (traduzione di Antonella Bisogno, Guanda, pp. 233, e 20,00) Krimstein realizza il singolare tentativo di fondere la biografia di Arendt con il suo pensiero. L’aspetto più interessante in questa vicenda è l’estraneità di Arendt alla filosofia in senso stretto. Come si legge nel prologo («Umano troppo umano. Introduzione a una vita»): «Come mai questa persona, probabilmente la più grande filosofa del ventesimo secolo, ha rinunciato alla filosofia, e, nonostante questo, il suo pensiero rimane per l’umanità una via praticabile per progredire?».
La domanda rimane senza risposta, nel romanzo a fumetti, e non poteva essere diversamente. Dagli anni Ottanta in poi, la critica, in centinaia di libri e saggi, si è sbizzarrita sulla questione, cercando la soluzione nel tormentato romance di Arendt con Heidegger, il filosofo che cedette al nazismo, nell’incapacità della filosofia contemporanea di pensare la politica e, spiegazione che mi sembra la più ragionevole, in una personalità poliedrica, che cercava la spiegazione dei problemi che la assillavano nella filosofia, certamente, ma anche nella teoria politica, nella storia, nella letteratura e nella poesia. Più che rinunciare alla filosofia, come certamente la stessa Arendt ha affermato, si può dire che la nostra filosofa si sentiva stretta nella galleria soffocante di pensatori accademici, che pure aveva frequentato e variamente apprezzato, da Husserl a Jaspers e allo stesso Heidegger.
Krimstein riversa in immagini la storia di questo personaggio eccentrico, sempre al di là di dove si cerca di fissarla: ebrea, ma affascinata dal pensiero cristiano, allieva dei tre massimi pensatori di area tedesca, ma soprattutto affine al cugino acquisito Walter Benjamin, l’irregolare per eccellenza, attratta dalla dimensione della politica, ma impossibile da classificare in uno schieramento (anarchica e per certi versi tradizionalista, aristocratica e profondamente democratica, sionista in gioventù e critica di Israele e così via).
Tutta questa complessità, d’altronde era giù iscritta nella biografia, che la vede intellettuale a Berlino e studentessa di filosofia a Marburg, perseguitata dai nazisti e fuggiasca in Francia, esule negli Stati Uniti, accademica onorata e infine rigettata dagli intellettuali ebrei e ignorata dagli amici per avere scritto in modo non convenzionale e assai penetrante del processo a Eichmann nel 1961.
Pensatrice fuggiasca per definizione, può Arendt essere inquadrata in modo appropriato da un romanzo a fumetti? Come può il suo pensiero paradossale, ovvero la supremazia dell’azione rispetto al pensiero, che appare nelle sue opere fondamentali (Vita activa e La vita della mente), essere tradotto in vignette?
Krimstein sceglie di privilegiare la biografia rispetto alla teoria, come è inevitabile. E così ci scorrono davanti le immagini dell’infanzia in Prussia, dell’università - in cui frequentò compagni destinati a diventare famosi (Leo Strauss, Karl Löwith, Herbert Marcuse, Emmanuel Lévinas), della bohème berlinese, dell’esilio parigino, della vita intellettuale di New York e infine della solitudine che precedette la morte. Ecco allora che, attraverso la vita di questa filosofa per certi versi inafferrabile, un pezzo di Novecento, con le sue tragedie immani e le sue illusioni scorre davanti agli occhi (si spera) di gente giovane, curiosa e insoddisfatta delle categorie e dei pregiudizi dell’opinione corrente.
Tra le lenzuola di Heidegger
Resta, nell’operazione di Krimstein, qualcosa che probabilmente Arendt non avrebbe troppo apprezzato, e cioè il rilievo eccessivo attribuito alla sua vita intima e sentimentale. Se c’è un aspetto sul quale Arendt rompe con quasi tutta la filosofia del Novecento è la sua critica radicale dell’interiorità. In Vita activa, appare quasi un gesto di disprezzo nei confronti di una certa filosofia, che pretende di chiudersi nella contemplazione della vita soggettiva e dell’anima, invece che del mondo. In questo Arendt si distacca radicalmente dalla fenomenologia e dal suo amato Agostino (Noli foras ire! In interiore homine habitat veritas). Forse Krimstein avrebbe dovuto rammentarlo mentre si accingeva a disegnare Arendt e Heidegger che si scambiano effusioni a letto discettando di morte e verità...
Ma non dovremmo fargliene una colpa. A un periodo di critica, giusta o sbagliata, aspra o apologetica, del pensiero di Arendt è seguita una serie di libri che, in nome della verità biografica, si soffermano sulla sua relazione con Heidegger, ai limiti del gossip filosofico. È mettendo da parte questo genere letterario francamente scadente che il discorso su Arendt può ripartire.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"LA VITA DELLA MENTE. Conclusioni" (H. ARENDT): AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO"
"NICODEMO O DELLA NASCITA": LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI).
VITA E FILOSOFIA: METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI.
Federico La Sala
FILOSOFIA E FILOLOGIA. IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS: CHARITAS....
Tesi di Laurea
IL PRINCIPIO DI CARITÀ [2016]
Definizione e analisi critica tra ermeneutica e logica
a cura di Francesco Gandellini **
SOMMARIO Introduzione .................................................................................................................
1 Sezione 1: il versante ermeneutico ....................................................................... 5
1.1 La genesi agostiniana del principio .................................................................... 7
1.2 L’illuminismo tedesco e il nesso linguaggio-mondo ................................. 23
1.2.1 Wilhelm von Humboldt: “Sprachansicht als Weltansicht” ................................................................... 27 -APPENDICE Georg Friedrich Meier e il “Versuch einer allgemeinen Auslegungkunst” .................................. 43
1.3 La linea ontologica dell’ermeneutica contemporanea .............................. 53
1.3.1 Martin Heidegger e l’analitica esistenziale di “Sein und Zeit” ................................................ 55
1.3.2 Hans-Georg Gadamer e l’ermeneutica ontologica di “Warheit und Methode“ ........................ 69
Sezione 2: la riflessione logica .............................................................................. 85
2.1 Fondamenti teorici della carità in logica ....................................................... 87
α ) La riflessione filosofica di Ludwig Wittgenstein ......................................... 89
β) L’ipotesi della relatività linguistica............................................................ 100
2.2 Willard van Orman Quine e l’argomento di “traduzione radicale” ............................................................... 113
2.3 Donald Davidson e l’interpretazione radicale ..................................................................................... 137
Conclusione .............................................................................................................. 157
Bibliografia ............................................................................................................... 161 -Sitografia................................................................................................................... 163
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INTRODUZIONE
Il termine “carità” deriva etimologicamente dal latino caritas (acc. caritatem, «benevolenza», «amore», questo da
carus, «caro», «costoso», «diletto», «amato»), e a sua volta dal greco χάρις, «grazia». Dal punto di vista dell’etimo, la parola cattura l’idea dell’amore disinteressato ma prezioso verso qualcuno, della benevolenza gratuitamente concessa al destinatario, senza riserve rispetto alla sua condizione.
Gli etimologisti latini derivavano il lemma carus
dalla prima persona singolare del presente del verbo carēre, ovverocareo, «manco», «sono privo di», e ritenevano di giustificare il valore di una cosa sul metro della mancanza della cosa stessa, in modo tale che tanto più se ne avverte l’assenza, tanto più essa acquista valore e pregio.
Passando per il greco χάρις e dal verbo χαίρω, «rallegrarsi», «provare piacere», si arriva alla radice sanscrita ka = ca (sscr. ka, kan, kam), presente in parole quali kâma, «amore», kamana, «desiderabile», «bello»,kamara, «amoroso», kam-e, «desiderò», «amò». Si possono, inoltre, trovare affinità nel lettone kahrs, «cupido», nel gotico hors, da cui il tedesco Hure, «meretrice», ma che si riallaccia al latino quaero, «cercare», «ricercare», «bramare» ciò che è desiderato. Il termine “carità” afferisce, dunque, anche alla sfera dell’amore desiderato, del richiesto perché bramosamente bello e capace di dare piacere e rallegrare.
Il principio di carità rappresenta un criterio prezioso, disinteressato ma richiesto nella logica del dialogo. Esso fornisce una norma fondante, sebbene implicita, per la costruzione di un confronto fecondo e esente da appropriazioni o strumentalizzazioni di qualunque sorta. Il valore apportato dal principio di carità consiste, forse banalmente, nel rendersi disponibile all’ascolto dell’altro e nell’attribuire pregnanza di senso alle sue parole, almeno fino a un evidente punto di non ritorno.
La scelta di trattare il principio di carità come argomento di tesi va incontro alla necessità di indagare l’implicito, il sottinteso, il banale che sovente viene trascurato e passato sotto silenzio, col rischio di dimenticarne la validità e l’utilità concreta e portante nell’ambito dell’umano. Si tratta, perciò, di far riermegere agli occhi della coscienza i fondamenti troppo spesso dati per scontato e, proprio per questo, dimenticati, abbandonati e relegati a relitti a margine dell’edificio del sapere.
È compito primario della filosofia conferire dignità conoscitiva a quanto viene accolto come evidente, ovvio, lapalissiano perché in ciò, e nel suo oblio, si possono rinvenire “proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino”1, ossia quegli interrogativi umani centrali in cui ne va della quotidianità tanto quanto dell’esistenza intera, oltre che di una convivenza pacifica. Spingendo la riflessione in direzione di ciò che pare assodato e fuori di dubbio ai fini della riflessione stessa, si giunge a capire e a rendere ragione di una complessità nuova, nella quale si gioca qualcosa come la comprensione o il fraintendimento tra gli individui.
Il principio di carità è una guida rimasta finora col capo coperto. Esso ha condotto e conduce gli uomini nei meandri tortuosi della comunicazione, del rapporto dialogante e dell’interpretazione reciproca. Può pregiudicare il buon andamento di una discussione, rimanendo nell’anonimato e nell’ombra. Determina e garantisce lo spazio minimo per l’intesa e l’accordo, ma può anche sancirne il definitivo naufragio.
Lo scopo della presente trattazione è di portarne alla luce, in un percorso storico e tematico, le caratteristiche principali, in modo da scoprirne il capo e segnalarne i lineamenti distintivi. La filosofia, nel suo decorso storico, si è raramente rivolta in modo esplicito al principio di carità. Fatta eccezione per Agostino, per il caso isolato dell’illuminista tedesco Georg Meier (che lo chiama principio di equità ermeneutica) e per la riflessione dei logici contemporanei (Wilson, Quine, Davidson), esso non viene pressoché mai menzionato o, almeno, non con questo appellativo con cui, soprattutto recentemente, è tornato alla ribalta.
Si tratta, quindi, e questo è l’intento del lavoro, di rimarcarne gli aspetti costituivi, laddove il criterio sia stato suggerito dagli autori, oppure di ricercare ed enucleare possibili edizioni, implicitamente consegnate dai filosofi alla riflessione sul principio in questione. Per questo la tesi potrebbe soffrire di discontinuità più o meno consistenti, dettate appunto dall’esigenza di scandagliare le profondità del pensiero filosofico, anche mediante salti temporali e concettuali rilevanti, in quei punti ritenuti significativi per una trattazione ampia e pregnante, ma filtrata sempre nel setaccio della carità ermeneutica e logica.
1 E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, il Saggiatore 2008, pag. 35
** UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO
Dipartimento Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in FILOSOFIA. Supervisore: Prof. Varzi Achille Carlo, Co-Supervisore: Prof. Ghia Francesco, Laureando: GANDELLINI Francesco.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
EMPATIA. Cosa significa adottare il punto di vista altrui? Due approcci complementari ce lo spiegano
METTETEVI UN PO’ NEI MIEI PANNI
di Alessandro Pagnini *
Due libri sull’empatia usciti quasi contemporaneamente, di Laura Boella e Antonio Rainone, testimoniano quella che i due autori considerano una vera e propria attuale rinascita di interesse per il tema. L’empatia è una forma di comprensione, come indicava Dilthey, fondata sull’affinità ontologica e psicologica di soggetto e oggetto, che avviene in una sorta di immedesimazione, di proiezione immaginativa, in cui «io» e «tu» entrano in un sottile gioco di condivisione, anche emotiva, di esperienze e di idee.
Il significato del termine non è mai stato univoco, per cui ha ragione Boella ad avvertirci di non confondere l’empatia con l’amore, con la compassione, con la simpatia, mentre sembra più proficuo riportarla nell’alveo naturale del suo battesimo «tecnico»: da una parte, quello del «dibattito sul metodo» in psicologia e in ambito storicistico (su cui insiste di più Rainone), dall’altra, quello del «sentire l’altro» in un’etica che sia sensibile alla lezione della fenomenologia di Heidegger e di Levinas (Boella).
Rainone, da parte sua, dà maggior risalto al modo del tutto peculiare in cui il dibattito sul verstehen è penetrato nel neopositivismo e nella filosofia analitica, fino a leggere originalmente la «riscoperta» dell’empatia dove meno è trasparente: nella tesi del «comportamentista» Quine su come concepire le attribuzioni intenzionali (le attribuzioni ad altri di credenze e desideri) e su come risolvere il problema della «traduzione radicale» di un linguaggio alieno; e quindi nelle tesi, particolarmente rilevanti, di Putnam e Nozick, tra chiarimenti intorno al cosiddetto «principio di carità» e teorie del contenuto concettuale e della razionalità nell’azione.
Alla fine, Rainone condivide l’interesse di molti filosofi anche per alcune teorie sperimentali sullo sviluppo ontogenetico della psicologia ingenua dette del mindreading ; dove alla «teoria della teoria», che postula il possesso da parte degli esseri umani di una "teoria" implicita (su basi innatistiche) che ci consente di interpretare il comportamento e il linguaggio altrui (noi congetturiamo su quello che vuol dire e fare l’altro esattamente come lo scienziato predice l’occorrenza di un evento), si contrappone la «teoria della simulazione», che postula la simulazione, talora letta in chiave di inferenza analogica, come procedimento di base che soddisfa quella funzione.
La storia che ci racconta Rainone parte da Dilthey e Collingwood per arrivare a Davidson, ai neowittgensteiniani e ai dibattiti più recenti in filosofia della mente e in epistemologia (soprattutto quella «affidabilista» e quella ingaggiata nei problemi controversi di una sua «naturalizzazione»). La storia che richiama Boella, per approdare a considerazioni soprattutto etiche, parte invece da quell’empatia che Husserl definiva un «enigma... oscuro e... tormentoso», e passa poi per Scheler e soprattutto per la Edith Stein (filosofi cari all’autrice), con la quale è condiviso il senso della necessaria attenzione per l’empatia: «Osservare e descrivere il fondamento originario del nostro esistere insieme agli altri».
Le due trattazioni sono palesemente molto diverse, al punto di non avere, assai sorprendentemente, neppure un minimo di riferimenti bibliografici in comune. La trattazione di Rainone informa in dettaglio, con una opportuna attenzione alla sequenza storica delle posizioni, sui contenuti di un dibattito che si è andato trasformando nel tempo soprattutto per la sua spesso essenziale contiguità con gli esiti delle scienze (da quelle psicologiche cognitive a quelle biologico-evoluzionistiche e neurofisiologiche), fino a cogliere la rilevanza della recente scoperta dei «neuroni specchio» per la teoria della simulazione (i «processi simulativi sarebbero una sorta di software attivato a livello cerebrale»). La trattazione della Boella è invece più improntata a descrizione fenomenologica a partire dalla nostra esperienza quotidiana, più attenta alle modulazioni dei rapporti vissuti tra corpo, emozioni e mente, ed è più concentrata sul significato morale del "praticare" l’empatia. Boella, con una scrittura adatta a cogliere la grana fine dell’esperienza concreta, creativa nelle metafore e nelle suggestioni, mutua più dalla letteratura (preziosa alleata sin dalle epigrafi) che non dalla scienza. Era stato Milan Kundera, del resto, a cogliere opportunamente come la letteratura (il romanzo) avesse nella modernità ereditato quella «passione del conoscere» di cui parlava Husserl, scrutando la vita concreta dell’uomo, tenendo il «mondo della vita» sotto una luce perpetua, senza incorrere nell’«oblio dell’essere».
Sono anch’io convinto, senza condividere quelle premesse filosofiche, che la letteratura ci insegni molto, soprattutto sull’empatia. Sicuramente più di quanto la più fantasiosa delle filosofie contempli (basterebbero le pagine strordinarie, recentemente rilette da Sebald nel suo Passeggiatore solitario, in cui Robert Walser "empatizza" con un lapis, o con la cenere, per lo sconcerto di qualsiasi teoria, sia essa epistemologica o relativa alla scoperta dei valori etici). Ma personalmente non inclino alle filosofie che rivaleggiano con la letteratura (preferisco la letteratura), prediligo (pace Heidegger) le filosofie "rigorose" a quelle "serie", non amo quelle che indulgono agli enigmi o alle magiche congiunzioni di anime. E così, in tutto il materiale che questi due bei libri ci mettono a disposizione, trovo più congeniali Nozick e quei tentativi «bayesiani» di ricondurre il fenomeno dell’empatia in un ambito empirico e razionale (tentativo altrove riuscito anche per quella particolare forma di empatia che è, per certi versi, l’abduzione, o l’«occhio clinico», o la metis rivista in chiave di abilità «indiziaria»). Raccomandando però, con sincero spirito bipartisan, la lettura di tutt’e due.
*Il Sole-24 Ore, 09.07.2006 (ripresa parziale - senza foto).
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI. Al di là del "paradosso della ripetizione" ... *
TROVO MOLTO INTERESSANTE l’indicazione di FRANCESCA (vedi - sopra) di mettere i piedi a Terra e guardare la Luna. Al di là dei limiti del percorso di Fachinelli, mia opinione, di ciò che resta fondamentale del suo lavoro è la decisiva messa in evidenza di quanto - antropologicamente - sta al fondamento della rivoluzione (e pratica!) psicoanalitica: "La mente estatica" (1989)! Si possono chiudere porte e finestre all’infinito, ma ora non solo dalla caverna platonica ma anche dall’isola di Creta ("Sulla spiaggia", 1985) si può uscire (cfr. Fachinelli e Freud nella "nave" di Galilei), riprendere la navigazione e guardare dall’Oceano, terrestre e celeste, la Terra ...
IL "GIARDINO" DEVASTATO E LE PIANTE. "Lo sciovinismo antropologico/antropocentrico (e più generalmente zoo-logico/zoo-centrico) che impera su gran parte della filosofia morale e politica dall’antichità ai giorni nostri non ammette un valore delle piante in quanto tali. Per gli esseri umani è molto più facile identificarsi con gli animali che con le piante, la cui fisiologia risulta difficile da comprendere (l’antropomorfismo e lo zoomorfismo vanno facilmente insieme). L’apparente immobilità delle piante, la loro apparente mancanza di differenziazione, il loro essere apparentemente inermi e inette, rendono le piante poco salienti per i sensi degli esseri umani - facilitando così anche la scomparsa della vita vegetale dall’orizzonte dell’etica e della politica.
Quest’oblio è ingiustificato in sé e costituisce anche un problema urgente per l’etica dell’ambiente. Se non si dà valore alle piante, perché le si ritiene prive delle caratteristiche necessarie a generare valore (come l’autocoscienza, l’intelligenza, la capacità di provare sensazioni ed emozioni, di agire, di esercitare la volontà), allora non si potrà dare valore alla natura inanimata, cioè agli ecosistemi e al mondo naturale nel suo complesso, dichiarando così il fallimento di ogni tipo di etica dell’ambiente non fondamentalmente antropo- o zoo-centrica.
Nella pratica, alcuni degli atteggiamenti più rapaci e noncuranti nei confronti della natura potrebbero ben derivare proprio dal nostro rifiuto o incapacità di aprirci alle piante e al loro valore, e addirittura alla stessa ipotesi che abbiano valore. Una buona quota della attuale crisi ecologica, possibilmente la più subdola e insidiosa, potrebbe risultare riconducibile a questa incapacità o rifiuto, e spiegabile attraverso il prisma delle nostre relazioni irrisolte con le piante.
Se si dà valore alle piante si è sulla buona strada per dare valore alla natura tutta, inclusa tutta quella inanimata; e non solo come un insieme indistinto, ma come un ricettacolo di diversità e di specificità e particolarità inesauribile. Una visione del genere terrà conto, per esempio, del fatto che gran parte della natura è roccia, acqua, e piante: la vita animale si attesta, in proporzione, solo al quarto posto - la “nazione delle piante”, come la battezza Stefano Mancuso, è di gran lunga la più popolosa [...]"(dal volume "Etica e politica delle piante", di Gianfranco Pellegrino e Marcello Di Paola, e con contributi di Simone Pollo e Alessandra Viola).
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Una metafisica per individui
di Roberto Casati (Il Sole-24 Ore, 19.02.2006)
Nella comunità intellettuale (considerata in senso ampio a includere chi si dedichi a una riflessione esplicita sui fondamenti concettuali e metodologici del proprio lavoro) non c’è un accordo sull’esistenza di fatti oggettivi. Il problema non riguarda soltanto una questione di conoscenza, ovvero del modo in cui potremmo accertarci di un fatto, e neppure riguarda soltanto discipline in cui sembra difficile convergere su ciò che conta come un fatto - come la teoria della letteratura (Manzoni voleva veramente esprimere una concezione del mondo giansenista?), della storia (che cosa ha determinato l’assassinio di Kennedy) o della giurisprudenza (Oswald ha agito davvero senza complici?)
È la nozione stessa di fatto oggettivo, di oggettività, a essere considerata discutibile (e a venire discussa). Le intenzioni degli autori o le cause degli omicidi sono davvero entità oggettive? Certo la discussione soffre di una certa vaghezza dei termini utilizzati. Il termine di contrasto principale è naturalmente con «soggettivo»; ma anche precisando il contrasto oggettivo/soggettivo, sostenere che non esistono fatti oggettivi può significare diverse cose. Per esempio, può significare che tutto è soggettivo nel senso che non ci sarebbero fatti se non ci fossero soggetti in grado di percepire o di pensare a tali fatti, o che c’è una componente soggettiva in ogni asserzione che facciamo sul mondo, o che la rappresentazione della realtà viene filtrata e distorta dai nostri sistemi cognitivi, o che ogni conoscenza inevitabilmente è un’azione, un intervento che modifica la cosa conosciuta, e via dicendo. La nozione di oggettività in gioco in questi diversi casi sarà di volta in volta differente.
Il filosofo Robert Nozick è noto al pubblico italiano per un grande libro di filosofia della politica, Anarchia, Stato e Utopia; e per un testo di filosofia più generale, Spiegazioni Filosofiche. L’ultimo lavoro pubblicato da Nozick prima della morte (avvenuta il 23 gennaio del 2002) è Invariances: The Structure of the Objective World (Harvard University Press, 2001, pp. 416, $ 24.50). Si tratta di un libro molto ambizioso, una summa metafisica che studia filosoficamente la nozione di oggettività alla luce delle trasformazioni della scienza. (Il capitolo introduttivo sul metodo filosofico è online sul sito di Harvard University Press)
Nozick distingue tre possibili ingredienti del modo di considerare l’oggettività. In primo luogo, quello appena menzionato dell’indipendenza dalla soggettività, da opinioni, speranze, misure soggettive. In secondo luogo, l’accesso multiplo: un fatto è oggettivo se vi si può accedere da prospettive differenti - attraverso sensi differenti, da punti di vista differenti, in momenti diversi (per esempio, vedo e sento la conversazione di Marco e Maria, o la vedo oggi e la rivedo in un film girato da un amico domani; o ancora, posso replicare un esperimento in momenti diversi). Infine, l’intersoggettività: un fatto è oggettivo se è possibile che soggetti diversi abbiano un accordo su di esso. Se sia io che voi contiamo i sassi in un mucchio e giungiamo al numero cinque, avremo ragione di pensare che è un fatto oggettivo che ci siano cinque sassi nel mucchio.
Accesso multiplo, intersoggettività e indipendenza sono elementi necessari, presi singolarmente, e sufficienti solo se presi nel loro complesso. Ma Nozick suggerisce che al di sotto di essi un quarto elemento, più profondo, permette di spiegare perché la nozione di oggettività includa proprio gli altri tre. L’elemento più profondo è l’idea di invarianza attraverso trasformazioni.
Nozick riconosce un debito non solo linguistico ma anche concettuale nei confronti della matematica, della fisica e di altre discipline scientifiche. Il Programma di Erlangen (1872) di Felix Klein (1849-1925) era volto a unificare i diversi tipi di geometria con lo studio dell’invarianza all’interno dei gruppi di trasformazioni ammissibili per le entità geometriche. Per esempio, le rotazioni e le traslazioni nello spazio lasciano invarianti le proprietà metriche delle figure; la proiezione di una figura su un piano che è ad essa parallelo non lascia invarianti le proprietà metriche ma preserva gli angoli. In psicologia la nozione di invarianza viene associata al lavoro di J.J. Gibson (1904-1979), che riteneva che i sistemi percettivi abbiano come funzione l’“estrazione” di elementi invarianti nell’ambiente (un approccio per questa ragione detto “ecologico”). Non ci sembra che una sedia cambi di forma mentre le giriamo intorno: siamo per così dire “sintonizzati” sulla forma invariante della sedia, anche se l’immagine che ne abbiamo a ogni istante muta continuamente. La psicologia della percezione generalizza la nozione, a volte chiamata “costanza”; quello che vale per la forma della sedia vale anche per il suo colore: non ci sembra che la sedia cambi colore in diversi momenti del giorno.
Alcune proprietà vengono conservate attraverso tutte le trasformazioni, altre resistono solo ad alcune trasformazioni. Questo inserisce un ordine di profondità tra le proprietà: le invarianze sono graduate. In geometria le proprietà topologiche sono più profonde di quelle metriche: bisogna alterare in profondità una figura per farle perdere la struttura topologica.
Nozick suggerisce per analogia che una differenza di profondità possa applicarsi alla nozione di oggettività. Ci sono proprietà che resistono a più trasformazioni di altre, e le prime saranno più oggettive delle seconde. La conoscenza di un oggetto si fonda sulla comprensione dell’interazione tra invarianza e la variazione: «Per comprendere qualcosa, non vogliamo soltanto conoscere le trasformazioni sotto le quali è invariante, ma anche quelle sotto le quali varia» (p. 78).
Il lavoro di Nozick tende a mostrare che i problemi metafisici non sono indipendenti dal contesto scientifico che li suscita. La nozione metafisica di oggettività che Nozick suggerisce di adottare non deriva da un’analisi filosofica apriori, ed è tributaria di nozioni che derivano dalle scienze. La metafisica progredisce, e può farlo anche perché la scienza pone problemi inediti ai filosofi e offre a volte strumenti per metterli a fuoco.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KANT E SAN PAOLO. -- CARITÀ O EMPATIA?!: LA LEZIONE DI QUINE E DI NOZICK: "CAPIRE IL COMPORTAMENTO UMANO" (di Antonio Rainone).
Federico La Sala
L’IMITAZIONE, L’EMULAZIONE, E IL PARADOSSO DELLA RIPETIZIONE “ORIGINALE” ... *
“La mimesi è l’atto di riprodurre il modello secondo le regole. L’emulazione è la spinta dell’anima mossa all’ammirazione” (Dionigi di Alicarnasso, “Sull’imitazione”).
IMITAZIONE E INDIVIDUAZIONE. “Se in campo filosofico il peccato originale dell’imitazione è consistito nella minaccia portata all’idolo del libero arbitrio ovvero all’ego del cogito cartesiano, altrettanto sacrilego risultò in ambito psicoanalitico l’attentato ai fondamenti pulsionali della psiche. Nel pensiero freudiano l’imitazione era confinata alla fase infantile o altrimenti alla psicologia delle masse, mentre nella psicologia analitica di Carl Gustav Jung tale facoltà si trovava a contrastare il fine ultimo di ogni esistenza umana, ovvero l’individuazione: “L’uomo ha una facoltà che per gli intenti collettivi è utilissima, e dannosissima per l’individuazione, quella di imitare”. Nella dichiarazione di Jung risulta comunque superata una concezione volta a relegare l’imitazione ai primi stadi dello sviluppo psichico e, ad onore del vero, lo stesso Freud aveva intuito già nel 1895, in Progetto di una psicologia, il valore imitativo delle percezioni sensoriali sussistere ben oltre l’infanzia. A questa intuizione ancorava le proprie ricerche, a metà degli anni Sessanta, il già citato Eugenio Gaddini grazie al quale è stato infine possibile riconoscere nell’imitazione una struttura permanente, una forma relazionale stabile [..]”.
BIOLOGIA E ANTROPOLOGIA. Le radici stanno nel fatto - come scrive Aristotele nella “Poetica”, capitolo secondo - che “coloro che imitano imitano persone che agiscono” e - come “Vittorio Gallese, membro del team parmense cui si deve la scoperta dei neuroni specchio, ha avuto modo di ribadire” - che “il meccanismo funzionale alla base di un modello dell’intersoggettività neuroscientificamente fondato consiste nella “simulazione incarnata” (embodied simulation): “Prima e al di sotto della lettura metarappresentazionale della mente si trova l’intercorporeità - la mutua risonanza di comportamenti sensoriali e motori significativi dal punto di vista intenzionale”.
“COME NASCONO I BAMBINI”. SE è VERO, COME è VERO CHE “Al di là delle formidabili oscillazioni del concetto di imitazione e delle sue varianti terminologiche nel corso di secoli di elaborazione dapprima filosofica, poi specificamente estetica e infine teorico letteraria, le teorie della mimesi paiono dispiegare, oltre ad una coerenza non sempre evidente ma di lungo periodo, una spiccata propensione ad oltrepassare i confini disciplinari”, PER NON PERDERSI NEL LABIRINTO delle infinite ramificazioni è bene riprendere il filo delle varie teorie dalla stessa dimensione biologica e antropologica della vita umano-sociale: la NASCITA!
* Sul tema, mi sia consentito, si cfr.:
QUESTIONE ANTROPOLOGICA. E’ lecito e ancora possibile affermare una verità universale sul genere umano? “J’accuse” di René Girard. L’incomprensione della lezione di Freud (Marx e Nietzsche) lo spinge ad un’apologia del cattolicesimo costantiniano
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica.
“CHI” SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A “UNA” DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
"ECCE HOMO": (ANTROPOLOGIA, NON "ANDROPOLOGIA" O "GINECO-LOGIA")!!! USCIRE DALL’ORIZZONTE COSMOTEANDRICO DA "SACRO ROMANO IMPERO"... *
La parola può tutto
di Ivano Dionigi (Avvenire, venerdì 3 gennaio 2020)
«Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua». In questa sentenza fulminante di don Lorenzo Milani (Lettera a Ettore Bernabei 1956), ispirata a un deciso afflato di giustizia sociale, trovo il più bel commento al passo in cui Aristotele (Politica 1253 a) riconosce nella parola (logos) la marca che caratterizza l’uomo e lo distingue dagli animali, che ne sono privi (tà zóa á-loga). La parola: il bene più prezioso, la qualità più nobile, il sigillo più intimo. A una persona, a un gruppo, a un popolo puoi togliere averi, lavoro, affetti: ma non la parola. Un divario economico si ripiana, un’occupazione si rimedia, una ferita affettiva si rimargina, ma la mancanza o l’uso ridotto della parola nega l’identità, esclude dalla comunità, confina alla solitudine e quindi riduce allo stato animale. «La parola - continuava il profetico prete di Barbiana - è la chiave fatata che apre ogni porta»; tutto può, come già insegnava la saggezza classica: «spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione» (Gorgia, Elogio di Elena 8). Ma essa è di duplice segno, nella vita privata come in quella pubblica: con i cittadini onesti e i governanti illuminati si fa simbolica (syn-bállein), e quindi unisce, consola, salva; confiscata dai cittadini corrotti e dai demagoghi si fa diabolica (dia-bállein), e quindi divide, affanna, uccide.
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
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A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2020/documents/papa-francesco_20200101_omelia-madredidio-pace.html)
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A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
CREATIVITÀ E IMMAGINAZIONE COSMOTEANDRICA (cosmologia, teologia, e antropo-logia!). QUALE DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")? QUALE MADRE: "MARIA-EVA" O "MARIA-MARIA"?!....*
SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
CAPPELLA PAPALE
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Mercoledì, 1° gennaio 2020
«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana!
Nel primo giorno dell’anno celebriamo queste nozze tra Dio e l’uomo, inaugurate nel grembo di una donna. In Dio ci sarà per sempre la nostra umanità e per sempre Maria sarà la Madre di Dio. È donna e madre, questo è l’essenziale. Da lei, donna, è sorta la salvezza e dunque non c’è salvezza senza la donna. Lì Dio si è unito a noi e, se vogliamo unirci a Lui, si passa per la stessa strada: per Maria, donna e madre. Perciò iniziamo l’anno nel segno della Madonna, donna che ha tessuto l’umanità di Dio. Se vogliamo tessere di umanità le trame dei nostri giorni, dobbiamo ripartire dalla donna.
Nato da donna. La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna. Le donne sono fonti di vita. Eppure sono continuamente offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che portano in grembo. Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità. Quante volte il corpo della donna viene sacrificato sugli altari profani della pubblicità, del guadagno, della pornografia, sfruttato come superficie da usare. Va liberato dal consumismo, va rispettato e onorato; è la carne più nobile del mondo, ha concepito e dato alla luce l’Amore che ci ha salvati! Oggi pure la maternità viene umiliata, perché l’unica crescita che interessa è quella economica. Ci sono madri, che rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone che hanno la pancia piena, ma di cose, e il cuore vuoto di amore.
Nato da donna. Secondo il racconto della Bibbia, la donna giunge al culmine della creazione, come il riassunto dell’intero creato. Ella, infatti, racchiude in sé il fine del creato stesso: la generazione e la custodia della vita, la comunione con tutto, il prendersi cura di tutto. È quello che fa la Madonna nel Vangelo oggi. «Maria - dice il testo - custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (v. 19). Custodiva tutto: la gioia per la nascita di Gesù e la tristezza per l’ospitalità negata a Betlemme; l’amore di Giuseppe e lo stupore dei pastori; le promesse e le incertezze per il futuro. Tutto prendeva a cuore e nel suo cuore tutto metteva a posto, anche le avversità. Perché nel suo cuore sistemava ogni cosa con amore e affidava tutto a Dio.
Nel Vangelo questa azione di Maria ritorna una seconda volta: al termine della vita nascosta di Gesù si dice infatti che «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (v. 51). Questa ripetizione ci fa capire che custodire nel cuore non è un bel gesto che la Madonna faceva ogni tanto, ma la sua abitudine. È proprio della donna prendere a cuore la vita. La donna mostra che il senso del vivere non è continuare a produrre cose, ma prendere a cuore le cose che ci sono. Solo chi guarda col cuore vede bene, perché sa “vedere dentro”: la persona al di là dei suoi sbagli, il fratello oltre le sue fragilità, la speranza nelle difficoltà; vede Dio in tutto.
Mentre cominciamo il nuovo anno chiediamoci: “So guardare col cuore? So guardare col cuore le persone? Mi sta a cuore la gente con cui vivo, o le distruggo con le chiacchiere? E soprattutto, ho al centro del cuore il Signore? O altri valori, altri interessi, la mia promozione, le ricchezze, il potere?”. Solo se la vita ci sta a cuore sapremo prendercene cura e superare l’indifferenza che ci avvolge. Chiediamo questa grazia: di vivere l’anno col desiderio di prendere a cuore gli altri, di prenderci cura degli altri. E se vogliamo un mondo migliore, che sia casa di pace e non cortile di guerra, ci stia a cuore la dignità di ogni donna. Dalla donna è nato il Principe della pace. La donna è donatrice e mediatrice di pace e va pienamente associata ai processi decisionali. Perché quando le donne possono trasmettere i loro doni, il mondo si ritrova più unito e più in pace. Perciò, una conquista per la donna è una conquista per l’umanità intera.
Nato da donna. Gesù, appena nato, si è specchiato negli occhi di una donna, nel volto di sua madre. Da lei ha ricevuto le prime carezze, con lei ha scambiato i primi sorrisi. Con lei ha inaugurato la rivoluzione della tenerezza. La Chiesa, guardando Gesù bambino, è chiamata a continuarla. Anch’ella, infatti, come Maria, è donna e madre, la Chiesa è donna e madre, e nella Madonna ritrova i suoi tratti distintivi. Vede lei, immacolata, e si sente chiamata a dire “no” al peccato e alla mondanità. Vede lei, feconda, e si sente chiamata ad annunciare il Signore, a generarlo nelle vite. Vede lei, madre, e si sente chiamata ad accogliere ogni uomo come un figlio.
Avvicinandosi a Maria la Chiesa si ritrova, ritrova il suo centro, ritrova la sua unità. Il nemico della natura umana, il diavolo, cerca invece di dividerla, mettendo in primo piano le differenze, le ideologie, i pensieri di parte e i partiti. Ma non capiamo la Chiesa se la guardiamo a partire dalle strutture, a partire dai programmi e dalle tendenze, dalle ideologie, dalle funzionalità: coglieremo qualcosa, ma non il cuore della Chiesa. Perché la Chiesa ha un cuore di madre. E noi figli invochiamo oggi la Madre di Dio, che ci riunisce come popolo credente. O Madre, genera in noi la speranza, porta a noi l’unità. Donna della salvezza, ti affidiamo quest’anno, custodiscilo nel tuo cuore. Ti acclamiamo: Santa Madre di Dio. Tutti insieme, per tre volte, acclamiamo la Signora, in piedi, la Madonna Santa Madre di Dio: [con l’assemblea] Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio!
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Federico La Sala
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE..... *
Femminismo
Cartoline da un decennio
di Ida Dominijanni, giornalista (Internazionale, 31 dicembre 2019)
All’ingresso negli anni venti del secolo scorso furono le flapper, donne giovani, indipendenti e anticonformiste, a imprimere il segno della gioia di vivere su un decennio che si sarebbe poi colorato di tinte funeree. Finita la grande guerra che le aveva emancipate forzosamente mettendole al lavoro al posto degli uomini spediti al fronte, scorciarono le gonne, si tagliarono i capelli e decisero che era venuto il momento di invadere la città e di godersi la vita, a costo di scandalizzare tutti i benpensanti dell’occidente che con quel termine, flapper, le stigmatizzavano come ragazzine di troppo facili costumi. Cominciava così, fra il gioco e la necessità, quella mutazione della specie che avrebbe smantellato il monopolio maschile della felicità pubblica e che da allora in poi non si è mai arrestata, dilagando dall’occidente a tutte le latitudini del pianeta.
Un secolo dopo delle flapper non c’è più bisogno: le cattive ragazze sono dappertutto, con gli orli e i capelli corti o lunghi, con desideri espliciti e ambizioni autorizzate, anche se la specie non ha ancora fatto i conti con questa mutazione e non manca di resisterle. Eppure sono di nuovo le donne a dare il segno del mutamento e della felicità pubblica a un passaggio di decennio per lo più marcato dall’incertezza e da passioni tristi.
I decenni, si sa, sono come il bicchiere del proverbio: li si può vedere mezzi vuoti o mezzi pieni. Di quello che sta per chiudersi è più facile enumerare i vuoti che i pieni, i moti retrogradi che gli sprazzi di futuro, i capovolgimenti inattesi che le promesse mantenute. Anche stavolta, intanto, c’è stata una grande guerra, non militare ma economica, con il suo corredo di morti, feriti, azzoppati, declassati, impoveriti, illividiti; qui in Europa non ne siamo ancora fuori, tanto meno in Italia, ed è pressoché certo che qui le cose non torneranno mai più com’erano prima e altrove chissà, se alla crisi economica aggiungiamo quella ambientale che toglie il respiro anche a quelle parti della terra dove il motore della crescita gira vorticosamente.
C’è una crisi demografica, che precipita l’Europa in una vecchiaia senza ritorno a meno che non apra ai popoli che vengono dal sud quelle porte che oggi si ostina a tenere chiuse.
C’è una crisi democratica, che capovolge in rancore l’illusione che la democrazia avrebbe messo tutto il mondo a regime e ne scombina tutti i piani, con capi impresentabili che spuntano ovunque e popoli gregari che ne inseguono false promesse e velleità di potenza. C’è una crisi tecnologica, anche qui con un rovesciamento del miraggio egualitario della rete nella presa d’atto dei suoi dispositivi gerarchici di sorveglianza, controllo, estrazione di lavoro e di valore.
C’è una crisi, perfino, epistemologica, con l’appannarsi del confine fra vero e falso, informazione e fake news, lumi della ragione e buio delle credenze, che erode il nocciolo stesso dell’autodeterminazione e ci mette tutti nella condizione dell’angelo di Benjamin, con il futuro alle spalle e il progresso ridotto a una montagna di macerie. E potremmo chiuderla qui, con l’immagine di un decennio avvolto nella parola “crisi” variamente declinata ma riassumibile sotto il nome di crisi del neoliberalismo, e senza che se ne vedano le soluzioni o l’uscita.
Eppure, il bicchiere si può rovesciare, come fa Rebecca Solnit sul Guardian, invitandoci a guardare le cose da un’altra prospettiva. Perché proprio questa infilata di crisi ci ha aperto gli occhi, trasformando la disillusione non sempre in rancore, paura e nostalgia ma anche in rivolta, resistenza, immaginazione del futuro. Guardato da questa prospettiva, il decennio è attraversato da un filo rosso di movimenti che non smettono di ripresentarsi da ogni parte del mondo: Occupy Wall street, le primavere arabe, Black lives matter, il movimento sul cambiamento climatico dall’Artico all’Equatore, le piazze gremite degli ultimi mesi in America Latina, i gilet gialli in Francia. E il femminismo di ultima generazione dappertutto, dal Cile al Messico, dal Giappone alla Corea del Sud, dall’Europa all’India, dal Pakistan al Kenia, e da Hollywood alle periferie più sofferenti: una rivolta dentro la rivolta, come da sempre il femminismo si presenta, ad ammonire che non c’è ribellione contro la finanza, contro il capitalismo delle piattaforme, contro i dittatori, contro le polizie, contro i fondamentalismi, contro il razzismo, contro lo sfruttamento mortifero della natura, che non passi per lo smantellamento delle strutture profonde del dominio sessuale e per la tessitura di una diversa trama dell’io, del noi, delle relazioni umane.
Non c’è uscita dalla razionalità neoliberale, che ha ridisegnato l’antropologia politica del mondo mettendo sul trono un individuo tanto proprietario, narcisista e competitivo quanto deprivato, isolato e infelice, senza ritessere la trama delle alleanze intersezionali fra quante e quanti in quell’individuo non si riconoscono.
Conosciamo le obiezioni: questi movimenti spuntano e passano, non vincono, sono poca cosa rispetto alle torsioni verso destra dei popoli e degli elettorati. Ma i movimenti non vincono le elezioni, cambiano la testa e il cuore di chi li fa e di chi ne è contagiato; scavano in profondità, aprono l’immaginazione del presente e del futuro, rimettono al mondo la felicità pubblica dove imperano le passioni tristi; rilanciano il desiderio di politica dove la politica costituita agonizza; modificano, appunto, la prospettiva. Sotto questa prospettiva, la visione del decennio cambia: l’infilata delle crisi diventa un generatore imprevedibile di soggettività, e l’icona che meglio la condensa è quella di un maschio bianco impaurito che pretende di tornare sovrano erigendo barriere e confini circondato da una moltitudine di donne che glielo impediscono. Trump e il Metoo, Salvini e Carola Rackete, Putin e Olga Misik, i potenti della terra e Greta: cartoline da un decennio niente male.
Oggetto privilegiato di addomesticamento del neoliberalismo, le donne ne sono diventate la principale spina nel fianco, le frontwomen di una rivolta che i media mainstream riducono alla conta delle presidenze e delle onorificenze femminili ma che ha per posta in gioco un cambio di civiltà. Non ci sono tetti di cristallo da rompere ma basi sociali da ricostruire. Il gioco, nel decennio che verrà, si farà certamente più duro se non tragico come un secolo fa, ma giocato dalla parte giusta si annuncia anche gravido di buone promesse.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
ECUMENISMO E PROBLEMA DELL "UNO" ... *
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe.
Contemplando con fede la casa di Nazareth ogni credente può scorgervi un modello
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 29 dicembre 2019)
La vita nasce da una relazione che si apre all’infinito, perché ogni essere umano che viene al mondo è segno dell’amore sconfinato di Dio. La famiglia è scrigno prezioso che ha la responsabilità di dare forma a questa continua promessa di futuro.
Oggi il rito romano pone la festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, icona universale di un’intimità domestica portatrice di un messaggio rivoluzionario: Dio abita in mezzo a noi. Contemplando la casa di Nazareth ogni credente non può non scorgervi un’ispirazione e un modello: i piccoli gesti di cura e attenzione vissuti tra quelle mura testimoniano lo stile dell’agire di Dio nella storia. Ecco perché per i cristiani farsi compagni di strada degli ultimi significa prima di tutto essere luce di speranza e di amore per le persone più vicine: tutti abbiamo bisogno di aprirci continuamente alla vita attraverso relazioni d’amore.
Altri santi. San Davide, re (X sec. a.C.); san Tommaso Becket, martire (1118-1170).
Letture. Sir 3,3-7.14-17; Sal 127; Col 3,12-21; Mt 2,13-15.19-23.
Ambrosiano. Pr 8,22-31; Sal 2; Col 1,13b.15-20; Gv 1,1-14.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
FLS
«Perché la storia continui». Appello per una Costituzione della Terra
Proposte. Appello per un nuovo costituzionalismo globale, una bussola etica e politica per salvare il mondo e i suoi abitanti dalla distruzione.
di Raniero La Valle, Luigi Ferrajoli, Valerio Onida, Raffaele Nogaro, Paolo Maddalena, Mariarosaria Guglielmi, Riccardo Petrella (il manifesto, 26.12.2019)
Nel pieno della crisi globale, nel 72° anniversario della promulgazione della Costituzione italiana, Raniero La Valle, Luigi Ferrajoli, Valerio Onida, il vescovo Nogaro, Riccardo Petrella e molti altri lanciano il progetto politico di una Costituzione per la Terra e promuovono una Scuola, «Costituente Terra», che ne elabori il pensiero e prefiguri una nuova soggettività politica del popolo della Terra, «perché la storia continui». Pubblichiamo le parti essenziali del documento che esce domani, in data 27 dicembre 2019.
L’Amazzonia brucia e anche l’Africa, e non solo di fuoco, la democrazia è a pezzi, le armi crescono, il diritto è rotto in tutto il mondo. «Terra! Terra!» è il grido dei naufraghi all’avvistare la sponda, ma spesso la terra li respinge, dice loro: «i porti sono chiusi, avete voluto prendere il mare, fatene la vostra tomba, oppure tornate ai vostri inferni». Ma «Terra» è anche la parola oggi più amata e perduta dai popoli che ne sono scacciati in forza di un possesso non condiviso; dai profughi in fuga per la temperatura che aumenta e il deserto che avanza; dalle città e dalle isole destinate ad essere sommerse al rompersi del chiavistello delle acque, quando la Groenlandia si scioglie, i mari son previsti salire di sette metri sull’asciutto, e a Venezia già lo fanno di un metro e ottantasette. «Che si salvi la Terra» dicono le donne e gli uomini tutti che assistono spaventati e impotenti alla morte annunciata dell’ambiente che da millenni ne ospita la vita.
Ci sono per fortuna pensieri e azioni alternative, si diffonde una coscienza ambientale, il venerdì si manifesta per il futuro, donne coraggiose da Greta Thunberg a Carola Rackete fanno risuonare milioni di voci, anche le sardine prendono la parola, ma questo non basta. Se nei prossimi anni non ci sarà un’iniziativa politica di massa per cambiare il corso delle cose, se le si lascerà in balia del mercato della tecnologia o del destino, se in Italia, in Europa e nelle Case Bianche di tutti i continenti il fascismo occulto che vi serpeggia verrà alla luce e al potere, perderemo il controllo del clima e della società e si affacceranno scenari da fine del mondo, non quella raccontata nelle Apocalissi, ma quella prevista e monitorata dagli scienziati.
Il cambiamento è possibile
L’inversione del corso delle cose è possibile. Essa ha un nome: Costituzione della terra. Il costituzionalismo statuale che ha dato una regola al potere, ha garantito i diritti, affermato l’eguaglianza e assicurato la vita degli Stati non basta più, occorre passare a un costituzionalismo mondiale della stessa autorità ed estensione dei poteri e del denaro che dominano la Terra.
La Costituzione del mondo non è il governo del mondo, ma la regola d’ingaggio e la bussola di ogni governo per il buongoverno del mondo. Nasce dalla storia, ma deve essere prodotta dalla politica, ad opera di un soggetto politico che si faccia potere costituente. Il soggetto costituente di una Costituzione della Terra è il popolo della Terra, non un nuovo Leviatano, ma l’unità umana che giunga ad esistenza politica, stabilisca le forme e i limiti della sua sovranità e la eserciti ai fini di far continuare la storia e salvare la Terra.
Salvare la Terra non vuol dire solo mantenere in vita «questa bella d’erbe famiglia e d’animali», cantata dai nostri poeti, ma anche rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono il pieno sviluppo di tutte le persone umane.
Il diritto internazionale è già dotato di una Costituzione embrionale del mondo, prodotta in quella straordinaria stagione costituente che fece seguito alla notte della seconda guerra mondiale e alla liberazione dal fascismo e dal nazismo: la Carta dell’Onu del 1945, la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, i due Patti internazionali del 1966 e le tante Carte regionali dei diritti, che promettono pace, sicurezza, garanzia delle libertà fondamentali e dei diritti sociali per tutti gli esseri umani. Ma non sono mai state introdotte le norme di attuazione di queste Carte, cioè le garanzie internazionali dei diritti proclamati. Non è stato affatto costituito il nuovo ordine mondiale da esse disegnato. È come se un ordinamento statale fosse dotato della sola Costituzione e non anche di leggi attuative, cioè di codici penali, di tribunali, di scuole e di ospedali che «di fatto la realizzino».
È chiaro che in queste condizioni i diritti proclamati sono rimasti sulla carta, come promesse non mantenute. Riprendere oggi il processo politico per una Costituzione della Terra vuol dire tornare a prendere sul serio il progetto costituzionale formulato settant’anni fa e i diritti in esso stabiliti. E poiché quei diritti appartengono al diritto internazionale vigente, la loro tutela e attuazione non è soltanto un’urgente opzione politica, ma anche un obbligo giuridico in capo alla comunità internazionale e a tutti noi che ne facciamo parte.
Qui c’è un’obiezione formulata a partire dalla tesi di vecchi giuristi secondo la quale una Costituzione è l’espressione dell’«unità politica di un popolo»; niente popolo, niente Costituzione. E giustamente si dice che un popolo della Terra non c’è; infatti non c’era ieri e fino ad ora non c’è.
La novità è che adesso può esserci, può essere istituito; lo reclama la scena del mondo, dove lo stato di natura delle sovranità in lotta tra loro non solo toglie la «buona vita», ma non permette più neanche la nuda vita; lo reclama l’oceano di sofferenza in cui tutti siamo immersi; lo rende possibile oggi la vetta ermeneutica raggiunta da papa Francesco e da altre religioni con lui, grazie alla quale non può esserci più un dio a pretesto della divisione tra i popoli: «Dio non ha bisogno di essere difeso da nessuno» - hanno detto ad Abu Dhabi - non vuole essere causa di terrore per nessuno, mentre lo stesso «pluralismo e le diversità di religione sono una sapiente volontà divina con cui Dio ha creato gli esseri umani»; non c’è più un Dio geloso e la Terra stessa non è una sfera, ma un poliedro di differenze armoniose.
Per molti motivi perciò è realistico oggi porsi l’obiettivo di mettere in campo una Costituente della Terra, prima ideale e poi anche reale, di cui tutte le persone del pianeta siano i Padri e le Madri costituenti.
Una politica dalla parte della Terra
Di per sé l’istanza di una Costituzione della Terra dovrebbe essere perseguita da quello strumento privilegiato dell’azione politica che, almeno nelle democrazie, è il partito - nazionale o transnazionale che sia - ossia un artefice collettivo che, pur sotto nomi diversi, agisca nella forma partito. Oggi questo nome è in agonia perché evoca non sempre felici ricordi, ma soprattutto perché i grandi poteri che si arrogano il dominio del mondo non vogliono essere intralciati dal controllo e dalla critica dei popoli, e quindi cercano di disarmarli spingendoli a estirpare le radici della politica e dei partiti fin nel loro cuore. È infatti per la disaffezione nei confronti della politica a cui l’intera società è stata persuasa che si scende in piazza senza colori; ma la politica non si sospende, e ciò a cui comunque oggi siamo chiamati è a prendere partito, a prendere partito non per una Nazione, non per una classe, non “prima per noi”, ma a prendere partito per la Terra, dalla parte della Terra.
Ma ancor più che la riluttanza all’uso di strumenti già noti, ciò che impedisce l’avvio di questo processo costituente, è la mancanza di un pensiero politico comune che ne faccia emergere l’esigenza e ne ispiri modalità e contenuti.
Non manca certamente l’elaborazione teorica di un costituzionalismo globale che vada oltre il modello dello Stato nazionale, il solo nel quale finora è stata concepita e attuata la democrazia, né mancano grandi maestri che lo propugnino; ma non è diventato patrimonio comune, non è entrato nelle vene del popolo un pensiero che pensi e promuova una Costituzione della Terra, una unità politica dell’intera comunità umana, il passaggio a una nuova e rassicurante fase della storia degli esseri umani sulla Terra.
Eppure le cose vanno così: il pensiero dà forma alla realtà, ma è la sfida della realtà che causa il pensiero. Una “politica interna del mondo” non può nascere senza una scuola di pensiero che la elabori, e un pensiero non può attivare una politica per il mondo senza che dei soggetti politici ne facciano oggetto della loro lotta. Però la cosa è tale che non può darsi prima la politica e poi la scuola, né prima la scuola e poi la politica. Devono nascere insieme, perciò quello che proponiamo è di dar vita a una Scuola che produca un nuovo pensiero della Terra e fermenti causando nuove soggettività politiche per un costituzionalismo della Terra. Perciò questa Scuola si chiamerà «Costituente Terra».
«Costituente Terra»: una Scuola per un nuovo pensiero
Certamente questa Scuola non può essere pensata al modo delle Accademie o dei consueti Istituti scolastici, ma come una Scuola disseminata e diffusa, telematica e stanziale, una rete di scuole con aule reali e virtuali. Se il suo scopo è di indurre a una mentalità nuova e a un nuovo senso comune, ogni casa dovrebbe diventare una scuola e ognuno in essa sarebbe docente e discente. Il suo fine potrebbe perfino spingersi oltre il traguardo indicato dai profeti che volevano cambiare le lance in falci e le spade in aratri e si aspettavano che i popoli non avrebbero più imparato l’arte della guerra. Ciò voleva dire che la guerra non era in natura: per farla, bisognava prima impararla. Senonché noi l’abbiamo imparata così bene che per prima cosa dovremmo disimpararla, e a questo la scuola dovrebbe addestrarci, a disimparare l’arte della guerra, per imparare invece l’arte di custodire il mondo e fare la pace.
Molte sarebbero in tale scuola le aree tematiche da perlustrare:
1) le nuove frontiere del diritto, il nuovo costituzionalismo e la rifondazione del potere;
2) il neo-liberismo e la crescente minaccia dell’anomia;
3) la critica delle culture ricevute e i nuovi nomi da dare a eventi e fasi della storia passata;
4) il lavoro e il Sabato, un lavoro non ridotto a merce, non oggetto di dominio e alienato dal tempo della vita;
5) la «Laudato sì» e l’ecologia integrale;
6) il principio femminile, come categoria rigeneratrice del diritto, dal mito di Antigone alla coesistenza dei volti di Levinas, al legame tra donna e natura fino alla metafora della madre-terra;
7) l’Intelligenza artificiale (il Führer artificiale?) e l’ultimo uomo;
8) come passare dalle culture di dominio e di guerra alle culture della liberazione e della pace;
9) come uscire dalla dialettica degli opposti, dalla contraddizione servo-signore e amico-nemico per assumere invece la logica dell’ et-et, della condivisione, dell’armonia delle differenze, dell’ «essere per l’altro», dell’ «essere l’altro»;
10) il congedo del cristianesimo dal regime costantiniano, nel suo arco «da Costantino ad Hitler», e la riapertura nella modernità della questione di Dio;
11) il «caso Bergoglio», preannuncio di una nuova fase della storia religiosa e secolare del mondo.
Naturalmente molti altri temi potranno essere affrontati, nell’ottica di una cultura per la Terra alla quale nulla è estraneo d’umano. Tutto ciò però come ricerca non impassibile e fuori del tempo, ma situata tra due kairòs, tra New Delhi ed Abu Dhabi, due opportunità, una non trattenuta e non colta, la proposta di Gorbaciov e Rajiv Gandhi del novembre 1986 per un mondo libero dalle armi nucleari e non violento, e l’altra che ora si presenta di una nuova fraternità umana per la convivenza comune e la salvezza della Terra, preconizzata nel documento islamo-cristiano del 4 febbraio 2019 e nel successivo Comitato di attuazione integrato anche dagli Ebrei, entrato ora in rapporto con l’ONU per organizzare un Summit mondiale della Fratellanza umana e fare del 4 febbraio la Giornata mondiale che la celebri.
Partecipare al processo costituente iscriversi al Comitato promotore
Pertanto i firmatari di questo appello propongono di istituire una Scuola denominata «Costituente Terra» che prenda partito per la Terra, e a questo scopo hanno costituito un’associazione denominata «Comitato promotore partito della Terra». Si chiama così perché in via di principio non era stata esclusa all’inizio l’idea di un partito, e in futuro chissà. Il compito è oggi di dare inizio a una Scuola, «dalla parte della Terra», alle sue attività e ai suoi siti web, e insieme con la Scuola ad ogni azione utile al fine «che la storia continui»; e ciò senza dimenticare gli obiettivi più urgenti, il risanamento del territorio, la rifondazione del lavoro, l’abolizione del reato di immigrazione clandestina, la firma anche da parte dell’Italia del Trattato dell’ONU per l’interdizione delle armi nucleari e così via.
I firmatari propongono che persone di buona volontà e di non perdute speranze, che esponenti di associazioni, aggregazioni o istituzioni già impegnate per l’ecologia e i diritti, si uniscano a questa impresa e, se ne condividono in linea generale l’ispirazione, si iscrivano al Comitato promotore di tale iniziativa all’indirizzo progettopartitodellaterra@gmail.com versando la relativa quota sul conto BNL intestato a “Comitato promotore del partito della Terra”, IBAN IT94X0100503206000000002788 (dall’estero BIC BNLIITRR).
La quota annua di iscrizione, al Comitato e alla Scuola stessa, è libera, e sarà comunque gradita. Per i meno poveri, per quanti convengano di essere tra i promotori che contribuiscono a finanziare la Scuola, eventuali borse di studio e il processo costituente, la quota è stata fissata dal Comitato stesso nella misura significativa di 100 euro, con l’intenzione di sottolineare che la politica, sia a pensarla che a farla, è cosa tanto degna da meritare da chi vi si impegna che ne sostenga i costi, contro ogni tornaconto e corruzione, ciò che per molti del resto è giunto fino all’offerta della vita. Naturalmente però si è inteso che ognuno, a cominciare dai giovani, sia libero di pagare la quota che crede, minore o maggiore che sia, con modalità diverse, secondo le possibilità e le decisioni di ciascuno.
Nel caso che l’iniziativa non riuscisse, le risorse finanziarie mancassero e il processo avviato non andasse a buon fine, l’associazione sarà sciolta e i fondi eventualmente residui saranno devoluti alle ONG che si occupano dei salvataggi dei fuggiaschi e dei naufraghi nel Mediterraneo.
Un’assemblea degli iscritti al Comitato sarà convocata non appena sarà raggiunto un congruo numero di soci, per l’approvazione dello Statuto dell’associazione, la formazione ed elezione degli organi statutari e l’impostazione dei programmi e dell’attività della Scuola.
Roma, 27 dicembre 2019, 72° anniversario della promulgazione della Costituzione italiana.
PROPONENTI E PRIMI ISCRITTI. Raniero La Valle, giornalista (Roma), Luigi Ferrajoli, filosofo del diritto (Roma), Valerio Onida, già presidente della Corte Costituzionale, Raffaele Nogaro, ex vescovo di Caserta, Paolo Maddalena, già vicepresidente della Corte Costituzionale, Mariarosaria Guglielmi, Segretaria generale di Magistratura Democratica, Riccardo Petrella, ecologo, promotore del Manifesto dell’acqua e dell’identità di “Abitante della Terra”, Domenico Gallo, magistrato, Francesco Carchedi, sociologo (Roma), Francesco Di Matteo, Comitati Dossetti per la Costituzione, Anna Falcone. avvocata, Roma, Pippo Civati, Politico, Piero Basso (Milano), Gianpietro Losapio, cooperatore sociale, direttore del Consorzio NOVA, Giacomo Pollastri, studente in Legge (Roma), Francesco Comina, giornalista (Bolzano), Roberto Mancini, filosofo (Macerata), Francesca Landini, informatica (Roma), Giancarlo Piccinni e la Fondazione don Tonino Bello (Alessano), Grazia Tuzi, antropologa, autrice di “Quando si faceva la Costituzione. Storia e personaggi della comunità del porcellino” (Roma), Guido Innocenzo Gargano osb cam., monaco (Roma), Felice Scalia, s. J, (Messina), Marina Graziosi, docente (Roma), Agata Cancelliere, insegnante, (Roma), Raul Mordenti, storico della critica letteraria, Politico (Roma), Salvatore Maira, scrittore (Roma), Marco Malagola, francescano, missionario, (Torino), Norma Lupi (Roma), Andrea Cantaluppi, sindacalista (Roma), Enrico Peyretti (Torino), Nino Mantineo, università di Catanzaro, Giacoma Cannizzo, già sindaca di Partinico, Filippo Grillo, artista (Palermo), Nicola Colaianni, già magistrato e docente all’Università di Bari, Stefania Limiti, giornalista (Roma), Domenico Basile (Merate, Lecco), Maria Chiara Zoffoli (Merate), Luigi Gallo (Bolzano), Antonio Vermigli, giornalista (Quarrata, Pistoia), Renata Finocchiaro, ingegnere (Catania), Liana D’Alessio (Roma), Lia Fava, ordinaria di letteratura (Roma), Paolo Pollastri, musicista (Roma), Fiorella Coppola, sociologa (Napoli), Dario Cimaglia, editore, (Roma), Luigi Spina, insegnante, ricercatore (Biella), Marco Campedelli, Boris Ulianich, storico, Università Federico II, Napoli, Gustavo Gagliardi, Roma, Paolo Scandaletti, scrittore di storia, Roma, Pierluigi Sorti, economista, Roma, Vittorio Bellavite, coordinatore di “Noi siamo Chiesa”, Agnés Deshormes, cooperatrice internazionale, Parigi, Anna Sabatini Scalmati, psicoterapeuta, Roma, Francesco Piva, Roma, Sergio Tanzarella, storico del cristianesimo, Tina Palmisano, Il Giardino Terapeutico sullo Stretto, Messina, Luisa Marchini, segretaria di “Salviamo la Costituzione”, Bologna, Maurizio Chierici, giornalista. Angelo Cifatte, formatore, Genova, Marco Tiberi, sceneggiatore, Roma, Achille Rossi e l’altrapagina, Città di Castello, Antonio Pileggi, ex Provveditore agli studi e dir. gen. INVALSI, Giovanni Palombarini, magistrato, Vezio Ruggieri, psicofisiologo (Roma) Bernardetta Forcella (insegnante (Roma), Luigi Narducci (Roma), Laura Nanni (Albano), Giuseppe Salmè, magistrato, Giovanni Bianco, giurista, Roma.
USCIRE DALLA CAVERNA E DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE COSMO-TE-ANDRICA PLATONICA. Materiali sul tema... *
Veder le stelle con gli occhi di Dante
Fisici, cosmologi, poeti, scrittori, teologi e mistici sono da sempre affascinati dalla “scienza stellare” dantesca: lo ricorda l’inglesista Tracy Daugherty in un nuovo saggio
di Gianni Vacchelli (Avvenire, mercoledì 18 dicembre 2019)
Dante ci sorprende sempre e ci spiazza, anche quando crediamo di averlo incasellato, almeno su un aspetto. Così potremmo pensare che la sua astronomia sia realmente irricevibile e superata. Ad esempio per il grande poeta Thomas Eliot, anche acuto dantista, come tutti sappiamo, «non è essenziale che la quasi inintelligibile astronomia di Dante sia capita ». Eppure non è così. E se forse l’accademia riserva in genere una rispettosa ma un po’ distaccata attenzione alla “scienza stellare” dantesca, fisici, cosmologi, oltre che poeti, scrittori, teologi e mistici ne sono da sempre affascinati. Soprattutto oggi gli uomini di scienza. Ce lo ricorda anche l’americano Tracy Daugherty, professore emerito di Inglese all’Oregon State University, nonché romanziere, nel suo recente e interessante saggio Dante and the Early Astronomer [Dante e la Prima Astronoma] ( Yale University Press).
In verità il libro di Daugherty, come si evince anche dal sottotitolo “Scienza, avventura e una donna vittoriana che aprì i cieli”, è sì dedicato a Dante ma insieme all’astronoma Mary Acworth Evershed (conosciuta pure come M.A. Orr, col cognome da nubile, prima di sposare John Evershed, importante astronomo lui stesso).
Mary è una donna inglese, nata nel 1867. Amava la poesia e il cielo stellato, e un viaggio in Italia all’età di 20 anni, a Firenze e a Ravenna, fu fondativo per la sua ricerca: decise così di studiare attentamente tutti i riferimenti astronomici nella Commedia di Dante, che arriverà a leggere in italiano. E nel 1913 Mary, con il cognome di Orr, pubblicò il suo importante studio Dante and the Early Astronomers, troppo presto dimenticato e che sarebbe utile riscoprire e tradurre in italiano. Nonostante il modello tolemaico di Dante fosse totalmente superato, Mary ammirò «la fedeltà dantesca agli insegnamenti dell’astronomia come l’aveva imparata dai suoi maestri», «la fantastica precisione dentro una struttura chiara» nel descrivere i fenomeni celesti. Per lei «il Poeta possedeva l’istinto e le attitudini di un ricercatore scientifico: una mente irrequieta, un abito di attenta osservazione».
Studiosa dei crateri lunari e delle macchie del sole, che «Dante aveva riconosciuto tre secoli prima che venissero scientificamente rilevate», Mary rimase affascinata anche da come Galileo, che stava aprendo all’umanità una nuova immagine di universo, rimanesse fedele alla retorica, all’immaginazione, ai ritmi danteschi. Le sue descrizioni del sole nelle Lettere sulle macchie solari echeggiavano le discussioni astronomiche di Beatrice in Paradiso II, sulle macchie lunari. Per la Evershed «Galileo considerò sempre Dante un pari, e la sua maestria artistica un modello... per lui la Commedia non era un cimitero di teorie astronomiche scartate, ma un prologo poetico a future scoperte». Allo stesso modo anche lei «seguì le tracce dell’universo di Dante, afferrò l’uso da parte di Galileo dell’arte di Dante per far avanzare le sue nozioni scientifiche e partecipò alla rivoluzione mentale che espanse l’esistenza e la conoscenza nel modo in cui Einstein - e Dante - predissero che sarebbe accaduto».
E in effetti il libro di Daugherty accenna in più parti ad una seconda e in qualche modo diversa linea di ricezione delle idee astronomiche del Poeta. Se la Evershed, con Galileo prima di lei, ha ammirato la coerenza e l’accuratezza “scientifica” del dettato dantesco, pur nel paradigma tolemaico non più accettabile, oggi molti «scrittori come il matematico Mark A. Peterson, lo storico della scienza Edward Grant e lo storico William Egginton hanno sostenuto in modo persuasivo che le concezioni medievali di Dante sulla forma dell’universo sembrano agli astronomi contemporanei sorprendentemente preveggenti». Dante insomma avrebbe «inventato un nuovo spazio topologico, la 3-sfera, o ipersfera», come scrive il citato Peterson in una sua analisi del 1979. In qualunque caso, una cosa è certa: la rappresentazione grafica del cosmo dantesco, ancora largamente accettata e quasi onnipresente su tutte le antologie scolastiche, con la terra al centro, i nove cieli intorno e l’Empireo sopra tutti, per lo più rappresentato come una sorta di “buffo cappellino” all’intero universo dantesco, è inaccettabile, testo di Dante alla mano.
Basta rileggere due complessi ma splendidi passi paradisiaci. In Paradiso XXVII, 106ss., Dante spiega la natura del Primo Mobile, la prima e più esterna delle sfere cosmiche ruotanti attorno alla Terra in base al modello geocentrico dell’universo, da cui trarrebbero origine il moto e il tempo. E scrive: «Luce e amor d’un cerchio lui comprende, / sì come questo li altri; e quel precinto / colui che ’l cinge solamente intende» (Pd XVVII, 112-114). Qui il Poeta sembrerebbe descrivere l’Empireo come un’ultima realtà capace di cingere il Primo Mobile e tutti gli altri cieli a seguire. Eppure nel canto successivo, Paradiso XXVIII, 16ss., avviene qualcosa di straordinario: Dante vede al centro dell’universo non la terra bensì un punto luminosissimo, il cui splendore non può essere sostenuto da occhi umani: «un punto vidi che raggiava lume / acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca / chiuder conviensi per lo forte acume» (Pd XXVIII, 16-18). Il mistero divino è adesso centro dell’universo, «da quel punto / depende il cielo e tutta la natura» (vv.41-42), ed è come se il Poeta scorgesse «un altro universo», rovesciato e fatto, ugualmente, di nove cerchi concentrici, sede delle gerarchie angeliche ruotanti intorno a Dio.
È a partire da questi passi danteschi che il fisico rumeno Roman Patapievici, nel suo prezioso e oggi introvabile libretto Gli occhi di Beatrice ( Bruno Mondadori 2006), scrive: «L’immagine allo specchio è simile a quella reale, solo che è invertita. Il mondo invisibile diventa allora un calco rovesciato del mondo visibile: l’Empireo è Dio-centrico mentre la Terra è diavolo-centrica... l’invisibile obbedisce a norme opposte rispetto al visibile. Per spiegare queste simmetrie non resta che concepire l’universo visibile (con al centro la Terra) e l’Empireo (con al centro Dio) come due sfere che hanno in comune la superficie, cioè il “Primo Mobile”: il che equivale appunto a una ipersfera, oggetto della geometria di Riemann adottato da Einstein per descrivere l’universo nella relatività generale ». Su questa intuizione tornano recentemente anche due fisici italiani, Marco Bersanelli, nel suo Il grande spettacolo del cielo (Sperling & Kupfer 2016) e Carlo Rovelli in Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza ( Corriere della Sera 2018), che loda la «straordinaria intelligenza, anche matematico-scientifica» di Dante.
Questa ipotesi in verità ha una storia lunga e viene fatta risalire al matematico svizzero Andreas Speiser, che ne scrisse nel 1925, ripreso appunto poi da Mark Peterson, dall’astrofisico svizzero Bruno Binggeli e infine da Patapievici. Per altro già nel 1922 Pavel Florenskji in un breve e densissimo scritto, Gli immaginari in geometria, aveva sostenuto, a partire dalla “piroetta” effettuata dal Dante-personaggio in If XXXIV al centro della terra, che la concezione dello spazio della Commedia è abbordabile solo con il sostegno teorico della relatività einsteiniana e della geometria non-euclidea. Per concludere sorprendentemente: «Squarciando il tempo, dunque, la Divina Commedia finisce inaspettatamente per trovarsi non indietro, ma avanti rispetto alla scienza nostra contemporanea ».
Eppure forse il punto è un altro, anche se le riletture della fisica e della matematica contemporanee sono importanti, e certo da approfondire in uno studio esaustivo. Perché Dante ragiona da un mythos diverso dal nostro e le sue “preveggenze” gli vengono da una visione mistica dell’esistente. Ecco allora che il mistero divino sarà insieme imprendibile sfera e centro concentrico della realtà, contenente e contenuto, trascendente e immanente, come recitava un folgorante aforisma del medievale Libro dei XXIV filosofi: «Dio è una sfera infinita, il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo».
La fisica contemporanea vi intravede un’iper-sfera. Sia. Per Dante la posta in gioco però è forse ancora più complessa: non solo ravvisare in tutto ciò il mistero divino, ma comprendere come la trinità Dio(Mistero)-Uomo-Cosmo sia in una relazione costitutiva e rappresenti tutta la realtà: non Dio, l’Uomo o il Cosmo da soli.
Potremmo ricordarci allora l’intuizione cosmoteandrica (cosmo-dio-mondo) del filosofo e teologo indocatalano Raimon Panikkar, che parlava anche di teofisica, «non tanto come “fisica di Dio”, ma come “del Dio della Fisica”, del Dio creatore del mondo, dove il mondo non è sentito in quanto autonomo, indipendente e diviso da Dio, ma costitutivamente connesso a Lui». L’ardore di Dante è stato quello di provare a tenere insieme queste dimensioni della realtà - misteriosa, umana e materiale - con tutti i saperi che aveva a disposizione, anche fallaci, limitati, scientificamente. È questo che ci attende oggi: mantenere viva e prolungare la tensione dantesca, aggiornandola all’altezza dei tempi. E le potenti preveggenze del Poeta sembrano guidarci, perché «poca favilla gran fiamma seconda».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’INCARNAZIONE AL DI LA’ DELL’ IMMAGINAZIONE "TE-ANDRICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO: DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. Ipotesi di rilettura della "Divina Commedia".
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO. Amore (Charitas) o Mammona (Caritas)?! Il "principle of charity", il «principio di carità» ("caritas"!), un assunzione di tipo «imperialistico» (Robert Nozick, "The Nature of Rationality", 1993) *
CAPIRE IL COMPORTAMENTO UMANO.
di Antonio Rainone *
Carità o empatia?
Esiste una tematica nella filosofia del linguaggio e nell’epistemologia di W.
V. Quine che può apparire per molti versi atipica o sorprendente a chi abbia
del celebre filosofo statunitense un’immagine limitata alle sue concezioni
fisicalistiche e comportamentistiche, per non dire “scientistiche”, non
di rado considerate le più caratteristiche della sua produzione filosofica. Si
tratta della tematica dell’empatia, cioè della capacità di avanzare spiegazioni
o interpretazioni del comportamento (linguistico e non) di altri soggetti
“mettendosi nei loro panni” o “simulandone” la situazione cognitiva o,
ancora, assumendone immaginativamente il ruolo.
L’empatia - anche indipendentemente
da Quine - ha peraltro suscitato una particolare attenzione
nella filosofia della mente degli ultimi trent’anni, dove ha dato vita a
un ampio dibattito sul cosiddetto mindreading, incontrandosi inoltre con
la teoria neuroscientifica dei cosiddetti neuroni specchio 1. I più recenti lavori
sulla filosofia del linguaggio di Quine dedicano una particolare attenzione
a tale tematica 2, anche perché Quine, pur accennandovi in Word and Object
(1960), ne ha proposto una esplicita teorizzazione solo nella sua produzione
più tarda.
A partire dagli anni Settanta, ma più esplicitamente negli anni Novanta, Quine ha considerato il metodo dell’empatia come il metodo fondamentale di traduzione nel celebre Gedankenexperiment della traduzione radicale (ovvero la traduzione di una lingua completamente sconosciuta), ma anche come una capacità naturale ai fini dell’acquisizione del linguaggio e dell’attribuzione di stati mentali intenzionali (ossia percezioni, credenze, desideri ecc.) ad altri. In effetti, l’empatia ha acquisito un rilievo così crescente in Quine che nei suoi due ultimi lavori sistematici, Pursuit of Truth (1992) e From Stimulus to Science (1995), essa appare come un nucleo centrale della sua filosofia del linguaggio e della mente.
È stato del resto lo stesso Quine a sottolineare la rilevanza dell’empatia nella sua filosofia del linguaggio, “retrodatandone”, per così dire, la teorizzazione agli anni Cinquanta. Così Quine si esprime in uno dei suoi ultimi interventi sulla questione:
Il brano qui citato da Quine, ripreso dall’importante The Problem of Meaning in Linguistics (1951b, p. 63) - una notevole anticipazione della problematica della traduzione radicale - non è privo di una certa ambiguità, prestandosi a una duplice lettura. È forse vero che in Word and Object alcune affermazioni di Quine potrebbero essere interpretate come la proposta di un metodo empatico, sostenuto comunque in modo non del tutto esplicito (cfr. Rainone, 1995), ma possono essere avanzati dei dubbi circa la difesa di tale metodo nel saggio del 1951. Se da un lato il concetto di proiezione sembra proporre il metodo dell’empatia nell’attività di traduzione di una lingua completamente sconosciuta da parte di un etnolinguista, dall’altro sembra in effetti riferirsi non tanto al metodo empatico, quanto, piuttosto, a quello che, grazie allo stesso Quine, e in seguito a Donald Davidson (cfr. Davidson, 1984), sarebbe diventato noto come «principio di carità» (principle of charity). Il linguista - asseriva infatti Quine - proietta sé stesso con la sua Weltanschauung nei panni del nativo che usa una lingua sconosciuta, presupponendo (o ipotizzando) così che il suo informatore si conformi ai suoi principi logici e abbia le sue stesse credenze (ritenute vere) riguardo alla realtà (sono questi, grosso modo, i principali tenet del principio di carità, che presuppone una comune natura razionale tra interprete/ traduttore e interpretato/parlante).
In Word and Object Quine avrebbe esplicitamente utilizzato - e teorizzato - il principio di carità riguardo alla traduzione dei connettivi logici e degli enunciati “ovvi”. L’esempio più pertinente, in merito, è rappresentato dal «caso estremo» di qualche nativo che accetti come veri enunciati traducibili nella forma “p e non-p” (per esempio, “piove e non piove”), una forma enunciativa che, violando il principio di non contraddizione, deporrebbe per Quine non a favore dell’irrazionalità dei parlanti - come riteneva Lévy-Bruhl con la sua teoria della «mentalità prelogica» - ma contro la correttezza della traduzione (Quine, 1960, p. 58).
Il medesimo argomento varrebbe inoltre per la traduzione di enunciati ovvi: una risposta negativa da parte del nativo alla domanda (nella lingua nativa) “sta piovendo?” fatta sotto la pioggia costituirebbe una prova di cattiva traduzione nella lingua nativa, non del fatto che il nativo non condivida con il traduttore la credenza in qualcosa di così evidente. In generale, nota Quine in un famoso passo di Word and Object, «quanto più assurde o esotiche sono le credenze attribuite a una persona tanto più sospetti abbiamo il diritto di essere nei confronti delle traduzioni; il mito dei popoli prelogici segna solo il caso estremo» (ivi, p. 68).
Difficilmente, pertanto, la «proiezione» del linguista nei «sandali»
del nativo di cui Quine parlava nel saggio del 1951 potrebbe apparire come
una forma di metodo empatico, dal momento che essa “imporrebbe” al
nativo uno «schema concettuale» (quello del linguista) che, per quanto
il linguista può saperne, potrebbe essergli del tutto estraneo. Questo è, in
fondo, il problema sottostante a tutto il celebre secondo capitolo di Word
and Object3. Non vi sarebbe alcuna garanzia, infatti, secondo Quine, che i
nativi condividano lo stesso schema concettuale (la stessa Weltanschauung)
del linguista. Ma il linguista non può, d’altro canto, che fare affidamento
sul proprio linguaggio (o schema concettuale), data la scarsa evidenza empirica
di cui dispone nel tradurre la lingua sconosciuta. Basarsi sul proprio
schema concettuale, proiettandolo sul «linguaggio della giungla», è una
necessità pratica, che - asseriva Quine in Word and Object - investirebbe
soprattutto l’elaborazione delle «ipotesi analitiche», ovvero le ipotetiche
correlazioni tra le emissioni verbali olofrastiche dei nativi e le loro possibili
traduzioni mediante cui il linguista deve stabilire quali frammenti di enunciati
andranno considerati termini (singolari e generali), quali congiunzioni,
quali articoli, quali desinenze per il plurale e quali pronomi, sulla cui
base individuare un insieme plausibile di credenze ontologiche ed epistemiche. La scelta delle ipotesi analitiche, infatti, non è altro che un modo di
«catapultarsi nel linguaggio della giungla utilizzando i propri modelli linguistici
» (ivi, p. 70).
Per ricordare il celebre esempio di Quine, la traduzione
del proferimento di “gavagai” con “coniglio” (invece che con alternative
bizzarre quali “stadi di coniglio” o “sta conigliando”, per quanto ammissibili
sulla base dell’evidenza osservativa) equipara l’emissione verbale nativa
a un termine generale del linguaggio del linguista, ma nulla esclude che i
nativi possano essere privi di un termine referenziale generale per designare
i conigli, anche se il linguista ritiene ciò “caritatevolmente” improbabile.
Utilizzare i modelli del proprio linguaggio per tradurre un linguaggio alieno non equivale quindi ad applicare un metodo empatico di comprensione, trattandosi al massimo di un’ulteriore e più ampia applicazione del principio di carità. L’empatia sembra in realtà qualcosa di diverso dalla carità: a differenza di quest’ultima, l’empatia non presuppone necessariamente una condivisione di significati e stati cognitivi (credenze). Forse l’assunzione di un’analogia di stati cognitivi tra interprete e interpretato - il «ritrovamento dell’io nel tu», secondo la celebre formula di Wilhelm Dilthey (1927, trad. it. p. 293) - può apparire inevitabile ed efficace riguardo alle risposte verbali fenomenologiche direttamente connesse a stimolazioni elementari provenienti da eventi osservativi intersoggettivi del mondo esterno (la pioggia, il colore rosso, il caldo e il freddo ecc.): ci si aspetta infatti che i nativi, che presentano una conformazione neurofisiologica e neuropsicologica analoga alla nostra, non abbiano percezioni di tipo diverso dalle nostre, rispondendo linguisticamente a tali percezioni in modo analogo a come risponderemmo noi; in tal caso l’empatia sembrerebbe indistinguibile dalla carità interpretativa, in quanto fondata sull’assunzione dell’esistenza di meccanismi percettivi comuni ai soggetti coinvolti. Ma difficilmente tale analogia potrebbe essere presupposta allorché si tratti di tradurre il linguaggio o spiegare il comportamento di soggetti appartenenti a una cultura del tutto estranea a quella dell’interprete. In questo caso l’interprete dovrà in qualche modo “entrare”, per così dire, nella “mente” dei soggetti da interpretare per comprendere il loro peculiare punto di vista, le loro credenze sulla realtà e i significati delle loro parole.
In definitiva, la differenza tra carità ed empatia può essere intesa come la differenza tra imporre il proprio punto di vista all’altro e assumere il punto di vista dell’altro. La differenza è particolarmente rilevante nei casi di interpretazione di soggetti appartenenti a “mondi” radicalmente diversi da quello dell’interprete. Se così non fosse, difficilmente gli etnoantropologi avrebbero potuto attribuire credenze animistiche o culti religiosi atipici (come i celebri cargo cults) alle popolazioni studiate (in entrambi i casi si dovrebbe trattare, secondo un’interpretazione caritatevole, di errori di traduzione o interpretazione).
Non dovrebbe costituire motivo di sorpresa, allora, che David K. Lewis, in un saggio dedicato alla problematica davidsoniana dell’«interpretazione radicale», avesse dato una definizione del principio di carità che ingloba, per così dire, anche il procedimento empatico: un soggetto di interpretazione, asseriva Lewis, «dovrebbe credere ciò che crediamo noi, o forse ciò che avremmo creduto noi al suo posto; e dovrebbe desiderare ciò che desideriamo noi, o forse ciò che avremmo desiderato noi al suo posto» (Lewis, 1974, p. 336; corsivi aggiunti). In pratica, secondo questa definizione del principio di carità, si tratterebbe di assumere empaticamente il punto di vista dei soggetti interpretati, tenendo conto delle loro credenze (eventualmente false o strane) e della loro cultura di appartenenza, attribuendo a essi non le credenze e i desideri dell’interprete, ma le credenze e i desideri che l’interprete avrebbe se fosse “nei loro panni”. Si può aggiungere, a tale proposito, che l’empatia rappresenta una sorta di “correttivo” del principio di carità, tenendo conto del punto di vista dell’altro.
Ma forse c’è ancora qualcosa da dire: mentre la carità impone dei vincoli normativi sulla razionalità dei soggetti da interpretare - vincoli a priori basati sui principi logici e sulle norme di razionalità epistemica e pratica dell’interprete, ritenuti universali 4 -, l’empatia sembrerebbe invece un metodo descrittivo ed empirico, essendo subordinata all’acquisizione di un’ampia gamma di informazioni relative alle credenze, alla cultura e alle esperienze passate dei soggetti da interpretare (inutile aggiungere che non c’è accordo su quest’ultimo punto).
4. Si può ricordare, riguardo a questa presunta universalità, che Robert Nozick ha contestato il principio di carità in quanto assunzione di tipo «imperialistico», conferendo tale principio «un peso indebito alla posizione che accade di occupare a noi, alle nostre credenze e alle nostre preferenze» (Nozick, 1993, p. 153). Giustamente, Nozick fa notare che difficilmente questa sarebbe l’assunzione di un antropologo relativamente alle cosiddette società “primitive” (ivi, p. 154).
* Cfr. Antonio Rainone, "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia", Carocci editore, Roma, 2019, pp. 55-59, ripresa parziale.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PIANETA TERRA. LO SPIRITO DELL’EUROPA .... *
Elezioni Gb, Johnson trionfa: ’Ora realizzeremo la Brexit’. Vola la sterlina
Ai Tory la maggioranza assoluta. Shock LibDem, la leader Jo Swinson non rieletta
di Redazione ANSA*
Le elezioni britanniche consegnano a Boris Johnson e ai Tory un’ampia maggioranza assoluta a Westminster, le chiavi di Downing Street per i prossimi 5 anni e il lasciapassare per una Brexit che, a 3 anni e mezzo dal referendum del 2016, diventa irreversibile. La sterlina vola sui mercati valutari nel cambio con il dollaro e l’euro dopo: la valuta inglese passa di mano a 1,3446 sul dollaro (+2,1%) e a 0,8303 sull’euro (+1,8%). La moneta unica è scambiata invece in avvio di giornata senza sensibili variazioni sul dollaro.
"Mi congratulo con Boris Johnson e mi aspetto che il Parlamento britannico ratifichi il prima possibile l’accordo" negoziato sulla Brexit, ha detto il presidente del Consiglio Ue Charles Michel.
La Ue "è pronta a discutere gli aspetti operativi" delle relazioni future, ha aggiunto, spiegando che i leader avranno una discussione sulla Brexit oggi.
Il partito conservatore ha incassato oltre 360 seggi su 650, mentre al Labour di Jeremy Corbyn ne vengono attribuiti circa 200. "Una decisione inconfutabile dei britannici", commenta Johnson che aggiunge: "Con questo mandato realizzaremo la Brexit".
Un risultato che non si vedeva dai tempi di Margaret Thatcher e segna invece la disfatta peggiore da decenni per il Labour.
Ed è guerra all’interno del partito, ma Jeremy Corbyn rimanda le dimissioni. Non guiderà il partito "in un’altra elezione", ma per ora resta in Parlamento e "guiderà il Labour in una fase di riflessione".
Il verdetto è chiarissimo. Il messaggio di BoJo, sintetizzato nella promessa-tormentone ’Get Brexit done’, è passato. E il controllo Tory sulla Camera nega ogni credibile spazio di manovra al fronte dei partiti che s’erano impegnati a convocare un secondo referendum sull’Europa per offrire agli isolani una chance di ripensamento.
Shock anche per i liberaldemocratici: la 39enne neo-leader del partito più radicalmente anti-Brexit del lotto, Jo Swinson, che aveva cercato di proporsi addirittura come una rivale diretta di Boris Johnson e di Jeremy Corbyn, non solo non è riuscita a far avanzare la sua formazione, ma è stata bocciata anche a livello personale nel collegio di Dumbartonshire East: scalzata per 149 voti da Amy Callaghan, indipendentista scozzese dell’Snp. Swinson non però annunciato le dimissioni da leader.
Nigel Farage non considera una sconfitta il risultato negativo - peraltro previsto dai sondaggi - del suo Brexit Party alle elezioni politiche britanniche. Il partito è rimasto al palo, con zero seggi secondo l’exit poll, di fatto riassorbito dal partito conservatore di Boris Johnson dopo il trionfo nel voto (proporzionale) delle Europee di maggio. Ma secondo Farage, intervistato a caldo dalla Bbc, ha comunque contribuito a favorire il successo Tory e a evitare lo spettro di un Parlamento senza maggioranza (hung Parliament): sia non presentando candidati in oltre 300 collegi già controllati dai conservatori, sia togliendo voti ai laburisti di Jeremy Corbyn in diverse circoscrizioni del cosiddetto ’muro rosso’ dell’Inghilterra centro-settentrionale e del Galles, tradizionalmente di sinistra, ma in maggioranza pro Brexit e contrarie a un secondo referendum.
Il partito laburista britannico tiene a Londra dove ha conquistato 49 su 73 seggi. Sia Boris Johnson che Jeremy Corbyn hanno vinto nelle loro circoscrizioni. I Tory hanno perso Putney ma hanno guadagnato Kensington ottenendo in totale 21 seggi. Fuori invece Chuka Umunna, ex astro nascente del Labour passato in queste elezioni ai LibDem.
* ANSA 13 dicembre 2019 (ripresa parziale).
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO DELL’ EUROPA. "BUOI AL GUADO" AD OXFORD, "CERVI ALLA FONTE" DELLA "SAPIENZA" DI ROMA. TRACCE PER UNA SOLA GRANDE FESTA: "LA LUCE SPLENDE NELLE TENEBRE" DELL’INVERNO. E per proseguire il comune cammino "eu-ropeuo"
L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare* e a Giovanni Garbini**
Federico La Sala
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo") .. *
Neonazismo e libertà accademica
di Andrea Mariuzzo (Il Mulino, 09 dicembre 2019)
Ha suscitato scalpore il caso di Emanuele Castrucci, professore ordinario di Filosofia del diritto all’Università di Siena che per anni ha sostenuto tramite i suoi profili social posizioni esplicitamente neonaziste, razziste, antisemite e negazioniste della Shoah . Il rettore senese e gli organi rappresentativi dei suoi colleghi, spinti dal montare della polemica mediatica, hanno preso le distanze da lui e stanno promuovendo provvedimenti che possono preludere a un licenziamento, aperti da una denuncia alla Procura.
A fronte di questi sviluppi, alcuni studiosi e accademici hanno sollevato dubbi sull’opportunità e sulla legittimità di un atteggiamento repressivo verso il docente da parte dell’ateneo di appartenenza. In particolare Biagio De Giovanni, pur condannando fermamente l’opinione del collega, ha rigettato l’ipotesi di un licenziamento richiamando la qualità della sua attività intellettuale e l’illegittimità di provvedimenti di totale ostracismo in un ambiente, quello della ricerca universitaria, che si fonda sul libero confronto e dibattito e sulla battaglia delle idee, non sulla loro repressione. È stato del resto proprio Castrucci a difendersi facendo rientrare le sue esternazioni nell’ambito della piena libertà di parola e di espressione che caratterizzano il libero confronto.
Il tema è interessante e merita di essere affrontato fino in fondo, anche per trarre da un caso singolo alcune linee di comportamento generali. Iniziamo facendo chiarezza: la libertà di esprimersi accordata a un professore universitario è molto più solida e strutturata della semplice libertà di parola riconosciuta a tutte e a tutti nelle democrazie liberali: si tratta infatti di libertà accademica. Essa consiste, a dirla brutalmente, nella possibilità di essere pagati e accedere alle fondamentali strutture professionali dell’insegnamento e della ricerca anche per sostenere posizioni ritenute sbagliate, pericolose, potenzialmente catastrofiche se diffuse e messe in pratica nella società. Non è un caso se, nel senso comune così come negli aspetti più noti della legislazione in materia, la libertà accademica quasi si identifica col mantenimento della posizione lavorativa e stipendiale dello studioso. È così di fronte alla sostanziale inamovibilità maturata per i docenti nei Paesi in cui la “corporazione” universitaria è stata più largamente inglobata nell’impiego pubblico, e nell’ambito della tenure riconosciuta in sistemi contrattuali come quello statunitense.
Molto spesso però si dimentica un altro elemento nell’attribuzione di quello che è, a tutti gli effetti, un privilegio professionale strettamente legato alla funzione culturale e sociale di docenti e ricercatori universitari. Ai ruoli a cui viene riconosciuta la libertà accademica si accede dopo che la comunità degli studiosi ha potuto prendere in esame per un congruo periodo di tempo l’attività scientifica dell’aspirante docente, riscontrandovi un adeguato livello di competenza disciplinare e la maturazione di un’adeguata etica professionale. Questo passaggio è esplicito nelle norme che, ad esempio negli Stati Uniti, regolano il tenure track, e in fondo si ritrova alle radici della formazione stessa delle istituzioni universitarie nell’Europa medievale, quando appunto la licentia ubique docendi costituiva un fondamentale accesso alla possibilità di insegnare rilasciata dopo attento esame da parte di alcuni tra i massimi esperti della disciplina.
Una volta chiarito questo quadro generale, quali conclusioni possiamo trarre sul caso Castrucci? In primo luogo, se coi suoi tweet antisemiti e filohitleriani il docente ha esercitato il proprio inalienabile diritto alla libertà di espressione o ne ha abusato violando la legislazione sull’apologia del nazismo e del fascismo e quella (a mio parere, e anche secondo l’opinione della principale associazione culturale italiana di storici contemporaneisti, piuttosto scivolosa e non del tutto condivisibile) sul negazionismo, spetta alla magistratura e non all’università.
Detto questo, occorre chiedersi se le sue prese di posizione sono difese dalla libertà accademica, che quindi lo mette al riparo da provvedimenti sul piano professionale. Ed è questo il punto a mio parere interessante. Se infatti, come abbiamo visto in precedenza, l’attribuzione del privilegio della libertà accademica si regge sulla dimostrazione di aver acquisito e di mantenere competenza disciplinare ed etica professionale, bisogna ammettere che chi esprime pubblicamente le opinioni che ha espresso convintamente Castrucci forse non possiede più, se mai effettivamente è giunto ad averle, né l’una né l’altra.
Da un lato, le idee sul “complotto ebraico”, sulla politica monetaria “sovranista” di Hitler e Mussolini e sulla veridicità dei Protocolli dei Savi di Sion, prima di essere aberranti, sono fondate su dati falsi e ampiamente smentiti, e possono essere credute solo da una persona ignorante della storia, sciatta nell’analisi critica delle sue fonti, priva dei filtri culturali alla propaganda più trita che ci si aspetterebbe da un uomo di cultura, per di più specializzato nella storia delle idee e del pensiero. Dall’altro, è doveroso chiedersi se chi esprime così apertamente il disprezzo per interi gruppi umani ha poi dato seguito alle parole con comportamenti più o meno velatamente discriminatori e ostruzionistici nei confronti di studentesse e studenti, colleghe e colleghi, in un mondo universitario in cui tra molte difficoltà si affacciano minoranze di cui andrebbero tutelate le pari opportunità.
Dunque, alla luce di un comportamento così evidentemente lesivo di qualsiasi codice etico di condotta fondato sulla convinzione che un professionista intellettuale non smette le sue funzioni professionali alla fine dell’orario d’ufficio e che la comunicazione pubblica del personale universitario è parte integrante della “terza missione” di divulgazione e public engagement, avrebbe senso se l’ateneo senese indagasse da vicino sui comportamenti tenuti da Castrucci nelle proprie relazioni di lavoro, ponendosi il problema del perché finora non è emerso nulla dai canali di tutela e di valutazione degli studenti o da rimostranze di colleghi, e se ripercorresse con attenzione le tappe di carriera del docente e le sue valutazioni successive per individuare come e perché nella lettura critica della sua produzione da parte di commissari ed esperti valutatori non siano emersi gli elementi di sciatteria, pressapochismo e vero e proprio errore metodologico che non possono non caratterizzare, almeno da un certo punto in poi, gli scritti di chi sostiene in coscienza posizioni come le sue. Questa indagine retrospettiva, oltre a mettere in discussione il posto di professore ordinario di Castrucci, potrebbe e dovrebbe chiamare in causa i responsabili della sua carriera, e far loro rendere conto di procedure di selezione e conferma chiaramente inadeguate.
In questo modo si otterrebbe il risultato di non fare di Castrucci un autoproclamato “martire” del libero pensiero con una sanzione esclusivamente individuale; si darebbero radici eminentemente professionali alle sanzioni conseguenti ai suoi gesti; si farebbe luce sul sistema di collusioni e di silenzi che ha permesso a una figura così inadeguata di restare in cattedra per anni, chiarendo che le responsabilità non sono soltanto sue.
Più in generale, poi, riflettere sui caratteri fondamentali della professione accademica e sulla necessità di una verifica continua della loro soddisfazione potrebbe far bene al sistema universitario nel suo complesso. Se i meccanismi di valutazione dell’idoneità professionale e della qualità della ricerca e della didattica si concentrassero, piuttosto che su astratti livelli di “eccellenza” spesso concepiti in senso puramente quantitativo, su come individuare più prontamente casi di palese inadeguatezza come questo, si sarebbe fatto un passo avanti per offrire un ambiente universitario più vivibile. Allo stesso modo, se i codici etici delle università venissero concepiti non tanto come manuali di buone maniere per non offendere il potente di turno e non mettere in cattiva luce i propri vertici impegnati nella competizione per i finanziamenti ministeriali, quanto per tracciare un insieme di comportamenti da cui risultino le qualità professionali richieste ai docenti per la loro funzione, le possibilità di produttiva interazione tra alta cultura e società sarebbero decisamente più significative.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA": L’ ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO...
di Luisa Muraro e Lucetta Scaraffia *
Su Sette Corriere della sera del 22 novembre 2019 è apparso un articolo di Lucetta Scaraffia, Ida, le molestie e la sconfitta della psicanalisi, chiarissimo in quello che dice. Potete leggerlo qui di seguito. È un testo di notevole interesse perché attira l’attenzione e fa luce sulla parte avuta dalla psicoanalisi nella rivoluzione femminista del ventesimo secolo. L’autrice finisce con un punto di domanda, giustamente, e invita così ad approfondire l’argomento.
Per parte mia ci tengo a dire che la “sconfitta” della psicoanalisi avviene su un antico campo di battaglia, quello dell’autorità della parola, autorità negata alle donne dal regime patriarcale, e campo di battaglia dalle donne tenacemente tenuto aperto attraverso i secoli. Parlo dell’isteria. Dedicandosi alla cura dell’isteria, Freud ha avuto il merito innegabile di essere entrato nel campo di battaglia e di sbagliare, sì, ma in un modo significativo: è il suo inconscio che lo fa sbagliare e lui finisce che se ne accorge. Se possiamo fare festa per la fine del discredito patriarcale e l’affermarsi di autorità femminile nella vita pubblica, qualcosa dobbiamo anche a lui. A sua volta, lui deve qualcosa, o molto, all’umanità femminile. (Luisa Muraro)
Corriere della sera - Sette, 22 novembre 2019
Ida, le molestie e la sconfitta della psicanalisi
di Lucetta Scaraffia *
Quando Ida ha acconsentito alla richiesta del padre, che voleva far curare da Freud i suoi strani disturbi (afonia, svenimenti, tosse continua), la ragazza sperava che il dottore avrebbe creduto alle sue parole, convincendo così anche suo padre che l’amico di famiglia Hanss Zellenka l’aveva molestata con insistenza e pesantemente, per mesi, suscitandole profondo turbamento e paura. Le molestie erano cominciate quando aveva solo tredici anni, e lei si era trovata invischiata in una situazione angosciosa: le vacanze con la famiglia Zellenka sul lago di Garda - dove la madre Pepina l’aveva accolta con un affetto e una simpatia che le mancavano in casa - nascondevano un segreto imbarazzante.
Pepina era in realtà l’amante del padre di Ida, un ricco industriale, che si era portato in vacanza la figlia per mascherare la relazione. E proprio mentre la ragazza cominciava ad accorgersene, diveniva oggetto di corteggiamenti e molestie da parte di Hanss, il marito di Pepina. È questa situazione difficile all’origine dei suoi disturbi di salute ma, come quasi tutte le giovani donne in casi analoghi, Ida ha paura di parlarne e si sente confusamente colpevole, finché un episodio più grave non la induce a raccontare tutto alla madre. Il padre, prontamente informato, convoca Hanss, il quale non solo nega indignato ma ritorce su Ida le accuse, consigliando di mandarla in cura da Freud.
Ferita dall’incomprensione paterna, Ida lo sarà ancor più dolorosamente da Freud che, dopo averla spinta a parlare, comprensivo - finalmente qualcuno la prendeva sul serio! - le aveva spiegato la sua complicata interpretazione dell’episodio. Secondo Freud le parole della ragazza rivelavano un suo amore edipico verso il padre, spostato poi su Hanss, e di conseguenza «lei non aveva affatto paura del signor Zellenka ma piuttosto di se stessa, e più precisamente della tentazione di cedere al signor Zellenka».
Ida reagisce a questa nuova cocente delusione interrompendo la cura con Freud, e proseguendo, sia pure con fatica, nella sua vita di donna che si sarebbe sposata, avrebbe avuto un figlio, avrebbe lavoratoe sarebbe scampata alla persecuzione nazista fuggendo prima a Parigi e poi negli Stati Uniti, dal figlio. Una vita dura e drammatica, che racconta alla nipote, autrice della bella biografia a lei dedicata. La vita di una donna che dal rifiuto dell’interpretazione di Freud ha tratto forza e coraggio. Una posizione totalmente diversa da quella che lo stesso Freud rivela concludendo la narrazione dell’analisi: «Promisi comunque di perdonarla per avermi privato della soddisfazione di guarirla radicalmente». E se invece Ida si fosse guarita da sola rifiutando l’interpretazione di chi non considerava vere le sue parole?
Ida è Dora, la protagonista del primo caso clinico di Freud, che su questo ha costruito la sua ipotesi sulle cause dell’isteria, considerando il caso come prova chiara e convincente della sua teoria del complesso di Edipo.
Agli occhi di una donna di oggi, invece, la vicenda di Ida appare solo come la drammatica storia di una ragazza molestata che non viene creduta dagli uomini ai quali si rivolge per avere aiuto. Il padre, probabilmente anche perché segnato da sensi di colpa nei confronti di Hanss, crede a questi piuttosto che alla figlia, mentre Freud dà credito al padre, e si lascia influenzare dal desiderio di trovare nei desideri edipici rimossi la causa dell’isteria. Le malattie di Ida, invece, rivelano piuttosto la sofferenza di una donna le cui parole non vengono ascoltate né rispettate. Una donna che non viene presa sul serio, proprio come tante altre sue contemporanee - ma anche molte più vicine a noi - che non hanno visto riconosciuto il valore delle loro parole.
La biografia di Ida (scritta dalla pronipote Katharina Adler, Ida, Sellerio 2019) rovescia la storia raccontata da Freud: non si tratta della prima paziente alla quale è stata diagnosticata e curata l’isteria, ma una delle tante - troppe - donne che hanno subito due forme di violenza, quella sessuale e quella contro la loro identità perché le loro parole non vengono credute. È la storia narrata dal punto di vista delle donne, che vedono le cose molto diversamente dagli uomini, ma non sono ascoltate.
C’è voluta una lunga battaglia, combattuta dalle donne, perché le parole delle vittime venissero ascoltate e prese seriamente in considerazione, perché le vittime stesse non fossero sempre considerate possibili complici della violenza - Ida aveva forse provocato, magari anche inconsapevolmente, come insinua Freud, il violento? - e venissero invece aiutate a superare il trauma, e risarcite.
Nell’ordinamento giuridico italiano gli articoli del codice Rocco, vigenti fino al 1996, punivano ogni tipo di violenza o molestia sessuale - sia sulle donne che sui minori - come «delitto contro la morale pubblica e il buoncostume». Tutelavano cioè quello che veniva considerato un bene collettivo e non la vittima. È stato solo nel 1996, grazie alle pressioni del movimento femminista, che viene promulgata la nuova legge per cui lo stupro diventa reato contro la persona, e di conseguenza l’attività sessuale riconosciuta come frutto di una libera scelta perché rientra nel diritto proprio dell’individuo.
Mentre nella fase precedente si collocava al primo posto la condizione di vita della comunità, che per il legislatore costituiva il massimo valore, oggi a essere valorizzata è invece la dimensione individuale di chi subisce il reato, divenuta il bene giuridico protetto dalla legge. Rivendicando la loro posizione di vittime della violenza, le donne capovolgono la situazione di debolezza in cui si trovavano, s’impadroniscono del potere di accusa, le loro parole si caricano di valore, e hanno finalmente diritto di essere ascoltate.
Oggi Ida troverebbe ascolto, Hanss verrebbe punito per molestie su una minore, e Freud non avrebbe più la possibilità di elaborare la sua teoria sull’isteria. Un caso in cui la psicanalisi, elemento fondamentale della nostra modernità, viene forse sconfitta dalla realtà che sta nelle parole delle donne?
(www.libreriadelledonne.it, 29 novembre 2019)
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". La crisi epocale dell’ordine simbolico di "mammasantissima" ("patriarcato": alleanza Madre-Figlio).
DONNE, UOMINI, E DISORDINE SIMBOLICO
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
Federico La Sala
LETTERA APOSTOLICA
Admirabile signum
DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
SUL SIGNIFICATO E IL VALORE DEL PRESEPE *
1. Il mirabile segno del presepe, così caro al popolo cristiano, suscita sempre stupore e meraviglia. Rappresentare l’evento della nascita di Gesù equivale ad annunciare il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio con semplicità e gioia. Il presepe, infatti, è come un Vangelo vivo, che trabocca dalle pagine della Sacra Scrittura. Mentre contempliamo la scena del Natale, siamo invitati a metterci spiritualmente in cammino, attratti dall’umiltà di Colui che si è fatto uomo per incontrare ogni uomo. E scopriamo che Egli ci ama a tal punto da unirsi a noi, perché anche noi possiamo unirci a Lui.
Con questa Lettera vorrei sostenere la bella tradizione delle nostre famiglie, che nei giorni precedenti il Natale preparano il presepe. Come pure la consuetudine di allestirlo nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri, nelle piazze... È davvero un esercizio di fantasia creativa, che impiega i materiali più disparati per dare vita a piccoli capolavori di bellezza. Si impara da bambini: quando papà e mamma, insieme ai nonni, trasmettono questa gioiosa abitudine, che racchiude in sé una ricca spiritualità popolare. Mi auguro che questa pratica non venga mai meno; anzi, spero che, là dove fosse caduta in disuso, possa essere riscoperta e rivitalizzata.
2. L’origine del presepe trova riscontro anzitutto in alcuni dettagli evangelici della nascita di Gesù a Betlemme. L’Evangelista Luca dice semplicemente che Maria «diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (2,7). Gesù viene deposto in una mangiatoia, che in latino si dice praesepium, da cui presepe.
Entrando in questo mondo, il Figlio di Dio trova posto dove gli animali vanno a mangiare. Il fieno diventa il primo giaciglio per Colui che si rivelerà come «il pane disceso dal cielo» (Gv 6,41). Una simbologia che già Sant’Agostino, insieme ad altri Padri, aveva colto quando scriveva: «Adagiato in una mangiatoia, divenne nostro cibo» (Serm. 189,4). In realtà, il presepe contiene diversi misteri della vita di Gesù e li fa sentire vicini alla nostra vita quotidiana.
Ma veniamo subito all’origine del presepe come noi lo intendiamo. Ci rechiamo con la mente a Greccio, nella Valle Reatina, dove San Francesco si fermò venendo probabilmente da Roma, dove il 29 novembre 1223 aveva ricevuto dal Papa Onorio III la conferma della sua Regola. Dopo il suo viaggio in Terra Santa, quelle grotte gli ricordavano in modo particolare il paesaggio di Betlemme. Ed è possibile che il Poverello fosse rimasto colpito, a Roma, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, dai mosaici con la rappresentazione della nascita di Gesù, proprio accanto al luogo dove si conservavano, secondo un’antica tradizione, le tavole della mangiatoia.
Le Fonti Francescane raccontano nei particolari cosa avvenne a Greccio. Quindici giorni prima di Natale, Francesco chiamò un uomo del posto, di nome Giovanni, e lo pregò di aiutarlo nell’attuare un desiderio: «Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello».[1] Appena l’ebbe ascoltato, il fedele amico andò subito ad approntare sul luogo designato tutto il necessario, secondo il desiderio del Santo. Il 25 dicembre giunsero a Greccio molti frati da varie parti e arrivarono anche uomini e donne dai casolari della zona, portando fiori e fiaccole per illuminare quella santa notte. Arrivato Francesco, trovò la greppia con il fieno, il bue e l’asinello. -La gente accorsa manifestò una gioia indicibile, mai assaporata prima, davanti alla scena del Natale. Poi il sacerdote, sulla mangiatoia, celebrò solennemente l’Eucaristia, mostrando il legame tra l’Incarnazione del Figlio di Dio e l’Eucaristia. In quella circostanza, a Greccio, non c’erano statuine: il presepe fu realizzato e vissuto da quanti erano presenti.[2]
È così che nasce la nostra tradizione: tutti attorno alla grotta e ricolmi di gioia, senza più alcuna distanza tra l’evento che si compie e quanti diventano partecipi del mistero.
Il primo biografo di San Francesco, Tommaso da Celano, ricorda che quella notte, alla scena semplice e toccante s’aggiunse anche il dono di una visione meravigliosa: uno dei presenti vide giacere nella mangiatoia Gesù Bambino stesso. Da quel presepe del Natale 1223, «ciascuno se ne tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia».[3]
3. San Francesco, con la semplicità di quel segno, realizzò una grande opera di evangelizzazione. Il suo insegnamento è penetrato nel cuore dei cristiani e permane fino ai nostri giorni come una genuina forma per riproporre la bellezza della nostra fede con semplicità. D’altronde, il luogo stesso dove si realizzò il primo presepe esprime e suscita questi sentimenti. Greccio diventa un rifugio per l’anima che si nasconde sulla roccia per lasciarsi avvolgere nel silenzio.
Perché il presepe suscita tanto stupore e ci commuove? Anzitutto perché manifesta la tenerezza di Dio. Lui, il Creatore dell’universo, si abbassa alla nostra piccolezza. Il dono della vita, già misterioso ogni volta per noi, ci affascina ancora di più vedendo che Colui che è nato da Maria è la fonte e il sostegno di ogni vita. In Gesù, il Padre ci ha dato un fratello che viene a cercarci quando siamo disorientati e perdiamo la direzione; un amico fedele che ci sta sempre vicino; ci ha dato il suo Figlio che ci perdona e ci risolleva dal peccato.
Comporre il presepe nelle nostre case ci aiuta a rivivere la storia che si è vissuta a Betlemme. Naturalmente, i Vangeli rimangono sempre la fonte che permette di conoscere e meditare quell’Avvenimento; tuttavia, la sua rappresentazione nel presepe aiuta ad immaginare le scene, stimola gli affetti, invita a sentirsi coinvolti nella storia della salvezza, contemporanei dell’evento che è vivo e attuale nei più diversi contesti storici e culturali.
In modo particolare, fin dall’origine francescana il presepe è un invito a “sentire”, a “toccare” la povertà che il Figlio di Dio ha scelto per sé nella sua Incarnazione. E così, implicitamente, è un appello a seguirlo sulla via dell’umiltà, della povertà, della spogliazione, che dalla mangiatoia di Betlemme conduce alla Croce. È un appello a incontrarlo e servirlo con misericordia nei fratelli e nelle sorelle più bisognosi (cfr Mt 25,31-46).
4. Mi piace ora passare in rassegna i vari segni del presepe per cogliere il senso che portano in sé. In primo luogo, rappresentiamo il contesto del cielo stellato nel buio e nel silenzio della notte. Non è solo per fedeltà ai racconti evangelici che lo facciamo così, ma anche per il significato che possiede. Pensiamo a quante volte la notte circonda la nostra vita. -Ebbene, anche in quei momenti, Dio non ci lascia soli, ma si fa presente per rispondere alle domande decisive che riguardano il senso della nostra esistenza: chi sono io? Da dove vengo? Perché sono nato in questo tempo? Perché amo? Perché soffro? Perché morirò? Per dare una risposta a questi interrogativi Dio si è fatto uomo. La sua vicinanza porta luce dove c’è il buio e rischiara quanti attraversano le tenebre della sofferenza (cfr Lc 1,79).
Una parola meritano anche i paesaggi che fanno parte del presepe e che spesso rappresentano le rovine di case e palazzi antichi, che in alcuni casi sostituiscono la grotta di Betlemme e diventano l’abitazione della Santa Famiglia. Queste rovine sembra che si ispirino alla Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varazze (secolo XIII), dove si legge di una credenza pagana secondo cui il tempio della Pace a Roma sarebbe crollato quando una Vergine avesse partorito. Quelle rovine sono soprattutto il segno visibile dell’umanità decaduta, di tutto ciò che va in rovina, che è corrotto e intristito. Questo scenario dice che Gesù è la novità in mezzo a un mondo vecchio, ed è venuto a guarire e ricostruire, a riportare la nostra vita e il mondo al loro splendore originario.
5. Quanta emozione dovrebbe accompagnarci mentre collochiamo nel presepe le montagne, i ruscelli, le pecore e i pastori! In questo modo ricordiamo, come avevano preannunciato i profeti, che tutto il creato partecipa alla festa della venuta del Messia. Gli angeli e la stella cometa sono il segno che noi pure siamo chiamati a metterci in cammino per raggiungere la grotta e adorare il Signore.
«Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» (Lc 2,15): così dicono i pastori dopo l’annuncio fatto dagli angeli. È un insegnamento molto bello che ci proviene nella semplicità della descrizione. -A differenza di tanta gente intenta a fare mille altre cose, i pastori diventano i primi testimoni dell’essenziale, cioè della salvezza che viene donata. Sono i più umili e i più poveri che sanno accogliere l’avvenimento dell’Incarnazione. A Dio che ci viene incontro nel Bambino Gesù, i pastori rispondono mettendosi in cammino verso di Lui, per un incontro di amore e di grato stupore. È proprio questo incontro tra Dio e i suoi figli, grazie a Gesù, a dar vita alla nostra religione, a costituire la sua singolare bellezza, che traspare in modo particolare nel presepe.
6. Nei nostri presepi siamo soliti mettere tante statuine simboliche. Anzitutto, quelle di mendicanti e di gente che non conosce altra abbondanza se non quella del cuore. Anche loro stanno vicine a Gesù Bambino a pieno titolo, senza che nessuno possa sfrattarle o allontanarle da una culla talmente improvvisata che i poveri attorno ad essa non stonano affatto. I poveri, anzi, sono i privilegiati di questo mistero e, spesso, coloro che maggiormente riescono a riconoscere la presenza di Dio in mezzo a noi.
I poveri e i semplici nel presepe ricordano che Dio si fa uomo per quelli che più sentono il bisogno del suo amore e chiedono la sua vicinanza. Gesù, «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), è nato povero, ha condotto una vita semplice per insegnarci a cogliere l’essenziale e vivere di esso. Dal presepe emerge chiaro il messaggio che non possiamo lasciarci illudere dalla ricchezza e da tante proposte effimere di felicità. Il palazzo di Erode è sullo sfondo, chiuso, sordo all’annuncio di gioia. -Nascendo nel presepe, Dio stesso inizia l’unica vera rivoluzione che dà speranza e dignità ai diseredati, agli emarginati: la rivoluzione dell’amore, la rivoluzione della tenerezza. Dal presepe, Gesù proclama, con mite potenza, l’appello alla condivisione con gli ultimi quale strada verso un mondo più umano e fraterno, dove nessuno sia escluso ed emarginato.
Spesso i bambini - ma anche gli adulti! - amano aggiungere al presepe altre statuine che sembrano non avere alcuna relazione con i racconti evangelici. Eppure, questa immaginazione intende esprimere che in questo nuovo mondo inaugurato da Gesù c’è spazio per tutto ciò che è umano e per ogni creatura. Dal pastore al fabbro, dal fornaio ai musicisti, dalle donne che portano le brocche d’acqua ai bambini che giocano...: tutto ciò rappresenta la santità quotidiana, la gioia di fare in modo straordinario le cose di tutti i giorni, quando Gesù condivide con noi la sua vita divina.
7. Poco alla volta il presepe ci conduce alla grotta, dove troviamo le statuine di Maria e di Giuseppe. Maria è una mamma che contempla il suo bambino e lo mostra a quanti vengono a visitarlo. La sua statuetta fa pensare al grande mistero che ha coinvolto questa ragazza quando Dio ha bussato alla porta del suo cuore immacolato. All’annuncio dell’angelo che le chiedeva di diventare la madre di Dio, Maria rispose con obbedienza piena e totale. Le sue parole: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38), sono per tutti noi la testimonianza di come abbandonarsi nella fede alla volontà di Dio. Con quel “sì” Maria diventava madre del Figlio di Dio senza perdere, anzi consacrando grazie a Lui la sua verginità. Vediamo in lei la Madre di Dio che non tiene il suo Figlio solo per sé, ma a tutti chiede di obbedire alla sua parola e metterla in pratica (cfr Gv 2,5).
Accanto a Maria, in atteggiamento di proteggere il Bambino e la sua mamma, c’è San Giuseppe. In genere è raffigurato con il bastone in mano, e a volte anche mentre regge una lampada. San Giuseppe svolge un ruolo molto importante nella vita di Gesù e di Maria. Lui è il custode che non si stanca mai di proteggere la sua famiglia. Quando Dio lo avvertirà della minaccia di Erode, non esiterà a mettersi in viaggio ed emigrare in Egitto (cfr Mt 2,13-15). E una volta passato il pericolo, riporterà la famiglia a Nazareth, dove sarà il primo educatore di Gesù fanciullo e adolescente. Giuseppe portava nel cuore il grande mistero che avvolgeva Gesù e Maria sua sposa, e da uomo giusto si è sempre affidato alla volontà di Dio e l’ha messa in pratica.
8. Il cuore del presepe comincia a palpitare quando, a Natale, vi deponiamo la statuina di Gesù Bambino. Dio si presenta così, in un bambino, per farsi accogliere tra le nostre braccia. Nella debolezza e nella fragilità nasconde la sua potenza che tutto crea e trasforma. Sembra impossibile, eppure è così: in Gesù Dio è stato bambino e in questa condizione ha voluto rivelare la grandezza del suo amore, che si manifesta in un sorriso e nel tendere le sue mani verso chiunque.
La nascita di un bambino suscita gioia e stupore, perché pone dinanzi al grande mistero della vita. Vedendo brillare gli occhi dei giovani sposi davanti al loro figlio appena nato, comprendiamo i sentimenti di Maria e Giuseppe che guardando il bambino Gesù percepivano la presenza di Dio nella loro vita.
«La vita infatti si manifestò» (1 Gv 1,2): così l’apostolo Giovanni riassume il mistero dell’Incarnazione. Il presepe ci fa vedere, ci fa toccare questo evento unico e straordinario che ha cambiato il corso della storia, e a partire dal quale anche si ordina la numerazione degli anni, prima e dopo la nascita di Cristo.
Il modo di agire di Dio quasi tramortisce, perché sembra impossibile che Egli rinunci alla sua gloria per farsi uomo come noi. -Che sorpresa vedere Dio che assume i nostri stessi comportamenti: dorme, prende il latte dalla mamma, piange e gioca come tutti i bambini! Come sempre, Dio sconcerta, è imprevedibile, continuamente fuori dai nostri schemi. Dunque il presepe, mentre ci mostra Dio così come è entrato nel mondo, ci provoca a pensare alla nostra vita inserita in quella di Dio; invita a diventare suoi discepoli se si vuole raggiungere il senso ultimo della vita.
9. Quando si avvicina la festa dell’Epifania, si collocano nel presepe le tre statuine dei Re Magi. Osservando la stella, quei saggi e ricchi signori dell’Oriente si erano messi in cammino verso Betlemme per conoscere Gesù, e offrirgli in dono oro, incenso e mirra. Anche questi regali hanno un significato allegorico: l’oro onora la regalità di Gesù; l’incenso la sua divinità; la mirra la sua santa umanità che conoscerà la morte e la sepoltura.
Guardando questa scena nel presepe siamo chiamati a riflettere sulla responsabilità che ogni cristiano ha di essere evangelizzatore. Ognuno di noi si fa portatore della Bella Notizia presso quanti incontra, testimoniando la gioia di aver incontrato Gesù e il suo amore con concrete azioni di misericordia.
I Magi insegnano che si può partire da molto lontano per raggiungere Cristo. Sono uomini ricchi, stranieri sapienti, assetati d’infinito, che partono per un lungo e pericoloso viaggio che li porta fino a Betlemme (cfr Mt 2,1-12). Davanti al Re Bambino li pervade una gioia grande. Non si lasciano scandalizzare dalla povertà dell’ambiente; non esitano a mettersi in ginocchio e ad adorarlo. Davanti a Lui comprendono che Dio, come regola con sovrana sapienza il corso degli astri, così guida il corso della storia, abbassando i potenti ed esaltando gli umili. E certamente, tornati nel loro Paese, avranno raccontato questo incontro sorprendente con il Messia, inaugurando il viaggio del Vangelo tra le genti.
10. Davanti al presepe, la mente va volentieri a quando si era bambini e con impazienza si aspettava il tempo per iniziare a costruirlo. Questi ricordi ci inducono a prendere sempre nuovamente coscienza del grande dono che ci è stato fatto trasmettendoci la fede; e al tempo stesso ci fanno sentire il dovere e la gioia di partecipare ai figli e ai nipoti la stessa esperienza. Non è importante come si allestisce il presepe, può essere sempre uguale o modificarsi ogni anno; ciò che conta, è che esso parli alla nostra vita. Dovunque e in qualsiasi forma, il presepe racconta l’amore di Dio, il Dio che si è fatto bambino per dirci quanto è vicino ad ogni essere umano, in qualunque condizione si trovi.
Cari fratelli e sorelle, il presepe fa parte del dolce ed esigente processo di trasmissione della fede. A partire dall’infanzia e poi in ogni età della vita, ci educa a contemplare Gesù, a sentire l’amore di Dio per noi, a sentire e credere che Dio è con noi e noi siamo con Lui, tutti figli e fratelli grazie a quel Bambino Figlio di Dio e della Vergine Maria. E a sentire che in questo sta la felicità. Alla scuola di San Francesco, apriamo il cuore a questa grazia semplice, lasciamo che dallo stupore nasca una preghiera umile: il nostro “grazie” a Dio che ha voluto condividere con noi tutto per non lasciarci mai soli.
Dato a Greccio, nel Santuario del Presepe, 1° dicembre 2019, settimo del pontificato.
FRANCESCO
* Fonte: Lettera apostolica. Papa Francesco a Greccio: ecco il vero significato del presepe di Mimmo Muolo, Avvenire, 30.11.2019 (ripresa parziale).
LINGUISTICA GENERALE (SAUSSURE) E MATEMATICA (RUSSELL), E LA "CORRISPONDENZA BIUNIVOCA" SCOMPARSA. Una questione antropo-logica epocale... *
Mathone. Pillole di matematica per comprenderla meglio ogni giorno
La matematica conta: storia dei primi numeri
di Paolo Boldrini *
Leggere, scrivere e contare sono tra le attività più importanti che la nostra mente riesce a svolgere e costituiscono la base dello sviluppo umano. In questo articolo analizzeremo l’operazione di contare e il concetto strettemente legato di numero naturale. Mentre lettura e scrittura sono invenzioni relativamente recenti, diffuse a partire dal 3000 a.C. l’usanza del contare ha radici molto più antiche.
1 Perchè gli uomini hanno iniziato a contare?
2 Piccole e grandi quantità
3 Il corvo conta fino a 5
4 Terzetti e numeri naturali
5 Un’apparente tautologia
6 Cosa significa contare?
Perchè gli uomini hanno iniziato a contare?
Le prime tracce di conteggi risalgono addirittura al paleolitico. I principali reperti che testimoniano questa capacità sono un osso di lupo risalente al 40000 a.C e il cosiddetto osso di Ishago, risalente al 20000 a.C. Entrambi i ritrovamenti presentano delle tacche incise. Mentre per il primo non si può escludere si trattasse di una funzione decorativa; nel caso dell’osso di Ishago, l’asimmetria delle incisioni rende concordi gli studiosi nell’affermare che la finalità non fu estetica ma pratica.
Ma che cosa contavano gli uomini nella preistoria? Non è difficile immaginare quali possano essere le utilità di un tale strumento: per un cacciatore era fondamentale sapere quante lance avesse a disposizione, mentre un raccoglitore era interessato a sapere quanti frutti era stato in grado di trovare in una giornata.
In seguito, con la diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento, divenne ancora più importante saper contare: un pastore deve conoscere esattamente la quantità di pecore nel suo gregge, altrimenti rischia di dimenticarne qualcuna! Ah di pecore e numeri naturali ne avevamo parlato anche qui Numeri Naturali: dalle pecore al concetto di numero .
Piccole e grandi quantità
Nonostante il contare abbia risposto originariamente a problemi pratici, si tratta di un’operazione astratta e tutt’altro che naturale. Essa non va confusa con la capacità di distinguere piccole quantità di oggetti; per comprendere la differenza è sufficiente un rapido esperimento.
Quanti oggetti contengono i seguenti gruppi?
Ovviamente è molto semplice distinguere le differenze, senza la necessità di mettersi effettivamente a contare quante figure sono presenti in ogni insieme.
Questo però funziona solo con piccole quantità: prova a valutare il numero degli oggetti nei seguenti insiemi:
In questo caso è stato certamente più difficile capire il numero “a colpo d’occhio” e probabilmente sarà stato necessario contare le forme a piccoli gruppi di due o tre elementi per avere la certezza del numero totale.
Mentre la capacità di contare sembra essere prerogativa umana, la distinzione tra piccoli gruppi di oggetti è diffusa anche in alcuni animali, soprattutto uccelli. A questo proposito è interessante riportare un racconto risalente al Settecento.
Il corvo conta fino a 5
Un contadino voleva uccidere un corvo che aveva nidificato in cima a una torre, dentro ai suoi poderi. Ogni volta che si avvicinava, però, l’uccello volava via, fuori dalla portata del suo fucile, finché il contadino non si allontanava. Solo allora l’animale ritornava nella torre, riprendendo le incursioni sui terreni dell’uomo. Il contadino pensò allora di chiedere aiuto a un suo vicino. I due, armati, entrarono insieme nella torre e poco dopo ne uscì soltanto uno. Il corvo però non si lasciò ingannare, e non ritornò al nido finché non fu uscito anche il secondo contadino. Per riuscire ad ingannarlo entrarono poi tre uomini e successivamente quattro e cinque. Ma il corvo ogni volta aspettava che fossero usciti tutti prima di far ritorno al nido. Soltanto in sei finalmente, i contadini ebbero la meglio, infatti il corvo aspettò che cinque di loro fossero usciti e quindi fiducioso rientrò sulla torre, dove il sesto contadino lo uccise.
Stimolati da questo racconto, diversi studiosi si sono interessati dell’effettiva capacità di conto di alcuni animali, in particolare l’etologo tedesco Otto Koehler dimostrò con una serie di esperimenti che il suo corvo, Jacob era in grado di contare fino a 6, quindi al contadino per stanarlo sarebbe servita una persona in più rispetto a quelle del racconto!
Terzetti e numeri naturali
É giunto il momento di interrogarci sul vero significato del contare [**]. Fino ad ora abbiamo dato per scontato un legame tra il processo di conteggio e i numeri naturali. Essi sono talmente basilari che raramente ci soffermiamo sul loro reale significato.
L’idea, apparentemente banale, che sta alla base dei numeri naturali e di conseguenza del conteggio è che un terzetto di pecore, un terzetto di mele e un terzetto di pietre hanno una cosa in comune: il numero 3!
Tuttavia, come spiega il filosofo e matematico Bertrand Russell, nel suo saggio “Introduzione alla filosofia matematica”, non bisogna commettere questo fraintendimento: “Un terzetto d’uomini è un esempio del numero tre, e il numero tre è un esempio di numero; ma il terzetto non è un esempio di numero“.
Tutti i terzetti hanno in comune il numero 3, ma nessuno dei terzetti costituisce il numero 3. Essi sono ben distinti dai duetti e dai quartetti, e ciò che li distingue è proprio il fatto di essere 3. Quindi un numero è la caratteristica comune a tutti gli insiemi costituiti da quel determinato numero di elementi. Il numero 7 per esempio è tecnicamente definito come l’insieme degli insiemi di 7 elementi.
Un’apparente tautologia
Questa affermazione sembra tautologica: come posso sapere il “numero di elementi di un insieme” se non conosco la definizione di numero e non so nemmeno cosa significhi contare?
Immaginiamo di avere duetti, terzetti e in generale insiemi di n elementi, come posso raccogliere tutti quelli con lo stesso numero di elementi senza effettivamente contarli?
Russell utilizza il criterio della corrispondenza biunivoca. Dati due insiemi, essi hanno la stessa cardinalità (numero di elementi) se e solo se è possibile creare una funzione biunivoca tra i due. Ovvero una funzione che ad ogni elemento del primo insieme associa uno e un solo elemento del secondo.
In questo modo è possibile raggruppare gli insiemi con la stessa cardinalità senza presupporre la capacità di contare. Fatto ciò è sufficiente dare un nome agli insiemi di insiemi (1 a quelli di 1 elemento, 2 a quelli di 2 e così via). In questo modo abbiamo definito i numeri in maniera consistente!
Cosa significa contare?
A questo punto resta solo da capire cosa significhi contare. Anche in questo caso è utile ragionare in termini di corrispondenze biunivoche. Soffermiamoci sul caso dell’osso di Ishago, su di esso ogni tacca sta a rappresentare un’unità. Non si sa cosa sia stato contato in questo modo, supponiamo i frutti raccolti durante la giornata. Ad ogni frutto corrisponde una tacca, quindi esiste una corrispondenza biunivoca tra l’insieme dei frutti e l’insieme delle tacche. Astraendo possiamo asserire che l’operazione di contare non è nient’altro che creare una corrispondenza biunivoca tra l’insieme degli oggetti da contare e un sottoinsieme dei numeri naturali!
Se vuoi approfondire ti consiglio l’articolo GEORG CANTOR: QUANTO È INFINITO L’INFINITO? in cui Lorenzo spiega come contare insiemi di infiniti elementi!
Spero che questo articolo ti sia piaciuto, nel prossimo vedremo come il concetto di numero si è evoluto nelle diverse culture. Ospite speciale: il numero 0!
Se ti interessa l’argomento dei numeri, del contare e la matematica più in generale ti consiglio questo libretto leggero ma interessante: L’uomo che sapeva contare.
* Fonte: Mathone (ripresa parziale - senza immagini).
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RILEGGERE SAUSSURE. UN "TRATTATO TEOLOGICO-POLITICO" RIDOTTO A UN BANALE "CORSO DI LINGUISTICA GENERALE"!!!
DONNE, UOMINI E MATEMATICA. Se le donne non "contano", non sanno nemmeno contare; e gli uomini, se "contano", altrettanto non sanno nemmeno contare!!! La punta di un "iceberg": una "nota" del "disagio della civiltà"
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Federico La Sala
"FAMILISMO AMORALE" : IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.... *
La liberazione di Franca Viola
2 gennaio 1966
di Chiara Saraceno (Il Mulino, 02.01. 2019)
Il 2 gennaio 1966 ad Alcamo, in Sicilia, la polizia fa irruzione nella casa in cui è tenuta prigioniera la diciassettenne Franca Viola, trascinata via a forza da casa sua il giorno di Santo Stefano, sequestrata e violentata da Filippo Melodia, con cui aveva tempo prima rotto il fidanzamento dopo che l’uomo era stato arrestato per furto e appartenenza a una banda mafiosa.
La ragazza viene liberata e Melodia arrestato con i suoi complici, con l’accusa di sequestro di persona e violenza carnale su minorenne. L’intervento della polizia era stato concordato con i genitori della ragazza che, proprio per consentire l’arresto in flagranza del Melodia, avevano fatto finta di accettare il fatto compiuto e l’inevitabilità del matrimonio cosiddetto riparatore. In quegli anni, infatti, e ancora fino al 1981 quando la norma venne definitivamente cancellata dal codice penale, il matrimonio non “rimetteva a posto” le cose solo agli occhi dell’opinione comune. Cancellava anche il reato di rapimento e di stupro. Facendo liberare la ragazza e consegnando il suo violentatore alla polizia, i genitori rifiutavano precisamente questa soluzione, restituendo a Franca, allora minorenne, la sua libertà di scelta e di vita.
Una libertà che la giovanissima Franca esercitò fino in fondo, in contrasto con gli usi prevalenti a quel tempo e nella sua comunità, ribadendo anche in tribunale la propria indisponibilità a sposare il suo violentatore. Negando che si era trattato di una “fuitina”, fatta in accordo dai due per forzare il matrimonio contro il parere dei genitori di lei, come sosteneva la difesa. Nel clamore suscitato dal processo a livello nazionale, più per l’inaspettato rifiuto della ragazza che per la gravità dell’accaduto, Franca mantenne ferma la propria posizione, nonostante gli attacchi pesanti alla sua “moralità” e nonostante, secondo la morale del tempo, fosse stata “disonorata” pubblicamente - addirittura a livello nazionale a causa del
processo - dal rapimento e dallo stupro subito. Al suo fianco c’erano, appunto, i suoi genitori. Non volevano sacrificarla per sottostare al potere intimidatorio che aveva la famiglia di questi ad Alcamo, dove abitavano entrambe le famiglie, nonostante dopo la rottura del fidanzamento avessero subito minacce e aggressioni.
Gli eventi del 2 gennaio, perciò, segnano una doppia sfida al potere. Una sfida a una morale, sancita dalla legge, che proteggeva il maschio aggressore mentre riduceva la donna a un corpo violabile impunemente, purché sotto la protezione, anche ex post, del matrimonio e alla prepotenza della malavita locale. Una sfida anche alla complicità corriva e ipocrita dell’opinione comune, pronta a condannare la vittima “disonorata” e ad ammirare il violento capace di prendersi ciò che vuole.
Ricordo negli stessi anni una situazione analoga per sequenza dei fatti - stupro seguito da offerta di matrimonio
riparatore - ma non per finale. Infatti l’uomo, un giornalista, che aveva stuprato una zingara minorenne se l’era cavata sposandola, sotto lo sguardo divertito e un po’ compassionevole dei suoi colleghi (e di qualche collega) che avevano fatto reportage sulle nozze e sulla vestizione della zingara sposa.
A differenza di Viola e invece come molte altre prima e dopo di lei, l’adolescente zingara non trovò nessuno che le aprisse la possibilità di rifiutare il bruto che l’aveva stuprata e lasciarlo alla sua giusta punizione. Purtroppo, nonostante allora l’episodio avesse avuto un certo clamore a causa della differenza sociale degli “sposi” e data la professione dell’uomo, non ne è rimasta traccia, almeno nel vasto mondo del web. Devo perciò affidarmi solo alla mia memoria, da cui non emergono ricordi di articoli a sostegno della ragazzina o di scandalo per l’ipocrisia di quel matrimonio probabilmente finito il giorno stesso, a meno che l’uomo non avesse deciso di abusare ancora un po’ della ragazza divenuta sua proprietà.
In generale, i “matrimoni riparatori” che estinguevano il reato di stupro consegnavano legalmente la donna nelle mani di un uomo violento, privo di rispetto per lei, legittimandone la prepotenza a vita. È ciò che avviene ancora oggi, là dove il matrimonio riparatore è ancora permesso (non solo in alcuni Paesi in via di sviluppo, ma anche in alcuni Stati degli Stati Uniti, nonostante una legge federale lo vieti).
Oggi il gesto coraggioso di Franca viene giustamente ricordato come quello che aprì alla cancellazione dell’istituto del matrimonio riparatore, innanzitutto perché fece da detonatore per l’apertura di un dibattito pubblico sulla questione in un paese ancora fortemente misogino e regolato, per quanto riguardava le norme sulla famiglia e la sessualità, dal codice civile e penale fascisti. Ma ci sono voluti quindici anni, la rottura culturale del Sessantotto e soprattutto dei movimenti femministi, perché la sfida di Franca Viola e dei suoi genitori a una morale e a una legge ipocrite e fortemente maschiliste diventassero senso comune e portassero, appunto, all’abrogazione di una norma radicalmente incivile e biecamente maschilista.
Neppure la riforma del diritto di famiglia nel 1975, che pure aveva cancellato l’asimmetria legale tra marito e moglie nel matrimonio rimasta in vigore in barba al dettato Costituzionale (art. 29), lo aveva eliminato come possibilità. Troppo tenace e radicata era l’idea, documentata anche da Pasolini nel suo documentario Comizi d’amore del 1965, che l’onore di una donna stesse, non solo, nel suo sesso, inteso come organo fisico, ma nel rapporto giuridico che aveva con l’uomo che ne faceva, letteralmente, uso, con o senza il suo consenso.
Per questo si riteneva che l’onore di una donna fosse alla mercé del potere degli uomini, di tutti in quanto potenziali violentatori. Sempre per questo le donne dovevano condurre una vita “sorvegliata”, per non esporsi ad essere “disonorate”. La verginità al matrimonio non era il “dono” che la donna faceva allo sposo (per altro senza reciprocità), come sostenevano taluni manuali per le fidanzate e la posta del cuore delle riviste, ammantando di buoni sentimenti una concezione del matrimonio che legittimava qualsiasi prepotenza, sessuale e non, del marito sulla moglie. Piuttosto era la garanzia che si trattava di “merce non avariata”, che come tale, analogamente al tradimento anche solo sospettato della moglie, “disonorava” indirettamente anche l’uomo cui era legata come moglie, figlia o sorella. Era lo stesso concetto di onore che stava alla base del mostro giuridico che andava sotto la dizione “delitto di onore”, non a caso abrogato, troppo tardivamente, contestualmente al matrimonio riparatore dalla legge 442 del 5 agosto 1981.
Ma ci vollero ancora altri quindici anni perché, sempre per la pressione del movimento delle donne, nel febbraio 1996, dopo un lunghissimo e controverso iter parlamentare, si modificasse la definizione del codice (fascista) Rocco secondo cui lo stupro era un reato non contro la persona, la sua integrità e la sua libertà, ma contro la moralità pubblica e il buon costume. Fino ad allora, la vittima dello stupro non era prioritariamente la donna, bensì, appunto, la moralità pubblica e l’onore della famiglia. Il gran rifiuto di Franca Viola e dei suoi genitori aveva già dimostrato l’inaccettabilità di questa definizione.
Ci sono voluti tuttavia trent’anni e un mese e due diverse leggi perché il Parlamento italiano facesse propria una consapevolezza che era stata così chiara in una adolescente siciliana e nei suoi genitori contadini, al punto da essere disposti a pagarne il prezzo di dileggio ed emarginazione sociale. Trent’anni perché si desse seguito al gesto di sfida lanciato da una giovane ragazza di un piccolo paese del Sud.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA. Una nota di Chiara Saraceno
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico
Federico La Sala
Antichi Ritorni
Cenis/Ceneo, quando uno stupro cancella l’identità
Oltraggiata dal dio Poseidone la fanciulla chiede di diventare uomo
di Alba Subrizio (il Mattino di Puglia e Basilicata, 10/09/2017)
La prima trasformazione female-to-male ma soprattutto il rinnegamento della propria sessualità in virtù di una violenza subita. Ovidio con questa storia spiega come lo stupro ferisca non solo fisicamente ma anche mentalmente, al punto che la ragazza sente il bisogno di cancellare per sempre quella femminilità oltraggiata; nulla potrà mai essere come prima. Per cancellare quel dolore, Cenis ha bisogno di ripudiare se stessa, divenendo altro...
Lungi da me l’idea di fare politica, non posso tacere in merito agli stupri perpetrati nelle ultime settimane in tutta Italia e allo scempio mediatico a cui le vittime sono state sottoposte. In una società come la nostra, quasi assuefatta ai crimini della peggior specie (sic!), sembra che il ‘delitto’ commesso passi in secondo piano, il dolore, la vergogna subita, sono cose che non vogliamo vedere o che forse non ci interessano; ciò che invece interessa è sapere chi ha compiuto il misfatto: l’immigrato, l’italiano, il carabiniere finanche...
Soprattutto sui social network - ormai divenuti sempre più luogo di sfogo di personali frustrazioni da parte di individui che diversamente non saprebbero come esistere - leggo commenti insulsi, a dir poco da far accapponare la pelle: dopo i fatti di Firenze c’è chi inneggiava che a commettere l’abominio fossero stati esponenti dell’Arma (inneggiare sì, come se fosse una bella cosa, l’importante è che non fossero ancora una volta accusati cittadini extracomunitari); d’altra parte in seguito ai fatti di Rimini leggo gente “tutta contenta” utilizzare gli avvenimenti a sostegno delle loro teorie xenofobe... e poi numeri e numeri. Come se tutto ciò fosse un gioco: un gioco a calcolare quale ‘parte’ in gara ha compiuto più stupri.
Da questo quadro emerge solo un dato di fatto: il popolo italiano, di qualunque colore politico, ha perso ormai il senno. Ahinoi, non possiamo dire che i nostri antenati latini fossero poi così diversi; basti rileggere i miti antichi per accorgersi da quanti stupri e violenze sono disseminate queste storie: piccoli particolari senza valore all’interno di Storie ben più grandi, ben più importanti.
A convalida di ciò, si pensi solo a Zeus ed Apollo (i campioni dello stupro) per non parlare di altre divinità. Eh già, perché nell’antica Grecia i maggiori artefici di violenze erano gli dèi, proprio quelli che avrebbero dovuto proteggere gli uomini. Tra i tanti miti me ne viene in mente uno che, sebbene sconosciuto ai più, mi ha attratto per la forza delle immagini.
C’era una volta Cenis, una delle donne più belle di tutta la Tessaglia; nonostante decine e decine fossero i suoi pretendenti, lei non voleva concedersi e preferiva godere spensierata della sua fanciullezza. Ma un giorno, mentre passeggiava sulle rive del mare, il dio Poseidone, desiderandola, le usò violenza.
Dopo aver goduto di lei - così narra il poeta latino Ovidio nelle sue “Metamorfosi” - le disse che avrebbe realizzato per Cenis ogni suo desiderio. Così ella rispose: «L’ingiuria che ho patito provoca in me un desiderio grande: quello di non dover subire mai più alcunché di simile. Se farai in modo che io non sia più donna, mi avrai completamente accontentato». Fu così che il dio del mare trasformò Cenis in Ceneo.
Il mito non è una semplice metamorfosi come le altre: innanzitutto è la prima volta nella letteratura mondiale che leggiamo di una donna che diventa uomo (la prima trasformazione female-to-male), ma soprattutto è il rinnegamento della propria sessualità in virtù di una violenza subita.
Ovidio con questa storia spiega come lo stupro ferisca non solo fisicamente ma anche mentalmente, al punto che la ragazza sente il bisogno di cancellare per sempre quella femminilità oltraggiata; nulla potrà mai essere come prima. Scioccamente (da buon maschione) il dio crede di rimediare offrendo un dono, ma nulla può cancellare ciò che è stato. Lo sa bene Cenis, che pertanto, per cancellare quel dolore, ha bisogno di cancellare e ripudiare se stessa, divenendo altro.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
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Il viaggio.
Papa in Thailandia: bambine costrette a prostituirsi, sfigurata dignità
Francesco nell’omelia della messa allo Stadio nazionale di Bangkok tocca la piaga della prostituzione, anche minorile, legata al turismo sessuale, piaga particolarmente sentita in Thailandia
di Gianni Cardinale, inviato in Thailandia (Avvenire, giovedì 21 novembre 2019)
Questa mattina primo bagno di folla per Papa Francesco nella sua visita in Thailandia. Siamo al St. Louis Hospital di Bangkok, fiore all’occhiello della diocesi ed eccellenza nel campo sanitario del Paese. E’ stato fondato 120 anni fa e ad accogliere il Papa sono in tantissimi: medici, infermiere, impiegati, operai con i loro familiari, semplici fedeli. Tutti con la bandierina thai e della Santa Sede. Questo è l’ultimo dei tre appuntamenti della mattinata.
L’incontro è nel grande auditorium con da una parte il ritratto del re e della regina, dall’altro una immagine di Gesù con la Vergine Maria.
"Tutti voi, membri di questa comunità sanitaria - dice Papa Bergoglio -, siete discepoli missionari quando, guardando un paziente, imparate a chiamarlo per nome". "I vostri sforzi e il lavoro delle tante istituzioni che rappresentate sono la testimonianza viva della cura e dell’attenzione che siamo chiamati a dimostrare per tutte le persone, in particolare per gli anziani, i giovani e i più vulnerabili", aggiunge. E poi ricorda come in questi 120 anni di vita del St. Louis "quante persone hanno ricevuto sollievo nel loro dolore, sono state consolate nelle loro oppressioni e accompagnate nella loro solitudine!”. Di qui il grazie “per il dono della vostra presenza nel corso di questi anni”, e la richiesta “di far sì che questo apostolato, e altri simili, siano sempre più segno ed emblema di una Chiesa in uscita che, volendo vivere la propria missione, trova il coraggio di portare l’amore risanante di Cristo a coloro che soffrono". La visita del Papa si chiude con un incontro privato con alcuni malati.
In precedenza il Papa ha già incontrato le autorità politiche del Paese e ha visitato la principale autorità buddista della Thailandia. Nel discorso rivolto ai rappresentanti del governo, al corpo diplomatico e ai leader politici al Government House ribadisce che “la crisi migratoria non può essere ignorata". "La stessa Tailandia, - sottolinea - nota per l’accoglienza che ha concesso ai migranti e ai rifugiati, si è trovata di fronte a questa crisi dovuta alla tragica fuga di rifugiati dai Paesi vicini” (QUI IL DISCORSO) . Di qui il rinnovato auspicio “che la comunità internazionale agisca con responsabilità e lungimiranza”, in modo da risolvere “i problemi che portano a questo tragico esodo” e a promuovere “una migrazione sicura, ordinata e regolata”.
Nel suo intervento Francesco rivolge anche un pensiero "quelle donne e a quei bambini del nostro tempo che sono particolarmente feriti, violentati ed esposti ad ogni forma di sfruttamento, schiavitù, violenza e abuso".
Esprime la sua “riconoscenza al governo tailandese per i suoi sforzi volti ad estirpare questo flagello, come pure a tutte le persone e le organizzazioni che lavorano instancabilmente per sradicare questo male e offrire un percorso di dignità”.
Auspica che nascano sempre più “artigiani dell’ospitalità”, uomini e donne che “si prendano cura dello sviluppo integrale di tutti i popoli, in seno a una famiglia umana che si impegni a vivere nella giustizia, nella solidarietà e nell’armonia fraterna". E invita a coniugare libertà Thai (vuol dire proprio questo) e solidarietà, afinché “le persone e le comunità possano avere accesso all’educazione, al lavoro degno, all’assistenza sanitaria, e in tal modo raggiungere i livelli minimi indispensabili di sostenibilità che rendano possibile uno sviluppo umano integrale".
Dopo l’incontro con il mondo diplomatico e della politica Papa visita il Patriarca Supremo dei Buddisti, Somdej Phra Maha Muneewong, nel Tempio Wat Ratchabophit Sathit Maha Simaram. Qui ribadisce che “il cammino interreligioso” può testimoniare "anche nel nostro mondo, tanto sollecitato a propagare e generare divisioni e esclusioni, che la cultura dell’incontro è possibile” (QUI IL DISCORSO COMPLETO). Perché “quando abbiamo l’opportunità di riconoscerci e di apprezzarci, anche nelle nostre differenze, offriamo al mondo una parola di speranza capace di incoraggiare e sostenere quanti si trovano sempre maggiormente danneggiati dalla divisione".
Il Pontefice rimarca "quanto sia importante che le religioni si manifestino sempre più quali fari di speranza, in quanto promotrici e garanti di fraternità". E ringrazia la Thailandia perché fin dall’arrivo del cristianesimo, circa quattro secoli e mezzo fa, "i cattolici, pur essendo un gruppo minoritario, hanno goduto della libertà nella pratica religiosa e per molti anni hanno vissuto in armonia con i loro fratelli e sorelle buddisti". Tra i doni offerti da Papa Francesco al patriarca buddista dell, vi è "il Documento sulla Fraternità umana di Abu Dhabi".
La mattinata di Papa Francesco in Thailandia si chiude quando in Italia comincia ad albeggiare. Il fuso orario segna sei ore di differenza. Nel pomeriggio di Bangkok si è svolta la visita di cortesia al re e la messa nello Stadio Nazionale.
Nell’omelia della messa, con 60mila fedeli che riempiono lo stadio, papa Francesco torna ad alludere al problema del turismo sessuale. Nell’omelia il Pontefice rivolge un pensiero particolare a "quei bambini, bambine e donne esposti alla prostituzione e alla tratta, sfigurati nella loro dignità più autentica". (QUI L’OMELIA)
E poi anche "a quei giovani schiavi della droga e del non-senso che finisce per oscurare il loro sguardo e bruciare i loro sogni; penso ai migranti spogliati delle loro case e delle loro famiglie". E poi ai tanti altri che "possono sentirsi dimenticati, orfani, abbandonati". E poi "ai pescatori sfruttati, ai mendicanti ignorati". Tutti questi, sottolinea il Papa, "fanno parte della nostra famiglia, sono nostre madri e nostri fratelli".
Da qui un duplice l’appello. Primo: a non privare "le nostre comunità dei loro volti, delle loro piaghe, dei loro sorrisi, delle loro vite". Secondo: non privare "le loro piaghe e le loro ferite dell’unzione misericordiosa dell’amore di Dio". -Infatti "l’evangelizzazione non è accumulare adesioni né apparire potenti, ma aprire porte per vivere e condividere l’abbraccio misericordioso e risanante di Dio Padre che ci rende famiglia".
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Il libro.
Fermiamo il culto del capitalismo. Quando il denaro si sostituisce a Dio
L’autore del saggio lancia un grido di allarme: la cultura dominante del profitto e del consumismo è ormai diventata una forma di idolatria
di Luigino Bruni (Avvenire, mercoledì 20 novembre 2019)
Pochi anni dopo Marx, nel 1905 Max Weber pubblica i suoi lavori sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo, dove una idea chiave è la de-sacralizzazione del mondo occidentale. Passano pochi anni e il 1921 diventa un anno decisivo per la cosiddetta “teologia economica”. Il filosofo tedesco Walter Benjamin scrive un breve e densissimo testo, oggi noto come Il Capitalismo come religione, e contemporaneamente il teologo e filosofo russo Pavel Florenskij, in un contesto culturale molto diverso, tiene tra l’agosto e l’ottobre del 1921 un corso di lezioni all’Accademia Teologica di Mosca sulla dimensione sacra del capitalismo.
Weber annunciava un mondo de-sacralizzato, Benjamin e a modo suo anche Florenskij dicono invece qualcosa di opposto: il capitalismo non ha eliminato il sacro dal mondo perché è diventato esso stesso un culto, una religione. Due autori vicini anche nella morte: Benjamin muore suicida nel 1940 mentre tenta di fuggire ai nazisti sui Pirenei, Florenskij viene fucilato nel 1937 in un gulag nei pressi di Stalingrado.
Il saggio di Benjamin è stato a lungo trascurato, sebbene contenga un’analisi ancora insuperata del rapporto tra l’economia capitalistica e la religione. Benjamin, anche per le sua cultura ebraica, aveva posto il tema del messianismo al centro della sua riflessione filosofica. Il capitalismo gli appare come una (falsa) risposta alla domanda di salvezza che nell’umanesimo ebraico-cristiano aveva fondato l’Europa. Per Benjamin, allora, «nel capitalismo va individuata una religione; il capitalismo, cioè, serve essenzialmente all’appagamento delle stesse preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui in passato davano risposta le cosiddette religioni».
Questo incipit di Benjamin è chiaro e potente: il capitalismo non nasce soltanto, come diceva Weber, da uno spirito religioso; per Benjamin il capitalismo è una religione: «non solo, come ritiene Weber, in quanto costruzione determinata in senso religioso, bensì in quanto fenomeno essenzialmente religioso».
E quindi sintetizza: «In Occidente il capitalismo - come deve essere dimostrato non solo nel caso del calvinismo, ma anche degli altri orientamenti cristiani ortodossi - si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo, tanto che, alla fine, la storia di quest’ultimo è in sostanza quella del suo parassita, il capitalismo». E poco dopo aggiunge: «Il cristianesimo nell’età della Riforma non ha agevolato il sorgere del capitalismo, ma si è tramutato nel capitalismo».
Molto forte e particolarmente efficace è la metafora biologica del parassita: il capitalismo dal cristianesimo non ha preso solo lo spirito, ha la sostanza ed è cresciuto al punto da assorbirlo interamente. Il capitalismo è un cristianesimo fagocitato e trasformato, una metamorfosi del bruco in farfalla - e le farfalle non ricordano di essere state bruco.
Inoltre, Benjamin rettifica ancora Weber estendendo la metamorfosi dal protestantesimo all’intero cristianesimo, anticipando in questo di qualche anno Amintore Fanfani e le sue analisi sullo spirito “cattolico” e medioevale del capitalismo, un tema sviluppato anche da Giuseppe Toniolo, sebbene avanzando una tesi diversa da quella di Fanfani. È questa la grande e potente tesi di quel piccolo opuscolo del 1921, dove però troviamo molte altre intuizioni di grande valore. Vi è contenuta anche una sorta di profezia: «In seguito, tuttavia, ne avremo una visione d’insieme».
Benjamin conosceva troppo bene Marx per usare la parola “struttura” in senso generico. Per lui la religione, il cristianesimo in particolare, è la struttura del capitalismo, e quindi l’economia capitalistica, che dovrebbe essere la struttura della società capitalistica, è a sua volta una sorta di sovrastruttura di una struttura religiosa più radicale. Noi vediamo economia, ma sotto, nascosta «dall’involucro delle cose », c’è la religione: quale religione? Quali sono i tratti della farfalla-capitalismo nata dal bruco-cristianesimo?
Scriveva Benjamin: «Tre tratti di questa struttura religiosa sono però riconoscibili già nel presente. In primo luogo il capitalismo è una religione puramente cultuale, la più estrema forse che mai sia stata data. Tutto, in esso, ha significato soltanto in rapporto immediato con il culto; non conosce nessuna particolare dogmatica, nessuna teologia. L’utilitarismo acquisisce così la sua coloritura religiosa ».
Tesi forti e dense, e tutte ancora da esplorare, oggi più di ieri. Innanzitutto il capitalismo è definito dal filosofo tedesco come una «religione puramente cultuale», di puro culto, senza teologia, senza dogmi. Benjamin era ebreo, era filosofo, ed era tedesco - la Germania della sua generazione ( Taubes, Buber, Bonhoeffer, Bloch, e molti altri) fu un luogo straordinario e ineguagliato per le riflessioni sull’anima collettiva dell’Europa, per il destino e “tramonto” dell’Occidente e del capitalismo.
Benjamin sapeva quindi che le religioni di puro culto, senza dogmi né teologia, avevano nella Bibbia un nome preciso: idolatrie. Quei culti contro i quali il popolo ebraico, in Caanan e in Babilonia e ancor prima in Egitto, aveva ingaggiato una lotta campale, la lotta più radicale e estesa di tutta la Bibbia.
E che cosa significa, oggi, una religione/idolatria di puro culto? Pavel Florenskij, il grande filosofo e teologo russo, ha scritto cose importanti sul capitalismo come religione/idolatria di puro culto. Sempre nel 1921, anche Florenskij dedicava una specifica attenzione al rapporto tra il capitalismo, il sacro e il culto. Il suo resta un testo di enorme interesse per le intuizioni che vi sono contenute sulla natura sacrale del capitalismo. Scriveva il teologo ortodosso: «La stessa teoria del sacro dice che all’origine dell’economia, così come dell’ideologia, c’è il culto».
Il culto, per Florenskij, è «una sorta di prius. Viene prima il culto, e in seguito gli strumenti e i concetti». E poi aggiunge: «Il punto di partenza della cultura è il culto», giocando anche sulla comune radice delle parole cultura e culto: «In suo favore si pone anche l’analisi filologica». Per questo aggiunge: «È sbagliato pensare che la teoria del sacro sia perduta per sempre. Essa è legata alla coscienza medioevale. Nella vita storica ci sono periodi di laicizzazione e, al contrario, periodi in cui tutta la vita è introdotta nell’alveo del culto».
Il capitalismo è dunque per Benjamin e Florenskij una religione di solo culto, di sola prassi - in realtà, oggi noi sappiamo che nel secolo che è passato dallo scritto di Benjamin la religione capitalistica si è sofisticata e ha prodotto alcuni dogmi e una sua teologia, offerta in buona parte dalla teoria economica e da quella manageriale. Ed è per la necessità di avere un culto per poter creare una cultura che il capitalismo è diventato la vera cultura (o religione) popolare di questo secolo.
La forza culturale del capitalismo sta proprio nel suo essere diventato una esperienza globale, olistica, onnicomprensiva e onniavvolgente - il primo populismo moderno lo ha inventato il capitalismo. È nella sua dimensione di sola prassi quotidiana che, novello Anteo, il capitalismo trae la sua forza.
Il capitalismo crea e rafforza la sua cultura alimentandosi nel culto feriale di miliardi di persone. Ecco perché è diventato il culto universale e globale, che può solo crescere e rafforzarsi nei prossimi decenni - finché altri culti e altre culture non ne prenderanno il posto: speriamo solo che non siano le antiche arti della guerra! Ma da qui deriva anche un corollario interessante: per superare l’idolatria capitalistica occorrono nuove prassi, nuove esperienze.
Non basta scrivere teorie, perché ogni cultura nasce dal culto e dal pane quotidiano. Siamo immersi in pratiche quotidiane, ripetute, reiterate di culti di acquisto, vendita, investimenti. Anche nelle imprese, che nel Novecento erano in genere pensate e vissute sul modello della comunità, sta crescendo la stessa cultura commerciale.
Dal modello comunitario tipico del XIX e XX secolo siamo passati progressivamente all’impresa-mercato, che oggi domina indisturbata la scena. Fino a pochi decenni fa, soprattutto (ma non solo) in Europa, il registro relazionale che fondava imprese e/o cooperative era quello del patto non quello del contratto; anche il “contratto” di lavoro era soprattutto un patto, dove il do-ut-des era solo una delle componenti di quel rapporto fondamentale che fondava il lavoratore e la sua famiglia (il lavoro non era una merce perché quel contratto era essenzialmente un patto).
E invece oggi la cultura che si respira nelle imprese, nei loro culti e nelle loro liturgie, è la stessa cultura che si respira nei grandi centri commerciali, nelle banche, e sempre più anche nei social media. Ed è in questi culti e in queste pratiche, molto più che nelle business school e nelle università, dove si alimenta la cultura-religione-idolatria del capitalismo.
Perché, sempre secondo Florenskij, «il contenuto mistico-religioso dei concetti non si rivela nel pensiero astratto ma nell’esperienza ». Per il pensatore russo, dunque, all’inizio c’è la prassi del culto e da questa prassi nascono i concetti astratti (la cultura): «Tutte le concezioni scientifiche - economiche e simili - si sviluppano attraverso la secolarizzazione: da una parte si definiscono i concetti utilitaristici, dall’altra quelli scientifici».
Per questa stessa ragione, «il mito nasce dal culto... Il mito è il tentativo teorico di spiegare un determinato culto». Infatti, la «realtà originaria, nella religione, non sono i dogmi e nemmeno i miti, ma il culto, ovvero una realtà concreta. Mito e dogma sono astrazioni, teorie».
L’analogia storica più vicina alla cultura capitalista è per Florenskij la christianitas medievale: «Può essere convincente per noi soltanto l’idea medioevale di unità ecclesiale, di penetrazione di tutta la cultura da parte del principio sacrale... Non c’era fenomeno che non abbia un chiaro aspetto ecclesiale. Tutti i fenomeni, in positivo o in negativo, sono orientati all’ecclesialità».
Prassi era il cristianesimo pre-moderno in Europa, prassi è il nostro capitalismo: qui la loro forza, qui la loro vicinanza. Queste di Florenskij sono parole importanti. Per questa sua natura pratico-cultuale, ad esempio, che i filosofi e i teologi fanno molta fatica a comprendere il capitalismo del nostro tempo. Il secondo tratto del capitalismo, legato al primo (religione di puro culto), è per W. Benjamin «la durata permanente del culto».
Cento anni fa non esistevano ancora i negozi 24h7d, né lo shopping online, ma il filosofo ebreo aveva, profeticamente (la grande filosofia ha una dimensione profetica intrinseca e spesso non intenzionale) intuito una dimensione che nel tempo ha mostrato tutta la sua forza: «Il capitalismo è la celebrazione di un culto “senza tregua e senza pietà”. Non ci sono “giorni feriali”; non c’è giorno che non sia festivo, nel senso spaventoso del dispiegamento di ogni pompa sacrale, dello sforzo estremo del venerante».
Il conflitto tra il capitalismo e la domenica (possibile giorno dei negozi chiusi) non va infatti letto solo sul piano pragmatico del business ma su quello religioso dello scontro tra culti. Anche per questa ragione ha un suo senso, se ben inteso, rivendicare per i cristiani la domenica come giorno del Signore e quindi proteggerlo dal culto capitalistico, anche se la battaglia è troppo impari.
L’ebraismo potrà salvarsi da questo capitalismo (che in parte è suo figlio) se continuerà ad essere fedele allo shabbat. C’è poi quello che per Benjamin è il terzo tratto del capitalismo-culto, quello che ha ottenuto più attenzione dagli studiosi (da Giorgio Agamben in particolare): «Questo culto è colpevolizzante. Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non consente espiazione, bensì produce colpa». Una tesi forte e sempre suggestiva, che apre discorsi appassionanti e rilevanti.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
La domenica di Ratzinger e la "domenica della vita" di Hegel. Una nota di Gianni Vattimo
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LA COSTITUZIONE (LA LEGGE, IL "NOMOS") E IL PARADOSSO DELLA GIUSTIZIA TRA DIRITTO E PENA .... *
Filosofia.
Da Edipo a Simone Weil: il dilemma della giustizia tra pena e diritto
Dal mondo greco a oggi, passando dalla lettura cristiana della società, lo storico Curi indaga sul dramma filosofico del far coincidere il diritto con la giusta pena
di Roberto Righetto (Avvenire, venerdì 15 novembre 2019)
È nota la posizione di Pascal, che possiamo definire pessimista o realista, sulla relazione tra forza e giustizia. In alcuni dei suoi Pensieri, il grande filosofo che volle morire in un ospizio dei poveri sostiene che l’ideale sarebbe che i due poli potessero convivere per il bene dell’uomo. Ma poiché in questo mondo la giustizia non ha possibilità di affermarsi e di utilizzare la forza per questo scopo, è inevitabile che la forza abbia la preponderanza. «La giustizia senza la forza è impotente, la forza senza la giustizia è tirannica», sentenzia il pensatore che inventò la prima macchina calcolatrice, ammettendo alfine con desolazione: «La giustizia è soggetta a discussione, la forza è molto riconosciuta e indiscussa. Così non si è potuto dare la forza alla giustizia perché la forza ha contraddetto la giustizia e ha affermato che solo lei era giusta. E così, non potendo ottenere che ciò che è giusto sia forte, si è fatto sì che ciò che è forte sia giusto».
Il Seicento era ancora un secolo dell’assolutismo e solo successivamente si è imposta una concezione della giustizia meno disfattista, quella che è arrivata sino a noi con lo Stato di diritto e la moderna democrazia. Eppure anche nel XXI secolo qualcosa non torna quando si parla di colpa, pena, legge, diritto, giustizia. Lo rileva Umberto Curi, professore emerito di Storia della filosofia all’Università di Padova, nel suo ultimo saggio, Il colore dell’inferno, La pena tra vendetta e giustizia (Bollati Borlinghieri) che prende l’avvio da una citazione folgorante di Simone Weil: «A causa dell’assenza di Cristo, la mendicità in senso lato e l’atto penale sono forse le due cose più atroci di questa terra, due cose quasi infernali. Hanno il colore stesso dell’inferno».
Secondo la pensatrice francese che rimase sempre sulla soglia della conversione, nel dare il castigo al colpevole la giustizia si comporta come nel gesto dell’elemosina: presta attenzione allo sventurato «considerandolo un essere umano e non una cosa». Ma non può fare questo se prescinde da un’impostazione religiosa: senza un riferimento a Dio, la prospettiva che si delinea non può che essere infernale.
Si sa che Simone Weil aveva un culto particolare per la civiltà greca, che considerava premessa al cristianesimo, e forse non è un caso che anche Curi nella sua analisi prenda spunto dal mondo della poesia e della tragedia antica, a partire proprio dalla domanda cruciale: che cos’è una pena? Ragionando sull’etimologia, egli chiarisce come il termine poiné (da cui il latino poena, l’italiano e lo spagnolo pena, il francese peine e l’inglese penalty) abbia il significato di "riparare" e "compensare" da una parte, e di "punire" dall’altra. È ciò che viene dato "in compenso" di qualcos’altro e indica la riparazione e il castigo. Non solo, essa riveste un significato sacrale ed è un corrispettivo della colpa commessa solo se provoca sofferenza, in un modo che sia proporzionale fra colpa e pena.
C’è insomma nella logica della pena l’affermarsi di un’espiazione in senso religioso, che sarà via via accentuata dal cristianesimo con il concetto di contrappasso, mirabilmente esemplificato da Dante. Ma cosa succede se una persona viene punita, ma non ha colpa? La vicenda di Edipo in questo senso è paradigmatica: egli paga il fio delle sue azioni senza esserne fino in fondo responsabile. È un eroe tragico che ben raffigura la visione greca dell’uomo e del mondo illustrata da un frammento del giovane Aristotele pervenutoci tramite Giamblico: «Siamo stati costituiti per natura» come se «fossimo tutti destinati a una punizione».
Per i Greci c’è un’infelicità di fondo nella condizione umana che accomuna tutti i mortali e che sarà risolta solo dal cristianesimo che ha reso possibile la redenzione. Come Edipo, anche Oreste si macchia del sangue dei genitori e a differenza del re di Tebe egli è ben consapevole di dare la morte alla madre Clitennestra, ma poiché commette il matricidio per vendicare l’assassinio del padre viene prosciolto al termine del processo che si svolge davanti al tribunale dell’Areopago. In questo senso egli assomiglia più ad Amleto che a Edipo.
Giustamente in un altro passo Curi richiama alla memoria un frammento di Pindaro, considerato il testo fondativo del diritto occidentale: «La legge è re di tutte le cose, mortali e immortali. Essa le guida con la sua mano sovrana e rende giusta la cosa più violenta». Versi che in realtà testimoniano, come avrebbe scritto Pascal, l’irriducibilità totale fra giustizia e diritto. Anzi, l’esistenza stessa del diritto sembra essere prova dell’impossibilità per l’uomo di realizzare la giustizia.
L’incapacità della nostra cultura, giuridica ma non solo, di fare i conti con questi temi fondativi è testimoniata dalla sfasatura evidente fra le risposte insufficienti che vengono date allo statuto della pena e l’attività giurisdizionale, che procede come se tutto fosse già stabilito.
Il modello correzionalista e quello preventivo sono in scacco, in balia di quella che Nietzsche definì l’origine economica e contrattualista della legge e della pena, da ricercarsi nel rapporto fra creditore e debitore e nella promessa della restituzione. Una ricostruzione genealogica che alla fine si basa sul piacere della sofferenza dell’altro, nel momento in cui chi contrae il debito offre come pegno il proprio corpo, la propria donna o la propria libertà e finanche la propria vita.
Un’idea assai materiale e non etica del debito e perciò della colpa e della pena, che certo ha il suo fascino ma che per Curi può essere ribaltata solo da un’altra logica, quella della sovrabbondanza. È la logica del surplus e dell’eccesso contenuta nell’Epistola ai Romani, ove Paolo supera l’economia della corrispondenza proporzionale fra colpa e pena.
Sulla scia di pensatori contemporanei come Jankélévitch, Derrida e Girard, si affaccia la chance del perdono, che talora è stata applicata alla giustizia in anni recenti, come nella Commissione Verità e riconciliazione in Sudafrica o nei processi sul genocidio del Ruanda. In entrambi i casi si è infatti constatato che la sola punizione può alimentare la sete di vendetta. Chance che si ripresenta pure nella formula della cosiddetta "giustizia riparativa", un modello che coinvolge i colpevoli, le vittime e la comunità intera alla ricerca non solo di una riparazione del danno ma di una soluzione ai conflitti e di una riconciliazione.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA LEZIONE DI NELSON MANDELA: GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Federico La Sala
GENERE UMANO: I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE!!! AL DI LA’ DELLA COSMOTEANDRIA E DELLA TRAGEDIA.... *
Curi, straniero. La necessità del due
di Cristina Morga (Bene Comune, 1 aprile 2019)
Il breve saggio intitolato Straniero è un’interessante riflessione sulla figura dello straniero, sul suo ruolo ambivalente di minaccia e di dono, sulla sua ineluttabilità per la definizione della nostra identità.
Il filosofo Umberto Curi non è interessato a sostenere la tesi di quelli a favore dell’accoglienza o di quelli che auspicano la chiusura delle frontiere. Piuttosto, attraverso un’analisi linguistica, filosofica e della letteratura, partendo da molto lontano e arrivando ai nostri giorni, ci invita a confrontarci sull’irriducibile duplicità di quella presenza che è sempre esistita - lo straniero, appunto - ma che oggi ci deve più che mai interrogare per le proporzioni che la mobilità umana sta assumendo.
L’autore dunque non esprime giudizi, ma offre molti spunti per ragionare sul profondo significato del concetto di straniero che oggi, pur in una società globalizzata, sempre più spaventa e sempre meno attrae. Ecco perché un approfondimento culturale sul tema sembra quanto mai urgente.
Curi lo fa a partire dal significato che gli antichi hanno attribuito alla figura dello straniero, elaborando nei secoli molti termini con significati diversi e/o plurimi, a seconda del periodo e del peculiare aspetto che si intendeva sottolineare. E’ proprio analizzando le singole parole della civiltà greca (xenos, barbaros, ecc.) e latina (hostis, ingenuus, perduellis, hospes, ecc.) che ci rendiamo conto delle infinite sfumature e accezioni semantiche che la figura dello straniero acquisiscono nel tempo: straniero come persona estranea, strana; straniero come forestiero, nemico e molto altro ancora. Tuttavia ci sono due elementi che sono onnipresenti: il fatto che si faccia sempre riferimento a una figura altra da noi e il fatto che questa abbia contemporaneamente un rapporto con noi, da cui non possiamo prescindere.
In questo volume tuttavia Curi non si ferma solo all’analisi lessicale che pure sarebbe sufficiente a far comprendere la complessità del tema. Egli si sofferma altresì sul concetto di accoglienza dello straniero, così come è stato interpretato da diversi filosofi, da Platone, a Kant a Freud.
Secondo Platone “non è possibile dire la verità, se non attraverso il confronto con il discorso di chi sia estraneo alla comunità e con essa entri in comunicazione”, mentre Kant sostiene il diritto dello straniero a non essere trattato come un nemico per garantire la pace perpetua. E poi l’autore analizza il pensiero di Freud, a partire dal concetto di unheimlich (malamente tradotto in italiano con il termine di perturbante), che definisce non soltanto l’inquietante, ma anche la scoperta di una duplicità di qualcosa con cui veniamo a contatto, la scoperta che l’ “Io non è unico, ma doppio, scisso in una dualità non ricomponibile, uguale e insieme irriducibilmente diversa rispetto all’immagine riflessa nello specchio, al sosia, all’ombra. Perturbante è la presa di coscienza di una insuperabile ambivalenza, di una unità che non è, non può mai essere, semplice, ma sempre inesorabilmente duplice” (p. 42). Quell’ineffabile e forte sentimento espresso attraverso la parola unheimlisches nasce dal reperimento del due nell’uno e quindi dalla rinuncia a qualsiasi immagine semplificata o rappresentazione univoca.
Infine, Curi, citando diverse opere letterarie, si sofferma sul racconto di Camus, l’Ospite, per sottolineare, fra le altre cose, l’importanza della dualità, che non implica soltanto insolubilità di un problema, ma movimento e mutamento, cioè vita. “Senza il due, la ben rotonda verità dell’uno appare incapace di rendere ragione di ciò che caratterizza l’esperienza degli esseri umani. Il concetto stesso di rappresentazione, in quanto presuppone la distinzione fra due livelli di realtà, rinvia alla molteplicità del due e a tutto ciò che con essa è connessa” (pag. 128).
Insomma, in questo ricco percorso linguistico, letterario e filosofico proposto da Curi, l’ambiguità dello straniero è sempre presente. Tuttavia, la sua natura ambivalente, un nemico da cui proteggersi ma anche un soggetto di cui abbiamo bisogno per definire noi stessi, rappresenta uno stimolo eccezionale per superarci e migliorarci. Nelle antiche carte geografiche, leggiamo nell’introduzione, le terre ignote ed inesplorate dell’Africa e dell’Asia erano descritte con la dicitura “hic sunt leones”, come a dire che quelle terre, per il semplice motivo di essere estranee e sconosciute, rappresentavano una minaccia. “Ma l’attrazione per le risorse e i tesori presenti in quelle zone del mondo indusse a non piegarsi alla paura, intraprendendo i viaggi che avrebbero condotto alla conoscenza dell’ignoto, e dunque alla cancellazione dalle carte di quella iscrizione. Si scoprì così che i doni connessi allo svelamento del mistero, ancorché indissolubili alla minaccia, erano talmente preziosi da risultare irrinunciabili” (p.19).
Forse è giunto il momento storico adatto a nuovi viaggi, allo svelamento di un nuovo mistero. Ritrovare la curiosità di chi ci ha preceduto, superando la paura, ci aiuterà nella comprensione di nuovi doni irrinunciabili? Oltre il confine, dove stanno i leoni, scopriremo forse la necessità del nostro due.
“Lo straniero è ambivalente - è l’ambivalenza. In quanto è thauma, non posso vivere la sua presenza, il suo arrivo, se non come una minaccia. Ma insieme avverto, nel cuore stesso del pathos che è inseparabile dal contatto con lui, che quella pur ineliminabile minaccia è per me feconda, mi conferisce qualcosa che, pur inconsapevolmente, attendevo da tempo e di cui non potrei fare a meno. Posso respingerlo - certamente - in quanto è minaccia. Ma contestualmente, se mi accingo a questo, percepisco anche un mio profondo e irrimediabile depauperamento. Alla sua duplicità dovrei saper rispondere con altrettanta duplicità. Dovrei riuscire a temerlo e a desiderarne l’arrivo, a spalancargli le porte della mia casa, e insieme a tenerlo fuori da essa, a respingerlo con la massima fermezza, e contemporaneamente ad accoglierlo come se si trattasse di una benedizione” (p. 12).
“Rinunciare al dono per allontanare la minaccia, o affrontare il pericolo per acquisire il dono? Un punto resta comunque assodato: di fronte allo straniero cede ogni possibile linguaggio dell’unicità [...] La rassicurante e familiare logica dell’aut-aut deve essere soppiantata da una modalità di ragionamento basata sul ben più impegnativo et-et” (p.13).
“Dell’hostis non possiamo fare a meno - non possiamo “scegliere” se accoglierlo o respingerlo, non più di quanto possiamo scegliere di essere quello che siamo. Egli è legato alla nostra identità non solo perché la fa essere, ma anche perché la fa - potenzialmente - non essere; non solo perché la determina, ma anche perché la minaccia dall’interno” (p.18).
“Unheimlich è quel moto dell’animo che avvertiamo quando ci rendiamo conto che non si dà alcuna possibilità di ricondurre a termini univoci, e a distinzioni nette e irreversibili, la nostra esperienza. Quando scopriamo che la stessa cosa che sembrava poterci rassicurare, proprio quella soprattutto ci inquieta. Quando ci avvediamo - davvero con “timore” e “tremore” - che non si dà alcuna “casa” come luogo privilegiato in cui viga l’assoluta univocità dei significati, degli atti, dei comportamenti e degli eventi, ma che nel cuore stesso di essa si annida la sua negazione, che nell’intimo dello Heim, e non fuori o contro, o comunque distinto rispetto a esso, vi sia l’un-Heim” (p.51).
“Dunque, in origine hostis è una figura alla quale mi lega un rapporto che non è di ostilità, ma di compensazione, nel senso che sono verso di lui in obbligo di contraccambiarlo per qualcosa che ho ricevuto. Mediante il ricambio, all’hostis viene riconosciuta quella piena parità alla quale egli ha diritto” (p.59).
“Il termine xenos compare sia per indicare colui che, provenendo dall’ ‘esterno’, viene ospitato presso la propria casa, sia colui presso la cui casa si riceve ospitalità” (p.63).
“Alla figura dello xenos, che è al centro delle relazioni di reciprocità tra le città che costituiscono il mondo ellenico, si oppone quella di barbaros. I barbari non erano soltanto stranieri, ma erano anche rozzi, crudeli, codardi, ecc. [...]. La natura mostruosa del barbaro fa sì che, propriamente parlando, non si tratti di stranieri, ma di una specie differente di uomini: essi non vengono da un’altra città, come visitatori o residenti, ma da un altro mondo, con cui non c’è possibilità di confronto né di scambio. E’ la loro diversa natura che li pone al di là della cultura ovvero delle possibilità di relazione, intreccio, mescolanza che la costituiscono. Di qui la guerra come modalità naturale di condursi nei confronti di una categoria di uomini con cui non è possibile
LO "STATO HEGELIANO" - DELLO STATO MENTITORE, ATEO E DEVOTO ("Io che è Noi, Noi che è Io"). Un’ipotesi di rilettura di "Todo modo" ... *
TODO MODO
di Matteo Meschiari (Doppiozero, 21 ttobre 2019)
La princeps einaudiana è del 1974 e, per comprendere a pieno l’ironica e durissima denuncia civile di questo breve romanzo di Sciascia, bisognerebbe intavolare una seduta spiritica ed evocare la mai defunta processione politico-economica dei primi anni Settanta in Italia. Razza padrona di Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani esce lo stesso anno per Feltrinelli: la borghesia di stato, la crisi dell’imprenditoria privata, la scalata di ENI alla Montedison, le partecipazioni statali. E ovviamente la corruzione, le alleanze occulte, la politica dei benefici e dei favori.
Ma a quarantacinque anni di distanza la lettura di Todo modo è attuale e anzi utilissima per ricordarci che, al di là delle parate mediatiche recenti, l’immutabile ontologia politica italiana non è mai quella dei volti pubblici ma è sempre quella sotterranea delle eminenze grigie, degli spazi extraparlamentari, extraromani, extramondani in cui pochissime ombre decidono le sorti del Paese. Proprio come Pietro Campilli, ex presidente della Montedison, racconterà a Turani e Scalfari parlando di un incontro avvenuto nella sua casa di Frascati: «c’erano alti magistrati, qualche grande industriale, Cefis, Petrilli, Carli, alcuni consiglieri di Stato, un paio di “principi del foro”, tre o quattro direttori generali della pubblica amministrazione. Una ventina di persone in tutto», per decidere le sorti d’Italia.
È la stessa eterna tassonomia politica che si raduna nel monastico ecomostro alberghiero di Todo modo, l’Eremo di Zafer. Ma chi era Zafer? Un musulmano convertito alla vera fede? La cosa passa in sordina e subito la si dimentica nell’economia del “giallo”, ma nella geografia simbolica del romanzo è un segnale importante: l’eremo è inglobato nell’albergo, «senz’altro brutto... ma che si può fare mai con questi architetti, oggi? ... Presuntuosi, fanatici, inaccostabili». Uno scandalo edilizio che diventa teatro allegorico della vicenda: un bosco, «Querce da sughero e castagni facevano galleria, l’aria profumava di tardive ginestre», un «vastissimo spiazzo anch’esso asfaltato», «un casermone di cemento orridamente bucato da finestre strette e oblunghe», un refettorio «vasto, fitto di tavole rotonde e quadrate» e, finalmente, l’eremo, la cappella, una chiesetta «risparmiata» alla distruzione del luogo. Qui l’ipnotico, coltissimo e seduttivo don Gaetano rivela al protagonista l’origine di Zafer: «Tutta una storia inventata a tavolino: nella seconda metà del secolo scorso, da un erudito locale...».
Il sancta sanctorum dell’albergo è insomma una menzogna, e la mostruosa struttura di cemento, come un bunker o un caveau o una pisside, protegge gelosamente il nulla cosmico. Parallelamente il bosco: «Man mano che mi allontanavo dall’albergo, gli alberi diventavano più fitti, l’aria più fresca e odorosa di resine. La solitudine era perfetta. E mi dicevo di tanta perfezione, e della libertà con cui stavo godendomela, quando tra gli alberi intravidi come un lago di sole e dei colori che si muovevano».
Sono donne in bikini, radunate lì per soddisfare nel «cieco casermone tenuto da preti», proprio durante gli esercizi spirituali, i loro altolocati amanti. La topologia morale del romanzo è allestita: da un lato un bosco sacro ma violato, dall’altro un eremo-albergo gestito dalla Chiesa per convegni di potere e di sesso, e in mezzo lo «spiazzale», dove si svolge la surreale, crepuscolare, inquietante recita camminata del rosario: «E mi accorsi che il movimento era in effetti più ordinato di quanto mi era parso da lontano: fermandosi un po’ prima del dietrofronte, don Gaetano lasciava che il quadrato si aprisse al suo star fermo e andasse avanti, ricongiungendosi, finché lui non si fosse trovato, al momento del dietrofronte, al centro dell’ultima fila, che diventava la prima». Una recita fasulla «con un che di atterrito e di isterico», come se i potenti d’Italia radunati in quest’eremo nel cuore di una selva «al confine dell’inferno», diventassero tante pecorelle pavide, spaventate dal buio, e allora «veniva facile pensare alla dantesca bolgia dei ladri».
Il romanzo giunge così al delitto-contrappasso, al quale ne seguono altri, ma il dispositivo spaziale, o il quadrilatero semiotico, è già dato: la Chiesa (don Gaetano), lo Stato (il procuratore Scalambri), la Corruzione (l’onorevole Michelozzi), la Pena (l’assassino). Inutile dire che non esiste soluzione narrativa, ma circolarità, eterno ritorno, prigionia, come nella Ronda dei carcerati di Van Gogh o nella Zattera della Medusa di Géricault, evocata dallo stesso don Gaetano.
L’ipocrisia di un certo cattolicesimo, l’abiezione politica fatta sistema, l’inettitudine della giustizia, le lacune istituzionali e il delitto che le regola, girano in tondo come altrettante allegorie antropomorfe, in un rosario ipnotico che genera assuefazione e svuotamento.
Il protagonista, un pittore ateo, anticlericale, mero spettatore degli eventi nella bolgia solforosa di Zafer, riflette tra cinismo e ironia sulla propria posizione ontologica, si rassegna al mistero non svelato, al segreto per sempre sepolto e al fatto che, alla fine, in un movimento di generale entropia, «Si arriva che tu, io, il commissario, diventiamo sospettabili quanto costoro, e anche di più: e senza che si possa attribuire una ragione, un movente...». Il todo modo del titolo dice appunto questo, un “con ogni mezzo” che getta un ponte aberrante e tuttavia reale tra gli Esercizi spirituali di Loyola e il Principe di Machiavelli. E lo diceva già il pretino nella hall dell’albergo e del libro: «La Repubblica tutela il paesaggio, lo so; ma poiché don Gaetano tutela la Repubblica... Insomma: la solita storia». L’Italia come un albergo anni Settanta.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GIOACCHINO, DANTE, E LA "CASTA ITALIANA" DELLO "STATO HEGELIANO" - DELLO STATO MENTITORE, ATEO E DEVOTO ("Io che è Noi, Noi che è Io").
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Politica
Nino Di Matteo a Mezz’ora in Più: "O cambiamo noi magistrati o saremo normalizzati"
Il magistrato ricorda: "Ci sono sentenze definitive sul patto tra mafia e Silvio Berlusconi" *
“O cambiamo noi, o ci cambiano altri, magari a colpi di riforme con lo scopo di normalizzare la magistratura”. Lo ha detto il consigliere del Consiglio Superiore della magistratura Nino Di Matteo, ospite di Mezz’ora in Più su Rai Tre. L’inchiesta di Perugia “ci deve indignare ma non sorprendere, soprattutto non piegare. Non dobbiamo rassegnarci all’idea di una magistratura malata. La magistratura italiana ha scritto pagine altissime nella nostra storia”. “Sono certo che sotto la guida del presidente Mattarella il Csm saprà emendarsi per le cose passate. Dobbiamo reagire e impegnarci per recuperare. Nel momento in cui avevano perso prestigio è prevalsa in me la volontà di dare una mano e un contributo al recupero dell’autorevolezza” ha aggiunto.
“Evidentemente questo paese sconta deficit di memoria su questi fatti. Voglio riferirmi alla sentenza di Cassazione che ha condannato il senatore Dell’Utri per concorso in associazione mafiosa. In quella sentenza viene consacrato un dato: nel 1974 venne stipulato un patto tra le più importanti famiglie mafiose palermitane e l’allora imprenditore Berlusconi, questo patto è stato rispettato almeno fino al 1992 da entrambe le parti. Dell’Utri è stato condannato come intermediario di quel patto che ha visto protagonista anche l’allora imprenditore Berlusconi””, ha poi ricordato Di Matteo.
“Sulle stragi del ’92 e ’93, e anche sul fallito attentato allo stadio Olimpico del ’94, si sa molto ma non si sa tutto”, ha detto.
“L’ergastolo è l’unica vera pena detentiva a spaventare i capimafia. Riina diceva ai suoi, ci dobbiamo giocare i denti per evitare l’ergastolo. Secondo il mio parere il legislatore deve stabilire che tipo di prova ci vuole per far accedere anche gli ergastolani ai premi, come l’assenza di rapporti con con i clan. Non può dipendere solo dal comportamento perché è noto che i capimafia normalmente in carcere si comportano meglio di tutti gli altri”, ha detto Di Matteo a proposito delle sentenze Cedu e Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo.
Di Matteo ha poi aggiunto di essere favorevole alla legge che blocca la prescrizione che entrerà in vigore a gennaio, mentre è contrario a qualsiasi intervento in tema di intercettazioni, come la legge Orlando che dovrebbe entrare in vigore a partire dal 2020. Infine, sulla liberalizzazione delle droghe leggere, il magistrato si è detto contrario.
* www.huffingtonpost.it, 03.11.2019.
SCIENZA, FILOSOFIA, E ANTROPOLOGIA. Non è il caso di ripensare i fondamenti?! *
Chimica.
I 150 anni della tavola di Mendeleev, il rivoluzionario degli elementi
Lo scienziato russo inventò la Tavola periodica degli elementi grazie alla sua passione per i giochi: la sua scoperta ha qualcosa di incredibile. Mendeleev scoprì anche l’origine minerale del petrolio
di Franco Gàbici (Avvenire, mercoledì 27 febbraio 2019)
Il primo giorno di marzo del 1869, e dunque 150 anni fa, il chimico russo Dmitrij Ivanovic Mendeleev (1834-1907) presentava la sua famosa "Tavola periodica degli elementi", che oggi sotto forma di poster campeggia in tutte le aule di scienze del mondo e in omaggio a questa straordinaria invenzione l’Onu ha dichiarato il 2019 "Anno internazionale della tavola periodica degli elementi".
Per la creazione di questa ’tavola’ lo storico della scienza John D. Bernal definì Mendeleev «il Copernico della chimica» e in effetti il chimico russo fornì ai ricercatori uno strumento efficacissimo che non solo catalogava gli elementi fino allora conosciuti ma consentiva soprattutto di fare delle previsioni.
Al tempo di Mendeleev erano conosciuti 63 elementi e gli scienziati si erano posti il problema di dar loro una sistemazione secondo uno schema logico. Anche Mendeleev, ovviamente, stava studiando la questione e la scoperta della sua tavola è legata a una storia che ha dell’incredibile.
Come Mendeleev sognò la Tavola periodica degli elementi
Mendeleev, infatti, era un appassionato giocatore di carte e il gioco che maggiormente preferiva era il cosiddetto "solitario". E proprio inventando un "solitario chimico" gli venne l’idea che gli avrebbe dato fama e prestigio. Mendeleev trascrisse su cartoncini il simbolo degli elementi conosciuti e il loro peso atomico, vale a dire il numero che si ottiene facendo la somma dei neutroni e dei protoni contenuti nel nucleo di ogni atomo, e si mise a giocare con quei cartoncini ordinandoli e organizzandoli proprio come si usa fare con le carte da gioco.
Quello strano "solitario", però, non gli indusse nessuna soddisfazione e così dopo tre giorni e tre notti trascorsi davanti al tavolo gettò la spugna e se ne andò a dormire. E qui accadde il miracolo, perché in sogno ebbe la visione di quella "tavola" che stava cercando. In quella tavola gli elementi, ordinati in colonne, e raggruppati in gruppi di elementi simili, presentavano «una evidente periodicità di proprietà» e proprio a causa di questa particolarità chiamò la sua tavola con l’appellativo «periodica». Ed era talmente convinto che la sua idea fosse giusta che proprio pensando a questa periodicità lasciò nella sua tavola alcuni spazi vuoti che, secondo le sue previsioni, sarebbero stati occupati da elementi ancora da scoprire.
Una Tavola profetica
La tavola periodica degli elementi all’inizio non fu però accolta molto benevolmente ma sei anni dopo quanti nutrivano dubbi dovettero ricredersi. Nel 1875, infatti, esaminando un metallo proveniente dai Pirenei, il chimico Paul Émile Lecoq de Boisbaudran scoprì il Gallio, un metallo che andò a occupare, accanto all’alluminio, la casella vuota che Mendeleev gli aveva riservato e per il quale aveva pensato il nome di "Eka-alluminio". Il peso atomico del Gallio (69.7) era molto simile a quello previsto da Mendeleev (68) e ciò dimostrava che la tavola funzionava. Successivamente altri tre posti vuoti previsti dalla tavola furono occupati dall’Elio, dal Neon e dall’Argon e ribadirono la geniale intuizione di Mendeleev.
Ovviamente le moderne tavole contengono più elementi perché ora gli elementi conosciuti hanno superato il centinaio. Gli ultimi inseriti, che completano il "settimo periodo" della tavola, sono quattro. Si tratta però di elementi creati in laboratorio e non rintracciabili in natura: il Nihonio (113), il Moscovio (115), il Tennesso (117) e l’Oganesson (118).
Nel corso del tempo la tavola di Mendeleev ha subito una sorta di restyling che, pur lasciando integra la sostanza, ne ha cambiato invece la forma. Moltissime le versioni, secondo alcuni sarebbero addirittura 800 e dalle forme più svariate: circolari, cubiche, a elica, piramidali, a spirale, a triangolo... Una versione curiosa ha disposto gli elementi secondo uno schema che segue il tracciato della metropolitana di Londra! Insomma, come si dice, ce n’è per tutti i gusti.
I rivali di Mendeleev
Non è infrequente, sfogliando la storia della scienza, imbattersi nell’annosa questione della priorità di una scoperta e Mendeleev e la sua tavola non fecero eccezione. Già Johann Wolfgang Döbereiner, un autodidatta garzone di una farmacia, aveva raggruppato a tre a tre gli elementi che avevano proprietà chimiche simili, insiemi conosciuti come le "triadi di Döbereiner", e che in qualche modo possiamo considerare i progenitori della tavola periodica. Anche John Dalton e John Newlands si interessarono al problema e altri ancora si aggiunsero all’elenco dei presunti scopritori della tavola come John Newlands che dopo aver notato il ripetersi di certe proprietà a intervalli di 8, paragonò la periodicità alle ottave musicali formulando la "Legge delle ottave".
L’unico, forse, che potrebbe a ragione rivendicare un diritto di priorità è Julius Lothar Meyer che nel 1864, e dunque cinque anni prima della presentazione di Mendeleev, dopo aver pubblicato una tavola nella quale aveva sistemato 28 elementi col criterio del peso atomico crescente, presentò una tavola periodica molto simile a quella di Mendeleev. E secondo Van Spronsen, dunque, Mendeleev e Meyer si possono considerare scopritori indipendenti della stessa legge.
Le due tavole erano molto simili. In entrambe, infatti, gli elementi erano sistemati in righe e colonne seguendo l’ordine del peso atomico crescente, ma alla fine fu adottata quella di Mendeleev perché risultava più precisa, ma anche e soprattutto per quegli spazi vuoti inseriti che ipotizzavano elementi ancora da scoprire.
Va infine ricordato che Mendeleev non va identificato tout court con la sua tavola. Il chimico russo, infatti, scoprì l’origine minerale del petrolio e si dedicò allo sviluppo dell’industria petrolifera e anche carbonifera. Credeva, inoltre, nel grande significato sociale e culturale della scienza e, come si legge nella voce che gli ha dedicato la grande enciclopedia Scienziati e tecnologi (Mondadori, 1975), «considerò il progresso della scienza come una condizione assolutamente indispensabile di sviluppo dell’economia e della cultura», un tema a lui molto caro e al quale dedicò numerosi articoli e saggi.
Idee.
La scienza ha bisogno della filosofia
Senza una visione umanistica che risalga ai fondamenti della conoscenza il rischio è la dispersione Ma l’attività delle scienze trova il suo presupposto nella dimensione personale del ricercatore
di Giuseppe Tanzella-Nitti (Avvenire, giovedì 24 ottobre 2019)
La formulazione della tavola periodica degli elementi chimici, scoperta 150 anni or sono dal chimico russo Dmitrij Ivanovic Mendeleev, ha suggerito al Festival della scienza di Genova di dedicare l’edizione dell’anno 2019 al tema degli “Elementi”. La scelta è senza dubbio opportuna. Il metodo scientifico, infatti, deve gran parte del suo successo alla capacità di “ridurre” i fenomeni a modelli matematizzabili, in base ai quali poter predire il comportamento di un sistema nel tempo. Tale processo consiste nello “scomporre” il suo oggetto di studio per cercare gli elementi e le proprietà elementari del reale fisico.
L’implicita persuasione che orienta questo metodo è l’idea che per conoscere davvero una cosa occorra saperla scomporre nei suoi elementi e capire come e perché funziona... È ciò che facciamo quando esaminiamo una scatola di costruzioni... Il ricercatore, tuttavia, si imbatte spesso in qualcosa di inaspettato. Nell’operare questa “scomposizione” e procedere lungo il suo cammino di comprensione dei fenomeni, si accorge talvolta che, per comprendere e rappresentare un fenomeno, occorre partire da alcuni presupposti, che non appartengono, in senso stretto, al metodo scientifico. Così facendo la scienza spinge la sua analisi fino al fondamento stesso del conoscere. Il tentativo rappresentarlo, al confine fra scienza e filosofia, viene chiamato il problema dei fondamenti.
Le discipline scientifiche colgono questo stato di cose in diversi ambiti della loro ricerca. La cosmologia contemporanea lo fa quando cerca di tematizzare l’universo come un “tutto”, in particolare la sua origine. La fisica e la chimica, quando si interrogano sul motivo delle specifiche formalità dei componenti della materia, sulla loro universalità, sui loro criteri di ordinamento e di simmetria. La biologia si chiede se a fondare il suo oggetto di studio siano gli elementi che compongono il vivente o non, piuttosto, l’organismo nel suo insieme. Anche la matematica e la logica si interrogano sui loro fondamenti, quando ricercano la completezza dei sistemi assiomatici e dei linguaggi formali in genere.
In sostanza, per comprendere la realtà non basta conoscere gli elementi che la compongono (particelle elementari, elementi chimici), ma è necessario conoscere anche i processi di cui tali elementi sono oggetto e i loro rapporti con l’ambiente circostante. Si affacciano all’analisi delle scienze le nozioni di relazione e di informazione, proprietà che riguardano la totalità del sistema in esame e, grazie ad essa, aiutano a comprendere il comportamento delle parti che lo compongono. Ne risultano interessate, in particolare, la fisica (sistemi complessi, meccanica quantistica), la chimica (proprietà molecolari) e la biologia ( system biology). In questi fenomeni si converge ormai sulla conclusione che “il tutto è maggiore della somma delle parti”. Imbattersi nel problema dei fondamenti suggerisce che l’articolazione fra scienze e filosofia non sia solo quella del “limite” - immagine alla quale siamo abituati soprattutto nelle questioni di carattere etico - ma piuttosto quella dell’apertura e del trascendimento.
La riflessione filosofica non limita la scienza, impedendole di procede- re nella sua conoscenza, ma piuttosto la fonda e la trascende, offrendole i presupposti che la rendono possibile. Lungo questi percorso, la domanda dello scienziato sui fondamenti del conoscere può diventare apertura al mistero del Fondamento dell’essere. Nel suo volume La mente di Dio, Paul Davies scriveva: «Per quanto le nostre spiegazioni scientifiche possano essere coronate dal successo, esse incorporano sempre certe assunzioni iniziali. Per esempio, la spiegazione di un fenomeno in termini fisici presuppone la validità delle leggi della fisica, che vengono considerate come date. Ma ci si potrebbe chiedere da dove hanno origine queste leggi stesse. Ci si potrebbe perfino interrogare sulla logica su cui si fonda ogni ragionamento scientifico. Prima o poi tutti dobbiamo accettare qualcosa come dato, sia esso Dio, oppure la logica, o un insieme di leggi, o qualche altro fondamento dell’esistenza».
Molti scienziati - nel passato come nel presente - hanno condiviso la visione che la natura fosse effetto di un Logos creatore. A motivare la loro ricerca è stata la convinzione che esistesse una verità oggettiva, riflesso di un Fondamento increato e meritevole di essere cercata con passione. Francis Collins dichiara di averlo compreso studiando il Dna e restandone tanto colpito da convertirsi da posizioni agnostiche ad un cristianesimo convinto, fino a fondare l’importante Fondazione Bio-Logos per studi su scienza e fede. Non sappiamo se Mendeleev, già cristiano ortodosso, osservando la sua Tavola degli elementi chimici abbia provato un sentimento analogo. Dobbiamo però a lui l’opportunità, 150 anni dopo, di poterlo provare noi.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Federico La Sala
L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT O L’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN. Bisogna sempre dire la verità? *
IMMANUEL KANT
Bisogna sempre dire la verità?
di Francesca Rigotti (Doppiozero, 19.10.2019)
Appollaiato sul ramo di una pianta il corvo (corvus), uccello dal piumaggio bianco come la neve, osserva il tradimento di Coronide, amata e resa gravida da Apollo, con il giovane Ischi, e corre a riferirlo al capo. Così narrano le Metamorfosi di Ovidio nel libro II (542-547). Mentre vola alla volta del dio di Delfi suo padrone, l’uccello viene raggiunto dalla cornacchia (cornix) che lo mette in guardia più o meno così: «Attento alle mie parole, corvo. Una volta mi capitò di spiare, nascosta sopra un folto olmo (abdita fronde levi densa speculabar ab ulmo), le tre vergini Pàndroso, Erse e Aglauro che Minerva aveva incaricato di sorvegliare - senza aprirla! - una cesta di vimini. Aglauro però viola l’ordine e disfa i nodi, scorgendovi dentro un bambino, Erictonio - nato dalla terra fecondata da Efesto - con accanto un serpente. Corro a riferire l’accaduto a Minerva e che cosa ottengo in cambio della mia fedeltà? Di essere degradata, di perdere il favore della dea e di essere posposta alla notturna civetta, Nictìmene, che divenne l’uccello sacro alla dea».
Nonostante l’avvertimento a non parlare troppo, il corvo riferì dell’incontro di Coronide con Ischi ad Apollo, che non la prese affatto bene. Il dio uccise infatti Coronide con una freccia, salvando però il figlio dal rogo funebre, e punì il corvo, «che si aspettava un premio per aver detto la verità», facendo diventare nero il suo piumaggio. Non cerchiamo per ora di interpretare il senso del fatto che il bambino salvato dalle fiamme e affidato al centauro Chirone divenne Asclepio, il fanciullo destinato ad apportare salute al mondo intero (salutifer orbi ... puer), e soffermiamoci invece sul castigo del corvo e della cornacchia, puniti dagli dei per... aver detto la verità.
Bisogna sempre dire la verità?
Come avrebbe reagito Kant, il rigoroso filosofo di Königsberg, di fronte a questo episodio? Avrebbe approvato o biasimato il comportamento degli uccelli che parlavano troppo? E che dicevano la verità anche se essa non veniva loro richiesta, come è il caso del corvo che si incarica spontaneamente di farlo per il puro piacere di far andare la sua linguaccia. «Lingua fuit danno», la lingua «fu la sua rovina», commenta il poeta. E lo fu anche della cornacchia, benché questa fosse stata esplicitamente incaricata da Minerva della sorveglianza. Ma posso tacere la verità? O bisogna sempre dire la verità, che è il titolo del libro in cui Andrea Tagliapietra, autore anche del recente Filosofia dei cartoni animati edito da Bollati Boringhieri affronta questa tematica? (Immanuel Kant, Bisogna sempre dire la verità?, a cura di Andrea Tagliapietra, Milano, Cortina, 2019). Un fustigatore della menzogna quale Agostino di Ippona ha a questo proposito un consiglio preciso: «Quello che dici, deve essere assolutamente vero; ma non devi per forza dire tutto quello che è vero».
Agostino, commenta Tagliapietra nel saggio introduttivo, pone dunque il nucleo della bugia necessaria in forma di problema: «Se si rifugia presso di te uno che potrebbe scampare alla morte grazie a una tua bugia, non mentirai?» (Contra mendacium, 18 e 5); lo stesso problema che sarà oggetto dello scambio polemico di opinioni etico-filosofiche tra Benjamin Constant e Immanuel Kant. Dove il Kant precritico, spiega sempre Tagliapietra, pare favorevole all’uso della riserva mentale. Diventerà invece intransigente negli anni successivi, quando la menzogna verrà definita da Kant l’autentica bruttura che macchia la natura dell’uomo, «l’avvilimento, anzi l’annientamento della dignità umana». Le bugie violano la fiducia nell’umanità: «La maggiore infrazione del dovere dell’uomo verso se stesso, considerato unicamente come essere morale (riguardo all’umanità che risiede nella sua persona) è l’opposto della sincerità, vale a dire la menzogna» (I. Kant, La metafisica dei costumi, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 287-288).
Bagatelle e crudeltà
Se guardiamo brevemente ad altri contesti, vediamo che la tradizione della cultura antica - seguo sempre Tagliapietra - ammette qualche forma di menzogna nel caso che essa apporti salvezza: si pensi soltanto alla figura di Ulisse, eroe astuto quanto mentitore. Ammessa è anche la menzogna del migliore verso il peggiore, non comunque del peggiore verso il migliore.
La cultura cristiana poi, continua Tagliapietra, trova mille scappatelle per una bagatella come il peccatuccio della bugia di scusa o peccatillum, da cui deriva il termine bagatella, e questo persino nel caso di pensatori austeri quali, abbiamo visto, Agostino, che ribadisce il principio aristotelico dell’intenzione ma poi assolve la menzogna in caso di pericolo di vita della vittima. Più blanda la posizione di Tommaso d’Aquino, sempre pronto a giustificare chi adotta il male minore per evitare il male maggiore.
Per l’incrollabile Kant invece il comandamento «non devi mentire», fondato sulla sovranità autonoma del soggetto, la quale non ammette eccezioni, è il fondamento dell’etica filosofica. Se si segue il precetto che esorta ad agire in modo da considerare l’umanità, sia nella propria persona sia nella persona di ogni altro, come fine e mai come mezzo, non si deve mentire nemmeno se in quel caso si nuocerà ad altri o si metterà in pericolo la vita di qualcuno o lo si consegnerà al suo assassino. Pensiamo alla terribile scena iniziale di Bastardi senza gloria (Unglorious Bastards, USA-Germania 2009) di Quentin Tarantino, in cui il colonnello nazista interroga il contadino francese, chiedendogli se dia rifugio ai nemici dello stato, la famiglia ebrea dei Dreyfus. Tutti desideriamo che il contadino menta e invece M. La Padite dice la verità e denuncia la famiglia ebrea per proteggere la propria.
Occorre aggiungere che la posizione di Kant era stata preceduta - aggiungo - da Spinoza che nella sua Etica assai chiaramente si pronuncia contro l’uso dell’inganno, il dolus malus (IV, LXXII), tra cui la menzogna, anche nel caso in cui ciò possa salvare una persona dall’imminente pericolo di morte.
Ci sono princìpi e princìpi
Questa verità crudele, questa perversa «macchina logico-veritativa del linguaggio» di Kant ma anche, ribadiamo, di Spinoza, viene respinta da Benjamin Constant in un saggio del 1797, riportato nella racolta di Tagliapietra, allorché il giovane polemista francese osa attaccare l’anziano filosofo tedesco con l’argomento del diverso peso dei princìpi morali: ci sono i princìpi primari, assoluti e universali, e i princìpi cosiddetti intermedi, che fanno discendere i princìpi primi fino a noi, adeguandoli alle nostre situazioni e ai nostri interessi. In questo modo, conclude Constant, il principio morale per il quale dire la verità è un dovere, «se fosse preso in modo assoluto e isolato, renderebbe impossibile ogni tipo di società. Ma ... nessun uomo ha diritto a una verità che nuoce ad altri».
La verità crudele è ricusata anche da Tagliapietra in nome della pietà verso la vittima silenziosa cui nuoce la verità delatoria. Sulla scia di Agamben sostiene infatti Tagliapietra che «la verità ... non è una mera informazione esatta ... ma anche un prendere posizione per ciò che si dice, un esserci in ciò che si afferma». Se confrontata con la fiducia, la verità diventa ai suoi occhi «una forma di vita che non si esaurisce nella sola dimensione dichiarativa del linguaggio» (66-67). Come viene respinta - la posizione di Kant - da molti autori e dalla maggior parte delle persone che adducono argomenti di buon senso e di empatia con le vittime. Dopo il colpo inferto al Kant gnoseologico dal newrealismo, ecco comunque un rinnovato attacco al Kant etico, troppo rigoroso per i nostri tempi edonistici e happycratici.
Verità crudele e nuda
Verità crudele, insostenibile, abbagliante, svelata fino alla nudità. Al repertorio di questa immagine nel pensiero filosofico è dedicato un volumetto postumo che raccoglie gli scritti inediti sul tema a opera del filosofo metaforologo Hans Blumenberg (H. Blumenberg, Die nackte Wahrheit [La verità nuda], a cura di Rüdiger Zill, Berlin, Suhrkamp, 2019).
La verità è orribile - oltre che crudele -. Fortunatamente l’arte ci permette di non affondare con la verità stessa. È Nietzsche che, impostando l’antagonismo tra la noia della scienza e la vitalità dell’arte, sentenzia che arte e cultura velano l’orrore della verità, e che l’illusione può mascherare la conoscenza che uccide l’azione. Variabile è comunque, commenta Blumenberg, il valore culturale della nudità della verità; in Kafka è la crudele mancanza di ogni sorta di corazza, guscio, protezione, casa, e la consegna a condizioni di vita estranea. E del resto, chi potrebbe sostenere la vista della verità - ecco Descartes che interviene, nelle Meditazioni - se Dio ce la presentasse tutta nuda? Eppure l’illuminismo rivendica proprio il diritto alla verità nuda per la quale ogni rivestimento e travestimento è ingiustizia. Mentre il diritto alla verità asciutta, secca (dry truth) di John Locke invoca un linguaggio filosofico univoco dove però le metafore sono considerate indispensabili, non per ornare e abbellire, ma proprio per chiarire e spiegare.
Fino ad arrivare a Kant e ricongiungerci, questa volta attraverso la metafora, alla sua idea di verità, che è lecito illustrare con analogie e metafore purché la cosa in sé sia chiaramente distinguibile dal necessario velo che la ricopre e la protegge. Se poi il velo ostacola la visione della verità, non impedisce però l’ascolto della legge morale, per quanto rigorosa e persino, come sappiamo, crudele.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ESSERE GIUSTI CON KANT. La lezione di Michel Foucault e la sorpresa di Habermas.
L’ASTUZIA DEL LUPO E I SETTE CAPRETTI. "APRITE, APRITE": SONO IL VOSTRO "PAPI"!!!
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN!!!
Federico La Sala
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE. Tracce per una svolta antropologica ... *
NELLA DIMENSIONE CHE ESIGE ERACLITO
di Federica Montevecchi (su: Alias, 17/07/2010)
Martin Heidegger volle che la sentenza di Eraclito, «il fulmine governa ogni cosa», fosse incisa sull’architrave della porta della sua baita a Todnauberg nella Selva Nera. Le stesse parole, che costituiscono il frammento 64 dell’edizione Diels-Kranz, aprono il celebre colloquio seminariale, su Eraclito appunto, che si svolse nel semestre invernale 1966/67 all’Università di Friburgo fra Martin Heidegger e Eugen Fink. Il testo del seminario fu pubblicato in italiano nel 1992 da Coliseum, nella versione di Mauro Nobile introdotta da Mario Ruggenini, con il titolo Dialogo intorno a Eraclito. A circa venti anni di distanza da questa prima edizione, esaurita da qualche tempo, il colloquio fra Heidegger e Fink è ripresentato - corredato dalle annotazioni di Heidegger - dall’editore Laterza, nella collana «I Libri dell’Ascolto» diretta da Vittorio Tamaro, con il titolo Eraclito (a cura di Adriano Ardovino, pp. 234, € 20,00).
Il seminario, suggerito da Fink, che voleva mettere alla prova la propria interpretazione di Eraclito, fu l’ultima attività didattica di Heidegger e avrebbe dovuto includere, stando al progetto iniziale, anche una lettura dei frammenti di Parmenide. Nei fatti, invece, non fu completata neppure la lettura dei frammenti di Eraclito, tanto che Fink, nel 1970, presentando l’edizione del seminario, affermerà che il testo dato alle stampe è «un torso, un frammento su frammenti».
Le tredici sessioni in cui si articolò la discussione, alla quale parteciparono tredici persone fra studenti e invitati, vennero trascritte volta per volta, senza l’ausilio di alcun registratore, letteralmente e integralmente.
Il risultato non è tanto un confronto fra due diversi interpreti, ma, dice Heidegger, un ‘parlare con Eraclito’ e, attraverso di lui, con un’intera tradizione che, già dall’antichità, non si è sottratta alla provocazione rappresentata dai Greci. Esempi degli interrogativi di fondo dell’esistenza e dell’enigma riguardante la nascita della ragione, i pensatori greci più antichi - Presocratici o sapienti, a seconda che si voglia adottare le espressioni rispettivamente di Hermann Diels o di Giorgio Colli - sono specchi: quanto più ci avviciniamo a loro tanto più vediamo il nostro riflesso. A seconda della ‘storia razionale’ nella quale li integriamo - e questo accade già a partire da Aristotele - essi assumeranno significati molteplici, restando comunque sempre altro da ciò che di loro possiamo dire: essi costituiscono il momento inaugurale del pensiero della civiltà occidentale, nel quale la ‘verità’ della nostra origine diventa inscindibile dall’origine della nostra ‘verità’, l’ambito del conoscere non facilmente distinguibile dalla sfera del riconoscere, cioè della proiezione retrospettiva.
Tutto ciò vale particolarmente per Eraclito le cui parole, stando a Diogene Laerzio, avrebbero fatto dire a Socrate che ci sarebbe voluto un tuffatore delio per poterle riportare alla luce dalle oscure profondità. E su queste parole si sono cimentati, nei secoli, in molti: basti pensare, fra gli altri, a Platone - che nel Sofista annovera Eraclito fra quelle Muse ioniche capaci di mostrare la connessione fra l’uno e i molti -, a Hegel - che nelle Lezioni sulla storia della filosofia afferma: «non c’è proposizione di Eraclito che io non abbia accolto nella mia Logica» -, a Hölderlin - che, attraverso Eraclito, legge l’inscindibilità di unione e separazione -, e ancora, a Nietzsche - che nei frammenti eraclitei vede l’espressione della visione tragica del mondo, del conflitto sotteso a ogni creazione e allo stesso logos.
Va da sé che pure Heidegger e Fink, in sintonia con la tradizione filosofica tedesca, che affronta il pensiero più antico proiettando nella Grecia anzitutto se stessa, la propria specificità filosofica, accolgono la sfida di Eraclito ben prima di questo seminario. L’eco eraclitea, infatti, è costante nell’opera di entrambi e si mostra, ad esempio, nell’idea heideggeriana dell’intermittenza di qualcosa che apparendo come mondo al tempo stesso si nasconde come senso. Se in questa idea è implicita la nota sentenza eraclitea «la natura ama nascondersi», nella metafora di Fink del gioco che gioca con l’uomo e il mondo, ossia con coloro che lo stanno giocando, sono evidentemente sottintese le parole di Eraclito «il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo».
Queste rispettive posizioni filosofiche si riflettono naturalmente nel seminario, dove Heidegger e Fink, tuttavia, cercano di assumere ruoli ben definiti. È lo stesso Fink a caratterizzare il ruolo di Heidegger nei termini di una ‘direzione spirituale’, che si declina in interventi brevi, chiarificatori, interrogativi, ma anche ammonitori rispetto a tutto ciò che potrebbe limitare la possibilità di giungere «nella dimensione che esige Eraclito», come ad esempio approcci di tipo esclusivamente filologico e storiografico, oppure l’uso di termini ritenuti troppo risonanti, quali diradamento e tempo, se non ormai inadeguati, come il temine essere. Fink, invece, assume il compito di presentare una provvisoria interpretazione dei frammenti eraclitei che garantisca una base di discussione e possa essere idonea a collocare i partecipanti al seminario «entro una certa comunione nel linguaggio interrogante». E tuttavia il tentativo di recuperare Eraclito è destinato a fare i conti con una distanza storica e ontologica abissale, come mostrano le frequenti domande di Heidegger - destinate a contenere, nei partecipanti, le cristallizzazioni concettuali, che sono da ricondursi, come viene ricordato, alla filosofia successiva di Aristotele -, oppure l’affermazione che nel seminario si sta presentando un’interpretazione non più metafisica di testi non ancora metafisici: fra il ‘non più’ e il ‘non ancora’ è tuttavia possibile sentire l’eco dell’esperienza di pensiero di Eraclito, che obbliga continuamente a riflettere sui criteri attraverso i quali si è articolato il pensiero occidentale, quindi a considerare la possibilità di pensare in altro modo.
L’andamento del seminario è scandito soprattutto dal tema dell’unità fra opposti, che ricorre in tutti i frammenti eraclitei e rimanda al problema fondamentale dell’appartenenza (Verhältnis) di uno e molti-tutto, en e panta. I numerosi esempi di fenomeni descritti da Eraclito - come pace e guerra, fame e sazietà, giovani e vecchi, mortali e immortali - mostrano a un tempo l’opposizione fra diversi e la loro unità, e cioè il fatto che lo stesso sia anche altro, i molti-tutto siano anche uno: «la difficoltà - dice Heidegger - consiste nello scorgere in che modo lo en mostri all’improvviso un altro carattere», nel capire come Eraclito possa vedere, nell’esperienza comune a tutti basata sull’opposizione e sulla distinzione, sempre l’uno e un unico logos.
Detto altrimenti, la convivenza degli opposti, che caratterizza l’universo greco più antico già a partire dalle prime cosmologie fino ad arrivare all’opposizione delle proposizioni nell’argomentazione dialettica, rilancia costantemente l’enigma della polarità o, stando al seminario, l’enigma di come il determinato sia ad un tempo «l’unità che riunisce».
La risposta di Heidegger e Fink si concentra sul legame fra l’uno e i molti-tutto, legame che viene inteso appunto come Verhältnis, giustamente tradotto con appartenenza, intendendo con tale termine non una relazione di possesso fra due oggetti né un rapporto di reciprocità, ma il trattenersi dell’uno e dei molti-tutto nella «stabilità dell’apertura», la «tenuta (Verhalt) dell’essere e del mondo». È la stessa cosa infatti che, nella separazione da se stessa, si tiene unita e si custodisce perché - viene precisato nella sessione undicesima - appartenere e tenere «significano in primo luogo il custodire, tenere in serbo e accordare nel senso più ampio»: questo è del resto il logos nel suo significato proprio di raccolta e di presenza di ciò che è stato raccolto. E evidente che tutto ciò permette di aprire lo spazio a un pensare che contrasti la concezione ingenua secondo la quale l’uno viene pensato come un contenitore in cui sono racchiusi i molti-tutto e soprattutto l’idea, che diventerà una delle matrici del pensiero occidentale, secondo la quale il molteplice è un dispiegarsi e un decadere del semplice.
Nell’ultima sessione del seminario Heidegger chiede a Fink qual era il senso dell’affermazione con cui aveva aperto il loro colloquio comune con Eraclito, e cioè che i Greci «significano per noi un’immane provocazione». Fink risponde che si tratta della provocazione «a capovolgere, una buona volta, l’orientamento del nostro pensiero», a disfarsi di tutto l’apparato concettuale costruito sul bisogno, che Hegel ha incarnato in maniera paradigmatica, del pacificante appagamento di ciò che è pensato e conciliato per tornare a pensare, vale a dire a sentire, secondo Heidegger, «l’assillo dell’impensato nel pensato» e, come esorta Periandro di Corinto, ad avere cura del tutto in quanto tutto.
* SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
COME IL "PADRE" E’ ALL’ORIGINE ("URSPRUNG") DEL BAMBINO, COSI’ IL "POLEMOS" E’ ALL’ORIGINE DI TUTTE LE COSE?!: HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
Federico La Sala
IL "POLEMOS" DI ERACLITO, "LA SANTA VIOLENZA" DEL CARDINALE RAVASI, E IL "PADRE NOSTRO" ("CHARITAS") DEL MESSAGGIO EVANGELICO....*
Il nuovo libro di Ravasi.
Quando il sacro fa i conti con la violenza
Un orizzonte cupo, segnato da conquiste e lotte, sembra essere il basso continuo della storia umana: la Bibbia non ignora questa realtà, fino al radicale rovesciamento operato da Cristo
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, giovedì 17 ottobre 2019)
Sembra una ripresa cinematografica; è, invece, la descrizione di un poeta ebreo, il profeta Nahum, che nel 612 a.C. sta “sceneggiando” quasi in presa diretta la caduta di Ninive, la detestata capitale della superpotenza orientale, l’Assiria, sotto l’irruzione congiunta di Ciassare, re dei Medi, e di Nabopolassar, re della dinastia neobabilonese. Ecco la scena affidata a una sequenza impressionistica di azioni militari, costruita sulla secchezza di un elenco: «Sibilo di frusta, fracasso di ruote, scalpitìo di cavalli, cigolìo di carri, cavalieri incalzanti, lampeggiare di spade, scintillare di lance, feriti in quantità, cumuli di morti, cadaveri senza fine, s’inciampa nei cadaveri». Le pagine dell’Antico Testamento sono spesso striate dal sangue delle battaglie e si affacciano su rovine e devastazioni causate da eventi bellici. Una lingua lessicalmente povera come l’ebraico classico (5.750 vocaboli in tutto) si mostra sorprendentemente ricca quando deve designare la violenza
Tanto per esemplificare, ecco la radice hms «fare violenza» (donde hamas «violenza»), o šddhrm «sterminare » (donde herem, la strage sacra), hrg «uccidere», rsh «assassinare», ‘nh «violentare, opprimere», hrs «distruggere », lhm «combattere » (donde milhamah «guerra»), nqm «vendicare», mhs «abbattere, fracassare», šht «mandare in rovina» e altri ancora.
Un orizzonte cupo, segnato da conquiste e lotte, che per altro sembrano essere il basso continuo della storia umana, come pessimisticamente dichiarava Eraclito nel suo frammento 53: «La guerra (pólemos) è madre di tutte le cose e di tutte la regina (basiléus). Gli uni rende dèi, gli altri uomini; gli uni fa schiavi, gli altri liberi».
Anche il Nuovo Testamento, che pure inalbera il vessillo dell’amore ed eredita l’aspirazione messianica biblica allo shalôm «pace», non ignora questa realtà aspra che costella le strade della vita dei popoli.
Lo stesso Gesù, ad esempio, ricorrerà a un modello di strategia militare applicandolo all’esistenza cristiana da vivere con intelligenza e sapienza: «Quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per chiedere pace».
La scelta radicale per il Regno di Dio, vero Leitmotiv della predicazione di Cristo, sarà da lui espressa con una dichiarazione paradossale, anche se evidentemente metaforica per indicare la natura “esplosiva” del suo messaggio: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada» [...].
È indubbio che, sia a livello biblico sia nella storia della cristianità, questo intreccio tra guerra e religione è paradossalmente forte. Per stare alla Bibbia, basti solo pensare alle stragi sante - il cosiddetto herem o «sterminio sacro» - che accompagnano la conquista della Terra pro- messa da parte del popolo ebraico, oppure alle centinaia di testi violenti presenti nelle Scritture e alla stessa simbologia bellica usata per rappresentare il «Dio degli eserciti» (che, però, era originariamente un rimando all’armata astrale del Creatore, anche se poi applicata alle battaglie di Israele col palladio dell’Arca santa) [...]. Ci sono alcuni elementi di natura ermeneutica che dovremo costantemente ribadire [...]. Innanzitutto è da sottolineare la qualità storica della Rivelazione ebraico-cristiana, che nella Bibbia si presenta non come un’astratta serie di tesi teologiche speculative ma appunto come una concreta «storia di salvezza». All’interno degli eventi umani, spesso segnati dal peccato, dall’ingiustizia, dalla violenza, dal male, passa la presenza e l’opera di Dio che progressivamente e pazientemente cerca di condurre l’umanità verso un livello più puro, giusto e pacifico di vita. Il vertice è proprio - tenendo conto dell’unità «canonica » (cioè nell’unico Canone cristiano) dei due Testamenti - nella proclamazione: «Beati gli operatori di pace», formulata secondo lo spirito della citata «pace» messianica anticotestamentaria. La stessa tradizione giudaica successiva con rabbì Meir di Gher dichiarerà che «Dio non ha creato nulla di più bello della pace» [...].
Gesù, poi, nella sua proposta procederà fino alla scelta radicale dell’amore per il nemico così da trasformare quasi l’hostis in hospes e da introdurre il principio della non-violenza: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano».
L’apostolo Paolo, in un passo della Lettera agli Efesini, ove elenca una completa attrezzatura militare (cinturone, corazza, calzature, scudo, frecce, elmo, spada), la trasfigura in una simbologia spirituale: «Attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace; afferrando lo scudo della fede col quale si possono spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno, prendendo l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio». Introduce, dunque, nel cuore dell’apparato militare, evocato già in chiave metaforica, il «vangelo della pace» come meta da raggiungere. Egli parla per due volte della panoplía, cioè dell’«armatura » di Dio che non è aggressiva contro gli altri ma solo contro il male diabolico: «Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo [...]. Prendete l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove».
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
COME IL "PADRE" E’ ALL’ORIGINE ("URSPRUNG") DEL BAMBINO, COSI’ IL "POLEMOS" E’ ALL’ORIGINE DI TUTTE LE COSE: HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MIO NONNO ERA UN RE
di Michele Feo *
Il filosofo Emanuele Severino parla spesso in interviste e ricordi autobiografici del fratello Giuseppe morto in guerra, dicendo che fu studente alla Scuola Normale Superiore di Pisa e lì ascoltò le lezioni di Giovanni Gentile; lo ripete con dovizia di particolari novellistici nel «Corriere della sera» del 31 dicembre 2018.
Ma il nome di Giuseppe è assente in tutti gli elenchi a stampa degli allievi della scuola pisana, da quello curato nell’immediato dopoguerra dal filologo e segretario della Scuola Alessandro Perosa all’ultimo del 1999. Poiché l’esempio del fratello sembra essere stato determinante per la scelta di vita di Emanuele, par di capire che la collocazione formativa di Giuseppe a Pisa, all’ombra di Gentile, debba riverberare su Emanuele un po’ di quella gloria.
Sempre, anche il figlio della lavandaia e del tavernaro, quando ha asceso la scala sociale, si crea antenati nobili; le povere ma belle donzellette alla fine della favola si scoprono figlie di regine e il tribuno popolare Cola di Rienzo rivelò di essere il risultato di una bassa avventura dell’imperatore nei quartieri bassi di Roma.
Corollario: o i repertori pisani devono essere emendati o il filosofo si è distratto e anche lui si è lasciato catturare dal mito delle origini favolose.
Michele Feo
NOTA:
"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE". Una storia di lunga durata
MIO NONNO ERA IL IL PAPÀ DI ADAMO ED EVA...
“Se vogliamo andare avanti non è a Parmenide che dobbiamo pensare. Ma, se si vuole, a Talete. Egli sapeva che l’azzurro circondava la Terra. Che vuol dire questo? E’ presto detto (e poi chiudo). La chiave ce la fornisce l’altra recente polemica innescata da Paolo Rossi, e, in particolare, la risposta di [Emanuele] Severino alla provocazione dello stesso Rossi. La questione è quella della nascita. Chiariamo.
Con la sua costanza e con la sua testardaggine, Rossi - lo storico-segugio (Severino parla di cagnolini) - è riuscito a mettere alle strette il Leone, e, l’ha fatto uscire dalla foresta pietrificata o, che è lo stesso, dal campo (Essere=Verità) di Parmenide. Perseguitato per «vent’anni», Severino non ce l’ha fatta più e ha ceduto. E, costretto a scoprire le sue carte, ha dovuto ammetterlo: non è nato ad Elea (Parmenide) e nemmeno a «Como» (Heidegger). «Io sono nato - ha dichiarato Severino - a Brescia. Me lo ha detto mia madre e mio padre: è scritto sui documenti». Il giogo del Destino della Necessità è stato spezzato: HIC SUNT LEONES - a Brescia!. Era ora: Emanuele è solo un poco Severino, ma è con noi - come noi, semplici mortali.
Fuor di metafora: questo è il problema: La croce dei filosofi, per eccellenza. Ce n’è voluto per riportare a galla dalle profondità del mare dell’essere (altro che pantano o pozzanghera, entro cui era stato buttato da Parmenide e dai suoi edipici figli - i platonici di tutti i tempi) Talete: qual è il principio di tutte le cose? Questi sono i problemi: così nasce la filosofia [...] (cfr. Federico La Sala, "Per una nuova cultura all’altezza del Pianeta Azzurro", «La Critica Sociologica», n. 93, 1990, pp. 111-115; in: “Della Terra, il brillante colore”, Pref. di Fulvio Papi, Edizioni Nuove Scritture, Milano 2013, pp. 98-99, senza note).
Federico La Sala
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico...
SCHEDA EDITORIALE*
Ernst Mach
Perché l’uomo ha due occhi?
Nella seconda metà dell’Ottocento, il grande fisico e filosofo Ernst Mach, allora giovane professore alle università di Graz e Praga, organizza una serie di lezioni di «scienza popolare» rivolte a un pubblico non specialistico né accademico, perlopiù femminile.
Tra i temi proposti, spiccano per interesse e originalità le riflessioni sui concetti di simmetria, armonia e prospettiva, considerati secondo una lettura epistemologica in cui le intuizioni filosofiche si confrontano con l’osservazione empirica dei processi naturali. Attraverso esempi presi non solo dall’arte, dalle scienze e dalla storia, ma anche dalla vita quotidiana, Mach riesce a spiegare con ragionamenti scorrevoli e un linguaggio chiaro e diretto questioni classiche della tradizione filosofica e scientifica legate alla percezione visiva e all’esperienza spazio-temporale.
L’uomo, insegna Mach, deve tendere a una comprensione razionale della realtà che lo circonda, senza mai perdere la consapevolezza, però, di essere una piccola parte del tutto.
Ernst Mach
(Brno-Chrlice, 1838 - Monaco di Baviera, 1916) Fisico e filosofo, insegna prima a Graz e a Praga per poi trasferirsi a Vienna, dove sarà docente di Filosofia della scienza fino al ritiro nel 1901. Sostenitore di un’indagine storico-critica delle idee scientifiche, sviluppa una filosofia empirica in cui i concetti servono a dare ordine ai dati dell’esperienza. La sua critica allo spazio assoluto di Newton ha anticipato la teoria della relatività di Einstein. Ha influenzato un’intera generazione di filosofi e scienziati, e le sue teorie sono state oggetto della tesi di laurea di Robert Musil.
Prezzo 8.5
Anno 2016
Pagine 64
* CASTELVECCHI EDITORE
Popper Lynkeus. Chi era costui?*
Popper-Lynkeus, la vista lunga di un «ingegnere sociale»
Dai cavi elettrici all’elicottero, dalla psicanalisi a una sorta di comunismo liberale. Idee profetiche del grande austriaco
di Daniele Abbiati (Il Giornale - Ven, 22/12/2017)
Era un intellettuale a tutto tondo, poliedrico e dai mille interessi. E lo era grazie al suo essere quadrato, irreggimentato nella disciplina di uno studio matto e disperatissimo come quello di Giacomo Leopardi che lo portò a laurearsi ventunenne in Ingegneria al Politecnico di Vienna.
Vedeva lontano, tanto da auto-soprannominarsi Lynkeus, come l’argonauta dall’occhio acutissimo che penetrava i muri. Ma era strabico. Si definiva un «realista». Ma ammantava la sua fame di tecnologia e di scienza con scorribande nelle fantasie spesso veicolate dai sogni.
Josef Popper, nato a Kolín, nell’attuale Repubblica Ceca, da una famiglia ebraica di ceto modesto, il 21 febbraio 1838 e morto a Vienna il 22 dicembre 1921 era molto più che lo zio di Karl Popper, anche se pure lui desiderava una «società aperta», anzi spalancata alle libertà individuali, a patto che fossero inserite nel contesto di un welfare che oggi potremmo definire più che scandinavo.
In ordine crescente, ecco il campionario delle sue idee geniali. Nel 1862 invia all’Accademia delle Scienze di Vienna un progetto per trasportare l’elettricità tramite cavi che però finisce in un cestino (sarà il francese Marcel Deprez, vent’anni dopo, a mettere in pratica ciò che il Nostro aveva preconizzato in anticipo); poi, essendo stato assunto come precettore del figlio da un industriale dello zucchero, con suo fratello brevetta un nuovo tipo di caldaia per l’estrazione dello zucchero (ne ricava un corposo gruzzolo da cui attingerà fin quasi alla tomba); quindi fa studi di termodinamica, di aeronautica (nel 1880 ipotizza, primo al mondo, la realizzazione di «ali rotanti» per il volo, da cui discenderà l’elicottero); e nel 1884, un bel pezzo dopo aver frequentato le lezioni universitarie di Ernst Mach, comincia a interrogarsi sulle relazioni fra materia ed energia, potenzialmente anticipando la relatività di Einstein.
Tuttavia, lui si considerava in primo luogo un «ingegnere sociale». E proprio a questo campo, quello della tecnica al servizio della politica (o viceversa) appartiene il suo capolavoro: il comunismo liberale. Il ragionamento è semplice: al posto del servizio militare obbligatorio (che deve divenire invece volontario) lo Stato, che ha l’obbligo di nutrire, vestire e fornire di un’abitazione chiunque viva sotto la sua autorità, deve istituire un «servizio alimentare universale» per cui tutti i cittadini lavorano, in un periodo dell’anno, per assicurare ai meno fortunati i beni di prima necessità. Dopo di che, una volta fornito a tutti un livello minimo di benessere, l’impresa privata sarà non soltanto tollerata, ma addirittura caldeggiata, onde produrre ricchezza.
Naturalmente il saggio Die allgemeine Nährpflicht, datato 1912, rimase lettera morta, e il riformismo del quadrato Popper-Lynkeus che in linea teorica avrebbe potuto essere la quadratura del cerchio in tema di politiche sociali, oltre che l’inizio di una rinascita post-absburgica, divenne un pezzo da museo o da polverosa biblioteca. Insomma, rimase un sogno.
E, a proposito di sogni, ecco l’ultima genialata di Popper-Lynkeus: l’interpretazione dei sogni. Trattandosi di un viennese contemporaneo di Freud (ma i due non si incontrarono mai) la domanda è d’obbligo: ci è arrivato prima il Nostro oppure herr Doktor? Sta di fatto che L’interpretazione dei sogni di Freud uscì nel 1899, come pure la raccolta di racconti di Popper-Lynkeus Fantasie di un realista (tre dei quali pubblicati ora da Via del Vento in Sogno come veglia, prima edizione italiana di scritti di questo autore), dove i sogni e la loro interpretazione in chiave razionalistica che ne smaschera la «censura» sono appunto il tema centrale di una prosa che ha indotto Jean Starobinski a parlare di Popper-Lynkeus come di un «doganiere Rousseau della letteratura».
Ma sta anche di fatto che Freud, non potendo accusare l’altro di plagio, chiuse la questione così, in un saggio del 1923: «Io credo che ciò che mi ha reso capace di scoprire la causa della deformazione onirica sia stato il mio coraggio morale; nel caso di Popper sono stati invece la purezza, l’amore per la verità e la chiarezza morale del suo essere».
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Popper Lynkeus. Chi era costui? (Bruno Morandi - Ecologia Politica CNS, in Liberazione,domenica 28 gennaio 2001)
L’INCONSCIO, OGGI: FREUD, LA ’SFIDA’ DI POPPER-LYNKEUS, E L’INDICAZIONE DI ELVIO FACHINELLI.
Federico La Sala
Un governo per difendere la Costituzione
M5S-Lega. Il dovere delle forze democratiche è quello di dar vita a un governo che ripari i guasti prodotti proprio da chi quelle politiche velenose contro la vita e la dignità delle persone ha praticato e intende riproporre con più forza ove vincesse le elezioni
di Luigi Ferrajoli (il manifesto, 25.08.2019)
C’è una ragione di fondo che impone alla sinistra la formazione di un governo giallo-rosso: la necessità, prima di porre termine alla legislatura, di disintossicare la società italiana dai veleni in essa immessi da oltre un anno di politiche ferocemente disumane contro i migranti. La Lega di Salvini intende «capitalizzare il consenso» ottenuto a tali politiche pretendendo nuove elezioni e chiedendo al popolo «pieni poteri».
L’idea elementare della democrazia sottostante a questa pretesa - poco importa se per analfabetismo istituzionale o per programmatico disprezzo delle regole - è la concezione anticostituzionale dell’assenza di limiti alla volontà popolare incarnata dalla maggioranza e, di fatto, dal suo capo: dunque, l’esatto contrario di quanto voluto dalla Costituzione, cioè la negazione del sistema di vincoli, di controlli e contrappesi da essa istituito a garanzia dei diritti fondamentali delle persone e contro il pericolo di poteri assoluti e selvaggi.
Non dimentichiamo quanto scrisse Hans Kelsen contro questa tentazione del governo degli uomini, e di fatto di un capo, in alternativa al governo delle leggi: «la democrazia», egli scrisse, «è un regime senza capi», essendo l’idea del capo al tempo stesso non rappresentativa della complessità sociale e del pluralismo politico, e anti-costituzionale perché in contrasto con la soggezione alla legge e alla Costituzione di qualunque titolare di pubblici poteri.
Di fronte a queste pretese, il dovere delle forze democratiche - di tutte quelle che si riconoscono non già nell’idea dell’onnipotenza delle maggioranze ma in quella dei limiti e dei vincoli ad esse imposte dalla Costituzione - è quello di dar vita a un governo che ripari i guasti prodotti proprio da chi quelle politiche velenose contro la vita e la dignità delle persone ha praticato e intende riproporre con più forza ove vincesse le elezioni.
Dunque un governo di disintossicazione dall’immoralità di massa generata dalla paura, dal rancore e dall’accanimento - esibito, ostentato - contro i più deboli e indifesi.
Non un governo istituzionale o di transizione, che si presterebbe all’accusa di essere un governo delle poltrone, ma al contrario un governo di esplicita e dichiarata difesa della Costituzione che ristabilisca i fondamenti elementari della nostra democrazia costituzionale: la pari dignità delle persone, senza differenze di etnia o di nazionalità o di religione, il diritto alla vita, il rispetto delle regole del diritto internazionale, prima tra tutte il dovere di salvare le vite umane in mare, il valore dei diritti umani e della solidarietà, il rifiuto della logica del nemico, come sempre identificato con i diversi e i dissenzienti e immancabilmente accompagnato dal fastidio per la libera stampa e per i controlli della magistratura sull’esercizio illegale dei poteri.
Su questa base non ha nessun senso condizionare il governo di svolta a un no a un Conte-bis o alla riduzione del numero dei parlamentari.
L’alternativa possibile è un governo Salvini, preceduta dalla riduzione dei parlamentari ad opera di una rinnovata alleanza giallo-verde, e poi chissà quante altre e ben più gravi riforme in tema di giustizia, di diritti e di assetto costituzionale.
Una probabile maggioranza verde-nera eleggerebbe il proprio capo dello Stato e magari promuoverebbe la riforma della nostra repubblica parlamentare in una repubblica presidenziale. Di fronte a questi pericoli non c’è spazio per calcoli o interessi di partito.
Il racconto secondo Yates
Dove sono le finestre? La costruzione del racconto secondo Richard Yates
di Francesca de Lena (osservatorio-cattedrale, july 27, 2017)
“Costruttori” di Richard Yates ha tutte le cose che non sopporto trovare in un racconto. Ha una ’voce fuori campo’ che introduce la storia. Ha uno scrittore sfortunato e senza soldi per protagonista. Si chiude con una domanda. Eppure.
Eppure, “Costruttori” - uno dei racconti di Undici solitudini pubblicato in Italia da minimum fax - è per me il padre e la madre di qualsiasi cosa c’entri con la letteratura, con la bellezza di leggere, con la bellezza di scrivere, con la perfezione della forma racconto, con le mie idee sulla vita e con il mio lavoro. Conoscevo Carver, conoscevo Cheever e, naturalmente, conoscevo Hemingway e Flannery ‘O Connor, e li amavo.
Ma Yates. Avete mai letto un racconto come “Costruttori” di Richard Yates?
La voce fuori campo è la voce di Yates che non riesce a restarsene fuori e lasciar parlare la storia per sé, e che non riesce a far esordire un protagonista scomodo senza avvisare: “guardate che questo protagonista è scomodo”. La maggior parte delle storie non ha bisogno del proprio autore che si metta in mezzo e le rovini e infatti anche “Costruttori” non è che ne avesse proprio bisogno, narrativamente parlando. Però Yates lo fa lo stesso. In sedici righe scrive un’analisi intima e lucidissima sul mal di scrivere di scrittori e aspiranti scrittori, e così facendo vivacizza tutto il racconto, che si trasforma in una visione ironica e malinconica di queste due categorie di persone che a vicenda non si sopportano e che però continuano a vivere insieme, a cercarsi e a farsi compagnia nella speranza che il mal di vivere passi.
Lo scrittore sfortunato e senza soldi si chiama Bob Prentice, un ventiduenne che nel 1948 è già stato in guerra, ha già una moglie di nome Joan e deve già sbarcare il lunario scrivendo nella redazione finanziaria della United Press, cose di cui non capisce niente per cinquantaquattro dollari la settimana. La sera Bob torna a casa e si rintana dietro un paravento con l’idea di scrivere finalmente le sue cose. Invece perde tempo, si guarda intorno, legge il giornale, e una di queste sere trova l’annuncio di Bernard Silver. Bernie non è uno scrittore e neanche un aspirante scrittore, è solo un tassista che cerca qualcuno che gli scriva un libro in cui lui è il protagonista delle storie da tassista che ci sono scritte dentro. E questa strana aspirazione di Bernie rientra nell’insofferenza del mal di scrivere come molte altre cose del racconto, cose che si potrebbero definire ’elementi sulla narrazione’ oppure la ’visione poetica’ dell’autore o anche ’le cose che Richard Yates vuole dire sulla questione dello scrivere’, e di cui si potrebbe fare una lista in 9 punti:
1. l’incipit: “Gli scrittori che scrivono di scrittori possono produrre facilmente il peggior genere di aborti letterari”
2. l’adesione all’onestà nello scegliere le parole: un cappello è cincischiato, non consunto dall’uso
3. il parallelo che ogni scrittore cerca con Hemingway e la cosa importante di scrivere che è: cominciare
4. la consapevolezza che non devi perdere: quando tua moglie definisce il tuo racconto meraviglioso e tu sai che non vale niente
5. il disprezzo degli scrittori per quelli che di scrivere non ne capiscono niente ma vogliono per forza parlarne
6. il fatto che dietro a ogni storia non vera ci sia almeno un granello di verità
7. la consuetudine di tutti i tempi a non retribuire la scrittura: «Ah, ma non mi fraintenda Bob. Non ho mai chiesto a nessuno scrittore di scrivermi una sola parola solo sulla base di ipotetici guadagni futuri».
8. la celebre citazione da Pascal: «Supponga che qualcuno le scriva una lettera dicendo: “Bob, oggi non ho avuto tempo di scriverti una lettera breve, perciò ho dovuto scrivertene una lunga”».
9. l’inclusione dello storytelling nelle forme di narrazione: «Ma Bernie, non vedo come potrà funzionare. Non si può scrivere un “racconto” spiegando perché qualcuno è l’uomo di cui abbiamo bisogno al Congresso». «Chi dice che non si può?»
E poi c’è il punto 10. Ed è il dialogo con cui Yates costruisce l’immagine più universale che sia mai stata pensata per definire la forma racconto:
Una casa, cioè, bisogna che abbia il tetto. Ma ci troveremmo nei pasticci se cominciassimo a costruirla dal tetto, no? Prima del tetto si devono costruire le mura, no? E prima delle mura si devono gettare le fondamenta, no? E così via. Prima delle fondamenta si deve scavare nel terreno una bella fossa, vero? Ho ragione?» [...] E allora? Qual è la prima domanda che deve porsi a opera compiuta?
E qui arriva la perla, che Yates regala a Bernie (il non scrittore) piuttosto che a Bob (lo scrittore) e che per questo diventa ancora più lucente:
Dove sono le finestre?
La domanda a cui Bob non sa rispondere alla fine del racconto è dove siano le finestre nella storia che ha appena finito di costruire e che riguarda l’illuminazione nella sua vita, ed è la stessa che noi lettori di racconti ci poniamo ogni volta che apriamo un libro, e che noi esseri umani ci poniamo ogni volta che ci svegliamo al mattino: da dove entra la luce? Perché se il mal di scrivere colpisce scrittori e aspiranti tali, e anche persone come Bernie che con la scrittura c’entrano poco, il mal di vivere colpisce davvero chiunque e chiunque lo comprende, ed è in quella universalità che s’annida la letteratura.
L’idea che ha Yates della letteratura prende sempre la forma di racconto. Anche quando scrive romanzi, e anche nel suo romanzo migliore e più conosciuto, “Revolutionary Road”, resta un autore di forme brevi, che chiude su scene casalinghe e prive di enfasi, su elementi che, fino a un attimo prima, parevano di secondo piano. Perché? Perché Yates non vuole solo raccontare una storia, e non vuole solo dire la sua, e non vuole neanche oggettivare un’idea, un’ossessione. Lui vuole fare una cosa difficilissima ma che gli è indispensabile e questa cosa è: dire la verità. La verità che è, certo, quella e solo quella per una specifica storia e per i suoi personaggi, ed è innanzitutto la sua verità. Ma è anche - lo diventa: deve diventarlo - la verità per chi legge. Il lettore di racconti non vuole solo capire cosa narra la storia che ha di fronte, e non gl’interessa più di tanto commuoversi o arrabbiarsi o parteggiare per qualcuno. Il lettore di racconti vuole assolutamente credere in qualcosa: vuole credere che quella che sta leggendo sia la verità - e che sia tutta lì, e che non ci sia nient’altro da dire.
La parte migliore di “Costruttori” non sta nella trama o nelle perle sulla narrazione. Non sta neanche nella lucida ricostruzione della propria biografia, con l’esperienza di guerra, il matrimonio fallito, la costante ricerca di un lavoro che gli consenta di scrivere. La sua illuminazione sta in un punto che con la scrittura e l’essere scrittori non c’entra proprio nulla. -In quel punto c’è solo la fotografia di un trombettiere, un giovanissimo e fiero Bernie sull’attenti che si preme contro la bocca la sua semplice ed eloquente tromba. Un’immagine da copertina alla quale Bob stenta a credere, lui che in guerra ci è stato proprio come ci è stato Bernie, come ci è stato Hemingway e come, in un modo o nell’altro, ci siamo stati tutti noi. -Un’immagine che gli fa venire in mente: come si può vivere così? E alla quale, per fortuna, e per una volta, Yates risponde con una verità che tenta di salvarci: “Dio lo sa, Bernie, Dio lo sa che una finestra ci dovrebbe essere da qualche parte, per ciascuno di noi”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
LA LUCE, LA TERRA, E LA LINEA DELLA BELLEZZA: LA MENTE ACCOGLIENTE. "Note per una epistemologia genesica"
Federico La Sala
Il Regno Unito, l’Europa e la chiarezza costituzionale
Tra le nebbie di Dover
di Francesco Palermo (il Mulino, 02 settembre 2019)
La scorsa settimana circolava un tweet che andava al punto. Diceva pressappoco così: l’Italia ha trovato una nuova maggioranza parlamentare, il Regno Unito ha perso la sua monarchia parlamentare.
Il nuovo Primo ministro Boris Johnson è entrato nell’agone politico come un elefante in una cristalleria. Un atteggiamento molto in voga negli ultimi tempi, a tutte le latitudini. Entrato a Downing Street sulla scia del suo atteggiamento duro sulla Brexit, deciso a portare avanti l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea anche senza un accordo con Bruxelles, nel giro di pochi giorni ha compiuto due passi coordinati ed estremamente pericolosi. Dapprima ha posto all’Europa una (a suo dire) alternativa secca: o Bruxelles accetta un confine reale in Irlanda del Nord, o Londra è disposta a un’uscita senza accordo. -Questo almeno a parole, perché da autorevoli previsioni una hard Brexit, quindi un’uscita senza accordo, avrebbe conseguenze catastrofiche per il Regno Unito, almeno inizialmente, e a poco servirebbe la partnership privilegiata che il presidente americano Donald Trump dichiara di voler offrire a Londra una volta uscita dalle presunte grinfie dell’Unione europea. Anche questa tutta da verificare, ma contano i messaggi semplificati e di facile appiglio. Tanto che in alcune cancellerie si sta studiando l’ipotesi di andare a vedere le carte di Londra, e accettare la provocazione di una Brexit senza accordo. Scommettendo sulla necessità di Johnson di frenare all’ultimo.
Il secondo passo il Primo ministro britannico lo ha compiuto sul piano interno, di fatto sospendendo i lavori del Parlamento fino al limine della Brexit, per evitare che l’assemblea possa condizionare i suoi movimenti. Il senso della mossa è chiaro. La Corte suprema ha chiarito che il processo di distacco dall’Unione è in capo al Parlamento, ed è stato il Parlamento ad affossare per ben tre volte l’accordo negoziato da Theresa May con l’Unione europea, costringendo la ex premier alle dimissioni. Il decisionista Johnson non vuole correre il rischio di restare impiccato al Parlamento come accaduto a chi lo ha preceduto. E come può sempre accadere nelle democrazie parlamentari.
Chi non ha familiarità con i complessi meccanismi costituzionali britannici si chiederà come sia possibile, in un sistema così marcatamente parlamentare, che un Primo ministro, senza alcun contrappeso, blocchi per mesi i lavori del Parlamento.
La costituzione britannica è uno strano animale, che viene direttamente dal Medioevo senza troppe modifiche formali. Il sistema si basa su un equilibrio di poteri tra Parlamento e Corona, emerso all’esito di un secolare processo di limitazione dei poteri monarchici da parte del Parlamento.
Così il Parlamento è sì sovrano, ma molti poteri sono ancora formalmente in capo alla Corona, che li esercita attraverso il Primo ministro. Tra questi il potere di sciogliere il Parlamento e di convocarlo. Per questo è bastato che il Primo ministro (attraverso la Regina che regna ma non governa, e quindi non avrebbe potuto opporsi pena una crisi ancora più grave) stabilisse un periodo inusitatamente lungo tra la fine della sessione estiva e l’inizio di quella autunnale per mettere in scacco l’intero sistema. E provocare una crisi costituzionale gravissima, che mostra quanto sia facile che da un delicato equilibrio tra Parlamento e Corona si passi ad una pericolosa concentrazione di poteri in capo a chi tra questi due dovrebbe stare nel mezzo, il Primo ministro.
Una dinamica già vista ai tempi di Weimar, dello Statuto albertino e della terza Repubblica francese.
Una volta di più la spirale autolesionista della Brexit sta prendendo a spallate la Costituzione più antica e finora più solida del mondo. E non potrà che portare a una maggiore formalizzazione dei rapporti tra le istituzioni. Come avvenuto in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Paradossalmente, almeno sul piano costituzionale, il processo di separazione dall’Europa sembra poter avvicinare il Regno Unito al continente.
LA BATTAGLIA DEI DIRITTI DEL FILOSOFO CANADESE
La laicità assoluta opprime la fede
di Charles Taylor (Corriere della Sera, “La Lettura”, 25 agosto 2019, p. 10)
Sono due le definizioni di laicità invocate nei nostri attuali dibattiti. La prima riguarda ciò che può essere definito come laicità restrittiva; la seconda è nota come laicità aperta. La differenza cruciale è la seguente: secondo la laicità restrittiva lo Stato può essere neutrale fra le diverse religioni, mentre esso prende posizione fra religione e non-religione. La religione è un problema: deve essere limitata e circoscritta entro una zona ristretta, generalmente limitata alla vita privata dei cittadini. Deve essere quindi assente da certi spazi, che il presidente francese Jacques Chirac qualificò un tempo come «spazi della Repubblica».
Secondo la laicità aperta, invece, si pretende che lo Stato sia neutro non solo rispetto alle diverse religioni, ma anche in relazione a religione e non-religione. Spesso la laicità restrittiva è considerata una posizione «francese», ma in realtà i due concetti si scontrano tanto in Francia quanto da noi, anche se dall’inizio di questo secolo la laicità restrittiva ha preso il sopravvento in Francia. È comprensibile il fatto che tale posizione abbia giocato un ruolo fondamentale quando in Francia, nel 1904-1905, si venne a legiferare sulla separazione fra Chiesa e Stato. Al tempo, la Repubblica era minacciata dai sostenitori di un monarchismo ultra-cattolico. Tuttavia oggi, fuori da tale contesto conflittuale, la concezione restrittiva non ha più senso.
Ebbene, le due concezioni sopra indicate non hanno pari legittimità. Infatti, soltanto la laicità aperta è compatibile con la democrazia egualitaria, dove ogni cittadino ha gli stessi diritti di cui godono tutti gli altri. La laicità restrittiva è invece inevitabilmente destinata a porre discriminazioni,se non fra le religioni, perlomeno fra religione e non-religione. E quel che possiamo notare nella legge 21 del Québec, che ha adottato il modello francese della laicità restrittiva.
Di fatto, questa legge impedisce di svolgere le proprie professioni a coloro che - attraverso la pratica religiosa - lasciano trasparire la loro convinzione e il loro impegno nell’ambito di una certa religione; le professioni sono invece aperte a tutti gli altri cittadini, sia che osservino altre religioni, sia che non ne pratichino alcuna.
Una simile discriminazione potrebbe essere considerata legittima solo nelle democrazie che pretendono di rappresentare un gruppo maggioritario, ad esempio una certa etnia, e di essere giustificate nel limitare i diritti degli altri. Come accade oggi in Ungheria.
Tuttavia, le nostre Carte e le tradizioni che identifichiamo come normative ci spingono a proseguire sulla via della democrazia egualitaria. L’uguale rispetto per tutti i cittadini esige che vengano loro accordate pari libertà, compresa la libertà di coscienza. È evidente che la legge 21 infrange questo principio. Ciò che propone è ben lungi dall’essere una semplice variante culturale del regime di laicità, in vigore nella maggior parte delle democrazie egalitarie e inclusive. Essa se ne distanzia in modo drammatico.
Un diverso modo per dissimulare il carattere discriminatorio della legge 21 consiste nel definirla come l’espressione di un diritto collettivo. I diritti collettivi sono certamente importanti. Tuttavia, occorre trovare il modo per armonizzarli con quelli individuali. Ma in questo caso, di quale diritto collettivo si tratta? Un popolo ha il diritto di decidere quali strutture adottare per la propria vita in comune, ovvero come debba autodeterminarsi, così come si usa dire: se sarà indipendente o meno, quale sarà la lingua adottata nella vita pubblica, quale sarà la natura della sua costituzione politica.
Ma un popolo che ha già scelto la forma di una democrazia egalitaria che rispetta i diritti (come quando abbiamo adottato la Carta dei diritti), può permettersi, con un voto maggioritario, di limitarei diritti di alcuni dei propri cittadini? Di introdurre discriminazioni a spese di certe minoranze? Ciò è lontano dall’essere evidente.
La legge 21 non soltanto va contro i nostri princìpi fondamentali, bensì prende vergognosamente di mira le minoranze più vulnerabili, i membri di comunità culturali arrivate di recente da noi e poco numerose. Un giovane cresciuto tra noi, che abbia la vocazione di insegnare, che sia riuscito a fare brillanti studi e che intenda cercare un impiego nella scuola pubblica, perché proprio lì ce n’è un evidente bisogno, ebbene questo giovane, dall’autunno del 2019, troverà la porta sbarrata se l’osservanza della sua fede implica di indossare un «simbolo religioso». È un destino crudele per lui, ma al tempo stesso è una perdita per il Québec che, come tutte le società di oggi, ha bisogno di insegnanti competenti e fidati.
Questo genere di legislazione - che prende di mira certe comunità, già vittime di gravi sospetti sia a causa della propaganda populista dei partiti di destra in parecchi Paesi, compreso il nostro grande vicino del Sud, sia a causa dell’ondata islamofobica indotta dai social network - ha la conseguenza di aggravare un’atmosfera già avvelenata. Il fatto che si vogliano escludere i membri di tali comunità da alcune importanti professioni impieghi che, si dice, sono correlati a una «autorità» - indica che tali persone creano sicuramente problemi, forse sono pericolose. I pregiudizi in circolazione, così come l’islamofobia, forniscono dettagli al riguardo: queste persone ufficialmente discriminate diventano il bersaglio per atti di odio, fra i quali i meno gravi risultano essere già di persé molto sgradevoli (come ad esempio, sentire parole ostili mentre si cammina). Quanto ai più gravi, non è necessario citarli qui.
Alcuni studi realizzati in tutte le società dove misure restrittive analoghe alla legge 21 sono state oggetto di campagne elettorali da parte di importanti partiti come quello di Marine Le Pen in Francia, i sostenitori della Brexit in Inghilterra, i repubblicani di Trump, il Parti Québécois nel 2014- hanno registrato un aumento drammatico di episodi di odio. Pertanto, in nome di quale interesse pubblico si ha il diritto di sottomettere a simili prove una minoranza di cittadini, recentemente giunti fra di noi?
(traduzione dal francese di Daniela Maggioni)
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IMMIGRAZIONE, STRANIERI, CITTADINANZA: LA CRESCENTE DIVERSITA’ DELLE SOCIETA’ DEL XXI SECOLO E LE SOLUZIONI ANTISTORICHE E IRREALISTICHE CHE POPOLANO ANCORA LA NOSTRA IMMAGINAZIONE. "L’esclusione democratica e i suoi rimedi". Un’analisi di Charles Taylor
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Riflessione.
Una nuova scommessa per la Chiesa di oggi
di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti (Avvenire, giovedì 22 agosto 2019)
Duemila anni di storia, un miliardo e trecento milioni di fedeli in continua crescita grazie alla spinta demografica dei paesi del Sud del mondo. Da un certo punto di vista, la Chiesa cattolica gode di ottima salute. Eppure, dietro la facciata rassicurante dei numeri, si odono scricchiolii allarmanti che non possono essere sottovalutati. Crollo della partecipazione religiosa nelle società più avanzate; difficoltà particolarmente forti tra i giovani e i ceti più istruiti; sensibile riduzione delle vocazioni. Sintomi eloquenti, ai quali si aggiunge la perdita di reputazione causata dagli scandali finanziari e dagli abusi sessuali.
Lo spostamento del baricentro in aree economicamente, politicamente e socialmente più arretrate è dunque una buona notizia solo a metà. In quei paesi - dove il livello istituzionale è meno evoluto e il rapporto con le persone più diretto - la Chiesa gioca su un terreno che le è più congeniale. Ma il timore è che le cose siano destinate a cambiare rapidamente anche in quei contesti. Difficile immaginare un futuro se la Chiesa rinuncia a dialogare con la parte più avanzata del mondo.
Almeno in Europa la Chiesa si trova di fronte a uno snodo generazionale senza precedenti: nella popolazione che ha meno di 30 anni, coloro che non credono semplicemente perché si sentono del tutto indifferenti e apatici rispetto alla «questione Dio» (i cosiddetti nones) sono netta maggioranza. Come se la cosa non li riguardasse, come se non riuscissero neppure a cogliere il senso della domanda: credi tu? Di Dio sembra proprio non sentirsi la necessità.
Oggetto di un discorso ormai superato, residuo di tradizioni che sconfinano nella superstizione o bandiera di fondamentalismi che sfociano nella violenza: è questo il registro in cui la questione della fede viene oggi rubricata in Europa da buona parte della popolazione, specie giovanile. Quando la generazione di chi oggi ha 70 anni e più passerà, la Chiesa europea, già assottigliata, si ritroverà con un numero assai esiguo di fedeli. C’è una questione organizzativa: la struttura della Chiesa - burocratizzata e gerarchica - appare inadatta a stare al passo con un mondo diventato veloce e plurale. Manca la consapevolezza che non è più possibile parlare dell’esperienza religiosa oggi usando lo stesso discorso di quando la fede era un’evidenza sociale.
Occorrerebbero, piuttosto, parole in cammino, che cerchino di dare voce e forma al diffuso senso di precarietà. Parole capaci di trasmettere l’esperienza della fede dove, con Michel de Certeau, «la sola stabilità è spingere il pellegrinaggio più in là», alla ricerca di nuove vie di presenza e narrazione. Ma sembra difficile, quasi impossibile, trovarle. C’è ancora spazio per la «buona novella» cristiana nel mondo di oggi? Ci può essere ancora una domanda che non trova risposta in ciò che già c’è, o nelle promesse di un progresso della scienza, della tecnica, dell’economia nel quale si ripongono ormai tutte le speranze di salvezza?
Facciamo un passo indietro. Se il messaggio del Vangelo, la buona notizia dell’amore che salva e vince la morte, è arrivato fino a noi è perché ha saputo parlare al profondo del cuore degli uomini e delle donne lungo i venti secoli che ci hanno preceduti. Riuscendo così a ispirare il modo di pensare e di vivere di intere società. Questa forza che ha attraversato la storia si è fondata su almeno tre pilastri, che sono però oggi tutti soggetti a una profonda erosione, sotto la spinta di cambiamenti storico-culturali di enorme portata.
Il primo pilastro ha a che fare con lo spinosissimo nodo dell’onnipotenza. Prendendo le distanze dalle religioni che l’avevano preceduta - nelle quali la potenza del sacro si manifestava al di là di qualunque limite -, quella cristiana è sempre stata molto attenta a evitare di farsi schiacciare dall’onnipotenza di Dio. In questo modo, essa ha potuto garantire una scansione tra ordine religioso e ordine politico, aprendo una dialettica che nel corso della storia si è rivelata straordinariamente fruttuosa. È per il fatto impensabile di essere una religione in cui è Dio che si sacrifica per l’uomo - e non viceversa - che quella cristiana ha potuto essere grembo per l’affermazione della soggettività moderna. Persino Nietzsche ha riconosciuto che proprio «grazie al cristianesimo l’individuo acquistò un’importanza così grande, fu posto in modo così assoluto, che non lo si poté più sacrificare».
E tuttavia, come in altre epoche, anche oggi - dentro e fuori la Chiesa - questo «scandalo» evangelico fatica a trovare ascolto: come far capire all’uomo contemporaneo - affascinato dai miti dell’efficienza, della performance, della (onni) potenza tecnica o all’opposto attratto da una divinità a cui semplicemente sottomettersi - il significato liberatorio di un Dio che, con le parole di Hölderlin, «crea l’uomo come il mare la terra: ritirandosi»?
E che mostra la propria «potenza» incarnandosi in un bambino e facendosi appendere a una croce? Il secondo pilastro riguarda la salvezza personale, tema essenziale per ogni grande religione. Dio salva la vita di ciascuno. Nella storia del cristianesimo ci sono state, come è naturale, molte oscillazioni attorno a questo tema, in una continua tensione fra terra e cielo, corpo e anima. Con la modernità, come sappiamo, sul piano culturale il baricentro si è spostato dalla salvezza eterna al successo mondano, dalla cura dell’anima al benessere materiale. Di quale salvezza si può dunque parlare oggi, quando la tecnica arriva addirittura a immaginare di poter promettere l’«immortalità»? Il terzo pilastro tocca il tema della universalità.
La Chiesa ha sempre riconosciuto e coltivato la propria vocazione universale, consapevole della necessità di parlare a tutti. Condizione per essere chiesa, appunto, anziché setta, piccolo gruppo di duri e puri ripiegati su sé stessi e separati dal resto del mondo. Sappiamo che la relazione tra fede e ragione, ereditata dalla tradizione greca e latina, è stata di enorme importanza. Sin dall’inizio la Chiesa ha intuito che il proprio destino sarebbe stato legato a quello della ragione. Ma il problema è che nel corso degli ultimi secoli si sono modificati i termini stessi della questione. Da una parte, il restringimento alla sola dimensione strumentale (vero è ciò che è certo, e dunque ciò che funziona e realizza rapidamente le promesse) ha di molto diminuito la capacità della ragione di essere guida sicura all’agire umano. Diventata tecnica, l’ambito principio in cui la ragione sembra applicarsi è il problem solving e il suo obiettivo il superamento del limite, di ogni limite.
Così, ciò che oggi sembra unificare il mondo è il grande sistema tecno/economico che, con la sua neutralità etica e le sue pretese di controllo, vorrebbe rendere superflua la stessa questione religiosa. Ma è realistico un tale progetto? Dall’altra parte, se oggi, come dicono le stime dell’autorevole Pew Research Institute, su dieci abitanti della terra tre sono cristiani, cosa vuol dire pensarsi come «universali »? In un pianeta diventato piccolo, senza più terre da esplorare, ma dove le diverse tradizioni religiose - che pure si delocalizzano e si innestano un po’ dappertutto - hanno sedimenti ormai consolidati, come sviluppare il dialogo interreligioso?
Questione che a maggior ragione investe l’ecumenismo: quale ruolo il cattolicesimo romano può e deve giocare rispetto alle altre confessioni cristiane, numericamente più deboli ma custodi di ricchezze da rimettere in gioco, a vantaggio dei cattolici stessi e del mondo intero? In questa cornice, all’inizio del XXI secolo, la scommessa cattolica non è allora né quella di rincorrere qualcosa che starebbe davanti - la piena affermazione della modernità, con tutti i suoi successi - né di inseguire un sogno di restaurazione e rinnovata centralità - cullandosi nella nostalgia di un passato ormai perduto. Si tratta, piuttosto, di muovere i primi passi di una via nuova, recuperando la consapevolezza di avere qualcosa di inaudito da dire. Qualcosa che manca a questo tempo. Qualcosa di prezioso per il nostro futuro comune.
Etica. Pubblicato il ciclo di conferenze tenute a Friburgo dal 1920 al 1924
di Ermanno Bencivenga (Il Sole-24 Ore, 11.08.2019)
Triste è il destino dei grandi filosofi. Per capirli sarebbe necessaria una mente alla loro altezza, rara come una mosca bianca; di solito, rimangono ostaggio degli «studiosi» che in ogni occasione citano libro e versetto ma sul senso di quelle sacre scritture ne sanno quanto i sei ciechi della parabola su come è fatto un elefante. Ogni tanto compare all’orizzonte un altro grande filosofo, e capita pure, magari, che voglia dire la sua sul collega; ma le grandi menti hanno poco tempo per i dettagli altrui, impegnate come sono ad articolare i propri. E poi sono ambiziose: se parlano di un collega, è per usarlo come trampolino di lancio per i loro voli, come ombra sullo sfondo della quale far risplendere i loro bagliori.
L’Introduzione all’etica comprende un ciclo di lezioni tenute da Edmund Husserl nel 1920 e ancora nel 1924, a Friburgo, davanti a un pubblico d’eccezione che comprendeva Norbert Elias, Karl Löwith, Herbert Marcuse e Hans Jonas. Tratta il suo argomento storicamente, il che è insolito in Husserl, seguendo un percorso cronologico che va dai sofisti a Kant. Ci sono scelte idiosincratiche: Aristotele viene appena menzionato ma si presta attenzione ad Aristippo; nella modernità la Gran Bretagna è meglio rappresentata (con Hobbes, Locke, Hume e Mill) del continente europeo.
Ma il confronto più teso e sostenuto è con il personaggio culmine della vicenda: il saggio di Königsberg, al quale Husserl dedica in chiusura una quarantina di pagine ma la cui figura incombe su tutto il testo. Viene introdotto con rispetto: due interi paragrafi sono dedicati a un sommario di alcune parti della Critica della ragion pratica. E gli viene riconosciuto il grande merito di aver combattuto l’edonismo (definito «la negazione dell’etica»). Ma tali concessioni servono solo a indorare l’amara pillola: precedute da un minaccioso «Passiamo ora alla critica», gli vengono riversate contro le accuse più severe, senza appello. I suoi sono «meri concetti, significati morti, estranei agli atti della vita originariamente conferente senso»; le sue dottrine sono assurde, incomprensibili, fallimentari e perfino impensabili.
Qual è l’oggetto del contendere? Ce ne sono vari, ma accomunati da una cruciale differenza di tono. Kant ci consegna un mondo indeterminato e pericolante, in cui gli oggetti sono fragili aggregazioni di dati, tenuti insieme da misteriosi atti sintetici e pronti a disfarsi quando meno dovrebbero, o a esplodere in antinomie se facciamo troppe domande. In ambito etico, dichiara che è la ragione a dare ordini, ma la lettura dei nostri comportamenti alla luce delle sue ingiunzioni formali sarà sempre aperta al dubbio: potremo solo sperare di aver fatto la cosa giusta, la nostra perfezione morale va perseguita «con timore e tremore».
Husserl, invece, è pieno di certezze: basta che mi concentri sul contenuto della mia coscienza e «posso cogliere verità generali in una certezza assoluta, posso vederle in atti di una perfetta comprensione evidente». «Come sempre, solo l’indagine fenomenologica può fare chiarezza su tali questioni.»
Perché dunque porsi tanti problemi con le entità instabili, fenomeniche che popolano la nostra quotidianità? Non ci sono forse oggetti ideali, per esempio matematici, che possiamo cogliere con perfetta evidenza? E non è il bene un oggetto di questo tipo? Kant esitava a riconoscere uno statuto cognitivo indipendente alla matematica, e non aveva tutti i torti: qualche anno dopo queste lezioni di Husserl, il teorema di Gödel avrebbe dimostrato che delle teorie matematiche non siamo in grado di conoscere non dico la verità, ma neanche la coerenza.
Kant attribuisce il giudizio morale alla ragione, e per Husserl è «impensabile un volere che non abbia basi motivazionali» sensibili. Kant però lo sapeva, e infatti dice: «La legge morale contiene senza dubbio delle prescrizioni, ma non dei moventi; essa manca di quella forza esecutiva, che costituisce il sentimento morale». Basterebbe leggerlo. Che io sappia che cosa dovrei fare non implica che lo farò; posso solo sperare, dicevo, che l’educazione che ho ricevuto, la società che mi circonda e i sentimenti che entrambe mi hanno ispirato siano efficaci al proposito.
La bella sicurezza ostentata da Husserl ha fatto il suo tempo; oggi a darle credito sono rimasti pochi fedeli (e, si capisce, gli «studiosi»). Rimane il rimpianto per l’incomprensione e l’arroganza testimoniate in queste pagine e ingiustificate sulla base del reale rapporto tra i due filosofi. Lasciando al loro destino le sciocchezze di verità ideali percepite con assoluta evidenza, la fenomenologia ha fatto molto per sviluppare l’idealismo trascendentale, che Kant aveva iniziato e abbozzato ma non aveva completato. La faticosa costruzione dell’impianto «copernicano» continua in Husserl e nella sua scuola, con le incertezze e i dubbi che naturalmente le si accompagnano, ed è opera di innegabile valore. Se solo le grandi menti la smettessero di darsi addosso e imparassero a lavorare insieme!
L’EUROPA, “SOCRATE E ARISTOFANE", E “LE “REGOLE DEL GIOCO” DELL’OCCIDENTE ... *
Leo Strauss, i classici greci per capire il rapporto tra filosofia e politica
di Matteo Moca (Alfabeta-2, 14.07.2019)
«La nostra Grande Tradizione include la filosofia politica e perciò sembra garantirne la possibilità e la necessità. Secondo la medesima tradizione, la filosofia politica è stata fondata da Socrate. Dal momento che Socrate non ha scritto libri o discorsi, la nostra conoscenza delle circostanze in cui, o delle ragioni per cui, la filosofia politica è stata fondata, dipende interamente dai resoconti di altri uomini». Così, squadernando una questione di grande importanza e difficile soluzione, si apre l’introduzione che Leo Strauss scrisse per il suo Socrate e Aristofane, pubblicato adesso come primo volume - curato e introdotto da Marco Menon - della nuova importante collana “Straussiana” delle Edizioni ETS, diretta da Carlo Altini, Raimondo Cubeddu e Giovanni Giorgini, una collana che si propone, anche scorrendo i titoli che risultano in preparazione, di dare un nuovo e maggiore spazio editoriale a uno dei pensatori più importanti del Novecento. Socrate e Aristofane rappresenta certamente una summa del pensiero filosofico di Strauss, e dunque una privilegiata porta di accesso alla sua filosofia, per molteplici motivi: innanzitutto per l’andamento e la forma precisa e minuziosa dell’interrogazione del testo antico, che pare assecondare quel dialogo con gli autori che deve precedere la lettura dell’opera, ma anche perché l’analisi del testo di Aristofane mette in gioco i temi principali della sua riflessione, ovviamente riscontrabili nelle altre sue opere, come la relazione tra la filosofia e la politica, l’analisi della religione e il rapporto tra la politica e l’arte.
L’interesse per Aristofane e per i classici greci nell’orizzonte della ricerca sulla filosofia politica, come ricostruisce precisamente nella prefazione Marco Menon, diventa per Strauss sostanzioso a partire dalla fine degli anni Trenta: questa attenzione prende la direzione dell’analisi del rapporto tra Aristofane, Senofonte e Platone, come testimonia chiaramente una lettera di Strauss del 1947 che fa bene intendere su cosa si stia assestando la sua ricerca: «Sto studiando ancora la Repubblica. Penso che la querelle tra filosofia e poesia possa essere intesa nei termini di Platone; filosofia significa la ricerca della verità; [...] poesia significa qualcos’altro, ad esempio, nel migliore dei casi, la ricerca di un tipo particolare di verità». All’interno di questa discussione emerge la centralità della figura di Aristofane, perché Strauss rintraccia come il suo attacco a Socrate, rintracciabile non solo nelle Nuvole ma in molte delle sue commedie, si concentri proprio sulla questione della superiorità della filosofia o della poesia. Tentare di comprendere la centralità di Socrate nella filosofia politica, come emerge anche dal passo dell’Introduzione precedentemente citato, implica la lettura di Aristofane: via privilegiata per comprendere la vera natura di Socrate sarà il confronto tra il ritratto platonico e quello aristofaneo, l’autore del Simposio ammirava Socrate, Aristofane no, (l’attenzione di Strauss si concentra anche su Senofonte, che insieme a Platone e Aristofane conobbe Socrate di persona): si tratta però di uno studio che sottende un discorso al presente e non si limita solo allo studio dell’antichità. Su questo punto è preciso Strauss quando scrive di come, dopo gli attacchi di Nietzsche a Platone e a Socrate, il suo ritorno alle origini «è diventato necessario a causa della radicale messa in discussione di quella tradizione».
Socrate e Aristofane viene concluso da Strauss, dopo una lunga fase preparatoria e di studio, nel 1965, ma la sua pubblicazione è accolta con freddezza anche da parte dei suoi corrispondenti più stretti (Karl Löwith per esempio, a cui Strauss scriverà dopo aver ricevuto uno stringato commento: «La sua frase sul mio capitolo sulle Nuvole mi ha rallegrato molto: è quasi l’unica parola di incoraggiamento che ho sentito da molti anni! Ma non vorrebbe leggere anche gli altri capitoli?»), nonostante questo testo si concentri, come sottolinea Menon, sulla questione fondamentale della differenza tra physis e nomos, «che riveste un ruolo costruttivo per la filosofia stessa» e trascenda ben presto, pur nell’organicità della lettura, i testi di Aristofane per addentrarsi tra i sentieri speculativi a lui più cari, come la natura del teatro drammatico e il suo ruolo edificante, la dualità tra illuminismo e tradizionalismo, la vita nella città o l’imprescindibile ruolo della politica. -Strauss espone come le fonti platoniche e aristofanee su Socrate siano divergenti (Senofonte è invece considerato da Strauss come un testimone più solido in quanto continuatore delle storie di Tucidide): nei dialoghi del primo, Socrate è idealizzato ed è molto difficile distinguere nettamente ciò che Socrate ha pensato e quello che gli viene attribuito da Platone, utilizzando invece le Nuvole di Aristofane è possibile conoscere il Socrate presocratico, e cioè analizzare il passaggio dalla filosofia stricto sensu alla filosofia politica e dunque, ancora, andare a ricercare nei territori che sono alla base della disciplina filosofica.
La lettura di Strauss si articola in numerosi capitoli, ognuno dedicato a una delle commedie di Aristofane: attraverso una lettura filologica, in queste testi emergono alcuni temi centrali della filosofia di Strauss, come il discorso sugli dei, già precedentemente evocato, nella lettura di Uccelli, Rane e Pluto, dove Aristofane solleva problematiche centrali per la definizione della divinità, oppure la riflessione sul rapporto tra Atene e Gerusalemme, nome di uno dei suoi libri più importanti ma soprattutto metafora della scelta tra filosofia e Bibbia, tra due città sacre.
Lo spazio maggiore è dedicato a Nuvole, nonostante comunque ognuna delle commedie venga messa in relazione da Strauss con le altre, costruendo un vero e proprio studio organico sull’opera di Aristofane, perché Nuvole rappresenta il luogo centrale per l’indagine sul giudizio aristofaneo su Socrate. Attraverso questa dettagliata analisi, Strauss arriva alla conclusione, se di giudizi definitivi si può in questi casi parlare, che Aristofane si credeva superiore a Socrate, «in virtù della sua conoscenza di sé e della sua prudenza»: infatti, scrive Strauss, «se da una parte Socrate è totalmente indifferente nei confronti della città che lo mantiene, dall’altra Aristofane si occupa molto della città» e, ancora, se Socrate «non rispetta le necessità fondamentali della città, o non vi si attiene, dall’altra Aristofane lo fa».
La saggezza di Aristofane assume la sua forma attraverso la parola del poeta, sia esso comico o tragico: le sue commedie sono «il vero Discorso Giusto» che tratta le cose comicamente (questa la chiave utilizzata da Strauss, che anche in un lettera a Kojéve scrive di come il suo libro potesse divertire un filosofo: «Ho appena finito di dettare un libro, Socrate e Aristofane. Credo che qua e là le strapperà un sorriso, e non solo per le battute di Aristofane e le mie parafrasi vittoriane») e che, «presentando come ridicoli non solo gli ingiusti ma anche i giusti, riesce a far sì che la sua commedia sia totale». Solo in questa maniera e attraverso questo filtro a lui congeniale, è possibile tratteggiare ciò che altrimenti sfuggirebbe o trascenderebbe ogni possibilità.
* NOTA
LA LEZIONE DI NIETZSCHE - E DI DIOTIMA. Con Socrate ha inizio l’avventura dell’Occidente! Leo Strauss condivide con Nietzsche l’analisi, ma non riesce a portarsi oltre e a risalire la corrente! E la filosofia è ancora immersa, come denunciava Kant, nel suo profondo “sonno dogmatico” (cfr. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN)!
“NeÌla sua cecità e protervia, l’uomo Platone è l’incarnazione più propria del sogno “diabolico” di Adamo e della sua donna Eva: diventare “come Dio”. contro Dio stesso. I Greci sapevano. Platone sa di ciò che è avvenuto in tempi remotissimi, ma non ha la mente come da una sua battuta contro il grande Diogene di Sinope per comprendere (...) Il racconto è di Aristofane, nel Simposio, e, come si può vedere, ricalca abbastanza fedelmente il racconto biblico relativamente al prima e al dopo del peccato originale, e indica anche la via ... per restaurare I’antica natura. L’indicazione del Commediografo è più che chiara e non è affatto (non fraintenderlo, “non volgerlo al comico”, egli ripete a chi ascolta il suo discorso - noi abbiamo sempre sottovalutato le sue Nuvole, ma egli aveva visto molto bene che cosa Socrate stava preparando) una boutade. Platone non comprende nulla, stravolge e continua, con il suo Eros (avido, cieco e saettante) e con lasua filosofia, sulla strada del padre. Titanicamente, come Zeus, spaccato tutto in due, tenterà di rimettere insieme i cocci, con la forza - una storia di steminata e “incurabile” follia. Aristofane parla della nostra mente, della nostra anima e della nostra vita e Platone taglia e ricuce - a specchio, “divinamente” (...) (Cfr. L’EUROPA, LE “REGOLE DEL GIOCO” DELL’OCCIDENTE, E LA LEZIONE DI NIETZSCHE).
Federico La Sala
CAMBIARE IL MONDO, TRASFORMARE LA VITA. Desiderio di rivoluzione ... *
“Abbiamo bisogno di cambiare il mondo, ed è urgente”
di Rachel Kushner (Alfabeta-2, 30 giugno 2019)
Un mio amico di Milano, il primo italiano con cui mi è capitato di parlare di Nanni Balestrini, ha detto: “Nanni? Quando stava per essere arrestato, l’ho portato in macchina in val d’Aosta per aiutarlo a scappare. È passato in Francia con gli sci e io l’ho ripreso a Chamonix”. Con questo amico pensavo che avremmo semplicemente discusso la poesia di Nanni, la sua arte, i suoi romanzi. Forse la sua politica, non una vita in fuga. Ma la vita, e la politica, e l’arte, sono in qualche modo perfettamente fuse nello spirito di Nanni, per cui sentire che il mio amico lo aveva aiutato a salvarsi in Francia nel giro di vite dei tardi anni ’70 non avrebbe dovuto sorprendermi.
In realtà a colpirmi davvero è stata l’idea che Nanni sapesse sciare abbastanza bene da passare il Monte Bianco in sci. In seguito ho saputo che insieme a lui c’era un istruttore. Più volte con Nanni ho cercato di sapere di più su questo fatto, ma a Nanni non sempre piacevano le domande. Una domanda per lui era spesso una scorciatoia per la banalità. Quando l’ho incontrato la prima volta, l’ho subissato di domande sulle persone che aveva conosciuto, sulla sua scrittura, sulla politica dell’autonomia, ma lui mi ha posato una mano sul braccio e ha detto: “Ascolta, parliamo del vino da scegliere. Questo è un pranzo. Siamo a pranzo. Siamo in un ristorante. Comportiamoci da persone civili. Decidiamo cosa mangiare, cosa bere, magari parliamo del tempo. Il resto può aspettare”.
In quel pranzo, quando alla fine siamo arrivati a parlare di politica, è stato molto serio, e astuto, e si è concentrato sulla vita oggi, e sulla vita nel futuro, senza nostalgia, anche se non ha avuto esitazioni nel parlare del passato. Come mi ha detto in seguito, quando l’ho intervistato in modo più formale: “Più che nostalgico, mi considero fortunato per essere vissuto in un periodo straordinario e felice. Ma sarebbe insensato cercare in quel periodo qualcosa che anticipi o qualcosa che possa servire oggi, in una situazione completamente diversa quale è quella in cui ci troviamo, quarant’anni dopo. Tutto è diverso, tutto è cambiato. A servirci sono nuove idee, ed è un obiettivo sempre più difficile da raggiungere. Quegli anni ci offrono solo uno stimolo, o meglio un imperativo: che abbiamo bisogno di cambiare il mondo, e che questo è possibile, necessario, urgente”.
Quel giorno, dopo che abbiamo finito di mangiare, siamo andati nel suo studio per guardare i suoi lavori, i suoi libri. Diverse ore più tardi, mi ha accompagnato a piedi alla stazione. Ci siamo salutati al varco che possono superare solo i passeggeri muniti di biglietto. Ho continuato a voltarmi e Nanni era lì, fermo dove ci eravamo congedati. È rimasto finché il mio treno è arrivato e io sono salita. In qualche modo, in quel momento prolungato in cui lo osservavo fermo a guardarmi, sapevo che non lo avrei più rivisto e mi sono sentita molto triste, e insieme fortunata.
Nanni non ha mai risposto alla domanda per me più importante su Vogliamo tutto. Volevo saperne di più su Alfonso, la persona che ha ispirato quella voce. Ora, guardandomi indietro, non so bene perché lo considerassi così importante. Il punto, credo, è che non riuscivo a capire come Nanni avesse scritto un romanzo così perfetto, un’epopea che assume una voce che canta con tanta forza e comicità e rabbia, e tuttavia ci dà il senso di migliaia, di moltitudini di Alfonso. Chi era questo tizio, Alfonso, com’era davvero? In un certo senso, pensavo che leggere Vogliamo tutto significava immergersi nello spirito di quest’uomo speciale, il leggendario Alfonso. E più ne avessi saputo, più mi sarei calata in lui. Ma Nanni è stato molto cocciuto nel suo rifiuto di dirmi qualcosa su Alfonso. Ha detto: “Tu cerchi di costringermi a ridare ad Alfonso la sua individualità. Questo è l’opposto di quello che io volevo fare nel libro, dove lui non ha nome. Non posso farlo”. Pure, io mi stupisco all’idea che un imperativo artistico sia un imperativo assoluto. Per Nanni Balestrini, non c’è differenza e non c’è compromesso.
CAMBIARE IL MONDO, TRASFORMARE LA VITA....
BRILLANTISSIMO testo e brillantissima "testimonianza" di Rachel Kushner. La scrittrice statunitense, nata nel 1968, mette coraggiosamente il dito su un’operazione artistica e politica tragica: fa emergere ora (2019) ciò che era già chiaro allora, qualche anno dopo la sua nascita, nel 1971, quando fu pubblicato "Vogliamo tutto".
"QUARANTA ANNI DOPO", sollecitato dalla scrittrice, Nanni Balestrini a quanto racconta ( “Più che nostalgico, mi considero fortunato per essere vissuto in un periodo straordinario e felice. Ma sarebbe insensato cercare in quel periodo qualcosa che anticipi o qualcosa che possa servire oggi, in una situazione completamente diversa quale è quella in cui ci troviamo, quarant’anni dopo. Tutto è diverso, tutto è cambiato. A servirci sono nuove idee, ed è un obiettivo sempre più difficile da raggiungere. Quegli anni ci offrono solo uno stimolo, o meglio un imperativo: che abbiamo bisogno di cambiare il mondo, e che questo è possibile, necessario, urgente”) e, contro il suo stesso "cocciuto" rifiuto a rispondere alla domanda su "Vogliamo tutto" ("Volevo saperne di più su Alfonso, la persona che ha ispirato quella voce"), alla fine, è "costretto" ad aggiungere e ad ammettere: “Tu cerchi di costringermi a ridare ad Alfonso la sua individualità. Questo è l’opposto di quello che io volevo fare nel libro, dove lui non ha nome. Non posso farlo”.
La risposta è chiara, ma Rachel Kushner resta "ipnotizzata" e finisce per condividere: "Pure, io mi stupisco all’idea che un imperativo artistico sia un imperativo assoluto. Per Nanni Balestrini, non c’è differenza e non c’è compromesso"!!! E se, invece di Alfonso, "la voce" fosse stata di Rachel?! Dov’è l’imperativo assoluto e l’imperativo artistico di Alfonso e di Rachel - e quello di Adamo ed Eva, e di Maria e Giuseppe?! Ma che "Dio" era quello di Balestrini?! E che "Dio" è quello di Kushner?! E’ un "desiderio di rivoluzione" questo o che?! Boh e bah?!
P. S. Ricordando di Nanni Balestrini, non posso non ricordare anche di Primo Moroni. Sul tema, mi sia lecito, cfr. "CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. Relazioni chiasmatiche e civiltà. Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam).
“SMONTARE LA GABBIA”! USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”....
CONSIDERATO "[...] lo stato in cui versa attualmente l’antispecismo: se tale movimento sembra infatti aver chiaro quali siano la prima e l’ultima lettera del suo alfabeto - l’organizzazione ingabbiante delle logiche che regolano e perpetuano l’antropocentrismo e una società in cui tutti gli animali, umani e non umani, possano vivere liberi -, è però incapace di articolare le altre - discorsi e prassi che indichino, nella materialità della storia, come smontare le gabbie, simboliche e materiali, in cui, seppure con intensità e rigore variabili, tutti i viventi sono rinchiusi indipendentemente dalla specie di appartenenza [...]” E, ANCORA, CONSIDERATO CHE “In 1905, riferendosi alla discrepanza tra le previsioni del marxismo scientifico e le vicissitudini storiche contingenti che, saltando a piè pari la fase di presa del potere da parte della borghesia, avevano portato alla rivoluzione proletaria in un paese feudale come la Russia zarista, Trotskij scrive: “La prima lettera è presente, e così anche l’ultima, ma tutto il mezzo dell’alfabeto è mancante” [...]”, SPUNTA (non esplicitata) LA CONNESSIONE CON L’INVENZIONE DELLA “TAVOLA PERIODICA DEGLI ELEMENTI” di Dmitrij Ivanovič Mendeleev,
CREDO CHE SIA NECESSARIO E OPPORTUNO AMPLIARE L’ORIZZONTE e RICONSIDERARE DALLE RADICI la “«piramide dei viventi» che da secoli continuiamo a portarci dietro”, quella contenuta nel «Liber de sapiente» (Libro della sapienza), pubblicato nel 1509 da Charles de Bovelles (1479-1567)” (come sollecita Stefano Mancuso con Alessandra Viola, nel lavoro “Verde brillante”, Giunti 2015, p. 18 - e, non il vecchio “marxista” Lucio Colletti, nel suo famoso “Il marxismo e Hegel”, Laterza 1969)! E, ANCORA E SOPRATTUTTO, “SMONTARE LA GABBIA” DELLA SISTEMATICA DI LINNEO!
E, benché siano passati 160 anni dalla pubblicazione, nel 1859, dell’«Origine delle specie», l’opera fondamentale che Charles Darwin ci ha regalato per comprendere la vita sul nostro Pianeta (Stefano Mancuso, cit.), USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA TEOLOGIA MAMMONICA. CON KANT, E CON MARX, OLTRE ...
Federico La Sala
COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA. PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ... *
Politica.
Che cos’è il populismo? L’inganno della parte che vuole essere il tutto
Il politologo Yves Mény: le democrazie rappresentative si fondano sul popolo ma lo relegano a osservatore. Ma non c’è reale alternativa: un vero potere popolare finirebbe nelle mani dell’uomo forte
di Yves Mény (Avvenire, giovedì 20 giugno 2019)
Le democrazie sono al centro del desiderio politico. O almeno lo sono state per molto tempo e si sono identificate con la libertà, l’autonomia, l’auto-governo, con la vittoria della maggioranza e del numero sul singolo sovrano. La democrazia è, potremmo dire in sintesi, il desiderio della multitudine di sostituirsi al re, al dittatore o a un gruppo ristretto ma dominante, alle élites, alla casta, all’establishment. Ma la folla, le masse, l’aggregazione dei singoli, si trova di fronte ad un impasse, che nel mio recente libro pubblicato dal Mulino, Popolo ma non troppo ho denominato “malinteso democratico”.
Come unire infatti tutti questi atomi, attraversati da aspirazioni, interessi, emozioni cosi diversi da impedire loro di fatto di unirsi? Nel corso della storia molti sono stati i tentativi: ridurre, ad esempio, la dimensione territoriale della città per rendere possibile la conoscenza e l’unione di tutti. È il sogno greco, rivisto da Rousseau; ma non possiamo scordare la deriva delle colonie greche di Sicilia dove il despota finisce per incarnare il demos.
Una variante diversa è offrire una visione alternativa del popolo. È il realismo senza pietà di Hobbes dove il sovrano, sulla copertina del suo libro, è rappresentato da mille corpi di cittadini assorbiti, ingoiati e capovolti per dar corpo all’unità. C’è poi il sogno-incubo della rivoluzione russa di dare il potere a una classe unica al prezzo di eliminare qualche privilegiato; e c’è il realismo all’inglese che “inventa” il principio rappresentativo per incanalare le aspirazioni di molti nella fattibilità pratica del governo di pochi; e c’è la non meno realistica e fredda osservazione di Gaetano Mosca sull’ineluttabilità delle élites, la doccia fredda sul desiderio.
"Unirsi in un popolo" è il desiderio che continuamente si ripresenta di trasformare la diversità in una unità metafisica. «L’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani» constatava Massimo d’Azeglio; Eugen Weber descrive la trasformazione dei francesi di fine Ottocento «da contadini a cittadini»; Benedict Anderson evoca la nazione come «comunità sognata». Per farla breve, il “popolo” non smette di desiderare di diventare anche una realtà sociale e non soltanto un’utopia magica.
Purtroppo la contraddizione interna è sempre in agguato: il popolo come concetto è indispensabile per legittimare l’accesso al potere. Anche le dittature pretendono di governare in nome e per il bene del popolo. E questo popolo che le democrazie hanno posto sul piedestallo per poi relegarlo nel ruolo di osservatore degli atti dei governanti si rivolta sempre di più per far avverare l’utopia di Lincoln «Government of the people, by the people, for the people».
In altre parole, il popolo americano, ma anche tutti gli altri, fanno proprie le tre prime parole della costituzione americana «We the People...», che è una splendida frase per parlare di legittimazione, ma è una pia illusione quando si tratta di governare.
Si potrebbe ricordare la reazione di un francese chiamato ad approvare la costituzione scritta da Napoleone: «Che c’è nella costituzione?» E la risposta fu «Bonaparte»...
Non c’è alternativa alla necessità della rappresentanza: non vi è mai stato un “vero” potere popolare e se ci fosse si correrebbe il rischio di radunarsi di fatto sotto le ali di un uomo forte, di un salvatore. Dio ci salvi da questa fatalità! Il desiderio di sentirsi uniti in un popolo non è soltanto forte, inganna, inebria.
Qualunque gruppo può pretendere di essere il popolo anche quando si tratta di una parte di popolo molto ridotta, come quella che vota sulla piattaforma Rousseau o quando i Gilets jaunes che da sei mesi pretendono di essere il «popolo» prendono più o meno 1,5% dei voti alle elezioni europee. La parte pretende cioè di essere il tutto.
Ovviamente ci sono anche buone ragioni per portare avanti le proprie rivendicazioni perché il sistema rappresentativo è sempre (al meglio) il governo della maggioranza o, più spesso, appoggia su una minoranza sociologica trasformata in maggioranza politica grazie ai miracoli dei sistemi elettorali. La situazione non sembra particolarmente felice.
Ma bisogna essere lucidi: l’unanimità, che sulla carta sembra il sistema più rispettoso della volontà del popolo è un sistema “blocca-tutto” ed esiste soltanto nelle piccole tribù primitive, benché sia attivo anche là dove la ricerca del consenso si trasforma in molteplici veti incrociati: l’Italia ne sa qualche cosa...
Ricordiamoci che l’unanimismo sfocia nella dittatura e soprattutto nella dittatura delle menti. Il populismo, «l’ideologia del popolo» rischia quindi di essere una grande illusione e un inganno. Riconosciamogli però un merito: rimescola le carte e spesso pone fine a quello che il poeta Paul Eluard chiamava «il duro desiderio di durare».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER (E DI TUTTI I PAPI).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Lo scontro in atto tra la Weltdemokratie e il neofascismo
di Stefano Jorio (Alfabeta-2, 16 Giugno 2019)
Al Deutsches Historisches Museum di Berlino è aperta fino al 22 settembre la mostra «Weimar: l’essenza e il valore della democrazia». Con l’intento dichiarato di celebrare valori democratici oggi nuovamente in pericolo, la mostra racconta la storia della Repubblica di Weimar dalla sua nascita al successo elettorale del Partito Nazionalsocialista nel 1930: la storia di una Repubblica parlamentare progressista, democratica e tollerante, insidiata e poi abbattuta dalla destra autoritaria hitleriana. Questo quadro storico, assai semplificato, sembra indicare un doppio obiettivo di politica culturale da parte del museo.
«La democrazia liberale oggi non è più scontata ed è anzi in pericolo,» viene spiegato all’inizio del percorso. «Partiti autoritari vanno rafforzandosi anche in paesi di lunga tradizione democratica. Anche in Germania la fiducia nella democrazia liberale sembra diminuire.» Dopo avere diviso in due metà la storia della Repubblica di Weimar (prima e dopo il 1931, la fase progressista e la fase del collasso) i curatori annunciano che al pubblico verrà raccontata solo la prima parte: «i suoi inizi, le basi che pose nella politica e nella società, le idee e le azioni di chi costruì la prima democrazia tedesca. Con grande passione vennero allora negoziati compromessi, fu elaborato il diritto alla libertà e all’uguaglianza, furono avverate visioni sociali.» Foto e testi raccontano le campagne elettorali, le alleanze tra partiti, la disoccupazione e il riconoscimento sociopolitico delle donne; ricordano che la Repubblica istituì con faticosi compromessi l’assicurazione per i disoccupati ed emanò nel 1922 la Legge per la protezione della Repubblica che proibiva organizzazioni «ostili alla costituzione» e istituiva un tribunale speciale. La mostra spiega che giudici antirepubblicani usarono la legge con clemenza verso la destra eversiva e con severità verso i comunisti; menziona il grande successo nazionalsocialista alle elezioni del 1930 e ricorda Carl Von Ossietzky, caporedattore della «Weltbühne», condannato nel 1931 a diciotto mesi di prigione per aver denunciato il riarmo in corso (verrà arrestato nel 1933 dai nazisti e morirà dopo la detenzione in diversi campi di concentramento). A questo punto, conformemente a quanto annunciato, la cronaca degli eventi politici si interrompe; nelle sale finali viene illustrato il cosiddetto fermento culturale dell’epoca weimariana. La mostra ha evocato l’immagine di una democrazia viva ed entusiasta che soccombe alla violenza nazionalsocialista, ha raccontato la storia di una Repubblica inizialmente progressista, poi conservatrice e infine travolta dal successo della destra mistico-nazionalista e antidemocratica. È quanto potremmo l’obiettivo esplicito di politica culturale: evocare la Repubblica di Weimar per sensibilizzare il pubblico sul pericolo della situazione attuale e sul valore della democrazia.
Si tratta però di un’immagine parziale, perché nella Germania del primo dopoguerra anche i governi socialdemocratici sperimentarono soluzioni autoritarie. Fin dai suoi primi anni la Repubblica di Weimar - pur nell’entusiasmo progressista che diede voce alle donne e varò importanti misure sociali - vide l’antisemitismo rappresentato in parlamento, ebbe ministri antisemiti e si avvalse più volte dell’articolo 48 che sospendendo i diritti civili conferiva poteri eccezionali al Presidente. Nel 1919 il governo socialdemocratico di Scheidemann represse nel sangue la Lega di Spartaco facendosi aiutare dalle formazioni paramilitari dei Freikorps (Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg vennero uccisi dai sicari del ministro Noske).
«È bene non dimenticare,» ha scritto Giorgio Agamben, «che i primi campi di concentramento in Germania non furono opera del regime nazista, bensì dei governi socialdemocratici, che non soltanto nel 1923, dopo la proclamazione dello stato di eccezione, internarono sulla base della Schutzhaft migliaia di militanti comunisti, ma crearono anche a Cottbus-Sielow un Konzentrationslager für Ausländer che ospitava soprattutto profughi ebrei orientali.» La mostra sottace che l’autoritarismo hitleriano attecchì in un’epoca autoritaria, e che la classe dirigente della Repubblica di Weimar esprimeva già, nel suo insieme, un diffuso desiderio di governo forte. Il parlamento era stato sciolto tre anni prima che il presidente Hindenburg - uomo della destra conservatrice non nazionalsocialista - incaricasse Hitler di formare il governo; quella che venne chiamata “dittatura costituzionale”, apparentemente intesa a proteggere la Repubblica, fu in realtà la premessa del suo tramonto («nessuna costituzione della terra come quella di Weimar aveva così facilmente legalizzato un colpo di stato», poté scrivere Carl Schmitt).
Il Deutsches Historisches Museum di Berlino, nato nel 1987 per volere di Helmut Kohl, è il museo di storia nazionale della Germania. Viene attualmente amministrato e sovvenzionato con cinquanta milioni annui dalla Staatsministerin für Kultur und Medien, Monika Grütters, che risponde direttamente alla Cancelliera Merkel.
Le iniziative del museo sono dunque espressione immediata della politica culturale del governo tedesco che nel caso specifico di questa mostra evoca - grazie al parallelo storico - l’idea di una conflittuale ma autentica democrazia odierna che difende i diritti, vive del dibattito tra le parti, tutela i deboli e viene minacciata dalla nuova destra autoritaria come la democrazia liberale di Weimar fu minacciata (e poi distrutta) dal nazionalsocialismo. È l’obiettivo culturale implicito: opporre alla minaccia del neofascismo europeo il sistema aperto, tollerante e democratico della Weltdemokratie sorta a partire dagli anni Ottanta sull’alleanza tra il nuovo blocco industriale e i partiti di centro, i partiti conservatori e la socialdemocrazia. Questa rappresentazione lascia in ombra che anche l’odierna democrazia neoliberale, come la Repubblica di Weimar negli anni Venti, esprime dirette e genuine tendenze autoritarie.
Restiamo alla sola Germania. Nel luglio 2017 la legge bavarese sulla Gewahrsam Haft ha istituito - in una configurazione giuridica simile a quella realizzata dagli Stati Uniti a Guantanamo - una custodia cautelare prorogabile ad infinitum per ragioni di «pericolo incombente»; la riforma della polizia approvata nella stessa Baviera nel maggio 2018 consente di intercettare telefonate e aprire lettere senza autorizzazione della magistratura. Altri Länder tedeschi - tra i quali la Renania Settentrionale, la Bassa Sassonia e la Sassonia - intendono conformarsi alla normativa bavarese; la Sassonia-Anhalt e il Mecklenburg-Vorpommern hanno introdotto l’uso di cavigliere elettroniche per sorvegliare soggetti ritenuti «pericolosi» senza contestazione di reato né condanna. Dall’agosto 2018 sono attivi in Germania nove centri di «Arrivo, Distribuzione, Decisione ed Espulsione» definiti da più parti come campi di concentramento intesi a isolare i profughi dalla popolazione tedesca; alla società civile non è permesso entrare, i giornalisti in visita non possono restare soli con gli internati, tutto - anche le consulenze giuridiche - avviene sotto la regia delle autorità.
Nel luglio 2017 l’Oberlandesgericht di Amburgo ha tenuto in custodia cautelare per oltre quattro mesi un cittadino italiano accusato di «concorso psichico» al reato di disturbo della quiete pubblica (era puramente presente a una manifestazione di protesta durante la quale erano state lanciate pietre contro la polizia); il tribunale ha motivato la custodia cautelare con «lacune nell’educazione che in assenza di un percorso educativo lasciano sussistere il pericolo fondato di ulteriori reati».
Questa lista di cose tedesche rispecchia un processo globale. Al termine della sua fase progressiva, durata dal dopoguerra agli anni Settanta, la democrazia occidentale si è gradualmente evoluta in una forma politico-spettacolare in cui le funzioni storiche dello Stato nazionale, gradualmente dismesse, diventano funzioni di polizia interna e internazionale, e le tendenze autoritarie vengono giustificate con l’appello all’emergenza economica e alla sicurezza. Giorgio Agamben ha osservato e descritto in più libri questa configurazione politica nuova e ambigua, già legiferante, che in una crescente inerenza reciproca tra democrazia e totalitarismo moltiplica i campi di concentramento e sussume in toto la società civile sottoponendola alla sorveglianza economica, poliziesca e militare. All’estero conduce una guerra neo-imperialista globale permanente; all’interno prende le impronte digitali di tutti i cittadini, ha da tempo affidato al governo anche il potere legislativo, fa pattugliare le piazze dall’esercito (in Italia l’operazione «Strade sicure» è stata autorizzata dalla legge 125 del 24 luglio 2008) e si avvale del condizionamento subliminale nel quadro di un neo-consumismo di massa («La pubblicità è una droga, non per metafora, e gli spacciatori sono i media,» ha scritto Walter Siti).
Se da un lato la mostra al Deutsches Historisches Museum palesa lo scontro in atto tra la Weltdemokratie e i movimenti neofascisti, dall’altro indica che la democrazia neoliberale è cieca rispetto alle tendenze autoritarie diffuse ma anche a quelle tradottesi in legge nel corso degli ultimi decenni, tendenze che in Italia hanno reso possibile, ad esempio, il passaggio disinvolto di tanti elettori del Partito Democratico prima al “populismo” antiparlamentare del M5S, apertamente insofferente verso la funzione critica della stampa, e oggi a quello esplicitamente neofascista della Lega. Se i nuovi fascismi dovessero vincere lo scontro, procederanno sulla strada della militarizzazione, della sicurezza, dei campi di concentramento e del controllo totale. Rispetto a questo scontro, rispetto al pericolo di un regime autoritario esplicito, il governo centrista e socialdemocratico tedesco (di nuovo una Große Koalition, come negli anni Venti i due governi Stresemann e il secondo governo Müller) reagisce come reagirono i governi della Repubblica di Weimar e come sta reagendo l’ordine neoliberale europeo: senza la capacità o la volontà di ricondurre la marea montante della ribellione neofascista di massa a un clima politico già autoritario, e a un’attività legislativa che da decenni sospende i diritti fondamentali e smantella lo stato sociale riclassificando autoritariamente da vittima a parassita chi appartiene alle fasce più deboli della popolazione.
L’establishment tedesco guarda spaventato l’ascesa di un autoritarismo nazionalista sostenuto dagli strati più involuti della plebe e del ceto medio, ma non riesce a raccontare per intero la Repubblica di Weimar né il suo trapasso graduale, senza scosse, dalle misure di emergenza alla sospensione dei diritti, dall’autonomia decisionale del presidente al fascismo.
Federico La Sala
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEL SOLE DI ORIENTE E DI OCCIDENTE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Catechesi sugli Atti degli Apostoli: 3. «Lingue come di fuoco» (At 2,3). La Pentecoste e la dynamis dello Spirito che infiamma la parola umana e la rende Vangelo *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Cinquanta giorni dopo la Pasqua, in quel cenacolo che è ormai la loro casa e dove la presenza di Maria, madre del Signore, è l’elemento di coesione, gli Apostoli vivono un evento che supera le loro aspettative. Riuniti in preghiera - la preghiera è il “polmone” che dà respiro ai discepoli di tutti i tempi; senza preghiera non si può essere discepolo di Gesù; senza preghiera noi non possiamo essere cristiani! È l’aria, è il polmone della vita cristiana -, vengono sorpresi dall’irruzione di Dio. Si tratta di un’irruzione che non tollera il chiuso: spalanca le porte attraverso la forza di un vento che ricorda la ruah, il soffio primordiale, e compie la promessa della “forza” fatta dal Risorto prima del suo congedo (cfr At 1,8). Giunge all’improvviso, dall’alto, «un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano» (At 2,2).
Al vento poi si aggiunge il fuoco che richiama il roveto ardente e il Sinai col dono delle dieci parole (cfr Es 19,16-19). Nella tradizione biblica il fuoco accompagna la manifestazione di Dio. Nel fuoco Dio consegna la sua parola viva ed energica (cfr Eb 4,12) che apre al futuro; il fuoco esprime simbolicamente la sua opera di scaldare, illuminare e saggiare i cuori, la sua cura nel provare la resistenza delle opere umane, nel purificarle e rivitalizzarle. Mentre al Sinai si ode la voce di Dio, a Gerusalemme, nella festa di Pentecoste, a parlare è Pietro, la roccia su cui Cristo ha scelto di edificare la sua Chiesa. La sua parola, debole e capace persino di rinnegare il Signore, attraversata dal fuoco dello Spirito acquista forza, diventa capace di trafiggere i cuori e di muovere alla conversione. Dio infatti sceglie ciò che nel mondo è debole per confondere i forti (cfr 1Cor 1,27).
La Chiesa nasce quindi dal fuoco dell’amore e da un “incendio” che divampa a Pentecoste e che manifesta la forza della Parola del Risorto intrisa di Spirito Santo. L’Alleanza nuova e definitiva è fondata non più su una legge scritta su tavole di pietra, ma sull’azione dello Spirito di Dio che fa nuove tutte le cose e si incide in cuori di carne.
La parola degli Apostoli si impregna dello Spirito del Risorto e diventa una parola nuova, diversa, che però si può comprendere, quasi fosse tradotta simultaneamente in tutte le lingue: infatti «ciascuno li udiva parlare nella propria lingua» (At 2,6). Si tratta del linguaggio della verità e dell’amore, che è la lingua universale: anche gli analfabeti possono capirla. Il linguaggio della verità e dell’amore lo capiscono tutti. Se tu vai con la verità del tuo cuore, con la sincerità, e vai con amore, tutti ti capiranno. Anche se non puoi parlare, ma con una carezza, che sia veritiera e amorevole.
Lo Spirito Santo non solo si manifesta mediante una sinfonia di suoni che unisce e compone armonicamente le diversità ma si presenta come il direttore d’orchestra che fa suonare le partiture delle lodi per le «grandi opere» di Dio. Lo Spirito santo è l’artefice della comunione, è l’artista della riconciliazione che sa rimuovere le barriere tra giudei e greci, tra schiavi e liberi, per farne un solo corpo. Egli edifica la comunità dei credenti armonizzando l’unità del corpo e la molteplicità delle membra. Fa crescere la Chiesa aiutandola ad andare al di là dei limiti umani, dei peccati e di qualsiasi scandalo.
La meraviglia è tanta, e qualcuno si chiede se quegli uomini siano ubriachi. Allora Pietro interviene a nome di tutti gli Apostoli e rilegge quell’evento alla luce di Gioele 3, dove si annuncia una nuova effusione dello Spirito Santo. I seguaci di Gesù non sono ubriachi, ma vivono quella che Sant’Ambrogio definisce «la sobria ebbrezza dello Spirito», che accende in mezzo al popolo di Dio la profezia attraverso sogni e visioni. Questo dono profetico non è riservato solo ad alcuni, ma a tutti coloro che invocano il nome del Signore.
D’ora innanzi, da quel momento, lo Spirito di Dio muove i cuori ad accogliere la salvezza che passa attraverso una Persona, Gesù Cristo, Colui che gli uomini hanno inchiodato al legno della croce e che Dio ha risuscitato dai morti «liberandolo dai dolori della morte (At 2,24). È Lui che ha effuso quello Spirito che orchestra la polifonia di lodi e che tutti possono ascoltare. Come diceva Benedetto XVI, «la Pentecoste è questo: Gesù, e mediante Lui Dio stesso, viene a noi e ci attira dentro di sé» (Omelia, 3 giugno 2006). Lo Spirito opera l’attrazione divina: Dio ci seduce con il suo Amore e così ci coinvolge, per muovere la storia e avviare processi attraverso i quali filtra la vita nuova. Solo lo Spirito di Dio infatti ha il potere di umanizzare e fraternizzare ogni contesto, a partire da coloro che lo accolgono.
Chiediamo al Signore di farci sperimentare una nuova Pentecoste, che dilati i nostri cuori e sintonizzi i nostri sentimenti con quelli di Cristo, così che annunciamo senza vergogna la sua parola trasformante e testimoniamo la potenza dell’amore che richiama alla vita tutto ciò che incontra.
* PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 19 giugno 2019 (ripresa parziale).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?" (Luca 12:54-59). Una nota di Antonio Thellung, da"mosaico di pace"
Federico La Sala
L’EUROPA, LA COSTITUZIONE, E LA BANDIERA: LE RADICI CATTOLICHE DI MARIA ELENA (MADRE DI COSTANTINO) O LE RADICI CRISTIANE DI MARIA BEATRICE (MADRE DI DANTE)?! Al di là della trinità "edipica" e "mammonica" *
Europa.
Le radici cattoliche e mariane della bandiera dell’Unione Europea
Un saggio di Enzo Romeo ricostruisce la complessa genesi e la simbologia legata a Maria del vessillo di colore blu con il cerchio di dodici stelle, adottato dal Consiglio europeo nel 1955
di Edoardo Castagna (Avvenire, venerdì 14 giugno 2019)
Ogni identità ha bisogno di simboli ai quali guardare, per riconoscersi e per ispirarsi. Lo sanno bene i populisti di ieri e di oggi, che usano le identità come sciabole per dividere. In modo diametralmente opposto, tanto politicamente quanto moralmente, lo sapevano bene anche i padri fondatori dell’Unione Europea nella loro ricerca di una nuova identità capace di abbracciare, unire, includere.
L’identità europea si è costruita un poco alla volta negli ultimi sessant’anni e, anche se nell’ultimo periodo sembriamo a un punto di stallo, non possiamo non vedere quanto di grande e buono è stato fin qui costruito. Anche attorno ai simboli. Abbiamo un inno nella musica di Beethoven; e abbiamo una bandiera, ormai presenza famigliare sulle facciate degli edifici pubblici - e non solo, come le ultime elezioni europee hanno dimostrato: non pochi balconi hanno visto esporre il drappo azzurro con le dodici stelle.
Alla storia di questa bandiera ha dedicato il suo ultimo saggio Enzo Romeo (Salvare l’Europa. Il segreto delle dodici stelle; Ave, pagine 190, euro 12,00), nel quale la ricostruzione dei passaggi che portarono le istituzioni europee alla scelta definitiva si accompagna alla riscoperta del retroterra imprevisto che agì sui suoi creatori. Il disegno finale è attribuito a un lavoro collegiale, nel quale tuttavia spiccano i contributi del direttore dell’Ufficio d’informazione e stampa del Consiglio d’Europa, Paul Michel Gabriel Lévy, e soprattutto di Arsène Heitz, impiegato dell’Ufficio e autore di diversi bozzetti per la bandiera comune - tra i quali, con poche modifiche, quello infine adottato.
Cattolico e assai devoto alla Madonna, Heitz lavorò su simboli in apparenza del tutto laici: eppure l’azzurro, le dodici stelle come quelle della “medaglia miracolosa” che commemora le apparizioni mariane di rue du Bac a santa Caterina Labouré nel 1830, e che Heitz portava sempre con sé... una simbologia mariana agì, forse più come “mano invisibile” che come ispirazione cosciente, almeno fino a quando, molto più tardi, lo stesso Heitz non la esplicitò, forse prendendone consapevolezza egli stesso: «Mi sentii ispirato da Dio - avrebbe confidato Heitz a padre Pierre Caillon nel 1987, poco prima di morire - nel concepire un vessillo tutto azzurro su cui si stagliava un cerchio di stelle, come quello della medaglia miracolosa. Cosicché la bandiera europea è quella di Nostra Signora».
Quello di Heitz, d’altra parte, non fu l’unica delle proposte a contenere richiami alla simbologia cristiana, anche più espliciti: per esempio, l’austriaco Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi, fondatore nel 1922 dell’Unione Paneuropea, suggerì un drappo blu con una croce rossa cerchiata di giallo; lo stesso Heitz propose una croce rossa in campo verde. Il verde fu tra i colori più ricorrenti nelle prime bozze: il francese Robert Bichet lanciò l’idea di quindici stelle verdi su campo bianco, il Movimento federalista europeo chiedeva che fosse adottato direttamente il proprio emblema, una “E” verde su campo bianco. Il blu fu comunque il colore più proposto, così come le stelle ebbero facilmente la meglio su altri simboli come i cerchi (un bozzetto a cerchi intrecciati fu bocciato perché ricordava troppo, a detta della commissione, una catena o la bandiera olimpica, se non addirittura la ghiera di un telefono...).
Le dodici stelle disposte a cerchio su fondo blu furono adottate dal Consiglio d’Europa (la bandiera identifica tanto questa istituzione quanto la successiva Unione Europea) nel 1955, con argomentazioni apparentemente anodine: il blu è quello del cielo dell’Occidente, le dodici stelle rappresentano tutti i popoli d’Europa nella loro diversità, il cerchio la loro unità. -Nessun riferimento, nei documenti ufficiali, a richiami mariani: ma, come nota giustamente Romeo, in questi casi «bisogna procedere su un piano assolutamente aconfessionale, evitando polemiche di sapore religioso o ideologico. Non si tratta di nascondere ipocritamente i segni della propria fede, ma di proporli su un piano universale, perché in questo caso essi trascendono l’appartenenza a una Chiesa e si trasformano nell’allegoria di un quadro valoriale comune». E, in effetti, ormai per mezzo miliardo di persone quelle stelle in campo blu hanno acquisito un po’ il colore di casa.
Anche se di una casa ancora in costruzione.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. In memoria di Kurt H. Wolff.
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
Federico La Sala
LA TRINITA’ DI ADAMO ED EVA O LA TRINITA’ DI GIUSEPPE E MARIA?! Al di là della Trintà edipica....*
La Trinità
di José Tolentino Mendonça (Avvenire, domenica 16 giugno 2019)
Come si rappresenta il mistero? Noi ci accostiamo a esso a tastoni, consapevoli che i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre immagini vacillano e arrivano appena a intravvederne, poveramente, la realtà. Ma questo nostro tentativo di approssimazione costituisce comunque un importante patrimonio di fede.
Pensiamo ad Andrej Rublëv: siamo nella seconda metà del XV secolo quando egli crea quella che sarà la più celebre icona della Trinità. Il testo biblico soggiacente (Gen 18,1-15) è quello dell’ospitalità che Abramo offre ai tre personaggi celesti che lo visitano. Nella contemplazione di questa stupenda icona della Trinità, l’orante viene condotto al centro del mistero di Dio.
In effetti, ciò che vien lì focalizzato è il Dio unico, un solo Dio con la stessa natura divina in tre persone. I tratti fisionomici coincidono esattamente, come se fosse la medesima figura mostrata per tre volte, anche se in tre posizioni differenti.
I personaggi hanno lo stesso volto, lo stesso atteggiamento del corpo, le stesse ali. Inoltre, tutti hanno in mano uno scettro e posseggono un’aureola per indicare eguali dignità e regalità.
Ciascun personaggio, però, occupa una posizione differente nello spazio e sono diversi i gesti, i colori degli abiti e il gioco degli sguardi.
Il Padre, da cui proviene ogni benedizione, guarda all’umanità attraverso il Figlio. E il Figlio guarda a noi attraverso lo Spirito Santo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MARGINI della filosofia. Intervento libero. In memoria di Jacques Derrida...
Siccome orientarsi nell’infinito è un problema meta-fisico e costituzionale, e - dopo Kant e la sua "rivoluzione copernicana" - non sappiamo ancora distinguere "dewey"anamente tra "prima di Cristo" e "dopo Cristo", tra Tolomeo e Copernico, tra il tutto e la parte, tra antropologia e andrologia - e ginecologia, tra Italia e "Italia", tra Costituzione e Partito, tra forza Italia e "Forza Italia", mi è sembrato opportuno fornire un piccolo banale (comune!) elemento per uscire dal sonnambulismo e dalla confusione! Siamo o non siamo "Dopo Dewey" !? O no?!
P. S. - SUL TEMA, MI SIA CONSENTITO, SI CFR.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
Federico La Sala
Solo alla psicoanalisi sta a cuore il senso della sofferenza mentale
CONVEGNI. L’efficacia incompresa dell’orientamento psicodinamico. «L’efficacia della psicoterapia psicoanalitica nei contesti di cura»: il 7 a Roma
di Francesca Borrelli (il manifesto, 06.06.2019)
Da anni, ormai, della sofferenza mentale si è impossessato un ingegnoso mercato, che punta sulla idealizzazione delle neuroscienze e sugli effetti delle terapie cognitiviste, entrambe perfettamente sintonizzate con l’individualismo contemporaneo e il tempo della fretta. La cacciata in esilio del senso ha colonizzato il senso comune: non è un gioco di parole, è precisamente quanto è avvenuto in coincidenza con ciò che Alain Ehrenberg chiama, nel suo ultimo libro - La meccanica delle passioni (Einaudi, 2019) - l’avvento di un uomo nuovo: «l’uomo neurale».
ANCHE A CHI non sia un cultore di Freud è evidente come ciò che ci identifica non è il nostro cervello, bensì ciò che facciamo della nostra esistenza. In questo contesto, notava nel 2015 Miguel Benasayag, quel che spesso si nasconde dietro gli attacchi alla psicoanalisi non è ascrivibile alle sue lacune, ma è piuttosto frutto delle sue virtù: sembra che a venire soprattutto rifiutata sia infatti, la «dimensione tragica» della cura analitica, quel contatto del singolo con il mondo in cui risuona l’eco hegeliana di una teoria della storia secondo la quale gli individui, pur dedicandosi alle loro attività e perseguendo fini egoistici servono, sebbene inconsciamente, un comune disegno di emancipazione. L’universo dell’uomo contemporaneo - scrive ancora lo psichiatra argentino - si ferma invece ai confini del corpo. Eppure, nemmeno quando si limita a un fenomeno fisico, il dolore si esaurisce, in realtà, in un impulso nervoso: la sua percezione dipende, infatti, dalla diversa griglia interpretativa che ha in dotazione ciascun individuo. Detto altrimenti, non esiste dolore che preceda il senso.
A dispetto di questa evidenza, Anna Maria Nicolò, attuale presidente della Spi, introdurrà il convegno L’efficacia della psicoterapia psicoanalitica nei contesti di cura (promosso dalla Società Psicoanalitica Italiana, dalla Associazione Italiana Psicologia Analitica, e da Soci Italiani European Federation for Psychoanalytic Psychotherapy) il 7 giugno all’Università La Sapienza di Roma, sottolineando come «la psicoterapia sta praticamente sparendo dalle istituzioni e l’approccio psicodinamico, che aveva tanto bene orientato la prevenzione, la diagnosi e la cura nei consultori, nelle équipe mediche psicopedagogiche delle scuole, nei centri di salute mentale e negli ospedali, viene relegato a settori o a operatori rari e isolati».
ORMAI ALMENO due generazioni di psichiatri sono stati allenati a ignorare la ricorsività intrinseca a giochi linguistici che, se interpretati, potrebbero aiutare sensibilmente molti dei loro pazienti, trattati invece farmacologicamente sulla base di un investimento di interessi sul cervello piuttosto che sulla psiche.
Nel denunciare la illusoria prassi di sbarazzarsi dei sintomi schizofrenici trasferendoli sui farmaci, il grande psicoanalista inglese Christopher Bollas ha parlato di «incarcerazione psicotropa», identificando nella medicalizzazione vigente una minaccia alla dimensione umana. Per molti aspetti, infatti, sintomo e persona sono tutt’uno. «Di fatto - scrive Bollas - l’idea che i disturbi mentali possano essere risolti tramite un intervento neurologico è un errore categoriale ridicolo quanto lo è confondere un programma radiofonico con la radio stessa».
Da che la ricerca empirica ha ormai dimostrato l’efficacia dei trattamenti analitici, ciò che è in gioco - dirà Antonello Correale al convegno - è «capire come e per chi il trattamento analitico funziona e chiarire quali siano i fattori terapeutici realmente attivi». La psicoterapia a orientamento dinamico ha rivelato la sua particolare efficacia nel trattamento della depressione, «inesorabile contropartita dell’uomo che si pretende sovrano» ha scritto Ehrenberg, in un saggio ormai famoso, La fatica di essere se stessi, che analizza questa «malattia della responsabilità» come tipica di dinamiche sociali dove il conflitto non è più fra ciò che è permesso e ciò che è vietato, bensì tra ciò che è possibile, ovvero alla nostra portata, e ciò che è inaccessibile, sebbene propagandato come dipendente dalle nostre capacità autoimprenditoriali.
AL CONVEGNO che avrà inizio venerdì, Antonello Colli si incaricherà di riassumere le critiche più frequenti alle terapie psicoanalitiche: «non sono validate empiricamente; laddove esistano prove empiriche l’efficacia delle terapie psicoanalitiche è modesta se paragonata ad altre terapie evidence based; sono eccessivamente e inutilmente lunghe e costose». Ma «mettere in atto una valutazione psicodinamica in età evolutiva, significa - farà notare Mirella Galeota - sostare senza fretta a osservare e interrogarsi sulla persona intera del paziente, non solo sul disturbo o sull’organo o la singola funzione... Valutare psicodinamicamente un minore significa utilizzare il metodo psicoanalitico che è il solo che consente di stare con propria mente in relazione con la mente dell’altro».
Scarto/Jullien, L’identità culturale non esiste
di Mario Porro (Doppiozero, 27 Agosto 2018)
L’Occidente ha scoperto l’esigenza di dialogare con le altre civiltà da quando non è stato più in grado d’imporre con la forza la propria ragione. Ha giustificato il suo predominio con il possesso di valori assoluti come i diritti umani, che pretende di incarnare e che si sente in obbligo di diffondere. Crede che questi principi universali debbano venire accolti da ogni essere dotato di ragione, ma questa ragione è in realtà lo specifico risultato della sola storia intellettuale europea, come lo è la nozione stessa di universale. Il filosofo e sinologo François Jullien ha mostrato ne L’universale e il comune (Laterza) come allo sguardo genealogico tale nozione riveli una stratigrafia composita ed eterogenea. Il pensiero filosofico greco affida al logos la conquista di una verità stabile; con Socrate si cerca attraverso il dialogo una definizione su cui tutti possano concordare, l’autentico sapere che coglie la realtà “secondo il tutto” (kath’olou). Abbandonando il singolare della sensazione, lo spirito insegue il concetto che restituisca il quid che si ritrova identico in tutti gli esempi di Virtù o di Bellezza, l’essenza invariabile sotto la variazione empirica. Per compensazione, spetterà alla letteratura (o alla filosofia che si modella su di essa, in Kierkegaard o in Nietzsche) recuperare l’individuale che l’universale ha tralasciato, evocando un’emozione e raccontando l’ambiguo che è inerente alla vita e che sfugge all’astrazione del concetto.
Al precetto logico greco si è aggiunta l’istanza giuridica; la cittadinanza della Roma antica non deriva né dal suolo né dal sangue, non dipende dalla patria geografica, naturale, dove cioè si è nati, ma dall’istituzione politica cui si partecipa. Alla religione cristiana dobbiamo il terzo strato su cui si é sedimentata la nozione di universale. “Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna”, scrive san Paolo, le differenze si dissolvono nell’abbraccio dell’amore divino, nella fratellanza in Cristo. La modernità ha sviluppato l’istanza dell’universale prendendo come riferimento primario la scienza; alla verità conquistata dalla dimostrazione matematica, ereditata dai Greci, si è aggiunta la conoscenza oggettiva della fisica.
Alla legislazione che governa il mondo naturale Kant fa corrispondere l’universalità e necessità dell’imperativo categorico: considerare ogni uomo come fine e non come mezzo è una massima che ogni soggetto razionale è chiamato ad accogliere e mettere in pratica in qualsiasi circostanza. Delle pretese di universalità dei propri valori l’Occidente ha fatto un’arma ideologica per imporre la propria egemonia: il locale, come la rana dell’apologo, si è gonfiato fino a saturare e cancellare le differenze, ma il frutto avvelenato nel mondo globalizzato (la Cina lo testimonia) non è stata la diffusione dei diritti umani, ma quella perversione dell’universale che è l’uniforme. Quest’ultimo non dipende dalla ragione, ma dai meccanismi della tecnologia applicati alla produzione e al consumo, è soltanto lo standard che si produce a costi minori e conquista il mercato.
In realtà, non esistono concetti che siano immediatamente universali, a priori fondativi sotto i quali si potrebbe disporre tutta la varietà delle culture e del pensiero. Kant, a compimento della Ratio illuministica, poteva ancora classificare nella tavola delle “categorie” le nozioni (sostanza, causalità, ecc.) senza le quali non sarebbe possibile pensare e conoscere. Ma quei concetti non trovano rispondenza nella lingua-pensiero cinese, come Jullien ha mostrato nei suoi scritti, a partire da Processo o creazione (Pratiche, 1991), fino ai più recenti Parlare senza parole. Logos e Tao (Laterza) e Essere o vivere (Feltrinelli). -L’etnocentrismo ci porta a immaginare che tutte le culture siano chiamate ad accogliere la nostra Verità (nozione anche questa che la Cina ha ignorato), come un tempo credevamo - lo illustra l’Agnello mistico dei Van Eyck nella cattedrale di san Bavone a Gand - che i rappresentanti delle altre religioni accorrono per onorare il mistero cristiano. Più che universali, ricorda Jullien, esistono universalizzanti, cioè ideali mai appagati, ribelli, regolatori (nel senso dell’idea kantiana) che inducono a spingere sempre più in là l’orizzonte, a non soddisfarsi di quanto raggiunto.
Proprio questo tipo universale, ideale mai raggiunto, bisogna rivendicare perché si possa promuovere la condivisione di quanto è comune fra le civiltà. È questa la condizione che rende possibile alle culture di rimanere aperte, pronte a rielaborarsi e disponibili a cambiare, cioè a restare vive. In caso contrario, quando si ripiegano sulle proprie “differenze” e si compiacciono di quella che ritengono la propria “essenza”, le civiltà trasformano i propri valori in frontiere, pronte a escludere gli altri.
Forse ispirandosi al principio confuciano per cui prima regola di un pensatore è “rettificare i nomi”, Jullien segnala nel recente L’identità culturale non esiste (Einaudi) che per porre le basi di un possibile dialogo fra le civiltà occorre in primo luogo affrontare la loro varietà in termini di scarto e non di differenza. La sorte della differenza è strettamente legata all’identità all’interno della quale opera una distinzione: è grazie alla differenza, spiega Aristotele, che possiamo definire e identificare; per determinare l’essenza dell’uomo dovrò indicare il genere prossimo cui appartiene (animale), e poi la differenza specifica (razionalità).
Lo scarto, invece, opera nell’ambito della distanza e così ci fa uscire dalle tipologie, dalle consolatorie caselle definitorie. Se nella differenza, una volta fatta la distinzione, ognuno dei due termini dimentica l’altro e resta chiuso nel proprio specifico, nello scarto la distanza mantiene i due termini in tensione lasciando aperta la ricchezza del confronto. Lo scarto è una figura avventurosa, disturba e ridà slancio al pensiero, consente di esplorare e di far emergere squarci su possibilità inattese; questo perché rende visibile il tra che si apre fra termini che, invece di ripiegarsi su se stessi, restano rivolti verso l’altro. L’orrore del pensiero greco e cristiano per l’indeterminato ha impedito di considerare il non-luogo che si stende fra, dove ciascun termine è spossessato del suo in sé e delle sue “proprietà”.
Non sapendo pensare il “tra”, metaxu, l’Occidente ha pensato l’“al di là”, ha inventato l’altro piano della realtà, “il mondo vero” (Nietzsche), il meta della metafisica. Per lo stesso motivo, ha pensato la relazione fra i due termini sotto forma di conflitto e ne ha prospettato, in Hegel, il superamento dialettico solo in vista della conciliazione degli opposti, dove il terzo sintetizza entrambi in una nuova determinazione. Lo scarto ci porta a uscire dalla prospettiva identitaria, non dà luogo alla conoscenza tramite classificazione, ma fa emergere risorse insospettate.
Siamo eredi del mito di un’unità culturale originaria a cui sarebbe seguita la diversificazione: la maledizione divina ha punito la presunzione umana facendo sorgere la proliferazione babelica delle lingue. Ma solo Babele è l’opportunità del pensiero, ricorda Jullien. Se fossimo costretti a parlare tutti un unico idioma, il globish dell’inglese mondializzato, perderemmo gli scarti fecondi che si aprono tra le lingue, diremmo addio alle loro rispettive risorse; finiremmo per pensare con gli stessi concetti standardizzati, scambiando per principi universali sterili stereotipi. Sfuggire alla logica della differenza significa riconoscere che non esiste l’identità di una cultura, un insieme di proprietà che ne fissi per sempre l’essenza; ogni cultura è sempre eterogenea al proprio interno, include dissensi e divergenze, si modifica singolarmente in base alle scelte dei partecipanti.
Abbiamo smarrito l’ideale dell’unione europea sognando di poterne definire l’identità, in cerca di “radici” cristiane o greche: ma ciò che fa l’Europa è proprio il fatto di essere al tempo stesso cristiana e laica, di essersi sviluppata nello scarto tra la ragione e la religione, tra la fede e i Lumi, nella tensione che ha ravvivato entrambi. Le risorse si alimentano vicendevolmente e non si escludono. Non sono da esaltare o predicare, sono a disposizione ma non ci appartengono e l’unico modo per difenderle è attivarle e promuoverle, non proclamarsene sostenitori. Come il guardiano alla porta della Legge nella parabola di Kafka, al massimo si può essere custodi della verità, mai possessori. Conosciamo bene, nell’Europa dell’Est come a casa nostra, i tanti difensori della civiltà cristiana pronti a cancellare il tratto saliente della religione di cui ostentano i simboli, la pietà verso gli ultimi e la misericordia.
Fra le risorse che l’Europa ha attivato, Jullien ricorda in primo luogo la promozione del Soggetto: non dell’individuo ripiegato sull’io, ma del soggetto che introduce la sua iniziativa nel mondo, vi porta un progetto che mira a forzare gli ostacoli che la realtà oppone. In tal modo, l’io si strappa dalla condizione presente, prende distanza dal mondo, comincia propriamente a “esistere” (ex-sistere). La cultura mira a promuovere il soggetto portandolo a debordare dalla chiusura del suo io e nel contempo a evitare l’integrazione in un mondo; a tirarsi, di conseguenza, “fuori” (ex) da un asservimento per sbloccare una libertà. Anche il cristianesimo ha contribuito alla promozione esistenziale dell’umano, per aver imposto il superamento della Legge attraverso l’amore e per aver dispiegato la coscienza come istanza intima del soggetto. È l’Occidente ad aver promosso quella risorsa, etica e politica, che è la libertà del soggetto, da cui la democrazia ha tratto la sua legittimità: la democrazia consiste innanzitutto nel trattare gli altri come soggetti o, meglio, nel promuovere una comunità di soggetti. -Analogamente, dobbiamo ai Greci, a Platone in particolare, quell’altra risorsa, ignota alla tradizione cinese, che Jullien ha indicato come “l’invenzione dell’ideale” (L’invenzione dell’ideale e il destino dell’Europa, Medusa, 2011): la mente si pone in scarto rispetto al dato, immagina possibilità nuove, promuove un “ideale” che diventa l’oggetto a cui si aspira. Questa vocazione a modificare il presente, quella che ha promosso l’impulso alla rivoluzione, in arte come in politica, appare oggi una risorsa esaurita, nei tempi che diciamo post-ideologici ma che appaiono semplicemente post-ideali.
All’opposto del “narcisismo delle piccole differenze” che si richiude gelosamente su identità immaginarie, gli scarti fanno uscire le culture dal solco della tradizione, impegnano il pensiero nell’avventura, lo costringono a evitare le strade battute per tracciare possibili accessi all’impensato. Se la differenza isola le culture e le “essenzializza”, rinchiudendoci nel vicolo cieco dell’universalismo o del relativismo, soltanto lo scarto, tenendo in tensione ciò che ha separato, può produrre il comune. Nel tra aperto dallo scarto ognuno dei due elementi smette di bastare a se stesso, oltrepassa il muro che teneva a distanza, senza lasciarsi assorbire: il comune non è il simile, integrazione non significa assimilazione. La ricchezza di una comunità si misura dalla capacità di compiere degli scarti al proprio interno e di mantenere un comune condiviso, non in nome di un’“identità multipla”, né in nome della tolleranza, dove ognuno insiste sui propri valori e sulle proprie convinzioni. Com-munis indica nel suo etimo ciò che viene condiviso, ma rimanda al dono e al munus (obbligo), implica cioè una reciprocità nel dono. Jullien ritrova per altre vie quella corrente del pensiero contemporaneo (in cui possiamo iscrivere Jacques Derrida, Jean-Luc Nancy, Roberto Esposito) che, dall’originaria reciprocità del dono-debito, intende demolire l’immagine di soggetti compiuti che vivono la comunità in termini di ripiegamento identitario, pronti ad escludere e s-comunicare.
Il comune dell’umanità non è un elemento dato, ma un’operazione mai conclusa; consiste, suggerisce Jullien, nella possibilità di comunicare e condividere, di circolare attraverso intelligibilità diverse per fare emergere una co-erenza (non una verità), cioè letteralmente quel che si tiene insieme nel pensiero. Il comune non dipende da regole o da un fondamento, non procede da vincoli normativi, è una risorsa inesauribile, un capitale da sfruttare, muovendo dal presupposto per cui qualsiasi cultura è intelligibile. Apel e Habermas hanno indicato il comune fra culture nel trascendentale della comunicazione, nelle condizioni che rendono possibile un discorso argomentato fra interlocutori. Ma in realtà questa comunità che si affida alle regole implicite alla discussione sorge sui presupposti tipici dell’Occidente, che la parola abbia senso (dica qualcosa), che si rispettino le modalità logiche ed etiche dell’argomentazione (filosofica). La parola confuciana però non ha pretesa di verità, mira a incitare, fornisce indizi per mettere sulla via; le parole del maestro possono variare, fino alla contraddizione, a seconda del momento e delle opportunità.
Il protocollo dialogico non si ritrova in quelli che impropriamente chiamiamo Dialoghi di Confucio, dove fin dall’inizio è scartata l’idea di una reciprocità fra interlocutori come quella simulata in Platone. L’etica della comunicazione proposta da Habermas mira a generare un consenso, inducendo l’ascoltatore ad accettare l’istanza di verità di quanto è detto. Di nuovo, Confucio e ancor più i testi taoisti ci liberano dalla morsa delle regole dell’argomentazione, mostrando come ci si possa comprendere senza dirsi niente (“parlare senza parole”) e come l’obiettivo non sia con-vincere l’altro, nella speranza di vincere insieme.
Anche il dialogo, ha spiegato Jullien, è una risorsa promossa dall’Occidente. Si modella sullo scontro degli opposti, sulla battaglia campale che vede gli avversari porsi faccia a faccia, duello eroico di parole in vista della decisione, in assemblea o nel tribunale. La Cina, al contrario, privilegia il procedere obliquo, il discorso che non dice in modo esplicito ma suggerisce, così come in battaglia evita lo scontro frontale a favore dell’azione indiretta. Il termine dialogo non è storicamente senza macchia. E non solo perché oggi l’Occidente lo rivendica dopo aver perduto la forza per imporre i suoi valori “universali”, ma anche perché cela l’aspirazione a un (falso) irenismo o l’ipocrisia di un falso egualitarismo.
Dia, in greco, esprime al tempo stesso lo scarto e l’attraversamento, mentre logos indica il comune dell’intelligibile che è, paradossalmente, la condizione e al contempo lo scopo del dialogo stesso. Un dialogo è una lenta avanzata in cui, con tempo e pazienza, le rispettive posizioni si scoprono reciprocamente e lentamente elaborano le condizioni che renderanno possibile un incontro effettivo. Il dia-logo fa emergere progressivamente un ambito di intelligenza condivisa in cui ognuno può cominciare a comprendere l’altro. Ma il dialogo può svolgersi soltanto nella lingua di entrambi, ovvero nel tra aperto dalla traduzione: la traduzione deve essere la lingua del mondo per poter attivare le risorse delle diverse lingue-pensieri. La traduzione lascia infatti emergere la difficoltà, il carattere non definitivo, sempre in fieri e mai compiuto del dialogo, ma permette anche di vedere un comune della comprensione che si elabora tra le civiltà. Solo così il soggetto a venire potrà non essere più assoggettato: prigioniero di una verità particolare, che si enuncia in modo dogmatico e, in quanto tale, esclusivo. Non sarà neppure un soggetto de-territorializzato, cioè tagliato fuori dal locale e dal singolare, di una lingua, di una cultura e di un paesaggio. Sarà un soggetto agile e nomade, pronto, partendo da una lingua e da un determinato ambiente, a circolare tra altre lingue e altri ambienti, attingendo alle risorse delle une e degli altri.
Una versione più breve di questa recensione è apparsa su Alias, l’inserto domenicale de il Manifesto, il 15 luglio 2018
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
COSTITUZIONE E CNR. UN PROBLEMA STORIOGRAFICO (SCIENTIFICO) DI LUNGA DURATA ...
CONDIVIDO LA PREOCCUPAZIONE E, AL CONTEMPO, LA CONSAPEVOLEZZA dei firmatari della lettera. La “provocazione” - da parte di chi dirige il Dipartimento del CNR, “al cui interno operano decine di storici, storici della filosofia, giuristi e altri ricercatori nel campo delle scienze umane e sociali” - evidenzia il sintomo non tanto e non solo “di un profondo problema culturale e scientifico”, ma anche e soprattutto di un problema politico-filosofico (metafisico), costituzionale, di CRITICA della “ragion pura” (di questo parla il “principio della relatività galileiana”, condensato nel “Rinserratevi” del “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano”)!
DOPO GALILEI, DOPO KANT, DOPO EINSTEIN, DOPO LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA... UNA “PROVOCAZIONE” al CNR DA ACCOGLIERE!
Strana “coincidenza”, oggi!:
A) Il 9 Aprile 2019, in una nota (dal titolo “CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. A che gioco giochiamo?!: https://www.alfabeta2.it/2019/03/31/marcel-detienne-memorie-felici-e-concetti-indelebili/#comment-639227), così scrivevo:
B) Il 12 maggio 2019, “recensendo un volume - come scrivono gli studiosi e le studiose del CNR - dell’epistemologo statunitense Alex Rosenberg, in un articolo dal titolo Questa storia è davvero molto falsa apparso sul supplemento domenicale del “Sole - 24 ore” il 12 maggio scorso, il professor Gilberto Corbellini ne ha preso spunto per asserire, in polemica con un recente appello in difesa dell’insegnamento della storia, l’assenza di scientificità e di utilità sociale della disciplina stessa”.
Prima che sia troppo tardi, che fare?! Alle studiose e alle studiose di scienze umane e sociali (del CNR e non solo), consiglierei (mi sia permesso) la ri-lettura del “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano” di Galileo Galilei, la ri-lettura dei “Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica” di Immanuel Kant, e, infine, la rilettura dei “Principi” della Costituzione della Repubblica Italiana - e, alla luce della “ferocissima” provocazione, ri-prendere il lavoro storiografico-scientifico con più grande entusiamo e responsabilità di prima!
VIVA L’ITALIA!
Federico La Sala
PER LA STORIA DELLLA SCIENZA E PER LA SCIENZA DELLA STORIA, FORSE, E’ MEGLIO RI-DISCENDERE “SOTTO COVERTA DI ALCUN GRAN NAVILIO” E RIPRENDERE IL LAVORO GALILEANO DELLA CONVERSAZIONE E DELLA CONOSCENZA... *
Recensendo un volume dell’epistemologo statunitense Alex Rosenberg, in un articolo dal titolo Questa storia è davvero molto falsa apparso sul supplemento domenicale del “Sole - 24 ore” il 12 maggio scorso, il professor Gilberto Corbellini ne ha preso spunto per asserire, in polemica con un recente appello in difesa dell’insegnamento della storia, l’assenza di scientificità e di utilità sociale della disciplina stessa.
Per sostenere tale tesi ha offerto una descrizione caricaturale del lavoro degli storici, cui attribuisce il tentativo di «entrare» nella «testa» dei personaggi e la pretesa di «sapere perché Giulio Cesare piuttosto che Carlo Magno presero una determinata decisione». Fa quindi dipendere in generale gli studi storici (e con essi anche il diritto, e implicitamente la filosofia e le scienze umane in genere) dalle «narrazioni» e dalla «ricerca delle motivazioni di un comportamento», e li destituisce così di credibilità fino a definirli «falsi».
Questa presa di posizione ignora totalmente la rilevanza che la questione della prova, la critica delle narrazioni e delle testimonianze, la distinzione fra storia e memoria hanno avuto e hanno nella riflessione storiografica. Fin dai tempi di Lorenzo Valla gli storici sono impegnati a mettere a punto quegli «approcci controllabili» che Corbellini li accusa di ignorare, e gli ultimi decenni li hanno visti partecipi di una significativa riflessione epistemologica, in sintonia con le altre scienze sociali, tesa a superare rigide dicotomie metodologiche quali, ad esempio, quantitativo/qualitativo o struttura/soggettività. E d’altro canto ipotizzare, come si propone nell’articolo, l’opportunità di dimenticare eventi estremi quali i genocidi sminuisce il significato dell’elaborazione e dell’interpretazione, spesso conflittuale, della memoria per la costruzione dei valori della nostra cultura.
Come studiosi e studiose di discipline storiche e umanistiche del Dipartimento di scienze umane e sociali, patrimonio culturale del CNR intendiamo esprimere la nostra preoccupazione per queste affermazioni. Si tratta dichiaratamente di una «provocazione» e come tale, se provenisse semplicemente da un autorevole studioso, ci si potrebbe limitare a trarne spunti di riflessione o a lasciarla cadere. Il professor Corbellini, tuttavia, non è un qualsiasi storico della medicina che si rivolge alla propria comunità scientifica e all’opinione pubblica, ma ha la responsabilità di dirigere il nostro Dipartimento, al cui interno operano decine di storici, storici della filosofia, giuristi e altri ricercatori nel campo delle scienze umane e sociali. Le sue parole, che implicano una delegittimazione pubblica del lavoro degli storici e non solo, investono quindi in pieno il senso della presenza stessa delle nostre discipline all’interno del maggiore ente di ricerca italiano.
Se oggi in Italia i saperi storici e umanistici appaiono quanto mai marginalizzati, un intervento come questo, tanto più per il ruolo istituzionale di elevata responsabilità del suo autore, sembra essere più il sintomo di un profondo problema culturale e scientifico che non un contributo al suo superamento. Esso offre quindi l’occasione per sollecitare ai vertici del CNR un pronunciamento in merito al ruolo e alle prospettive delle discipline umanistiche all’interno dell’ente e per aprire in proposito un dibattito all’interno della comunità scientifica e della società.
Grazia Biorci (IRCRES-CNR)
Olga Capirci (ISTC-CNR)
Geri Cerchiai (ISPF-CNR)
Gemma Colesanti (ISEM-CNR)
Gabriella Corona (ISSM-CNR)
Roberto Evangelista (ISPF-CNR)
Amedeo Feniello (ISEM-CNR)
Ida Maria Fusco (ISSM-CNR)
Stefano Gallo (ISSM-CNR)
Patrizia Grifoni (IRPPS-CNR)
Paolo Landri (IRPPS-CNR)
Maurizio Lupo (ISSM-CNR)
Daniela Luzi (IRPPS-CNR)
Fabio Marcelli (ISGI-CNR)
Armando Mascolo (ISPF-CNR)
Marina Montacutelli (ISSM-CNR)
Michele Nani (ISSM-CNR)
Anna Maria Oliva (ISEM-CNR)
Walter Palmieri (ISSM-CNR)
Claudia Pennacchiotti (IRPPS-CNR)
Leonardo Pica Ciamarra (ISPF-CNR)
Mariarosaria Rescigno (ISSM-CNR)
Giovanni Rota (ISPF-CNR)
Alessia Scognamiglio (ISPF-CNR)
Luisa Simonutti (ISPF-CNR)
Luisa Spagnoli (ISEM-CNR)
Alessandro Stile (ISPF-CNR)
Antonio Tintori (IRPPS-CNR)
Pina Totaro (ILIESI-CNR)
Mattia Vitiello (IRPPS-CNR)
* ALFABETA-2: Per chi desiderasse mettersi in contatto con gli autori della lettera, l’email di riferimento è storiascienza.cnr@libero.it.
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STORIA, SCIENZA, ED ECLISSI. Da Galileo Galilei ad Albert Einstein ...
Al di là delle pretese “mitideologiche” (atee e devote) del “post-positivismo” contemporaneo (Paolo Fabbri) di dare il via a un’ epoca in cui la storia del mondo dev’essere riscritta secondo l’indicazione rosenberghiana!), ricordiamo che il 29 maggio 1919 Arthur Eddington provò sperimentalmente la teoria della relatività (cfr. : Franco Gabici, “Cento anni fa l’eclissi che diede ragione a Einstein”, Avvenire, 29.05.2019). Buon lavoro!
Federico La Sala
LA MEMORIA NELLE PAROLE. PER AMOS OZ.... *
Fania Oz: «L’ascolto cambia il mondo»
Parla la storica israeliana: «Oggi la solidarietà è ancora viva, ma l’Europa ha il dovere di impedire che siano messi in discussione i valori fondamentali»
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, mercoledì 22 maggio 2019)
Fania Oz-Salzberger non ha dubbi: «Le parole possono peggiorare o migliorare il mondo - dice - ma ascoltare gli altri, ascoltarli veramente, può soltanto migliorarlo». È il suo modo di reinterpretare l’eredità ricevuta dal padre, il grande romanziere israeliano Amos Oz, morto a Tel Aviv negli ultimi giorni del 2018. Insieme, alcuni anni fa, avevano scritto un libro illuminante, Gli ebrei e le parole, edito in Italia da Feltrinelli. Ed è proprio sul legame strettissimo fra memoria, linguaggio e destino che la studiosa, docente di Storia delle idee all’Università di Haifa, si soffermerà domani a Bologna durante la lezione inaugurale di Mens-a, l’evento internazionale sul pensiero ospitale e il cosmopolitismo in calendario fino a sabato. «Ma c’è un’altra parola che aggiungerei alla lista», osserva Fania Oz-Salzberger.
Quale?
Verità. Mentre lavoravamo al libro, mio padre e io ci interrogavamo spesso sul suo significato. In che senso, mettiamo, un racconto biblico va considerato “vero”? Abramo e Sara potrebbero anche non essere esistiti, eppure la loro storia ha cambiato il mondo. Anche la verità letteraria non si basa sui fatti: Amleto non è una figura storica, ma attraverso di lui Shakespeare continua a svelarci qualcosa che si annida nella profondità della natura e dell’esperienza umana. “I fatti possono essere i peggiori nemici della verità”, ha dichiarato mio padre. Un racconto d’invenzione riesce a toccarci in maniera molto più autentica e decisiva rispetto alle notizie del telegiornale.
Scopriamo qual è il nostro destino?
Ecco, questo è un termine sul quale ci siamo subito intesi, mio padre e io. Essendo ebrei secolarizzati, siamo sempre stati persuasi che la storia sia un prodotto dell’azione umana e delle circostanze esteriori. Quanto alla memoria, la questione è più complessa: quella personale non coincide con quella storica ed entrambe differiscono da quella letteraria. Tutte insieme, però, cambiano il mondo. I ricordi di mio padre sulla madre, il modo in cui ebrei e palestinesi ricostruiscono il proprio passato, le nostre reminiscenze di lettori ( Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, nella fattispecie, influenzò molto mio padre): ciascuno di questi elementi modifica la relazione che intratteniamo con la famiglia, la tradizione, l’amore, il lutto. Entrano in gioco materiali mentali diversi, un po’ come accade con gli strumenti e i codici simbolici delle varie arti: pittura, musica, scrittura.
Qui entra in scena il linguaggio?
Ogni grande scrittore si nutre della propria lingua madre, che nel caso di mio padre era l’ebraico. Lo amava, ci giocava. In quanto storica, non posso permettermi un atteggiamento così disinvolto, ma ho comunque la facoltà di interrogare la lingua e approfondirne la comprensione. L’ebreo moderno, in questo senso, è stata la più importante startup linguistica del Novecento. Nessun’altra lingua ha avuto uno sviluppo altrettanto rapido, nessun’altra è riuscita a partire dal nulla fino a superare la soglia di dieci milioni di parlanti.
Come è potuto accadere? Grazie alla combinazione di due fattori irripetibili: l’alto livello di alfabetizzazione, specie maschile, e il permanere di una forte tradizione testuale. Ancora adesso, la Bibbia rappresenta una miniera inesauribile di espressioni, e così il Talmud, la poesia ebraica medievale, la letteratura profana. L’ebraico è una delle lingue più vive di oggi e il successo di molti autori contemporanei lo dimostra in modo eloquente.
Ma questo non contrasta con il ritorno del pregiudizio antisemita?
Mio padre amava ripetere che Hitler e Stalin, pur senza volerlo, ci hanno vaccinati contro l’odio razziale e il genocidio, ma che dopo settant’anni l’effetto del trattamento sta cominciando a svanire. L’affievolirsi della memoria risveglia i demoni e l’antisemitismo, come sappiamo, è uno tra i più feroci. Gli ebrei sono minacciati da destra e da sinistra. Da una parte li si identifica in blocco con lo Stato di Israele, giungendo a negare il loro diritto all’esistenza. Dall’altra, si torna ad accusarli di complotti globali e malefatte universali. Ci sono musulmani che si proclamano antisemiti e antisemiti che sono anche islamofobi. La discriminazione non si sposa bene con la logica.
Come si dovrebbe reagire?
Lo dico con chiarezza: è l’ora che l’Europa si prenda le sue responsabilità. A essersi rimessi in marcia, infatti, sono proprio i demoni della storia europea. Decine di migliaia di ebrei stanno lasciano la Francia, la Gran Bretagna e diversi Paesi dell’Est. Questa volta, per fortuna, hanno un posto in cui rifugiarsi, un luogo in cui sentirsi a casa. Ma un’Europa senza ebrei sarebbe ancora Europa?
Che cosa pensa dell’ondata populista?
Il filosofo Isaiah Berlin, che è stato mio maestro a Oxford, distingueva sempre tra nazionalità e nazionalismo. La prima va tranquillamente a braccetto con la democrazia, che il secondo invece non sopporta proprio. I nazionalisti amano l’ethnos, la componente etnica, e disprezzano il demos, perché la declinazione moderna del demos, ossia della cittadinanza nel suo complesso, prevede la compresenza di gruppi etnici tra loro differenti. Vogliono convincerci che nell’era del web la democrazia sia ormai fuori moda e che i social network diano una spinta al populismo, diffondendo l’odio in modo molto più rapido e capillare di quanto accada con l’amore e la solidarietà. Anche mio padre la pensava così. In questo, tra di noi, c’era una certa incomprensione generazionale. Al contrario di lui, io mi servo di internet, interagisco sulle piattaforme sociali e credo fermamente che il populismo vada combattuto dall’interno, contrastando con estrema durezza ogni incitamento all’odio presente in rete. Non abbiamo scelta: internet è una realtà irreversibile, è la piazza nella quale siamo chiamati a esprimerci, è il nostro campo di battaglia.
Anche la solidarietà è a rischio?
Lasci che le parli un po’ dell’impegno dei miei studenti a Lesbo, in Grecia. In questo momento, questo gruppo di giovani israeliani, sia ebrei che arabi, è la più efficace tra le organizzazioni non governative che operano con i rifugiati siriani raccolti sull’isola. Sono molto fiera di loro. Insieme con milioni di altre brave persone attive in tutto il mondo, dimostrano che ancora oggi amore e compassione sono più vivi e vitali che mai. Il problema è che troppo spesso il loro lavoro non viene percepito, perché è meno facile da twittare rispetto al razzismo e su Instagram risulta meno attraente di un’ereditiera viziata. Ma non possiamo dimenticare che l’attuale crisi dei migranti in Europa non deriva solo dal razzismo, ma anche da decisioni politiche inadeguate. Per accogliere milioni di persone non è sufficiente spendere qualche bella parola e neppure un bel mucchio di soldi. Occorre un serio lavoro sul campo, specie nella sensibilizzazione dei nuovi arrivati e degli abitanti di ciascun Paese, che devono essere messi in grado di capire quali valori vadano preservati e quali criteri di giustizia economico-sociale vadano rispettati. Si tratta di una transizione enorme, che purtroppo la maggioranza dei Paesi europei non ha saputo governare, accontentandosi di discorsi zuccherosi e di proclami solenni.
A che cosa si riferisce?
Trovo inaccettabile che, in nome del rispetto tra le culture, il ruolo della donna possa essere sminuito. E questo vale anche per le aggressioni agli ebrei, vale per la svalutazione dei valori fondamentali di convivenza. Se l’Europa vuole restare fedele a se stessa, deve liberarsi di queste ambiguità.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Ipocriti e venali? Un convegno per superare i pregiudizi sui farisei
E il 9 maggio papa Francesco riceve i partecipanti all’iniziativa organizzata dal Pontificio Istituto Biblico e sponsorizzata anche da Cei e American Jewish Committee
di Iacopo Scaramuzzi (La Stampa, 04/04/2019)
Roma. Spesso raffigurati come «esempi di legalismo, ipocrisia e avidità», presentati nei Vangeli come i rivali maggiori di Gesù, i farisei saranno al centro di un convegno organizzato dal Pontificio Istituto Biblico, a Roma, teso a riesaminare le fonti e superare i pregiudizi che circondano questo antico gruppo giudaico, e possono intrecciarsi con pulsioni antisemite, nelle omelie e nei testi scolastici, nel linguaggio quotidiano così come in libri e film. L’ultimo giorno del convegno su «Gesù e i farisei» («Un riesame interdisciplinare») i partecipanti saranno ricevuti in udienza privata dal Papa.
«Il tema della relazione tra Gesù e i farisei è un altro modo per descrivere la relazione tra i cristiani e gli ebrei attraverso due millenni», ha spiegato nel corso di una conferenza stampa il gesuita Michael Kolarcik, rettore dell’istituto. «Quanto affermiamo su questo rapporto, e come lo diciamo, ha conseguenze significative per la nostra relazione attuale». Padre Etienne Veto, direttore del Centro cardinale Bea per gli Studi Giudaici, ha sottolineato che grazie alle evoluzioni della ricerca biblica e storica è emerso da tempo che «non è corretta» la rappresentazione invalsa dei farisei e che «c’è un collegamento tra l’antisemitismo e la concezione dei farisei».
Il convegno, sostenuto anche dall’American Jewish Committee, dalla Conferenza episcopale italiana e dalla società Verbum di software per gli studi cattolici, vedrà la partecipazione di oltre trecento esperti di varie materie, cattolici protestanti ed ebrei. Numeri superiori alle attese tanto che avrà luogo nell’aula magna della attigua Pontificia Università Gregoriana. Tra gli altri ci saranno i rabbini David Rosen, Riccardo Di Segni e Abrhama Skorka, quest’ultimo amico di lunga data di Jorge Mario Bergoglio, il presidente della commissione per l’ecumenismo e il dialogo della Cei Ambrogio Spreafico, e ancora esperti di storia, archeologia, studi rabbinici, Nuovo Testamento, educazione, arte popolare da Argentina, Austria, Canada, Colombia, Germania, India, Israele, Italia, Paesi Bassi e Stati Uniti.
Scopo del convegno, si legge in una presentazione, è «un riesame delle fonti, per fornire un quadro più chiaro dei farisei “letterari” e “storici” dell’antichità» e, in secondo luogo, «riconsiderare i fattori responsabili dei pregiudizi che hanno danneggiato la percezione comune dei farisei - e di suggerire modi per superarli»: per questo il convegno «discuterà anche di problemi relativi non solo agli studi biblici, ma anche all’omiletica (cioè come fare un’omelia sui farisei, quando essi compaiono sul lezionario), a testi scolastici e alla cultura popolare, compresi libri e film su Gesù e sulle rappresentazioni della Passione».
Non a caso parteciperà al convegno anche Christian Stueckl, direttore artistico della famosa «Rappresentazione della Passione» di Oberammergau che va in scena ogni anno dal 1634. «Vogliamo individuare le radici di questa rappresentazione inadeguata dei farisei», ha detto in conferenza stampa il professore Joseph Sievers, tra i principali organizzatori dell’evento, «e superare i pregiudizi».
«Non c’è bisogno di presentare male i farisei in particolare e l’ebraismo in generale per presentare bene Gesù: Gesù si presenta bene da solo», ha detto da parte sua la professoressa ebrea Amy Jill Levine, che al Biblico insegna Nuovo Testamento: «Il trattamento negativo dei farisei è parte di un problema più ampio» che affonda le radici nella distorta contrapposizione tra il cattolicesimo, quale religione di amore, e nell’ebraismo, quale religione della legge, ma «siamo entrambe religioni di amore», ha detto padre Veto, «e siamo entrambe religioni che fanno attenzione a ciò che facciamo, all’etica», ha detto Jill Levine, ricordando che Gesù è anzi più rigoroso dei maestri ebrei quando, ad esempio, anziché condannare l’assassinio condanna anche la rabbia o quando condanna non solo il tradimento effettuato ma anche quello pensato.
Amy Jill Levine, che in passato ha consegnato al Papa la versione commentata ebraica del Nuovo Testamento (The Jewish Annotated New Testament), ha ricordato che san Paolo di Tarso era fariseo, che lo storico Tito Flavio Giuseppe parlava bene dei farisei e che i rotoli del Mar Morto non li citano e anzi criticano un gruppo ebraico lassista: «Se avessimo solo Paolo, Flavio Giuseppe e i rotoli del Mar Morto non avremmo bisogno di questo convegno. Ma abbiamo i Vangeli che descrivono i farisei come ipocriti e nemici di Gesù», ha detto, auspicando che «le omelie sui farisei non propaghino l’antisemitismo ma presentino correttamente il Vangelo della pace».
Ai giornalisti che facevano notare come Papa Francesco abbia più volte, coerentemente con i Vangeli, indicato i farisei come esempi negativi di ipocrisia e legalismo, il professor Sievers ha risposto ricordando che non bisogna dimenticare «l’amore di Francesco nei confronti dell’ebraismo e i suoi rapporti cordiali con gli ebrei già quando era a Buenos Aires, ed ha poi detto, più in generale, che «capita a tutti noi di avere un punto cieco: noi non saremo polemici nei confronti di alcunché, ma desideriamo completare una visione che dia spazio ad una concezione più sfaccettata dei farisei, sperando che completare il quadro possa innescare anche qualche cambiamento».
A confronto Due atenei milanesi, Statale e San Raffele, hanno promosso una laurea magistrale per formare una classe dirigente proiettata nel futuro. Quattro partecipanti all’iniziativa discutono il rapporto tra filosofia e scienze sociali
Dobbiamo inventare l’Illuminismo del 2019
conversazione di Maurizio Ferrera con Francesco Guala, Roberto Mordacci e di Francesca Mordacci (Corriere della Sera, La Lettura, 19.05.2019)
La scienza moderna ha scoperto che la natura è governata da leggi che la rendono in larga misura controllabile e prevedibile. Le scienze sociali novecentesche hanno a loro volta messo in luce le molte regolarità che caratterizzano la sfera politica, economica e sociale, nonché i meccanismi che le generano. Lo Stato di diritto - diventato poi liberale e democratico - ha stabilizzato i processi di interazione e di decisione collettiva. In questo contesto, l’immagine del tempo è radicalmente cambiata. In particolare, il futuro non appare più dominato dal caso, dal destino o dalla provvidenza. È diventato la dimensione del possibile: una fase temporale vincolata, certo, dal passato, ma più o meno liberamente plasmata nel presente, in base ai nostri scopi e valori.
Insegnare ai giovani come «governare il futuro» è uno dei principali obiettivi di una nuova laurea magistrale promossa da due atenei milanesi: la Statale e l’Università Vita-Salute del San Raffaele. Abbiamo affrontato le tematiche al centro dell’iniziativa con tre studiosi di filosofia: Francesco Guala insegna Economia politica e si occupa di scienze sociali; Roberto Mordacci, preside al San Raffaele, è uno specialista di Filosofia morale e bioetica; Francesca Pasquali è docente di Filosofia politica.
MAURIZIO FERRERA - In un recente discorso, Emmanuel Macron ha lanciato un ambizioso percorso di riforme, nato da un «gran dibattito nazionale» che ha coinvolto più di due milioni di cittadini. Dibattito democratico e progetto di cambiamento: siamo gli eredi dell’Illuminismo, ha ricordato il presidente. Un richiamo che ben si presta a riflettere su come governare il futuro...
ROBERTO MORDACCI - Certamente. Fu l’Illuminismo a elaborare l’idea moderna di storia come orientata verso uno scopo. È l’idea di progresso scientifico ma anche morale e politico: vite meno infelici, istituzioni più giuste. La grande crisi attuale viene dalla sfiducia in questa possibilità, favorita dalla moda postmodernista della «fine» del sapere, della morale e dunque della storia. Ma il progresso è una responsabilità, non una necessità: esiste se lo facciamo accadere.
FRANCESCO GUALA - Un’impresa doverosa, ma non facile. Grazie alle scienze cognitive e sociali oggi siamo più consapevoli delle difficoltà che tutti noi, cittadini ed esperti, incontriamo quando cerchiamo di rappresentare e controllare i processi di cambiamento. La percezione esagerata del rischio, l’incapacità di pensare scenari alternativi a quelli dominanti sono ostacoli enormi, che possono impedirci di trovare soluzioni razionali e condivise. Ma Illuminismo vuol dire anche ottimismo: la riflessione filosofica e scientifica ci fornisce strumenti formidabili che non esistevano solamente qualche decennio or sono. Proprio perché sappiamo quali sono i nostri limiti, abbiamo più chance di superarli.
FRANCESCA PASQUALI - Come eredi dell’Illuminismo, riconosciamo che, non essendoci fini stabiliti da autorità esterne, il futuro è aperto e ognuno ha il diritto di contribuire a definirne la direzione. Per evitare fraintendimenti piuttosto diffusi, si deve chiarire però che questo non implica attribuire a tutte le opinioni la stessa validità. Al contrario, proprio perché non ci sono autorità esterne cui affidarci, per orientare il futuro verso il meglio dobbiamo sottomettere al vaglio della ragione le nostre opinioni, scartando quelle non fondate su solide argomentazioni o evidenze empiriche affidabili.
MAURIZIO FERRERA - Le nuove tecnologie, e più in generale quella che il filosofo Luciano Floridi chiama l’Infosfera, stanno rapidamente cambiando i modi di produrre, lavorare, comunicare, organizzare la vita associata, persino incrementare le nostre abilità naturali. Può davvero aprirsi la possibilità di un grande balzo in avanti dello sviluppo umano. L’Infosfera (e in particolare il progresso dell’intelligenza artificiale) solleva però anche enormi problemi di natura etica e sociale. Quali sono secondo voi le principali sfide e le strategie per affrontarle?
FRANCESCO GUALA - Sulle sfide c’è l’imbarazzo della scelta. Ne scelgo una che mina al cuore i fondamenti della democrazia: la necessità e insieme la difficoltà di vivere insieme nella diversità di pensiero. Si tratta di una sfida perenne, ovviamente, ma la tecnologia negli ultimi dieci anni ha enormemente facilitato la creazione di comunità alternative e «chiuse» - dai terrapiattisti ai no-vax - restringendo a sua volta lo spazio intermedio dove si stipulano i compromessi essenziali per il vivere comune. I gruppi che contrasteranno questo processo di isolamento e frammentazione potranno formare le coalizioni vincenti della politica del futuro.
FRANCESCA PASQUALI - Se gli scenari prevedibili in base agli sviluppi dell’intelligenza artificiale e del potenziamento biologico - macchine intelligenti, individui sempre più resistenti alle malattie - sono perlomeno possibili, si tratta di capire se e come aggiornare il nostro resoconto circa le caratteristiche distintive degli esseri umani, che fa da sfondo alla riflessione morale. È sensato individuare la nostra specificità in certe facoltà cognitive, che forse condivideremo con le macchine, o in certe caratteristiche biologiche, che forse potremo modificare? Si tratta anche di valutare se simili scenari siano desiderabili e se vi siano soluzioni, magari distanti dalle nostre pratiche attuali, per bilanciarne al meglio vantaggi e svantaggi.
ROBERTO MORDACCI - In passato, le tecnologie generavano paure per la loro potenza distruttiva. Per questo Hans Jonas invocava responsabilità. Quelle attuali vivono di controllo e velocità. Chi ha accesso ai Big Data e quale potere acquisisce controllandoli? Quanta rapidità siamo in grado di gestire negli scambi di informazione? Abbiamo bisogno di un’etica per l’età digitale, che ne sappia affrontare la legge fondamentale, ovvero l’accelerazione costante e inarrestabile.
MAURIZIO FERRERA - Al di là delle oscillazioni e delle crisi cicliche dell’economia capitalistica, le società avanzate hanno oggi il potenziale di raggiungere sempre più alti livelli di «prosperità»: una nozione che evoca benessere quantitativo e qualitativo, pluralità e disponibilità (sperabilmente «equa») di chance di vita sempre più ampie e articolate. Il percorso è tuttavia irto di ostacoli: pensiamo alla sostenibilità ambientale e demografica, alla pressione migratoria, al logoramento dei legami di solidarietà, al rischio di ripiegamenti nazionalistici e di rigetto dei progetti di integrazione, in particolare in Europa. Quali sono le condizioni più propizie affinché il potenziale oggi esistente si possa realizzare in forme e modi «aperti, inclusivi, sostenibili»?
ROBERTO MORDACCI - Le condizioni essenziali dello sviluppo sono chiare: gli «obiettivi di sviluppo sostenibile» fissati dall’Onu mostrano che è il coordinamento la chiave di una crescita equilibrata. La minaccia alla vita viene dall’iniquità, dal conflitto sociale e dall’isolamento, che generano inquinamento, distruzione delle risorse, squilibri, discriminazioni e guerre. Nel mondo globalizzato, o si cresce insieme o si muore isolati.
FRANCESCO GUALA - L’etica economica si fonda su due princìpi universali: il principio secondo il quale chi produce un bene o un servizio ha diritto di goderne i principali benefici; e quello dell’uguaglianza, che si applica ogniqualvolta non è possibile identificare chiaramente chi ha prodotto il bene in questione. Questi due princìpi funzionano bene in comunità relativamente piccole e coese, nelle quali i rapporti di forza sono relativamente equilibrati. Quando si creano enormi disuguaglianze invece entrano in crisi. Credo che la redistribuzione oggi vada pensata in un’ottica nuova - politica invece che etica - proprio perché siamo in una situazione di questo genere. In pratica, significa che i «vincitori» di oggi devono smettere di porsi la domanda «è giusto redistribuire?» e chiedersi invece quale sistema di redistribuzione potrà salvare il patto sociale.
MAURIZIO FERRERA - Su scala globale il mondo resta attraversato da aspri conflitti e guerre locali, che minacciano pace e sicurezza, anche attraverso il terrorismo. Le radici di questi conflitti sono di natura sia «materiale» (diseguaglianze, accesso alle risorse e così via) sia «ideale» (cultura e religione). L’Europa è oggi l’area più pacificata, civilizzata e sviluppata del pianeta, ma questo esito è il risultato di secoli di guerre e scontri fra popoli. Non è detto che la via europea sia praticabile e replicabile a livello globale. E non è neppure detto che le dinamiche conflittuali che caratterizzano oggi il mondo possano gradualmente comporsi: potrebbero invece deflagrare nel famoso «scontro di civiltà» preconizzato da Samuel Huntington. L’ideale kantiano di una pace perpetua, sorretta da un ethos universale di civismo e assetti federali sul piano planetario, vi sembra oggi più vicino o più lontano?
FRANCESCA PASQUALI - Immanuel Kant è chiaro: una pace perpetua è possibile solo tra repubbliche, in cui le decisioni si fondano sul consenso dei cittadini che, consapevoli dei costi, rifiutano la guerra. Se è così, la tendenza attuale non è incoraggiante: i regimi autoritari non sono in diminuzione e, anzi, alcuni sono attori chiave a livello internazionale. Questo è un motivo in più per capire come mai regimi autoritari mantengano una notevole centralità e domandarsi come fare i conti con tali regimi senza contraddire i princìpi democratici.
ROBERTO MORDACCI - La tendenza odierna verso la barbarie è fortissima. Lo spettro dell’autoritarismo, dell’odio etnico e della regressione si aggira minaccioso per l’Europa e non solo. La pace perpetua va ripensata da capo, come fece lo stesso Kant nel proprio tempo. Ogni epoca deve vivere il suo Illuminismo, non ripetere quello passato. È ora che lo facciamo anche noi, prima che sia troppo tardi.
FRANCESCO GUALA - L’ideale kantiano della pace perpetua è un modello che deve guidare sempre il nostro agire politico. Ma non sono particolarmente ottimista riguardo alla progressiva integrazione degli Stati nazionali in entità federali planetarie. La difficoltà che sta incontrando il progetto europeo sono significative a questo proposito: dei popoli già profondamente integrati culturalmente ed economicamente non riescono a compiere il salto decisivo verso un assetto federale. D’altronde credo che lo «scontro di civiltà» sia uno spauracchio politico semplicistico utile a spaventare le persone, molto meno ad analizzare la realtà. È più probabile che la violenza si sviluppi in focolai relativamente marginali, dove le grandi nazioni non hanno l’interesse o la forza di intervenire.
MAURIZIO FERRERA - Torniamo ai giovani, che almeno dal punto di vista socio-demografico costituiscono il 100 per cento del nostro futuro. Quali sono le competenze che essi dovrebbero padroneggiare grazie agli studi universitari per apprendere dal passato, interpretare il presente e dare il proprio contributo, anche in ambito lavorativo, per costruire e governare il mondo di domani?
FRANCESCO GUALA - Sicuramente la capacità di integrare gli strumenti e le conoscenze provenienti da diverse discipline - economia, politica, filosofia. Ma anche la capacità di esprimere una sintesi in modo chiaro, comprensibile, e non conflittuale. Vorrei sottolineare quest’ultimo punto - non conflittuale - perché è forse il più difficile. Andare controcorrente non è difficile: basta dire il contrario di quello che dicono gli altri! Quello che è davvero difficile è trovare nuove soluzioni e convincere chi non la pensa come noi, spesso con ottime ragioni. Tornando a quanto detto prima, le nuove tecnologie non ci aiutano da questo punto di vista. Ma è appunto il motivo per cui è essenziale provarci, formando una generazione di giovani che siano in grado di farlo meglio di noi.
FRANCESCA PASQUALI - Serve una preparazione multidisciplinare che, producendo anticorpi contro specialismi fini a sé stessi, consenta di acquisire una prospettiva di ampio respiro e strumenti analitici, descrittivi e filosofici, per capire e valutare i rapidi cambiamenti politici e sociali e immaginare modalità di intervento efficaci e appropriate in termini valoriali.
ROBERTO MORDACCI - Sono d’accordo: preparazione multidisciplinare e capacità di «visione». Solo il futuro dà senso al passato e alla frammentazione presente. L’avvenire non è degli specialisti: per risolvere i problemi occorre sempre una visione complessiva. Per questo la filosofia ha un ruolo decisivo, purché si mescoli alle scienze sociali, alla ricerca e all’evoluzione delle imprese. Queste ultime stanno cambiando il capitalismo, sono più attente ai valori, ma hanno bisogno di giovani capaci di strategie vincenti sul piano sociale e politico, non solo economico.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"
Federico La Sala
Pianeta Terra. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana...*
Terrapiattisti in raduno a Palermo: “Sveleremo il grande inganno”
di LAURA ANELLO (La Stampa, 11.05.2019)
PALERMO Dicono che la terra è piatta, un disco che volteggia nello spazio. Sostengono che le immagini della Nasa sono farlocche, che lo sbarco sulla Luna è una bugia, che gli astronauti sono abili attori, che il Gps funziona perché le antenne sono poste in cima a misteriosi grattacieli sparsi per il mondo e persino che a protezione di questo “disco volante” su cui vive l’umanità ci sono montagne di ghiaccio color smeraldo alte quattrocento chilometri sorvegliate da guardiani millenari.
Eppure, domani, il raduno nazionale dei “terrapiattisti” - così si chiamano gli alfieri di questa teoria - convocato all’albergo Garibaldi di Palermo, ha attratto cento persone e pure l’interesse di Beppe Grillo, che aveva annunciato la sua presenza in nome del libero pensiero. “Voglio stare in mezzo a un po’ di cervelli che non scappano davanti a nulla, nessun pregiudizio, nessuna legge della fisica è definitiva”. In realtà non si è ancora iscritto (quota di partecipazione 20 euro, senza sconti per nessuno) e lo staff di Grillo ha fatto sapere che non verrà. Ma gli organizzatori non escludono che possa arrivare a sorpresa: “Se è interessato alle nostre teorie, lo inviterò a confrontarsi mezz’ora con noi”, dice Agostino Favari, uno dei relatori. Inizia la giornata con la Cucina de La Stampa, la newsletter di Maurizio Molinari
Di sicuro, i terrapiattisti sono, per così dire, molto oltre il grillismo inteso come sfiducia nel sistema, nelle “competenze” e nelle verità della scienza ufficiale. Ne ha fatto le spese il povero astronauta Umberto Guidoni che, invitato da Le Iene a un confronto con due esponenti di spicco del terrapiattisti, alla fine si è fatto cadere le braccia di fronte a una contestazione da pochade: “Se il pollo si brucia in forno sotto la carta argentata, perché un astronauta dovrebbe resistere al calore del sole dentro la navicella”? Sì, perché la teoria della terra piatta (e quindi dell’assenza della curvatura terrestre) trascina via pezzo a pezzo secoli di acquisizioni e di dimostrazioni scientifiche, cancellando con una spugna Galileo, Einstein e pure Darwin. Non esisterebbe neanche la forza di gravità e sarebbe una fandonia l’evoluzione umana. I dinosauri? Roba da Disneyland. Le ossa che sono state ritrovate apparterebbero ai giganti che hanno popolato la terra prima di noi, e che hanno realizzato costruzioni a loro misura come - ebbene sì - il porticato di San Pietro e gli archi del duomo di Milano.
Per non dire, come i relatori sosterranno domani a congresso, che in realtà siamo nel 1019, perché il calendario è stato mistificato con l’aggiunta di mille anni di storia e che forse Titania, Lusitania e Queen Elisabeth erano la stessa nave. A parlare dal palco del raduno, oltre a Favari che in tasca ha una laurea in Ingegneria (“Ma non dirò nient’altro di quello che faccio nella vita”), saranno Albino Galuppini (una laurea in Scienze agrarie, di professione agricoltore), Calogero Greco e Morena Morlini.
Domenica 12 maggio illustreranno relazioni e risponderanno alle domande per otto ore (dalle 9 alle 19 con una pausa pranzo dalle 13 alle 14.30) su argomenti come la differenza di pressione tra l’atmosfera e lo spazio siderale, l’astronomia zetetica, il dimenticato impero dei giganti - quelli oscurati da Bernini e Michelangelo, forse figure d’invenzione anche loro - l’orbita del sole sulla terra piatta, l’egocentrismo della stella polare. E naturalmente, sul “rifiuto dell’informazione”. Che, ahinoi, ancora non crede in queste nuove verità. Come non ci crede il Comune di Palermo, che ha negato il patrocinio e diffidato gli organizzatori dall’utilizzare il logo istituzionale nonostante loro abbiamo invitato “tutte le persone rappresentative delle organizzazioni di potere, a partire dal presidente della Regione siciliana, il capo della polizia di Stato della Sicilia, dei carabinieri e delle guardia di finanza, aggiungendo doverosamente il capo del servizio segreto interno e del servizio segreto militare della Sicilia. E pure il cardinale. Oltre che gruppi filosofici buddisti, steineriani, amici di Osho, yoga”. L’obiettivo è svelare il grande abbaglio (“Quanti danni fa la scuola”), l’impostura, l’inganno, il complotto. Squarciare il velo da Truman Show che da millenni oscura il cielo degli umani. Un velo piatto, s’intende.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI: LA CONVERSAZIONE CONOSCITIVA (IL NUOVO "CIRCOLO ERMENEUTICO").
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
ALBERT EINSTEIN, LA MENTE ACCOGLIENTE. L’universo a cavallo di un raggio di luce (non di un manico di scopa!).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. Un omaggio a Kurt H. Wolff:
UNA METODOLOGIA PER L’ANALISI QUALITATIVA: RESA E CATTURA DI WOLFF (di ROBERTO CIPRIANI)
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
Federico La Sala
PSICOANALISI E FILOSOFIA. DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE.... *
C’è una volta
di Moreno Montanari (Doppiozero, 06.05.2019)
Una sera, camminando con la mia compagna per le strade di Porta ticinese a Milano, mi è capitato d’imbattermi in una battuta che capeggiava sulla lavagnetta di un’osteria: “l’unico passato che non fa male è quello di veldule”. Confesso che ho “liso” di gusto. Eppure non penso affatto che il passato faccia male, credo piuttosto che sia una grande risorsa se adeguatamente analizzata. Su cosa poggia, dunque, la convinzione che il passato faccia male? Nietzsche, in Così parlò Zarathustra, la riconduce al senso d’impotenza che si prova di fronte a ciò che, essendosi compiuto, ci consegna a uno stato di rassegnata impotenza, come di fronte a quei treni di cui si dice che passino una sola volta nella vita:
Che il tempo non possa camminare a ritroso, questo è il suo rovello; “ciò che fu” - così si chiama il macigno che la volontà non può smuovere. (...) Così la volontà anziché liberare, infligge sofferenza: e oggetto della sua vendetta, per non poter volere a ritroso, è tutto quanto sia capace di soffrire. Ma questo, soltanto questo, è la vendetta stessa: l’avversione della volontà contro il tempo e il suo “così fu”». (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1882-84, Adelphi, Milano, p. 169-171).
Non a caso il capitolo dello Zarathustra in cui Nietzsche affronta questo tema s’intitola Della redenzione: una simile concezione del passato, vissuto come ciò che non è più e che è andato irreversibilmente perduto, non può che essere causa di grande frustrazione per chi è roso da rimpianti o da rimorsi. Non affronterò qui la soluzione di Nietzsche - che chiama in causa l’eterno ritorno, passa per l’amor fati, la capacità di dire dionisiacamente di sì alla vita così com’è, e sfocia nella capacità di trasformare ogni «così fu» in un «ma così volli che fosse, (...) ma così io voglio! Così vorrò» (ibid. p. 172) - in queste pagine m’interessa piuttosto soffermarmi sul concetto di redenzione non dal tempo ma, come vedremo, del tempo altrimenti imprigionato in una concezione che ne svilisce la portata e ne misconosce l’essenza. Non è del tutto vero, infatti, che ciò che è passato non è più; Heidegger, in Essere e tempo, ci ricorda che se da una parte si può parlare del passato come di ciò fu, intendendo per l’appunto qualcosa che è accaduto in tempo che ha irrimediabilmente cessato di essere e sul quale, come detto, non possiamo più avere alcuna presa, dall’altra, se ne può parlare anche come di ciò che è stato, o meglio, propone Heidegger, come dell’essente-stato (Gewesen). Questa seconda formulazione, meno luttuosa, indica un passato la cui essenza (Wesen) è quella di perdurare: benché sia accaduto tempo addietro, in qualche modo, esso non cessa d’essere ma persiste, si riverbera nel presente, nel quale è ancora vivo come traccia, psichica o storica. Ripensare in questi termini il passato significa redimerlo, liberarlo dal confino in una terra lontana e irraggiungibile, per avvertirne la presenza, feconda o inquietante, qui e ora.
A questo tema ha dedicato un breve ma intenso libro Paul Ricoeur (Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, il Mulino, Bologna, 2004) nel quale sottolinea come «il passato che non è più, ma che è stato, reclama il dire del racconto dal fondo stesso della propria assenza (...) richiede che lo si ridica, che si riscriva la storia” (p.40), anche personale, concluderebbe idealmente Freud, per il quale è necessario che “il materiale di tracce mnestiche esistente [in ciascuno di noi] venga, di tanto in tanto, sottoposto a risistemazione e riscrittura” (S. Freud, Lettere a Wilhelm Fliess, 1887-1904, Bollati Boringhieri, 2008, p. 236).
Simili punti di vista, osserva Ricoeur, offrono un’alternativa “all’opinione comune secondo la quale il passato non può più venir cambiato e per questo sembra determinato; secondo questa opinione soltanto il futuro può essere ritenuto incerto, aperto e in questo senso indeterminato. Questo però non è che la metà del vero, poiché, se i fatti sono incancellabili, se non si può più disfare ciò che è stato fatto, né fare in modo che ciò che è accaduto non lo sia, in compenso il senso di ciò che è accaduto non è fissato una volta per tutte» (ibid., pp. 40-41), anzi richiede continuamente di essere ripensato, com-preso, ossia, preso in carico da un’interpretazione che provi a farne emergere il significato, magari rileggendolo alla luce di nuove esperienze o dell’allargamento dei nostri orizzonti cognitivi, grazie ad un’offerta anamorfica che si riveli capace, si potrebbe dire con Maurice Merleau-Ponty, “di condurre a espressione le cose stesse dal fondo del loro silenzio” (M. Merleau-Ponty 1964, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano, 1999, p. 32.)
Si possono qui scorgere echi involontari della funzione che Walter Benjamin assegnava alla memoria storica: assumere su di sé, nel presente, la “debole forza messianica che ci è stata data in dote dalla generazione che ci ha preceduto” e che chiede di non essere dispersa, tradita, misconosciuta (W. Benjamin, Tesi di Filosofia della storia, in Angelus Novus, Einaudi, 1962, p. 76.). Contro la “meretrice dello storicismo che recita c’era una volta”, (p. 85) Benjamin invita a concepire la storia come “l’oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, [dei calendari] ma quello pieno di attualità” (p. 83).
Non basta dunque ricordare il passato, occorre riviverlo adesso, con grande partecipazione emotiva ma con rinnovata capacità interpretativa. La psicoanalisi chiama rielaborazione questa operazione, attraverso la quale l’individuo torna a interrogarsi su quanto ha precedentemente sperimentato ma non ha saputo comprendere realmente, ed invita a distingue tra vissuto e esperienza. Il primo non è che la registrazione, soprattutto emotiva, di una situazione che, non essendosi potuta integrare pienamente in un contesto significativo, ha lasciato una traccia psico-emotiva immediata, cioè non mediata dalla capacità di comprenderla, di darle senso; l’esperienza è invece l’esito di un passato significativo dal quale possiamo trarre un insegnamento perché, proprio tornando a interrogarne il valore, scegliendo volontariamente di dargli risonanza e ospitalità, possiamo comprenderne il senso o divenirne coscienti.
Si tratta di un’operazione fondamentale perché, spiega Freud, “ciò che è rimasto capito male ritorna sempre; come un’anima in pena, non ha pace finché non ottiene soluzione e liberazione” (S. Freud, Caso clinico del piccolo Hans, in Opere n. 5, p. 570). Questa convinzione, al cuore del celebre concetto della coazione a ripetere, non fa in fondo che riformulare in chiave psicoanalitica la famosa massima secondo la quale, “chi non conosce la storia è condannato a ripeterla”, ponendosi attivamente, nel presente, in situazioni penose che altro non sarebbero che la ripetizione di vecchi irrisolti del passato. È infatti proprio ciò che non è stato compreso a tornare sotto forma di agito, ossia di impulso irriflesso, incontrollato, incurante delle conseguenze negative alle quale può andare incontro, perché incapace di fare tesoro di quanto sperimentato nel passato.
Nel saggio del 1914 Ricordare, ripetere e rielaborare, Freud contrappone chiaramente la ripetizione al ricordo consapevole affermando che le dinamiche conflittuali rimosse ritornano «non sotto forma di ricordo, bensì sotto forma di azione» (S. Freud, Opere 1912-1914, Torino Boringhieri, 1975. p. 356). Non si tratta, tuttavia, di una condanna irreversibile perché, come ha splendidamente scritto María Zambrano:
Certo non basta la ricostruzione dei fatti perché il passato sprigioni una parola di verità poiché per noi, come ha definitivamente spiegato Nietzsche, “non ci sono fatti ma solo interpretazioni”, nel senso che, per dirlo con Lacan, “questo reale non abbiamo nessun altro mezzo di apprenderlo - su tutti i piani e non solo su quello della conoscenza - se non grazie all’intermediario del simbolico” (J. Lacan, Il seminario II, 1954-55, Einaudi, Torino, 2001, p. 111). Nonostante i molti equivoci questa frase significa che i fatti certamente contano e sono spesso indiscutibili - chi potrebbe negare di star leggendo questo articolo? - ma che tuttavia per noi esseri umani è possibile coglierli realmente solo nella misura in cui ci riesce di comprenderli, di scorgervi cioè un significato, un senso e di trarne un insegnamento, che, per l’appunto, li sappia “condurre a espressione dal fondo del loro silenzio”.
In questo senso, se vogliamo redimere il passato, liberarlo dal suo esilio e liberare a nostra volta la vita dall’asservimento a schemi che si ripeterebbero identici, come nel mito di Sisifo, dobbiamo rielaborarlo. Anziché “ripetere il contenuto rimosso nella forma di un’esperienza attuale”, (S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, 1924-1929, Opere. Vol. 10, Bollati Boringhieri, 1985, p. 204) dobbiamo imparare ad attualizzarne il ricordo, a lavorarlo, a ricostruirlo, inserendolo dentro un nuovo orizzonte di senso. Freud parla proprio di “costruzione” - ecco un’altra consonanza con l’idea di Benjamin della storia come “oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di attualità” - e conia il termine di “posteriorità” per indicare la rielaborazione a posteriori di un evento che risulta finalmente comprensibile solo grazie al sopraggiungere di esperienze o condizioni che permettono al soggetto che lo aveva vissuto in precedenza di accedere a un nuovo tipo di significazione, che glielo rende finalmente comprensibile e, dunque, davvero sperimentabile.
Naturalmente la presa di coscienza di contenuti inconsci non viene modificata dal ricordo di un particolare o da una ricostruzione più dettagliata della scena che torna alla memoria, ma piuttosto dallo scuotimento emotivo che un’ipotesi di rilettura o una suggestione comparativa producono nel soggetto che si dispone a ripensarne il senso da nuovi punti di vista. Non si tratta, ribadisco, di ricostruire i fatti ma il significato che essi hanno assunto per noi paragonandolo a quello che possono acquisire ora, alla luce di nuove esperienze e dell’evoluzione della nostra personalità.
In gioco c’è il desiderio, presente in ciascuno di noi, di offrire una nuova chance a quelle opportunità che in passato non siamo stati capaci di cogliere, a quelle esperienze che non ci è riuscito di vivere appieno, nel tentativo, solo apparentemente paradossale, di riviverle e al tempo stesso di trasformarle, per accedere a possibilità d’essere che rompano l’incantesimo della coazione a ripetere e aprano la strada alla opportunità di essere più pienamente noi stessi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana .....
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. FACHINELLI, "SU FREUD".
“VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETTERATURA...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.... *
Plutarco, il maestro ripudiato dallo storicismo
di Maurizio Morini (Ritiri filosofici, 05.05.2019)
Plutarco è uno degli scrittori antichi di cui ci è pervenuto il maggior numero di scritti. Nato a Cheronea nella Grecia centrale, vissuto a cavallo tra il I e il II secolo dopo Cristo, Plutarco ha esercitato un’influenza enorme soprattutto nel periodo umanistico e rinascimentale tanto da essere riconosciuto come vero e proprio maestro da Montaigne ed Erasmo, Shakespeare e Bacone, Montesquieu e Rousseau. La sua opera più famosa, Le Vite parallele, biografie dei personaggi più famosi dell’antichità, è stata per lungo tempo fonte di ispirazione e notizie storiche. Tuttavia, a partire dalla metà del XIX secolo, Plutarco ha visto improvvisamente spegnere la sua fama fino ad essere prima accantonato e poi dimenticato.
Positivismo e storicismo prima, ideologie totalitarie e liberticide poi, hanno messo in secondo piano una filosofia che faceva della vita buona e della saggezza il suo centro. In nome di un auspicato “ritorno a Plutarco”, la Bompiani ha pubblicato nel 2017 la prima traduzione italiana completa dei Moralia, opera che raccoglie un’estesa trattatistica di carattere filosofico, pedagogico, religioso e di scienze naturali in cui non mancano saggi e brevi componimenti che affrontano il rapporto dei filosofi con la politica.
Il governo di se stessi prima condizione per governare
I testi di Plutarco sono un ricettacolo di osservazioni, consigli e massime nate spesso da piccoli episodi tratti dall’esperienza quotidiana di uomini impegnati nella cura degli affari pubblici. Il breve saggio Chi governa deve sapere prima di tutto governare se stesso inizia con l’osservazione secondo cui «nulla in natura è più orgoglioso, scostante e ingovernabile di un uomo che presuma di possedere la felicità». Se il trattato verte sulla necessità di ascoltare la ragione, in modo che il governante si ponga in sintonia con la provvidenza allontanando da sé gli istinti peggiori, è anche vero, riconosce Plutarco, che è difficile che i governanti ascoltino, presi come sono dal governo delle emozioni e dall’idea secondo la quale la ragione possa mettere a repentaglio la loro autorità. Non solo chi non riesce a controllare le proprie passioni, ma anche persone rozze e prive di cultura, nascoste dietro maschere di apparente sapere, giungono spesso al governo dello Stato. Tuttavia, è possibile riconoscere tal genere di individui utilizzando due paragoni. Il primo è quello del vaso vuoto: così come una volta riempiti, se marci o piene di crepe, i vasi cominciano a colare da tutte le parti andando facilmente in malora, così gli uomini privi di spessore culturale non riusciranno a mantenere quanto promesso finendo per rovinarsi da soli. Il secondo paragone è quello delle statue: chi ha più cultura ha peso e riesce a mantenersi, chi non ce l’ha non riesce a reggersi e finisce per rovesciarsi da sé.
I criteri di cui tener conto per entrare in politica
«La politica è come un pozzo: chi vi cade in modo accidentale è preso da angosce e rimorsi; chi vi scende con tranquillità affronta gli impegni con cura e serenità». Con questa metafora contenuta nei Consigli politici, Plutarco indica quattro elementi da considerare per chi vuole entrare in politica. Il primo è la motivazione, la quale non dev’essere fondata né sul capriccio né sulla vanagloria ma su una costante preoccupazione per il bene pubblico. In secondo luogo, bisogna essere consapevoli del carattere dei propri concittadini, in quanto l’ignoranza dei costumi e dei modi di vita porta a fallire il bersaglio e a cadute non meno rovinose di quelle che si hanno nei rapporti di amicizia con un re quando il suo favore viene meno. Importante è poi per il politico lo stile di vita perché, ricorda Plutarco, il popolo è attento ad ogni dettaglio e pronto a giudicare. Tutto ciò non deve far dimenticare infine l’efficacia della parola che si affianca al carattere della persona nella capacità di persuasione: l’arte di guidare gli uomini consiste nel convincere con l’eloquio, mentre addomesticare le masse con espedienti, come banchetti o elargizioni, è come pascolare animali privi di ragione.
Fine dell’educazione politica per Plutarco consiste nel rendere i cittadini ubbidienti per la semplice ragione che in ogni città i governati sono più numerosi dei governanti: di conseguenza, la scienza più bella è quella di saper ubbidire a chi detiene il potere. Le dinamiche del rapporto tra governanti e governati sono un tema particolarmente caro al filosofo: ad esempio, il popolo rinuncia alla propria forza quando cede alle lusinghe del denaro, così come gli stessi politici causano la propria rovina nel momento in cui, diremmo oggi, diventano populisti, solleticando il popolo nei suoi più bassi istinti con il risultato di renderlo soltanto più arrogante.
Nel breve opuscolo I filosofi devono dialogare soprattutto con i potenti, la riflessione di Plutarco si colloca su di un piano, per così dire, di massimizzazione dell’efficienza. La tesi del saggio consiste nell’idea che rivolgersi all’uomo politico, cioè alla persona che più di tutte più influenzare gli altri, costituisce per il filosofo il modo più efficace per diffondere la saggezza che deriva dalla filosofia: in questo modo l’impegno per l’edificazione altrui è più bello del ritrarsi in disparte.
Il declino della filosofia antica e il ritorno a Plutarco
Definito da Federico II di Prussia come l’antimachiavelli, Plutarco e le sue opere rientrano in un certo qual modo nella tradizione degli specula principis, termine con il quale si designa tutta quella trattatistica rivolta a re e governanti finalizzata alla loro educazione morale. Un colpo a questa letteratura fu dato da Machiavelli e dai suoi consigli rivolti al principe per la gestione cinica e spregiudicata del potere politico. Tuttavia, non fu l’acutissimo fiorentino a provocare il declino di Plutarco. Il suo vero affossatore fu Hegel ed il principio secondo cui la filosofia politica deve astenersi dal dare consigli allo Stato e interpretare il momento storico come qualcosa di razionalmente fondato, senza alcun riferimento a ciò che è bene o a ciò che è male. Lo storicismo aggravò il divario tra etica e politica in base all’idea secondo la quale è necessario distinguere tra giudizi di fatto e giudizi di valore, in nome di singole Weltanschauung alle quali riconoscere piena legittimità. Pretendendo di essere il continuatore dello scetticismo, lo storicismo ha demolito qualsiasi posizione che pretenda di rappresentare una dimensione di universalità: così facendo, la filosofia, specialmente quella antica, diventa qualcosa di assurdo.
Lo storicismo diventa la maschera del dogmatismo grazie soprattutto, come osservava Leo Strauss, a quella forma di storicismo radicale costituito dall’ermeneutica: se tutto è interpretazione, viene negata ab origine qualsiasi ricerca di un fondamento e diventa concreta la frase di Foucault secondo cui «un tempo c’erano i maestri di verità, oggi la volontà di verità». Lessing ripeteva che lo storicismo è l’inclinazione ad identificare il traguardo del nostro pensiero con il punto in cui ci siamo stancati di pensare: insieme a dogmatismo e relativismo, esso ha formato una triplice alleanza che ha liquidato Plutarco e la saggezza della filosofia antica. In un tempo, come quello attuale, in cui ci sarebbe bisogno di moderazione e prudenza politica, la lettura di un autore classico come Plutarco costituirebbe il rimedio a molti mali.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI....*
La sinistra e le dimissioni dei filosofi dal secolo dei diritti
Sinistra. Le Dichiarazioni universali, le Costituzioni post-belliche, le Carte europee dei diritti.
La ragion pratica, almeno riconosciuta sulla carta, è stata poi abbandonata
di Roberta De Monticelli (il manifesto, 30.04.2019)
II Che un filosofo si metta a ragionare di politica, per di più in termini di vasti orizzonti contemporanei, e sollevando problemi effettivi dell’oggi, è solo ammirevole: tanto più se il problema principale che affronta è precisamente la mancanza di idee, oltre che di ideali, della sinistra di oggi, italiana ed europea. Grazie dunque a Maurizio Ferraris di averci provato (Dovrebbero essere i Big Data a pagare il Welfare del futuro, il manifesto” 19/04). Aiuterà, il suo consiglio?
Credo che Ferraris abbia soprattutto inteso lanciare un’intelligente provocazione a pensare. Credo si possa essere d’accordo sulla tesi che la sinistra è (almeno in parte) in difficoltà non perché abbia mancato i suoi obiettivi, ma perché li ha conseguiti. Anche se certamente non una volta per tutte: e per amor di verità bisognerebbe aggiungere che il welfare oggi soffre terribilmente, a partire dalla sanità pubblica, che la scuola pubblica italiana è in via di smantellamento in ciò che aveva di buono, che la ricerca in Italia è finanziata sotto qualunque livello di decenza, che in troppi dei posti in cui un po’ di lavoro è rimasto, è proprio (anche se non solo) la sinistra (di governo e amministrazioni locali) che ha accettato di farlo pagare a tutti in termini di devastazione dell’ambiente e della salute; che al problema dell’integrazione dei migranti la sinistra non ha dedicato lo straccio di una proposta nazionale, e infine che evasione, corruzione e mafie gravano sul paese come e più di sempre, con qualche aiutino in termini di modica quantità di truffa fiscale, e se non è un obiettivo di “sinistra” quello di estirpare questi tre cancri allora non ha senso dire che i pochi elettori della cosiddetta élite rimasti a votare a sinistra lo fanno per ragioni etiche. Il che invece è verissimo.
Ma a questo bisogna aggiungere che - come i fatti evocati dovrebbero provare - i fini stessi in funzione dei quali, anche, il welfare doveva esistere, e cioè l’accesso dei più all’istruzione, alla consapevolezza dei propri doveri e diritti di cittadino, direi addirittura all’età adulta e alla responsabilità morale e civile, oltre che a una vita più libera e migliore, non sembrano affatto conseguiti. E del resto perché e come avrebbero dovuto esserlo, se prima di tutto hanno smesso di crederci - a proposito di etica - quei pochi o molti per i quali “sinistra” era il nome politico di un nucleo umanistico, universalistico e cosmopolitico di pensiero, cresciuto insieme con la modernità nell’età dei diritti e di tutte le loro generazioni - civili, politici, sociali, culturali, che erano andati a furia di battaglie e di tragedie a formare la cosa di tutti, la res publica che valeva la pena di difendere.
E allora, veniamo al dunque. La sinistra non ha perso gli ideali perché è rimasta a cercarli nei campi e nelle officine. Li ha persi perché quelli che di idealità si occupavano - cioè i filosofi, comunque vogliate chiamarli: intellettuali, scrittori, e poi la minoranza pigra e grigia degli accademici, noi insomma - hanno smesso di occuparsene. Maurizio Ferraris stesso ne è testimone, sia nella veste giovanile che in quella matura del suo postmodernismo. Ma abbiamo smesso proprio nel momento in cui la migliore eredità dei Lumi, e insieme la dolorosa cognizione dei valori sofferta nella prima metà del secolo scorso, fra guerre e totalitarismi, si fondevano nella ragion pratica incarnata dei grandi documenti normativi: le Dichiarazioni universali, le costituzioni postbelliche, le Carte europee dei diritti. I filosofi diedero le dimissioni dalla ragione pratica nel momento stesso in cui i migliori fra i nostri padri e madri erano riusciti miracolosamente a incarnarla in embrioni di istituzioni e norme, a provarla, per la prima volta nella storia, universalmente riconosciuta, almeno sulla carta.
Ma la lettera è morta, senza lo spirito. E lo spirito è evaporato quasi subito. Sono rimasti un pugno, fra i filosofi, gli spiriti liberi che non si fecero incantare dai cupi, feroci miti della guerra fredda: i Camus contro i Sartre, i Milosz contro i Lukacs, gli Spinelli e gli Olivetti contro i Banfi e i Kojève... e poi? Poi i francesi sdoganarono il Pastore dell’Essere, quello che prima aveva affidato ai carri armati di Hitler la guerra dell’Essere conto l’ente, e poi aveva fatto spallucce ai campi di sterminio (tanto gli ebrei, questi paradigmi della modernità capitalistico-finanziaria e sradicatrice, “si erano sterminati da soli”).
Con la modernità illuminista ce l’avevano anche gli eredi di Hegel e Marx (l’Illuminismo conduce ai campi di sterminio, copyright Horkheimer). E da questo felice incontro della più nera Selva nera con la dialettica hegeliana nacque il canone della filosofia cosiddetta continentale, quella che per cinquant’anni abbiamo continuato a insegnare perfino nelle scuole. Come sia andata a finire in Italia, per quel po’ di idealità (di filosofia) senza la quale la sinistra annaspa e muore, è cosa nota: ci fu la Coscienza Sprezzante, più realpolitica e decisionista di Carl Schmitt, che poi andò sfumando in teopolitica e teologia negativa. E ci fu la Coscienza Danzante, per le cui maschere senza volto valori e verità sono violenza, tutto è gioiosamente relativo e i fatti cosa da talebani: e Maurizio Ferraris ne è testimone. Così la sinistra rimase senza ragioni. Anzi senza ragione. Altro che campi e officine.
Adesso, nel ventunesimo secolo, all’umanità intera, liberata dal lavoro ceduto agli automi e ben nutrita dalla socializzazione del capitale documentale (qualunque cosa esso sia) potrebbe aprirsi la prospettiva “di una vita dedicata interamente alla produzione di valore”: cioè al consumo, al turismo, alla scrittura, perché ormai il valore si produce così, poi basta socializzarlo e il gioco è fatto.
Supponiamo che sia vero e possibile: sarebbe diverso da un incubo alla Brave New World, la Repubblica dei Felici, liberati da ogni angoscia di dover fare qualcosa di sé stessi senza per questo annichilire gli altri? Che poi è la questione che starebbe al fondo di tutto l’umanesimo e l’idealità e la ragione pratica e la filosofia. Meglio dimenticarsene. Intanto ci stiamo portando avanti: complice il nostro silenzio, si abolisce per decreto lo studio della storia, e in primo luogo del Novecento, obsoleto, che poi tanto non si fa in tempo a farlo. Senza memoria, il pensiero forse è più intelligente, chissà. Certo è un pensiero spensierato.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"NUOVO REALISMO", IN FILOSOFIA. DATO L’ ADDIO A KANT, MAURIZIO FERRARIS SI PROPONE COME IL SUPERFILOSOFO DELLA CONOSCENZA (QUELLA SENZA PIU’ FACOLTA’ DI GIUDIZIO).
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
"ANDRAGATHIA" (’NDRANGHETA). IL MONDO COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE DEL MACROANTROPO ("UOMO SUPREMO", "SUPERUOMO", "DOMINUS IESUS"): FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
Federico La Sala
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO. Come nascono i bambini e le bambine... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019)
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
(www.libreriadelledonne.it, 28 marzo 2019)
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. A che gioco giochiamo?!
Una nota *
Nel 1929, in un breve saggio dedicato a "Hugo Hofmannsthal. In memoriam" (op. cit., pp. 165-176), Curtius scrive: "La regalità era la figurazione più interiore nel rapporto tra Hofmannsthal e il mondo. La funzione di poeta non era per lui che una delle forme in cui essa si manifestava [...] tutte le opere di Hofmannsthal tendono verso la forma ideale di un theatrum mundi, un poema cosmico allegorico-simbolico che eleva il caso dell’esistenza all’ordine delle grandi leggi, che nel temporale, fanno apparire l’eterno. L’allegoria non è qui indebolita ricchezza di vita e la maschera non è apparenza, al contrario, soltanto quando riusciamo a vedere la deformazione, la maschera della nostra esistenza, ne comprendiamo il senso e la verità più profonda".
E poco oltre, condividendo il programma e lo spirito della sua “rivoluzione conservatrice”, così prosegue : "La nostra poesia ha molto sentimento del mondo (Weltgefuhl), ma poco mondo: ha molte visioni del mondo (Weltanschauungen), ma mediocre ne è la sua conoscenza. In Goethe esisteva la possibilità di unire i due aspetti e ristabilire le giuste proporzioni. Ha dovuto condurre il suo Faust alla corte dell’imperatore: era anzi ancora legato all’impero e colorate feste d’incoronazione avevano illuminato la sua infanzia. Non ha sentito più battere il cuore dell’impero [...] L’orizzonte universale del vecchio impero asburgico era stato dato in eredità a Hofmannsthal. Vienna e Madrid non ne facevano meno parte [...]". E, così chiude: “Hofmannsthal ha raccolto nel suo tesoro reale, i beni più preziosi del linguaggio e dell’anima dei paesi latini: noi lo conserviamo come la sua eredità, come «munus Austriacum»”.
Nel 1932 fa il passo “decisivo”: pubblica “Deutscher Geist in Gefahr “ (“Lo spirito tedesco in pericolo”), un libro (una raccolta di articoli di quegli anni), e nella postfazione, confidando nella “metafisica dello spirito”, chiude con il richiamo al “Veni creator spiritus” - “l’inno del franco-renano Rabano Mauro” (“Mille anni più tardi un altro franco-renano, Goethe, ha tradotto questo “splendido canto religioso” e lo ha definito un “appello al genio”) - e con l’auspicio che “sotto questo segno la fede nella Germania e la fede nello spirito possono trovarsi legate e confermate” (cfr. Ernst R. Curtius, “Lo spirito tedesco in pericolo”, in Annamaria Bercini, “Il discorso politico culturale del «Deutscher Geist in Gefahr» di Ernst Robert Curtius”, Bologna 2015)
Le illusioni di Curtius di diventare una guida spirituale della “rivoluzione conservatrice” sono infondate e vengono spazzate via in un baleno: “Il 24 marzo del 1933, subito dopo l’ascesa al Reichstag di Hitler, sul Beiblatt del «Völkischer Beobachter», il giornale ufficiale del partito nazista sin dal 1920, comparve un durissimo articolo di Hermann Sauter (che di lì a qualche anno diverrà direttore della Stadtbibliothek di Monaco), Deutscher Geist in Gefahr? , che era in effetti una stroncatura senza appello del libro di Curtius. L’assenso di Curtius alla missione tedesca è, come si può vedere, in realtà una negazione del nuovo, potente volere tedesco. Ma questo è il nostro credo: che il vero spirito tedesco otterrà nuovamente onore, e sarà capace di avere valenza mondiale, quando sarà ripulito dal peso accumulato nella cosiddetta libertà spirituale del decennio passato. Sauter concludeva con quello che appare un vero avvertimento da mafioso. Curtius può avere ancora un ruolo importante nella nuova Germania, ma a patto di non tentare più di fare il Kulturpolitiker, perché non capisce nulla dei fondamenti autentici - cioè biologici - della cultura tedesca.” (cfr. Carlo Donà, “Lo spirito tedesco e la crisi della mezza età: «Deutscher Geist in Gefahr» (1932)” ).
Dopo la catastrofe della Germania del “Terzo Reich”, Curtius ancora non capisce: continua il suo “sogno” calderonico e la “vacanza” nel suo “illuminato” (contro e) pre-illuministico “stato di minorità” (I. Kant, 1784). E nel 1947, come se niente fosse successo, alla fine del primo capitolo di “Letteratura europea Medio Evo latino”, intitolato “Letteratura europea”, con un “occhiolino” a Benedetto Croce (e alla memoria di Hegel), riprende il lavoro per il “nuovo ordine culturale”, già proposto nel “Deutscher Geist in Gefahr” del 1932, e ricomincia: “Della letteratura europea l’eroe fondatore (heros ktistes) è Omero, l’ultimo autore universale è Goethe. Ciò che questi rappresenta per la Germania lo ha riassunto Hofmannsthal [...] La letteratura del secolo XIX e dell’inizio del XX non è stata ancora scandagliata, in essa non è stato ancora distinto ciò che è vivo e ciò che è morto. Ciò potrà dare materia per molte dissertazioni, la parola decisiva sarà però pronunciata non dalla storia della letteratura, ma dalla critica letteraria. Per questo compito noi, in Germania, abbiamo Friedrich Schlegel - e seguaci” (op. cit., p. 24)!
Purtroppo, per Curtius, che è vissuto e cresciuto all’interno di coordinate storico-culturali da Sacro Impero (romano, spagnolo, e germanico), e nelle cui orecchie risuona ancora l’ordine dato a Maria Antonietta dalla Madre-Imperatrice (“Rimanete un buon tedesco!”), “la vita è sogno” e non c’e alcuna possibilità di riconsiderare critica-mente né il lavoro di Ernst H. Kantorowicz (anch’egli vicino al “cerchio” di Stefan George) sulla figura dell’Imperatore Federico II (1927/1931), né tantomeno “l’autunno del Medio Evo”, il “declino del simbolismo” e la lezione su Dante di Johan Huizinga ("L’autunno del Medio Evo" [1919, 1921, 1928]): “[...] per indicare il rapporto fra l’autorità spirituale e quella temporale il Medioevo si serviva costantemente di due similitudini simboliche [...] La forza del simbolo è tale da intralciare l’indagine sullo sviluppo storico dei due poteri. Dante, avendo riconosciuto la necessità e il valore decisivo di tale indagine, si vede costretto, nel suo Monarchia, a spezzare prima la forza del simbolo, contestando la sua applicabilità, ed aprendosi così la strada alla ricerca storica".
La totale incomprensione del “relazionismo” proposto di Karl Mannheim in “Ideologia e Utopia” (1929), esaminato e rigettato nel capitolo quarto dello “Spirito tedesco in pericolo”, impedisce a Curtius di aprire gli occhi su stesso e sul mondo, di uscire dal relativismo-assolutismo dogmatico in cui naviga, e di smetterla di sognare il “sogno dei visionari” (sul tema, mi sia lecito, cfr.: “Heidegger, Kant, e la miseria della filosofia - oggi”).
“Sogno o son desto?”: a che gioco si continua a giocare? Non è meglio cambiare gioco!? Per l’Europa - e per l’intero Pianeta? Boh? e bah!?
*
Federico La Sala
Storia.
Il sogno di Napoleone: l’archivio dell’impero
Bonaparte aveva capito che, controllando la memoria dei popoli, li si teneva in pugno e si poteva scrivere la storia come prova della legittimità del proprio potere
di Edoardo Castagna (Avvenire, giovedì 11 aprile 2019)
Del saccheggio napoleonico di opere d’arte, con i lunghi strascichi relativi alle restituzioni o alle mancate restituzioni, molto si è scritto. Assai meno del saccheggio di uomini, della “carne da cannone” razziata come e più di quadri e statue in ogni angolo d’Europa, per finire seppellita tra le colline boeme o nelle steppe di Russia. Tutti iscritti all’anagrafe della storia come “francesi” sebbene in gran parte francesi non fossero affatto, come lo stesso Napoleone si premurò poi di rimarcare. Ma le appartenenze nazionali, così come le tradizioni storiche e le memorie collettive, si costruiscono. Ed è per questo che tra i tanti saccheggi napoleonici uno, perseguito con particolare tenacia, si concentrò sugli archivi delle varie capitali via via occupate e inglobate nell’Impero.
Vicenda meno nota di altre, ben ricostruita da Maria Pia Donato nel suo L’archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia (Laterza, pagine 170, euro 19,00). La sua versione dell’eterno sogno della biblioteca universale si declinò utilitaristicamente verso la condensazione sotto un unico controllo di quella che avrebbe dovuto essere la fonte primaria sia per la scrittura della storia nei secoli a venire, sia per la costruzione di una tradizione e di un’identità comune a tutta l’Europa posta sotto lo scettro di Napoleone, in ideale rimando all’unità medievale dei “due soli” a cui esplicitamente tale operazione si ispirò. Furono infatti la conquista, nel 1809, degli archivi del Sacro Romano Impero e del Papato a mettere in moto la macchina accentratrice dell’archivio dell’Impero.
Come in tante altre occasioni, la storia seguiva la propria strada indipendentemente dalla volontà degli uomini, tanto che l’idea di centralizzare gli archivi europei, sottolinea la Donato, seguì e non precedette l’inizio della sua realizzazione: il suo Napoleone è perfettamente tolstojano, in balìa di quegli stessi eventi epocali che si illude di governare. Stando al trattato con l’Austria nel 1809, avrebbero dovuto passare sotto controllo francese soltanto gli atti relativi ai territori ceduti agli occupanti: i quali invece, con militaresca ruvidità, prelevarono in blocco le carte conservate a Vienna, quali che fossero e di ogni epoca. Furono riempite oltre 2.500 casse, caricate sui carri e spedite a Parigi.
Simile fu la brutalità con la quale si procedette al- l’acquisizione degli archivi di Roma, il cui sequestro in realtà fu, almeno inizialmente, funzionale alla volontà di Napoleone di mettere sotto pressione il Papa: tanto che nel 1813, quando l’imperatore credette di averla spuntata su Pio VII, ordinò la restituzione delle carte. Per rimangiarsela, naturalmente, quando mutò nuovamente idea sul conto del Pontefice. Nel frattempo però, e anche in contraddizione con i tatticismi politici del momento, maturava in lui e nei suoi collaboratori «l’idea di creare un sito centrale della memoria per l’impero, anzi una grandiosa raccolta delle testimonianze scritte della civiltà», nota la Donato; via via furono acquisiti gli archivi olandesi, spagnoli, piemontesi, belgi, della galassia di staterelli tedeschi.
A sovrintendere al tutto fu l’archivista capo Pierre-Claude-François Daunou: ex prete, ex illuminista, ex fervente repubblicano, infine comodamente adagiato nell’ordine bonapartista (al quale peraltro sarebbe sopravvissuto). Nella sua opera trasfuse, al pari di quella contemporanea e simmetrica dei curatori del Louvre, del Jardin des plantes o della Biblioteca nazionale di Parigi, l’ideale e l’ambizione enciclopedici degli Idéologues illuministi. «Fu elaborata sul campo - nota la Donato - la dottrina che Édouard Pommier ha chiamato “la teoria del rimpatrio”, ossia l’idea che solo nella Francia rigenerata le opere delle scienze e delle arti avrebbero potuto sprigionare il loro potenziale di conoscenza ed emancipazione».
Daunou aveva ben servito Napoleone compilando un Saggio storico sul potere temporale dei papi tutto teso a mostrare le malefatte plurisecolari del Papato e le buone ragioni di un imperatore nel volerlo ridurre alla sua mercé; il Saggio venne ripetutamente riveduto e ampliato proprio grazie alle nuove fonti archivistiche divenute disponibili. Ma Daunou non era un mero cortigiano, anzi: nella sua opera di gran maestro dell’archivio napoleonico diede indubbie prove di capacità organizzative, di intelligenza pratica (fu l’inventore di quelle “schede”, uniformi per formato e ordine delle informazioni, divenute poi di uso universale fino all’avvento della digitalizzazione) e anche di un po’ di visionarietà.
Non ci fu il tempo di costruire l’immenso palazzo che avrebbe dovuto ospitare i Grandi Archivi, ma quello per affermarne la centralità storica sì: non solo, prosegue la Donato, «furono l’invenzione simbolica di un impero in cerca di radici», ma offrivano anche l’occasione di coltivare la storia pragmatica che era stata degli Idéologues. L’archivio serviva (anche) a scrivere la storia», e per questo esserne i controllori significava essere i controllori della memoria dei popoli. Nelle carte degli archivi si trovano i mattoni fondamentali per erigere quei monumenti umani collettivi che sono le identità naziona-li: una lezione, questa, che gli Stati- nazione che sarebbero sorti dopo il tramonto dell’età napoleonica, e che rientrarono in possesso dei rispettivi archivi, avrebbero ben messo a frutto.
Brexit, le costituzioni e la tigre della sovranità popolare
di Francesco Palermo (Il Mulino, 28 marzo 2019)
Il termine tedesco Schadenfreude indica la sensazione di piacere che si può provare quando a qualcuno vanno male le cose. Rallegrarsi delle disgrazie altrui, tuttavia, non solo è un sentimento negativo, ma può essere controproducente, giacché in un mondo interconnesso le sciagure altrui finiscono rapidamente per essere anche nostre. Di certo può essere un divertente e sottilmente perfido esercizio pensare a cosa avrebbe detto il mondo intero se il cortocircuito istituzionale sulla Brexit, che sta paralizzando da tre anni il Regno Unito, si fosse realizzato in Italia... Finita però la soddisfazione per lo scampato pericolo, e non potendo prevedere gli esiti di un processo nel quale la realtà supera quotidianamente la fantasia, si possono comunque avanzare un paio di riflessioni di sistema su questioni che riguardano non solo il Regno Unito, ma tutta Europa e forse tutto il mondo. Questioni sulle quali c’è poco da ridere, come sulle disgrazie altrui.
La prima è che la costituzione più antica e solida del mondo, l’unica talmente resistente da non avere avuto nemmeno bisogno di essere messa interamente nero su bianco in un unico documento, è rapidamente diventata troppo vecchia per stare al passo con la storia. I segnali ci sono già da almeno un paio di decenni (che comunque in termini di storia costituzionale britannica sono un batter di ciglia), e i vari tentativi di manutenzione che si sono susseguiti hanno solo mascherato e leggermente ritardato il declino.
Come talvolta capita alle persone anziane, che quasi all’improvviso passano da una buona forma alla condizione di moribondi, la costituzione britannica si è scoperta non più in grado di reggere le sfide della complessità moderna. Il meccanismo basato sull’onnipotenza del Parlamento, o meglio della sua maggioranza pro tempore, è andato in crisi di fronte ai paradossi delle decisioni a maggioranza. Non tutto può essere disponibile per le maggioranze parlamentari e dunque per i governi, e secoli di costituzionalismo, in buona parte nato proprio in Gran Bretagna, hanno insegnato che non basta confidare sulla responsabilità delle maggioranze, ma occorrono degli argini al loro potere.
Problema britannico si dirà? Niente affatto. Il problema è del mondo intero, perché in tempi burrascosi e difficili servono barche solide per non affondare. La costituzione britannica, a lungo vittoriosa come la flotta di Sua Maestà, si è mostrata troppo semplice e fragile nel momento in cui c’è bisogno di strumenti tecnici più sofisticati. Navigare ancora con un galeone del Settecento, per quanto straordinario fosse per quei tempi, non è consigliabile al giorno d’oggi. Mutatis mutandis vale per tutte le costituzioni: il loro mancato adeguamento tecnico le rende facilmente obsolete.
La seconda riflessione riguarda il cortocircuito del sistema decisionale. Quando la politica non è più in grado di assumere decisioni complesse, le scarica sulla popolazione. Pensando di trarne legittimità, finisce invece in un vicolo cieco. Poteva accadere col referendum sull’indipendenza della Scozia nel 2014. Ma siccome il giochino è sembrato funzionare, l’allora Primo Ministro David Cameron l’ha rifatto tale e quale con la Brexit. E gli è andata male.
Oggi, a fronte della paralisi istituzionale che si è creata, alcuni britannici e molti più europei suggeriscono l’idea di un secondo referendum. Che sarebbe un’idea più stupida della prima. Se anche i rapporti si ribaltassero, e il 52% fosse ora a favore della permanenza nell’Unione europea, cosa cambierebbe? Avremmo due risultati contraddittori presi in momenti diversi. La popolazione resterebbe spaccata e la politica ancora più confusa. E comunque non succederà, perché la tigre della sovranità popolare è già stata liberata, ha disarcionato chi provava a cavalcarla e ora ha reso prigionieri i suoi carcerieri. Quando May ripete che il popolo si è espresso e lei deve dare esecuzione alla volontà popolare dimostra tutta la debolezza del processo politico. E la dimostra proprio perché ha ragione: non ha più alternative, ormai è tardi, e un secondo referendum farebbe altri danni oltre a quelli già fatti dal primo.
Resta il problema di come decidere in contesti altamente complessi come questi. E anche il rischio che i processi decisionali siano lunghi nei tempi e insoddisfacenti nei risultati. Vero. Ma è esattamente quanto sta accadendo con la Brexit. Occorre accettare che servono freni alle maggioranze, invece di provare ad approfittare dell’effimera maggioranza del momento, chiunque l’abbia in mano. Questi freni si chiamano costituzioni. E vanno adeguati alla velocità e ai materiali moderni. Al di là della Schadenfreude momentanea, qualcuno pensa che sia un problema solo britannico?
DELLO SPIRITO DI FAMIGLIA. Il cap. XXVI del "DEI DELITTI E DELLE PENE"
di Cesare Beccaria*
Queste funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche piú illuminati, ed esercitate dalle repubbliche piú libere, per aver considerato piuttosto la società come un’unione di famiglie che come un’unione di uomini. Vi siano cento mila uomini, o sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque persone, compresovi il capo che la rappresenta: se l’associazione è fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi; se l’associazione è di uomini, vi saranno cento mila cittadini e nessuno schiavo.
Nel primo caso vi sarà una repubblica, e ventimila piccole monarchie che la compongono; nel secondo lo spirito repubblicano non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura, dove sta gran parte della felicità o della miseria degli uomini. Nel primo caso, come le leggi ed i costumi sonol’effetto dei sentimenti abituali dei membri della repubblica, o sia dei capi della famiglia, lo spirito monarchico s’introdurrà a poco a poco nella repubblica medesima; ei di lui effetti saranno frenati soltanto dagl’interessi opposti di ciascuno, ma non già da un sentimento spirante libertà ed uguaglianza.
Lo spirito di famiglia è uno spirito di dettaglio e limitato a’ piccoli fatti. Lo spirito regolatore delle repubbliche, padrone dei principii generali, vede i fatti e gli condensa nelle classi principali ed importanti al bene della maggior parte. Nella repubblica di famiglie i figli rimangono nella potestà del capo, finché vive, e sono costretti ad aspettare dalla di lui morte una esistenza dipendente dalle sole leggi. Avezzi a piegare e da temere nell’età piú verde e vigorosa, quando i sentimenti son meno modificati da quel timore di esperienza che chiamasi moderazione, come resisteranno essi agli ostacoli che il vizio sempre oppone alla virtú nella lan-guida e cadente età, in cui anche la disperazione di vederne i frutti si oppone ai vigorosi cambiamenti?
Quando la repubblica è di uomini, la famiglia non è una subordinazione di comando, ma di contratto, e i figli, quando l’età gli trae dalla dipendenza di natura, cheè quella della debolezza e del bisogno di educazione e didifesa, diventano liberi membri della città, e si assoggettano al capo di famiglia, per parteciparne i vantaggi, come gli uomini liberi nella grande società.
Nel primo caso i figli, cioè la piú gran parte e la piú utile della nazione, sono alla discrezione dei padri, nel secondo non sussiste altro legame comandato che quel sacro ed inviolabile di somministrarci reciprocamente i necessari soccorsi, e quello della gratitudine per i benefici ricevuti, il quale non è tanto distrutto dalla malizia del cuore umano,quanto da una mal intesa soggezione voluta dalle leggi. Tali contradizioni fralle leggi di famiglia e le fondamentali della repubblica sono una feconda sorgente di altre contradizioni fralla morale domestica e la pubblica, e però fanno nascere un perpetuo conflitto nell’animo di ciascun uomo.
La prima inspira soggezione e timore, la seconda coraggio e libertà; quella insegna a ristringere la beneficenza ad un piccol numero di persone senza spontanea scelta, questa a stenderla ad ogni classe di uomini; quella comanda un continuo sacrificio di se stesso a un idolo vano, che si chiama bene di famiglia, che spesse volte non è il bene d’alcuno che la compone; questa insegna di servire ai propri vantaggi senza offendere le leggi, o eccita ad immolarsi alla patria col premio del fanatismo, che previene l’azione. Tali contrasti fanno chegli uomini si sdegnino a seguire la virtú che trovano inviluppata e confusa, e in quella lontananza che nasce dall’oscurità degli oggetti sí fisici che morali. Quante volte un uomo, rivolgendosi alle sue azioni passate, resta attonito di trovarsi malonesto!
A misura che la società si moltiplica, ciascun membro diviene piú piccola parte del tutto, e il sentimento repubblicano si sminuisce proporzionalmente, se cura non è delle leggi di rinforzarlo. Le società hanno come i corpi umani i loro limiti circonscritti, al di là de’ quali crescendo, l’economia ne è necessariamente disturbata. Sembra che la massa di uno stato debba essere in ragione inversa della sensibilità di chi lo compone, altrimenti, crescendo l’una e l’altra, le buone leggi troverebbono nel prevenire i delitti un ostacolo nel bene medesimo che hanno prodotto.
Una repubblica troppo vasta non si salva dal dispotismo che col sottodividersi e unirsi in tante repubbliche federative. Ma come ottener questo? Da un dittatore dispotico che abbia il coraggio di Silla, e tanto genio d’edificare quant’egli n’ebbe per distruggere. Un tal uomo, se sarà ambizioso, la gloria di tutt’i secoli lo aspetta, se sarà filosofo, le benedizioni de’ suoi cittadini lo consoleranno della perdita dell’autorità, quando pure non divenisse indifferente alla loro ingratitudine. A misura che i sentimenti che ci uniscono alla nazione s’indeboliscono, si rinforzano i sentimenti per gli oggetti che ci circondano,e però sotto il dispotismo piú forte le amicizie sono piú durevoli, e le virtú sempre mediocri di famiglia sono le piú comuni o piuttosto le sole. Da ciò può ciascuno vedere quanto fossero limitate le viste della piú parte dei legislatori.
* Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Letteratura italiana Einaudi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". Dalla democrazia della "volontà generale" alla democrazia della "volontà di genere". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PIANETA TERRA. 8 MARZO 2019: IL GRADO DI CIVILTA’ CUI L’UOMO E’ GIUNTO .... *
"[...] Nel rapporto con la donna, in quanto essa è la preda e la serva del piacere della comunità, si esprime l’infinita degradazione in cui vive l’uomo per se stesso: infatti il segreto di questo rapporto ha la sua espressione inequivocabile, decisa, manifesta, scoperta, nel rapporto del maschio con la femmina e nel modo in cui viene inteso il rapporto immediato e naturale della specie.
Il rapporto immediato, naturale, necessario dell’uomo con l’uomo è il rapporto del maschio con la femmina. In questo rapporto naturale della specie il rapporto dell’uomo con la natura è immediatamente il rapporto dell’uomo con l’uomo, allo stesso modo che il rapporto con l’uomo è immediatamente il rapporto dell’uomo con la natura, cioè la sua propria determinazione naturale.
Cosi in questo rapporto appare in modo sensibile, cioè ridotto ad un fatto d’intuizione, sino a qual punto per l’uomo l’essenza umana sia diventata natura o la natura sia diventata l’essenza umana dell’uomo.
In base a questo rapporto si può dunque giudicare interamente il grado di civiltà cui l’uomo è giunto. Dal carattere di questo rapporto si ricava sino a qual punto l’uomo come essere appartenente ad una specie si sia fatto uomo, e si sia compreso come uomo; il rapporto del maschio con la femmina è il più naturale dei rapporti che abbiano luogo tra uomo e uomo.
In esso si mostra sino a che punto il comportamento naturale dell’uomo sia diventato umano oppure sino a che punto l’essenza umana sia diventata per lui essenza naturale, e la sua natura umana sia diventata per lui natura. In questo rapporto si mostra ancora sino a che punto il bisogno dell’uomo sia diventato bisogno umano, e dunque sino a che punto l’altro uomo in quanto uomo sia diventato per lui un bisogno, ed egli nella sua esistenza più individuale sia ad un tempo comunità [...]".
* K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844. Sul tema, si cfr.: CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”.... *
Un piccolo grande passo
di Roberto Mussapi (Avvenire, mercoledì 6 marzo 2019)
«Solo un piccolo passo per un uomo, ma un passo da gigante per l’umanità!». Si avvicina il cinquantenario di uno dei più grandi trionfi umani: lo sbarco sulla Luna. Mentre avveniva compivo diciassette anni: non male come regalo di compleanno.
La frase che sarebbe rimasta leggendaria di Neil Armstrong mi commosse, come commosse il mondo, ma confesso che non la compresi bene. La seconda parte chiara: evidente che quel momento siglava un passo enorme per l’umanità, che dalla sua nascita scruta e interroga il nostro satellite notturno, custode e ispiratore del sogno. Ma non comprendevo perché definire "piccolo", per un uomo, quel primo passo sulla nuova terra sognata.
Ora credo di avere capito. Per immedesimazione, mettendomi nei panni di Armstrong, come fa un attore.
La terra vista dall’alto... E la mia gamba, che piccola cosa! Il mio piedino, dopo questo viaggio nello spazio immenso... Che esserino io sono, qui nell’infinità dell’universo. Il mio passo è piccolo perché io sono piccolo. Ma io non sono solo io, io sono l’umanità. Io sono parte del coro e degli atomi di tutti gli uomini, dal primo apparso sulla terra a tutti quelli che si susseguono, in ogni parte del mondo e in ogni tempo. Il mio piccolo passo è un grande passo dell’umanità, a cui appartengo.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIVOLUZIONE COPERNICANA. "Vicisti, Galileae" (Keplero, 1611).
UNESCO: IL 2009 ANNO INTERNAZIONALE DELL’ASTRONOMIA. Che farà l’Italia? Galileo di nuovo al confino!?!
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
LA LUCE, LA TERRA, E LA LINEA DELLA BELLEZZA: LA MENTE ACCOGLIENTE. "Note per una epistemologia genesica"
Federico La Sala
Catechesi sul “Padre nostro”: 7. Padre che sei nei cieli
di Papa Francesco *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
L’udienza di oggi si sviluppa in due posti. Prima ho fatto l’incontro con i fedeli di Benevento, che erano in San Pietro, e adesso con voi. E questo è dovuto alla delicatezza della Prefettura della Casa Pontificia che non voleva che voi prendeste freddo: ringraziamo loro, che hanno fatto questo. Grazie.
Proseguiamo le catechesi sul “Padre nostro”. Il primo passo di ogni preghiera cristiana è l’ingresso in un mistero, quello della paternità di Dio. Non si può pregare come i pappagalli. O tu entri nel mistero, nella consapevolezza che Dio è tuo Padre, o non preghi. Se io voglio pregare Dio mio Padre incomincio il mistero.
Per capire in che misura Dio ci è padre, noi pensiamo alle figure dei nostri genitori, ma dobbiamo sempre in qualche misura “raffinarle”, purificarle. Lo dice anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, dice così: «La purificazione del cuore concerne le immagini paterne e materne, quali si sono configurate nella nostra storia personale e culturale, e che influiscono sulla nostra relazione con Dio» (n. 2779).
Nessuno di noi ha avuto genitori perfetti, nessuno; come noi, a nostra volta, non saremo mai genitori, o pastori, perfetti. Tutti abbiamo difetti, tutti. Le nostre relazioni di amore le viviamo sempre sotto il segno dei nostri limiti e anche del nostro egoismo, perciò sono spesso inquinate da desideri di possesso o di manipolazione dell’altro. Per questo a volte le dichiarazioni di amore si tramutano in sentimenti di rabbia e di ostilità. Ma guarda, questi due si amavano tanto la settimana scorsa, oggi si odiano a morte: questo lo vediamo tutti i giorni! E’ per questo, perché tutti abbiamo radici amare dentro, che non sono buone e alle volte escono e fanno del male.
Ecco perché, quando parliamo di Dio come “padre”, mentre pensiamo all’immagine dei nostri genitori, specialmente se ci hanno voluto bene, nello stesso tempo dobbiamo andare oltre. Perché l’amore di Dio è quello del Padre “che è nei cieli”, secondo l’espressione che ci invita ad usare Gesù: è l’amore totale che noi in questa vita assaporiamo solo in maniera imperfetta. Gli uomini e le donne sono eternamente mendicanti di amore, - noi siamo mendicanti di amore, abbiamo bisogno di amore - cercano un luogo dove essere finalmente amati, ma non lo trovano. Quante amicizie e quanti amori delusi ci sono nel nostro mondo; tanti!
Il dio greco dell’amore, nella mitologia, è quello più tragico in assoluto: non si capisce se sia un essere angelico oppure un demone. La mitologia dice che è figlio di Poros e di Penía, cioè della scaltrezza e della povertà, destinato a portare in sé stesso un po’ della fisionomia di questi genitori. Di qui possiamo pensare alla natura ambivalente dell’amore umano: capace di fiorire e di vivere prepotente in un’ora del giorno, e subito dopo appassire e morire; quello che afferra, gli sfugge sempre via (cfr Platone, Simposio, 203). C’è un’espressione del profeta Osea che inquadra in maniera impietosa la congenita debolezza del nostro amore: «Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce» (6,4). Ecco che cos’è spesso il nostro amore: una promessa che si fatica a mantenere, un tentativo che presto inaridisce e svapora, un po’ come quando al mattino esce il sole e si porta via la rugiada della notte.
Quante volte noi uomini abbiamo amato in questa maniera così debole e intermittente. Tutti ne abbiamo l’esperienza: abbiamo amato ma poi quell’amore è caduto o è diventato debole. Desiderosi di voler bene, ci siamo poi scontrati con i nostri limiti, con la povertà delle nostre forze: incapaci di mantenere una promessa che nei giorni di grazia ci sembrava facile da realizzare. In fondo anche l’apostolo Pietro ha avuto paura e ha dovuto fuggire. L’apostolo Pietro non è stato fedele all’amore di Gesù. Sempre c’è questa debolezza che ci fa cadere. Siamo mendicanti che nel cammino rischiano di non trovare mai completamente quel tesoro che cercano fin dal primo giorno della loro vita: l’amore.
Però, esiste un altro amore, quello del Padre “che è nei cieli”. Nessuno deve dubitare di essere destinatario di questo amore. Ci ama. “Mi ama”, possiamo dire. Se anche nostro padre e nostra madre non ci avessero amato - un’ipotesi storica -, c’è un Dio nei cieli che ci ama come nessuno su questa terra ha mai fatto e potrà mai fare. L’amore di Dio è costante. Dice il profeta Isaia: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato» (49,15-16).
Oggi è di moda il tatuaggio: “Sulle palme delle mie mani ti ho disegnato”. Ho fatto un tatuaggio di te sulle mie mani. Io sono nelle mani di Dio, così, e non posso toglierlo. L’amore di Dio è come l’amore di una madre, che mai si può dimenticare. E se una madre si dimentica? “Io non mi dimenticherò”, dice il Signore. Questo è l’amore perfetto di Dio, così siamo amati da Lui. Se anche tutti i nostri amori terreni si sgretolassero e non ci restasse in mano altro che polvere, c’è sempre per tutti noi, ardente, l’amore unico e fedele di Dio.
Nella fame d’amore che tutti sentiamo, non cerchiamo qualcosa che non esiste: essa è invece l’invito a conoscere Dio che è padre. La conversione di Sant’Agostino, ad esempio, è transitata per questo crinale: il giovane e brillante retore cercava semplicemente tra le creature qualcosa che nessuna creatura gli poteva dare, finché un giorno ebbe il coraggio di alzare lo sguardo. E in quel giorno conobbe Dio. Dio che ama.
L’espressione “nei cieli” non vuole esprimere una lontananza, ma una diversità radicale di amore, un’altra dimensione di amore, un amore instancabile, un amore che sempre rimarrà, anzi, che sempre è alla portata di mano. Basta dire “Padre nostro che sei nei Cieli”, e quell’amore viene.
Pertanto, non temere! Nessuno di noi è solo. Se anche per sventura il tuo padre terreno si fosse dimenticato di te e tu fossi in rancore con lui, non ti è negata l’esperienza fondamentale della fede cristiana: quella di sapere che sei figlio amatissimo di Dio, e che non c’è niente nella vita che possa spegnere il suo amore appassionato per te.
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PAPA FRANCESCO - UDIENZA GENERALE -Aula Paolo VI
Mercoledì, 20 febbraio 2019 (ripresa parziale).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
Federico La Sala
ARACNE, FILOMELA, E TRE ARAZZI. Arte e resistenza: ascoltare la voce della spoletta ... *
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Tessere come smascheramento: disfare la violenza dello stupro
La tela di Aracne apre il libro sesto delle Metamorfosi, la storia di Filomela lo chiude.
Per entrambe queste donne, tessere rappresenta lo smascheramento dei "misteri sacri" e il disfare la violenza dello stupro. Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare: quella delle donne stuprate da dèi che si mutano in bestie. Prima dell’intervento della dea gelosa, Aracne è il centro di una comunità femminile.
Insuperabile nella sua arte, Aracne è così piena di grazia che donne da ogni luogo vengono da lei per vederla cardare, filare, tessere. Attorno a lei si radunano altre donne che guardano, parlano, lavorano, riposano. Qui il telaio rappresenta un’occasione per creare comunità e pace, un contesto in cui è possibile, per il piacere, essere non violento e non possessivo.
In questo Aracne ricorda Saffo, che pure era il centro di una comunità di donne e a cui similmente Ovidio riserva un vicolo cieco, adottando la tradizione che tenta di sminuire la poetessa facendola morire suicida poiché respinta da un uomo. Ciò che sopravvive del lavoro di Saffo e gli studi successivi respingono come falsa questa ipotesi.
E’ solo facendo uno sforzo di interpretazione che noi oggi possiamo suggerire che Aracne, la donna artista, non si impiccò come ci racconta la storia, ma fu linciata. Il suicidio è un surrogato dell’omicidio. Aracne è distrutta dal suo stesso strumento quando esso è nelle mani della dea irata.
Ma chi è Atena? Non realmente femmina, giacché emerge, priva di madre, dalla testa del padre, una fantasia maschile che si fa carne, che strangola la voce delle donne reali. Lei è la figlia vergine il cui scudo è la testa di un’altra vittima donna, Medusa. Atena è la pseudo-donna che racconta la storia del giusto ordine.
Centrali, nel suo arazzo, sono gli dei in tutta la loro gloria, ma ai quattro angoli della tela, all’interno del bordo di rami d’olivo, Atena tesse un ammonimento alla donna artista, affinché essa non resista all’autorità ed alla gerarchia: in colori brillanti, quattro figure dicono "Pericolo!".
L’errore di Aracne è solo apparentemente l’orgoglio per la propria arte (che è pienamente giustificato: Aracne vince la gara); in verità, lei è in pericolo perché racconta una storia pericolosa. Fra le donne rappresentate nel suo arazzo c’è la stessa Medusa.
Raccontare lo stupro di Medusa da parte di Poseidone è suggerire ciò che può nascondere il mito per cui la donna muta gli uomini in pietra. Il luogo del crimine era l’altare di un tempio di Atena. Il retroterra del crimine era la necessità della città di scegliere un dio per darsi nome e ciò che usualmente viene rappresentato come una rivalità fra Poseidone ed Atena per ottenere tale onore.
Medusa fu stuprata o sacrificata sull’altare di Atena? Fu la donna "punita" da Atena, o fu uccisa durante una crisi, come offerta della città di Atene ad una dea "adirata", proprio come Ifigenia fu sacrificata ad una Artemide assetata di sangue? Dietro alla testa decapitata della donna, che Perseo usa per mutare gli uomini in pietra, c’è l’antica Gorgone, la maschera apotropaica rituale che segnava gli angoli dei camini nelle case ateniesi.
La Medusa mitica può ricordare una reale vittima sacrificale: dietro la testa che tramuta in pietra gli uomini, potrebbe esserci una donna lapidata a morte dagli uomini. E, anche qui, la responsabilità deve cadere su un’altra "donna", Atena.
La storia viene erotizzata dal collocare la violenza fra uomini e donne, e Freud, nella sua equazione "decapitazione = castrazione" rinforza e sviluppa la misoginia presente nel sacrificio mitico. Se Medusa è divenuta una figura centrale con cui ogni donna artista deve fare i conti è perché, ella stessa ridotta al silenzio, Medusa è stata usata per ridurre al silenzio altre donne.
Aracne, narrando sulla tela le storie delle donne stuprate da dei mutati in bestie, demistifica gli dei (il sacro) e li rivela come bestie (la violenza). Ovidio può raccontare la sua versione della storia solo perché la versione della donna è stata strappata in pezzi e lei stessa ricondotta ad uno stato "naturale".
Proprio come Freud, terrorizzato dalla "donna-come-madre" e dalla donna tessitrice, usa la psicoanalisi per riportare le donne ad un’identificazione con la "natura", così il mito usa Atena affinché trasformi Aracne in un ragno repellente, che potrà tessere tele puramente letterali, disegni incomprensibili. La metamorfosi, così come la psicoanalisi nelle mani di Freud, rovescia la direzione della violenza: Medusa, come Aracne, spaventa e minaccia gli uomini.
Il ragno femmina intrappola e divora i maschi che si accoppiano con lei... Lo strumento della tessitrice, la spoletta, viene usato per ridurla al silenzio. Ma non viene usato per zittire l’artista maschio, che si appropria dell’abilità femminile quale metafora per la propria stessa abilità.
Quale strumento di violenza, Atena è un’estensione di Zeus. La vendetta sulla donna artista, che usa il telaio per raccontare storie che non ci è permesso di udire se non sono mediate dagli uomini, non è una vendetta degli dei, è una vendetta culturale.
Quando Filomela comincia a tessere durante il suo lungo anno di prigionia, non è solo la sua sofferenza che la muove ad un nuovo uso del telaio, ma lo specifico scopo di essere udita da sua sorella. Come strumento che lega e connette il telaio (o la spoletta che è una sua parte) ri-membra e aggiusta ciò che la violenza riduce in pezzi: il legame fra sorelle, il potere della donna di parlare, la forma della comunità, la comunicazione. La guerra ed il tessere sono antitetici.
Ma il mito ci chiede di credere che, dopo il suo lungo e paziente sforzo, Filomela sia disposta a trasformare il suo lavoro al telaio in vendetta immediata. Ci si chiede di credere, dopo che Filomela ha trasformato la prigione in laboratorio e la disciplina domestica in un anno di lotta, che tutto ciò l’ha lasciata immutata, che la sua scoperta non ha il potere di cambiare nulla.
E il mito ci chiede di credere che dopo un anno di pianto sulla tomba della sorella, Procne sia disposta non ad un rito di riunione, ma ad uno di omicidio. L’alternativa più importante suggerita dall’arazzo di Filomela non è mai stata considerata: il potere del testo di insegnare all’uomo a conoscere se stesso.
E’ il barbaro Tereo o è il cittadino greco che risponde alla storia tessuta dalla donna con la violenza? All’interno della tradizione greca, il mito è stato usato per insegnare alle donne il pericolo insito nella nostra capacità di vendicarci. Ma se il mito istruisce, così come è istruttivo l’arazzo di Filomela, allora ci dice anche che possiamo insegnare a noi stesse, all’interno del potere dell’arte, le forme della resistenza.
E’ il tentativo di negare che il tessere di Filomela poteva avere altri fini a parte la vendetta che rende il mito così pericoloso, perché esso tenta di persuaderci al considerare la violenza inevitabile e l’arte debole... ma è lo stesso mito a testimoniare contro se stesso, perché se l’arte di Aracne e Filomela fosse davvero stata così debole, non sarebbe stata repressa con violenza così estrema. [...]
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Federico La Sala
COSTITUZIONE - E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ... *
Il caso italiano
Il sacro dovere e la sua torsione populista
di Francesco Palermo (Il Mulino, 31 gennaio 2019)
La Costituzione è il perimetro entro il quale la politica si muove, o meglio, si dovrebbe muovere, con le proprie scelte discrezionali. È il ring nel quale il legittimo conflitto di idee si svolge, o si dovrebbe svolgere, secondo regole prestabilite, la cui interpretazione è affidata ad arbitri, a organismi super partes, i più importanti dei quali sono la Corte costituzionale e il presidente della Repubblica. È, pertanto, non solo legittimo ma anzi doveroso che la politica ricorra ad argomentazioni costituzionali per giustificare le proprie azioni e le proprie tesi, perché solo dentro la Costituzione può svolgersi la politica.
La Costituzione è, per certi aspetti, la versione laica del principio di esclusività tipico della religione: "non avrai altro Dio all’infuori di me". E non può esserci politica al di fuori della Costituzione. Come troppo spesso accade anche con la religione, però, non è raro che i precetti vengano piegati a interpretazioni funzionali alla preferenza politica del momento. E che tale torsione venga compiuta non già dagli arbitri, bensì dai giocatori.
Un esempio di particolare interesse si è registrato in questi giorni, quando il ministro dell’Interno ha invocato l’articolo 52 della Costituzione per giustificare la propria politica in materia di sbarchi. Nelle due vicende, seppur diverse tra loro, della nave Diciotti da un lato (per la quale pende una richiesta di autorizzazione a procedere nei suoi confronti) e della nave Sea watch dall’altro (la cui vertenza, di fatto, è ancora aperta), il ministro Salvini ha rivendicato la scelta di negare l’accesso ai porti italiani come un obbligo costituzionale, fondato sul "sacro dovere" di ciascun cittadino alla "difesa della patria", previsto appunto dall’articolo 52.
Tale disposizione non ha, naturalmente, nulla a che vedere con le questioni di cui si tratta. Il suo ambito di riferimento è esclusivamente la difesa militare, come si evince dai lavori preparatori e dagli altri commi dell’articolo, che prevedono rispettivamente l’obbligatorietà del servizio militare, nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge, e la natura democratica dell’ordinamento delle forze armate. È per questo che l’articolo 52 non fu oggetto di particolare dibattito in assemblea costituente, impegnata a sottolineare il carattere pacifista della Carta. Non a caso, il testo che uscì come definitivo è praticamente identico a quello della prima bozza, caso rarissimo nei lavori della Costituente. Tutti erano d’accordo su una previsione che doveva dare copertura costituzionale al servizio militare e alle forze armate.
Il ministro dell’Interno trasforma invece quella previsione - estrapolandola dal contesto - in una sorta di diritto di resistenza. Peraltro ponendolo in capo al governo, ossia all’organo contro il quale il diritto di resistenza si esercita, nei pochi ordinamenti in cui è previsto. Non solo.
Il richiamo al "sacro dovere" della "difesa della patria" ha una forte portata simbolica. In primo luogo, la formulazione è nota anche ai cittadini meno familiari con la Costituzione, quindi suona plausibile. In secondo luogo, richiama il gergo militare, anche grazie all’espressione ottocentesca della disposizione ("sacro dovere"), figlia di un’epoca in cui la guerra era ancora drammaticamente presente negli occhi e nelle menti dei costituenti.
Soprattutto, l’invocazione di quel segmento dell’articolo 52 è un abile gioco retorico: prima lo stacca dal contesto militare in cui è collocato, poi lo rimette in tale contesto, facendo intuire che "l’invasione" dei profughi sia un atto di guerra nei confronti del Paese, contro cui occorre difendersi. Anche militarmente. Dunque senza essere soggetti alla Costituzione, ma al diritto eccezionale del tempo di guerra, in cui vale quasi tutto.
Il rischio di una simile operazione, per quanto scaltra sotto il profilo politico e mediatico, è quello di depotenziare il carattere normativo della Costituzione, di eroderne il ruolo di perimetro dell’attività politica, di limite e parametro della stessa. Un’erosione di cui questo caso è solo il più recente di una lunga serie di esempi, che porta a cancellare la funzione di garanzia della politica che è il compito principale della Carta costituzionale.
Non può sfuggire la pericolosità di questo crinale (o almeno non dovrebbe sfuggire, ma evidentemente per alcuni non è così). E infatti l’operazione politica che distorce il significato della Carta funziona proprio in quanto alla gran parte degli elettori questo ruolo della Costituzione sfugge.
Si continua così a ballare sulla nave che affonda. Dimenticando che in questo caso non è quella dei migranti, ma quella della Carta su cui si fonda il nostro stesso ordinamento in quanto democrazia. Una nave su cui siamo imbarcati tutti.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
Federico La Sala
Politica e inoperosità
di Dario Gentili (Alfabeta-2, 27.01.2019)
L’edizione integrale pubblicata da Quodlibet rappresenta di Homo sacer, per usare i termini dello stesso Giorgio Agamben, l’edizione «definitiva, aumentata e corretta». Per quanto Agamben abbia in più occasioni precisato che il progetto ventennale di Homo sacer sia da considerare concluso in quanto «abbandonato», ciò non toglie che l’edizione Quodlibet è definitiva quantomeno poiché consente di considerare l’opera nella sua unitarietà. È invece ancora presto per dire quale contributo specifico questa edizione possa apportare alla ricezione di Homo sacer, che, nei più di vent’anni trascorsi dalla pubblicazione del primo libro del progetto (col sottotitolo Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi 1995), ha già una propria storia. Infatti, le figure di pensiero di Homo sacer - solo per nominarne alcune: la nuda vita, lo stato d’eccezione, la teologia economica, la forma di vita, l’uso - hanno caratterizzato già diverse fasi della sua ricezione. Fasi diverse per quanto diversa era la congiuntura storica, politica ed economica su cui ognuno dei nove volumi del progetto è intervenuto, portandola a «leggibilità». Insomma, difficile se non impossibile è stabilire ora come un’edizione definitiva possa configurare ed eventualmente modificare o spingere a riconsiderare la storia della ricezione di Homo sacer. Per questo, ci sarà tempo - un tempo che, come un’edizione definitiva esige, non può essere esclusivamente quello della congiuntura attuale. Preferibile è allora soffermarsi sull’altro termine con cui Agamben contraddistingue questa edizione: «aumentata».
Due sono le integrazioni che l’edizione Quodlibet di Homo sacer presenta: la nota in conclusione di L’uso dei corpi (l’ultimo volume del progetto: IV, 2) e il capitolo Nota sulla guerra, il gioco e il nemico, che diventa l’ultimo di Stasis. La guerra civile come paradigma politico (II, 2). È su quest’ultima integrazione che intendo soffermarmi, non soltanto perché è la più corposa, ma anche perché può rappresentare un approfondimento che concerne gli esiti filosofici dell’intero progetto (vale la pena rammentare che, sebbene L’uso dei corpi sia l’ultimo volume di Homo sacer, tuttavia è Stasis a essere stato pubblicato per ultimo; da Bollati Boringhieri un anno dopo, nel 2015). Inoltre, a riprova di ciò sta il fatto che il capitolo tratta del ben noto «criterio del politico» quale relazione conflittuale tra amico e nemico, teorizzato da Carl Schmitt, uno degli autori in assoluto più ricorrenti di tutto Homo sacer (basti consultare l’Indice dei nomi, che con i Riferimenti bibliografici compone l’utilissima sezione di apparati posta alla fine dell’edizione integrale).
L’analisi di Agamben delle pagine schmittiane si basa sull’implicarsi reciproco di inimicizia e guerra nella definizione del politico. L’argomentazione di Schmitt infatti oscilla nel fare una volta del nemico e un’altra della guerra il presupposto della relazione costitutiva che determina il concetto di politico: se il nemico assume una preminenza «politica» rispetto all’amico, è tuttavia nella «possibilità reale dell’uccisione fisica», cioè nella guerra, che ciò viene definitivamente a manifestazione.
L’opposizione amico-nemico quale criterio del politico svolgerebbe dunque la funzione di celare o mitigare la crudezza del fondamento ultimo della politica, la guerra, facendo così dell’inimicizia la protagonista unilaterale della politica. È a partire da qui, dalla massima stringenza del dispositivo schmittiano, che Agamben procede per disattivarlo. Non procede pertanto dal suo interno, dal concetto di amicizia (come in fondo ha fatto Jacques Derrida in Politiche dell’amicizia), sostanzialmente catturato e neutralizzato dal primato dell’inimicizia nel caso - decisivo per determinare la situazione politica - della guerra.
Agamben procede invece dal concetto di guerra che Schmitt assume, ovvero da ciò che un ambito del politico definito dalla guerra effettivamente «esclude». Si ribadisce così quella che è la modalità propria di pensiero di Agamben in Homo sacer: è l’esclusione - ad esempio della «nuda vita» e della «vita sacra» nel primo volume dell’opera - a consentire, fin dalle origini della tradizione occidentale, la costituzione dell’ambito - o, detto altrimenti, del «campo» - della politica. Nel caso della guerra, a essere escluso dall’ambito della politica è il «gioco».
Agamben riprende la critica che Leo Strauss mosse nel 1932 al Concetto del politico, mettendo l’accento sul «divertimento» che, tra le altre cose, per Schmitt caratterizzerebbe il mondo qualora venisse meno la distinzione tra amico e nemico - e, con essa, la politica stessa. Nella riedizione del 1963 dello scritto, Schmitt risponde alla critica di Strauss, precisando che, per «divertimento», bisognerebbe intendere appunto «gioco». La politica è una cosa seria, come «serio» è il caso di eccezione in cui la sovranità è chiamata a «decidere».
Agamben prende molto sul serio l’avversione di Schmitt nei confronti del gioco - o, meglio, della riduzione della politica a gioco - e vi riconosce la vera posta in palio della politica in quanto tale. Per Agamben, infatti, non soltanto il gioco corrisponde a ciò che una politica per costituirsi come guerra deve escludere, ma rappresenta anche la possibilità di un concetto alternativo di politica. Alternativo come è quello configurato, in Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi (nottetempo 2015), dalla forma-di-vita di Pulcinella, che «annuncia ed esige un’altra politica»: una politica della commedia piuttosto che quella della tragedia cara a Schmitt. E, in effetti, come la commedia è più antica della tragedia, così lo è il gioco rispetto alla guerra quale forma e dinamica del conflitto.
Prendendo le mosse da Homo ludens di Huizinga, Agamben riconduce il conflitto all’ambito greco dell’agon, più prossimo alla sfera del gioco, piuttosto che all’ambito, bellico, del polemos. Diverse sono le fonti a cui Agamben fa riferimento per asserire l’originarietà del conflitto agonale nella Grecia antica, fino a sostenere con Vernant l’«intima solidarietà fra il conflitto e l’associazione», che - aggiungo io sulla scorta di Nicole Loraux - si può riscontrare addirittura nell’etimo di agorà, lo spazio per eccellenza del confronto politico nella polis. È dunque come agon che il conflitto sposta sull’amicizia il fuoco del criterio del politico: «possiamo allora proporre l’ipotesi - opposta a quella formulata da Schmitt - che in origine la guerra sia un aspetto della funzione agonale-giocosa, consustanziale alla convivenza fra gli uomini, attraverso la quale vengono costruiti rapporti di integrazione e di philía fra gruppi estranei o, all’interno della stessa comunità, fra diverse classi di età».
Per dirla con i termini che appartengono al lessico dell’intero Homo sacer: se la guerra è la messa in opera del conflitto, il gioco è l’inoperosità del conflitto. E tuttavia, pur sempre di politica si tratta - è per questo che il capitolo Nota sulla guerra, il gioco e il nemico getta una luce significativa sulla portata politica dell’intero progetto di Homo sacer, spesso tacciato di impoliticità quanto agli esiti che categorie come «potenza destituente» e, appunto, «inoperosità» sembrano profilare.
Di altro segno rispetto alla deriva impolitica è invece la problematicità che intendo qui rilevare. Pur tenendo ferma la distinzione tra conflitto e guerra, tale che il gioco apre a un uso politico del conflitto - legato all’associazione e all’integrazione dello straniero nella comunità - alternativo a quello bellico, bisogna tuttavia ricordare come l’agorà non è solo «piazza politica», ma è anche «mercato». Non a caso, nella Nota, si cita la definizione che Vernant fornisce di agon: «competizione organizzata». È un gioco, infatti, anche quello che ha luogo sul mercato: il gioco instaurato dallo scambio e dal commercio. Ed è un gioco che prevede la sospensione dell’inimicizia politica, razziale, religiosa, accogliendo così lo straniero in quanto partner commerciale (per secoli, infatti, il mercato è stato uno spazio ex lege). Ne è ben consapevole Friedrich von Hayek, uno dei pensatori di riferimento del neoliberalismo, quando definisce catallassi la sua concezione dell’ordine spontaneo del mercato, a cui attribuisce una evidente funzione politica, anch’essa alternativa al criterio del politico di Schmitt: «Propongo di chiamare questo ordine spontaneo di mercato catallassi, in analogia con il termine “catallattica”, che è stato spesso proposto come sostituto del termine “economia” (entrambe le espressioni, “catallassi” e “catallattica”, derivano dall’antico verbo greco Katallattein che, significativamente, vuol dire non solo “barattare” e “scambiare”, ma anche “ammettere nella comunità” e “diventare amici da nemici”)».
Certo, anche Hayek presuppone il nemico; ma il suo non è il nemico politico in guerra come per Schmitt, bensì il concorrente sul mercato, con il quale si possono stringere, seppur temporaneamente, accordi di amicizia. C’è allora da chiedersi se non sia stato proprio il gioco del mercato ad aver soppiantato la seriosa politica della guerra di Schmitt. Homo sacer provvede a delineare dell’economia la genealogia teologica (in Oikonomia, nuovo titolo del Regno e la Gloria nell’edizione Quodlibet); ma si potrebbe risalire a un’altra e complementare genealogia dell’economico, lungo un’ulteriore linea di ricerca che potrebbe aprirsi oggi da una rilettura, magari contropelo, di Homo sacer: una linea di ricerca genealogica, altrettanto contrassegnata da quelle ambivalenze che Agamben magistralmente ci ha insegnato a rintracciare, che faccia emergere una economia politica dell’inoperosità.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I SEGNI DEI TEMPI. L’ECONOMIA DELLA SALVEZZA ("Deus charitas est": 1 Gv., 4.8) E L’ECONOMIA DELLA RICCHEZZA, DI "MAMMONA" E "MAMMASANTISSIMA" ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006): UNA TENSIONE SPEZZATA ...
"IL TEMPO CHE RESTA": UNA DOMANDA DI GIORGIO AGAMBEN A UNA CHIESA PERSA NEL TEMPO.
VERITA’ E VERIDIZIONE: PAROLE PER UNA NUOVA POLITICA. Agamben fa un passo innanzi con Foucault, ma cento passi indietro senza Kant.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
METAFISICA. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.... *
Martin Heidegger
Così la metafisica lavora al proprio annientamento
Filosofia. Nessuna concessione all’antisemitismo nazista nel IV dei «Quaderni neri»: a metà anni ’40, l’avversario è piuttosto il «monoteismo ebraico-cristiano», responsabile, tra l’altro, dei «sistemi della dittatura totale»: da Bompiani
di Lucio Cortella (il manifesto, 27.01.2019)
Chi pensava di trovare la teorizzazione del supposto antisemitismo di Martin Heidegger nel quarto volume dei suoi Quaderni - Note I-V. Quaderni neri 1942-1948 (traduzione di Alessandra Iadicicco, Bompiani, pp. XVIII-700, euro 30,00) rimarrà deluso. Alla «questione ebraica» il filosofo tedesco dedica in tutto una quindicina di righe. Per le restanti 700 pagine, a parte un rapido accenno al «profetismo», nient’altro.
Anche questa quarta puntata dei Quaderni neri si conferma come un «diario filosofico», una meditazione pensante di Heidegger su se stesso, sui grandi temi della propria filosofia, in particolare sulla questione che, a partire dalla «svolta» avvenuta alla fine degli anni Venti, era diventata per lui centrale e cruciale, la questione dell’essere e della sua «storia». Per Heidegger l’essere non va confuso con gli «enti»: non è né una cosa del mondo né una sostanza trascendente e sovrasensibile al di fuori del mondo, come l’ente «supremo» della tradizione metafisica cristiana. L’essere non è identificabile con una «sostanza», è invece un essenziale sottrarsi (e nascondersi) a ogni tipo di «entificazione», a ogni oggettivazione. Ciò che noi comprendiamo dell’essere emerge solo dalla storia, dalla «sua» storia che è poi anche la «nostra». Ma al tempo stesso questa è la storia del suo tradimento, della sua perdita, del suo abbandono.
L’efficienza del fare
Già la filosofia degli inizi, in Grecia, aveva trattato l’essere come un ente, come una «presenza», anche quando lo ha pensato come un’entità trascendente (le idee di Platone, il motore immobile aristotelico, il Dio cristiano), ma così ha annullato e rimosso quella che Heidegger chiama differenza ontologica, la differenza essenziale tra «essere» ed «ente». Riducendo l’essere all’ente lo ha reso disponibile all’oggettivazione, alla manipolazione, alla strumentalizzazione, aprendo le porte all’età della tecnica. La modernità diventa così la realizzazione estrema di quella metafisica che ha dimenticato l’essere a favore dell’ente. Quella dimenticanza, tuttavia, non è un errore umano. Al contrario, è proprio il modo in cui l’essere stesso si è reso «presente» nella storia. L’oblio sta inscritto in quella ambivalenza per cui l’essere è al tempo stesso un nascondersi e un presentarsi. La sua riduzione a ente e la stessa civiltà della tecnica sono perciò il destino che l’essere stesso ci ha riservato.
La nozione fondamentale che Heidegger usa in questi anni, e che ricorre spesso nei quaderni, è quella della «macchinazione», un termine che veniva spesso impiegato dalla propaganda antisemita contro il presunto disegno di «dominio ebraico» sul mondo. Ma la «Machenschaft» assume in Heidegger un significato che va ben al di là, perché indica la caratteristica fondamentale dell’età della tecnica, in cui centrale è l’efficienza del fare (machen) e del produrre. La «macchinazione» si rivela, perciò, come il destino che l’essere ci ha riservato facendoci dimenticare la sua differenza dall’ente e presentandosi come ciò che può venire infinitamente prodotto, trasformato e manipolato. La conseguenza è la «desertificazione» (Verwüstung), la cancellazione del mondo e lo sradicamento dell’essere umano.
È in questo contesto che Heidegger colloca la sua comprensione della «ebraicità» (Judenschaft). Nelle poche righe contenute nel primo dei cinque quaderni che compongono il volume, riconduce l’essenza dell’ebraismo all’essenza della tecnica. Siamo nel pieno della seconda guerra mondiale, durante l’estate del 1942, e la distruzione dell’Europa avanza, con i suoi massacri, i bombardamenti, le devastazioni. Heidegger definisce tutto ciò «l’anti-Cristo», ma questo spirito di distruzione - aggiunge - non può che derivare dal suo stesso fondamento, cioè dal «Cristo».
Un destino delle origini
È il Cristianesimo, dunque, il responsabile, insieme alla metafisica, della distruzione cui sta andando incontro l’Occidente. Ma ecco che - con una mossa inaspettata - Heidegger riconduce anche il «Cristo» a una radice più profonda: quella della «ebraicità». Cristianesimo, metafisica ed ebraismo vengono coinvolti in una comune responsabilità di fronte alla distruzione di quei tempi. Nel momento del suo massimo dispiegamento, la metafisica produce il proprio stesso annientamento: questo il destino che attende anche «ciò che è essenzialmente ebreo». Teorizzare l’autoannientamento (Selbstvernichtung) del popolo ebraico proprio negli anni in cui la Germania nazista portava a compimento la barbarie dell’olocausto desta indubbiamente sconcerto e una legittima indignazione, tanto più se si pensa che dieci anni prima Heidegger aveva aderito entusiasticamente al nazismo, salvo poi ricredersi e ritirarsi dalla vita pubblica.
Tuttavia, la tesi dell’autoannientamento esprime una concezione ben più generale e riguarda il destino della metafisica e della tecnica, destino in cui l’ebraismo viene coinvolto solo tangenzialmente. Secondo Heidegger infatti, quella parabola di autodistruzione era già inscritta nel pensiero aurorale greco, pensiero che fin dagli inizi aveva obliato l’essere a favore dell’ente. E se negli anni della sua adesione al nazismo Heidegger aveva creduto alla possibilità di un «nuovo inizio» nella storia dell’essere, ora guarda a quell’adesione come a un errore di prospettiva: «L’errore fu la fretta precipitosa, fu solo un errore di tempo. Fu il non vedere ancora chiaramente che quel tempo era “lungo”».
Non ci sarà un nuovo inizio ma l’inesorabile autoannientamento della Germania, dell’Europa e dello stesso esserci. Da queste pagine non sembra dunque emergere alcuna concessione all’antisemitismo nazista, che, anzi - in un veloce passaggio del diario di qualche anno dopo - viene giudicato da Heidegger «folle e riprovevole». In quel periodo, l’avversario non è tanto l’ebreo quanto il «monoteismo ebraico-cristiano», al quale vengono ricondotti anche «i moderni sistemi della dittatura totale». La polemica più dura è rivolta al cristianesimo e alla sua «teologia clericale»: «io non sono un cristiano», scrive Heidegger, «e unicamente per la ragione che non posso esserlo». Tra pensiero e fede c’è «fessura», inconciliabilità assoluta: se esiste una «filosofia cristiana», bisogna chiedersi «fino a che punto una tale filosofia pensi», dato che «per il pensiero non vi è nessun Dio».
Un interrogativo, tuttavia, rimane: come mai - dopo che alla fine della guerra era diventata evidente a ogni tedesco la mostruosità dell’olocausto - Heidegger insiste, sebbene tramite pochi accenni, con la sua critica filosofica nei confronti di «ciò che è ebreo» invece di fare i conti seriamente con lo sterminio perpetrato dai nazisti? La risposta non può che essere intrinseca alla sua ontologia, incapace di interrogarsi sull’enormità di quell’evento. Agli occhi di Heidegger, il destino dell’essere sembra decidersi più sul terreno, per lui nefasto, della democratizzazione verso cui si sta avviando la Germania del dopoguerra, sotto il segno della perdita per lui incolmabile dell’identità, e come un «macchinario omicida» che conduce al «completo annientamento», piuttosto che sull’atroce sterminio di un intero popolo.
La sofferenza delle vittime, la meditazione sull’orrore e la negazione estrema dell’umano che l’olocausto rappresenta finiscono, dunque, per non avere alcuna rilevanza davanti al punto di vista anonimo e imperscrutabile della storia dell’essere.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ORIENTARSI, OGGI - E SEMPRE. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
La sottocultura dell’odio è ancora fertile
Giorno della memoria. Il ventre della sottocultura dell’odio è ancora fertilissimo in ogni parte del mondo, lo si capisce guardando la semina di morte degli emigranti e, persino uno Stato che si definisce ebraico, ha potuto varare una legge razziale come la legge dello stato nazione che discrimina i palestinesi non solo dei territori occupati ma anche quelli di passaporto israeliano
di Moni Ovadia (il manifesto, 27.01.2019)
Il giorno della memoria è diventato con il procedere degli anni sempre di più un topos della cultura celebrativa del mondo occidentale e, a misura che i testimoni diretti dello sterminio ci lasciano per ragioni anagrafiche, la responsabilità delle nuove generazioni si configura come una sfida a tenere fermo e adamantino il senso autentico di quella memoria. Il rischio che incombe sul futuro si presenta con molteplici aspetti fra i quali: la retorica, la falsa coscienza, il negazionismo, la banalizzazione, la ridondanza, l’uso strumentale, la sacralizzazione. Primo Levi, pose al più celebre e diffuso volume della sua opera di testimonianza e di riflessione sul genocidio e sul sistema concentrazionario della morte, il titolo «Se questo è un uomo».
Ecco, il più atroce crimine della storia è stato commesso da uomini contro uomini. È giusto indagare, conoscere, comprendere e trasmettere il sapere delle diverse modalità e specificità delle ragioni con cui lo sterminio fu preparato e perpetrato. Ma è imprescindibile sapere che si trattò della distruzione di esseri umani, dell’annichilimento della loro dignità e della loro integrità.
La memoria di quell’orrore deve entrare a fare parte del delle più intime fibre della primissima formazione di ogni essere umano, nell’unica forma che possa garantire il non ripetersi della sottocultura dell’odio che fu il ventre gravido che generò la peste dello sterminio di massa e del genocidio, la consapevolezza culturale, interiore e psichica dell’universalità dell’essere umano, il cui statuto di titolarità è contenuto nella Carta Universale dei Diritti dell’Uomo, a partire dal primo articolo: «tutti gli uomini nascono liberi ed eguali pari in dignità e diritti».
Ma noi siamo lontani anni luce da un simile livello di coscienza, anzi siamo pesantemente regrediti riguardo ai principi fondativi delle grandi Carte dei Diritti, in particolare della nostra straordinaria Costituzione. Questa legge delle leggi, che definisce il carattere nazionale della nostra repubblica e su cui tutti i governi giurano, è costitutivamente antifascista senza se e senza ma.
Ma in questi anni abbiamo visto crescere il revanscismo nostalgico o neofascista, le nostre televisioni si sono riempite di pseudo revisionisti miranti a riabilitare i peggiori criminali fascisti, a partire dal peggiore e più vile di essi, Mussolini. I conservatori di questo Paese hanno espunto lo studio della Costituzione dalle scuole superiori, invece di estenderla anche alle medie, alle elementari e persino alle materne. Le cosiddette sinistre riformiste hanno lasciato fare. Molti gazzettieri si sono baloccati con il mito fradicio e nocivo degli italiani brava gente, che oggi si ritrova sotto il nuovo e patetico maquillage «Gli italiani non sono razzisti» o sotto quello ridicolo «io non sono razzista, ma...».
Sia chiaro, in Italia ci furono ai tempi del fascismo tante brave persone e anche oggi milioni di italiani sono magnifiche persone generose, ma allora come adesso lo erano perché brave persone, non perché italiani. I fascisti italiani perpetrarono un genocidio in Cirenaica, uno sterminio di massa in Etiopia, 135.000 civili sterminati in due giorni con l’iprite e devastarono con massacri, pulizie etniche, campi di concetramento in cui si facevano morire civili di fame e malattie, le terre della Iugoslavia.
Un popolo di brava gente non avrebbe permesso di cacciare bambini dalle scuole per poi destinarli allo sterminio solo per la colpa di essere nati e si sarebbe comportato come i bulgari e i danesi che salvarono tutti i loro ebrei opponendosi ai criminali nazisti. Ecco il grande nemico di una memoria che può edificare un futuro di giustizia sociale e uguaglianza, la retorica propagandistica e auto assolutoria che porta alla vile indifferenza di massa.
Il ventre della sottocultura dell’odio è ancora fertilissimo in ogni parte del mondo, lo si capisce guardando la semina di morte degli emigranti e, persino uno Stato che si definisce ebraico, ha potuto varare una legge razziale come la legge dello stato nazione che discrimina i palestinesi non solo dei territori occupati ma anche quelli di passaporto israeliano. Non basta mettersi uno zucchetto in testa una volta all’anno per ottenere il certificato di buona condotta.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! *
Giornata della Memoria.
Hitler, radiografia del Male
A Carpi la mostra "Der körper" di Fresu parte da studi clinici sul Führer e apre a molte domande sul perdono, sull’inganno delle dittature e la vigliaccheria del male. L’analisi del teologo Dossetti
di Giuseppe Dossetti jr. (Avvenire, sabato 26 gennaio 2019)
Di fronte al materiale offerto dalla mostra, si è costretti a cercar di capire i propri sentimenti. Il mio, è duplice. Anzitutto, mi colpisce lo spogliamento radicale di quest’uomo, privato non solo dei suoi vestiti, così importanti per lui, per costruire la propria immagine, ma privato anche della sua epidermide, ’cosificato’. Mi vengono in mente analoghe radiografie di vittime dello sterminio, che ho visto a Mauthausen: l’uomo denudato, violato nella sua intimità, trafitto dal raggio come la farfalla dallo spillone. Nell’ultima stanza della mostra, si cerca di restituire vita a quel corpo, ricostruendo i battiti del suo cuore.
È come se si dicesse che Hitler continua a vivere o, meglio, continua a vivere il male che ha trovato in lui così terribile manifestazione. Viene in mente l’ultima pagina del romanzo di Camus: il batterio della peste è nascosto negli anfratti della città, per ricomparire a suo tempo. Tuttavia, questa interpretazione seducente non mi tocca, quanto invece la sorte individuale di quest’uomo.
La mostra potrebbe essere interpretata come una vendetta, la riduzione a numeri e parametri dell’uomo, che aveva voluto questo per i suoi simili. Egli volle che il suo corpo fosse bruciato, proprio per evitare di essere consegnato alle mani di chi avrebbe potuto rivalersi sulle sue spoglie.
È noto il suo orrore di fronte alla notizia che Mussolini era stato impiccato per i piedi a Piazzale Loreto. Ebbene, l’operazione di cancellare l’ultima traccia di sé non gli è riuscita completamente: un frammento importante, l’impronta del suo corpo è caduta nelle nostre mani.
Forse, Antonello Fresu ha voluto gettare nelle nostre mani questo materiale, frammentario e incompleto fin che si vuole, ma sufficiente per porci la domanda: «Adesso che hai nelle mani il corpo di Hitler, che cosa ne intendi fare? ». Infatti, non ci si può sottrarre alla richiesta di prendere posizione. È addirittura possibile che ci sentiamo ancor più coinvolti: «Che cosa avrei fatto io, che cosa farei, se avessi la totale disponibilità del corpo di quest’uomo, del suo cadavere, oppure, ancora di più, di lui ridotto a scheletro vivente, non per una radiografia, ma per la fame, per la violenza, per la spoliazione di ogni dignità?».
La mia personale reazione si condensa in una domanda, che mi ha colpito, appena ho avuto notizia di questa iniziativa: Questo corpo risorgerà? La fede nella “risurrezione della carne” è uno dei dogmi del credo cristiano. Non è molto considerato e talvolta viene dimenticato per pudore, quasi fosse un residuo mitologico. In realtà, si tratta di qualcosa che ha origine dal centro stesso della fede cristiana. Il corpo non è, cartesianamente, la macchina mossa dall’anima, a lei collegata tramite la ghiandola pineale.
Noi siamo un corpo. È la materia che ci individua. Noi siamo quello che siamo perché viviamo in un tempo e in un luogo; le nostre esperienze, vissute tramite il corpo, determinano la costituzione del nostro io. Soprattutto, il corpo è il veicolo della relazione con l’altro.
Cartesio, proprio per il legame così lasco tra anima e corpo, pone la felicità massima nella contemplazione del proprio io pensante. Ma l’uomo d’oggi vede in questo solitudine e infelicità, perché aspira all’incontro con un tu che gli stia a fronte. La persona si costituisce tramite la sua storia, e la propria storia l’uomo la vive nel corpo. Il cristiano crede nell’Incarnazione del Figlio di Dio: «Il Verbo si è fatto carne», dice il prologo del Vangelo di Giovanni. L’incontro con il Cristo avviene mediante il sacramento del Corpo, l’Eucaristia.
Tutto questo dà un valore assoluto al singolo uomo: ogni uomo è il soggetto al quale si rivolge l’iniziativa divina, ogni uomo è chiamato, come un Tu assolutamente singolare, a dare una risposta assolutamente singolare. La morte non può distruggere questa relazione. Anzi, Gesù ci dà l’esempio della morte come atto supremo di comunione, col Padre e con i suoi fratelli.
Dunque, senza un corpo, la comunione è incompleta o, addirittura, non esiste. Per questa ragione, Dio vuole la risurrezione della carne: la vuole, perché vuole la comunione con l’uomo.
Ora, la domanda è proprio questa: può Dio volere la comunione con Hitler? Se rispondiamo di sì, allora i frammenti che contempliamo in questa mostra sono cosa sacra. Ma il nostro spirito si ribella. Si ribella anche alla formula della “banalità del male”. Di fronte ai campi di sterminio, siamo piuttosto portati a pensare a un male straordinario, eccezionale. Eccezionale vuol dire anche altro da noi, mentre la banalità suggerisce che anche noi saremmo potuti giungere a tali abissi. Condannare Hitler all’inferno, in qualche modo ci rassicura, perché crea una demarcazione tra noi e lui. Siamo noi, però, autorizzati a pronunziare questa sentenza? D’altra parte, coloro che hanno così terribilmente sofferto, non hanno forse il diritto di chiedere al Giudice le sue motivazioni? Certo, potremmo invocare la pietà. Ma sarebbe una pietà a buon mercato, un ’perdonismo’ facilone e ingiusto.
Tuttavia, la domanda va posta, anche perché altri “mostri” continuano a comparire, a Srebrenica, in Congo, in Medio Oriente. Ora, la domanda dev’essere posta a Dio: sei Tu in grado di guardare in faccia questo male? Questi uomini continuano ad appartenerti? Tieni presente che se rispondi di sì, allora ti stai prendendo la responsabilità del male da loro commesso. D’altra parte, se Tu li condanni, in nome di quale giustizia Tu li condanni?
C’è forse una giustizia superiore a Te, alla quale anche Tu devi inchinarti? Tu ti rendi conto perfettamente che sei stretto nell’alternativa: o diventi anche Tu sottoposto a un sistema di valori, che Tu stesso hai contribuito a creare, ma che ora Ti rendono irrilevante, perché noi li porteremo avanti, magari in nome tuo, ma affrancati dalla tua tutela. Oppure, Tu sei il Totalmente Altro, l’Incomprensibile, che richiedi un’obbedienza cieca: ma l’enormità del male ci autorizza a rifiutare la rinuncia al giudizio e Tu, ancora una volta, sarai convocato al tribunale dell’uomo.
Di fatto, questo è già avvenuto. La scelta di Barabba è anche la protesta verso un Dio che non dà spiegazioni, che rifiuta di correggere la sua creazione, che osa riconoscere all’uomo una libertà che può giungere fino a costruire Auschwitz. Alla domanda: può Dio prendere la responsabilità del male commesso dall’uomo? la risposta è sì. Questo è avvenuto sul Golgota. Lì, Dio ha accolto radicalmente il rifiuto dell’uomo, ha accettato che l’uomo lo respingesse fuori dalla storia, ha assunto in sé le conseguenze della scelta di Adamo. Ma ha trasformato tutto questo nell’atto supremo della sua presenza. «Dio è morto», proclamò Nietzsche, per dichiararne l’irrilevanza; «Dio è morto», è stato il grido d’angoscia di coloro che hanno rinunciato alla speranza, perché non hanno avuto risposta alla loro richiesta d’aiuto. «Dio è morto», diciamo anche noi, con reverenza, poiché riconosciamo nella croce questa inflessibile volontà di comunione, che acquisisce il diritto di afferrare l’uomo, ogni uomo, poiché si è fatta carico del suo dolore e persino della sua malvagità.
Per questo, penso che anche Hitler risorgerà. Negarlo, vorrebbe dire dichiarare limitata l’efficacia del sangue di Cristo. In mezzo alle infinte croci da lui piantate, questa mostra erige la croce di Hitler, denudando la sua miseria, l’oscenità del male del quale si è reso responsabile.
Ma in mezzo a queste croci, anzi, vicino a questa, che il giudizio dell’uomo legittimamente considera meritata, c’è la croce di Gesù. Penso che uscirò dalla mostra, allo stesso modo in cui gli spettatori si sono allontanati dal Calvario: «Tutta la folla, che era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto» (Lc 23,48).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
LA SCELTA DI BARABBA: "LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO".
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala
La spettrale presenza. Hitler, la radiografia e l’inconscio ottico
di Marco Senaldi *
[Foto] Antonello Fresu. Der Körper, still da video. Palazzo dei Pio, Carpi 2019
In un brano indimenticabile de La montagna incantata di Thomas Mann, pubblicato nel 1924 ma ambientato alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, il protagonista Hans Castorp è oggetto di una radiografia.
“E Castorp vide [...] in anticipo, grazie alla potenza della luce, la futura opera della decomposizione, la carne, che lo rivestiva, dissolta, distrutta, sciolta in una nebbia evanescente, e dentro a questa lo scheletro della sua destra finemente tornito, dove intorno alla falange dell’anulare era sospeso, nero e isolato, il suo anello col sigillo ereditato dal nonno [...] e per la prima volta in vita sua si rese conto che sarebbe morto. Behrens disse: ‘Spettrale, vero? Eh, una punta di spettralità c’è davvero’”.
Si tratta di un passaggio sintomatico per diverse ragioni. Sia pur attribuendola a Castorp, esso descrive, con grande precisione, una delle prime immagine a raggi X realizzata da Röntgen, quella della mano dell’amico Albert von Kölliker, in cui, attorno allo scheletro “finemente tornito” delle dita, spicca un anello maschile. La meraviglia dell’eroe di Mann testimonia che, ai suoi esordi, lungi dall’essere considerata un semplice dispositivo clinico, la radiografia a raggi X rivestiva ben altri significati che toccavano la consapevolezza e la fisicità del soggetto. E, in effetti, la diffusione delle immagini radiografiche fu all’inizio accolta non tanto come un avanzamento nella scienza medica, quanto come una curiosità scientifica, e anche una tecnica artistica, in grado di far vedere l’invisibile, in un periodo in cui le innovazioni nel campo della riproduzione delle immagini si succedevano l’una all’altra con grande rapidità.
L’anno della scoperta di Röntgen, il 1895, infatti, coincide con quello dell’invenzione del cinematografo, ma anche con la prima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia (antenata della futura Biennale d’arte) e con uno straordinario articolo di Georg Simmel sulla psicologia della moda. Moda, cinema, arte, sono altrettanti fenomeni legati alle immagini, intese non solo come rappresentazioni del reale, ma anche come rappresentazioni di noi stessi, e dunque della nostra identità. Possiamo perciò intendere queste invenzioni come altrettanti dispositivi, cioè strumenti che ci permettono di amplificare le capacità umane, ma, consentendoci di modificare la nostra visione del mondo, contemporaneamente modificano modo in cui vediamo e consideriamo noi stessi.
È questo il motivo per cui tutte queste invenzioni evidenziano un carattere ancipite e fortemente antinomico. Da un lato il cinema, come nota ottimisticamente Walter Benjamin, risponde al diritto di ogni uomo ad essere ripreso, dall’altro introduce una drammatica spaccatura all’interno del soggetto, come testimonia Varia Nestoroff, l’attrice russa protagonista del romanzo di Pirandello Si gira!, del 1913, che non si riconosce nelle immagini di se stessa sullo schermo. Allo stesso modo l’arte moderna - inaugurata appunto dall’esposizione veneziana - intesa come “evento temporaneo”, da un lato libera dal giogo della tradizione, ma dall’altro avvia un processo di destabilizzazione permanente nel fare creativo dell’artista; e infine, suprema contraddizione è quella che Simmel attribuisce alla moda, che, tramite la manipolazione dell’immagine offerta dall’abito, da un lato promette all’individuo di distinguersi dalla folla, e dall’altro risponde esattamente al bisogno opposto, quello di uniformarsi con la massa.
Questa discordanza diventa esplosiva nel caso dei raggi X. Scoperti quasi casualmente nel corso di una ricerca sui raggi catodici, solo in seguito vennero utilizzati per scopi diagnostici, in quanto in grado di osservare la struttura ossea al di sotto della pelle, ma quasi subito ci si rese conto della loro pericolosità per la salute. In pratica, i raggi X rendono evidente il paradosso epistemologico della modernità, la quale, nello sforzo di conoscere l’essenza al di là delle apparenze, finisce col contaminarla o persino per distruggerla. Questa ambiguità radicale riaffiora in un altro grande romanzo sul destino delle immagini, cioè L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares, apparso non per caso nel 1940.
Il dispositivo di Morel consiste infatti in una macchina da presa e da proiezione in grado di restituire non solo l’apparenza visiva delle cose riprese, ma la loro consistenza, generando per così dire dei doppioni “tangibili” identici agli originali. Il solo difetto della macchina - ma è un difetto fatale - è che gli esseri viventi che ne subiscano le riprese patiscono effetti devastanti, e sono destinati in breve tempo a una morte certa.
Il valore politico della metafora di Bioy Casares, concepita alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, è evidente: la massima riproducibilità dell’esistente è anche ciò che ne cancella l’esistenza; la duplicazione perfetta della vita non è che un modo inconsapevolmente perfetto per creare un universo di morte. In un certo senso, la parabola del nazismo corre lungo binari paralleli a questi: la sua esaltazione inconsulta della vitalità superomistica, dell’agonismo estetico e della kalokagathia olimpica (così ben raffigurati nelle immagini sublimi dei film di propaganda di Leni Riefenstahl, come appunto Olympia, 1936) non è che l’altra faccia, la proiezione splendente e solare, dell’oscuro desiderio di morte, di distruzione e di annientamento che viene simbolicamente rappresentato, nelle uniformi dei dittatori, dall’icona del teschio.
E torniamo così alle ossa, il residuo incancellabile che viene messo in evidenza per la prima volta dai raggi X. Si dice che la moglie di Röntgen, Bertha, che fu in effetti la prima persona ad essere sottoposta a una radiografia dal marito, abbia mormorato, osservando l’immagine radiografica della propria mano, “ho visto la mia morte”. Aveva ragione - salvo che non si trattava della morte in senso tradizionale, come termine delle funzioni vitali, distacco del corpo dall’anima o semplicemente dissolvimento della materia nei suoi componenti atomici: ciò a cui la radiografia ci mette di fronte è piuttosto l’enigmatico carattere inorganico della nostra natura animale, il suo residuo ancestrale, quasi l’impronta scheletrica di un fossile, il sigillo della morte catturato però dentro un essere vivente. Questa presa di coscienza della nostra inconsapevole origine minerale ha effetti devastanti: ci si rende infatti conto non solo della nostra fragile natura mortale, ma anche del fatto contrario - reso possibile solo da una tecnica essenzialmente moderna come i raggi X - cioè dell’esistenza in noi stessi di qualcosa di alieno che ci sopravvivrà. Da qui l’elemento fantasmatico, ossia non-del-tutto-mortale, testimoniato dalla radiografia, cioè la “punta di spettralità” così ben individuata da Behrens, il medico di Castorp.
Il fatto che anche Hitler sia stato sottoposto, come milioni di altri pazienti, ad una indagine radiografica, potrebbe essere preso come un fatto del tutto normale. Ma cessa immediatamente di esserlo se pensiamo che lo stesso individuo è stato anche uno dei primi personaggi storici ad essere filmato e fotografato con una tale frequenza e una tale assiduità che non hanno precedenti. Tuttavia, mentre le fotografie e i filmati ci restituiscono un Hitler sempre presente a se stesso, sempre attentissimo a interpretare un ruolo pubblico divenuto in lui come una autentica “seconda natura”, le sue radiografie colgono un aspetto inedito e sconcertante della sua personalità. Guardarle è come osservare il fossile di un temibile Tirannosaurus Rex, il mostruoso dinosauro predatore del giurassico, il cui scheletro, anche se ridotto a una curiosità da Museo di scienze naturali, incute ancora timore. In esse cogliamo un Hitler che nemmeno Hitler sapeva di possedere, il suo estremo residuo umano, la struttura inorganica che testimonia due cose: sia il fatto che anche lui apparteneva - che gli piacesse o no - alla nostra specie -, sia il fatto che non ne era al corrente. Se c’è un’immagine che rappresenta il concetto benjaminiano di “inconscio ottico”, questa è certamente la radiografia di Hitler - cioè non la descrizione del suo inconscio psicologico (fin troppo scandagliato), ma l’istantanea del suo inconscio per così dire antropologico, la sua essenza “umana”, troppo umana, da cui certamente avrebbe desiderato liberarsi.
Non è un caso che uno dei più implacabili satireggiatori del regime nazista, cioè quel Helmut Herzfeld che cambiò il suo nome in John Heartfield in dispregio alle sue origini germaniche, abbia rappresentato nel 1932 il “vero” Hitler, utilizzando una radiografia in cui, sotto il volto del Fürher si vede il suo busto pieno di monete d’oro, in un fotomontaggio dall’ironico titolo Hitler Superuomo - ingoia oro e sputa schifezze.
Allo stesso modo, nell’operazione di Antonello Fresu, le riproduzioni ingigantite delle radiografie del Fürher e i suoi esami medici ci mettono di fronte a un enigma che certamente era enigmatico per Hitler stesso: come può un superuomo simile condividere con la vile razza umana la stessa misera impalcatura scheletrica?
L’aspetto spettrale che promana da queste gigantografie è fantasmatico in un duplice senso: da un lato perché accende in chi guarda la sensazione di un morire incompleto, che si lascia dietro il resto ineliminabile dello scheletro osseo; dall’altro perché questo scheletro appartiene veramente a un fantasma, anzi al peggior incubo possibile, quello dell’individuo più disumano di sempre, Adolf Hitler. Il sottile senso di inquietudine che ne promana è anch’esso quindi duplice perché da un lato riguarda genericamente la paura della morte, ma dall’altro concerne una paura ancor più radicale, cioè che lo spettro qui radiografato non sia veramente morto, e che la sua scheletrica presenza possa ancora, in un dato momento, rianimarsi.
Si dice che, poco prima di morire, Hitler abbia affermato che “bisogna eliminare l’ebreo che è in noi”. Un’affermazione ambigua e inquietante, che sembra far presagire il vero futuro dell’antisemitismo “classico” - cioè non tanto e non più solo lo sterminio di una “razza” considerata inferiore, e tuttavia esterna a quella superiore, ma la cancellazione dell’ultima traccia di altruismo all’interno del soggetto “superiore” stesso, la distruzione dell’umano all’interno del superuomo. La visione dell’installazione di Antonello Fresu fornisce una possibile risposta alla sconcertante affermazione di Hitler: ciò da cui egli avrebbe voluto liberarsi, senza per questo riuscirci, era proprio ciò che le sue radiografie ci permettono invece di vedere: il suo scheletro, il suo teschio, i suoi organi interni, così miseramente identici a quelli di chiunque. D’altra parte, queste immagini ricordano a tutti noi che liberarsi dal fantasma di Hitler ci è altrettanto impossibile che per lui liberarsi dal fantasma dell’ebreo interiore: lo spettro di questo “Hitler interiore” è dentro di noi come le nostre ossa e i nostri organi interni, ci appartiene più di quanto noi stessi non ci apparteniamo e incarna quel fantasma del Male da cui, anche nei nostri sogni più radiosi, continuiamo a essere ossessionati.
* Marco Senaldi (Artribune, 25,01,2019)
Radiografie e battiti del cuore va in mostra il corpo di Hitler
Si inaugura a Carpi il controverso allestimento curato dallo psicoanalista Antonello Fresu
di Marco Belpoliti (la Repubblica, 26.01.2019)
Hitler a Carpi? Cosa ci fa la radiografia del capo nazista nella Sala dei Cervi dell’antico Palazzo dei Pio insieme al battito tambureggiante del suo cuore?
Hitler è morto suicida il 30 aprile 1945 nel bunker della Cancelleria di Berlino. Il suo corpo fu cosparso di benzina e bruciato, quindi la salma carbonizzata sepolta insieme ai resti di altri cadaveri irriconoscibili. I soldati sovietici cercarono il corpo del dittatore, fino a che rinvennero un osso mandibolare e due ponti dentari; presentati al suo odontotecnico, Fritz Echtmann, furono identificati grazie alla cartelle cliniche. Nonostante questo, restò l’ipotesi che fosse ancora vivo e nascosto da qualche parte, una leggenda che circolò negli anni ’50 e ’60. Nel 1945 l’esercito americano realizzò un dossier sul capo nazista utilizzando le cartelle cliniche del suo medico, Theodor Morrell: 47 pagine che contenevano la radiografia del cranio del leader e alcuni elettrocardiogrammi, intitolate Investigation into whereabouts. Nel 1983 sono state rese accessibili insieme alle ricerche dell’Fbi per "ritrovare" il dittatore.
Antonello Fresu, psicoanalista junghiano, ha usato quelle pagine e realizzato l’installazione Der Körper che s’inaugura oggi nello spazio del castello di Carpi sotto l’egida della Fondazione Fossoli (fino al 31 marzo). Nella prima stanza buia appaiono le imponenti radiografie del cranio di Hitler, alte tre metri, retroilluminate: sono fantasmi neri su fondo bianco, e insieme impressionanti opere grafiche, il cui significato luttuoso appare subito evidente.
Nella seconda sala i referti clinici analizzati da specialisti medici di oggi, come si trattasse di un paziente qualsiasi, mentre sulla volta appaiono parate naziste, Hitler che arringa la folla e raduni militari. Nella terza stanza sono riportati i documenti del dossier americano, mentre nella quarta, e ultima, su uno schermo compare la simulazione del battito del cuore e un elettrocardiografo dell’epoca emette il tracciato di quell’esame clinico in presa diretta: si attiva appena le persone entrano nella sala come un misterioso saluto di benvenuto.
L’idea di Fresu, attento indagatore dell’Ombra, per dirla con Jung, ha qualcosa d’inquietante: stende un mantello di nere tenebre in questo luogo e obbliga i visitatori a incontrare, come scrive Marco Senaldi in un testo che apparirà nel catalogo della mostra, a guardare il fossile di un Tirannosaurus Rex, il cui scheletro è stato conservato e trasformato in curiosità espositiva da Museo di Scienze Naturali. Già di per sé le radiografie sono qualcosa di conturbante, e queste di grandi dimensioni, anche senza sapere che appartengono al cranio di Hitler, inquietanti. Pare che la moglie dell’uomo che ha inventato questo metodo d’indagine, Wilhelm C. Röntgen, dopo essere stata sottoposta alla prima radiografia, abbia detto: ho visto la mia morte. Questi light box contengono una doppia morte: quella del paziente Adolf Hitler e quella del dittatore che ha provocato la più immane catastrofe del XX secolo. Un uomo e insieme il peggior criminale della storia. È come se, per una nera magia, il doppio corpo del Re, per dirla con Ernst Kantorowicz, corpo materiale e corpo sacrale, corpo che muore e quello che invece si trasmette sotto forma di regalità, si fossero ricongiunti per un imponderabile maleficio. Fresu, nel suo doppio ruolo di psicoanalista e di artista, ha messo in mostra un’ombra e il suo fantasma. Come se i fantasmi potessero avere un’ombra. Batte il cuore di uno spettro mentre i soldati camminano a passo dell’oca sulle volte ricurve del Castello.
Spettro perché, mentre i fantasmi sono bianchi, Hitler è nero, anzi nerissimo. Il capo nazista è stato e resta un enigma. Il suo maggior biografo, l’inglese Ian Kershaw, s’è chiesto come un uomo così bizzarro abbia potuto prendere il potere in uno Stato moderno com’era la Germania dell’inizio del XX secolo. Dotato di grandi abilità demagogiche e di una capacità straordinaria di sfruttare le debolezze dei suoi avversari, Hitler resta un mistero per chi l’ha indagato: di quali poteri era dotato per riuscire a trascinare le classi dirigenti tedesche in un’avventura così nefanda e disastrosa? Risposta non c’è. Salvo ricorrere alla metafisica del Male, o a spiegazioni che esorbitano dalla nostra comprensione razionale. Der Körper bordeggia quello spazio irrazionale, lo lambisce e per questo scuote il visitatore, lo mette in allerta. Persegue questo scopo e anche quello di indicare che Hitler era un uomo come noi, che aveva un corpo simile al nostro: era normale. Non era un mostro?
Possibile? Il concetto di "mostro" non è facile da maneggiare; fa vacillare, perché spiega qualcosa d’inspiegabile. Primo Levi, al termine del suo I sommersi e i salvati, sostiene di non aver mai incontrato dei mostri nel lager, solo degli uomini che erano stati educati male. L’arcano di Hitler resta irrisolto.
La mostra è elegante e la sua provocazione colpisce. Tra tutti i dittatori del XX secolo, Hitler era quello che sembrava avere meno corpo di tutti; lo nascondeva persino ai propri intimi: nessuno l’ha mai visto a torso nudo. Come aveva detto Jung, intervistato da un giornalista americano, poco dopo la sua ascesa al potere, quello che colpiva era prima di tutto la voce del dittatore, la vibrazione isterica che conteneva, una voce che stregava milioni di tedeschi e li coinvolgeva. Come controcanto a questa ostensione fantasmatica della testa e del cuore del dittatore funziona la voce tremenda di Hitler che echeggia nelle sale, una voce uscita da un corpo così piccolo e modesto, che non riusciamo a dimenticare, e che come uno spettro circola ancora oggi per l’Europa dei suoi tardi, assurdi e fanatici ammiratori.
I medici nascono senza frontiere
di Roberto Mussapi (Avvenire, venerdì 18 gennaio 2019)
«In quante case io entri mai, vi giungerò per il giovamento dei pazienti tenendomi fuori da ogni ingiustizia e da ogni altro guasto, particolarmente da atti sessuali sulle persone sia di donne che di uomini, sia liberi sia schiavi». Siamo all’inizio di uno scritto che segna una tappa fondamentale della civiltà: il Giuramento di Ippocrate, il medico che fonda il compito e traccia le basi della sua arte. «Io giuro su Apollo medico e Asclepio e Igieia e Panacea, e su tutti gli dei e le dee, prendendoli a miei testimoni...».
Il giuramento di Ippocrate, su cui si fonda la medicina, è fatto agli dèi, il compito del medico non riguarda esclusivamente il mondo della polis, ma è vincolato a quello sacro del divino. Studi recenti datano il giuramento intorno al V secolo a. C, il secolo che vede nascere la tragedia come genere teatrale di poesia, e la filosofia, pensiero come logos. Alle spalle il rito dionisiaco tragico, e il pensiero dei presocratici, i baldi e travolgenti scienziati-poeti. Prodigioso momento di creazione dei Greci che fondano l’Occidente.
Cittadini di una democrazia, non servi di un Re come gli Egizi o i Persiani. Ma civiltà non ancora compiuta. Le donne non godono di diritti civili, né considerazione, meno ancora degli schiavi. Insomma molestare una donna, o uno schiavo, non è, per il greco del tempo, così grave. Non sono cittadini, maschi.
Per Ippocrate invece è la stessa cosa. Supera i limiti della sua civiltà. Va oltre: giuro di non fare violenza a nessuno, perché tutti, comprese donne e schiavi, sono, siamo uguali. Supera i pensatori del suo tempo. È un medico. I medici nascono senza frontiere.
Fascismo e antifascismo. Storia, memoria e culture politiche... *
Un saggio di De Bernardi
Il fantasma perpetuo del fascismo
di Alessandra Tarquini (Corriere della Sera, 15.01.2019)
Perché nel dibattito pubblico ricorre la percezione di un riapparire del fascismo? Alla domanda risponde Alberto De Bernardi nel libro Fascismo e antifascismo (Donzelli, pagine 176, e 17), che offre una grande lezione di storia contemporanea. De Bernardi ricorda che di pericolo risorgente parliamo da tempo: era «ritorno del fascismo» il centrismo di De Gasperi e di Scelba, così come il tintinnar di sciabole del centrosinistra o anche il «fanfascismo» nei primi anni Settanta; furono definiti fascisti Bettino Craxi e Silvio Berlusconi.
Non si è trattato solo di polemiche politiche: sin dalla fine della guerra, intellettuali di diversa provenienza hanno individuato un fascismo persistente contrapposto all’antifascismo. Di fatto, fascismo e antifascismo sono diventate categorie generiche: «due archetipi metastorici del lessico politico». Così queste parole hanno perso il loro senso, come mostrano la discussioni di oggi.
De Bernardi ricorda che il recente sovranismo ha ben pochi punti di contatto con l’idea di nazione della prima metà del Novecento. Lo stesso ritorno della xenofobia è espressione di un’autodifesa identitaria e non certo di teorie sulla superiorità della razza ariana. Il razzismo italiano degli anni Trenta fu il prodotto della volontà di creare un uomo nuovo, non certo del tentativo di difendersi dalle ondate migratorie o da trasformazioni dell’economia.
Ma soprattutto, mentre la crisi degli anni Venti derivò dall’incapacità dello Stato liberale di integrare le classi subalterne, quella attuale sembra il prodotto della sconfitta della politica. Il regime totalitario fascista ha affermato il primato della politica sulle altre espressioni dell’esistenza, producendo una nuova modernità rivoluzionaria, alternativa a quella emersa dalla Rivoluzione francese. Oggi assistiamo alla diffusione di una concezione non mediata dei rapporti tra masse e Stato. In una società aperta e multiculturale che ha eroso i loro redditi, le classi medie mostrano una sfiducia radicale nella possibilità di cambiare il mondo.
La storia non si ripete. Ecco la lezione di questo libro che richiama uno degli storici più importanti del Novecento: l’antifascista Marc Bloch scrisse che la storia è irreversibile. Un invito a capire la specificità del tempo.
* Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
INDIVIDUO E SOCIETA’ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI. USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" .....
ROMOLO AUGUSTOLO: L’ITALIA NON E’ NUOVA A QUESTI SCENARI. C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO.
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Un Patto scellerato in nome della Scienza
Il manifesto trasversale. Con preoccupanti finalità interdittive, il patto firmato da Grillo e Renzi, quando annuncia che non saranno tollerate forme di pseudoscienza e pseudomedicina, brandisce la Scienza come una clava con cui colpire i “reprobi” che non ne riconoscono la sacralità
di Giorgio Ferrari, Angelo Baracca (il manifesto, 12.01.2019)
Non è la prima volta che nel nostro paese il mondo della scienza si rivolge alla politica affinché questa si faccia carico di questioni riguardanti il benessere della popolazione. È successo per il clima, per le scelte energetiche e per questioni etiche: ora, sembra, è la volta della salute. Tale infatti l’ambito privilegiato, ma non esclusivo, del Patto Trasversale per la Scienza che tanti consensi ha suscitato sia nei mezzi di informazione che nella stessa politica, al punto da mettere d’accordo persino due noti avversari come Beppe Grillo e Matteo Renzi. Fuori dal coro dei consensi a noi pare che questa iniziativa abbia qualcosa di inquietante nella forma e nella sostanza del suo testo. Intanto non è un appello, ma un “patto” che le forze politiche tutte sono chiamate a sottoscrivere per finalità non solamente propositive (l’informazione, la ricerca) ma decisamente interdittive. E questa è una spiacevole novità. Di appelli fortemente connaturati alla sacralità della Scienza, ne avevamo già visti in passato e sempre in occasione di forti tensioni culturali e sociali come quelle dei referendum antinucleari. Così fu per gli scienziati filonucleari che si rivolsero al presidente della repubblica all’indomani dell’incidente di Chernobyl, poi nel 2010 quelli che si rivolsero a Bersani affinché il Pd non chiudesse la porta al nucleare e infine nel 2011 quelli che ritenevano senza fondamento l’imminente referendum post Fukushima. Il tratto comune di questi appelli era l’accusa, esplicita o implicita, di antiscientificità nei confronti degli antinucleari: «Caro Segretario, occorre evitare il rischio che nel Pd prenda piede uno spirito antiscientifico, un atteggiamento elitario e snobistico che isolerebbe l’Italia, non solo in questo campo, dalle frontiere dell’innovazione. Noi ti chiediamo di prendere atto che il nucleare non è né di sinistra, né di destra e che, anzi, al mondo molti leader di governi di sinistra e progressisti puntano su di esso per sviluppare un sistema economico e modelli di vita e di società eco-compatibili» questo nell’appello del 2010, mentre in quello del 2011 si diceva: «Nell’appellarci alla ragione, noi richiamiamo l’attenzione sul fatto che la legittima prudenza e la giusta richiesta di corretta informazione non siano oscurate da furori emotivi fuori luogo o da ossessionanti atteggiamenti di contrapposizione che rischiano di sfociare in anacronistiche “cacce alle streghe” invocate da guru o santoni d’occasione nonché da contingenti interessi elettorali».
Considerazioni queste, in linea con quella presunta neutralità della scienza che anche il testo del presente “Patto” vuole accreditare, quando sostiene che la Scienza (e il progresso che ne consegue) «non ha alcun colore politico». Non siamo d’accordo; e ce ne sarebbero di esempi per dimostrare che la “Scienza”- non altrimenti definita - si è macchiata più volte di crimini contro l’umanità, sia in tempo di pace che di guerra. Ma questo, se vogliamo, è ancora un ambito dialettico sull’operato della scienza stessa che fu, ed è ancora, largamente di parte. Diverso invece (e più inquietante) è quando nel “Patto”si annuncia che non saranno tollerate forme di pseudoscienza e pseudomedicina fino al punto di auspicare leggi contro l’operato di chi sarà ritenuto, conseguentemente, uno pseudoscienziato.
E chi lo stabilirà? Con quali criteri? Se tutto questo non è una boutade elettoralistica che ammicca ad un asse tra Pd e 5S, allora i tempi bui di cui scriveva Brecht sono più vicini di quanto pensiamo e magari c’è già chi sogna di ripristinare le regole del Sant’Uffizio:
«Diciamo, pronuntiamo, sententiamo e dichiariamo che tu, Galileo sudetto, per le cose dedotte in processo e da te confessate come sopra, ti sei reso a questo S. Offizio vehementemente sospetto d’heresia, cioè d’haver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e Divine Scritture».
Del resto sono già due i medici italiani radiati dall’ordine per aver assunto posizioni critiche sul decreto vaccini. E tanto per restare in tema, come dimenticare il falso allarme pandemia del 2010 che costò solo in Europa miliardi di euro di spesa in vaccini inutilizzati, o la denuncia di appena un anno fa dell’Istituto Negri, sulla immane inutilità dei farmaci in commercio e sulle cure prescritte senza alcuna evidenza scientifica?
Attenzione dunque a brandire la Scienza come una clava con cui colpire i “reprobi” che non ne riconoscono la sacralità. Così facendo avalleremmo l’idea che la Scienza debba essere separata dalla realtà sociale e dallo stesso scienziato che, al pari di un sacerdote, non esprime più un suo punto di vista in quanto, per definizione, esso è già contenuto nella Scienza-religione, ormai basata solo su se stessa e sulla sua infallibilità.
C’è del buono in quel «patto».
Scienza e politica: sviluppo opportuno
di Walter Ricciardi (Avvenire, sabato 12 gennaio 2019)
Il "patto per la scienza" siglato giovedì 10 gennaio 2019 è una importante innovazione nello scenario culturale del nostro Paese perché segna un passaggio di qualità nel rapporto tra scienza e politica. E questo al di là della discussione strettamente politica sul fatto che - dopo tanti anni di posizioni critiche e anche francamente ostili - il fondatore del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo ha improvvisamente cambiato opinione sulla straordinaria tecnologia dei vaccini e delle vaccinazioni.
La scienza è un sistema di conoscenze caratterizzato dalla ricerca della verità, attraverso prove riproducibili, mentre la politica è una vocazione pienamente impegnata nelle circostanze e nei compromessi del mondo reale. Politici e scienziati hanno funzioni sociali diverse che non poche volte li portano a contrapporsi, ma che in fin dei conti riescono a essere complementari anche se spesso attraverso un difficile cammino di mutue incomprensioni, ostacoli e interessi. Ovviamente questa mutua interazione e questo percorso non sono scevri da possibili rischi e distorsioni.
Non è difficile trovare esempi di politici che negano o distorcono le evidenze scientifiche a favore di proprie posizioni su determinate temi, magari compromettendo in tal modo la comprensione da parte dell’opinione pubblica dei fattori in campo. Per di più, quando ciò accade, gli scienziati generalmente rispondono nella lingua della scienza e raramente, perciò, riescono a risolvere la confusione e l’incomprensione ormai generata e diffusasi nell’opinione pubblica.
E d’altra parte, è difficile anche capire in che misura gli scienziati dovrebbero essere coinvolti nel prendere parte alle decisioni politiche. La domanda è ardua per le società democratiche tecnologicamente avanzate. Se gli scienziati non mettono a disposizione le loro conoscenze nei processi politici, si rischia di prendere decisioni malinformate su tematiche complesse. Ma, allo stesso tempo, se gli scienziati giocano un ruolo troppo grande nella definizione di problemi e soluzioni, si rischia di sostituire un governo democratico con un controllo tecnocratico.
Quale relazione politica-scienza rappresenta, dunque, l’optimum? È possibile identificare tre condizioni in cui è più probabile che le evidenze derivanti dalla scienza vengano utilizzate dai decisori politici per identificare e implementare le policy.In primo luogo, è più probabile che la scienza influenzi i politici se le evidenze fornite rientrano entro i limiti e le pressioni (anche istituzionali) a cui essi sono sottoposti, se "risuonano" con i loro presupposti ideologici oppure se subiscono, esternamente, una pressione tale da indurli a sfidare e oltrepassare quei limiti.
In secondo luogo, le prove scientifiche devono essere credibili e convincenti, fornire soluzioni pratiche ai problemi di politica correnti ed essere presentate in modo da attrarre l’interesse dei politici. In terzo luogo, la scienza è maggiormente in grado di contribuire a politiche migliori se i ricercatori e i decisori politici, i policy maker, condividono reti comuni, si fidano l’uno dell’altro, rappresentano gli interessi di tutte le parti interessate in modo onesto e aperto e comunicano in modo efficace.
Nella pratica queste tre condizioni sono raramente soddisfatte, perché i ricercatori hanno una limitata capacità di influenzare il contesto politico o di sviluppo all’interno del quale lavorano. E purtroppo i processi politici stessi sono probabilmente il principale ostacolo alla formulazione di policy basate sull’evidenza. Far sì che il dialogo tra scienza e politica non sia un dialogo tra sordi è un problema che si pone con urgenza in Italia e non solo.
Per questo il ’patto’ prevede che le forze politiche italiane s’impegnino:
1) a sostenere la scienza come valore universale di progresso dell’umanità, che non ha alcun colore politico, e che ha lo scopo di aumentare la conoscenza umana e migliorare la qualità di vita dei nostri simili;
2) a non sostenere o tollerare in alcun modo forme di pseudoscienza e/o di pseudomedicina che mettono a repentaglio la salute pubblica come il negazionismo dell’Aids, l’anti-vaccinismo, le terapie non basate sulle prove scientifiche;
3) a governare e legiferare in modo tale da fermare l’operato di quegli pseudoscienziati che, con affermazioni non-dimostrate e allarmiste, creano paure ingiustificate tra la popolazione nei confronti di presidi terapeutici validati dall’evidenza scientifica e medica;
4) a implementare programmi capillari d’informazione sulla scienza per la popolazione, a partire dalla scuola dell’obbligo, e coinvolgendo media, divulgatori, comunicatori e ogni categoria di professionisti della ricerca e della sanità;
5) ad assicurare alla scienza adeguati finanziamenti pubblici, a partire da un immediato raddoppio dei fondi ministeriali per la ricerca biomedica. Questo testo è, insomma, un importante passo avanti di cui siamo grati a Roberto Burioni e Guido Silvestri. Certo, nel ’patto’ non si entra nell’ambito degli impegnativi scenari etici in cui dovremo prendere importanti decisioni nel prossimo futuro, e questo è un argomento su cui bisognerà tornare con decisione.
* Ordinario d’igiene e medicina preventiva Università Cattolica del Sacro Cuore e già presidente dell’Istituto superiore di sanità (Iss).
I valori che offre la scienza
Verità è dire le cose come stanno. Pensare e parlare ricordando sempre che «là fuori» c’è una realtà ostinata e indipendente dalle nostre opinioni
di Maurizio Ferrera (Corriere della Sera, 12.01.2019)
Beppe Grillo ha firmato il Patto trasversale sulla Scienza promosso da Roberto Burioni e Guido Silvestri, due noti e autorevoli docenti e studiosi di medicina. Si tratta di un segnale importante, in controtendenza rispetto agli atteggiamenti anti-scientifici dei 5 Stelle: emblematico il caso dei vaccini. A giudicare dai social media, non tutta la base grillina condivide questa scelta. Beppe Grillo resta nondimeno il fondatore e padre nobile del Movimento. La sua posizione ha comunque peso politico e rilevanza simbolica.
Il Patto sulla Scienza dice cose molto semplici, che dovrebbero essere scontate in ogni democrazia liberale. Primo: la scienza è un valore, in quanto produce conoscenze affidabili sul mondo e ci indica sia come trarne vantaggio sia come evitare danni (pensiamo alle epidemie o ai disastri naturali). Secondo: occorre combattere la pseudo-scienza, ossia tutte le idee e indicazioni che non rispettano quei criteri di metodo che da secoli ispirano il lavoro degli scienziati. Chi stabilisce i criteri e chi «accredita» la qualità di un lavoro scientifico? La comunità scientifica, e solo questa. Come rammenta il Patto, la scienza non ha colore politico. I politici possono trascurare le indicazioni degli scienziati. Ma non possono giustificarsi dicendo che gli scienziati sbagliano, che le conoscenze accettate e condivise dalla comunità scientifica non «dicono la verità». g li ultimi due punti del Patto spiegano in che modo si deve promuovere e proteggere la scienza. Innanzitutto occorre mettere i cittadini in condizioni di riconoscere la conoscenza affidabile da quella che non lo è. In secondo luogo, bisogna mettere gli scienziati in condizione di lavorare autonomamente, garantendo un flusso adeguato di risorse.
Ho menzionato la parola «verità». Di questi tempi è frequente sentire che la verità non esiste, oppure che ce ne sono tante e che ciascuno può scegliere la sua. E poi: gli scienziati non sono mai neutrali - si dice -, spesso agiscono in base a interessi di parte. Il cosiddetto progresso scientifico non dimostra forse che ciò che appare vero in un dato momento a un certo punto viene gettato nel cestino delle falsità? Osservazioni comprensibili. Gli scienziati sono donne e uomini in carne e ossa, e dunque imperfetti, «legni storti», come diceva Kant. Il loro lavoro «scopre» le cose per tentativi ed errori. La conoscenza scientifica è dunque sempre provvisoria, valida fino a prova contraria. Ciò che dovrebbe succedere (una guarigione) non succede; accadono eventi non previsti, spesso indesiderati (una calamità). Solo gli scienziati possono tuttavia stabilire se e quando una prova contraria è decisiva per il destino di una teoria.
Grazie a Internet, ciascuno di noi può oggi farsi un’idea riguardo a qualsiasi fenomeno. È forte la tentazione di decidere da soli. Sulla Rete si trovano le tesi più incredibili. Negli Stati Uniti c’è un gruppo che sostiene che la terra in realtà sia piatta. I «terrapiattisti» si sono trasformati in un movimento, che ora si riunisce periodicamente in compagnia di pseudo-scienziati. Per ora, non fanno male a nessuno. Ma un conto è sostenere credenze false relativamente innocue. Un altro conto è danneggiare gli altri sulla base di opinioni dogmatiche, non suffragate da evidenza e ragionamento. Non solo su temi che riguardano la fisica o la medicina, ma anche l’immigrazione o le differenze razziali.
Nei dibattiti pubblici, soprattutto in televisione, il confronto fra due punti di vista si conclude talvolta con uno dei due interlocutori (spesso un Cinque Stelle) che liquida l’altro dicendo «è una sua opinione, io non sono d’accordo». In alcuni casi è davvero difficile procedere al di là delle opinioni. Ma per una grande quantità di temi c’è davvero modo di controllare come stanno le cose, di stabilire chi ha ragione. Un’abitudine ancor peggiore è fermare il confronto politico dicendo: se «quello» non è d’accordo con me, che ho vinto le elezioni, allora si candidi (pensiamo a Salvini). Un’assurdità. Come insegnava Bobbio, la verità non si decide a maggioranza. I cittadini di una democrazia possono deliberare su moltissime questioni. Ma l’idea che possa esistere un cittadino «totale», titolato a sottrarsi ad ogni forma di autorità basata sulla competenza invece che sulla maggioranza è l’anticamera della dittatura.
Torniamo al Patto sulla Scienza. Il testo richiama la politica a «legiferare» contro la pseudo-scienza. Se ciò che si chiede è l’adozione di norme che rafforzino la sfera scientifica e che leghino le mani ai politici nella presa di decisioni in certi ambiti delicati (ad esempio costringendoli a chiedere il parere degli scienziati e a tenerne adeguatamente conto), l’appello è ineccepibile. Non bisogna però mai affidare alla politica il ruolo di giudice nelle controversie scientifiche e nemmeno quello di scendere a compromessi incoerenti, come nel caso dell’«obbligo flessibile» alla dichiarazione vaccinale da parte dei genitori.
Il messaggio operativo più importante del Patto è quello che riguarda l’informazione e la scuola. È in queste due sfere che si deve imparare a usare correttamente il concetto di verità. Il che vuol dire una cosa semplice, ben riassunta già da Platone: verità è dire le cose come stanno. Pensare e parlare ricordando sempre che «là fuori» c’è una realtà ostinata e indipendente dalle nostre opinioni. E che può danneggiarci seriamente se ci illudiamo di poterla ignorare o peggio ancora piegare a nostro libero piacimento.
UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".... *
Il cielo si apre
Siamo tutti figli di Dio nel Figlio
di Ermes Ronchi ( Avvenire, giovedì 10 gennaio 2019)
In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il Battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
«Viene dopo di me colui che è più forte di
me". In che cosa consiste la forza di Gesù? Lui è il più forte perché parla al cuore. Tutte le altre sono voci che vengono da fuori, la sua è l’unica che suona in mezzo all’anima. E parla parole di vita.
«Lui vi battezzerà...»
La sua forza è battezzare, che significa immergere l’uomo nell’oceano dell’Assoluto, e che sia imbevuto di Dio, intriso del suo respiro, e diventi figlio: a quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio (Gv 1,12). La sua è una forza generatrice («sono venuto perché abbiano la vita in pienezza», Gv 10,10), forza liberante e creativa, come un vento che gonfia le vele, un fuoco che dona un calore impensato. «Vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Il respiro vitale e il fuoco di Dio entrano dentro di me, a poco a poco mi modellano, trasformano pensieri, affetti, progetti, speranze, secondo la legge dolce, esigente e rasserenante del vero amore. E poi mi incalzano a passare nel mondo portando a mia volta vento e fuoco, portando libertà e calore, energia e luce. Gesù stava in preghiera ed ecco, il cielo si aprì. La bellezza di questo particolare: il cielo che si apre. La bellezza della speranza! E noi che pensiamo e agiamo come se i cieli si fossero rinchiusi di nuovo sulla nostra terra. Ma i cieli sono aperti, e possiamo comunicare con Dio: alzi gli occhi e puoi ascoltare, parli e sei ascoltato.
E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento». La voce annuncia tre cose, dette per Gesù e per ciascuno di noi: “Figlio” è la prima parola: Dio è forza di generazione, che come ogni seme genera secondo la propria specie. Siamo tutti figli di Dio nel Figlio, frammenti di Dio nel mondo, specie della sua specie, abbiamo Dio nel sangue e nel respiro.
“Amato” è la seconda parola. Prima che tu agisca, prima di ogni merito, che tu lo sappia o no, ogni giorno ad ogni risveglio, il tuo nome per Dio è “amato”. Immeritato amore, incondizionato, unilaterale, asimmetrico. Amore che anticipa e che prescinde da tutto.
“Mio compiacimento” è la terza parola. Che nella sua radice contiene l’idea di una gioia, un piacere che Dio riceve dai suoi figli. Come se dicesse a ognuno: figlio mio, ti guardo e sono felice. Se ogni mattina potessi immaginare di nuovo questa scena: il cielo che si apre sopra di me come un abbraccio, un soffio di vita e un calore che mi raggiungono, il Padre che mi dice con tenerezza e forza: figlio, amore mio, mia gioia, sarei molto più sereno, sarei sicuro che la mia vita è al sicuro nelle sue mani, mi sentirei davvero figlio prezioso, che vive della stessa vita indistruttibile e generante.
(Letture: Isaia 40,1-5.9-11; Salmo 103; Tito 2,11-14;3,4-7; Luca 3, 15-16.21-22).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Italia
L’io sovrano del Censis
di Ida Dominijanni, giornalista *
Di anno in anno, con il suo rapporto annuale, il Censis non solo fornisce un’ottima radiografia dello stato dell’Italia, ma produce uno slogan destinato a scuotere un dibattito mediatico sempre più politicista, autoreferenziale e ripetitivo. Fu così qualche anno fa, quando De Rita prese pari pari dalle analisi lacaniane la diagnosi dell’eclissi del desiderio e la scaraventò su un’Italia ancora avvolta nel regime del godimento berlusconiano. Ed è così quest’anno, con il cinquantaduesimo rapporto che fa perno sul “sovranismo psichico” e mette di nuovo a fuoco il legame che nelle fasi di cambiamento stringe assieme la dimensione politica, quella sociale e quella psichica, individuale e collettiva.
Nel sovranismo, dice in sostanza il Censis, non ne va solo della nostalgia della sovranità nazionale “usurpata” dall’Unione europea e dell’invocazione della sovranità popolare “usurpata” dalle élite. Ne va di una certa mentalità, di certi sentimenti e comportamenti, di una certa configurazione degli individui. Lo si potrebbe dire - è stato detto: anche stavolta il Censis attinge a un’ampia ancorché non dichiarata letteratura - in altri termini: il discorso sovranista ha generato il suo soggetto, fatto a immagine e somiglianza dello stato sovrano perduto che evoca. L’uno e l’altro, lo stato e il soggetto, si sentono assediati da invasori alieni e minacciosi, l’uno e l’altro erigono muri a difesa dei propri confini, l’uno e l’altro nascondono dietro maschere fortificate e irrigidite la loro vulnerabilità e la loro dipendenza da altro e da altri. La forza - e la trappola - del sovranismo sta precisamente qui: nel creare un’illusione di forza e di autonomia, dello stato, del popolo e dell’individuo, a copertura della loro fragilità.
La ripresa inesistente
Il Censis però rovescia il cono: non vede nel soggetto sovranista un effetto del discorso politico, ma nel discorso politico un effetto della crisi sociale. In Italia il tempo s’è fermato: siamo fermi, e più spesso procediamo all’indietro come i gamberi. La ripresa economica intravista nel 2017 non s’è realizzata: “È sopraggiunto un intralcio, un rabbuiarsi dell’orizzonte”. Rallentano gli indicatori macroeconomici, cresce la sfiducia verso le istituzioni e il rancore di tutti contro tutti. Nell’assenza di progetto politico e di intervento statuale, peggiora in ogni campo la vita quotidiana, salvo che per una fascia di pochi privilegiati: la natalità diminuisce, l’ascensore sociale è bloccato, il lavoro manca, le disuguaglianze crescono, i soldi sono pochi (siamo il paese dell’Unione europea dove mediamente si guadagna di meno) e quei pochi stanno fermi in banca, i consumi non sono mai tornati ai livelli pre-crisi. Ma soprattutto, ogni cosa è sulle spalle dei singoli (aumentati del 50 per cento in dieci anni, mentre i matrimoni e le convivenze crollano) e delle famiglie: l’assistenza ai non autosufficienti, la sopravvivenza in un territorio a rischio perpetuo di crolli e frane, lo slalom nella giungla burocratica, la formazione culturale in un paese che non investe nulla sulla scuola e l’università. E per giunta, questo defatigante lavoro di adattamento alla crisi non viene riconosciuto né ripagato in gratitudine da nessuna istituzione.
Sono le radici profonde della delusione, della sfiducia e di un rancore pervasivo ormai convertitosi, scrive il Censis, in una cattiveria diffusa e in una conflittualità latente, “pulviscolare e individualizzata”. Da qui la soluzione del “sovranismo psichico”: un si salvi chi può che si regge sulla caccia paranoica del capro espiatorio, identificato nei migranti e più in generale in qualunque differenza o alterità perturbante. La maschera arcigna dell’io sovrano che presidia digrignando i denti un’identità immaginaria, in realtà destabilizzata dall’incertezza e dall’assenza di prospettive. Un’identità nazionale - “prima gli italiani”- bianca, proprietaria (e, dimentica di dire il Censis, maschile, come dimostra la misoginia imperante che il rapporto stranamente non contabilizza). Che “guarda al sovrano autoritario” come garanzia di contenimento dell’angoscia e di stabilità.
L’illusione traballante del sovranismo
La soluzione del governo sovranista sarebbe dunque l’effetto coerente di questa trasformazione psichica e sociale. “La delusione per il non-cambiamento miracoloso ha incattivito gli italiani e li ha resi disponibili a un salto rischioso e incerto, un funambolico camminare sul ciglio di un fossato che mai prima d’ora aveva visto da così vicino, se la scommessa era poi quella di spiccare il volo. Quasi una ricerca programmatica del trauma, nel silenzio arrendevole delle élite”. C’è da chiedersi tuttavia, rovesciando di nuovo il cono, se la soluzione politica sarebbe stata necessariamente quella populista-sovranista in presenza di un discorso politico diverso. Se qualcuno avesse dato ascolto all’incertezza invece di rimuoverla nella narrativa trionfale della ripresa e alla precarietà invece di annegarla nella retorica delle start up. Se qualcuno, nella crisi, avesse fatto appello alla solidarietà invece che all’autoimprenditorialità e alla competitività. Se le responsabilità del debito accumulato fossero ricadute su chi di dovere invece che su un senso di colpa collettivo deprimente e mortifero. Eccetera eccetera: a incattivirci, prima del sovranismo psichico e politico, è stato il neoliberalismo, di cui il sovranismo è solo l’effetto perverso. E del resto, già pericolante. La grottesca vicenda della manovra economica ha già dimostrato che il ritorno alla sovranità dello stato-nazione è una beata illusione. Il crollo dell’illusione psichica dell’io sovrano seguirà immancabilmente.
* Internazionale, 8 dicembre 2018
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
Gli storici, questi mentitori. Torna il Luciano di Savinio
di Andrea Santurbano (Alfabeta-2, 02.12.2018)
La verità greca ha tremato un tempo con l’affermazione «io mento», ricorda Michel Foucault nel Pensiero del fuori, riferendosi al noto paradosso del mentitore di Epimenide, secondo cui tutti i cretesi sarebbero bugiardi, compreso il cretese che, nel dir questo, pretende di affermare il vero. Luciano di Samosata, che della civiltà greca ed ellenistica poteva ormai osservare l’epilogo dall’alto del II sec. d. C., può aggiustare il tiro: «giacché non ho a contar niente di vero [...], mi sono rivolto a una bugia, che è molto più ragionevole delle altre, ché almeno dirò questa sola verità, che io dirò la bugia». Quanto mai opportuno, dunque, appare oggi, in epoca di fake news, recuperare un classico impolverato dal tempo, di Luciano appunto, Una storia vera e altre storie scelte da Alberto Savinio, libro apparso per la prima volta nel 1944, da Bompiani, e ora riproposto da Adelphi. E già, non poteva essere che Savinio l’artefice di tale riscoperta, in anni, tra l’altro, che lo vedevano impegnato nella stesura di articoli, poi riuniti in Nuova enciclopedia (opera anch’essa riproposta da Adelphi, lo scorso anno), in cui non manca di esprimersi al riguardo con la sua consueta, funambolica arguzia: «Il difetto maggiore e la profonda immoralità dei regimi assolutistici come di ogni condizione assolutistica, è il principio della ‘verità unica’. Mentre si sa che la verità umana, la verità nostra, la verità ‘vera’ è fatta di vero e di falso: più di falso che di vero».
In realtà, è difficile distinguere a chi appartenga la paternità del volume: se Kafka, come vuole Borges, altro maestro di paradossi, avrebbe prodotto retroattivamente lo scrivano Bartleby, non è fuori luogo affermare che Savinio abbia prodotto retroattivamente questi scritti di Luciano. Ci si trova di fronte, infatti, a una lettura nella lettura: si legge Luciano ma si legge Savinio, che nell’introduzione lascia che sia lo stesso Luciano a raccontare la sua storia - questa sì, presumibilmente vera - alla maniera di un’«intervista impossibile». E non bisogna dimenticare la modernissima traduzione di Luigi Settembrini, realizzata durante la prigionia sull’isola di Santo Stefano (1851-59) per cospirazione contro il regime borbonico (anni in cui - o forse più tardi, ma il discorso non cambia molto - il serio letterato scrisse, probabilmente suggestionato da questa stessa traduzione, la breve favola omoerotica dei Neoplatonici, rinvenuta solo nel 1937, che Croce avrebbe considerato una «caduta» del maestro e di cui invece Giorgio Manganelli accompagnerà con un memorabile scritto la prima edizione nel 1977). Savinio, nella nuova edizione, si premura appena di «rinettare» questa versione di pochissimi arcaismi, considerandola bella, fedele e minuziosa.
Ma si diceva, insomma, di una polifonia di fondo; di un dialogo a tre, neanche troppo tenero, spesso spassoso, in cui Settembrini fa più compuntamente da esegeta al testo, mentre Savinio, teppisticamente, usa le note da contrappunto, per vivaci commenti o per libere divagazioni. Ne è esempio il dialogo Il Menippo o la negromanzia, in cui Savinio apre le danze chiamando in causa Settembrini: «Nota, o lettore, il modo “filologico” col quale è usato qui l’aggettivo indifferente: è a simili finezze che si riconosce l’eccellenza di questa versione dal greco»; Luciano, da parte sua, si lancia in uno dei suoi contundenti attacchi: «manda alla malora i filosofi e i loro sillogismi, ché son tutte sciocchezze; e attendi solo a questo, usare bene del presente, passare ridendo sopra molte cose, non dare importanza a nulla»; al che segue la pungente reazione di Savinio: «Peccato che questo dialogo così spiritoso finisca in una così povera morale. Questo purtroppo è il lato debole degli spiriti liberi: Luciano, Voltaire... Tra libertà di spirito e sciocchezza il passo è breve: troppo spesso gli spiriti liberi fanno il passo oltre il limite»; ma subito dopo Settembrini riporta la calma con una precisazione da par suo: «Livadia, città di Beozia, dov’era il tempio, anzi l’antro di Trofonio».
Proviamo per un attimo anche noi, allora, a riportare tutto sotto controllo. Una storia vera e altre storie si divide in due sezioni: «Dialoghi e saggi» e «Una storia vera e altre opere». Dei dialoghi soprattutto si sa quanto abbiano, e dichiaratamente, influenzato le Operette morali di Leopardi. Ma è tutta la silloge a rappresentare uno scrigno prezioso, a partire dal meraviglioso «trattatello storico-didascalico» Della dea Siria e dalla stessa Una storia vera, viaggio fintamente autobiografico che rivisita tradizione mitologica, storica e odeporica, tra battaglie interplanetarie fra Lunari e Solari (una sorta di Guerre Stellari ante litteram) e mesi vissuti nella pancia di una balena (Collodi, come Savinio suggerisce, doveva aver letto questa storia!). E poi l’incontro vis-à-vis, durante le peripezie marittime, con filosofi e personaggi di quel grande universo della cultura greca, fatta oggetto di ironia, ancorché venata di affetto, perché l’ironia, come puntualizza Savinio nell’introduzione, «- e qui io parlo anche per me e lo dico alle orecchie fini - [...] è una forma di amore indiretto: è l’amore più pudico, l’amore più geloso».
Quel che non smette di sorprendere in un autore come Luciano di Samosata, ancora oggi, sono tuttavia i tanti spunti, quella sorte di immagini dialettiche che continueranno a brillare nei secoli a venire in materia di critica letteraria o di rapporti tra storia e letteratura. Per esempio, in una Storia vera è già chiamata in causa l’«intenzionalità» dell’autore. A domanda specifica, «E perché cominciasti da quel Cantami l’ira?», Omero, fattosi personaggio e già satireggiato in altro passo, risponde: «Perché così mi venne in capo: credi tu che ci pensavo?». Verrebbe addirittura da chiedersi: ma chi scrive, Luciano o Savinio? O ancora, sul finale, giunge la stoccata agli storici, relegati in una specie di girone infernale: «le pene più gravi sono date ai bugiardi e specialmente agli storici che non scrivono la verità, come Ctesia di Cnido, Erodoto, e altri molti».
Ancorché in forma di satira, dunque, è già messo sotto accusa lo statuto di verità della storia, prima di Marc Bloch, e prima dei vari Michel de Certeau, Roger Chartier e Carlo Ginzburg che finiscono col fare i conti con un dilemma evidente: l’esigenza di organizzarsi secondo un ordine diegetico, che muove evidentemente da categorie retoriche e narrative proprie della letteratura, la quale però non è obbligata a stringere compromessi con un’esigenza di veridicità, non farebbe anche della storia un «racconto»? Jacques Rancière non esita addirittura a reclamare un’esigenza opposta, quando afferma che «il reale deve essere reso finzione per poter essere pensato».
Anche in questo caso risulta complice, dunque, il dialogo Luciano-Savinio: provvedendo alla demolizione di rigide frontiere narrative, compreso quell’autobiografismo impastato anch’esso dall’ibridismo dei generi scritturali, che nel secondo (sarà bene ricordare, nato e cresciuto in Grecia) sfocerà in un continuo gioco di rimandi e dissimulazioni, di ricordi e libere associazioni (ri)creative: da Tragedia dell’infanzia a Dico a te, Clio, da Narrate, uomini, la vostra storia a Infanzia di Nivasio Dolcemare.
Discorso a parte meritano infine le illustrazioni di Savinio che impreziosiscono il volume. Quell’animismo metamorfico, suo marchio di fabbrica, che insuffla vita agli oggetti e rapprende gli esseri umani in forme materiche, animali o vegetali, trova nelle mirabolanti narrazioni di Luciano un terreno fertilissimo d’ispirazione. Insomma, nel rileggere questo libro si entra nel vivo di quell’idea di anacronismo suggerita da Georges Didi-Huberman: un palpitare, un metodo, un montaggio vivo e fecondo di tempi diversi, e non quel tremendo peccato inviso agli storici. Gli storici, già, ancora loro.
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3 risposte a “Gli storici, questi mentitori. Torna il Luciano di Savinio”:
CHE BELLA STORIA, QUELLA DEL PAESE DELLA GENTE DALLA DOPPIA TESTA E DALLA LINGUA BIFORCUTA.... *
SE “La verità greca ha tremato un tempo con l’affermazione «io mento»”, COME “ricorda Michel Foucault nel *Pensiero del fuori*, riferendosi al noto paradosso del mentitore di Epimenide, secondo cui tutti i cretesi sarebbero bugiardi, compreso il cretese che, nel dir questo, pretende di affermare il vero”, OGGI NON SOLO “la verità greca”, MA la stessa verità planetaria trema e sollecita a NARRARE ancora e sempre UNA STORIA VERA ....
EPIMENIDE (con questo nome è rimasto nella storia, come persona degna di essere ricordata per la sopravvivenza della stessa isola), indignato contro i suoi stessi concittadini (che evidentemente lo accusavano di chissà quali malefatte), fece il primo passo nella terra della post-verità, e gridò infuriato: “Tutti i cretesi mentono”! Se molti risero, altrettanto molti lo applaudirono.
Qualche anno dopo, sempre in quell’isola, ci furono le elezioni: tra i partiti (quello che la storia non ci ha tramandato) comparve uno strano partito, con il nome “Forza Creta”, e il leader era proprio il vecchio EPIMENIDE!
CONQUISTATO IL POTERE legalmente, IL SUO GRIDO AI pochi CRETESI CHE AVEVANO RISO DELLA SUA “BATTUTA” FU QUASI SIMILE A QUELLO DI BRENNO CONTRO I ROMANI SORPRESI NEL SONNO, ANZI, NEL SONNAMBULISMO: “GUAI AI VINTI”!
SOLO CHE A ROMA CI FURONO LE OCHE CHE SVEGLIARONO UN POCO tutti e tutte E I GALLI FURONO CACCIATI, MA A CRETA ALLA FINE NESSUNO PIU’ OSO’ RIDERE E ... “TUTTI I CRETESI MENTONO” ANCORA!!! A MEMORIA (E A VERGOGNA) ETERNA.
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Sul tema, mi sia consentito, si cfr.:
L’APOLOGIA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO E LA FILOSOFIA ITALIANA
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE..
P.S. - COME LA FANNO “TRAGICA”, questi STORICI. Ecco “come si deve scrivere la storia...” *
“Così dunque deve essere per me lo storico: impavido, incorruttibile, libero, amante della franchezza e della verità, e come dice IL COMICO, capace di chiamare i fichi, fichi, e la barca, barca, di non risparmiare o concedere nulla per odio o per amicizia; non deve avere riguardo, pietà, vergogna, o paura; sia un giudice imparziale, benevolo verso tutti ma non al punto di concedere a nessuno più di quel che gli è dovuto; nelle proprie opere deve essere straniero, senza patria, indipendente da ogni potere, uno che non calcola che cosa ne penserà l’uno o l’altro ma che racconta i fatti così come sono accaduti. [...]”
* Luciano di Samosata, “Come si deve scrivere la storia”.
N.B.! - STORIA, STORIOGRAFIA, E “COMICITÀ”....
Per non sottovalutare l’importanza della indicazione di Luciano sul “come si deve scrivere la storia”, e non pensare che Benedetto Croce (“Perché non possiamo non dirci «cristiani»”, 20 nov. 1942), come Mario Perniola (“Perché non posso non dirmi «cattolico»”: “Del sentire cattolico. la forma culturale di una religione universale”, 2001), si sia “rincristianito per dispetto” ( don Giuseppe De Luca al Ministro dell’Educazione Nazionale Bottai, per un commento su “Critica Fascista” del 1° genn. 1943, al testo di Croce), è bene “guardare la luna” e non “il dito”, e ricordare che
Pur se sia Croce sia Perniola, in cammino sulla strada di Luciano (non di Heidegger), siano rimasti intrappolati nell’orizzonte degli storici “mentitori”, a loro del lavoro di Dante come di Kant e Nietzsche e Freud molto è sfuggito, non per questo bisogna arrendersi alla “tragedia” e a vivere prima della “commedia” - in una “storia” senza “comicità”, nella “preistoria”!
“Dico a Te, Clio”. Narrate, uomini e donne, la vostra storia - comicamente...
SUL TEMA, mi sia lecito, cfr. CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA;
“PERVERSIONI” di Sergio Benvenuto. UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO.
Federico La Sala
FILOSOFIA, ARITMETICA, E ANTROPOLOGIA. I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE ... *
Discussioni
Il lato matematico di Platone
Così Reale recuperò i Greci
Esce una raccolta di studi del grande antichista italiano, difensore dei classici contro la visione scientista e il disprezzo diffuso per la teoria. La concezione delle idee come principi numerici, il primato della dottrina non scritta
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 25.11.2018, p. 11)
Nel corso degli anni Novanta, quando la filosofia analitica, quella che si concepisce come analisi logico-formale, aveva raggiunto il suo apice, c’era chi aveva cominciato a gettare discredito sul pensiero antico, nonché ovviamente sullo studio della lingua greca e di quella latina. A che pro studiare quel capitolo chiuso e concluso? Perché perdere tempo con Platone anziché risolvere i problemi attuali?
In quel delicato frangente, che ha lasciato segni evidenti altrove, Giovanni Reale (scomparso nel 2014) ha svolto in Italia un ruolo decisivo a difesa della filosofia classica. Ne è testimonianza il volume Storia della filosofia greca e romana che, appena pubblicato da Bompiani, raccoglie gli studi del grande antichista in un percorso suggestivo che va dai primi frammenti, risalenti almeno al VI secolo a.C., fino al decreto con cui l’imperatore bizantino Giustiniano chiuse nel 529 d.C. tutte le scuole dell’Impero guidate da pagani. Oltre mille anni di storia della filosofia narrati con perizia, sapienza, semplicità.
Reale ha lavorato a quest’opera per quattro decenni, intendendola quasi come un commento e un supporto alla fortunata collana del «Pensiero occidentale», dove sono usciti in edizione italiana, con testo a fronte, numerosissimi classici.
Il richiamo a Martin Heidegger è significativo. L’inizio greco non è destinato ad essere superato in grandezza dalle altre epoche. Al contrario: la filosofia dei Greci è la più grande. E la filosofia è prettamente greca. Perciò è peculiarità dell’Occidente; non esiste in altre tradizioni nulla di paragonabile. Da un canto Reale punta l’indice contro lo scientismo, che pretenderebbe di misurare la filosofia con i criteri della scienza, dall’altro denuncia il dilagante disprezzo per la «teoria» che non servirebbe alla vita pratica. Occorre guardare alla filosofia greca dove la teoria è una forma di prassi. Come sostiene Aristotele nella Politica, attivi al più alto grado sono coloro che esercitano un’attività di pensiero; tanto più che theoreîn non significa solo «vedere», ma anche «partecipare».
Reale si riconosce nell’ermeneutica di Hans-Georg Gadamer che, rilanciando l’insegnamento di Heidegger, ribadiva l’attualità del pensiero greco. Erano gli anni in cui il conflitto con la filosofia analitica veniva letto secondo il paradigma: «Noi greci, loro moderni». Ma la ripresa della riflessione antica non è antiquaria. Se la filosofia è indissolubilmente legata alla sua storia, questa storia non segue la freccia del progresso. Ecco perché, nell’apertura circolare di un dialogo, ammette e, anzi, sollecita la partecipazione. Al contrario di quel che avviene nella scienza, le domande della filosofia sono sempre le medesime, solo poste in modo differente. In tal senso l’incontro con la filosofia greca è «l’incontro con noi stessi».
Nata nelle vie e nelle piazze della pólis, dove il cittadino è chiamato alla vita politica, la filosofia si sviluppa lungo il filo conduttore del lógos, del discorso, dell’argomentazione, della ragione. Ma per Reale ciò che contraddistingue la tradizione greca è la metafisica, quel modo di pensare oltre i dati sensibili della realtà presente. Ne scorge le tracce già nell’orfismo, in quella iniziale religiosità ascetica, che per la prima volta parla di un che di «divino», che alberga nel corpo umano, cioè l’anima, la psyché. La morte è una liberazione dalla prigione del corpo, un ritorno all’origine dopo le sofferenze patite in terra. Questa potente dottrina della trasmigrazione delle anime, scaturita dalla fantasia orfica, capace di dischiudere l’aldilà, si sarebbe poi innestata nel cristianesimo.
Protagonista del volume è Platone, in cui Reale riconosce il «vertice del pensiero antico». È stato infatti il primo filosofo a guardare la realtà con «nuovi occhi», quelli dell’anima. Reale ricorda la «seconda navigazione» descritta da Platone nel dialogo Fedone. A parlare è Socrate, deluso dall’indagine sui fenomeni naturali; il suo timore è che, seguendo coloro che si volgono immediatamente alle cose, pretendendo di coglierle con i cinque sensi, finisca per accecare la propria anima. Si prepara allora alla «seconda navigazione», metafora del linguaggio marinaresco, che indicava il caso in cui, non essendoci più vento, la nave poteva essere spinta solo dai remi.
Questo è il passaggio decisivo dal sensibile all’intellegibile, dalla conoscenza che si accontenta dei sensi a quella che si innalza alle idee, intese da Platone come le «forme» delle cose. In questo varco metafisico sta per Reale il vero inizio della filosofia. Le idee sono principi formali, numerici, sono anzi numeri ideali.
Vale la pena ricordare che Reale aderì alla Scuola di Tubinga, le cui figure più significative furono Konrad Gaiser, Hans Krämer, e in seguito Thomas A. Szlezák. L’insegnamento di Platone non può essere confinato agli scritti, ma va ricercato piuttosto nella dottrina «non scritta» trasmessa, fra gli altri, anche da Aristotele.
Ne risulta una filosofia sistematica e fortemente matematizzata, dove assume rilievo la riflessione sull’uno, ma soprattutto sul due - che cosa significa due? - sulla diade infinita, «principio e radice della molteplicità degli esseri». -Anche chi non ne condivida i contenuti, dovrà ammettere che questa interpretazione, di cui Reale è stato il maggior esponente in Italia, ha aperto nuove vie di ricerca.
L’ammirazione per Platone, il grande pioniere del soprasensibile, non impedisce a Reale di scrivere pagine eccellenti su Aristotele, dalla fisica all’etica, dalla logica alla poetica, ricostruendo la portata epocale del suo pensiero. Ma a segnare una cesura, capace di ripercuotersi sulla filosofia, è il tramonto definitivo della pólis nel tempo di Alessandro Magno. Al cittadino subentra il suddito e, mentre vengono meno le antiche passioni, ciascuno è rinviato a se stesso e alla propria individualità in un mondo dove l’etica si scinde dalla politica, come attestano le scuole filosofiche successive.
Il volume contiene un’ultima parte in cui, da Filone d’Alessandria ad Agostino d’Ippona, viene delineato l’incontro fra tradizione ebraica e filosofia platonica, da cui sarebbe scaturito il cristianesimo. Particolare risalto assumono anche le figure di Plotino e di Proclo.
Viene prospettata allora una «terza navigazione», quella che non si ferma all’oltresensibile delle idee, alle forme immutabili, ma si apre agli imponderabili misteri della fede.
Si legge qui in filigrana il cammino sia intellettuale sia autobiografico di Reale, molto improntato, in particolare negli ultimi anni, a un’ispirazione religiosa. L’oltre della metafisica, che riteneva di non trovare più nel mondo attuale, ha improntato la vita contemplativa di questo grande maestro.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA. Per un rinascimento senza toga...*
* SUL TEMA, CFR.: IL "PADRE NOSTRO" E IL "CRISTO RE": IL REGNO DI DIO-MAMMONA ("CARITAS") O DI DIO-AMORE ("CHARITAS")!?
Federico La Sala
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA ...
iL "PADRE NOSTRO"?! Alcune pagine dalla "Querela pacis" (1517)
di Erasmo *
Pochi anni fa, quando il mondo era travolto a prendere le armi da non so quale peste esiziale, alcuni araldi del Vangelo, frati Minori e Predicatori, dal sacro pulpito davano fiato ai corni di guerra e ancor piú infervoravano chi già propendeva per quella follia. In Inghilterra aizzavano contro i Francesi, in Francia animavano contro gli Inglesi, ovunque spronavano alla guerra. Alla pace non incitava nessuno tranne uno o due, a cui costò quasi la vita l’aver soltanto pronunciato il mio nome.
Prelati consacrati scorrazzavano un po’ dovunque dimentichi della loro dignità e dei loro voti, e inasprivano con la loro opera il morbo universale, istigando ora il pontefice romano Giulio, ora i monarchi ad affrettare la guerra, quasi che non fossero già abbastanza folli per conto loro. Eppure questa patente pazzia noi l’avvolgemmo in splendidi titoli.
A tal fine sono da noi distorte con somma impudenza - dovrei dire con sacrilegio - le leggi dei padri, gli scritti di uomini santi, le parole della Sacra Scrittura. Le cose sono giunte a tal punto che risulta sciocco e sacrilego pronunciarsi contro la guerra ed elogiare l’unica cosa elogiata dalla bocca di Cristo. Appare poco sollecito del bene del popolo e tiepido sostenitore del sovrano chi consiglia il massimo dei benefici e scoraggia dalla massima delle pestilenze.
Ormai i sacerdoti seguono perfino le armate, i vescovi le comandano, abbandonando le loro chiese per occuparsi degli affari di Bellona. Ormai la guerra produce addirittura sacerdoti, prelati, cardinali ai quali il titolo di legato al campo sembra onorifico e degno dei successori degli Apostoli. Per cui non fa meraviglia se hanno spirito marziale coloro che Marte ha generato. Per rendere poi il male insanabile, coprono un tale sacrilegio col sacro nome della religione. Sugli stendardi sventola la croce.
Armigeri spietati e ingaggiati per poche monete a compiere macelli spaventosi innalzano l’insegna della croce, e simboleggia la guerra il solo simbolo che dalla guerra poteva dissuadere.
Che hai a che fare con la croce, scellerato armigero? I tuoi sentimenti, i tuoi misfatti convenivano ai draghi, alle tigri, ai lupi. -Quel simbolo appartiene a Colui che non combattendo ma morendo colse la vittoria, salvò e non distrusse; da lí soprattutto potevi imparare quali sono i tuoi nemici, se appena sei cristiano, e con quale tattica devi vincere.
Tu innalzi l’insegna della salvezza mentre corri alla perdizione del fratello, e fai perire con la croce chi dalla croce fu salvato?
Ma che! Dai sacri e adorabili misteri trascinati anch’essi per gli accampamenti, da queste somme raffigurazioni della concordia cristiana si corre alla mischia, si avventa il ferro spietato nelle viscere del fratello e sotto gli occhi di Cristo si dà spettacolo della piú scellerata delle azioni, la piú gradita ai cuori empi: se pure Cristo si degni di essere là. Colmo poi dell’assurdo, in entrambe le armate, in entrambi gli schieramenti brilla il segno della croce, in entrambe si celebra il sacrificio. -Quale mostruosità è questa? La croce in conflitto con la croce, Cristo in guerra con Cristo. È un simbolo fatto per atterrire i nemici della cristianità: perché adesso combattono quello che adorano? Uomini degni non di quest’unica croce, ma della croce patibolare.
Ditemi, come il soldato può recitare il “Padre nostro” durante queste messe? Bocca insensibile, osi invocare il Padre mentre miri alla gola del tuo fratello? “Sia santificato il tuo nome”: come si potrebbe sfregiare il nome di Dio piú che con queste vostre risse? “Venga il tuo regno”: cosí preghi tu che su tanto sangue erigi la tua tirannide? “Sia fatta la tua volontà, come in cielo, cosí anche in terra”: Egli vuole la pace, tu prepari la guerra.
“Il pane quotidiano” chiedi al Padre comune mentre abbruci le messi del fratello e preferisci che vadano perse anche per te piuttosto che giovare a lui?
Infine come puoi pronunciare con la lingua le parole “e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” mentre ti lanci a un fratricidio? Scongiuri il rischio della tentazione mentre con tuo rischio getti nel rischio il fratello. “Dal male” chiedi di essere liberato mentre ti proponi di causare il massimo male al fratello?
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Erasmo da Rotterdam, Il lamento della pace, Einaudi, Torino, 1990, pagg. 51-55.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO, HENRI DE LUBAC, E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.... *
Alle radici della crisi attuale
Quando Nietzsche seppellì l’Occidente
Come in biologia ogni civiltà è un organismo che nasce cresce e muore
E il canto del cigno della nostra ha un volto:quello del filosofo tedesco
I primi sintomi di malessere collettivo si ebbero a metà ’800, con le tesi di Feuerbach, Stirner e Marx
Ma fu l’autore della "Gaia scienza" e di "Ecce homo" a fare piazza pulita di fedi, sistemi, tradizioni e istituzioni
di Sossio Giametta (la Repubblica, 17.11.2018)
Quest’anno si è celebrato il centenario della fine della Prima guerra mondiale (1914-1918). Su questo sono fioriti, in aggiunta alla pletora che già c’era, articoli, servizi, saggi e studi di ogni tipo; sono state rinnovate le analisi delle cause lontane e vicine, delle occasioni scatenanti e delle funeste, ramificate conseguenze, coi prodromi, gli appigli e gli agganci alla Seconda guerra mondiale. Tuttavia nessuno storico è stato in grado di pervenire alla causa originaria delle due guerre e di tutto lo scatafascio che esse hanno comportato. E ciò per la ragione fondamentale che questa causa è metastorica, affonda le radici nella biologia e richiede la partecipazione della filosofia.
L’indagine storica non basta a far capire quello che l’Europa e il mondo hanno fatto e subito in tale periodo: le due più grandi catastrofi della storia.
Un organismo è un’unità in cui il principio vitale - una forza unificante di natura sconosciuta e inconoscibile - stringe insieme una pluralità di forze individuali contrastanti, tendenti ciascuna alla supremazia, in un’unità superiore. Si immagini il nostro organismo, con le cellule che lo compongono. Ogni organismo ha nascita, sviluppo, decadenza e morte. Nelle prime fasi di vita, cioè nella parabola ascendente, la forza unificante, che è forza collettivizzante (strumentalizza gli individui in funzione della collettività) è al suo massimo, come la forza vitale stessa, con cui si identifica. Nella parabola discendente, allenta la sua presa, mentre aumenta la forza individualizzante, cioè la forza dei singoli individui tra loro contrastanti. Ne consegue una tendenza dell’organismo a disgregarsi. Alla fine la forza unificante cede, e nell’organismo si crea una polarizzazione tra le tendenze opposte, che si compattano agli estremi. È il preludio della fine.
Le civiltà, le religioni sono soggetti storici al di sopra degli individui che ne fanno parte. I membri di questi grandi soggetti storici sono organizzati in funzione dell’organismo di cui fanno parte allo stesso modo degli organi del corpo umano. Più sono i membri che li compongono e più ampia è l’articolazione e diversificazione della civiltà o della religione.
Dunque il numero dei loro membri (gli individui) è importante. Che le civiltà, le Kulturen, siano organismi, è stato teorizzato da Oswald Spengler ne Il tramonto dell’Occidente, coevo alla Prima guerra mondiale. In quanto organismi, le civiltà sono soggette al nascere e al perire, come tutto ciò che esiste, compreso l’universo che conosciamo, e tendono a vivere e a svilupparsi secondo la loro legge interna. Cioè pur essendo condizionate dalle circostanze storiche e geografiche, esse non ne sono determinate e si sviluppano in maniera autonoma, come gli uomini stessi, che possono vivere la loro vita negli ambienti più disparati, e in mezzo alle circostanze storiche più svariate, obbedendo soprattutto alla loro legge interna.
Il grande organismo storico alla cui agonia e fine a noi anziani è toccato assistere, è la civiltà occidentale, cioè la civiltà cristiano-europea fondata dal cristianesimo in contrasto dialettico con la civiltà antica, ma in seguito integrata dagli Stati laici, figli del Sacro Romano Impero. Le Kulturen hanno una gioventù, una maturità e una vecchiaia. In vecchiaia diventano, detto nel tedesco di Spengler, Zivilisationen, detto in italiano, civiltà stramature. Esse brillano un’ultima volta prima di sprofondare nella morte e nella decomposizione. Ma ciò non per colpe e vizi, come si crede, ma per compiutezza e sazietà.
Rispetto alle altre nazioni europee, la Germania, divisa e arretrata, esplose in ritardo. Nell’alta marea che ne seguì Hegel, con lo spirito assoluto e un sistema che comprendeva tutti i sistemi e dava senso divino (umanizzato) alla storia, diede la carica ai tedeschi, come «parte razionale dell’Europa».
L’Uebermut, un senso titanico di forza e di superiorità, salì alle stelle, grazie anche all’apporto di Fichte e Schelling. Sarebbe cresciuto sempre più, fino al delirio nazista. Hegel era amico e protetto di Goethe, ma ne tradì il messaggio di misura (nella poesia Prometeo, Goethe si vanta di aver sconfitto der Titanen- Uebermut, la superbia dei titani). Per lui «classico è ciò che è sano e romantico ciò che è malato».
Hegel mise il romanticismo al di sopra della classicità. Goethe predicava la natura, di cui l’uomo è piccolissima parte, Hegel lo spirito. Goethe censurò la troppa importanza data all’individuo e disse che senza la morale lui non era niente. Hegel negò la morale per dare risalto all’etica. Ma quando si arriva al vertice, è prossima la caduta. Già negli anni Quaranta dell’Ottocento esplose, nel segno dell’antihegelismo, la più grande avvisaglia della crisi della quasi bimillenaria civiltà europea, con i giovani hegeliani di sinistra: Feuerbach, Ruge, Marx, Stirner, Bauer, poi Schopenhauer; in Danimarca Kierkegaard. La crisi raggiunse l’acme nella seconda metà dell’Ottocento e fu incarnata soprattutto da Nietzsche.
Contrariamente a quello che credeva di essere: il pensatore più indipendente e inattuale della sua epoca, Nietzsche era inconsapevolmente tutto e solo attualità, una creatura della crisi.
Trasferì verso la Grecia arcaica e dionisiaca le correnti selvagge della sua epoca, sicché alla fine la Grecia risulta essere soprattutto un alibi. Nietzsche fece piazza pulita di sistemi e costumi, morali e religioni, tradizioni e istituzioni, per cui gli rimase solo la natura col suo vitalismo selvaggio. In tal modo costruì nell’empireo della filosofia quello che sarebbe diventato il cuore del fascismo-nazismo. Questo fu l’ultimo colpo di coda dell’Occidente prima di perdere il primato alla fine della Seconda guerra mondiale.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" .... *
Dello spirito di famiglia
di Cesare Beccaria ("Dei delitti e delle pene", 1764)
Queste funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche piú illuminati, ed esercitate dalle repubbliche piú libere, per aver considerato piuttosto la società come un’unione di famiglie che come un’unione di uomini. Vi siano cento mila uomini, o sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque persone, compresovi il capo che la rappresenta: se l’associazione è fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi; se l’associazione è di uomini, vi saranno cento mila cittadini e nessuno schiavo.
Nel primo caso vi sarà una repubblica, e ventimila piccole monarchie che la compongono; nel secondo lo spirito repubblicano non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura, dove sta gran parte della felicità o della miseria degli uomini. Nel primo caso, come le leggi ed i costumi sono l’effetto dei sentimenti abituali dei membri della repubblica, o sia dei capi della famiglia, lo spirito monarchico s’introdurrà a poco a poco nella repubblica medesima; e i di lui effetti saranno frenati soltanto dagl’interessi opposti di ciascuno, ma non già da un sentimento spirante libertà ed uguaglianza. Lo spirito di famiglia è uno spirito di dettaglio e limitato a’ piccoli fatti. Lo spirito regolatore delle repubbliche, padrone dei principii generali, vede i fatti e gli condensa nelle classi principali ed importanti al bene della maggior parte.
Nella repubblica di famiglie i figli rimangono nella potestà del capo, finché vive, e sono costretti ad aspettare dalla di lui morte una esistenza dipendente dalle sole leggi. Avezzi a piegare ed a temere nell’età piú verde e vigorosa, quando i sentimenti son meno modificati da quel timore di esperienza che chiamasi moderazione, come resisteranno essi agli ostacoli che il vizio sempre oppone alla virtú nella languida e cadente età, in cui anche la disperazione di vederne i frutti si oppone ai vigorosi cambiamenti?
Quando la repubblica è di uomini, la famiglia non è una subordinazione di comando, ma di contratto, e i figli, quando l’età gli trae dalla dipendenza di natura, che è quella della debolezza e del bisogno di educazione e di difesa, diventano liberi membri della città, e si assoggettano al capo di famiglia, per parteciparne i vantaggi, come gli uomini liberi nella grande società.
Nel primo caso i figli, cioè la piú gran parte e la piú utile della nazione, sono alla discrezione dei padri, nel secondo non sussiste altro legame comandato che quel sacro ed inviolabile di somministrarci reciprocamente i necessari soccorsi, e quello della gratitudine per i benefici ricevuti, il quale non è tanto distrutto dalla malizia del cuore umano, quanto da una mal intesa soggezione voluta dalle leggi.
Tali contradizioni fralle leggi di famiglia e le fondamentali della repubblica sono una feconda sorgente di altre contradizioni fralla morale domestica e la pubblica, e però fanno nascere un perpetuo conflitto nell’animo di ciascun uomo. La prima inspira soggezione e timore, la seconda coraggio e libertà; quella insegna a ristringere la beneficenza ad un piccol numero di persone senza spontanea scelta, questa a stenderla ad ogni classe di uomini; quella comanda un continuo sacrificio di se stesso a un idolo vano, che si chiama bene di famiglia, che spesse volte non è il bene d’alcuno che la compone; questa insegna di servire ai propri vantaggi senza offendere le leggi, o eccita ad immolarsi alla patria col premio del fanatismo, che previene l’azione. Tali contrasti fanno che gli uomini si sdegnino a seguire la virtú che trovano inviluppata e confusa, e in quella lontananza che nasce dall’oscurità degli oggetti sí fisici che morali. Quante volte un uomo, rivolgendosi alle sue azioni passate, resta attonito di trovarsi malonesto!
A misura che la società si moltiplica, ciascun membro diviene piú piccola parte del tutto, e il sentimento repubblicano si sminuisce proporzionalmente, se cura non è delle leggi di rinforzarlo. Le società hanno come i corpi umani i loro limiti circonscritti, al di là de’ quali crescendo, l’economia ne è necessariamente disturbata. Sembra che la massa di uno stato debba essere in ragione inversa della sensibilità di chi lo compone, altrimenti, crescendo l’una e l’altra, le buone leggi troverebbono nel prevenire i delitti un ostacolo nel bene medesimo che hanno prodotto.
Una repubblica troppo vasta non si salva dal dispotismo che col sottodividersi e unirsi in tante repubbliche federative.
Ma come ottener questo? Da un dittatore dispotico che abbia il coraggio di Silla, e tanto genio d’edificare quant’egli n’ebbe per distruggere. Un tal uomo, se sarà ambizioso, la gloria di tutt’i secoli lo aspetta, se sarà filosofo, le benedizioni de’ suoi cittadini lo consoleranno della perdita dell’autorità, quando pure non divenisse indifferente alla loro ingratitudine. A misura che i sentimenti che ci uniscono alla nazione s’indeboliscono, si rinforzano i sentimenti per gli oggetti che ci circondano, e però sotto il dispotismo piú forte le amicizie sono piú durevoli, e le virtú sempre mediocri di famiglia sono le piú comuni o piuttosto le sole.
Da ciò può ciascuno vedere quanto fossero limitate le viste della piú parte dei legislatori.
La scoperta della libertà
di Maurizio Viroli (Il Fatto, 18 aprile 2017)
Per molti della mia generazione la lettura degli scritti di Antonio Gramsci ha avuto l’effetto di una liberazione dal marxismo-leninismo banale e dogmatico che teneva banco, alla fine degli anni Sessanta, fra i movimenti della sinistra extraparlamentare. Non ho prove storiche da offrire, ma credo che molti giovani si siano avvicinati al Pci anche perché quel partito si proclamava erede di Gramsci e si impegnava attivamente a farne conoscere gli scritti.
Nel 1975 esce infatti per Einaudi, sotto l’egida dell’Istituto Gramsci, la prima edizione critica dei Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana. Su quei quattro volumi furono promosse molte iniziative e si aprì un importante dibattito culturale e politico sul concetto di egemonia, sul rapporto fra democrazia e socialismo, sul ruolo e la natura del partito, sulla Rivoluzione d’Ottobre, sugli intellettuali, sulla storia d’Italia, sulla questione meridionale.
A Gramsci va riconosciuto il merito storico di aver avviato nel mondo comunista la consapevolezza che non era possibile in Italia seguire la via della Rivoluzione d’Ottobre. Lo ha fatto con l’unico argomento che poteva essere efficace, vale a dire la considerazione realistica delle condizioni storiche.
Sarebbe sbagliato sostenere che Gramsci aveva capito che la trasformazione socialista della società deve avvenire soltanto nel pieno rispetto delle libertà civili e delle regole democratiche. Ma una volta dichiarato che la via sovietica non poteva essere percorsa, che il proletariato “può e deve essere dirigente [vale a dire ottenere il consenso degli altri gruppi sociali] già prima di conquistare il potere governativo”, e che deve continuare a essere dirigente anche dopo la conquista del potere, restava aperta, di fatto, soltanto la via democratica.
L’intuizione più felice di Gramsci è, a mio giudizio, l’idea della “riforma intellettuale e morale”. In un passo delle Noterelle sul Machiavelli, la descrive come “elevamento civile degli strati depressi della società”, simile, per la sua capacità di coinvolgere ampi strati delle classi subalterne, alla Riforma protestante e all’Illuminismo, ma capace di conservare e rielaborare “i caratteri di classicità della cultura greca e del Rinascimento italiano”.
E giustamente sottolinea che la riforma intellettuale e morale “non può non essere legata a un programma di riforma economica, anzi, il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale”.
“Banditore” della riforma intellettuale morale doveva essere per Gramsci, il “moderno Principe”, il partito comunista, che diventa, nella sua visione, non più un’avanguardia volta esclusivamente al lavoro di agitazione e organizzazione in vista della conquista del potere politico, ma un partito educatore e formatore di coscienze, una vera e propria scuola dove gli elementi migliori delle classi subalterne imparano a dirigere il complesso della vita sociale alla luce di ideali di emancipazione.
Il limite dell’idea gramsciana della riforma intellettuale e morale non risiede nella sua concezione del partito politico come educatore e formatore di coscienze, ma nella sua convinzione che il partito della classe operaia debba essere il punto di riferimento del giudizio morale e politico: “Il moderno Principe sviluppandosi sconvolge tutto il sistema dei rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso e scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo”.
Il Principe, conclude Gramsci, “prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico” (Quaderni del carcere, vol. III, p. 1561). Ma la coscienza personale è e deve rimanere rigorosamente individuale: può accogliere l’imperativo morale o la divinità, ma mai lasciare entrare come sua guida suprema un soggetto collettivo, non importa se è lo Stato, o il partito o una chiesa. Se la coscienza personale accetta la guida o l’autorità di un soggetto collettivo non è più pienamente libera e non può costruire né uno Stato né una società liberi.
In quegli stessi anni, nel confino di Lipari, Carlo Rosselli scriveva su Socialismo liberale: “Non esistono fini della società che non siano, al tempo stesso, fini dell’individuo, in quanto personalità morale; anzi questi fini non hanno vita se non quando siano profondamente vissuti nell’intimo delle coscienze. [...] Uno Stato libero vuole prima e soprattutto uomini liberi. E uno Stato socialista spiriti socialisti. Io non esito a dichiarare che la rivoluzione socialista sarà tale, in ultima analisi, solo in quanto la trasformazione della organizzazione sociale si accompagnerà a una rivoluzione morale, cioè alla conquista, perpetuamente rinnovantesi, di una umanità qualitativamente migliore, più buona, più giusta, più spirituale”. Carlo Rosselli partiva da Giuseppe Mazzini; Gramsci da Karl Marx e da Lenin.
Per arrivare all’idea del socialismo come trasformazione sociale sorretta da una riforma intellettuale e morale capace di realizzare l’elevamento civile delle classi subalterne, aveva percorso una lunga strada grazie alla libertà morale e intellettuale che gli diede la forza di andare contro le idee prevalenti nel suo stesso partito, senza paura di affrontare, anche nelle terribili condizioni del carcere, l’ostilità degli stessi compagni comunisti che lo giudicavano un traditore della causa. La sua è una testimonianza di libertà, per tutti i tempi.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETA’. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Storia.
Processo Eichmann: Fu solo «banalità»? Un saggio corregge Hannah Arendt
Il corposo studio di Bettina Stangneth riporta le parole inedite del gerarca latitante in Argentina: ne emerge un quadro ben più complesso di quello delineato dalla Arendt
di Riccardo De Benedetti (Avvenire, giovedì 20 luglio 2017)
Il libro di Bettina Stangneth, La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme (Luiss University Press, pagine 604, euro 24,00) è di quelli che si fa fatica a dimenticare. Innanzitutto per la scrupolosità con la quale è stato scritto e l’attenzione a ogni pur piccolo dettaglio di una storia piena di trabocchetti e dissimulazioni. Il lettore, dopo ogni pagina di lettura, sa di avere a che fare con una ricerca scientifica e non con una delle tante ricostruzioni più o meno scandalistiche sul nazismo e la sua opera nefasta. Il libro (1.215 note), ricostruisce gli anni argentini dell’Obersturmbannführer (tenente colonnello) delle SS Adolf Eichmann, fuori servizio. Uno dei responsabili diretti della Shoah, coordinatore dello sterminio, fu catturato dal Mossad l’11 maggio del 1960 a Buenos Aires e impiccato la notte tra il 31 maggio e il 1 giugno del 1962 a Gerusalemme dopo un processo che attirò l’attenzione del mondo.
Perché Eichmann in Argentina? Il titolo corregge il sottotitolo del famosissimo saggio di Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963). Prima del processo al criminale nazista c’è l’Argentina, luogo di rifugio per centinaia di nazisti in fuga, nella quale il male non era banale ma rivendicato e, se possibile, analizzato, scrutato nel profondo.
Eichmann, improvvidamente, in quegli anni parla, scrive, registra, con la collaborazione di altri rifugiati nazisti, descrivendo una realtà che non ha nulla a che fare con la burocrazia esecutrice, ma al contrario, con la piena e convinta adesione all’ideologia razzista e antisemita e alla sua più consapevole esecuzione. I nastri e le carte di quella rivendicazione di responsabilità seguirono percorsi tortuosi e allora non riuscirono a raggiungere nella loro completezza i giudici del processo e, soprattutto l’opinione pubblica mondia-le, anche quella più informata e consapevole.
Durante gli anni della detenzione a Gerusalemme Eichmann volle dare di sé l’immagine del mero esecutore di ordini. La sua non era una mossa per ottenere clemenza, che infatti non ebbe, era un modo per proseguire la guerra contro gli ebrei. L’autrice descrive il tortuoso ragionamento con il quale i nazisti, sconfitti nella guerra ma non annientati, contavano di proseguire in un lavoro, così lo chiamavano, che non essendo stati capaci di portare a termine gli sarebbe stato per sempre rimproverato. Dopo la sconfitta in guerra si trattava di ripiegare in ciò che poi sarebbe apparso come negazionismo: la Shoah era un’invenzione e se si era verificata era perché qualcuno, non loro, aveva intrapreso l’azione di sterminio per giustificare la nascita dello Stato di Israele. Apparire banali esecutori di ordini di una gerarchia sconfitta era un modo per ridare una parvenza di legittimità a un programma che doveva proseguire.
Il libro della Stangneth riporta le parole, inedite, pronunciate alla fine delle estenuanti riunioni di nazisti che si svolgevano a casa di Eichmann in Argentina. In particolare la rivendicazione dello sterminio come parte integrante di un dovere morale ed etico (se è lecito usare questi termini per qualcosa che è pura criminalità) da compiersi rigorosamente se si voleva ottenere la vittoria contro il nemico assoluto:
«Non cerchi di confondermi dopo 12 anni, che si chiamasse Kaufmann, o Eichmann, o Sassen o Morgenthau, non me ne importa nulla, a un certo punto mi sono detto: bene, devo smetterla di farmi scrupoli. Prima che il mio popolo tiri le cuoia devono tirare le cuoia tutti gli altri, poi il mio popolo. Ma solo a quel punto! Io ero così [...]. Io, “il burocrate prudente”, ecco cos’ero, sissignore. Ma vorrei ampliare il concetto di “burocrate prudente”, anche se a mio sfavore. Questo burocrate prudente si accompagnava ad un fanatico combattente per la libertà del mio sangue, dal quale discendo, e qui dico, proprio come le ho detto poco fa, il pidocchio che la sta pungendo, camerata Sassen, non mi interessa. A me interessa il mio pidocchio sotto il mio colletto. Quello lo schiaccio. Lo stesso vale per il mio popolo. Ma da quel burocrate prudente che ero, perché certamente lo sono stato, sono anche stato ispirato e guidato: ciò che è utile al mio popolo, per me è un ordine sacro e una legge sacra [...]. Mi si contorcono le budella a dire che abbiamo fatto qualcosa di sbagliato. No. Devo dirle in tutta sincerità che se dei 10,3 milioni di ebrei stimati da Korherr, come sappiamo oggi, ne avessimo uccisi 10,3 milioni, allora sarei soddisfatto e direi “bene, abbiamo sterminato un nemico”. Ora che per un tiro mancino del destino la maggior parte di quei 10,3 milioni di ebrei è rimasta in vita, mi dico: il fato ha voluto così. Devo assoggettarmi al destino e alla provvidenza. Sono solo un piccolo uomo e non è in mio potere contrastarli, né tantomeno posso o voglio farlo. Avremmo compiuto il nostro dovere per il nostro sangue».
Hannah Arendt si è sbagliata? Sì e no. Certamente per quanto riguarda Eichmann, che non corrisponde affatto al ritratto che lui stesso ha fatto in modo che uscisse dal processo, da abile manipolatore qual era. Non del tutto quanto al significato che possiamo dare alla “banalità del male”. Il processo Eichmann è stato solo un punto di avvio per un’analisi approfondita della storia del nazionalsocialismo e la Arendt non aveva a disposizione ciò che con fatica hanno sotto mano gli studiosi di oggi.
Cosa c’è di davvero banale nell’azione di Eichmann e di quelli come lui? C’è la mancanza assoluta di distanza tra la formulazione di un’idea, di un pensiero, di una tesi, e la sua realizzazione. Il pensiero è banale, errato e criminale, ma la sua realizzazione è tragicamente seria. C’è quella che Eric Voegelin, nel suo Hitler e i tedeschi, poco letto, purtroppo, chiamava la stupidità di un intero popolo, insieme alla capacità manipolatoria di attivarla. Una concezione rozza del formarsi e trasformarsi di un popolo attraverso il sangue e la razza, concetto che affonda in profondità nel pensiero scientifico illuminista prima e darwinista poi, con l’accento totalizzante posto sulla lotta per la vita e per la morte di un gruppo umano contro un altro.
Il libro della Stangneth è un libro di filosofia, più di tanti altri che sull’argomento hanno intinto per infiniti, e in molti casi pedanti e stucchevoli, esercizi ermeneutici. Una filosofia che lascia al lettore il compito di rintracciare la triste filiera del formarsi di un orrore e del suo realizzarsi. Non fu l’unico nel Novecento, ma fu quello al quale dobbiamo un obbligo di spiegazione razionale che ha rischiato, e il caso dell’abbaglio di Hannah Arendt sta a dimostrarlo, di sfuggirci.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
NELL’ORIZZONTE DELL’IMMAGINARIO DI COSTANTINO (“IN HOC SIGNO VINCES”). Lorenzo Scupoli, Francesco di Sales, e Maria Gaetana Agnesi ....
PER COMPRENDERE come e perché il libro di Lorenzo Scupoli (nato intorno al 1530 a Otranto, l’antica Hydruntum, che cinquant’anni prima era stata teatro del tragico martirio di ottocento suoi concittadini, decapitati dai turchi sul colle della Minerva), sia diventato un “bestseller senza tempo” (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/01/lorenzo-scupoli-1530-1610-di-otranto-e-il-suo-best-seller-senza-tempo/), non è male RICORDARE CHE
A) [...] il Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli va collocato all’interno di una ricca e articolata produzione centrata sulla nozione di ‘milizia cristiana’, che poteva esibire un precedente di assoluto rilievo come Le armi necessarie alla battaglia spirituale di Caterina da Bologna e visse la sua stagione più feconda nei convulsi anni del Concilio di Trento e nei decenni successivi [...]” (cfr.: http://www.ereticopedia.org/lorenzo-scupoli).
B) “Francesco di Sales considerava un bene prezioso il Combattimento spirituale, che portava sempre con sé da ben diciotto anni, come ricorda in una lettera del 1607”, E CHE “Discutendone con l’amico e corrispondente epistolare Jean-Pierre Camus, il Sales espresse l’opinione che il Combattimento dello Scupoli costituiva per i teatini, mutatis mutandis, ciò che gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio avevano rappresentato per i gesuiti” (op.cit.),
C) “[...] Il Combattimento spirituale fu una delle letture preferite di Maria Gaetana Agnesi, newtoniana e matematica di respiro europeo, il cui Cielo mistico - rimasto a lungo inedito - attinge soprattutto alla spiritualità teatina dei primordi, a sant’Andrea Avellino e a Lorenzo Scupoli, che con l’ascetica dell’imitatio Christi e la devozione della Croce offrivano immagini e suggestioni di straordinaria efficacia psicologica e visiva. Agnesi possedeva il Combattimento in un’edizione padovana del 1724 e di certo doveva ritrovarvi molte idee proprie, che sul piano spirituale riflettono una fede di matrice teatina, attenta alle deliberazioni del Tridentino ma sensibile alle istanze riformatrici di stampo muratoriano, in dialogo continuo con le esigenze della ragione e la sensibilità tipica dei Lumières. In tale contesto iniziò a diffondersi a metà Settecento il mito che Agnesi, da precoce adolescente qual era, aveva tradotto in greco il Combattimento spirituale di Scupoli [...] (op.cit.).
Federico La Sala
NOTA
SULL’immaginario del cattolicesimo romano e sull’ "istanze riformatrici di stampo muratoriano", nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori
FLS
Non c’è fede che tenga
Manifesto contro il multiculturalismo
di Marco Aime (Doppiozero, 31.10.2018) *
Un libro coraggioso quello di Cinzia Sciuto, tagliente e spigoloso, che non fa sconti e mette il dito nella piaga di un atteggiamento sempre più diffuso, l’elogio del multiculturalismo, che però nasconde un dono avvelenato, che lo porta ad assomigliare a una forma di razzismo capovolto, seppure animato da lodevoli intenzioni. La critica dell’autrice parte dalla necessità di esercitare sempre e in modo coerente una determinata laicità, che conduca a prestare sempre più attenzione ai diritti degli individui, piuttosto che a quelli dei gruppi, di qualunque specie essi siano: etnici, religiosi, politici, ecc. Laicità come fondamento della democrazia, laicità che non si oppone alla/le religione/i, ma che rifiuti ogni principio di autorità e di ingerenza e non solo quelli religiosi. Essere laici significa, per Sciuto, “non invocare nessuna tradizione per giustificare una limitazione, se non addirittura una violazione, dell’autonomia e della libertà di ciascun essere umano”.
Nei paesi come la Gran Bretagna, dove da decenni si segue la linea del multiculturalismo, sono venute a formarsi comunità etniche o religiose che vivono una accanto all’altra, ciascuna secondo dei dettami della sua tradizione. Questo ha fatto sì che, per esempio, siano nate scuole confessionali, dove si insegna la tradizione islamica o induista e solo quelle. Questo, ci avverte l’autrice, porta a chiusure reciproche e non alla costruzione di una reale società, capace di contenere delle differenze. Ogni tradizione poi, e qui a volte Sciuto sembra essere un po’ eccessiva, finisce per limitare le possibilità di scelta del singolo individuo, pena l’esclusione o la marginalizzazione della società. Se poi lo Stato agisce nei confronti delle comunità culturali in quanto tali, finisce che l’attenzione si sposta dalle persone al gruppo, per cui un individuo diventa degno di protezione o di qualche altra azione solo in quanto appartenente a tale gruppo.
Ampio spazio è dedicato alla questione del velo a proposito della quale Sciuto è molto critica anche sulla possibile libera scelta per una donna di indossarlo, in quanto ogni scelta è condizionata da una tradizione culturale e da un senso di appartenenza. In parte è vero, ma è vero che anche la laicità, che condivido pienamente, è il prodotto di una tradizione culturale, la nostra. L’autrice però, giustamente, afferma che se “loro” vivono qui, non sono più “loro” ma parte di “noi”. Forse il paragone tra il velo e le mutilazioni genitali femminili appare un po’ eccessivo, ma pone il giusto problema del limite di accettazione che ogni comunità può sopportare e soprattutto di chi stabilisce questo limite.
Ovviamente questo discorso implica anche una riflessione sul concetto di identità, che pervade gran parte del dibattito politico-culturale attuale e su come tale identità venga sempre più spesso rappresentata in modo essenzialista e fissista, per poi essere strumentalizzata politicamente. Riprendendo una distinzione proposta da Seyla Benhabib tra ethnos e demos si sottolinea come debba essere il secondo a prevalere, cioè una comunità a cui si sceglie di appartenere e non a cui si “deve” appartenere secondo una logica di discendenza o in nome di una tradizione. La critica non risparmia neppure una certa sinistra, che sempre più spesso si è dedicata al riconoscimento dei diritti di gruppi particolari, dimenticando la sua vocazione universalista.
Tutto il percorso di Cinzia Sciuto è teso al raggiungimento si una società laica, che riconosca i diritti agli individui per ciò che sono e non perché appartenenti a una comunità di qualche tipo. Un percorso che serva a elaborare urgentemente “una prospettiva solidale, laica, libertaria e universalista: perché i diritti, se non sono universali, si chiamano privilegi”.
*
C. Sciuto, Non c’è fede che tenga. Manifesto contro il multiculturalismo, Feltrinelli, 2018.
Lotman, la memoria come cultura
di Marco Dotti (Alfabeta-2, 16 novembre 2017) *
«Aspiravamo a seminare il sensato, il buono, l’eterno». Jurij M. Lotman concludeva così le pagine autobiografiche delle sue non-memorie (Ne-memuary, Non-memorie, a cura di Silvia Rubini e Alessandro Nievo, Interlinea 2001). Pagine in parte dettate, in altra registrate su un dittafono. Negli stessi anni, a cavallo fra gli Ottanta e Novanta, il semiologo registra - questa volta in video - una serie televisiva dal titolo Besedy o russkoj kul’ture, trasmessa sui canali televisivi estone e russo. Un lavoro importante, che mette in atto le sue altrimenti complesse e suggestive ricognizioni sul tema della cultura come testo e della memoria come condivisione.
Solo nel 1995, due anni dopo la morte di Lotman, la rivista “Tallinn” prese a pubblicare la trascrizione delle “lezioni televisive” del fondatore della Scuola di Tartu.
Benché fosse in scena da solo, osserva Silvia Burini nella premessa all’importante edizione italiana pubblicata da Bompiani, per l’attenta traduzione di Valentina Parisi, Lotman scelse il termine “conversazioni” rimarcando quella struttura dialogica che sempre aveva considerato fondamentale per il “funzionamento” dei sistemi culturali.
Il passaggio dall’orale e dal visivo - Lotman dialogava con il pubblico spesso ricorrendo a immagini - alla forma scritta impone un inevitabile passaggio dalla conversazione alla forma-lezione. Il ricchissimo materiale che il lettore italiano ha ora a disposizione ha assunto, appunto, questa forma. Ma è un forma dialogante, che in ogni suo punto ci ricorda come quelle conversazioni fossero inizialmente pensate per un pubblico non di nicchia; operaie e operai, in primo luogo. Fondamentali, nel discorso di Lotman, sono i concetti di memoria, trasmissione, semiosfera. E, soprattutto, quello di testo. Testo, per Lotman, è ogni manifestazione della cultura. Vi rientrano le mode, le immagini, i costumi, i giochi e il byt termine russo che definisce l’esperienza di vita vissuta nel quotidiano. Se la cultura è condizione sine qua non per l’esistenza di qualsiasi consesso umano, che cosa dobbiamo intendere per “cultura”?
Cultura è un insieme di informazioni non genetiche, memoria non ereditaria dell’umanità. La cultura, spiega Lotman nella prima lezione raccolta nel volume, «è memoria». Memoria attiva che dà forma, sia a livello del singolo, sia in una società, a quanto chiamiamo “cultura”.
La memoria assume così un ruolo determinante, attivo, dinamico, non meramente documentale: la distruzione della cultura passa dalla distruzione della memoria e la distruzione della memoria si attua attraverso l’annichilimento dei testi che la compongono e l’isolamento dei soggetti capaci di pensare - e organizzare - la trasmissione. La morte di un intellettuale al quale sia impedito di trasmettere è paragonata da Lotman alla distruzione della Biblioteca di Alessandria. Il fuoco distrugge, ma ancor più pericoloso del fuoco è il fumo che può saturare l’universo/ambiente culturale che avvolge l’uomo, ambiente dove le singole culture si relazionano, ibridandosi e favorendo la reciproca evoluzione.
Un’evoluzione che non è mero «progresso tecnico-scientifico», ma “ecologia” della società umana. Cultura, spiega ancora Lotman, in pagine densissime e di straordinaria chiarezza, è «quell’atmosfera che l’umanità crea attorno a sé per continuare a esistere, ovvero per sopravvivere. In questo senso, la cultura è una nozione spirituale» e, al tempo stesso, una tensione etica - fra sé e il mondo - ineludibile per l’intellettuale.
Racconta Lotman che un giorno Tolstoj, giovane ufficiale di artiglieria reduce da Sebastopoli, arrivò a Pietroburgo nella redazione del “Contemporaneo”. Tolstoj irruppe nel corso di una disputa molto accesa fra liberali e democratici, ma non riuscì a capire le ragioni del contendere. Chiese allora lumi a Nekrasov, che gli rispose: le convinzioni! Discutiamo per le nostre convinzioni! Ma quali convinzioni, ribatté Tolstoj, queste sono solo parole: «le convinzioni sono quando uno sta in guardia impugnando un pugnale». Intendeva dire, Tolstoj, che non ogni parola è un’idea, non ogni idea - per quanto “bella”, “buona” e levigata - è una convinzione. Talvolta è un alibi.
Di contro, proprio la capacità di non darsi alibi, unendo vita e pensiero, osserva Lotman, è la caratteristica di ogni individuo pensante. La cultura sopravvive solo grazie a una mite intransigenza. «Parlare non costa nulla, fondere vita e pensiero invece è difficile perché la realtà impone spesso di sacrificare le proprie idee». L’intelligenza, d’altronde, è prima di tutto una qualità morale e in una lettera al fratello citata da Lotman, Cechov elenca le virtù che dovrebbe possedere un “uomo educato”, un intellettuale. La principale? «Temere la menzogna come si teme il fuoco».
*
Jurij Michajlovič Lotman
Conversazioni sulla cultura russa
a cura di Silvia Burini
traduzione di Valentina Parisi
Bompiani 2017
pp. 440, euro 20
Conoscenza.
Il saggio di Edoardo Boncinelli
E la scienza divenne sperimentale
L’approccio soltanto speculativo ha grossi limiti che molti filosofi non riconoscono
La ricostruzione dello scienziato nel saggio «La farfalla e la crisalide» (Raffaello Cortina)
di Stefano Gattei (Corriere della Sera, 26.10.2018)
Che cos’è la scienza? E che cosa la distingue dalle altre discipline? La domanda ha impegnato i filosofi per secoli. Se la pone ora, nel libro La farfalla e la crisalide (Raffaello Cortina), un grande scienziato, Edoardo Boncinelli, autore di importanti scoperte in campo genetico.
Il saggio ripercorre per importanti snodi concettuali la storia della scienza, dalla sua nascita nella Grecia di 2.500 anni fa, quando l’indagine della realtà era ancora difficilmente distinguibile dalla riflessione filosofica, al presente, nel quale scienza e filosofia appaiono del tutto separate, incommensurabili per capacità di analisi e significatività dei risultati. La farfalla - questa la metafora scelta dall’autore - è la scienza così come la conosciamo oggi: nasce dalla crisalide della filosofia, un intreccio di modi di pensare spesso in competizione fra loro, ma capaci di influenzare profondamente la nostra vita. Poco più di quattro secoli fa, la scienza si svincola dal ruolo ancillare nei confronti della filosofia, sviluppandosi autonomamente e ramificandosi gradualmente in una serie di discipline che, dalla fisica alla biologia all’intelligenza artificiale, hanno sostituito la filosofia come strumento di conoscenza del mondo. Con Galileo, tra scienza e filosofia si apre un baratro che oggi forse non vale neppure la pena di provare a colmare.
All’inizio, con i Presocratici, la filosofia avanza ipotesi sul mondo. Nasce libera, svincolata da ogni verità rivelata. La messa a morte di Socrate, «corruttore» dei giovani ateniesi con la critica implacabile della religiosità che la società si attende da loro, inaugura paradossalmente la grande stagione del pensiero greco. Consapevole dell’importanza della tecnica, la riflessione classica accompagna l’osservazione del mondo (culminata nei trattati naturalistici di Aristotele) all’indagine ipotetico-deduttiva, che si sviluppa senza bisogno di conferme sperimentali. Gli enormi successi della geometria euclidea e dell’astronomia matematica convincono però i filosofi che la verità sia raggiungibile per via puramente speculativa. Così, pur rimanendo sostanzialmente indistinguibili, scienza e filosofia iniziano a perdere contatto. Un ruolo non secondario nella separazione è svolto da Platone, sostenitore di una teoria della conoscenza «innatista» dall’indiscutibile sapore biologico, che Boncinelli apprezza, ma che inchioda l’uomo alla sterile fissità di un mondo delle idee sempre uguale a sé stesso. Se però Platone non poteva conoscere l’evoluzione, non così i molti filosofi che oggi a lui direttamente si rifanno, e che ignorano l’impatto rivoluzionario del cambiamento che si impone di continuo in biologia.
Una discussione serrata e tranchant, che non risparmia neppure Cartesio, porta il lettore al Seicento, quando dalla crisalide della filosofia occidentale si libera finalmente la farfalla della scienza sperimentale. Se, fino ad allora, scienziati e filosofi si erano limitati a porsi domande e a tentare di dare risposte attraverso l’osservazione, con la possibilità e l’opportunità di condurre esperimenti, lo scienziato «costringe» la natura a rispondere a domande specifiche. Mentre l’osservazione si limita a registrare ciò che accade, lo sperimentatore svolge un ruolo attivo, preparando le condizioni per portare la natura stessa su un terreno a noi favorevole. L’adozione del metodo sperimentale, spesso accompagnato da un’analisi quantitativa, è per Boncinelli un rivoluzionario atto di umiltà: segna il riconoscimento che per certi problemi l’approccio speculativo non è sufficiente - riconoscimento, questo, che l’autore non manca di contestare come estraneo a molti filosofi di ieri e di oggi.
Con l’Accademia del Cimento e il suo motto, «provando e riprovando», inizia la stagione della grande scienza, che giunge fino a noi. Ma non si chiude la stagione della filosofia, che pure arriva fino a noi, ignorando però (o fingendo di ignorare) l’abisso che la separa dalla scienza. Né, forse, può essere altrimenti: la crisalide è fondamentale per la nascita della farfalla, ma appena questa nasce le due strutture biologiche si devono separare una volta per tutte, perché la presenza della crisalide si rivelerebbe ora tossica per l’insetto alato. Fuor di metafora, la filosofia è stata fondamentale per la nascita del pensiero scientifico, ma col passare del tempo ha avuto un’influenza sempre più negativa, come una sorta di a priori indiscusso che ha finito per ostacolare il progresso scientifico.
L’analisi di Boncinelli è spietata. E senza dubbio corretta, anche se a volte scivola in qualche semplificazione eccessiva. Ma questo nulla toglie alla tesi generale di La farfalla e la crisalide, che interroga e sfida gli studiosi: un libro utile agli scienziati, che dalla riflessione dell’autore possono trarre spunti per meditare sul significato e sulla portata della propria disciplina, e necessario ai filosofi, per considerare i limiti della propria attività e i modi per ripensarla.
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
IL “CIMENTO” DELL’ACCADEMIA GALILEIANA E LA “PIETRA” DEI FILOSOFI: “PROVANDO E RIPROVANDO”!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PLATONE E NOI, OGGI. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!.... *
Nel buio della «notte politica» la sfida di una filosofia militante
Esce giovedì il nuovo saggio di Donatella Di Cesare (Bollati Boringhieri)
Un forte richiamo alla funzione pubblica del pensiero critico
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 22.10.2018)
Un giovane filologo italiano, Max Bergamo, si accinge a pubblicare gli appunti che, alle lezioni di greco di Friedrich Nietzsche professore a Basilea, prese, e conservò, nel semestre invernale 1871-1872, un allievo d’eccezione, Jacob Wackernagel, destinato a diventare uno dei maggiori storici delle lingue classiche. Il corso di quel semestre verteva su Platone. Abbiamo dunque sia gli appunti dell’allievo, sia il molto ricco dossier preparatorio del maestro (ne è imminente la traduzione presso Adelphi), che ormai si integrano a vicenda e si completano.
Scrive Nietzsche: «Non è lecito considerare Platone come un sistematico in vita umbratica, ma come un agitatore politico che vuole scardinare il mondo intero e che è, a questo scopo, tra le altre cose anche scrittore (...) Egli scrive per fortificare nella lotta (bestärken im Kampfe) i suoi compagni dell’Accademia (da lui fondata)». L’allievo annotò le parole del maestro così: «L’Accademia non è per lui che un mezzo. Indirettamente scrittore. (A noi invece appare in primo luogo scrittore). Un politico che vuole scardinare il mondo intero». Notare che «scardinare» appare in entrambi (aus den Angeln heben). Dunque Nietzsche disse proprio così: «Scardinare il mondo intero».
Al centro della lotta per cambiare il mondo c’è Platone. Ed è questo uno dei centri motori - insieme ai «casi» Marx e Heidegger - del nuovo saggio di Donatella Di Cesare Sulla vocazione politica della filosofia (Bollati Boringhieri). Scrive Donatella Di Cesare nel capitolo da cui prende avvio il suo saggio: «Guardiano della città, già prima di Platone e della sua politeia, Eraclito denuncia la notte politica». L’immagine della «notte» viene da un paio di frammenti dell’opera perduta di Eraclito, che paragonano la cecità impolitica dei suoi concittadini (di Efeso, metropoli greca sulla costa asiatica) al torpore del sonno.
A significare che la vocazione politica è inerente al filosofare, e ne costituisce l’avvio o anche la premessa, la Di Cesare parte da ben prima di Platone e segue quel filo fino al nostro presente. L’autrice potrebbe, credo, riconoscersi nelle parole con cui Togliatti tratteggiò il cammino di Gramsci: «Nella politica è contenuta tutta la filosofia reale di ognuno, nella politica sta la sostanza della storia, e per il singolo, che è giunto alla coscienza critica della realtà e del compito che gli spetta nella lotta per trasformarla, sta anche la sostanza della sua vita morale» (Convegno Gramsci, Roma, gennaio 1958).
Ma il filo conduttore è: «scardinare» l’esistente (Platone secondo Nietzsche) ovvero «trasformarlo», secondo la insopprimibile «tesi su Feuerbach» di Marx ventisettenne (1845). Il libro della Di Cesare è una battaglia in favore di questa concezione della filosofia, in antitesi rispetto a tutti i benpensanti (da Aristotele alla Arendt) secondo cui la politicità totale del filosofare sarebbe «passo falso» o «tentazione di intervenire».
Per Aristotele (nel secondo libro della Politica) le fondamenta e i presupposti della Kallipolis (città verso cui tendere) di Platone - superamento della proprietà, della famiglia etc. - sono devianze teoretiche e (forse anche) cadute immorali. La Arendt si riferisce a Heidegger. È chiaro che l’impegno a fianco del nazionalsocialismo fu un pauroso andare fuori strada, ma non lo fu il fatto stesso dell’impegnarsi. E questo vale anche per Gentile. Nel concreto dell’esistenza si sta «o con Lutero o con il Papa».
Il caso Heidegger e il suo gigantesco abbaglio sono ben noti alla Di Cesare: soprattutto, vien da dire, a lei, che ne ha attraversato il pensiero come - diceva l’ex coraggioso poeta Orazio all’amico Asinio Pollione - in una traversata «sui carboni ardenti».
Anche Platone, precoce, si era coinvolto nel governo più demonizzato che Atene abbia mai visto nella sua drammatica storia: quello dei Trenta cosiddetti «tiranni», capeggiati da Crizia, socratico e allucinato riformatore, di cui Platone era nipote. E Platone non lo nasconde affatto, al principio della lettera settima (che già per questa «confessione» sofferta e moralmente elevata, è ovviamente autentica!): perché - afferma - quel governo si proponeva come portatore di una rifondazione radicale della politica in nome di alcuni «princìpi». Platone ne descrive anche il fallimento e la sconfitta ma gli rende omaggio, del tutto controcorrente, rispetto al perbenismo della cosiddetta democrazia restaurata. E nel Timeo, al principio del dialogo - dove Socrate viene sollecitato da Timeo a riassumere «ciò che ha detto il giorno prima» (cioè il nocciolo della Repubblica) - Crizia dice a Socrate, rendendogli omaggio: «La città che tu ieri ci hai descritta come una favola (la città riordinata secondo la radicale proposta riformatrice illustrata nella Repubblica) noi la trasferiremo nella realtà e la porremo qui» (Timeo, 26E).
Platone fa, qui, dire a Crizia, cioè al capo dei Trenta, parole che rivendicano orgogliosamente la genesi socratica del tentativo (pur abortito) dei Trenta e la coincidenza di quel tentativo (per lo meno nelle intenzioni) col progetto «utopistico» contenuto nella Repubblica. La «leggenda nera» gravante su Crizia viene così cancellata. Ma nell’Atene democratica queste erano parole indicibili. E come dimenticare, a questo punto, l’appropriazione nazionalsocialista di Platone (Hitlers Kampf und Platons Staat di Bannes)?
Donatella Di Cesare, che ripercorre in questo saggio il cammino di alcuni grandi filosofi che «si sporcarono le mani», e descrive con efficacia l’esito di Marx come studioso che - dopo reiterate sconfitte - «si ritirò sempre più in sé stesso per scoprire anzitempo la legge della storia che avrebbe portato sino all’ultimo salto prima del regno della libertà», lancia al termine una sfida inattuale a chi predica (da qualche decennio) la fine della storia, la fine del pensiero («delle ideologie» dicono i pappagalli semicolti), cioè (suprema stupidità) la fine del moto perenne della storia. E propugna in un «poscritto anarchico» una via d’uscita di rifiuto indomito dell’arché, del comando. È certo consapevole del rischio di ridurre così i filosofi a «testimoni», sia pure emozionanti.
E approda, a mio avviso, a un esito tolstoiano.
Non è superfluo ricordare qui, conclusivamente, che quel gigante del pensiero e dell’arte europea che fu Tolstoj - il quale a lungo rifletté sul «moto storico» incessante - diede impulsi profondi sia a Lenin che a Trotsky.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
BENEDETTO CROCE, Recensione 1934*:
I1 prof. Heidegger non vuole che la filosofia e la scienza siano altro, per i tedeschi, che un affare tedesco, a vantaggio del popolo tedesco. Gli studenti tedeschi, a suo dire, hanno tre «Bindungen», tre obblighi, il primo e fondamentale dei quali è la «Volksgemeinschaft», il nazionalismo. Ma se egli si ripiegasse davvero sulla sua coscienza morale (l’ha ogni uomo e l’avrà anche lui), direbbe piuttosto che il primo obbligo, di studenti e di professori, è il timor Dei, come sta scritto sul frontone della Sapienza di Roma.
Scrittore di generiche sottigliezze, arieggiante a un Proust cattedratico, egli che nei suoi libri non ha dato mai segno di prendere alcun interesse o di avere alcuna conoscenza della storia, dell’etica, della politica, della poesia, dell’arte, della concreta vita spirituale nelle sue varie forme - quale decadenza a fronte dei filosofi, veri filosofi, tedeschi di un tempo, dei Kant, degli Schelling, degli Hegel! -, oggi si sprofonda di colpo nel gorgo del più falso storicismo, in quello, che la storia nega, per il quale il moto deila storia viene rozzamente e materialisticamente concepito come asserzione di etnicismi e di razzismi, come celebrazione delle gesta di lupi e volpi, leoni e sciacalli, assente l’unico e vero attore, l’umanità.
Scrive nel bello stile che ci è già noto dai suoi libri filosofici: «Der Wille zum Wesen der deutschen Universitat ist der Wille zur Wissenschaft als Wille zum geschichtlichen geistigen Auftrag des deutschen Volkes als eines in seinem Staat sich selbst wissende Volkces. Wissenschaft und deutsche. Schicksal mussen zumal in Wesenswillen zur Macht kommen» (p. 7). E così si appresta o si offre a rendere servigi filosofico-politici: che è certamente un modo di prostituire la filosofia, senza con ciò recare nessun sussidio alla soda politica, e, anzi, credo, neppure a quella non soda, che di cotesto ibrido scolasticume non sa che cosa farsi, reggendosi e operando per mezzo di altre forze, che le son proprie.
Ben diverso atteggiamento è quello del teologo Karl Barth, che dice il fatto loro ai «Deutschen Christen», ai tedesco-cristiani, pronti a gridare che la chiesa evangelica deve servire alla fortuna del popolo tedesco e del terzo Impero, a richiedere un capo, una sorta cli papa, che fermamente li governi nella nuova vita cominciata con la primavera del 1933, e ad escludere, per intanto, dal loro seno i cristiani di sangue giudaico o a trattarli come cristiani di second’ordine, e via per simili turpitudini.
«Noi - scrive il Barth - abbiamo l’ufficio di portare al popolo tedesco la parola di Dio; e pecchiamo non solo verso Dio, ma anche verso questo popolo stesso se perseguiamo altri ideali e fini, che non sono cominessi a noi. Nella natura del nostro ufficio è che esso non possa essere subordinato o coordinato ad alcun’altra istanza; e di nuovo peccheremmo verso Dio e verso il nostro popolo, se lasciassirilo scuotere anche solo menomamente quest’ordine gerarchico!».
Il Barth degnamente tutela l’indipendenza della teologia, mentre il prof. Heidegger si è affrettato a far getto di quella della filosofia.
B. C.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA.
VENI, CREATOR SPIRITUS: LO SPIRITO DELLA VERITA’. Lo Spirito "costituzionale" di Benedetto Croce, lo spirito cattolico-romano di Giacomo Biffi, e la testimonianza di venti cristiani danesi (ricerca scientifica)
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
Testimoni.
Barth «politico». La rivoluzione è cristiana
Per la prima volta in volume la conferenza tenuta nel 1911 dal teologo protestante morto 50 anni fa e dedicata al rapporto tra cristianesimo e socialismo “politico”. La rivoluzione è cristiana
di Karl Barth (Avvenire, sabato 20 ottobre 2018)
Il socialismo è il movimento di coloro che non sono indipendenti sul piano economico, di coloro che in cambio di un salario lavorano per un altro, un estraneo; è il movimento del proletariato, come lo si chiama nei libri. Il proletario non è necessariamente povero, ma nella sua esistenza è necessariamente dipendente dalle possibilità economiche e dalla buona volontà di colui che gli dà il pane, il padrone della fabbrica. È qui che interviene il socialismo: esso è e vuole essere un movimento proletario. Esso vuole rendere indipendenti coloro che non lo sono, con tutte le conseguenze che ciò può comportare per la loro esistenza materiale, morale e spirituale.
Non possiamo sostenere che anche Gesù si sia impegnato precisamente su questo punto, già semplicemente per il fatto che duemila anni fa non esisteva ancora un proletariato nel senso moderno del termine, non essendovi ancora le fabbriche. Tuttavia, chiunque legga senza pregiudizi il Nuovo Testamento, dovrebbe restare colpito dal fatto che ciò che Gesù è stato, ha voluto, e ha ottenuto, considerato da un punto di vista umano, era esattamente un movimento dal basso. Egli stesso proveniva da uno dei ceti più umili del popolo ebraico di quel tempo.
Vi ricorderete certamente del racconto di Natale e della mangiatoia di Betlemme. Suo padre faceva il carpentiere in un angolo sperduto della Galilea, e lo stesso mestiere ha fatto anche Gesù stesso, tranne che nei suoi ultimi anni di vita. Gesù non era un pastore, non era un parroco, era un operaio. Giunto al trentesimo anno di età, ha appeso al chiodo i suoi arnesi, e ha cominciato a girovagare da una località all’altra perché aveva qualcosa da dire agli uomini. Ma anche allora la sua posizione è stata completamente diversa da quella di un pastore dei nostri giorni. Noi pastori dobbiamo essere a disposizione di tutti, di chi sta in alto e di chi sta in basso, dei ricchi e dei poveri, e la nostra personalità spesso soffre di questa duplice faccia della nostra professione. Gesù si sentiva inviato ai poveri, agli umili: questo è uno dei dati più indiscutibili che ricaviamo dalla storia del vangelo.
Il senso della sua attività si riassume in una frase, nella quale sentiamo ancora oggi ardere il fuoco di un’autentica sensibilità sociale: «Vedendo il popolo, si commosse, perché erano come pecore senza pastore» (Mc 6,34). Talvolta leggiamo anche che gli si sono accompagnati dei ricchi, ma se pure non si sono tirati indietro, dopo un breve momento di entusiasmo, come il giovane ricco (Mt 19,16-22) - e aveva le sue buone ragioni per farlo - costoro facevano parte della sua cerchia come ospiti, piuttosto che essere veramente legati a lui. Un esempio tipico in questo senso è offerto da quel Nicodemo (Gv 3,2-1), «un capo dei Giudei», che si recò da lui nottetempo.
Certo, nelle ultime settimane di vita egli si è rivolto con il suo messaggio anche ai ricchi, alle persone colte: si è spostato dalla Galilea a Gerusalemme - ma sapete bene che questo tentativo s’è concluso con la croce, sul Golgota. Quello di cui era portatore era un lieto annuncio ai poveri, al popolo dei dipendenti e degli incolti: «Beati voi poveri, perché vostro è il regno dei cieli» (Lc 6,20). «Il più piccolo fra tutti voi diventerà il più grande» (Lc 9,48). «Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli» (Mt 18,10). Queste affermazioni non possono essere interpretate come parole consolatorie pronunciate da un filantropo con tono di condiscendenza. Gesù ha affermato: «Vostro è il regno dei cieli», e con questo ha inteso dire: rallegratevi di rientrare nel novero della gente minuta: voi siete più vicini alla salvezza degli altolocati e dei ricchi.
«Ti ringrazio, Padre del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25). Gesù stesso si è comportato in questo modo: egli ha scelto i suoi amici tra i pescatori del lago di Galilea, tra i pubblicani al servizio dei romani, sospettati da tutti, addirittura tra le prostitute delle città di mare. Nella scelta dei propri compagni non si può scendere verso il fondo della scala sociale più di quanto abbia fatto Gesù. Per lui, nessuno si trovava troppo in basso o contava troppo poco.
Lo ripeto: non si trattava di una sussiegosa compassione dall’alto al basso, ma nell’esplosione di un vulcano dal basso verso l’alto. Non sono i poveri ad aver bisogno di compassione, ma i ricchi, non i cosiddetti “senza Dio”, ma gli uomini pii. Queste inaudite parole: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31), e: ’Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione» (Lc 6,24), Gesù le ha pronunciate rivolgendosi verso l’alto, mentre rivolgendosi verso il basso ha detto: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò» (Mt 11,28). Lo spirito che ha valore agli occhi di Dio è lo spirito sociale. E l’aiuto prestato sul piano sociale è la strada che conduce alla vita eterna.
Gesù non ha soltanto parlato, ma ha anche agito in questo modo. Se si legge il vangelo con attenzione, non si può non restare stupefatti di come sia stato possibile fare di Gesù un pastore o un maestro, il cui scopo sarebbe stato quello di insegnare agli uomini una fede e una vita corrette. «Da lui usciva una forza che sanava tutti» (Lc 6,19).
Questa era la sua attività essenziale. Sia che si interpretino queste guarigioni come eventi soprannaturali o naturali - resta il fatto che egli ha operato delle guarigioni e che questa sua capacità sta al centro della sua vita molto più di quanto abitualmente si pensi. «Egli passò beneficiando e risanando» (At 10,38). Troviamo molti altri episodi del genere.
Guardando a questi dati noti a chiunque abbia letto la Bibbia, credo che nessuno abbia il diritto di dire che la socialdemocrazia è non cristiana e materialista per il fatto d’essersi posta come obiettivo l’introduzione di un ordinamento sociale più favorevole agli interessi materiali del proletariato. Gesù si è opposto alla miseria sociale affermando, con le parole e con i fatti, che essa non deve esistere. Certamente, egli ha fatto ciò infondendo negli uomini lo spirito, che trasforma la materia. Al paralitico di Cafarnao ha detto per prima cosa: «Ti sono rimessi i tuoi peccati»; e, dopo: «Alzati, prendi il tuo letto e cammina». Egli ha operato dall’interno verso l’esterno. Ha creato uomini nuovi, per creare un mondo nuovo.
IL "DESIDERIO" E IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. "Sapere aude!" .... *
Resistere resistere resistere
"Alzati e cammina", una resurrezione laica
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 19.10.2018)
Come si può intendere laicamente il mistero cristiano della resurrezione? Il corpo di Cristo che risorge dopo aver conosciuto l’assoluto nascondimento della morte, della fine della vita, non è solo una immagine consolatrice che dovrebbe liberare l’uomo dal peso insopportabile della sua finitezza, ma può essere assunto come il simbolo di una resistenza altrettanto assoluta della vita contro la tentazione della morte.
Non è, in fondo, questo uno dei significati fondamentali della predicazione di Gesù? Non abbiate paura perché non tutto è morte, perché il cuore della vita è più grande dell’ombra della morte!
Non a caso è nella parola antica Kum che è contenuto il tema della possibilità che la vita rinnovi se stessa proprio laddove pare morta, finita, consegnata ad uno scacco fatale. Kum è la parola-imperativo che, per esempio, nel testo biblico, Dio rivolge a Giona. Essa scuote il profeta dal suo letargo per consegnargli una missione impossibile che lo costringe a mettersi in movimento. Ma è anche la parola-imperativo che Gesù rivolge a Lazzaro: Kum! Alzati!
Cammina! Rimettiti in moto! Kum è la parola che riabilita la vita alla vita, proprio nel punto dove la vita si perde e muore. Ecco la cifra laica della resurrezione. Dobbiamo provare a vedere in Kum la parola che ispira ogni autentica pratica umana di cura.
La posta in gioco è decisiva: è possibile rialzarsi, ricominciare, ritornare a vivere, anche quando l’esperienza della caduta, della malattia, del fallimento, della catastrofe appare senza rimedio alcuno? In gioco non è solo il destino individuale della vita, ma quella di una città, di un popolo, di un ideale, del nostro stesso pianeta.
Il Grande Cretto di Burri che commemora il terremoto di Gibellina o il One World Trade Center di Daniel Libeskid che evoca il trauma dell’abbattimento delle Torri gemelle, non guariscono la ferita (inguaribile) ma la sanno incorporare in una forma nuova che consente alla vita di ricominciare a vivere.
Il mistero della resurrezione, riletto laicamente, indica allora non solo e non tanto la possibilità eventuale che la vita possa esistere dopo la morte, tema caro a tutte le religioni, ma la possibilità di ridare vita ad una vita che sembrava perduta, di ricostruire una città distrutta, di ritrovare un popolo privato di ogni forma di identità, di restituire un volto umano alla vita dopo l’esperienza atroce dell’orrore.
La parola Kum!, Alzati!, è un appello che esige movimento, rilancio, responsabilità di un atto che sappia riaccendere la vita. In gioco è l’evento della sorpresa che sempre accompagna il "miracolo" dell’uscita della vita dalla zona sepolcrale della morte. Non è infatti proprio questa sorpresa al centro di ogni avventura di cura? Possiamo pensare esemplarmente ad alcuni casi clinici ritenuti senza speranza che, nel corso di una cura, risorgono contraddicendo i protocolli e le previsioni prognostiche più nefaste. Può accadere con bambini colpiti da malattie rare, con giovani afflitti da patologie mentali gravi, ma anche, in uno scenario meno drammatico, con studenti ritenuti dall’istituzione scuola senza speranza, cause perse, irrecuperabili. Può accadere con territori e città che hanno fatto esperienza - solo apparentemente irreversibile - della catastrofe. Ma più in generale ogni volta che incontriamo una resistenza insperata alla morte, ogni volta che incrociamo la sorpresa della vita che non cede alla morte e ricomincia a camminare, facciamo esperienza della resurrezione.
Come se la cifra ultima della resurrezione coincidesse con quella della insurrezione: non si tratta di respingere fobicamente la caduta o la malattia, il fallimento o la perdita inconsolabile, illudendosi che possa esistere una medicina capace di dissolverne la presenza scabrosa.
Piuttosto si tratta di non lasciare l’ultima parola alla morte. Per questo sappiamo che i momenti più fecondi per una vita sono quelli che implicano passaggi stretti, crisi, ferite. Tuttavia, affinché il "miracolo" della resurrezione si possa compiere è sempre necessario un atto di fede che non può essere confuso con una semplice credenza. Non si tratta tanto di avere fede in un salvatore, ma di avere fede nella forza stessa della fede.
Quando una volta a Lacan chiesero in che cosa consistesse l’esperienza dell’analisi, egli rispose, molto semplicemente, che essa consisteva nell’offrire ad una vita persa, l’opportunità per "ripartire". Ebbene, la fede nel proprio desiderio è la condizione di base per questa ripartenza.
Alzati! è la parola-imperativo che rimette in piedi e in movimento la potenza affermativa del desiderio contro la tentazione cupa, sempre presente negli umani, della morte. Perché, in fondo, se la resurrezione non può pretendere di curare la vita dal suo destino mortale - non può liberare la vita dalla morte - essa può invece liberare la vita dalla paura paralizzante della morte e dalla sua tentazione. Perché la paura della morte, umanissima quando riguarda la prossimità dell’evento della propria fine che ci priva della gioia infinita della vita, può nascondere talvolta la paura della vita. La tentazione della morte è, infatti, un modo per voler evadere dalla fatica che la vita impone. È questa la tentazione più grande.
Testimoniare che non tutto è morte, non tutto è devastazione, non tutto è destinato a finire, che risorgere è un compito della vita, è il segreto che la parola Kum! porta con sé nei secoli.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GESÙ E IL CATTOLICESIMO-ROMANO. UNA LEZIONE DI JOYCE (da "FINNEGANS WAKE").
"PERVERSIONI" di Sergio Benvenuto. UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Freud signore degli anelli
Ritrovati gli antichi sigilli che il padre della psicanalisi donava agli allievi più fedeli
di Ada Treves (La Stampa, 18.10.2018)
Tre luoghi fondamentali, tre case trasformate in musei: Příbor, dove Sigmund Freud è nato nel 1856; Vienna, con le stanze dove ha vissuto per 47 anni e in cui ha scritto la maggior parte delle sue opere; Londra, dove il padre della psicanalisi si rifugiò con la famiglia dopo l’Anschluss - l’annessione dell’Austria alla Germania nazista nel 1938 - e fino alla sua morte, nel settembre dell’anno successivo. A Příbor - Freiberg - città della Moravia all’epoca parte dell’Impero austriaco e oggi si trova nella Repubblica Ceca era Sigismund Schlomo, figlio di un commerciante di lane ebreo che poco dopo decise di trasferirsi a Vienna, dove il giovanissimo Freud proseguì gli studi, e decise di abbreviare il proprio nome in Sigmund.
Come in una saga
Inventore della psicanalisi, termine che usò in maniera formalizzata per la prima volta in due articoli del 1896, considerato uno dei personaggi più influenti vissuti tra 800 e 900, Freud è protagonista di due mostre molto diverse. Freud of the Rings - Freud degli anelli - aperta fino a marzo 2019 all’Israel Museum di Gerusalemme è nata dalla curiosità di una giovane curatrice del museo, Morag Wilhelm, dopo il ritrovamento tra gli oggetti della collezione di una scatoletta di cartone su cui compariva la scritta «Freud Nike». Dentro, un anello con incastonata una pietra che raffigurava la dea della vittoria, appartenuto alla paziente di Freud e a sua volta psicanalista Eva Rosenfeld.
Non è l’unico, ed è collegato a una storia che porta a pensare alla Compagnia dell’anello così come la racconta Tolkien nel primo volume della sua saga: Pyllis Grosskurth in The Segret Ring: Freud’s Inner Circle and the Politics os Psychoanalysis spiega come dopo la rottura del 1912 con Carl Gustav Jung, suo discepolo e sino ad allora suo erede, si fosse costituito un Comitato segreto composto dai più prossimi collaboratori di Freud: Karl Abraham, Sándor Ferenczi, Otto Rank, Ernest Jones e Hanns Sachs. Furono loro i destinatari dei primi anelli: discepoli analizzati direttamente dal maestro, rappresentanti della teoria psicoanalitica pura destinati a costituire una roccaforte non ufficiale all’interno della Società di Psicoanalisi. Le pietre, con incisa una divinità, venivano dalla collezione di arte antica di Freud, che a sua volta portava sempre al dito un sigillo risalente ai tempi dell’antica Roma.
Hanns Sachs, nel suo testo del 1944 intitolato Freud, maestro e amico (pubblicato in italiano da Astrolabio nel 1973), scrisse che «Il dono degli anelli aveva un preciso significato simbolico: ci ricordava che ogni nostro reciproco rapporto aveva lo stesso centro di gravità. Ci faceva sentire che appartenevamo a un gruppo nel gruppo, quantunque senza alcun legame formale o il tentativo di diventare un’organizzazione separata». L’Israel Museum espone sei dei circa venti anelli che anche in seguito Freud donò ad alcuni dei discepoli in segno di riconoscenza e di stima, tra di essi oltre a quello di Rosenfeld, gli anelli di Ferenczi, Ernst Simmel e della figlia di Freud, Anna, accanto a una selezione delle sue statuette antiche.
Dallo sguardo all’ascolto
Molto diversa la mostra aperta da pochi giorni al MahJ, il Museo di arte e storia ebraica di Parigi, curata dal critico d’arte Jean Clair - già direttore del Museo Picasso di Parigi e curatore della Biennale di Venezia del centenario - intitolata Du regard à l’écoute, Dallo sguardo all’ascolto: visitabile fino a febbraio del prossimo anno, è la prima organizzata in Francia sul padre della psicanalisi, che pure tra il 1885 e il 1886 visse a Parigi, dove era giunto per studiare con Jean-Martin Charcot. Un percorso intellettuale e scientifico che attraverso alcune grandi opere d’arte - dalla Lezione di Charcot alla Salpetrière di Broullet a Courbet con L’origine del mondo a Klimt, da Magritte, Max Ernst e Mark Rothko a Oskar Kokoschka e Egon Schiele - porta alla scoperta del suo lavoro come neurologo, a Vienna e Parigi, e del suo interesse per la biologia. E racconta come, nonostante la passione di Freud per l’arte, la psicoanalisi sia cresciuta nell’assenza di rappresentazioni visive basandosi esclusivamente sulla parola e sull’ascolto, in continuità con l’eredità di Mosè che aveva proibito al suo popolo di farsi delle immagini.
E se nel Novecento la psicoanalisi si è ulteriormente evoluta confluendo in altre teorie, contribuendo alla nascita di altre scuole, se fra ricerche e studi scientifici che ne esaltato i benefici per i pazienti e altri che ne ridimensionano la portata, il dibattito è ancora così acceso è perché il segno che Freud ha lasciato è indelebile. Quasi un sigillo, come quello che portava sempre al dito.
DIALOGHI. Wolfram Eilenberger denuncia il declino del pensiero del suo Paese colpa della pretesa di farne una scienza, dell’influenza «dannosa» della tradizione analitica, dell’invasione della lingua inglese che appiattisce la stessa elaborazione intellettuale
Il guinzaglio anglosassone alla filosofia tedesca
conversazione di Donatella Di Cesare con Wolfram Eilenberger (Corriere della Sera, La Lettura, 30.09.2018)
DONATELLA DI CESARE - Già alcuni anni fa è stata «la Lettura» a interrogarsi per la prima volta sulla sorte della filosofia tedesca, passata ormai del tutto in secondo piano. Da allora si può dire che la questione sia diventata persino più acuta. Se si prescinde da Peter Sloterdijk, a suo modo un outsider, molto popolare nei media ma rimasto ai margini della vita accademica, nella Germania di oggi mancano figure filosofiche di rilievo. Ben pochi libri riescono a varcare i confini e a risvegliare l’interesse internazionale. Il saggio di Wolfram Eilenberger Il tempo degli stregoni, di recente pubblicato in italiano da Feltrinelli, è un’eccezione. Lei parla di Wittgenstein, Heidegger, Cassirer, Benjamin, del periodo magico del primo Novecento - davvero altri tempi! Dato che lei attualmente non ha un posto all’università, questo successo mi sembra una conferma della chiusura della filosofia accademica, incapace di parlare al grande pubblico. Com’è possibile che una grande tradizione si esaurisca a tal punto? Quali sono a suo avviso i motivi di questa crisi così profonda e drammatica?
WOLFRAM EILENBERGER - La filosofia tedesca appare oggi condannata all’irrilevanza. Il motivo è chiaro: è diventata una professione universitaria, una materia tra le altre. Anche i giovani finiscono per intenderla in tal modo. Persino quelli che hanno più talento, vedono in questa disciplina solo lo strumento per avviarsi alla carriera accademica. A prevalere sono allora i carrieristi e gli sgobboni. Molto presto si restringono gli interessi e si richiede una specializzazione. Regna sovrano l’ottuso imperativo di pubblicare e pubblicare: sempre le stesse questioni rimasticate nello stesso formato dell’articolo specialistico. Il tutto per di più in inglese. Chiunque voglia arrivare al vertice, deve subire già a trent’anni queste imposizioni. La ricerca viene così deformata e, anzi, bloccata da necessità esterne e del tutto fittizie.
DONATELLA DI CESARE - Questo vale, però, anche per l’Italia. Il capitalismo accademico sta ormai stravolgendo non solo l’università, ma lo studio e la ricerca. I criteri di valutazione, buoni forse per le materie scientifiche, hanno effetti devastanti sulle materie umanistiche. La libertà di pensiero e la critica sono minacciate dal bieco calcolo del punteggio.
WOLFRAM EILENBERGER - È esatto. Così vengono tirati su bravi pensatori aziendali - non spiriti liberi! Certo è antico il conflitto tra la filosofia ridotta a professione e quella concepita invece come vocazione. Ma adesso si può dire con chiarezza che il più grande nemico della filosofia è la volontà di essere una «scienza» e una disciplina accademica come le altre.
DONATELLA DI CESARE - Aggiungerei almeno altri tre fra i motivi della profonda crisi in cui versa la filosofia tedesca. Il primo è l’influenza dannosa esercitata dalla «filosofia analitica». Si tratta di una corrente di stampo normativo e formale che, pur avendo esordito nell’area linguistica tedesca - con Gottlob Frege prima, con Ludwig Wittgenstein poi - si è sviluppata e articolata nelle accademie angloamericane. In tal senso è una filosofia che ha ben poco a che fare con la tradizione europea. Il secondo motivo riguarda invece la lingua tedesca, ormai inspiegabilmente quasi espulsa dalle università. La questione diventa qui culturale: la Germania ha puntato quasi esclusivamente sulle materie scientifiche, privilegiando gli accordi con la Cina e con gli Stati Uniti. Interi dipartimenti di filologia antica o di orientalistica sono stati enormemente ridimensionati, se non chiusi del tutto. Il criterio è sempre l’utilità per il mercato. Eppure era lì il cardine della tradizione tedesca. Ciò ha avuto conseguenze anche per la filosofia, costretta o a essere solo «storia della filosofia» oppure a improvvisarsi ancella dei nuovi studi che vanno così di moda: le scienze dei media e quelle della cultura. Questo terzo motivo viene spesso taciuto. Certo che la filosofia deve intervenire nello spazio pubblico. Ne sono più che convinta. Ma senza concedere troppo al mercato.
WOLFRAM EILENBERGER - Si deve ammettere che oggi la filosofia tedesca ha toccato il punto più basso degli ultimi 300 anni. Nel contesto internazionale non offre più alcun impulso né esercita il fascino d’un tempo. Sembra non avere voce neppure in una prospettiva interdisciplinare. Dall’ermeneutica filosofica di Gadamer alla teoria dei sistemi di Luhmann, dall’etica del discorso di Habermas alla metaforologia di Blumenberg, gli ultimi grandi progetti filosofici risalgono oramai a cinquant’anni fa. Il pensiero sembra oggi ripiegato su di sé, al contrario di quel che avvenne invece all’inizio del Novecento, nella Berlino e nella Vienna degli anni Venti. Un motivo di crisi è certo anche la lingua. Diminuisce nel mondo il numero di persone che parlano o anche solo capiscono il tedesco. L’inglese è diventato egemone ormai anche nella filosofia. Questo dominio della lingua va di pari passo con quello del metodo. Grazie alle logiche della classifica e al criterio della valutazione il paradigma della filosofia analitica, importato dagli Stati Uniti, domina il mercato in Europa e in Germania. Per il panorama filosofico i contraccolpi sono gravi. Ormai negli Istituti di Filosofia, anche in quelli più rinomati, si tengono corsi in inglese (sui filosofi tedeschi!) e si spingono gli studenti a pensare e scrivere in quella lingua. È davvero grottesco! Come se la propria lingua madre fosse un semplice strumento esteriore per esprimere il pensiero, non un mezzo che articola e condiziona modi e contenuti del pensare. Sarebbe come se, ad esempio, per salvare la letteratura tedesca, oppure quella italiana, si consigliasse ai giovani talenti di scrivere soltanto in inglese. Sennonché i filosofi analitici in Germania vanno decantando questi esiti, come un cane che gira sfoggiando pieno d’orgoglio il proprio guinzaglio. Quasi che si trattasse di un progresso decisivo, di una sprovincializzazione, di un’apertura globale.
DONATELLA DI CESARE - Ho l’impressione che la riunificazione abbia giocato un ruolo molto importante. Non credo che la Germania abbia elaborato davvero il passato. Dopo il 1989 la filosofia è stata dichiarata e si è autodichiarata colpevole - al contrario della scienza, ben più direttamente coinvolta nel nazismo. Che cosa c’era di meglio, per rimuovere Auschwitz, che ricominciare con la filosofia americana? Non importa, poi, che si buttasse via anche il bambino con l’acqua sporca.
WOLFRAM EILENBERGER - Lei ha ragione quando afferma che, dopo la frattura della Shoah, l’accesso alla storia tedesca sembra diventare sempre più problematico. E lo è tutt’oggi. Posso parlare per esperienza personale: già per la mia generazione aveva un che di liberatorio immergersi solo nel pensiero americano. Era possibile aggirare così del tutto anche quel grande ambito, complesso e per certi versi inquietante, costituito dall’idealismo tedesco. Basta con Fichte, basta con la muffa speculativa, basta soprattutto con il pessimismo culturale alla Nietzsche o alla Heidegger! In questo senso mi convince la sua tesi interpretativa: la riunificazione tedesca ha indubbiamente contribuito a rafforzare un’avversione già profonda verso la propria storia, la propria cultura, la propria tradizione. Ciò è connesso anche con una certa sopravvalutazione della filosofia, peculiarità tutta tedesca. La filosofia sarebbe il centro, la fonte originaria di ogni sapere e di ogni scienza. Quando nel bel mezzo della civiltà si arriva alla barbarie, allora la filosofia, secondo questo modo di vedere, non può non essere la prima accusata, non può non avere la colpa maggiore. Heidegger mi è testimone! D’altra parte è pur vero che un pensiero vivo può svilupparsi solo grazie a un dialogo serrato con la tradizione. Non a caso quest’idea ha improntato la filosofia tedesca del dopoguerra e ha avuto grande rilievo fino a pochi anni fa. Gadamer e Blumenberg hanno in fondo costruito la loro riflessione intorno a questo cardine. Proprio contro la filosofia analitica, così certa del suo metodo, così astorica e al contempo così unidimensionale, è indispensabile mantenere il dialogo con la tradizione.
DONATELLA DI CESARE - A me pare, tuttavia, che anche la filosofia classica non riesca, in Germania, a dire gran che di nuovo. Il pensiero politico è molto normativo; non ha più né una dimensione critica né, tanto meno, un afflato utopico. Quanto è andato perduto del passato! Un esempio eloquente è la Scuola di Francoforte. È difficile scorgere un sia pur esile nesso con Benjamin o persino con Adorno. Si può dire che proprio nel contesto tedesco abbia avuto la meglio quello strano motto di Richard Rorty che afferma la priorità della democrazia sulla filosofia. In fondo anche Habermas, a ben guardare, è un filosofo di Stato. La filosofia normativa, soprattutto in Germania, si presenta come una ripresa, se non una riedizione, del neokantismo, quella filosofia accademica che regnava a Marburgo prima che Heidegger la spazzasse via. Eppure lei sembra avere un’alta opinione di Cassirer e dei neokantiani, quei filosofi che, a loro volta, rileggevano Kant con il proposito onesto, ma decisamente vetusto e per alcuni versi miope, di delineare un’etica, una teoria della conoscenza, un’ontologia. Riproporre oggi un «neokantismo» come stile e modalità della filosofia vuol dire presentarsi come bravi liberali, in grado di democratizzare la democrazia, superare gli ostacoli della comunicazione, mitigare le sofferenze umane, fornire qualche viatico per essere un po’ meno infelici.
WOLFRAM EILENBERGER - È impossibile mettere in dubbio l’assenza di ogni impulso nonché, aggiungerei, una certa mancanza di coraggio. Questo vale in particolare per la Scuola di Francoforte che ha toccato l’apice dell’irrilevanza nei suoi epigoni, ad esempio nella figura di Axel Honneth. Politicamente ciò si traduce nel ripetuto auspicio, né coraggioso né efficace, che il capitale finanziario perda finalmente il potere. Come se a tal fine fossero necessari i filosofi! Si capisce perché da questa corrente non viene alcun contributo che possa aiutare a riflettere sulle grandi questioni di oggi, ad esempio sulla dinamica della migrazione, o sull’ancoraggio culturale di una nazione, un tema che finisce per venire usurpato dalla destra. Che errore! Occorre poi parlare di Jürgen Habermas, l’ultima grande figura di filosofo ancora attivo. Il suo influsso sulla filosofia tedesca, sia dal punto di vista istituzionale, sia da quello dei contenuti, è stato enorme; ma non sempre gli effetti sono stati positivi. Com’è noto, dal consenso alla conformità, e al conformismo, il passo è breve. Si deve rimproverare a Habermas non solo di aver addomesticato e ammansito l’ambito del pensiero politico, ma anche di averlo recintato e chiuso ideologicamente. Diciamolo pure: ormai da diversi anni Habermas è il filosofo di Angela Merkel.
In Germania l’assenza di idee nei filosofi e nelle filosofe di sinistra è ormai quasi istituzionalizzata e va ricondotta in gran parte a questo stallo. Per superarlo sarebbe forse auspicabile ricollegarsi al primo Novecento mondiale e riscoprire la vitalità di quegli anni. Il pensiero di Benjamin, con la sua radicalità, può ancora essere d’ispirazione.
A mio avviso, però, è Cassirer il filosofo che può essere il punto di riferimento per temi che oggi ci stanno a cuore, dall’importanza dell’Europa al significato decisivo della cultura. È attingendo a queste fonti ancora così vive che la filosofia tedesca potrà forse rifiorire. Non si può escludere che ciò stia già avvenendo. Si deve infine ammettere che è sempre difficile giudicare la propria epoca dalla prospettiva del presente. Solo questo si può dire con certezza: se qualcosa di nuovo nascerà nella filosofia tedesca, ciò avverrà fuori dai percorsi accademici. Non sembra che si possa attendere molto dal mondo universitario.
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No, la violenza non è soltanto dei cristiani
Catherine Nixey ha scritto un saggio piacevole, scorrevole e inutilmente unilaterale. Che segue sempre lo stesso schema di un’opposizione tra pagani tolleranti e illuminati e seguaci del Vangelo fanatici e ignoranti. Il fatto è che, se non ci liberiamo di queste ricostruzioni arbitrarie e di questi luoghi comuni, non saremo mai capaci di costruire una società su valori condivisi
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 30.09.2018)
«Sono venuto a portare la spada, non la pace!», tuonava Gesù nel Vangelo di Matteo. Nella tarda antichità al posto delle spade venivano usate delle mazze, provvidenzialmente ribattezzate «Israele». Vestiti di nero, con lunghe barbe nere, le brandivano orde di monaci, anonimi e irrintracciabili: arrivavano, colpivano e sparivano, in missione per far sentire la voce del Signore. Altre volte ci si accontentava di bastoni e pietre. Tra i tanti che assaporarono questa forma molto concreta di giustizia divina fu Ipazia, la celebre filosofa e matematica: trascinata in una chiesa, fu scorticata viva; morta, fu fatta a pezzi e le sue membra gettate nel fuoco. Non erano solo gli esseri umani a essere investiti da questa furia. A Palmira, la perla del deserto, fu ad esempio raso al suolo il tempio di Atena e la sua statua tirata giù dal piedistallo, con le braccia mozzate e la testa decapitata. Così, nel volgere di un paio di secoli fu spazzata via una cultura millenaria, quella greca e romana, fatta di terme (dove succedeva di tutto, ma proprio di tutto) e teatri, di poesie erotiche e discussioni filosofiche. C’era stato una volta un mondo capace di godersi la vita, dove ora regnava il terrore di Dio.
Ricordano qualcosa di attuale queste storie di fanatici barbuti e statue abbattute (a Palmira!)? Di sicuro sono vicende che non mancano di una discreta ironia per quanti ricordano il celeberrimo (o famigerato) discorso che Joseph Ratzinger tenne a Ratisbona nel settembre del 2006: negava la legittimità di qualsivoglia legame tra fede e violenza (un legame, suggeriva il Papa maldestramente, forse caratteristico del mondo islamico), rivendicando con chiarezza la necessità di un confronto proficuo con la ragione (il logos dei greci, più precisamente). Chissà che cosa avrebbero risposto Scenute di Atripe, oggi santo della chiesa copta (cristiana), allora instancabile bastonatore (ma non mancava mai di piangere per i nostri peccati, dopo le sue spedizioni) o Tertulliano, uno dei grandi padri della chiesa romana, quello del credo quia absurdum, con tanti saluti ai ragionamenti dei filosofi.
Scritto con grande verve, piacevole e scorrevole, il libro di Catherine Nixey ricostruisce con dovizia di dettagli questi e numerosi altri episodi analoghi, sempre secondo lo stesso schema di un’opposizione tra pagani tolleranti e illuminati contro cristiani fanatici e ignoranti. La tradizione in cui s’inserisce è gloriosa, da Voltaire a Edward Gibbon (passando per esempi meno nobili di scrittori nostrani che campano grazie a un pubblico ristretto ma sempre contento di sentirsi ripetere quanto stupidi siano i cristiani o più in generale i credenti). È però anche inutilmente unilaterale. Il problema non è solo quello dell’attendibilità storica - davvero la tarda antichità è stato questo bagno di sangue e roteare di mazze? In gioco c’è il problema dell’identità europea e occidentale, e del difficile rapporto che essa intrattiene con la tradizione cristiana. Era il tema che stava sullo sfondo del discorso di Ratzinger a Ratisbona. Ne stiamo ancora discutendo.
In una prospettiva strettamente storica il mito di un’opposizione tra pagani illuminati e cristiani fanatici è appunto nient’altro che un mito. Cirillo, il vescovo di Alessandria e il mandante morale dell’assassinio di Ipazia, fu anche un raffinato teologo: brutale e disumano quanto si vuole nelle battaglie politiche, ma non certamente un ignorante. Ancora di meno lo era Origene, di cui si ricorda solo che si era evirato in ossequio a un passo del Vangelo (ma si eviravano anche i sacerdoti di diversi culti misterici pagani, pare, e Ipazia aveva sbattuto in faccia a uno spasimante un assorbente sporco di sangue perché si rendesse conto di cosa fosse l’amore: non era un’epoca particolarmente sensibile alle sirene del corpo, senza troppe distinzioni tra cristiani o pagani); o tanti altri padri della Chiesa, impegnati in dibattiti infiniti e sottilissimi. Raramente si è discusso tanto come in questi secoli. Le mani e la testa di Cicerone appesi ai Rostri per far contento Marco Antonio o la fila infinita di schiavi crocifissi sulla via Appia dopo la rivolta di Spartaco ci ricordano in compenso che la violenza, pubblica o privata, non era certo prerogativa dei soli cristiani. Il punto decisivo è piuttosto che cristiani e pagani con il passare del tempo divennero due comunità compiutamente integrate. Fronteggiandosi da campi ideologici opposti, queste due fazioni hanno finito per rendersi simili l’una all’altra, ritrovandosi in una eredità culturale comune. Ed è questo su cui bisognerebbe riflettere.
Lontana e poco conosciuta, questa storia, fatta di scontri violentissimi e amanuensi che copiavano pazienti pagine e pagine di testi, è infatti molto più attuale di quanto non si creda. Ai tanti che oggi inneggiano al cristianesimo come ultimo baluardo in difesa della nostra civilità andrebbe ricordato che il cristianesimo non è nato qui: è un prodotto orientale, che ha lentamente e inesorabilmente invaso tutte le coste del Mediterraneo. Perché così è stato e così sempre sarà: le persone e le idee si muovono. Ma ai tanti altri che nel cristianesimo vedono solo una lunga e interminabile teoria di errori e violenze andrebbe fatto osservare che lo spazio riservato da questa religione alla ragione, a quello che i Greci chiamavano logos, è davvero significativo. Quando Paolo predicò sull’Areopago, gli Ateniesi lo irrisero per l’assurdità della sua fede. Ma i suoi successori hanno progressivamente sviluppato una teologia, un modo di guardare al mondo e all’uomo, che non aveva niente da invidiare alla filosofia greca. Pur con tutti gli episodi violenti che si possono rievocare, la battaglia tra Gerusalemme e Atene è stata anche, e forse soprattutto, un confronto di idee, che si è conclusa non con la distruzione del nemico, ma con la conservazione (parziale, sia ben chiaro) del suo patrimonio. E con la comprensione dell’importanza dell’intelligenza e delle parole nella vita degli uomini. Era una delle idee che stava alla base del discorso di Ratzinger. Non c’è bisogno di essere credenti per riconoscere che non aveva tutti i torti.
Naturalmente, non si vuole con questo affermare che tutti i problemi siano stati risolti. «Io», aveva risposto Gesù Cristo, quando Ponzio Pilato gli aveva chiesto che cosa fosse la verità. Non è evidentemente una risposta che può soddisfare il non credente. Ma intanto si sono poste le basi per un terreno comune (quello della verità o dell’accordo) su cui ritrovarsi, in cui le istanze opposte possano esprimersi. È il problema della tolleranza, in altre parole, un principio fondamentale oggi che appare difficilmente compatibile con le idee di questi primi cristiani. Ma proprio il confronto con questa tradizione dovrebbe aiutarci a fare chiarezza, impedendo di fare della tolleranza un idolo vuoto: perché una tolleranza illimitata non può che scadere in un relativismo morale per cui ognuno si sente libero di fare quello che vuole a casa sua, disinteressandosi di quello che succede altrove.
Una società ha piuttosto bisogno di una serie di valori condivisi per potersi orientare tra i tanti conflitti potenziali che l’attraversano. E uno dei principi che più hanno contribuito al successo della tradizione cristiana è stato quello di una comunanza di tutti gli esseri umani - «senza distinzioni di genti e classi, liberi e schiavi», scriveva Benedetto Croce.
L’appartenenza degli esseri umani a un’unica famiglia. È un’idea che era stata abbozzata nel mondo greco (dagli stoici) e che sarà ripresa in tutt’altro modo dall’Illuminismo con lo sviluppo dell’idea dei diritti umani. È un’idea che sta alla base della civiltà europea. E di cui andare tanto più orgogliosi proprio oggi che viene criticata da più parti, vuoi perché sentita come una forma sottile di imperialismo vuoi perché incapace di difendere la nostra specificità rispetto alle altre civiltà. Senza negare le violenze che indubbiamente ci sono state, ma consapevoli della nostra storia.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Le cause del declino: la politica culturale di Berlino e la «sbornia analitica»
La filosofia tedesca è morta. Dopo 300 anni
La recente scomparsa di Pöggeler e di Theunissen ha segnato la fine del Novecento. Non bastano Sloterdijk (sempre brillante) e Gabriel (molto meno)
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura)
La filosofia tedesca contemporanea non è che una pallida controfigura di quella del Novecento. I motivi che hanno contribuito a questo declino sono molteplici. Negli ultimi vent’anni è cambiata anzitutto la politica culturale della Germania, che ha preferito puntare sulle materie scientifiche piuttosto che su quelle umanistiche. A farne le spese è stata la filosofia il cui pur forte prestigio non ha arginato il discredito in cui è caduta. Ma la vera novità è che la «filosofia continentale » è stata soppiantata dalla «filosofia analitica», importata dai Paesi anglosassoni. Interi dipartimenti, roccaforti dell’idealismo tedesco, della fenomenologia, dell’ermeneutica, sono caduti nelle mani degli analitici, in un conflitto senza esclusione di colpi.
A Tubinga, patria di Hegel e Schelling, vengono oggi offerti anonimi corsi di teoria della scienza; a Heidelberg, sulla cattedra che è stata di Jaspers prima, di Gadamer poi, siede un analitico che insegna in inglese «filosofia della mente».
A nulla sono valsi gli appelli che i filosofi da tutto il mondo hanno inviato alle autorità tedesche. Come a nulla è servita la petizione, lanciata il 9 marzo scorso e firmata da oltre tremila filosofi - da Jean-Luc Nancy a Judith Butler - per evitare che, sull’onda del dibattito suscitato dai Quaderni neri, venisse soppressa la cattedra di Friburgo intitolata a Martin Heidegger; con la scusa di introdurre una Juniorprofessur, cioè un posto per un giovane studioso, che peraltro si occupi di filosofia analitica, la celebre cattedra di fatto è già stata eliminata.
La difficoltà in cui si dibatte oggi la filosofia tedesca, nella sua affannosa ricerca di una nuova identità, ha a che fare con Heidegger. Incapace di uscire dal cono d’ombra proiettato dal suo pensiero, prova a demolirne la figura. Così diventa molto più facile cancellare con un colpo di spugna non solo Heidegger, ma anche il passato recente che pesa sempre di più: la fine dell’ebraismo tedesco, le leggi di Norimberga, la Shoah.
Al contrario di quel che è avvenuto altrove, la filosofia ebraica non ha mai fatto davvero breccia, e questi temi non sono stati considerati filosofici. Che cosa c’era di meglio, dunque, che ricominciare tutto da zero, aprendo le porte dell’università a un pensiero angloamericano, refrattario alla storia e poco propenso a intervenire nel dibattito politico? L’oculata regia di accademici come Jürgen Mittelstraß non basterebbe altrimenti a spiegare il successo delle correnti analitiche.
Quando, nel 2002, è morto Gadamer, allievo di Heidegger, fondatore dell’ermeneutica, la situazione era già mutata. Oggi che, dopo la scomparsa recente di Otto Pöggeler, il 10 dicembre 2014, e di Michael Theunissen, il 18 aprile 2015, si può dire concluso il capitolo del Novecento, c’è da chiedersi se abbia giovato alla filosofia tedesca quell’atteggiamento autodistruttivo che ha finito per nuocere non solo all’ermeneutica - ne sono rimasti coinvolti anche personaggi come Hans Blumenberg - ma anche alla fenomenologia.
Se i ponti costruiti da Ernst Tugendhat tra ermeneutica e filosofia analitica restano solidi, più pericolanti sono quelli gettati da Bernhard Waldenfels che ha tentato di sganciare la fenomenologia dall’ermeneutica e di rileggerla alla luce della tradizione francese. Certo sono ben pochi i nomi dei filosofi tedeschi che superano i confini nazionali. Non mancano figure di rilievo, come Julian Nida-Rümelin o Volker Gerhardt, pressoché sconosciuti, però, al grande pubblico europeo.
Nel complesso il paesaggio appare molto frastagliato. È sopravvissuta la «Scuola di Francoforte» grazie a Jürgen Habermas e ai suoi allievi, come Axel Honneth. Ma è difficile rinvenire nei loro scritti quell’afflato che aveva ispirato Horkheimer e Adorno nella loro critica radicale alla ragione.
Le opere di politica hanno in genere un carattere molto normativo. Accanto alla filosofia pratica, sono molto diffuse la bioetica, l’etica applicata, l’etica dell’ambiente, nonché tutte quelle specializzazioni con cui il pensiero si sforza di essere un’utile prassi. La ricerca teoretica, per quanto rigorosa e accurata, sembra incapace di aprire nuove prospettive, mentre mantengono un alto profilo la storia della filosofia e lo studio dei classici, greci e tedeschi, spesso dettato tuttavia da un interesse antiquario.
Costretta a misurarsi con il modello vincente della scienza, la filosofia tedesca del XXI secolo, quando non ha vestito i panni dell’epistemologia, ha finito per rifugiarsi nell’estetica. Di qui la grande mole di pubblicazioni nell’ambito della riflessione sull’arte e sull’immagine. A questo proposito si parla di Neuromantik, un «nuovo romanticismo», in cui si inscrive anche Peter Sloterdijk, l’unico filosofo tedesco che abbia raggiunto fama internazionale.
Dopo lo spettacolare successo del suo libro Critica della ragione cinica, uscito nel 1983, Sloterdijk ha mantenuto un ruolo di primo piano sulla scena filosofica tedesca grazie alle sue doti comunicative e a una brillante critica della globalizzazione, di stampo, però, fortemente conservativo. Oltre al poliedrico racconto dell’umanità, affidato ai tre volumi di Sfere (i primi due sono stati tradotti da Cortina), Sloterdijk ha pubblicato numerosi saggi, libri, pamphlet, che hanno suscitato accese polemiche. Hanno fatto scalpore alcune sue tesi, come quella in cui sostiene che lo «Stato finanziario», basato sulla tassazione, è una sorta di «saccheggio».
Erede di Nietzsche e Heidegger, ne accentua il risentimento in modo talvolta parossistico. Viviamo in un’epoca post umana, nella quale riemerge la «bestialità» dell’uomo e diviene tangibile il fallimento dell’umanismo. Paradigmatico è il titolo di una raccolta: Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger. Nostalgia del passato e una certa aspirazione all’ordine attraversano il suo ultimo libro Die schrecklichen Kinder der Neuzeit («I terribili figli della modernità») pubblicato da Suhrkamp nel 2014.
Se le pagine di Sloterdijk sono sempre coinvolgenti, non si può dire altrettanto per quelle di Markus Gabriel, anche lui ospite del Salone internazionale del Libro di Torino. Perché il mondo non esiste si intitola il suo bestseller, appena pubblicato in Italia da Bompiani. Il libro di Gabriel ruota intorno alla tesi che il mondo, inteso come un insieme di oggetti, non esiste. Ma non l’aveva già detto Heidegger? Il mondo è piuttosto un esistenziale, viene cioè tratto alla luce dall’essere umano che vi soggiorna.
L’intento di Gabriel, che si serve di Heidegger leggendolo attraverso le lenti riduttive della filosofia analitica, è però ben diverso: si tratta di dimostrare che il mondo esiste al plurale e che gli oggetti possono essere colti in sé, nei molteplici «campi ontologici» in cui si rendono accessibili. Contro Kant, contro il postmodernismo, contro Derrida, sarebbe questa la via per salvare la «realtà». È difficile credere che - come auspica Gabriel - attraverso queste speculazioni, a dir vero molto antiche, la Germania possa tornare a essere di nuovo leader sul «mercato». L’impressione è, al contrario, che volge al termine un predominio di quasi trecento anni. I protagonisti del dibattito filosofico parlano ormai altre lingue.
Eilenberger e la filosofia in Germania
di Francesca Rigotti (Doppio Zero, 11.09.2018)
La filosofia di lingua tedesca è molto cambiata nell’ambito degli ultimi due decenni: da una parte la filosofia accademica universitaria; dall’altra, la filosofia «popolare» che incide su un folto pubblico con la sua presenza mediale. Diversamente che in Italia però, i due campi sono occupati da personaggi differenti. In Italia partecipano ai festival filosofici, sempre più diffusi da un ventennio a questa parte, gli stessi personaggi che esercitano la loro professione di docenti nelle università. Le medesime persone, in Italia, occupano anche le pedane mediatiche. Ma soprattutto, i pensatori accademici vengono, sempre in Italia, proposti, se magari non perfettamente recepiti e compresi, anche al pubblico generico televisivo. Non tutti allo stesso modo: alcuni hanno la brandina su cui dormire dietro le quinte dello studio, tanto la loro presenza è assidua; altri ci capitano di rado (le donne per esempio), ma non è questo il punto.
In Germania è stato così ancora per Habermas, Popper o Jaspers: i loro libri trovavano grossa attenzione ovunque, le loro teorie venivano assorbite ed elaborate da un pubblico non necessariamente specialistico. Oggi invece le direzioni sono diverse. Da una parte la filosofia accademica universitaria si orienta agli Stati Uniti, parla e scrive in inglese, pubblica non più libri, trattati o altro, ma articoli e saggi su riviste specializzate in lingua inglese. I «libri» di filosofia sono a questo punto le pubblicazioni di tesi di master e di dottorato che nessuno legge ma che servono per andare in cattedra. I professori universitari non scrivono praticamente più libri diretti a un grosso pubblico intellettuale.
Dall’altra parte troviamo la filosofia popolare, i cui protagonisti sono Peter Sloterdijk - con le sue esortazioni a praticare una filosofia che esca dal «grembo delle università», per entrare «sugli schermi, nelle scuole e nei festival popolari»; David Precht, e ora anche Wolfram Eilenberger e Barbara Bleisch, malvisti dalla filosofia accademica.
Oltre a ciò già da tempo è stata abolita, in Germania, l’obbligatorietà della materia scolastica della filosofia dalle scuole superiori, come pure è stato da tempo soppresso un corso preparatorio alle discipline scientifiche, chiamato Philosophicum, che introduceva gli studenti alle problematiche etiche e alle dimensioni umanistiche in genere. In Germania la filosofia come materia scolastica è sì presente in alcuni licei ma non è obbligatoria. Dove è insegnata, in genere da un insegnante di religione o di tedesco immolatosi alla causa, è disciplina facoltativa e insegnata sovente con poco rigore, slegata dal contesto storico e proiettata sulla libera discussione di alcune idee, prevalentemente dilemmi morali in linea con la tradizione protestante. Ancora una differenza con l’Italia, dove «filosofia» resiste (non sappiamo fino a quando) in molti licei come materia obbligatoria, per quanto in forma di storia della filosofia (il che non è poi da buttar via...).
Insomma in questa situazione Wolfram Eilenberger, pur sempre fondatore e ex capo-redattore della più diffusa rivista tedesca di filosofia popolare, Philosophie Magazin, che si vende nei chioschi delle stazioni e in città in numeri molto alti (60.000 esemplari!), e ora conduttore della trasmissione televisiva zurighese Sternstunde Philosophie della quale dirò qualcosa in seguito, ha iniziato un dibattito sui giornali nei quali dichiara il suo livello di stima nei confronti della filosofia accademica: zero.
Dove è finito il paese di Leibniz e Kant, Hegel e Schopenhauer, Nietzsche e Arendt? Vedi su questo l’illuminante saggio di Donatella De Cesare, “La filosofia tedesca è morta, dopo 300 anni”.
Il vuoto del pensiero tedesco lo si può rilevare, sostiene Eilenberger, nel fatto che la filosofia si è messa a correre dietro al modello delle scienze naturali: così la costrizione a pubblicare in lingua inglese e soltanto in determinate riviste (a pagamento) per entrare nel ranking e ricavare un numero alto di citazioni, il conformismo, la spasmodica ricerca di costruirsi una carriera con questi mezzi fanno sì che si producano prevalentemente quelli che Hannah Arendt chiamava «pensieri congelati», parole aride e senza vita per quanto precise e meticolose. Parole in inglese però, e prive di carattere nazionale: non si può e non si deve parlare di filosofia tedesca (o di pensiero italiano) più di quanto non si può parlare di fisica o di chimica di questo o quel paese, affermano gli avversari di Eilenberger e in genere i filosofi analitici, i quali a loro volta accusano Eilenberger di romanticismo e di falsa esaltazione del genio e della magia (si pensi al titolo originale del libro di Eilenberger, Die Zeit der Zauberer, Il tempo dei maghi, più che degli stregoni) e del carisma dei filosofi.
Immagino che Eilenberger concorderebbe con la posizione di Protagora. Nelle battute iniziali del dialogo platonico Protagora, l’omonimo sofista è sollecitato a dimostrare che la virtù è insegnabile. Spiegando la sua posizione Protagora aggiunge:
«Socrate, non mi rifiuterò; preferite però che ve lo dimostri raccontando un mito, come gli anziani ai più giovani, o con un ragionamento» (mython legon epideixo e logo diexelthon)? Molti dei presenti risposero che scegliesse lui. «Mi sembra più piacevole - disse - raccontarvi un mito». E via col mito della nascita dell’uomo animale nudo e indifeso. Secondo Protagora - ma la posizione è condivisa dallo stesso Platone - ci sono due modalità, perfettamente equivalenti, di sostenere una dimostrazione: col logos, il ragionamento astratto, la raccolta e il calcolo (léghein); oppure col mythos, non favola destituita di verità, ma racconto, narrazione. Dimostrazione mythica o dimostrazione logica, in alternativa dunque, ma dove la prima ha una carica di piacevolezza sconosciuta alla seconda: è infatti più aggraziata (chariesteron), contiene maggior piacevolezza e diletto. Troppo facile rispondere alla domanda su quale stile filosofico preferisca Eilenberger. Il quale immagino non abbia nulla nemmeno contro l’uso dell’associazione di pensiero che si pratica con analogie, metafore e metonimie, demonizzato spesso dalla corrente logico-analitica e dai critici - mettiamoci dentro anche loro, dài - del politicamente corretto.
Dicevo che Elenberger conduce una trasmissione filosofica, notizia con la quale concludo questa breve esposizione: la perla dei programmi cultural-filosofici svizzeri di lingua tedesca, la trasmissione Sternstunde (L’ora delle stelle) Philosophie.
Si tratta dell’unico luogo in cui, sui media della Svizzera tedesca, viene esplicitamente usata la parola «filosofia», assente dalle rubriche dei quotidiani e dei settimanali o di altri programmi radiotelevisivi, in cui si discute magari, e anche spesso, di filosofia, ma senza usare esplicitamente il termine. Gli ospiti della Sternstunde Philosophie, che viene trasmessa alle 11 del mattino della domenica come una specie di messa laica, non sono soltanto filosofi ma anche personalità del mondo della cultura, dell’arte, della scienza, della politica e/o dell’economia. Quel che è decisivo tuttavia è che le persone vengono interrogate in maniera approfondita, intorno al generale e al particolare del loro pensare e operare, si chiede loro di riflettere sul perché questa o quella situazione vengono presentate così e non in un altro modo. Nel rispetto del pubblico televisivo si pongono questioni accurate con cui si richiedono risposte profonde e dettagliate sul senso e sul fine, sulle cause e sulle speranze, sui desideri e le utopie. Insomma si fa filosofia. Condotti e moderati (anche) da Eilenberger.
"LA CHIESA, CORPO DI CRISTO", LA PAROLA DEL PAPA, E LA NECESSITA’ DI UNA "UMILTA’ NUOVA". IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO.... *
Pedofilia: la parola profonda e tagliente del Papa.
Se nella Chiesa c’è chi fa muto Dio
di Marina Corradi (Avvenire, sabato 15 settembre 2018)
C’è fra alcuni di noi una stanchezza. Gli episodi di pedofilia nella Chiesa emergono dal passato molto più numerosi di quanto li avremmo mai creduti. Si delinea un male sotterraneo, taciuto, e quasi, in certi ambienti, tollerato. È un’onda fangosa quella che si solleva dall’Irlanda, dagli Usa, dall’Australia e da altrove. Fa scandalo, come è giusto, e fa molto rumore. E appunto alcuni credenti, pure avviliti e addolorati, cominciano a avere una reazione tuttavia di insofferenza: non si sente parlare che di pedofilia, obiettano, non c’è solo questo, la Chiesa è ben altro. La Chiesa, dicono, è piena uomini e donne che fanno del bene senza fare rumore, è fatta anche di missionarie e missionari coraggiosi, di bravi parroci, di suore che curano i figli dei poveri, di laici generosi. È fatta la Chiesa, anche di sconosciuti santi, e di martiri.
Ed è tutto assolutamente vero. Eppure, il Papa giovedì scorso a dei vescovi di recente nomina, tornando sul dramma della pedofilia fra consacrati, ha detto parole drammatiche. Ha detto che le nostre risposte «saranno prive di futuro se non raggiungeranno la voragine spirituale che, in non pochi casi, ha permesso scandalose debolezze, se non metteranno a nudo il vuoto esistenziale che esse hanno alimentato. Se non riveleranno - ha proseguito - perché mai Dio è stato così reso muto, così messo a tacere, così rimosso da un certo modo di vivere, come se non ci fosse».
Dio reso muto. Dio messo a tacere, come se non esistesse. Etsi non daretur. E hanno vissuto, e vivono, così persone consacrate. Taglia come un rasoio questa parola del Papa. Come il bisturi del chirurgo che, aprendo il petto di un paziente, scopre che è ampio, il male da asportare. Non minimizza il Papa, non si consola pensando a tutto il bene fatto dalla Chiesa. Sembra dirci che occorre prendere coscienza del male, tutto intero, di quanto profondo sia stato - tanto da ammutolire Dio.
Francesco ci fa stare davanti al peccato che ha intaccato la Chiesa, senza scappatoie. Un peccato che, nel dolore delle vittime, nel loro scandalo, riguarda anche noi. Coloro che parlavano a dei bambini di Dio erano gli stessi che ne abusavano: ingenerando in loro il pensiero che né degli uomini, né di Dio ci si può fidare. Pensiero che annienta, colpo di scure su giovani piante.
Dio reso muto, Dio rimosso, proprio da chi doveva insegnare ad amarlo. Il dito del Papa non smette di indicarci ciò che è stato. Noi, forse, avremmo la tentazione di dimenticarcene. D’accordo, lo sappiamo, basta adesso. Perché abbiamo il vizio di pensare che gli uomini e le istituzioni siano "buoni", oppure "cattivi". La Chiesa è "buona", e dunque non tolleriamo di constatare quanti abbiano potuto tradire, e nel modo peggiore, con dei bambini. Ci umilia troppo il ricordarlo.
Ma la Chiesa, corpo di Cristo, è fatta da uomini. Contiene in sé, come il cuore di ogni uomo, possibilità di luce e di buio, di generosità fedele e silenziosa, di eroismo, ma anche di diserzione vigliacca, sotto a ordinate apparenze. E chi conosce il labirinto del suo cuore, e a una certa età almeno bisognerebbe conoscerlo, può guadare allo scandalo che il Papa continua a indicarci, senza domandare che si parli d’altro.
Si può stare a viso aperto davanti a tanto male compiuto in mezzo a noi, solo se non ci si sente orgogliosamente "buoni", "onesti", intoccabili dalla miseria umana. Nessuno è buono, ci ha insegnato Gesù Cristo. Siamo tutti poveri, dei miserabili che mendicano la grazia di Dio. È quella grazia, domandata ogni mattina, che ci permette di fare del bene, che ci allontana dalla attrazione del male. Non un nostro essere "bravi".
«Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore» era la litania dei monaci della tradizione greco-bizantina, ripetuta come un respiro, come una domanda inesausta. In questa coscienza di mendicanti possiamo stare di fronte alle parole del Papa, al tragico Dio muto che ha evocato, e non perdere il coraggio. In un travaglio che potrebbe portarci a una umiltà nuova.
Nessuno è buono, e c’è in ciascuno di noi la possibilità del male. Bisogna ostinatamente domandare. Il peccato dentro la Chiesa che si leva alto come un’onda non ci travolge, se non lo censuriamo; ma, più coscienti del nostro e altrui male, ci ricordiamo che l’autentica santità, come ha concluso l’altro giorno Francesco, «è quella che Dio compie in noi».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
"UN UOMO PIÙ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia). La fine della dominazione maschile... *
Un cambiamento epocale
di Lucetta Scaraffia (Osservatore Romano, 12 settembre 2018)
La fine della dominazione maschile - trasformazione storica alla quale stiamo assistendo nel mondo occidentale - costituisce senza dubbio un evento sociale di specie rara, che tocca la società nel profondo, cioè nella maniera in cui si costituisce e si perpetua. Queste le considerazioni del filosofo francese Marcel Gauchet, che in un recente saggio affronta il tema nella sua complessità, mettendo in evidenza, innanzi tutto, che abbiamo la possibilità «per la prima volta nell’avventura umana, di entrare nelle ragioni che hanno presieduto questa organizzazione arci-millenaria dei ruoli sessuali», talmente radicata che ha potuto passare per un tempo immemorabile come iscritta nell’ordine delle cose.
Talmente radicata che, scrive il filosofo, «esiste un legame intimo fra dominazione maschile e religione». Come hanno modellato insieme, a livelli diversi, l’esistenza collettiva, così oggi stanno subendo una profonda crisi che le coinvolge entrambe. Entrambe rispondevano a una esigenza profonda, quella di garantire l’esistenza di una società, assicurando la continuità della sua cultura e l’identità della sua organizzazione al di là del rinnovo dei suoi membri.
Le donne detengono il potere di assicurare la riproduzione fisica del gruppo umano, gli uomini quella culturale: nelle società tradizionali la potenza di procreare era controbilanciata da una potenza equivalente, ma la superiorità dell’ordine culturale - trascendente rispetto alla precarietà della vita biologica - diventava la base della dominazione maschile. L’essenza della mascolinità stava nella possibilità di elevarsi al di sopra del suo sesso per raggiungere lo statuto di individuo universale.
Questo tipo di organizzazione ha cessato di esistere, provocando trasformazioni radicali sia nelle condizioni della riproduzione biologica sia in quelle della riproduzione culturale, cambiando radicalmente i riferimenti al maschile e al femminile. -Oggi la dimensione culturale esplicita e consapevole è stata assorbita da quella implicita del processo sociale. Come lucidamente osserva Gauchet, «quello che è fondamentalmente cambiato è il modo in cui le società assicurano la loro traversata nel tempo». La dominazione maschile ha perduto la sua ragione d’essere, e proprio per questo i fondamentalismi insistono tanto sul rapporto fra i sessi, tema che sembrerebbe periferico rispetto a una visione religiosa del mondo.
Il lucidissimo saggio suggerisce nuove e importanti linee interpretative del cambiamento in atto nella società e nella famiglia, ma rispetto alla religione Gauchet cade nell’errore di considerare tutte le forme religiose come patriarcali: per quanto riguarda il cattolicesimo, ha certo ragione se pensiamo all’istituzione, ma non ce l’ha se pensiamo al suo fondamento sacro, i vangeli. Lì la testimonianza di Gesù rovescia in mille modi la stratificazione patriarcale in cui vive, con modalità che hanno influito potentemente sullo sviluppo storico dell’occidente. Se, come sosteneva il teologo ortodosso Ignazio Hazim, poi patriarca di Antiochia, la missione di tutte le Chiese «è quella di essere la coscienza viva e profetica del dramma di questo tempo» oggi un ritorno più consapevole al testo evangelico può consentire alla Chiesa di presentarsi nuovamente come messaggio profetico, diventando così il laboratorio nel quale saranno concepite le basi culturali della nuova società. Donne e uomini insieme.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
"UN UOMO PIÙ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia). LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
CULTURE
Scoprì le stelle pulsar ma il Nobel andò al suo professore: 44 anni dopo, l’astrofisica si prende la sua rivincita
Jocelyn Bell Burnell era solo una studentessa di Cambridge negli anni ’70 e, per di più, donna. Come "risarcimento" riceverà un premio da 3 milioni di dollari
di Huffington Post (07.09.2018)
Per la scoperta delle stelle pulsar - merito suo - l’astrofisica britannica Jocelyn Bell Burnell non ricevette alcun premio. Anzi, il Nobel per la Fisica, che le spettava, invece che a lei andò al suo professore. D’altronde lei era solo una studentessa di Cambridge, giovane e per di più donna. Oggi, però, la scienziata si è presa una rivincita: in USA le è stato assegnato lo "Special Breaktrough Prize", un premio finanziato dai miliardari della Silicon Valley, del valore di 3 milioni di dollari.
Basterà questo risarcimento tardivo a compensare lo "scippo" del Nobel? "Sono rimasta assolutamente senza parole", ha affermato Jocelyn ai media dopo aver appreso la notizia, "e chiunque mi conosce sa che non sono mai senza parole. Non era mai entrato neppure nei miei sogni più bizzarri".
Jocelyn Bell Burnell fu autrice di una delle maggiori conquiste scientifiche del XX secolo. Nata nel 1943 in Irlanda del Nord, Jocelyn era arrivata all’università di Cambridge per un dottorato. Fu proprio durante il periodo di studio, precisamente nel 1967, che fece l’importante scoperta: mentre esaminava i dati provenienti da un radiotelescopio che aveva aiutato a costruire, si accorse di un segnale insolito, onde radio che pulsavano a intervalli regolari. "Me ne sono accorta perché ero molto attenta, molto precisa, a causa della ’sindrome dell’impostore’", ha raccontato al Guardian. Il riferimento è a quella sensazione di essere sempre in errore: Jocelyn dubitava delle proprie capacità e temeva di poter essere cacciata da Cambridge.
Fu il professore il primo a "smontarla": le disse che quel segnale era semplicemente un’interferenza, di origine umana.
Lei non si arrese: raccolse ulteriori dati e rilevò tre diversi impulsi radio provenienti da diverse parti della galassia. Questi provenivano da stelle pulsar, le quali, quando ruotano su se stesse, emettono onde radio che si diffondono nello spazio come da un faro cosmico.
La scoperta fu talmente sensazionale da guadagnarsi il Nobel, che però non andò a Jocelyn ma al suo professore. "Ero soltanto una studentessa", commenta oggi la scienziata. Come per riscattare il torto subito, l’astrofisica donerà i 3 milioni vinti per finanziare gli studi scientifici delle giovani donne.
"SAPERE AUDE!". USA IL CERVELLO!.... *
La ricerca. Cervelli impavidi
Il coraggio, se non ce l’hai te lo danno i neuroni
Nell’ippocampo cellule nervose che azzerano la paura
Le hanno localizzate gli scienziati svedesi studiando i topi che sfidano i gatti
di Giuliano Aluffi (la Repubblica, 09.09.2018, p. 19)
Chi salta da un dirupo, casomai munito di tuta alare per volare via sfrecciando sulle punte degli alberi, è certo un temerario, ma questo sprezzo del pericolo, più che indicatore di forte personalità, potrebbe essere soltanto un dono di natura, legato all’attività di un gruppo particolare di neuroni detti "i neuroni del coraggio". Già noti come gli "interneuroni OLM", si pensava fossero soltanto associati al consolidamento dei ricordi. Il loro ruolo chiave nei comportamenti spavaldi è oggi rivelato da uno studio pubblicato su Nature Communications, che pone le basi per possibili nuove terapie anti ansia e anti disturbo da stress post-traumatico. È un passo avanti rispetto a un recente studio giapponese che mostrava il ruolo della dopamina nello spezzare i riflessi condizionati legati alla paura in assenza di reale pericolo - la dopamina infatti si libera quando una situazione si rivela migliore di quanto temuto.
Il nuovo studio, infatti, riguarda il comportamento in presenza di reali segnali di rischio, ed è quindi più propriamente legato al coraggio.
«L’attività di questi neuroni può azzerare la paura» spiega Klas Kullander, capo del dipartimento di genetica all’Università di Uppsala, in Svezia. «Se al centro di una stanza si mettono a terra dei peli di gatto, i topi normali non osano allontanarsi dai muri perché sentono l’odore del nemico. Ma se stimoliamo i suoi neuroni OLM, il topo si avventurerà senza timore in mezzo alla sala, e calpesterà i peli di gatto come se non ci fossero. Funziona anche l’inverso: disattivando questi neuroni, il topo diventa più timoroso degli altri».
A dare tanto potere ai neuroni OLM è la loro posizione cruciale. «Si trovano vicino ai neuroni principali dell’ippocampo, quelli piramidali, che connettono all’ippocampo due regioni cerebrali importanti come la corteccia prefrontale, sede della cognizione, e l’amigdala, sede della paura» spiega Kullander. «Quando vediamo qualcosa di allarmante la corteccia prefrontale e l’amigdala si attivano entrambe per decidere se siamo in pericolo oppure no. I neuroni OLM ricevono sia il responso dell’amigdala che quello della corteccia prefrontale, fanno un bilancio tra i due e lo trasmettono all’ippocampo. Quando questi neuroni sono molto attivi ed emettono un certo tipo di oscillazioni, dette oscillazioni Theta, il cervello decide che sì, la situazione sarà pure rischiosa, ma noi siamo al sicuro».
Una particolarità di questi neuroni è che hanno dei recettori per la nicotina: «Fumando, li si stimola» spiega Kullander. «Forse è per questo che molti tendono a fumare di più quando sono nervosi». «Se individuassimo altri recettori, oltre a quelli per la nicotina, posseduti soltanto da queste cellule, potremmo sviluppare un farmaco anti ansia molto mirato, che non tocchi altre parti del cervello» spiega il coautore dello studio, Richardson Leão, docente di neuroscienze alla Federal University di Rio Grande do Norte.
In certi casi, invece, può essere salvifico aumentare l’ansia: «È il nostro prossimo progetto: salvare la vita ai topi infetti da toxoplasmosi. Per scongiurare la trasmissione agli uomini», spiega Leão. «Il parassita della toxoplasmosi per completare il suo ciclo di vita deve entrare nel cervello dei gatti. Ma il suo primo ospite è il topo. Quando il Toxoplasma gondii li infetta, i topi perdono la paura del gatto e addirittura scambiano gli odori del gatto per irresistibili feromoni». Gettandosi entusiasti tra le fauci dei felini e dandola vinta al parassita. «Vogliamo ridare a questi topi la paura dei gatti. E fermare questa zoonosi, assai rischiosa per chi ha il sistema immunitario compromesso» spiega Leão. «Studi dicono che i guidatori con Toxoplasma gondii hanno probabilità di fare incidenti più che doppia rispetto agli altri».
Il nuovo studio
Il coraggio e i Colleoni
di Marino Niola (la Repubblica, 09.09.2018, p. 26)
Il coraggio si trova nei luoghi più impensati, diceva Tolkien. Forse per questo, da che mondo è mondo, gli uomini lo hanno sempre cercato in ogni dove. Nei meandri del corpo e nei ripostigli dell’anima, nella speranza di trovarne almeno quel briciolo che basti a non farsi sopraffare dalle proprie paure. Adesso due neuroscienziati annunciano di aver scovato il nascondiglio.
I ricercatori, lo svedese Klas Kullander dell’Università di Uppsala e il brasiliano Richardson Leao dell’Ateneo di Rio Grande, hanno pubblicato sulla rivista Nature Communications i risultati di uno studio, secondo il quale la centrale del coraggio si troverebbe nei cosiddetti neuroni dell’ippocampo.
Se siamo davanti a uno storico score scientifico è ancora presto per dirlo, ma la notizia sta già facendo sognare. Sia quelli che pensano di non avere abbastanza coraggio, sia quelli che sanno per certo di non poterselo dare da soli, come il don Abbondio manzoniano. E allora ben venga un farmaco, un microchip, un placebo incoraggiante che faccia friccicare nella maniera giusta quei neuroni, che, a detta degli studiosi, «a seconda del ritmo diverso con cui si attivano, fanno sì che un topo sia spaventato dal pelo di un gatto oppure non ne sia per nulla impressionato». Il che, trasposto qualche gradino più in su della scala evolutiva, significa che se l’ippocampo ci gira bene davanti a un rapinatore, anziché farcela sotto, saremmo in grado di reagire col sorriso sulle labbra prima di passare al contrattacco.
Resta il fatto che Kullander e Leao continuano, con gli strumenti di oggi, un’indagine iniziata da millenni. E che ha cercato ogni volta in un organo diverso la sede del coraggio. A partire dal cuore, da cui viene la parola stessa coraggio, che deriva dal latino coraticum, che significa letteralmente "aver cuore". Come il quasi invulnerabile Achille, o il leggendario re Riccardo, passato alla storia come il "Cuor di Leone".
Poi col tempo l’audacia e lo sprezzo del pericolo hanno traslocato al piano inferiore e sono andati a sistemarsi nel fegato. Essere dotato di fegato è stato ed è ancora sinonimo di valoroso, eroico, impavido. Lo raccontava già la mitologia greca che faceva di Prometeo, l’eroe che ha l’ardire di rubare il fuoco agli dei per donarlo ai mortali, l’uomo di fegato per antonomasia. Tant’è vero che Zeus lo punisce facendogli divorare h24 il fegato da un’aquila.
In tempi più recenti la location è scesa ancora più in basso e ha scelto un indirizzo genitale. Coraggioso è chi ha le palle. Ne sapeva qualcosa Bartolomeo Colleoni, il fiero capitano di ventura il cui nome di famiglia derivava dal latino coleus, testicolo. Ne andava così orgoglioso che ne mise ben tre sul suo stemma nobiliare. E andava in battaglia gridando «Coglia, coglia», un’esternazione dal senso inequivocabile. Per la stessa ragione cibarsi di testicoli di toro in Spagna e in altri Paesi a machismo spinto è roba da persone con gli attributi. Come dire una virilità ad alto tasso di testosterone.
E adesso la scienza potrebbe aiutarci a cancellare per sempre la paura. Attenzione però alle controindicazioni di un coraggio senza limiti. È vero che siamo nella civiltà della competizione spinta. Ed è vero pure che quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare. Ma non è detto che vincano. In fondo, come dicono gli etologi, la paura è il più geniale espediente inventato dall’evoluzione per decidere quando conviene osare e quando scappare. Al contrario, non temendo più niente e nessuno, rischiamo di trasformarci in un esercito di colleoni.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI")
Federico La Sala
Come siamo evoluti: da doppi “sapiens” a tripli “stupidus”
Lo psichiatra Vittorino Andreoli analizza “l’agonia di una civiltà” fin dall’errore di porre “Homo” all’apice dell’albero della vita, a oggi che ha messo a riposo la neocorteccia
di Vittorino Andreoli (Il Fatto, 30.o8.2018)
Nell’Origine delle specie di Charles Darwin (pubblicato nel 1859) l’uomo è posto all’apice dell’albero della vita con la definizione di Homo sapiens sapiens. Mi ha sempre colpito la ripetizione di sapiens, un rafforzativo legato, credo, al salto evolutivo della nostra specie che, rispetto a quello delle precedenti, deve essere subito apparso eccezionale, forse miracoloso. Considerando il significato del termine sapiens, tuttavia, questa sottolineatura appare del tutto ingiustificata, poiché il sapiente dovrebbe essere colui che giunge al vertice dell’umanità con comportamenti privi di qualsiasi aporia.
La definizione di Homo sapiens sapiens appare, dunque, emotiva e priva di significato letterale. Suona più come: “Sa tutto e altro ancora”. [...]. Partendo da queste osservazioni, c’è chi ha persino criticato le tappe evolutive darwiniane mostrando che, se venissero stabilite sulla base di specifiche funzioni (come quelle citate), la specie umana non si troverebbe affatto all’apice dell’albero della vita. [...]
A esprimere la sproporzione terminologica di quel doppio sapiens, è tuttavia l’uomo del tempo presente, che sembra essere smarrito e avere perduto quel beneficio della neocorteccia che giustifica per gli antropologi la generosità di quel doppio sapiens.
Si ha l’impressione che oggi l’uomo abbia messo a riposo la neocorteccia rinunciando a quel salto evolutivo che lo distacca dagli altri primati, come gli scimpanzé e, in particolare, i bonobo, che hanno raggiunto l’abilità di reggersi sugli arti inferiori, di potersi così guardare in faccia, accoppiarsi frontalmente (e non per monta) e persino baciarsi sulla bocca. Questa ipotesi regressiva non è fantasiosa: basta tenere conto dell’importanza raggiunta dalle tecnologie digitali, che rappresentano una vera e propria protesi del cervello e delle sue funzioni mentali. Ne può derivare una messa a riposo della neocorteccia con la delega a svolgere le sue funzioni alle “macchinette” digitali.
A dare una grande spinta alla nostra critica, è proprio l’osservazione di comportamenti dell’uomo che in nessun modo possono essere fatti rientrare nell’ambito della sapienza. Quel che si constata è che non si tratta di errori casuali o voluti all’interno di comportamenti dominanti positivi, ma di un vero e proprio errore strutturale che diventa pertanto comportamento precipuo, esclusivo, regola.
È per questo che l’aggettivo sapiens si dimostra del tutto inadeguato, rendendo invece corretto il ricorso a un termine antinomico: stupidus, Homo stupidus. Per simmetria, poi, occorre sottolinearlo due volte: Homo stupidus stupidus. Se si tenesse conto del livello di stupidità, si sarebbe anzi tentati di triplicarla per avere la certezza che, indipendentemente dal luogo in cui la specie Homo vada posta nell’albero della vita, non incontri alcuna concorrenza.
La parola “stupido” va usata nella sua espressione latina, stupidus, non solo per rispettare la consuetudine della terminologia antropologica, ma per distinguerla dal senso popolare che possiede in italiano. È considerato stupido chiunque non abbia, in una data circostanza, tenuto conto della realtà, e che si sia comportato in modo poco o per nulla intelligente.
Dal punto di vista etimologico, stupidus contiene la stessa radice di “stupore”, termine che descrive una sensazione inattesa e persino incredibile, che lascia cioè attoniti, sbalorditi. Incredibile che un uomo possa comportarsi in quel dato modo, ma incredibile soprattutto che lo possa fare una comunità intera, un popolo. [...] Ed è questa stupiditas che ora ci proponiamo di mostrare analizzando dapprima la Distruttività, poi La caduta dei princìpi che sono a fondamento della civiltà occidentale e, infine, descrivendo le caratteristiche dell’Uomo senza misura.
Wannsee 1942 e quella conferenza contro l’umano
«Verso la soluzione finale», un saggio per Einaudi di Peter Longerich, docente di storia tedesca a Londra A Villa Minoux sulle sponde del Wannsee si svolse la conferenza del 1942
di Claudio Vercelli (il manifesto, 29.08.2018)
Della conferenza di Wannsee, tenutasi nella Berlino nazista il 20 gennaio 1942, in piena guerra, quei pochi che la conoscono spesso ritengono di sapere tutto quello che occorre conoscere di essa, mentre gli altri ne ignorano integralmente la sua stessa esistenza. Va quindi subito detto in cosa consistette, almeno sul piano formale. Poiché la sua comprensione ci restituisce il quadro all’interno del quale andò definitivamente maturando la politica del genocidio razzista.
La materiale disponibilità di una copia del verbale della conferenza, redatto a caldo da Adolf Eichmann e conservatosi fino alla sua scoperta, nel 1947, rappresenta un’eccezione rispetto al calcolato oblio con il quale altri eventi di similare portata furono letteralmente resettati dalle memorie dei protagonisti nonché cancellati dal repertorio documentario. Fu infatti un simposio ristretto, aperto a una quindicina di alti funzionari e dignitari delle amministrazioni del Terzo Reich accomunate dall’essere coinvolte nell’identificazione di contenuti, pratiche e modalità della «soluzione finale della questione ebraica».
TRE ERANO I GRUPPI di partecipanti: gli esponenti degli organi statali, che garantivano la «legalità amministrativa» della scelta di assassinare undici milioni di potenziali vittime; i delegati delle autorità civili di occupazione, che dovevano gestire i luoghi in cui il crimine di massa si sarebbe consumato; i funzionari delle SS, in rappresentanza dei loro uffici centrali o di quelli distaccati nelle zone invase, ai quali era richiesta la competenza tecnica e l’azione concreta. La divisione dei ruoli non era per nulla armoniosa, scontando una vera e propria competizione tra gruppi corporativi.
In questo campo di tensioni, spicca la figura di Reinhardt Heydrich, capo della polizia di sicurezza, officiante della seduta e vero architetto della «sostenibilità» dell’omicidio di massa. Durante i brevi lavori della conferenza non si decise il merito del genocidio degli ebrei. Gli esponenti ministeriali, figure altolocate nella piramide burocratica ma non al supremo vertice politico, non ne avevano i titoli, le attribuzioni e men che meno la delega. Né si pervenne alla definitiva identificazione del «come» procedere alla distruzione dell’ebraismo europeo.
I fatti si erano già incaricati di dimostrare che nessuna procedura unitaria era fattibile se non ci si fosse costantemente confrontati con i continui mutamenti di scenario: esigenze belliche della Germania, disponibilità di mezzi di trasporto, competizioni tra amministrazioni naziste, conflitti di ruoli tra decisori ai massimi vertici istituzionali ma - soprattutto - l’oracolare «volere del Führer», che gli astanti erano chiamati a interpretare e tradurre in fatti concreti.
SEMMAI SI TRATTÒ di un evento all’insegna di un duplice movente: la corresponsabilizzazione per compromissione delle amministrazioni partecipanti e la delimitazione reciproca delle loro sfere di influenza.
Più che parlarci esclusivamente della volontà omicida del nazismo la conferenza di Wannsee ci restituisce quindi lo spaccato di un regime al medesimo tempo dittatoriale e policratico, dove la promozione e il perseguimento di obiettivi sempre più enfatici, estranei alla stessa condotta bellica, diventava il punto di raccordo e di sintesi tra l’ampissima articolazione di poteri e sottopoteri che costituivano lo Stato hitleriano.
Peter Longerich nel suo ultimo lavoro dedicato a Verso la soluzione finale. La conferenza di Wannsee (Einaudi, pp. 208, euro 26), pondera i fattori di quadro, restituendo al lettore il senso della complessità che stava alla base della definitiva trasformazione della Germania in una società omicida.
L’autore, docente di storia tedesca presso l’Università di Londra, e fondatore del Royal Holloway’s Holocaust Research Centre, in Italia è già conosciuto per un’ampia biografia dedicata a Joseph Goebbels, interamente costruita sui diari del ministro della propaganda. In questo nuovo libro si sforza di dare conto dei soggetti interessati, dei passaggi così come della mediazioni che compongo il processo decisionale che portò allo sterminio degli ebrei d’Europa.
L’INTELAIATURA e le procedure che legittimarono un tale esito, infatti, demandano perlopiù a eventi, gesti, affermazioni consegnati alla parola non scritta. Il doppio binario di un percorso che da una parte si poggiava sulle strutture dello Stato legale e, dall’altra, si rifaceva alla condizione di eccezione, ha reso difficile, spesso imprevedibile, non la comprensione dei risultati, ossia lo sterminio medesimo, bensì l’identificazione dei transiti intermedi, sottoposti ad un sistematico occultamento. Sono in realtà questi ultimi, invece, che ci restituiscono l’ampia compromissione di una pluralità di burocrazie nella realizzazione di un crimine ineguagliabile.
Del pari, analizzando come fa Longerich documenti e fonti disponibili, delle quali il verbale della conferenza era solo un pur importante tassello, diventa molto più comprensibile il reticolo di apparati che, prima ancora di impegnarsi nella prassi omicida, fecero sì che essa potesse concretamente assumere una plausibilità pseudo-morale, per poi trasfondersi in azioni tanto concrete quanto continuative.
Anche da ciò deriva al lettore la netta percezione della natura «moderna» dello sterminio, in quanto crimine burocratico, esercitato in una logica di totale anestetizzazione etica, dove i paradigmi dell’efficacia e dell’efficienza si sostituiscono a ciò che resta di una residua coscienza umana.
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo). *
Così Hannah Arendt descrisse (nel ’51) i populismi del Terzo millennio
L’inquietante attualità di “Le origini del totalitarismo”
di Christian Rocca (La Stampa, 23.08.18)
Le origini del totalitarismo, il saggio scritto nel 1951 dalla politologa Hannah Arendt, è considerato uno dei libri più importanti del XX Secolo per l’analisi dei movimenti politici totalitari d’inizio ’900, in particolare del nazismo e dello stalinismo (secondo Arendt, il fascismo era invece un movimento nazionalista e autoritario). All’indomani dell’elezione di Donald Trump, i giornali internazionali segnalarono la ritrovata popolarità del saggio di Arendt, assieme a 1984 di George Orwell, e rileggendo l’ultima parte del saggio, quella dedicata alla trasformazione delle classi in masse, al ruolo della propaganda e all’organizzazione dei movimenti, si capisce bene perché.
Arendt descriveva il nuovo soggetto politico come «la folta schiera di persone politicamente neutrali che non aderiscono mai a un partito e fanno fatica a recarsi alle urne».
Fuori e contro il sistema dei partiti, indifferenti agli argomenti degli avversari
Secondo Arendt, i movimenti totalitari europei «reclutarono i loro membri da questa massa di gente manifestamente indifferente, che tutti gli altri partiti avevano lasciato da parte perché troppo apatica o troppo stupida. Il risultato fu che in maggioranza furono composti da persone che non erano mai apparse prima sulla scena politica. Ciò consentì l’introduzione di metodi interamente nuovi nella propaganda e un atteggiamento d’indifferenza per gli argomenti degli avversari; oltre a porsi al di fuori e contro il sistema dei partiti nel suo insieme, tali movimenti trovarono un seguito in settori che non erano mai stati raggiunti, o “guastati”, da quel sistema».
Se l’analisi è familiare, è proprio perché ricorda il reclutamento popolare e di classe dirigente dei nuovi partiti populisti occidentali di questo scorcio di secolo. Allora come adesso, prendendo a prestito le parole di Arendt, questi movimenti «misero in luce quel che nessun organo dell’opinione pubblica aveva saputo rilevare, che la costituzione democratica si basava sulla tacita approvazione e tolleranza dei settori della popolazione politicamente grigi e inattivi non meno che sulle istituzioni pubbliche articolate e organizzate».
Arendt elenca gli errori dei partiti politici tradizionali e la complicità delle élite borghesi tra le concause del successo dei movimenti totalitari ma, di nuovo, è impressionante quanto la fotografia del risveglio delle masse di allora rimandi a quella attuale: «Il crollo della muraglia protettiva classista trasformò le maggioranze addormentate, fino allora a rimorchio dei partiti, in una grande massa, disorganizzata e amorfa, di individui pieni d’odio che non avevano nulla in comune tranne la vaga idea che (...) i rappresentanti della comunità rispettati come i suoi membri più preparati e perspicaci fossero in realtà dei folli, alleatisi con le potenze dominanti per portare, nella loro stupidità o bassezza fraudolenta, tutti gli altri alla rovina».
Una profezia sulle conseguenze politiche di un dibattito pubblico guidato dalla postverità
Anche le pagine dedicate all’organizzazione dei movimenti totalitari degli Anni Trenta sembrano cronaca dei nostri giorni: «Sono organizzazioni di massa di individui atomizzati e isolati, da cui, in confronto degli altri partiti e movimenti, esigono una dedizione e fedeltà incondizionata e illimitata; ciò da prima della conquista del potere, in base all’affermazione, ideologicamente giustificata, che essi abbracceranno a tempo debito l’intera razza umana» e, per questo, «sono stati definiti società segrete operanti alla chiara luce del giorno» perché, come queste, «adottano una strategia di coerenti menzogne per ingannare le masse esterne di profani, esigono obbedienza cieca dai loro seguaci, uniti dalla fedeltà a un capo spesso sconosciuto e sempre misterioso».
E se non fosse chiaro, anche in tempi di fake news e post verità, Arendt continua così: «Forse il massimo servizio reso alle società segrete come modello ai movimenti totalitari è l’introduzione della menzogna coerente come mezzo per salvaguardare il loro mondo fittizio. L’intera gerarchia dei movimenti, dall’ingenuo simpatizzante al membro del partito, alle formazioni d’élite, all’intima cerchia intorno al capo, e al capo stesso, può essere descritta dal punto di vista del curioso miscuglio di credulità e cinismo in varie proporzioni con cui ciascun militante, secondo il suo rango, deve reagire alle mutevoli affermazioni menzognere dei dirigenti e all’immutabile finzione ideologica centrale».
In un passaggio, citato anche dal recente libro di Michiko Kakutani, The Death of Truth, Arendt scrive: «In un mondo in continuo mutamento, e sempre più incomprensibile, le masse erano giunte al punto di credere tutto e niente, da pensare che tutto era possibile e niente era vero».
La grande novità degli Anni 30, che pare non sia servita da lezione al mondo contemporaneo, era che «la propaganda di massa scoprì che il suo pubblico era pronto in ogni momento a credere al peggio, per quanto assurdo, senza ribellarsi se lo si ingannava, convinto com’era che qualsiasi affermazione fosse in ogni caso una menzogna. I capi totalitari basarono quindi la loro agitazione sul presupposto psicologicamente esatto che in tali condizioni la gente poteva essere indotta ad accettare le frottole più fantastiche e il giorno dopo, di fronte alla prova inconfutabile della loro falsità, dichiarare di aver sempre saputo che si trattava di una menzogna e di ammirare chi aveva mentito per la sua superiore abilità tattica».
Pensando al nazismo e al comunismo, Arendt ha spiegato perché sono falliti i tentativi di neutralizzarli, e la spiegazione è più che mai attuale: «Uno dei principali svantaggi del mondo esterno nei rapporti coi regimi totalitari è stato costituito dal fatto che, ignorando tale sistema, esso confidava che la stessa enormità delle menzogne ne avrebbe causato la rovina o che, prendendo in parola il capo, sarebbe stato possibile costringerlo a rispettare gli impegni, a dispetto delle intenzioni ordinarie. -Il sistema totalitario è purtroppo al sicuro da queste conseguenze normali; la sua ingegnosità sta appunto nell’eliminazione di quella realtà che smaschera il bugiardo o lo obbliga ad adeguarsi alla sua simulazione». Quella di Arendt, insomma, è l’analisi storica sulle origini del totalitarismo, ma riletta oggi suona anche come una profezia sulle conseguenze politiche di un dibattito pubblico che non si basa più sui dati di fatto e che si lascia guidare dalla post-verità.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
È l’alternativa fra civiltà e barbarie.
La vera battaglia è per l’Europa
di Roberta de Monticelli (Il Fatto, 28.08. 2018)
“L’Europa è sull’orlo di una drammatica disgregazione, alla quale l’Italia sta dando un pesante contributo, contrario ai suoi stessi interessi”. Anche solo per questa frase, l’appello lanciato da Massimo Cacciari e altre autorevoli figure della cultura italiana dovrebbe essere ascoltato. Ciascuno dovrebbe meditare la sua drammaticità. Ed è quello che Cacciari stesso ci invita a fare in un intervento successivo, invitandoci a comprendere “che l’indifferenza è ormai equivalente a irresponsabilità”, e ad assumere “le iniziative che ritiene più utili per contrastare la deriva in atto”.
Alla politica - cioè all’opposizione - l’appello chiede una “netta ed evidente discontinuità”, che ponga al centro “una nuova strategia per l’Europa”. Perché tutti coloro che vogliono resistere alla deriva sovranista abbiano la possibilità di non perdere le prossime elezioni europee (23-26 maggio 2019), preparando così il suicidio dell’Unione. Credo e spero di andare nel senso di questo appello se mi chiedo: la discontinuità riguarda anche lo spirito con cui si guarda a queste elezioni?
Non ci fu niente di più insensibile al vero senso delle elezioni europee che la miope sicumera con cui Matteo Renzi attribuì a se stesso, al suo partito e alla sua politica nazionale l’inusuale consenso del 40% per il Pd nel 2014, come se appunto le elezioni del Parlamento europeo fossero un mezzo per rafforzare il partito e la sua politica nazionale, e non un mezzo per contribuire al compimento di una democrazia e di una politica sovranazionale.
Eppure sono state quelle le prime elezioni in cui la coalizione o il partito sovranazionale vincente (il Ppe) ha espresso il presidente della Commissione (Juncker). In cui cioè ha cominciato a incarnarsi nell’istituzione il principio del trasferimento di sovranità dagli Stati nazionali allo Stato federale, che sarebbe compiuto quando la Commissione fosse veramente divenuta l’esecutivo della Federazione, avocando a sé alcuni cruciali poteri ora caratteristici degli Stati e dei governi, e del loro Consiglio.
Altiero Spinelli nel suo Diario europeo 1948-1969 definisce il federalismo “un canone di interpretazione della politica”. Non soltanto un criterio d’azione, ma anche di conoscenza. “Tutta l’opera di Spinelli è espressione dell’esigenza di abbandonare il paradigma nazionale, con il quale la cultura dominante interpreta la realtà politica” (L. Levi, Introduzione a A. Spinelli, La crisi degli Stati nazionali).
Come si giustifica questa esigenza? Ognuno dovrebbe ricordare l’incipit del Manifesto di Ventotene: “La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico a tutti gli aspetti della vita sociale, che non lo rispettassero”. Ecco come ragiona Spinelli. In termini di interna coerenza del principio universalistico di civiltà definito in tutta la sua radicalità dall’Illuminismo europeo.
C’è un momento, pensa Spinelli, in cui questo principio di civiltà urta contro l’organizzazione delle società umane in Stati nazionali: perché tutti, anche quelli democratici, sono minati dalla polarizzazione della società in interessi organizzati “che si precipitano sullo Stato e lo paralizzano quando sono in equilibrio, e ne rafforzano sempre più il carattere dispotico, quando un gruppo o una coalizione di gruppi ha potuto sopraffare l’avversario e prendere il potere”.
Questa polarizzazione degli interessi organizzati, che Spinelli, sulla scorta dell’economista Lionel Robbins, chiama “sezionalismo”, è la forza che corrode le democrazie: “Oggi lottare per la democrazia significa rendersi anzitutto conto che occorre arrestare questa insensata corsa, non solo italiana, ma europea, verso una società polarizzata in interessi organizzati che si precipitano sullo Stato e lo paralizzano quando sono in equilibrio, e ne rafforzano sempre più il carattere dispotico, quando un gruppo o una coalizione di gruppi ha potuto sopraffare l’avversario e prendere il potere”.
Questo pensiero sembra attraversare la stagione dei partiti di massa - e da noi della Prima Repubblica - poi volare alto sulla “liquidità” post-ideologica - e da noi sopra il liquame immobile della Seconda Repubblica - fino a fotografare non solo il perdurante ingranaggio delle “macchine d’affari” partitiche di oggi, ma il dato nuovo e antico: le “forze primordiali” che la norma etica, giuridica, politica è chiamata a controllare. “L’uomo civile è un prodotto complicato e fragile. I più grandiosi frutti della civiltà sono dovuti alla ferrea disciplina che questa impone al selvaggio animo umano... quella disciplina si può spezzare e lasciar emergere le forze primordiali”. È questo pericolo che dobbiamo leggere nello sciagurato linguaggio dei demagoghi che stanno picconando l’Europa civile. È l’alternativa fra civiltà e barbarie.
VATICANO
Lo scandalo che il papa non riesce ad arginare
di Francesco Peloso, giornalista (Internazionale, 21 agosto 2018)
Un colpo durissimo per la chiesa, una scossa tellurica capace di fare tremare le fondamenta dell’istituzione. È questo l’effetto del rapporto di circa 900 pagine messo a punto da un grand giurì della Pennsylvania al termine di due anni di indagini sugli abusi sessuali commessi da rappresentanti del clero in sei delle otto diocesi dello stato negli ultimi settant’anni. Il quadro - così come presentato alla stampa da Josh Shapiro, procuratore generale dello stato - è devastante: più di trecento preti hanno commesso violenze sessuali, mille le vittime fra bambini e minori. L’ipotesi però è che siano molte di più: in tanti hanno avuto paura di denunciare i fatti mentre numerosi documenti sono stati distrutti o sono spariti dagli archivi segreti delle diocesi.
Proprio quest’ultimo è un punto chiave dell’indagine, la più ampia e completa mai condotta negli Stati Uniti. Dalle 500mila pagine di documenti analizzati sono emersi gli elementi che consentono di descrivere una strategia dell’insabbiamento messa in atto dalle gerarchie ecclesiastiche per nascondere gli abusi all’opinione pubblica ed evitare il carcere ai sacerdoti predatori (come vengono definiti). All’inchiesta ha contribuito anche l’Fbi. Alcuni agenti del Center for the analysis of violent crime hanno fatto venire alla luce i metodi di insabbiamento.
Tra le opzioni più frequenti spiccano quelle sul linguaggio, come l’indicazione di non usare mai il termine “stupro” ma la più asettica definizione di “comportamento inappropriato”. Soprattutto, è delineata una pianificazione del depistaggio con alcuni elementi ricorrenti: lo svolgimento di indagini incerte e superficiali, evitando che a condurle fosse un personale “adeguatamente formato”; il provvedimento, tutto di facciata, di mandare per qualche tempo il prete colpevole in una clinica psichiatrica o in un istituito specializzato per una opportuna “valutazione”; lo spostamento in un’altra diocesi del sacerdote di cui è certa la responsabilità. Per giustificare questi spostamenti, tutte le diocesi negavano le ragioni vere e parlavano invece di “esaurimento nervoso” o “congedo per malattia”. Un sistema di coperture che si fondava sul ruolo decisivo dei vescovi, cioè delle massime autorità della chiesa locale.
Evitare lo scandalo
Si tratta di uno scenario in parte noto, venuto alla luce a pezzi in varie inchieste e indagini negli ultimi anni, ma che ora trova una sua organicità e precisione tale da ridisegnare in modo definitivo il livello di responsabilità delle persone coinvolte nell’azione di copertura. La documentazione trovata negli archivi segreti delle diocesi riafferma un principio base che ritorna nelle indagini sugli abusi da parte del clero in varie parti del mondo: “evitare lo scandalo”, piuttosto che proteggere le vittime.
Le chiavi dell’archivio segreto, per altro, secondo quanto stabilito dal codice di diritto canonico, devono essere in possesso “del solo vescovo”. Lo stesso codice stabilisce altresì che “ogni anno si distruggano i documenti che riguardano le cause criminali in materia di costumi, se i rei sono morti oppure se tali cause si sono concluse da un decennio con una sentenza di condanna, conservando però un breve sommario del fatto con il testo della sentenza definitiva”; una norma che, evidentemente, è stata variamente interpretata.
I casi specifici messi in evidenza dall’ufficio del procuratore sono raccapriccianti. Nella diocesi di Pittsburgh un gruppo di almeno quattro sacerdoti ha abusato di vari ragazzi. Uno di loro, non ancora diciottenne, è stato costretto a restare in piedi nudo sul letto di una canonica, posando come Cristo sulla croce per i sacerdoti abusatori. Questi ultimi hanno scattato fotografie alla vittima, inserendole poi in una più ampia raccolta di materiale pedopornografico condivisa con altri sacerdoti. Comportamenti sadomasochisti, uso di fruste, torture, violenze su bambini e bambine di pochi anni, penetrazioni anali, sesso orale e poi violenze psicologiche sulle stesse vittime, ragazze messe incinte e poi costrette ad abortire. È un catalogo sconvolgente di brutalità e comportamenti sadici, feticismi - come quello del prete che raccoglieva urine e mestruo delle ragazze violentate - conditi da paternalismo e da minacce, da una cultura del segreto, complicità morbosa, protezioni.
La gran parte di questi reati è caduta in prescrizione, mentre per gli anni più recenti l’accesso alla documentazione è stato complicato. Il procuratore Shapiro ha fatto proprie alcune raccomandazioni del gran giurì, tra cui la richiesta di eliminare i limiti di età alle denunce per i crimini contro i minori, la possibilità per le vittime più grandi di fare causa per danni, una legislazione adeguata che sanzioni l’omissione delle denunce di abusi sui minori e soprattutto un chiarimento circa il fatto che gli accordi di riservatezza non hanno valore rispetto a quanto una vittima possa riferire alla polizia.
In un paio di casi la giustizia è riuscita a indagare i preti abusatori, mentre nell’occhio del ciclone è finto il cardinale Donald Wuerl, oggi arcivescovo di Washington, accusato di aver coperto gravi abusi in passato, quando era vescovo di Pittsburgh. Va detto che da parte di alcuni esponenti della chiesa c’è stata collaborazione all’indagine: è il caso del vescovo della diocesi di Erie, Lawrence Persico, che ha spinto per la pubblicazione del rapporto e, da parte sua, ha reso noti i nomi dei responsabili degli abusi sul sito della diocesi, creandosi non pochi nemici .
Ritorno al punto di partenza
Tuttavia l’episcopato americano nel suo insieme appare tramortito. Dopo quasi vent’anni di normative in favore della “tolleranza zero”, il susseguirsi di nuovi scandali, i risarcimenti miliardari alle vittime, le centinaia di processi canonici e riduzioni allo stato laicale di preti pedofili, le collaborazioni con la giustizia civile, l’istituzione di comitati di esperti, sembra di essere tornati al punto di partenza. Anche perché solo poche settimane fa, monsignor Theodore McCarrick, ex arcivescovo di Washington, è stato costretto a rinunciare al titolo di cardinale, accusato anche lui di abusi su minori; e però a destare scalpore, anche in questo caso, è stato il fatto che in Vaticano segnalazioni sul caso McCarrick erano arrivate anni fa. Del resto, contatti e scambi d’informazioni fra le diocesi e il Vaticano in merito a certi casi emergono anche nell’indagine in Pennsylvania, ulteriore conferma che Roma era informata del problema.
All’indagine del gran giurì, la Santa Sede ha reagito con una lunga dichiarazione del direttore della sala stampa vaticana, Greg Burke, nella quale si spiega che “davanti al rapporto reso pubblico in Pennsylvania questa settimana, due sono le parole che possono esprimere quanto si prova di fronte a questi orribili crimini: vergogna e dolore”.
Allo stesso tempo si precisa che le nuove pratiche messe in campo dalla chiesa cattolica hanno ridotto drasticamente il numero di episodi di abusi negli ultimi anni. Resta il fatto che solo nei giorni scorsi la sede dell’episcopato cileno è stata perquisita dalla magistratura in cerca di ulteriori prove su una cinquantina di denunce di abusi avvenuti nelle scuole rette dalla congregazione marista. Il paese andino è stato travolto negli ultimi mesi dallo scandalo e sotto indagine è finito anche Ricardo Ezzati Andrello, cardinale e arcivescovo di Santiago del Cile, accusato anch’egli di aver insabbiato e coperto violenze e abusi.
Il papa di certo ha contribuito ad aprire il vaso di Pandora degli abusi sui minori con l’intento di fare pulizia. Le mosse di Francesco - in particolare l’allontanamento di sacerdoti e vescovi coinvolti in episodi di pedofilia - sembrano tuttavia un po’ tardive e si dimostrano ormai insufficienti. Anche per questo, lunedì 20 agosto, il papa ha sentito il bisogno di rivolgere un lungo messaggio “a tutto il popolo di Dio”, nel quale oltre a riconoscere che “che non abbiamo saputo stare dove dovevamo stare, che non abbiamo agito in tempo riconoscendo la dimensione e la gravità del danno che si stava causando in tante vite” ha individuato nel clericalismo una delle cause di fondo del problema. “Il clericalismo - ha scritto Bergoglio - favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo”. Un messaggio apprezzato fra l’altro anche dal procuratore Josh Shapiro, probabilmente anche perché il papa chiede alla chiesa di appoggiare “tutte le mediazioni giudiziarie che siano necessarie”.
Il rapporto mai semplice tra sessualità, esercizio del potere, celibato obbligatorio, segretezza e buon nome dell’istituzione, ha prodotto danni che perdurano nel tempo e, per quanti passi avanti siano stati compiuti dalla chiesa nell’ultimo decennio, la realtà che continua a emergere delinea una quantità di crimini sessuali forse nemmeno ipotizzabile fino a qualche anno fa.
Siamo di fronte a uno scandalo oggettivamente sconvolgente per durata nel tempo e per dimensioni (in Australia i rapporti governativi parlano di 4.500 casi di abusi commessi da sacerdoti fino al 2015) tanto più se si tiene conto che solo una parte di questo tipo di reati è denunciata.
Tra pochi giorni il papa andrà in Irlanda, un paese che, anche in ragione dell’enormità degli abusi sui minori emersi negli anni scorsi, ha visto una caduta clamorosa dell’egemonia culturale cattolica tra la popolazione. Bergoglio incontrerà anche alcune vittime.
In passato Francesco ha più volte descritto il clericalismo come un male da combattere, ma forse è arrivato il momento che il papa apra definitivamente le porte della chiesa ai laici per uscire da una crisi che nessuna commissione vaticana sembra in grado di arginare.
PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" ... *
L’effetto Matilda raccontato da Ben Barres, scienziato transgender
Un’attivista per i diritti delle donne vissuta alla fine dell’Ottocento, una storica della scienza e un importante neurobiologo. Il filo rosso che collega queste tre persone si chiama effetto Matilda.
di Simone Petralia (OggiScienza, 16 agosto 2018)
IPAZIA - Matilda Joslyn Gage è stata una femminista e una libera pensatrice statunitense. Nel corso della sua vita ha lottato per il suffragio femminile, per i diritti dei nativi americani e per l’abolizione della schiavitù. “Woman as inventor”, un suo breve saggio del 1870, è al tempo stesso un elogio dell’inventiva femminile e una denuncia lucida e argomentata delle discriminazioni e delle disparità di trattamento a causa delle quali il talento delle donne è spesso calpestato o non riconosciuto.
L’effetto Matilda: cos’è
La comunità scientifica, si sa, non è esente da pregiudizi. A parità di abilità e conoscenze, per esempio, uno scienziato famoso godrà di maggior credito rispetto a un ricercatore poco noto. Nel 1968, il sociologo Robert K. Merton ha definito questa forma di discriminazione “effetto san Matteo”, dal verso attribuito all’evangelista: “a chiunque ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha” (Mt 13, 12). Prendendo spunto dal lavoro di Merton e dal saggio di Matilda Joslyn Gage, nel 1993 la storica della scienza Margaret W. Rossiter ha sviluppato il concetto di “effetto Matilda”.
L’effetto Matilda indica la tendenza a sottovalutare o a sminuire i risultati scientifici conseguiti dalle donne. È stato dimostrato che le ricerche condotte da scienziate suscitano in media meno interesse e vengono citate con minor frequenza rispetto a lavori analoghi realizzati da uomini; quando l’importanza di una scoperta compiuta da una donna è innegabile, invece, questa viene spesso attribuita a un collega maschio. L’effetto Matilda ha segnato la carriera di molte grandi scienziate - da Nettie Stevens a Rosalind Franklin, da Cecilia Payne Gaposchkin a Wu Jianxiong - le quali spesso si sono viste negare un premio Nobel che sarebbe spettato loro di diritto; ma a subirne gli effetti sono state e sono tuttora anche migliaia di ricercatrici sconosciute che vedono il loro lavoro ignorato o svilito a causa di questo pregiudizio.
Il punto di vista di Ben Barres
“Ho vissuto nei panni di una donna e in quelli di un uomo. Questo mi ha dato la possibilità di riflettere sulle barriere che le donne devono affrontare”. Sono parole di Ben Barres, neurobiologo americano. Morto prematuramente nel dicembre del 2017, Barres è ricordato soprattutto per le sue importanti ricerche sul modo in cui le cellule gliali contribuiscono alla formazione e allo sviluppo dei neuroni. È stato uno scienziato di successo, ma - da uomo transgender - anche un alfiere della causa LGBTQ+, sempre in prima linea per il raggiungimento della parità dei diritti di tutte le minoranze.
Barres ha effettuato la transizione dal genere femminile a quello maschile nel 1997, quando aveva 42 anni e lavorava già da tempo alla Stanford University. Nel corso della sua vita ha avuto quindi la possibilità di toccare con mano le piccole e grandi differenze nel modo in cui solitamente ci si relaziona a un altro essere umano, a seconda che lo si percepisca come un uomo o come una donna. Soprattutto ha vissuto sulla sua pelle, per anni, ciò che per la maggior parte degli uomini è pura teoria: l’effetto Matilda.
Nel corso di una conferenza tenutasi nel gennaio del 2005, Lawrence Summers - importante economista, all’epoca presidente della Harvard University - aveva sostenuto che la scarsa presenza femminile in certi ambiti scientifici, come la matematica o l’ingegneria, è da imputare a una caratteristica innata delle donne, la mancanza di una attitudine intrinseca alla scienza. Poco tempo dopo anche lo psicologo cognitivo Steven Pinker e il biologo Peter Lawrence avevano formulato ipotesi analoghe. Quella del determinismo sessuale è un’idea che, in forme e con sfumature differenti, viene riproposta periodicamente. Alcuni scienziati e intellettuali - tra cui il nostro Piergiorgio Odifreddi - sostengono ancora oggi che la difficoltà che le donne hanno a emergere in certe discipline, come la matematica, sia dovuta al fatto che non sono biologicamente portate per l’astrazione.
Nel luglio del 2006, a distanza di alcuni mesi dalle esternazioni Summers e degli altri studiosi, esce su Nature un lungo articolo in cui Barres espone il suo punto di vista sulla questione. La domanda a cui cerca di rispondere è evidente sin dal titolo: “Does gender matter?”, il genere condiziona davvero le performance in ambito scientifico? La risposta è molto chiara: sì. Il genere conta, dice Barres, non tanto perché le donne abbiano caratteristiche innate che le rendono meno capaci degli uomini, quanto piuttosto per l’assunzione sociale che le donne siano per natura meno capaci. In altre parole, a condizionare i risultati scientifici femminili è proprio l’effetto Matilda.
Barres ha la possibilità di replicare alle affermazioni di Summers e degli altri sostenitori dell’innatismo biologico non da un punto di vista puramente teorico, ma rifacendosi alle sue esperienze personali. Avendo vissuto la prima parte della sua vita da donna, ha toccato con mano il sessismo strisciante e ha poi potuto paragonarlo al trattamento successivo riservatogli in quanto uomo. Quando studiava al MIT, racconta, era stata l’unica persona della sua classe - composta soprattutto da ragazzi - a risolvere un complesso problema matematico; il professore, non si sa se per gioco o sul serio, le aveva detto che a risolverlo doveva essere stato il suo fidanzato. Durante il dottorato ad Harvard aveva fatto domanda per un posto all’università; i candidati erano solo due: lei, che all’attivo aveva sei importanti pubblicazioni, e un uomo che aveva pubblicato un solo paper. Venne scelto il candidato maschile. Poco dopo la transizione, un membro della facoltà che aveva assistito a un seminario di Barres non sapendo che fosse transgender, aveva detto che le sue ricerche erano con ogni evidenza superiori a quelle della sorella. Aveva letto le pubblicazioni precedenti di Barres, firmate col nome femminile, senza capire che si trattava della stessa persona; il solo fatto che a scriverle fosse stata una donna era bastato a modificare, in peggio, la sua percezione sulla qualità complessiva del lavoro.
Nel suo articolo, oltre a raccontare episodi legati alla sua storia personale, Barres dimostra la pervasività dell’effetto Matilda ricorrendo anche ai dati. Numerose statistiche, infatti, dimostrano come il pregiudizio di genere sia un potente bias, una vera e propria distorsione cognitiva che condiziona il modo in cui si giudicano le persone. Questo avviene in tutti gli ambiti, anche in un contesto apparentemente evoluto e razionale come quello scientifico. Le donne che fanno domanda di finanziamento per le loro ricerche, per esempio, devono essere 2.5 volte più produttive degli uomini per essere considerate egualmente competenti.
Altri studi sulle minoranze
Altri studi dimostrano come il pregiudizio riguardi, oltre che le donne, anche tutte le persone appartenenti a minoranze di qualche tipo, sia etniche che legate all’orientamento sessuale o all’identità di genere. Sembra che l’unico modo per tenersi al riparo da questo bias sia essere maschi, bianchi, cisgender - cioè non transgender - e ovviamente eterosessuali. “La gente che non sa che sono transgender”, scrive Barres nel suo articolo, “mi tratta con molto più rispetto. Posso persino completare un’intera frase senza essere interrotto da un uomo”. Le persone riconosciute come transgender, invece, devono affrontare pregiudizi analoghi a quelli delle donne, soprattutto coloro che affrontano un percorso di transizione contrario rispetto a quello di Barres, ovvero dal genere maschile a quello femminile; passaggio percepito da molti, in maniera più o meno inconscia, come una sorta di “declassamento sociale”.
Tornando all’effetto Matilda, Barres nota come siano in pochi ad ammettere che si tratti di un problema reale del mondo scientifico. Non solo quasi tutti gli uomini sono inconsapevoli dei loro privilegi, ma anche molte donne sembrano essere riluttanti a riconoscere il peso reale della discriminazione di genere. Questo per varie ragioni, tra cui un fenomeno noto come “rifiuto dello svantaggio personale”, per cui le donne confrontano i loro risultati solo con quelli ottenuti da altre donne, escludendo gli uomini e inserendosi implicitamente in una categoria a parte.
Sono molte le cose che si potrebbero fare per contrastare l’effetto Matilda. In primo luogo, sostiene Barres, evitare di far sentire le ragazze - a scuola, in famiglia e in qualsivoglia contesto - non all’altezza dei loro coetanei maschi o non adatte a intraprendere una carriera scientifica; a lanciare segnali di questo tipo sono, in maniera il più delle volte inconsapevole, gli stessi genitori o gli insegnanti. Occorre poi che la comunità scientifica lavori per migliorare l’equità nei processi di selezione e per dare sempre più posizioni di leadership alle donne e a persone appartenenti a minoranze. “La diversità fornisce un punto di vista più ampio, più sensibilità e maggior rispetto per le diverse prospettive, valori inestimabili in qualsiasi ambito”. Serve, infine, riconoscere che il problema esiste. Non voltarsi dall’altra parte, ma parlare, esporsi, raccontare quello che si è subito e non vergognarsi - mai - di essere chi si è. Seguire, insomma, l’esempio di Ben Barres.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
CREATIVITÀ E CARITÀ ("CHARITAS"). ADAMO ED EVA, MARIA E GIUSEPPE UGUALI DAVANTI A DIO....*
Risorsa famiglia.
Così lo sguardo femminile può cambiare l’economia
di Luigino Bruni (Avvenire, giovedì 23 agosto 2018)
Economia è una parola greca che rimanda direttamente alla casa ( oikos nomos, regole per gestire la casa), quindi alla famiglia. Eppure l’economia moderna, e ancor più quella contemporanea, si è pensata come un ambito retto da principi diversi, distinti e per molti versi opposti ai principi e ai valori che hanno sempre retto e continuano a reggere la famiglia. Un principio fondante la famiglia, forse il primo e quello sottostante gli altri, è quello di gratuità, che è quanto è di più distante dall’economia capitalistica, che conosce surrogati della gratuità (sconti, filantropia, saldi) che svolgono al funzione di immunizzare i mercati dalla gratuità vera.
La famiglia, infatti, è il principale luogo dove apprendiamo, per tutta la vita e in un modo tutto speciale da bambini, quella che Pavel Florensky chiamava ’l’arte della gratuità’. E lì che soprattutto da bambini impariamo anche a lavorare, perché non c’è lavoro ben fatto senza gratuità. La nostra cultura, però, associata la gratuità al gratis, al gadget, allo sconto, alla mezza ora in più al lavoro non remunerata, al prezzo zero (San Francesco ci ha invece detto che la gratuità è un prezzo infinito: non si può né comprare né vendere perché è impagabile).
In realtà la gratuità è qualcosa di molto serio, come ci ha spiegato con estrema chiarezza anche la Caritas in veritate, che rivendica alla gratuità anche lo statuto di principio economico. Gratuità è charis, grazia, ma è anche l’agape, come ben sapevano i primi cristiani, che traducevano la parola greca agape con l’espressione latina charitas (con l’h), proprio ad indicare che quella parola latina traduceva ad un tempo l’agape ma anche la charis, e per questo quell’amore diverso non era né solo eros né solo philia (amicizia). La gratuità, questa gratuità, allora, è un modo di agire e uno stile di vita che consiste nell’accostarsi agli altri, a se stesso, alla natura, a Dio, alle cose non per usarli utilitaristicamente a proprio vantaggio, ma per riconoscerli nella loro alterità e nel loro mistero, rispettarli e servirli.
Dire gratuità significa dunque riconoscere che un comportamento va fatto perché è buono, e non per la sua ricompensa o sanzione. La gratuità ci salva così dalla tendenza predatoria che c’è in ogni persona, ci impedisce di mangiare gli altri e noi stessi. E’ ciò che distingue la preghiera dalla magia, la fede dall’idolatria, che ci salva dal narcisismo, che è la grande malattia di massa del nostro tempo, per assenza di gratuità.
Se la famiglia vuole, e deve, coltivare l’arte della gratuità, deve fare molta attenzione a non importare dentro casa la logica dell’incentivo che oggi vige ovunque. Guai, ad esempio, ad usare la logica dell’incentivo all’interno delle dinamiche familiari. Il denaro in famiglia, soprattutto nei confronti dei bambini e dei ragazzi (ma con tutti), va usato molto poco, e se usato deve essere usato come un premio o riconoscimento dell’azione ben fatta per ragioni intrinseche, e mai usato come prezzo. Uno dei compiti tipici della famiglia è proprio formare nelle persone l’etica del lavoro ben fatto, un’etica che nasce proprio dal principio di gratuità. Se, invece, si inizia a praticare anche in famiglia la logica e la cultura dell’incentivo, e quindi il denaro diventa il ’perché’ si fanno e non si fanno compiti e lavoretti di casa, quei bambini da adulti difficilmente saranno dei buoni lavoratori, perché il lavoro ben fatto di domani poggia sempre su questa gratuità che si apprende soprattutto nei primi anni di vita, e soprattutto a casa.
L’assenza del principio di gratuità nell’economia dipende anche, e molto, dall’assenza dello sguardo femminile. La casa, l’oikos, è sempre stato il luogo abitato e governato dalle donne. Ma , paradossalmente, l’economia è stata, e continua ad essere, una faccenda tutta giocata sul registro maschile. Anche i maschi hanno sempre avuto a che fare con la casa, e molto. Il loro sguardo si è però concentrato sul provvedere i mezzi per il sostentamento, sul lavoro esterno, sui beni, sul denaro. E quando l’economia è uscita dalla vita domestica ed è diventata politica, sociale e civile, lo sguardo e il genio femminile è rimasto dentro casa, e quello maschile è rimasta la sola prospettiva della prassi e soprattutto della teoria economica e manageriale.
Le donne guardano alla casa e all’economia vedendo prima di tutto il nesso di rapporti umani che si svolge in esse. I primi beni che vedono sono quelli relazionali e i beni comuni, e dentro a questi vedono anche i beni economici. Non è certo un caso che l’Economia di comunione sia nata da uno sguardo di una donna (Chiara Lubich), né che la prima teorica dei beni comuni è stata Katherine Coman (nel 1911), e che Elinor Ostrom sia stata insignita (unica donna finora) del premio Nobel in economia proprio per il suo lavoro sui beni comuni. E ci sono due donne (Martha Nussbaum e Carol Uhlaner) all’origine della teoria dei beni relazionali. Quando manca lo sguardo femminile sull’economia, le sole relazioni viste sono quelle strumentali, dove non è la relazione ad essere il bene, ma dove i rapporti umani e con la natura sono mezzi usati per procurarsi i beni.
Se lo sguardo e il genio femminile della oikoscasa fossero stati presenti nella fondazione teorica dell’economia moderna, avremmo avuto una economia più attenta alle relazioni, alla redistribuzione del reddito, all’ambiente e forse alla comunione. È, infatti, la comunione una grande parola che dalla famiglia può passare all’economia di oggi. E qui si apre un discorso specifico per i cristiani.
La chiesa oggi è chiamata ad essere sempre più profezia, se vuole salvarsi e salvare. La profezia è anche una parola della famiglia. La maggior parte dei profeti biblici erano sposati, e molte parole e gesti profetici della bibbia sono parole di donne. Isaia chiamò suo figlio Seariasùb, che significa ’un resto tornerà’, che uno dei grandi messaggi della sua profezia.
Non trovò modo migliore per lanciare quel suo messaggio profetico di farlo diventare il nome del figlio. Ogni figlio è un messaggio profetico, perché dice con il solo suo esserci che la terra avrà ancora un futuro, e che potrà essere migliore del presente. La profezia della famiglia oggi, per essere credibile, deve prendere la forma dei figli e la forma dell’economia, e quindi della condivisione, dell’accoglienza e della comunione. Perché sia i figli che l’economia non sono altro che la vita ordinaria di tutti e di ciascuno, che è il solo luogo dove la profezia si nutre e cresce.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
ESTETICA (E NON SOLO) E DEMOCRAZIA. PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" (KANT).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.... *
Lettera.
Abusi, il Papa: vergogna e pentimento. Tutta la Chiesa se ne faccia carico
Francesco ribadisce l’impegno contro il crimine degli abusi. Nella Lettera al popolo di Dio: «Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui»
_***«È imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche d--a tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione».
Questo uno dei passaggi chiave della “Lettera di Papa Francesco al popolo di Dio” diffusa questa mattina dalla Sala Stampa vaticana. Un testo in cui il Pontefice, all’indomani della pubblicazione del rapporto sui casi di pedofilia nelle diocesi della Pennsylvania (Stati Uniti), esprime a nome dell’intero popolo di Dio «vergogna e pentimento». E sottolinea la necessità della conversione da parte dell’intera comunità ecclesiale.
Di seguito il testo integrale della lettera.
LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL POPOLO DI DIO
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme» (1 Cor 12,26). Queste parole di San Paolo risuonano con forza nel mio cuore constatando ancora una volta la sofferenza vissuta da molti minori a causa di abusi sessuali, di potere e di coscienza commessi da un numero notevole di chierici e persone consacrate. Un crimine che genera profonde ferite di dolore e di impotenza, anzitutto nelle vittime, ma anche nei loro familiari e nell’intera comunità, siano credenti o non credenti. Guardando al passato, non sarà mai abbastanza ciò che si fa per chiedere perdono e cercare di riparare il danno causato. Guardando al futuro, non sarà mai poco tutto ciò che si fa per dar vita a una cultura capace di evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio per essere coperte e perpetuarsi. Il dolore delle vittime e delle loro famiglie è anche il nostro dolore, perciò urge ribadire ancora una volta il nostro impegno per garantire la protezione dei minori e degli adulti in situazione di vulnerabilità.
1. Se un membro soffre
Negli ultimi giorni è stato pubblicato un rapporto in cui si descrive l’esperienza di almeno mille persone che sono state vittime di abusi sessuali, di potere e di coscienza per mano di sacerdoti, in un arco di circa settant’anni. Benché si possa dire che la maggior parte dei casi riguarda il passato, tuttavia, col passare del tempo abbiamo conosciuto il dolore di molte delle vittime e constatiamo che le ferite non spariscono mai e ci obbligano a condannare con forza queste atrocità, come pure a concentrare gli sforzi per sradicare questa cultura di morte; le ferite “non vanno mai prescritte”. Il dolore di queste vittime è un lamento che sale al cielo, che tocca l’anima e che per molto tempo è stato ignorato, nascosto o messo a tacere. Ma il suo grido è stato più forte di tutte le misure che hanno cercato di farlo tacere o, anche, hanno preteso di risolverlo con decisioni che ne hanno accresciuto la gravità cadendo nella complicità. Grido che il Signore ha ascoltato facendoci vedere, ancora una volta, da che parte vuole stare. Il cantico di Maria non si sbaglia e, come un sottofondo, continua a percorrere la storia perché il Signore si ricorda della promessa che ha fatto ai nostri padri: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,51-53), e proviamo vergogna quando ci accorgiamo che il nostro stile di vita ha smentito e smentisce ciò che recitiamo con la nostra voce.
Con vergogna e pentimento, come comunità ecclesiale, ammettiamo che non abbiamo saputo stare dove dovevamo stare, che non abbiamo agito in tempo riconoscendo la dimensione e la gravità del danno che si stava causando in tante vite. Abbiamo trascurato e abbandonato i piccoli. Faccio mie le parole dell’allora Cardinale Ratzinger quando, nella Via Crucis scritta per il Venerdì Santo del 2005, si unì al grido di dolore di tante vittime e con forza disse: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! [...] Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore. Non ci rimane altro che rivolgergli, dal più profondo dell’animo, il grido: Kyrie, eleison - Signore, salvaci (cfr Mt 8,25)» (Nona Stazione).
2. Tutte le membra soffrono insieme
La dimensione e la grandezza degli avvenimenti esige di farsi carico di questo fatto in maniera globale e comunitaria. Benché sia importante e necessario in ogni cammino di conversione prendere conoscenza dell’accaduto, questo da sé non basta. Oggi siamo interpellati come Popolo di Dio a farci carico del dolore dei nostri fratelli feriti nella carne e nello spirito. Se in passato l’omissione ha potuto diventare una forma di risposta, oggi vogliamo che la solidarietà, intesa nel suo significato più profondo ed esigente, diventi il nostro modo di fare la storia presente e futura, in un ambito dove i conflitti, le tensioni e specialmente le vittime di ogni tipo di abuso possano trovare una mano tesa che le protegga e le riscatti dal loro dolore (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 228). Tale solidarietà ci chiede, a sua volta, di denunciare tutto ciò che possa mettere in pericolo l’integrità di qualsiasi persona. Solidarietà che reclama la lotta contro ogni tipo di corruzione, specialmente quella spirituale, «perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché “anche Satana si maschera da angelo della luce” (2 Cor 11,14)» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 165). L’appello di San Paolo a soffrire con chi soffre è il miglior antidoto contro ogni volontà di continuare a riprodurre tra di noi le parole di Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9).
Sono consapevole dello sforzo e del lavoro che si compie in diverse parti del mondo per garantire e realizzare le mediazioni necessarie, che diano sicurezza e proteggano l’integrità dei bambini e degli adulti in stato di vulnerabilità, come pure della diffusione della “tolleranza zero” e dei modi di rendere conto da parte di tutti coloro che compiono o coprono questi delitti. Abbiamo tardato ad applicare queste azioni e sanzioni così necessarie, ma sono fiducioso che esse aiuteranno a garantire una maggiore cultura della protezione nel presente e nel futuro.
Unitamente a questi sforzi, è necessario che ciascun battezzato si senta coinvolto nella trasformazione ecclesiale e sociale di cui tanto abbiamo bisogno. Tale trasformazione esige la conversione personale e comunitaria e ci porta a guardare nella stessa direzione dove guarda il Signore. Così amava dire San Giovanni Paolo II: «Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 49). Imparare a guardare dove guarda il Signore, a stare dove il Signore vuole che stiamo, a convertire il cuore stando alla sua presenza. Per questo scopo saranno di aiuto la preghiera e la penitenza. Invito tutto il santo Popolo fedele di Dio all’esercizio penitenziale della preghiera e del digiuno secondo il comando del Signore,[1] che risveglia la nostra coscienza, la nostra solidarietà e il nostro impegno per una cultura della protezione e del “mai più” verso ogni tipo e forma di abuso.
E’ impossibile immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio. Di più: ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il Popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita.[2] Ciò si manifesta con chiarezza in un modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa - molto comune in numerose comunità nelle quali si sono verificati comportamenti di abuso sessuale, di potere e di coscienza - quale è il clericalismo, quell’atteggiamento che «non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente»[3]. Il clericalismo, favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo.
E’ sempre bene ricordare che il Signore, «nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 6). Pertanto, l’unico modo che abbiamo per rispondere a questo male che si è preso tante vite è viverlo come un compito che ci coinvolge e ci riguarda tutti come Popolo di Dio. Questa consapevolezza di sentirci parte di un popolo e di una storia comune ci consentirà di riconoscere i nostri peccati e gli errori del passato con un’apertura penitenziale capace di lasciarsi rinnovare da dentro. Tutto ciò che si fa per sradicare la cultura dell’abuso dalle nostre comunità senza una partecipazione attiva di tutti i membri della Chiesa non riuscirà a generare le dinamiche necessarie per una sana ed effettiva trasformazione. La dimensione penitenziale di digiuno e preghiera ci aiuterà come Popolo di Dio a metterci davanti al Signore e ai nostri fratelli feriti, come peccatori che implorano il perdono e la grazia della vergogna e della conversione, e così a elaborare azioni che producano dinamismi in sintonia col Vangelo. Perché «ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 11).
E’ imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche da tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione.
Al tempo stesso, la penitenza e la preghiera ci aiuteranno a sensibilizzare i nostri occhi e il nostro cuore dinanzi alla sofferenza degli altri e a vincere la bramosia di dominio e di possesso che tante volte diventa radice di questi mali. Che il digiuno e la preghiera aprano le nostre orecchie al dolore silenzioso dei bambini, dei giovani e dei disabili. Digiuno che ci procuri fame e sete di giustizia e ci spinga a camminare nella verità appoggiando tutte le mediazioni giudiziarie che siano necessarie. Un digiuno che ci scuota e ci porti a impegnarci nella verità e nella carità con tutti gli uomini di buona volontà e con la società in generale per lottare contro qualsiasi tipo di abuso sessuale, di potere e di coscienza.
In tal modo potremo manifestare la vocazione a cui siamo stati chiamati di essere «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 1).
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme», ci diceva San Paolo. Mediante l’atteggiamento orante e penitenziale potremo entrare in sintonia personale e comunitaria con questa esortazione, perché crescano tra di noi i doni della compassione, della giustizia, della prevenzione e della riparazione. Maria ha saputo stare ai piedi della croce del suo Figlio. Non l’ha fatto in un modo qualunque, ma è stata saldamente in piedi e accanto ad essa. Con questa posizione esprime il suo modo di stare nella vita. Quando sperimentiamo la desolazione che ci procurano queste piaghe ecclesiali, con Maria ci farà bene “insistere di più nella preghiera” (cfr S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 319), cercando di crescere nell’amore e nella fedeltà alla Chiesa. Lei, la prima discepola, insegna a tutti noi discepoli come dobbiamo comportarci di fronte alla sofferenza dell’innocente, senza evasioni e pusillanimità. Guardare a Maria vuol dire imparare a scoprire dove e come deve stare il discepolo di Cristo.
Lo Spirito Santo ci dia la grazia della conversione e l’unzione interiore per poter esprimere, davanti a questi crimini di abuso, il nostro pentimento e la nostra decisione di lottare con coraggio.
* Fonte: Avvenire, 20.08.2018
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
Federico La Sala
ARITMETICA E ANTROPOLOGIA. UNA DOMANDA AI MATEMATICI: COME MAI "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia)?! Non è il caso di ripensare i fondamenti"? ..... *
Antropologia.
Caleb Everett: Siamo tutti figli dei numeri
Sono fondamentali per lo sviluppo della civiltà, delle relazioni umane e della coscienza di sé. Parla l’antropologo che ha studiato le società primitive che non ne fanno uso
di Eugenio Giannetta (Avvenire, mercoledì 15 agosto 2018)
Che ore sono? Quanto è alto? Quanto pesa? Domande semplici, che richiedono una risposta semplice, perlopiù racchiusa in un numero. Eppure ci sono società, popoli diversi dal nostro, che vivono senza i numeri per come li conosciamo e utilizziamo quotidianamente. Tutto ciò è al centro del lavoro di Caleb Everett, docente di Antropologia all’Università di Miami, che ha ripercorso le tappe dell’invenzione dei numeri:
«Un insieme fondamentale di innovazioni di carattere linguistico che hanno contraddistinto la nostra specie in modi che non hanno trovato adeguato riconoscimento».
I numeri in effetti sono un’invenzione umana che di fatto ha trasformato l’evoluzione della nostra esperienza, a partire appunto da domande semplici.
«Nella popolazione Munduruku dell’Amazzonia - spiega Everett -, non esistono parole esatte per i numeri superiori al ’due’. Nel caso di un altro popolo amazzonico, i Piraha, le parole per indicare i numeri non esistono affatto, nemmeno per il numero 1. Gli individui di queste popolazioni come fanno allora a rispondere alla domanda ’quanti anni hai?’, o ad altre domande che si basano sul concetto di numero e che per la maggior parte delle persone della nostra società riguardano aspetti fondamentali della vita?». Everett ricorda come i numeri siano protagonisti nel nostro presente, ma anche nel nostro passato, poiché segnano la cronologia degli eventi e la percezione del trascorrere del tempo. La sua analisi, però, non si limita a questo, tocca infatti altri aspetti, come quello simbolico, le concezioni numeriche di bambini in età pre-linguistica e le capacità numeriche di alcune specie animali.
È un lavoro antropologico tout court, che attraversa la storia dei numeri e del linguaggio, e che ne definisce appunto il tratto numerico e il valore della quantità, a partire da misurazioni primitive, quindi da unità di misura indicate inizialmente con parti del corpo umano, fino a un diverso e più sviluppato livello di astrazione. Il risultato finale di queste ricerche, che hanno portato Everett in Amazzonia e Nicaragua,- è il saggio I numeri e la nascita della civiltà. Un’invenzione che ha cambiato il corso della storia (Franco Angeli, pagine 282, euro 25), di cui abbiamo parlato con l’autore, la cui tesi, riferita già dal prologo del volume, rivela come i numeri abbiano nel tempo consentito una fioritura di tecnologie materiali e comportamentali:
«Nella vita quotidiana ci affidiamo a conoscenze che non sono propriamente nostre, che possiamo ricavare dalle menti altrui, e che in molti casi sono state acquisite casualmente e in modo violento nel corso dei millenni. Pensate ad alcuni esempi della vostra cultura: non avete dovuto inventare l’automobile, gli impianti di riscaldamento o il modo più efficiente per sfilettare il pollo: sono tecnologie e comportamenti che avete ereditato. Le vostre azioni sono state modellate attraverso gli altri e siete stati educati ai vostri comportamenti, sia in modo formale che informale, attraverso il linguaggio».
Riflessioni, quelle dell’autore, che sono il risultato di un approfondimento capillare di ulteriori studi condotti da archeologi, linguisti e psicologi, che negli ultimi anni hanno provato a mostrare come i numeri siano un’invenzione in primo luogo linguistica, spesso creati a partire dalla parola mano, che ha consentito di definire le quantità con minore approssimazione. Un passaggio non distante, ad esempio, da quanto accadde con l’invenzione delle parole per definire i colori.
Proviamo a immaginare: che cosa potrebbe accadere a una popolazione che si ritrovasse improvvisamente senza numeri?
«Ci vorrebbe molto tempo, a meno che non siano stati cancellati anche dalla mente delle persone, oltre che dalla lingua parlata e scritta. Ma presumendo che siano magicamente scomparsi, dovremmo lottare per gestire molte delle tecnologie che ci circondano, che richiedono una certa consapevolezza di quantità precise. Ad esempio, non saremmo in grado di comunicare il tempo in modo preciso, il che avrebbe un impatto su qualsiasi altra cosa. Le popolazioni anumeriche, o quelle con pochi numeri, non tengono traccia di cose come ore, minuti e secondi».
Senza i numeri, come sarebbe la nostra vita?
«Senza numeri le nostre vite sarebbero probabilmente molto più simili a quelle delle persone di cui parlo nel libro. Probabilmente saremmo cacciatori, raccoglitori e non indu-strializzati, dal momento che sia l’agricoltura che l’industrializzazione si basano sugli strumenti concettuali che chiamiamo numeri».
I suoi genitori erano missionari e si sono occupati della traduzione della Bibbia in varie lingue, cosa che le ha dato la possibilità di passare molto tempo tra le tribù dell’Amazzonia. La sua esperienza da bambino in quei luoghi e con quelle culture ha ispirato questo lavoro?
«Certamente, mi ha dato un’esperienza di prima mano con un gruppo di persone che non ha numeri, che alla fine mi ha portato a interessarmi a questo argomento, come ricercatore, anni dopo».
È possibile che cambi la cultura numerica di una popolazione?
«Le culture numeriche cambiano continuamente. Basta considerare quanto sia cambiata la cultura numerica dell’Europa, o più specificamente la regione che ora è l’Italia. Durante l’impero romano fu usato un insieme di numeri completamente diverso, che aveva alcuni svantaggi rispetto al sistema numerico indù-arabo che ora usiamo. Fibonacci lo riconobbe nel XIII secolo e, in parte per via del suo lavoro, i numeri che ora usiamo arrivarono alla diffusione in tutto il mondo. E hanno svolto un ruolo importante nella rivoluzione scientifica».
Nella nostra epoca numeri e dati sono sempre più importanti, basti ragionare sul concetto di big-data. Quanto emerge questo aspetto dal suo lavoro?
«Faccio ricerche anche su altri argomenti, ad esempio sui suoni prodotti dagli esseri umani. E questa ricerca richiede l’utilizzo di big data. In un recente lavoro con migliaia di linguaggi, ad esempio, il mio lavoro suggerisce che il clima potrebbe influire sul modo in cui le lingue evolvono».
È possibile pensare a numeri scollegati dalla loro rappresentazione linguistica?
«Potrebbe essere possibile, ma possiamo dire con certezza che, prima di essere annotati o espressi in altri modi non verbali, in ogni cultura i numeri venivano prima pronunciati».
C’è una differenza tra tradizione orale e scritta riguardo ai numeri?
«La tradizione orale ha il primato, ma tornando a Fibonacci, ad esempio, i numeri che ha introdotto avevano una storia diversa rispetto ai numeri parlati italiani»
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
ARITMETICA E ANTROPOLOGIA. UNA DOMANDA AI MATEMATICI: COME MAI "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia)?! Non è il caso di ripensare i fondamenti?!
CHI SIAMO NOI IN REALTA’? Relazioni chiasmatiche e civiltà: UN NUOVO PARADIGMA.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
IL SENNO DI PRIMA ("PROMETEO"), IL SENNO DI POI ("EPIMETEO"), I DISASTRI E IL "DISPOSITIVO DI DERIVAZIONE KANTIANA" ...*
Il sociologo.
Tutti i disastri «irreparabili» e il senno di prima
Dopo il ragionamento è il solito, col senno di poi: come è stato possibile che nessuno vedesse e capisse prima dell’irreparabile fatto?
di Maurizio Fiasco (Avvenire, sabato 18 agosto 2018)
Come accadono i disastri? C’è un’espressione, all’apparenza banale ma ricorrente, quando siamo sconcertati per un evento dai costi umani incalcolabili. «Col senno di poi». Che equivale: come è stato possibile che nessuno vedesse e capisse prima dell’irreparabile fatto? Quel che ha condotto al precipitare di una situazione - fisica, come un ponte, oppure comportamentale come una battaglia, un volo, il funzionamento di uno stabilimento industriale - aveva già emesso dei segnali.
I disastri - risulta quasi sempre agli investigatori ex post - hanno avuto una incubazione, più o meno lunga. Incubazione tutt’altro che muta, o col bavaglio, anzi spesso visibile per un complesso di segnali. Come ha insegnato, quarant’anni fa un illuminato e inascoltato Barry Turner, non sono prevenuti - ovvero fermati da decisioni pragmatiche - per le patologie della comunicazione tra gli attori di un sistema. Industriale, amministrativo, finanziario, politico: non importa la scala di grandezza. Le incompetenze si strutturano e agiscono come un sistema.
I segnali sono sfuggiti a un apparato cognitivo, a una mente capace di connetterli e perciò di abbattere le barriere che inibiscono il giudizio. È mancata la responsabilità di contrastare la universale ottusità dei sistemi, di tutti i sistemi organizzativi. Che squalificano la coscienziosità di chi abbia colto il segnale e si sia posto in modo attivo per spingere al provvedere.
Egli finisce per scontrarsi con la gerarchia, con i muri levati su dai rituali dell’organizzazione, per impattare con la squalificazione che si replica davanti all’umile operatore che sta sul terreno e lì ’vede’ qualcosa che non va. Oppure c’è il feticcio della responsabilità di vertice. Chi è in alto - pensa il testimone dei segnali che il disastro sta inviando - lo capirà più e meglio di me.
Ma il superiore guarda al consenso e alle conferme di chi siede ancora più in alto di lui. E quest’ultimo rivolge la sua mente al mandato di chi è il supremo detentore di quel bene, di quella situazione, di quel dato potere. E tutto questo complesso di fattori cambia la prospettiva, perché il conformismo è più potente della psicologia della responsabilità.
A meno che nella persona responsabile in situazione trovino nutrimento valori morali assoluti: che spingono ad assumersi il rischio personale di andare controcorrente, e di superare derisioni e ostracismo, di non farsi influenzare dal dispositivo di derivazione kantiana, «faccio quel che devo, accada quel che può».
Insomma, la responsabilità, invece di essere ispirata a valori trascendenti, si attesta alla procedura, al ’di fronte’, a quel che le regole gerarchiche - per esempio il mandato degli azionisti - hanno assegnato. E così si scambia la diversa posizione ricoperta nella piramide organizzativa con la diversità di valori etici e professionali di quanti operano in una struttura complessa: che invece, a rigore, sono unici e universali. Cioè per tutti. Nelle forze armate, dal piantone al generale; nelle autostrade, dall’operaio che passa il bitume all’amministratore delegato della infrastruttura. Unitarietà dei valori e trasparenza della comunicazione sono la speranza del «senno di prima». Potremmo dire l’intelligenza del Buon Samaritano che si prende carico della complessità della situazione e non trascura alcuna variabile.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
IL NATALE DI GESU’: L’INCARNAZIONE SECONDO L’ IMMAGINAZIONE "TEANDRICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO. Gianfranco Ravasi ne ripropone una sintesi e la presenta come "il realismo del nascere nella storia"!!!
LO STATO DEL FARAONE, LO STATO DI MINORITA’, E IMMANUEL KANT "ALLA BERLINA" - DOPO AUSCHWITZ
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO".
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ. Al di là dell’Egoismo etico e dello Stato etico .... *
La questione Stirner
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, Domenica, 06 maggio 2016)
Quando a metà degli anni Quaranta dell’Ottocento in Germania uscì “L’Unico e la sua proprietà” di Max Stirner, pseudonimo di Johann Caspar Schmidt, la censura non intervenne. I funzionari che dovevano vigilare sulla circolazione delle idee ritennero l’opera incomprensibile, frutto di una mente folle, malata o qualcosa del genere; decisero perciò di non bloccarla, perché nessuna persona normale avrebbe potuto ricevere danno da questo professore di un istituto femminile di 39 anni. Il quale, dopo l’uscita del libro, avrebbe perso il posto.
L’”Unico” non passò inosservato. Marx ed Engels ne scrissero subito, anche se le loro pagine saranno pubblicate soltanto all’inizio del Novecento; la cerchia degli amici che con Stirner avevano seguito le lezioni di Hegel, non tacque; per le correnti anarchiche divenne ben presto un riferimento. Negli Stati Uniti Warren, in Francia Proudhon, in Russia Bakunin e poi Kropotkin, per ricordare alcuni classici riferimenti di questa corrente, tennero necessariamente conto di codeste pagine.
Un’opera che a volte si ripete ma che è sempre dominata da una tensione senza eguali. Si apre e si chiude con un’affermazione forte: “Io ho fondato la mia causa su nulla!”. E non è difficile incontrare frasi come questa: “Io che al pari di Dio e dell’umanità sono il nulla di ogni altro, io che sono il mio tutto, io che sono l’unico!”.
Max Stirner distrugge la filosofia del suo tempo, esalta l’egoismo (“nessuna cosa mi sta a cuore più di me stesso!”), sbugiarda il potere, attacca ogni religione, propone qualcosa di irrealizzabile ma tutti i grandi lo mediteranno, a cominciare da Dostoevskij e Nietzsche.
E oggi? Un libro, curato da Marcello Montalto e pubblicato da Mimesis con il titolo “La questione Stirner” (pp. 224, euro 20), raccoglie i primi critici dell’”Unico”. Si tratta di preziosi e poco noti testi ottocenteschi scritti da Moses Hess (un precursore del sionismo), Feuerbach, Kuno Fischer, Szeliga (ovvero Franz Zychlin von Zychlinski, che diventerà generale dell’armata prussiana) e le repliche dello stesso Stirner: mostrano tutti i fraintendimenti a cui fu soggetta l’opera e il suo autore.
Montalto ricorda nell’ampia e documentata introduzione che Stirner era tutt’altro che astratto dalla realtà e ignaro dei meccanismi sociali ed economici (critica di Hess), soprattutto rammenta un’intuizione di Carl Schmitt che in un giudizio lapidario e tagliente affermò: “Max sa qualcosa di molto importante. Sa che l’io non è più oggetto di pensiero”.
Che aggiungere? Fichte, il gran sacerdote dell’io, era morto da tempo e anche i dogmi della filosofia idealistica tedesca ormai avevano lasciato i cuori e abitavano soltanto nelle biblioteche. Stirner mostrò il mondo attuale: egoista, senza ideali, pronto a diventare nulla.
Egoismo etico. Sullo sfondo del problema dell’emancipazione umana, ritorno di interesse per il filosofo tedesco in un’epoca in cui la questione dell’individuo è ridiventata centrale
Quell’asociale di Stirner
di Michele Ciliberto (Il Sole-24 oRE, Domenica, 19.08.2018)
Alla morte di Hegel, come si sa, la sua scuola si spezzò in due tronconi : da un lato, la destra; dall’altro la sinistra, della quale fecero parte, con autonomia e originalità di pensiero, personalità di primissimo piano come Bruno Bauer, Carlo Marx, Max Stirner, autori di opere che hanno lasciato un solco profondo nella storia del pensiero del XIX secolo. Escono, in generale, tra la fine degli anni trenta e i primi anni quaranta, ed hanno in genere al centro la critica della religione , come principio di una riflessione generale sulla condizione umana. L’Unico di Stirner viene pubblicato nel 1844 (sul frontespizio si legge però 1845); la Tromba dell’ultimo giudizio contro Hegel ateo e anticristo. Un ultimatum, di Bauer, nel 1841, mentre al 1843 risale un’altra sua opera fondamentale, La questione ebraica che, a sua volta, è oggetto di una immediata , e dura, discussione da parte di Marx, il quale pur riconoscendo il valore dell’avversario, ne critica a fondo le tesi, alla luce delle posizioni messe a fuoco in un’altra opera essenziale di questo periodo, la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Qui Marx utilizza, e sviluppa sul piano politico, la critica che Feuerbach aveva rivolto alla filosofia hegeliana mettendo al centro della sua analisi il rovesciamento tra soggetto e predicato operato, a suo giudizio, da Hegel.
L ’essenza del cristianesimo, come si intitola il libro di Feuerbach, esce nel 1841 - lo stesso anno del testo di Bauer - ed ebbe uno straordinario successo. Come dice Federico Engels, molti anni dopo, leggendolo diventammo tutti “feuerbachiani”, rievocando il senso di liberazione che il testo di Feuerbach aveva generato in lui come in tutta la sua generazione.
Del resto, basterebbe leggere la Critica della filosofia del diritto hegeliano o le pagine finali della Questione ebraica di Marx per comprendere in presa diretta quanto Feuerbach abbia inciso a fondo sui principali esponenti della sinistra
hegeliana, a cominciare proprio da Marx: la critica della politica e della concezione della figura del legislatore di Rousseau che chiude la Questione ebraica e la critica della filosofia hegeliana attuata nella Critica hanno come riferimento principale da un lato la concezione dell’uomo come “ente generico”; dall’altro, la critica del rovesciamento tra soggetto e predicato- entrambi architravi del pensiero di Feuerbach. Come a suo tempo dimostrò Cesare Luporini in un saggio memorabile, è Feuerbach l’interlocutore principale di Marx in questi testi.
In tutti questi pensatori - da Bauer a Marx a Stirner - il problema centrale è quello della emancipazione umana, con un conseguente spostamento della critica dal piano della religione a quello della politica. E questo sia per motivi sia teorici che di ordine storico: nel 1840 era asceso al trono di Prussia Federico Guglielmo IV, figura complessa e contraddittoria, che attutì, non valutandone le conseguenze, la censura sulla stampa, come conferma la nascita , in questo periodo, di riviste importanti ma nettamente critiche dell’esistente, quale la Reinische Zeitung, pubblicata a Colonia dal gennaio 1842 al marzo 1843, alla quale collaborano sia Marx che Stirner. Sono, questi, anni di straordinarie battaglie in Germania per l’emancipazione religiosa, politica e sociale.
Se il problema è quello della emancipazione si tratta però di comprendere di quale emancipazione abbia bisogno l’uomo, ed è qui che le strade divergono in modo radicale : per Bauer, nella Questione ebraica, l’emancipazione non deve essere dell’ebreo in quanto ebreo, ma dell’uomo in quanto uomo, e deve essere essenzialmente di tipo politico; per Marx l’emancipazione deve essere di ordine sociale: è solo agendo su questo piano che l’uomo può effettivamente emanciparsi, oltrepassando la separazione moderna tra stato e società civile, tra borghese e cittadino; per Stirner occorre andare al di là sia della politica e dello stato che della società, dello stesso concetto dei “diritti umani”- tutti fantasmi, spettri,astrattezze di cui liberarsi - assumendo come principio della liberazione il concetto dell’Unico, quale archetipo di una nuova concezione dell’uomo e del suo destino. A Stirner non interessano né la comunità, né la società: gli altri sono mezzi e strumenti da adoperare come proprietà del singolo.
Rispetto a interlocutori del calibro di Marx e Bauer, Stirner, stravolgendo in chiave individualistica “egoistica” e nihililistica il concetto moderno di potere, e connettendolo a quello di proprietà, si situa in un punto di vista totalmente altro, suscitando per la radicalità delle sue posizioni l’interesse di pensatori come Nietzsche, che ne riprende il concetto di volontà di potenza. Anche se - come ha scritto Roberto Calasso - è quella di Stirner «la vera “filosofia del martello” , che Nietzsche non sarebbe mai riuscito a praticare , perché troppo irrimediabilmente educato...».
«Si dice di Dio:”Nessun nome ti nomina”. Ciò vale anche per me: nessun concetto mi esprime, niente di ciò che di indica come mia essenza mi esaurisce: sono soltanto nomi..» . L’Unico di Stirner agisce solo per sè, situandosi al di fuori di qualunque apparato costruttivo: l’ Unico, se lo ritiene opportuno, può associarsi , ma il concetto di associazione è del tutto diverso da quello di stato, il quale non ha alcuna legittimità e al quale Stirner è totalmente avverso . Come è avverso al nazionalismo, al liberalismo, allo statalismo, al comunismo, ed anche all’umanismo....In Stirner il nihilismo si realizza in maniera compiuta :«Io - scrive, riprendendo un verso di Goethe - ho fondato la mia causa sul nulla..».
Si capisce che Marx nella Ideologia tedesca abbia sottoposto a una critica radicale il pensiero di San Max, come lo chiama : sono posizioni polari. Non è concepibile per Marx l’opposizione tra individuo e società, l’uomo si determina nei rapporti sociali. E si capisce anche perché Stirner abbia avuto fortuna presso posizioni di tipo anarco-individualistiche, ed anche perché il suo pensiero susciti particolare interesse in un tempo come il nostro nel quale sono in crisi tutti i principi “moderni“ contro cui Stirner conduce una lotta senza quartiere, e quella dell’individuo è ridiventata una questione centrale.
In questo senso, le sue pagine sono singolarmente attuali e possono essere rilette in modo nuovo, al di fuori di vecchi e nuovi pregiudizi . È stato perciò assai opportuno ripubblicare, con testo tedesco a fronte, questo grande libro nella “bella” e “fedele” traduzione di Sossio Giametta, che vi ha premesso anche una originale e limpidissima Introduzione. Stirner ha messo a fuoco aspetti della condizione umana che oggi, mentre un intero mondo si dissolve, appaiono in piena luce. Molto più di quanto sia apparso in passato. Come diceva il vecchio Hegel, è la fine che illumina il principio e il suo sviluppo.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". Dalla democrazia della "volontà generale" alla democrazia della "volontà di genere". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
CRITICA DELL’ECONOMIA TEOLOGICO-POLITICA. " Me ne stavo seduto pensieroso, misi da parte Locke, Fichte e Kant e mi dedicai a una profonda ricerca per scoprire in che modo una lisciviatrice può essere connessa al maggiorascato, quando mi trapassò un lampo (...)" (K. Marx, "Scorpione e Felice").
GIOACCHINO, DANTE, E LA "CASTA ITALIANA" DELLO "STATO HEGELIANO" - DELLO STATO MENTITORE, ATEO E DEVOTO ("Io che è Noi, Noi che è Io"). Appunti e note
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA.
"PERCHE’ NON POSSIAMO NON DIRCI CRISTIANI", 0GGI.. In memoria di (Benedetto Croce), alcune note a margine del discorso di Papa Francesco, all’Angelus del 12 agosto 2018 d. C. ... *
PAPA FRANCESCO
ANGELUS
Piazza San Pietro
Domenica, 12 agosto 2018
Cari fratelli e sorelle e cari giovani italiani,
buongiorno!
Nella seconda Lettura di oggi, San Paolo ci rivolge un pressante invito: «Non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione» (Ef 4,30).
Ma io mi domando: come si rattrista lo Spirito Santo? Tutti lo abbiamo ricevuto nel Battesimo e nella Cresima, quindi, per non rattristare lo Spirito Santo, è necessario vivere in maniera coerente con le promesse del Battesimo, rinnovate nella Cresima. In maniera coerente, non con ipocrisia: non dimenticatevi di questo. Il cristiano non può essere ipocrita: deve vivere in maniera coerente. Le promesse del Battesimo hanno due aspetti: rinuncia al male e adesione al bene.
Rinunciare al male significa dire «no» alle tentazioni, al peccato, a satana. Più in concreto significa dire “no” a una cultura della morte, che si manifesta nella fuga dal reale verso una felicità falsa che si esprime nella menzogna, nella truffa, nell’ingiustizia, nel disprezzo dell’altro. A tutto questo, “no”. La vita nuova che ci è stata data nel Battesimo, e che ha lo Spirito come sorgente, respinge una condotta dominata da sentimenti di divisione e di discordia. Per questo l’Apostolo Paolo esorta a togliere dal proprio cuore «ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenza con ogni sorta di malignità» (v. 31). Così dice Paolo. Questi sei elementi o vizi, che turbano la gioia dello Spirito Santo, avvelenano il cuore e conducono ad imprecazioni contro Dio e contro il prossimo.
Ma non basta non fare il male per essere un buon cristiano; è necessario aderire al bene e fare il bene. Ecco allora che San Paolo continua: «Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo» (v. 32). Tante volte capita di sentire alcuni che dicono: “Io non faccio del male a nessuno”. E si crede di essere un santo. D’accordo, ma il bene lo fai? Quante persone non fanno il male, ma nemmeno il bene, e la loro vita scorre nell’indifferenza, nell’apatia, nella tiepidezza. Questo atteggiamento è contrario al Vangelo, ed è contrario anche all’indole di voi giovani, che per natura siete dinamici, appassionati e coraggiosi. Ricordate questo - se lo ricordate, possiamo ripeterlo insieme: “E’ buono non fare il male, ma è male non fare il bene”. Questo lo diceva Sant’Alberto Hurtado.
Oggi vi esorto ad essere protagonisti nel bene! Protagonisti nel bene. Non sentitevi a posto quando non fate il male; ognuno è colpevole del bene che poteva fare e non ha fatto. Non basta non odiare, bisogna perdonare; non basta non avere rancore, bisogna pregare per i nemici; non basta non essere causa di divisione, bisogna portare pace dove non c’è; non basta non parlare male degli altri, bisogna interrompere quando sentiamo parlar male di qualcuno: fermare il chiacchiericcio: questo è fare il bene. Se non ci opponiamo al male, lo alimentiamo in modo tacito. È necessario intervenire dove il male si diffonde; perché il male si diffonde dove mancano cristiani audaci che si oppongono con il bene, “camminando nella carità” (cfr 5,2), secondo il monito di San Paolo.
Cari giovani, in questi giorni avete camminato molto! Perciò siete allenati e posso dirvi: camminate nella carità, camminate nell’amore! E camminiamo insieme verso il prossimo Sinodo dei Vescovi. La Vergine Maria ci sostenga con la sua materna intercessione, perché ciascuno di noi, ogni giorno, con i fatti, possa dire “no” al male e “sì” al bene.
Dopo l’Angelus
Cari fratelli e sorelle,
rivolgo il mio saluto a tutti voi, romani e pellegrini provenienti da tante parti del mondo.
In particolare saluto i giovani delle diocesi italiane, accompagnati dai rispettivi Vescovi, dai loro sacerdoti ed educatori. In questi giorni, avete riversato per le strade di Roma il vostro entusiasmo e la vostra fede. Vi ringrazio per la vostra presenza e per la vostra testimonianza cristiana! E ieri, nel ringraziare, ho dimenticato di dire una parola ai sacerdoti, che sono quelli che vi sono più vicini: ringrazio tanto i sacerdoti, ringrazio per quel lavoro che fanno giorno per giorno, ringrazio per quella pazienza - perché ci vuole pazienza per lavorare con voi! La pazienza dei sacerdoti ... - ringrazio tanto, tanto, tanto. E ho visto anche tante suore che lavorano con voi: anche alle suore, grazie tante.
E la mia gratitudine si estende alla Conferenza Episcopale Italiana - qui rappresentata dal Presidente Cardinale Gualtiero Bassetti - che ha promosso questo incontro dei giovani in vista del prossimo Sinodo dei Vescovi.
Cari giovani, facendo ritorno nella vostre comunità, testimoniate ai vostri coetanei, e a quanti incontrerete, la gioia della fraternità e della comunione che avete sperimentato in queste giornate di pellegrinaggio e di preghiera.
A tutti auguro una buona domenica. Un buon rientro a casa. E per favore, non dimenticate di pregare per me! Buon pranzo e arrivederci!
* Appunti di commento sul tema, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA. “Come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
SULLA PEDOFILIA, L’ALLARME DELLA RIVISTA "CONCILIUM" (3/2004) E IL COLPEVOLE SILENZIO DEL VATICANO.
Un Grand giurì ha riconosciuto la colpa di 300 sacerdoti su oltre mille bambini *
Più di 300 sacerdoti sono accusati in Pennsylvania di aver commesso abusi sessuali su oltre mille bambini nel corso di settant’anni, coperti "sistematicamente" dai vertici della Chiesa cattolica. Un Gran giurì americano ha diffuso un rapporto di oltre 1.400 pagine, ritenuto il più articolato e globale pubblicato sinora sulla pedofilia nella Chiesa americana da quando il Boston Globe per la prima volta denunciò il problema in Massachusetts nel 2002, vincendo un premio Pulitzer e ispirando il film ’Spotlight’. Il dossier ha portato all’incriminazione di due preti, ma la maggioranza dei presunti responsabili è ormai morta e la gran parte dei fatti è prescritta.
L’indagine del Gran giurì è durata due anni ed è stata condotta in tutte le diocesi della Pennsylvania, fatta eccezione per due. Cita decine di testimoni e mezzo milione di pagine di informazioni della Chiesa, contenenti "accuse credibili contro oltre 300 preti predatori". Più di mille bambine e bambini che furono vittime di abusi sono identificabili, ma "il vero numero" è in realtà "nell’ordine delle migliaia", secondo il Grand giurì, perché molti bambini hanno avuto paura di denunciare o i loro dati sono andati perduti. Le vittime, afferma il dossier, sono state speso traumatizzate per la vita, finendo per abusare di droga e alcol, o per suicidarsi.
Tra i casi elencati c’è quello di un religioso che ha stuprato una bambina di 7 anni in ospedale, dopo che la piccola aveva subito una tonsillectomia. Un altro bambino bevve un succo di frutta e si svegliò il mattino dopo sanguinante dal retto, senza poter ricordare che cosa gli fosse accaduto. Un prete costrinse un bambino di 9 anni a praticargli sesso orale, poi gli lavò la bocca con l’acqua santa per "purificarlo". Un altro sacerdote abusò di cinque sorelle della stessa famiglia, tra cui una da quando aveva 18 mesi ai 12 anni. Quando una delle bambine lo disse ai genitori nel 1992, la polizia trovò nella casa del prete slip, bustine di plastica contenenti peli pubici, fiale d’urina e fotografie a sfondo sessuale di bambine. La Chiesa ignorò per anni le accuse e il sacerdote morì in attesa di processo, ha dichiarato il procuratore generale della Pennsylvania, Josh Shapiro.
"Lo schema era abuso, negazione e copertura", ha spiegato Shapiro, aggiungendo: "Come diretta conseguenza della sistematica copertura da parte delle alte autorità ecclesiastiche, quasi ogni caso di pedofilia che abbiamo rilevato è troppo datato per un processo". Sinora solo due preti sono stati incriminati per accuse che sono al di fuori della prescrizione: uno è accusato di aver eiaculato nella bocca di un bambino di sette anni e si è dichiarato colpevole, secondo la procura; l’altro ha aggredito due bambini, uno dei quali da quando aveva 8 anni per un periodo di otto anni, sino al 2010.
Il Gran giurì ha chiesto che la prescrizione per i reati di pedofilia sia cancellata, che le vittime abbiano più tempo per presentare denuncia e che sia rafforzata la legge che obbliga a denunciare gli abusi sessuali di cui si viene a conoscenza. "I preti stupravano bambine e bambini piccoli e gli uomini di Dio che erano responsabili per loro non solo non facevano nulla, ma nascondevano tutto. Per decenni", si legge nel rapporto. I religiosi anziani, al contrario, furono promossi e i preti pedofili poterono amministrare per 10, 20 e persino 40 anni dopo che i vertici erano venuti a conoscenza degli abusi e mentre la lista delle vittime si allungava sempre di più, ha detto Shapiro.
Negli Stati Uniti, sono tra 5.700 e 10mila i preti cattolici accusati di abusi sessuali, ma poche centinaia sono stati processati, dichiarati colpevoli e condannati, secondo Bishop Accountability. Da quando il problema della pedofilia nella Chiesa cattolica è diventato noto all’inizio degli anni 2000, la Chiesa americana ha speso più di 3 miliardi di dollari in patteggiamenti, secondo l’osservatorio. Questo ha documentato accordi con 5.679 presunte vittime del clero cattolico, solo un terzo delle 15.235 denunce che i vescovi hanno detto di aver ricevuto fino al 2009. Una stima ipotizza che le vittime negli Usa siano 100mila. Sotto la pressione dell’aumento di denunce nel mondo e delle continue critiche per la insufficiente risposta della Chiesa, papa Francesco nel 2013 ha promesso una nuova legge sulla pedofilia e pedopornografia. Anche in Cile la Chiesa è stata di recente travolta da accuse di vasta copertura di casi di pedofilia durante gli anni Ottanta e Novanta.
* Fonte: La Presse, Martedì 14 Agosto 2018
SULLA PEDOFILIA, L’ALLARME DELLA RIVISTA "CONCILIUM" (3/2004) E IL COLPEVOLE SILENZIO DEL VATICANO.
METAFISICA E SCIENZA. L’ARCHIVIO DEGLI ERRORI. Anassimandro batte Asterix ... ma non i "visionari", i theorici dell’"uomo supremo"...*
L’invenzione della Natura Terremoti, eclissi, mareggiate e siccità sono lì a ricordarci la precarietà del tutto: come per i Galli dei fumetti, il timore che l cielo possa sempre cadere. Ma così non sarà, aveva scoperto il filosofo di Mileto nel VI secolo a.C.
Anassimandro batte Asterix
Anassimamdro si era cinvinto che l’universo fosse in espansione, forse in consegueza di una esplosione inizialr (il Big Bang?); e che gli uomini ferivassero dai pesci (Darwin?)
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 12.08.2018)
Nascere - venire all’essere, diventare qualcosa - è una colpa che verrà pagata con la morte. Questo, secondo Friedrich Nietzsche, giovane filologo a Basilea ancora sensibile alle sirene di Schopenhauer, insegnava il primo testo filosofico giunto fino a noi, un breve frammento di Anassimandro di Mileto: «Principio di tutte le cose non è né l’acqua né nessun altro dei cosiddetti elementi, ma una certa altra natura infinita, da cui tutto diviene (...): da ciò da cui è la generazione delle cose che sono, lì è anche la distruzione secondo il dovuto: esse scontano infatti la pena e il fio dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo».
Poche parole, al cui fascino è difficile sottrarsi. Per Martin Heidegger, in fluenzato a sua volta da Nietzsche, costituivano la prova del fatto che la filosofia è nata grande, capace di affrontare fin da subito i problemi più importanti. Perché c’è qualcosa invece di nulla? Questa è la questione fondamentale. Perché esistono gli alberi, il mare, noi, io? Anassimandro non aveva posto solo la domanda; aveva anche offerto una prima risposta.
C’è un principio primo, eterno, infinito, indistinto (chiamiamolo Dio; Anassimandro lo chiamava apeiron, il «senza limiti») in cui tutto riposa; la realtà, così come la vediamo intorno a noi (e di cui facciamo parte) si è formata staccandosi proprio da quel principio: un impulso incoercibile, una spinta potente, irrazionale e primordiale, spinge tutto a essere qualcosa. È la volontà di vivere, di cui parlava Schopenhauer. E non solo lui: lo schema di pensiero è molto più diffuso. La storia ebraica e poi cristiana degli angeli che si ribellano a Dio, o di Adamo ed Eva, non è molto diversa, e tanti altri paralleli, fin dalla lontana India, potrebbero essere aggiunti. Analoghe erano le conclusioni, del resto: questa colpa, la colpa di voler essere, prima o poi sarebbe stata punita. La nascita e la morte, l’essere e il non essere: ogni affermazione (di sé) è una negazione (dell’altro), ma giustizia prima o poi verrà fatta. Ecco la legge, tragica, che svela il segreto dell’esistenza. Una tesi affascinante, indubbiamente. Che però non c’entra nulla con Anassimandro.
Vissuto nel VI secolo a.C., di lui si è perso quasi tutto. Se ancora leggiamo qualche sua frase, è grazie al neoplatonico Simplicio (un personaggio di cui sarebbe bello raccontare le imprese: era uno dei sette filosofi fuggiti in Persia per fondare la città ideale di Platone, dopo che Giustiniano aveva chiuso la loro Accademia ad Atene nel 529 d.C.), che lo aveva citato, più di mille anni dopo.
Il suo scritto, un imponente commento alla Fisica di Aristotele, fu poi pubblicato da Aldo Manuzio nel 1526 (e anche di queste imprese editoriali, e di quello che hanno significato per l’Europa, sarebbe bello ricordarsi), permettendo ai vari Nietzsche e Schopenhauer di appassionarsi ad Anassimandro. L’edizione di Manuzio, però, si fondava su un manoscritto lacunoso. Mancava una paroletta nell’ultima frase: «Essi scontano reciprocamente la pena e il fio dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo». Per quanto minuscola, l’aggiunta cambia tutto. Il conflitto non è più con il principio (Dio): riguarda l’universo, o meglio gli elementi che lo costituiscono. Anassimandro raccontava una storia completamente diversa.
Il mondo che si dispiega davanti a noi si organizza per opposizioni: il caldo e il freddo, la luce e il buio, l’acqua e il fuoco... il conflitto è tra questi opposti, gli elementi materiali costituenti, che sono come in guerra tra di loro. Il conflitto e il caos: il rischio è che l’universo intero collassi se uno degli elementi dovesse prevalere sugli altri. Era una paura ben presente nel mondo del mito, dove a ogni potenza naturale è associata una divinità, a cui occorre rivolgersi con preghiere e sacrifici perché conservi l’universo in questo suo equilibrio così precario. Terremoti, eclissi, mareggiate e siccità sono lì a ricordarci la precarietà del tutto: come per Asterix e Obelix, il timore è che il cielo possa sempre cadere, e tutto andare in frantumi. Così non sarà, spiega Anassimandro, forte della sua scoperta.
Scoprire significa vedere qualcosa che c’è, ma nessuno vedeva. È vero che la realtà si trasforma continuamente e che ogni trasformazione altro non è che l’affermarsi di una qualità e la temporanea soppressione del suo opposto. Ma la prevaricazione verrà riequilibrata nel corso del tempo, secondo una legge che regola eternamente queste opposizioni. È l’incessante alternanza del giorno e della notte, delle stagioni calde e fredde, e dei cicli astronomici che scandiscono la vita dell’universo. Questo ha visto Anassimandro, l’ordine che regola le trasformazioni.
Dimenticato il pensatore tragico, senza più bisogno di introdurre divinità arcane, quello che ora emerge è il cantore dei ritmi iscritti nel mondo dei contadini e dei mercanti. Un pensatore che confida esclusivamente nella sua capacità di osservare e ragionare.
Non è più il tempo dei poeti che ripetono ispirati la parola della Musa: l’autorità di Anassimandro dipende unicamente dalla capacità di collegare correttamente i fenomeni, offrendo spiegazioni plausibili. Il risultato è la scoperta della «natura», la presa d’atto che questo immenso universo che ci circonda è qualcosa di unico, omogeneo, in cui tutto si tiene, secondo leggi e costanti. All’instabilità permanente del mito si sostituisce l’idea di uno spazio stabile e regolare - uno spazio «naturale» per cui non servono interventi arbitrari, esterni, «soprannaturali».
Non è un’intuizione da poco. La filosofia nasce così, insegnando a guardare, a riconoscere la trama che innerva lo spettacolo (questo significa theoria in greco) dell’universo, la regolarità che ricompone in un ordine dinamico ciò che all’occhio inesperto appare caotico e instabile.
Se lo avesse incontrato, Anassimandro non avrebbe compreso il senso della domanda di Heidegger. Per i Greci, l’universo esiste da sempre per sempre, eternamente. Inutile dunque chiedersi perché c’è l’essere e non il niente. Molto più proficuo, e interessante, è individuare le leggi che regolano la vita dell’universo e raccontarne la storia. Si sarebbe insomma sentito più vicino a un filosofo della scienza come Karl Popper, che infatti proprio in lui e negli altri presocratici aveva trovato i precursori degli scienziati contemporanei, uniti dallo stesso desiderio di comprendere, descrivere e spiegare. È una buona presentazione di quello che faceva Anassimandro: osservando le maree e le orbite dei pianeti si era convinto che l’universo è in espansione, con gli elementi caldi che si allontanano progressivamente da quelli freddi, forse in conseguenza di un’esplosione iniziale.
Di certo la passione di indagare e conoscere è la stessa. Aveva anche concepito la prima mappa dell’universo, con la Terra (a forma di cilindro, non piatta) al centro, circondata da una serie di anelli concentrici, delle stelle, del sole, della luna, secondo proporzioni geometriche ben definite. Un universo non solo uniforme ma anche elegante, insomma (e una prima versione del modello che il lettore italiano ritroverà nella Divina Commedia).
Tutto chiaro, dunque?
Prima di entusiasmarsi per i presocratici Popper si era formato discutendo con i membri del Circolo di Vienna, che si erano proposti l’obiettivo di fare chiarezza da tutte le astruserie della metafisica (Heidegger, tanto per cambiare, era il bersaglio privilegiato). Enunciati e domande che non rappresentano stati di fatti di ordine fisico, oggettivamente verificabili, non possono essere detti né veri né falsi, sono privi di senso: non trasmettono alcuna conoscenza e per questo bisogna starne lontani.
Ludwig Wittgenstein, il nume tutelare del circolo, lo aveva spiegato con la consueta chiarezza. «Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è»: come il mondo è, ecco qualcosa che possiamo descrivere e spiegare; che (perché) il mondo è (esiste), invece no; è qualcosa di cui non ha perciò senso parlare (è il Mistico, nel suo vocabolario): «Se una domanda può porsi, può avere anche una risposta»; «su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Davvero?
Anassimandro aveva offerto una prima descrizione «scientifica» dell’universo. Aveva per primo intuito che l’universo è un tutto organico, regolato da leggi e costanti. Alcune domande, però, rimanevano aperte. Perché ci sono queste leggi, chi garantisce per il loro funzionamento? Forse il misterioso apeiron, quel principio indeterminato, oscuro e infinito, da cui tutto proviene e a cui tutto torna? Ma questo non significa reintrodurre con parole diverse problematiche teologiche? Non è soltanto un problema storiografico (ricostruire le tesi di Anassimandro in proposito); è un’altra versione del solito problema: ma perché ci sono le cose - gli alberi e i pianeti, io e tu? Da dove arrivano e dove vanno?
Domande oziose, per cui probabilmente non si troverà mai una risposta ultima. Ma di cui è difficile fare a meno: «L’impulso al Mistico - scriveva lo stesso Wittgenstein il 15 maggio 1915 - viene dalla mancata soddisfazione dei nostri desideri da parte della scienza. Noi sentiamo che una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, il nostro problema non è ancora neppure stato toccato». È un’affermazione fin troppo severa: senza l’aiuto di chi ci guida nella comprensione di quello che accade intorno a noi, non potremmo veramente godere dello spettacolo dell’universo e iniziare a interrogarci su noi stessi.
Così Platone e Aristotele sostenevano che la filosofia vive della meraviglia, nella consapevolezza che le cose non sono mai come credevamo. Alla fine del suo percorso anche Wittgenstein era arrivato a conclusioni analoghe: «Mi meraviglio per l’esistenza del mondo». Imparare a meravigliarsi, consapevoli che tanto maggiori saranno le scoperte tanto più numerosi saranno i problemi che dovremo affrontare: probabilmente non c’è esperienza più bella per noi esseri umani, sempre in cerca di significati, ma anche sempre esposti al rischio di ricadere nelle superstizioni di Asterix. Per questo servono le scoperte degli scienziati, ma anche le domande dei filosofi. Meglio ricordarsene, visto che il viaggio promette di essere ancora lungo.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
COSMOLOGIA E ANTROPOLOGIA. AL DI LA’ DI NEWTON, CON KANT - E ARTHUR S. EDDINGTON ... e Popper
ALBERT EINSTEIN, LA MENTE ACCOGLIENTE. L’universo a cavallo di un raggio di luce (non di un manico di scopa!)
L’ARCHIVIO DEGLI ERRORI: L’ "IO SONO" DI KANT E L’ "IO SONO" DELL’"UOMO SUPREMO" DEI "VISONARI" DELLA TEOLOGIA POLITICA ATEA E DEVOTA. Note per una rilettura della "Critica della Ragion pura" (e non solo)
Federico La Sala
RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, STORIOGRAFIA, E DEMOCRAZIA. LA VITTORIA DI GALILEO NON SOLO E’ SCIENTIFICA, MA è ANCHE VITTORIA TEOLOGICA E POLITICA....*
La tesi di Iliffe
Fede e numeri: il metodo di Newton laico devoto
di Stefano Gattei (Corriere della Sera, La Lettura, 12.08.2018)
Che Isaac Newton (1642-1727) fosse profondamente religioso è noto. Che avesse studiato alchimia, teologia e le profezie bibliche, e che avesse approfondito la cronologia antica, non lo è altrettanto, anche se gli studiosi lo considerano ormai un dato acquisito («la Lettura» #69 ne scrisse il 10 marzo 2013). Per anni, tuttavia, gli ammiratori dei Principia mathematica o dei lavori sul calcolo infinitesimale hanno faticato a riconciliare ambiti di ricerca così apparentemente lontani, tanto che non pochi studiosi hanno avanzato l’ipotesi che gli interessi religiosi e pseudoscientifici del grande scienziato (molti dei quali affidati a manoscritti pubblicati dopo la morte) risalissero agli ultimi anni della sua vita, costituendo quindi un sorta di prodotto «senile» del genio.
Nel suo ultimo studio sullo scienziato inglese (Priest of Nature: The Religious Worlds of Isaac Newton, Oxford University Press, 2017) Rob Iliffe mostra l’infondatezza di tale lettura. Professore a Oxford, e direttore del Newton Project, Iliffe prende ferma posizione contro quanti hanno inteso sostenere che gran parte delle ricerche newtoniane siano il residuo imbarazzante di superstizioni.
Parallelamente al racconto della vita dello scienziato, Iliffe ricostruisce come Newton abbia gestito il difficile rapporto tra la propria immagine pubblica e le sue credenze religiose, e ne esplora gli scritti meno noti, soffermandosi sulle idee in tema di creazione del mondo e di Apocalisse, e analizzando la sua tesi che le dottrine centrali del cristianesimo (in particolare sulla Trinità) non fossero che mostruosa idolatria, perversioni sataniche della vera religione.
Agli occhi di Iliffe, non solo le convinzioni religiose di Newton permeano le sue prime ricerche scientifiche, ma le tecniche da lui impiegate per smascherare la corruzione della dottrina cristiana delle origini sono simili a quelle utilizzate per confutare le tesi degli avversari in ambito scientifico. Per Iliffe, Newton è stato un laico devoto che ha messo al centro della propria riflessione la libertà e l’indipendenza del pensiero.
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA, ALTRO CHE MISTERO.
LA VIA DI KANT: USCIRE DAL MONDO, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI "DIO", CONCEPITO COME L’“UOMO SUPREMO”! La “Prefazione” della “Storia universale della natura e teoria del cielo”. Note per una rilettura
L’ARCHIVIO DEGLI ERRORI: L’ "IO SONO" DI KANT E L’ "IO SONO" DELL’"UOMO SUPREMO" DEI "VISONARI" DELLA TEOLOGIA POLITICA ATEA E DEVOTA. Note per una rilettura della "Critica della Ragion pura" (e non solo)
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA E ANTROPOLOGIA RELIGIOSA. "Desiderio": "ciò che viene dalle stelle".... *
ANTICHI RITORNI
Stelle cadenti? ’Lacrime’ sì... ma non del genere che credete
Perché agli astri è connesso il ’desiderium’. A ben guardare la tradizione cristiana ha soppiantato una credenza pagana, molto più antica ma meno ‘romantica’.
di Alba Subrizio *
Mi perdoneranno i nostri lettori se ho deciso di riproporvi un articolo del nostro blog di qualche anno fa, ma la data (il 12 agosto) ’obbliga’ a parlarne. Sono queste, infatti, le sere in cui siamo tutti con il naso all’insù per vedere di cogliere qualche stella cadente; innamorati, scaramantici, speranzosi o scettici che siano semplicemente desiderosi di osservare il fenomeno astrale, tutti sperano di carpire almeno una delle scie luminose che attraversano la volta celeste in queste calde notti estive.
Non è un caso che alla ‘caduta’ di una stella sia connesso l’esprimere un desiderio, se è vero - come è vero - che il concetto di ‘desiderio’, in quanto brama di qualcosa, è intrinsecamente ed etimologicamente connesso agli astri, dal momento che la parola latina “desiderium” deriva dalla preposizione de (indicante movimento dall’alto verso il basso) + sidus, sideris (ossia “stella”, “astro”), ossia il desiderio è propriamente “ciò che viene dalle stelle”.
Si è soliti pertanto, nella cultura odierna, confessare i propri sogni alla volta celeste, sperando che questi presto o tardi possano avverarsi. Si tratta del fenomeno delle Perseidi, lo sciame meteoritico, così chiamato perché gravitante nella costellazione di Perseo, che ogni anno, orbitando intorno al sole dal 10 al 20 agosto (con picco il 12), è visibile dalla Terra. Nella cultura cristiana e popolare tale ‘sciame’ è noto anche come lacrime di San Lorenzo, dal nome del santo martirizzato sulla graticola, che si festeggia in tale data.
A ben guardare però la tradizione cristiana ha soppiantato una credenza pagana, molto più antica ma meno ‘romantica’. Ebbene, è da premettere che il mese di Augustus, dedicato appunto all’imperatore Ottaviano Augusto, è uno dei mesi dove si celebravano la maggior parte delle feste legate al mondo agricolo, alla coltivazione dei campi, alle fertilità dunque; feste che spesso erano accompagnate da processioni durante le quali aveva luogo la cosiddetta “fescennina iocatio”, ovvero la ‘facezia fescennina’. I fescennini erano, difatti, dei versi mordaci a sapore volgare ed erotico che alludevano al “fascinum”, termine che nella lingua latina aveva una certa ambivalenza, poiché significava sia “malocchio” (da cui il nostro ‘fascinatura’) sia “membro virile”; non è un caso che ad essere portato in processione era l’enorme fallo del dio Priapo.
Orbene, i nostri antenati romani associavano il fenomeno astrale del passaggio delle Perseidi a ben altro genere di ‘lacrime’, o per meglio dire ‘gocce’: quelle dovute alla eiaculazione del seme del dio della fertilità. E voi, ce l’avete un desiderio irrealizzabile? Provate magari a pregare Priapo e a sperare di vederne il seme.
Alba Subrizio
Biografia: «E quel giorno che ha potere solo sul mio corpo e su null’altro, ponga pure fine, quando vorrà, alla mia vita. Con la miglior parte di me volerò eterno al di sopra degli astri e il mio nome non si potrà cancellare, fin dove arriva il potere di Roma sui popoli soggiogati, là gli uomini mi leggeranno, e per tutti i secoli vivrò della mia fama...». Così Publio Ovidio Nasone conclude il suo capolavoro “Le Metamorfosi”; sulla scia del grande Sulmonese. E, allora, eccomi qui a raccontarvi di miti, eziologie e pratiche del mondo antico... che fanno bene anche oggi.
* Il Mattino di Foggia, 12/08/2018
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
COSMOLOGIA E ANTROPOLOGIA. IL CIELO STELLATO .... *
Oggi le stelle cadenti, viaggio dall’antica Grecia al cristianesimo
La notte di San Lorenzo e l’ascesi dello sguardo
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 10.08.2018)
Nel mondo cristiano la notte delle stelle cadenti è una festa della luce e una celebrazione dello sguardo. In Grecia, e in genere nel calendario ortodosso, è associata alla contigua festa della Metamorphosis, ossia della Trasfigurazione, quando Cristo sul Tabor appare ai discepoli in una mandorla accecante di luce.
Un’esortazione, nell’esegesi teologica bizantina e poi russa, alla metamorfosi dello sguardo, all’esercizio di quella capacità di percepire la struttura spirituale delle cose, di intravedere, come ha scritto Pavel Florenskij, «tra le crepe del mondo sensibile l’azzurro dell’eternità», che in altre tradizioni mistiche, come quella buddista, è chiamato appunto "retto sguardo".
Mea nox obscurum non habet, sed omnia in luce clarescunt, recitano, in metrica classica, i Vespri della liturgia di San Lorenzo: «La mia notte non ha oscurità, ma tutto nella luce diventa chiaro». Quello di Lorenzo, uno dei sette diaconi martirizzati a Roma nel Terzo secolo, secondo la leggenda agiografica è il sacrificio dei sacrifici: oltre ai tratti dell’olocausto pagano (Lorenzo fu "cotto", arso vivo sul fuoco come un’antica hostia animale) conserva anche, nella tradizione cristiana, un elemento cannibalesco, come ricorda la frase che secondo il De Officiis di Ambrogio pronunciò durante il supplizio: Assum est. Versa et manduca, «Questa parte è cotta. Gira e mangia».
Secondo la tradizione popolare sono le lacrime di san Lorenzo, o le scintille di fuoco sprigionate in alto dalla graticola, le scie luminose dello sciame meteorico più visibile dell’anno, che la Terra nella sua rivoluzione si trova ad attraversare tra la fine di luglio e la seconda metà di agosto, con un picco di visibilità concentrato, appunto, questa notte. In età più antica questa pioggia di luci è stata interpretata anche altrimenti. I romani le ritenevano spruzzi di bianco sperma del dio Priapo, sparsi a inseminare i campi, associati quindi alla grande festa della divinità femminile fecondatrice della terra che cade tra pochi giorni, il 15 agosto.
Il radiante della pioggia meteorica, ossia il punto dal quale sembrano provenire tutte le scie, è nella costellazione di Perseo. Per questo le stelle cadenti si chiamano Perseidi, richiamando il mito antico della decapitazione della Gorgone Medusa, il cui sguardo fisso nel nostro ci impedisce di guardare rettamente il mondo, ci pietrifica e ci inocula la morte negli occhi, secondo la definizione di Jean-Pierre Vernant. Anche nel mito greco cui gli astronomi ottocenteschi associano queste particelle siderali, rilasciate da un’antica cometa durante le sue passate orbite, si celebra dunque la liberazione dello sguardo.
Che si tratti di Ulisse o del pastore errante nell’Asia, del salmista o di Elia rapito sul carro, da sempre lo sguardo umano si è diretto al cielo. Se è nell’immenso ricamo astrale che ogni sapienza antica riconosce il disegno dei suoi eventi sacri, è nel cielo stellato sopra di sé che i navigatori dei mari o dei deserti, gli ispirati o i mistici trovano la propria rotta nel mondo esteriore così come il retto orientamento interiore.
Se è alla vertigine cosmica che il filosofo affida la sua visione del mondo, se oggi le luci delle città oscurano il cielo, se la scienza moderna ci insegna che è di stelle morte anche da migliaia e migliaia di anni la luce che arriva allo sguardo dei terrestri, è ancora più necessario, una volta l’anno, rivolgerlo a questo universale, letterale simbolo di caducità. Come scriveva Pascoli: «E tu, Cielo, dall’alto dei mondi / sereni, infinito, immortale,/ oh! d’un pianto di stelle lo inondi /quest’atomo opaco del Male».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
Federico La Sala
Razzismo e Noismo
di Silvia Antonelli *
Quali sono le tappe che portano alla costruzione dell’identità collettiva e quando e perché essa si configura attraverso la costruzione dell’altro, nemico e ostile da sé, solo in quanto portatore di diversità? Perché il “noi collettivo” si costruisce attraverso l’esclusione e la marginalizzazione dell’altro? Quali sono i postulati che consideriamo inderogabili, alla base della cultura europea e che hanno condotto a società fortemente e indiscutibilmente gerarchizzate?
Questi sono gli interrogativi da cui parte il bel libro-dialogo Razzismo e noismo. Le declinazioni del noi e l’esclusione dell’altro, frutto del confronto e dell’intreccio di ragionamenti di due studiosi molto diversi fra loro ma che decidono di incontrarsi, e in alcuni momenti scontrarsi, per cercare di delineare, a partire da prospettive e formazione diversi, le dinamiche che sono alla base della formazione dell’identità collettiva.
Già la struttura del libro anticipa e funge da manifesto di intenti: non è una narrazione lineare e sistematica, tipica della forma saggio, zeppa di constatazioni, assertiva, dogmatica, che pone sul piatto del lettore verità inconfutabili. È un dialogo che si compone gradualmente a partire da linguaggi diversi, che si mette in discussione; dove i due interlocutori si aprono all’ascolto dell’altro, sgombri da pregiudizi e da convinzioni preconcette. Si alternano, con un ritmo serrato e appassionato, con l’intento vivido di raggiungere il livello più viscerale di approfondimento, assumendo la complessità come inizio e prospettiva, senza cedere a semplificazioni e a scorciatoie.
Luigi Luca Cavalli Sforza è un genetista di fama mondiale i cui studi hanno dimostrato l’inservibilità del concetto di razza applicata agli uomini, mentre Daniela Padoan, di alcune generazioni più giovane, è una studiosa che si è occupata di testimonianze di deportazione, di genocidi e totalitarismi e di resistenze femminili.
Due generazioni a confronto e due linguaggi, quello scientifico da una parte e quello umanistico dall’altro, che invece di correre, come fanno solitamente, su binari paralleli, decidono di intrecciarsi e dare forma ad un pensiero che per sua stessa natura nasce dall’incontro di diversità, che non si perdono l’una nell’altra ma che sono capaci di concorrere entrambe alla costruzione di un pensiero alt(r)o complesso e articolato.
In un momento storico e sociale in cui il richiamo ad una presunta identità collettiva sembra forte e urgente, e viene venduto come l’unico modo per superare una crisi economica di grandi dimensioni, questo libro diventa una miccia interessante in grado di innescare un ragionamento originale che si fa leva per porre in discussione l’intero sistema di dominio, sottomissione e sopraffazione che diamo per scontato e che consideriamo intoccabile nella sua ineluttabilità. Attraverso una ricostruzione delle dinamiche di relazione che hanno trasformato il vivere in comunità e tracciando una sorta di archeologia del dominio, il libro cerca di arrivare alle radici del razzismo, quale prodotto della gerarchizzazione del mondo, per poi indagare le numerose ramificazioni in cui esso si moltiplica e declina.
La chiave di volta attorno a cui ruota l’intera speculazione è il concetto di noi, nella sua declinazione di “noismo”, termine introdotto dallo stesso Cavalli-Sforza.
In italiano con il termine di egoismo indichiamo un concetto che gli anglosassoni nominano in due modi diversi: egoism e selfishness; in opposizione a quest’ultimo, gli inglesi contrappongono il termine we-ness
Lo studioso afferma che è esistito ed esiste un noi positivo, comunitario e che questo principio ha regolato in passato la nascita e lo sviluppo di molte società primitive che si sono sviluppate e che hanno progredito grazie a legami di solidarietà e di mutualità fra individui.
Dando ormai per assodato il fatto che l’umanità si origina dall’Africa e dalla migrazione con la quale alcuni gruppi si allontanarono per abitare altri continenti, Cavalli -Sforza ci ricorda che l’Homo sapiens sapiens finché visse di caccia e raccolta costituiva società egualitarie, non stratificate, dove a regolare le relazioni umane era il principio di un noi positivo, volto alla collaborazione e alla solidarietà. A seguito della rivoluzione agricola e dell’introduzione della divisione del lavoro e della proprietà individuale emersero differenziazioni di carattere socioeconomico che condussero alla formazione di una classe egemone, costituita da un gruppo ristretto o da un singolo individuo, che si fecero riferimento e orizzonte delle azione e del destino del gruppo sociale o economico di appartenenza.
Nasce il dominio, la sottomissione, la rinuncia della libertà in cambio della protezione dello stato. Da qui lo sviluppo delle società così come le conosciamo noi, che hanno impresso anche nei corpi e nel vivere quotidiano, l’abitudine alla violenza e alla sottomissione quali dati di fatto indiscutibili. Società plasmate sulla gerarchizzazione e sulla divisione in categorie predefinite, la cui affiliazione o esclusione diventa diritto o meno all’esistenza. La servitù, filo rosso della nostra civiltà, alimenta il razzismo e il disprezzo verso l’altro, necessari a legittimare la superiorità morale, culturale e anche genetica del maschio bianco europeo. É il dominio del noi che soppianta tutti gli altri modi del noi.
Daniela Padoan, che riporta continuamente il suo interlocutore ad una visione meno positivistica della storia, pone un altro cardine utile allo sviluppo del ragionamento e introduce la Shoah quale paradigma della categorizzazione del mondo che si alimenta della costruzione di un’identità collettiva, la cui immagine ideale diventa soglia e confine escludente dell’altro, fino a sancirne, indiscriminatamente, in nome di una presunta superiorità, il diritto all’esistenza.
Ecco come il noi positivo diventa disprezzo dell’altro, rifiuto della diversità quale minaccia alla propria integrità culturale e fisica di gruppo.
Interessanti e per nulla retoriche le pagine in cui la studiosa incalza la discussione partendo dal focus della Shoah che non è stata una parentesi disdicevole nel lungo e fruttuoso cammino della civiltà umana, nemmeno l’espressione del male assoluto e trascendentale; non fu pura follia, né un evento inspiegabile.
Fu al contrario il prodotto della cultura europea. Il prodotto di società gerarchizzate che definiscono se stesse a partire dalla costruzione di confini e limiti.
Assumere questa riflessione e farla propria significherebbe ripensare in profondità alle dinamiche di potere che regolano le nostre società oggi, alle pratiche di sottomissione cui ci siamo assuefatti. Abbiamo abdicato alla nostra libertà in cambio di una presunta sicurezza (argomento quanto mai attuale), costituito il nostro essere identitario a partire dalla marginalizzazione, anche visiva, dell’altro, che abbiamo ghettizzato, rinchiuso, allontanato, emarginato e anche eliminato dalle nostre società.
Questo libro complesso, che nasce e si sviluppa a partire dal confronto e dall’indagine, è una scintilla ragionata che ci riporta di fronte a noi stessi, che pone in discussione ogni dogma fino ad ora dato per scontato e soprattutto collega fatti storici e attualità che vorremo sconnessi, principi e causalità che è comodo tenere distanti; ci impone il ragionamento che nasce dalla conoscenza, ci suggerisce che esistono altri modi del noi e ci sollecita, con urgenza, a ripensare a noi stessi e alla nostra storia.
Silvia Antonelli
* Fonte: Umanità Nova, 02.06.2016
PSICHIATRIA E RAZZISMI
Storie e documenti
La sistematica di Linneo
di Luigi Benevelli (POL.IT, 14 gennaio, 2014)
Il pensiero occidentale è contrassegnato dalla prepotenza. Il grande sviluppo della sistematica ebbe pienamente luogo solo nel Settecento, con il botanico Carl Nilsson Linnaeus (1707-1778), che cominciò a organizzare le specie raggruppandole in generi, e quindi raggruppando i generi in una serie di categorie superiori basandosi sulle somiglianze morfologiche e anatomiche.
Da quando nel 1735 venne introdotta la sua nomenclatura binomiale - basata sul modello aristotelico di «genere prossimo» e di «differenza specifica» - si è iniziato a declinare in latino il genere e la specie degli organismi.
Linneo ha teorizzato un sistema di classificazione in cui il genere HOMO, posto in cima al regno animale, viene suddiviso in due specie: l’uomo «diurno», o homo sapiens, e l’uomo «notturno» o homo troglodytes, altrimenti detto uomo delle foreste o orangutan.
È curioso come la nostra cultura abbia sempre teso a vedere la luce come il divino, l’alto, il sublime, e il buio come il demoniaco, il basso, il territorio dei bruti. Secondo il sistema delle similitudini e analogie, il Sole - simbolo platonico del Bene, che sempre nella sua corsa, tende a occidente - segna l’uomo occidentale.
Il secolo dei Lumi, nelle retorica settecentesca, porta la ragione nelle menti ottenebrate dalla superstizione e dall’ignoranza; allo stesso modo, nella retorica coloniale del secolo successivo, dall’uomo occidentale procede la civilizzazione che porta la luce nel “cuore di tenebra” dei continenti selvaggi. Il che è perfettamente in sintonia con la classificazione linneiana di Homo sapiens in sei decrescenti varietà diurne, quattro varietà di «uomini normali», catalogabili secondo la provenienza geografica, il colore della pelle e le corrispettive «qualità morali», e due varietà di «uomini anormali».
Nella tassonomia di Linneo abbiamo
Nella decima edizione del Systema naturae (1758), compare la classe dei primati, che sostituisce il precedente Anthropomorphae; qui avviene l’abbinamento del genere Homo con la specie sapiens. Dopo la scoperta dei fossili nella valle tedesca di Neanderthal, l’Homo sapiens divenne sapiens sapiens.
Sul tema, nel sito, cfr.:
PIANETA TERRA. Fine della Storia o della "Preistoria"? "Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere" (M. Serres, Distacco, 1986). Tracce per una svolta antropologica
OCCIDENTE, AGONISMO TRAGICO, E MENTE ACCOGLIENTE.
Federico La Sala
EUROPA: Edith Stein. Ebrea, atea, cristiana...
Teresa Benedetta della Croce.
Dall’ateismo al Carmelo una storia europea di santità
di Matteo Liut giovedì 9 agosto 2018
Solo la ricerca di Dio conta, perché solo in lui la storia ha senso e solo lui trasforma la sofferenza in una strada verso la luce vera. Oggi la compatrona del nostro Continente, santa Teresa Benedetta della Croce (al secolo Edith Stein), offre all’Europa uno spunto per continuare a guardare al futuro. La sua storia è fatta di dolore e speranza, di ricerca e di dono: sono gli "ingredienti" dai quali può nascere una società più giusta.
Era nata nel 1891 a Breslavia in una famiglia di ebrei ma a 14 anni scelse l’ateismo. Si mise a cercare la verità nella filosofia (fu assistente di Husserl) ma nel 1921 leggendo la vita di santa Teresa d’Avila capì che il senso sta nella ricerca di Dio. Nel 1922 si fece battezzare e nel 1934 entrò tra le Carmelitane a Colonia. Arrestata dalla Gestapo in Olanda, morì nel 1942 nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau.
Altri santi. San Romano, martire (III sec.); santa Candida Maria di Gesù Cipitria, religiosa (1845-1912).
Letture. Os 2,16.17.21-22; Sal 44; Mt 25,1-13.
Ambrosiano. Os 2,15f-16.17b.21-22; Sal 44; Eb 10,32-38; Mt 25,1-13.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CARMELITANI SCALZI ED ECUMENISMO: STORIA E MEMORIA. Ritrovato nel salernitano "file" perduto del tardo Rinascimento
IL PROBLEMA DELLA GENESI, LA CRISI DELLE SCIENZE EUROPEE, E LA FENOMENOLOGIA TRASCENDENTALE....
HUSSERL CONTRO L’HOMUNCULUS: LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI). Una ’traccia’ dal "Diario fenomenologico")
PIAZZA SAN PIETRO: LA "TEOLOGIA" DELL’ELLISSE (DEI "DUE SOLI") E LE ILLUSIONI DELLA "TEOLOGIA" DEL "CERCHIO INCANTATO" (DELLA SCOLASTICA "CATTOLICA" E DELLA "SAPIENZA" RATZINGERIANA). IL DARSI DELLE COSE: LA LEZIONE DI HUSSERL.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Anatomia di una scelta ingiusta
Così Israele spezza l’uguaglianza
di David Grossman (la Repubblica, 03.08.2018)
Il potenziale di divisione e di distruzione contenuto nella legge che proclama Israele stato-nazione del popolo ebraico salta talmente all’occhio che l’ostinazione del Primo ministro a non introdurre nessun emendamento alla suddetta legge risveglia il sospetto che vi sia un’intenzione nascosta: quella di voler mantenere aperta la ferita dei rapporti tra Stato e minoranza araba. Una ferita infiammata e minacciosa. Da cosa potrebbe derivare l’intenzione di Netanyahu? Perché il governo e chi lo guida vorrebbero una cosa simile? Possiamo solo immaginarlo. Forse perché una minoranza con una ferita aperta è più vulnerabile e più facile a manipolazioni, a essere sobillata, intimidita, divisa. Forse perché è più propensa a subire una politica di "divide et impera".
È così che si mantiene aperta una ferita: di colpo, con una legge inutile, con la quale Netanyahu e il suo governo hanno fatto mancare la terra sotto ai piedi a un quinto della popolazione. E ancora una volta: perché? Perché possono. Perché sono sicuri che nessuna forza abbia il potere di fermarli.
Perché vogliono che i cittadini arabi di Israele vivano in un costante senso di insicurezza esistenziale. Di incertezza sul futuro. Vogliono che ricordino sempre, in ogni momento, che dipendono dalla buona - o dalla cattiva - volontà del governo. Che la loro presenza qui è condizionata, e in qualsiasi momento potrebbero diventare una presenza invisibile.
E questa legge dice chiaramente un’altra cosa: il Primo ministro israeliano ha deciso di non mettere fine all’occupazione e allo stato di apartheid nei territori palestinesi, bensì il contrario: ha deciso di rinsaldarlo e di spostarlo entro i confini di Israele. In altre parole, questa legge è essenzialmente una rinuncia alla possibilità di porre fine al conflitto con i palestinesi. E per quanto riguarda la "retrocessione" dello status della lingua araba da "ufficiale" a "speciale" decretato dalla legge: un idioma è un mondo intero, una coscienza, un’identità, una cultura. È un canovaccio infinito che tocca i vasi capillari dell’esistenza. Un uomo - un politico - deve avere un’arroganza e una sfrontatezza incredibili per ferire e umiliare, anche soltanto in maniera formale (come si sono giustificati i legislatori) l’idioma di un altro popolo. L’ebraico e l’arabo sono lingue sorelle che si sono intrecciate nel corso della storia.
Milioni di ebrei israeliani hanno succhiato l’arabo col latte materno. Non ci sono parole sufficienti nella lingua ebraica per protestare e strepitare contro lo schiaffo inflitto alla sorella.
Per centinaia e migliaia di anni il popolo ebraico è stato una minoranza nei paesi in cui ha vissuto e questa esperienza ha plasmato la sua identità e ha acuito la sua sensibilità morale.
Ora siamo noi la maggioranza nel nostro Paese e questa è un enorme responsabilità, una grande sfida politica e sociale ma soprattutto umana che ci impone di capire che il comportamento nei confronti di una minoranza è una delle più grandi prove di democrazia. Questa settimana il governo israeliano ha fallito questa prova e il suo fallimento ha sollevato echi in tutto il mondo. In quel mondo che noi accusiamo ripetutamente di discriminare la minoranza ebraica che in esso vive. Sarebbe quindi deplorevole se la locale comunità drusa si accontentasse di ricevere un "compenso" economico o di altro tipo per l’offesa subita dalla legge che riconosce Israele come Stato della nazione ebraica. La situazione che si è creata in seguito alla giustificata ondata di proteste di questa comunità potrebbe essere l’inizio di un processo molto più ampio, con i drusi in prima linea nella lotta per l’uguaglianza di tutte le minoranze musulmane e cristiane in Israele. Il consenso - almeno per il momento - dei leader drusi ad accettare la proposta di Netanyahu di un compenso, dimostra che probabilmente anni di discriminazione e di promesse vuote hanno fatto dimenticare loro il vero sapore di una completa uguaglianza.
Nella torbida realtà israeliana sarebbe bene ricordare che l’uguaglianza non è una specie di "premio" assegnato ai cittadini per i servigi resi al Paese, e nemmeno per aver sacrificato la propria vita. Anche gli ultra-ortodossi che si rifiutano di arruolarsi nell’esercito sono cittadini con pari diritti.
L’uguaglianza è il punto di partenza della cittadinanza, non un suo prodotto. È il terreno su cui la cittadinanza cresce. È anche ciò che permette una rispettosa libertà - la libertà di essere diverso, dissimile dagli altri, eppure uguale, con gli stessi diritti.
Ritengo che le ultime leggi approvate dall’attuale governo siano in buona parte il risultato di un modo distorto di pensare prodotto da cinque decenni di occupazione e di un senso di superiorità etnico creatosi dopo avere sguazzato con entusiasmo in un qualche "noi" farisaico e nazionalista che vuole "buttar fuori di casa" tutto ciò che non ci appartiene - un altro popolo, un’altra religione, una diversa tendenza sessuale.
Ma forse questa legge in realtà ci fa un grosso favore perché mostra a tutti noi, di destra e di sinistra, senza illusioni e senza auto-inganni, a che punto siamo arrivati, dove è precipitato Israele. Forse questa legge darà finalmente una scossa a chi, tra noi, si preoccupa per il proprio Paese, per il suo spirito, la sua umanità, i suoi valori ebraici, democratici e umani.
Non ho dubbi che molte persone, di destra, di sinistra e di centro, oneste e disincantate, siano consapevoli che questa legge è un atto di barbarie e un tradimento dello Stato nei confronti dei suoi cittadini. Netanyahu, come al solito, lo descrive come uno scontro tra destra e sinistra. Ma è uno scontro molto più profondo e fatidico. È una lotta tra chi è disperato e chi invece ancora spera. Tra chi si è arreso alla tentazione del nazionalismo razzista e chi continua a opporvisi e a mantenere nel cuore un’immagine, un’idea, una speranza di come potrebbero essere le cose in un paese normale.
Traduzione di Alessandra Shomroni
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Palestina, Israele e la rinascita della lingua ebraica....
ELIEZER BEN-YEHUDA. “Tante parole nuove dovranno essere inventate, e quando l’Ebraico non basterà, la lingua araba, sorella della nostra, ci fornirà i suoi suggerimenti. Che cos’è infatti un amico, se non quello che ti offre la parola mancante?”
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
L’arcisenso secondo Aldo Masullo
di Sossio Giametta («la Repubblica - Napoli», 06 aprile 2018)
Chi vuol sapere che cos’è la filosofia, in particolare la filosofia contemporanea (ma a partire da Fichte), chi vuole partecipare ai suoi misteri gaudiosi e dolorosi, provare su di sé la sua forza demoniaca, ed è disposto a farsi invadere perquisire violentare per essere affiliato alla ristretta, ma universale e sempiterna setta dei vedenti, raccolga le forze, si compri “L’arcisenso. Dialettica della solitudine” di Aldo Masullo (Quodlibet, pagine 190, euro 20), si liberi dalle incombenze quotidiane e si sprofondi nella lettura del libro. Se tutte queste condizioni non ricorrono e si preferisce rimanere nella beata ignoranza (Ignorance is Bliss), giacché non si tratta di babà e di gattò, anche se si rimane tra le eccellenze napoletane, allora: estote longe profani, statevene lontani, brava gente: si può vivere anche senza filosofia, sebbene non con la stessa larghezza, scialo e dignità.
Alle prime otto pagine mi sono spaventato. Sopra di me un oracolo, un medium, un mago, uno sciamano o non so quale personaggio sovrumano, dettava una dopo l’altra, in uno stile veloce conseguente perfetto ma a cui è arduo tener dietro, verità misteriche sulla vita e sull’uomo, sul soggetto, sulla soggettività, che “non è né essere né divenire, ma il sempre ricominciante “venire-a-sé”, sull’intersoggettività e sulla comunità che ne scaturiscono e sulla solitudine invincibile di fondo: un bagno freddo in un gelo ardente. Solo da pagina nove in poi, a cominciare da una bella citazione di Croce, ho ricominciato a respirare, a trovare un discorso più umano, più alla mia portata.
Ma la distruzione iniziata prima di nozioni e verità consolidate, idola di tutti i tipi, ma in particolare dell’uomo e del soggetto, continua. Si salva la “paticità”. Tutto comincia da essa anche se non finisce con essa. Che cos’è la paticità, “l’intoccabile tocco”? Be’, conoscete l’antipaticità? Il pathos, l’apatia? Sì? E allora ricavatevi anche quella. Tanto, se vi dico che è l’arcisenso, non vi aiuto molto. Ma vediamo se ci può aiutare invece quello che ne dice l’Autore, nel primo e nell’ultimo degli otto esplosivi capitoli del libro.
“Patico è il modo umano della coscienza. Esso è in atto in ogni momento del sentir-si. Le emozioni vi si umanizzano ed entrano nella e-sistenza”. Avete capito? Non ancora? Be’, pensateci sopra, finirete col capire più o meno, come più o meno ho capito io, anche grazie alle tante altre cose che l’Autore aggiunge. Per esempio: “la paticità è il nucleo intimo del vissuto, la fenomenalità di ogni fenomeno, l’Arcisenso”. “Il patico è il sentir-si che accompagna inseparabilmente ogni sentire”. Questa cosa fondamentale non è tuttavia né rappresentabile né comunicabile, e ciò rende la vita “radicalmente autocentrata”, cioè la solitudine di ognuno radicale e insuperabile. Non cominciate a vedere píù chiaro? Non c’è proprio un lume, ma un barlume sì.
L’uomo “non è un ente inerte, apatico”, ma “un e-sistente... esposto alle inquietanti relazioni con gli altri”. Insomma l’apatico è il sordo sentir-si di ognuno, un’oscurità, ma un’oscurità che porta alla luce dell’e-sistenza e della intersoggettività, giacché non c’è un Io senza almeno un altro Io, è un fatto naturale che si rigenera in prove umane. Qual è la sua fonte? È “la tensione dell’assoluta differenza (tra l’essere e il nulla) al cui irrompere si usa dare il nome di tempo”. Sul tempo se ne sentono delle belle nell’apposito capitolo “Durata”, che ha come sottotitolo Eraclito. Il desiderio eroico. Dove il desiderio eroico dell’uomo è il solo garante della durata nel tempo che distrugge tutto e in ogni istante anche se stesso.
Il discorso sulla paticità, che è centrale, è ripreso, come abbiamo detto, nell’ultimo capitolo. Questo è una Appendice. Nel labirinto della soggettività. Appunti per una autobiografia filosofica. Uno magari bada all’autobiografia e non al “labirinto” e pensa di trovare un’autobiografia come quella di Croce, di Vico, di Cartesio o di Spinoza.
Ma invece no, è proprio un labirinto, un labirinto di concetti, soprattutto della soggettività, in cui a forza di scavare la filosofia contemporanea, a partire da Fichte, si è intrappolata per la sua logica intrinseca, scovando alla fine interessanti passaggi e vie di uscita. Il risultato è la negazione di “essenze, strutture, metaempiriche, universalità, o qualche sovrana architettura logico-ontologica, trascendente o trascendenta-le”: bye bye (se funziona) filosofia classica! Quella contemporanea porta al post-Dove moderno e si basa sulla fattuale e irriducibile differenza vissuta, sempre il patico, che porta alla reciprocità affettiva e al sin-patetico riconoscimento - “riconoscimento della pluralità [nella comunità] in cui consiste l’unità dell’umano”.
Insomma, cari amici, ho cercato to put you in the picture, di introdurvi un po’ nell’atmosfera del libro, ma di più qui non posso dire, salvo che questo “Arcisenso” è un libro avventurioso, ricchissimo di “scandalose novità”, alle quali hanno contribuito quasi tutti i filosofi contemporanei, che hanno agito in questa impresa rivoluzionaria di concerto allo stesso modo in cui agisce nella scienza la collettività degli scienziati. Ma tutte queste novità sono magistralmente portate a unità con agilità da scoiattolo e piglio giovanile da un uomo che il 12 aprile ha compiuto 95 anni, che invera il detto di chi sostiene che il corpo invecchia solo per far ringiovanire lo spirito. Qui lo spirito è giovanissimo, lucidissimo, e l’Autore, come filosofo, non è affatto pronto per la “pensione”. Lo contrarierebbe infatti chi pensasse che questo libro, una sì vasta silloge, possa essere il “testamento spirituale” di Aldo Masullo. Molto bolle ancora in pentola e fra non troppo ci sorprenderà. Forse ci sconvolgerà. Se qualcosa si può timidamente obiettare ai suoi grandi capitoli (sul Dolore, sulla solitudine - magistrale saggio su Leopardi - sul silenzio, sulla sapienza e sulla grazia, è l’incredibile impetuosità, che lo porta a un’audacia capace di trasformarsi in temerarietà (accadde anche a Nietzsche). Molte sue soluzioni infatti sono così spinte che, pur ammirevoli come frutto di una felicissima inventività filosofica, non è facile, almeno immediatamente, far proprie. Quello che ci sentiamo di dire per un così geniale e illustre filosofo napoletano, che è anche un grande oratore, è quello che del filosofo dice un autore che spicca, rispetto a lui, per la brevità della sua vita, Pico Della Mirandola: “Se vedrai un filosofo discernere ogni cosa con netta ragione, veneralo; è animale celeste, non terrestre”.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
Federico La Sala
Arcisenso di Aldo Masullo. La bellezza della paticità e la sapienza del relativo. Così ogni storia va ’sentita’
di Silvia Lanzani (Nuova AGENZIA RADICALE, 18 Febbraio 2018)
Gli scenari si costruiscono sempre insieme, al plurale, sapendo tuttavia - come insegnava il Nolano - che ogni punto è ‘centro’. «Patico» è il modo umano della coscienza. Esso è in atto in ogni momento del Sentir-si. Le emozioni vi si umanizzano ed entrano nella “e-sistenza”. Così avviene il sempre nuovo cadere della coscienza fuori del proprio attuale con-sistere. In questo atto si coinvolgono non soltanto le emozioni ma qualsiasi vissuto. Ce lo insegna uno dei più grandi filosofi del nostro tempo, Aldo Masullo, 95 anni il prossimo 12 aprile, che firma uno straordinario testo filosofico, ‘L’Arcisenso. Dialettica della solitudine’ (Quodlibet, pp. 194, euro 17), nel quale il Professore emerito di Filosofia morale alla Federico II di Napoli reimpagina e approfondisce, con nuove e potenti riflessioni, i temi di una intera vita di ricerca filosofica, lasciando una traccia profonda, potremmo dire lavica amando la sua Napoli, negli studi sulla paticità.
Il percorso, infatti, da ’Paticità. L’intoccabile tocco’, a ’Grazia. Il repentino della poesia’, passando per ’Dolore. La scelta di Chirone’, ’Eraclito. il desiderio eroico’, ’Leopardi. Sentire corporalmente il pensiero’, ’Silenzio. L’indecenza della parola’ e ’Sapienza. Nel relativo è la salvezza’. Preziosa anche l’Appendice ’Nel labirinto della soggettività. Appunti per un’autobiografia filosofica’ e, non ultimo, un autentico ’tocco’ di stile con il ’ringraziamento’ ai suoi allievi migliori - migliaia nel tempo - a iniziare da Giuseppe Cantillo e Bianca Maria d’Ippolito, fino ai dialoghi con amici come Matteo Palumbo e Gerardo Picardo.
Per Masullo non solo non vi sono piacere o dolore, ma neppure ragionamento o azione, immaginazione o ricordo, che siano umani, se non sono sentiti, se non recano, sia pure nascosti ma sempre pronti a saltar fuori o almeno a far capolino tra le pieghe del vivere, «lo stupore con cui si manifesta il sé» e «l’angoscia dell’esser toccati da eventi, senza perché». Ogni accadere tocca a me, proprio a me, senza che io sappia perché, così come non so questo me donde venga né dove vada, anzi neppure perché mai proprio a me questo me sia toccato.
Con l’accadermi, la coscienza di me ancora una volta cade fuori del suo con-sistere, e proprio in ciò io e-sisto. Sensus non c’è, se non è sensus sui. Lo stesso sé in nient’altro consiste che nel sensus sui, nel sentimento di sé, nella tensione verso sé come verso l’unità che si ha l’impressione di essere. Esso non è né «prima» né «dopo» questo o quel sentire, ma è sempre di ogni sentire la condizione originaria. Un filosofo tedesco lo chiamerebbe Ursinn. Masullo lo definisce «Arcisenso».
L’avvertimento del sé muove dall’intimo della vita, che nell’individuo umano, sentendo-si, vive. La vita ogni volta accade, e accade in quanto accade al sé che la vita allucina - ad un sé a cui l’accadere tocca, quasi il sé fosse prima dell’accadere, il vissuto fosse prima e non a partire dalla vita vivente. Se una differenza non colpisse, il sé non apparirebbe; né il colpo della differenza, il tempo, apparirebbe senza un sé colpito. Si tocca così la falda più profonda della fenomenalità di ogni fenomeno, il fenomeno primario con cui s’inaugura la possibilità stessa dell’apparire e senza di cui nessun altro fenomeno sarebbe possibile. «Fenomeno» è il calco italiano del greco φαινόμενον, participio del verbo deponente φαίνεσθαι, che in greco vuol dire «apparire», «manifestarsi».
Il φαινόμενον è l’«apparente», il «manifestantesi», cioè l’apparire, il manifestarsi, nel momento stesso in cui appare, si manifesta. È impersonale, senza soggetto, atto con cui tutto appare, tutto si manifesta, il mondo delle cose e di chi le vede e le usa. Il manifestarsi è tutto. L’apparire, il manifestarsi, è puro accadere o, come pur si dice, evento.
Nel vissuto del tempo e del sé, l’emozione di sorpresa nel sentire come contingente l’accadere e l’emozione di angoscia nel sentire come precario il sé strettamente si tengono. Senza il dolore che l’infallibile arciere del tempo infligge, non emergerebbe il sé come il vivente bersaglio di questa offesa. Ma, se il sé non emergesse, il colpo del tempo cadrebbe nel vuoto o riuscirebbe frustrato.
La vita fa come una piega - si «ri-piega su di sé» - . In ciò sta il punto d’origine della fenomenalità, là dove il vivente si converte in umano e si apre a se stesso, si fa soggettivo. La vita stessa si duplica (si complica nel «vivere il proprio vivere», come letteralmente suona il tedesco er-leben), e vivendo prova l’emozione di sé.
Avviene appunto quel che si esprime con il verbo πάσχειν, che vuol dire «patire», non necessariamente nel senso della sofferenza, ma in quello ampio del «provare», cioè del «vivere» usato transitivamente, come nelle espressioni «ho vissuto un brutto momento» e «ho vissuto una bella esperienza». Radice del verbo πάσχειν è παθ, da cui si forma il sostantivo πάθος: il calco italiano ne è «pathos» o più correntemente «patos». Il primo significato di πάθος è «ciò che si prova di bene o di male», in breve il vissuto. Si designa con ciò un’emozione sofferta, umanizzata dalla coscienza del sé.
Al fondo di ogni vissuto sta una rottura. La vita è un incessante rompersi, anche se abitualmente inavvertito. Quando il rompersi è violento e inabituale, l’in-differenza dell’essere esplode nella differenza dell’e-sistere. E’ questo il «repentino» (il platonico ἐξαίφνης). Esso scopre l’inarrestabile passo del cambiamento, ciò che «noi per abitudine chiamiamo tempo».Si mostra qui l’umanità originaria dell’emozione, la falda profonda di ogni emozione propriamente umana. Ci si trova, per essa, presi nella dinamica esistenziale, in cui non soltanto le emozioni occasionali, ma tutti i vissuti, anche quelli intenzionali e semantici, cioè gli sguardi sulle cose e la nominazione di queste, si costituiscono nella loro fenomenalità, nella loro umanità di vissuti. Solamente nel patico si e-siste.
Il sentir-si non è soltanto dell’emozione, ma di qualsiasi vissuto. Non solo non vi sono piacere e dolore, ma neppure percezione e ragionamento, immaginazione e ricordo, che siano tali, umani, se non sono intrisi di sentir-si, se non recano, sia pure nascosti ma sempre pronti a saltar fuori o almeno a far capolino tra le pieghe di qualsiasi atto del vivere, «lo stupore con cui si manifesta il sé» e «l’angoscia dell’esser toccati da eventi, senza perché». Ogni accadere tocca a me, proprio a me, senza che io sappia perché, così come non so questo me donde venga né dove vada, e neppure perché proprio a me questo me sia toccato.
Con l’«accadermi» la coscienza di me ogni volta salta fuori del suo con-sistere, e proprio in ciò io e-sisto. Essa qualifica il vissuto, il riferimento esplicito o implicito a un sé, coscienza riflessiva, autocentrata ancora prima che nella pubblicità della forma linguistica «io» e nella determinazione dialogico-concettuale. Insomma, se il vissuto è l’evento propriamente umano, la paticità è il nucleo intimo del vissuto, la fenomenalità di ogni fenomeno, l’arcisenso.
All’autocentramento però concorrono non soltanto la folgorante emozione del tempo, sofferto trauma della differenza, con la sua oscura figura del sé, ma pure la bruciante inquietudine dell’incontro con l’altro, il tacitamente interpellante, a me familiare o estraneo, seducente o minaccioso, comunque sempre enigmatico, tra me e lui reciprocità interiormente vissuta di speculari rimandi simpatetici o antipatetici. Nell’incontro, in ogni uomo l’immagine dell’altro lo anima del suo sé, e questa a sua volta intanto corrobora il sé di lui e lo arricchisce di tocchi. In questo vivo gioco di reciprocità ognuno si sovradetermina, enfatizzando sé come io e l’altro come tu.
L’emozione, in cui consiste il tempo, l’avvertimento «destabilizzante» di repentini cambiamenti, l’irrompere della differenza in noi, frantuma l’inerte identità dell’ente, ne distrugge l’apaticità, mette in moto la dialettica dell’altro nel sé di ognuno, e di ognuno nel sé dell’altro. La paticità è costitutiva dell’e-sistenza. Nella vertigine patica, sotto l’imperio del tempo, ci si ritrova comunque sempre da capo presso ad una soglia del nuovo, soli nel deserto di un assoluto «inizio». Tutto si ripete, nulla dura. Si danno infinite repliche, ma nessuna identica.
Il vissuto di tempo si rifrange nei molteplici cromatismi emotivi: nella sofferenza per l’identità perduta e l’abitualità sconvolta, nel tremore del destino incombente, nella insicurezza del rapporto con l’altro. Ma esso intero fiammeggia nell’inquietante sfida dell’inizialità, nel muoversi verso il nulla, il vuoto del futuro, a partire dal nulla, dal vuoto del passato. Nella paticità ogni volta, al centro della vita, le occasionali emozioni si “umanizzano”, da fatti naturali si ri-generano in prove umane. In umana anzi si ri-genera la vita tutta, da semplice vita vivente convertendosi in vita vissuta.
Nell’esplosa drammaticità dell’e-sistenza, l’oscuro avvertire che l’identità della coscienza di sé dura solo attraverso la difficile prova del suo incessante perdersi scatena l’emozione originaria, il vissuto decisivo. La morte non è che il caso estremo, la chiusura di partita, di tutte le infinite morti per cui la vita, che è «tempo» ma più propriamente l’incessante cambiamento delle cose (il sempre nuovo irrompere della differenza), fatalmente patisce la sua intrinseca precarietà non solo, dalla parte del dopo, nella straordinaria tragicità della catastrofe finale quanto pure, dalla parte del prima, in certa ordinaria catastroficità del quotidiano.
L’Arcisenso è impenetrabile, ma penetra di sé ogni esperienza. Esso contrasta l’intersoggettività, la relazione d’ogni singolo con gli altri, e tuttavia è condizione necessaria della sua possibilità. È evidente che il principio antropologico - l’idea con cui si comprende il senso di essere «uomo» -, si muove in un circolo. Punto di partenza e punto d’arrivo è sempre la relazione, ma in due versioni diverse. Tra il primo e il secondo funziona una cerniera, un medio: la solitudine. Questa può essere puro sentire o ragionata consapevolezza, ma è comunque paticità del sentir-si. Essa non sarebbe chiaramente e dolorosamente presente senza l’io, che si costituisce nella relazione, a cominciare dalla simbiosi bambino-madre.
A sua volta, senza la patita coscienza della solitudine, della propria separante differenza e unicità, cioè dell’irriducibile esclusività del proprio punto di vista, neppure esisterebbero la pluralità degli individui e la relazione sociale che ognuno d’essi strenuamente e in vari modi persegue, affaticandosi a costruire sistemi di comunicazione con altri soggetti-persone.
Senza l’incontro di un vivente con altri, nessun vissuto si avrebbe. I fenomeni patici e le fenomeno-patie non si originerebbero senza il gioco di una pluralità di viventi. L’ «universalità» della «verità» e dei «valori» in genere non se ne potrebbe generare nell’indifferenza. Essa può dischiudersi soltanto con il crescere dei vissuti nell’assidua e vivente reciprocità della «cura», nell’illimitato complicarsi delle relazioni sin-patetiche; nel sempre nuovo incrociarsi di Aufforderungen («appelli», «pro-vocazioni», «inviti»), come genialmente proponeva Fichte nel dedurre il fondamento intersoggettivo della soggettività e nell’annunziare con esso il significato nuovo dell’universalità dello «spirito».
Pensare l’assoluto non della morte, il nulla, ma della vita, è pensare la relazione, l’illimitata relazione di relazioni. Etico, o più propriamente ’path/ethico’, è il pensiero che, coltivando la sapienza del relativo, ci mantiene nella vita. Liberi.
LE ILLUSIONI DEL "CERCHIO INCANTATO" E ... LA "TEOLOGIA" DELL’ELLISSE (DEI "DUE SOLI") *
Johannes Keplero
Com’è armonico il mondo
Cade quest’anno l’anniversario della scoperta della terza legge dei moti planetari. Ma il senso delle sue opere era proclamare la gloria di Dio studiando la natura
di Franco Giudice (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22.07.2018)
I libri, si sa, vanno quasi sempre incontro a un destino che si cura assai poco delle intenzioni di chi li ha scritti. Una volta pubblicati, prendono la loro strada e finiscono irrimediabilmente in balìa dei lettori, che se ne appropriano spesso in modo selettivo. Non stupisce quindi che l’Harmonice mundi (1619) di Johannes Keplero sia oggi ricordata soltanto perché vi si trova esposta la terza legge dei moti planetari, di cui proprio quest’anno ricorre il quarto centenario della sua scoperta, avvenuta il 15 maggio 1618. Esattamente come la sua opera precedente, l’Astronomia nova (1609), è nota per l’enunciazione delle prime due leggi, quelle cioè che stabiliscono che i pianeti si muovono lungo orbite ellittiche e che con i loro raggi condotti verso il Sole descrivono aree uguali in tempi uguali.
Sembra insomma che il senso e il valore delle opere di Keplero siano compendiati nelle tre leggi che portano il suo nome e che tutti abbiamo imparato a scuola. Come se fosse irrilevante che il loro autore le avesse invece originariamente concepite per altre e ben più elevate ragioni: proclamare la gloria di Dio attraverso lo studio della natura.
Un destino un po’ beffardo, non c’è che dire. Ma di cui forse Keplero non si sarebbe rammaricato più di tanto, poiché da buon protestante, che da giovane voleva diventare un pastore luterano, lo avrebbe interpretato come l’esito del disegno imperscrutabile della volontà divina.
Sono tuttavia convinto che una lettura così riduttiva delle sue opere, oltre a essere decisamente anacronistica, ne trascuri l’imprescindibile retroterra spirituale. Ma questo dipende anche, e soprattutto, dal diverso punto di vista che distingue lo storico della scienza dallo scienziato di professione.
Se è vero infatti che Keplero fu uno degli astronomi più dotati che la storia abbia mai conosciuto, lo è altrettanto che a guidare gli sviluppi delle sue ricerche fu sempre una profonda devozione religiosa. Che emerge fin dal Mysterium cosmographicum (1596), la sua prima pubblicazione, dove dimostrava con estrema audacia come la necessità del sistema copernicano scaturisse direttamente da Dio, che aveva creato l’universo attraverso l’armonia dei cinque solidi regolari della geometria euclidea. E che prorompe come un’esigenza insopprimibile anche dalle pagine dell’Harmonice mundi che annunciano la scoperta della terza legge dei moti planetari.
Era appunto il 15 maggio 1618. Un giorno memorabile per Keplero, che stava finendo di scrivere il libro, gran parte del quale era già in corso di stampa. Aveva aspettato questo momento per ben ventidue anni, e ora un’illuminazione improvvisa dissolveva le tenebre dalla sua mente, facendogli perfino temere di essere vittima di un sogno. Ma non c’erano dubbi: «È cosa certissima ed esattissima che il rapporto che esiste tra i tempi periodici di due pianeti qualsiasi è precisamente nel rapporto della potenza 3/2 delle loro distanze medie». Ovvero, nella formulazione più usuale, il rapporto tra i quadrati del periodo di rivoluzione di due pianeti è uguale a quello tra i cubi della loro distanza media dal Sole.
La scoperta della relazione tra le distanze e i periodi dei pianeti si era dunque rivelata a Keplero proprio mentre stava ultimando l’opera che considerava il culmine della sua carriera scientifica. Un fatto che lo aveva letteralmente mandato in estasi, in preda a un «sacro furore», al punto che non gli importava se a leggerla sarebbero stati i suoi contemporanei o i posteri. Poteva benissimo aspettare cent’anni i suoi lettori, «se Dio stesso aveva atteso seimila anni il Suo contemplatore».
Eppure, per quanto strano possa sembrare, soprattutto di fronte ad affermazioni così entusiastiche, questa legge non gioca affatto un ruolo centrale nell’astronomia dell’Harmonice mundi. Per Keplero, quella che noi chiamiamo «terza legge» - ma che lui, al pari delle altre due, non definì mai in tali termini, né tanto meno le diede alcuna numerazione - esprimeva semplicemente uno dei tanti rapporti celesti riscontrabili nell’armonia dell’universo. Un’armonia inoltre che rispecchiava i principi della consonanza musicale, che indicava lo stretto legame tra Dio e la sua creazione, e che si poteva scorgere in ogni parte del cosmo. Un’armonia infine che si trovava impressa come un archetipo negli esseri umani, i quali, essendo plasmati a immagine di Dio, erano quindi in grado di apprezzarla, anche se ignoravano le proporzioni geometriche da cui essa discendeva.
L’idea di scrivere sull’armonia universale risaliva al 1599. A incoraggiare Keplero nell’impresa aveva contribuito anche la recente lettura dell’Armonica dell’astronomo alessandrino Tolomeo, che confermava la sua convinzione che il cosmo fosse governato da un’armonia musicale. Ai suoi occhi, tutto ciò non poteva essere soltanto un caso: se la segreta natura dell’universo si andava rivelando a due uomini separati da una distanza di quindici secoli, voleva dire che «c’era il dito di Dio». Può darsi. Sta di fatto che durante i vent’anni in cui Keplero inseguì il suo progetto, la vita gli aveva fornito ben pochi segni di una divinità armonica e benevola.
Certo, i dieci anni trascorsi a Praga, dove nel 1601 era succeduto al grande astronomo danese Tycho Brahe nel ruolo di matematico dell’imperatore Rodolfo II, furono alquanto sereni e tra i più fecondi della sua attività scientifica, facendogli ottenere importantissimi risultati nel campo dell’astronomia e dell’ottica. Ma prima e dopo, era stato tutto un susseguirsi di incredibili tragedie personali e professionali. Il 1599, proprio l’anno in cui concepì l’idea dell’Harmonice mundi, coincise con la prematura scomparsa della sua secondogenita, che aveva soltanto trentacinque giorni. Nel 1611, quando la situazione politico-religiosa a Praga lo aveva costretto a trasferirsi a Linz, aveva assistito impotente alla morte di un altro suo figlio e della prima moglie Barbara. Tra il 1617 e il 1618, in poco meno di sei mesi, aveva perso i due bambini avuti dalla seconda moglie Susanna. Come se non bastasse, nel 1615 la madre Katharina era stata accusata di stregoneria e Keplero dovette assumerne la difesa legale per i successivi sei anni.
L’Harmonice mundi fu completata il 27 maggio 1618, dodici giorni dopo la scoperta della terza legge. La sua famiglia era stata letteralmente decimata e il mondo che lo circondava stava precipitando nel disordine. Ma da uomo dalla fede incrollabile, Keplero vedeva nell’armonia celeste la più alta manifestazione della saggezza di Dio. E dedicava l’opera a Giacomo I Stuart, nella speranza che il sovrano che aveva riunito le tre corone d’Inghilterra, Scozia e Irlanda, potesse usare gli esempi della gloriosa armonia di cui Dio aveva dotato la sua creazione per portare altrettanta armonia e pace tra le chiese divise. Si trattava però di una pia illusione: soltanto quattro giorni prima, il 23 maggio 1618, la rivolta boema con la celebre defenestrazione di Praga segnava l’inizio della guerra dei Trent’anni, una delle più lunghe e sanguinose della storia europea.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
PIAZZA SAN PIETRO: LA "TEOLOGIA" DELL’ELLISSE (DEI "DUE SOLI") E LE ILLUSIONI DELLA "TEOLOGIA" DEL "CERCHIO INCANTATO" (DELLA SCOLASTICA "CATTOLICA" E DELLA "SAPIENZA" RATZINGERIANA). IL DARSI DELLE COSE: LA LEZIONE DI HUSSERL.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Jesus. Chi era costui? Antropologia filologia archeologia filosofia teologia cristologia pedagogia ...
IL "CIMENTO" DELL’ACCADEMIA GALILEIANA E LA "PIETRA” DEI FILOSOFI: "PROVANDO E RIPROVANDO"!
A riorganizzare le idee, a sollecitare ulteriori riflessioni e approfondimenti sugli importanti e vitali "rapporti tra cemento, cimento e cimentare" ("Ggimentu, gimmientu e ggimintare"), e a non cadere nel delirio di onnipotenza della preghiera nient’affatto evangelica e nient’affatto infantile, troppo “infantile” (“Cristo lo voglio io per Padre/ la Madonna la voglio per Madre/ S. Giuseppe lo voglio per fratello,/ I Santi tutti li voglio per parenti / Affinché mi scampino da tutti i cimenti” - vale a dire, i serpenti-parenti), tenendo conto delle precisazioni del prof. Polito e delle mie "vecchie" note relative al suo articolo "Serpente? Presente",
RICORDO
che il motto della ACCADEMIA DEL CIMENTO ("Accademia dell’esperimento"), nel solco del "Saggiatore" di Galileo Galilei, è
"PROVANDO E RIPROVANDO".
Solo su questa strada, valendosi "del proprio intelletto senza la guida di un altro", con l’uso della propria "bilancetta", è possibile trovare all’interno dalla caverna la "pietra da costruzione" ("lapis philosophorum") e al contempo l’uscita dallo Stato di minorità (Kant).
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CON DECENZA PARLANDO: LA PRIVATIZZAZIONE DEL NOME "ITALIA" E IL POPULISMO. "Ghe Pensi Mi"!
Una nota*
SICCOME QUI SI TOCCANO TEMI di tranquillizzazione politica (con tutti i suoi risvolti teologici e costituzionali) e di "superomismo" populistico ("stai sereno!" - "scuscitatu" vale come "senza pensieri, senza preoccupazioni": cioè, "Ghe Pensi Mi"), e c’è da svegliarsi e riappropriarsi della propria *dignità* (politica e *costituzionale*, e non solo economica) di cittadini e di cittadine, è bene ricordare che per "stare sereni" troppo e troppo a lungo, come cittadini italiani e cittadine italiane, abbiamo perso la stessa possibilità di "tifare" per noi stessi e stesse, per se stessi e per se stesse, sia sul piano sportivo sia sul piano *costituzionale*: non solo perché la nostra NAZIONALE è fuori dai MONDIALI DI CALCIO ma, anche e soprattutto, perché il NOME della NAZIONE (di tutti e di tutte) è diventato il "Logo" della "squadra" di un Partito e di un’Azienda.
IL LUNGO SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE CONTINUA ...
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ISRAELE E PALESTINA - e la Terra promessa.... *
Freud e il non europeo
di Edward W. Said (Le parole e le cose. 28 giugno 2018)
Dubito fortemente che Freud potesse immaginare che avrebbe avuto lettori non europei o che, nel contesto della lotta per la Palestina, avrebbe avuto anche lettori palestinesi. E però li ha avuti e ne ha ancora. Ma diamo una rapida occhiata ai risultati dei suoi scavi - in senso sia figurato sia letterale - da queste nuove prospettive, inaspettatamente perturbanti e sorprendentemente pertinenti. Prima di tutto, direi che, nonostante gli sforzi dell’antisemitismo specificamente europeo, l’insediamento di Israele in un territorio non europeo consolidò politicamente l’identità ebraica in uno Stato che adottò posizioni legali e politiche assai specifiche per blindare quest’identità nei confronti di tutto ciò che non fosse ebreo.
Nel definirsi come uno stato di e per il popolo ebreo, Israele consentì soltanto agli ebrei di immigrare sul proprio suolo e riservò solo a loro il diritto di proprietà sulla terra, nonostante prima vi fossero residenti non ebrei e, in quel momento, cittadini non ebrei, i cui diritti furono soggetti a restrizioni e addirittura, nel caso dei primi, abrogati retroattivamente. I palestinesi che vivevano in Palestina prima del 1948 non possono né tornare (nel caso dei rifugiati) né avere accesso alla terra allo stesso modo degli ebrei. La legislazione israeliana, assai lontana dallo spirito intenzionalmente provocatorio di Freud sull’origine non ebrea del fondatore dell’ebraismo e delle sue origini nel contesto del monoteismo egizio non ebreo, contravviene, reprime e persino cancella quell’apertura dell’identità ebraica nei confronti dei propri antecedenti non ebrei, che Freud si sforzò invece ostinatamente di mantenere. La complessa stratificazione del passato è stata cancellata dall’Israele ufficiale.
Al contrario Freud - per come lo leggo io nel quadro delle politiche deliberatamente ideologiche di Israele - aveva lasciato aperto uno spazio considerevole a quanto di non ebreo vi è nell’ebraismo, nelle sue origini, come nel suo presente. Vale a dire che, nello scavo archeologico dell’identità ebraica, Freud insistette sul fatto che essa non aveva avuto inizio apartire da sé, ma piuttosto a partire da altre identità (egizia e araba): la dimostrazione di ciò, in L’uomo Mosè e la religione monoteistica, obbliga a percorrere un lungo cammino per scoprirlo e costringe così nuovamente a mettere tale identità sotto verifica. Di fatto quest’altra storia, non ebrea e non europea, è stata cancellata e di essa non esiste più alcuna traccia nell’identità ebrea ufficiale.
Credo che ancora più rilevante sia il fatto che, in ragione di una delle conseguenze dell’insediamento di Israele che viene generalmente ignorata, i non ebrei - in questo caso, i palestinesi - siano stati dislocati in un luogo in cui, secondo lo spirito che anima gli “scavi” freudiani, potrebbero chiedersi cosa sia rimasto delle tracce della loro storia, profondamente legata alla realtà della Palestina prima della fondazione di Israele.
Per cercare di rispondere vorrei spostarmi dall’ambito politico e giuridico verso un territorio molto più vicino al racconto di Freud sull’origine del monoteismo ebraico. Penso di essere nel giusto se dico che Freud mobilitò il passato non europeo con l’intento di indebolire qualsiasi tentativo dottrinale di fondare l’identità ebraica su una base solida, religiosa o secolare che fosse. E dunque, non dovrebbe sorprenderci scoprire che, quando l’identità ebraica fu consacrata dalla fondazione dello Stato di Israele, sia stata scelta la scienza dell’archeologia per consolidare quest’identità in un’epoca secolare: il feudo della storia sacra venne dato in consegna ai rabbini e agli eruditi specializzati in “archeologia biblica”[1].
Si noti che un gran numero di commentatori ed esperti di archeologia - da William Albright ed Edmund Wilson a Yigal Yadin, Moshe Dayan e persino Ariel Sharon - hanno sostenuto che l’archeologia è la scienza israeliana privilegiata par excellence. Come afferma Magen Broshi, un noto archeologo israeliano:
Così, l’archeologia diventa la strada più semplice verso un’identità giudaico-israeliana e si rivendica con insistenza che grazie a essa, ai giorni nostri, nella terra di Israele la Bibbia si realizza materialmente, la storia prende corpo, il passato viene recuperato e collocato in ordine dinastico. Queste affermazioni, ovviamente, ci spingono, in modo misterioso, non verso il luogo, esplorato da Freud, dell’archivio dell’identità ebraica, ma piuttosto verso la sua ubicazione geografica ratificata in maniera ufficiale (e dovremmo anche aggiungere: violenta) dal moderno Israele. -Ciò che si viene a scoprire è un poderoso tentativo revisionista per sostituire una nuova struttura positiva della storia ebraica agli sforzi ostinatamente più complessi e discontinui in “stile tardo” fatti da Freud per affrontare lo stesso tema, con uno spirito totalmente “diasporico” e con risultati molto differenti, persino decentranti.
Questo è un buon momento per riconoscere il mio enorme debito nei confronti del lavoro di una giovane studiosa, Nadia Abu el-Haj, autrice di un testo fondamentale intitolato Facts on the Ground: Archaeological Practice and Territorial Self-Fashioning in Israeli Society. L’autrice ci offre, in primo luogo, una storia della sistematica esplorazione archeologica coloniale in Palestina, che risale agli scavi britannici a metà del XIX secolo. -Prosegue poi con la storia del periodo precedente alla fondazione di Israele, connettendo la pratica concreta dell’archeologia alla nascente ideologia nazionale - un’ideologia che pianifica un ritorno al possesso della terra attraverso un’azione di ridenominazione dei luoghi e di trasferimenti di popolazione in nuovi insediamenti, azioni che si giustificano archeologicamente come un’estrazione schematica dell’identità ebraica, a dispetto dell’esistenza di nomi arabi e di tracce di altre civiltà.
Questo sforzo, sostiene in maniera convincente l’autrice, prepara epistemologicamente la strada verso la piena maturazione, dopo il 1948, del sentimento d’identità giudaico-israeliana, fondato sull’assemblaggio di frammenti archeologici eterogenei - resti sparsi di opere murarie, tavolette, ossa, tombe, etc. - in una sorta di biografia spaziale dalla quale Israele emerge “in maniera visibile e linguisticamente, come la casa nazionale ebrea” [3].
Soprattutto, l’autrice sostiene che questa narrazione apparentemente biografica di una terra permette - se non addirittura causa -, e va di pari passo con, uno specifico stile di insediamento coloniale che decreta pratiche concrete come l’uso dei bulldozer, o la rinuncia a fare ricerche su storie che non siano israelite - per esempio quella degli Asmonei - o ancora, il costume di trasformare un’intermittente e sparpagliata presenza ebrea di rovine sparse e frammenti sepolti in una continuità dinastica, a dispetto di prove contrarie e a dispetto dell’evidenza di storie endogamiche non ebree.
Dovunque venga fuori una schiacciante e innegabile evidenza di una molteplicità di altre storie, come nell’enorme palinsesto dell’architettura bizantina, crociata, asmonea, israelita e musulmana di Gerusalemme, la norma consiste nel presentare ciò come un segno di tolleranza della cultura liberale israeliana, ma, allo stesso tempo, viene affermata la preminenza nazionale di Israele, rispondendo così alle critiche dell’ebraismo ortodosso al sionismo moderno, facendo diventare Gerusalemme sempre più un sito nazionale del giudaismo[4].
La meticolosa decostruzione dell’archeologia israeliana di Nadia Abu el-Haj è anche una storia della negazione della Palestina araba che non è stata, per ovvie ragioni, considerata degna di un’indagine di livello simile. Tuttavia, con l’emergere negli anni ’80 in Israele di un movimento di revisionismo della storia postsionista e, allo stesso tempo, con la progressiva crescita nell’ultimo ventennio di un’archeologia palestinese come pratica di lotta di liberazione, gli atteggiamenti basati sul modello “ereditario” di un’archeologia esclusivamente biblica sono stati messi duramente alla prova. Mi piacerebbe avere il tempo di approfondire questo tema e di discutere in che modo la tesi nazionalista che difende la separazione della storia di Israele da quella della Palestina ha cominciato a orientare le dispute archeologiche in Cisgiordania e di come, per esempio, l’attenzione palestinese alle ricchissime sedimentazioni di storia rurale e alle tradizioni orali sia potenzialmente capace di modifi care lo statuto di oggetti che, da monumenti e artefatti morti destinati a musei, o a parchi a tema ispirati alla storia, divengono invece resti di una vita nativa attuale e pratiche attive palestinesi per una ecologia umana sostenibile [5].
Note
[1] Si veda K.W. Whitelam, The Invention of Ancient Israel: The Silencing of Palestinian History, Routledge, London 1996.
[2] Citato in Nadia Abu el-Haj, Facts on the Ground: Archaeological Practice and Territorial Self-Fashioning in Israeli Society, University of Chicago Press, Chicago 2002, p. 48.
[3] Ivi, p. 74.
[4] Si veda in questo contesto, G. Bowersock, Palestine: Ancient History and Modern Politics, in E.W. Said e C. Hitchens (a cura di), Blaming the Victims: Spurious Scholarship and the Palestinian Question, Verso, London-New York 1987. Stranamente, questo studio non viene menzionato da Abu el-Haj, che è in altri casi estremamente esaustiva nella sua ricerca.
[5] Si veda anche la drammatica storia raccontata in E. Fox, Palestine Twilight: The Murder of Dr. Albert Glock and the Archaeology of the Holy Land, Harper Collins, London 2001.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Per la pace e il dialogo, quello vero ...
ISRAELE E PALESTINA ... la Terra promessa. Una riflessione di Freud (1930).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. La Fenomenologia dello Spirito di Alexandre Kojève ... *
Ai tempi della fisica quantistica che bisogno c’è di un Assoluto?
Per la prima volta in italiano il testo sul “determinismo” che Kojève scrisse negli Anni 30 un geniale tuffo ermeneutico nell’universo paradossale teorizzato dalla scienza moderna
di Marco Filoni (La Stampa, TuttoLibri, 16.06.2018)
Il destino dei filosofi è spesso segnato: studio, libri, una pensosa solitudine. Vite di un’umile classicità conferita dal tempo. E poi ci sono le illustri eccezioni: esistenze svolazzanti e sinuose, sottratte dal dominio del normale. Come nel caso di Alexandre Kojève.
La sua fu una vita in quattro atti. Il primo, a Mosca, dove era nato nel 1902 da una ricca famiglia di commercianti (era nipote del pittore Kandinskji), e da dove fuggì dopo la Rivoluzione bolscevica perché altrimenti sarebbe stato fucilato almeno tre volte - e ci andò vicino, a soli quindici anni, sorpreso a vendere bigiotteria al mercato nero: rischiava il plotone d’esecuzione, ma fu liberato dopo una notte in cella soltanto perché lo zio era il medico personale di Lenin.
Secondo atto: la Germania, dove studiò a Berlino e a Heidelberg, addottorandosi con Karl Jaspers.
Poi Parigi, il terzo atto: qui negli anni Trenta diede una lettura vertiginosamente faziosa - e altrettanto geniale - di Hegel, salendo sul trono di «maestro» per un’intera generazione di intellettuali (da Queneau a Bataille, da Lacan a Raymond Aron, e poi Merleau-Ponty, Roger Caillois, Henry Corbin, Hannah Arendt e molti altri ancora).
Infine l’atto finale: dopo la guerra, quando tutti si aspettavano di vederlo tornare in cattedra, lui con nonchalance andò a fare l’alto funzionario del Ministero per gli Affari Esteri francese, dove passò felicemente gli ultimi vent’anni della sua vita fra l’élite della diplomazia mondiale e dell’alta finanza - che, secondo lui, avevano sostituito la vecchia aristocrazia.
Eppure non abbandonò mai lo studio e scrisse un’impressionante quantità di opere rimaste perlopiù inedite. Fra queste ve ne è una, scritta in Francia nel 1932, che vede finalmente la luce in italiano grazie all’editore Adelphi. Si intitola L’idea di determinismo nella fisica classica e nella fisica moderna (traduzione di Sofia Moreno), ed è curata da Mauro Sellitto che firma un’interessante e precisa postfazione. Il tema è decisamente insolito per un filosofo «classico», ma quando si tratta di Kojève non ci si dovrebbe stupire di nulla.
Chissà se Einstein quando affermava che «l’intera scienza non è che un affinamento del pensiero quotidiano» aveva coscienza che, all’epoca, fosse vero anche il contrario. Ecco infatti Kojève, nell’aprile del ’29, assistere alla conferenza di Enrico Fermi dedicata alla teoria dei quanti, e poi annotare nei suoi quaderni di appunti: il mio tema.
Da qui nascono queste pagine: Kojève si confronta con la questione del determinismo - banalizzando: l’idea sottesa che l’accadere degli eventi non sia semplicemente accidentale - tornata vigorosamente al centro della discussione con la teoria dei quanti. Ha ragione Sellitto quando scrive che il libro ci offre l’opportunità di vedere all’opera una delle menti più brillanti del Novecento alle prese con la meccanica quantistica - considerando, inoltre, che molte delle interpretazioni di oggi traggono origine proprio da quel dibattito e che, nonostante sia passato circa un secolo, i problemi sono rimasti fondamentalmente immutati.
Prendiamo ancora Einstein: per lui la meccanica quantistica era filosoficamente inaccettabile. Pur avendo contribuito alla sua nascita, la criticò dal punto di vista concettuale: era inconcepibile che una teoria fisica potesse essere valida e completa pur descrivendo una realtà in cui esistono mere probabilità di osservazione. Seguendo l’autorevole dichiarazione di Henri Poincaré, insomma, la scienza «era determinista o non era affatto».
Kojève non è d’accordo. Il filosofo intravede una nuova idea di determinismo nata con le scoperte della teoria dei quanti, e cerca di dimostrare che non vi sono «ragioni filosofiche a priori che possano obbligarci a rigettare o accettare queste nuove teorie». Per questo critica l’idea classica di determinismo, poiché l’ipotesi dei quanti dimostra l’inaccettabilità del postulato di universalità e di verificabilità sperimentale della causalità classica, che fino ad allora permetteva previsioni esatte sempre più numerose rispetto ai fenomeni reali e fisici.
Kojève è fra i primi pensatori a comprendere la portata delle mutazioni che le scoperte di allora implicavano sulle nozioni di fenomeno, oggetto, esperienza, conoscenza. E lo fa con una radicale messa in questione del determinismo causale esatto, riassunto nel celebre passaggio di Laplace nel quale è evocata l’idea di un osservatore universale onnisciente.
Secondo il filosofo, la teoria dei quanti conduce necessariamente a una concezione indeterminista del reale: viene quindi a cadere l’esigenza di un Assoluto che abbia una funzione nel mondo reale. E aggiunge, quasi a margine, che la nuova fisica moderna implica un ateismo di fondo. Come a dire: se c’è chi cercava la fisica di Dio, io Kojève con questo testo ho scovato la fisica dell’ateismo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
ETICA DELL’ATEISMO?! AL DI LA’ DEI FONDAMENTALISMI LAICI E RELIGIOSI: UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Uno choc di egoismi: a questo assomiglia l’Europa posta davanti alla sfida migratoria
Le scorciatoie non esistono
di Mario Giro (Il mulino, 18 giugno 2018)
Da una parte la demografia galoppante dell’Africa ma soprattutto il cambiamento dei suoi giovani che sentono il diritto di spostarsi come inalienabile. Vogliono un futuro migliore e cercano di afferrare con tutti i mezzi possibili la “loro parte” delle opportunità nella globalizzazione. Anche a rischio della vita. È una forma di “intrapresa individuale”, di investimento sul futuro. Niente può trattenerli, sanno che il mondo è anche loro.
Dall’altra parte l’Europa: un mondo invecchiato e più impaurito, chiuso nel proprio benessere ma anche spaventato e colpito dal declassamento sociale, dalla diminuzione del Welfare e dalla mancanza di lavoro. Tutti lo sanno: se non c’è abbastanza lavoro è per la nuova redistribuzione della ricchezza e per l’innovazione tecnologica. Non potendo prendersela con la tecnologia, la reazione rabbiosa si concentra verso l’ultimo arrivato. Non vogliamo nessuno - si dice - non c’è spazio, la “barca è piena” come sostenevano gli svizzeri durante la seconda guerra mondiale respingendo ebrei...
La politica si adatta, si appiattisce senza colpi d’ala. Non si cercano soluzioni ma si annunciano apocalissi demografiche. Tutti parlano di “invasione” ma nessuno di integrazione, che è il nostro vero problema. A Bruxelles gli emendamenti al Trattato di Dublino - che disciplina le migrazioni e la concessione dei permessi - vanno verso l’indurimento. L’Italia ha posto il veto su un testo che costringeva il richiedente asilo di rimanere fino a 10 anni nel Paese di primo approdo: una follia.
Il nuovo governo italiano fa sentire la voce dello scontento italiano verso i partner che ci hanno riempiti di complimenti ma non hanno mosso un dito.
È scandaloso che una decisione del Consiglio (la relocation) non sia stata applicata senza conseguenze. Inutile girarci attorno: l’Unione ha perso credibilità. La politica migratoria italiana resta sostanzialmente la stessa: lavorare in Libia (e coi Paesi di origine e transito) per trattenere; limitare l’operatività delle Ong in mare; riprovare coi rimpatri.
Il tono però è cambiato: prima lo si faceva tenendo conto del “bon ton” internazionale, senza esacerbare le divergenze. Le critiche si facevano in privato, ora apertamente. Lo choc delle passioni potrebbe essere deflagrante. La polemica politica interna ora aggredisce le relazioni esterne. D’altra parte anche ai commissari Ue o al presidente Juncker, ogni tanto sfuggono commenti che mettono in luce i loro enormi pregiudizi. Dovremmo stare attenti: le parole sono pietre e alla fine colpiscono tutti. Vittimismi uno contro l’altro armati non portano a nessun risultato. Una delle caratteristiche del “metodo europeo” è ridurre i problemi a procedure e regole: si fa apposta per raffreddare i bollenti spiriti nazionali, sempre all’erta. È stata e rimane una scelta politica. I “sovranismi” non sono tutti uguali né potranno mai allearsi.
Le loro agende sono confliggenti: nessuno vuole aiutare l’altro o partecipare ai suoi sforzi: è lo sterile choc degli egoismi. Non esiste in natura (cioè in politica) una “alleanza dei sovranismi”: se sono sovranismi sono istintivamente contrapposti. Se invece si negozia - foss’anche da posizioni più dure - allora non si tratta di sovranismi ma di legittima strategia negoziale. Tutta un’altra cosa.
Certamente l’Italia ha ragione quando sostiene che nessuno l’ha aiutata in questi anni, a parte il lip service complimentoso, divenuto davvero fastidioso. D’altra parte scontrarsi e insultarsi a vicenda non porterà a nessuna soluzione. Le contese europee di questi giorni sono purtroppo tutte improntate a ragioni di politica interna. Questo rende lo scenario preoccupante: con l’inerzia della quotidianità, l’agenda interna tende ad “accecare” e a dirottare quella delle relazioni internazionali, pur essenziale.
I governi devono trovare un equilibrio nuovo tra esigenze interne, più pressanti, e relazioni esterne, comunque vitali: una nuova architettura di dialogo. Quest’ultimo non è mai un “embrassons-nous” facile: è trattativa, fatica, pazienza, ascolto, mediazione.
Dialogare non significa mai arrendersi ma trovare il giusto compromesso. Se si strappa il velo delle buone maniere, che talvolta cela anche l’ipocrisia, si ottiene solo un ambito di negoziato più aspro. Non conviene.
Ciò accade soprattutto ora, un tempo in cui le emozioni sono così importanti. Si parla di percezione della realtà piuttosto che di realtà dei fatti. “Percepire più che capire”: tale è il leitmotiv attuale. Sembra che la percezione vada oltre la comprensione e sia più veritiera: intuisca il “non detto”, anticipi l’occultato, richiami il rimosso. Uomini politici più abili nel “sentire” lo spirito del tempo e meno ingessati nei riti della politica, ne fanno la loro condotta. Ma una volta strappato il velo del politicamente corretto, la difficoltà sta poi nel creare un nuovo binario in cui canalizzare bisogni e risposte. Altrimenti si perde il controllo.
Da sempre il vero compito degli “homines novi” è proprio tale costruzione. Non è sufficiente evidenziare la contrapposizione e cavalcarla: occorre il talento di una nuova sintesi. In parole povere: chiudere porti e/o respingersi migranti a vicenda; lasciarli in balia di libici e/o schiavisti; far finta che l’Africa non esista: ciò rappresenta un nuovo quadro politico? Non sembra proprio, non regge e non ha prospettiva, troppo schiacciato sul qui ed ora, troppo elettoralmente condizionato.
La risposta non è facile. Se ci si attesta sulla linea emergenziale si mettono a rischio i valori fondamentali della democrazia, del diritto occidentale, delle libertà. Tali principi sono validi in quanto universali, cioè per tutti e non per qualcuno soltanto. Neppure si può cancellare il fatto che nel più profondo, alla radice del sentimento popolare, vi è sempre iscritta un’esigenza di pace: la gente semplice (la “povera gente” di La Pira) si somiglia ovunque e non odia nessuno. La gente semplice, se scorge il bisogno non dice mai “tutti sono troppi”.
L’Europa ha già in passato perso il controllo di sé in molte occasioni. Le polemiche sui migranti non sono nuove: la stessa scena della nave Aquarius l’abbiamo già vista nel 2009, nel 2010, nel 2013. Ciò che più importa è che al fondo delle controversie attuali esiste un tema ricorrente nella storia europea: la questione della cittadinanza. Da secoli in maniera periodica i popoli europei si chiedono quale sia la qualità (o le qualità) per far parte della propria comunità nazionale. Ci sono biblioteche su tale indagine e sulle possibili risposte: per scelta, legge, diritto, etnia, razza, cultura, lingua, storia comune, terra, usi e costumi ecc. La discussione sull’identità è questa: come si forma un’identità? Può mai dirsi definitiva?
Tale dibattito è ciclico e si riaccende virulento ogni qualvolta l’Europa subisce una fase lunga di crisi economica. Sono periodi di tempo in cui si sopportano meno “nuovi arrivi” o “nuovi apporti”, in specie se diversi. Sappiamo che su tale assillo hanno lavorato varie correnti ideologiche e numerose scuole di pensiero. L’importante è non trascinare mai il dibattito fuori dal quadro delle nostre conquiste giuridiche occidentali. Per noi i diritti sono universali, il valore supremo è la persona e la sua libertà, la responsabilità è sempre personale e mai collettiva, ogni giudizio necessita garanzie, il rispetto della “rule of law” e dello stato di diritto sono fondamentali. Per questo chiediamo a tutti di adeguarvisi.
Tra quadro giuridico e costituzionale delle leggi da un lato, ed emozioni, paure e percezioni dall’altro, sembra che vi debba essere per forza conflitto. Non è così.
Le leggi e le costituzioni servono proprio a ordinare ciò che non lo è, senza tradirlo e senza travalicarlo. È questo il risultato di tanti secoli di riflessione e maturazione che incalzano la storia, la interpretano e la riordinano alla luce di una sempre nuova coscienza e di nuove consapevolezze.
L’Unione europea, malgrado tutti i difetti, è la depositaria di tale tradizione giuridica euro-occidentale. I Trattati dell’Unione - i cui originali sono depositati e visibili alla Farnesina - sono complicatissimi, è vero, quasi illeggibili senza aiuto. Eppure contengono il distillato della nostra tradizione che ha avuto molte svolte nel corso della storia. In questo senso l’Ue è un superpower giuridico e normativo: garanzie di libertà e di diritti per tutti. È quello il luogo vero delle battaglie dell’Italia, il centro dove far valere le proprie ragioni. Una scorciatoia non c’è.
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA, E ANATOMIA DELL’UOMO A UNA DIMENSIONE... *
Julia Kristeva
De Beauvoir. Quando la donna diventò soggetto
di Francesca Rigotti (Il Sole-24 Ore, Domenica, 17.06.2018)
Il prossimo anno ricorrerà il settantesimo dalla pubblicazione di Il secondo sesso, di Simone de Beauvoir (1949), ma non è una cattiva idea cominciare fin d’ora a celebrarlo. Perché quel libro ha rappresentato un evento culturale, una svolta antropologica, una rivoluzione copernicana: con esso, grazie ad esso il soggetto donna si afferma sulla scena dalla quale non sarà più possibile cacciarlo via. E questo per merito di una filosofa e scrittrice, aristocratica, esistenzialista e comunista nonché femminista dell’uguaglianza, il cui status di autrice originale, col suo approccio che è una sintesi di esistenzialismo, hegelianesimo, marxismo e antropologia, si è finalmente consolidato dopo decenni di alterna fortuna.
Lo riconosce Julia Kristeva, migrante venuta da lontano non normalista francese, a sua volta femminista differenzialista e teorica della psicoanalisi, disciplina verso la quale Simone de Beauvoir non nascondeva la propria antipatia e diffidenza. Eppure la vita e l’opera di De Beauvoir (1908-1986) hanno rivoluzionato mentalità e costumi, imprimendo «un’accelerazione all’emancipazione del secondo sesso dopo millenni di dominazione patriarcale e maschile» - riconosce Kristeva in questa raccolta di saggi che invita a rileggere le pagine di una filosofa dalla scrittura romanzesca e di una scrittrice dall’argomentazione filosofica proprio nella nostra epoca polverizzata, nella quale parecchie donne sembrano riadagiarsi nel conformismo sociale.
Alcune correnti femministe rimproverano a De Beauvoir di aver insistito sul registro universale dell’eguaglianza finendo per non vedere, se non negare, il corpo femminile con le sue caratteristiche specifiche tra cui la maternità e l’omosessualità femminile. Eppure ciò non è sufficiente - ribatte proprio Kristeva - a cancellare l’importanza del pensiero di De Beauvoir oggi, non come passaggio storico superato ma in quanto presentificazione degli atti di affermazione del soggetto donna. Operazione che Simone de Beauvoir conduce, sottolinea Kristeva, nei saggi come pure attraverso i romanzi, nei quali la singolarità individuale dei personaggi si trasforma in universalità collettiva politica. Una sfida raccolta anche da Il secondo sesso, ove si invita a singolarizzare il politico e a politicizzare il singolare.
Il lascito di De Beauvoir a tutte le donne è in ogni caso il culto della libertà: la libertà è la sua stella polare, la libertà di Socrate, di Pascal, dell’Illuminismo, di Hegel, di Marx, di Arendt. La libertà che spetta alle donne se riusciranno a uscire dalla condizione di minorità per ottenere la piena eguaglianza, nella polifonia delle posizioni delle donne, femministe o meno, universaliste, differenzialiste, #me too, femen, non una di meno, e se non ora quando. Si potrebbe credere che per riconoscere questo ruolo fondamentale a Simone de Beauvoir Kristeva la spinga verso criteri differenzialisti che non erano i suoi; a me sembra invece che Kristeva rimanga sempre rispettosa e attenta alle peculiarità del pensiero di De Beauvoir di cui affronta persino i sogni, quelli di cui la scrittrice fa dono al lettore in A conti fatti: sogni di cadute e voli, di maternità e fughe e di fughe dalla maternità, nei quali si mostra la geniale capacità dell’autrice di svelare ciò che è più intimo conciliandolo con i disagi dell’epoca per trasformarli in priorità politiche.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UN NUOVO UMANESIMO?! Pensare l’ "edipo completo"(Freud)
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO
Federico La Sala
"ADAMO", "ABRAMO", I TRE MONOTEISMI, L’ONU, E LA STORIA DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE ... *
Aquarius: se io fossi Papa, scomunicherei Matteo Salvini
di Paolo Farinella, sacerdoye (Il Fatto quotidiano, 12 giugno 2018)
Finita la civiltà occidentale, è iniziata l’inciviltà di Salvini Matteo, segretario della Lega non più secessionista ma a vocazione planetaria, (vice)Presidente del Consiglio dei ministri in atto e cattolico «coerente» (l’ha detto lui medesimo in persona!), in risposta al cardinal Gianfranco Ravasi che twittava il Vangelo di Matteo al capitolo 25,43: «Ero straniero e non mi avete accolto». La motivazione della coerenza cristiana di Matteo Salvini: «Ho il rosario in tasca, io coerente con gl’insegnamenti del Vangelo».
È il capovolgimento di ogni ordine e principio. Se avere un oggetto in tasca è segno di coerenza, chi porta le «Madonne ripiene» di Lourdes, le immagini dei Padri Pii e armamentari di questo genere, cosa è? Un padre/madre eterno in terra?
Se io fossi Papa, lo scomunicherei in forza delle sue stesse parole che sono un insulto a tutto l’insegnamento evangelico, tenuto conto che per un ministro della Repubblica Italiana, fresco di giuramento «di servire con disciplina e onore», dovrebbe essere ininfluente l’aspetto, finto o vero che sia, della religione perché bastano e avanzano i principi della Costituzione che anche Salvini difese nel referendum del 2016, le leggi e i trattati internazionali, sottoscritti dall’Italia e la legge della coscienza che su tutto fa prevalere l’umanità e il pericolo imminente di vita.
Nella creazione, «Dio separò la luce dalle tenebre. Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte» (Gen 1,4-5), ora le tenebre prendono il posto del giorno come se niente fosse.
Mi ribello a questa ignominia che, come scrive Lucia Annunziata su Huffington Post, ci riporta indietro di 72 anni minimo alla vergogna della nave ebraica «Exodus». In questi giorni, nella mia parrocchia, abbiamo pubblicato tutti i bilanci e gli aiuti che diamo a oltre un centinaio di persone/famiglie (50% italiani e 50% di origine non italiana), provengono unicamente da contribuzioni volontarie di circa 150 persone.
Non un soldo pubblico, non un contributo politico che non vogliamo perché abbiamo un senso di dignità che esige la compartecipazione e il sentimento umano. La «pacchia» la rimandiamo indietro al mittente perché è lui che lucra elettoralmente e politicamente dalla disgrazia dei migranti.
A Salvini e a Di Maio che ho votato per scardinare l’immondo sodalizio «Renzi/Berlusconi» e non per trovarmi i fascisti al governo, nonostante la Costituzione, dedico queste parole nelle quali mi riconosco io e il meglio del popolo italiano:
Queste parole sono scolpite nell’atrio del Palazzo dell’Onu. Parole antiche, di Poeta e di Mistico, Saādi di Shiraz, Iran1203-1291. Nove secoli fa un persiano musulmano esprimeva un pensiero che è ebraico e cristiano. Nella Bibbia, «Adamo» non è nome proprio di persona, ma nome collettivo e significa «Umanità - Genere Umano», senza aggettivi perché non è occidentale, orientale, del nord o del sud, ma solo universale.
L’Onu ha scolpito le parole sul suo ingresso perché le nazioni possano leggerla prima di deliberare per richiamarsi l’orizzonte delle decisioni. Europa, Italia e Occidente fan parte dell’Onu al punto che spiriti poveri osano parlare di «civiltà occidentale», identificandola, sacrilegamente, con il Crocifisso, senza memoria di storia, di geografia e di civiltà.
La nostra civiltà sta regredendo verso la preistoria, verso il nulla. Come insegna il secolo XX, secolo di orrori, la barbarie porta all’abisso e inghiotte la Storia in un buco nero senza ritorno. Guardando le immagini di umanità crocifissa nella miseria dell’opulenza attorno al Grattacielo della Regione Liguria, ho pensato istintivamente alle parole del pastore protestante tedesco, Martin Möller, pronunciate nel 1946 in un sermone liturgico: -***«Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».
A Genova il Comune ha deciso di restaurare la Lanterna, simbolo della città, faro di luce nel buio e segnale per rotte sicure; a Genova, in Italia, in Europa e nel Mondo si perseguitano i poveri, i senza dimora, gli sbandati, figli di una società impazzita che crede di potersi chiudere in sé, erigendo muri e fili spinati, mentre si difendono Istituzioni ed Europa, gusci vuoti d’ideali, ma pieni di interessi miopi. Chi costruisce muri distrugge l’Europa e il proprio Paese, chi perseguita il povero si attira la collera di Dio che è «il Dio degli umili, il soccorritore dei piccoli, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati» (Gdt 14,11).
La civiltà e il suo cammino lo avevano indicato nei millenni antichi le Scritture degli Ebrei, dei Cristiani e dei Musulmani, recepiti dalla modernità nell’esistenza stessa dello spirito delle Nazioni Unite, che si riconoscono in Saādi di Shiraz.
Se oggi, cittadini, uomini e donne, politici e amministratori, vescovi e preti, politici e governanti, sindaci e assessori, credenti e non credenti, docenti e studenti, non si riconoscono laicamente nelle parole che vengono dal lontano Medio Evo, noi abbiamo messo mano alla scure per recidere l’albero su cui siamo seduti. Se non ci si chiede la ragione per cui i poveri aumentano, i senza casa aumentano, gli sbandati crescono esponenzialmente e i migranti africani chiedono il conto, siamo colpevoli di assassinio della civiltà, non salveremo noi, ma ci votiamo destiniamo alla distruzione.
Berthold Brecht (1898-1956), poeta e drammaturgo, nelle Poesie di Svendborg (1933-1938), 1937 (traduzione di E. Castellani-R. Fertonani) ne ha una col titolo «Germania», atto di accusa al sopruso del forte sul debole, all’arroganza del sistema sulla persona. A sessant’anni della sua morte, Germania è nome simbolico, sostituibile con Italia, Ungheria, Polonia, Austria, Olanda, Genova, Torino Milano, Roma, Io, Tu, Egli, Noi, Voi e Loro: -***«Parlino altri della propria vergogna, / io parlo della mia. /O Germania, pallida madre! / come insozzata siedi / fra i popoli! / Fra i segnati d’infamia /tu spicchi. / Dai tuoi figli il più povero/ è ucciso. / Quando la fame sua fu grande / gli altri tuoi figli / hanno levato la mano su lui. / ... Perché ti pregiano gli oppressori, tutt’intorno, ma / ti accusano gli oppressi? / Gli sfruttati / ti mostrano a dito, ma / gli sfruttatori lodano il sistema / che in casa tua è stato escogitato! / E invece tutti ti vedono / celare l’orlo della veste, insanguinato / dal sangue del migliore / dei tuoi figli. / O Germania, pallida madre! / Come t’hanno ridotta i tuoi figli, / che tu in mezzo ai popoli sia / o derisione o spavento!» (Berthold Brecht).
Possano la Poesia e la Memoria rinsavire Ragione e Dignità. Salvini, la Lega, Di Maio e l’illusione passeranno, l’umanità sopravvivrà e i poveri porteranno fiori sulle loro tombe. È la Storia, bellezza! È la Storia!
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SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi". Il lavoro di Emilio Gentile
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. "Potrei, per me, pensare un altro Abramo" (F. Kafka).
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. MANDELA E LA FILOSOFIA...
Quella pedagogia della «mite vendetta»
Un’inchiesta a tre voci sulla giustizia riparativa instaurata da Nelson Mandela per «punire» gli aguzzini dell’apartheid
di Lucia Capuzzi (Avvenire, martedì 12 giugno 2018)
«Sapevo che l’oppressore è schiavo quanto l’oppresso, perché chi priva gli altri della libertà è prigioniero dell’odio, è chiuso dietro le sbarre del pregiudizio e della ristrettezza mentale. L’oppressore e l’oppresso sono entrambi derubati della propria umanità. Da quando sono uscito dal carcere è stata questa la mia missione: affrancare gli oppressi e gli oppressori». Con queste parole Nelson Mandela concluse la propria autobiografia scritta durante quasi tre decenni di prigionia e pubblicata nel 1994. La memoria del dolore patito era fin troppo viva in lui e nel resto di quanti avevano subito l’apartheid. Il muro d’odio della segregazione era stato distrutto.
Dietro i calcinacci, ora, spuntavano con chiarezza le sagome dei carnefici e dei loro sostenitori. Per potersi guardare reciprocamente negli occhi, senza i filtri del razzismo e dell’ideologia, occorreva sciogliere finalmente i nodi del passato, saturo di orrori. L’esperienza storica pregressa poneva il Sudafrica di fronte a un bivio. O puntare sull’amnistia generale, una sorta di colpo di spugna per ripartire, o sulla punizione dei colpevoli attraverso i tribunali ordinari. Nessuna di queste due direzioni fu intrapresa.
Nei dodici anni tra il 1990 e il 2002, il Paese ’inventò’ e sperimentò un modo diverso di giustizia o un modo di giustizia diversa. Di tipo ’riparativo’.
A incarnarla la Commissione per la verità e la riconciliazione. Non una corte tradizionale. Bensì un luogo in cui i carnefici (gli aguzzini del regime e i loro complici ma anche quanti, nella lotta antisegregazionista, si erano macchiati di delitti) erano chiamati a dare testimonianza piena, di fronte alla vittime, dei loro atti, compresi i più aberranti. In cambio, potevano ottenere, in una seconda fase, l’amnistia per quanto avevano confessato.
Al di là dell’aver evitato il bagno di sangue e aver interrotto la spirale perversa dei regolamenti di conti, la Commissione, pur con tutti i limiti di un Paese ancora in cammino verso una democrazia matura, ha segnato uno spartiacque. Non solo nella cultura giuridica internazionale. Bensì nella cultura tout court, intesa come ethos delle società. In tale prospettiva ampia scelgono di analizzarla, Luca Potestà, Claudia Mazzucato e Arturo Cattaneo in Storie di giustizia riparativa. Il Sudafrica dall’apartheid alla riconciliazione, edito da Il Mulino (pagine 256, euro 22,00). I tre studiosi dell’Università Cattolica appartengono ad ambiti differenti: Podestà è uno storico del cristianesimo, Mazzucato è una giurista e Cattaneo è un esperto di letteratura inglese. Ad accomunarli, una visione multidisciplinare dell’intreccio tra giustizia, riconciliazione, convivenza nel mondo globale. Interpretata alla luce di quello che il filosofo Tzvetan Torodov definiva «il problema dell’altro».
«È dalla scoperta-conquista dell’America, con la prima globalizzazione, che l’Europa inizia a considerare ’l’altro’ come nemico. Gli imperi dell’antichità, nonostante il grado di violenza, erano stati inclusivi rispetto alle popolazioni annesse. Le moderne potenze coloniali, al contrario, hanno fatto dell’esclusione il proprio paradigma», sostiene Cattaneo. E aggiunge: «Tale fenomeno assume proporzioni estreme nell’apartheid sudafricana. Per questo, il suo superamento inedito acquista un valore allegorico».
Per esprimere l’opposto del regime segregazionista, la Commissione - e il corpus giuridico prodotto in quegli anni - ha voluto e dovuto creare una giustizia in grado di evitare la mimesi del male. Una giustizia che ripara invece di punire, responsabilizzando vittima e carnefice. Poiché il reato non è solo trasgressione a una norma, bensì offesa a una persona da parte di un’altra. In entrambe si incarna il precetto: l’incontro ne ricompone le biografie, dando riparazione all’offeso e obbligando l’offensore a farsi carico del dolore provocato.
«È stata ’un’iniziativa profetica’. Con cui non è solo utile ma direi necessario fare i conti in questo momento storico, in cui la cultura dell’inclusione sembra essere stata sostituita da quella dei muri», sottolinea Podestà. L’esperienza sudafricana, dunque, è un messaggio potente per questo tempo di fratture. Poiché riconosce come fondativa per l’io, la relazione con l’altro. Qualunque esso sia. Un concetto che gli africani chiamano ubuntu.
’Non importa quanto diverso, lontano, difficile, scomodo, problematico o ’cattivo’ l’altro possa essere: la sua presenza e la nostra capacità di accettarlo, nonostante tutto, costituiscono la nostra stessa umanità. Senza di lui ci perdiamo. Senza di lui, non posso essere io. L’affermazione dell’ubuntu, della centralità della relazione laddove c’era stata massima separazione, è stata la vera vittoria sull’apartheid», aggiunge Mazzucato.
A dare un risalto ancora maggiore al ’caso Sudafrica’, il fatto che siano state le vittime, una volta ottenuto il potere, a ’fare il salto’, in nome della coerenza per ciò per cui avevano lottato: uguali diritti e piena cittadinanza a tutti, a partire da quanti le avevano troppo a lungo negate loro.
È quest’ultima la «mite vendetta» di cui parlava Albie Sachs, giurista-simbolo della lotta anti-apartheid, in cui aveva perso un braccio.
«L’idea dell’occhio per occhio, dente per dente, braccio per braccio mi riempie d’angoscia - affermava -. È questo ciò per cui combattiamo? Un Sudafrica pieno di gente senza braccia e senza occhi? C’è un’unica vendetta che può mitigare la perdita del mio braccio ed è di natura storica: la vittoria di ciò per cui abbiamo lottato, il trionfo dei nostri ideali».
VERITA’ E RICONCILIAZIONE. LA SAGGIA INDICAZIONE DEL SUDAFRICA DI MANDELA, DI TUTU, E DI DECLERCK
MANDELA E LA FILOSOFIA. Lettera a Primo Moroni (in memoria) da ’Johannesburg’
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MATEMATICA, TEOLOGIA POLITICA, E ANTROPOLOGIA...
Api matematiche, riconoscono lo zero
Come delfini, pappagalli e scimpanzè
di Redazione Ansa*
Anche le api entrano a far parte del club molto esclusivo di animali che sanno cos’è lo zero, insieme a delfini, pappagalli, scimpanzè e bambini in età prescolare: si tratta di una scoperta sorprendente, considerata la complessità del concetto matematico astratto del nulla, e apre a nuovi e più semplici approcci per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Lo studio, pubblicato sulla rivista Science, è stato coordinato dall’Università di Melbourne in Australia (Rmit), in collaborazione con l’Università francese di Tolosa.
La scoperta solleva non poche domande su come una specie così diversa e lontana dagli esseri umani, con meno di un milione di neuroni a confronto degli 86 milioni del cervello umano, possa condividere un’abilità così complicata: infatti lo zero è un concetto molto difficile che i bambini impiegano anni ad imparare e che era assente in alcuni sistemi numerici di antiche civiltà.
I ricercatori guidati da Scarlett Howard hanno attirato gli insetti verso una parete con piccoli fogli bianchi, ognuno con un numero da due a cinque di forme nere disegnate. Dopo aver addestrato le api tramite ricompense di cibo a scegliere i fogli con un minore o un maggior numero di forme, i ricercatori hanno introdotto due numeri nuovi, uno e zero: a quel punto gli insetti hanno dimostrato di sapere che lo zero è minore di uno.
"Se un’ape riesce a riconoscere lo zero con meno di un milione di neuroni", dice Adrian Dyer dell’Università di Melbourne, uno degli autori, "allora devono esserci modi più semplici ed efficienti per insegnare lo stesso concetto ai sistemi di Intelligenza Artificiale. Ad esempio - prosegue - per noi è semplice attraversare la strada quando non passa nessuno, ma per un robot risulta un compito molto più difficile".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CONTARE E PENSARE: MARE, "NUMERO E LOGOS".
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
MATEMATICA, TEOLOGIA POLITICA, E ANTROPOLOGIA: CONTIAMO E PENSIAMO ANCORA COME SE FOSSIMO NELLA CAVERNA DI PLATONE. NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN
Federico La Sala
POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA. Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore" ... *
Narcisismo e democrazia
di Sergio Benvenuto (Doppiozero, 06 giugno 2018)
Il libro di Giovanni Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica (Marsilio) si inserisce in un filone di studi che chiamerei, parafrasando Gibbon: Declino e (possibile) Caduta della Democrazia. Insomma, Orsina tematizza uno dei maggiori problemi della nostra epoca: la crisi della democrazia pluralista e liberale.
Una crisi che non a tutti appare evidente. Perché è vero che 25 paesi negli ultimi 18 anni sono retrocessi, per dir così, dalla democrazia al dispotismo - compresi Russia, Turchia e Venezuela - ma in Occidente la democrazia può sembrare ben salda. In effetti, le tre grandi catastrofi degli ultimi due anni - Brexit, elezione di Trump, vincita dei partiti anti-politica in Italia - si sono prodotte rispettando in tutto i meccanismi democratici. Non è un caso, però, che molti commentatori, anche in Italia, abbiano deprecato la decisione di Cameron di indire un referendum sull’appartenenza del Regno Unito all’Europa: “non è materia su cui ha da decidere il popolo”, hanno detto. -Insomma, molti democratici cominciano ad aver seriamente paura della democrazia. E ne hanno le ragioni, perché sappiamo che talvolta le democrazie uccidono democraticamente se stesse: fu questo il caso del fascismo italiano nel 1923, del nazismo in Germania nel 1933, delle elezioni algerine del 1991, e più di recente delle elezioni russe (Putin), turche (Erdogan) e venezuelane (Maduro). Il presupposto di onniscienza politica della democrazia è smentito storicamente. Un popolo può liberamente decidere di rovinarsi, come accade a certi individui, che decidono liberamente di rovinarsi; ne conosciamo tanti.
Ma per Orsina come per altri (incluso il sottoscritto) il sintomo della crisi della democrazia in Occidente è l’avanzare dei cosiddetti partiti populisti, ovvero “anti-politici”. Partiti o movimenti ossimorici, perché attaccano il potere politico proponendo se stessi come potere politico. Ma il merito di Orsina è di situare questo retreat della liberal-democrazia non come evento nuovo, congiunturale, ma come il manifestarsi di una contraddizione fondamentale nel genoma stesso della democrazia. Così, Orsina si appella all’analisi, così ambivalente, di Tocqueville della democrazia americana nell’800.
Potremmo dire che questo filone di studi cerca di fare nei confronti della democrazia quel che Karl Marx fece nei confronti del capitalismo. Per Marx il capitalismo non sarebbe caduto per la rivolta indignata delle classi oppresse, ma per un’implosione interna, per il venire al pettine dei nodi di una contraddizione fondamentale del capitalismo stesso. Analogamente, la democrazia comporta una contraddizione fondamentale che sta per venire al pettine. Siccome la profezia marxiana del crollo del capitalismo non si è (finora) verificata, c’è solo da augurarsi che, analogamente, il crollo della democrazia non si verifichi. Ce lo auguriamo perché dopo tutto pensiamo come Churchill, che la democrazia è il peggiore dei sistemi politici, a esclusione di tutti gli altri.
Va detto che Orsina, professore di Storia contemporanea alla LUISS, non si rifà tanto a sociologi e politologi accademici, quanto piuttosto a testi e ad autori del mondo filosofico e poetico: a La rivolta delle masse di José Ortega y Gasset, a Nelle ombre del domani di Johan Huizinga, a Massa e potere di Elias Canetti, a Montale, a Marcel Gauchet. È tra quelli che pensano che non bastino fatti e statistiche per capire il mondo in cui viviamo: occorrono anche le intuizioni, le folgorazioni intellettuali, di scrittori e filosofi.
Del resto, sin dal titolo - che riecheggia il bestseller anni 70 La cultura del narcisismo di Christopher Lasch - Orsina usa un concetto non ‘sociologico’, quello di narcisismo. Concetto freudiano più che mai, anche se l’autore non cita Freud ma i sociologi e i pensatori che, oltre Lasch, hanno sdoganato il concetto di narcisismo nella cittadella sociologica (Tom Wolfe, Richard Sennett, Gilles Lipovetski).
Ora, per narcisismo Orsina non intende egoismo e nemmeno individualismo. Quest’ultimo, diceva Tocqueville, “è un sentimento ponderato e tranquillo”, è il valutare oculatamente i costi e benefici, e difatti tutte le teorie liberali si basano sull’individuo come homo rationalis, come buon calcolatore dei propri personali vantaggi. Il narcisista invece è una personalità fondamentalmente irrazionale (ho cercato di descrivere il narcisismo secondo Freud qui). Non è tranquillo, anzi, tende all’ira e alla protesta perenne, divorato da una frustrazione che lo assilla. In modo stringato, possiamo dire che il narcisista è chi si crede. Chi crede solo nella propria opinione, e che crede soprattutto nei propri desideri. Ma siccome nella vita sociale ci sarà sempre qualcuno al di sopra di lui, sentirà conficcate nella sua pelle “le spine del comando” (dice Orsina citando Canetti) ogni volta che ubbidirà a qualche ordine, e tutte queste spine costituiranno “un duro cristallo di rancore”. Perciò le democrazie sono caratterizzate da un cumulo di rabbia contro chi “comanda”, come ha visto il filosofo Peter Sloterdijk in Ira e tempo, dove parla di partiti e movimenti politici come “banche dell’ira”.
In effetti la democrazia non è solo un sistema per scegliere chi deve governare, essa si basa su una Promessa fondamentale, implicita o esplicita che sia: l’auto-determinazione di ciascun uomo e di ciascuna donna. Ovvero, non c’è alcun criterio che trascenda la volontà di ciascuno, sia esso la religione, la patria, il re, la classe sociale... “Il popolo è sovrano”, quindi ciascuno si sente sovrano nel pensare e nell’odiare. Ormai contano le opinioni dei singoli, ovvero la loro somma, non l’autorevolezza delle opinioni: se un’opinione è diffusa, diventa ipso facto autorevole. Se un libro si vende bene, allora è un capolavoro. Se un leader cialtrone prende una barca di voti, diventa ipso facto un grande uomo politico. Da qui l’esplosione dei sondaggi d’opinione: essi servono non solo a sapere quel che la gente pensa, ma a stabilire, appunto, che cosa vale e che cosa no. Ora, ciascuno è convinto che la propria opinione sia quella giusta, anche se in realtà non sa nulla di ciò di cui ha un’opinione. In democrazia, dicevano gli antichi greci, prevale la doxa, l’opinione, non l’epistheme (il sapere). Dico qui a parole mie quel che mi sembra il succo del libro di Orsina.
Decenni fa le persone semplici, non colte, mi chiedevano spesso “Professore, ma per chi devo votare?” Non rispondevo, ligio all’ideale democratico per cui il “professore” non deve esercitare un’autorità intimidente sull’elettore. Oggi invece le persone senza cultura non sanno che farsene non solo delle mie idee politiche, ma di quelle di tutti i professori. Del resto, per ogni opinione, per quanto becera, si riesce a trovare sempre qualche “esperto” che la puntelli o la legittimi. Si scoprono “specialisti” i quali dicono che vaccinare i bambini fa male, per esempio, quando si spande il rumor secondo cui vaccinare fa male. Il narcisismo è insomma l’arroganza dei propri desideri e delle proprie opinioni; non conta più il percorso - di studio, riflessione, informazione, confronto con esperti - che porta ad avere un’opinione che pesi.
Così, scrive Michel Crozier (citato da Orsina):
Insomma, il principio di autodeterminazione di ciascuno porta a un indebolimento progressivo della politica. Da qui il crescente discredito dei politici: essi fanno da capro espiatorio di questa contraddizione fondamentale. Vengono applauditi solo i politici che si dichiarano anti-politici... Il narcisista moderno esige dalla politica che risolva i propri problemi, ma siccome la politica deve cercare di risolvere anche i problemi degli altri, qualunque cosa un politico farà sarà sempre insoddisfacente. Ogni misura politica pesta sempre i piedi a qualcuno. Ogniqualvolta un politico agirà politicamente, tenendo conto quindi dei vari interessi tra loro spesso contrapposti, sarà sempre considerato fallimentare, anzi un corrotto.
Si prenda il caso esemplare della lotta all’evasione fiscale: questa dovrebbe essere popolare perché permette allo stato di avere più fondi per i servizi pubblici, per il sistema sanitario..., ma essa comporta una decurtazione del reddito di chi prima evadeva. Solo questa decurtazione viene vista, e biasimata.
Il paradosso è che la credibilità dei politici si abbassa sempre più man mano che essi si convertono alla demagogia, diventando “cantastorie” come dice Orsina, ovvero aizzano richieste specifiche anche se irrealistiche al fine di guadagnare voti e potere. Sempre più abdicano a una funzione che i politici di vecchio stampo esercitavano: quella di presentare agli elettori anche gli oneri che un sistema politico-economico esige, i vincoli che vengono dall’economia, dal sistema internazionale delle alleanze. Oggi i politici promettono sempre di più a tutti, non mettono mai gli elettori di fronte alla complessità e alla durezza dei problemi sociali. Ma la demagogia dà un vantaggio effimero: prima o poi, l’elettore capisce che le promesse non vengono mantenute. E si volgerà a un altro demagogo...
Si è denunciato il fatto che il nuovo governo della Lega e del M5S in Italia si basi su due progetti praticamente contraddittori: da una parte la flat tax, che di fatto regala soldi ai più ricchi; dall’altra il reddito di cittadinanza, che dovrebbe andare ai più poveri. Ma se lo stato rinuncia a una parte cospicua delle tasse, gli sarà impossibile dare un reddito a chi non lavora.
Il fatto che questi due progetti abbiano trovato una sorta di affinità elettiva è un’allegoria della contraddizione della democrazia narcisista: dallo stato, ovvero dalla politica, si chiede che da una parte esso dia sempre più, ma dall’altra gli si vuole dare sempre meno. Esigo che lo stato spenda sempre più per me, ma mi rifiuto sempre più di dargli questi soldi da spendere. Il segreto dell’esplosione del debito pubblico in Italia, che ha raggiunto il 130% del PIL nazionale, è tutto qui (esso è il frutto di decenni di politiche che hanno comprato consenso di massa indebitando però i nostri figli fino al collo).
Da qui il paradosso: lo stato italiano è fortemente indebitato, mentre i patrimoni e i risparmi personali sono altissimi. In Italia abbiamo uno stato quasi alla bancarotta, e una ricchezza privata cospicua.
Come nota Orsina, i pericoli della democrazia del narcisismo hanno portato gli stati, nel corso degli ultimi decenni, a sottrarre spazi al controllo democratico (cosa che viene denunciata dai populisti). Le banche centrali si sono autonomizzate sempre più dal potere politico, difendono la moneta del paese senza subire le pressioni dei governi, i quali esprimono le esigenze confuse di chi li ha eletti. Orsina legge il distacco crescente della magistratura dal potere politico come un altro segno di questa secessione di parti dello stato dal controllo democratico (sempre più, in quasi tutti i paesi, i magistrati fanno la loro politica; come abbiamo visto in Brasile oggi con Lula, la magistratura può opporsi fermamente alla volontà popolare). Egli nota, ad esempio, che tra il 1969 e il 1976 la quota di budget federale americano sul quale la politica conservava un controllo discrezionale si è dimezzato, scendendo dal 50 al 24%. Le istituzioni europee, di fatto, tolgono spazi all’autodeterminazione dei singoli paesi, imponendo a ciascuno parametri entro cui operare. Va detto che questo controllo della tecnocrazia europea sui destini nazionali non ha funzionato sempre. Non ha impedito il crack della Grecia nel 2016 né l’esplosione del debito pubblico italiano e portoghese fino a oggi.
Molti denunciano questo crescente potere tecnocratico e rivendicano più democrazia, ma non si rendono conto del fatto che la secessione di molte funzioni dalla “politica” - banche centrali, magistratura, FMI, WTO, ecc. - è proprio un ammortizzatore della democrazia frutto della democrazia stessa: rispetto all’autodeterminazione di tutti contro tutti, le istituzioni non elette, “tecniche”, pongono dei paletti fondamentali che impediscano le derive. Così, le costrizioni esterne imposte dai trattati internazionali, che il narcisista delle democrazie rigetta rivendicando la propria autodeterminazione nazionale (o regionale), rientrano.
“Il basso continuo” (è l’espressione di Orsina) dei populismi, rivendicando la propria sovranità nazionale di contro ai vincoli che pone a una nazione il tessuto europeo (o, per gli Stati Uniti, il NAFTA e altri trattati internazionali), titilla il desiderio di autodeterminazione di ciascuno. Si dice “Se noi italiani potessimo decidere tutto quello che vogliamo, senza tener conto dell’Europa, saremmo più liberi...” Si tratta ovviamente di un’illusione, perché rinunciare ai vincoli volontari non evita affatto i vincoli involontari, quelli imposti dai mercati internazionali, ad esempio. Rinunciare ai vincoli con altri stati ci mette in balia di forze economiche e politiche internazionali per noi ancor più incontrollabili.
Vent’anni fa ci fu una forte reazione alla globalizzazione “da sinistra”. Ma la sinistra, soprattutto marxista, è globalista per vocazione. Il vero grande attacco alla globalizzazione - di cui Trump e la Brexit sono gli episodi più salienti - viene però oggi da destra, o dai “populismi”. Dilaga la tendenza a negare l’evidenza di un mondo globalmente interconnesso, tornando alle vecchie identità, nazionali o regionali.
Ora, questa esigenza di autodeterminazione va sempre più spezzettandosi: ogni regione potrà pensare che sia meglio decidere da sola, senza avere i lacci nazionali che la legano ad altre regioni, magari più povere, ecc.
Lo abbiamo visto con la Lega Nord, prima che svoltasse verso un nazionalismo neo-fascista. Accade così che da una parte la Gran Bretagna decide di separarsi dall’Europa, ma dall’altra questo spingerà scozzesi e nord-irlandesi a volersi separare a loro volta dalla Gran Bretagna, ecc. ecc. Alla fine di questo processo ricorsivo di separazioni, nel quale ci si illuderà di diventare sempre più liberi... c’è solo l’individuo solo, narcisista. Che non vuole legami né costrizioni. Ma non si può vivere da soli. A meno di non fare come il protagonista del film Into the Wild di Sean Penn: se ne va a vivere completamente isolato, autarchico, sovrano, in Alaska, per morirvi. Anche la prospettiva delle nostre società potrebbe essere la morte, quella della democrazia.
Questo di Orsina è un libro che evade dal recinto di molto dibattito politico di oggi, diviso tra neo-marxisti, neo-liberisti e neo-populisti. Un dibattito ormai stereotipato, dove già si sa prima che cosa ciascuno dirà.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI ... *
Vattimo a Teheran per salvare Heidegger
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 3 Giugno 2018)
Il nuovo libro di Gianni Vattimo Essere e dintorni (La nave di Teseo) comprende 31 saggi che sono altrettanti tentativi di interpretare l’attualità. Ecco perché il volume non è un trattato metafisico, bensì un «breviario teologico-filosofico», o meglio, il «diario di una crisi», quella provocata dalla pubblicazione dei Quaderni neri di Martin Heidegger.
In tempi in cui si parla di un «ritorno» della filosofia al centro dello spazio pubblico, le pagine di Vattimo sono esempio di stile, chiarezza, accessibilità. Perché se i filosofi vogliono contribuire a riflettere sulla situazione presente, bisogna che parlino e scrivano in modo comprensibile.
Il «breviario» ruota intorno al nesso stretto fra interpretazione ed emancipazione. Si ricorderà la celebre frase di Karl Marx contenuta nelle Tesi su Feuerbach: «I filosofi hanno finora solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di cambiarlo». Ebbene, questa tesi - così commenta Vattimo - va presa con la dovuta cautela. Perché interpretare è già cambiare. Lo mostra l’ermeneutica, che non è un relativismo tradizionalista. Chi la fraintende in tal senso, presume che ogni interpretazione rispecchi in modo imperfetto e mutevole la «verità oggettiva» del mondo là fuori.
Al contrario, l’interpretazione - come insegna già Aristotele - è l’apertura in cui, di volta in volta, la verità si costituisce articolandosi. Ogni interpretazione è un contributo alla verità condivisa. Si intuisce il valore democratico dell’ermeneutica. Perché il totalitarismo attecchisce là dove una sola interpretazione vorrebbe imporsi come la verità. Meglio, dunque, diffidare di chi sostiene di possederla.
D’altronde già all’epoca de Il pensiero debole, nel 1983, Vattimo aveva avanzato l’esigenza di un pensiero in grado di farsi carico della dissoluzione di princìpi e strutture forti.
L’ultimo Vattimo rilancia: se non c’è emancipazione senza interpretazione, ogni interpretazione porta sempre con sé una carica liberatoria. E suggerisce: «Finora i filosofi hanno creduto di descrivere il mondo, ora è venuto il momento di interpretarlo...». Per essere coerente il pensiero debole non potrà rivendicare una «posizione di sovranità», tanto meno nella prassi politica. Ma l’ermeneutica è emancipazione anche perché racconta un’epoca che sa di essere ineluttabilmente contingente, profondamente storica. Sulle orme di Heidegger, Vattimo ripercorre la storia del lungo addio all’Essere, che può restare solo nel ricordo. Così l’ermeneutica si aggira «nei dintorni dell’Essere» - come suggerisce il titolo.
Che avviene, però, all’indomani dei Quaderni neri? Negli ultimi saggi Vattimo ricostruisce l’intenso dibattito esploso non tanto sull’adesione al nazismo, quanto sull’antisemitismo e sull’interpretazione della Shoah. Evita le due scorciatoie più frequenti: quella di coloro che vorrebbero gettare l’opera di Heidegger alle ortiche e quella di chi banalizza fino a negare persino l’antisemitismo.
Chiaro è tuttavia il suo tentativo di «salvare» Heidegger. Come? Facendone un «teologo cristiano». A Vattimo non interessa tanto la politica di Heidegger, che pure emerge da quelle pagine. Risuona allora la sentenza che suggella l’intervista allo «Spiegel» uscita postuma: «Ormai solo un dio ci può salvare».
La via di salvezza sarebbe quella di un cristianesimo paolino. Ma a parlare è Vattimo oppure Heidegger? Le parti sembrano confondersi. Tanto più che l’ultimo Vattimo, fulminato sulla via di Damasco, interpreta l’emancipazione in chiave religiosa. Questo sostanzia anche le sue scelte politiche, più che discutibili. Con un salto mortale nella metafisica il pensiero debole si fa pensiero dei «deboli», una categoria reificata senza considerare che debole rinvia a una relazione - si è deboli sempre rispetto a qualcun altro e i deboli non hanno sempre ragione.
La Siracusa di Vattimo si chiama Caracas, se non addirittura Teheran. Per un verso le lodi a Chávez, fulgido esempio di socialismo, per l’altro l’apprezzamento per Ahmadinejad nonché il giudizio su Israele: «Tra i peggiori danni prodotti dalla politica hitleriana e dall’Olocausto».
L’antisionismo di Vattimo - è bene dirlo a chiare lettere - si nutre di un vecchio antiebraismo marcionita, che la Chiesa ha già più volte condannato, si alimenta di una teologia della sostituzione - bandire la vecchia legge per far trionfare lo spirito - che tanti danni ha prodotto nella storia.
L’ermeneutica viene sacrificata sull’altare di un cattolicesimo che vorrebbe cancellare il messianismo ebraico, tradita in nome di forti prese di posizione, che hanno tratti categorici e assiomatici. In futuro bisognerà chiedersi come salvare Vattimo dopo aver salvato Heidegger.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
ICONE DELLA LEGGE - DELLA COSTITUZIONE. Icone. Pensare per immagini...
Resurrezione: mito o mistero?
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 28.05.2018)
Nel dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio Salita al Calvario del 1564, si scorge a fatica, al centro di una scena super affollata, Gesù salire al Calvario nell’indifferenza generale. Si fatica a vedere la sua piccola figura e la grande croce che trascina con sé. Tutt’intorno a lui brulica una folla indifferente, affaccendata nelle proprie attività. Il clima è festoso, non sembra profilarsi alcuna tragedia all’orizzonte. In primo piano, tre donne piangono, consolate da un giovane che sappiamo essere Giovanni, l’apostolo. Ma le quattro figure sembrano fuori posto, quasi fossero dovute perché non si dà la Passione senza le donne piangenti e Giovanni.
Inizia da qui l’itinerario che Gabriella Caramore e Maurizio Ciampa percorrono nel loro ultimo libro, Croce e Resurrezione (il Mulino), pubblicato nella collana ’Icone. Pensare per immagini’ diretta da Massimo Cacciari. -Come suggerisce il titolo, il libro è diviso in due parti. Nella prima, dedicata alla passione e crocefissione di Cristo, Maurizio Ciampa commenta la Salita al Calvario accostandola anche a diverse altre raffigurazioni dello stesso soggetto: da Hieronymus Bosch, col suo Cristo portacroce del 1515 - in cui il volto di Gesù sembra l’unico umano, schiacciato e soffocato da facce grottesche e demoniache -, a James Ensor, con L’entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889, in cui la parodia dell’ingresso a Gerusalemme alla vigilia della Pasqua, è un carnevale. Da Matthias Grunewald con il crocifisso dell’Altare di Isenheim, quasi inguardabile nell’atrocità del suo dolore, a I disastri della guerra, di Francisco Goya, 1808-1810, e altri ancora.
La seconda parte del libro è dedicata alla risurrezione di Cristo, evento inimmaginabile accaduto senza testimoni. Com’è possibile, allora, rappresentarlo? In che modo dipingere un uomo che abbia attraversato il confine della morte e abbia trovato, al di là, vita nuova? Di quale strana materia dovrebbe essere fatto, per rimanere attingibile ai sensi?
Gabriella Caramore sceglie di parlarne commentando La cena di Emmaus dipinta da Rembrandt nel 1629, in cui il risorto è un profilo d’ombra che risalta sulla luce proiettata sul muro alle sue spalle, che il suo stesso corpo emana. Ed è una buona scelta, perché non esiste in tutta la storia dell’arte un volto di Cristo risorto all’altezza dell’evento, neppure quello che forse è il più bello di tutti, ritratto da Piero della Francesca nel dipinto Resurrezione del 1460.
È un libro bello e intenso, traboccante di domande che tutti si fanno davanti ai due pilastri della fede cristiana, la morte in croce di Gesù e il suo ingresso in una nuova vita. Due sono le più dure e drammatiche: interessano ancora a qualcuno la sua storia e la sua tragica fine? Com’è possibile oggi credere alla resurrezione? La risposta, più lasciata intuire che detta esplicitamente, sembra essere ’no’. Forse, suggeriscono gli autori, dovremmo leggere tutta la vicenda in un modo diverso che, allontanandola dalla “leggenda”, ci permettesse di trovarne un senso accettabile oggi per noi.
Nella Salita al Calvario, osserva Ciampa, per la prima volta la passione di Cristo è trasformata in spettacolo, infatti la sua figura quasi scompare tra le tante che affollano la scena, per lo più allegre e ridanciane, prese dai loro vari commerci. Il luogo in cui il condannato sarà crocifisso è lontano e marginale. Come lo sono anche Giovanni e le donne, raffigurati in primo piano sul lato destro del dipinto, e sembrano del tutto estranei rispetto alla folla. Non sono vicini né a Gesù né al luogo del patibolo.
Maurizio Ciampa si chiede se ce la farà ad arrivare al Golgota questo povero Cristo “trafitto dall’indifferenza” e acutamente osserva: “Possiamo leggere la Salita al Calvario come un triste presentimento di ciò che accadrà, una sorta di presagio della Storia che verrà, una sua sintesi anticipata. La croce nascosta, il Cristo accantonato, la Passione alterata in ‘festa’”.
Una festa paesana che James Ensor porterà a termine, trasformandola in carnevale, dopo che Cristo avrà attraversato il male raffigurato nei volti ghignanti di Hieronymus Bosch, quasi a suggerire che egli non può - non ha potuto né potrà - vincere il male sulla Terra. “In Bruegel resiste ancora, nascosto, un residuo di croce” - afferma Ciampa - “in Bosch la croce sembra soccombere, Cristo resta comunque l’ultima traccia dell’umano; in Ensor, gli "uomini vuoti", distratti, confusi, sembrano non averne più memoria.” La passione diventata intrattenimento e un Cristo fragile e svuotato sembrano dichiarare che la sofferenza dell’uomo non troverà mai senso e che il “simbolo cristiano” ha perso efficacia per l’uomo di oggi. Il mondo ha messo Cristo da parte, la sua storia non interessa più, non è più ispiratrice né può dirsi in alcun modo diversa da quella dei tanti uomini e donne buoni e di valore che la Storia ha fatto a pezzi. Non c’è più altro da dire.
A questo punto, però, nella visione cristiana fondata sulla testimonianza della gente del tempo, entra in scena la libertà di Dio. Perché è questo il significato della resurrezione di Gesù: nella loro libertà i potenti nemici di Gesù ne hanno decretata la morte; nella sua libertà, Gesù non vi si è sottratto; ma nella sua libertà, Dio è intervenuto quando la sua azione non avrebbe più forzato e ridotto la libertà degli altri attori in gioco. Con la resurrezione di Gesù ha dichiarato, davanti agli uomini e alla Storia, che quell’uomo diceva la verità, su di loro e su Dio stesso. È possibile crederlo?
Gli autori sembrano, di nuovo, propendere per una risposta negativa quando si domandano: “Quale narrazione di quell’evento può aiutarci a darne una lettura che non strida con l’esigenza contemporanea di uscire dal linguaggio del mito?”. E più avanti, verso la conclusione del libro, Gabriella Caramore, invitando a non smettere di cercare “per capire se sia possibile estrarne una umile, esile forza su cui far leva per potere stare al mondo”, si chiede se non sia “proprio in questa eclissi di una trascendenza mitologica (corsivo mio) che può condensarsi il senso della ’resurrezione’: qualcosa è stato e ha lasciato un segno sulla terra ... rimane, per chi resta, la possibilità di ridestarsi alla luce, di rialzarsi alla vita. Non è, questo, un segno molto più potente che non attendere il ritorno nella carne, nella materia, o nella leggenda (corsivo mio) di chi ha lasciato quell’incolmabile vuoto?” E riferendosi all’evangelista Luca e alla sua insistenza a dichiarare Gesù il vivente anche dopo la morte, afferma: “In fondo quell’insistenza ... appare come un invito ad allontanarsi dalla visione di un cadavere che torna a rivisitare i vivi, per spalancare invece la possibilità di trovare forza e consolazione in ciò che rimane di una vita trascorsa”.
Se la resurrezione è un mito, non credo ci possa dare alcuna forza, né esile e umile, né d’altro genere; non consola nessuno né cambia alcunché della nostra personale sofferenza. Se non è un mito, è uno sconvolgimento, una forza potente, una rivoluzione dell’interpretazione che ognuno può dare alla propria vita, una direzione totalmente nuova verso cui sentirsi tutti in cammino. La resurrezione di Gesù non è il ritorno a questa vita di un cadavere, ma la rivelazione di un destino sorprendente, di uno stadio successivo alla vita che aspetta ogni essere umano (e non soltanto). È la possibilità di sperare con intelligenza, e non sulla base di favole e miti rassicuranti, che la morte non sia la fine del viaggio. E questa fiducia non si basa su un’adesione emotiva, non è stata conservata nei secoli da cuori fragili incapaci di accettare la morte, ma da spiriti forti e intelligenze acute che vi hanno riflettuto con tutte le proprie forze. È impossibile riassumere qua questo lungo cammino, mai concluso, ma chi volesse può ascoltare, per farsi un’idea della questione, una conferenza molto chiara e interessante dell’astrofisico e teologo Giuseppe Tanzella-Nitti, dal titolo: La visione del cristianesimo tra vita biologica ed immortalità, reperibile su youtube.
L’evento della resurrezione non ha avuto testimoni, per questo non si può definirlo storicamente certo (se lo fosse, probabilmente saremmo tutti cristiani). I fatti storicamente accertati riguardano, invece, quello che i discepoli fecero dopo gli incontri con Gesù successivi alla sua morte, e l’improvviso cambiamento avvenuto nella loro attitudine, nel loro stesso carattere.
La resurrezione è, ad ogni modo, un mistero che non si può liquidare facilmente né alla leggera, perché la fede cristiana non si fonda sul messaggio di Gesù allo stesso modo in cui, per esempio, il buddismo si fonda sull’insegnamento straordinario del Buddha, ma sulla sua persona e sul mistero che egli rappresenta per l’umanità tutta. A quel mistero appartiene, come elemento non secondario ma fondamentale, che sia risuscitato dalla morte rivelando qualcosa di sostanziale in merito al destino di tutti gli esseri umani.
Credere nella resurrezione di Gesù e in una vita piena dell’intera persona umana, al di là di come questo sia possibile e di quale materia sarà il nostro corpo, fa la differenza tra il cristianesimo e le altre concezioni. È ancora vero quello che ha detto san Paolo: “...se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede ... se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini.” (1Cor 15).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KANT ALL’ATTACCO DEI DELIRI E DEGLI INGANNI DEI "GRANDI SAPIENTI": ANNO DI GRAZIA, 1766.
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ...
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
50 anni dopo
Il Sessantotto. Agostino Giovagnoli (storico): “Profondo legame con il Concilio che ne ha anticipato alcuni tratti”
I legami tra Concilio Vaticano II e Sessantotto sono più profondi di quanto si sia portati a ritenere. Il Concilio ha infatti "preparato" in certa misura il terreno al grande movimento di contestazione. Intervista a tutto campo con lo storico Agostino Giovagnoli
di Giovanna Pasqualin Traversa (Agenzia SIR, 26 aprile 2018)
Gli anni Settanta hanno rappresentato un passaggio cruciale nella vita della Chiesa in Italia. Sono gli anni della recezione del Concilio e sono al tempo stesso attraversati da tensioni e polarizzazioni legate al Sessantotto. Fede e politica intrecciate fra loro? Se sì su quali premesse e con quali sviluppi? Lo abbiamo chiesto ad Agostino Giovagnoli, docente di storia contemporanea all’Università cattolica di Milano
Fra le trasformazioni della Chiesa cattolica legate al Vaticano II e gli eventi del ‘68 c’è stato un intreccio?
Sì; più profondo, soprattutto in Italia, di quanto abitualmente si ritenga.
La contestazione del 1968 si è intersecata in modi diversi con un’evoluzione del mondo cattolico italiano già in corso da tempo.
Non è strettamente sul livello politico che si è sviluppato l’influsso del Concilio sulla società e sulle sue trasformazioni. Il Concilio ha in realtà toccato questioni di grande rilievo, ha aperto una riflessione di fondo sull’organizzazione istituzionale della Chiesa cattolica all’interno di un’ampia trasformazione della società europea e occidentale che stava mettendo in discussione le proprie istituzioni ecclesiastiche, politiche, sociali e familiari. Il ‘68 è stato soprattutto una contestazione anti-istituzionale ed è su questo terreno che è ravvisabile il nesso che lega i due fenomeni.
Il Concilio ha dunque “preparato in qualche modo il terreno” al Sessantotto?
La Chiesa cattolica ha anticipato una trasformazione che poi si è presentata in modo convulso nel 1968, nel senso di un ridimensionamento del peso delle istituzioni all’interno della società. Da questo punto di vista il dissenso cattolico ha rappresentato un fenomeno specifico e forse anche marginale. Ha ripreso alcune modalità della contestazione studentesca ma non è qui il cuore più profondo del rapporto che investe aspetti più globali.
Qual è stata l’intuizione di Giovanni XXIII?
L’avere compreso che la Chiesa aveva bisogno di mettersi in ascolto del mondo e di se stessa. Nella modalità conciliare ha in qualche modo superato la rigidità istituzionale che l’aveva caratterizzata per cinque secoli sul modello tridentino. In questo senso il Concilio ha avviato un processo di cui ravviso alcuni tratti anche nel 1968.
Lo storico gesuita Michel de Certeau, che ha partecipato al “maggio francese” a Parigi, ha scritto che nel ’68 “è stata presa la parola come nel 1789 è stata presa la Bastiglia”. Un’immagine metaforica che sottolinea la liberazione della parola, tipica di quel movimento. L’analogia è profonda perché il Vaticano II ha a modo suo “liberato” la parola, in questo caso la Parola di Dio, da una Chiesa che l’aveva rinserrata all’interno di schemi organizzativi e istituzionali che la rendevano in certa misura marginale e l’ha riportata al centro della vita ecclesiale. E’ dalla Parola di Dio che rinasce la Chiesa.
In che modo il ’68 ha influito su associazioni e movimenti del laicato cattolico?
Per l’Azione cattolica un cambiamento importante è cominciato con il pontificato di Giovanni XXIII e soprattutto con l’elezione di Paolo VI nel 1963. La nomina di mons. Franco Costa quale assistente ecclesiastico generale e di Vittorio Bachelet quale presidente nazionale segnano il definitivo distacco dal modello geddiano. Il rinnovamento si è realizzato pienamente con il nuovo statuto (1969) che ha prodotto una vasta riorganizzazione e ha soprattutto affermato “la scelta religiosa” dell’Ac, espressione che sottolinea la fine di ogni collateralismo con qualsiasi partito politico. L’impatto del Sessantotto sull’Ac è stato soprattutto indiretto e probabilmente ha influito sul calo degli iscritti che dal 1964 al 1974 passano da 3,5 milioni a 600mila.
E per quanto riguarda le Acli?
Anche qui si deve parlare di un impatto indiretto. La trasformazione delle Acli era cominciata all’inizio degli anni Sessanta, in stretto rapporto con l’evoluzione economico-sociale della realtà italiana e il nuovo ruolo assunto dai sindacati. Un’ulteriore svolta è avvenuta a seguito dell’“autunno caldo” nelle grandi fabbriche italiane del 1969 con l’adozione della cosiddetta ipotesi socialista alla quale seguì una richiesta di chiarimenti da parte della presidenza della Cei, una presa di posizione critica del Pontefice e il ritiro dell’assistente ecclesiastico. La contestazione del ’68 ha invece riguardato in modo più diretto Gioventù studentesca, ramo dell’Ac che aveva iniziato un percorso originale, soprattutto in Lombardia, a seguito dell’iniziativa assunta da don Luigi Giussani nel 1954. In questo contesto nasce Comunione e Liberazione.
Il Sessantotto ha dunque interferito con un’evoluzione in atto nell’associazionismo cattolico degli anni Sessanta?
Sì. Forse l’impatto maggiore ha riguardato le grandi questioni internazionali con particolare riferimento al terzo mondo: guerra in Vietnam, Cuba, Biafra, lotte per i diritti civili degli afroamericani negli Usa. I membri dell’associazionismo cattolico, soprattutto giovani, furono molto sensibili a queste cause e, più in generale, a quella della pace.
Su questo terreno maturarono una sensibilità simile a quella di molti altri giovani di altra provenienza culturale e ideologica, che fece cadere molti steccati tradizionali.
Ci furono infine esperienze nuove che nacquero al di fuori dall’associazionismo cattolico o del rapporto con la Dc, nel clima del Sessantotto, come la Comunità di Sant’Egidio a Roma, segnata fin dall’inizio da un forte rapporto con il Vangelo e i poveri.
Che giudizio ha del Sessantotto?
Ha avuto peso non tanto quale fenomeno politico, ma piuttosto come istanza culturale e sociale di “inventare” un mondo nuovo affrontando le grandi sfide del tempo, le sfide di un mondo terrorizzato dall’arma atomica e in cerca di pace, che vuole dare la parola a tutti, che affronta le gravi disuguaglianze economiche e sociali. Si è disperso di fronte a forze più grandi; in fondo è stato un movimento di studenti, non avrebbe potuto cambiare il mondo, però ci ha provato ed è questa la sua eredità più preziosa.
Pensare al ’68 ci fa bene perché ci ricorda che possiamo anche non subire il mondo in cui viviamo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL PAPA [GIOVANNI XXIII, 1962] HA DECISO DI DARE IL VIA AD UN NUOVO CONCILIO, AL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II. PACE E E DIALOGO SU TUTTA LA TERRA, TRA TUTTI GLI ESSERI UMANI, TUTTE LE RELIGIONI, TUTTI I CREDENTI E I NON CREDENTI. QUESTA LA DICHIARAZIONE DI APERTURA
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
UNA MEMORIA DI "VECCHIE" SOLLECITAZIONI. Il cardinale Martini, da Gerusalemme, dalla “città della pace”, lo sollecita ancora!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LO STATO DEL "FARAONE", LO STATO DI MINORITA’, E IMMANUEL KANT "ALLA BERLINA" - DOPO AUSCHWITZ ... *
Nazismo
«Verso la soluzione finale». A Wannsee l’orrore nell’idillio
In un saggio (Einaudi) lo storico Peter Longerich ricostruisce la conferenza del 1942, in cui fu pianificato il genocidio degli ebrei: lo sterminio deciso in un luogo incantevole
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 23.05.2018)
«La burocrazia della morte», viene in mente leggendo le pagine di questo libro. L’ha scritto Peter Longerich, professore tedesco che insegna Storia della Germania moderna all’Università di Londra, un’autorità negli studi sul Terzo Reich. Si intitola Verso la soluzione finale. La conferenza di Wannsee, pubblicato da Einaudi.
La conferenza di cui racconta il saggio si tenne il 20 gennaio 1942 in una lussuosa villa sulle sponde del lago Wannsee che diede il suo nome, appunto, a quella tragica riunione, tema l’annientamento di undici milioni di ebrei in Europa, di cui discussero allora alti e meno alti gerarchi nazisti.
Quindici di loro, nel freddo inverno di guerra, si riunirono in quella villa costruita negli anni Settanta dell’Ottocento, nel quartiere esclusivo alla periferia di Berlino, non lontano da Potsdam, dove vivevano ricchi banchieri, imprenditori, editori, uomini di rango e di successo, e anche personaggi milionari che, arricchiti con i loro sporchi traffici, ebbero a che fare con la giustizia e con la prigione.
Nel 1940 la villa fu acquistata dalla Nordhav-Stiftung, la fondazione creata da Reinhard Heydrich, l’Obergruppenführer, generale delle SS, capo della polizia di sicurezza, allo scopo di «predisporre e finanziare case di vacanze» per gli uomini del corpo e per le loro famiglie.
Il grande fascino della villa, in mezzo a prati fioriti e a boschi fatati da libri di lettura per ragazzi, contrasta con la ferocia di quel che, tra sale e salotti, si decise tra i suoi muri. La bellezza e l’orrore. Con imbarazzante normalità, là dentro si discusse della Shoah, delle modalità dell’uccidere, delle camere a gas, dello Zyklon B, probabilmente usato per la prima volta all’inizio del settembre 1941 per eliminare 600 prigionieri di guerra sovietici, classificati come «fanatici comunisti» e altri 900 poco dopo.
La riunione di Wannsee sembra la riunione di un gruppo aziendale i cui dirigenti discettano dei problemi della grande distribuzione della loro merce. Il genocidio viene analizzato dagli uomini di Adolf Hitler come una moltiplicazione di numeri, non di esseri umani, ma di montagne di spazzatura repellente da collocare in luoghi chiamati lager, da sfoltire, eliminare.
Il concetto di soluzione finale non nacque propriamente allora. Il 30 gennaio 1939 davanti al Reichstag, Hitler aveva dichiarato in un discorso che «se il giudaismo internazionale della finanza entro e fuori i confini europei fosse riuscito a catapultare i popoli in una guerra mondiale, il conflitto avrebbe avuto come esito lo sterminio della razza ebraica in Europa».
Centinaia di migliaia di ebrei, ai tempi della conferenza, erano già stati sistematicamente uccisi in Unione Sovietica - l’invasione dell’Urss era iniziata il 22 giugno 1941 - in Serbia e in Polonia, dove era stato inaugurato il primo campo di sterminio. A Lublino era in costruzione, dal novembre 1941, un altro campo di sterminio permanente. Fucilazioni di massa avevano dunque già avuto luogo prima della conferenza di Wannsee: che significato doveva avere quella riunione, ora che gli Stati Uniti nel dicembre del 1941 erano entrati in guerra ed era venuta meno ogni possibile minaccia agli americani che diventarono la fucina di armi e di uomini per l’Europa?
Probabilmente con quella conferenza si tentò di coordinare le diverse azioni scombinate già in corso approvando un piano globale di pianificazione da portare a termine durante la guerra: la soluzione finale della follia antiebraica.
Protagonista della conferenza è il verbale, diventato famoso, redatto da Adolf Eichmann e autorizzato da Heydrich. Delle trenta copie stampate ne è rimasta soltanto una, la sedicesima, scoperta dagli Alleati nel 1947 e conservata ora a Berlino nell’Archivio politico del ministero degli Esteri.
In un’ora, un’ora e mezzo, si decise di deportare undici milioni di ebrei dell’Europa e di sterminarli. «La soluzione finale della questione ebraica europea», scrive Peter Longerich, «non doveva svolgersi più nei territori sovietici occupati: il baricentro fu spostato nella Polonia posta sotto il dominio nazista». (Non più, quindi, come si era pensato in un primo tempo, il problema della soluzione finale andava risolto deportando gli ebrei nell’Unione Sovietica conquistata per sterminarli a guerra finita, ma attuando subito il programma del massacro).
Chi furono i quindici, selezionati dal regime nazista, protagonisti della conferenza? I rappresentanti degli organi statali, i delegati delle autorità civili di occupazione, i funzionari delle SS, Gauleiter, segretari di Stato, ufficiali della polizia e delle SS. Il capo e il più noto era certamente Reinhard Heydrich; Eichmann era soltanto un Obersturmbannführer, un tenente colonnello delle SS; Rudolf Lange, detto il boia, un maggiore delle SS, era il comandante della polizia di sicurezza per la Lettonia.
Nelle sue quindici pagine il prezioso verbale affronta con minuzia ragionieresca ogni questione. Anche quella degli ebrei italiani - 58 mila - senza porsi il problema che l’Italia era allora alleata della Germania.
Heydrich, l’artefice della conferenza, aveva cinque mesi di vita. Il 29 maggio 1942 due partigiani del libero esercito cecoslovacco lo colpirono a morte a Praga dove risiedeva mentre con la sua Mercedes si stava recando al Castello.
Le cose andarono diversamente da come le avevano previste e decise i gerarchi nazisti nella bella villa sul lago di Wannsee. I russi, a Stalingrado, si svenarono e respinsero gli aggressori nazisti mentre gli Alleati, da Ovest e da Sud, strinsero la Germania in una morsa di fuoco e di libertà.
Di quei milioni di morti innocenti che gli uomini di Hitler riuscirono a uccidere resta soltanto la memoria indimenticata.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
Segre e i suoi cento anni di Resistenza al fascismo
di Massimo Novelli (Il Fatto, 23.05.2018)
Un secolo di vita, ma soprattutto un secolo di resistenza ai fascismi vecchi e nuovi, all’oscurantismo clericale e civile, ai pregiudizi di razza e di censo, alla violenza del potere. L’avvocato torinese Bruno Segre compirà cento anni tra qualche mese. Partigiano di Giustizia e libertà, uomo di legge e giornalista (dal 1949 dirige il periodico libertario L’Incontro), scrittore e politico (è stato capogruppo socialista, negli anni Settanta, al consiglio comunale di Torino), Segre festeggerà il suo centenario davvero formidabile il 4 settembre. Cento anni, dunque, trascorsi da alfiere indomito della libertà, della pace, della laicità e dei diritti civili, dall’obiezione di coscienza al divorzio.
Molti sanno, o se non altro dovrebbero sapere, che l’avvocato Segre difese nell’agosto del 1949 il primo obiettore di coscienza italiano, Pietro Pinna, davanti a un Tribunale militare. Così come sono conosciute le sue battaglie per il divorzio. Assai meno noto è che, tra l’estate e l’inverno del 1938, l’allora giovanissimo Segre fu il solo nel nostro Paese, assieme all’ex deputato socialista Giulio Casalini, a osteggiare apertamente le leggi razziali fasciste volute da Mussolini, e varate il 17 novembre, in una serie di articoli apparsi su una rivista regolarmente pubblicata in Italia. Si chiamava L’igiene e la vita, usciva a Torino, e l’aveva fondata il citato Casalini, un medico di Vigevano.
In quei mesi del 1938, come Renzo De Felice ha messo in luce nella Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, la stragrande maggioranza degli italiani rimase indifferente alle leggi razziali. Tacquero quasi tutti gli stessi ebrei italiani; soltanto uno di loro, l’editore Angelo Fortunato Formiggini, espresse tragicamente la sua protesta contro “l’assurda malvagità dei provvedimenti razzisti” suicidandosi a Modena (si buttò dalla Ghirlandina) nel novembre del 1938. E furono silenti o complici del regime gli intellettuali, salvo Benedetto Croce, che espresse il suo “ribrezzo” per l’antisemitsmo nazifascista in una lettera ripresa dal Palestine Post. Pochi altri, da Massimo Bontempelli a Filippo Tommaso Marinetti, ad alcuni cattolici, non nascosero l’avversione alla vergognosa legislazione avallata da Casa Savoia e dal re Vittorio Emanuele III. Ma un conto era il dissenso per lettera, un altro manifestarlo sulle colonne di un giornale non clandestino.
Segre e Casalini, invece, rischiando il carcere o il confino, ebbero il coraggio di scrivere pubblicamente. Su L’igiene e la vita misero in discussione il preteso fondamento storico e scientifico delle leggi, ossia l’esistenza di una presunta razza pura italiana, di origine ariana, come sostenevano gli accademici autori del Manifesto sulla Razza, pubblicato il 14 luglio del 1938 su Il Giornale d’Italia e in altri quotidiani.
Furono soprattutto gli interventi di Segre a mettere in rilievo che le affermazioni contenute nel manifesto “esprimono un punto di vista estremamente soggettivo. Si tratta di affermazioni dogmatiche la cui enunciazione scientificamente lascia molto a desiderare, e che prospettano una situazione diversa assai nei suoi sviluppi storici”. Firmati con lo pseudonimo di Sicor, gli articoli di Segre, all’epoca studente universitario, e di Casalini, che parteggiavano inoltre per la pace (“il fine dei popoli non può essere la guerra”, scrisse l’ex deputato del Psi), non passarono naturalmente inosservati. Come ricorda l’avvocato, “il giornale di Casalini venne sequestrato e soppresso per avere manifestato opinioni antirazziste”.
Certo è che, ha detto più volte Segre, “ancora oggi mi colpisce il fatto che a levarsi contro le leggi razziali non furono gli intellettuali, i giuristi, gli scienziati, i professori universitari, ma un vecchio socialista, che purtroppo nel dopoguerra venne coinvolto in un grave scandalo edilizio, e uno studente quale ero io, uno che aveva appreso dalle lezioni ascoltate all’Ateneo torinese come l’Italia fosse stata un crogiolo di popoli, una molteplicità di genti, altro che purezza di una ‘razza’ sola!”.
La scure della censura fascista non tardò a calare sul giornale. Dai documenti conservati all’Archivio di Stato di Torino, si può apprendere che già il 7 ottobre Dino Alfieri, ministro della Cultura Popolare, inviava ai prefetti un telegramma in cui si invitava a “disporre sequestro rivista L’igiene e la vita diretta da Giulio Casalini numero 9 del di settembre ultimo scorso per atteggiamento antirazzista”. Il 9 di novembre, il prefetto di Torino rispondeva: “Disposto sequestro n. 10-11 del periodico L’igiene e la vita ottobre-novembre diretto da Giulio Casalini stampato Tipografia Mittone per trattazione problema razzista non conformemente direttivo Governo Nazionale”. Francesco Mittone, nonno del noto avvocato Alberto Mittone, era stato lo stampatore de Il Grido del Popolo di Antonio Gramsci e di alcune opere di Piero Gobetti; la sua tipografia venne più volte perquisita dai poliziotti e dai fascisti.
Per il giornale di Casalini e Segre, pertanto, i giorni erano contati. “Tenuto conto”, affermava il prefetto di Torino, “che la rivista mensile L’igiene e la vita diretta da Giulio Casalini e stampa (sic) dalla tipografia Mittone - corso Principe Oddone 34, Torino - tiene atteggiamento antirazzista; che per tale motivo si sono dovuti adottare provvedimenti di sequestro; viste le leggi sulla stampa periodica, testo unico della legge comunale e provinciale e quella della legge di Pubblica sicurezza”, il 3 febbraio del 1939 decretava “la soppressione del periodico mensile L’igiene e la vita“. Il Questore di Torino fu “incaricato dell’esecuzione del presente decreto che dovrà essere notificato al direttore responsabile del periodico”. La rivista cessò le pubblicazioni. E a lungo sarebbe calato il sipario anche sul coraggio del giovane Bruno Segre e del medico socialista Giulio Casalini, due italiani da onorare e da ricordare nei libri di Storia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FASCISMO E LEGGI PER LA DIFESA DELLA RAZZA (1938). De Felice, Mussolini, e la "percentuale" del 1932. Un saggio di Giorgio Fabre, in "Quaderni di storia", riapre la questione.
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
Federico La Sala
L’appello: «Tacciano le armi in Medio Oriente» *
Dopo la strage di Gaza. L’appello urgente contro la violenza in Palestina di un gruppo di personalità della cultura italiana . «Israele oggi assomiglia più a una fortezza che non a una casa», ha detto David Grossman aprendo, tre settimane fa, una cerimonia congiunta di commemorazione delle vittime del conflitto, israeliane e palestinesi, a Tel Aviv, in ebraico e in arabo.
In queste ore a Gaza sangue si aggiunge su sangue. Condividiamo il dolore delle vittime palestinesi.
Noi sottoscritti, sostenitori del diritto di Israele ad esistere come stato entro confini legittimi, sicuri e riconosciuti, e ugualmente di quello dei palestinesi ad uno stato indipendente, guardiamo con estrema preoccupazione alle prime conseguenze, letali per le prospettive della pace, dello spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme da parte dell’amministrazione Trump.
Non possiamo tacere di fronte all’uso sproporzionato della forza da parte di Israele. L’uso di armi da fuoco contro civili è ammissibile soltanto se detti civili partecipano direttamente ad azioni ostili, non se varcano o cercano di superare la frontiera con Israele. Vi sono mezzi non letali per contenere e disperdere proteste anche di massa.
Condanniamo la retorica fondamentalista di Hamas che non abbandona il rifiuto di Israele né desiste da una guerra di guerriglia che espone la gente di Gaza alla rappresaglia di Israele.
Chiediamo, soprattutto, che tacciano le armi e si cerchino ora e per il futuro, da parte di tutti, le vie politiche del dialogo, della conoscenza reciproca e della pace in tutta la regione.
Per adesioni: taccianoarmiMO@gmail.com
Nakba, la catastrofe infinita
di Tommaso Di Francesco (il manifesto, 16.05.2018
I settant’anni dello Stato d’Israele sono anche i settant’anni della Nakba, la «Catastrofe» del popolo palestinese, la cacciata nel 1948 di centinaia di migliaia di palestinesi (da 700mila a un milione) in una operazione di preordinata pulizia etnica che li ha trasformati nel popolo profugho dei campi. A confermare laa doppiezza strabica degli eventi nel rapporto di causa ed effetto, è arrivato lo spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, la festa della «grande riunificazione» di Netanyahu; proprio mentre la promessa elettorale mantenuta di Trump provocava la rivolta e la strage di 60 giovani nel tiro al piccione a Gaza. Secondo i versi del poeta palestinese Mahmud Darwish: «Prigionieri di questo tempo indolente!/ non trovammo ultimo sembiante, altro che il nostro sangue».
Invece sulla descrizione in atto del massacro si esercitano gli «stregoni della notizia»: così abbiamo letto di «ordini dalle moschee di andare correndo contro i proiettili», di «scontri», di «battaglia» e «guerriglia». Avremmo dunque dovuto vedere cecchini, carri armati e cacciabombardieri palestinesi fronteggiare cecchini, tank e jet israeliani, con assalti di uomini armati. Niente di tutto questo è avvenuto e avviene. Invece, nella più completa impunità, la prepotenza dell’esercito israeliano sta schiacciando una protesta armata di sassi, fionde e copertoni incendiati. Per Netanyahu poi si tratterebbe di «azioni terroristiche».
Ma la verità è che un popolo oppresso che manifesta contro un’occupazione militare ricorda solo la nostra Liberazione e il diritto dei palestinesi sancito da ben tre risoluzioni dell’Onu (una del 1948 proprio sul «diritto al ritorno»). Sì, la festa triste di un popolo, guidato da Netanyahu e dal nuovo «re d’Israele» Trump, vive della catastrofe di un altro popolo. Che si allunga all’infinito con la proclamazione di Gerusalemme «unica e storica capitale indivisibile di Israele». Altro che due Stati per due popoli: nemmeno due capitali. Intanto per lo Stato d’Israele il «diritto al ritorno» è costitutivo della natura esclusiva di Stato ebraico.
Ai palestinesi al contrario è permesso solo di vivere a milioni nei campi profughi di un Medio Oriente stravolto dalle guerre occidentali e come migranti nei propri territori occupati (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est); di sopravvivere alla fame nel ghetto della Striscia di Gaza.
Questa è la condizione palestinese, con il muro di Sharon che ruba terre alla Palestina e taglia in due famiglie e comunità; posti di blocco che sospendono nell’attesa le vite umane; lo sradicamento di colture agricole e le fonti d’acqua sequestrate; le uccisioni quotidiane; e una miriade di insediamenti colonici ebraici che hanno ormai cancellato la continuità territoriale dello Stato di Palestina.
Dopo tante chiacchiere di Obama che nel 2009 dal Cairo dichiarava: «Sento il dolore dei palestinesi senza terra e senza Stato». E dopo i voltafaccia dell’Ue che si barcamena sull’equidistanza impossibile e tace, mentre ogni governo occidentale fa affari in armi e tecnologia, e con patti militari - come l’Italia - con Israele, che è da settant’anni in guerra e che occupa terre di un altro popolo.
Allora o si rompe il silenzio complice e si prefigura una soluzione di pace che esca dall’ambiguità di stare al di sopra delle parti - come se Israele e Palestina avessero la stessa forza e rappresentatività, quando invece da una parte c’è lo Stato d’Israele, potente e armato fino ai denti, potenza nucleare e con l’esercito tra i più forti al mondo, mentre dall’altra lo Stato palestinese semplicemente non esiste - oppure sarà troppo tardi.
Il nodo mai sciolto - Rabin a parte, non a caso assassinato da un integralista ebreo - da tutti i governi israeliani resta quello del diritto dei palestinesi di avere una terra e uno Stato, fermo restando il diritto eguale d’Israele. Che se però non lo riconosce per la Palestina perché dovrebbe pretenderlo per sé? I due termini ormai si sostengono a vicenda oppure insieme si cancellano. Tanto più che la demografia ormai racconta che le popolazioni arabe hanno oltrepassato la misura di quelle ebraiche.
O si avvia una trasformazione democratica dello Stato d’Israele che decide di perdere la sua natura etnico-religiosa di «Stato ebraico», con la pretesa arrogante che i palestinesi occupati lo riconoscano come tale; oppure si conferma la dimensione acclarata di Stato di apartheid come in Sudafrica; con i territori occupati come riserve per i «nativi» nemici.
Scriveva Franco Lattes Fortini nella sua Lettera aperta agli ebrei italiani nel maggio 1989, nella la fase più acuta della Prima intifada: «Con ogni casa che gli israeliani distruggono, con ogni vita che quotidianamente uccidono e perfino con ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e di sapienza che, nella e per la cultura occidentale, è stato accumulato dalle generazioni della diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti. Una grande donna ebrea e cristiana, Simone Weil, ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere».
Provate a rileggere la grande lezione morale di S. Yizhar (Yzhar Smilansky), il fondatore della letteratura israeliana, che in un piccolo romanzo del 1949 Khirbet Khiza - significativamente un titolo in arabo, conosciuto da noi come La rabbia del vento, che aprì un dibattito sulle basi etiche del nuovo Stato - racconta la storia di una brigata dell’esercito israeliano impegnata con la violenza a cacciare famiglie palestinesi.
Il romanzo finisce con queste parole di dolore e rammarico: «I campi saranno seminati e mietuti e verranno compiute grandi opere. Evviva la città ebraica di Khiza! Chi penserà mai che prima qui ci fosse una certa Khirbet Khiza la cui popolazione era stata cacciata e di cui noi ci eravamo impadroniti? Eravamo venuti, avevamo sparato, bruciato, fatto esplodere, bandito ed esiliato (...) Finché le lacrime di un bambino che camminava con la madre non avessero brillato, e lei non avesse trattenuto un tacito pianto di rabbia, io non avrei potuto rassegnarmi. E quel bambino andava in esilio portando con sé il ruggito di un torto ricevuto, ed era impossibile che non ci fosse al mondo nessuno disposto a raccogliere un urlo talmente grande. Allora dissi: non abbiamo alcun diritto a mandarli via da qui!».
Una commissione contro il razzismo
di Liliana Segre (la Repubblica, 05.05.2018)
Cari ragazzi e ragazze della Nuova Europa, ci sono molti modi per impegnarsi, efficacemente, nella materia, enorme e delicata, della discriminazione, ed io non cerco scorciatoie. Per dirla con parole antiche (Giambattista Vico) i rischi di una deriva autoritaria sono sempre dietro l’angolo. Lui, l’autore dei corsi e ricorsi storici, aveva visto lungo. Arrivo subito al punto consegnando a voi, che siete su un’isola, un “messaggio in bottiglia”: il mio primo atto parlamentare.
Intendo infatti depositare nei prossimi giorni un disegno di legge che istituirà una Commissione parlamentare d’indirizzo e controllo sui fenomeni dell’intolleranza, razzismo, e istigazione all’odio sociale. Si tratta di raccogliere un invito del Consiglio d’Europa a tutti i paesi membri, ed il nostro Paese sarebbe il primo a produrre soluzioni e azioni efficaci per contrastare il cosiddetto hate speech.
Questo primo passo affianca la mozione che delibera, anche in questa legislatura ( la mia firma segue quella della collega Emma Bonino) la costituzione di una Commissione per la tutela e l’affermazione dei diritti umani. C’è poi il terzo anello del discorso, l’argomento che più mi sta a cuore e che coltivo con antica attitudine: l’insegnamento in tutte le scuole di ogni ordine e grado della storia del ‘900. In una recentissima intervista, la presidentessa dell’Anpi, Carla Nespolo, ha insistito sullo stesso punto: «La storia va insegnata ai ragazzi e alle ragazze perché raramente a scuola si arriva a studiare il Novecento e in particolare la seconda guerra mondiale. Ma soprattutto non si studia che cosa ha significato per interi popoli europei vivere sotto il giogo nazista e riconquistare poi la propria libertà». Ora che le carte sono in tavola rivolgo a voi un invito molto speciale.
Un appello per una rifondazione dell’Europa, minacciata da “autoritarismi e divisioni” che segnalano l’emergere di una sorta di “nuova guerra civile europea”.
Il vento che attraversa l’Europa non è inarrestabile. Riprendete in mano le carte che ci orientano, che sono poche ma buone: in quelle righe sono scolpiti i più alti principi della convivenza civile, spetta a voi battervi perché trovino applicazione: grazie alla nostra Costituzione (70 anni fa) siamo entrati nell’età dei diritti e gli articoli 2 e 3 della Carta sono lì a dimostrarlo, il passaporto per il futuro.
La carta europea dei diritti fondamentali (che ha lo stesso valore dei trattati) è l’elevazione a potenza europea di questi principi, intrisi di libertà ed eguaglianza che abbiamo, orgogliosamente, contribuito a esportare.
Se vogliamo impastare i numeri con la memoria direi che siamo passati, in un solo “interminabile” decennio, dalla difesa della razza (1938) alla difesa dei diritti (1948). Il futuro deve essere orientato diversamente nel solco dei diritti inalienabili ecco perché, concedetemi la citazione, a cinquant’anni dal suo assassinio, Martin Luther King diceva che occorre piantare il melo anche sotto le bombe. È questo il momento giusto!
Il grande esperimento Invalsi: appunti sull’eteronomia
di Gianluca Gabrielli *
Anche quest’anno, come ormai da una quindicina di anni a questa parte, si svolgeranno i test Invalsi. Anche quest’anno nelle classi seconde e quinte della scuola primaria. Anche quest’anno poco più di un milione di bambine e bambini di sette e dieci anni verranno sottoposti ai test. A sottoporli alla somministrazione saranno circa 50 mila maestre e maestri (su circa 250 mila in servizio nella scuola primaria), ma il calcolo è approssimativo, perché è difficile prevedere quanti insegnanti verranno chiamati a somministrare più volte. Le prove sono rimaste due per le classi seconde (lettura e matematica) e sono diventate tre per le quinte, con l’aggiunta dell’inglese. Anche quest’anno il Grande Esperimento prende il via.
Nel tempo si sono sciolti molti dei dubbi e delle controversie che accompagnavano l’introduzione di queste prove nella scuola italiana. All’inizio l’Invalsi e il Ministero sostenevano che le prove fossero anonime e raccolte ai soli fini statistici, mentre l’evoluzione e le dichiarazioni degli ultimi anni hanno chiarito che i dati sono collegati in maniera stringente al singolo bambino e alla singola bambina per formare un profilo valutativo che li accompagna nel corso degli studi e che in futuro potrebbe benissimo venire utilizzato per selezionare - ad esempio - gli accessi universitari, come d’altronde era stato ventilato nella prima versione del decreto attuativo dell’esame di maturità, o - chissà - addirittura nelle procedure di selezione del personale lavorativo.
Anche l’affermazione che le prove non potevano essere valutate e che l’Invalsi stessa sostenesse la non opportunità di allenarsi ad esse stravolgendo la programmazione scolastica è progressivamente caduta, sostituita tutt’al più da generici suggerimenti di non eccedere negli allenamenti comunque predisposti anche nei siti istituzionali.
Le resistenze diffuse opposte nei primi anni da parte del personale docente e da gruppi di genitori organizzati si sono progressivamente indebolite, lasciando oggi l’onere della contestazione del test a piccoli gruppi di docenti determinati e a isolati genitori, mentre le case editrici scolastiche hanno infarcito orrendamente i già poco appetibili libri di testo di sfilze di quiz a risposta multipla.
La stessa macchina Invalsi si è evoluta, traendo insegnamento dalle resistenze e modificando la propria articolazione (nelle scuole medie e superiori ad esempio disseminando le prove su un intero mese e automatizzando le procedure di correzione, in modo da vanificare in gran parte l’indizione di scioperi) estendendo in questo modo la capacità dei test di sconvolgere la normale programmazione scolastica per tutta l’ultima parte dell’anno.
D’altra parte, accanto a quello che sembra proprio un trionfo della macchina-Invalsi, cresce un ostinato insieme di interventi critici che raccolgono, incrementano, combinano e ripropongono le critiche che hanno accompagnato l’evoluzione del Grande Esperimento in questi ultimi quindici anni. In questi testi interessanti che circolano sulle riviste e nei social sono molti gli aspetti dei test Invalsi che vengono messi in discussione; mi pare tuttavia che poco si sia riflettuto seriamente su un aspetto, forse ingannati dall’apparentemente inoppugnabile trasparenza della risposta, e cioè su chi fossero i soggetti sottoposti all’esperimento.
Facciamo un passo indietro, al 1961. Il sociologo statunitense Stanley Milgram organizza un esperimento di psicologia sociale per raccogliere dati sulla possibilità dei soggetti di compiere azioni in contrasto con i propri principi etici se sottoposti ad ordini provenienti da un’autorità scientifica riconosciuta. Milgram è influenzato dal processo Eichmann che si sta svolgendo in Israele e vuole scavare attorno all’affermazione di tanti soggetti implicati nella Shoah che si difendono affermando di aver solamente eseguito degli ordini.
Nell’esperimento vengono contattate persone cui viene chiesto di collaborare ad una raccolta dati in una serie di prove di apprendimento. Il loro compito consiste nel somministrare un rinforzo negativo - scosse elettriche di intensità crescente - ai soggetti che sbagliano le risposte. In realtà le scariche elettriche sono finte e gli allievi che le ricevono sono collaboratori di Milgram che fingono la sofferenza con grida e lamenti, mentre altri collaboratori - che interpretano gli scienziati - sollecitano gli insegnanti a non derogare dal protocollo sperimentale e ad infliggere le scosse previste.
I risultati dell’esperimento furono inquietanti: dei quaranta soggetti sottoposti alla procedura una buona percentuale proseguì nel protocollo infliggendo scariche elettriche visibilmente dolorose per molto tempo, in alcuni casi spingendosi fino ad infliggere le scariche più intense sufficienti a far svenire l’allievo.
L’obbedienza spingeva cioè i soggetti a derogare dai principi etici cui erano stati educati e nei quali si riconoscevano. Questo stato eteronomico, nel quale il soggetto non si considera più capace di prendere decisioni autonome ed agisce come strumento delle decisioni di un’autorità superiore, in questo caso era stato indotto dalla autorevolezza del soggetto superiore che dettava gli ordini e il protocollo sperimentale: la scienza. Era in nome dell’indiscutibilità della scienza che i soggetti sottoposti all’esperimento rinunciavano ai propri principi etici, convinti di operare secondo un principio superiore e di non essere responsabili delle sofferenze inferte ai (finti) allievi.
Certo influivano altri fattori sulla decisione di obbedire fino in fondo o di interrompere l’azione, come la distanza da colui che riceveva le scariche elettriche e la vicinanza e l’insistenza dello “scienziato”, ma tutti risultavano subordinati alla trasformazione che il “protocollo scientifico” operava sulla situazione, sul contesto. All’interno del contesto definito dall’esperimento - piccolo tassello di quel grande apparato tendenzialmente indiscutibile che si chiama Scienza - il soggetto riconosceva l’autorità del “protocollo” e quindi la propria azione obbediente cessava di venir percepita come immorale, ma al contrario appariva legittima e ragionevole.
Il Grande Esperimento Invalsi
Torniamo al presente. Ai circa 50mila docenti della scuola primaria impegnati nelle prove Invalsi viene consegnato ogni anno un Manuale del somministratore. I test infatti, per affermazione degli stessi scienziati Invalsi, sono rilevazioni scientifiche che devono svolgersi secondo un rigido protocollo cui non si può assolutamente derogare, pena la perdita di validità dei dati raccolti. Così nel Manuale (nel 2017 contava 25 pagine) leggiamo i vincoli organizzativi e metodologici che i docenti somministratori devono far rispettare a tutti i soggetti testati, siano essi sedicenni o bambini e bambine di sette anni. Vediamo alcune di queste regole.
Prima di tutto l’insegnante viene investito dell’autorevolezza dell’apparato scientifico che organizza il test. In carattere grassetto gli organizzatori dell’esperimento si rivolgono al docente affermando che “in qualità di Somministratore, lei è responsabile della somministrazione di questi strumenti agli alunni della classe che le è stata assegnata”. La scelta dei termini attraverso i quali viene affidato il compito non è certo casuale, la distanza da una pratica didattica è evidente e netta, qui il docente viene interpellato non più come tale, ma come “Somministratore di strumenti”, deve svestire i suoi panni professionali per vestirne altri e compiere azioni cui deve essere guidato. Nessuna autonomia di giudizio può essere concessa: “Lei si attenga in maniera precisa e rigorosa [grassetto nell’originale] alle procedure di seguito descritte” che - sole - permetteranno di “somministrare le prove nel modo indicato nel presente manuale” e di “assicurare che la somministrazione avvenga nei tempi stabiliti”.
Gli ordini sono perentori e passo passo traghettano l’insegnante dal regno della didattica al regno della scienza statistica, in cui ogni elemento di relazione umana costituisce problema e disturba:
NON risponda alle eventuali richieste di aiuto degli alunni sulle domande delle prove cognitive (Italiano e Matematica).
NON dia alcuna informazione aggiuntiva, indicazione o suggerimento relativamente al contenuto di alcuna delle domande della Prova”.
Qui il manuale è particolarmente insistente, perché le e gli insegnanti hanno nel loro codice deontologico non scritto il principio sacro di aiutare bambine e bambini a comprendere il sapere e la realtà. Derogare ad una richiesta di aiuto in questo senso significa rinunciare a qualcosa che, anno dopo anno, diventa un habitus della personalità di un docente, si incorpora in lei o in lui.
Allora il Manuale dedica molti passaggi a questo elemento, arrivando fino a dettare parola per parola ciò che dovrà venire risposto al bambino o alla bambina che si rivolgesse per una spiegazione o un chiarimento:
“LA MIGLIORE RISPOSTA da dare a qualunque richiesta di aiuto è: ‘Mi dispiace ma non posso rispondere a nessuna domanda. Se ti può essere utile, rileggi le istruzioni e scegli la risposta che ti sembra migliore’”.
Dopo aver proibito ogni tentazione didattica, il Manuale istruisce sulla vigilanza delle prove. Anche qui il testo è molto chiaro, ricorda molto le indicazioni per i concorsi pubblici ma le supera in rigidità disciplinare e burocratica. Così ordina ai somministratori (gli ex docenti): “Prima dell’inizio delle prove si assicuri che gli allievi siano disposti nei banchi in modo che non possano comunicare tra di loro durante lo svolgimento delle prove stesse”; “mentre gli allievi sono impegnati nello svolgimento delle prove, giri costantemente tra i banchi”; “Durante tutte le somministrazioni eserciti una costante vigilanza attiva...”; “gli alunni [devono essere] attentamente sorvegliati”; “È sua responsabilità adottare tutte le misure idonee affinché [...] gli allievi non comunichino tra di loro”.
Se l’obiettivo è impedire la comunicazione (non solo il copiare) tra bambine e bambini, per farlo occorre mettere mano anche agli ambienti. Così “si raccomanda vivamente, nel limite del possibile, che la somministrazione non avvenga nella loro aula, ma in locali appositamente predisposti e di dimensioni tali da consentire di disporre i banchi in file singole e convenientemente distanziati uno dall’altro”. Questa architettura perfetta, che va dai banchi al linguaggio al divieto assoluto di comunicare non può venire modificata neppure per l’urgenza di bisogni fisiologici, tanto che il Manuale accorda il permesso di autorizzare l’uscita del bambino o della bambina “solo in situazioni di emergenza (ad esempio, nel caso si sentano male)”, e quindi non in caso scappi la pipì o la cacca.
A questo punto, trasformati i docenti in somministratori e sorveglianti e l’aula in una cella di massima sicurezza, l’esperimento può avere inizio con una frase precisa: “Dare il via dicendo ‘Ora girate la pagina e cominciate’”[grassetto nell’originale].
Ovviamente, come ogni somministratore di esperimenti, l’insegnante deve essere pronto a mentire, sempre per il fine superiore della scienza. Così il Manuale suggerisce di “rassicura[re] coloro che non fossero riusciti a portare a termine la prova” e di “spiegare agli alunni [...] se ritenuto opportuno, che non verrà dato alcun voto per lo svolgimento della prova”, anche se ormai moltissime scuole usano le prove come verifiche della materia testata e da quest’anno l’esito delle prove di terza media viene inserito nel curriculum dello studente e farà parte della certificazione sulle competenze del primo ciclo.
Si arriva all’assurdo della prova di lettura per la classe seconda elementare, che prevede il somministratore con il cronometro e lo svolgimento in due minuti esatti per misurare quante parole vengono riconosciute. In questa prova l’indicazione del Manuale dice una cosa e il suo contrario: “Quando vi darò il via, dovete cominciare la prova vera e propria e cercare di fare più in fretta che potete ma non vi preoccupate se non riuscite a finire”. Ma se non devo preoccuparmi se non finisco, perché mi si cronometra?
Spesso mi sono chiesto in questi anni: perché un insegnante dovrebbe rinunciare ai propri principi pedagogici e - in fin dei conti - etici, per contraddirli facendo il “somministratore”? Per giunta senza il riconoscimento di alcun emolumento economico. C’è probabilmente il timore delle sanzioni, di essere considerati dei rompiscatole, per alcuni sicuramente c’è la convinzione che questa sia la strada giusta per una rigenerazione di stampo neopositivista della scuola italiana (anche se a quindici anni dall’inizio dei test ho visto molti fervori raffreddarsi). Però ugualmente, per lungo tempo, non riuscivo a capire fino in fondo come facesse ad andare avanti questo Grande Esperimento. Poi mi è tornato in mente Milgram.
Come le persone interpellate da Milgram, i docenti in questi anni hanno creduto che i soggetti sottoposti alla sperimentazione fossero le alunne e gli alunni delle loro classi, mentre i veri bersagli di questa enorme operazione pseudoscientifica erano loro stessi. Era la loro obbedienza a venire messa alla prova, ad essere osservata e studiata per capire fino a che punto un insegnante medio era capace di rinunciare a principi etici e convinzioni pedagogiche profondamente radicate nel proprio statuto professionale per trasformarsi in un burocrate che eseguiva gratuitamente ordini lontani dalle proprie convinzioni. Questo era il vero, sotterraneo, protocollo dell’esperimento Invalsi.
Gli insegnanti italiani sarebbero stati capaci di abiurare alla propria etica e professionalità e divenire “somministratori di test” allontanandosi gratuitamente dalla propria pratica didattica? Era possibile far loro rinunciare al principio cardine di ogni didattica relazionale, cioè indurli a interrompere la comunicazione tra loro stessi e le bambine e i bambini che esprimevano il desiderio di un chiarimento o di un incoraggiamento? Era possibile convincere maestre e maestri a rispondere come automi alle richieste di aiuto didattico di bambine e bambini di sette anni con una frase standard come “Mi dispiace ma non posso rispondere a nessuna domanda”?
Non sembri solamente un paradosso. Se si pensa alle prove previste per la classe seconda elementare si può comprendere che la burocratica e ubbidiente esecuzione delle indicazioni del manuale assume la forma di un’odiosa imposizione incomprensibile, irrispettosa dei piccoli e delle piccole persone che vengono a scuola per apprendere in una relazione di rispetto e riconoscimento reciproco. Cos’è, per un bambino o una bambina di sette anni, il rifiuto assoluto del permesso di andare in bagno, cui viene anteposto il primato del rispetto dei parametri dell’esperimento? Cos’è l’organizzazione di una prova di velocità di lettura con cronometro alla mano fingendo che la rapidità non costituisca il parametro di giudizio? Dopo decenni nei quali l’amore della lettura viene proposto come piacere da coltivare senza fretta, perché un docente dovrebbe cronometrare i suoi bambini, trasmettendo principi didattici opposti?
Cos’è l’allontanamento dell’insegnante di classe per rendere più anonima la somministrazione e evitare ogni intervento di aiuto, quando è evidente che la tranquillità di un bambino di quell’età è legata alla presenza dei soggetti adulti con i quali ha costruito un rapporto di fiducia? Anche nella vecchia formula dell’esame di quinta elementare i docenti della classe erano affiancati da altri docenti della scuola, perché la pratica della valutazione fosse condotta in un contesto nel quale la serenità dei bambini non fosse tradita. In questi test invece la preoccupazione per il profilo emotivo dei bambini è inesistente, come fossero quei topolini bianchi chiamati non a caso cavie, e tutta l’organizzazione sembra costruita apposta per imporre uno shock emotivo ai soggetti testati. Perché 50mila maestri e maestre ogni anno accettano di imporre quegli shock emotivi e didattici?
Perché lo dice la scienza. Perché c’è un protocollo, perché ci sono dirigenti e docenti incaricati che premono da vicino affinché il protocollo non venga interrotto con fastidiosi dubbi etici o inopportuni principi pedagogici, come facevano i (finti) scienziati di Milgram per spronare i soggetti dell’esperimento a spingersi più avanti possibile.
Ricordo che qualche anno fa l’Invalsi richiedeva di allontanare i bambini diversamente abili dalle classi perché i loro risultati non erano conteggiati e la presenza dei docenti di sostegno poteva disturbare lo svolgimento della prova. Un’amica docente di sostegno affermò che lei sarebbe rimasta in classe con la bambina; di rimando il dirigente la mattina della prova fece spostare tutti i banchi in un’altra classe, lasciando in quell’aula solo il banco della bambina con disabilità.
Cosa succederebbe se gli insegnanti decidessero di non rinunciare al loro ruolo e presentassero le prove Invalsi senza tenere conto del Manuale del somministratore? Il Grande Esperimento Invalsi si regge sull’obbedienza gratuita dei docenti, cinquantamila ogni anno nella scuola primaria. Se queste maestre e maestri decidessero di far affrontare le prove come fossero semplici pagine di sussidiario? Se decidessero di consentire ai bambini con la pipì di andare in bagno? Se concedessero il tempo di cui ogni bambino ha bisogno per provare a risolvere con calma i quesiti o per leggere con tranquillità il brano previsto, e magari di godersi la lettura? Se incoraggiassero l’aiuto reciproco di fronte alle difficoltà?
Se così facessero, immediatamente tutto l’esperimento crollerebbe, si affloscerebbe sotto il peso di una macchina burocratica enorme ma priva di colonne atte a sorreggerla. Eppure non dovrebbe essere così difficile rivendicare il diritto di esercitare la propria capacità professionale, di essere umani nei confronti dei propri alunni, di aiutare i bambini e le bambine a comprendere e a svolgere gli esercizi, di farli sentire a proprio agio. Non sono certo azioni di cui ci si dovrebbe vergognare, bensì le basi di una presenza in classe didatticamente produttiva. A volte mi chiedo se un dirigente potrebbe punire un docente perché ha fatto andare al bagno un bambino o perché gli ha spiegato un esercizio che non aveva capito. Caro Milgram, secondo te sarebbe possibile?
*Gianluca Gabrielli è storico e insegnante di scuola primaria. Il suo ultimo libro è Educati alla guerra. Nazionalizzazione e militarizzazione dell’infanzia nella prima metà del Novecento (Ombre corte, 2016) [...].
* Comune-info, 2 maggio 2018 (ripresa parziale).
Due secoli di Marx
Un dio chiamato Capitale
Non è stata l’economia politica il cuore della rivoluzione del grande pensatore. Ma l’Economico come categoria dello spirito. La vera potenza che mette all’opera il mondo
di Massimo Cacciari (l’espresso, 29.04.2018)
Tacete economisti e sociologi in munere alieno. Marx non è affare vostro, o soltanto di quelli di voi che ne comprendano la grandezza filosofica, anzi: teologico-filosofica. Marx sta tra i pensatori che riflettono sul destino dell’Occidente, tra gli ultimi a osare di affrontarne il senso della storia. In questo è paragonabile forse soltanto a Nietzsche. Ma “Il Capitale”, si dirà? Non è l’economia politica al centro della sua opera? No; è la critica dell’economia politica. Che vuol dire? Che l’Economico vale per Marx come figura dello Spirito, come espressione della nuova potenza che lo incarna nel mondo contemporaneo. L’Economico è per Marx ciò che sarà la Tecnica per Heidegger: l’energia che informa di sé ogni forma di vita, che determina il Sistema complessivo delle relazioni sociali e politiche, che fa nascere un nuovo tipo di uomo. Nessuna struttura cui si aggiungerebbe una sovra-struttura a mo’ di inessenziale complemento - l’Economico è immanente in tutte le forme in cui l’agire e il pensare si determinano; ognuna di esse è parte necessaria dell’intero.
Marx è pensatore del Tutto, perfettamente fedele in questo al suo maestro Hegel. Il Sistema è più delle parti, irriducibile alla loro somma. Chi intende l’Economico come una struttura a sé, autonoma, che determinerebbe meccanicisticamente le altre, non ha capito nulla di Marx. Marx non è pensatore astratto, e cioè non astrae mai l’Economico dall’intero sistema delle relazioni sociali, culturali, politiche.
La sua domanda è: quale potenza oggi governa l’Intero e come concretamente essa si esprime in ogni elemento dell’Intero? L’Economico è infinitamente più che Economico. Esso rappresenta nel contemporaneo la potenza che mette all’opera il mondo.
Il mondo della “morte di Dio”. Ogni opera deve essere valutata sul metro del lavoro produttivo di ricchezza e ogni uomo messo al lavoro per questo fine. Non è concesso “ozio”; nessuno può essere “lasciato in pace”. Il processo stesso di specializzazione del lavoro viene compreso in questo grandioso processo: più avanza la forma specialistica del lavoro, più l’Opera appare complessiva e distende il proprio spirito sull’intero pianeta; più il lavoro appare diviso, più in realtà esso funziona come un unico Sistema, dove ogni membro coopera, ne sia o meno consapevole, al fine universale dell’accumulazione e riproduzione. Fine che si realizza soltanto se al lavoro è posto prioritariamente il cervello umano. La vera forza del lavoro sta infatti nell’intelligenza che scopre, inventa, innova. La differenza tra teoretico e pratico si annulla nella potenza del cervello sociale, Intelletto Agente dell’intero genere, che si articola in lavori speciali soltanto per accrescere sempre più la propria universale potenza.
Per Marx è questo il “nuovo mondo” che il sistema di produzione capitalistico crea, non certo dal nulla, ma certo sconvolgendo dalle radici forme di vita e relazioni sociali, insomma: l’ethos dell’Occidente, la “sede” in cui l’Occidente aveva ino ad allora abitato È il mondo dove il Logos della forma-merce si incarna in ogni aspetto della vita, per diventarne la religione stessa. E Marx ne esalta l’impeto rivoluzionario. È questo impeto che per lui va seguito, al suo interno è necessario collocarsi per comprenderne le contraddizioni e prevederne scientificamente l’aporia, e cioè dove la strada che esso ha aperto è destinata a interrompersi - per il salto a un altro mondo. Qui bisogna intendere bene: la contraddizione non viene da fuori, da qualcosa che sia “straniero” al Sistema.
Contraddittorio in sé è il capitalismo stesso. Il capitalismo è crisi, è fatto di crisi. Funziona per salti, che ogni volta mettono inevitabilmente in discussione gli equilibri raggiunti. Non vi è riproduzione senza innovazione. Questo è noto anche agli economisti.
Ma Marx aggiunge: il capitalismo è crisi perché si costituisce nella lotta tra soggetti antagonisti. Il capitale è la lotta tra capitalisti e classe operaia. In quanto forza-lavoro la classe operaia è elemento essenziale del capitale stesso - ma quell’elemento che ha la possibilità di assumere coscienza di sé e lottare contro la classe che detiene l’egemonia sull’intero processo, che lo governa per il proprio profitto, metro del proprio stesso potere.
È anche e soprattutto in forza di questa intrinseca contraddizione che il capitalismo è innovazione continua, produzione di merci sempre nuove e produzione del loro stesso consumo (la produzione più importante, quest’ultima, dice Marx). Tuttavia, ecco la metamorfosi: proprio diventando cosciente di questa sua funzione la forza-lavoro si fa soggetto autonomo rispetto al capitale, autonomo rispetto al carattere rivoluzionario di quest’ultimo. La lotta di classe di cui parla Marx è lotta tra rivoluzionari. Vera guerra civile.
Questa contraddizione muove tutto. E ognuno è imbarcato in essa. L’idea di poterne giudicare “dall’alto” costituisce per l’appunto quella ideologia, che Marx sottopone a critica in dalle prime opere. Se la realtà dell’epoca è contraddizione inscindibilmente economica e politica, ogni interpretazione che la riduca a fatti naturalisticamente analizzabili la mistifica. Non è possibile cogliere la realtà del Sistema che collocandosi in esso, e dunque collocandosi nella contraddizione. Soltanto in questa prospettiva l’Intero è afferrabile. Non si comprende la realtà del presente se non in prospettiva e perciò a partire da un punto di vista determinato. Impossibile oggi un sapere astrattamente neutrale. La pretesa all’avalutatività è falsamente scientifica; l’epoca costringe a prender-parte, all’aut-aut. A porsi in gioco, alla scommessa anche. Il momento, o il kairòs, della decisione politica viene cosi a far parte della stessa potenza dell’Economico, resta immanente in essa.
È l’ideologia propria del pensiero liberale, per Marx, che cerca di convincere a una visione de-politicizzante dell’Economico, a separare Economico e Politico, conferendo appunto all’Economico l’aspetto di un sistema naturale di relazioni.
Poiché concepisce la storia dell’Occidente come conflitto, e conflitto determinato dal suo carattere di classe, e poiché intende il presente alla luce dell’intrinseca contraddittorietà della stessa potenza rivoluzionaria del Sistema tecnico-economico, Marx pensa di aver posto saldamente sui piedi il pensiero dialettico dell’idealismo. Le epoche della Fenomenologia hegeliana dello Spirito non trovano conclusione in un Sapere assoluto che tutte accoglie e accorda, in una suprema Conciliazione, ma nella insuperabile contraddizione tra la potenza universale del Lavoro produttivo divenuto cosciente di sé e la sua appropriazione capitalistica. Si tratta di ben altro che di calcoli su valore e plusvalore.
L’analisi del meccanismo dello sfruttamento, tanto bombardata dagli economisti e da filosofi dilettanti, sarà pure la parte caduca della grande opera di Marx. Ciò che conta in essa è la questione: il prodotto di questa umanità al lavoro (e questo significa “classe operaia”, altro che semplice “operaismo”!), di questo cervello sociale che inventa e innova, appartiene a chi? Come se ne determina la distribuzione? Chi la comanda? Può la sua potenza rinunciare a esigere potere? E se essa funziona riducendo sempre più il lavoro necessario per unità di prodotto o di prestazione, non si dovrebbe pensare nella prospettiva di una liberazione tout-court da ogni forma di lavoro comandato?
Il comunismo risponde per Marx a queste domande. È l’idea della suprema conciliazione del soggetto col suo prodotto; il compito di superare nella prassi ogni estraneità. Comunismo significa la stessa “missione dell’uomo”. In questo senso, il capitalismo opera per il suo stesso superamento, poiché il suo sistema si fonda su quel cervello sociale-classe operaia che per “natura” è destinato a non sottostare ad alcun comando. Che deve diventare libero. Il comunismo è il Sistema della libertà.
Marx sembra non avvedersi che tale “risoluzione” dell’aporia del capitalismo riproduce esattamente la conclusione della Fenomenologia hegeliana e, forse ancor più, del Sistema della scienza di Fichte. Ed è l’idea di un potere assoluto sulla natura, in cui la “comunità degli Io” sottopone al proprio dominio tutto ciò che le appaia “privo di ragione”.
La quintessenziale volontà di potenza dell’uomo europeo ispira perciò in tutto anche Marx e la sua violenza rivoluzionaria. Marx appartiene all’Europa “rivoluzione permanente”, all’Europa “leone affamato” (Hegel). Il suicidio di questa Europa lungo il tragico Novecento spiega lo spegnersi dell’energia politica scaturita dal marxismo assai più di quelle colossali trasformazioni sociali e economiche che hanno segnato il declino del soggetto “classe operaia”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
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La critica radicale del presente: l’eredità di Marx
di Maurizio Viroli (Il Fatto, 28.04.2018)
Non saprei dire quanti altri giovani della mia generazione misero in soffitta Karl Marx dopo aver letto l’articolo Esiste una teoria marxista dello Stato? che Norberto Bobbio pubblicò nel 1975 su Mondoperaio, e ripubblicò nel 1976 nel libro Quale socialismo?, ma sospetto siano stati molti.
La risposta di Bobbio era netta: negli scritti di Marx e di Friedrich Engels, “una vera e propria teoria socialistica dello Stato non esiste”. A nulla valsero le centinaia di pagine scritte dagli intellettuali ‘organici’, come si diceva allora, al Partito comunista per confutare Bobbio e salvare Marx. Se Marx non aveva fornito una teoria dello Stato, come poteva essere guida intellettuale di un partito che aspirava a guidare lo Stato democratico?
Messo da parte Marx, cercammo altri maestri che potessero aiutarci a credere nel socialismo senza essere marxisti. Trovammo per nostra fortuna Carlo Rosselli e il suo Socialismo liberale che proprio Bobbio aveva curato in una bella edizione Einaudi del 1973. La prima pagina di quel libro aveva il valore di una rivelazione o di una conferma di quanto già pensavamo, vale a dire che il limite maggiore della teoria sociale e politica di Marx era la pretesa (rafforzata e popolarizzata dal buon Friedrich Engels) di essere dottrina scientifica : “L’orgoglioso proposito di Marx fu quello di assicurare al socialismo una base scientifica, di trasformare il socialismo in una scienza, anzi nella scienza sociale per definizione [...] Doveva avverarsi, non poteva non avverarsi; e si sarebbe avverato non per opera di una immaginaria volontà libera degli uomini, ma di quelle forze trascendenti e dominanti gli uomini e i loro rapporti che sono le forze produttive nel loro incessante svilupparsi e progredire.”
Rosselli capì che il Manifesto del Partito comunista aveva immensa forza d’ispirazione perché era profezia travestita da scienza: “Quale pace, quale certezza dava il suo linguaggio profetico ai primi apostoli perseguitati! “
Ma già agli inizi del Novecento, dopo la disputa sul revisionismo aperta dal libro di Eduard Bernstein, uscito nel 1899 (che Laterza ha pubblicato in traduzione italiana nel 1974 con il titolo I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia), i più intelligenti giudicarono la scienza di Marx del tutto incapace di spiegare la realtà economica e sociale, e non trovarono più né conforto né guida nella profezia ormai irrigidita in stanche formule ripetute meccanicamente. Eppure, molte pagine di Marx, soprattutto del giovane Marx, offrono ancora, se le leggiamo senza i vecchi condizionamenti ideologici, elementi per una teoria dell’emancipazione sociale.
La lettera che Marx spedisce ad Arnold Ruge da Kreuznach, nel settembre del 1843, poi pubblicata nei Deutsch-Französische Jahrbücher del 1844, ad esempio, è un testo che ci insegna i lineamenti di una critica sociale e politica intransigente: “Costruire il futuro - scrive Marx - e trovare una ricetta valida perennemente non è affar nostro, ma è certo più evidente ciò che dobbiamo fare nel presente: la critica radicale di tutto l’esistente”. Critica radicale perché senza riguardi, senza paura né dei suoi risultati né del conflitto coi poteri attuali. E ci insegna che la lotta per la libertà e per la giustizia deve essere in primo luogo lavoro paziente di educazione delle coscienze: “Indi il nostro motto sarà: riforma della coscienza, non con dogmi, bensì con l’analisi della coscienza mistica, oscura a se stessa, in qualunque modo si presenti (religioso o politico)”.
L’emancipazione politica e sociale non era per il giovane Marx risultato di tendenze oggettive della storia, ma conquista di coscienze emancipate che sanno riscoprire il sogno o la profezia di giustizia che l’umanità ha coltivato in varie forme nella sua lunga storia: “così si vedrà che da tempo il mondo sogna una cosa, di cui deve solo aver la coscienza per averla realmente. Si vedrà che non si tratta di tracciare una linea fra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine come l’umanità non inizi un lavoro nuovo, bensì attui consapevolmente il suo antico lavoro”.
Nello stesso fascicolo (l’unico che vide la luce) Marx pubblicò anche un’Introduzione a Per la critica della Filosofia del diritto di Hegel, dove sostiene che il proletariato è la sola classe sociale che emancipando se stessa emancipa l’intera società e che la filosofia può trovare nel proletariato “le sue armi materiali”. La filosofia (ovvero gli intellettuali) è dunque la “testa di questa emancipazione”; “il suo cuore è il proletariato”. Due illusioni nobili, queste del giovane Marx, ma pur sempre illusioni.
Il proletariato, allora come oggi, è una classe oppressa e umiliata, ma resta una classe particolare che nella sua storia ha lottato e sofferto per finalità di emancipazione generale, ma ha anche sostenuto demagoghi autoritari. Attribuire al proletariato il semplice ruolo di cuore e forza materiale dello sforzo di emancipazione e agli intellettuali quello di cervello, significa aprire la strada, come la storia ha abbondantemente dimostrato, a freddi professionisti della rivoluzione e del governo, incapaci di condividere le sofferenze e le speranze degli oppressi e dunque pronti a diventare non compagni di lotta, ma nuovi dominatori.
In questo saggio, nato in un contesto segnato da appassionati dibattiti su religione e emancipazione sociale (ben documentato dalla recente biografia scritta da Gareth Stedman Jones, Karl Marx. Greatness and Illusion, Harvard University Press, 2016) Marx ha consegnato alla storia la sua celebre critica dell’alienazione religiosa: “L’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo. [...] Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale. La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo”. Sarebbe facile osservare che la religione, in particolare la religione cristiana, ha sostenuto importanti esperienze di liberazione politica e sociale.
Ma dalla critica alla religione, Marx trae due conclusioni di straordinario valore morale e politico: la prima consiste nel principio che “l’uomo è per l’uomo l’essere supremo”; la seconda nell’“imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole”. Un principio e un imperativo da riscoprire in questo nostro tempo che ha completamente perso l’idea stessa, e anche la speranza, dell’emancipazione sociale.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO STATO DEL FARAONE, LO STATO DI MINORITA’, E IMMANUEL KANT "ALLA BERLINA" - DOPO AUSCHWITZ
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Cultura e società, oggi. Per una critica della ragione "impura": "il più delle volte ragionevole “non so” non si ode facilmente nelle accademie” (I. Kant, I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica).
L’illusione della conoscenza
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 24.04.2018)
Il primo marzo del 1954, gli Stati Uniti sganciarono sull’atollo di Bikini, nelle isole Marshall, una bomba a fusione termonucleare trecento volte più potente di quella sganciata su Hiroshima nel 1945. L’operazione, chiamata in codice Castle Bravo, si risolse nel più grave incidente nucleare mai accaduto prima, perché la potenza della bomba risultò non di trecento, ma di mille volte superiore a quella di Hiroshima. Uno dei suoi principali componenti, il litio-7, di cui evidentemente gli scienziati non conoscevano a sufficienza le proprietà, innescò una serie di reazioni che ne triplicarono l’energia. Nel giro di pochi minuti, il fungo atomico raggiunse un’altezza di 40 km, per cui la nube fu soggetta a venti di una forza e direzione del tutto impreviste dagli esperti che ne dovevano calcolare lo spostamento. Il fallout radioattivo colpì due atolli abitati da 67.000 persone che non si riuscì a far evacuare in tempo, mentre l’equipaggio di un peschereccio giapponese, che era in acque considerate sicure, fu colto in pieno dalle radiazioni. Lo stesso accadde all’equipaggio di un aereo militare che doveva osservare la zona del lancio da un’altezza considerata sicura, se tutto fosse andato secondo i piani. Ma niente andò secondo i piani.
Steven Sloman, cognitivista canadese docente alla Brown University e Philip Fernbach, già suo allievo e professore di Marketing alla Leeds School of Business della University of Colorado, aprono il loro saggio, L’illusione della conoscenza (Raffaello Cortina Editore), con il racconto di questa tragedia, esempio tragicamente perfetto per introdurre l’argomento del libro: siamo molto più ignoranti di quanto crediamo e la combinazione della nostra presunzione con la potenza della nostra tecnologia è molto pericolosa.
Con lo stile scorrevole e divulgativo tipico della saggistica anglo-sassone, gli autori accompagnano il lettore in un percorso che si snoda tra psicologia, informatica, robotica, teoria evolutiva e scienze politiche. Il mondo in cui viviamo, avvertono, è molto complesso e una tecnologia sofisticata domina sempre più quasi ogni aspetto della vita quotidiana: è davvero difficile capire come funzionano gli strumenti che usiamo, mentre usarli è sempre più facile. Allo stesso modo, la tecnologia permette in poco tempo di creare movimenti d’opinione e certezze condivise, non necessariamente fondate su contenuti di verità. Questo rende molto grande la responsabilità dei cittadini, chiamati a esprimere opinioni e giudizi su temi talvolta molto difficili, determinando con le proprie scelte il futuro della collettività. Ma a tendenza naturale delle persone è di prendere posizione seguendo impulsi istintivi, con motivazioni superficiali, senza adeguata informazione, influenzandosi reciprocamente in direzione del rafforzamento delle proprie convinzioni, spesso sfuggendo o rifiutando il confronto con chi la pensa diversamente. Ragioniamo, affermano gli autori, secondo «una mentalità da branco», in cui prese di posizione molto forti non si fondano su una altrettanto forte conoscenza dell’argomento. «Portata alle estreme conseguenze - proseguono - l’impossibilità di renderci conto di quanto poco comprendiamo, combinata con il sostegno della comunità, può innescare meccanismi sociali veramente pericolosi».
Sottrarsi all’illusione della conoscenza, molto più dannosa dell’ignoranza stessa, è necessario per il bene di tutti.
L’ignoranza, in un mondo complesso che ha alle spalle migliaia di anni di accumulo di conoscenze, è in qualche misura inevitabile. Il vero problema, perciò, non è tanto l’ignoranza ma piuttosto il fatto di credere di sapere molto più di quanto effettivamente sappiamo. Valutare quanto effettivamente sappiamo riguardo a una qualsiasi cosa che diremmo di conoscere bene, avvertono gli autori, è semplice: basta provare a spiegarla a voce alta. Prendete ad esempio lo sciacquone del bagno. Se qualcuno ci chiedesse: sai come funziona? tutti risponderemmo istintivamente di sì. Ma tentando di dire come, ci accorgeremmo molto probabilmente che in realtà, oltre al fatto di dovere spingere un bottone o muovere una manovella, alla fine potremmo dire poco più del numero di telefono dell’idraulico. Infatti, è lui la persona che sa davvero come funziona lo sciacquone, non noi! La risposta affermativa data istintivamente rispecchia una conoscenza di tipo particolare, risultante dalla combinazione di diversi elementi: quello - poco - che è effettivamente nella nostra mente, più quello che è nella mente dell’idraulico, più il numero di telefono e gli orari dell’idraulico stesso. Insomma, la nostra presunta conoscenza risiede in gran parte fuori di noi, in quella che gli autori definiscono la comunità della conoscenza cui ciascuno appartiene.
La mente, dunque, usa il cervello, ma va oltre e comprende «il corpo, l’ambiente e le altre persone», e tutte le fonti d’informazione accessibili. È questa l’origine dell’illusione della conoscenza: noi, infatti, confondiamo quello che sappiamo davvero ed è nella nostra mente, con quello che crediamo di sapere perché si tratta d’informazioni cui abbiamo facile accesso.
La complessità del mondo, come abbiamo detto, giustifica almeno in parte la nostra ignoranza. Tuttavia, quello che sappiamo è davvero poco e Sloman e Fernbach ci spiegano perché. A questo punto permettetemi un accenno personale. Io tendo a dimenticare i dettagli - nomi, indirizzi, numeri etc. - e spesso me ne sono fatta una colpa, pensando che denotasse leggerezza o poca attenzione per gli altri o peggio. Confesso di avere provato un senso di vero sollievo leggendo che la nostra mente non è fatta per i dettagli (il mio orizzonte si rasserena...!) e che li dimentichiamo semplicemente perché non abbiamo bisogno di ricordarli. Infatti, «il pensiero è un maestro nell’arte di selezionare solo ciò che gli serve rimuovendo tutto il resto», a noi basta sapere dove cercarli al bisogno (il mio orizzonte si rabbuia di nuovo: dove ho scritto il numero dell’idraulico!?!). Dimentichiamo molte cose non per qualche difetto dell’intelletto o del cuore, ma banalmente perché le cose sono veramente tante e davvero complicate e saperle tutte rappresenterebbe per la mente un fardello inutile. Infatti, contrariamente a quanto si pensava agli albori delle scienze cognitivistiche, negli anni Cinquanta, la mente umana non assomiglia a un computer e non è progettata per accumulare dati.
La qual cosa ci porta alla seconda causa delle nostre dimenticanze, ossia la natura della mente - ciò a cui ci serve - e la funzione per la quale si è evoluta: l’azione. Per agire nel modo migliore al fine di raggiungere un determinato obiettivo, è necessaria quella caratteristica esclusivamente umana che è la capacità di astrarre, per «riconoscere come una situazione nuova assomigli a situazioni passate» e agire efficacemente di conseguenza. Ricordare ogni dettaglio, bloccando la mente sul particolare, renderebbe del tutto impossibile l’astrazione e la generalizzazione.
Il saggio di Sloman e Fernbach si basa sulle ricerche di molti studiosi, tra i quali Michael Tomasello, autore di un saggio importante, Storia naturale della morale umana, da noi recensito qualche tempo fa su queste pagine. In particolare di Tomasello condividono la tesi che la caratteristica vincente della nostra specie, sia stata la capacità di condividere l’intenzionalità. Collaborare e lavorare in sintonia sono stati - e sono ancora - i fattori determinanti per la sopravvivenza e lo sviluppo dell’umanità. Mettersi insieme, dividersi i compiti e agire coordinatamente per un obiettivo comune - qualunque esso sia, dalla caccia al mammut allo sbarco sulla Luna - ci permette di non essere sopraffatti dalla complessità del mondo, nonostante i nostri limiti. Noi - la più fragile delle scimmie, dalla testa troppo grande per venire al mondo con la stessa facilità degli altri animali - siamo sopravvissuti e abbiamo prosperato non solo, e non tanto, per l’intelligenza individuale, ma perché abbiamo saputo costituire delle «comunità di cervelli» in grado d’agire insieme. Abbiamo costruito così delle «comunità della conoscenza» in cui, più della conoscenza individuale, è vitale l’accesso alle informazioni. Condividere l’intenzionalità è qualcosa che le macchine non potranno mai fare, il che ci libera, secondo Sloman e Fernbach, dalla paura che nel prossimo futuro una super-intelligenza prodotta dalla tecnologia prenda il sopravvento sugli umani. Sarebbe possibile soltanto se riuscissimo a costruire delle macchine coscienti, capaci di darsi un obiettivo comune ma, ancor prima, dovremmo capire cos’è la coscienza e la questione è tutt’altro che risolta, come spiega bene il saggio di Joseph LeDoux, Ansia.
Qualche timore, tuttavia, è prudente conservarlo, perché una forma di super-intelligenza esiste già, composta dall’enorme quantità di persone in grado di connettersi in un attimo e da ogni parte del mondo. Esse costituiscono una comunità globale della conoscenza - cervelli in contatto e informazioni che circolano praticamente in tempo reale - che rappresenta, allo stesso tempo, una garanzia e un pericolo per le società democratiche. L’inclinazione alla mentalità da branco, di cui abbiamo detto, unita all’inconsapevolezza della propria ignoranza possono «innescare meccanismi sociali veramente pericolosi... le società possono diventare dei calderoni nel tentativo di creare un’ideologia uniforme, facendo evaporare pensiero indipendente e opposizione politica per mezzo della propaganda e del terrore». Allora ripartire dal socratico so di non sapere potrebbe essere un buon inizio per evitare qualche sciocchezza di cui, poi, sarebbe inutile pentirsi.
LA PSICOANALISI, LA LEGGENDA DI "COLAPESCE", LA "LEZIONE" DI FREUD A ROMAIN ROLLAND.
Una nota
di Federico La Sala
All’interno di un lavoro portata avanti da più Autori, sul tema “L’India della psicoanalisi. Il subcontinente dell’inconscio” (IPOC, Milano 2014), Livio Boni, a conclusione del suo contributo specifico, dedicato a “Freud e l’India: un percorso ermeneutico lungo/un itinerario mancato”, e, in particolare, allo sforzo di fornire chiarimenti sul “dialogo con Romain Rolland” e sulla “equazione freudiana: India = misticismo”, scrive:
LA PAURA DELLA "GIOIA ECCESSIVA". Alla luce di un “vecchio” lavoro di Giampaolo Lai (“Due errori di Freud”, Boringhieri, Torino 1979), di Elvio Fachinelli (“La mente estatica”, Adelphi, Milano 1989) e, mi sia consentito, di una altrettanto mia “vecchia” analisi della “provocazione” fachinelliana di portarsi oltre Freud (si cfr. “La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica”, Antonio Pellicani Editore, Roma 1991, pp. 138-161), pur volendo accogliere l’opinione della lettura di Boni (2002/2014) sul valore della “soprendente” testimonianza di Goetz relativa alle dichiarazioni di Freud sull’India, con tutte le implicazioni che esse hanno anche sul dialogo con Rolland, è da dire che nel testo di Goetz c’è un elemento, che sollecita attenzione e invita non a semplificare (“Questo riduzionismo - scriveva Fachinelli - non ci serve: ci serve piuttosto un adduzionismo”) ma ad “approfondire” ulteriormente la lettura della “lezione” di Freud a Goetz, proprio per fare possibilmente più chiarezza sul “percorso ermeneutico lungo" e su "l’itinerario mancato".
L’elemento è la citazione ripresa dalla ballata di Schiller - un vero e proprio “iceberg” del “mare” interno di Freud: “La Bhagavadgita è un poema grande e profondo che apre però su dei precipizi. E ancora giace sotto di me celato nella purpurea tenebra afferma "il tuffatore" di Schiller, che mai rivenne dal suo secondo temerario tentativo” (sul tema, si cfr. la brillante tesi di laurea di Malvina Celli, "La simbologia di Friedrich Schiller nella ballata "Der Taucher": amore o ambizione?", Università di Pisa "014/2015).
Tale elemento illumina con molta forza un “impensabile” ancora da pensare: esso non è affatto “in aperto contrasto con tutto ciò che Freud afferma altrove” ma, al contrario, esprime solo e già tutto “il disagio della civiltà”, quella occidentale, nei confronti dell’altra civiltà, quella orientale in questo caso e, in particolare, dell’India.
Nel 1904-1905, a pochi anni dalla pubblicazione della Interpretazione dei sogni, avvenuta nel 1899 (con la data “1900”), e con la consapevolezza che la sua autoanalisi - interminata e interminabile - non è affatto finita, egli sa bene in quale impresa si è “tuffato”! Il motto virgiliano, “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” («Se non posso muovere gli dei superiori, muoverò quelli degli inferi»), posto ad esergo dell’opera, già dice bene a se stesso di quali e quanti pericoli e difficoltà dovrà affrontare il “conquistador” nel suo cammino.
Un’ombra lo seguirà fino alla fine: è quella di Josef Popper-Lynkeus (1838-1921), ingegnere, filantropo, e scrittore, che con le sue “Fantasie di un realista”, opera pubblicata a Vienna nel 1899, contemporaneamente a “L’interpretazione dei sogni”, che lo "tormenterà" a non rassegnarsi (“I miei rapporti con Josef Popper-Lynkeus”, 1932) e ... a non perdere il coraggio degli inizi!
Nel 1929, nel “Disagio della civiltà”, «un’opera essenziale, di primo piano per la comprensione del pensiero freudiano, nonché il compendio della sua esperienza» (J. Lacan), nella parte finale del primo capitolo, a Romain Rolland, chiudendo con modi da “animale terrestre” la porta in faccia al “suo amico oceanico” (così dalla dedica sulla copia del libro inviatagli), ripete la “lezione” data a Goetz nel 1904-1905, con altri versi dalla stessa ballata: -“(...) ancora una volta sono indotto ad esclamare con le parole del Tuffatore di Schiller: “... Es frue sich, / Wer da atmet im rosigten Licht. [...Gioisca, / Chi qui respira nella luce rosata.]” (S. Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, Boringhieri, Torino 1971, p. 208).
A ulteriore precisazione, per chi ancora possa avere qualche dubbio sul senso del suo discorso e del suo percorso, alla fine del capitolo 7 del "Disagio", richiama alcuni versi dalla canzone dell’arpista nel “Wilhelm Meister” di Goethe e commenta:
Il Conquistador comincia a deporre le armi e ammette: “(...) mi manca il coraggio di erigermi a profeta di fronte ai mei simili e accetto il rimprovero di non saper portare loro nessuna consolazione, perché in fondo questo è ciò che tutti chiedono, i più fieri rivoluzionari non meno appassionatamente dei più virtuosi credenti” (op. cit., p. 280).
Nel 1930, a Freud viene conferito l’ambito “Premio Goethe”. Il riconoscimento segnava per lui, come dichiarò, la vetta più alta della sua vita. Nel “Discorso nella casa natale di Goethe a Francoforte”, (S. Freud, Opere, XI, Torino 1979, pp. 7-12), egli scrive: “Io penso che Goethe, a differenza di tanti altri nostri contemporanei, non avrebbe respinto di malanimo la psicoanalisi”. Certamente non si sbagliava, ma forme di immaginario “prometeico”, condiviso sia con Goethe sia con gli “altri nostri contemporanei”, lo accecano ancora. I suoi “sogni” personali erano più le “fantasie” di un idealista (platonico-hegeliano ), che di un realista, alla Popper-Lynkeus e alla Rolland!
Nel 1931, alla fine dell’ultimo capitolo del “Disagio della civiltà”, dopo l’ultima frase: “Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo [...]. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale.”, aggiungerà: “Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito” (op. cit., p. 280).
Nel 1938, con grandissime difficoltà, a stento riesce a lasciare Vienna e a raggiungere, sognando "Guglielmo il Conquistatore", l’Inghilterra - un’isola in mezzo all’oceano! Morirà a Londra il 23 settembre 1939.
A sua memoria e gloria, è da ricordare che, se il suo primo lavoro "L’interpretazione dei sogni" richiama alla memoria la figura di Giuseppe, e il suo lavoro di interpretatore dei sogni del Faraone, l’ultimo lavoro risollecita a riflettere su “L’uomo Mosè e la religione monoteistica” e a proseguire il suo lavoro, quello di interpretatori e interpretatrici dei sogni dell’intera umanità. Uscire dallo Stato di minorità è possibile, non è “l’avvenire di un’illusione”. Non dimentichiamo di «coltivare il nostro giardino»!
Sul tema, nel sito, si fr.:
FILOSOFIA, PSICOANALISI E MISTICA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ..
FREUD, IL MARE, E "LA MENTE ESTATICA". Un invito a ripensare il lavoro di Elvio Fachinelli
VITA, FILOSOFIA, STORIA E LETTERATURA...
BENEDETTO CROCE, LO SPIRITO DI "COLAPESCE", E LA VITA DI UN "PALOMBARO LETTERARIO". Una brillante ricognizione di Luisella Mesiano
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.... *
Discussione
L. Steffens, Moses in Red. The Revolt of Israel as a Typical Revolution Dorrance and Company 1926
di Guido Bartolucci ( Lo Sguardo - rivista di filosofia, "Rivoluzione: un secolo dopo", N. 25, 2017.)
Non sempre gli anniversari sono occasioni per pubblicare e recensire nuovi libri, sono anche momenti utili per riscoprire vecchi autori e testi. È il caso di Lincoln Steffens (1866-1936) e del suo Moses in red, un libro unico nel suo genere, perché fu il primo a riconoscere nel racconto biblico dell’Esodo, le tracce di una ‘teoria’ della rivoluzione che aveva trovato la sua realizzazione negli eventi russi del 1917. «Il libro che ho appena finito», scriverà all’amico Gilbert Roe nel 1925, «è la storia di Mosè raccontata alla luce della rivoluzione, un classico esempio di come la rivolta di un popolo avviene. Jehova simbolizza la natura; Mosè, il riformatore e il leader; il faraone, il re o il padrone capitalista; Aronne l’oratore e gli ebrei sono il popolo. Il parallelo con la Russia o ogni altra rivoluzione è strettissimo».
Quando il libro uscì, nel 1926, Steffens era stato in Russia già tre volte, spettatore degli eventi e intervistatore dei principali protagonisti, come Lenin: una prima, nell’estate del 1917, dopo la rivoluzione di aprile; la seconda, nel 1919 a seguito della missione di pace guidata da William C. Bullitt; la terza nel 1923, durante il periodo della NEP. Fino a quel momento egli era stato quello che negli Stati Uniti si chiamava un muckrakers, cioè un giornalista d’inchiesta che aveva aperto il fronte, nella società americana, della aperta critica al sistema liberale. Ma Steffens non era rimasto chiuso nei confini statunitensi, aveva allargato i suoi orizzonti intellettuali in Europa alla fine dell’800, studiando teoria sociale e psicologia, e assistendo ai primi tentativi di costruire una scienza dell’organizzazione e del comportamento umano. Egli era convinto che la società fosse soggetta a leggi che potevano essere studiate come quelle che regolavano la natura.
Se in un primo momento della sua carriera Steffens aveva creduto nella possibilità che bastasse rendere evidente il legame corruttivo tra politica e affari per riformare la società, dopo l’incontro con la rivoluzione bolscevica si fece strada in lui l’idea che l’unico modo per trasformare la comunità degli uomini era la rivoluzione, che in Messico, in cui era stato tra il 1915 e il 1916 aveva avuto un suo primo momento, ma che in Russia aveva trovato la sua piena realizzazione.
Il libro dell’ Esodo agli occhi di Steffens, rappresenta la possibilità di raccontare a un pubblico che conosce bene gli avvenimenti narrati nel testo veterotestamentario, le tappe attraverso le quali si è sviluppata la rivoluzione russa e le ragioni che hanno mosso i suoi leader a specifiche azioni e politiche.Dopo una lunga introduzione e un breve capitolo preliminare, Steffens articola la sua trattazione in nove parti, che seguono gli avvenimenti narrati nel libro dell’ Esodo.
Il secondo capitolo è dedicato alla figura di Mosè e alla sua trasformazione in leader del popolo oppresso (pp. 51-59). Gli ebrei erano schiavi in Egitto dopo le politiche di Giuseppe, che avevano provocato l’odio degli egiziani verso il suo popolo. Fu necessario, dunque, che sorgesse un leader capace di guidare gli ebrei fuori dalla schiavitù e quest’uomo si impose perché poteva contare su una formazione unica. Scrive Steffens: «Mosè, nato schiavo, divenne un aristocratico nei sentimenti, nel comportamento e nell’aspetto. Egli era libero, impulsivo, fiero, diretto, audace, e senza legge. Egli si liberò della psicologia servile del suo popolo, ma non perse il senso della razza, che, nel suo caso, era la coscienza di classe. E fu l’unione di questi due tratti, la nobiltà egiziana e la lealtà alla razza che fecero di lui un grande leader ebreo dei lavoratori». (p. 57).
Dopo la formazione del leader, Steffens descrive la strategia, che passa attraverso la cospirazione contro il padrone, il faraone. Mosè si comporta come un classico agitatore politico, un leader dei lavoratori: invece di pretendere qualcosa d’irrealizzabile e difficilmente ottenibile, si limita a domandare un piccolo miglioramento, apparentemente facilmente realizzabile. È Dio, che per il giornalista americano rappresenta la natura, che propone a Mosè di andare dal faraone e chiedere di lasciare andare il popolo nel deserto per tre giorni per organizzare un sacrificio in onore della propria divinità. I leader, scrive Steffens, muovono i lavoratori a chiedere una minima riduzione dell’orario o un piccolo aumento della paga, ma in realtà «gli agitatori vogliono tutto ciò che il lavoratore produce» (p. 63). Allo stesso modo, prima della grande rivoluzione, nel 1907 il popolo fu spinto a chiedere allo zar una modesta partecipazione in un governo costituzionale.
La ragione di tutto ciò è evidente, scrive Steffens: uno dei problemi centrali per un movimento rivoluzionario è convincere e muovere le masse. Le piccole richieste a cui le autorità normalmente rispondono con un netto rifiuto e una violenta reazione hanno la funzione di innescare la rivolta: il primo esempio di questa strategia fu la cospirazione organizzata da Dio e Mosè. Steffens scrive: «I rivoluzionari che hanno studiato la storia, dichiarano che i rivoluzionari non possono fare una rivoluzione, solo il governo e i faraoni possono provocare un tale stato di crisi, e così accadde nella rivoluzione russa» (p. 88).
Ma uno degli aspetti più misteriosi del racconto dell’Esodo, continua il giornalista americano, è la ragione per cui gli ebrei, una volta usciti dall’Egitto non entrarono direttamente nella terra promessa, ma vagarono per quarant’anni nel deserto; la stessa cosa accadde anche in Russia: il popolo non ‘entrò’ direttamente nel nuovo stato comunista, ma si fermò, si voltò indietro, vagò per il deserto del dubbio e del compromesso. I leader della rivoluzione, infatti, sostennero che era necessario un cambio radicale nelle persone, perché la vecchia generazione che aveva conosciuto gli antichi mali dello zar doveva necessariamente essere superata.L’attraversamento del deserto, dunque, contiene al suo interno i passaggi più drammatici della fase rivoluzionaria. Il primo è la strage di parte degli adoratori del vitello d’oro ai piedi del monte Oreb: «c’è una certa legge naturale che governa i terrori. Quando una grande massa di persone ha paura, è incline a diventare crudelissima; quando una nazione sta organizzando un nuovo sistema di leggi e costumi, ecco che si ha un terrore rosso; quando sta difendendo un vecchio sistema ecco che c’è un terrore bianco. Ciò non è bene, ma è chiaramente naturale, e dunque è divino, come Mosè sapeva, o pensava» (p. 108).
Questo momento conferma che il popolo uscito dalla schiavitù, dimostrando di essere ancora legato alla vita in Egitto ha ancora paura e non accetta facilmente i cambiamenti imposti da Dio. È per questa ragione che dopo la strage si afferma la dittatura di Mosè, attraverso la quale si impongono le nuove leggi. Ma non è sufficiente, la paura continua a stringere il popolo, tanto che, una volta che gli esploratori mandati da Mosè sono tornati dalla terra promessa e hanno raccontato ai capi tribù che il paese è occupato da popolazioni bellicose, la maggior parte degli ebrei si rifiuta di entrare e pretende di tornare in Egitto. È in questo momento che l’ultimo insegnamento esodico si rivela ai rivoluzionari: la vecchia generazione deve morire affinché la nuova sia pronta a costruire la nuova nazione.
Sta in questa ragione l’errare degli ebrei per quarant’anni nel deserto, un momento che fu un periodo di transizione e di selezione della nuova generazione. La dittatura di Mosè e il terrore rosso sono necessari per la rivoluzione e per la costruzione di un nuovo popolo, capace, una volta attraversato il Giordano, di fondare una nuova nazione. È questo, secondo Steffens, l’insegnamento dell’ Esodo e che ne fa nelle sue varie tappe, una storia esemplare per tutti i rivoluzionari. Ma non basta: il libro di Mosè ha anche un’altra funzione. Sfeffens fu un ‘pragmatista’, il suo interesse per la rivoluzione doveva passare necessariamente per l’esperienza, sia messicana, che russa, ma al fine di costruire una teoria universale.
L’esaltazione delle politiche leniniste, della dittatura e del terrore, della rivoluzione bolscevica in cui egli riconosceva il futuro del genere umano, non certificano un’adesione acritica al comunismo. Il suo scopo era di indagare e isolare i modi attraverso i quali la rivoluzione operava, come esempio di una nuova strategia di configurazione del potere all’interno della società. Le ‘leggi’ che egli aveva riconosciuto nella storia russa erano ora riproposte al pubblico attraverso un racconto che era alla base di molte delle narrazioni fondative della società americana, come dimostrava, per esempio, l’uscita in quegli anni (1923) del film The Ten Comandments di Charles B. DeMille. Il libro dunque era sì un’operazione propagandistica, ma non esclusivamente rivolta all’esaltazione del bolscevismo (o almeno non solo), ma piuttosto a riconoscere nella rivoluzione l’unica strada per cambiare radicalmente la società americana.
Il libro, pubblicato nel 1926, non ebbe alcun successo e non circolò per il paese, anche se Lincoln Steffens non cessò mai di propagandare nei suoi articoli e nelle sue conferenze tenute in ogni angolo degli Stati Uniti la forza della rivoluzione russa. Ma nonostante la scarsa circolazione, il testo di Steffens conquistò lungo i decenni un ruolo di rilievo nelle riflessioni politiche attorno al testo biblico.
Il primo a riattivare le riflessioni del giornalista americano fu Aaron Wildavsky nel suo The Nursing Father: Moses as a Politica Leader, (1984), ma il testo riacquistò un ruolo centrale nel 1985, quando uscì Exodus and rivolution di Michael Walzer. Proprio questo lavoro parte dalla riflessione di Steffens, ne amplia l’esemplarità storica, riconoscendo il ruolo del racconto esodico per la rivoluzione inglese, e per l’analisi della tradizione politica ebraica.
Il binomio Esodo e rivoluzione, dunque, è diventato un classico della riflessione politica, anche se declinato in prospettive diverse, e ha trovato in Steffens un interprete di rara efficacia interpretativa. «I have seen the future, and it works», scriverà Steffens nel 1919 al ritorno dal secondo viaggio in Russia, e attraverso la storia di Mosè e del popolo ebraico voleva accompagnare il popolo americano proprio nel futuro che aveva pensato di intravedere durante la rivoluzione.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
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I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
A Mikhail Gorbaciov e a Karol J. Wojtyla ... per la pace e il dialogo, quello vero!!!
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Chi è il numero uno?
Eugen Rosenstock-Huessy e il ruolo della prima persona.
di Damion Searls (Il Tascabile, 03.04.2018) *
Può essere sconvolgente rendersi conto, all’improvviso, che qualcosa a cui non avevi mai pensato - qualcosa che avevi sempre accettato come reale - è solo un articolo di fede. Spesso è il linguaggio a far accendere la lampadina: qualcuno ridefinisce la realtà con una nuova parola (mansplaining, Rebecca Solnit) o mostrando i poteri nascosti e le interconnessioni di una parola antica (debito, David Graeber). Raramente la rivelazione riguarda il linguaggio in sé.
La citazione è di Eugen Rosenstock-Huessy (1888-1973), un teorico del Cristianesimo dell’età moderna molto particolare. (Tutte le traduzioni sono dal volume The Language of the Human Race: An Incarnate Grammar in Four Parts [Die Sprache des Menschengeschlechts: Eine leibhafte Grammatik in vier Teilen].) Rosenstock-Huessy ha ispirato alcuni connoisseur, tra cui W. H. Auden e Peter Sloterdijk, ma possiamo dire in tutta tranquillità che è ancora poco conosciuto. È difficile capire cosa pensare di lui. Di sicuro trovo fastidiosa la palese importanza della nascita di Cristo - o della Missione Divina - che inserisce regolarmente nei suoi ragionamenti filosofici. (Auden: “Chi lo legge per la prima volta può trovare, come è capitato a me, certi aspetti della sua scrittura un po’ difficili da accettare... Per quanto mi riguarda, posso solo dire che ascoltando Rosenstock-Huessy, io sono cambiato”). Il dogma grammaticale a cui fa riferimento - e contro cui si è battuto a morte in un libro di oltre 1.900 pagine - è la lista all’apparenza innocente che risale ai Greci: la prima persona, la seconda persona, la terza persona. Io amo, tu ami, egli ama, o, se avete studiato Latino, amo, amas, amat.
Non sta dicendo che dovremmo aggiungere una forma per la “quarta persona”, come per esempio la distinzione tra terze persone in Ojibwe, oppure una “persona zero” per le costruzioni impersonali come in Finlandese. Sta dicendo che rendere “io” la prima persona è il peccato originale non solo della linguistica, ma della filosofia, della scienza e della stessa vita sociale. E lo intende davvero. Teoricamente, appiattisce l’esperienza vissuta in resoconti freddi e asettici, assimilando tutto all’“affermazione” di un “dato” in terza persona che non richiede alcun coraggio personale, non ha alcuna rilevanza sociale.
Empiricamente, la lista Greca commette un errore: la “prima persona” infatti non arriva per prima. L’io di un bambino si sviluppa quando gli viene rivolta la parola, da un genitore o da un’altra persona che si prende cura di lui. Qualcuno deve dire “tu” nel modo giusto perché un “io” non folle possa di fatto esistere. (Vedi Neither Sun Nor Death di Peter Sloterdijk, p. 30, dove ho sentito parlare di Rosenstock-Huessy per la prima volta). Dal punto di vista psicologico, neurocognitivo e dello sviluppo, “io” è l’ultima persona. Sei un bravo bambino. La bottiglia è lì. Ho fame.
È questa la rivelazione che mi ha tanto colpito. La prima persona non è la prima. Non esiste nessuna lista, a parte quelle che inventiamo. Che aspetto avrebbe il mondo se potessi vedere al di fuori di questo schema? Se prima venisse un legame tanto forte da darti l’autorità di giudicare l’esperienza di qualcun altro - tu ami, tu hai fame, sei carino oggi, ti stai comportando male - e poi venisse una visione condivisa del mondo, e solo successivamente un’espressione di sé? L’idea Cartesiana, “penso dunque sono”, e tutte le distinzioni tra mente/corpo/io/altro avrebbero potuto non emergere mai se Cartesio non fosse stato indottrinato con l’idea che “io” viene per primo. Esistono romanzi in prima e in terza persona, ma la seconda è un’anomalia, proprio come nella vita reale non possiamo prenderci la libertà di parlare per una seconda persona come faremmo di noi stessi in quest’era dell’espressione di sé. Quanto altro ancora della natura del romanzo, e della percezione della mia vita, risale essenzialmente alla grammatica greca di duemila anni fa?
Vale la pena notare che scrisse questi pensieri sulla tirannia nel 1945. E che l’uso del “lui o lei”, ben avanti sui tempi, è suo.
Rosenstock-Huessy fa risalire tutto a questo peccato, dai conflitti con l’autorità a scuola alla schizofrenia, e avanza delle rivendicazioni impressionanti per un proprio “metodo grammaticale” che riconfiguri il linguaggio. Come dicevo, non so cosa pensare al riguardo. Ma è qui, presentato per voi sotto forma di paragrafi alternati da me e da lui. Voi siete la prima persona. Fatene quello che volete.
Traduzione di Alessandra Castellazzi. Si ringraziano l’autore e The Paris Review per la pubblicazione dell’articolo.
* Damion Searls traduce dal tedesco, dal norvegese, dal francese e dall’olandese. Ha tradotto classici come Proust, Rilke, Nietzsche, e Ingeborg Bachmann. Il suo ultimo libro è Macchie d’inchiostro - Storia di Hermann Rorschach e del suo test.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
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Federico La Sala
Le frontiere della tecnoscienza
Se l’uomo si fa Dio
Intelligenza artificiale, bioingegneria, robot sono la nuova frontiera. E tornano a dividere i filosofi tra apocalittici e visionari. Che ne sarà della specie umana?
di Marco Pacini (l’Espresso, 01.04.2018)
Una delle fotografie più nitide di questo primo tratto di strada che abbiamo imboccato verso il “salto antropologico” l’ha scattata il sociologo e filosofo Edgar Morin all’alba del millennio: «L’umanità è ancora in rodaggio e siamo già nelle vicinanze della post-umanità. L’avventura è più che mai ignota». Come spettatori un po’ attoniti, sospesi tra l’ammirazione e l’inquietudine, assistiamo alla grande partita della tecnoscienza, dove la posta in palio è il futuro di una specie, la nostra. Lo chiamano post-human, senza nemmeno un accordo su un significato univoco. Ma la partita è iniziata da tempo e non può attardarsi in sottigliezze semantiche.
Nella squadra A giocano i tecno-umanisti (o transumanisti), evangelisti di una religione che potremmo chiamare datismo: non siamo altro che sistemi di elaborazione dati e in quanto tali possiamo migliorare, cambiare la nostra natura senza porre limiti alle acquisizioni e applicazioni delle due discipline madri, informatica e biologia (intelligenza artificiale e ingegneria genetica).
La squadra B schiera i postumanisti che anche quando salutano con favore la fine del dualismo natura-cultura, mettono in guardia sugli sviluppi “fuori controllo” della tecnoscienza e sul nuovo capitalismo cognitivo e genetico che potrebbe generare scenari distopici. E vorrebbero almeno aspettare l’arbitro, prima di iniziare la partita.
Ma dell’arbitro sembra non esserci bisogno. Perché «tutto funziona, e questo è appunto l’inquietante», come disse allo Spiegel nell’ultima intervista postuma Martin Heidegger, antesignano del pensiero della (o sulla) tecnica.
Quell’intervista diventò un libro intitolato “Solo un dio ci può salvare”. E forse nemmeno di quel dio c’è più la necessità, dato che saremo noi stessi come specie, o una parte di noi, potenziati da dispositivi frutto della santa alleanza tra bioingegneria e informatica, a trasformarci in “Homo deus”, come ha suggerito lo storico del futuro Yuval Noah Harari.
L’intelligenza si sta separando dalla coscienza, avvertono alcuni degli analisti del futuro postumano come Harari; e una volta liberata dalla coscienza l’intelligenza sviluppa una velocità vertiginosa. Quella dei postumani immaginati nei templi dello “human+” come Google e dei suoi sacerdoti come Ray Kurzweil. Gli esseri umani - assicurano - non sono più in grado di gestire gli immensi lussi di dati, sono arrivati al capolinea e ora potrebbero passare il testimone a entità di un tipo del tutto nuovo.
Scenario entusiasmante. O apocalittico, come pensa il filosofo Michel Onfray, che conclude il suo ultimo lavoro, “Decadenza”, con una diagnosi senza speranza: «Un pugno di postumani riuscirà a sopravvivere al prezzo di un’inaudita schiavitù delle masse, cresciute come bestiame (...) Le dittature di questi tempi funesti faranno passare quelle del Novecento per inezie. Google lavora oggi a questo programma transumanista. Il nulla è sempre certo».
Meno catastrofista, ma “in allerta”, Adam Greenfield, che in “Tecnologie radicali” rilette: «Non so cosa significherà essere umani nell’era della post-umanità (...). Capisco perfettamente perché chi crede, per quanto incautamente, che da queste circostanze (la post-umanità frutto del matrimonio tra I.A. e bioingegneria ndr) trarrà il massimo beneficio e un potere inattaccabile voglia arrivarci così in fretta. Quello che non capisco è perché lo vogliano anche gli altri».
Ma forse è inutile preoccuparsi di un futuro postumano alla Onfray, se dovesse realizzarsi la situazione in cui per la parola “umano” non ci sarebbe semplicemente più posto, con o senza prefisso. Lo ipotizza il filosofo Nick Bostrom (fautore del potenziamento umano e studioso dell’Intelligenza artificiale tra i più accreditati) nel suo ultimo saggio “Superintelligenza”: quando l’I.A. supererà quella umana potrebbe sterminare l’umanità intera. Sulla base di queste previsioni, nel gennaio 2015 Bostrom firmò una lettera aperta, sottoscritta da molti altri scienziati, tra cui Stephen Hawking, per mettere in guardia sui potenziali pericoli di uno sviluppo eccessivo dell’I.A.
Nel frattempo, finché con o senza “post” ci saremo, le frontiere continuamente superate dall’intelligenza artificiale e dall’ingegneria genetica (ne parlano negli articoli che seguono Nicoletta Iacobacci e Gianna Milano) pongono con sempre maggiore forza un problema. Anzi, il problema: ci spingeremo in dove si "può", o in dove si "vuole"?
È vero, l’ibridazione è già avviata da tempo. Siamo già in parte nel postumano. «La nostra seconda vita negli universi digitali, il cibo geneticamente modificato, le protesi di nuova generazione, le tecnologie riproduttive sono gli aspetti ormai familiari di una condizione postumana. Tutto questo ha cancellato le frontiere tra ciò che è umano e ciò che non lo è, rivelando le fondamenta non naturalistiche dell’umanità contemporanea», ha scritto la filosofa del posthuman Rosi Braidotti.
Ma forse una parte di ciò che la migliore fantascienza ci ha fatto intravedere e che si presenta ormai sotto forma di possibilità ulteriore, esponenziale, rappresenta un “salto” più che una continuità di questa condizione postumana. Ed è di fronte a quel salto che il “postumanesimo critico” rivolge interrogazioni sempre più pressanti alla tecnoscienza che “funziona” e procede. Segnalandole l’incrocio tra il si può e il si vuole.
Il soggetto di quel volere dovrebbe essere un noi che si interroga ed è interrogato. Ma che per ora sembra assistere attonito alla partita senza arbitro. Ed è quasi inutile ricordare che l’arbitro assente è la politica, ormai da qualche decennio costretta ad arrancare dietro alla tecnoscienza e all’economia o al loro sodalizio (basti pensare agli algoritmi che ogni giorno sui mercati decidono autonomamente di spostare miliardi in nanosecondi).
Quel noi ha il volto, per esempio, di chi si vede uscire dalla mostra “Human+” (viaggio tecnoartistico sul futuro della specie, in corso a Roma al Palazzo delle esposizioni). E la cui espressione sembra dire: lo voglio o non lo voglio quel “più” per i miei figli e nipoti? Ma soprattutto: potranno deciderlo?
Il nuovo inizio è la vita
colloquio con Rosi Braidotti
di M.P. (l’Espresso, 01.04.2018)
«Quando si parla di postumano non si può parlare solo di ricerche neuronali, intelligenza artificiale, bioingegneria. Non c’è niente di nuovo su questo, solo un’accelerazione. Quello che dobbiamo fare è trovare una convergenza tra i saperi».
Raggiunta al telefono nel suo studio all’Università di Utrecht, dove insegna da anni, la filosofa italiana Rosi Braidotti prova a mettere ordine. A sottrarre il dibattito sul postumano ai singoli saperi, ai tecnologi e tecnocrati, per riconsegnarlo alla filosofia. O meglio al pensiero critico. Ha da poco pubblicato in inglese “The Posthuman Glossary”, scritto con Maria Hlavajova. Ma il suo lavoro principale è “Il Postumano”, uscito anche in Italia nel 2014 per DeriveApprodi.
Professoressa Braidotti, siamo all’ennesimo “post”, ma questa volta sembra decisivo.
«Sì, e chiama in causa insieme lo sviluppo tecnologico e le realtà sociali. Si può pensare all’accelerazione tecnologica come a una rivoluzione, ma anche una tragedia sociale, all’antropocene come alla catastrofe ambientale senza ritorno... C’è un clima di ansia. Ma io resto ottimista, perché può far scattare la convergenza tra i saperi, un pensiero critico ma non nichilista».
Il suo postumano parte dalla fine dell’antropocentrismo e dell’opposizione natura-cultura. Verso quale inizio?
«L’inizio è considerare la struttura vivente in sé vitale e contemporaneamente non naturalistica. Costruire un’etica non antropocentrica che consideri tutti i viventi, sperimentando le possibilità della scienza senza timori».
Non vede nelle istanze postumaniste e tecnoumaniste un prevalere di queste ultime ma nella forma di nuovi spazi di dominio?
«Sul postumano stanno lavorando le grandi compagnie della Silicon valley. Si deve ragionare su come il capitalismo cognitivo si è impossessato delle humanities. Si deve ricostruire un terreno comune per discutere su cosa sta accadendo. Il potenziamento umano è diventato centrale in queste discussioni e ciò che lo rende perverso è che lo presentano come l’ultimo capitolo dell’illuminismo. Io dico il contrario. La grande mutazione non avviene nel vuoto, ci sono le implicazioni sociali. Bisogna negoziare su che cosa siamo capaci di diventare. Riorganizzare i saperi, posizionarsi come cittadini, reinventarsi in un’emergenza epistemologica. Spinoza scrisse l’Etica per questo».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’ARCHIVIO DEGLI ERRORI: L’ "IO SONO" DI KANT E L’ "IO SONO" DELL’"UOMO SUPREMO" DEI "VISONARI" DELLA TEOLOGIA POLITICA ATEA E DEVOTA. Note per una rilettura della "Critica della Ragion pura" (e non solo)
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ... *
Diritto
Nel saggio di Daniele Menozzi (Carocci) la storia di come la Carta regolò i rapporti tra Stato e Chiesa
Nella Costituzione senza esserlo. Il destino ambiguo del Concordato
I tessitori. Dossetti e Togliatti con il liberale Lucifero trovarono la soluzione sancita nell’articolo 7
di Roberto Finzi (Corriere della Sera, 30.03.2018)
Non c’è dubbio che tra i «principi fondamentali» che reggono la nostra Repubblica racchiusi nei primi dodici articoli della Carta del 1948 (cui Carocci dedica una serie diretta da Pietro Costa e Mariuccia Salvati) il più controverso sia stato (in parte continui a essere) l’articolo 7 o meglio, e soprattutto, il primo asserto del suo secondo comma. Se, al di là delle sfumature, ogni forza politica e ogni cittadino, poteva ammettere che «lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani» perplessità e opposizioni nascevano e continuarono dalla affermazione che seguiva: «I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi», firmati, come si sa, da Benito Mussolini e dal cardinale segretario di Stato Pietro Gasparri l’11 febbraio 1929, regnante Achille Ratti, Papa Pio XI. Sanavano la «questione romana» apertasi con la presa di Roma. Con accordi e norme complicate tra cui due particolarmente odiose per un Paese che - dopo un decennio di guerre e la doppia occupazione nazista e alleata - si era scrollato di dosso la dittatura anche attraverso la Resistenza e stava lavorando non solo al ritorno delle civili libertà ma a una democrazia nuova, repubblicana come aveva decretato il voto del 2 giugno 1946.
Si trattava dell’asserto che quella cattolica era la religione «di Stato» e, per la sua pervasività, dell’attribuzione degli effetti civili al matrimonio religioso. Con il paradosso che chi riteneva il matrimonio un sacramento poteva, per le norme del diritto canonico, ottenerne la nullità, riconosciuta poi dallo Stato e chi invece aveva del matrimonio una concezione puramente civile era destinato a essere legato a vita, indissolubilmente, non per diretta conseguenza dei Patti, ma per la coincidenza nella visione della famiglia tra Chiesa e fascismo. Nel quadro per di più di un diritto di famiglia in cui era sancita una netta subordinazione della donna.
Nella sua ricostruzione del formarsi del dettame costituzionale e poi dei suoi effetti nella vita democratica italiana ( Art.7. Costituzione italiana ), Daniele Menozzi non nega le conseguenze negative del permanere di quelle norme specie nel quindicennio successivo alla emanazione della Carta Costituzionale. Ci offre però una chiave di lettura della formazione e del senso della norma più articolata, che affonda le sue radici nella complessità del problema cattolico nella storia dell’Italia unita e soprattutto a quel punto della vicenda del nostro Paese.
La Chiesa, lo dimostreranno le successive elezioni del 18 aprile 1948, aveva ancora un forte ascendente sulla popolazione ed era una Chiesa che, seppure - si vedrà di lì a poco - intimamente percorsa da interne pulsioni verso il nuovo, era ancora fortemente contraria al mondo moderno e alle sue forme politiche. In particolare a quelle di matrice socialista e comunista. Ora, si trattava, in sostanza - spiega Menozzi con precisione e acribia filologica - di attirare, per così dire, la Chiesa verso la accettazione piena di quella democrazia che si andava delineando nel lavoro della Costituente, cedendo in via formale alle sue richieste anche se nell’immediato contraddittorie con quella visione.
Protagonista di questa operazione complicata e sottile fu in primis Giuseppe Dossetti che univa alla sua profonda fede cristiana una visione non ierocratica della Chiesa, la competenza giuridica del canonista di vaglia, cristalline convinzioni democratiche, saldi legami con le altre culture politiche formatisi nella Resistenza. Dossetti trovò una sponda in Palmiro Togliatti, a lungo, e tutt’oggi, accusato di avere, in qualche modo permesso un inquinamento della Costituzione con il riconoscimento nel suo testo dei famigerati Patti Lateranensi.
L’atteggiamento del leader del Pci derivava dal convincimento che nella Repubblica dovessero riconoscersi per davvero tutti gli italiani e pure, dice Menozzi, da considerazioni più immediatamente politiche. Mentre stava costruendo il «partito nuovo» guardava alla possibilità di una adesione al Pci di cattolici. Così temuta dalla Chiesa pacelliana che nel 1949 il Papa scomunicherà i comunisti.
Io aggiungerei due aspetti. Togliatti era ben consapevole di quanto Milovan Gilas nelle sue Conversazioni con Stalin ricorda avergli detto il dittatore sovietico: «Questa guerra (...) è diversa da tutte quelle del passato; chiunque occupa un territorio gli impone anche il suo sistema sociale». E infine la lotta per l’egemonia all’interno della sinistra. In quel campo i socialisti, allora sotto la sigla Psiup, erano ancora, seppure non di molto, maggioritari rispetto al Pci.
Per ben intendere la vicenda al quadro manca un tassello. Decisivo. Si tratta della seconda parte del secondo comma dell’articolo 7 che recita: «Le modificazioni dei Patti (Lateranensi), accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale». In tal modo si eliminava una delle più forti obiezioni all’inserimento dei Patti in Costituzione. Per tale via infatti non venivano «costituzionalizzati» ché la loro modifica poteva avvenire per legge ordinaria. L’artefice di questo accorgimento essenziale fu Roberto Lucifero, liberale e monarchico.
Così l’articolo, nota Menozzi, «appariva formulato con il concorso di tre diverse famiglie politiche: la democristiana, la comunista e la liberale».
La «non costituzionalizzazione» dei Patti - in un modo profondamente cambiato all’interno e soprattutto all’esterno della Chiesa - sarà uno degli elementi che permetterà all’Italia l’adozione formale, prima sul terreno parlamentare e quindi - con i referendum del 1974 e del 1981 - attraverso la conferma popolare di decisive riforme come il divorzio e l’interruzione volontaria di gravidanza. E del nuovo diritto di famiglia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ...
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
Federico La Sala
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ..... *
Chi dice che è morta? Prima che terapeutica l’invenzione freudiana è una rivoluzione etica. E la scommessa più ardita si chiama “desiderio”. Da assecondare così
di Massimo Recalcati (la Repubblica, Robinson, 25.03.2018)
Che cosa resta della grande lezione di Freud? Cosa resiste della esperienza sovversiva dell’inconscio? Cosa della grande rivoluzione culturale rappresentata dalla psicoanalisi è destinato a non essere cancellato? Il progresso delle neuroscienze, l’affermazione delle psicoterapie cognitivo-comportamentali, la potenza chimica dello psicofarmaco, la promessa di terapie brevi ed efficaci centrate sul cosiddetto “ sintomo bersaglio”, sembra abbiamo messo definitivamente all’angolo la psicoanalisi riducendola a uno spettro condannato a circolare solo nel museo delle cere del Novecento. Lo si grida da più parti e ormai da molto tempo: la psicoanalisi è morta, le sue categorie teoriche irrimediabilmente compromesse da un irrazionalismo di fondo che rifiuta di confrontarsi con la valutazione scientifica, la sua efficacia terapeutica dubbia, la proverbiale lunghezza delle sue cure assolutamente sfasata rispetto al ritmo performativo richiesto dallo spirito del nostro tempo e indice di una fumisteria epistemologica e clinica priva di fondamenti.
Perché allora dovremmo insistere nel difendere tenacemente l’invenzione di Freud? Il nucleo di questa invenzione è etico prima che terapeutico. Se il Novecento è stato il secolo del sacrificio della singolarità schiacciata sotto il peso inumano dell’universale ideologico della Causa, la teoria e la pratica della psicoanalisi, sin dalla sua origine, si è posta al servizio del carattere insacrificabile della singolarità. Non certamente della natura borghese dell’Io o dell’individualismo liberista, ma di quella singolarità assai più ampia che sconfina in zone dell’essere che eccedono la coscienza e la sua illusione (cartesiana) di padronanza. La singolarità irregolare e anarchica dell’inconscio impone infatti di ripensare innanzitutto il concetto stesso di identità. Certamente questo riguarda la sessualità umana che
Freud rivela essere sempre parzialmente contaminata da quella infantile e pregenitale come se non esistesse una sessualità cosiddetta “matura”, “genitale”, perché essa vive e si nutre di fantasmi che provengono dalle esperienze infantili del corpo pulsionale.
Ma la prima vera e grande sovversione etica imposta da Freud è quella che ci costringe a modificare la nostra ordinaria concezione della malattia e della sofferenza psichica. Questo è un contributo ancora attualissimo e nevralgico della psicoanalisi: l’eccessivo compattamento identitario del soggetto non è una virtù da salvaguardare, ma è la vera malattia da curare. La divisione multipla interna al soggetto - tra coscienza, preconscio e inconscio, tra Es, Io e Super- io - ci costringe infatti a ridisegnare la nostra idea della vita umana. L’Io non è mai padrone in casa propria: l’alterità non è innanzitutto esperienza dello straniero che viene dal di fuori, ma del nostro stesso essere, della nostra più propria intimità.
L’inconscio freudiano è infatti “uno stato nello stato” - un “territorio straniero interno” - che obbedisce a una legislazione che eccede radicalmente quella che governa il funzionamento normativo dell’Io. Nei sogni, nelle nostre più quotidiane sbadataggini, nei lapsus, nei sintomi di una singolarità eccedente l’Io parla, manifesta la propria voce dissonante disturbando il funzionamento diurno della coscienza e del pensiero. Ne deriva, appunto, un’inedita concezione della malattia e della sofferenza psichica che scaturirebbe non tanto da una assenza o da una debolezza dell’Io, ma da una sua postura troppo rigida, da una mancanza di democrazia interna che vorrebbe escludere la voce dell’inconscio dal parlamento interno del soggetto. Se queste procedure egoico-narcisistiche di esclusione si rafforzano, se il soggetto persegue una rappresentazione solo ideale di sé stesso finalizzata a scongiurare l’esistenza di quelle parti di sé giudicate “incompatibili” con questo stesso Ideale, la vita si atrofizza e si ammala. È un principio clinico che riguarda tanto la vita individuale quanto quella collettiva: i confini che disegnano la nostra identità devono essere plastici, capaci più di integrare lo straniero interno che di scindere e segregare. La psicoanalisi incoraggia una politica anti-segregativa.
La prima grande lezione etica della psicoanalisi consiste nel favorire una concezione indebolita della soggettività che consenta il transito e l’apertura in alternativa a ogni sua illusione identitaria di padronanza che finisce per irrigidire i propri confini contribuendo alla loro chiusura.
Quale è il volto dello straniero che si tratta di accogliere? Innanzitutto quello del desiderio che esprime la dimensione radicalmente insacrificabile della singolarità. Si tratta di un’altra grande e ardita scommessa della psicoanalisi: non contrapporre la ragione al desiderio - come la luce all’ombra - ma fare della “ voce del desiderio” la voce stessa della ragione. È questo un punto nevralgico presente nel pensiero di Freud, ripreso con forza da Lacan: non solo la vita si ammala per un eccesso di solidificazione dell’identità, ma anche quando essa volta le spalle alla chiamata del desiderio, quando tradisce la sua attitudine, la sua vocazione, il suo talento fondamentale. Questo desiderio - assimilato kantianamente da Freud alla “voce della ragione” - non può essere normalizzato, irreggimentato, assoggettato da nessun principio, compreso quello di realtà. La difesa della singolarità comporta l’opzione per un pensiero laico, anti-dogmatico, anti-fondamentalista, critico nei confronti di ogni tentativo di assimilazione del singolare nelle procedure anonime dell’universale.
È il tratto, se si vuole, irriducibilmente “ femminista” della psicoanalisi: la cura è cura per il particolare, per la sua differenza assoluta, per l’incomparabile, per la vita non nel suo statuto generico e biologico ma nel suo nome proprio, nel suo volto unico e irriproducibile. Questo comporta un attrito fatale nei confronti di tutte le pratiche di normalizzazione autoritaria e di medicalizzazione disciplinare della vita. La vita del desiderio - la vita della singolarità - è sempre vita storta, difforme, deviante, bizzarra, anomala.
La psicoanalisi opta per l’accoglienza di questo “straniero interno” come condizione di possibilità per l’accoglienza della vita in tutte le sue forme più divergenti. Essa contrasta politicamente ogni conformismo del pensiero, ogni attitudine all’adattamento passivo, ogni ideale moralistico di normalità. Non esiste infatti mai un “rapporto giusto col reale”, affermava Lacan. Ciascuno ha il compito di trovare la propria misura della felicità.
La psicoanalisi è una teoria critica della società: il potere che impone una misura unica della felicità diviene necessariamente totalitario. La sua vocazione è antifascista nel senso più radicale e militante del termine: veglia affinché la tentazione autoritaria che spinge l’uomo verso il padrone o verso il suo carnefice che promette la tutela autoritaria da ogni rischio che la libertà della vita fatalmente impone, sia avvistata per tempo.
La psicoanalisi svela che esiste nell’uomo una tendenza pulsionale ad amare più le catene della propria libertà, a disfarsi del proprio desiderio, a consegnarsi nelle mani di una autorità che, in cambio della cessione della propria libertà, assicurerebbe la protezione della vita. È la dimensione “fascista” della psicologia delle masse che costituisce un grande capitolo della ricerca sociale e politica della psicoanalisi oggi più che mai attuale.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Sulla spiaggia. Di fronte al mare...
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana .....
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. FACHINELLI, "SU FREUD".
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), IL CATTOLICISMO ("DEUS CARITAS EST"), LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA FILOSOFIA HEGELIANA (MARX), E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE .... *
Filosofi? Solo nel weekend
Relazioni. Il rapporto dialettico tra servo e signore, evocato da Hegel e analizzato da Kojève, chiama gli intellettuali all’impegno fuori dai loro circoli chiusi. Ma forse i pensieri più originali sono invece frutto dell’ozio, dei momenti in cui ci si distacca dalle preoccupazioni mondane
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 25.03.2018)
«È stato terribile. Alla conferenza si sono presentati più di 300 giovani, si è dovuto cambiare sala, e ciò nonostante la gente era seduta per terra. Se si pensa che una cosa del genere capita solo per le conferenze di Sartre!». Gli inizi erano stati ben diversi. «E sì che quando ho iniziato a parlare all’École (l’École Pratique des Hautes Études, una delle grandi istituzioni francesi, ndr ) erano presenti a malapena una dozzina di persone!». Ma che dozzina: in quell’auletta si confondevano, tra occhiali rotondi, odore di lacca e colletti inamidati, con tutto il loro bagaglio di piccole perfidie e grandi idee, Jacques Lacan e Hannah Arendt, Raymond Queneau e Raymond Aron, Maurice Merleau-Ponty ed Eric Weil, George Bataille e Roger Caillois, e forse anche André Breton e Leo Strauss. Figure eccentriche, in quel momento, quasi tutti giovani, in fuga da qualcosa o da sé stessi, ma destinati a ben altro futuro. Le lezioni erano estenuanti - «il corso mi ha sfinito, annientato, ucciso dieci volte», scriveva Bataille - un commento pressoché infinito di alcune pagine di uno dei testi in assoluto più difficili mai scritti, la Fenomenologia dello Spirito di Hegel.
A officiare, in un rito che si sarebbe rinnovato ogni settimana per sei anni (dal 1933 al 1939), era Alexandre Kojève, un giovane emigrato russo nato nel 1902, esule in fuga dalla rivoluzione bolscevica, ma forse una spia dei servizi segreti sovietici, nipote di Vasilij Kandinskij, seduttore implacabile - di lui si è detto tutto e il contrario di tutto -, senza dubbio il signore assoluto della scena filosofica parigina.
A questo gruppo, davvero inimitabile, è dedicato il bel saggio di Massimo Palma, appena pubblicato da Castelvecchi, Foto di gruppo con servo e signore.
Più precisamente, tutto girava intorno a poche pagine. Pagine oscure, astruse, a volte incomprensibili; ridicole e tragiche allo stesso tempo: così come ridicola e tragica allo stesso tempo è la vita degli esseri umani, che era poi il tema di fondo di quelle lezioni e di quel libro. Si raccontava il viaggio della coscienza (che poi saremmo noi) in cerca del significato della propria esistenza, di un posto nell’universo, e del bisogno di essere riconosciuti: perché in un mondo senza più Dio, senza più un Dio che ci osserva, è solo così, vale a dire nel riconoscimento reciproco, che potremo dire di essere vissuti realmente.
Diversamente è la natura che si ripete eternamente identica a sé stessa, bellissima ma silenziosa, indifferente, estranea: «Senza alcun dubbio la singola mosca muore, ma queste mosche qui sono le stesse dell’anno passato. Quelle dell’anno passato sono forse morte? Può essere, ma nulla è scomparso. Le mosche restano uguali a sé stesse come le onde del mare» (Bataille). Non basta, non può bastare. La storia nasce come negazione di questa unità indistinta della natura, quando questi esseri inquieti che sono gli uomini iniziano la loro battaglia contro l’angoscia del nulla, alla ricerca di sé stessi, per dimostrare che non siamo qui per caso, come mosche o foglie.
Per questo cerchiamo gli altri, ne abbiamo bisogno, come di uno specchio che rifletta e ci riveli nella nostra inimitabile specificità, nel nostro valore. «La realtà umana è sempre sociale», scrive Kojève, l’uomo è l’animale politico: solo gli dèi e le bestie vivono da soli; «l’uomo reale e vero è il risultato della sua interazione con altri». Il problema, però, è che questo desiderio di riconoscimento è sempre foriero di conflitti e tensioni: la mia affermazione, il riconoscimento della mia importanza, passa per la negazione dell’altro. È la dialettica tra servo e padrone, il cuore della Fenomenologia: solo chi osa, chi è pronto a mettere tutto in discussione, potrà affermarsi. «Conflitto è padre di tutte le cose, e alcuni li fa liberi altri schiavi»: persino l’oscuro Eraclito diventava chiaro grazie a Hegel e Kojève. Con una sorpresa finale, un’inversione paradossale dei ruoli: il padrone, affidando tutto al suo sottoposto, finisce per dipendere da lui, che in questo modo scoprirà la sua forza, prendendo il sopravvento. E via di seguito, di rovesciamento in rovesciamento: così procede la storia, quando i vinti rialzano la testa.
Teorie astruse? Forse, ma non prive di una loro attualità. Perché in fondo trasmettevano un insegnamento molto semplice: che non esistono anime belle, che quello che siamo dipende dal rapporto che costruiremo con gli altri, dalla determinazione con cui affronteremo le sfide della vita. Solo agendo, esponendosi al rischio dell’insuccesso (della morte, scriveva Hegel), si può sperare di realizzare qualcosa.
Era anche una critica sferzante agli intellettuali, chiusi nei loro giardini e nelle loro parrocchie, sempre intenti a discutere tra loro: schiavi dunque dei loro pregiudizi così come la tanto vituperata folla dei non iniziati lo è dei propri; e per questo incapaci di comprendere la realtà che li circonda; destinati a essere superati dal corso degli eventi. Niente male come lezione, mentre le truppe naziste si apprestavano a marciare su Parigi.
Poi tutto era cambiato. Sempre funambolico, ma in fondo coerente con le sue idee, dopo la guerra Kojève aveva repentinamente abbandonato il mondo accademico, entrando nell’amministrazione, al ministero degli Affari economici, dove divenne in breve tempo un’eminenza grigia della politica commerciale francese, invincibile nelle negoziazioni internazionali («quando le altre delegazioni vedevano arrivare Kojève, e in special modo se lo vedevano arrivare solo, era il panico», ricordò dopo la sua morte un funzionario che gli era stato collega per anni). Sembrava il Talete di cui aveva parlato Platone, quello che cade nel pozzo perché assorto nella contemplazione del cielo. Si era rivelato come il Talete di Aristotele, che, grazie alla conoscenza del cielo e dei fenomeni atmosferici, aveva preso il controllo di tutti i frantoi, «dimostrando che per i filosofi avere successo è veramente facile - se solo lo vogliono». Per la filosofia non restava ormai che il fine settimana: e «filosofo della domenica» Kojève sarebbe diventato per tutti, secondo la folgorante definizione di Raymond Queneau.
Del resto - e questo è l’ultimo paradosso di un pensatore che viveva di paradossi - è in fondo proprio la domenica il giorno decisivo, quando finalmente ci si ferma e la cosa più importante forse si rivela. La saggezza, la serenità raggiunta. L’avevano inseguita tutti, la trovò forse il solo Queneau, tra tutti l’allievo più imprevedibile, lo scrittore capace di esprimere la filosofia del maestro in forma di romanzi (ed è a lui che si deve tra l’altro la trascrizione e pubblicazione dei corsi all’École Pratique - e dunque la creazione del mito di Kojève). E se tutto questo affannarsi nelle azioni e questo correre dietro alle parole non portasse da nessuna parte? E se la saggezza non fosse altro che la capacità di sorridere dello spettacolo d’arte varia (questo è Paolo Conte) e strampalata che sono gli uomini e le loro vite? Né servi né padroni, senza bisogno di essere riconosciuti o di riconoscere?
Lo aveva ammesso persino il grande Hegel, in un momento di rara lucidità: «In questa sfrenatezza priva di preoccupazioni è implicito il momento ideale: è la domenica della vita, che tutto uguaglia e che allontana ogni cattiveria; persone che sono così cordialmente di buon umore non possono essere del tutto cattive o basse». Anche Kojève alla fine gli aveva dato ragione: «Queneau ha riassunto la Fenomenologia dello Spirito scrivendo Zazie nel metro. Zazie era venuta a Parigi per vedere la metropolitana. Ma la sola volta in cui ci andò, s’addormentò e non vide nulla. Ecco il romanzo della saggezza». Se fosse proprio così, e tutto qui? I pensieri più impertinenti vengono quando si ozia - di domenica, insomma - e forse sono i migliori.
O forse non è così, e neppure questa soddisfazione - una «negatività senza impiego», diceva Bataille - riuscirà a placare l’ansia tutta umana di agire, combattere, costruire? La mosca non smette di ronzare, disturbando il pensiero; la storia continua...
La rivoluzione fuma l’oppio
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, La Lettura, 25.03.2018)
Se si guarda in faccia la crisi del pensiero rivoluzionario senza cercare scuse consolatorie, l’unica alternativa alla rassegnazione è la riscoperta della dimensione religiosa. Semplificando al massimo, si può riassumere così la densa riflessione che Romano Màdera, filosofo e psicoanalista, ha premesso alla riedizione del suo saggio Identità e feticismo del 1977, riposto ora con altri scritti dalle edizioni Mimesis con il titolo Sconfitta e utopia (pp. 236, e 20). La prospettiva millenaristica indicata da Karl Marx, nota Màdera, non discende affatto dalla sua pur lucida descrizione del capitalismo. Può quindi ritrovare un senso solo se reinnestata nel solco della tradizione giudaico-cristiana e indirizzata verso una «riforma della spiritualità mondiale». Che rivincita, per l’«oppio del popolo».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
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PER LA CRITICA DEL CAPITALISMO E DELLA SUA TEOLOGIA "MAMMONICA" (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006).
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
E’ MEZZOGIORNO... L’ ORA DEI VAMPIRI
di PAOLO MAURI (la Repubblica, 14 ottobre 1988)
SE AI TEMPI di Cenerentola non ci fosse stato l’orologio, un orologio in grado di battere le ore, di renderle esplicite per tutti, a mezzanotte non sarebbe successo proprio nulla. Perché il prodigio si compia, infatti, è necessario che scocchi l’ora fatidica, cioè che un segnale particolare la renda reale e sia pure relativamente ad un luogo e ad una comunità universale. L’ora fatidica dei fantasmi e dei vampiri non viene dunque, come comunemente si crede, da molto lontano: è un effetto speciale legato alla misurazione del tempo, una certezza tutto sommato abbastanza moderna.
Anticamente, cioè prima dell’ orologio, la scansione del giorno riguardava soprattutto le ore di luce, con un momento privilegiato: il mezzogiorno. Per quanto oggi possa apparire incredibile, fu proprio il mezzogiorno l’ ora fatidica dei prodigi e dei fantasmi, dei vampiri e dei demoni, delle apparizioni misteriose e del manifestarsi della follia. Il parallelo mezzanotte-mezzogiorno ci dice intanto una cosa fondamentale: che l’uomo ha bisogno di segnare nettamente i confini tra il regno della normalità e quello soprannaturale; colonne d’Ercole mentali, le ore fatidiche segnano il punto di passaggio tra ciò che si conosce e ciò che si teme, perché ignoto e quindi insieme terrifico e fascinoso.
E’ facile intuire perché l’uomo antico scegliesse il mezzogiorno come ora fatidica: intanto era un’ora riconoscibile anche a occhio e determinabile con una certa precisione, badando ad alcuni fenomeni alla portata di tutti. Il sole raggiunge il punto massimo nel cielo e le ombre sulla terra si accorciano fino a scomparire: una sorta di orologio rudimentale, lo gnomone, consiste proprio di un’asta che proiettando un’ombra consente di verificare l’ ora meridiana.
Proprio a I demoni meridiani dedicò uno studio, poco oltre la metà degli anni Trenta, Roger Caillois, ancora oggi ben noto e presente per i suoi lavori sul sacro e sul mito, nonché per le sue teorie sul gioco.
Era un momento delicato, in Europa, per dare spazio all’ irrazionale; e giustamente Carlo Ossola, che ha provveduto oggi a trasformare quello studio disperso in un libretto che esce tra pochi giorni (I demoni meridiani, Bollati Boringhieri, pagg. 128, lire 20.000) si sofferma nell’ introduzione sul clima culturale del tempo e sulle intenzioni del Collège de Sociologie dove Roger Caillois si trovava ad operare.
Il programma di Caillois (e naturalmente del Collège de Sociologie) è assai complesso: si tratta di illuminare i comportamenti degli uomini (anzi dell’ intero regno animale) attraverso i miti, che ne sono una rappresentazione. Devo qui, necessariamente, prendere una scorciatoia, non potendo (come fa Ossola nella sua introduzione) ricapitolare i principali passaggi di un’operazione culturale fascinosa e rischiosa insieme. Non appena il mito tocca il contemporaneo, l’analisi cede il posto alla volontà di fare. La passione di fare diventa bruciante.
Quando, dopo essersi occupato dei demoni meridiani, Caillois si mise a studiare il moderno mito di Parigi, con tutti i suoi corollari di superamento della mediocrità borghese verso una divina (o diabolica) volontà di potenza, il reale (in questo caso il nazismo) ha già fatto largo uso dell’irrazionale per porre le basi del suo progetto di dominio.
Sarà Marcel Mauss ad avvertire gli studiosi del Collège che stanno rischiando grosso: credo che siate tutti in questo momento sbandati, probabilmente sotto l’influsso di Heidegger, bergsoniano attardato nell’ hitlerismo, che legittima l’hitlerismo invasato d’ irrazionalismo....
Di fronte all’hitlerismo, inaccettabile perché razzista, Caillois fa marcia indietro, ed è probabilmente questo uno dei motivi per cui il suo studio sui demoni meridiani non venne da lui più tardi recuperato. Non tanto perché in esso trattasse questioni immediatamente pericolose: in fondo si tratta di una eruditissima ricognizione rivolta al recupero di una dimensione trascurata eppure anticamente assai attiva, ma soprattutto perché in esso stavano due chiavi comportamentali che potevano tranquillamente essere resuscitate anche nell’Europa moderna.
Da un lato, infatti, l’ora meridiana è l’ora dell’acedia, una forma di depressione, di taedium vitae, di spaesamento, che colpisce si tramanda i monaci e gli anacoreti del deserto portandoli a ripudiare il proprio essere monaci, a non capire più, o addirittura a non sopportare più, la propria condizione. L’acedia è la perdita del sacro.
D’ altra parte, a far da contraltare alla passività indotta dall’acedia, c’è la volontà di potenza e di immortalità favorita dall’ allucinazione che il calore meridiano provoca. Nella sua ambiguità la potenza del sole distrugge e feconda, sconfigge i deboli ed esalta, in senso proprio, i forti. C’ è dunque un messaggio di morte e contemporaneamente un accredito vitale nell’ ora fatidica.
Caillois ripercorre passo passo le situazioni topiche dell’ora meridiana: ora centrale del giorno che divideva in due zone ben distinte le cose lecite (o favorevoli) da quelle illecite. Racconta Plutarco, per esempio, che nessun condottiero romano avrebbe mai firmato un trattato o un atto importante dopo mezzogiorno. Sotto altri cieli (in Messico, presso gli aztechi) il mezzogiorno era un’ ora privilegiata per i sacrifici ed è sempre a mezzogiorno che le divinità si manifestano. Caillois ricorda che Pan, il più importante dio dell’Arcadia, era solito comparire appunto a mezzogiorno.
LA LETTURA del lavoro di Caillois mi ha fatto venire in mente un’ altra remota lettura, il libretto di Franz Altheim dedicato al cristianesimo e ai culti solari: si intitolava Il dio invitto e in Italia lo tradusse nel 1960 Feltrinelli. Anche il cristianesimo, che pure ha molto contribuito ad attribuire la luce al bene e le tenebre al male, ha le sue implicazioni con il sole e con i culti solari.
Risfogliandolo dopo tanto tempo ho letto che Costantino ebbe la visione della croce all’ ora meridiana del sole e che alla stessa ora la sua anima salì al cielo. Dunque il mezzogiorno è anche (o meglio soprattutto) l’ora dei morti, non fosse altro che per il fatto dell’ accorciamento e scomparsa dell’ ombra, che presso alcuni rappresentava l’ anima. (L’avventura di Peter Schlemihl ha dunque radici assai remote). L’ora dei morti (seguo sempre Caillois) era riservata alle libagioni in onore dei morti: anche in Sofocle è mezzogiorno quando Antigone viene ad offrire il sacrificio per il fratello. Di qui la credenza, abbastanza diffusa, che si trattasse di un’ora sacra e quindi pericolosa: nei templi si tiravano le tende a quell’ ora fatale, bambini e donne erano invitati a non uscire di casa e i morti senza pace ne approfittavano per manifestarsi. Particolarmente nutrita quest’ultima categoria, come attestano numerose fonti: la guardia forestale con la testa sotto il braccio, il cavaliere senza testa che è stato impiccato, l’uomo senza testa attorniato dai cani... Anche il cadavere che non ha ricevuto gli onori funebri appare a mezzogiorno: lo ricorda anche Stazio nella Tebaide.
Ancora: mezzogiorno è l’ ora della malia incantatrice. L’autore si rifà qui alla leggenda delle sirene, già nell’antichità messe in relazione con Sirio, la stella più brillante del Cane, foriera di spossatezza, di lascivia e quindi di mortale abbandono. Si mescolano qui due temi di lunga durata: il piacere e la morte, sicché s’introduce l’elemento sessuale, nella doppia accezione della fecondazione e dell’ abbandono ai sensi.
MA IL VIAGGIO non è finito: ancora molte sorprese attendono il lettore, che verrà condotto, nell’ora accidiosa della calura, a spiare i pastori emuli di Pan (o Pan ricalcato sulle abitudini lascive dei pastori); sfinito dal canto delle cicale, già immortalate da Platone; sbarcato nella pericolosa terra dei lotofagi, dove le sirene, che reggono un loto, ritornano, quasi a chiudere il cerchio dell’ incantesimo. Si toccheranno, ancora, le spiagge del sonno pericoloso e popolato (in senso classico) di incubi, si toccheranno le soglie della furia allucinata, con l’ apparire delle Ninfe, anch’esse meridiane, protettrici del sacro.
Nella catastrofe finale l’ora fatidica e terrifica sarà ulteriormente gravida di eventi eccezionali: è il terremoto di mezzogiorno, l’oscuramento del sole. Non c’ è bisogno, per questo, di allontanarsi troppo da testi assai noti anche oggi: non è forse il sacrificio di Cristo, consumato tra mezzogiorno e le tre, annunciato da un oscuramento e da un terremoto? A mezzogiorno appaiono gli angeli ad Abramo per annunciargli la nascita di Isacco; a mezzogiorno Giovanna d’ Arco sente le voci; la tradizione ebraica racconta il demone di mezzogiorno come un mostro fatto di scaglie e di capelli, con un occhio solo situato a livello del cuore.
Che il fascino un po’ morboso e misterioso delle ore della massima calura non sia finito con gli antichi, lo testimonia molta letteratura a noi vicina. Caillois aveva sottomano, allora, un romanzo di Paul Bourget, Le démon de midi, ma ben prima di lui Montale s’ era cimentato col sole che abbaglia, nell’ accidia del meriggiare che lo induce a riflettere con triste meraviglia sul significato del vivere; e come non ricordare, pescando un esempio a caso tra quanti vengono alla mente, l’ora della calura, con i suoi corollari di sonno, sesso e indolenza propiziata dal frinire delle cicale, nel film di Tavernier, Una domenica in campagna? Per dire, in buona sostanza, che il viaggio nel sole non è certo finito, ma anche che certi miti bisogna guardarli di traverso e non cedere, supini, al loro culto. La storia ha già dimostrato, meglio della medicina, come siano nefasti certi colpi di sole.
Archivio "la Repubblica", 14 ottobre 1988.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
DELLO SPIRITO DI ALEXANDRE KOJÈVE (Mosca 1902 - Parigi 1968). PORTARE LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DI "DUE IO" AL DI LA’ DELLE MAGLIE DELLA DIALETTICA HEGELIANA.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Karl Löwith
Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche
di Maurizio Schoepflin (Il foglio, 21 Marzo 2018) *
Che cosa è successo alla filosofia nei quattro secoli che separano la nascita di Cartesio dalla morte di Nietzsche? Si tratta di una domanda tanto difficile quanto importante per comprendere un periodo decisivo della storia del pensiero occidentale che ha lasciato all’epoca contemporanea un’eredità drammaticamente complessa.
Si può considerare una fortuna che a rispondere a questo interrogativo ci abbia pensato, tra gli altri, uno studioso del calibro di Karl Löwith, le cui teorie interpretative sono sicuramente opinabili ma non certo trascurabili, essendo egli, che nacque a Monaco di Baviera nel 1897 e morì a Heidelberg nel 1973 e fu allievo di Husserl e di Heidegger, una delle voci più interessanti della filosofia novecentesca.
La risposta löwithiana è contenuta in un denso lavoro, del quale recentemente Orlando Franceschelli ha tradotto e curato per la prima volta l’edizione italiana della versione definitiva risalente al 1967. E proprio nel titolo stesso del libro - Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio e Nietzsche - è contenuta una parte significativa di ciò che l’autore vuol dire al lettore, ovvero che per cercare di comprendere l’evoluzione del pensiero moderno bisogna indagarne la componente metafisica, quella che, come ha insegnato Immanuel Kant, ha al centro proprio Dio, l’uomo e il mondo.
A giudizio di Löwith, il pensiero metafisico della modernità è caratterizzato dalla “caduta di Dio”, un evento dal quale il sapere filosofico è rimasto gravemente vulnerato, tanto da non essere in grado di fare a meno del creazionismo e dell’antropocentrismo di ascendenza biblica e da concludere la sua corsa nel devastante nichilismo di Max Stirner.
Secondo Löwith, tuttavia, nell’epoca moderna ha preso forma anche un altro percorso che, pur prendendo atto della fine della metafisica tradizionale, non ha finito per incagliarsi nelle secche del nulla: tale percorso ha avuto come guide Feuerbach, Nietzsche e Spinoza.
Il primo sarebbe stato il maestro di un’antropologia naturalistica non più bisognosa di una divinità creatrice, il secondo avrebbe sconfitto sia Dio che il nulla rinunciando, come afferma Franceschelli, “a tutti i retromondi metafisici e alle speranze sovrannaturali”, il terzo si presenterebbe come colui che, liberandosi dall’antropocentrismo e dal finalismo, sarebbe riuscito a fare a meno del creazionismo biblico.
Interpretato in questi termini, il testo di Löwith diventa una specie di manuale contenente le istruzioni per un saggio svezzamento dall’eredità teologica, nel quale giocano un ruolo decisivo una concezione naturalistica del mondo e una buona dose di scettico disincanto.
Il mezzo secolo che ci separa dalla pubblicazione di questo bel libro ci dice che non tutto è andato “tranquillamente” nella direzione auspicata da Karl Löwith.
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Karl Löwith,
DIO, UOMO E MONDO NELLA METAFISICA DA CARTESIO A NIETZSCHE,
a cura di O. Franceschelli, Donzelli, 200 pp., 23 euro.
USCIAMO DAL SILENZIO: UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE. Basta - con la connivenza all’ordine simbolico della madre!!!
Sana rivolta verso una sessualità miserrima
Habemus Corpus. Un appunto e una considerazione sulle parole di Papa Francesco sulla prostituzione
di Mariangela Mianiti (il manifesto, 20.03.2018)
«Chi va con le prostitute è un criminale. Questo non è fare l’amore, questo è torturare una donna. È uno schifo! Alcuni governi cercano di fare pagare multe ai clienti. Ma il problema è grave, grave, grave. E qui in Italia, parlando di clienti, è verosimile che il 90% siano battezzati, cattolici. Vorrei che voi giovani lottaste per questo. Se un giovane ha questa abitudine la tagli. La tratta e la prostituzione sono crimini contro l’umanità, delitti che nascono da una mentalità malata secondo cui la donna va sfruttata».
Così ha parlato Papa Francesco, ieri, durante il colloquio con i giovani nella riunione pre-Sinodo al pontificio collegio internazionale Maria Mater Ecclesiae di Roma. Più chiaro di così non poteva essere e questo vale sia per chi sogna di cancellare la legge Merlin, sia per chi vorrebbe regolamentare la prostituzione, magari copiando la legge approvata in Germania nel 2002 dal governo guidato dal socialdemocratico Gerhard Shröder. Tuttavia, a Francesco è scappata una frase piuttosto infelice quando ha detto: «Non c’è femminismo che sia riuscito a togliere questa mentalità dalla coscienza maschile, dall’immaginario collettivo».
Benché io sia atea, stimo questo Papa che in tanti ritengono ormai l’unico in Italia, e non solo, a dire cose di sinistra, laddove per sinistra si intende ragionare in termini di bene comune e non solo di interesse individuale. Proprio in virtù di questa stima, mi permetto di sottolineare che, se la prostituzione è così viva e vegeta, non è per debolezza del femminismo. Non sono state le donne ad avere inventato, introdotto e alimentato la pratica del sesso a pagamento, ma gli uomini. Sono gli uomini che hanno incrementato, e incrementano, la domanda.
Sono gli uomini a volere pagare per avere a disposizione dei pezzi di corpo femminile. Ora, dire che nessuna forma di femminismo è mai riuscita a sradicare questa mentalità, è un po’ come affermare che le donne, nonostante ci abbiano provato, non sono riuscite a eliminare il problema della prostituzione. Qui bisogna fare un appunto e una considerazione.
L’appunto. Visto che il commercio del sesso esiste perché esiste una domanda maschile, perché dovrebbero essere le donne a farsi carico di tutto il lavoro di rieducazione e lotta? Perché non si chiede agli uomini di farsi un esame di coscienza sul perché hanno bisogno di pagare una donna per poter infilare il loro pene in un orifizio? Per quale ragione il maschio non deve interrogarsi sulla sua idea di desiderio, eros, piacere? Perché non si domanda, e non gli si domanda, dove mai stia la soddisfazione nel comprare sesso? E poi, che cosa sanno del proprio corpo? Che cosa capiscono del corpo altrui? Provano, sentono qualcosa? O sono solo dei poveracci in cerca di un contenitore eiaculatorio?
Se è così, come è molto probabile, gli uomini che pagano per avere sesso soffrono di una malattia gravissima che si chiama Miseria Sessuale.
La considerazione. Nel suo libro Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi e nella sua intervista concessa di recente a Caterina Peroni per il blog Studi sulla questione criminale, Ida Dominijanni spiega molto bene come il movimento #MeToo, e prima ancora le denunce delle escort contro Berlusconi, abbiano svelato un dispositivo sessuale poverissimo, lo scambio di potere per briciole di sesso, che il «fare sesso adesso è proprio un fare, è un fare una cosa, è molto neoliberale, un’attività!», e come «dal MeToo trapeli una sana rivolta contro una sessualità miserrima». Caro Francesco, il femminismo è vivo, vegeto e lotta. Sono certi maschi a essere molto arretrati.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta ... sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
N. Fraser, Scales of Justice. Reimagining Political Space in a Globalizing World, Polity Press, Cambridge (UK) 2008, pp. 224, ISBN 978-07456-4486-8 *
di Brunella Casalini (Jura Gentium. Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale)
Giocando sulla plurivocità semantica del termine inglese "scales", con il titolo Scales of Justice Nancy Fraser evoca due immagini: la bilancia come simbolo classico della capacità della giustizia di agire in modo imparziale e lo spazio cui necessariamente deve far riferimento qualsiasi teoria della giustizia. Sia il concetto di imparzialità sia la dimensione spaziale della giustizia sono oggi oggetto di una contestazione radicale. La contrapposizione tra paradigma redistributivo e paradigma del riconoscimento si è mossa oltre la problematica della risoluzione equa dello scontro tra rivendicazioni conflittuali; è infatti la sostanza stessa dell’idea di giustizia ad essere messa in discussione da coloro che si dividono sulla priorità di redistribuzione e riconoscimento, presentandole come istanze incommensurabili che non possono trovare risposta semplicemente pesandole sulla stessa bilancia.
Una teoria della giustizia che tenga conto delle diverse concezioni sostantive della giustizia oggi presenti nel dibattito politico, qualora ritenga che ciascuna di esse colga aspetti importanti e diversi del fenomeno dell’ingiustizia, secondo la Fraser, deve rispondere a due sfide: la prima consiste nel vedere cosa possa essere salvato dell’ideale dell’imparzialità e come esso possa essere riformulato, la seconda nel decidere contestualmente, accettando l’esistenza di una pluralità di prospettive, a quale visione della giustizia dare di volta in volta maggiore attenzione.
Da Justice Interruptus (1997) all’acceso confronto con Axel Honneth, contenuto in Recognition or Redistribution?, la Fraser ha tentato di superare la contrapposizione tra paradigma del riconoscimento e paradigma redistributivo, mediante due operazioni principali: 1) una teorizzazione del riconoscimento incentrata sulla differenza di status, che tende a separare la politica del riconoscimento dalla politica dell’identità, e a vedere nel mancato riconoscimento un’ingiustizia, un impedimento alla parità partecipativa, e non un ostacolo all’autorealizzazione e una ferita psichica (come nei modelli di Honneth e Taylor); e 2) la formulazione di un dualismo di prospettiva capace di cogliere analiticamente tanto le dinamiche di esclusione connesse alle caratteristiche intrinseche del sistema economico capitalistico quanto quelle legate al sistema simbolico-culturale, così da poter proporre soluzioni di volta in volta diverse a seconda delle specifiche condizioni di particolari gruppi sociali e dei presupposti necessari a garantire la parità partecipativa.
Accusata di aver dimenticato il ruolo autonomo della sfera politico-giuridica e l’importanza delle discriminazioni che avvengono sul piano prettamente giuridico e politico, a cominciare dal saggio Redefining Justice in a Globalizing World (2005, qui ripubblicato), Nancy Fraser ha posto accanto alla dimensione culturale del riconoscimento e alla dimensione economica della redistribuzione, una terza dimensione specificamente politica: la dimensione della rappresentanza.
Il criterio della rappresentanza risponde a una questione decisiva oggi nei dibattiti intorno alle diverse teorie della giustizia, dibattiti che non vertono più sul "che cosa" la giustizia deve riconoscere, ma sempre più su "a chi" deve riconoscerlo, su quali sono e come si determinano i confini della comunità cui una teoria della giustizia intende applicarsi.
La theory of justice as parity of participation della Fraser viene così a configurarsi come una teoria tridimensionale, che costituisce una sorta di ripresa e revisione della triade weberiana di classe, status e partito - cui, del resto, l’autrice esplicitamente si è richiamata fin dall’inizio nella sua ridefinizione del paradigma del riconoscimento.
L’aggiunta della terza dimensione appare inscindibile dall’attenzione per la questione del framing, dell’inquadratura dello spazio entro cui si pongono problemi di giustizia. In un contesto post-socialista, post-fordista e soprattutto post-westphaliano le ingiustizie sono insieme incentrate su questioni di misrecognition, misredistribution e misframing. Distribuzione e riconoscimento potevano essere considerate come le due dimensioni cruciali della giustizia finché il quadro di riferimento dello stato-nazione era dato per scontato.
Con la globalizzazione e la contestazione della cornice keynesiano-westphaliana, la dimensione politica emerge come la terza dimensione fondamentale nell’ambito delle teorie della giustizia. Domanda cruciale diviene infatti se la teoria della giustizia debba continuare a muoversi nello spazio della cittadinanza nazionale, se debba divenire cosmopolitica o se debba venire a riguardare le "comunità transnazionali del rischio".
La Fraser si è sentita inizialmente vicina alle posizioni di coloro che - come Iris Marion Young - hanno cercato di arrivare alla formulazione di una concezione transazionale mediante l’individuazione dei soggetti destinatari della giustizia in base al c.d. "all affected principle", ovvero in base ad un principio che fa riferimento alla possibile co-implicazione oggettiva di soggetti anche lontani tra loro in una rete di relazioni causali che può scavalcare i confini nazionali. Ora, Fraser riconosce due limiti a questa soluzione teorica: da un lato, il rimando a reti causali oggettive sembra delegare alle scienze sociali l’individuazione dei soggetti interessati; dall’altro, a causa del paradosso prodotto dal c.d. butterfly principle, per cui siamo tutti influenzati da tutto, rischia di non riuscire a delimitare lo spazio di relazioni sociali rilevanti.
Per ovviare a questi inconvenienti, l’autrice propone quale alternativa il c.d. all subjected principle, in base al quale chi è soggetto ad una data struttura della governance (concepita in senso lato in modo da poter comprendere non solo gli stati, ma anche, per esempio, le organizzazioni non governative e agenzie come il WTO e il IMF), ha diritto ad essere riconosciuto come destinatario di giustizia da parte di quella medesima struttura. Il principio all subjected individua non un unico "chi" destinatario della giustizia, ma una pluralità di "chi" collocati a livello locale, nazionale, regionale e, in alcuni casi, globale.
L’individuazione dei soggetti destinatari della giustizia transazionale può avvenire soltanto lasciando voce alla contestazione e al dialogo ai diversi livelli e creando canali istituzionali formali che consentano di arrivare a decisioni vincolanti. In questa direzione, la Fraser guarda al ruolo che rivestono oggi i movimenti sociali globali: la loro contestazione del quadro westphaliano è insieme un modo per rivendicare il diritto a determinare il "chi" della giustizia e il "come" arrivare alla sua definizione.
Sbagliano tuttavia, secondo la Fraser, i sostenitori delle visioni populiste, à la Negri e Hardt, che collocano il nesso contestazione/decisione nella società civile, perché le formazioni presenti nella società civile non sono da sole capaci di trasformare le loro proposte in decisioni politiche stringenti e perché esse mancano di rappresentatività e democraticità per poter rivendicare il diritto a ridisegnare i confini della giustizia. Una giustizia transnazionale richiede adeguati canali istituzionali che rispondano alla società civile, ma funzionino al tempo stesso secondo eque procedure e un sistema di rappresentanza che ne assicuri il carattere democratico dando legittimità alle decisioni prodotte. I tratti delle nuove sfere pubbliche transnazionali e delle nuove istituzioni democratiche globali rimangono, tuttavia, al momento, estremamente vaghi nel disegno della Fraser, che evita qui, per altro, di confrontarsi criticamente con le istituzioni sovranazionali esistenti, con i loro limiti e le loro possibilità di riforma.
* La bilancia della giustizia. Ripensare lo spazio politico in un mondo globalizzato di Nancy Fraser edito da Pensa Multimedia, 2012
Le contraddizioni sociali del capitalismo
di Nancy Fraser (che fare, 24 marzo 2017
Come il regime liberale prima di esso, così anche l’ordine statal-capitalistico si dissolse nel corso di una crisi prolungata. A partire dagli anni Ottanta, gli osservatori lungimiranti potevano vedere emergere i lineamenti di un nuovo regime, destinato a diventare il capitalismo finanziario dell’epoca presente.
Globale e neoliberale, sta promuovendo tagli pubblici e privati del welfare nello stesso momento in cui recluta le donne nella forza lavoro salariata. Sta dunque scaricando il peso del lavoro di cura sulle famiglie e sulle comunità, mentre diminuisce la loro capacità di svolgerlo. Il risultato è una nuova organizzazione dualistica della riproduzione sociale, mercificata per coloro che possono permettersela e privatizzata per quanti non possono farlo, visto che alcune componenti della seconda categoria forniscono lavoro di cura per coloro che appartengono alla prima in cambio di (bassi) stipendi. Nel frattempo, la combinazione della critica femminista e della deindustrializzazione ha definitivamente privato il “salario familiare” di ogni credibilità. capitalismo
Quell’ideale ha fatto così posto all’attuale e più moderno principio del “doppio reddito familiare”.
Il vettore principale di tali sviluppi e la caratteristica distintiva di questo regime è l’inedita centralità del debito. Il debito è lo strumento con cui le istituzioni finanziarie globali fanno pressione sugli stati affinché taglino la spesa sociale, applichino misure di austerity e, in generale, colludano con gli investitori nell’estrarre valore da popolazioni indifese.
È in larga misura attraverso il debito, inoltre, che i coltivatori del sud del mondo vengono espropriati da una nuova serie di annessioni di suolo da parte di aziende che mirano ad accaparrarsi provviste energetiche, acqua, terra coltivabile ed “emissioni di carbonio”. È sempre più attraverso il debito, inoltre, che l’accumulazione prosegue nel suo centro storico. Così come il lavoro sottopagato e precario nel settore dei servizi sostituisce quello industriale sindacalizzato, i salari scendono al di sotto dei costi socialmente necessari alla riproduzione; in questa “economia del precariato” [“gig economy”], la spesa duratura da parte del consumatore richiede un debito diffuso, che aumenta esponenzialmente.
È sempre più attraverso il debito, in altre parole, che il capitale oggi cannibalizza il lavoro, colpevolizza gli stati, trasferisce ricchezza dalla periferia al centro ed estrae valore dalla sfera domestica, dalle famiglie, dalle comunità e dalla natura.
L’effetto è quello di intensificare le contraddizioni intrinseche al capitalismo tra produzione economica e riproduzione sociale.
Mentre il regime precedente spronava gli stati a subordinare gli interessi a breve termine delle società private all’obiettivo di lungo termine di un’accumulazione duratura, stabilizzando la riproduzione attraverso investimenti pubblici, quello attuale autorizza il capitale finanziario a vincolare gli stati e l’opinione pubblica in funzione degli interessi immediati degli investitori privati, richiedendo anche tagli pubblici alla riproduzione sociale. E mentre il regime precedente aveva sancito un’alleanza tra mercatizzazione e protezione sociale contro l’emancipazione, questo genera uno scenario ancora più perverso, nel quale l’emancipazione si allea con la mercatizzazione per indebolire la protezione sociale.
Il nuovo regime emerse dalla decisiva intersezione di questi due gruppi di lotte. Un gruppo contrappose un partito in ascesa di liberisti, determinati a liberalizzare e globalizzare l’economia capitalistica, contro il movimento operaio in declino nei paesi del centro; la più forte base di sostegno della democrazia sociale di un tempo è oggi sulla difensiva, se non del tutto sconfitta.
L’altro gruppo di lotte contrappose i “nuovi movimenti sociali” progressisti, avversi alle gerarchie di genere, di sesso, “razza”, etnia e religione contro le popolazioni intente a difendere mondi di vita e privilegi consolidati, oggi minacciati dal “cosmopolitismo” della nuova economia. Al di là della collisione di questi due gruppi di lotte, emerse un risultato sorprendente: un neoliberalismo “progressista” che celebra la “diversità”, la meritocrazia e l’“emancipazione” proprio mentre smantella le protezioni sociali ed esternalizza nuovamente la riproduzione sociale. Il risultato non comporta soltanto l’abbandono delle popolazioni indifese alle predazioni del capitale, ma ridefinisce anche l’emancipazione in termini mercatisti.
I movimenti di emancipazione hanno preso parte a questo processo. Tutti, incluso l’anti-razzismo, il multiculturalismo, il movimento di liberazione LGBT e l’ecologismo, hanno dato vita a correnti neoliberali favorevoli al mercato.
La traiettoria femminista si dimostrò tuttavia decisiva più di altre in tale processo, dato il consueto intreccio di questioni di genere e di riproduzione sociale nel capitalismo. Al pari di ogni regime precedente, il capitalismo finanziario istituzionalizza la divisione fra produzione e riproduzione sulla base del genere. A differenza dei precedenti, però, il suo immaginario dominante è liberal-individualista ed egualitario dal punto di vista del genere - le donne sono considerate alla pari degli uomini in ogni sfera, degne di eguali opportunità di realizzare i propri talenti, inclusi - forse soprattutto - quelli nella sfera produttiva. La riproduzione, al contrario, appare un residuo arretrato, un ostacolo al progresso che deve essere estirpato in un modo o nell’altro lungo la strada verso la liberazione.
A dispetto - o forse a causa - della sua aura femminista, questa concezione compendia l’attuale forma della contraddizione sociale del capitalismo, che assume un’inedita intensità.
Non pago di ridurre gli aiuti pubblici mentre recluta le donne nel mondo del lavoro salariato, il capitalismo finanziario ha cioè anche ridotto i salari reali, aumentando il numero di ore di lavoro casalingo pagato necessario a supportare una famiglia e inducendo a fare i salti mortali per trasferire su altri il lavoro di cura.
Per colmare il “vuoto di cura” [care gap], il regime importa lavoratrici migranti dai paesi più poveri a quelli più ricchi. Generalmente si tratta di donne connotate dal punto di vista razziale e/o provenienti da regioni rurali e povere, che accettano di svolgere il lavoro riproduttivo e di cura precedentemente eseguito da donne più privilegiate. Per fare questo, tuttavia, le migranti devono trasferire le loro responsabilità familiari e comunitarie ad altre badanti, ancora più povere, che a loro volta devono fare lo stesso - e così via, in “catene della cura globale” sempre più lunghe. Lungi dal colmare il “vuoto di cura”, l’effetto finale consiste dunque nella sua dislocazione dalle famiglie più ricche a quelle più povere, dal nord al sud del pianeta.
Questo scenario si adatta alle strategie basate sul genere degli stati postcoloniali indebitati, con problemi finanziari soggetti ai piani di “aggiustamento strutturale”. Alla ricerca disperata di una valuta forte, alcuni di essi hanno attivamente promosso l’emigrazione delle donne per svolgere all’estero un lavoro di cura pagato in vista delle rimesse, mentre altri, attraverso la creazione di zone di trasformazione per l’esportazione, hanno attratto investimenti esteri diretti, spesso in industrie - come quelle che assemblano tessuti e materiali elettronici - che preferiscono impiegare lavoratrici donne. In entrambi i casi, le capacità socio-riproduttive sono ulteriormente compresse.
Due recenti tendenze negli Stati Uniti compendiano la gravità della situazione.
La prima è la crescente popolarità del “congelamento di ovuli”, una procedura il cui costo normalmente si aggira intorno ai 10.000 dollari, ma che ora viene offerta gratuitamente da imprese informatiche come benefit per impiegate altamente qualificate. Desiderose di attrarre e trattenere queste lavoratrici, imprese come Apple e Facebook forniscono loro un forte incentivo a posticipare la gravidanza, di fatto dicendo: “aspetta e avrai i tuoi figli a 40, 50 o anche 60 anni; dedica a noi i tuoi anni più energici e produttivi”.
Un secondo sviluppo, egualmente sintomatico della contraddizione tra riproduzione e produzione negli Stati Uniti, consiste nella proliferazione di distributori meccanici costosi e altamente tecno- logici, per tirare e conservare latte materno. Tale è la “dose” di scelta in un paese con un alto tasso di partecipazione della forza lavoro femminile, senza maternità pagata o congedi parentali, e infatuato della tecnologia. Un paese, inoltre, in cui l’allatta- mento resta la prassi, ma è cambiato radicalmente. Non essendo più necessario allattare il bambino al seno, oggi molte donne “allattano” tirandosi meccanicamente il latte e mettendolo da parte perché in seguito una qualche bambinaia possa allattare dalla bottiglia. In una congiuntura storica di acuta povertà, tiralatte doppi che funzionano senza bisogno delle mani sono considerati la cosa più desiderabile, poiché consentono di tirare il latte da entrambi i seni in una volta sola, mentre si sta guidando la macchi- na in autostrada per andare al lavoro.
Alla luce di pressioni come queste, non c’è da stupirsi se, in questi ultimi anni, sono esplose lotte su questioni relative alla riproduzione sociale. Le femministe del nord descrivono spesso il loro punto di vista all’insegna di un “equilibrio tra famiglia e lavoro”.
I conflitti sulla riproduzione sociale, tuttavia, comprendono molto di più - i movimenti locali per la casa, la salute, la sicurezza alimentare e un reddito di base incondizionato; le lotte per i diritti dei migranti, dei lavoratori domestici e dei lavoratori pubblici; campagne per sindacalizzare coloro che svolgono un lavoro di assistenza sociale in residenze per anziani, ospedali e centri di assistenza all’infanzia; le lotte per i servizi pubblici come l’assistenza diurna e l’assistenza per gli anziani, per una settimana lavorativa più corta e per una maternità e congedi parentali generosamente remunerati. Nel loro insieme, tali rivendicazioni equivalgono alla richiesta di una riorganizzazione massiccia della relazione tra produzione e riproduzione, a favore di assetti sociali che potrebbero dare la possibilità a persone di ogni classe, genere, orientamento sessuale e colore della pelle di combinare attività socio-riproduttive con un lavoro sicuro, interessante e ben remunerato.
Le lotte di confine sulla riproduzione sociale sono centrali per l’attuale congiuntura, quanto lo sono i conflitti di classe sulla produzione economica.
Rispondono anzitutto a una “crisi della cura” che è radicata nelle dinamiche strutturali del capitalismo finanziario.
Globalizzato e mosso dal debito, il capitalismo neoliberale sta sistematicamente espropriando le capacità necessarie a sostenere le relazioni sociali. Proclamando il nuovo e più moderno ideale del “doppio reddito familiare”, recupera il favore dei movimenti per l’emancipazione, che si uniscono ai fautori della mercatizzazione per contrapporsi ai sostenitori della protezione sociale, oggi sempre più in preda al risentimento e allo sciovinismo. Cosa potrebbe emergere da questa crisi?
[...] Cosa si profila all’orizzonte della congiuntura presente? Le attuali contraddizioni del capitalismo finanziario sono abbastanza gravi da segnalare una crisi generale; dovremmo perciò aspettarci un’altra mutazione della società capitalistica?
L’attuale crisi innescherà lotte di un’ampiezza e di una radicalità sufficienti a trasformare il regime presente? Una nuova versione di “femminismo socialista” potrebbe riuscire a interrompere l’infatuazione della corrente dominante del movimento per la mercatizzazione e plasmare al tempo stesso una nuova alleanza fra emancipazione e protezione sociale? E se così fosse, in vista di quale fine? Come potrebbe essere reinventata oggi la divisione fra riproduzione e produzione e cosa potrebbe sostituire il doppio reddito familiare?
[...] Gettando le basi che consentono di porre queste domande, ho però tentato di fare luce sulla congiuntura attuale. Nello specifico, ho suggerito che le radici dell’attuale “crisi della cura” risiedono nelle contraddizioni sociali intrinseche al capitalismo - o, piuttosto, nella forma acuta che la contraddizione assume oggi, nel capitalismo finanziario. Se ciò è corretto, allora questa crisi non sarà risolta tentando di aggiustare le politiche sociali. La via per risolverla può passare solo attraverso una profonda trasformazione strutturale dell’ordine sociale. Ciò che è necessario, prima di tutto, è il superamento dell’avida sottomissione, da parte del capitalismo finanziario, della riproduzione alla produzione - ma questa volta senza sacrificare né l’emancipazione, né la protezione sociale. A sua volta, ciò richiede di reinventare la distinzione fra produzione e riproduzione e di re-immaginare l’ordine di genere. Resta da vedere se il risultato sarà compatibile o meno con il capitalismo.
IL MAGGIORASCATO (NON "PATRIARCATO"!). La crisi epocale dell’ordine simbolico di "mammasantissima" (alleanza Madre-Figlio) ...*
Del femminismo liquido
di Rossella Ghigi (Il Mulino, 08 marzo 2018)
Le vicende elettorali offuscheranno solo parzialmente lo spazio mediatico ogni anno occupato dalla Giornata della donna. Anche quest’anno, infatti, alcuni must non potranno mancare all’appuntamento dell’otto marzo: chi celebrerà le virtù delle donne, ricordando quanto esse “sappiano farcela” anche in condizioni difficili perché “hanno una marcia in più” (per non dire, con le solite espressioni, quanto siano mirabili se hanno “gli attributi” maschili anche propriamente detti, il che è tutto dire sul sessismo di questa figura retorica).
Chi vorrà ricordare l’importanza di una giornata nata con un martirio, quello di operaie americane bruciate vive in un incendio perché il proprietario della fabbrica newyorkese dove questo avvenne (la Triangle? La Cotton? Le versioni non combaciano mai) le teneva lì rinchiuse. E chi osserverà come sono cambiati i tempi, quanto lontani fossero i cortei delle donne sulle strade a rivendicare diritti e libertà e come oggi sembri svuotata questa ricorrenza dalle allegre cene tra amiche, magari corredate dalla artificiosa ironia dello spogliarello maschile (perché “le giovani generazioni non sanno, hanno trovato tutto già pronto”).
Il riferimento agli scandali sessuali e a forme più o meno glamourizzate o addomesticate del femminismo d’oltreoceano probabilmente sarà la novità mediatica di quest’anno, con riferimenti spesso immemori di una riflessione quasi secolare su questi temi. Sono tutti discorsi a cui siamo ormai assuefatti. E non si tratta, in fondo, semplicemente di decostruirne le basi - osservando, per esempio, che il mantra per cui le donne “ce la fanno” può finire per giustificare le lacune del welfare, o che il mito dell’incendio è stato contestato dalla storiografia (si veda il lavoro di Tilde Capomazza e Marisa Ombra a questo riguardo) ed è un’origine che “non impegna”, o che contraddizioni proprie di un contesto di circolazione di merci, informazioni e di persone globale, di catene transnazionali della cura e di digitalizzazione del dissenso vedono sì l’articolazione dei temi di genere in modalità nuove, intersezionali, attente alle istanze del Sud del mondo, ma anche il rifiorire di forme più tradizionali di contestazione di piazza (a cominciare dallo sciopero globale di oggi).
Si tratta di capire, piuttosto, quanto del femminismo sia oggi effettivamente patrimonio comune, superando le facili critiche all’emancipazionismo da tastiera, al commercialismo del femvertising o alla spettacolarizzazione hollywoodiana, per aprirsi a una riflessione sulle potenzialità di forme inedite di condivisione delle esperienze come il #metoo o il movimento Non una di meno. Quanto di esso sia invece sdoganato - purché lo si annacqui un po’ e non lo si chiami con questo nome - e quanto sia invece tradito, laddove ormai nessuno, a destra come a sinistra, sembra sottrarsi all’elogio dell’uguaglianza nella differenza, della parità nella meritocrazia, della libertà nell’autoaffermazione individuale.
La filosofa Nancy Fraser si è pronunciata in proposito con una lettura molto chiara: i temi del femminismo sono stati fagocitati dal neoliberismo, allo stesso modo in cui, secondo Slavoj Žižek o Luc Boltanski, l’ambientalismo o la critica sociale del 68 lo sono stati dal capitalismo, trasformando cioè istanze di autenticità e giustizia in merci da consumare e in sistemi da riprodurre. Tuttavia, aggiunge Fraser, alcune condizioni strutturali emergenti possono permettere di non rimanere vittime delle seduzioni individualiste del capitalismo e di riprendere il filo di un altro discorso del femminismo di seconda ondata per molti versi abbandonato: quello della solidarietà sociale, della politicizzazione del personale e del rifiuto dell’economicismo.
Riprendere quel filo significa ripartire dalla struttura, dal tessuto economico e sociale, tralasciando affermazioni di principio più o meno liquide, ma osservando la materialità delle asimmetrie nel loro farsi quotidiano. Le dimensioni in cui questo avviene sono molte. Rielaborando la proposta di un classico testo degli anni Settanta, La condizione della donna di Juliet Mitchell (Einaudi, 1972), Raewyn Connell (2011) propone ad esempio di analizzare la asimmetria tra uomini e donne secondo quattro dimensioni.
La prima, quella della produzione, del consumo e della accumulazione. La divisione sessuale del lavoro, la segregazione occupazionale, la discriminazione, i vari soffitti e labirinti di cristallo che separano uomini e donne lungo assi verticali e orizzontali della gerarchia lavorativa rappresentano la principale dimensione delle asimmetrie di genere riconosciuta nelle scienze sociali.
La seconda, quella del potere, è stata un elemento cruciale nella analisi del funzionamento del sistema patriarcale elaborata dal femminismo radicale. Il potere dei mariti sulle mogli e dei padri sulle figlie è stato al centro di una riflessione critica dell’esperienza di sopraffazioni e violenze vissuta entro le mura di casa, riflessione che si è poi estesa ad ambiti extradomestici e forme più tacite di subordinazione, anche simbolica.
La terza, la dimensione emotiva, comprende le asimmetrie nelle aspettative che una società costruisce intorno all’espressione e alla gestione delle emozioni sulla base del genere, da cui discendono anche le attribuzioni di una diversa attitudine alla cura e alla dipendenza dagli altri: a seconda che siamo uomini o donne veniamo socializzati non soltanto a comportamenti e stati emotivi diversi, ma a una diseguale considerazione in termini di controllo di sé, degli altri e dell’ambiente.
La quarta, infine, è la dimensione culturale e discorsiva: in contesti che vanno dal linguaggio alle rappresentazioni visive, dal diritto alla religione, maschilità e femminilità vengono continuamente evocate e riprodotte, ribaltate e contestate, in condizioni di visibilità e accesso alle risorse che sono però asimmetriche e discriminanti (basti spesso invertire mentalmente i ruoli di donne e uomini per far emergere elevazioni e degradazioni simboliche degli uni e delle altre).
Liberamente ispirandoci a questa classificazione, proviamo qui a ricordare alcuni elementi che possano far riflettere sul senso di una Giornata della Donna in un Paese come il nostro, in cui molti indicatori suggeriscono che molta strada c’è ancora da fare. Per la prima dimensione, tratteremo delle diseguaglianze nel mercato del lavoro. Abbiamo già avuto modo, in questa rivista, di conoscere le difficoltà della conciliazione dovute alle carenze nei servizi (si veda Naldini e Santero); si tratta di osservare qui quali difficoltà le donne incontrino in termini di entrata e permanenza nel mercato del lavoro, specie quando decidono di essere madri.
Per la seconda dimensione, ricorderemo i dati sulla violenza di genere e sulle forme che essa sta prendendo in un Paese dove una donna ogni due giorni viene uccisa per mano del partner o dell’ex partner (e il contrario non accade, è bene ricordarlo) e dove c’è ancora una forte carenza e disomogeneità nelle strutture di accoglienza e rifugio contro la violenza.
Per la terza, si vedranno i dati riguardanti il permanere delle asimmetrie nella cura e nel lavoro domestico anche in epoca di “nuove paternità” e di “padri affettivi”, all’interno di un quadro della divisione del lavoro domestico particolarmente disequilibrato rispetto ad altri Paesi europei.
Per la quarta, infine, proporremo i dati di una recente indagine internazionale sulle donne nell’informazione di tv, radio e giornali, dalla quale emerge come l’Italia sia ancora lontana da una rappresentazione di genere fedele alla distribuzione delle competenze riconosciute in seno alla società.
Tutti i dati, naturalmente, risentono sempre dei limiti del contesto per cui sono prodotti e gli elementi che qui si mettono sul piatto non sono esenti dalle ambivalenze su cui ci allertava Fraser. Ma rappresentano dei tasselli per una presa d’atto del modo in cui, in questo paese, la differenza si fa disuguaglianza. Una consapevolezza da cui partire il nove marzo, liquidando facili enunciazioni di principio.
* Sul tema nel sito, si cfr.:
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO". Una riflessione di Massimo Cacciari su "cosa significa ereditare il passato"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?! GIOACCHINO DA FIORE, LA SORPRENDENTE “CARITA”, E IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO...
"È nostro altissimo dovere tenere sempre presenti e diligentemente imitare i luminosi esempi della ammirabile carità ...": "Mirae caritatis. De sanctissima eucharistia", della "Ammirabile Carità. La santa eucarestia", così è intitolata e così è tradotta la "Lettera enciclica" di Leone XIII, del 1902:
Se si tiene presente che nel 1183, con grande chiarezza e consapevolezza, Gioacchino da Fiore nel suo "Liber de Concordia Novi ac Veteris Testamenti" così scriveva:
si può ben pensare che le preoccupazioni di una tradizione e di una trasmissione corretta del messaggio evangelico e, con esso, del "luminoso esempio" dello stesso Gioacchino da Fiore, non siano state affatto al primo posto del magistero della Chiesa cattolico-romana, né ieri né oggi. Di Gioacchino se si è conservato memoria del suo lavoro come del suo messaggio, lo si deve sicuramente alla sua "posterità spirituale" - è da dire con H. De Lubac, ma contro lo stesso De Lubac, che ha finito per portare acqua al mulino del sonnambulismo ateo-devoto dell’intera cultura ’cattolica’.
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DIO, MONDO, UOMO - OLTRE!!! BASTA CON LE ROBINSONATE.... *
Il negativo è il limite che attraversa la vita
Storia delle idee. «Politica e negazione. Per una filosofia affermativa» di Roberto Esposito, pubblicato da Einaudi. Il filosofo si interroga su un’inarrestabile deriva nichilista e esplora le radici dell’alternativa di un pensiero affermativo. Una riflessione che porta la vita alla sua massima espansione senza sottrarsi a nessun conflitto. La scoperta di Spinoza per il quale la sapienza è una meditazione sulla vita, non un pensiero sulla morte. Quello del filosofo non è incauto ottimismo, né cieco volontarismo. Conosce la potenza che ci abita
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 28.02.2018)
In giorni oscuri torniamo a interrogarci sulla negazione. L’avevamo rimossa, avevano detto che la storia era finita e avremmo vissuto in un eterno presente pacificato. Ci siamo risvegliati in una specie di guerra civile mondiale dove la negazione è intesa come distruzione della vita: il terrorismo jihadista che rivendica il potere di dare la morte in maniera indiscriminata. Oppure lo stragismo fascista e razzista contro gli immigrati, rovescio diabolico di una risposta uguale e terribile.
ABBIAMO PERSO il contatto con l’idea per cui il negativo sia l’anima del reale, ciò che lo spinge a rovesciare la contraddizione e affermare la vita. Il negativo è invece inteso come una negazione senza rimedio. Oltre il suo «non» c’è il niente. Il «negare» ritrova la sua lontana origine latina: «necare», uccidere. Tutto sembra essere stato assorbito da un dominio di un potere assoluto che non salva, ma uccide anch’esso. Sfumano così le distinzioni che hanno costruito la politica moderna: quella tra guerra e pace, tra il militare e il civile, tra il criminale e il nemico. Anche davanti a fenomeni meno estremi - il lutto, l’afasia, il dolore, la precarietà, la contraddizione più acuta - sembriamo incapaci di afferrare il negativo con categorie diverse dalla distruzione della differenza che abita l’essere.
SIAMO IN UN’«INARRESTABILE deriva nichilista di una negazione sfuggita di mano a chi l’ha teorizzata - scrive Roberto Esposito nel suo ultimo libro Politica e negazione. Per una filosofia affermativa (Einaudi, pp. 207, euro 22) - La logica del nichilismo si traduce in un’ontologia dell’inimicizia». E «l’annientamento diventa auto-annientamento». L’altro va distrutto per affermare un’identità tanto autentica, quanto fittizia e mortifera: l’identità nazionale e «sovrana», oppure la proprietà e la concorrenza tra individui atomici e disperati.
C’E’ STATO UN TEMPO in cui si è ritenuto che il nemico fosse chiaro, almeno dal punto di vista della razionalità politica. Questa logica, in realtà, non era così ferrea, tanto è vero che lo stesso Carl Schmitt in Teoria del partigiano ne ha indicato i limiti. Se a Lenin è stata riconosciuta una superiorità politica per avere trasformato il Capitale da «vero nemico» in «nemico assoluto» (ricambiato dall’altra parte), la deriva nichilistica dell’annientamento non è stata fermata. Anzi, si è intensificata.
POLITICA E NEGAZIONE è alla ricerca di un’alternativa. Esposito riparte dal significato di «negazione» e conduce un corpo a corpo con Hegel, il grande pensatore di questa categoria. Non c’è dubbio che il negativo sia l’essere altro da sé, il superamento verso qualcosa che non ritorna all’identico. Il punto è che non è l’espressione di una negatività di fondo dell’essere, un divenire privo di determinazioni che non siano quelle rispetto a se stesso. Il negativo fa parte della vita: è la sua necessità. Per questo va contestualizzato, non generalizzato. È una forma dell’affermazione, non l’elemento originario che annulla l’essere.
IL NEGATIVO RIGUARDA anche l’azione, il modo in cui concepiamo le relazioni e la politica. Non è un ostacolo o una forza contraria che si oppone alla libera volontà di chi vuole affermare qualcosa. Il «non» - ovvero il conflitto, la contraddizione - non è esterno al soggetto, ma è interno ad esso. Il negativo è il limite che attraversa la vita costretta tra necessità e finitezza. E tuttavia non è la fine di qualcosa, ma l’indice di ciò che potrebbe essere. Non è l’annichilimento della vita, ma «il punto vuoto che spinge il presente oltre se stesso», scrive Esposito. Lo scopo di questo approfondimento vertiginoso è modificare la nostra disposizione verso la vita. Se la vita è imprigionata nel negativo, allora è immobile povera e paranoica. Se invece è un momento determinato di un divenire storico che si sporge oltre se stesso, allora diventa una pratica.
PER AFFRONTARE questa impresa Esposito si è rivolto a Spinoza, l’unico filosofo che ha dato una definizione affermativa della negazione. Spinoza, il grande eretico aggredito da Hegel e sistematicamente travisato dai suoi posteri. Per lui la sapienza è una meditazione sulla vita, non un pensiero sulla morte. È una meditazione su ciò che può fare una vita, non su ciò a cui deve rinunciare per sopravvivere. Questa è ancora oggi la sua gloria: avere una grande fiducia nella vita e denunciare tutti i fantasmi del negativo.
OGGI POSSIAMO INTUIRE quanto contro-corrente possa essere un simile atteggiamento. Ma questa è la vocazione «inattuale» del filosofo. Il suo non è incauto ottimismo, né cieco volontarismo. Conosce la potenza che ci abita, a dispetto del negativo che ci circonda. Ha fiducia nelle potenzialità della vita, come nell’amore per il mondo e per chi lo vive.
L’APPRODO ALLO SPINOZISMO di un filosofo importante come Esposito non è improvvisato. Già in passato aveva parlato di «biopolitica affermativa». Oggi parla di «filosofia dell’affermazione». Una definizione rilevante in un panorama culturale come quello italiano dove prevale un «pensiero del negativo» che porta ad esiti impolitici, elitari o addirittura teologici. Il pensiero affermativo non è un positivismo del fatto compiuto, né una stanca decostruzione. Indica la strada per una nuova forma di materialismo, istanza che sembrava remota, o riservata a poco, fino a poco tempo fa.
SUL PIANO POLITICO questa filosofia mette in discussione la «sovranità», il fantasma di tutti i dibattiti politici o economici. Con «sovranità» si allude a uno Stato che nega l’inimicizia degli uomini e impone il monopolio della violenza. Esiste, invece, un’altra concezione dello «Stato» che incanala la potenza istituzioni capaci di salvaguardarne l’esistenza. In questo modo «il governo degli uomini non passa per una denaturazione della vita», ma da una forma immanente di auto-governo che mira al raggiungimento del «punto massimo della propria espansione». È la differenza che passa tra una politica sulla vita e una politica della vita, per usare le categorie di Esposito.
UNA «FILOSOFIA DELL’AFFERMAZIONE» non nega l’esistenza del conflitto - il negativo - né allude a una pacificazione come fa la retromania che devasta il dibattito pubblico attuale. Il conflitto è un elemento della relazione, oltre che della creazione di nuove istituzioni. Per renderla concreta è necessaria una politica dell’amicizia.
NELLA POLITICA novecentesca l’amicizia è stata considerata una categoria parassitaria dell’inimicizia. O amici, non ci sono amici in questo mondo. E così il mondo si scopre popolato solo da nemici. Davanti a questo paradosso va sperimentata una prassi politica che metta insieme corpo e intelletto, materia e spirito, vita e forma, e non rifugga ma abbracci il conflitto. Una politica dell’amicizia consiste nel costruire opere comuni, nel saperle difendere e nell’affermarle.
LA SOLIDARIETA’ E LA FRATELLANZA vanno riscoperti come strumenti affermativi, non come mezzi per attaccare il diverso. Creano legami, non impongono vincoli. Se intesi come strumenti del conflitto servono a liberarsi da ciò che impedisce di godere insieme di quello che abbiamo: la carne, la nascita, il corpo, la differenza e, più in generale, l’idea che la norma (giuridica, politica, sociale) nasca dalla vita in comune. L’amicizia è capace di affermare qualcosa che è in potenza e a disposizione di tutti. È tempo di imparare a coglierne i frutti.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DIO, MONDO, UOMO - OLTRE!!! BASTA CON LE ROBINSONATE. A partire da due, e non da uno!!! Una nota su una polemica tra "esportatori di democrazia" e di "libertà" (Giovanni Sartori e Gian Maria Vian) e la proposta di una Fenomenologia dello Spirito di "Due Soli". Con Rousseau, Kant, Marx, Freud e Dante, oltre Hegel, per una seconda rivoluzione copernicana.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".
Federico La Sala
ORIENTARSI NEL PENSIERO:"SAPERE AUDE!". KANT, NIETZSHE, E " UN GRANDE GENIO SENZA CORAGGIO" ... *
Il metodo di Heidegger per imparare a pensare
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, 23.02.2018)
Adelphi ha ristampato in una “nuova edizione ampliata” il saggio che Martin Heidegger intitolò “Nietzsche” (pp. 1040, euro 28). La prima traduzione italiana risale al 1994 [pp. 1034], l’edizione originale è del 1961.
A dire il vero, questo libro non è una monografia del più grande filosofo del Novecento sul pensatore-chiave del mondo contemporaneo. L’opera, composta da testi scritti tra il 1936 e il 1946, utilizza come titolo il nome di Nietzsche ma indica - usiamo le parole dello stesso Heidegger - “la cosa in questione nel suo pensiero”. Dove “cosa” va intesa come la metafisica dell’Occidente, la gabbia speculativa che è stata adoperata per secoli e che in Nietzsche si manifesta in una sua ultima espressione. O, meglio, in una forma esasperata.
Queste pagine non contengono quindi l’analisi di un particolare sistema utilizzando uno schema tradizionale ma, pur esaminando parti del lascito di Nietzsche (e anche di altri, quali Platone, Protagora, Descartes, Schelling o Kierkegaard), intraprendono una sorta di lotta per svincolarsi dalla ricordata metafisica. Heidegger, insomma, combatte una battaglia ricorrendo al filosofo che per primo l’aveva tentata.
In una nota Roberto Calasso pone in evidenza il fatto che Heidegger, che non ha nulla da condividere con i manipoli dei critici di Nietzsche, sia l’unico che gli “risponda”.
Del resto, come scriveva nella postfazione Franco Volpi, nel secolo scorso Nietzsche ha suscitato al tempo stesso “entusiasmi e attirato anatemi”; ha inoltre ispirato “atteggiamenti, mode culturali e stili di pensiero, ma al tempo stesso provocato reazioni e rifiuti altrettanto risoluti”.
Heidegger, è il caso di aggiungere, non è stato da meno. Se si consultano le tante storie della filosofia che circolano, in ciascuna di esse si può trovare una definizione che lo riguardi; ma tutte, ci si accorge ben presto, gli stanno strette.
Anche la recente polemica, che si fondava su un presunto antisemitismo di Heidegger, non ha tenuto conto del fatto che tra i suoi allievi vi sono stati alcuni tra i migliori intellettuali ebrei del secolo scorso, come prova il caso di Karl Löwith; o, guardando oltre, basterà ricordare Leo Strauss, anch’egli esule dalla Germania per le leggi razziali, che applicò il metodo heideggeriano di decostruzione storica in alcuni suoi importanti scritti. Entrambi, insieme a molti altri, tra cui il cattolico Romano Guardini, furono affascinati da Heidegger.
E anche chi leggerà, meditandolo, il suo “Nietzsche” difficilmente potrà restare indifferente. Vi troverà non la descrizione di un pensiero (anche se non manca) ma un metodo per imparare a pensare. Cosa che non si nota in molti filosofi dei nostri talk show.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
L’APOLOGIA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO E LA FILOSOFIA ITALIANA. Nella scia di Constant, Kant, Hobbes e Mendiola. Una nota di Armando Torno su "una questione oziosa e irrisolta"
ULTIMA CENA ED ECONOMIA VATICANA: LA CARESTIA AVANZA!!! Benedetto XVI "cambia la formula dell’Eucarestia"! «Il calice fu versato per molti», non «per tutti»!!! Note di Gian Guido Vecchi e di Armando Torno
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E POLITICA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO ....
GUERRA DI GENERE... E CONVERSAZIONE INFINITA. Una modesta considerazione....
Una nota a "Guerra di genere. Una modesta proposta" (di Paolo Fabbri, Alfabeta2)
Se non ricordiamo più "(...) la prima messa in italiano dopo due millenni di *latinorum* e la distruzione della statua del padrone illuminato Marzotto ad opera di scioperanti iconoclasti(...)" e non sappiamo più e nemmeno distinguere tra chi grida "forza Italia" e chi grida «"forza Italia"», come è possibile venir fuori dalla "fattoria degli animali" e accedere allo Spazio *neutro* e alla Terra *neutra*?! *
Abbiamo dimenticato della connivenza tra *grammatica* e *metafisica* e che , rispetto alla *lingua*, la coscienza «arriva dopo, zoppicando»; che "non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza"?!
"Come sarebbe questo italiano neutro?". Per andare oltre *Scilla* e *Cariddi*, forse, non potremmo e dovremmo chiedere ancora (e di nuovo) consulenza al mondo greco e alla società greca, quello e quella di Omero, Ulisse e Penelope?! O vogliamo continuare ancora (e sempre?) il vecchio *gioco* dell’ «io parlo, io mento» e dell’«io mento, io parlo»?!
Federico La Sala
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. "Paolo Fabbri, la conversazione infinita" (Maria Pia Pozzato, Alfabeta2).
DOC.:
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ...
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA.
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
UN PASSO AL DI LÀ DEL NARCISISMO E DELL’EDIPO: "SÉ COME UN ALTRO". OSSERVARE SE STESSI, SE STESSE ... CON "SIMPATIA"! *
Il tizio che mi guarda dallo specchio
di Paolo Godani (Alfabeta-2, 11.02.2018)
L’attuale eclissi della psicanalisi, cioè la marginalizzazione della sua posizione epistemologica e della sua funzione sociale in favore delle scienze cognitive, è un’ottima notizia per almeno due ragioni. Innanzitutto perché, come alcuni segni già invitano a immaginare, c’è la possibilità che la psicanalisi stessa, da una posizione di minorità, torni a produrre qualcosa di interessante. Ma anche perché può ora riapparire, in tutto lo splendore che la bolla psicanalitica aveva lungamente offuscato, l’immenso patrimonio della ricerca psichiatrica, soprattutto francese, cresciuta nella seconda metà del XIX secolo.
Jean-Martin Charcot, Théodule Ribot, Alfred Binet, Pierre Janet, solo per nominare gli autori un tempo più celebri di questa età dell’oro della psicologia francese, non sono stati soltanto curiosissimi ricercatori sperimentali, ma anche e soprattutto inventori di ipotesi, spiegazioni, concetti che ancora sfidano l’asfissia della cultura contemporanea.
Lo dimostra brillantemente Barbara Chitussi che in un saggio appena uscito da Meltemi non solo, quasi come in un romanzo, mette in scena i casi clinici, le storie fantastiche di personalità multiple di cui si sono occupati gli psichiatri francesi, ma ne trae il materiale teorico per costruire una vera e propria filosofia della personalità. «Se mi sono occupata dell’analisi di questi casi - spiega l’autrice fin dall’introduzione - è stato per studiare in una prospettiva filosofica le strategie con le quali il soggetto si è pensato e costruito nella forma di un rapporto con sé, accettando di essere un personaggio, assumendo l’inautenticità della propria immagine, aprendosi al dominio della finzione attraverso l’imitazione dell’altro, o meglio osservandosi come uno spettatore osserva uno spettacolo».
Tutto è iniziato, si potrebbe dire, negli anni che seguono il 1875, quando la Francia sembrava attraversata da un’epidemia di personalità multipla. Tra i casi anonimi, raccolti dal dottor Krishaber e analizzati da Émile Littré, c’è chi «voleva parlare, ma fu costretto a interrompersi, tanto il suono della sua voce lo stordiva», chi credeva di «non essere di questo mondo», chi sentiva in sé stesso «un io che pensa e un io che esegue». Ma, come accade spesso, il brusio delle voci senza volto finisce per raccogliersi nel fulgore di un nome che quelle voci, tutte, le fa risuonare assieme. «Racconterò - spiega in un articolo del 1876 il chirurgo-psicologo Eugène Azam - la storia di una giovane donna la cui esistenza è tormentata da un’alterazione della memoria che non ha precedenti nella scienza; l’alterazione è tale che è lecito chiedersi se questa giovane donna non abbia due vite».
La ragazza di cui parla Azam si chiama Félida, è «bruna, di statura media», molto intelligente e piuttosto istruita, seria, taciturna, grande lavoratrice, «di carattere triste e persino cupo». O meglio, triste e cupa Félida appare di solito sino al momento della sua crisi. Le accade infatti, talvolta, di cadere improvvisamente nel sonno e di risvegliarsi in uno stato che non è più quello nel quale si era addormentata: «solleva la testa e aprendo gli occhi saluta sorridendo i nuovi arrivati, la sua fisionomia si illumina emanando allegria». Dopo il sonnellino o la catalessi, insomma, «il suo carattere è completamente cambiato; da triste è diventata allegra e la sua vivacità raggiunge l’impetuosità, la sua immaginazione è più esaltata». Per spiegare che cosa significhi e come possa accadere che la malinconica Félida-1 lasci il posto all’estroversa Félida-2, gli psicologi si lanciano nell’invenzione di nomi e concetti: amnesia periodica, raddoppiamento o sdoppiamento della vita, doppia coscienza o doppia esistenza, per arrivare alla nozione più carica di conseguenze: sdoppiamento della personalità.
Come nota con finezza Barbara Chitussi, gli psicologi che a proposito del caso di Félida iniziano a parlare di doppia personalità, operano a loro volta uno sdoppiamento dello stesso termine di personalità. Non più sinonimo di coscienza o di vita, la personalità torna ora a riavvicinarsi al significato originario del latino persona: avere una personalità significa ormai «indossare una maschera, avere un particolare modo di essere». Passaggio decisivo, con ogni evidenza, che consentirà a Pierre Janet di verificare la distinzione tra un moi interiore e un moi esteriore, tra un sentimento della pura esistenza di sé, cioè di un’esistenza indipendente da qualsivoglia attributo, qualità o maschera, e un sentimento della propria personalità, che come tale è complessa e variabile, nonché esteriore rispetto al mero sentimento dell’esistenza. Ma passaggio decisivo, questo, lo è soprattutto perché stabilisce che la personalità di ognuno non è un che di sostanziale, ma semmai un modo, una maniera di essere, una postura, un’immagine che può essere assunta o rigettata, un abito che si può indossare, ma anche cambiare e sostituire.
Da qui in avanti, il percorso dell’autrice attraversa una molteplicità di campi all’interno dei quali la questione della personalità, confrontata con problematiche diverse come lo sdoppiamento nel sogno, la costruzione immaginaria di un sé ideale in quello che si chiamerà «bovarismo», le questioni della co-coscienza e della doppia moralità, assume nuove connotazioni. Ma questa varietà di campi problematici - ognuno con i suoi casi singolari che rendono Lo spettacolo di sé così avvincente (fra cui non si può passare sotto silenzio l’affascinante e riottosa Sally, una delle personalità della «famiglia Beauchamp», analizzata da Morton Prince) - non toglie nulla alla compiutezza filosofica del testo.
La sua tesi fondamentale è che il soggetto è un rapporto, cioè che la formazione soggettiva di ognuno avviene sempre e soltanto attraverso lo sdoppiamento di sé, prendendo distanza da ciò che si è o si crede di essere, trattando se stessi come altri. In questo senso, il sé figura come una contrattazione continua, come un campo sul quale si alternano una pluralità di caratteri o personaggi, nessuno dei quali può affermare di essere l’autentico rappresentante del soggetto.
«Ripensare il paradigma della personalità-maschera - spiega di conseguenza l’autrice - significa [anche] disancorare nuovamente la vita personale [...] dall’ottusa identità della vita biologica». Infine, è ancora un’etica della non-coincidenza con sé, quella che Barbara Chitussi definisce, quando spiega che «l’identificazione con la maschera [...] non dà mai la felicità, mentre nello spazio che abbiamo imparato a chiamare rapporto conoscere se stessi significherà osservarsi e godere di sé come l’attore che prova per il proprio ruolo un sentimento di “simpatia”».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE..
NUOVO REALISMO: LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
Per ben agire e ben comunicare (anche solo con se stessi o con stesse!), come insegna Dante, ci vogliono TRE SOLI (la cosiddetta - impropriamente - teoria dei "due soli")!!!
Federico La Sala
La collana in edicola con il «Corriere»
Primo Levi e il suo monito eterno: Auschwitz, spettro che può tornare
Esce il terzo volume della serie dedicata allo scrittore sopravvissuto alla Shoah.
Il naufragio dell’etica occidentale nell’orrore dei campi di sterminio
di Donatella Di Cesare (Corriere Sera, 11.02.2018)
Fu un tonfo sordo e inatteso. Quel sabato mattina una volante della polizia e un’autoambulanza raggiunsero in fretta Corso Re Umberto 75, al centro di Torino. Era di Primo Levi il corpo esanime, ai piedi delle scale. Quell’11 aprile 1987 la notizia del suicidio fece il giro del mondo e lasciò tutti attoniti, i lettori, ma anche gli amici. Pur sapendo della sua depressione, si rifiutavano di credere che avesse compiuto quel gesto. La lucidità di pensiero, l’altezza intellettuale, che avevano contrassegnato figura e opera di Levi, stridevano con quella spirale di ringhiere in cui era precipitata la sua vita. Molti dubitarono, vollero credere a un incidente. Il suicidio sembrava cancellare ogni scintilla di speranza inscritta nelle sue parole. Il «New Yorker» espresse questo timore apertamente. Molti altri, però, indicarono in quella morte la fine di una tenace sopravvivenza al lager.
Solo un anno prima, nel maggio 1986, era uscito I sommersi e i salvati, l’opera fondamentale di Levi. In quelle pagine la testimonianza personale, affidata ad altri libri precedenti, si coniuga con una riflessione profonda, un’analisi implacabile e un monito severo. «È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire». Le parole della conclusione sono il suggello di un libro pervaso dall’amarezza, a tratti dalla disperazione, ma sostenuto dall’esigenza di una denuncia senza compromessi. I sommersi e i salvati è scritto per i giovani; sono loro i destinatari. E perciò in ogni scuola dovrebbe oggi essere studiato, meditato.
Non basta leggere Se questo è un uomo , oppure La tregua. Perché è come se quella narrazione trovi una nuova luce. È a partire dall’attualità che viene infatti ripercorsa l’esperienza del lager. Auschwitz non è un mito lontano, ma uno spettro del futuro. Levi prende la parola per combattere, con le ultime forze, contro revisionisti e negazionisti.
Non si comprenderebbe il suo pensiero se non lo si interpretasse nel contesto di quei giorni. Nel giugno 1986 lo storico tedesco Ernst Nolte aveva articolato una tesi, già diffusa in Germania, con cui pretendeva di mettere sullo stesso piano il gulag e il lager, lo stalinismo e il nazismo, e vedeva anzi in quest’ultimo null’altro che una risposta al primo. Qualche tempo dopo, quel «laido conato» trovò spazio anche sulla stampa italiana. Levi fu implacabile: i due sistemi non erano paragonabili. Le camere a gas, quell’invenzione tutta tedesca, era la cifra ineguagliata dello sterminio.
La Germania che tentava invano di discolparsi, di «sbiancare il suo passato», gli faceva orrore. «Nessun tedesco dovrebbe dimenticare». Attento a non pronunciare un verdetto su un’intera nazione, con il tempo modificò il giudizio. La colpa era stata enorme: «Quasi tutti i tedeschi di allora» sapevano e non avevano avuto il coraggio di parlare. I sommersi e i salvati è un libro durissimo che mira a decostruire molti stereotipi. Ad esempio l’idea, ancora ben radicata, che Auschwitz sia il risultato della barbarie nazista.
Le cose sono ben più complicate. A quel progetto politico hanno aderito - occorre riconoscerlo - molti intellettuali. Ma sulla scia di Hegel, che aveva deificato lo Stato, l’intellettuale tedesco «tende a farsi complice del Potere». «Le cronache della Germania hitleriana - osserva Levi - brulicano di casi che confermano questa tendenza: vi hanno soggiaciuto Heidegger il filosofo, il maestro di Sartre; Stark il fisico, premio Nobel; Faulhaber, il cardinale, suprema autorità cattolica in Germania, ed innumerevoli altri».
Qualcuno ha scritto che in queste pagine Levi si rivela un grande moralista. Ma la definizione è fuorviante. Piuttosto, senza smettere di essere testimone, Levi veste i panni del filosofo per criticare la filosofia, per sfidarla, indicando temi rimasti fuori dall’inventario filosofico, come quello di vergogna, o mostrando i concetti che, come quello di morte o di libertà, vanno rivisti. Perché Auschwitz è il naufragio dell’etica occidentale. La responsabilità è stata frantumata. Levi ritorna sulla «zona grigia» dove alla vittima, per la prima volta, non è concesso più neppure il ruolo di vittima, al punto da renderla semicarnefice. È questo il «delitto più demoniaco del nazionalsocialismo».
Splendido, e forse sottovalutato, è il capitolo «Comunicare» . Auschwitz appare una nuova versione della Torre di Babele. Capire o non capire, sapere il tedesco, segna lo spartiacque tra la vita e la morte. La disumanizzazione dell’altro passa attraverso la lingua ridotta a crudele strumento di potere. La parola lascia il posto all’offesa e poi al nerbo. È il segnale che non si è più considerati umani. E Levi commenta: «Dove si fa violenza all’uomo, la si fa anche al linguaggio». Nel lager, però, si muore per mancanza non solo di informazione, ma anche di dialogo, quando nessuno «ti parla» più. Dove viene meno il vocativo dell’altro finisce la vita. Perciò scrive Levi rivolto ai suoi destinatari futuri: «Rifiutare di comunicare è colpa»
"PIGMALIONE", UNA "FIGURA" NARCISISTICA ED EDIPICA, ANCORA MODELLO DI ESSERE UMANO E DI MAESTRO?!
Diffido dell’istruzione
di Alessandro D’Avenia (Corriere della Sera, 05.02.2018)
«Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. Ho visto ciò che nessuno dovrebbe vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti, bambini avvelenati da medici ben formati, lattanti uccisi da infermiere provette, donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati e laureati. Diffido - quindi - dell’istruzione. Aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri formati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani».
Fu il compianto dirigente della mia scuola, qualche anno fa, a condividere questa lettera apparsa su Le Monde in un pezzo della scrittrice Annick Cojean. L’occasione era il Giorno della Memoria, ricorrenza sterile se non ricorda un fatto che il XX secolo ha inciso nella storia a caratteri di sangue: non basta essere istruiti per essere umani.
Il divorzio tra istruzione ed educazione è uno dei mali peggiori della scuola, frutto del luogo comune secondo cui esisterebbe un’istruzione neutra. Invece sempre si educa mentre si istruisce, perché la prima comunicazione è quella dell’essere, e solo dopo arrivano le parole, altrimenti non sarebbe necessaria la relazione viva con i ragazzi, ma basterebbe caricare le lezioni sulla rete. In senso stretto non esiste insegnamento in differita , ma solo in diretta.
Insegnare è una branca della drammaturgia. È l’essere dell’insegnante che genera la conoscenza, perché apre la via al desiderio dello studente, che scorge nel docente una vita più viva e libera grazie alla cultura e al lavoro ben fatto, e la vuole anche per sé. Lo ricordava con precisione il Nobel Canetti nella sua autobiografia: «Ogni cosa che ho imparato dalla viva voce dei miei insegnanti ha conservato la fisionomia di colui che me l’ha spiegata e nel ricordo è rimasta legata alla sua immagine. È questa la prima vera scuola di conoscenza dell’uomo».
Le nozioni più raffinate da sole non rendono umani, tutto dipende da come gli insegnanti si relazionano tra loro e con i ragazzi, perché, prima delle nozioni, sono le relazioni a essere generative dell’io e del sapere. È nella relazione che si impara a sentire il valore del sé come destinatario del dono del sapere. Quali insegnanti siete tornati a ringraziare e per cosa? Per la lezione sulle leggi della termodinamica e su Leopardi, o per come vivevano e offrivano la termodinamica e Leopardi proprio a voi?
Qualche tempo fa mi scriveva uno studente: «Le racconto due esperienze. La prima: la faccia polverosa della scuola. Un professore, che aveva esordito in prima liceo con “siete troppi: vi ridurremo”, pochi giorni fa ha condensato l’amore per il suo lavoro in questa frase: “Un insegnante non deve avere cuore, deve avere un cuore di pietra... altrimenti farà preferenze”. Uno scherzo, pensavamo. Un mio compagno ribatte: “Ma no, prof! Un insegnante deve avere un cuore talmente grande da non fare nessuna preferenza!”. “No, no: un cuore di pietra”. Parlava seriamente. La seconda: la faccia luminosa della scuola. Quest’anno ho scoperto la poesia grazie al gesto straordinario di un ordinario professore di filosofia, che un giorno ci ha parlato della sua giovinezza e di come la poesia ai tempi occupasse la sua vita e impegnasse la sua fantasia. Interessato anche io dal momento che non avevo letto nessun grande poeta ho chiesto un consiglio. Il giorno seguente lo vedo estrarre dalla sua ventiquattrore un libricino invecchiato. Viene verso di me. “Questo è per te”. Mi ha regalato una delle sue copie di Elegie duinesi, di R.M. Rilke, il suo libro di poesia preferito. Il libro della sua giovinezza!».
La differenza tra le due impostazioni è proprio quella che corre tra chi si illude si possano separare istruzione ed educazione e chi invece le tiene naturalmente unite. Nel primo caso si pensa che il docente sia un distributore di nozioni, nel secondo la didattica è conseguenza della relazione. Il primo professore educa all’insensibilità di cuore, a non sentire l’unicità del tu, il secondo rende Rilke interessante prima di averne letta una riga. Il nesso che tiene unite istruzione ed educazione è nella realtà, e nessuna presa di posizione teorica le può nei fatti separare. L’elemento che fa sì che educazione e istruzione siano in efficace armonia è l’amore.
Niente di sentimentale: l’amore è una presa di posizione nei confronti della realtà e ne permette la conoscenza, perché ne coglie il valore ancora potenziale da portare a compimento con l’impegno personale. Non si può aumentare la conoscenza di qualcosa senza che prima aumenti l’interesse nei confronti del soggetto in questione (vale per l’amicizia come per la chimica). L’amore genera conoscenza e la conoscenza ampliata rinnova l’amore: se il docente non «erotizza» la materia, la materia per quanto ben conosciuta resta inerte, come spiega Massimo Recalcati.
Non esistono cose poco «interessanti», ma uomini e donne poco «interessati», perché le emozioni (la neurobiologia qui ci conforta) sono le guide che aprono la strada allo sviluppo cognitivo. Solo così gli studenti diventano soggetti di possibilità e non oggetti al peggio da ridurre o al meglio da riempire. È questa la rivoluzione copernicana chiesta a ogni docente: non sono gli alunni a ruotare attorno a lui ma il contrario. Un professore - il letto da rifare oggi lo suggerisce lo studente della lettera - è chiamato ad avere un cuore tale da non far preferenze perché preferisce tutti e ciascuno diversamente: sfida difficilissima (quanti errori, quante gioie...) ma decisiva.
È la stessa sfida narrata da Ovidio, nelle sue Metamorfosi, a proposito del mito di Pigmalione. Uno scultore che, deluso da tutte le donne, si innamora della donna ideale che ha scolpito nel marmo. Il suo trasporto è tale che gli dei trasformano la statua in una donna in carne e ossa. Il mito viene usato per descrivere lo sguardo educativo, il cosiddetto effetto-Pigmalione, per il quale se un docente (ma vale per ogni educatore) guarda un alunno convinto che farà bene, genererà in lui una fiducia in sé tale che, nella quasi totalità dei casi, anche a fronte di un’inadeguata disposizione iniziale, otterrà risultati positivi.
L’effetto vale anche in negativo: se sono convinto che non vali, l’effetto sui risultati sarà coerente, anche a fronte di buone capacità. Lo sguardo educante non è mai neutro ma sempre profetico, nel bene e nel male. Ne abbiamo conferma quotidiana nel bambino che, appena caduto, si volge verso i genitori: se si mostrano allarmati ne provocano il pianto, se sorridenti il sorriso, quasi che il dolore, pur oggettivo, venga trasformato nello e dallo sguardo.
I ragazzi non hanno bisogno di insegnanti amiconi né aguzzini, ma di uomini e donne capaci di guardarli come amabili soggetti di inedite possibilità a cui non fare sconti. E non è questione di missione o di poteri magici, ma di professionalità. Per questo l’appello è il momento chiave della giornata scolastica: segna il tono della relazione e fa sì che ognuno senta su di sé lo sguardo profetico che spinge a far bene come conseguenza dell’ esser bene. Il contrario del «siete troppi, vi ridurremo», sterile autoritarismo, è il fecondo «sei unico, ti aumenterò».
La parola autorità viene da augeo (aumentare): la esercita non chi ha il cuore molle o sprezzante, ma chi si impegna ad aumentare la vita che ha di fronte, per quanto fragile, difficile, resistente possa sembrare. Questa è l’istruzione di cui non diffido, perché ispirata da un umanesimo maturo, l’umanesimo dell’altro uomo, come lo chiama il filosofo Lévinas, che fa del tu il cuore dell’etica e smaschera il falso umanesimo dell’istruito incapace di sentire il tu, tanto da distruggerlo proprio attraverso l’istruzione.
Non è facile però essere educatore in un sistema scolastico che asfissia di burocrazia e svilisce la dignità sociale ed economica, e in un contesto culturale che spesso attacca dall’alto (genitori) e dal basso (studenti). Ma questi elementi possono anche diventare scuse per non fare ciò che è alla portata di un uomo libero: prendersi cura di chi gli viene affidato.
Soltanto così diventiamo pigmalioni di ragazzi dal cuore caldo e la testa fredda, a fronte del dilagare, tra gli adulti prima che tra i giovani, di teste calde e cuori freddi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ...
Le leggi razziali compimento del fascismo
di Enzo Collotti (il manifesto 27.1.2018)
Quest’anno il Giorno della Memoria coincide con la ricorrenza dell’ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi contro gli ebrei dell’Italia fascista. Promulgazione ad opera di quel sovrano Vittorio Emanuele III al quale, se non altro per questa ragione, devono essere precluse le porte del Pantheon.
Come giustamente ricorda una importante pubblicazione edita l’anno scorso in Germania per gli ottanta anni dalle leggi di Norimberga, fu una iniziativa tutta italiana senza che vi fosse alcuna pressione da parte del Reich nazista, come si ostina a ripetere qualche tardo estimatore di Benito Mussolini.
Tutto quello che si può dire in proposito è che nell’Europa invasa dall’antisemitismo, l’Italia fascista non volle essere seconda a nessuno, ossessionata come era, fra l’altro, dallo spettro della contaminazione razziale.
Frutto avvelenato dell’appena conquistato impero coloniale e della forzata coabitazione con i nuovi sudditi africani.
Come tutti i neofiti, anche il razzismo fascista ebbe il suo volto truce. La «Difesa della razza», l’organo ufficiale del regime che ebbe come segretario di redazione Giorgio Almirante, ne forniva la prova in ogni numero contraffacendo le fattezze fisiche degli ebrei o rendendo orripilanti quelle delle popolazioni nere.
Il tentativo di fare accreditare l’esistenza di una razza italiana pura nei secoli aveva il contrappasso di dare una immagine inguardabile delle popolazioni considerate razzialmente impure. L’arroganza della propaganda non impedì che essa facesse breccia in una parte almeno della società italiana e ancora oggi non è detto che essa si sia liberata dall’infezione inoculata dal fascismo, come stanno a dimostrare piccoli, ma numerosi episodi che si manifestano, e non solo negli stadi.
Non bisogna fra l’altro dimenticare che non solo tra il 1938 e l’8 settembre del 1943 l’odio razziale ebbe libero corso, ma che dopo l’armistizio e l’occupazione tedesca la caccia agli ebrei divenne uno dei principali motivi dell’esistenza della Repubblica Sociale neofascista.
In nome della purezza della razza il regime costrinse a fuggire o mise in campo di concentramento ebrei che in altre parti d’Europa si erano illusi di trovare un rifugio non precario entro i confini italiani; ma costrinse all’emigrazione scienziati e intellettuali italiani, privando il Paese di una componente culturale che, nella più parte dei casi, non avrebbe fatto ritorno in Italia neppure dopo la liberazione anche a causa degli ostacoli non solo burocratici alla reintegrazione di quanti erano stati costretti a espatriare e che per tornare a esercitare il proprio ruolo in patria non avrebbero potuto contare su nessun automatismo.
Le leggi contro gli ebrei costituirono un’ulteriore penetrazione del regime nel privato dei cittadini: il divieto dei matrimoni con cittadini ebrei; l’espulsione degli ebrei come studenti ed insegnanti dalle scuole e dalle università; l’espulsione degli ebrei dalla pubblica amministrazione.
Di fatto, ma anche di diritto, si venne a creare una doppia cittadinanza con cittadini di serie A e cittadini di serie B, preludio dell’ostracismo generalizzato sancito dalla Repubblica Sociale che proclamò semplicemente gli ebrei cittadini di stati nemici, quasi a dare la motivazione non solo ideologica per la parteicpazione italiana alla Shoah.
Ancora oggi è difficile dare una valutazione sicura delle reazioni della popolazione italiana alle leggi razziali. Le azioni di salvataggio compiute dopo l’8 settembre non devono ingannare a proposito dei comportamenti che si manifestarono prima dell’armistizio.
Gli stessi ebrei non si resero esattamente conto della portata delle leggi razziali. Il fanatismo della stampa, in particolare nella congiuntura bellica in cui gli ebrei vennero imputati di tutti i disastri del Paese, andava probabilmente oltre il tenore dello spirito pubblico che oscillava tra indifferenza e cauto plauso, aldilà del solito stuolo dei profittatori.
Le autorità periferiche non ebbero affatto i comportamenti blandi che qualche interprete vuole tuttora addebitare loro. Il conformismo imperante coinvolse la più parte della popolazione. Il comportamento timido, più che cauto, della Chiesa cattolica non incoraggiò in alcun modo atteggiamenti critici che rompessero la sostanziale omogeneità dell’assuefazione al regime.
A ottanta anni di distanza la riflessione su questi trascorsi è ancora aperta e si intreccia con alcuni dei nodi essenziali della storiografia sul fascismo (per esempio la questione del consenso).
È una storia che deve indurci ad approfondire un esame di coscienza collettivo alle radici della nostra democrazia e a dare una risposta a fatti che sembrano insegnarci come la lezione della storia non sia servita a nulla se è potuto accadere che il presidente del tribunale fascista della razza diventasse anche presidente della Corte Costituzionale della Repubblica.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FASCISMO E LEGGI PER LA DIFESA DELLA RAZZA (1938). De Felice, Mussolini, e la "percentuale" del 1932.
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ...
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
La Shoah fu anche un enorme affare economico, che portò sollievo ai conti della Germania nazista
La memoria dei beni razziati
di Elena Pirazzoli
L’annientamento degli ebrei d’Europa da parte nazista fu, per molti aspetti, anche un affare economico. In Germania, l’esproprio delle loro case garantì il ricollocamento di diversi cittadini tedeschi, i loro posti di lavoro vennero occupati da altri, le loro aziende furono statalizzate o vendute al miglior offerente. Alcuni anni fa una commissione di storici tedeschi pubblicò uno studio che mostrava come tra il 1933 e il 1945 il ministero dell’Economia sia stato parte attiva del processo di annientamento, dal lato finanziario, degli ebrei: inizialmente attraverso la tassazione, poi con la vendita dei beni depredati dopo la deportazione dei loro legittimi proprietari, fu possibile raccogliere denaro per coprire almeno il 30% delle spese di guerra tedesche. Il saccheggio dei beni ebraici non fu quindi un mero corollario della Shoah, ma un processo sistematico ad essa connesso.
Per molto tempo è stato noto soprattutto il caso delle opere d’arte, sequestrate per andare ad arricchire la collezione di Hermann Göring o la raccolta selezionata dalla Sonderauftrag Linz, la Commissione speciale Linz istituita per individuare dipinti e sculture che avrebbero dovuto fare parte del Führermuseum, il museo che Hitler voleva realizzare nella città della propria giovinezza.
Dopo la guerra, il recupero di questi beni è stato, ed è tuttora, molto difficile: di molti si sono perse le tracce, altri, come nel noto caso del ritratto di Adele Bloch Bauer dipinto da Gustav Klimt, sono stati oggetto di contenziosi legali.
Esistono diversi progetti che tentano di ritrovare le opere spoliate, come nel caso dei dipinti confiscati dalla Sonderauftrag Linz censiti dal Deutsches Historisches Museum, o vere e proprie iniziative governative come la German Lost Art Foundation, creata in Germania nel 2015 per cercare e identificare i beni sequestrati dal regime nazista in modo da assistere gli eredi dei legittimi proprietari.
Ma quello che forse colpisce maggiormente è il fatto che l’ossessione nazista per i beni ebraici non si limitasse ai dipinti, le sculture, gli oggetti di valore: con un approccio patologico al concetto di funzionalità, vennero create delle divisioni con il compito di espropriare e inventariare tutti gli oggetti appartenenti agli ebrei avviati alla deportazione. Con lo scoppio della guerra venne creato il Commando Rosenberg, che mise in atto la spoliazione sistematica dei beni degli ebrei nei Paesi occupati, in particolare in Francia. Nei suoi depositi parigini presso la Gare d’Austerlitz venne catalogato tutto in modo minuzioso, suddividendo le tipologie degli oggetti prelevati (stoviglie, mobili, porcellane, tappeti, pianoforti, libri...).
Nel romanzo Austerlitz di W.G. Sebald (Adelphi, 2002) vengono descritti questi depositi: “E là sotto, nel magazzino Austerlitz-Tolbiac, a partire dal 1942 è venuto accumulandosi tutto ciò che la nostra civiltà ha prodotto per rendere più bella l’esistenza o per semplice uso domestico, a cominciare dai cassettoni Luigi XVI, dalle porcellane di Meißen, dai tappeti persiani e da intere biblioteche per arrivare fino all’ultima saliera e pepaiola”.
Sebald descrive gli oggetti divisi per tipologie, le squadre di internati del campo di Drancy - antiquari, storici dell’arte, restauratori, falegnami, orologiai, pellicciai - condotti lì per sistemare i beni in arrivo e smistarli in base al valore e al genere. E immagina la presenza, negli ambienti di questi grandi magazzini coatti, di “alti gradi delle SS e della Wehrmacht, in compagnia delle consorti o di altre signore, per cercarsi un salotto adatto alla villa di Grunewald, oppure un servizio di Sèvres, una pelliccia o un Pleyel”. Le scene descritte nel romanzo non sono, tuttavia, invenzione narrativa, ma corrispondono alla realtà, come mostra un album fotografico conservato presso il Bundesarchiv, che documenta la “Möbel-Aktion”, l’operazione di sequestro e inventario di mobili, letti, biancheria, scarpe, giocattoli e suppellettili domestiche intrapresa dall’Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg a Parigi, tra il 1942 e il 1943.
Nell’estate 2017 il piccolo album è stato esposto alla 14. edizione di documenta a Kassel, all’interno del progetto dell’artista tedesca Maria Eichhorn, che da diversi anni lavora sugli oggetti razziati dai nazisti agli ebrei, arrivando addirittura a fondare il un istituto di ricerca dedicato a Rose Valland, la storica dell’arte e membro della resistenza francese che salvò moltissime opere delle collezioni nazionali e private di Francia.
Lo spazio centrale della sala dedicata al lavoro di Maria Eichhorn a documenta era occupato da una torre di libri: volumi conservati nella Zentral- und Landesbibliothek di Berlino, tutti inventariati con un numero progressivo e una J. La J di Jude, “ebreo”. Si tratta di 2.000 degli oltre 40.000 libri comuni (quelli di pregio avevano altre destinazioni) prelevati dalle biblioteche private degli ebrei “evacuati”, tipico eufemismo della burocrazia nazista. E con un nuovo eufemismo, nel dopoguerra vennero rubricati come Geschenke, donazioni, quando invece erano frutto della spoliazione sistematica di ogni bene degli ebrei della città. Nulla si fece per cercare di restituirli.
A partire da dediche ed ex libris, Maria Eichhorn, insieme al personale della biblioteca, sta cercando ora di risalire ai legittimi proprietari o ai loro eredi ma, laddove anche si riescono a ritrovare i nomi di queste persone, il loro destino è quasi sempre lo stesso: la morte nei campi di sterminio.
[Immagine: Maria Eichhorn, Unlawfully Acquired Books from Jewish Ownership - Unlawfully acquired books from Jewish ownership by the Berliner Stadtbibliothek in 1943, registered in Zugangsbuch J (accession book J)]
* Il Mulino, 29 Gennaio 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
Shoah, i nodi tra passato e presente
Tempi presenti. Riflessioni intorno al senso della Giornata della Memoria, tra ritualizzazione mediatica e il baratro dell’oblio alle porte
di Lia Tagliacozzo (il manifesto, 25.01.2018)
È il diciassettesimo anno di celebrazione del giorno della memoria: giornata deputata al ricordo di quando, nel 1945, le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di sterminio di Auschwitz. La strage degli ebrei e degli altri rinchiusi in quei campi non si fermò quel giorno: per porre fine alla strage bisognò arrivare alla primavera. E qualche mese dopo, solo ad estate inoltrata, arrivò anche la fine del secondo conflitto mondiale.
Se quel 27 gennaio del 1945 sul territorio italiano non accadde una vicenda assurta a data pubblica il 27 gennaio è comunque il giorno scelto dal Parlamento per ricordare «la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati».
UN VENTAGLIO AMPIO di eventi e di soggetti da ricordare ma così recita la legge istitutiva. Delle leggi razziali ricorre quest’anno l’ottantesimo dalla promulgazione: volute dal fascismo e controfirmate da Vittorio Emanuele di Savoia la cui salma è di recente tornata in Italia accompagnata da accese polemiche. Eppure quest’anno, più che i precedenti, sembra che passato e presente si intreccino in un’ignoranza immemore e arrogante. Il discorso pubblico sembra, sempre più spesso, abdicare a valori che si presumevano condivisi. È proprio l’intreccio tra parole del passato e nodi del presente che inquieta: come se un argine sia venuto meno e il razzismo sia diventato moneta corrente e legittima che tracima dagli stadi alla politica, dai social al linguaggio corrente. C’è da aver paura.
Una posizione molto ferma viene però dalla neo senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di sterminio di Auschwitz e Ravensbrueck: «Chi mi ha nominato si aspetta che io prosegua la mia missione di testimone - ha affermato nelle sue prime dichiarazioni - in un tempo, questo, in cui il mare si chiude sopra decine di persone che rimangono ignote, senza un nome, così come sono stati quelli che ho visto io andare al gas».
Questo non significa, ovviamente, che il Mediterraneo dei barconi e dei migranti si sia trasformato in una nuova Auschwitz, ma che quelle morti di sconosciuti anonimi ci riguardano come negli anni del nazismo e del fascismo al potere avrebbero dovuto riguardare i concittadini di allora le morti degli ebrei, degli omosessuali, dei testimoni di Geova, dei portatori di handicap, degli oppositori politici. E il nodo tra passato e presente si stringe ancora perché, come un’ eco alle parole di Liliana Segre, a Milano è stata vandalizzata un’altra pietra della memoria: uno di quei piccoli sanpietrini dorati posti dall’artista tedesco Günter Demnig di fronte alla casa da cui le persone sono state deportate e che ne reca inciso il nome, la data di nascita e, quasi sempre, quella di morte.
Una «pietra di inciampo», in cui ciò che inciampa è, dovrebbe essere, l’attenzione di una cittadinanza consapevole. Invece anche le parole pubbliche perdono la memoria: Attilio Fontana, candidato del centrodestra alla Regione Lombardia, non si è vergognato mentre inneggiava alla «razza bianca». Lo stesso candidato, dopo aver azzardato scuse poco sostenibili, ha aggiunto: «La razza bianca? Mi ha portato fama e consensi». Un’enormità a cui pure è possibile credere. E con la quale sarà necessario misurarsi ad elezioni avvenute.
L’articolo 2 della Legge istitutiva prosegue: «In occasione del Giorno della Memoria sono organizzate cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado».
L’INTERO MONDO della scuola, non sempre ma spesso appassionato e partecipe, ha in questi anni letto, recitato, riflettuto anche quando, paradossalmente, le ore di studio della storia sono diminuite. Proprio le scuole sono forse il luogo dove il giorno della memoria appare meno «ritualizzato»: ogni studente e ogni classe impone ogni volta di ricominciare da capo, di leggere nuovi libri, di inventare nuovi lavori. E ogni bambino o studente formula nuove domande.
L’elenco delle questioni che pone la celebrazione oggi del giorno della memoria è infinito, quelle che seguono sono solo alcune: la relazione tra storia e memoria, il ruolo dell’arte accanto a quello della testimonianza, la scomparsa degli ultimi testimoni, la formazione degli insegnanti, la necessità di inserire la Shoah dentro la storia dell’Occidente e non farne un mausoleo a parte, decontestualizzato dalla vicenda del Novecento, l’esigenza di non lasciare il dovere della memoria del nazifascismo alle sue vittime, la riflessione sull’unicità della Shoah e sugli altri stermini che l’umanità non ha risparmiato a se stessa. E poi la necessità di trovare un nuovo equilibrio tra la ritualizzazione delle istituzioni e l’esposizione mediatica.
SEMBRA ANCHE sempre più urgente interrogarsi se la memoria porti davvero con sé qualcosa di buono o se piuttosto non rischi di diventare una pianta velenosa a fronte però di una certezza: senza il giorno della memoria la consapevolezza della Shoah in questo paese sarebbe minore. Così è stato, infatti, nella riflessione collettiva fino al momento della sua istituzione. Eppure caricarsi di una memoria tanto dolorosa ha senso solo se si riesce ad integrare nel suo racconto che è esistita perfino allora, durante la guerra e sotto il dominio totalitario, la possibilità di scegliere: se stare dalla parte dei perseguitati o dei persecutori, degli ignavi o degli amici, dei soccorritori o dei delatori. Proprio per questo, si impone una riflessione attenta, in grado di definire gli odi di ieri e quelli di oggi. Si tratta da un lato di rifiutare equiparazioni impossibili dall’altro di ricordare quello che scriveva, con tragica lucidità, Primo Levi: «A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere che ’ogni straniero sia nemico’. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come un’infezione latente. Ma quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Memoria. "Meditate che questo è stato" (Primo Levi)
AUSCHWITZ, QUEL GIORNO
Primo Levi, La tregua: "La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla (...)"
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Il coraggio della disobbedienza
di Alex Zanotelli*
Nel maggio del 2017 ho lanciato un appello alle Chiese, Sanctuary Movement, che rimetto di nuovo in circolazione visto l’aggravarsi della situazione dei migranti nel nostro paese. L’appello è un invito alle Chiese (cattolica, valdese, luterana, anglicana, evangelica) di iniziare, come avviene negli Usa, ad offrire le nostre chiese come “santuario” per asilo politico per coloro che sono destinati alla deportazione nei loro paesi, non perché criminali, ma perché privi di documenti.
Quell’appello non ha avuto alcun riscontro positivo da parte delle Chiese in Italia.
Sanctuary Movement
Negli Usa al contrario lo scorso anno il Sanctuary Movement ha visto raddoppiare il numero di chiese che offrono rifugio e asilo politico per i migranti minacciati di deportazione. Non tutte le chiese offrono ospitalità a tali persone, ma tutte si impegnano a sostenere i minacciati di deportazione sia offrendo assistenza legale, ma soprattutto con l’impegno da parte di pastori o preti, di accompagnare queste persone in tribunale o dalla polizia. Ma anche, quando necessario, con sit-in o pray-in davanti ai tribunali. Ci auguriamo che questo Movimento possa presto sbocciare anche nelle Chiese in Italia.
Infatti Bruxelles intende deportare un milione di migranti irregolari. Un’operazione quasi impossibile, oltre che costosa, ma che rivela quale politica la Ue stia perseguendo. «È vero che siamo una civiltà che non fa figli - ha commentato qualche tempo fa papa Francesco - ma anche chiudiamo la porta ai migranti. Questo si chiama suicidio». E Bruxelles chiede ai ventisette stati membri di mettere mano alla propria legislazione per una politica più restrittiva nei confronti dei migranti.
L’Italia ha prontamente risposto con il decreto Orlando-Minniti, il cosiddetto Pacchetto Sicurezza. Il decreto, approvato dal parlamento il 12 aprile 2017 con il ricatto della fiducia, stabilisce che il rifiuto di riconoscimento dello status di rifugiato da parte della Commissione territoriale non è reclamabile se non in Cassazione. Non c’è quindi per il rifugiato la possibilità di un appello in tribunale. Respinta la domanda, al rifugiato non resta che andare in un Centro permanente per il rifugiato, per poi essere espulso nell’inferno da cui è fuggito.
Atto di coraggio
E questo sta avvenendo non solo in Europa, ma anche negli Usa con Trump, che minaccia di espellere undici milioni di clandestini, in buona parte latinos. Infatti Trump, oltre al muro tra gli Usa e il Messico, che gli costerà un miliardo di dollari, ha iniziato ad espellere ogni settimana settecento clandestini. Per rispondere a questa tragedia, alcune Chiese hanno rilanciato il Sanctuary Movement (il movimento che offre asilo, rifugio, “santuario” a chi è ricercato dalla polizia per essere espulso, perché considerato “clandestino”).
È un movimento che si rifà alla tradizione biblica (Num. 35,9-34), ripresa poi nel Medioevo, per cui chi riesce a trovare rifugio in un luogo sacro o in una città asilo aveva il diritto di essere protetto. Questo movimento ha avuto inizio negli Usa negli anni Ottanta, quando Reagan deportava i rifugiati ai loro paesi come il Salvador o il Nicaragua dove li aspettava la morte. Più di cinquecento chiese si erano costituite “santuari” di asilo politico. Molti si sono salvati così.
Ora, con Trump, oltre mille istituzioni (fra queste, anche città, università e contee) hanno iniziato a dare rifugio politico a chi rischia di essere espulso. I responsabili religiosi si rifiutano di aprire le chiese alla polizia, quando viene per arrestare i clandestini. «Le chiese devono aprire i loro battenti per accogliere coloro che Trump vuole deportare - afferma nella rivista ecumenica Sojourners, B. Packnett. Se Trump decidesse di deportare undici milioni di clandestini, dobbiamo chiedere una massiccia disobbedienza civile. La resistenza è un lavoro sacro. Ecco perché è il nostro lavoro”.
Alle chiese si sono aggiunte anche alcune università, città e contee. Alle “città santuario” il 25 gennaio Trump ha deciso di tagliare i fondi federali. Ma ora è lo stesso stato della California a dichiararsi “stato-santuario”, attirandosi i fulmini di Trump. Questo movimento è uno straordinario stimolo per le sonnolente Chiese d’Europa. Data la gravità della situazione dei migranti in Europa, diventa pressante un appello anche alle Chiese in Italia perché lancino nel nostro paese il movimento delle ‘chiese santuario’!
Disobbedienza civile
È un atto di coraggio che la Chiesa cattolica in Italia deve fare: diocesi e parrocchie, comunità cristiane e conventi. È il coraggio della disobbedienza civile per la difesa della vita umana! E lo stesso coraggio lo devono avere le Chiese valdesi, luterane, battiste, metodiste, evangeliche presenti sul nostro territorio. Se le chiese dessero l’esempio, anche città, comuni, municipalità e università potrebbero seguirne l’esempio.
«Sogno un’Europa in cui essere migrante non è un delitto», ha detto papa Francesco parlando alle massime autorità della Ue. Questo è anche il nostro sogno e il nostro impegno.
*Missionario comboniano
* Fonte: Comune-info, 21 gennaio 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
Stranieri e diritti
Quei migranti senza pensiero
di Francesca Rigotti(Il Sole.24 Ore, Domenica, 21.01.2018)
C’è da chiedersi come mai la filosofia politica, nel suo costante richiamarsi alla cultura classica greca e latina, non abbia mai ripreso il «discorso di Nausicaa». Si tratta delle parole che nel libro VI dell’Odissea la giovanissima principessa dei Feaci rivolge alle sue ancelle, fuggite per lo spavento alla vista del profugo proveniente dal mare e che si rivelerà essere Ulisse: «Olà, disse, fermatevi. In qual parte/ Fuggite voi, perché v’apparve un uomo?/ Mirar credeste d’un nemico il volto? [...] Un misero è costui, che a queste piagge/ capitò errando, e a cui pensar or vuolsi. / Gli stranieri, vedete, ed i mendichi/ Vengon da Giove tutti, e non v’ha dono/ Picciolo sì, che a lor non torni caro» (tr. di I. Pindemonte).
Conosciamo a memoria il discorso di Pericle con l’elogio della democrazia ma queste parole che invitano all’accoglienza dello straniero ci sono ignote. Perché provengono da voce di donna? Perché una filosofia della migrazione in grado di riprenderle ed elaborarle non è mai stata scritta, che è l’argomento sostenuto in questo saggio poderoso e coraggioso da Donatella Di Cesare nel momento in cui ne propone a sua volta una? Certo, ci sono i pensieri nomadici di Deleuze e quelli nomadico-femministi di Braidotti; c’è la filosofia dell’esilio di Maria Zambrano e c’è un accenno di filosofia dei migranti in Vilèm Flusser (tutti, eccetto Deleuze, migranti, esuli, emigrati tornati e no, come Di Cesare, come me).
Eppure la filosofia politica tradizionale ha dimenticato i profughi e aggirato l’accoglienza. Mancano, scrive Di Cesare, «sia una riflessione sul migrare sia un pensiero intorno al migrante», e persino le idee acute e feconde di una rifugiata e apolide d’eccezione, Hannah Arendt, non vennero né da lei nè da altri elaborate in una complessiva filosofia della migrazione.
Perché di questo qui ci si occupa, non di trovare soluzioni politiche per regolare i flussi o integrare i migranti, temi che ricadono nella logica immunitaria che si comporta come la ferita che si chiude sui suoi bordi per difendersi dal corpo estraneo, e che tratta il migrante come un criminale recludendolo in campi di internamento. Qui si va alla ricerca di motivazioni e argomentazioni a favore sia di un pensiero dell’accoglienza che dia luogo - faccia posto come in uno scompartimento ferroviario, spiega la bella analogia dell’autrice - a chi arriva spinto dalle persecuzioni belliche come da quelle economiche; sia dell’elaborazione di uno ius migrandi che protegga la libertà di movimento e soprattutto promuova una redistribuzione egualitaria dei beni oltre che la condivisione della terra.
Le domande filosofiche ci interrogano dunque intorno all’autoproclamato diritto dei primi arrivati in un territorio e degli stati costituitisi intorno ad essi, di impedire o limitare a discrezione l’ingresso nel «proprio» territorio, ammettere ed escludere secondo il criterio dell’avvantaggiare i nostri, il nostro prossimo: «prima noi, prima i nostri, America ( o altro stato a piacere) first».
Ma anche, e a monte di questo, sul diritto di garantire giustizia sociale soltanto al vicino, al prossimo, al concittadino. È un grande tema su cui si sono interrogati Cicerone come pure Martha Nussbaum, e che val la pena di riprendere: dove Cicerone con cautela afferma che dovremmo preferire, nell’assegnare assistenza e aiuto, il vicino e l’amico, ed estendere l’aiuto e l’assistenza a chi è lontano o viene da lontano solamente se ciò può essere fatto senza sacrifici e dispendi per noi, Martha Nussbaum pensa e dice esattamente il contrario. Per motivare l’affermazione che abbiamo doveri verso persone in stato di bisogno che vengono da altre nazioni, Nussbaum sostiene che è incombente per noi abitanti dei paesi opulenti il dovere di salvare dalla fame, dalla povertà e dalla guerra abitanti di nazioni povere, affamate e in guerra. I doveri legati al senso di giustizia non si devono limitare a concedere beni non materiali (e non costosi) come rispetto e dignità, ma anche a distribuire aiuto materiale (che incide innegabilmente sulla tassazione).
Per parte sua Di Cesare analizza con acribia gli argomenti di coloro che sostengono il respingimento dei profughi in base alla priorità dei cittadini sugli immigrati, all’integrità nazionale e alla proprietà del territorio, tutte asserzioni che non hanno fondamento filosofico. E questo, anche se poi il migrante ben sa che la cesura dell’emigrazione non potrà mai essere saldata e riparata perché è un’esperienza che marchia a fuoco e che rende impossibile il ritorno all’innocenza.
Alla pars destruens del testo, che va a criticare la giustizia locale di Rawls e varie posizioni nazionaliste, liberali e cosmopolitiche, ma soprattutto il comunitarismo di Michael Walzer, nel cui stato-club l’appartenenza alla comunità è condizione di distribuzione di beni, segue la pars construens, che discute tre modelli dell’abitare la terra. Il modello dell’autoctonia ateniese, con la sua omogeneità garantita dalla purezza del ghénos e legata all’identità dell’origine; il modello aperto della civitas romana dove la cittadinanza è inclusiva e dinamica e infine il modello del paesaggio ebraico dove abitano gli «stranieri residenti» del titolo. La fonte della sovranità ebraica è l’estraneità, la condizione dello straniero da rispettare, «perché anche voi foste stranieri in Egitto».
Nella proposta di Di Cesare ospitalità e cittadinanza coincidono, nell’orizzonte di una comunità dissociata dalla nazione, dalla nascita e dalla filiazione, aperta all’accoglienza - come quella esercitata da Nausicaa con le parole e con le sue azioni - nonché capace di dar luogo a forme politiche dove l’immune lascia la precedenza al comune.
Putin: il Mausoleo resta, «Lenin è come un santo»
Russia. «Comunismo come cristianesimo», dice il presidente. E per i sondaggi il fondatore dell’Urss è ancora il personaggio più popolare
di Yurii Colombo (il manifesto, 16.01.2018)
MOSCA Vladimir Putin in un’intervista concessa per il documentario “Valaam”, andato in onda domenica sera su Rossia1, ha messo una pietra tombale - e metafora non potrebbe essere più calzante - al dibattito sulla rimozione del mausoleo di Lenin. Il mausoleo resta lì e ci resterà, almeno fino a quando ci sarà Putin.
Secondo l’inquilino del Cremlino «Lenin è stato messo in un mausoleo. In cosa ciò è diverso dalle reliquie dei santi per gli ortodossi e in generale per i cristiani? Quando mi dicono che nel cristianesimo non c’è una tradizione simile, non capisco. Guardate il monastero del monte Athos dove sono conservate le reliquie dei santi, anche da noi sono conservate le reliquie dei santi».
La venerazione dei comunisti per il «Capo» sorsero in certe condizioni storiche. «Forse dirò qualcosa ora che a qualcuno non piacerà - ha detto Putin - ma dirò quello che penso. In primo luogo, la fede, ci ha sempre accompagnato. Si rafforzò tra la gente quando nel nostro paese la vita era particolarmente dura... quando i sacerdoti venivano uccisi, quando le chiese venivano distrutte, ma al contempo venne creandosi una nuova religione», quella comunista.
Vladimir Putin non ha evitato di affrontare il tema più scottante, quello del confronto tra comunismo e cristianesimo. Secondo il presidente russo «l’ideologia comunista è sulla carta molto simile al cristianesimo, infatti valori come la libertà, l’uguaglianza, la fraternità e la giustizia si ritrovano nelle Scritture. Il codice del comunismo? È una sublimazione, si tratta di una sintesi di quanto scritto nella Bibbia, non è stato inventato nulla di nuovo».
Parole che hanno provocato, inevitabilmente, molte reazioni. Il partito comunista russo di Zyuganov ha plaudito all’intervista. Il vice presidente del comitato centrale del Pc, Ivan Melnikov, ha sostenuto che «le parole del presidente sono molto corrette e argomentate al fine di smussare gli spigoli più duri sulla questione del mausoleo. A questo proposito, la valutazione di queste tesi non può che essere positiva». Putin si è avventurato in un tema ancora così divisivo in Russia, non certo per ingraziarsi i comunisti. I sondaggi di Pavel Grudinin, stagnano dopo la scoperta che il candidato comunista alla presidenza possiede 5 conti bancari all’estero.
Putin, ha invece sostenuto queste tesi - secondo gli analisti - da «statista super partes», per continuare quel percorso di «riappacificazione» tra russi al di là della storia sovietica. E sicuramente deve aver buttato l’occhio sui sondaggi secondo cui «Lenin resterebbe il personaggio storico più popolare in Russia», ma non già più come capo rivoluzionario, ma come “Dyadya Lenin” (nonno Lenin), fondatore della moderna Russia. E non solo: la maggioranza dei russi considererebbe ancora oggi «l’uguaglianza», il valore più importante da preservare.
Giudizio negativo invece dalla candidata liberale Xenia Sobchak, la quale ha sostenuto che «a Lenin dovrebbe essere data degna sepoltura vicino ai suoi cari» ricordando che il «70% dei russi è favorevole a tale soluzione»; ma anche dal presidente della Cecenia Razman Kadyrov, il quale non ha mai nascosto il suo viscerale anticomunismo.
Il mausoleo venne eretto nel 1924 sulla piazza Rossa ai piedi del Cremlino e contiene la salma imbalsamata del fondatore dell’Urss. Come è noto la moglie di Lenin, Nadezda Krupskaya e alcuni dirigenti bolscevichi allora si dichiararono contrari al mausoleo fortemente voluto invece da Stalin.
Tuttavia, dopo il crollo dell’Unione sovietica, il dibattito sul mausoleo ha assunto tutt’altro significato politico, unificando tutta la sinistra nella sua difesa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO. L’analisi di Gramsci (già contro derive staliniste!), una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà
LA COSTRUZIONE DEL SUPERUOMO: POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA. L’Italia come volontà e come rappresentazione di un solo Partito: "Forza Italia"!!! Materiali per un convegno prossimo futuro
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
L’appello.
Ricoeur: «Migranti, Europa ricorda la tua storia»
di Paul Ricoeur (Avvenire, martedì 16 gennaio 2018)
La cultura europea presa nel suo insieme è forse la sola che ha assunto il compito considerevole di coniugare in modo così costante convinzioni e critica. Così il cristianesimo, a differenza dell’islam, ha dovuto sempre venire a patti con il suo avversario razionalista e interiorizzare la critica in auto-critica. In un certo senso la crisi non è un accidente contingente, meno ancora una malattia moderna: è costitutiva della coscienza europea.
L’eterogeneità delle tradizioni fondatrici e la discordanza tra convinzioni e critica mi hanno indotto a pronunciare la parola fragilità. È su questa fragilità dello spazio d’esperienza dell’Europa che vorrei insistere prima di rivolgermi verso quella della coscienza del futuro. In effetti si passa facilmente dalla fragilità alla patologia. Quest’ultima si presenta come una crisi della memoria e della tradizione.
Crisi della memoria: tocchiamo qui un paradosso sconcertante; spesso le regioni, le nazioni o i popoli soffrono a volte di un eccesso di memoria, altre di un difetto di memoria. Nel primo caso, illustrato tragicamente dall’ex Jugoslavia, ogni comunità vuole ricordarsi solo delle epoche di grandezza e gloria, e per contrasto solamente delle umiliazioni subite.
Nel secondo caso, quello dell’Europa occidentale post-staliniana, il rifiuto della trasparenza equivale a una volontà di oblio e conduce a una fuga davanti alla colpa. Ciò che è comune a questi due fenomeni, in apparenza opposti, è un rapporto pervertito con la tradizione. Strappata dalla dialettica prima evocata tra lo spazio d’esperienza e l’orizzonte dell’attesa, la tradizione si riduce a un deposito sedimentato e pietrificato che gli uni esaltano e gli altri si sforzano di nascondere e seppellire.
Ma la crisi della memoria e della tradizione non avviene senza una crisi della proiezione verso il futuro; a volte l’orizzonte d’attesa si svuota di ogni contenuto, di ogni scopo degno di essere perseguito; così si riscontra un po’ dappertutto il diffondersi della diffidenza nei confronti di ogni previsione a medio termine e a maggior ragione nei confronti di ogni profezia a lungo termine; ma i fatti, all’opposto, si lasciano ugualmente osservare: in assenza di un progetto accessibile, ci si rifugia nelle utopie di sogno che distruggono ogni ragionevole e tenace volontà di riforme.
Questa doppia patologia che riguarda tanto il futuro quanto il passato si riflette a sua volta in un impoverimento del presente, compresa, come ho suggerito prima, la capacità d’iniziativa, d’intervento nel corso delle cose.
È così che si assiste qui e là a una privatizzazione dei desideri e dei progetti, a un culto del consumerismo a corto raggio; all’origine di questo movimento di ripiegamento si percepisce senza fatica un disimpegno nei confronti di ogni responsabilità civica. Gli individui dimenticano che la nazione non esiste che in virtù di un voler vivere insieme sostenuto e ratificato da un vecchio tacito contratto tra i cittadini di uno stesso popolo e di una stessa nazione. L’individualismo, che sovente si deplora senza analizzarlo, è senza dubbio l’effetto del movimento di ritiro fuori da questo voler vivere insieme e fuori dal contratto civico che ratifica quest’ultimo. Qui ancora, la patologia del legame sociale non fa che rendere visibile l’estrema fragilità di quello.
Concluderò questa riflessione sulla crisi della coscienza storica in Europa sottolineando il fenomeno sul quale Koselleck mette fortemente l’accento, cioè la perdita di ogni senso della storia, di ogni orientamento nel tempo storico.
Se alcuni parlano di epoca post-moderna, l’espressione è giustificata, nella misura in cui si può identificare la modernità all’idea razionale di progresso. In fondo non soffriamo meno della cancellazione dell’idea di progresso ricevuta dall’epoca dei Lumi che della secolarizzazione che patisce l’Europa cristiana, se non addirittura dell’allontanamento assai marcato dalla sorgente greca ed ebraica della nostra cultura privata e pubblica. È in questo modo che il crollo dell’idea di progresso conduce per contrasto ad aumentare uno dopo l’altro il sentimento di aleatorietà, o quello di un destino opprimente, quando non conduce a cedere alla seduzione esercitata su di noi dalle idee di caos, di differenza e di erranza. Quest’ultimo termine dovrà allertarci qui e ora quando ci riferiamo alle migrazioni.
Perché le migrazioni riuscite che hanno fatto l’Europa e alle quali ho fatto già una prima allusione, sono state il contrario di un’erranza; o piuttosto vi sono forme di erranza che sono state intercettate e interrotte da lenti e penosi tentativi di acculturazione dei barbari da cui tutti discendiamo in qualche grado, negli spazi culturali stabiliti dall’Impero romano, poi dall’Europa cristiana, dal Rinascimento, dalla Riforma e dall’Europa dei Lumi. Sono queste le componenti di ciò che abbiamo prima chiamato spazio d’esperienza. -Prima di essere degli spazi di sedimentazione, furono degli spazi d’integrazione, di stabilizzazione. Ed è per questo che si pone la questione di sapere se, per riprendere una formula di Habermas, il progetto dei Lumi è oggi esaurito o, risalendo più in alto nel passato, se l’eredità greco-romana e l’eredità giudeo-cristiana sono ancora suscettibili d’essere riattivate.
Una tradizione non resta vivente se non è sempre reinterpretata. Questa osservazione si applica tanto alle tradizioni cristiane quanto alle eredità greco-romane, medievali così come alle tradizioni ricevute dall’epoca dei Lumi. La critica stessa è una tradizione tra le altre, incorporata nelle convinzioni ereditate e richiesta a una cultura continuamente rinnovata. Inoltre, alla luce della critica storica, una tradizione si rivela essere portatrice di promesse non adempiute, cioè impedite e rimosse dai nuovi attori della storia.
Si può dire, senza paradosso eccessivo, che gli uomini appartenenti a epoche passate erano portatori di attese, sogni, utopie che non sono stati soddisfatti e che importa liberare e incorporare alle nostre proprie attese, per fornirgli un contenuto e, oso dire, un corpo. In breve, occorre accedere a una concezione aperta della tradizione. Più esattamente, occorre riaprire il passato e liberare il suo carico di futuro.
Non vi è qui una forma di migrazione nell’incompiuto del passato? Quest’ultima suggestione ci permette di dire una parola sulla terapia del futuro. Liberare le promesse non mantenute del passato è già una parte della terapia, nella misura in cui ciò di cui soffre la nostra capacità di proiezione nel futuro è una mancanza di contenuto. In questo senso, innovazione e tradizione sono le due facce di uno stesso fenomeno costitutivo della coscienza storica. Ma concordo volentieri che non è sufficiente attingere al passato e trattare le tradizioni come risorse vive piuttosto che come depositi per alimentare il nostro slancio verso il futuro. Qui vorrei insistere su un aspetto del problema che tocca la questione della migrazione in quanto aspetto del cambiamento culturale.
L’invenzione maggiore alla quale oggi siamo invitati riguarda l’integrazione le une con le altre delle attitudini nei confronti del futuro che sono sempre minacciate di dissociarsi: che si tratti di prospettive tecnologiche, di anticipazioni economiche, di risoluzioni di problemi morali inediti posti dalle minacce all’eco-sistema, dalle possibilità d’intervento nel patrimonio genetico umano, dalla sovrabbondanza dei segni in circolazione eccedenti la nostra capacità di integrazione.
Dico che questo problema d’integrazione tocca il fenomeno della migrazione, nella misura in cui le migrazioni riuscite del passato sono consistite anch’esse in una integrazione progressiva di valori eterogenei, a uno spazio culturale di accoglienza che si è arricchito esso stesso delle invasioni che hanno nell’immediato minacciato la sua coesione.
Amerei aggiungere a queste due componenti della terapia del passato di cui stiamo parlando, l’integrazione delle promesse liberate dal peso di un passato morto e la nostra capacità di progettare l’avvenire e l’integrazione in uno stesso orizzonte d’attesa di modalità eterogenee d’anticipazione. Questa terza componente è la più difficile da apprezzare nel suo giusto valore; voglio parlare della dimensione utopica. Si può diffidare delle utopie, in ragione della loro rigidità dottrinale, del loro disprezzo nei confronti delle prime misure concrete da prendere in direzione della loro realizzazione. Ma i popoli non possono più vivere senza utopia, così come gli individui senza sogno. -(Traduzione di Riccardo De Benedetti © Comité éditorial Fonds Ricoeur)
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
HUSSERL CONTRO L’HOMUNCULUS: LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI). Una ’traccia’ dal "Diario fenomenologico")
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
“Il fascismo è eterno: ecco come lo si può riconoscere”
Non pensiero ma azione
di Umberto Eco (Il Fatto, 11.01.2018)
Il termine “fascismo” si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista. [...] Ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche tipiche di quello che vorrei chiamare l’“Ur-Fascismo”, o il “fascismo eterno”. che non possono venire irreggimentate in un sistema; molte si contraddicono reciprocamente, e sono tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo. Ma è sufficiente che una di loro sia presente per far coagulare una nebulosa fascista.
1. [...] Il culto della tradizione. Il tradizionalismo è più vecchio del fascismo. Non fu solo tipico del pensiero controrivoluzionario cattolico dopo la Rivoluzione francese, ma nacque nella tarda età ellenistica come una reazione al razionalismo greco classico. Nel bacino del Mediterraneo, i popoli di religioni diverse (tutte accettate con indulgenza dal Pantheon romano) cominciarono a sognare una rivelazione ricevuta all’alba della storia umana. Questa rivelazione era rimasta a lungo nascosta sotto il velo di lingue ormai dimenticate. Era affidata ai geroglifici egiziani, alle rune dei celti, ai testi sacri, ancora sconosciuti, delle religioni asiatiche. Questa nuova cultura doveva essere sincretistica. [...] tollerare le contraddizioni. Come conseguenza, non ci può essere avanzamento del sapere. La verità è stata già annunciata una volte per tutte [...] È sufficiente guardare il sillabo di ogni movimento fascista per trovare i principali pensatore tradizionalisti. [...]
2. Il tradizionalismo implica il rifiuto del modernismo. [...] Tuttavia, sebbene il nazismo fosse fiero dei suoi successi industriali, la sua lode della modernità era solo l’aspetto superficiale di una ideologia basata sul “sangue” e la “terra” (Blut und Boden). [...] L’illuminismo, l’età della ragione vengono visti come l’inizio della depravazione moderna. In questo senso, l’Ur-Fascismo può venire definito come “irrazionalismo”.
3. L’irrazionalismo dipende anche dal culto dell’azione per l’azione. [...] Pensare è una forma di evirazione. Perciò la cultura è sospetta nella misura in cui viene identificata con atteggiamenti critici. [...]
4. Nessuna forma di sincretismo può accettare la critica. Lo spirito critico opera distinzioni, e distinguere è un segno di modernità. Nella cultura moderna, la comunità scientifica intende il disaccordo come strumento di avanzamento delle conoscenze. Per l’Ur-Fascismo, il disaccordo è tradimento.
5. Il disaccordo è inoltre un segno di diversità. L’Ur-Fascismo cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza. [...] è dunque razzista per definizione.
6. L’Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici è stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni.
7. A coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese. È questa l’origine del “nazionalismo”. Inoltre, gli unici che possono fornire una identità alla nazione sono i nemici. Così, alla radice della psicologia Ur-Fascista vi è l’ossessione del complotto, possibilmente internazionale. I seguaci debbono sentirsi assediati. Il modo più facile per far emergere un complotto è quello di fare appello alla xenofobia. [...]
8. I seguaci debbono sentirsi umiliati dalla ricchezza ostentata e dalla forza dei nemici. [...]
9. Per l’Ur-Fascismo non c’è lotta per la vita, ma piuttosto “vita per la lotta”. Il pacifismo è allora collusione col nemico[...].
10. L’elitismo è un aspetto tipico di ogni ideologia reazionaria, in quanto fondamentalmente aristocratico. Nel corso della storia, tutti gli elitismi aristocratici e militaristici hanno implicato il disprezzo per i deboli. L’Ur-Fascismo non può fare a meno di predicare un “elitismo popolare”. Ogni cittadino appartiene al popolo migliore del mondo, i membri del partito sono i cittadini migliori, ogni cittadino può (o dovrebbe) diventare un membro del partito. Ma non possono esserci patrizi senza plebei. Il leader, che sa bene come il suo potere non sia stato ottenuto per delega, ma conquistato con la forza, sa anche che la sua forza si basa sulla debolezza delle masse, così deboli da aver bisogno e da meritare un “dominatore”. [...]
L’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme - ogni giorno, in ogni parte del mondo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!! NEL 1994 UN CITTADINO REGISTRA IL NOME DEL SUO PARTITO E COMINCIA A FARE IL "PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA" DEL "POPOLO DELLA LIBERTA’"
UNA DOMANDA ALL’ITALIA: MA COME AVETE FATTO A RIDURVI COSI’?! UN "BORDELLO STATE": UN PAESE BORDELLO. Una nota di Maurizio Viroli (dagli Usa) - e una risposta (agli americani, dall’Italia)
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
Federico La Sala
FEMMINISMO
Je ne suis pas Catherine Deneuve
di Ida Dominijanni, giornalista *
La scoperta delle molestie e dei ricatti sessuali in uso a Hollywood e in tutto il mondo del lavoro americano dimostra che questi non sono tempi buoni né per il desiderio né per l’esercizio della sessualità fra donne e uomini. Com’era già accaduto in Italia con gli scandali sessuali d’epoca berlusconiana, quello che viene alla luce non è solo la tentazione maschile perenne all’abuso di potere, che riduce le donne a oggetto da possedere e la libertà femminile a disponibilità di concedersi. È anche, forse soprattutto, una diffusa miseria della sessualità maschile, che scambia potere, favori, assunzioni in cambio di briciole come un massaggio sotto un accappatoio, una masturbazione a cielo aperto, un assoggettamento a una virilità incerta. Una miseria sessuale che è parente stretta di una miseria relazionale, ovvero di una altrettanto diffusa incapacità maschile di relazionarsi all’altra, al suo desiderio e ai suoi dinieghi, alla sua forza e alla sua vulnerabilità, alla sua libertà e alle sue necessità.
Precisamente il cinema hollywoodiano, a ben guardare, ci aveva lentamente abituato, nell’ultimo decennio, a questo progressivo immiserimento, per non dire scomparsa, della sessualità nelle relazioni fra uomini e donne, con un sottile ma percettibile scivolamento dalle scene di sesso passionale degli anni novanta a quelle quasi sempre giocate successivamente su un ambiguo confine fra sesso e violenza, sesso e possesso, sesso e performance. E del resto basterebbe il successo sorprendente, e non a caso contemporaneo al #metoo, di un racconto come Cat person per farsi un’idea dello stato delle cose: in questo caso non c’è ombra di violenza né di molestie, ma la miseria sentimentale è la stessa, l’alfabeto della seduzione è precipitato nel dimenticatoio e ogni passione è spenta.
Quello che sta saltando con il #metoo e il Time’s up è il tappo di silenzio-assenso femminile che copriva questa situazione. A un primo sguardo, certo, si tratta di movimenti contro le molestie e i ricatti sessuali, e contro l’abuso di potere maschile che c’è dietro. Ma com’era già avvenuto in Italia pochi anni fa, la presa di parola femminile ha l’effetto di svelare qualcosa di più profondo, un “dispositivo di sessualità”, per dirlo con l’espressione di Foucault, in cui il desiderio non ha più posto e il sesso è ridotto a contrattazione, ricatto, performance. E da cui è urgente uscire, se i destini della sessualità come espressione libera e creativa della specie umana ci stanno a cuore.
Perciò è del tutto fuori campo e fuori fuoco la reazione, finora prevalentemente maschile nonché prevalentemente italiana, di chi ulula che all’esito del #metoo ci sarebbe l’oscurantismo politically correct di un totalitarismo (sic!) proibizionista e sessuofobico.
È vero l’esatto contrario: il #metoo, e in generale la presa di parola femminile contro l’andazzo corrente della miseria del maschile, nasce in una situazione che ha già mandato a morte la sessualità, e forse più farla risorgere, una volta liberata dal dispositivo di cui sopra.
Non stupisce che a non capirlo sia, in Italia, lo stesso fronte mediatico, il Foglio in testa, che agitò gli stessi fantasmi liberticidi, sessuofobici e proibizionisti a tutela della “libertà” e della “seduzione” che circolava nelle “cene eleganti” di Berlusconi, già allora paventando e minacciando la fine dell’ars amatoria, la censura della passione, l’inibizione del corteggiamento, e impugnando l’inscindibilità del sesso da una certa dose (quale, esattamente?) di prevaricazione, o l’indecidibilità fra molestia e avance.
Stupisce di più - ma in fondo neanche tanto - che a usare gli stessi argomenti sia adesso un gruppo di donne francesi - intellettuali, artiste, attrici, psicoanaliste, giornaliste, fra le altre una campionessa riconosciuta della seduzione doc come Catherine Deneuve - le quali si lanciano nella difesa della “libertà di importunare, indispensabile alla libertà sessuale”, come se il #metoo avesse già instaurato un regime del divieto dove nessuno può sporgersi sull’altra e nessuna sull’altro, il nemico delle donne sono gli uomini nella loro totalità, la parola femminile, altro che liberarsi, si autoimprigiona in un codice politically correct autoinibitorio, e le donne, altro che guadagnarci qualcosa, si auto-segregano nel ruolo di “eterne vittime dominate da demoni fallocrati”. Potenza dei fantasmi maschili interiorizzati anche dalla mente femminile, o “differenza culturale” francese vs egemonia “puritana” americana? L’una e l’altra cosa, probabilmente, e la seconda non meno influente della prima.
Non c’è donna al mondo che non sappia distinguere un “corteggiamento insistente e maldestro” da uno stupro, come le firmatarie dell’appello francese temono: esse stesse non possono non saperlo. Non c’è persona sana di mente che non possa aver registrato, seguendo le vicende del #metoo o più semplicemente la recente cerimonia dei Golden Globe sotto il segno del Time’s up, che tutto circola fra le silence breakers americane tranne un’autovittimizzazione inerziale e passiva: tutta la faccenda sembra al contrario parecchio empowering, e parecchio liberatoria anche per quegli uomini che la guardano con curiosità e fiducia invece che attaccarsi come Francesca Bertini alle tende di una virilità decadente. E anche questo le consorelle francesi non possono non averlo notato.
Ma si sa che la Francia è la Francia, e quand’è in gioco la sacra triade della modernità pretende sempre di avere l’ultima parola, a costo di far diventare la libertà “libertà di importunare”, o, come ai tempi di Charlie Hebdo, liberté d’impertinence, sottospecie opinabile della libertà d’espressione.
Ma il politically correct gioca brutti scherzi . Allora fu molto politically correct, e conformista, lo slogan “Je suis Charlie Hebdo”, e molto politically uncorrect, e anticonformista, arrogarsi il diritto di dire “Je ne suis pas Charlie Hebdo”: negli Stati Uniti lo rivendicarono in molti, anche nella stampa mainstream, in nome di una libertà di religione che non poteva essere conculcata dalla libertà di satira. Questione di punti di vista. Del resto, anche i simboli della seduzione non sono eterni e risentono dell’usura del tempo. A dispetto di uno slogan che ha fatto scuola per generazioni di donne, oggi la palma della seduttività passa a chi può permettersi allegramente di dire “Je ne suis pas Catherine Deneuve”.
* Internazionale, 10 gennaio 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Ragione ("Logos") e Amore ("Charitas"). Per la critica dell’economia politica ..... e della teologia "mammonica" ( "Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006)
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"
PIANETA TERRA. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
Il tabù delle mestruazioni: quello che le donne ora dicono
Un evento naturale che è da sempre circondato da imbarazzi e superstizioni. Ma dall’Europa al Nepal le cose stanno cambiando. Abbiamo cercato di capire quanto
di Silvia Bencivelli *
Questo articolo parla di mestruazioni. Non di “cose”, fiori, zie, marchesi, baroni rossi, visite da Roma, cardinali, nature, giacomine e caterine varie. Tantomeno di impurità, immondizie, affari schifosi, mostruosi e oscuri. Parla semplicemente di mestruazioni: quell’evento poco meno che mensile che tra il menarca (la prima volta) e la menopausa (l’ultima) segna senza particolari patemi la vita delle donne in età fertile.
Oggi, tolti di mezzo i pudori, sappiamo che la segna senza macchiarla, per circa 2.400 giorni nel corso di una vita. E sappiamo anche perché avvenga, cioè perché quattro o cinque giorni ogni ventotto le donne in età fertile perdano sangue dalla vagina. Lo si trova persino nei libri di terza media: è il ciclo mestruale, che dipende dall’equilibrio tra alcuni ormoni che regolano la produzione di una cellula uovo al mese. Se questa non viene fecondata (ed è la cosa largamente più frequente) l’epitelio dell’interno dell’utero, che era pronto ad accogliere l’embrione, si sfalda, quindi si ha il sanguinamento e cioè la mestruazione.
Prima di capirlo, però, consideravamo quei giorni un momento spaventosamente misterioso. Così le vite delle nostre antenate, delle nostre nonne, delle nostre madri, e un po’ anche le nostre, sono state afflitte da leggende secondo le quali in quei giorni facevamo appassire i fiori e impazzire la maionese, mandavamo il vino in aceto e rendevamo acida la conserva di pomodoro.
Ce lo ricordano due libri che raccontano superstizioni e tabù di un passato non troppo passato. Il primo è di Marinella Manicardi, attrice e regista che sulle mestruazioni ha fatto uno spettacolo teatrale dal titolo Corpi impuri per il Festival della Filosofia di Modena, e oggi ha scritto un libro dallo stesso titolo per la casa editrice Odoya. Il secondo è in uscita per Einaudi: Questo è il mio sangue, della giornalista francese Élise Thiébaut, che sarà in libreria dal 23 gennaio.
L’idea di fondo dei due libri è simile: di mestruazioni non si parla, e questo ha contribuito, e contribuisce ancora, alla discriminazione di genere. Thiébaut annuncia una prossima e necessaria “rivoluzione mestruale”, che darà alle donne consapevolezza del proprio corpo e della propria identità. Manicardi parte invece dalla letteratura: Anna Karenina non ha mai le mestruazioni e non le ha mai neppure Emma Bovary. -C’è un’unica eccezione: Margherita, la signora delle camelie. Ma era una prostituta. E la ragione per cui, ogni mese, le sue camelie erano cinque giorni rosse e gli altri bianche Alexandre Dumas la lascia solo intuire. «Se i tempi sono cambiati? Beh, mica tanto» dice Manicardi. Quanto alla nuova pubblicità in cui il sangue viene finalmente rappresentato da un liquido di colore rosso, invece dell’azzurro alieno degli spot precedenti, c’è poco da festeggiare. «È la prima, appunto, e siamo nel 2017».
Oltre agli spot e ai libri, ci sono però anche le provocazioni artistiche, come quella della tedesca Elone, che ha riempito le vie di Karlsruhe di assorbenti con scritte frasi contro la violenza sulle donne, o quella della portoghese Joana Vasconcelos, che ha costruito un lampadario con 14 mila assorbenti interni. E soprattutto ci sono le provocazioni politiche, come il movimento free bleeding, che propone di non usare assorbenti e di lasciare che il sangue si mostri.
Nel 2015 l’attivista statunitense di origine indiana Kiran Gandhi ha corso così la maratona di Londra (quindi 42 chilometri), e ha spiegato: «L’ho fatto per le mie sorelle che non hanno accesso agli assorbenti e per quelle che li nascondono». In India, infatti, una ragazza su dieci considera il ciclo una malattia e una su quattro al raggiungimento della pubertà è costretta a lasciare la scuola. Mentre in Nepal solo ad agosto di quest’anno è approvata una legge che punisce la pratica millenaria del chhaupadi, cioè la reclusione delle donne mestruate in capanne isolate, in cui non mangiano e non bevono, e possono essere morse dai serpenti.
Anche da noi il pregiudizio antimestruazioni è antico: «Dai tempi di Ippocrate in poi il corpo femminile è sempre stato considerato la versione imperfetta di quello maschile» racconta Francesco Paolo de Ceglia, storico della scienza all’Università di Bari. «Gli organi della generazione sono introflessi, e il tutto viene descritto come umido, molle». Questa “umidità” femminile si credeva destinata a nutrire il bambino, «e si diceva che venisse espulsa con le mestruazioni, una specie di liberatorio salasso naturale». L’idea dell’impurità arriva dalla religione. Ma, prosegue de Ceglia, «la scienza la assorbe. Così si giunge al concetto per cui le mestruazioni sono un po’ come escrementi».
Però poi la scienza è avanzata, vero? «Sì, certo» concede Carlo Flamigni, ginecologo, scrittore e saggista, «ma mica tanto tempo fa». Sono solo sessant’anni che conosciamo la questione dell’utero e dell’ovaio. Flamigni si è laureato nel 1959 e racconta che anche nei libri universitari su cui ha studiato «le mestruazioni servivano a espellere le sostanze tossiche accumulate nel corpo femminile, e segnatamente una che si chiamava menotossina». Quindi, aggiunge, «se il tabù esiste ancora, credo che per superarlo debba scomparire un’intera generazione, la mia».
Solo sessant’anni significa che le nostre nonne venivano considerate così pericolosamente instabili da non avere accesso alla magistratura. Fino al 1963 lo diceva proprio la legge italiana, nero su bianco: «Fisiologicamente tra un uomo e una donna ci sono differenze nella funzione intellettuale, e questo specie in determinati periodi della vita femminile». Indovinate quali.
Alla fine della fiera è difficile dire se qualcosa degli antichi pregiudizi rimanga anche nelle nostre teste, o se siamo vicini alla fine del tabù. «Che io sappia non ci sono dati o rilevazioni affidabili che ci permettano di esprimerci sull’esistenza del tabù» commenta Paola Borgna, sociologa dell’Università di Torino. Ognuno potrà avere le proprie impressioni: «La mia è che il tabù a sfondo religioso sia stato sostituito dalla medicalizzazione. Ed è un aspetto di un processo di medicalizzazione del corpo e delle società più generale, che dà origine a nuove forme di controllo delle nostre vite».
Un dato di fatto è che, oltre alle donne giudice, oggi possiamo avere le donne astronauta, come Samantha Cristoforetti, che considera gli assorbenti l’ultima delle sue preoccupazioni, terrestri ed extraterrestri: «Se mi chiedono come si viva con le mestruazioni nello spazio? A dire il vero non tanto spesso». Un giorno però Carla ha mandato la domanda al suo blog avamposto42, e Samantha ha risposto così: «Beh, non vorrei fare a cambio con la necessità di radermi il viso tutte le mattine in assenza di peso!». Come dire: l’età adulta e gli ormoni della fertilità propongono modeste seccature. Per i maschi si tratta di farsi
barba e baffi più o meno ogni mattina. Le femmine in fondo se la cavano con quattro o cinque giorni al mese, e nel 2017 non devono più nemmeno fare la fatica di inventarsi giri di parole: sono mestruazioni, semplicemente mestruazioni.
* la Repubblica, 15 dicembre 2017
SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
IL PROGRAMMA DI KANT. DIFFERENZA SESSUALE E BISESSUALITA’ PSICHICA: UN NUOVO SOGGETTO, E LA NECESSITA’ DI "UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA".
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
Federico La Sala
Gerusalemme, città unica, indivisibile e inappropriabile
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, 11.12.2017)
Unica, indivisibile, inappropriabile, impossibile da capitalizzare, Gerusalemme è la città che si sottrae all’ordine degli Stati-nazione. Ne eccede la ripartizione, la trascende, la interdice. Contro questo scoglio, o meglio, contro questa rocca, sono naufragati tutti i tentativi che, in un’ottica statocentrica e nazionale, hanno mirato solo a frazionarla e segmentarla. Smacco della diplomazia e, ancor più, fallimento di una politica che procede con il metro e con il calcolo.
Gerusalemme non divide; al contrario, unisce. Ed è proprio questa unità la sfida che non è stata raccolta. Perché già da tempo avrebbe dovuto essere immaginata una nuova forma politica di governo capace di rispondere alla sovranità verticale di questa città straordinaria, di rispondere alla sua costitutiva apertura orizzontale.
Qui sta il punto della questione, ma nulla di ciò è avvenuto. Piuttosto si è fatta valere l’ipotesi, oramai sempre più lontana, di due Stati separati da confini incerti, precari, minacciosi.
Non sarebbe stata, non è, anzi, più saggia, seppure inedita, la via di due comunità confederate? Sono oramai molti a crederlo.
Città degli stranieri, culla dei monoteismi, residenza dell’Altro sulla terra, anche per i laici, Gerusalemme è quel luogo dell’ospitalità che resiste a una forzata e artificiosa spartizione.
Yerushalaim, capitale di Israele - chi potrebbe non riconoscerlo? - ma anche soglia che Israele è chiamato a oltrepassare. Come ha già fatto - è bene ricordarlo - con la libertà di culto. Ogni rivendicazione nazionalistica, da ambo le parti, è fuori luogo.
Qui dove si richiederebbero mitezza, prudenza, perspicacia, l’atto arrogante e fragoroso del trumpismo danneggia sia israeliani sia palestinesi. E tuttavia, proprio perché è lo scoglio teologico contro cui urta la politica, Gerusalemme può divenire modello extrastatale e banco di prova di future lungimiranti relazioni fra i popoli.
*
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Donatella Di Cesare, la sovversione di coabitare il mondo
«Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione», per Bollati Boringhieri. Un pensiero politico contro la xenofobia populista e il razzismo. La nostra casa non è lo Stato, né il mercato, ma il mondo intero: l’Internazionale
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 14.12.2017)
Chi è alla ricerca di un’istanza politica contraria al «nazionalismo» in epoca «post-nazionale» e al sovranismo razzista che lega la destra e la sinistra nell’abbraccio mortale con il populismo, la può trovare in Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione (Bollati Boringhieri, pp. 275, euro 19). È un libro importante quello scritto da Donatella Di Cesare, potente nella decostruzione della sovranità, incalzante nello svolgimento tra riflessione genealogica, racconto e saggio. Una prova dello stile della filosofia contemporanea: il «pensiero dell’attualità». Questo libro, scrive l’autrice, è un contributo alla definizione di uno jus migrandi in un momento politico in cui i diritti fondamentali delle persone sono soggetti a una torsione securitaria tale che appare lecito chiedersi se non sia finita l’idea stessa di ospitalità.
LA FILOSOFIA della migrazione non è una teoria dell’erranza senza ritorno alla «terra madre» o all’autorevole «padre». Non è una teoria economica, biologica o un’etica dell’«Altro». È una filosofia politica anti-sovranista, una politica della «coabitazione» nella terra spaesata, per di più in tempi di «globalizzazione» dove facciamo ritorno a una casa che è sempre altrove. Questa filosofia è l’espressione di un «diritto di fuga», mentre la libertà soggettiva di chi emigra è punita, tradotta in mobilità, resa adattabile a «quote» e fabbisogni di manodopera. Il migrare eccede ogni misura e indica un destino più ampio, il soggiorno umano sulla terra riguarda tutti, nessuno escluso.
SIN DA PLATONE e Aristotele la figura dello straniero ha destabilizzato il nomos stanziale della filosofia e oggi scuote le radici dello Stato in quanto átopos - il senza luogo, il fuori-luogo ovunque del nomadismo. Lo Straniero è una figura presente in tutte le culture e le religioni. Nella Torah, ad esempio, gli abitanti della terra sono gherim vetoshavim, stranieri e residenti temporanei allo stesso tempo. Questa è anche la condizione del lavoratore a giornata, il lavoratore che vende la forza lavoro, in cambio ottiene un salario spesso non sufficiente per sopravvivere, in più è sfruttato. Senza contare che, in questo caso, l’estraneità è l’esperienza di tutti i lavoratori rispetto al loro lavoro mercificato. Quando si incarna nel migrante, lo straniero diventa un’anomalia intollerabile. Non è solo un intruso illegale. La sua esistenza segregata in spazi di eccezione è percepita come una sfida all’esistenza dello Stato. Alla «nuda vita» è attribuita una carica sovversiva perché scredita la purezza mitica del potere e rivela i paradossi della cittadinanza: l’inclusione degli «autoctoni» è basata sull’esclusione degli «stranieri». La «democrazia» è tale quando si difende dall’esterno ed esercita un potere coercitivo contro gli inermi anche all’interno.
IL MIGRANTE, in quanto straniero, è una figura abissale perché rivela che l’estraneo non è solo l’altro da me, ma è quello che abita in me. Questa esperienza è stata definita da Freud «perturbante»: è ciò che turba l’ordine dell’Io, mostrando l’inquietudine più grande. L’Io non ha proprietà, una terra a cui appartenere, una coscienza a cui rimettere i suoi peccati, ma è un altro ed è straniero a se stesso. È Unheimlich, un essere-senza-casa. Il migrante mette a nudo il mito dell’identità autoctona, la finzione su cui è fondata la sovranità, il valore che lo Stato difende in nome della «sicurezza». Se l’Io è un altro, scriveva Rimbaud, allora il Sé immobile crolla. Un esito inaccettabile che lo Stato evita ricorrendo alla polizia e agli eserciti. Così la sovranità esibisce il suo ultimo potere: il monopolio della violenza.
QUESTA È LA TRAGEDIA dell’attuale governo italiano: dopo avere respinto i migranti in Libia, li ha guardati sulla Cnn venduti come schiavi. Un delitto atroce che non troverà, probabilmente, un giudice, ma forse molte testimonianze. Stranieri residenti è una di queste. Ed è bruciante. In tedesco esiste una parola che spiega questa esperienza perturbante: Wanderung. Significa migrare e errare. L’equivalenza tra un movimento fisico e l’esperienza dell’errare (vagare, sbagliare) è il fondamento della filosofia della migrazione. Il suo obiettivo è dimostrare che l’abitare non è mai puro. Chi abita in un territorio viene da un movimento e si dirige altrove. Così fa il migrante: il punto dove arriva coincide con una nuova partenza. L’abitante è anche lui un migrante che ha deciso di fermarsi, e poi ripartire di nuovo. Prima di un territorio statale, abitiamo una vita che non appartiene a nessuno ed è comune a tutti. Condividiamo un movimento ancora prima di un’appartenenza. Siamo tutti stranieri e residenti. Su questa «e» si gioca il conflitto.
LA CASA degli stranieri residenti non è lo Stato, né il mercato. È l’Internazionale. La riproposizione di questa categoria è una delle idee originali del libro. Di Cesare la intende come sinonimo di una «coabitazione oltre le appartenenze e la proprietà». In questa prospettiva l’Altro non è una metafisica, non è l’ospite, né può essere rinchiuso nelle contraddizioni del diritto di asilo. Se lo straniero siamo noi, allora il sé e l’altro non sono opposti, ma si implicano a vicenda. Lo straniero non è dunque l’ opposto del cittadino, entrambi sono stranieri residenti in un’Internazionale slegata dal territorio e dalla cittadinanza, capace di trasformare la prima e di superare le aporie della seconda. La coabitazione indica un essere-in-comune, pratica una convergenza politica e mostra un altro modo di stare al mondo. Per gli anarchici e i comunisti la casa è il mondo intero. Per tutti gli altri l’Internazionale è la coabitazione della futura umanità con i prossimi e gli stranieri.
CHI E’ DIO? CHI E’ IL "PADRE NOSTRO"?! Chi è il Papa? Chi induce in tentazione .... *
A
GUGLIELMO DI OCKHAM
Chi è il Papa? Un eretico
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, 13 settembre 2015)
Chi avesse cercato, magari in una biblioteca, l’edizione del Dialogo sul papa eretico di Guglielmo di Ockham, si sarebbe visto recapitare un volume ponderoso, in un latino non da parroco. In Rete l’ipotetico lettore qualcosa avrebbe trovato, rischiando però di peggiorare la comprensione: se fosse finito, putacaso, nel sito della Bayerische Staatsbibliothek, dove c’è la riproduzione digitale dell’editio princeps di Parigi del 1476, alle difficoltà della lingua avrebbe aggiunto quelle per la lettura dell’incunabolo. Aggirare l’ostacolo con una versione? Eccolo in un vicolo cieco: non ci sono traduzioni integrali in una lingua moderna. Eppure se il solerte bibliotecario avesse, per esempio, mostrato l’edizione di Francoforte del 1614, la curiosità sarebbe arrivata alle stelle, ché l’editore a pagina 957 aggiunse un Compendio degli errori di papa Giovanni XXII. Un’altra opera di Ockham, d’accordo, ma ne rafforzava le tesi.
Da qualche giorno tali preoccupazioni fanno parte del passato: Alessandro Salerno ha tradotto integralmente per la prima volta nella serie «Il pensiero occidentale» di Bompiani, con il testo latino a fronte, il Dialogo sul papa eretico di Ockham, che morì nel 1349 o nel 1350. Con tutta l’acutezza e la conoscenza di cui disponeva (era noto come il Doctor invincibilis), il celebre francescano tentò di dimostrare - senza allontanarsi dai punti fermi del cristianesimo - la possibilità dell’eresia del vicario di Cristo, mettendo in discussione tutte le relazioni tra papato e impero. La questione non era di poca importanza, giacché il sovrano diventava giudice naturale del pontefice, anzi avrebbe addirittura potuto invocare la difesa della fede per giustificare il suo intervento negli affari della Chiesa.
Certo, il papa a cui frate Guglielmo guardava, ovvero Giovanni XXII sedente in Avignone, non era una mammoletta e i francescani mal lo sopportavano. Basti ricordare che nel 1322, durante il suo pontificato, la disputa sulla povertà di Cristo e degli Apostoli appassionava dotti e semplici fedeli, tanto che un professore del convento dei minori di Narbona, Berengario, difese con forza un tale accusato di aver sostenuto che Cristo e i suoi seguaci nulla possedevano, né in comune né in proprio. Quando fu invitato a ritrattare, decise addirittura di appellarsi alla Santa Sede. Berengario invocò la decretale Exiit qui seminat di Nicola III (agosto 1279), nella quale la tesi era anzi obbligatoria. Giovanni XXII fece arrestare l’entusiasta difensore appena giunto ad Avignone; propose pubblicamente la questione della povertà di Cristo e, siccome Nicola III aveva comminato la scomunica per chi avesse cercato di intenderla in altro modo, con la bolla del 26 marzo di quell’anno, Quia quorundam, sospese la restrizione. La cosa andò avanti e nel dicembre successivo revocò la decretale del predecessore. Bonagrazia da Bergamo, anch’egli francescano, cercò di impugnare tali decisioni: finì a sua volta in prigione.
In un simile contesto nasce il Dialogo di Ockham, in sette libri, scambio di idee tra un maestro e un discepolo. L’opera pone questioni quali «A chi spetta definire la verità cattolica o l’eresia?» o «Esiste un giudice del papa?». Le domande sono radicali e tutto il sesto libro è dedicato alla condanna del pontefice eretico con pagine che recarono grande gioia all’imperatore. Due quesiti (meglio leggerli senza punto di domanda): «Il papa deve essere sottomesso all’autorità come lo fu Cristo» o «Se il papa oppone resistenza all’indagine sul suo conto, è lecito arrestarlo, detenerlo e metterlo in catene». Nella sua introduzione, poco meno di 200 pagine, Alessandro Salerno inquadra l’opera e offre un’analisi del sintagma «papa eretico» (compare circa 1200 volte a partire dal libro quinto). Pone in evidenza ironie e maschere, esamina i concetti di verità e potere, propone considerazioni sull’infallibilità.
Il “papa eretico” riapparirà nella storia della Chiesa con accusatori che non avranno l’acume di Ockham. Qualche storico chiamerà così Alessandro VI, e lo stesso Savonarola lo vide tale; altri, come il presbitero e teologo tedesco Ignaz von Döllinger, lo sussurrarono dopo la proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia con Pio IX. Ma questi sono dettagli. Ockham, scomunicato, accolto dall’imperatore Ludovico il Bavaro, passò la parte finale della vita a combattere i papi avignonesi con i suoi trattati. I quali, anche se non furono graditi o odoravano di zolfo, restano dei capolavori di intelligenza.
B
Papa Francesco vuole cambiare il ’Padre Nostro’: "Traduzione non è buona, Dio non ci induce in tentazione"
Uno dei passaggi più noti potrebbe presto cambiare, come già successo in Francia *
CITTÀ DEL VATICANO - Il testo in italiano della preghiera più nota, il ’Padre Nostro’ , potrebbe presto cambiare. A farlo intendere è lo stesso papa Francesco: "Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice ’non mi lasci cadere nella tentazione’. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito".
Il pontefice lo ha spiegato nella settima puntata del programma ’Padre nostro’, condotto da don Marco Pozza, in onda su Tv2000. Francesco dialoga con il giovane cappellano del carcere di Padova nell’introduzione di ogni puntata. "Quello che ti induce in tentazione - conclude il Papa - è Satana, quello è l’ufficio di Satana".
Della controversia sulla preghiera più nota del cristianesimo - fu insegnata da Gesù stesso ai suoi discepoli che gli chiedevano come dovessero pregare - si è parlato in queste settimane quando in Francia si è detto appunto addio al vecchio ’Padre Nostro’. Dopo anni di discussioni sulla giusta traduzione, la nuova versione francese non include più il passaggio ’ne nous soumets pas à la tentation’ - ’non sottometterci alla tentazione’ -, che è stato sostituito con una versione ritenuta più corretta: ’ne nous laisse pas entrer en tentation’, ’non lasciarci entrare in tentazione’.
Secondo quanto ha scritto Le Figaro, la prima formula - ’non sottometterci’ - ha fatto credere a generazioni di fedeli che Dio potesse tendere in qualche modo una sorta di tranello, chiedendo loro di compiere il bene, li ’sottometteva’ alla tentazione del male. "La frase attuale lasciava supporre che Dio volesse tentare l’essere umano mentre Dio vuole che l’uomo sia un essere libero", ha commentato il vescovo di Grenoble, monsignor Guy de Kerimel, citato dal giornale. Dopo mezzo secolo - la controversa versione venne introdotta il 29 dicembre 1965 - la Conferenza episcopale transalpina ha quindi optato per la nuova traduzione del Notre Père. Per aiutare i fedeli a memorizzarla, la nuova preghiera è stata distribuita in decine di migliaia di copie nelle chiese di Francia. Il cambio ufficiale è avvenuto due giorni fa, domenica 3 dicembre.
Per la verità, anche in Italia, nella versione della Bibbia della Cei (2008), il passo ’et ne nos inducas in tentationem’ è tradotto con ’e non abbandonarci alla tentazione’; l’edizione del Messale Romano in lingua italiana attualmente in uso (1983) non recepisce tuttavia questo cambiamento. Ora però è il Papa a sostenere pubblicamente che si dovrebbe cambiare.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL MAGISTERO DI MENZOGNA DELLA CHIESA CATTOLICA: IL "PADRE NOSTRO" CHE INDUCE IN TENTAZIONE. Una nota di Henri Tincq - con premessa.
IL NOME DI DIO. L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" (KANT). Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi........ *
Di donne non ne abbiamo?
di Roberta Carlini (Lunedì, 04 Dicembre 2017)
Liberi e uguali, avete un problema. Non mi dite che quella foto non ha urtato anche voi. Piero Grasso, Roberto Speranza, Nicola Fratoianni, Pippo Civati. Quattro su quattro, foto evento della nascita di un partito, tutta al maschile - persino nel presentatore, un giornalista. Compagni, amici, fondatori, fratelli. Qualche pagina più avanti, o un altro clic, e spunta la foto della rielezione di Giorgia Meloni alla presidenza di Fratelli d’Italia, insieme a Daniela Santanché che passa con lei - c’è anche Isabella Rauti, a fare politica nella dirigenza di quel partito.
Perché? L’ascesa delle donne nei movimenti di destra, estrema destra, populisti, xenofobi, è un fenomeno a sé che merita e ottiene grande attenzione. Mentre abbiamo accettato, digerito, sepolto nell’irrilevanza la scomparsa delle donne dalla leadership dei partiti progressisti, di sinistra, socialdemocratici, democratici.
Il caso Mdp fa particolarmente impressione. Perché è un movimento al quale guarda, con interesse o rabbia, con passione o sconforto, chi non accetta l’ordine delle cose. Fa impressione non solo che non ci sia una donna nella prima foto di gruppo, ma anche e soprattutto che la cosa non faccia problema per nessuno dei quattro, o dei 5000 che erano lì.
Di nuovo: perché? Non si risponda - come fece Monti, dicono, quando formò un governo ipermaschile e dovette rimediare all’ultimora - “di donne non ne abbiamo”; perché tra i fondatori di Mdp ce n’è una seria, preparatissima, nientemeno che un’economista, addirittura proveniente dalla società civile (università), ossia Maria Cecilia Guerra. Che magari, come molte donne e al contrario di molti uomini, non ama andare in giro a parlare di cose che conosce poco, ma può dire molto di quelle che conosce bene (qui il suo lavoro politico): politica economica, occupazione, sicurezza sociale... cosette importanti, diciamo, per un soggetto di “liberi e uguali”. Uguali a chi?
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
PERDITA DELLA MEMORIA FILOLOGICA E TEOLOGICA: LA “X” (“CHI”, GRECO) DIVENTA “X” (“ICS”, LATINO; E, SEMPLICEMENTE, "C", IN ITALIANO) E GESU’, IL FIGLIO DELLA GRAZIA EVANGELICA ("CHARITAS") DIVENTA IL "TESORO" DI "MAMMONA" ("CARITAS") E DI "MAMMASANTISSIMA" DEI FARAONI ...
opinioni
La dittatura della X fra affetti e affari
di Vittorio Zucconi (la Repubblica D, 25.11.2017)
Il Medioevo italiano la mise al bando, ma ora si usa ovunque, perché, evidentemente, attira l’attenzione. Che si tratti di business o di baci
ATTESO DA ALMENO cento milioni di esseri umani, molti dei quali in fila da giorni, è arrivato l’ultimo totem per il villaggio globale: l’iPhone X della Apple. Niente di misterioso in quella X, solo la celebrazione in numeri romani del decimo anniversario dell’iPhone lanciato da Steve Jobs: così dicono dalla Mela, ma mentono sapendo di mentire. Per segnalare il decennale, avrebbero potuto benissimo chiamarlo iPhone 10, come i predecessori 6, 7 o 8.
I geni del marketing hanno scelto la X per lo stesso motivo che ha spinto i concorrenti della Microsoft a chiamare la loro scatola da giochi XBox e (nell’ultima edizione diffusa negli stessi giorni dell’iPhone X, per tormentarci il Natale) addirittura XBoxOneX. Tre X al prezzo di una. Non è necessario essere geni dell’enigmistica e dei cruciverba per notare la fissazione per una lettera-simbolo che, da secoli e mai come ora, è uscita dal recinto dell’algebra per invadere i territori del commercio, dell’immaginazione, del calcio e del sesso, pardon, del sex.
La X vende, piace, intriga, nella sua invadenza. L’epidemia di questa lettera (che, nel Medioevo, l’alfabeto italiano aveva escluso, insieme con K e Y, presenti invece nell’alfabeto latino) è naturalmente partita dagli Stati Uniti ed è un indizio del dominio culturale anglofono. È ovunque e le femmine ne hanno pretese addirittura due nei propri cromosomi, XX, lasciando a noi maschi l’umiliazione di quella Y solitaria.
S’insinua nella vita di ogni paziente, che ha sicuramente inghiottito una pillola il cui nome conteneva una X o è stato esposto ai raggi X. Ci sono almeno 50 farmaci da ricetta che la esibiscono, dal tranquillante Xanax, che raddoppia per sembrare più efficace, all’antibiotico Ciprofloxacina, somministrato a milioni di persone afflitte da infezioni delle vie urinarie.
Qualche linguista Usa ha cercato di spiegare l’attrazione con il Cristianesimo, partendo dalla croce che i Romani usavano per uccidere i nemici più pericolosi e che era fatta appunto a X, e non a T come nell’iconografia ufficiale. Ma non c’è nulla di mistico in banali varietà musicali come X Factor, copiato anche in Italia. Dubbi religiosi riaffiorano in dicembre, quando gli americani, sempre impazienti, abbreviano Christmas, Natale, in XMas. Ma poi si sprofonda nel prosaico esercizio del voto, che utilizzò quel segno affinché anche gli analfabeti potessero manifestare sulle schede le scelte politiche.
Resta in esso sempre il brivido del mistero, dell’incognita, come nelle equazioni o nella fantascienza della serie X-Files. Sa di frutto proibito, nei film porno classificati come XXX o nei commerci erotici, in quei Sex Shop che, se si chiamassero "botteghe del sesso", farebbero ancora più schifo. Diventa il richiamo alla morte e alla ferocia dei pirati, con le ossa incrociate a forma - che altro? - di X sotto il teschio. È uno dei molti simboli satanici, ma anche di tenerezza, nella stenografia da chat o da sms, dove sta per "baci", insieme con O, per "abbracci": XOXO, "ti mando baci e abbracci". Tende a essere estremista nell’abbigliamento, con le taglie XS, XL o addirittura, aiuto!, XXL. Anche l’immagine che guardiamo sul televisore, sul computer o sullo schermo dello smartphone paga un tributo, essendo formata da pixel.
Non ha colpe, né meriti questa lettera prepotente, immigrata senza autorizzazione fra di noi, ma qualche segreta e scaramantica influenza negativa forse sì. Soltanto uno, fra i 45 presidenti degli Stati Uniti in 200 e più anni, ha osato avere una X nel proprio nome, Richard Nixon. Finì infatti, primo e unico dimissionario nella storia, crocefisso alla vergogna delle proprie colpe.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata... MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"!
Federico La Sala
USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”... *
Gli inediti che Nietzsche non si sentì di pubblicare
di Federico Vercellone (La Stampa, 30.11.2017)
Le eredità culturali sono un lascito molto più pesante di quanto forse, a prima vista, verrebbe da pensare. La relazione con il passato, come ben sappiamo, è determinata da una scelta tra memoria e oblio, tra ciò che va ricordato e quanto invece si può dimenticare senza troppo danno o addirittura con vantaggio. Il passato non sta lì, una volta per sempre, come qualcosa di irrevocabile, bensì come ciò che con sforzo ricostruiamo per e nella coscienza del presente. In questo contesto si propone anche la relazione rinnovata che viene fornita dalle edizioni critiche avviate nella seconda meta del secolo scorso dei grandi classici del pensiero filosofico tedesco dell’800: vere e proprie rivisitazioni di un autore, come testimoniano anche le Opere complete di Nietzsche. Lo dimostra egregiamente l’Introduzione a Nietzsche di Carlo Gentili, uno dei massimi specialisti contemporanei del filosofo, comparsa recentemente presso il Mulino.
Siamo stati abituati a vedere in Nietzsche un autore prometeico che propone al centro del suo pensiero concetti paradossali come quelli di Volontà di potenza, Eterno ritorno e Superuomo. Martin Heidegger era arrivato addirittura ad affermare che tutta l’opera edita di Nietzsche non costituiva altro che l’antiporta del suo pensiero consegnato, nel nucleo fondamentale, alla silloge postuma La volontà di potenza.
Gentili rammenta molto opportunamente che questi inediti, risalenti all’ultima fase della vita cosciente del filosofo, non a caso non furono pubblicati da Nietzsche. Si tratta di esperimenti in cui si affacciano prepotentemente concetti come quelli di Superuomo e di Volontà di potenza che hanno molto meno peso negli scritti pubblicati da Nietzsche stesso. Ciò significa che si tratta di tentativi di cui il loro stesso autore non era pienamente convinto.
A questa luce è la stessa immagine del pensiero di Nietzsche a modificarsi profondamente. Non abbiamo più a che fare con l’outsider che sovverte gli ordinamenti stabiliti, ma con un grande classico del pensiero che ben si inserisce nella tradizione filosofica con una cifra scettica e neokantiana che lo rende un geniale anticipatore delle grandi filosofie della crisi di inizio Novecento.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Kant, sapeva - come e più di Nietzsche - che bisogna perdere“la fede in Dio, nella libertà e nell’immortalità [...] come si perdono i primi denti”, scendere all’Averno (come scrive Kant) o, che è lo stesso, all’inferno (...) Molti filosofi sono andati all’inferno, ma non ne sono più usciti; qualcuno è riuscito a venirne fuori, ma non sa nemmeno come e perché, e si illude e sogna ancora, alla Swedenborg (...)".
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
L’ordinario fascismo delle ragazzate
di Luca Baldissara (Il Mulibo, 28 novembre 2017)
Non c’è quotidiano o sito d’informazione che nei giorni scorsi non abbia ripreso la notizia del saluto fascista col quale un calciatore ha esultato sul campo di calcio di Marzabotto, esibendo la t-shirt con la bandiera della Repubblica di Salò indossata sotto la maglia della squadra. Al gesto fascista - presumiamo programmato, a meno che il giovane non sia solito indossare magliette con l’effige saloina e non sia affetto dalla sindrome di Stranamore - segue l’ormai usuale e collaudata ritualità: indignazione (dell’Anpi e dell’amministrazione comunale in primis, poi di vari esponenti politici), scuse goffe e poco credibili del protagonista (avrebbe inteso salutare il padre in tribuna), presa di distanza della squadra e della società (immaginiamo la vestizione tenuta nascosta dell’aspirante saloino nella nota segretezza dello spogliatoio), denuncia da parte della destra degli eccessi d’attenzione strumentale delle “maestranze antifasciste” (così le ha definite Forza Nuova), espiazione in forma di visita al sacrario delle vittime.
Atti del genere non sono nuovi, tutt’altro. Anzi, dobbiamo riconoscere che dal 2005 - quando l’allora giocatore della Lazio Paolo Di Canio più volte sotto la curva dei tifosi compì questo stesso teatrale gesto (e non era la prima volta) - sono ricorrenti e sempre più frequenti. Intendiamoci: l’indignazione è sacrosanta. E doverosa - quanto, assai probabilmente e sulla base di precedenti simili, priva di esiti giudiziari concreti - è la denuncia per apologia di fascismo a norma della legge Scelba del 1952 da parte dei carabinieri. Condivisibili pure le parole - non troppe, in verità - di condanna ed esecrazione del gesto.
Questa procedura rituale fondata sulla sequenza colpa (il gesto), condanna (l’indignazione pubblica), assoluzione (le scuse e l’atto riparatore) ha probabilmente a che fare con le modalità esteriori della confessione/assoluzione di un cattolicesimo volgarizzato nelle sue forme esteriori, ma ha certo molto di più a che vedere con il moralismo sarcasticamente criticato da Charles Baudelaire nei suoi Diari intimi: ⪻Tutti gli imbecilli della Borghesia che pronunciano continuamente le parole: immorale, immoralità, moralità nell’arte e altre bestialità mi fanno pensare a Louise Villedieu, puttana da cinque franchi, che accompagnandomi una volta al Louvre, dove non era mai stata, si mise ad arrossire, a coprirsi la faccia, e tirandomi a ogni momento per la manica, mi domandava davanti alle statue e ai quadri immortali come si potessero esporre pubblicamente simili indecenze⪼.
Nel senso che il rituale conformista con cui gesto dopo gesto, saluto romano dopo saluto romano, si rinnova la pubblica esecrazione non appare in grado di cogliere le ragioni di questo infittirsi di comportamenti inneggianti il fascismo, né tantomeno di evitarne il ripetersi. Anzi, sembra ipocritamente e moralisticamente distogliere lo sguardo, proprio come Louise Villedieu, dalle sconcezze che prendono forma e visibilità.
C’è infatti da chiedersi se i sempre più numerosi saluti a braccio teso nel calcio non costituiscano tanto il problema in sé, quanto piuttosto la spia di un nuovo senso comune, sempre più solido e sempre più diffuso, che, insieme ad altre manifestazioni esteriori di fascismo (dall’intitolazione di strade e piazze alla gestione di “spiagge fasciste”, alle bandiere di Salò sventolate in cima alle Apuane), sempre più spesso evoca il fascismo quale dimensione “altra”, autentica, di valori ormai perduti in questa società senza bussola, materialista e in crisi di identità.
Vi saranno, certo, i nostalgici del passato. E vi saranno i convinti assertori dell’ideologia fascista in tutte le sue forme e declinazioni. Ma vi è anche, e soprattutto, chi in questa rappresentazione di fascismo intravvede la difesa di identità minacciate dai tumultuosi processi di mutamento del presente, l’attenzione per gruppi sociali abbandonati a se stessi dalle istituzioni e dalla sinistra, il rigore contro una classe politica che appare corrotta nel suo insieme, la concretezza di contro alle tante vuote ed ipocrite parole, la prospettiva potenziale di una solidarietà comunitaria contro il cosmopolitismo vacuo e astratto dei buoni sentimenti. Una società confusa, incerta, preoccupata, attraversata dall’ansia del futuro cerca risposte credibili. E sempre più la credibilità sembra fondarsi nella semplificazione, mentre ogni richiamo alla complessità del presente appare una forma di inganno, una truffa retorica. La logica binaria del pensiero - e della propaganda - di destra sembra dunque più sincera, più fondata, più autentica. La recente affermazione elettorale di CasaPound a Ostia è solo l’ultimo indicatore in ordine di tempo di tale fenomeno.
Ma che cosa in Italia - pur in un contesto europeo del fenomeno - ha reso possibile questa plausibilità del discorso fascista? Il fatto che dopo il 1989-91, dopo la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’Urss, dopo l’implosione del sistema dei partiti e la scomparsa del Pci, il fascismo è stato “normalizzato”, reso un regime tra i regimi. Certo, esso è stato ricompreso in una famiglia autoritaria e totalitaria di cui erano parte allo stesso titolo il nazismo quanto il comunismo, quasi si trattasse di un virus che nella parte centrale del Novecento ha colpito taluni Paesi e diffuso rapidamente la malattia. Ma nella sua quotidianità il fascismo, a parte alcuni eccessi, peraltro condivisi appunto con altri regimi dell’epoca, ha in fondo governato il paese come altri governi in precedenza avevano fatto e altri avrebbero fatto in seguito. Violenza e repressione, antidemocrazia e aggressività nazionalista, erano presentati come frutto dei tempi, più che tratti distintivi. Tale visione politico-culturale di un fascismo normalizzato a partire dagli anni Novanta si è accompagnata anche alla sua banalizzazione nel discorso pubblico, consentendo ad esempio di descrivere Mussolini come “un grande statista”.
Tutto ciò mentre la volontà di costruire un’Europa capace di ricomprendere le due Europe, dell’Est e dell’Ovest, con le loro storie così diverse, conduceva a inventare una comune (e inesistente) identità antitotalitaria, indebolendo sistematicamente quella cultura dell’antifascismo che aveva rappresentato l’unico cemento coesivo di classi dirigenti politicamente divise al loro interno, consentendo loro di costruire la democrazia rappresentativa di massa nell’Europa occidentale, Italia compresa. Indebolito e delegittimato l’antifascismo, da allora sono andati rapidamente riemergendo lo sciovinismo, il nazionalismo, l’elitismo classista, il corporatismo sociale.
In Italia, dove la fine del bipolarismo ha coinciso con la fine del sistema dei partiti sorto con il crollo del fascismo, il passaggio alla cosiddetta “Seconda Repubblica” ha visto non solo l’indebolirsi, come in tutta Europa, della cultura dell’antifascismo, ridotto a un astorico antitotalitarismo, a una generica lotta per la libertà, dove fascismo e comunismo venivano accostati (ci si ricorda ancora del dibattito Fini-Violante sui ragazzi di Salò?). Ma ha identificato nello stesso sistema ciellenistico dei partiti antifascisti (la partitocrazia) l’origine del clientelismo e della corruzione che ne avrebbero provocato il crollo. Cosicché, critica e decostruzione dell’antifascismo hanno corrisposto allo sdoganamento del fascismo, non tanto nei suoi termini immediatamente politici (che pure non sono mancati), quanto nella sua ordinaria banalizzazione e normalizzazione. Così che qualcuno ha potuto immaginare un fascismo quale forma di anticomformismo, di possibile risposta all’inanità e alla corruzione delle classi dirigenti e del ceto politico.
Se Berlusconi nel 2005 poteva dunque sorridere al gesto di Di Canio, giudicandolo ⪻un ragazzo per bene, non è fascista⪼, il cui gesto era fatto ⪻solo per i tifosi, non per cattiveria⪼, così oggi Salvini, commentando il fatto di Marzabotto, può dichiarare che ⪻fa molti più danni la legge Fornero di un saluto al Duce⪼ e che ⪻uno può salutare col braccio teso o col pugno chiuso, rappresentano lo stesso autoritarismo, hanno lo stesso valore. Non torneranno più né il fascismo, né il comunismo⪼. Così Morris Battistini, il capogruppo dell’opposizione in consiglio comunale a Marzabotto, può sostenere che ⪻da moderati e liberali quali siamo, esprimendo una ferma condanna verso l’esibizione di una maglietta che soprattutto in questo territorio non andava portata, non riteniamo però utile un linciaggio mediatico che ha il sapore di vetrina politica⪼.
Insomma, sono ragazzate. Come ha scritto il giovane calciatore dal braccio teso, un’azione compiuta ⪻con leggerezza, senza pensare alle conseguenze⪼. Del resto, come Giacomo Matteotti ricordava a Giolitti nella seduta della Camera del 31 gennaio 1921, con questi termini il questore di Bologna aveva bollato l’assalto fascista alla Camera del lavoro.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
LA PAURA DI PENSARE E LA PARABOLA DEI TALENTI. Perché chiudere la nostra vita in una scatola? Una riflessione di Angelo Casati
Federico La Sala
IL MITO DELL’AUTONOMIA INTELLETTUALE, ROBINSON, E LE ROBINSONATE ....
DOPO 170 ANNI DALLA BRILLANTISSIMA “Introduzione del ’57”, ove Marx scrive parole assolute e definitive (“La produzione dell’individuo isolato al di fuori della società è una rarità che può capitare ad un uomo civile sbattuto per caso in una contrada selvaggia, il quale già possiede in sé potenzialmente le capacità sociali - è un tale assurdo quanto lo è lo sviluppo di una lingua senza individui che vivano insieme e parlino tra loro”), è più che lodevole ricordare ai cittadini e alle cittadine della Repubblica non solo quello che Marx, nel 18 Brumaio e ne L’ideologia tedesca, chiama “il processo di putrefazione dello spirito assoluto”, e, quello che Lukàcs, sulle orme di Marx, chiama “la prassi dell’individuo isolato” (cfr. Mimmo Cangiano, Il mito dell’autonomia intellettuale, "Le parole e le cose", 28.11.2017), ma anche quello che gli intellettuali di "la Repubblica" si preparano a fare per festeggiare il fatto che “Robinson compie un anno (: hai tutti i numeri? Mandaci una foto della tua collezione. Domenica 10 dicembre inviteremo uno dei lettori a visitare l’Arena Robinson, lo stand del nostro settimanale a "Più libri più liberi"”).
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
In principio era il Logos, non il "logo" ...
DIO, MONDO, UOMO - OLTRE!!! BASTA CON LE ROBINSONATE. A partire da due, e non da uno!!! Una nota su una polemica tra "esportatori di democrazia" e di "libertà" (Giovanni Sartori e Gian Maria Vian) e la proposta di una Fenomenologia dello Spirito di "Due Soli" - Con Rousseau, Kant, Marx, Freud e Dante, oltre Hegel, per una seconda rivoluzione copernicana
Federico La Sala
Mappare l’universo per resistere al nulla
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 27.11.2017)
Come nasce una nuova teoria scientifica? In che modo si sviluppa e si diffonde fino a essere accolta dalla comunità scientifica anche quando scardina certezze e visioni consolidate del mondo? Sono questi gli interrogativi a cui vuole rispondere l’astrofisica e cosmologa Priyamvada Natarajan, nel saggio L’esplorazione dell’universo (Bollati Boringhieri). Lo fa, avverte, partendo da due osservazioni: la prima è che la più antica tra le discipline scientifiche, la cosmologia, dà forma alla nostra idea del mondo e del posto che occupiamo nell’Universo; la seconda è che, come ogni attività umana, la scienza «non è priva di soggettività», pertanto è soggetta a errori, pregiudizi, ambizioni personali, amicizie e inimicizie.
Richard Feynman, Nobel per la fisica nel 1965, affermava che ogni grande scoperta scientifica «comporta sempre una sorpresa filosofica» e per Priyamvada Natarajan questo è vero soprattutto per la cosmologia e le sue scoperte. In poche migliaia di anni, siamo passati dal credere che il mondo poggi su una tartaruga che a sua volta poggia su un’altra tartaruga, e così via all’infinito, a un progetto di mappatura dell’Universo, cui partecipa Priyamvada Natarajan insieme a scienziati di tutto il mondo, allo scopo di «mappare la materia oscura con un livello di accuratezza mai raggiunto prima». Come ci siamo arrivati?
Il prezzo da pagare ogni qualvolta la scienza cambia la mappa del cosmo e, di conseguenza, la collocazione e il senso della presenza dell’essere umano nel mondo, è molto alto in termini filosofici e psicologici.
Riferendosi al carattere dell’Età Moderna, ad esempio, Sigmund Freud riteneva che fosse il risultato di tre ferite narcisistiche. La prima, è stata la perdita della centralità e immobilità della Terra, intuita da Copernico e confermata da Galileo, dopo quattordici secoli in cui aveva dominato la visione tolemaica con la Terra immobile al centro dell’Universo; fu un tale rivolgimento che da allora l’espressione rivoluzione copernicana definisce, anche nel linguaggio comune, un cambiamento irreversibile e radicale di un sistema consolidato e immutabile. Della seconda ferita, dice Freud, è responsabile Charles Darwin, il quale ci ha spodestati dal vertice della creazione scoprendo che siamo solo una specie tra molte altre (benché, va detto, veramente molto in gamba). Della terza ferita Freud, con autostima invidiabile e non infondata, si riteneva personalmente responsabile poiché la sua scoperta delle pulsioni e del loro ruolo sulla mente ce ne aveva sottratto il pieno controllo.
Seguendo il lungo cammino di alcune idee rivoluzionarie dal primo emergere per la straordinaria immaginazione di un singolo scienziato, al riconoscimento generale, Priyamvada Natarajan racconta una storia in cui tra intuizioni geniali, lavoro collettivo, persecuzioni, entusiasmi, gelosie e trionfi, oltre alle tappe del progresso scientifico emergono gli effetti della dimensione emotiva, psicologica, personale e sociale sulla «pura ricerca intellettuale della conoscenza».
I grandi cambiamenti di paradigma e i conseguenti quesiti esistenziali, sono riferiti dall’autrice naturalmente con grande competenza scientifica - Natarajan, tra l’altro, insegna astronomia e fisica alla Yale University ed è esperta sul tema della formazione dei buchi neri supermassicci - ma anche con un’evidente sensibilità per gli aspetti umani delle diverse vicende. Sappiamo, così, quanto sia stato, e sia sempre difficile per chi ha un’idea nuova o compie una nuova scoperta ammetterla, quando comporta un cambiamento radicale di una visione consolidata. E come il peso delle passioni umane, talvolta nobili talaltra meschine, sia stato, e sia fondamentale nel facilitare o ostacolare il riconoscimento di nuove teorie o osservazioni.
Ad esempio, Edwin Hubble fu il primo a scoprire che le galassie si allontanano a velocità crescente più sono lontane ma faticò molto ad accettare l’idea, conseguente dalla sua stessa scoperta, di un Universo in espansione. L’idea, in verità, riferisce Natarajan, fu esposta molto tempo prima e da un personaggio insospettabile, lo scrittore Edgar Allan Poe, in una conferenza nel 1848, che non riscosse alcun successo, intitolata Sulla cosmogonia dell’universo, in cui descriveva la sua personale convinzione che l’Universo sia in costante movimento ed evoluzione. Anche Albert Einstein, d’altra parte, lottò parecchio con se stesso prima di rassegnarsi all’idea che il cosmo non fosse immutabile ed eterno.
A volte, invece, un’idea fatica a trovare consenso semplicemente per l’invidia o la disonestà intellettuale di qualche figura eminente e autorevole del momento. Come fu il caso della teoria sui buchi neri del fisico indiano Chandra, osteggiata in modo scorretto dal famoso Arthur Eddington, lo stesso che aveva dato prova di grande rettitudine e intelligenza comprovando sperimentalmente per la prima volta la teoria della relatività di Einstein. Eddington sostenne Einstein mentre era in corso la prima guerra mondiale, cosa che gli attirò critiche e attacchi molto duri in Inghilterra, il che dimostra la sua integrità scientifica e il suo coraggio (questa storia è raccontata in un bel film, Il mio amico Einstein, in cui emergono molto bene gli aspetti scientifici, politici e psicologici dell’intera vicenda). Ciò nonostante, lo stesso Eddington si comportò in modo meschino nei confronti di un altro scienziato, appunto l’astrofisico indiano Chandra, il quale nel 1930 aveva risvegliato con il suo lavoro l’interesse per i buchi neri.
Detto per inciso - e il saggio di Natarajan è molto ricco di informazioni di questo genere che contribuiscono a renderne piacevole la lettura - l’espressione buco nero deriva dal nome di una cella minuscola famosa a Calcutta chiamata appunto black hole, in cui in una notte del 1756 morirono per asfissia 123 prigionieri occidentali. Tornando a Chandra, la sua ipotesi «creava un terribile conflitto d’interessi per Eddington, che aveva sviluppato una propria teoria», per questo lo boicottò pur essendo stato suo esaminatore durante il dottorato a Cambridge e pur avendolo incoraggiato a proseguire il suo lavoro.
Eddington contestò duramente e inaspettatamente il collega più giovane in pubblico, durante il convegno annuale della Royal Astronomical Society nel 1935, senza avere mai prima espresso personalmente a Chandra le sue obiezioni e soprattutto senza dargli possibilità di replica. Per Chandra fu un vero colpo, ma nel 1942 la sua tesi fu sostenuta pubblicamente da alcuni tra i più importanti scienziati del tempo, tra i quali Paul Dirac, considerato il più grande genio del Novecento dopo Einstein (si deve a lui l’equazione che ha formalizzato la struttura della meccanica quantistica e previsto l’esistenza dell’antimateria). Nel 1983 Chandra ha vinto il premio Nobel per la fisica. E giustizia è stata fatta.
Mappare l’Universo, adesso che ne conosciamo l’immensità e l’espansione continua, può sembrarci come il tentativo di vuotare l’oceano con un bicchiere. Eppure non possiamo farne a meno, lo abbiamo sempre fatto. Infatti, anche se noi associamo l’idea di mappa ai viaggi per mare e per terra, in realtà, ricorda Natarajan, le prime mappe mai disegnate dall’uomo sono mappe del cielo. E pure oggi scrutiamo il cosmo, percorrendolo con gli occhi di immensi telescopi, come gli esploratori antichi scrutavano l’orizzonte e lo spazio attorno per decifrarlo, per non perdersi.
La nostra condizione è la stessa, il nostro oceano è il cosmo, la nostra nave la terra. «Per loro natura i progressi della cosmologia ci lasciano senza ormeggi», afferma Priyamvada Natarajan. Ed è così che siamo, oggi ancor più che nel passato: disancorati, senza un centro fuori di noi e forse neppure più dentro di noi - ma questo non è colpa dell’Universo. Ad ogni modo, conclude, «Negli ultimi cento anni la nostra visione del mondo è cambiata drasticamente, riscrivendo il senso stesso di chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo».
Oggi sappiamo di vivere in un Universo meraviglioso, ma non eterno. È nato in un certo momento e in un altro che non sappiamo, e in un modo che non sappiamo ma siamo in grado di ipotizzare, finirà o diventerà qualcosa di totalmente diverso. Un Universo, ha affermato Carlo Tonelli, fisico del Cern e grande divulgatore scientifico, fragile e precario, come ha rivelato la scoperta del bosone di Higgs - la particella che tiene insieme la materia ma di cui nulla ci può garantire che continuerà a farlo -, che condivide in qualche modo la nostra stessa situazione di fragilità. Col che, negli ultimi tempi, è stato scardinato ogni appiglio, fino all’ultimo, fino all’idea che almeno l’Universo potesse costituire una certezza, qualcosa che si poteva immaginare sarebbe durato per sempre. Insomma, un posto in cui la vita avrebbe sempre avuto una possibilità.
La situazione in cui ci ha messi la conoscenza è duplice e ambigua, eccitante, ma disorienta e confonde, perché ci insegna che siamo allo stesso tempo unici, grandiosi e insignificanti. Siamo riusciti a scoprire le dinamiche che governano il mondo, persino le più contro-intuitive, dall’infinitamente piccolo all’incommensurabilmente grande, e abbiamo capito di essere un nulla rispetto all’immensità che ci circonda. Siamo costretti a rimettere in discussione concetti sui quali per migliaia di anni abbiamo costruito civiltà ed elaborato filosofie e religioni: il tempo, l’eternità, la distinzione tra spirito e materia...
Dobbiamo ripensare molte cose per trovare nuove risposte a domande antiche e ineludibili: chi siamo, dove andiamo e, soprattutto, perché. Per la prima volta nella storia umana sappiamo con certezza che, a prescindere da noi, l’esistenza della Terra, dell’intero sistema solare e dell’Universo, forse l’esistenza in se stessa finirà, e tutto questo, anche se non ce ne accorgiamo, segna lo spirito del nostro tempo e noi stessi.
La morte di Dio aveva aperto la strada alle utopie escatologiche laiche, come il marxismo, lasciando intatta la speranza che l’umanità potesse realizzare con le sue forze e i suoi progressi una società e una vita migliori per tutti.
Ma il limite che le scienze ci fanno intravedere, per quanto lontano, rende il sogno una sorta di palliativo per combattere un’insensatezza che si è insinuata come una nebbia a offuscare il sole di qualunque avvenire.
E così la metafisica e le sue domande sull’essere, il nulla e il senso del mondo che le scoperte scientifiche avrebbero dovuto - pensavano alcuni - mettere a tacere per sempre, proprio grazie alla scienza si stanno pian piano riaffacciando sulla scena del pensiero.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
COSMOLOGIA E ANTROPOLOGIA. AL DI LA’ DI NEWTON, CON KANT - E ARTHUR S. EDDINGTON ... ALBERT EINSTEIN, LA MENTE ACCOGLIENTE. L’universo a cavallo di un raggio di luce (non di un manico di scopa!).
Alle origini della politica
Poteri ispirati dal peccato
I teologi del Medioevo si interrogarono a lungo
su Adamo ed Eva, e sulla necessità di leggi e strutture sociali dopo la cacciata dall’Eden
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 26.11.2017)
Narrata all’inizio del Genesi, la disobbedienza di Adamo ed Eva nel mangiare il frutto proibito assunse un significato cruciale nel cristianesimo, che individuò in essa il peccato originale, evento fondante del percorso di redenzione del genere umano dalla perfezione edenica alla caduta, dal vecchio al nuovo Testamento. Ma per secoli i teologi ne sottolinearono anche il ruolo decisivo nella storia terrena dell’umanità, perché proprio dalla corruzione provocata dalla caduta avrebbero avuto origine la proprietà, il diritto, l’esigenza di norme, poteri, istituzioni, strutture sociali chiamate a mettere un freno alla violenza, a regolare i conflitti, a reprimere i delitti, a mantenere la pace: ebbe cioè origine la storia, e con essa la politica.
Fu su questo presupposto che sant’Agostino costruì il grandioso disegno del De civitate Dei, fondato sulla dicotomia tra città divina e città terrena, affrontando specificamente la questione del peccato originale nei commenti al Genesi, in cui spiegava come esso avesse reso «inevitabile la jacquerie di tutte le debolezze, le passioni, le violenze e le sopraffazioni che assediano la natura umana e che fanno di ogni individuo al tempo stesso uno schiavo e un tiranno», uno schiavo del suo brutale egoismo e un tiranno nell’imporlo agli altri. Oltre a esporlo alla fame, alla fatica, alla malattia, alla morte, il suo disordine ontologico lo rende incapace «di perseguire il bene, che pure in certa misura vorrebbe». Per questo egli ha bisogno di un potere che freni le forze distruttive del male che è in lui e imponga le norme di una convivenza civile, che nascono quindi da quel male ma al tempo stesso ne costituiscono un rimedio. Ha bisogno per esempio di governare quella concupiscenza che secondo Agostino ha trascinato la riproduzione nel gorgo di una sessualità aggressiva e viziosa, della quale la famiglia rappresenta un pur precario strumento di controllo e regolamentazione.
Molte del resto erano le inquietanti domande che si collegavano a quella primigenia rottura. Perché Adamo ed Eva, pur creati a immagine e somiglianza di Dio, avevano peccato? Perché ai loro figli e discendenti era stata addebitata una colpa di cui non erano responsabili? Tale corruzione ereditaria era totale e assoluta o qualcosa di buono era restato, consentendo quindi agli uomini l’esercizio del libero arbitrio e le scelte morali che ne conseguivano, oppure le loro possibilità di salvarsi dipendevano solo dagli insondabili decreti della predestinazione? E quale sarebbe stata la società umana se i primi progenitori non avessero mangiato il frutto proibito?
«Quando Adamo zappava e Eva filava dov’erano i nobili?», si chiedevano i contadini inglesi in rivolta nel ’300. Quando e perché era nata la servitù? Ed era lecito combatterla e liberarsene? Quale era il fondamento del diritto di coercizione? Quesiti tutt’altro che oziosi, tali da suggerire una ricostruzione alternativa - “controfattuale” - della storia umana, volta a recuperare una razionalità perduta e a indicare una strada da seguire, una meta cui tendere, un obiettivo da raggiungere.
Su tali quesiti, spesso frammisti alle più varie leggende, si interrogarono grandi teologi e canonisti del Medioevo, consapevoli «del nesso produttivo tra immaginazione e ragione» che essi generavano. Di essi, e dell’implicito realismo politico che ne conseguiva, la ricerca di Briguglia ricostruisce con analisi sottili i percorsi tutt’altro che univoci, inoltrandosi con dotta perizia in una selva oscura di Summae e trattati che affrontavano quel garbuglio di problemi.
Dalla lucida «fenomenologia del potere» di Agostino si passa alle distinzioni scolastiche nel definire le origini, gli ambiti di legittimità, le forme di esercizio del potere, e alla raffinata riflessione di san Tommaso, secondo il quale già nell’Eden esistevano differenze tra le creature: tra uomo e donna anzitutto, tra complessioni fisiche diverse, tra gradi disomogenei di bellezza, santità, attitudini, capacità. Differenze che non inficiavano la libertà di ciascuno (anzi, nascevano proprio da essa), ma creavano distinzioni e con ciò davano vita a spazi di azione politica tali da smentire che quest’ultima fosse solo una conseguenza del peccato originale. Anche il mondo edenico, insomma, sarebbe stato un mondo da governare e governato, e pertanto «la politica non è frutto del peccato», ma scaturisce da un ordine divino delle cose.
Il fatto che ogni autorità, ogni istituzione e forma di governo, ogni diritto di punire, ogni dovere di obbedienza derivi dalla corruzione e dal disordine prodotti dal peccato originale, non significa legittimare la tirannia, poiché nella tutela dell’ordine sociale il potere politico deve pur sempre rispettare criteri di razionalità. Anch’esso nasce da Dio, insegna san Paolo (Rom. XIII, 1). Per questo gli uomini devono accettarlo non solo per paura o mancanza di libertà, ma «con un’adesione interiore», cui solo in rari casi di iniqua tirannia è lecito sottrarsi.
Ci si poteva quindi chiedere se fosse possibile restaurare la politica che aveva retto gli uomini prima della caduta, abbandonare il diritto positivo per ristabilire nella sua pienezza il diritto naturale. Secondo i teologi francescani, per esempio, la vocazione alla povertà del loro ordine era un modo per tornare al primitivo stato di innocenza di cui anche Cristo e gli apostoli erano stati un esempio.
«Idee incendiarie», a ben vedere, dal momento che davano vita a una contestazione radicale della Chiesa come corpo giuridico e struttura di potere quale si era venuta costituendo in Occidente. E ancor più incendiarie furono quelle espresse a metà Trecento da John Wyclif, che dalla restaurazione della grazia per tramite della fede giungeva alla definizione della vera Chiesa come comunità dei predestinati, dalla quale anche il papa poteva essere escluso.
Idee poi riprese dalla Riforma protestante, mentre le grandi scoperte geografiche imponevano di interrogarsi sulle misteriose origini dei nuovi popoli al di là degli oceani, che sembravano mandare in pezzi la monogenesi biblica. E infine Robert Filmer che nel suo trattato Patriarca, o del potere naturale dei re, apparso postumo nel 1680, affermava contro Francisco Suarez e la seconda scolastica l’idea di un Adamo che non era stato solo padre ma anche re della sua discendenza, e quindi archetipo dell’intangibile diritto divino dei sovrani.
Fu contro di lui che John Locke scrisse il primo dei Due trattati sul governo, con i quali - sviluppando il contrattualismo hobbesiano - avrebbe costruito le fondamenta di un potere assoluto che scaturiva dal basso e non proveniva più da Dio. L’era di Adamo ed Eva era ormai finita per sempre.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ADAMO, EVA ... E L’EDEN? Archeologia, preistoria, e storia
L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!! E CHE COSA SIGNIFICA ESSERE CITTADINI E CITTADINE D’ITALIA!!!
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Federico La Sala
LO SPIRITO DELL’EUROPA .... *
Thomas Mann: è l’Europa l’unico antidoto al nazionalismo tedesco
Tornano, con una introduzione di Giorgio Napolitano, i Moniti etico-politici scritti tra le due guerre: mai così attuali
di Francesca Sforza (La Stampa, 21.11.2017)
Mai così tedesco, Thomas Mann, come quando era lontano dalla Germania. E mai così attuale come nei giorni in cui la Repubblica Federale, dopo aver per la prima volta riammesso nel Bundestag gli estremisti del partito di destra AfD, si prepara ad affrontare una stagione quanto mai difficile, senza una maggioranza di governo stabile, con una cancelliera sfinita da infruttuose consultazioni e un futuro segnato da incertezza e instabilità.
Leggere oggi Moniti all’Europa, raccolta di saggi di Thomas Mann scritti tra il 1922 e il 1945 - che Mondadori ripubblica dopo sessant’anni dalla prima edizione nella stessa traduzione di Lavinia Mazzucchetti e con un’importante introduzione di Giorgio Napolitano - significa dunque ripensare alcuni tragici nodi del passato, ma anche snebbiarsi gli occhi dalle opache interpretazioni del momento presente.
La raccolta si apre con lo storico discorso berlinese del 1922 Della repubblica tedesca, a sostegno della repubblica di Weimar, attraversa gli scritti più espressamente anti-hitleriani e i radiomessaggi inviati all’America al popolo tedesco durante gli anni della guerra, per poi concludersi con due fondamentali saggi del 1945: La Germania e i tedeschi, e Perché non ritorno in Germania, in cui Thomas Mann concentra in pagine brevi e intensissime il senso della missione individuata per il proprio Paese, ovvero quello di farsi il più possibile europeo.
Una domanda però sorge spontanea: siamo di fronte allo stesso autore che nel 1918 pubblicava le Considerazioni di un impolitico, manifesto del più puro neoconservatorismo, venato di pulsioni illiberali e antidemocratiche, ambiguo nei toni e appannato nei propositi? A tentare una risposta è Giorgio Napolitano, nella sua introduzione, quando sottolinea il bisogno di Mann di trovare, per sua stessa ammissione, «una verità nuova quale nuovo stimolo di vita»: l’adesione alla repubblica e alla democrazia, scrive il Presidente emerito, «risente in qualche passaggio ancora di un certo impaccio, ma senza più ombra di dubbio o equivoco», in particolare quando attacca «“i patrioti avversari”, il loro nazionalismo, e ne ridicolizza la nostalgia dinastico-imperiale del Paese».
C’è uno scritto, in particolare, che riassume con forza la ritrattazione di Considerazioni di un impolitico - ritrattazione a tratti insinuata, ma mai resa esplicita, è bene ricordarlo - ed è La Germania e i tedeschi, in cui Mann, per prima cosa, confessa di sentirsi profondamente a suo agio nei panni americani: «Così come le cose stanno oggi [giugno 1945, ndr], il mio germanesimo è qui, nell’ospitale cosmopoli, nell’universo nazionale e razziale che ha nome America, al suo posto migliore». È come se la permanenza americana portasse una ventilazione nuova nei suoi pensieri, facendogli cogliere la bellezza dell’universalismo, del cosmopolitismo, della mescolanza. E meglio mostrasse, per converso, l’angustia dei sovranismi, delle barriere nazionalistiche, dei deliri identitari e dei trionfalismi germanocentrici.
Ed è peculiare che Mann scelga, per meglio esprimere le contraddizioni dell’animo tedesco, Martin Lutero, il riformatore, l’uomo della separazione da Roma. Per un verso Mann ne riconosce la grandezza, relativamente alla capacità di garantire la libertà religiosa, per l’altro però ne vede l’incapacità di comprendere con la stessa lungimiranza la libertà del cittadino, come ben sintetizzò la sua posizione - di totale disprezzo e rifiuto - nei confronti della rivolta dei contadini.
Thomas Mann, di fronte a Lutero, è in primo luogo spaventato, e a spaventarlo è l’estrema «tedeschità» dell’uomo, il suo spirito anti-romano e anti-europeo: «Non mi sarebbe piaciuto essere ospite alla tavola di Lutero, mi sarei probabilmente sentito come nella dimora di un orco, mentre sono persuaso che me la sarei cavata molto meglio con Leone X, cioè con Giovanni de’ Medici, il cortese umanista che Lutero soleva chiamare “la scrofa del demonio, il Papa”».
In antitesi al modello-Lutero si staglia, nel percorso del Mann americano e rinnovato, la figura di Goethe, capace di conciliare forza popolare e civilizzazione: «Egli è il demonismo consumato, è spirito e sangue a un tempo, cioè arte [... ], con lui la Germania ha fatto un grandioso passo avanti sul cammino della civiltà umana».
Ciò che più di tutti Thomas Mann lamenta, nel guardare le macerie tedesche, è quel pendere dalla parte di Lutero, più che di Goethe. E risuona sinistra la domanda che pone e si pone: «Perché l’impulso di libertà tedesco deve sfociare sempre in una non-libertà interiore?».
Nel ribadire di non essere in alcun modo un nazionalista, Thomas Mann in questi scritti affida il destino della Germania, e anche il suo personale, all’impegno nei confronti dell’Europa, unico antidoto al nazionalismo tedesco: «Mi si conceda il mio germanesimo cosmopolita», scrive quasi chiedendo indulgenza per non voler ritornare in patria, dopo la guerra. Sarebbe stato per lui un gesto troppo politico, la cui portata, ne era forse consapevole, non avrebbe saputo gestire.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
ROMA BRUCIA. GRAZIE AL "TIMES" PER L’ALLARME, MA LONDRA NON RIDA (E ABBIA MIGLIOR CURA DI FREUD). L’incendio è generale. Un omaggio alla Sapienza di Oxford
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne... *
Verso il 25 novembre
Il lungo silenzio che ferisce le donne
La denuncia di violenze è stata messa a tacere nel corso della storia. Solo da poco ha ottenuto uno spazio pubblico e un accenno di ascolto
di Elisabetta Rasy (Il Sole-24 Ore, Domenica, 19.11.2017)
Di fronte al cupo e regolare rimbombo degli omicidi, quello che si chiama sbrigativamente femminicidio, cioè vite femminili spezzate con violenza e furore da persone contigue e non da criminali occasionali, spesso si tende a dire che si tratta della reazione dei maschi sviliti di fronte al nuovo potere e alla nuova libertà femminile che essi, i maschi impauriti, non sarebbero in grado di accettare.
Ma le cose stanno davvero così? Basta uno sguardo alla cronaca per rendersi conto che la violenza contro le donne è orizzontale: dagli stupri indiani a quelli dell’Isis, dalle bambine forzate al matrimonio alle punizioni corporali per le colpevoli di adulterio secondo la legge islamica, dalle pratiche di aborto selettivo - selettivo cioè dei feti femminili - alle figlie femmine chiuse in orfanotrofi lager in Cina e ai dati dell’obitorio di Ciudad Suarez con le migliaia di ragazze brutalizzate e uccise, è impossibile non rendersi conto che la mappa delle violenze non conosce confini e riguarda il mondo occidentale evoluto come quelle aree più remote dove lo sviluppo economico e sociale fatica ad arrivare. E basta poi dare uno sguardo al passato, ai libri di storia e di letteratura, per capire che la violenza femminile è anche verticale, comincia dal mito, per esempio il sacrificio di Dafne per sfuggire ad Apollo, come lo racconta magnificamente Ovidio o come superbamente l’ha scolpito Bernini: uno stupro fatto ad arte, potremmo definirlo.
Poiché sono molti gli equivoci in materia, vorrei insistere contro l’idea che possa esserci una sorta di prezzo da pagare per la (ancora poca) libertà conquistata: Yara Gambirasio aveva tredici anni quando è stata barbaramente aggredita e lasciata morire, l’unica libertà che aveva era di andare a far ginnastica in palestra. Proprio questo scampolo di libertà, questa libertà da bambina, le è stato fatale. Fortuna Loffredo, del derelitto Parco Verde di Caivano, aveva sei anni quando è stata buttata dal settimo piano e da un anno veniva regolarmente abusata: aveva la libertà che hanno le bambine di cui nessuno si occupa e che possono diventare il giocattolo della crudeltà del mondo.
Pure a qualcuno viene ancora in mente, vedi il parroco del quartiere San Donato di Bologna, di mettere in relazione la violenza maschile con la libertà delle donne che spesso non è altro che fiducia, voglia di allegria. (Chissà se quel parroco tanto impegnato su Facebook ha avuto il tempo di leggere la notizia delle ventisei giovani nigeriane trovate morte su un gommone partito dalle coste libiche verso l’Italia, sui corpi delle quali sono stati trovati lividi, segni di percosse, ossa rotte, forse brutalizzate prima della partenza o forse dopo, per lasciarle indietro come merce avariata al momento del tentativo di salvataggio: sono state sventate?). E, dal momento che è il tema del giorno, viene in mente a qualcun altro, una bellissima e ammiratissima attrice, di richiamare alla prudenza (prudenza? e di chi verso chi?) e di invitare a non confondere avances e molestie, quando anche una adolescente sa che le avances sono tali quando lei le gradisce e quando c’è reciprocità nel desiderio e smettono immediatamente di esserlo quando invece sono atti subiti.
Il caso Weinstein ha un merito: ha messo in campo, oltre a uno smodato desiderio di dire la propria opinione e di creare tifoserie contrapposte, un interessante pregiudizio basato sostanzialmente su un unico capo d’accusa: se molestie ci sono state andavano smascherate subito e invece, arrivando anni e anni dopo i fatti, la denuncia delle donne è in colpevole ritardo.
Vero, giusto, proprio così, non si potrebbe mettere meglio a fuoco la situazione: la parola delle donne è in ritardo. Solo che non si tratta di quei venti anni dai fatti, cioè dalla prepotenza sessuale del produttore americano. Gli anni sono molti di più: sono secoli e millenni. La parola femminile sconta un ritardo infinito per essere stata tacitata da un inviolabile obbligo di silenzio lungo tutto il corso della storia. È davvero da molto poco che ha conquistato uno spazio pubblico, e solo qua e là nel mondo uno spazio di ascolto. Ed è un ritardo certamente colpevole, essendo la colpa però non di chi non può parlare ma di chi impedisce all’altro di farlo: non è un silenzio qualsiasi, è l’impossibilità di parola che sempre si verifica quando c’è uno sbilanciamento dei poteri, uno squilibrio dei diritti.
In materia di donne è proprio ritardo la parola chiave. Lo incontriamo in ogni campo della vita femminile e non è difficile scorgere il nesso tra questo ritardo e la violenza. Dai ritardi del passato (siamo sicuri di ricordare che solo nel 1981 vengono abrogate nel norme del codice penale relative al delitto d’onore?) a quelli di oggi la situazione non è meno grave.
Di violenza parlano chiaramente le cifre. Per esempio quelle di una recente ricerca del World Economic Forum sul divario di genere nel mondo, i cui parametri non sono la ridda delle opinioni contrapposte ma elementi precisi, cioè economia, politica, salute, formazione. Ci vorranno, secondo le previsioni, cento anni per colmarlo, questo divario.
L’Italia, rispetto ai quattro parametri, è all’ottantaduesimo posto (dopo Burundi, Bolivia, Mozambico...), ma se si considerano invece solo i parametri della situazione economica e della salute scende al centodiciottesimo posto. Salute e denaro, cioè utensili della sopravvivenza. Come è possibile che chi sia in una posizione così precaria possa difendersi dagli agguati della violenza? La precarietà crea dipendenza, fragilità, sottomissione, cioè potenziale esposizione alla violenza. E non riguarda soltanto le più sfortunate e le più derelitte: è vero, c’è anche chi guadagna bene e chi può curarsi, ma se non c’è parità diffusa che possa penetrare nelle menti e nei cuori e nel corpo collettivo della società, non c’è sicura difesa dalla violenza. E non c’è sicurezza senza giustizia, se non sono tutelate tutte le donne non lo è nessuna.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
Uomini e donne, per un "cambio di civiltà" - al di là del Regno di "Mammasantissima": l’alleanza edipica della Madre con il Figlio, contro il Padre, e contro tutti i fratelli e tutte le sorelle.
USCIAMO DAL SILENZIO: UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
GIAMBATTISTA VICO: OMERO, LE DONNE, E I "NIPOTINI" DI PLATONE
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
MESSAGGIO EVANGELICO E ILLUMINISMO, OGGI: "SAPERE AUDE!" (I. Kant). AL DI LA’ DELLA LOGICA E DELLA DIALETTICA "SERVO-PADRONE"...
La parabola dei talenti
di ENZO BIANCHI (Monastero di Bose, 19 novembre 2017)
La parabola dei talenti proposta dalla liturgia odierna è una parabola che, secondo il mio povero parere, oggi è pericolosa: pericolosa, perché più volte l’ho sentita commentare in un modo che, anziché spingere i cristiani a conversione, pare confermarli nel loro attuale comportamento tra gli altri uomini e donne, nel mondo e nella chiesa. Dunque forse sarebbe meglio non leggere questo testo, piuttosto che leggerlo male...
In verità questa parabola non è un’esaltazione, un applauso all’efficienza, non è un’apologia di chi sa guadagnare profitti, non è un inno alla meritocrazia, ma è una vera e propria contestazione verso il cristiano che sovente è tiepido, senza iniziativa, contento di quello che fa e opera, pauroso di fronte al cambiamento richiesto da nuove sfide o dalle mutate condizioni culturali della società. La parabola non conferma neppure “l’attivismo pastorale” di cui sono preda molte comunità cristiane, molti “operatori pastorali” che non sanno leggere la sterilità di tutto il loro darsi da fare, ma chiede alla comunità cristiana consapevolezza, responsabilità, laboriosità, audacia e soprattutto creatività. Non la quantità del fare, delle opere, né il guadagnare proseliti rendono cristiana una comunità, ma la sua obbedienza alla parola del Signore che la spinge verso nuove frontiere, verso nuovi lidi, su strade non percorse, lungo le quali la bussola che orienta il cammino è solo il Vangelo, unito al grido degli uomini e delle donne di oggi quando balbettano: “Vogliamo vedere Gesù!” (Gv 12,21).
Leggiamo allora con intelligenza questa parabola la cui prospettiva - lo ripeto - non è economica né finanziaria; essa non è un invito all’attivismo ma alla vigilanza che resta in attesa, non contenta del presente ma tutta protesa verso la venuta del Signore. Egli non è più tra di noi, sulla terra, è come partito per un viaggio e ha affidato ai suoi servi, ai suoi discepoli un compito: moltiplicare i doni da lui fatti a ciascuno. Nella parabola, a due servi il Signore ha lasciato molto, una somma cospicua - cinque lingotti di argento a uno, due a un altro -, affinché la facciano fruttificare; a un terzo servo ha lasciato un solo lingotto, che comunque non è poco. In tutti egli ha messo la sua fiducia senza limiti, confidando loro i suoi beni. Spetta dunque ai servi non tradire la grande fiducia del padrone e operare una sapiente gestione dei beni, non di loro proprietà ma del padrone, il quale al suo ritorno darà loro la ricompensa. A ciascuno il padrone da in funzione della sua capacità, e il suo dono è anche un compito: custodire e far fruttificare.
Al di là dell’immagine dei talenti, che cos’è questo dono, in definitiva? Secondo Ireneo di Lione è la vita accordata da Dio a ogni persona. La vita è un dono che non va assolutamente sprecato, ignorato o dissipato. Purtroppo - dobbiamo constatarlo - per alcuni la vita non ha alcun valore: non la vivono, anzi la sprecano e la sciupano “fino a farne una stucchevole estranea” (Konstantinos Kavafis), e così si lasciano vivere. Eppure si vive una volta sola e il farlo con consapevolezza e responsabilità è decisivo al fine di salvare una vita o perderla! Secondo altri padri orientali, i talenti sono le parole del Signore affidate ai discepoli perché le custodiscano, certo, ma soprattutto le rendano fruttuose nella loro vita, le mettano in pratica fino a seminarle copiosamente nella terra che è il mondo. Di nuovo, è questione di vita, di “scegliere la vita” (cf. Dt 30,19).
“Dopo molto tempo” - allusione al ritardo della parusia, della venuta gloriosa del Signore (cf. Mt 24,48; 25,5) - il padrone ritorna e chiede conto della fiducia da lui riposta nei suoi servi, i quali devono mostrare la loro capacità di essere responsabili, in grado cioè di rispondere della fiducia ricevuta. Eccoli dunque presentarsi tutti davanti a lui. Colui che aveva ricevuto cinque talenti si è mostrato operoso, intraprendente, capace di rischiare, si è impegnato affinché i doni ricevuti non fossero diminuiti, sprecati o inutilizzati; per questo, all’atto di consegnare al padrone dieci talenti, riceve da lui l’elogio: “Bene, servo buono e fedele, ... entra nella gioia del tuo Signore”. Lo stesso avviene per il secondo servo, anche lui in grado di raddoppiare i talenti ricevuti. Per questi due servi la ricompensa è proporzionalmente uguale, anche se le somme affidate erano diverse, perché entrambi hanno agito secondo le loro capacità.
Viene infine colui che aveva ricevuto un solo talento, il quale mette subito le mani avanti, manifestando il pensiero che lo ha paralizzato: “Da quando mi hai dato il talento, io sapevo che sei un uomo duro, esigente, arbitrario, che fa ciò che vuole, raccogliendo anche dove non ha seminato”. Con queste sue parole (“dalle tue parole ti giudico”, si legge nel testo parallelo di Lc 19,22) il servo confessa di essersi fabbricato un’immagine distorta del Signore, un’immagine plasmata dalla sua paura e dalla sua incapacità di avere fiducia nell’altro: egli considera il padrone come qualcuno che gli fa paura, che chiede una scrupolosa osservanza di ciò che ordina, che agisce in modo arbitrario. Avendo questa immagine in sé, ha scelto di non correre rischi: ha messo al sicuro, sotto terra, il denaro ricevuto, e ora lo restituisce tale e quale. Così rende al padrone ciò che è suo e non ruba, non fa peccato... Ma ecco che il Signore va in collera e gli risponde: “Sei un servo malvagio (ponerós) e pigro (oknerós). Malvagio perché hai obbedito all’immagine perversa del Signore che ti sei fatta, e così hai vissuto un rapporto di amore servile, di amore ‘costretto’. Per questo sei stato pigro, inaffidabile, non hai avuto né il cuore né la capacità di operare secondo la fiducia che ti avevo accordato. Non hai fatto neanche lo sforzo di mettere il talento in banca, dove sarebbe stato fruttuoso, dandomi interessi. Non hai avuto cura del mio bene affidato a te”.
Sì, lo sappiamo: è più facile seppellire i doni che Dio ci ha dato, piuttosto che condividerli; è più facile conservare le posizioni, i tesori del passato, che andarne a scoprire di nuovi; è più facile diffidare dell’altro che ci ha fatto del bene, piuttosto che rispondere consapevolmente, nella libertà e per amore. Ecco dunque la lode per chi rischia e il biasimo per chi si accontenta di ciò che ha, rinchiudendosi nel suo “io minimo”. Questo servo non ha fatto il male; peggio ancora, non ha fatto niente! Dunque davanti a Dio nel giorno del giudizio compariranno due tipi di persone:
chi ha ricevuto e ha fatto fruttificare il dono,
chi lo ha ricevuto e non ha fatto niente.
I servi fedeli entreranno nella gioia del Signore; chi invece è stato “buono a nulla” (achreîos) sarà spogliato anche dei meriti che pensava di poter vantare!
Ma a me piacerebbe che la parabola si concludesse altrimenti: così sarebbe più chiaro il cuore del padrone, mentre il cuore del discepolo sarebbe quello che il padrone desidera. Oso dunque proporre questa conclusione “apocrifa”:
Venne il terzo servo, al quale il padrone aveva confidato un solo talento, e gli disse: “Signore, io ho guadagnato un solo talento, raddoppiando ciò che mi hai consegnato, ma durante il viaggio ho perso tutto il denaro. So però che tu sei buono e comprendi la mia disgrazia. Non ti porto nulla, ma so che sei misericordioso”. E il padrone, al quale più del denaro importava che quel servo avesse una vera immagine di lui, gli disse: “Bene, servo buono e fedele, anche se non hai niente, entra pure tu nella gioia del tuo padrone, perché hai avuto fiducia in me”.
Anche così la parabola sarebbe buona notizia!
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MESSAGGIO EVANGELICO E ILLUMINISMO, OGGI: "SAPERE AUDE! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza" (I. Kant).
LA PAURA DI PENSARE E LA PARABOLA DEI TALENTI. Perché chiudere la nostra vita in una scatola? Una riflessione di Angelo Casati
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Quando la Chiesa amava tutti gli uomini esclusi gli africani
Il libro di un prete nigeriano svela il ruolo dei papi nella pratica dello schiavismo fino al 1839
di Rita Monaldi Francesco Sorti (La Stampa, 12.11.17
I papi hanno abusato della Bibbia per lucrare sul traffico di schiavi». Queste parole non vengono da qualche autore di thriller trash a base di scandali vaticani, ma da uno storico serio che sul tema vanta una doppia legittimazione. È nigeriano (quindi partie en cause) e soprattutto è un prete cattolico. Si chiama Pius Adiele Onyemechi ed esercita da 20 anni il suo ministero in Germania, nella regione del Baden-Württemberg.
La sua innovativa indagine The Popes, the Catholic Church and the Transatlantic Enslavement of Black Africans 1418-1839 (pp. XVI/590., €98 Olms, 2017), che tra gli storici già suscita discussioni, capovolge il vecchio dogma secondo cui il Papato è stato sostanzialmente estraneo alla più grande strage di tutti i tempi: la tratta degli schiavi. Una tragedia secolare che - come ricorda il grande scrittore danese Thorkild Hansen nella sua classica trilogia sullo schiavismo - ha seminato oltre 80 milioni di morti.
Una sorpresa
Proprio in questi mesi la prestigiosa Accademia delle Scienze di Magonza ha concluso un colossale progetto di ricerca sulla storia della schiavitù durato ben 65 anni, con la collaborazione di studiosi di primo piano come il sociologo di Harvard Orlando Patterson (egli stesso discendente di schiavi) e lo storico dell’antichità Winfried Schmitz. Quasi a suggello è arrivato il libro di don Onyemechi: una radiografia minuziosa del ruolo dei papi nel commercio di schiavi in Africa dal XV al XIX secolo, l’epoca dorata del business schiavistico.
Per la prima volta a suon di date, fatti e nomi don Onyemechi punta il dito su responsabilità morali e materiali, avviando un regolamento di conti col passato proprio nel momento in cui la Chiesa di Roma, nella sua tradizione secolare di sostegno ai più deboli, chiama alla solidarietà verso i migranti. Come riassume l’autore, i risultati «fortemente sorprendenti» venuti alla luce «affondano un dito nelle ferite di questo capitolo oscuro della Storia, e nella vita della Chiesa cattolica».
«La Chiesa», spiega il religioso, «ha abusato del passo biblico contenuto nel capitolo 9 della Genesi», in cui si afferma che tutti i popoli della terra discendono dai figli di Noè: Sem, Cam e Iafet. Dopo il diluvio, Cam rivelò ai fratelli di aver visto il padre giacere ubriaco e nudo. Noè maledisse Cam insieme a tutti i suoi discendenti, condannandoli a diventare servi di Sem e Iafet. La Chiesa allora affermò che gli africani sarebbero i discendenti di Cam. Pio IX, ancora nel 1873, inviterà tutti i credenti a pregare affinché sia scongiurata la maledizione di Noè pendente sull’Africa.
Documenti scomparsi
Nel nostro romanzo Imprimatur abbiamo reso noto il caso di Innocenzo XI Odescalchi (1676-1689), che possedeva schiavi, era in affari con mercanti negrieri e vessava i forzati in catene sulle galere pontificie. I documenti che lo provano, pubblicati nel 1887, sono poi misteriosamente scomparsi. Certo, nel Seicento i moderni diritti umani erano di là da venire, ma poi papa Odescalchi è stato beatificato nel 1956, e in predicato per la canonizzazione nel 2002.
Di simili contraddizioni don Onyemechi ne ha scovate a migliaia. Il commercio di schiavi in origine toccava Cina, Russia, Armenia e Persia; mercati internazionali si tenevano a Marsiglia, Pisa, Venezia, Genova, Verdun e Barcellona. Col tempo queste rotte sono tutte scomparse, tranne quelle africane. Come mai? Sarebbe stata la Chiesa a giocare il ruolo decisivo, raccomandando a sovrani e imperatori di «preferire» schiavi africani. Lo fecero vescovi e perfino Papi come Paolo V.
La giustificazione veniva non solo dalla Bibbia ma anche da Aristotele, per il quale alcuni popoli erano semplicemente «schiavi per natura». Una visione poi ripresa da San Tommaso e dall’influente facoltà teologica di Salamanca nel XV e XVI secolo. Padri della Chiesa come Basilio di Cesarea, Sant’Ambrogio, Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo e lo stesso Sant’Agostino invece giustificavano la schiavitù come frutto del peccato originale.
Il Portogallo
A metà del XV secolo il portoghese Niccolò V concesse al suo Paese di origine il diritto di evangelizzare, conquistare e deportare «in schiavitù perenne» gli africani, bollati come nemici della Cristianità insieme ai saraceni (che in verità erano ben più pericolosi e martoriavano, loro sì, i regni cristiani). I successori Callisto III, Sisto IV, Leone X e Alessandro VI non fecero altro che confermare e ampliare i diritti concessi al Portogallo. Altri Pontefici (Paolo III, Gregorio XIV, Urbano VIII, Benedetto XIV) nelle loro Bolle ufficiali si schierarono contro la schiavitù degli Indiani d’America, ma non contro quella degli africani.
Dallo schiavismo la Chiesa ha avuto un concreto ritorno economico. Attivissimi i missionari portoghesi e soprattutto i gesuiti, che compravano gli schiavi per impiegarli nelle loro piantagioni in Brasile e nel Maryland. Oppure li rivendevano con la loro nave negriera «privata», che trasportava la merce umana da Congo, Luanda e São Tomé verso il Brasile.
Don Onyemechi cita il contratto con cui nel 1838 il Provinciale dei Gesuiti del Maryland, Thomas Mulledy, vendette 272 schiavi africani. Prezzo: 115.000 dollari al «pezzo». L’evangelizzazione consisteva per lo più nel battezzare in fretta e furia gli schiavi prima di imbarcarli. Anzi, tutto il meccanismo faceva sì che essi venissero tenuti ben lontani dalla parola di Cristo. I profitti venivano reinvestiti in nuove campagne di aggressione e deportazione.
Riconoscimento tardivo
«Solo nel 1839 la Chiesa ha riconosciuto gli africani come esseri umani al pari di tutti gli altri», ricorda lo storico di origine nigeriana. Lo sancì una Bolla di Gregorio XVI, in verità piuttosto tardiva: i commerci di schiavi erano stati già aboliti da quasi tutti gli Stati tra 1807 e 1818 e gli Inglesi ne avevano preso le distanze sin dalla fine del Settecento. Don Onyemechi ha lavorato su fonti originali nell’Archivio Segreto Vaticano e negli archivi di Lisbona (per decifrare i manoscritti lusitani ha imparato da zero il portoghese) e ha dato un contributo duraturo (realizzato con routine teutonica ogni giorno dalle 3 alle 8 del mattino) alla ricerca della verità storica. A Roma non dovrebbe riuscire sgradito, vista l’attenzione di papa Francesco - anche lui gesuita - per i popoli d’Africa.
Nota aggiunta.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ABRAHAM LINCOLN E GLI STATI UNITI DI AMERICA, OGGI: LA LEZIONE DI STEVEN SPIELBERG.
UBUNTU: "Le persone diventano persone grazie ad altre persone".
"CHI" SIAMO: LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO.
DUE CRISTIANESIMI: COSA RESTA?! IL CRISTIANESIMO DEL "DEUS CHARITAS EST" O IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO DEL "DEUS CARITAS EST"?! O nessuno dei due?!
INNANZITUTTO UN GRAN PLAUSO al prof . Armando Polito per il coraggioso intervento chiarificatorio sul tema (cfr. "Mesagne: Luca Antonio Resta, il vescovo e l’Affumicato":Fondazione Terra d’Otranto, 08/11/2017) e, al contempo, un modesto invito a riconsiderare i termini di una questione filologica e teologica di rilevantisima portata che ha il suo luogo di riferimento innanzitutto nei testi dell’evangelista Giovanni e poi nel famoso "INNO ALLA CARITÀ" di Paolo di Tarso, il romano persecutore dei cristiani (cfr.: MEMORIA FILOLOGICA E TEOLOGICA. GESU’, IL FIGLIO DELLA GRAZIA EVANGELICA ("CHARITAS") O IL "TESORO" DI "MAMMONA" ("CARITAS") E DI "MAMMASANTISSIMA" DEI FARAONI ?!!)
Come sappiamo da sempre, non si possono servire "due padroni", la Verità e la Menzogna contemporaneamente, "Dio Amore" e Dio Mammona" nello stesso tempo!!! Ciò che è in gioco è la questione delle questioni, quella stessa dell "ragione" e della "fede" unitamente, a tutti i livelli.
"CHARITAS" o "CARITAS"? COSA RESTA?!
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori.
MURATORI E RATZINGER: "DEUS CARITAS EST"!!! FINE DEL CRISTIANESIMO: TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA, TITOLANDOLA "DEUS CARITAS EST" ("CHARITAS", SENZA "H"), E’ ORA CHE TORNI A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO; E CERCHI DI SAPERE "CHI" SIAMO NOI IN REALTÀ.
Federico La Sala
LO SGUARDO DAL DI FUORI, LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE... *
Un mondo senza limiti
di Luigi Marfè ("Alfabeta2", 2 ottobre 2017)
Quando, a cominciare dal 1946, i vettori spaziali cominciarono a scattare fotografie della Terra, per la prima volta l’uomo poté vedere il proprio pianeta dall’esterno. Dalle prime immagini sfocate si giunse in breve a rappresentazioni più precise, come la Blue Marble scattata dall’Apollo 17 nel ’72, capaci di imprimersi a fondo nell’immaginario collettivo. Da sempre al centro della fantasia di esploratori e poeti, il sogno di abbracciare l’intero globo e delinearne un’immagine veritiera parve infine realizzarsi.
“Il costituirsi del mondo a immagine” sarebbe del resto, secondo Heidegger, “ciò che distingue e caratterizza il Mondo Moderno”. Le immagini spaziali della Terra - quello “sguardo dal di fuori” di cui parlava nel 1981 Alberto Boatto (il grande critico d’arte e saggista scomparso lo scorso 9 febbraio) in un saggio pioneristico dal titolo omonimo, recentemente ripubblicato da Castelvecchi (2013) - rappresenterebbero, in questa prospettiva, l’ultimo tassello di un processo di “invenzione della tradizione” che risalirebbe molto più indietro nel tempo.
L’invenzione del globo di Matteo Vegetti si concentra proprio su questa storia e ne verifica la consistenza in testi di varia origine, dalla filosofia alla poesia, dalla scienza politica alla dottrina militare, nella convinzione che tale ricostruzione possa contribuire a riflettere con meno approssimazione su uno dei concetti più abusati e consunti del dibattito pubblico attuale: quello di “globalizzazione”.
Punto di partenza di Vegetti è un passo di Terra e Mare di Carl Schmitt (1942), in cui si allude a una vera e propria “rivoluzione spaziale” (Raumrevolution) grazie alla quale l’uomo si sarebbe appropriato dello spazio atmosferico, stravolgendo equilibri geopolitici secolari basati, fin dall’età delle scoperte geografiche, sullo scontro tra forze terrestri e forze navali.
Dopo la lotta tra Behemot, mostro della terraferma, e Leviatano, mostro marino, la nuova epoca si sarebbe aperta nel segno di una nuova creatura biblica: l’uccello Ziz (Salmi, 50:11). Se Shakespeare poteva vantare nel Riccardo II (1595) la protezione dagli stranieri offerta all’Inghilterra dal mare, gli aerei venivano ora a smentirlo, rendendo qualunque paese un’isola affacciata su un altro oceano, quello atmosferico. La conquista dell’aria rappresenterebbe allora un vero e proprio cambio di paradigma, capace di accorciare le distanze e creare nuove relazioni tra i luoghi.
“Nulla più si farà che non vi sia coinvolto il mondo intero”, aveva notato, già nel 1930, Paul Valéry, annunciando l’inizio del “tempo del mondo finito”. E con lui Claude Lévi-Strauss, Ernst Jünger e tutti quanti in quegli anni andavano osservando l’insorgere sempre più frequente di fenomeni di portata globale. Ma nessuno di loro poteva immaginare che, qualche decennio più tardi, le trasformazioni del sistema dei trasporti, limitate ai movimenti materiali di uomini e merci, sarebbero state un’inezia al confronto dell’ulteriore accelerazione dei flussi immateriali di notizie, idee e denaro, prodotta da un’altra forma di colonizzazione dell’aria, l’elettronica. “Dalla scoperta delle onde elettromagnetiche”, ha scritto Marshall McLuhan, “ciascun individuo scopre se stesso [...] simultaneamente presente sulla totalità della terra e del mare - coestensivo al pianeta”.
La conquista dell’aria ha finito così per mettere in crisi la tradizionale “ragione cartografica”, per dirla con Franco Farinelli, imponendo una nuova scala nella percezione dei fenomeni geografici. Se la vecchia rivoluzione marittima era avvenuta grazie alla scoperta di nuovi continenti, quella aerea ha agito più in profondità su territori già noti, rimodellandone la configurazione antropica, sociale, politica, economica. “Lo spazio può essere conquistato soltanto attraverso la produzione di spazio”, ha notato David Harvey: vale a dire, attraverso la creazione di relazioni tra luoghi, trasversali rispetto a ogni confine, capaci di produrre nuovi “paesaggi globali”, nella definizione di Arjun Appadurai, coesistenti ma non coincidenti, in continua tensione, in irresolubile divenire.
“Una volta raggiunta la Luna”, osservava Boatto, “avremmo dovuto guardarci dal di fuori, sentirci liberi finalmente da quell’appiccicosa pelle egoistica da cui trasudiamo tutta la nostra ansia antropocentrica” e, vedendoci “in un’infinitesima piccolezza”, intuire “l’urgenza e la necessità di un solo stato” e “una sola struttura in cui [...] riconoscerci”. Non è andata così. Se “l’imperialismo”, come ha scritto Peter Sloterdijk, “è planimetria applicata”, la conquista dell’aria ha prodotto una irreversibile riconfigurazione di tale “planimetria”, rendendo più complessa la relazione tra sovranità e territorio.
Il globo risulta oggi contraddistinto da “un ordine spaziale discontinuo”, nelle parole di Vegetti, “una geografia post-territoriale composta da una pluralità di centri o nodi fisicamente lontani tra loro” che “non si definiscono in funzione del contesto della loro ubicazione, bensì in funzione della rete che li implica in quanto propri elementi”. Non è ancora chiaro, tuttavia, se tale riconfigurazione dello spazio avrà come risultato la sostituzione dei vecchi equilibri con uno nuovo, o piuttosto una generale riformulazione, a livello sociale e politico, delle categorie di ordine e disordine cui siamo abituati.
L’immagine di un ordine fluido, che si tiene nell’aria, era del resto al centro di uno dei romanzi che meglio descrivono questa “geografia post-territoriale”, e che proprio quest’anno compie vent’anni, Underworld (1997) di Don DeLillo. “Il potere aveva un significato, trenta, quarant’anni fa”, vi si legge, “era una cosa stabile, focalizzata, tangibile. [...] E ci teneva insieme, [...] forse teneva insieme il mondo”. Il mondo narrato da DeLillo, invece, è tutt’altro che stabile, appeso com’è all’andirivieni di una pallina da baseball che un fuoricampo fa volare nell’aria, oltre gli spalti dello stadio di New York, durante la finale del campionato, per ridisegnare la trama di uno spazio urbano disconnesso e frammentario: “Molte cose ancorate all’equilibrio del potere e all’equilibrio del terrore si sono sciolte, liberate, così sembra. Le cose non hanno più limiti adesso”.
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SUL TEMA, BEL SITO, SI CFR.:
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE (Capitolo III della Terza parte del lavoro di Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 162-189.
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
KANT E L’ORNITORINCO. La democrazia, l’antinomia istituzionale del mentitore e la catastrofe culturale italiana... *
Nel nome di Eco
di Daniele Trematore (Alfabeta2 , 30 settembre 2017)
Per cominciare bisogna andare a scavare nelle pagine finali di alcuni saggi Sulla letteratura. Lì, in un bellissimo scritto autobiografico intitolato “Come scrivo”, Umberto Eco ci dice che narrare è innanzitutto un fatto “cosmogonico”: ha a che fare con la costruzione di un mondo, e solo dopo che questo mondo è stato costruito le parole verranno quasi da sé: rem tene, verba sequentur. Ed è quello che Eco ha fatto prima di scrivere Il nome della rosa, disegnando personaggi e labirinti di un mondo che già conosceva benissimo grazie ai suoi studi medievali, o Il pendolo di Foucault, le cui pagine finali sono venute di getto proprio perché Eco quel momento lo aveva vissuto: il ragazzino piemontese che suona la tromba a un funerale di partigiani era proprio lui. Ed è anche quello che deve essere successo a Claudio Paolucci (docente di Semiotica all’Università di Bologna e già autore di numerosi saggi sulla semiotica interpretativa) quando si è messo a scrivere il suo ritratto di Umberto Eco. Tra Ordine e Avventura, da poco uscito per la collana “Eredi” di Feltrinelli diretta da Massimo Recalcati.
Quel mondo Paolucci lo ha costruito nel corso del tempo e, in parte, lo ha anche vissuto, visto che per lui Eco è stato “il relatore della mia tesi di laurea, il tutor di quella di dottorato e il maestro di semiotica che avevo sempre sognato”: quel “prof.” che condensava in sé le qualità dei suoi tre più importanti maestri - il rigore e la pedanteria di Pareyson, l’ironia scettica di Abbagnano e la teatralità di Guzzo - e che amava infinitamente stare con i propri allievi anche al di fuori dell’ambiente universitario, magari davanti a un Martini o a un whisky. Che ti poteva addirittura chiedere di tenere un intero corso al suo posto, ma che poi sapeva degnamente ricompensarti con qualche prima edizione, dalla Logica dei Relativi di Peirce alla copia originale della sua tesi sul Problema estetico in San Tommaso d’Aquino. E che, soprattutto, non si tirava mai indietro di fronte alla discussione critica al punto da accettare la tesi “tutta contro di lui” di “un ragazzo di ventiquattro anni con un look che lo disturbava moltissimo” e che smontava punto per punto alcune idee contenute nel suo Kant e l’ornitorinco.
Rem tene, verba sequentur, dicevamo. Ma le pagine di Paolucci (come del resto quelle di Eco) non sono il risultato di una sorta di “magma dell’ispirazione”, bensì di giorni e notti passate a studiare le opere del suo maestro (e dei suoi maestri) che, non a caso, amava insegnare ai suoi allievi che “il talento non porta da nessuna parte senza il lavoro”. Esse, insomma, sono il frutto di quell’“etica lavorativa” che caratterizzava il metodo di lavoro intellettuale e professionale di Umberto Eco (si pensi agli impressionanti ritmi di studio che aveva a Monte Cerignone interrotti soltanto dai pasti o da una nuotata in piscina); e si distinguono per rigore e profondità quando parlano dello studioso - e, aggiungerei, per commozione quando Paolucci rievoca alcuni ricordi e momenti personali dell’uomo.
Facendosi strada tra boschi narrativi e labirinti rizomatici dove incontriamo i temi più cari al nostro, come il riso e la menzogna, la guerriglia semiologica e l’Enciclopedia, questo appassionato ritratto intende offrire una panoramica generale del pensiero di Eco tentando - alla luce della sua autobiografia intellettuale terminata poco tempo prima di morire per la prestigiosa collana “Library of the Living Philosophers” - di fare il punto su un’eredità ancora tutta da valutare.
Innanzitutto Paolucci evidenzia il rapporto tra Teoria e Storia costitutivo dell’opera di Eco - in continua tensione tra Ordine e Avventura, Summa ed Enciclopedia, Forma e Interpretazione - e rielabora completamente quello più tardo tra Teoria e Narrazione che ha impegnato la riflessione di alcuni suoi critici e di cui Eco stesso era da tempo consapevole. Si tratta di due regni metodologicamente separati ma che si nutrono reciprocamente; non a caso, per spiegarne il rapporto, Eco riformulava una famosa frase di Wittgenstein e al posto di “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, diceva “su ciò su cui non si può teorizzare, si deve narrare”. Così, mentre la Teoria è l’arte di risolvere i problemi attraverso lo studio del linguaggio, la Narrazione “mostra” le soluzioni ad alcuni problemi che la Teoria non era in grado di trattare coi propri mezzi. Un esempio di questo rapporto è proprio Il nome della rosa. Per tutta la sua vita Eco ha cercato di scrivere un Trattato filosofico sul Riso, senza mai riuscirci. Il nome della rosa è la versione non teorica di questo trattato. E nelle ultime pagine del romanzo Guglielmo da Baskerville e Jorge da Burgos discutono proprio delle teorie sul riso che Eco mette sì in bocca ad Aristotele, ma che in realtà sono le sue. È quindi dal Nome della rosa e non dai saggi di filosofia che apprendiamo le teorie filosofiche di Eco sul riso. Da qui l’idea centrale del libro: secondo Paolucci la filosofia di Eco è una specie di “ornitorinco filosofico”, nel senso cui secondo Eco l’ornitorinco era un animale fatto “con pezzi di altri animali”. Così è la filosofia di Umberto Eco: una filosofia fatta con pezzi di non-filosofia, che Paolucci smonta in vari pezzi, aiutandoci a fare piazza pulita di alcuni luoghi comuni.
Partiamo da due maschere: quella dell’ironia e dell’erudizione. La prima ci presenta l’immagine di un Eco che scrive filastrocche sulla storia della filosofia e gioca di pastiches letterari (quando non legge i fumetti) e ride della morte, non prima ovviamente di aver tacciato di imbecillità qualche legione di utenti del web. Paolucci vi dedica un intero capitolo (“Il riso e la rosa”) - dando conto appunto di quel Trattato filosofico sul Riso mai scritto, ma già anticipato in saggi come “L’elogio di Franti” - perché l’ironia in Eco è tanto importante quanto l’estrema serietà del lavoro, costituendone quella parte attraverso cui si testano l’Ordine esistente e le teorie consolidate. La seconda, sottolineata sia dai suoi estimatori che dai suoi critici, può essere rappresentata dalla parodia di Fiorello che mostra un Eco coltissimo che finisce per inciampare su errori banalissimi. Ora, è vero che Eco sapeva molte cose, ma non era L’uomo che sapeva troppo e tantomeno quello che sapeva tutto: era semmai l’enciclopedista che sapeva dove andare a cercare le informazioni che gli servivano hic et nunc (di qui si spiega la sua monumentale biblioteca come strumento di lavoro e come raccolta di libri non letti).
Un altro luogo comune smascherato da Paolucci ci porta ad uno dei suoi testi più noti, Apocalittici e integrati del 1964, che molti ancora citano in relazione alle opposizioni più diverse. In realtà in quel libro - che si presentava come il tentativo di giustificare un titolo scelto dal suo editore Valentino Bompiani per una serie di saggi assemblati in fretta per motivi di concorso - non si trattava di spiegare Rita Pavone attraverso Kant né di dire che la filosofia avesse la stessa dignità culturale del fumetto, ma di far vedere come la cultura “bassa” fosse un prodotto di quella “alta” e “di rivoluzionare i prodotti di cultura bassa, criticando le ideologie della cultura alta ed elevandoli a prodotti che abbiano un’effettiva dignità culturale”. Certo, benché intendesse semplicemente “fare il punto su un dibattito ormai maturo”, noi sappiamo che questo libro, analizzando con metodi filosofici e sociologici rigorosi gli oggetti della cultura di massa, ebbe il merito di ridisegnare la geografia della cultura italiana e di allargarne i domini. Ed ecco che arriviamo al luogo comune che riguarda il suo lavoro filosofico, che negli anni è stato “ostracizzato” dai filosofi di professione proprio perché Eco aveva dei rapporti controversi con la cultura ritenuta “bassa” e considerava la semiotica “la forma contemporanea della filosofia” (e non è un caso che nelle celebrazioni seguite alla morte l’Eco filosofo sia stato messo da parte).
Uno dei tanti meriti del libro di Paolucci - che rappresenta una sorta di grande rivoluzione copernicana nella bibliografia su Eco - è quello di restituire giustizia a questo pensiero eminentemente filosofico e, prendendo provocatoriamente a prestito il titolo di un pezzo mai scritto che Eco regalò a Paolucci, diciamo: Occorre rimettere Eco negli scaffali di filosofia.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
UMBERTO ECO E IL POPULISMO DI "FORZA ITALIA". Un’intervista di Marcelle Padovani (2002) e un’intervista di Deborah Solomon (2007).
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!! Un’inchiesta e una mappa.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
BIOLOGIA, ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA.... *
L’amore è davvero cieco così il cervello si spegne e la scienza non lo sa spiegare
È la Francesca di Dante il simbolo tragico della forza sprigionata dalle nostre passioni
di Massimo Ammaniti (la Repubblica, 29.09.2017)
Un saggio di Grazia Attili indaga le basi biologiche del sentimento più grande e misterioso. Studi ed esperimenti confermano le intuizioni dei poeti, ma non rispondono alla domanda cruciale: come accade? Consapevole di quanto l’amore plasmasse la vita quotidiana nel mondo occidentale, ma anche in altre culture, Sigmund Freud scrisse parole illuminanti in un suo saggio del 1915: «Indubbiamente l’amore fra i sessi è una delle cose più importanti della vita, e l’unione del soddisfacimento spirituale e fisico che si attinge nel godimento d’amore ne rappresenta precisamente uno dei vertici. Soltanto nella scienza si ha ritegno ad ammetterlo ».
È passato da allora più di un secolo ma la complessità dell’esperienza amorosa è ancora oggi difficile da decodificare in campo scientifico perché vi è un ritegno, più che comprensibile, ad entrare nell’intimità della vita individuale, ma anche a tradurre questo sentimento in un linguaggio troppo distante da quello che usano gli innamorati.
Ma l’amore non è solo quello del batticuore e del desiderio che si prova per la persona che si ama, anche il corpo e lo stesso cervello ne sono coinvolti, come viene raccontato nel libro Il cervello in amore (il Mulino, pag. 230) dalla psicologa e docente universitaria Grazia Attili.
Già in altri suoi libri Attili aveva esplorato l’esperienza amorosa in una chiave evoluzionistica mettendo in luce come l’amore dei genitori per i figli, ma anche fra partner sentimentali comporti l’attivazione di circuiti cerebrali che sostengono la relazione affettiva favorendo la propagazione delle specificità genetiche alle generazioni successive e la stessa sopravvivenza della specie umana. In questo nuovo libro esplora ulteriormente le basi biologiche dell’amore sentimentale con un’attenta revisione delle nuove scoperte nel campo dei neurormoni. Quando si pensa alla persona che si ama e ancora di più quando si è con lei si verifica nel cervello una tempesta ormonale, di cui la dopamina è la grande protagonista. Nel viso e negli occhi della persona innamorata si coglie il piacere che sta vivendo, ma che a volte suscita pensieri così insistenti da divenire travolgenti, quasi ossessivi.
Non può non ritornare in mente la tragica figura di Francesca da Rimini, che Dante incontra all’Inferno e che racconta il turbine da cui è stata travolta: «Amor che a’nullo amato amar perdona mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona». Ma il confine fra passione e innamoramento e delirio amoroso a volte può sfumare. Come per esempio nel film di François Truffaut Adele H., in cui la protagonista, la secondogenita di Victor Hugo, si innamora di un ufficiale inglese e lo insegue in Canada nonostante il divieto paterno, fino a perdere il senno.
Ma che cos’è che fa scivolare l’amore in un’ossessione che fa perdere il senso della realtà? A questo interrogativo cerca di rispondere il libro di Grazia Attili: nell’amore sentimentale, come hanno messo in luce le ricerche che hanno studiato il cervello delle persone innamorate utilizzando la risonanza magnetica, si verificano grandi cambiamenti. Le aree connesse alla sensazione di piacere e di euforia si attivano fortemente, ad esempio quando si guarda la foto della persona che si ama, mentre si disattivano le aree cerebrali connesse al riconoscimento delle emozioni negative e alla cognizione sociale. In altre parole gli studi confermano il detto “l’amore è cieco” proprio perché si verifica una specie di cecità mentale che compromette il riconoscimento delle qualità meno attraenti della persona che si ama.
È più che mai vero quello che scrisse Freud: artisti, poeti e scrittori hanno saputo raccontare le esperienze umane anticipando anche di molti secoli quello che la scienza ha cercato di scoprire molto dopo. Ma nel caso dell’amore la scienza sta compiendo i primi passi e ancora oggi non è in grado di spiegarne l’enigma: perché ci innamoriamo, perché succede proprio in un determinato momento della vita, perché siamo attratti da quella persona, ma anche perché può finire.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Antropologia e teologia....
"EROS", "AGAPE", "CHARITAS". L’ALLEANZA DI FUOCO: L’ANTICO TESTAMENTO E IL SESSO.
SESSO (EROS) E AMORE (AGAPE, CHARITAS). L’ARTE DI AMARE: COSTITUZIONE E "KAMASUTRA".
La lezione di Sigmund Freud (l’"Istruzione sessuale dei bambini").
AL DI LÀ DI HEGEL, HEIDEGGER, E RATZINGER. IL PROBLEMA DELL’UNO E LA VIA DEI "TRE SOLI". A scuola di Dante, Bruno, Galilei, e Kant ...
NUOVO REALISMO: LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ !
Federico La Sala
CITTADINANZA E "IUS SOLIS" (DIRITTO DEL SOLE). USCIRE DALLA CAVERNA, NON RINCHIUDERSI DENTRO .... *
Ius Soli
Figli nostri e figli dello Stato
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 28.09.2017)
LA RESISTENZA antropologica e psicologica, oltre che politica ed elettoralistica, allo Ius soli rende manifesta una tendenza sempre presente nella realtà umana: difendere il proprio status narcisistico, sociale e identitario dal rischio perturbante della contaminazione. È quella inclinazione autistica della vita umana che aveva condotto Freud a paragonare la sua condizione primordiale di esistenza a un guscio chiuso su se stesso e ostile per principio al mondo esterno, colpevole di essere “straniero e apportatore di stimoli”.
Questa concezione corazzata dell’identità nei tempi di crisi tende inevitabilmente a rafforzarsi e a sclerotizzarsi. La paura dello straniero incentiva l’edificazione di una versione dell’identità fobica, refrattaria allo scambio, iper-difensiva. I confini diventano muraglie, cessano di essere porosi, acquistano la consistenza del cemento armato. In un tempo dominato dal panico sociale generato dalla durezza della crisi economica, dal carattere anarchico e inarrestabile dei flussi migratori e dalla follia terrorista, la solidificazione dell’identità tende a configurarsi come una reazione giustificata alla minaccia incombente. I rigurgiti nazionalisti, etnici, populisti, sovranisti che caratterizzano la scena politica non solo nazionale ma internazionale cavalcano irresistibilmente questa onda. Ma la vita della città senza contaminazione è destinata all’imbarbarimento esaltato della setta, alla psicologia totalitaria delle masse. In questo senso dovrebbe essere chiaro a tutti che la partita dell’integrazione è il più grande antidoto ad ogni forma di violenza compresa quella del terrorismo.
Come non considerare che in questo mondo nuovo attraversato dall’esperienza inevitabile della contaminazione, del cosmopolitismo, dello scambio, della flessibilità dei confini, la nozione di cittadinanza deve essere radicalmente riformulata? Le situazioni di crisi non necessariamente sono destinate ad accentuare una difesa strenua contro quello che pare ingovernabile. È un insegnamento che proviene dalla vita psichica: il tempo di maggiore crisi - se elaborato nella direzione giusta - spesso coincide con il tempo delle trasformazioni più generative. L’attraversamento di una malattia non riporta mai la vita a com’era prima, ma la può rendere più ricca, più sensibile alla vita, più capace di vita. In questo senso la crisi può essere sempre un’occasione di apertura più che di chiusura.
La battaglia politica e culturale dello Ius soli potrebbe diventare un esempio luminoso. Alla tentazione della chiusura e del barricamento identitario vincolato al sangue e al particolarismo dell’etnia - che sono, in realtà, la faccia speculare della globalizzazione universalistica - si può rispondere ponendo con forza il tema della rifondazione positiva del senso di appartenenza alla vita della città. La psicoanalisi lo verifica quotidianamente nella sua pratica clinica: l’integrazione cura la dissociazione; l’esperienza del riconoscimento cura l’odio; la condivisione cura il senso di segregazione.
Il legame familiare, forse più di ogni altro, ci offre un esempio significativo di giusta cittadinanza. Non si diventa padri o madri perché si genera biologicamente una vita. La vita del figlio è tale solo se viene simbolicamente adottata al di là del sangue e della stirpe. C’è genitorialità solo se ci assumiamo la responsabilità illimitata che il prendersi cura della vita di un figlio comporta.
Questa nozione di responsabilità non è mai un fatto di sangue, ma implica un consenso, un atto, una decisione simbolica. Allo stesso modo lo Stato ha il dovere etico di adottare - di riconoscere come suoi figli - coloro che non solo e non tanto nascono nel suo territorio, ma si riconoscono come parte integrante di quello Stato contribuendo alla sua vita. Diversamente l’idea che la cittadinanza sia un diritto vincolato al sangue è un’idea fondamentale del Mein Kampf di Hitler. L’origine del razzismo e di ogni genere di fanatismo hanno sempre come loro fondamento l’ideale della purezza etnica che esclude il pluralismo.
La battaglia per lo Ius soli è una battaglia di Civiltà dal respiro ampio. Non riflette un colore politico. Per questa ragione i numeri non dovrebbero essere tutto. I partiti che la ritengono giusta dovrebbero mantenere il loro sguardo alto. In gioco non è un semplice guadagno elettorale ma il senso stesso del mondo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
La lezione di Dante, Kantorowicz, Freud e Mandela ... GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
L’ITALIA, IL SEDILE, LA SELLA CURULE, LA "X" DI "REX" E "DUX", HENRY W, LONGFELLOW, E IL "DVX" DEL FASCISMO.... *
AD AMPLIARE e a contribuire a rendere più comprensibili ed evidenti i nessi tra i vari livelli del brillante lavoro di Armando Polito sul SEDILE di Nardò (Lecce), è bene tenere presente e ricordare cosa era la SELLA CURULE nella società dell’antica Roma:
"La sella curule (in lat. sella curulis) era un sedile pieghevole a forma di "X" ornato d’avorio, simbolo del potere giudiziario, riservato inizialmente ai re di Roma e in seguito ai magistrati superiori dotati di giurisdizione, detti perciò "curuli".
I magistrati solevano portare con sé la sella curulis assieme agli altri simboli del loro potere (fasci, verghe e scuri) e ovunque disponessero questi simboli, lì era stabilita la sede del loro tribunale.
Durante il periodo della Repubblica, il diritto di sedere sulla sella curule era riservato a: consoli, pretori, edili curuli, sacerdoti massimi, dittatori e al magister equitum. In epoca imperiale l’uso della sedia curule fu ampliato anche all’imperatore, al praefectus urbi e ai proconsoli.
Il simbolo di potere rappresentato dalla sedia curule affonda le sue radici nell’antica Etruria; infatti già gli Etruschi consideravano lo scranno pieghevole a forma di sella una prerogativa di chi poteva esercitare il potere (giudiziario ed esecutivo) sul popolo. Fu portato a Roma dal quinto re, Tarquinio Prisco.[1]
RICORDARE CHI ERA HENRY W. LONGFELLOW:
"Henry Wadsworth Longfellow (Portland, 27 febbraio 1807 - Cambridge, 24 marzo 1882) è stato uno scrittore e poeta statunitense, tra i primi letterati americani ad assurgere alla fama mondiale.
Longfellow fu il più famoso poeta della scena del New England nell’’800 e scrisse numerose opere tra cui Evangeline e Il faro.
Fu un acceso promotore dell’abolizione della schiavitù negli anni prima e durante la Guerra Civile Americana insieme ad altri intellettuali che gravitavano nell’orbita di Harvard e soprattutto insieme all’allora Governatore del Massachusetts John Andrew.
Intorno al 1862 insieme ai letterati James Russell Lowell, Oliver W. Holmes e George Washington Greene diede vita al cosiddetto "Circolo Dante", atto a promuovere la conoscenza della Divina Commedia di Dante Alighieri negli Stati Uniti. Insieme ai suoi colleghi del circolo, Longfellow ne portò a termine la prima traduzione statunitense in inglese nel 1867.
Da allora il successo dell’opera di Dante in America fu costante ed in seguito il Circolo diventò la "Dante Society", una delle più famose associazioni di dantisti nel mondo [...]" (cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Henry_Wadsworth_Longfellow).
LE PAROLE ("DVX-LVX, REX-LEX") SCRITTE SULLA "CROCE" INSCRITTA NEL "CERCHIO" SULLA TOMBA DI LONGFELLOW sicuramente - via Dante Alighieri (e probabilmente anche via Dante Gabriele Rossetti) - si ricollegano al filo della tradizione religiosa cristiana, e sono riferite a CRISTO, concepito come LUCE, LEGGE, RE, DUCE.
E, ANCORA, per capire come e perché siano apparse le scritte "REX" e "DVX" sulla parete del SEDILE di Nardò (Lecce), bisogna RICORDARE chi era MARGHERITA GRASSINI SARFATTI e rileggere il suo "DVX" (sul tema, mi sia consento, cfr IL MITO DELLA ROMANITÀ E IL FASCISMO: MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE).
E, INFINE, PER CAPIRE MEGLIO, E ALLA LUCE DEL SOLE ("INVICTUS"), IL SENSO DELLE "QUATTRO PAROLE" (LVX, LEX, REX, DVX), LEGGERE E RILEGGERE E ANCORA RILEGGERE LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA ....
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
INTELLIGENZA ARTIFICIALE
La geopolitica dell’intelligenza artificiale
di Pierre Haski, L’Obs, Francia *
Vladimir Putin ha almeno una qualità, parla senza peli sulla lingua. La settimana scorsa ha detto chiaro e tondo quello che la maggior parte del mondo mormora sottovoce: “Il paese che sarà leader nel campo dell’intelligenza artificiale, dominerà il mondo”.
Di solito l’intelligenza artificiale (Ia) è evocata nell’ambito di cambiamenti positivi, per esempio nella sanità o nella regolazione del traffico, o negativi, come il suo impatto sull’occupazione o la possibilità che l’Ia sviluppi un giorno una “coscienza” capace di imporsi ai suoi creatori, gli esseri umani.
Ma è raro che se ne parli in termini geopolitici come ha fatto in modo così diretto il presidente russo. La cosa più strana è il contesto di questa dichiarazione: non una grande conferenza strategica come quella di Monaco - dove nel 2007 Putin aveva denunciato “l’unilateralismo americano” - ma una teleconferenza seguita da più di un milione di studenti russi in occasione dell’inizio dell’anno scolastico!
Dopo questa dichiarazione Elon Musk, il padrone di Tesla e di SpaceX, ha subito postato un tweet: “Si comincia...”.
E ha continuato affermando che “la competizione per la superiorità nazionale in materia di Ia sarà la causa più probabile della terza guerra mondiale”.
Se fosse necessario aggiungere altro, possiamo fare riferimento a quello che ha detto Yuval Noah Harari, storico israeliano e autore di successo, che si trovava a Parigi per il lancio dell’edizione francese del suo nuovo libro Homo Deus. Una breve storia del futuro.
Harari dice che gli sviluppi dell’intelligenza artificiale e delle biotecnologie rischiano di produrre un livello di “superuomini aumentati” che domineranno il mondo e di trasformare il resto dell’umanità in una “classe inutile”. Una dimostrazione sostenuta da molti esempi tratti dai progressi tecnologici e dai cambiamenti che implicano.
La nuova religione
Durante una presentazione del suo libro davanti a un folto gruppo di invitati, tra cui la commissaria europea alla concorrenza Margrethe Vestager che ha sfidato i Gafa (Google-Amazon-Facebook-Apple), Harari ha predetto che questi progressi scientifici produrranno delle disuguaglianze senza precedenti nella storia dell’umanità, tanto all’interno delle società quanto tra gli stati. Il divario tra chi controllerà queste tecnologie e chi non vi avrà accesso non sarà solo maggiore di quello che ha caratterizzato i paesi industriali e gli altri nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo, ma soprattutto non potrà essere colmato.
Secondo Harari, la materia prima del futuro saranno i dati, i nostri dati personali raccolti da chi ne ha la capacità. I padroni di questi dati saranno i grandi sacerdoti della nuova religione, il “dataismo”.
Le idee di questo autore, che ha avuto un successo mondiale con il suo libro precedente Sapiens, hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica e il presidente francese Emmanuel Macron ha voluto incontrarlo.
La dichiarazione di Putin sull’intelligenza artificiale ha avuto almeno il merito di rendere comprensibile il dibattito anche al grande pubblico: il capo del Cremlino ragiona in termini di dominazione e di sottomissione, sia sull’Ia sia sul resto.
L’Ia quindi non è solo un obiettivo di grande interesse economico che prende la forma (non così insignificante) di Alexa, l’assistente digitale di Amazon che risponde a tutte le vostre esigenze domestiche e che fa anche ripassare le tabelline delle moltiplicazioni ai vostri figli. Può anche essere uno strumento di dominio.
Non è un caso infatti se i maggiori investimenti in intelligenza artificiale sono quelli dei due grandi giganti del ventunesimo secolo, gli Stati Uniti e la Cina, con un probabile vantaggio dei cinesi in termini di fondi investiti.
Esigenze militari
Tutti conoscono Google, Microsoft e Amazon, le enormi aziende statunitensi alle quali tutti ricorriamo quotidianamente; alcuni conoscono Alibaba, il gigante del commercio elettronico cinese fondato dal molto mediatico Jack Ma; ma pochi europei conoscono Baidu o Tencent, due aziende cinesi altrettanto importanti delle loro controparti americane, che investono massicciamente nell’intelligenza artificiale.
Senza contare poi i centri di ricerca legati ai sistemi di difesa, che nei principali paesi del mondo sono oggi molto apprezzati, e valorizzati. Israele per esempio, al di là della start-up nation che ha prodotto l’applicazione di navigazione Waze e altri prodotti per il grande pubblico, ha creato un ecosistema di ricerca che parte prima di tutto dalle sue esigenze militari.
In un editoriale sul sito della Cnn il ricercatore americano Gregory C. Allen, autore di uno studio sull’”intelligenza artificiale e il problema della sicurezza nazionale”, afferma che se si esclude il settore delle armi oggi la Russia di Putin non è all’avanguardia nella ricerca sull’Ia:
Si può ancora impedire questa militarizzazione dell’Ia e questa corsa nazionale al suo dominio che ha tanto allarmato Musk? Difficile che possa succedere nell’attuale clima internazionale di nuova guerra fredda, che ha spazzato gli scrupoli etici come era successo mezzo secolo fa con la rivalità est-ovest.
In tutto ciò l’Europa è drammaticamente assente o molto in ritardo, sia nella battaglia sui dati condotta da imprese che sono raramente europee, sia nel perseguimento di questo obiettivo strategico sempre più importante. Forse per una volta bisognerebbe prendere Putin alla lettera e rendersi conto che si tratta veramente di un obiettivo di vitale importanza.
(Traduzione di Andrea De Ritis)
* Internazionale, 20 settembre 2017 (ripresa parziale).
PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE E STRUMENTI DEL COMUNICARE. La Costituzione, le regole del gioco, il paradosso istituzionale del mentitore... e il "popolo della libertà"!!!
A) Ancora oggi, ci sono studiosi che sembrano “prendere sul serio il profetismo di Heidegger” e insistono a dare credibilità ai sogni dei visionari e dei metafisici (Alessandro Dal Lago, si cfr.: "Heidegger, Kant, e la miseria della filosofia - oggi": http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4790)
B) MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"(si cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3539)
C)Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore" - "L’Italia è il mio Partito": "Forza Italia"(si cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4371)
D) LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan (si cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4112).
E) "A un individuo [ma anche a una intera società, fls] può capitare infatti di trovarsi sottoposto a due ordini contraddittori, convogliati attraverso lo stesso messaggio che Watzlawick chiama “paradossale”. Se la persona non riesce a svincolarsi da questo doppio messaggio la sua risposta sarà un comportamento interattivo patologico" (SCUOLA DI PALO ALTO (CALIFORNIA): PAUL WATZLAWICK. cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2010)
F) FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO - POPULISMO DIGITALE. “La realtà come costruzione virale” (si cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829#forum3131196).
Federico La Sala
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
RELAZIONI AUTENTICHE: UN URLO PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE ... *
MOLTISSIME PERSONE SI MANTENGONO AL SICURO non solo dietro a un cellulare (in "prigione" da sole!), ma dietro a un "mito"! E finiscono per non capire un’acca, nemmeno la differenza tra il proprio padre e il proprio "padre", tra la propria madre e la propria "madre", e mangiano "fake news" per colazione, pranzo, e cena, felici e contente di vivere alla corte del ricco "diavolo" di turno, stravisto come il dio dell’eternità!!!
Se è vero come qualcuno ha detto che "non si può descrivere una passione, la si può solo vivere", allora è bene non perdere l’equilibrio critico e non perdere la propria sovranità (cfr. nota sulla "colomba" di Kant, al seguente link): NON SAPER distinguere più tra sovranità e "sovranità", tra re e "re", regina e "regina", e ridursi da cittadino a "cittadino", da cittadina a "cittadina", a suddito e a suddita di un falso re e di una falsa regina!!!
NEL REGNO DEL SONNAMBULISMO GENERALE, da vent’anni e più, gli italiani e le italiane sono diventati e diventate tutti e tutte "italiani" e "italiane" e tutti e tutte si sono messi e messe a a correre a gran "velocità" e a gridare "Forza Italia"!!! Che grande "fluidità"!!! Avanti tutta ....
PER NON PERDERE IL SALE CHE ANCORA ESISTE NELLA TERRA D’OTRANTO E IN TUTTA L’ITALIA, UN SOLO GRANDE URLO:
W o ITALY ... VIVA L’ITALIA!
BUON LAVORO!!!
Federico La Sala
* Cfr. Pierpaolo Tarsi, "Le relazioni autentiche", Fondazione Terra d’Otranto, 22.09.2017.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE E STRUMENTI DEL COMUNICARE. La democrazia, l’antinomia istituzionale del mentitore e il populismo...*
Populismo digitale o solamente para-fascismo?
di Nello Barile (Doppiozero, 18.09.2017)
Per molti commentatori la “vera” sinistra è davvero poco attrezzata per affrontare le problematiche fondamentali del nostro tempo - come sostenne anni fa anche Christopher Lasch - mentre le uniche formazioni oggi capaci di farlo sono: una sinistra neolaburista che saccheggia politiche di destra importandole nel proprio programma oppure i movimenti populisti che si pongono come forze post-ideologiche ma che, in loro parecchie manifestazioni, assumono posizioni tipicamente di destra. Non è ancora chiaro se tale condizione sia solo di passaggio, ovvero un interregno tra il vecchio sistema e il nuovo, oppure se è già parte del nuovo che ha spazzato via alcune parti del vecchio (come l’idea classica di sinistra).
Tra gli autori che oggi invece confutano tale tesi, Alessandro Dal Lago nel suo Populismo digitale (Raffaello Cortina 2017) propone una critica serrata contro l’alleanza tra globalizzazione e cultura digitale, ma anche contro il populismo che rappresenta un modo sui generis di incrinare tale alleanza e di utilizzare le armi del digitale contro la globalizzazione. Per questo il testo esordisce con due citazioni in esergo che sono talmente stridenti da rendere bene il senso di questo passaggio problematico. Da un lato Antonio Gramsci che definisce la crisi come uno stato di sospensione in cui “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”, dall’altro invece Gianroberto Casaleggio con la sua profezia su internet “supermedia che assorbirà tutti gli altri”. Due figure troppo diverse e sostanzialmente contraddittorie: se il primo rappresenta l’essenza intellettuale dell’ethos politico tradizionale, l’altro esprime l’essenza imprenditoriale dell’ethos post-politico.
Un contrasto perfetto che lancia il lettore in un’introduzione molto dinamica e accattivante, in cui la questione chiave del “come moriremo?” (prima democristiani, poi berlusconiani, poi renziani, adesso forse grillini) serve a rendere conto di uno dei temi centrali di tutto il testo: la velocità crescente del cambiamento, la perdita di riferimenti e il sostanziale movimento caotico dell’attuale sistema politico nazionale e globale. L’agente di tale trasformazione è ovviamente il digitale, evocato anche nel titolo e letto qui non tanto in termini deterministici ma come nuovo ecosistema che avvolge e sommerge la vecchia politica, trasformandola in qualcosa d’altro.
Una delle metafore che difatti Dal Lago predilige, riprendendola dal gruppo Ippolita (p. 16), è quella dell’acquario che ci mostra come la libertà assoluta promessa dal web sia a ben vedere recintata nello spazio circoscritto del virtuale, dunque una libertà paradossale.
Per questo motivo egli ricorre al modello cognitivo del doppio vincolo (p. 19) per esaminare la nuova comunicazione politica. Lo stesso modello è, dal mio punto di vista, indispensabile per comprendere la logica dei brand (commerciali, politici, terroristici ecc.).
Nella sua accezione originaria il doppio vincolo indica un difetto di comunicazione tra madre e figlio talché il secondo non è in grado di risolvere la contraddizione che si manifesta tra i messaggi di odio e di amore inviati dalla madre. Questa comunicazione paradossale mina il senso dell’identità dell’infante e può degenerare nella schizofrenia. Alcune espressioni come “La rete sei tu” oppure “Sei libero solo in rete” sono per l’autore eminentemente doppiovincoliste, ovvero utilizzate dai padroni della rete per esercitare un “controllo sulle procedure politiche formalmente democratiche” (ib).
Se è vero che la digitalizzazione della cultura è uno degli aspetti chiave della globalizzazione (p. 23), a ben vedere la nuova cultura che si produce a partire dal web contiene in sé anche i germi della reazione alla globalizzazione. Per questo la rete è l’ambiente di coltivazione dei populismi contemporanei, non solo di quelli più marcatamente post-fascisti ma anche quelli di sinistra o vocatamente post-ideologici.
L’ascesa del populismo sul palcoscenico della politica globale coincide con lo svuotamento del significato della parola “popolo” (p. 29). Dal Lago offre una rassegna di molteplici interpretazioni moderne di tale concetto, anche per sottolineare la pericolosità di un suo riferimento diretto a una matrice etnica omogenea. Ad essa si contrappongono invece la concezione “morale” di Renan e quella più “finzionale” di Weber, secondo cui appunto “la volontà del popolo non è altro che una delle convenzioni (...) politiche necessarie a legittimare la rappresentanza” (p. 40).
Il dibattito sul populismo è ancora sospeso tra l’idea di una reazione integrale contro “l’espropriazione delle democrazie da parte delle oligarchie politiche” (Revelli 2017) e quella che invece vede la stessa sinistra moderata colpevole di un “tradimento di classe in favore dei diritti umani (LGBT, immigrati ecc.)” (Formenti 2016). Pertanto il populismo rischia di condurre le sinistre in un vicolo cieco, dato che “riconoscere come giuste le ragioni della destra significa legittimarla” (p. 51), in un pericoloso salto mortale in cui l’elettore è tendenzialmente persuaso a scegliere l’originale rispetto alla brutta copia.
La critica dell’autore alla nuova politica pervasa dalla rete si accentua quando si considera il populismo come una realtà immanente alla rete (p. 53). Il modo in cui l’affermazione di internet fa saltare in aria la distinzione tra pubblico e privato - pilastro delle democrazie moderne - ci indirizza verso una dimensione che dal mio punto di vista è definibile come neototalitaria (Barile 2008), in cui il privato è appunto irretito e messo a disposizione del pubblico.
La critica di Dal Lago insiste sulla separazione tra la dimensione virtuale e quella reale (p. 53) e definisce la nuova socialità mediata dalla rete come “disincarnata” rispetto a quella materiale e incarnata nei processi storici. Tra le due ci sarebbe la stessa relazione che intercorre tra pornografia e sessualità. L’idea secondo cui l’utente della rete tende a considerare lo schermo del computer come unica porta d’accesso alla realtà insiste forse su un paradigma obsoleto - da altri definito dualismo digitale - e impedisce di cogliere la totale integrazione tra il livello comunicativo-virtuale e quello della realtà fisica. Un’integrazione che sotto alcuni aspetti può essere ancor più pericolosa delle nuove forme di alienazione imposte dal digitale.
Alcuni temi di questo approccio neocritico alla rete ritornano in un capitolo dal titolo davvero ammirevole: “La realtà come costruzione virale”. In esso si argomenta come l’interazione tra viralità e l’immediatezza del tempo reale impatta sui modi di costruzione/rappresentazione della realtà sociale, modificandola in base alle proprie funzioni.
Per questo motivo Dal Lago riprende i temi di una più generale mutazione antropologica che ha dato vita al “soggetto digitale”, anche se quest’ultimo è ben diverso dal soggetto che ha abitato la cultura e la politica moderna. Molto distante dall’americano medio tipicamente eterodiretto che animava La folla solitaria di Riesman, il soggetto digitale ha semmai un problema di eccesso di autodirezione.
Da ciò deriva anche uno smembramento drammatico del popolo in una molteplicità irriducibile di punti di vista e interessi di gruppi che utilizzano il web per amplificare i propri messaggi: “gli operai del Michigan che hanno votato Trump, gli agricoltori impoveriti del Midwest, gli studenti radicali dei campus, i Latinos, gli attivisti per i diritti LGBT... non possono essere rappresentati, tantomeno unificati da un’idea di medietà” (p. 67). L’unico comune denominatore tra tutti questi è l’essere in vario modo soggetti digitali, che appunto aderiscono alla modalità “disincarnata” d’azione mediata dal web. Dal Lago denuncia la crescente sparizione dei momenti “tradizionalmente sociali” della vita e del dibattito pubblico (p. 68), insieme allo svanimento delle esperienze faccia a faccia in “favore di mere estensioni digitali” (p. 69).
Se è vero che questo processo di desertificazione sociale è una minaccia anche per altri mercati, come ad esempio la moda in cui l’esperienza urbana dello shopping potrebbe essere sostituita totalmente dall’e-commerce e dai sistemi di delivery (l’autore fa l’esempio di Amazon), è anche vero che questo è solo il più radicale e forse meno probabile tra gli scenari possibili (quello che io chiamo “isolation”), mentre invece il più probabile ci racconta di una sostanziale fusione tra mondo digitale e fisico, tra bit e atomi, in nuove modalità d’interazione al contempo reali e virtuali. Dopo un’analisi impeccabile sulla trasformazione sistemica, l’autore torna a insistere sulla dimensione psicologica con immagini che talvolta hanno il sapore di un’altra epoca. Come “la persona in carne e ossa seduta davanti allo schermo” che in tal modo “acquista una seconda identità o meglio perde quella relazionale e sociale a favore di una virtuale” (p. 73).
Il discorso di Dal Lago si mostra molto più efficace nella disamina delle pratiche linguistiche concrete, come nel caso dell’analisi degli articoli e dei post che alimentano il dibattito online e offline sull’immigrazione. La stessa trasformazione della dialettica politica a opera di trolls, haters ecc. dimostra questo cambiamento qualitativo del dibattito pubblico, dato che certe espressioni offensive non potrebbero essere usate in una situazione “reale” senza degenerare nello scontro fisico. Cosicché, come anche Mark Thompson (2017), Dal Lago denuncia il fatto che “lo stile prevalente dei dibattiti online sta creando una cultura linguistica del tutto coerente con le iperboli del populismo digitale” (p. 84). Di particolare interesse sono le pagine in cui si elencano le caratteristiche del fenomeno squisitamente televisivo del peronismo, per confrontarle con quelle dei diversi digital-populismi di oggi. Una riflessione che consente all’autore di introdurre il concetto di para-fascismo, riferito specialmente al Movimento 5 Stelle, dalla “arroganza bislacca del capo” alla sua “passione per i plebisciti e per le performance sportivo-pubblicitarie” (p. 113).
Tale definizione ha ovviamente fatto risentire gli attivisti e i simpatizzanti del Movimento che, in una sorta di chiusura del circuito, hanno risposto con toni polemici sul profilo Facebook dell’autore. A differenza di altri studiosi di sinistra che stanno rivalutando il discorso populista con maggiore cautela - come Carlo Formenti ne La variante populista che insiste molto più sulla reazione del populismo contro il comune nemico della finanza globalista - Dal Lago non concede alcuna legittimazione né alla retorica, né alla pretesa neutralità post-ideologica del populismo, insistendo invece sulla sua matrice identitaria e autoritaria, propria dell’ideologia forte che lo ha preceduto.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore"
UNA QUESTIONE DI ECO. L’orecchio disturbato degli intellettuali italiani
UNITÀ D’ITALIA E FOLLIA: EMERGENZA LOGICO-POLITICA EPOCALE. PER UN CONVEGNO E UNA RIFLESSIONE SUL CONCETTO DI ’UNITA’ E DI SOVRANITÀ (SOVRA-UNITÀ).
Federico La Sala
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO ... *
Una guerra contro le donne
di Tamar Pitch (Il Mulino, 18 settembre 2017)
Chi stupra è sempre l’Altro: i neri per i bianchi, i poveri per i ricchi, gli stranieri per gli autoctoni, e viceversa. Lo stupro è ciò che distingue “il noi”, gli uomini che sposiamo, da “gli altri”, gli uomini che stuprano. Lo stupro, nonché l’accusa di stupro, segna un confine. Un confine, tuttavia, tra gli uomini: noi e loro si riferisce infatti al modo prevalente, sia nell’immaginario sia nelle pratiche e nelle norme, con cui lo stupro è visto e vissuto dagli uomini. E da alcune donne, certo, visto che partecipiamo di questa cultura. Da cui si evince che misoginia e sessismo sono sempre intrecciate a razzismo e xenofobia.
L’ormai enorme letteratura femminista ha messo in luce, tra le altre cose, l’identificazione delle donne, dei loro corpi, della loro capacità riproduttiva con la “comunità”, il “territorio”, la tradizione, l’identità (etnica, nazionale) e dunque il futuro. Di qui l’esigenza di dominare e controllare le “nostre” donne, nonché lo sconcerto e il disagio maschili di fronte alla libertà rivendicata e agita dalle donne.
Stupri e femminicidi vengono così raccontati diversamente a seconda di chi sono gli autori e le loro vittime. Orrore e scandalo quando una di “noi” (ossia una che è ritenuta appartenere al gruppo dei maschi autoctoni, o comunque di quelli cui la “comunità” si riferisce) è violentata o uccisa da uno di “loro”. Perplessità e incredulità quando è uno di “noi” a stuprare e uccidere. In ambedue i casi, il vissuto e la soggettività delle donne sono ignorate. O ci si erge a protettori e vendicatori di chi ha osato mettere le mani su una “cosa” nostra (e dunque in qualche modo le vere “vittime” non sono le donne, ma questi “noi”) oppure “quella se l’è cercata”, ci ha “sfidato”, e in fondo dunque si merita quello che le è capitato. È singolare come questo tipo di narrazione sia ancora così presente, nei nostri media, tradizionali e nuovi, quando invece la vita, l’esperienza e la soggettività femminili sono tanto mutate. Ciò che infatti manca a questa narrazione sono precisamente le voci delle donne, che, interrogate, racconterebbero, tutte, l’onnipresenza della violenza maschile: per strada, al lavoro, ma ancor di più dentro le sicure mura di casa. Se c’è un confine che lo stupro traccia, è quello tra gli uomini e le donne (o chi è “ridotto” nella posizione femminile). Non tutti gli uomini sono stupratori, ma tutti gli stupratori sono uomini, diceva già trent’anni fa Ida Dominjanni.
Stupri e femminicidi avvengono ovunque nel mondo, e nella maggior parte dei casi ad opera di uomini che le donne conoscono bene, mariti fidanzati padri fratelli amici e così via. Poi ci sono gli stupri invisibili, quelli di cui poco o niente si sa e si dice, quelli che non vengono riconosciuti come tali, a danno delle sex workers o, ancor peggio, delle ragazzine prostituite sulle nostre strade, da parte dei suddetti mariti e padri (di altre). Nonché degli uomini delle forze dell’ordine (su cui c’è un’ampia letteratura) che si avvalgono del loro potere di ricatto e dell’omertà diffusa. Perché le sex workers non sono per definizione proprietà di alcun uomo ( a parte il loro eventuale protettore, ma di questo parlo più avanti) e sono quindi di tutti: loro sì, se vengono violentate o uccise, “se la sono cercata”. E gli integerrimi italiani che vanno con le ragazzine, sempre più spesso minorenni, vittime di tratta, non sono forse, per le nostre stesse leggi, violentatori seriali?
Una vittima, per essere riconosciuta tale, deve avere caratteristiche e comportamenti che rispondono allo stereotipo della donna o ragazza “perbene”, ma deve anche essere violentata, meglio in strada e di giorno, da uno (se di più, meglio) sconosciuto, meglio se povero e scuro di pelle. E meglio ancora se questa vittima urla o viene visibilmente ferita. Sembra incredibile quanto questo sia vero, per i media, a quasi quarant’anni dal documentario Processo per stupro e dopo le mille battaglie femministe e la nuova ondata rappresentata dal movimento Nonunadimeno, che riprende l’analogo movimento nato in Argentina e poi diffusosi in tutta l’America Latina.
Insomma, le donne si muovono ormai a livello globale contro violenze e sopraffazioni di uomini singoli o in gruppo e contro le istituzioni che fanno poco per contrastare queste violenze o addirittura le legittimano. I contesti sociali, culturali, politici sono diversi e questa diversità va presa in considerazione per capire le differenze quantitative e qualitative della violenza maschile contro le donne, ma sempre di patriarcato si dovrebbe parlare: ossia di un sistema complesso di potere e dominio maschili onnipervasivi, per battere il quale non bastano certo parità e pari opportunità (negli anni Settanta dicevamo che no, non era metà della torta che volevamo, ma una torta del tutto diversa). Questo sistema è in crisi per via del fatto che sempre più donne gli negano consenso e complicità, cosa che in certi casi può esacerbare violenza e ferocia.
Si ha l’impressione che sia in corso una guerra contro le donne, e tra uomini, per il controllo delle donne e dei loro corpi. È una guerra combattuta con le armi e con gli stupri e, oggi, anche con e su i social media. Difficile, se non impossibile, sconfiggere il patriarcato (soltanto) con il diritto penale. Del quale ci si può e ci si deve servire, naturalmente, ma sempre sapendo che la giustizia penale, a sua volta, è connotata da sessismo, razzismo e classismo. I decreti sicurezza (da ultimo quello firmato Minniti) parlano appunto questa lingua: non sono solo razzisti e classisti, sono anche sessisti, laddove è del tutto ovvio che il soggetto standard di questi decreti è maschio, adulto, non troppo povero. Berlusconi proponeva di mettere un poliziotto a fianco di ogni bella donna (le brutte si arrangiassero). Magari meglio una poliziotta...
Le politiche e le retoriche della sicurezza tendono a una specie di sterilizzazione del territorio urbano, mirano a rendere invisibili povertà e disagio, a recintare più o meno simbolicamente lo spazio dei perbene a difesa dai permale. Ma, benché esse si avvalgano spesso dell’evocazione del femminile (bisogna proteggere donne, vecchi, bambini: i cosiddetti soggetti vulnerabili), sono del tutto cieche e inutili, se non controproducenti, rispetto al contrasto delle violenze contro le donne. Le quali, come dicevo, non avvengono solo e nemmeno soprattutto negli angoli bui delle vie cittadine. Ho detto e scritto più volte che, se seguissimo fino in fondo la logica delle politiche di sicurezza, allora, per proteggere le donne, dovremmo cacciare tutti gli uomini da ogni casa, città, Paese, continente, universo mondo.
Una città, un Paese, un continente sono “sicuri” per tutti se le donne, tutte le donne, possono attraversarli liberamente, di giorno, di notte, vestite come vogliono, ubriache o sobrie. La libertà, per le donne, è un esercizio ancora difficile e contrastato, praticamente ovunque. Ci muoviamo, più o meno consapevolmente, con prudenza, ci neghiamo, più o meno consapevolmente, molte delle libertà di cui gli uomini godono senza rendersene conto. Gesti, atteggiamenti, parole, comportamenti maschili ci ricordano tutti i giorni che dobbiamo stare attente (non serve proprio che ce lo ribadiscano sindaci, ministri, poliziotti), l’aggressione e la violenza sono sempre in agguato. Però, è esattamente il contrario che serve: ai tempi si diceva “riprendiamoci la notte”, e anche adesso andiamo per le strade per dire che vogliamo andare e fare ciò che più ci piace, senza protettori.
Già, il termine protettore. In italiano ha un’ambivalenza significativa: il protettore delle donne che si prostituiscono è precisamente la figura simbolo della protezione maschile, una protezione che implica soggezione e acquiescenza, pena non solo l’abbandono ma la punizione. Sottrarsi alla protezione, sia reale sia introiettata, è invece un passo necessario per affermare la propria libertà. Ed è ciò che le donne, singolarmente e collettivamente, stanno facendo.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
PER LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. DAL "CHE COSA" AL "CHI": UNA NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.... *
Perché le filosofe accademiche sono così poche?
Professione filosofa
di Valeria Ottonelli (il mulino, 11 settembre 2017)
Gli organizzatori dell’ultimo convegno della Società europea di filosofia analitica, conclusosi da poco a Monaco di Baviera, segnalano che solo il 25% dei 700 partecipanti erano donne. Il dato conferma una strana anomalia della disciplina, che è stata ampiamente discussa fra gli addetti ai lavori. Pur essendo collocata fra le scienze umane, la filosofia, in Europa come negli Stati Uniti e altri Paesi occidentali, registra percentuali di presenze femminili tipiche delle «Stem sciences», come la fisica, l’ingegneria e la matematica, ossia percentuali molto basse. Negli Stati Uniti, ad esempio, le donne sono solo il 21% dei filosofi accademici, mentre nel resto delle altre discipline umanistiche superano il 40%. In Gran Bretagna, le donne sono il 24% dei filosofi di ruolo. Questi dati sembrano essere trasversali ai diversi sistemi universitari e della ricerca dei Paesi occidentali, e sono confermati anche in Italia, dove, per fare un esempio paradigmatico, dei 136 filosofi teoretici in ruolo (ricercatori, associati, ordinari) solo 32 sono donne (meno di un quarto, dunque), rispetto a una presenza ormai consolidata nelle scienze umane.
I filosofi non sono gli unici accademici a essere in questa situazione e di per sé, a fronte delle enormi sperequazioni che ancora esistono nel nostro Paese e in tutto il mondo occidentale fra donne e uomini, le differenze di carriera accademica in una disciplina tutto sommato marginale (non me ne vogliano i miei colleghi) come la filosofia possono apparire irrilevanti. Tuttavia, l’«anomalia» rappresentata dalla filosofia in questo ambito è un reale rompicapo teorico, che può servire come utile spunto di riflessione sulla nostra percezione delle diseguaglianze di genere.
Infatti, la presenza di percentuali così basse di donne fra i filosofi fa saltare alcuni schemi classici di spiegazione di tali diseguaglianze, primo fra tutti quello secondo cui le donne sarebbero più portate o interessate alle scienze umane. Nella sua versione nobile, questa concezione attribuisce alle donne una maggiore attenzione per gli ambiti della realtà che hanno a che fare con il vivente; da qui la scarsa passione femminile per l’ingegneria o la matematica e la presenza notevole, invece, nelle scienze biologiche, oltre che nella psicologia e altre discipline umanistiche. Ma la filosofia, si direbbe, ha a che fare col vivente e a tutti gli effetti è una scienza umana. Inoltre, a giudicare dalle immatricolazioni ai corsi universitari di filosofia, le donne sono interessate alla disciplina, a differenza di quello che succede ad esempio con le scienze ingegneristiche. È dopo, man mano che si procede coi livelli successivi di istruzione e carriera, che si osserva una curva sistematicamente decrescente di presenza, per culminare in percentuali minime (sotto il 20%) fra i professori ordinari. Come si spiega questa dispersione, dato l’evidente interesse iniziale?
I siti dedicati, come What Is It Like to Be a Woman in Philosophy?, abbondano di aneddoti e racconti sulle angherie subite dalle donne filosofe ad opera dei colleghi maschi, in cui primeggiano forme più o meno pesanti di abuso sessuale e le abituali storie di mobbing post-maternità. Ma a meno di non voler ipotizzare che i filosofi maschi siano speciali e peggiori del resto della specie umana, come si spiega che lo stesso non accade con altre discipline umanistiche?
Si potrebbe forse ipotizzare che questi processi siano casuali. Può succedere, ad esempio, che per ragioni del tutto contingenti per un certo periodo in un dato ambiente si insedi una percentuale molto bassa di donne, e che questo sbilanciamento si autoreplichi nel tempo, proprio per l’assenza di una massa critica femminile adeguata. Ma se fosse casuale, come potrebbe questo fenomeno verificarsi praticamente ovunque, e anche in contesti accademici relativamente isolati fra di loro?
Nella letteratura conservatrice non mancano - non potrebbero mancare - le spiegazioni basate sull’idea che la sparizione delle filosofe man mano che si procede con la carriera sia dovuta semplicemente al fatto (a quanto pare dimostrato) che la distribuzione del Qi, fra le donne, si concentra su valori medi, ma tocca le vette dei valori più alti (e gli abissi di quelli più bassi) più raramente di quanto non accada fra gli uomini. Ma basta dare un rapido sguardo alla popolazione dei filosofi accademici (di nuovo, non me ne vogliano i colleghi) per capire che questa correlazione fra Qi e rendimento nella carriera filosofica non è plausibile.
Una spiegazione accreditata è che in filosofia conti più l’autorevolezza percepita che la reale preparazione e che questo faccia sì che le donne, percepite sistematicamente (anche questo è provato) come meno autorevoli, abbiano meno successo. Sebbene questa sia una spiegazione adottata da molte filosofe che si sono occupate del problema, per amore della disciplina c’è da sperare che non sia vera, perché dimostrerebbe che essenzialmente la filosofia è un’attività più simile al fare a pugni che al pensare.
Così, la gran parte delle spiegazioni che vengono generalmente offerte per le diseguaglianze di genere in ambito accademico e in altri ambiti sociali, nel caso della filosofia si rivela inadeguata, denigratoria o tirata per i capelli, ma questo non impedisce che tutte vengano richiamate con insistenza nel dibattito, dando l’impressione che molti (compresi molti filosofi) quando si tratta di diseguaglianze di genere si adagino semplicemente su schemi di interpretazione consolidati.
Il caso della filosofia, anche se relativamente defilato rispetto ad altri fenomeni più eclatanti e rilevanti socialmente, serve così a ricordarci che, a fronte di una letteratura sociologica, filosofica e psicologica ormai copiosa e molto raffinata sulle cause delle diseguaglianze di genere nella nostra società, e di un dibattito pubblico che almeno a tratti sembra avere acquisito consapevolezza della gravità del fenomeno, resta da fare molto lavoro, anche teorico, su questo aspetto così pervasivo e così problematico della nostra organizzazione sociale.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....*
Riflessioni (in)attuali
Uno sguardo psicoanalitico sulla vita comune
Buondì Motta: vivere con l’asteroide sopra la testa
di Sarantis Thanopulos (Psychiatry on line, 11 settembre, 2017)
Buondì Motta, lo spot pubblicitario della nota azienda dolciaria, ha provocato uno scontro tra chi lo accusa di essere scorretto e offensivo e chi ne difende l’originalità e il sottile senso dell’ironia. Lo spot è un video ambientato nel giardino/parco di una bella villa. Inizia con una bambina che chiede alla madre una colazione leggera ma invitante, che coniughi leggerezza e golosità. La madre ribatte che una cosa simile non esiste. “Possa un’asteroide colpirmi se esiste!”, aggiunge. Puntualmente arriva un’asteroide e la polverizza, aprendo un cratere nel giardino. In una seconda versione dello spot il posto della madre è preso dal padre.
L’intento dei realizzatori del video è ovviamente manipolativo. Il pubblicitario di tendenza oggi associa il prodotto da vendere a una cosa emotivamente forte che aggancia visceralmente lo spettatore. Crea così una dipendenza dal prodotto in modo indiretto. Usa raffinati mezzi di condizionamento psichico che Pavlov gli invidierebbe. Questi mezzi non derivano dalla sua “creatività”, vengono prevalentemente da un apposito campo di ricerca sull’induzione di comportamenti a cui anche Trump si è rivolto per la sua campagna elettorale. Lo studio dei comportamenti e della loro prevedibilità ha ceduto il posto alla scienza della loro costruzione che li rende riproducibili a piacere. Nulla è lasciato all’imprevedibilità e al caso.
Buondì Motta ha nel suo mirino gli spot del “Mulino bianco”. Punta (senza l’ironia che gli è stata attribuita) a una clientela “trendy” che si immagina privilegiata nel voler abbinare lusso, leggerezza e invitante golosità e si esprime (dalla culla pare) con un linguaggio di maniera, supposto elegante. Incurante di mostrare che i prodotti Motta si abbinino effettivamente a questa percezione di sé, va per le spicce e ricorre agli effetti forti.
L’emozione negativa può essere più efficiente di quella positiva: essendo più shoccante tende ad essere anche più persistente. Cosa di meglio da servire a tavola, dell’angoscia della catastrofe naturale che attualmente si mescola finemente dentro di noi con la paura dell’incidente terroristico? Se poi la si coniuga con il conflitto con i genitori sui limiti del piacere e con l’inconscio desiderio di ucciderli, che sovverte nella nostra psiche l’ordine del mondo, il cerchio si chiude. Le merendine Motta possono entrare nel circuito della domanda di strumenti di gratificazione immediata e pacificazione/silenziamento dei sensi che rassicurano e consolano. Il condizionamento ha trovato l’aggancio con la compensazione.
Giocare con l’inconscio, violando la determinazione psichica dei comportamenti per sottoporli a ragioni di opportunità, ha i suoi inconvenienti. Finisce per rivelare la natura vera di un sistema di relazioni fondato sulla comunicazione pubblicitaria che preclude il reale incontro. La dissoluzione delle relazioni erotiche (colpite nella loro profondità) scava un vuoto nella femminilità (l’apertura all’inconsueto), ben rappresentato nello spot dal cratere finale nel giardino di casa (simbolo della sessualità femminile). Si è creato un mondo senza legami di reciprocità che eludendo il conflitto e il dolore sta sprofondando (profezia involontaria dei pubblicitari di Buondì Motta) in una violenza insensata, autodistruttiva.
Questo mondo, che pur di imbrigliare l’imprevisto è disposto a pagare il prezzo della cecità (l’incapacità di vedere al di là del suo naso), sta producendo la più temibile delle casualità: l’impazzimento del suo funzionamento. Vive nella paura che un asteroide (proiezione all’esterno della sua follia) possa cascargli sulla testa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
FILOSOFIA E PEDAGOGIA
ARITMETICA E ANTROPOLOGIA. UNA DOMANDA AI MATEMATICI: COME MAI "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia)?! Non è il caso di ripensare i fondamenti?! ... *
PER UNA SCUOLA CHE INSEGNI A VOLARE. Una nota a margine di "Una domanda eterna: che cosa significa educare?" ...
EDUCAZIONE? CHI EDUCA CHI: INSEGNARE A VOLARE. I SOGGETTI sono DUE, e tutto è da ripensare...
Pur condividendo con l’Autore di "Una domanda eterna: che cosa significa educare?", la linea strategica della sua riflessione ("della libertà faccio il perno centrale dell’educazione, un perno che ricomprende l’idea di educazione come introduzione alla realtà, il punto che sussume tutti i percorsi e le esperienze attivate per educare i cittadini di domani a una vita virtuosa"), credo che sia necessario e opportuno (anche sul filo delle sue stesse accennate indicazioni di Aristotele, Rousseau, Kant) portarci oltre e RIFLETTERE su quanto nella domanda è "nascosto", vale a dire su "CHI" educa "CHI" - a tutti i livelli! I SOGGETTI sono DUE, e tutto è da ripensare...
Se di Rousseau non vogliamo (continuare a) farne un teorizzatore dell’e-duc-azione autoritaria ( "ex-DUX-azione"), dobbiamo problematizzare proprio la sua frase finale, (ripresa dall’ "Emilio"), sull’uomo virtuoso, sul diventare "padrone di se stesso", e sul comandare al proprio "cuore", e, con lo stesso Rousseau, reinterrogarci sulla nostra condizione: "L’uomo è nato libero, e ovunque è in catene. Anche chi si crede padrone degli altri, non è per questo meno schiavo degli altri" ("Il contratto sociale"); e, insieme, sul tema del "CAPO" (preziosa al riguardo la "lezione" di Gramsci del 1924).
La questione è "eterna" ed è ... intrecciata con la questione delle Sibille e dei Profeti di Copertino (cfr. Pierpaolo Parsi: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/30/copertino-si-scopre-casa-delle-sibille/), con la filologia e l’affresco di sant’Agostino di Nardò (cfr. M. Gaballo: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/), e, ancora e in particolare, con il lavoro di Sigmund Freud. Non a caso in un mio lavoro su questi temi (cfr.: "Della Terra, il brillante colore. Parmenide, una "Cappella Sistina" carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barberi (1481) e la domanda antropologica", Prefazione di Fulvio Papi, Milano 2013), un capitolo è dedicato al problema J.-J. ROUSSEAU: "Al di là della cecità edipico-parmenidea e al di là della "società civile". J.-J. Rousseau: una coscienza aperta e una triplice fedeltà" (pp. 101-110).
PER ANDARE AVANTI democraticamente occorre rimeditare (come Pierpaolo Tarsi sollecita a fare) la lezione kantiana racchiusa nell’immagine della colomba della "Critica della Ragion Pura", occorre INSEGNARE A VOLARE. E, su questo, il contributo di KANT è enorme. Se si vuole uscire dallo "stato di minorità", non si può non tenerne conto!
ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN!
Federico La Sala
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ARITMETICA E ANTROPOLOGIA. UNA DOMANDA AI MATEMATICI: COME MAI "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia)?! Non è il caso di ripensare i fondamenti?!
Auschwitz on the Beach, in Germania cancellata la performance di Bifo che paragona crisi dei migranti e Olocausto: “Bigotti”
L’attivista e filosofo bolognese avrebbe dovuto esibirsi nell’ambito della celebre mostra di arte contemporanea Documenta14. Ma è stato sommerso dalla polemiche. Il ministro della cultura tedesco Boris Rhein e il sindaco di Kassel Christian Geselle hanno addirittura chiesto l’intervento della magistratura. Lui spiega a ilfattoquotidiano.it: "E’ la bigotteria di gente che ha ripetuto molte volte ’mai più Auschwitz’ e tuttavia non tollera che qualcuno gli faccia presente che in realtà Auschwitz sta accadendo di nuovo sotto i nostri occhi e con la nostra complicità"
di Felice Moramarco *
In Germania non si può paragonare la crisi dei migranti all’Olocausto degli ebrei, nemmeno se a farlo è un artista. Ha ricevuto critiche durissime la performance dal titolo Auschwitz on the Beach scritta dal filosofo e attivista bolognese Franco “Bifo” Berardi, prevista per il 24 agosto scorso nell’ambito della famosa mostra di arte contemporanea “documenta 14” a Kasselin Germania. La performance aveva come tema la crisi dei rifugiati, che secondo l’autore, ha assunto i tratti inquietanti di un olocausto. Proprio a causa delle polemiche, gli organizzatori di documenta 14 e Berardi hanno deciso di cancellare l’evento e sostituirlo con un incontro pubblico dal titolo Shame on Us, che ha visto una larghissima partecipazione. Molte sono state le accuse di relativizzare la tragedia dello sterminio degli ebrei. Si sono uniti alle critiche anche il ministro della cultura tedesco Boris Rhein e il sindaco di Kassel Christian Geselle, i quali hanno addirittura chiesto l’intervento della magistratura. Tuttavia c’è stato anche chi, come Philippe Ruch del Zentrum für Politische Schönheit si è chiesto se sia effettivamente così fuori luogo paragonare i campi di concentramento costruiti sulle coste libiche con l’avvallo degli stati Europei ai lager nazisti. Proprio in queste ore, la ong Moas ha interrotto i salvataggi nel Mediterraneo dicendo di non sapere cosa succede nei centri in Libia. E il parallelo con l’olocausto è stato fatto solo domenica 3 settembre alla Festa del Fatto Quotidiano dall’editorialista Furio Colombo: “Questa è la seconda Shoah”, ha detto durante un dibattito con il ministro dell’Interno Marco Minniti.
Immaginavate che l’annuncio di una performance dal titolo Auschwitz on the Beach sarebbe stato accolto in questo modo?
Noi europei stiamo ripetendo quello che i nazisti fecero negli anni ’40. Qualcuno potrebbe dire che questa è una esagerazione, ma certo che è un’esagerazione! Tuttavia, bisogna tener presente che per il momento abbiamo ucciso almeno trentamila migranti nel mar Mediterraneo. E non sappiamo quanti ne abbiamo uccisi nel deserto del Sahara e quanti cadaveri ci siano nelle fosse comuni libiche. Questo era quello che volevamo denunciare.
É risaputo che in Germania temi ed espressioni legate al loro passato nazista costituiscono ancora una ferita aperta.
Io sono disposto ad ascoltare questa obiezione dai rappresentanti della comunità ebraica tedesca, con cui ho infatti discusso. Ma non sono disposto ad ascoltare questa obiezione da qualche stronzetto che scrive sui giornali della “Grande Germania”, perché sono i nazisti tedeschi, che non sono mai scomparsi, ad aver inferto quella ferita all’umanità. Mio padre durante la guerra ha passato sette mesi in un carcere tedesco, quindi non accetto che un pezzo di merda come il signor Jens Jessen sulla Zeit mi venga a dire che quella ferita è ancora aperta, perché è proprio gente come lui che ha inferto quella ferita a gente come mio padre.
Allora perché avete deciso di cancellare la performance?
L’abbiamo cancellata perché la nostra intenzione non era tanto quella di mettere in scena un’opera d’arte, ma quella di lanciare un messaggio. Dato quello che è successo, cancellare la performance ci ha permesso di far circolare quel messaggio dieci, cento volte di più di quanto non sarebbe stato possibile se ci fossimo fatti intrappolare dalla retorica della libertà d’espressione. In gioco c’è qualcosa di molto più importante della mia libertà d’espressione. Non me ne frega niente della mia libertà d’espressione, quando in gioco c’è la vita di milioni di donne e di uomini!
L’unica cosa resa pubblica della performance è stato quindi il titolo.
Esatto.
E come si spiega che l’accostamento di due semplici parole, “Auschwitz” e “Beach” abbia innescato un dibattito così acceso?
Perché quell’espressione ha provocato la bigotteria del ceto neoliberale tedesco. La bigotteria di gente che ha ripetuto molte volte “mai più Auschwitz” e tuttavia non tollera che qualcuno gli faccia presente che in realtà Auschwitz sta accadendo di nuovo sotto i nostri occhi e con la nostra complicità. Sulla stampa tedesca sono stati pubblicati più di un centinaio di articoli da questi bigotti. Ma è il mio mestiere provocare, l’ho sempre fatto. Per mesi, sono stato su tutti i giornali italiani [nel 1977, n.d.r], descritto come provocatore e criminale, perché parlavo da una radio libera [Radio Alice, ndr]. E allora imparai che occorre non lasciarsi mai spaventare da gente come questa.
Non pensa che chi ha reagito in questo modo sia in realtà ben cosciente di ciò che sta accadendo e che semplicemente non vuole prendere atto delle proprie responsabilità.
Certamente. In gioco c’è qualcosa di enorme. Noi occidentali dobbiamo far fronte alle conseguenze di secoli di colonialismo e di quindici anni di guerra ininterrotta, di cui siamo totalmente responsabili. Ora, l’enorme debito che abbiamo accumulato, non vogliamo pagarlo. Ci rifiutiamo di investire le enormi somme di denaro necessarie per l’accoglienza dei migranti e preferiamo darle a Banca Etruria, al Monte dei Paschi e al sistema finanziario europeo. Bene, questo atteggiamento provoca la guerra. Una guerra che è già cominciata e che non vinceremo, perché abbiamo a che fare con un immenso esercito di disperati. Perderemo tutto. Perderemo la vita di molta gente, perderemo la democrazia e il senso dell’umanità.
* Il Fatto, 4 settembre 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito.... *
La chiesa e la cura del vivere
Il papa in psicoanalisi. Per i gesuiti l’analisi è un valido strumento di cura psichica e non esiste alcuna incompatibilità con la fede. Eppure la rivelazione di Bergoglio va ben oltre, afferma un principio di laicità e riconosce l’autonomia dei dubbi, del dolore, delle incertezze
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 03.09.2017)
Papa Francesco all’età di 42 anni si è fatto aiutare per un breve periodo da una psicoanalista ebrea. La rivelazione è contenuta in un libro di prossima pubblicazione in Francia (Politique et société edizioni L’Observatoire): la trascrizione di dodici dialoghi con il sociologo Dominique Wolton.
Il fatto non è di per sé sorprendente. Bisogna considerare prima di tutto che papa Francesco è gesuita. Per i gesuiti la psicoanalisi è un valido strumento di cura psichica e il ricorso personale ad essa può essere finanziato dal loro ordine. Parecchi degli analisti sono credenti come anche la maggior parte dei loro analizzandi. Tra la psicoanalisi e la fede non esiste alcuna incompatibilità: i conflitti psichici si distribuiscono equamente tra credenti e non credenti.
Nondimeno la confessione pubblica del papa ha una sua innegabile particolarità. Proveniente dalla massima autorità della chiesa cattolica va ben oltre ciò che un fedele o un sacerdote fanno nella loro privata.
Afferma un principio di laicità che non consiste solo nel dare a Cesare ciò che è di Cesare (un riconoscimento dell’ordinamento politico terreno che legittimò la trasformazione della chiesa in un’organizzazione di potere secolare). Riconosce anche l’autonomia dei dubbi, del dolore, delle incertezze che fanno parte della nostra esistenza (e la cui elaborazione determina la sua qualità, dalla fede nei valori eterni di una vita oltre la morte). La fede non può garantire da sola una vita decente, la terra può guardare il cielo per trovare in esso una visuale superiore delle cose di questo mondo, ma questa visuale non decide il modo di vivere e di gestire i propri desideri e sentimenti.
La differenza tra la religione cattolica e la psicoanalisi sta nella centralità che quest’ultima attribuisce alla dimensione erotica dell’esistenza. Ciò non implica semplicemente la sessualità vera e propria, con tutta la sua fondamentale importanza, ma più in generale il modo profondo, radicato nei sensi, di gustare e dare senso alla propria vita. La spiritualità religiosa, che si fa carico della caducità, nella prospettiva psicoanalitica è sostituita dalla sublimazione: l’esperienza culturale, includente la religiosità, che espande il piacere dei sensi e la profondità/intensità dei vissuti oltre i confini della pura contiguità sensoriale. Questa espansione amplia i legami e la ricchezza degli scambi tra di noi al di là dei limiti temporali e trasforma l’esperienza concreta, limitata del singolo individuo in una parte dell’infinita varietà potenziale dell’avventura umana.
La prospettiva psicoanalitica e quella cattolica non sono affatto in contraddizione insanabile se la spiritualità accetta la differenza tra la vita terrena e il principio dell’eternità, se non pretende che il secondo disincarni la prima, che la svuoti di senso e di soddisfazione. Se riconosce che una persona deprivata sul piano del desiderio e delle sue molteplici forme sublimate e appiattita su una posizione di dilazione consolatoria del piacere del vivere, astratto da ogni forma di emozione vera, è ridotta alla materia del proprio scheletro. Nessuna forza la farà risorgere, la morte se ne è impadronita per sempre. I credenti che hanno rispetto di se stessi e degli altri non aspirano alla resurrezione dei morti viventi.
Papa Francesco sembra più vicino dei suoi predecessori a Sofocle, un uomo profondamente religioso. In Antigone, dopo aver detto che l’eros è in battaglia invincibile, il grande tragico ha affermato che il Desiderio siede tra le Leggi (politiche e religiose) possenti.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Perché la “confessione” del Pontefice è rivoluzionaria
In Italia la Chiesa spinse per mettere Freud fuorilegge
di Fabio Martini (La Stampa, 02.0’9.2017)
C’è qualcosa di rivoluzionario nella confessione di papa Francesco di essere andato in analisi, di averne tratto giovamento e di essersi fatto curare da una psicoanalista. Sin dai primi del Novecento la Chiesa ha sempre osteggiato con tutti i mezzi, anche “illegali”, la psicoanalisi, avvertita come pericolosa concorrente, come “colpevole” di aver infranto il monopolio cattolico nel confessionale e nella introspezione delle anime. Certo il capo di accusa non è mai stato dichiarato esplicitamente, ma per almeno 50 anni si è sviluppata una guerra senza quartiere contro una disciplina “eretica” fondata dall’ebreo Sigmund Freud.
La psicoanalisi è stata disciplina, almeno in Italia, vissuta come destabilizzante da tutti i poteri costituiti. Agli albori la contrastano non solo la Chiesa, ma anche il fascismo, l’idealismo crociano e nel secondo dopoguerra il Pci di influenza sovietica. E infatti all’inizio degli Anni Trenta i pionieri, non per caso, sono due ebrei - Edoardo Weiss ed Emilio Servadio - e due antifascisti socialisti, Cesare Musatti e Nicola Perrotti.
Il Vaticano è ostile perché intuisce nella psicoanalisi una pericolosa concorrente. Ne denuncia il «pansessualismo» e il «materialismo», ma di quelle teorie ancora più inquieta l’ambizione «totalitaria», un’attitudine che finisce col sottrarre alla Chiesa il monopolio dell’anima e i tanti segreti personali, fino a quel momento custoditi in confessionale. E crolla persino il monopolio sull’attività onirica, rispetto alla quale la Chiesa aveva elaborato, ben prima di Freud, una sua «Interpretazione», per la quale attraverso i sogni è il diavolo che vuole catturare l’anima. Ecco perché la Chiesa nel 1934 chiede a Mussolini - e ottiene - la soppressione della “Rivista italiana di psicoanalisi”, alla quale seguirà cinque anni dopo lo scioglimento della pur piccola Società italiana di psicoanalisi.
Soffocata sul nascere con l’accordo del fascismo, la psicoanalisi italiana nel secondo dopoguerra subisce la ripresa di ostilità da parte della Chiesa, al punto che nel 1952, sul Bollettino del clero romano, si arriva a qualificare addirittura come «peccato mortale» ogni pratica psicoanalitica. Una scomunica apparentemente senza appello, ma che negli anni successivi via via si scioglie grazie a piccole aperture di papi come Paolo VI e Giovanni XXIII. Ora Francesco non soltanto ha “sdoganato” la psicoanalisi ma l’ha elevata a “compagna” dell’anima umana.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ...
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. IN DIFESA DELLA PSICOANALISI... *
La confessione del Papa
«La psicanalisi mi ha aiutato». Bergoglio all’età di 42 anni, per sei mesi ogni settimana, ha incontrato un’analista ebrea. È il Pontefice a rivelarlo in un libro in cui parla anche di matrimoni gay, laicità e immigrazione.
In un libro gli incontri di anni fa del futuro Papa con un’analista ebrea
di Leonardo Martinelli Andrea Tornielli (La Stampa, 01.09.2017)
Padre Jorge Mario Bergoglio, all’età di 42 anni, per sei mesi ogni settimana ha incontrato una psicanalista. È lui stesso a rivelarlo in un libro di prossima pubblicazione in Francia, che contiene la trascrizione di dodici dialoghi con il sociologo Dominique Wolton (titolo: «Politique et société», edizioni L’Observatoire).
Durante una delle interviste, il Papa ha parlato del ruolo avuto da alcune donne nella sua esistenza. «Quelle che ho conosciuto mi hanno aiutato molto quando ho avuto bisogno di consultarmi». Poi si passa alla psicanalista.
«Ho consultato una psicanalista ebrea - racconta Bergoglio al suo interlocutore -. Per sei mesi sono andato a casa sua una volta alla settimana per chiarire alcune cose. Lei è sempre rimasta al suo posto. Poi un giorno, quando stava per morire, mi chiamò. Non per ricevere i sacramenti, dato che era ebrea, ma per un dialogo spirituale. Era una persona buona. Per sei mesi mi ha aiutato molto, quando avevo 42 anni». -L’esperienza raccontata da Francesco si colloca dunque tra il 1978 e 1979, gli anni della dittatura, quando aveva concluso la non facile esperienza di provinciale dei gesuiti d’Argentina e stava iniziando quella di rettore del Collegio Máximo, dove venivano formati gli studenti che desideravano entrare nella Compagnia.
Chiesa e psicanalisi
All’inizio la Chiesa ha denunciato il «pansessualismo», ma anche l’ambizione «totalitaria» della psicanalisi. Ad aprire un primo spiraglio fu Pio XII nel 1952, spiegando: «È inesatto sostenere che il metodo pansessuale di una certa scuola di psicoanalisi sia parte indispensabile di ogni psicoterapia degna di tal nome». Nel luglio 1961, con Giovanni XXIII, il Sant’Uffizio proibì ai preti di praticare la psicanalisi e ai seminaristi di sottoporvisi. Nell’enciclica «Sacerdotalis coelibatis» del 1967 Paolo VI ammetteva la possibilità del ricorso «all’assistenza e all’aiuto di un medico o di uno psicologo competenti» nei seminari e nel 1973, durante un’udienza, affermava: «Abbiamo stima di questa ormai celebre corrente di studi antropologici, sebbene noi non li troviamo sempre coerenti fra loro, né sempre convalidati da esperienze soddisfacenti e benefiche». Come dato curioso si può infine ricordare «Habemus Papam», il film di Nanni Moretti, che racconta di un Pontefice eletto che ricorre - seppur con poca convinzione - al consulto di una psicanalista.
«In gabbia, ma libero»
Il Papa, nei dialoghi con Wolton parla anche della sua vita di oggi. «Mi sento libero. Certo, sono in una gabbia qui al Vaticano, ma non spiritualmente. Non mi fa paura niente». Si scaglia contro quei «preti rigidi, che hanno paura di comunicare. È una forma di fondamentalismo. Quando m’imbatto in una persona rigida, soprattutto giovane, mi dico che è malato. Sono persone che in realtà ricercano una loro sicurezza». Inevitabile, poi, il riferimento all’immigrazione. «La nostra è una teologia di migranti, perché lo siamo tutti fin dall’appello di Abramo, con tutte le migrazioni del popolo d’Israele. E lo stesso Gesù è stato un rifugiato, un migrante. Esistenzialmente, attraverso la fede, siamo dei migranti. La dignità umana implica necessariamente di essere in cammino». Si rammarica del fatto che «l’Europa in questo momento ha paura. Chiude, chiude, chiude...». Il Papa rigetta anche la nozione di «guerra giusta», che pure ha un fondamento nella tradizione della Chiesa e nella legittima difesa dei popoli. Per Bergoglio, «la sola cosa giusta è la pace».
La vera laicità
Francesco tocca anche il tema della laicità. «Lo Stato laico è una cosa sana - dice -. Gesù l’ha detto: bisogna dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». Ma «credo che in certi Paesi, come la Francia, la laicità abbia una colorazione ereditata dai Lumi davvero troppo forte, che costruisce un immaginario collettivo in cui le religioni sono viste come una sottocultura. Credo che la Francia dovrebbe «elevare un po’ il livello della sua laicità». Sul dialogo con l’Islam, si dice ottimista e accenna al suo rapporto con l’imam di Al-Azhar. Ma afferma anche che «i musulmani non accettano il principio della reciprocità».
Quanto al matrimonio gay, ritiene che «da sempre nell’umanità, non solo nella Chiesa cattolica, il matrimonio è fra un uomo e una donna». Ma quelle tra omosessuali accetta di chiamarle «unioni civili». Le piace essere chiamato «Papa dei poveri»? «No, perché è un’ideologizzazione». «Io sono il Papa di tutti, dei ricchi e dei poveri. Dei poveri peccatori, a cominciare da me». A Francesco piace il contatto fisico con i fedeli. «La tenerezza - confida - è qualcosa che procura così tanta pace».
Se il religioso va alla guerra con se stesso
di Ferdinando Camon (La Stampa, 01.09.2017)
La notizia che l’attuale papa Francesco, quando aveva 42 anni, andò in analisi, ti entra nel cervello e non ne esce più. È sconvolgente: un alto esponente della Chiesa Cattolica va in analisi; va da una psicanalista-donna; che è anche ebrea. Quelli che ragionano sull’analisi e sulla religione sono convinti che siano due contrari. Questo perché la fede parte dalla rivelazione: la verità è stata rivelata, una volta per tutte. Sappiamo che cosa è bene e che cosa è male.
Mentre l’analisi è ricerca incondizionata: se alla tua ricerca metti dei limiti (non parlerò di mia madre o della mia amante), l’analisi fallisce, anzi non comincia nemmeno. Cesare Musatti, presidente della Società Psicanalitica Italiana, esprimeva questo concetto ricorrendo alla metafora della guerra civile: l’analisi è una guerra civile, chi va in analisi è in guerra con se stesso, è come uno Stato in cui una parte dei cittadini si ribella e combatte contro gli altri.
Lo Stato non può dire: combatterò i ribelli a Torino e a Milano, ma non a Venezia e a Trieste, perché se parla così succede che tutti i ribelli si rifugiano a Venezia e a Trieste, e quelle città, che lo Stato voleva risparmiare, dovrà raderle al suolo. Pasolini andò in analisi da Musatti e dopo poche sedute disse: «Non parlerò della mia omosessualità, perché è natura». Musatti rispose: «Ne parlerà comunque, anche senza volerlo». Pasolini entrò in un’angoscia tremenda, e dopo sette-otto sedute non si presentò più. È mia opinione che lì sia accaduto un grave errore di Musatti. Perché tu, analista, non puoi dire al tuo paziente qualcosa che il tuo paziente in quel momento non è in grado di reggere. Aspetta, hai tutta l’eternità a disposizione. Se glielo dici in anticipo, e quello entra in crisi e si ritira, la colpa è tua. Musatti faceva l’analisi anche a preti e membri della gerarchia cattolica. Diceva che venivano a lui col permesso dei superiori.
L’analisi è l’esame delle potenti figure interiori che ti porti dentro, se sei cattolico la prima di queste potenti figure interiori è Cristo: non puoi iniziare una battaglia, nella quale puoi trovarti di fronte Cristo, senza dire ai tuoi che parti per il fronte. Un profondo e delicato psicanalista freudiano, Giovanni Gozzetti, allievo prediletto di Salomon Resnik, argentino (il quale è l’autore delle voci di psicanalisi dell’Enciclopedia Einaudi), aveva un paziente cattolico che a un certo punto gli annunciò: «Piuttosto di mettere in discussione Cristo, preferisco ritirarmi», e non si fece più vedere. Probabilmente era questo che temevano i cardinali del film «Habemus Papam» di Nanni Moretti, quando si presentò il problema se il papa (appena eletto, e in crisi col nuovo ruolo) poteva andare in analisi: in analisi? E parlare dei sogni? No no no. Se va in analisi, è la Curia che stabilisce di che cosa può parlare, e di che cosa no.
L’analisi è una discesa dentro te stesso, in una profondità che non conosci, là sotto troverai un te stesso che ignori, può incantarti ma anche spaventarti, puoi tornar su deciso a proseguire per la strada di prima oppure a fare una inversione a U. Non è affatto detto, come credono gli psicanalisti anti-cattolici, che analisi e fede siano due nemiche. Viktor Frankl lo dimostra. E ora anche l’analisi di Bergoglio. Perché ha avuto una conclusione stupefacente: è durata poco, sei mesi, e aveva un ritmo blando, una seduta per settimana, ma alla fine successe qualcosa di raro: in punto di morte, fu la psicanalista a chiamare l’ex-paziente, «per un dialogo spirituale». In analisi le due forze che agiscono sono il transfert, che lega il paziente all’analista, e il controtransfert, che lega lo psicanalista al paziente. Se succede che il secondo sia più forte del primo, allora è lo psicanalista che è in analisi dal suo paziente. Andò così con Bergoglio?
Il pontefice in cura da Moretti
in «Habemus Papam» (La Stampa, 01.09.2017)
Il Papa e uno psicanalista. Un incontro che il cinema aveva già raccontato. Nanni Moretti, nel suo «Habemus Papam» nel 2011, interpreta un analista che assiste il pontefice depresso e poi dimissionario Michel Piccoli (altra previsione azzeccata del regista romano). Per affrontare la crisi del Papa viene chiamato il professor Brezzi (Nanni Moretti), uno psicanalista, che prescrive al santo padre alcune sedute con la moglie, Margherita Buy, analista anche lei, al di fuori delle mura vaticane. L’intervento dei due specialisti non basterà: il Papa si troverà a vagare per Roma di notte su un autobus.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
NUOVO REALISMO: LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
A FREUD (Freiberg, 6 maggio 1856 - Londra, 23 settembre 1939), GLORIA ETERNA!!! IN DIFESA DELLA PSICOANALISI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
IN MEMORIA DI SANT’AGOSTINO (E IN ONORE DEL LAVORO DELLA FONDAZIONE "TERRA D’OTRANTO").
Considerazioni a margine dell’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò (elevata a Basilica minore nel 1980, da papa Giovanni Paolo II, durante l’episcopato di Antonio Rosario Mennonna)
Lode a Marcello Gaballo per questa bellissima e preziosa nota su "L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/#_ftn1) - e il lavoro di De Giorgi: la sua trascrizione della scritta sul cartiglio (ormai scomparsa) "iuste/et cas/te viv/ere et/ xarita(te)" - contrariamente alla protervia che ha portato allo "sproposito maiuscolo" e alla brutta abitudine instauratasi almeno a partire da Ludovico A, Muratori di una "caritas" latina! - conserva ancora la memoria del legame della tradizione dell’evangelo (non: "vangelo"!) con la lingua greca ("charis", "charites"... "charitas").
FILOLOGIA E FILOSOFIA/TEOLOGIA. Giambattista Vico ("De constantia iurisprudentis", 1721) giustamente e correttamente e onestamente così pensava e scriveva: "Solo la carità cristiana insegna la prassi del Bene metafisico"("Boni metaphysici praxim una charitas christiana docet"). Sapeva che Gesù ("Christo") aveva cacciato i mercanti FUORI dal tempio, e non aveva autorizzato i sacerdoti a vendere a "caro-prezzo" (lat.: "caritas") la "grazia" (gr.: "Xapis", lat.: "Charis") di Dio (lat.: "Charitas")!!! Due padroni: Dio "Charitas" o dio "Caritas"?!, Dio Amore o dio Mammona?! In questo bivio ("X") ancora siamo, oggi - e ancora non sappiamo sciogliere l’incognita (""x")!
Sul tema, mi sia consentito, si cfr. la seguente nota:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori.
MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
ALLA LUCE DEL lavoro di ARMANDO POLITO e MARCELLO GABALLO SU "SANTA MARIA DI CASOLE E LE SUE SIBILLE" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/24/santa-maria-casole-copertino-le-sue-sibille/), all’affresco di Sant’Agostino (databile forse più precisamente nella seconda metà del sec. XV), mi augurerei una rinnovata e maggiore attenzione non solo a tutta la figura dell’affresco ma, in particolare, all’immagine del bastone-pastorale con i suoi DUE SERPENTI. Essa richiama, con chiarezza, non solo la figura di Mosè ma anche e soprattutto la figura di ERMETE TRISMEGISTO con il suo caducèo (e, con essa, della Sibilla Pizia, di Apollo, e di Delfi).
L’affresco di Sant’Agostino nella cattedrale di Nardò, a mio parere, è un luminosissimo segno "manifesto" della diffusione della concezione umanistico-rinascimentale nella Terra d’Otranto e, insieme, del grande lavoro che porterà infine la Chiesa e Michelangelo a celebrare le Sibille (5) insieme ai Profeti (7) nella Volta della Cappella Sistina: ovvero, dice chiaramente del ruolo "giocato" dalla figura di Agostino nella costruzione dell’ orizzonte ecumenico umanistico e rinascimentale.
Sul tema, si cfr., unitamente al già citato lavoro di A. Polito e M. Gaballo, la mia nota sul
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
NEL LIBRO DI Marcello Gaballo e Armando Polito, "Santa Maria di Casole a Copertino (Lecce) ed altri repertori di Sibille" (Fondazione Terra d’Otranto 2017), è ripreso l’intero capitolo 23 del Libro XVIII del "De civitate Dei" (per eventuali approfondimenti, si cfr. sant’Agostino, "La città di Dio": http://www.augustinus.it/italiano/cdd/index2.htm)
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
NON SAPEVO CHE DIO È SPIRITO....*
Lutto.
Addio a Maria Bettetini, filosofa e studiosa di sant’Agostino
È morta domenica 13 ottobre a Milano la filosofa Maria Bettetini, docente di Estetica, Retorica e Filosofia delle immagini. Il suo nome è però legato in particolare agli studi agostiniani-
di Francesco Ognibene (Avvenire, lunedì 14 ottobre 2019)
È morta domenica 13 ottobre a Milano la filosofa Maria Bettetini, studiosa di sant’Agostino, docente all’Università Iulm di Milano. 57 anni, milanese, figlia di Gianfranco, che fu pioniere all’Università Cattolica degli studi semiotici in Italia, Maria Bettetini ha insegnato dapprima Storia della filosofia medioevale all’Università Ca’ Foscari di Venezia e poi alla Iulm Estetica, Retorica e Filosofia delle immagini approfondendo in particolare lo statuto della finzione e dell’inganno, studi che hanno dato vita a uno dei suoi libri più noti, “Breve storia della bugia” (Cortina, 2001).
Il suo nome è però legato in particolare agli studi agostiniani, dal classico “Introduzione a Agostino” (Laterza, 2008) a un’edizione delle “Confessioni” da lei curata nel 2000 per Einaudi. Tra gli altri filoni dei quali è stata apprezzata studiosa va ricordato in particolare quello sull’iconoclastia, da “Contro le immagini” (Laterza, 2006) a “Distruggere il passato” (Cortina, 2016).
Nel 2015 aveva pubblicato un suo omaggio alla filosofia, “La bellezza e il peccato” (Bompiani), una “piccola scuola” - come l’aveva definita - nata da una domanda: “Chi se non la buona filosofia può insegnare a cogliere la bellezza in questo mondo da salvare?”. Con i “Quattro modi dell’amore” (Laterza, 2012) aveva invece proposto un singolare itinerario filosofico e letterario attraverso amicizia, passione, amori folli o ideali e falsi amori.
La sua intelligenza viva e penetrante, la spontanea disposizione a creare e mantenere relazioni profonde, la libertà di pensiero, la fede sempre intensamente vissuta hanno fatto di lei una figura di pensatrice originale e apprezzata e l’hanno resa naturalmente prossima al pensiero del vescovo di Ippona, del quale è stata instancabile divulgatrice, fino agli ultimi giorni prima di una morte prematura.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
FREUD, KANT, E I SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA -- FILOLOGIA E "ARCHEOLOGIA". Considerazioni a margine dell’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò (Lecce).
Federico La Sala
INDIVIDUO, SOCIETA’, E COSTITUZIONE. IERI COME OGGI: USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI!!! C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" ...
Scienze psicosociali
Democrazie personalizzate
Per Platone, politica e morale sono due facce della stessa medaglia e il governo giusto è solo quello dei filosofi, che sanno cosa è la giustizia.
Aristotele, invece, preferisce discutere la politica come dimensione dell’esperienza sociale indipendente dall’etica
di Gilberto Corbellini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 27.8.2017)
Per Platone, politica e morale sono due facce della stessa medaglia e il governo giusto è solo quello dei filosofi, che sanno cosa è la giustizia. Aristotele, invece, preferisce discutere la politica come dimensione dell’esperienza sociale indipendente dall’etica. Non tanto perché le forme della virtù siano irrilevanti, ma in quanto, se si ha di mira il bene generale, è disfunzionale decidere una forma di governo partendo da doti etiche personali. Meglio chiedersi sotto quale tipo di legge (costituzione) sarebbe preferibile vivere.
Sono dovuti trascorrere quasi due millenni, ed è occorsa la provocazione di Macchiavelli (ma quale etica, è tutto lecito in politica!), per rendersi conto che i valori della convivenza civile si possono stabilire concordemente, per vie democratiche, attraverso leggi nelle quali tutti si riconoscono e che sono uguali per tutti; piuttosto che lasciarli decidere, i valori, dai politici che di volta in volta per le loro personalità/capacità intercettano i favori popolari. La selezione naturale non poteva prevedere che per la convivenza civile nelle innaturali società moderne si dovessero inventare lo stato di diritto, il libero mercato, l’epistemologia scientifica, il rispetto degli estranei, i diritti umani, etc. Le sensibilità per questi valori non sono innate, come provano le scienze cognitive. Scaturiscono da processi storico-sociali che hanno manipolato, provvisoriamente, predisposizioni psicologiche individuali polimorfiche, dando luogo a repertori e combinazioni di profili comportamentali, quindi preferenze valoriali e infine orientamenti politico-ideologici, che si combinano e ricombinano nei gruppi umani per rispondere a continue e diverse sfide o instabilità dettate da dinamiche ecologiche in senso lato.
La psicologia della personalità è un terreno fertile per studiare e ragionare delle basi comportamentali della politica e per capire quali forme di organizzazione della convivenza umana sono più congeniali alle disposizioni individuali e sociali umane.
In un denso e lucido libro, Gian Vittorio Caprara e Michele Vecchione argomentano che la democrazia è un’«impresa morale che si fonda ampiamente sulla moralità pubblica dei suoi cittadini», e che la divaricazione ideologica tra destra e sinistra o tra liberali e conservatori intercetta tratti fondamentali della personalità, che nell’evoluzione della cultura politica occidentale si strutturano preferibilmente attraverso questa tipologia di identificazione politica, in ragione dei valori morali e politici associati a questi piani.
Non è di personalizzazione della politica nel senso tradizionale che parla il libro, cioè delle caratteristiche psicologiche dei leader votati dagli elettori e che sembrano contare sempre più, ma di come i tratti e i valori delle personalità dei cittadini concorrono al funzionamento di un sistema politico. Nondimeno si parla anche del fatto, corroborato da studi empirici, che le somiglianze di personalità tra politici ed elettori giocano un ruolo nelle scelte di voto.
Il libro espone dati, analisi e proposte fondate su due influenti paradigmi della psicologia della personalità e della psicologia sociale umana: il modello dei Big Five e la tassonomia dei valori umani fondamentali di Shalom H. Schwartz.
I cinque “grandi” tratti selezionati nei primi decenni del secondo dopoguerra sulla base di studi lessicali e analisi fattoriali, come noto, sono: apertura mentale (quanto una persona è inventiva e curiosa piuttosto che cauta e conservatrice), amicalità (quanto una persona è fiduciosa, altruista e cordiale, piuttosto che egoista e sospettosa) coscienziosità (quanto è efficiente e scrupolosa, piuttosto che superficiale e disattenta), estroversione (quanto è energica e socievole, piuttosto che solitaria e chiusa) e, infine, stabilità emotiva (quanto è vulnerabile alle emozioni negative come l’ansia o l’angoscia, o tende alla depressione, piuttosto che sicura di sé e fiduciosa).
Numerosi studi dicono che le personalità caratterizzate da apertura e socievolezza tendono a essere progressiste, mentre quelle coscienziose, sono conservatrici. Qualche ricerca trova che le persone che spiccano come amicali tendono a essere di sinistra in economia e di destra nelle politiche sociali, mentre vale il contrario per gli emotivamente instabili. L’estroversione non produce effetti preferenziali. Esiste anche una letteratura che usa i Big Five per mappare geograficamente i tratti di personalità prevalenti in diverse aree degli Stati Uniti, spiegando in questo modo, cioè come concentrazione di persone con tratti simili, gli orientamenti ideologici e i comportamenti di voto costanti, per i repubblicani o per i democratici, in diversi stati.
Non è questa la sede per discutere i limiti del fortunatissimo modello dei Big Five, che non ha una base teorica e trova però alcune conferme a livello neurobiologico, ma non genetico. Ora, i tratti non danno informazioni a livello motivazionale: sono differenze individuali dimensionabili per quanto riguarda delle tendenze a mostrare schemi di azioni, affetti e pensiero coerenti.
L’israeliano Schwartz ha quindi costruito, partendo dalle ricerche dell’olandese Geert Hofstede sulle dimensioni delle differenze culturali e valoriali transnazionali, una tassonomia di dieci valori riscontrabili nelle principali culture, i quali funzionano come credenze, desideri o scopi che hanno effetti motivazionali per la persona: autodirettività, stimolazione, edonismo, realizzazione, potere, sicurezza, conformità, tradizione, benevolenza, universalismo.
Questi valori strutturano in quattro gruppi che definiscono l’apertura al cambiamento (primi due), l’autoaffermazione (successivi tre), la conservazione (successivi tre) e l’auto-trascendenza (ultimi due), e sono tra loro interconnessi e sovrapposti. In che misura le dinamiche relazioni tra i valori correlano con o predicono orientamenti ideologici e scelte elettorali?
Schwartz, Caprara e Vecchioni hanno suggerito otto “nuclei valoriali politici” che definiscono preferenze socio-economiche e culturali che contano per le persone in quanto espressione sul piano ideologico della loro visione morale: equità, libera concorrenza, morale tradizionale, legge e ordine, patriottismo fanatico, libertà civili, accettazione degli immigrati, interventismo militare.
Esaminando prima due elezioni politiche italiane, 2006 e 2008, e quindi testando le preferenze valoriali e politiche in altri paesi europei, anche post-comunisti, gli autori hanno trovato che le ideologie tradizionali sono ancora i migliori predittori di voto, anche se i dati consigliano di guardare oltre la divisione destra-sinistra e progressisti-conservatori, per cogliere complessivamente i determinanti valoriali delle scelte politiche. Infatti, al di là di chiare differenze si notano comunanze tra i votanti. Per esempio, autodirettività e universalismo sono apprezzati più che potere e realizzazione nella maggior parte dei Paesi studiati, non solo come prevedibile da chi è di sinistra/progressista, ma anche per chi è di destra/conservatore.
Per quanto riguarda gli atteggiamenti politici, gli elettori di sinistra/progressisti sono per politiche di equa distribuzione delle risorse e delle opportunità e per le libertà civili (di agire e pensare), mentre quelli di destra/conservatori preferiscono politiche attente ai valori familiari e religiosi tradizionali, all’applicazione della legge e liberiste in economia. Ma questi ultimi danno un’importanza a eguaglianza e libertà civili non molto distante da chi è dell’ideologia opposta.
Per gli autori «i dati suggeriscono che gli atteggiamenti e le scelte politiche degli elettori dipendono meno che in passato dal menu offerto loro dai partiti e dai politici. Oggi i cittadini sono agenti proattivi, le cui priorità largamente dettano il tipo di menu che i partiti politici e i politici dovrebbero servire. Di fatto, più i cittadini sono consapevoli dei loro diritti, specialmente della libertà di esprimere le loro opinioni, più le rappresentazioni mentali di sé e le visioni del mondo personali dettano le loro scelte individuali». Il che dovrebbe suscitare ottimismo per il futuro della democrazia nella misura in cui un buon sviluppo della personalità si trasferisce nel buon funzionamento della democrazia. Ma nonostante le messe di dati e modelli utili che offre alla riflessione, il libro non spiega perché si dovrebbe essere ottimisti.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CRISI POLITICA E "SACRA FAMIGLIA" [UNITA]!!! NON SOLO LA TEOLOGIA (E LA FILOSOFIA), MA NEMMENO LA SOCIOLOGIA SA DISTINGUERE TRA FAMIGLIA DEMOCRATICA E FAMIGLIA DI "MAMMASANTISSIMA" E DI "MAMMONA"...
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETA’. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.
ITALIA: STORIA E POLITICA (1513-2013). MACHIAVELLI CONTRO OGNI TIRANNIA E CONTRO OGNI POPULISMO: C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO"!!!
LA QUESTIONE DELLO STATO: "IL PRINCIPE" O MEGLIO "DE PRINCIPATIBUS" (1513).
INDIVIDUO E SOCIETA’ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI. USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" ...
C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO"
EBRAISMO E DEMOCRAZIA. PER LA PACE E PER IL DIALOGO, QUELLO VERO, PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO... *
Theodor Herzl, il sogno diventato start-up
Nell’agosto 1897 si riunì a Basilea il Primo Congresso Sionista. Ispirandosi al Risorgimento italiano, il suo animatore guardava alle radici bibliche per forgiare l’ebreo nuovo, non più disposto a subire violenze e disprezzo
di Lea Luzzati (La Stampa, 25.08.2017)
«Se lo volete non sarà un sogno» è la frase che ne disegna la storia: una proposizione ipotetica che in principio aveva tutti i connotati dell’utopia assurda, ma che a poco a poco prese corpo, sostanza, realtà. «Se lo volete non sarà un sogno», disse Theodor Herzl in occasione del Primo Congresso Sionista, 120 anni fa, nella quieta Basilea, e lo ripeté sino alla fine della sua breve vita.
Nato a Budapest in una famiglia ebraica assimilata e profondamente acculturata, il fondatore del movimento risorgimentale ebraico si ritrovò giovane corrispondente per la Neue Freie Presse a Parigi, nella tempesta dell’infame processo Dreyfus che, se condannò il povero e fedele ufficiale francese all’esilio, regalò invece a lui una disincantata folgorazione: l’antisemitismo è inguaribile e si radica anche nelle società evolute, a dispetto dei Lumi e dei diritti civili quasi universalmente riconosciuti. Per gli ebrei l’unica soluzione di sopravvivenza e dignità è la conquista di una «completezza» nazionale e di una autonomia politica. Il ritorno a una patria. I figli d’Israele dovevano diventare «un popolo come gli altri», riavere tutto ciò che definisce una nazione: terra, bandiera, autodeterminazione.
A questo obiettivo Herzl dedicò il resto della propria vita - ma morì a soli 44 anni, nel 1904, senza fare in tempo a vedere nella Shoah la più drammatica conferma del suo pessimismo e nella nascita dello Stato d’Israele, dove dal 1950 riposano le sue spoglie, la realizzazione di quello che non rimase un sogno.
Tempi di pogrom
Cento e venti anni fa a Basilea il movimento sionista si riunì con l’obiettivo di dare una autonomia politica e civile al popolo ebraico disperso ai quattro angoli del mondo e vittima in quegli anni di sfoghi di violenza e persecuzioni: i pogrom che imperversavano nell’impero zarista mietevano vittime e costringevano alla fuga migliaia di anime.
Come bene esempla il titolo del libro di Herzl che teorizza seppure in forma narrativa la nascita del futuro Stato - Altneuland, «nuova vecchia terra» - il sionismo guardava al passato remoto, tornava alle radici bibliche della storia, a quando gli israeliti avevano un regno sulla propria terra. Ma per contro aveva come obiettivo quello di forgiare un ebreo nuovo, non più disposto a chinare la testa passivamente davanti alla catena di avversità, odio e disprezzo che avevano segnato gli ultimi duemila anni. Un ebreo nuovo capace di riprendere - in primo luogo fisicamente con il lavoro manuale - il contatto con la terra.
E in fondo tutta la storia del sionismo, che prende il nome da una collina di Gerusalemme, Sion, evocata con nostalgia dagli esuli della prima Diaspora deportati in Babilonia, è un cammino sul filo in equilibrio tra passato e futuro.
Da Theodor Herzl, che aveva nel Risorgimento italiano il suo primo e fondamentale modello politico, a David Ben Gurion, padre della patria che sempre propugnò il cammino verso Sud, verso il deserto del Negev dove secondo lui stavano il futuro del popolo e le risorse materiali e mentali per edificare la storia, tutta l’epopea del sionismo è segnata sia da un richiamo alle radici lontane sia dalla ricerca di un futuro libero, aperto.
Il Primo Congresso Sionista, tenutosi a Basilea dal 29 al 31 agosto 1897, avvia un processo interno ebraico: si creano organizzazioni, si definiscono i lineamenti di una educazione alla rinascita nazionale. Theodor Herzl e gli altri esponenti del movimento si dedicano a una fervida attività politica e diplomatica in cerca di un focolare nazionale per i figli d’Israele. Il sionismo è dunque un insieme di iniziative politiche, culturali ed economiche volte alla rinascita nazionale per il popolo ebraico. È anche e forse soprattutto un insieme di ideali intrinseco all’ebraismo, cui la modernità può dar voce. Nulla di artificiale, anzi: è l’autentico spirito dell’ebraismo che si confronta con la storia.
Lo Stato d’Israele
Cinquant’anni esatti dopo il Primo Congresso Sionista, il 29 novembre 1947, le Nazioni Unite approvano a maggioranza una risoluzione che prevede la creazione di due Stati «palestinesi»: uno ebraico e uno arabo. Nella Palestina sotto mandato britannico c’era infatti da generazioni una società ebraica strutturata, attiva, consapevole: uno Stato di fatto, dotato di istituzioni politiche, sistema educativo, servizi.
Nel maggio del 1948 nasce lo Stato d’Israele. Da allora esso vive il conflitto. Ma ancora una volta, al di là delle questione politiche e fermo restando il diritto dei palestinesi arabi a un’autonomia nazionale, la storia ebraica si è caricata del solito «sovratesto» distorto per colpa del quale «sionismo» è diventato una parolaccia, la definizione di un’ideologia del male, sinonimo di razzismo, come è detto nella risoluzione Onu 3379 del novembre 1975.
Un ideale ancora vivo
Se è vero che dal 1897 in poi, e anche prima, il movimento sionista ha conosciuto diverse espressioni, lo è altrettanto l’evidenza che col razzismo non c’entra per nulla. Da Martin Buber a Zeev Jabotinsky, da Rav Kook a Abraham Yehoshua - e con loro tantissimi intellettuali e uomini di politica - in tutte queste voci il sionismo si configura come un ideale di «normalizzazione» ebraica capace di conservare quel portato umanistico che si trova espresso nella Bibbia e in tutta la tradizione d’Israele.
Lo Stato ebraico esiste da quasi 70 anni, è una realtà costruita su un ideale. Eppure, malgrado abbia raggiunto il suo scopo, l’ideale sionista è ancora vivo. Non solo nel guidare le recenti immigrazioni di ebrei (dalla Russia, dalla Francia, dall’India), non solo nella memoria di quei fondatori sparsi per il Paese (come ad esempio il nucleo italiano di molti kibbutzim storici, da Netzer Sereni a Ruchama), ma anche nel suo essere la più autentica declinazione dell’ebraismo contemporaneo. Nel quotidiano confronto, non sempre liscio ma sempre costruttivo, tra Diaspora e realtà nazionale israeliana. Nel paradosso che fa oggi di questo paese dalle radici ancestrali in cui si parla la stessa lingua dei Profeti e dei Patriarchi la «start-up nation» proiettata verso le più avveniristiche tecnologie. Nel suo essere parte dello scacchiere politico e culturale del presente, con le sue energie intellettuali, con la sua spinta di vita.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
No al SUPERMAN...ismo israeliano
Il sionismo non è l’ebraismo!!! Lettera a ISRAELE - di Moni Ovadia
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
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Usa, un passato che non passa
di Raffaella Baritono (Il Mulino, 23 agosto 2017)
L’aspro conflitto che sta scuotendo gli Stati Uniti, ancora una volta, rende evidente come vi sia un passato che non passa - lo schiavismo, la guerra civile -, una memoria lacerata che mina nel profondo la coesione sociale, i valori e i principi della democrazia americana, mettendone di nuovo in luce le contraddizioni e i limiti. Dai recessi più o meno profondi della storia, sono riemersi movimenti, pulsioni, gruppi che, apparentemente dati per sconfitti o marginali, dimostrano di essere capaci di incunearsi nelle pieghe della democrazia statunitense e di riaffiorare ogniqualvolta si apra uno spiraglio.
Una capacità, tuttavia, è bene ricordarlo, che è stata anche resa possibile dalle scelte della politica, a partire da quelle di un Partito democratico che, egemone per buona parte del Novecento, non ha avuto remore a scendere a compromessi con le forze politiche più retrive. La sua storia, ancor più, forse, di quella del Partito repubblicano, almeno fino agli anni Settanta del secolo scorso, deve fare i conti con le ambivalenze, gli opportunismi che hanno contraddistinto anche le decisioni di chi, come Franklin Delano Roosevelt, ha impresso un impulso riformista.
Nel corso degli anni Trenta e Quaranta i liberals del Partito democratico, con poche eccezioni, vennero a patti con i segregazionisti del Sud e con l’ala più conservatrice del partito su questioni come i linciaggi, le discriminazioni dei neri nel mondo del lavoro e nelle forze armate, la privazione dei diritti civili e politici. Ma i liberal vennero a patti con i conservatori anche rispetto al rigurgito di movimenti filo-fascisti e filo nazisti e - con analogie interessanti rispetto al presente - con coloro che, in nome dell’antisemitismo e dell’anticomunismo, si opponevano a politiche di accoglienza nei confronti dei rifugiati ebrei e antifascisti.
La tolleranza nei confronti dei democratici del Sud rese possibile, poi, l’attivismo della Commissione Dies che, ancora in quegli anni, era sempre pronta a indagare in nome della sicurezza nazionale tutti coloro che venivano sospettati di essere “pink” - sindacalisti, attivisti dei movimenti giovanili e militanti per i diritti civili - ma, non era altrettanto sollecita nel perseguire i gruppi fascisti e filo-nazisti americani.
A partire dagli anni Settanta il Partito democratico sembrava aver fatto una scelta diversa: libero dalla zavorra dei suprematisti e dei democratici conservatori del Sud (passati al partito repubblicano in grande maggioranza), con più forza si era avviato lungo la strada della difesa dei diritti civili, delle minoranze etniche e razziali, delle donne.
L’elezione di Obama è sembrata allo stesso tempo causa ed effetto di questa trasformazione. Una trasformazione che, naturalmente, ha dovuto fare i conti con l’emergere del nuovo conservatorismo, con la radicalizzazione dello scontro culturale, con la necessità di gestire e governare i processi di globalizzazione economica, la fine della Guerra fredda ecc. E che ha portato a una visione, quella clintoniana, intesa a unire un approccio liberal rispetto alle istanze culturali e all’ampliamento dei diritti, a uno “conservatore” dal punto di vista sociale ed economico.
È una storia complessa, piena di sfumature e che richiederebbe ben altro approfondimento. Tuttavia, il dubbio oggi - di fronte a un Trump che ha vinto cavalcando le istanze identitarie proprie del suprematismo bianco e di un Sud che sembra non aver mai definitivamente messo da parte la “massive resistance” alle politiche di riconoscimento dei diritti civili - è se il Partito democratico ha la forza, la visione e la leadership di affermare fino in fondo di essere una forza politica che guarda al futuro e non al passato degli Stati Uniti. Inoltre: è in grado di sostenere fino in fondo la convinzione che la questione dei diritti e del riconoscimento della pluralità dei soggetti dal punto di vista etnico, razziale, di genere, non necessariamente deve essere sganciata da quella della lotta alla disuguaglianza, alla disoccupazione, alla povertà? Il problema, cioè, è se il Partito democratico vuole porsi come argine al populismo becero e razzista, che Trump ha coltivato, o se invece è pronto al compromesso per opportunismo e mero calcolo elettorale.
Alla fine di luglio, prima che il dibattito politico statunitense si concentrasse sulla sfida coreana e sugli scontri con i suprematisti bianchi, l’attenzione si era focalizzata sul nuovo progetto politico presentato dai democratici in vista delle prossime elezioni e in primo luogo di quelle congressuali del 2018. ‘”A Better Deal” è lo slogan usato dai democratici che, per bocca del Senatore Chuck Schumer, hanno presentato la nuova agenda democratica. I suoi punti qualificanti sono: finanziamenti per job-training programs, aumento dei minimi salariali, finanziamenti e piani per il miglioramento delle infrastrutture, abbassamento dei prezzi dei medicinali per le famiglie meno abbienti ed estensione del Medicare, aiuti alle famiglie, politiche di contrasto ai grandi monopoli e alle mega fusioni (un “trust buster” per il XXI secolo, richiamandosi all’appellativo dato a inizio secolo a Theodore Roosevelt) e, soprattutto il “family leave”, i permessi parentali che dovrebbero riguardare non solo entrambi i genitori, ma coprire anche l’assistenza ai genitori anziani.
Emersa dopo nove mesi dallo shock elettorale (qualcuno ha parlato del Partito post-elezioni come di un pugile suonato incapace di risollevarsi), l’agenda proposta da Schumer presenta non pochi problemi dal punto di vista della sua efficacia, non solo rispetto a un Congresso dominato dai repubblicani, ma anche per la sua capacità di individuare una visione più ampia e realmente competitiva. Innanzitutto, lo slogan, “A Better Deal” che ha come sottotitolo “Better Jobs, Better Wages, Better Future”, richiama non solo slogan storici - dallo Square Deal di Theodore Roosevelt al più celebre New Deal o anche al Fair Deal di Harry Truman - ma anche espressioni più recenti monopolizzate dai repubblicani - dallo ‘Art of the Deal’ di Trump ad “A Better Way” del leader repubblicano della Camera, Paul Ryan.
Per andare alla sostanza, però, alcune delle misure indicate da Schumer non sono poi così diverse da quelle delineate da Trump - in particolare l’accento posto sul potenziamento delle infrastrutture per creare nuovi posti di lavoro - o dai repubblicani in Congresso. Non solo; alcune proposte, come quelle relative ai programmi di formazione, giustificati con la necessità di fornire ai lavoratori americani “gli strumenti necessari per inserirsi nell’economia del XXI secolo”, producono il paradossale effetto di “colpevolizzare” i lavoratori, la cui disoccupazione apparirebbe frutto della loro inadeguatezza.
Soprattutto, come è stato osservato, si fondano sull’assunto neoliberista, di clintoniana memoria, che vede la globalizzazione come “atto di natura piuttosto che questione di politiche e di potere”. Infine, ciò che fa dubitare della capacità del partito democratico di porsi come antidoto alle pulsioni populiste e reazionarie è il fatto che, se da un lato, anche giustamente, il partito vuole intercettare il voto di quegli strati bianchi, working-class che hanno votato Trump, ma che in passato avevano scelto Obama (il cosiddetto “elettore Obama-Trump”), è anche vero che questo comporta fare i conti con lo spinoso problema dell’identità nazionale, come i fatti recenti hanno messo in luce.
Secondo alcuni studi, ancor più che le questioni economiche, il vero terreno di scontro fra i due partiti riguarda l’identità, la razza e le questioni etico-morali. In “A Better Deal”, non c’è traccia né di richieste più radicali, come quelle espresse dalla People’s Platform che guarda a Sanders - Medicare per tutti, accesso libero ai public colleges per le famiglie meno abbienti, tasse sulle speculazioni finanziarie, registrazione automatica alle liste elettorali, chiusura delle prigioni private, tutela del diritto di accesso all’aborto - né, tantomeno, di quelle istanze culturali su cui Trump è intervenuto per alimentare il risentimento dei ceti bianchi e conservatori - immigrazione, gay rights, aborto, relazioni razziali.
Secondo un’opinione diffusa tra gli analisti, i democratici vincono quando puntano sull’economia, perdono se invece mettono al centro le questioni “culturali”. Ma la sfida, oggi, di fronte ai mostri scatenati dalla retorica trumpiana è proprio questa. Steve Bannon, considerato l’”anima nera” della presidenza Trump, dopo le dimissioni ha dichiarato: “questa presidenza è finita”. Qualunque cosa abbia voluto intendere, sicuramente una fase è passata e Trump per sopravvivere dovrà ripensare la sua strategia o condannarsi alla paralisi.
Ma anche il clintonismo è ormai morto e sepolto, come la sconfitta dello scorso novembre dovrebbe aver ampiamento dimostrato. Il Partito democratico se vuole avere una strategia di lungo periodo dovrà essere in grado di tenere assieme “economics” (intese come politiche di redistribuzione sociale) e “culture” (diritti, riconoscimento delle minoranze, politiche di inclusione sociale).
Chi sarà in grado di dare slancio e dimostrare capacità di leadership è questione ancora irrisolta. Nel frattempo, il consenso attorno alla senatrice democratica Elizabeth Warren cresce come pure il movimento che la sostiene. La frase che le rivolse il leader repubblicano Mitch McConnell, in occasione di un duro scontro in Senato, “neverthless, she persists”, è diventata una sua bandiera. Anche il partito democratico dei diritti civili, delle donne e delle minoranze, dovrebbe, “nevertheless”, insistere.
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La ricerca.
Sulla Rete le pagine «nere» conquistano un milione di nostalgici del Duce
Facebook ospita 2.700 profili di propaganda fascista: almeno 300 profili inneggianti Forza Nuova e Casa Pound. La ricerca dell’Anpi
Souvenir del fascismo (da internet)
di Gigio Rancilio *
Perché Facebook non rimuove le pagine social che, in contrasto con la legge Scelba, fanno apologia del fascismo? Leggendo la policy internazionale del social network più grande del mondo non si trova traccia di alcun divieto in questo senso. La scusa di Facebook è che «i nostri standard devono valere in ogni Paese» mentre - aggiungiamo noi - l’apologia del fascismo è vietata solo in Italia (come in Germania quella del nazismo). Quindi non si può proprio fare niente? La stessa Facebook Italia consiglia di segnalare contenuti e pagine illegali alla Polizia Postale o all’Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazione Razziale). «Dopo una loro verifica, Fb avvierà la rimozione di tali contenuti e pagine». A parole è tutto perfetto (o quasi). Ma alla prova dei fatti sembra che le cose vadano diversamente. Lo dimostra il fatto che molte delle pagine Fb che fanno apologia del fascismo sono già state segnalate all’Unar a febbraio: in cinque mesi avrebbero già dovuto essere sottoposte al centro di controllo di Facebook e rimosse dal social. Ma sono ancora lì.
Che i social network premino le posizioni estreme (in tutti i campi) è un dato di fatto. Ma la denuncia dell’Anpi fa comunque effetto: «Su Facebook ci sono circa 2.700 pagine in italiano di propaganda fascista, 300 di queste apertamente apologetiche». Possibile? Iniziamo la nostra ricerca digitando su Facebook la parola ’fascisti’. Il primo risultato che appare rimanda alla pagina ’I giovani fascisti italiani’, seguita da quasi 93mila persone. Entriamo. I post scritti sono pochi. Vanno invece alla grande le foto di Mussolini, i video dei suoi discorsi e le cartoline militanti da condividere sui social. Gli stessi contenuti si trovano anche su pagine ’amiche’ come ’Essere fascista non è reato’, che ha 54mila fan, ’Fascisti italiani, che ha 32mila fan, e ’Repubblica Sociale Italiana’, ferma a poco più di 1.500 mi piace.
Siccome non si vive di sola politica militante, ogni giorno su queste pagine appaiono anche foto che pubblicizzano ’prodotti fascisti’: il portafoglio con l’effigie di Mussolini, i cuscini con la faccia del duce (ma non sarà irriverente sedervisi sopra?) e - molto apprezzato - un manganello nero («in legno massello», specificano i curatori della pagina) disponibile con la scritta (a scelta) ’Boia chi molla’, ’Me ne frego’, ’Credere obbedire combattere’, ’Molti nemici molto onore’. Ogni volta che qualcuno chiede il prezzo di uno degli oggetti, la risposta dei moderatori è sempre uguale: «Camerata, contattaci in privato«. Come se la vendita fosse segreta. Come se la vendita fosse destinata solo a pochi privilegiati. Un’autentica furbata. Che fa apparire ’militanti’ e ’segrete’ delle pagine di fatto promozionali legate al negozio Duxstore.it - con sede legale a Castel Campagnano, in provincia di Caserta - specializzato in gadget fascisti. Stesso repertorio di foto, cartoline, video e slogan si trova anche nella pagina Facebook ’I giovani fascisti italiani - destra italiana’, seguita da 27.198 persone.
Digitando su Facebook la parola ’Mussolini’ la prima pagina che appare è ’Benito Mussolini’, che piace a 144.449 persone. Ci sono post nostalgici ma anche contro i vaccini, l’Europa, il Governo, i giornali bugiardi e tutto il solito repertorio ’anti’. Sempre sul duce c’è la pagina ’Benito Mussolini eterna passione’ (26.350 fan). Sulla pagina ’Gioventù italiana del littorio’ (che piace a 15.149 persone) si trovano quasi esclusivamente foto e manifesti dell’epoca fascista.
Devono però avere qualche problema di repertorio visto che in un anno hanno ripetuto sei volte la foto di un quadro di Mussolini, uno scatto dove il duce fa il saluto romano e un manifesto fascista. ’Camerati uniti per l’Italia’ pubblica molti post di Forza Nuova. La pagina è seguita da 12.929 persone. Ma gli iscritti sono poco reattivi: il post più premiato degli ultimi mesi ha raccolto 12 ’like’. La pagina Facebook ’Camerati italiani’ ha 8.214 iscritti. Anche qui dietro la militanza c’è il business. L’indirizzo web ufficiale della pagina rimanda a un negozio online con sede a Limana (Belluno) che vende gadget marchiati ’Camerati italiani’: dalle classiche t-shirt (dai 20 ai 26 euro) alle infradito (18,99 euro).
Per capire la portata della presenza dei fascisti sui social, il quindicinale Patria indipendente dell’Associazione Nazionale Partigiani ha promosso un progetto web. Si trova all’indirizzo patriaindipendente.it/progetto-facebook/ Cliccandoci appare l’enorme galassia delle pagine social di estrema destra. L’impatto visivo è molto forte. Ma la navigabilità non è semplice e alla fine è difficile mettere ordine in una mole di dati visuali che mischia pagine legali e illegali. Grazie al progetto scopriamo però che le pagine social di estrema destra più seguite sono quelle di Forza Nuova (222.820 persone) e Casa Pound (214.885 fan). Che - va sottolineato - non violano alcuna legge, a differenza di molte altre citate qui. Il ’Centro documentazione Repubblica Sociale Italiana’ è seguito su Fb da 25mila persone. Mentre la pagina ’Xª Flottiglia MAS’ ha oltre 13mila seguaci. Accanto appare la pagina ’X flottiglia mas store’, dove sono pubblicizzati i gadget.
Basta andare sul sito collegato per trovare magliette, felpe, polo, cover per telefonini, distintivi, portachiavi e orologi ’dal licenziatario ufficiale della X Flottiglia Mas’, con sede a Taranto. Sul social più frequentato del mondo si possono creare anche gruppi, aperti (cioè visibili a tutti) o chiusi (per vedere i post o commentarli bisogna essere iscritti). Tra i gruppi chiusi spopola con oltre 12mila iscritti ’Fascisti del terzo millennio’. Seguito da ’Onore al duce’ che conta 8.979 membri e da ’Dux mea lux!’ con 8.772 membri. La palma per il nome più lungo va a ’Benito Mussolini, il Duce... un uomo che ha fatto grande l’Italia 1883-1945’ che conta 3.689 iscritti. Il gruppo ’Fascisti e fascismo’ si ferma invece a 2.285 adepti. L’elenco è sterminato. Tra i gruppi social più curiosi ci sono ’Fascisti Italiani non c’è più tempo dobbiamo ritornare’ (49 componenti) e ’Fascisti non per piacere ma per dovere’ (159 iscritti). Decisamente ’esclusivi’ sono i gruppi ’Per soli veri fascisti’ (8 iscritti) e ’I veri fascisti’ (4 componenti). Gli Artisti fascisti sono invece 43. Mentre i ’Golfisti fascisti’ (intesi come militanti fascisti possessori dell’auto Golf - sì, esistono anche loro) sono 13. Il più piccolo è il gruppo ’Fascismo è vita’ che ha un solo componente.
Alla ricerca delle parole ’nazismo’, ’nazisti’, ’SS’ e ’camicie nere’ Facebook non restituisce invece pagine apologetiche o degne di nota. Mentre digitando ’Adolf Hitler’ si trova solo il gruppo ’Adolf Hitler capo del mio governo’ che ha soltanto 10 membri. Il motivo è presto detto: Facebook ha rimosso e/o oscurato le pagine e i gruppi che inneggiavano al nazismo. Aspettate però a gioire. Il social l’ha fatto solo dopo avere ricevuto moltissime proteste. E c’è chi ha imparato ad aggirare i divieti. Sulla pagina dell’Associazione culturale Thule Italia, seguita da 10.000 persone, quasi ogni giorno appare la foto di un soldato nazista ma senza alcun testo di accompagnamento. Così mentre i sostenitori mandano cuori e scrivono ’bellissimo’, l’associazione è formalmente salva. Sta facendo ’ricostruzione storica’ non apologia. Anche per questo è difficile dire quanto sia vasta la presenza nazi-fascista sui social. Ma basta sommare i nostalgici iscritti ai gruppi o alle pagine nominate in questo articolo per superare il milione di persone. E abbiamo solo scalfito la superficie. Per fermare l’apologia fascista sui social, Emanuele Fiano ha presentato una proposta di legge. Ma per ora è ancora tutto in alto mare.
* Avvenire, domenica 20 agosto 2017 (ripresa parziale - senza note e immagini).
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
"Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere"(M. Serres, Distacco, 1986):
Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 138-189 (capp. II e III):
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTA’?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTA’: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
In difesa dei giusti, contro lo sterminio
di Guido Viale *
Coloro che dalle coste della Libia si imbarcano su un gommone o una carretta del mare sono esseri umani in fuga da un paese dove per mesi o anni sono stati imprigionati in condizioni disumane, violati, comprati e venduti, torturati per estorcere riscatti dalle loro famiglie, aggrediti da scabbia e malattie; e dove hanno rischiato fino all’ultimo istante di venir uccisi.
Molti di loro non hanno mai visto il mare e non hanno idea di che cosa li aspetti, ma sanno benissimo che in quel viaggio stanno rischiando ancora una volta la vita. Chi fugge da un paese del genere avrebbe diritto alla protezione internazionale garantita dalla convenzione di Ginevra, ma solo se è “cittadino” di quel paese. Quei profughi non lo sono; sono arrivati lì da altre terre. Ma fermarli in mare e riportarli in Libia è un vero e proprio respingimento (refoulement, proibito dalla convenzione di Ginevra) di persone perseguitate, anche se materialmente a farlo è la Guardia costiera libica.
Una volta riportati in Libia verranno di nuovo imprigionati in una delle galere da cui sono appena usciti, subiranno le stesse torture, gli stessi ricatti, le stesse violenze, le stesse rapine a cui avevano appena cercato di sfuggire, fino a che non riusciranno a riprendere la via del mare. Alle Ong che cercano di sottrarre quei profughi a un simile destino di sofferenza e morte andrebbe riconosciuto il titolo di “Giusti” come si è fatto per coloro che ai tempi del nazismo si sono adoperati per salvare degli ebrei dallo sterminio.
Invece, ora come allora, vengono trattati come criminali: dai Governi, da molte forze politiche, dalla magistratura, dai media e da una parte crescente dell’opinione pubblica (i social!); sempre più spesso con un linguaggio che tratta le persone salvate e da salvare come ingombri, intrusi, parassiti e invasori da buttare a mare. Non ci si rende più conto che sono esseri umani: disumanizzare le persone come fossero cose o pidocchi è un percorso verso il razzismo e le sue conseguenze più spietate. Come quello che ha preceduto lo sterminio nazista.
Salvataggio in mare foto di Massimo Sestini/Polaris Nessuno prova a mettersi nei panni di queste persone in fuga, per le quali gli scafisti che li sfruttano in modo cinico e feroce sono speranza di salvezza, l’ultima risorsa per sottrarsi a violenze e soprusi indicibili. La lotta agli scafisti indetta dal governo italiano e dall’Unione Europea è in realtà una guerra camuffata contro i profughi, contro degli esseri umani braccati. Ed è una guerra che moltiplica il numero e i guadagni di scafisti, autorità libiche corrotte e terroristi: unica alternativa ai canali di immigrazione legale che l’Europa ha chiuso fingendo di proteggere i propri cittadini.
Da tempo le imbarcazioni su cui vengono fatti salire i profughi non sono più in grado di raggiungere l’Italia: sono destinate ad affondare con il loro carico. Ma gli scafisti certo non se ne preoccupano: il viaggio è già stato pagato, e se il “carico” viene riportato in Libia, prima o dopo verrà pagato una seconda e una terza volta. In queste condizioni, non c’è bisogno che un gommone si sgonfi o che una carretta imbarchi acqua per renderne obbligatorio il salvataggio, anche in acque libiche: quegli esseri umani violati e derubati sono naufraghi fin dal momento in cui salpano e, se non si vuole farli annegare, vanno salvati appena possibile.
Gran parte di quei salvataggi è affidata alle Ong, perché le navi di Frontex e della marina italiana restano nelle retrovie per evitare di dover intervenire in base alla legge del mare; ma gli esseri umani che vengono raccolti in mare da alcune navi delle Ong devono essere trasbordati al più presto su un mezzo più capiente, più sicuro e più veloce; altrimenti le navi che eseguono il soccorso rischiano di affondare per eccesso di carico, oppure non riescono a raccogliere tutte le persone che sono in mare o, ancora, impiegherebbero giorni e giorni per raggiungere un porto, lasciando scoperto il campo di intervento.
Vietare i trasbordi è un delitto come lo è ingiungere alle Ong di imbarcare agenti armati: farlo impedirebbe alle organizzazioni impegnate in interventi in zone di guerra di respingere pretese analoghe delle parti in conflitto, facendo venir meno la neutralità che permette loro di operare. Né le Ong possono occuparsi delle barche abbandonate, soprattutto in presenza di uomini armati fino ai denti venuti a riprendersele. Solo i mezzi militari di Frontex potrebbero farlo: distruggendo altrettante speranze di chi aspetta ancora di imbarcarsi.
I problemi continuano quando queste persone vengono sbarcate: l’Unione europea appoggia la guerra ai profughi, ma poi se ne lava le mani. Sono problemi dell’Italia; la “selezione” tra sommersi e salvati se la veda lei... I rimpatri, oltre che crudeli e spesso illegali, sono per lo più infattibili e molto costosi. Così, dopo la selezione, quell’umanità dolente si accumula in Italia, divisa tra clandestinità, lavoro nero, prostituzione e criminalità: quanto basta a mettere ko la vita politica e sociale di tutto paese.
Ma cercare di fermare i profughi ai confini settentrionali o a quelli meridionali della Libia accresce solo il numero dei morti. Dobbiamo guardare in avanti, accogliere in tutta Europa come fratelli coloro che cercano da lei la loro salvezza; adoperarci per creare un grande movimento europeo che lavori e lotti per riportare la pace nei loro paesi (non lo faranno certo i governi impegnati in quelle guerre) e perché i profughi che sono tra noi possano farsi promotori della bonifica ambientale e sociale delle loro terre (non lo faranno certo le multinazionali impegnate nel loro saccheggio). L’alternativa è una notte buia che l’Europa ha già conosciuto e in cui sta per ricadere
*Comune-info, 12 agosto 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA LEZIONE DI NELSON MANDELA: GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LA LUCE, LA TERRA, E LA LINEA DELLA BELLEZZA. AL DI LA’ DEL NARCISISMO E DELLA FASCINAZIONE MORTALE DELLO SPECCHIO ...*
L’occhio è visionario
di Maria Luisa Ghianda *
“Il nostro occhio è portato a vedere le cose e non ciò che le rende visibili, vede oggetti illuminati dalla luce ma non la luce che li illumina, né il tono delle ombre che avvolgono la loro superficie, né quello dei riflessi che rimbalzano su di esse; vede che l’erba è verde, le ciliegie sono rosse e il cielo è azzurro, ma non isola il fenomeno cromatico dalla cosa in cui si manifesta, vede cioè cose colorate e non il colore delle cose.”
Con queste parole Giuseppe Di Napoli ci introduce al suo studio: “Nell’occhio del pittore. La visione svelata dall’arte” stabilendo fin da subito che l’uomo comune non guarda il mondo alla stessa maniera del pittore.
Nonostante l’evoluzione della specie umana, il nostro occhio, infatti, guarda ancora come faceva ai primordi, selezionando rapidamente gli elementi che sono utili per la sopravvivenza (distinguere in fretta le cose nocive o pericolose da quelle innocue; quelle velenose da quelle commestibili; i predatori dalle prede etc.) lasciando in secondo piano tutto il resto. I pittori, invece, con il loro “sguardo straniero”, tendono ad isolare i dettagli, a cogliere i colpi di luce su un oggetto, su un volto, o su paesaggio, si occupano delle ombre (sarà Delacroix il primo a scoprire che le ombre sono colorate e quelle da lui colte nei suoi “Diari” sono strepitose) ma soprattutto indagano la forma e sono maestri nel metterla in relazione con il suo intorno. Già, perché il pittore, anche se dipinge scene verosimili, non “riproduce” mai in modo pedissequo il vero visibile, anzi, per dirla tutta, non lo riproduce affatto, almeno non secondo l’assioma di Paul Klee, che recita: “L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”. Ecco dunque in cosa consiste il lavoro del pittore, guardare il mondo per rendere visibile ciò che esiste ma che non cade necessariamente sotto il senso della vista; e se invece l’oggetto da lui selezionato e indagato risultasse già visibile, egli ce lo mostra in un modo in cui non avremmo mai saputo vederlo. Lo studio di Giuseppe Di Napoli si occupa proprio di questo: “portare il lettore a guardare le cose con gli occhi dei pittori”. E così l’avventura dello sguardo ha inizio.
Che la rappresentazione della realtà offerta dalla pittura occidentale, soprattutto dopo la messa a punto del sistema prospettico, sia illusoria, concettualistica e dunque per nulla simile al vero visibile è un dato acclarato. Non si deve infatti dimenticare che la prospettiva centrale piana come sistema di ‘messa in scena’ del reale, si fonda su dei paradossi che ne stigmatizzano l’intellettualismo: a) innanzi tutto la realtà è supposta immobile (cosa non veridica, perché attorno a noi e sotto i nostri piedi tutto si muove, la terra gira su se stessa e ruota attorno al sole); b) in secundis il pittore fa conto che la scena da lui osservata e che vuole riprodurre sia immersa nel vuoto, in una sorta di camera pneumatica ben lontana dalla realtà atmosferica che ci circonda; c) egli poi guarda il mondo stando perfettamente immobile, quasi senza respirare perché persino il più impercettibile dei movimenti disequilibrerebbe il meccanismo-quadro; d) non soltanto egli guarda il mondo stando immobile, ma lo osserva addirittura con un occhio solo (visione monoculare).
Nulla dunque di più dissimile dall’osservazione della realtà che ci circonda e che caratterizza la nostra esperienza visiva quotidiana. La prospettiva, questa tecnica messa a punto nel Rinascimento, consente al pittore di osservare la realtà nel modo in cui egli desidera e vuole, un modo che non è per nulla ‘realistico’, ma è anzi frutto di una raffinata costruzione intellettuale.
Il saggio di Di Napoli prosegue ragionando sui confini dell’immagine pittorica, che sono costituiti dai limiti oggettivi della tavola, della tela o della parete su cui essa è dipinta e affronta il problema dell’inquadratura (l’origine etimologica di questo termine, tra l’altro, risale al XIX secolo e significa proprio ‘collocare nel quadro’) e disquisisce sul ruolo della parola nella pittura, ovvero sul titolo delle opere, la cui esigenza ha una nascita piuttosto recente, in quanto comincia ad essere ritenuto indispensabile solo a partire dalla seconda metà del secolo scorso, non escluso il paradosso dell’incongruenza fra titolo e immagine dipinta operato da René Magritte ne “L’uso della pipa”, o quello provocatorio dei ready made di Marcel Duchamp.
Proseguendo nella lettura del libro si incontrano poi sapienti disamine di particolari opere d’arte in cui lo sguardo erra (nel duplice senso di vagare e di sbagliare), come ad esempio quella dedicata alla tela di Velázquez del 1657 “Las hilanderaso Il mito di Aracne”. Qui l’autore lungamente si sofferma a proporre le molteplici possibilità di lettura dell’opera, in quella che lui stesso definisce “visione stratificata” offerta dal Maestro spagnolo che in questo, come in molti altri suoi quadri, “mette in scena un vertiginoso slittamento di piani interpretativi”.
Chi poi fosse convinto che le prime rappresentazioni pittoriche di oggetti in movimento siano ascrivibili al Futurismo, non ha fatto i conti con Keplero, con Descartes e con Velázquez, naturalmente. I primi studi del matematico e astronomo tedesco sui processi della visione oculare datano infatti al 1604 fornendo a Descartes preziosi elementi per perfezionare la propria ricerca in merito. Che Velázquez conoscesse o meno le teorie dei due scienziati poco importa, visto che ne ha comunque messo in pratica gli esiti. Lo scopriamonel guardare il dettaglio ingrandito delle “hilanderas”, in cui si vede chiaramente che la ruota dell’arcolaio sta girando.
“Eppur si muove”, verrebbe da esclamare; nonostante non si tratti del nostro pianeta, il curioso effetto visivo desta in noi una grande sorpresa, perché siamo perfettamente coscienti che si tratta di un’immagine bidimensionale e dunque giocoforza statica essendo solo una superficie dipinta.
Nel suo studio, Di Napoli sfata in seguito un altro mito: non spetta infatti ai Realisti francesi dell’Ottocento, Gustave Courbet in testa, poi emulati dai più famosi Impressionisti, il primato della pittura en plein air, esso tocca invece a Velázquez, che lo segnò ben due secoli prima (e con le oggettive difficoltà del non avere a disosizione il colore a tubetti- inventato solo nell’Ottocento - ma le scomode vesciche di bue in cui era prima contenuto e che ne rendevano arduo e rischioso, se non addirittura impossibile, il trasporto fuori dall’atelier).Questo primato di dipingere all’aria aperta “il pittore dei pittori”, come ebbe a definirlo Edouard Manet, lo segnò a Roma nelle due splendide tele il cui soggetto principale non è quello enunciato dal titolo, “L’entrata della grotta a Villa Medici” e “Il padiglione di Arianna nel giardino di Villa Medici”, bensì il vibrare della luce su pareti bianche incorniciate da una tremolante vegetazione che lascia dardeggiare tra le sue fronde i raggi del sole.
Non si tratta di semplici paesaggi, questi dipinti, che sono di una modernità sconcertante, costituiscono invece una vera e propria “lezione di pittura pura”. Si deve intendere per pittura pura la pittura in quanto tale, che esiste indipendentemente dalla scena che raffigura, una pittura che non è riproduzione-duplicazione del reale, ma viene a costituire una nuova realtà, narrata solo nella pittura medesima, che per il suo tramite si fa verità. Si pensi ad esempio al trompe l’oeil bramantesco in Santa Maria presso San Satiro, a Milano, un alto saggio di “pittura pura”, che, non imitando alcuna realtà ma creandone una nuova la reifica solo in virtù della materia e della forma con cui è dipinta. Essa è artificio ma è anche artefatto, arte factus, nel suo significato primario di fatto ad arte. O ancora si pensi ai quadri di Malevic’ e a tutta la Pittura Concreta cui essi hanno dato il là, che porta ad affermare che il vero contenuto figurativo della pittura risiede nell’atto stesso del dipingere.
È soprattutto lo sguardo del pittore,e dopo di essoquello dell’osservatore, a fare di un quadro (di una superficie coperta in fin dei conti soltanto di macchie colorate) un’opera d’arte. “I quadri li fanno coloro che li guardano” ha affermato Marcel Duchamp, e quindi dapprima il pittore e poi il suo pubblico.
È ancora un’opera di Velázquez, la sua più nota, “Las Meniñas”, a confermare questa verità. In essa il Maestro moltiplica gli spunti visivi, invitando così lo sguardo dell’osservatore a viaggiare al suo interno, declinando “punti di vista collocati in differenti ambiti spazio temporali: sguardi contigui ma cronologicamente distanti”. Anche qui il pittore spagnolo ci propone, come spesso accade nelle sue opere, immagini dentro l’immagine, “aporie percettive della stessa visione”, inducendocosì lo sguardo dell’osservatore a peregrinare all’interno del quadro, come farebbe se guardasse il mondo reale, sollecitato dalla sua multiformità e non come se stesse osservando una superficie, immobile per definizione, ricopertadi strati di colore. Come già ne“Las hilanderas”, non è soltanto la ruota dell’arcolaio a muoversi ma è soprattutto l’occhio dell’osservatore che si muove all’interno della scena, sollecitato dall’artista a “distinguere la veridicità della realtà che l’immagine riproduce dalla verità della pittura”.
Nel dipingere, tutti i pittori, Velázquez compreso, mettono poi in campo un “duplice sguardo”, che, per il solo effetto della visione, fa sì che quando si guarda il dipinto damolto vicino esso appaia tal quale è, ovvero una superficie ricoperta di materia colorata, fatta di rapidi tocchi di pennello, di macchie, di puntini, di tratti o di grumi, ma se visto da lontano svela dettagli precisi e minuziosamente definiti, come, ad esempio, il riverbero della luce su una superficie metallica, magari quella di un’armatura; la lucentezza della seta; la morbidezza di un velluto; la leggerezza di un tulle; lo scintillio dell’oro, o la foschia di un’ombra, etc. Questa peculiarità dell’opera dipinta induce anche l’osservatore ad esercitare la stessa duplicità di sguardo, avvicinandolo e allontanandolo dalla superficie dipinta, come se andasse alla ricerca della differenza che esiste tra la verità offerta da ciò che vede dipinto e la verità di ciò che vedein natura. “Perché il mistero della pittura non è là dove lo cerchiamo, ma nei nostri occhi che lo indagano”, ci conferma Di Napoli.
Sono molte le pagine che l’autore dedica poi alla pittura di paesaggio e al tipo di sguardo di cui essa necessita per essere percepita non esclusivamente come realtà fenomenica dipinta ma anche, e forse soprattutto, come visione interiorizzata, come espressione di uno stato d’animo proiettato sul luogo riprodotto, sia da colui che lo dipinge, che da colui che lo guarda dipinto. Si tratta di pagine liriche e non soltanto perché alla poesia fanno diretto riferimento, soprattutto a Petrarca, la cui lettera, datata 1336, dove racconta la sua ascesa al Monte Ventoso, segna la data di nascita della visione/descrizione del paesaggio, ma per gli orizzonti, non solo metaforici, che ci dischiude portandoci per mano a scoprire la pittura di paesaggio cinese e la sua tradizione millenaria. Ci narra di quei paesaggi osservati da molto lontano e da un punto di vista molto elevato e riprodotti con l’assonometria cavaliera e non già con la prospettiva centrale piana diffusa in Occidente, costruiti quindi con linee parallele sovrapposte, che consentono all’osservatore di “percepire la lontananza come una dimensione psichica e spirituale piuttosto che come una condizione ottica”.
C’è un artista occidentale che costruisce i propri quadri facendo preferenzialmente ricorso a fasce cromatiche parallele tendenti all’infinito, quasi alla stregua della pittura orientale (pur senza conoscerla ma per una sorta di “consonanza percettiva e spirituale”), si tratta del pittore romantico tedesco Caspar David Friedrich. Rinunciando alla costruzione prospettica, che obbligherebbe l’osservatore ad assumere l’unicità del punto di vista del pittore, egli lascia invece che l’occhio di questi sia libero di fluttuare all’interno del quadro inducendolo a ricercavi non soltanto ciò che vede davanti a sé bensì a mettere in moto anche il proprio sguardo interiore.
“Chiudi il tuo occhio fisico - con queste parole Friedrich esorta il pittore - così da vedere l’immagine principalmente con l’occhio dello spirito. Poi porta alla luce quanto hai visto nell’oscurità, affinché si rifletta sugli altri, dall’interno verso l’esterno.”
Tale invito alla bifocalità costituisce la cifra poetica di questo straordinario artista,che nelle sue opere inserisce assai di frequente figure di schiena (sul tema delle Figure di schiena nell’arte europea dal XIV al XVII secolo si legga anche il saggio di Luigi Grazioli). I personaggi guardanti di Friedrich (le Rückenfiguren, le figure viste da dietro), che guardano al di là (oltre) la scena dipinta, in cui essi stessi sono inseriti, suggerendo un altro punto di vista del tutto differente da quello dell’osservatore esterno, costituiscono l’espediente visivo messo in campo dal pittore per creare un collegamento tra ciò che ha dipinto e il riguardante, offrendogli la possibilità di ‘entrare’ metaforicamente nel quadro, assumendone non soltanto la profondità spaziale ma facendo propria anche quella spirituale da esso evocata.
Scrive Di Napoli: “La superficie della tela dipinta viene quindi vissuta come un’interfaccia tra interno ed esterno, tra l’infinito dello spazio esterno in continuità con l’infinito dello spazio interiore” a sottolineare la solitudine umana, comeaccade nel famosissimo quadro: “Monaco in riva al mare”. Lo sguardo delle figure di schiena di Friedrich, che guardano verso l’al di là del quadro costituisce una traslazione semantica dall’interno all’interiore, “dove lo sguardo interiore del soggetto vedente ha il suo corrispettivo figurato nello sguardo interno del quadro”.
Keplero ritorna nel saggio di Di Napoli, associato ad Apollonio di Perga e al suo famoso trattato sulle Coniche, a proposito della costruzione di molti paesaggi del pittore tedesco che si reggono su “una struttura compositiva basata sui due rami contrapposti della stessa iperbole, uno che delimita la forma del cielo, l’altro quella della terra”. Queste due realtà, contigue ma separate, alludono simbolicamente ai due ambiti della conoscenza umana: la terra, ovvero la prossimità, è riferibile alla conoscenza sensoriale; mentre il cielo, ovvero la lontananza, rimanda invece alle esperienze estetiche e mistiche e quindi a una conoscenza di tipo spirituale. Quest’impiego costruttivo dell’iperbole nei quadri di Friedrich risulta il modo più efficace per tradurre visivamente la sua poetica della “bifocalità”, ovvero della convivenza tra uno sguardo fisico ed uno sovrannaturale, facendo convivere nel luogo della sua pittura l’esperienza terrena con quella che la trascende.
Un frammento di infinito è poi il titolo evocativo che l’autore assegna al paragrafo dedicato alle opere di Tullio Pericoli, unico artista vivente da lui citato nel libro. Lo definisce “pittore terrestre”, perché nei suoi paesaggi è la terra l’assoluta protagonista (il cielo vi è eliso); la terra che oggi l’artista marchigiano guarda dall’alto ma che fino a qualche tempo fa osservava dal sottosuolo, in quelle Geologie di cui descriveva le stratificazioni: “sezioni di rocce effusive, frammenti di faglia e movimento del magma vulcanico ”.
Lo sguardo dall’alto di Tullio Pericoli non fa che confermare che “il vero medium della visione è la distanza: si vede solo ciò che non è contiguo all’occhio”. Questo moderno maestro del paesaggio, nel suo disegnare crittogrammi che svelano le fenditure del suolo o ancora i dorsali collinari, oppure le trame cromatiche generate dal susseguirsi degli appezzamenti dei coltivi, coglie e ci mostra frammenti di infinito nel finito,e nel mentre induce emozioni in chi li guarda, rende omaggio alla bellezza, perché “L’arte del pittore è l’arte di vedere il bello” (Gaston Bachelard).
Dopo aver messo a confronto i differenti procedimenti costruttivi di quadri che hanno come identico soggetto il Canal Grande di Venezia, opera rispettivamente del Canaletto (la cui visione ci sembra realistica ma che, in realtà, è scientemente e scientificamente composta in atelier) e da Turner (che ci appare vago nelle sue dissolvenze e sfocature ma che invece è prossimo al processo di visione umana), Di Napoli dedica pagine appassionate alla disamina dell’opera del pittore romantico inglese,così stimato da John Ruskin da aver elaborato su di lui una monumentale trattazione critica, cui ha atteso per diciassette anni.
"Nell’occhio del pittore. La visione svelata dall’arte"...
Il saggio si conclude con un omaggio a Cézanne, che “più di ogni altro ha dipinto la visione del pittore: cosa ben diversa dal dipingere ciò che il pittore vede o ha visto.”
A proposito di Cézanne, vorrei segnalare uno dei più bei libri di storia dell’arte che io abbia mai letto, che ne traccia una trasversale, vista con gli occhi di un talent scout ante litteram, Ambroise Vollard, vero artefice della fortuna critica di molti artisti, soprattutto tra gli Impressionisti: “Ricordi di un mercante di quadri” (Einaudi, 1978)
Su Cézanne egli vi scrive pagine incredibilmente rivelatrici della sua indole misantropa e saturnina che ben si coniuga con la sua metodica (da alcuni definita ossessiva) ricerca formale. Un altro testo che, se pure in modo ‘particolare’ trovo illuminante per capire le difficoltà incontrate dall’artista di Aixnel fare comprendere e accettare il suo lavoro creativo soprattutto all’amico d’infanzia (poi, ahimè, nemico dopo la pubblicazione del libro) Emile Zola è L’Opera.
In questo romanzo Zola sembra cogliere, purtroppo senza capirle, le ricerche di Cézanne, trasponendole nella figura del protagonista, l’artista fallito Claude Lentier, nel quale Paul finisce per riconoscersi ponendo drasticamente fine al sodalizio intellettuale ed affettivo con Emile, nato sui banchi del liceo e durato una vita. Forse oggi potremmo dire che Cézanne non ha per nulla equivocato identificandosi in Lentiere nella sua tormentosa ricerca; ricerca che Zola non poteva capire ma che si conferma evidente anche leggendo le pagine di Di Napoli: “in questo periodo Cézanne perviene ad una sorta di astrattismo cromatico anticipatore delle tendenze del Blaue Reiter, che passano da Kandinskij e Klee e arrivano fino a Mondrian”.
Dunque Cézanne era troppo moderno per il suo tempo, persino per Zola che pure era stato capace di intuire la rivoluzione impressionista, datata e databile ad ogni buon conto all’Ottocento, secolo al quale egli appartiene appieno. Cézanne, invece, nella sua intrinseca classicità è un artista assolutamente fuori dal tempo, perché è moderno e antico all’unisono, uno dei più grandi che siano mai esistiti, la cui carica rivoluzionaria è paragonabile solo a quella di Giotto.
L’opera di Cézanne ha veramente una portata innovativa sconvolgente. Scrive Di Napoli: “il pittore non si accontenta di dipingere quello che il suo occhio vede o ha già visto, ma vuole dipingere quello che potrebbe vedere portando il suo occhio a concentrare l’attenzione su ciò che della natura può diventare pittura.”
Joachim Gasquet, scrittore, poeta e critico d’arte, ma soprattutto intimo amico di Cézanne ce ne tramanda le riflessioni e le confidenze nel libro a lui dedicato, uscito appena pochi mesi dopo la sua morte. Così diceva Cézanne:
“Chiuda gli occhi, attenda, non pensi a niente. Li apra [...] che dice? Non si vede che un immenso ondeggiare colorato, no? Un’iridescenza, dei colori, una ricchezza di colori. Questo deve darci il quadro in primo luogo [...]un abisso dove l’occhio sprofonda, una sorda germinazione. Uno stato di grazia colorato. Tutti questi toni vi penetrano nel sangue, vero? Ci si sente rianimati. [...] si diventa se stessi, si diventa pittura.”
“L’occhio per vedere e per comunicare con la visione dell’artista deve a sua volta comportarsi da visionario” (Georges Salles, “Le Regard”, Parigi 1939) ed è proprio quel che ci insegna a fare lo studio di Giuseppe Di Napoli.
* DOPPIOZERO, 11.08.2017 (RIPRESA PARZIALE SENZA IMMAGINI).
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Ong. Non era ancora accaduto, nel lungo dopoguerra almeno, in Europa e nel mondo cosiddetto «civile», che la solidarietà, il salvataggio di vite umane, l’«umanità» come pratica individuale e collettiva, fossero stigmatizzati, circondati di diffidenza, scoraggiati e puniti
di Marco Revelli (il manifesto, 08.08.2017)
Negli ultimi giorni qualcosa di spaventosamente grave è accaduto, nella calura di mezza estate. Senza trovare quasi resistenza, con la forza inerte dell’apparente normalità, la dimensione dell’«inumano» è entrata nel nostro orizzonte, l’ha contaminato e occupato facendosi logica politica e linguaggio mediatico. E per questa via ha inferto un colpo mortale al nostro senso morale.
L’«inumano», è bene chiarirlo, non è la mera dimensione ferina della natura contrapposta all’acculturata condizione umana.
Non è il «mostruoso» che appare a prima vista estraneo all’uomo. Al contrario è un atteggiamento propriamente umano: l’«inumano» - come ha scritto Carlo Galli - «è piuttosto il presentarsi attuale della possibilità che l’uomo sia nulla per l’altro uomo».
Che l’Altro sia ridotto a Cosa, indifferente, sacrificabile, o semplicemente ignorabile. Che la vita dell’altro sia destituita di valore primario e ridotta a oggetto di calcolo. Ed è esattamente quanto, sotto gli occhi di tutti, hanno fatto il nostro governo - in primis il suo ministro di polizia Marco Minniti - e la maggior parte dei nostri commentatori politici, in prima pagina e a reti unificate.
Cos’è se non questo - se non, appunto, trionfo dell’inumano - la campagna di ostilità e diffidenza mossa contro le Ong, unici soggetti all’opera nel tentativo prioritario di salvare vite umane, e per questo messe sotto accusa da un’occhiuta «ragion di stato».
O la sconnessa, improvvisata, azione diplomatica e militare dispiegata nel caos libico con l’obiettivo di mobilitare ogni forza, anche le peggiori, per tentare di arrestare la fiumana disperata della nuda vita, anche a costo di consegnarla agli stupratori, ai torturatori, ai miliziani senza scrupoli che non si differenziano in nulla dagli scafisti e dai mercanti di uomini, o di respingerla a morire nel deserto.
Qui non c’è, come suggeriscono le finte anime belle dei media mainstream (e non solo, penso all’ultimo Travaglio) e dei Gabinetti governativi o d’opposizione, la volontà di ricondurre sotto la sovranità della Legge l’anarchismo incontrollato delle organizzazioni umanitarie.
Non è questo lo spirito del famigerato «Codice Minniti» imposto come condizione di operatività in violazione delle antiche, tradizionali Leggi del mare (il trasbordo) e della più genuina etica umanitaria (si pensi al rifiuto di presenze armate a bordo). O il senso dell’invio nel porto di Tripoli delle nostre navi militari.
Qui c’è la volontà, neppur tanto nascosta, di fermare il flusso, costi quel che costi. Di chiudere quei fragili «corridoi umanitari» che in qualche modo le navi di Medici senza frontiere e delle altre organizzazioni tenevano aperti. Di imporre a tutti la logica di Frontex, che non è quella della ricerca e soccorso, ma del respingimento (e il nome dice tutto).
Di fare, con gli strumenti degli Stati e dell’informazione scorretta, quanto fanno gli estremisti di destra di Defend Europe, non a caso proposti come i migliori alleati dei nuovi inquisitori. Di spostare più a sud, nella sabbia del deserto anziché nelle acque del Mare nostrum, lo spettacolo perturbante della morte di massa e il simbolo corporeo dell’Umanità sacrificata.
Non era ancora accaduto, nel lungo dopoguerra almeno, in Europa e nel mondo cosiddetto «civile», che la solidarietà, il salvataggio di vite umane, l’«umanità» come pratica individuale e collettiva, fossero stigmatizzati, circondati di diffidenza, scoraggiati e puniti.
Non si era mai sentita finora un’espressione come «estremismo umanitario», usata in senso spregiativo, come arma contundente. O la formula «crimine umanitario». E nessuno avrebbe probabilmente osato irridere a chi «ideologicamente persegue il solo scopo di salvare vite», quasi fosse al contrario encomiabile chi «pragmaticamente» sacrifica quello scopo ad altre ragioni, più o meno confessabili (un pugno di voti? un effimero consenso? il mantenimento del potere nelle proprie mani?)
A caldo, quando le prime avvisaglie della campagna politica e mediatica si erano manifestate, mi ero annotato una frase di George Steiner, scritta nel ’66. Diceva: «Noi veniamo dopo. Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach e Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz». Aggiungevo: Anche noi «veniamo dopo».
Dopo quel dopo. Noi oggi sappiamo che un uomo può aver letto Marx e Primo Levi, orecchiato Marcuse e i Francofortesi, militato nel partito che faceva dell’emancipazione dell’Umanità la propria bandiera, esserne diventato un alto dirigente, e tuttavia, in un ufficio climatizzato del proprio ministero firmare la condanna a morte per migliaia di poveri del mondo, senza fare una piega. La cosa può essere sembrata eccessiva a qualcuno. E il paragone fuori luogo. Ma non mi pento di averlo pensato e di averlo scritto.
Consapevole o meno di ciò che fa, chi si fa tramite dell’irrompere del disumano nel nostro mondo è giusto che sia consapevole della gravità di ciò che compie. Della lacerazione etica prima che politica che produce. Se l’inumano - è ancora Galli a scriverlo - «è il lacerarsi catastrofico della trama etica e logica dell’umano», allora chi a quella rottura contribuisce, quale che sia l’intenzione che lo muove, quale che sia la bandiera politica sotto cui si pone, ne deve portare, appieno, la responsabilità. Così come chi a quella lacerazione intende opporsi non può non schierarsi, e dire da che parte sta. Io sto con chi salva.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.
IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. In Parlamento (ancora!) il Partito al di sopra di tutti i partiti.
IL MESSAGGIO EVANGELICO, LA COSTITUZIONE, E IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, ATEO E DEVOTO. COME LA "SACRA FAMIGLIA" DIVENNE ZOPPA E CIECA E IL FIGLIO PRESE IL POSTO DEL PADRE DI GESU’ E DEL "PADRE NOSTRO" E DIVENNE IL SANTO "PADRINO".... CON E ACCANTO A "MAMMASANTISSIMA".
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA
L’INDICAZIONE DI NELSON MANDELA: GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Torturarli a casa loro? Io sto con Samed
di Andrea Inglese *
Certo che vorrei essere un rappresentante della classe media durante le sue due settimane ufficiali di vacanza da passare in modo spensierato e certo che vorrei mantenere lo spirito anarchico che non vuole né patria né padroni, ma le notizie che inevitabilmente leggo sulle nuove strategie messe in opera dallo Stato italiano con il solidale sostegno dell’Unione Europea per risolvere il problema del flusso di migranti dalla Libia all’Italia mi procurano un voltastomaco ben superiore rispetto a tutti i disagi della canicola epocale.
Il problema dell’identità nazionale è che anche se tu vuoi essere un cittadino del mondo, libero da vincoli e pregiudizi, ampiamente propenso a ideali come l’internazionalismo dei poveri cristi, che una volta si chiamava « proletario », anche se tu sei insomma al di sopra delle bassezze del tuo paese, della sua classe politica, o più precisamente del suo governo, che comunque di riffa o di raffa è a sua volta una qualche espressione più o meno limpida di una maggioranza elettorale italiana, in un paese dove le elezioni - quando ci sono - sono libere, ossia senza alibi totalitari, ebbene nonostante le velleità cosmopolite e transnazionali quando il tuo paese d’origine e di cittadinanza, quello che ti ha stampigliato il passaporto per intenderci, si comporta in modo vergognoso e vile, non è che tu riesci a fluttuare indenne sopra quella vergogna e quella viltà. Vorresti incazzarti equanimemente per tutte le nefandezze che paesi, governi, con più o meno grande sostegno delle loro popolazioni, commettono in giro per il pianeta, ma alla fine nessun paese ti farà incazzare come il tuo, nessuna nefandezza ti imbratterà lo spirito, da cima a fondo, come quelle commesse, in nome tuo - anche se avessi bruciato in un rito perfettamente anarchico la cartellina elettorale - dal paese che ti fornisce la cittadinanza.
Quello che ho deciso di scrivere qui, in ogni caso, non vuole essere la semplice espressione di un’indignazione rivolta a persone che potrebbero essere in sintonia con essa, ma un tentativo di raccogliere alcuni elementi che la provocano per memorizzarli, per fissarli con sufficiente chiarezza al di fuori delle nera notte dell’indignazione ritualizzata.
Il punto d’avvio della riflessione potrebbe essere lo sforzo del governo italiano per ridurre l’afflusso di migranti sulle coste siciliane, mettendo in riga, da un lato, il lavoro delle ONG che operano per soccorrere le imbarcazioni provenienti soprattutto dalla Libia, e contribuendo, dall’altro, a rafforzare i dispositivi di controllo libici sulle proprie coste.
Diverse sono state le letture critiche di questa azione governativa. Penso agli interventi di Alessandro Dal Lago e Luigi Manconi su “il manifesto”, alla lettera di Medici senza Frontiere al ministro Minniti, all’editoriale apparso ieri su “Repubblica” di Roberto Saviano, che si schiera con Medici senza Frontiere e chiarisce ulteriormente le ragioni che hanno spinto questa (e altre Ong) a non sottoscrivere il codice di comportamento che l’Italia vorrebbe imporre alle Organizzazioni umanitarie attive nel Mediterraneo.
Prima di occuparsi della disputa tra certe Ong e lo Stato italiano, bisognerebbe innanzitutto allargare un po’ lo scenario. L’Italia, all’interno di quella strana compagine politico-amministrativa che si chiama Europa, soffre di una posizione particolarmente sfavorita: ossia per la sua posizione geografica, così come accade alla Grecia, si trova a gestire frontalmente il grande flusso dei migranti proveniente dal continente africano e da alcune zone di quello asiatico, flusso di cui la Libia è il paese collettore principale; un paese senza struttura statale, in mano non solo a grandi fazioni politiche, ma a bande armate che agiscono senza controllo sul territorio. (Questa situazione di caos politico è poi la diretta conseguenza della guerra alla Libia di Gheddafi, inaugurata dalla Francia e poi sostenuta da un’ampia coalizione, che una volta detronizzato il dittatore è stata in grado di favorire un processo di ricostituzione politica e sociale del paese.)
In questa situazione l’Italia ha grandemente ragione di chiedere che il peso della cosiddetta “accoglienza” non ricada esclusivamente su di lei, come previsto da un accordo europeo quale la Convenzione di Dublino. Ed è vergognoso che tutta la retorica della solidarietà tra Stati membri costantemente rispolverata dai burocrati della Commissione e del Parlamento Europei non sia minimamente visibile non solo nella volontà di modificare questo trattato, ma in quella d’imporre effettivamente una più equa e intelligente distribuzione dei migranti arrivati in Italia. Di fronte a questa difficoltà, la scelta dell’attuale governo italiano è stata quella di rinunciare a fare pressione sui più forti, l’Europa e gli Stati membri in essa più influenti politicamente, come la Francia e la Germania, per scaricare tutta la sua legittima frustrazione sui più deboli, ossia le ONG, additate come complici dei trafficanti di uomini. In questo modo, non solo (in maniera vile) si colpiva un soggetto più debole sul piano istituzionale, ma anche si spostava il problema.
Invece di preoccuparsi della mancata accoglienza dei migranti in arrivo sul continente, e di quella quota in essi di rifugiati, ossia di persone a cui formalmente le istituzioni europee e nazionali di molti Stati dovrebbero garantire secondo i loro principi giuridici e politici non solo una forma immediata di ospitalità, ma anche di protezione e sostegno attivo, ebbene invece di dibattere di questa debolezza politica dell’Europea e della contraddizione che essa fa nascere nei confronti dei suoi principi fondatori, l’attenzione pubblica può finalmente considerare coloro che salvano i migranti dalla morte in mare come una fonte importante del problema. Questa operazione propagandistica, talmente grossolana per la sua spiccata tendenziosità, dovrebbe ragionevolmente essere destinata a un immediato fallimento. La maggior parte dei media, invece, accodandosi a una campagna di tipo “diffamatorio” già in opera da alcuni mesi, è riuscita in qualche modo a rendere plausibile un tale camuffamento del problema.
Si può certo cominciare ad inoltrarsi verso astratte ipotesi di “favoreggiamento dell’emigrazione clandestina” o di occulte connessioni tra ONG e scafisti, ma rimane un fatto incontrovertibile: i migranti che cercano di raggiungere l’Europa per via mare sono costantemente esposti a un pericolo mortale e delle cifre spesso ricordate dalla stampa o dalle stesse istituzioni internazionali ci ricordano quante persone innocenti, uomini, donne e bambini sono già morte annegate nel Mediterraneo. Il problema, quindi, numero 1, il più urgente e fondamentale, che nessuna propaganda italiana, appoggiata dall’Europa, potrà far scomparire è quello delle migliaia di persone costantemente in pericolo di vita alle frontiere dell’Europa. -Tutti sanno, in fondo, che l’esistenza non solo politico-amministrativa, ma anche culturale dell’Europa, non può davvero sopravvivere a un tale diniego esplicito e definitivo di umanità, quale sarebbe la trasformazione di queste morti alle proprie frontiere in un non problema. Tutti i valori che stanno alle basi dei suoi ordinamenti nazionali e transnazionali diventerebbero carta straccia. Non si avrebbe più alcun modo per distinguere il significato di termini quali “democrazia” e “diritto” da altri termini quali “fascismo” e “razzismo”, per esempio. I fascisti e i razzisti sono, infatti, coloro che assegnano a un gruppo irragionevolmente ristretto i requisiti dell’essere umano. Tutto ciò che sta al di fuori del loro riduttivo e limitato noi non è semplicemente degno di quella empatia elementare, che costituisce la condizione stessa per ogni reciprocità di tipo etico. La morte, in condizione disumane, di uomini come noi è un problema, solo per chi riconosce questa reciprocità di base. Qui nessuno può discettare sulle “condizioni disumane” che determinano e caratterizzano queste morti, si può al massimo, come i razzisti fanno - che siano italiani oppure no - discettare sul fatto che dei nigeriani, degli eritrei, dei ghaniani siano davvero altrettanto uomini quanto noi europei di carnagione pallida.
(In altri termini, i Salvini e tutti i suoi seguaci, si limitano a dire: “ma se questi non italiani muoiono al largo delle nostre coste, non è un problema nostro”. Le ONG come Medici senza Frontiere forniscono la risposta esattamente opposta. Cito dalla loro lettera al ministro Minniti: “Abbiamo sempre sottolineato che l’attività di ricerca e soccorso (SAR) in mare ha il solo obiettivo di salvare vite in pericolo e che la responsabilità di organizzare e condurre questa attività risiede innanzitutto nelle istituzioni statali. -L’impegno di MSF e delle altre organizzazioni umanitarie nelle attività SAR mira anzitutto a colmare un vuoto di responsabilità lasciato dai governi (...)”. Le ONG come MSF, sovvenzionate anche da privati cittadini come il sottoscritto, risponde infatti: il problema di salvare degli esseri umani è nostro, anche se sono gli Stati nazionali che se ne dovrebbero occupare. Se non c’è un bagnino patentato per trarre fuori dall’acqua un povero cristo che sta affogando, lo farò io che sono quello più prossimo alla possibile vittima.)
Il problema, quindi, non può davvero essere negato, neppure da un governo vile e subordinato come il nostro, e neppure da una fredda e opportunista macchina istituzionale come quella europea. Si può al massimo camuffarlo, spostarlo, trovare dei falsi e facili nemici (le ONG) oppure degli inaspettati (e meno facili) alleati, ossia i signori libici della guerra. Su questo secondo fronte, delle alleanze, il governo italiano è riuscito ad essere non solo velleitario, come già l’Unione Europea e la Francia, ma anche grottesco. Dopo aver, infatti, assicurato che accordi erano stati presi per una fruttuosa collaborazione italo-libica, uno dei presunti alleati ha fatto sapere che avrebbe volentieri cannoneggiato navi italiane in acque libiche. Secondo la stampa, gli italiani avrebbero trovato una controparte collaborativa in una sola delle fazioni che detengono il potere in Libia, quella capeggiata dal “presidente” Fayez el-Sarraj, suscitando la reazione ostile di un’altra delle fazioni, quella del “maresciallo” Haftar. Sembrerebbe, infatti, che la Libia presenti attualmente poche caratteristiche che la possano candidare a un paese in grado di ricevere soldi dall’Europa e appoggi militari dall’Italia, affinché gli uni e gli altri siano messi a frutto efficacemente per limitare il traffico di migranti verso l’Europa, e tutto questo nel rispetto dei diritti umani.
Il problema un po’ preso sottogamba in questa circostanza è il fatto che la Libia non è ancora attualmente uscita da una situazione di guerra civile, ma anche questa formula è forse riduttiva se applicata al caos politico e sociale presente nel paese. Un esperto dei servizi segreti francesi, Alain Rodier, ne parla in una recente intervista: “Il maresciallo Haftar ha tutte le carte militari in mano dal momento che il potere è disperso tra le milizie di Tripoli, di Misurata a nord-est del paese, i Tuareg e i Toubou al sud, gli Amazigh alla frontiera tunisina e tutti i gruppi che dipendono sia da Al-Qaida nel Maghreb Islamico sia da Daech. E questo senza contare che questo elenco e semplicistico perché la Libia unificata non esiste più e ogni porzione di terreno è diretto dal signore locale della guerra che si allea con l’uno o l’altro secondo l’evolversi della situazione.”
Anche su questo punto la propaganda del governo italiana risulta grossolana. Ciò che l’Europa ricca, pacifica, solida nelle istituzioni e prodiga di buoni propositi non riesce a fare, per gestire il flusso di migranti in arrivo, lo saprà fare per gestire il flusso in partenza, uno Stato-collassato in mano a fazioni in lotta tra loro, che governano grazie al semplice potere delle armi. Ci prendono davvero per imbecilli o per analfabeti di ritorno che non hanno mai letto un giornale dai tempi degli allori di Gheddafi.
Ma l’aspetto più grave è ancora un altro, che è rimasto in ombra anche in alcune reazioni critiche nei confronti del governo. Lo ricorda la già citata lettera di Medici senza Frontiere: “La Libia non è un posto sicuro dove riportare le persone in fuga, né dal territorio europeo né dal mare.” Qui la litote utilizzata sconfina nell’espressione quasi eufemistica. La Libia per un gran numero di migranti, un numero che resta difficile da determinare, è un luogo dell’orrore, un luogo che rievoca le più terribili e buie memorie europee, quelle dei lager e della tortura diffusa. Da questo punto di vista, non solo il governo italiano, ma anche la stampa generalista sembra soffrire di subitanee amnesie.
Ma chi può pensare in buona fede che potremo aiutare i migranti “a casa loro”, ossia in Libia? Potremmo al massimo contribuire al fatto che essi vengano vieppiù torturati in Libia, che non è quasi mai casa loro, e da torturatori che non per forza sono esclusivamente di nazionalità libica, perché le bande criminali sembrano spesso associare carnefici di nazionalità diversa.
A partire da almeno il 2015, Amnesty International aveva denunciato violenze sui migranti e rifugiati da parte di trasportatori, trafficanti e gruppi armati, ma anche da parte della guardia costiera e dei centri di detenzione libici. (Possiamo semplicemente dimenticare, per quanto sopra ricordato, che in Libia esista una separazione chiara tra criminalità, gruppi paramilitari, polizia e esercito “ufficiale”.) Ma negli anni successivi, fino alle notizie circolate nei mesi di maggio e giugno di quest’anno anche sulla stampa italiana, è a poco a poco emersa la realtà spaventosa dei “mezra”, ossia “magazzini” in cui i migranti provenienti da altri paesi dell’Africa vengono tenuti sotto sequestro per mesi e torturati per estorcere grosse somme di denaro alle famiglie rimaste nei paesi d’origine, a cui vengono inviate immagini di queste sevizie. Si è, infatti, passati dallo stadio dell’inchiesta giornalistica a quello dell’inchiesta penale, con tanto di presunti colpevoli, testimoni diretti e processi in corso.
Di queste faccende ne ho sentito parlare per la prima volta su una radio francese, dalle due autrici di un documentario del 2015 che s’intitola Voyage en barbarie e che ha cominciato a studiare il fenomeno di queste estorsioni attraverso sequestri e torture nella zona del nord-est del Sinai. In questo caso, le vittime sono soprattutto eritrei che fuggono la dittatura. Le informazioni fornite sul sito dedicato al documentario evocano le cifre di un gigantesco traffico di esseri umani. “Ad oggi, 50.000 persone sarebbero passare per il Sinai e 12.000 sarebbero morte sotto tortura. Nessun carnefice è stato arrestato.
L’Egitto e Israele hanno lasciato prosperare questo traffico in totale impunità. I campi di tortura cominciano a proliferare nel Maghreb e in tutto il Corno d’Africa. Esistono già un centinaio di ‘case’ censite in Libia e altrettante nel Sudan e nello Yemen”.
Anche in questo caso, possiamo seguire i proclami del governo (“Partenze già crollate dell’80%”), oppure guardare i fatti ormai emersi e incontrovertibili: in Libia i migranti, quale che sia la loro condizione e provenienza, rischiano di essere torturati, stuprati, uccisi, che siano minori, adulti, uomini o donne.
Non è un bel mondo, lo è sempre di meno. Abbiamo governi e istituzioni transnazionali che sono come vecchi stregoni, pronti ad agitarsi, a gridare, per esorcizzare i problemi che affliggono la tribù. Nessuno può davvero crederci. È certo che tutto ciò - fare le pulci alle Ong, proclamare cooperazioni italo-libiche - ci permette di non vedere tutto questo orrore: gli annegati e coloro che rischiano l’annegamento, gli ammazzati sotto tortura, i sopravvissuti alla tortura, quelli che rischiano la tortura. I fascisti e i razzisti dicono che non è un “loro” problema. Se c’è una battaglia di civiltà, questa passa da qui. Se c’è oggi una battaglia antifascista e antirazzista passa da qui.
Stare con Medici senza frontiere vuol dire stare per la salvezza di vite umane prima di tutto, quale sia la legge, l’umore dell’elettorato o del vicino di casa. E ci sono anche a livello quotidiano una quantità di cose che si possono fare e che vengono fatte. I fascisti e i razzisti gridano molto, e i media ne vanno pazzi e danno appena possono loro il microfono. Ma c’è un quantità di persone che lavorano più spesso silenziosamente per disfare la tela soffocante che queste persone vorrebbero creare intorno a noi, e dentro cui noi stessi finiremmo strangolati.
Mia moglie ed io quest’anno siamo diventati, in Francia, padrini di Samed, un ragazzo di diciassette anni proveniente dal Ghana. Samed tra i 15 e i 16 anni ha lasciato il suo paese, ha attraversato il Burkina Faso e il Niger per arrivare in Libia. Ha lavorato come aiuto meccanico in Libia cinque mesi. Non voleva venire in Europa, voleva andare a lavorare in Libia. Non era evidentemente cosciente della situazione in cui si trovava il paese. Non so che cosa abbia vissuto durante quei mesi. Di certo, si è deciso a partire, a tentare la fuga dalla Libia verso l’Europa. Me ne ha parlato come di un Far West. Comanda chi ha le armi. E le armi le hanno in mano quasi tutti.
Oggi Samed, in quanto minore non accompagnato, ha potuto godere di un sostegno e di una sistemazione da parte dello Sato francese. Non è un programma “privilegiato” per immigrati, è il programma che lo Stato francese destina a tutti i minori “orfani” o privi di sostegno familiare che si trovano sul suo territorio. Oltre a ciò, lui e noi possiamo godere di questa forma di ospitalità ulteriore e non istituzionale, che è l’affido a una famiglia d’accoglienza. Il parrainage si traduce in un rapporto concreto, affettivo, familiare. E Samed è diventato concretamente parte della nostra famiglia. Questo è solo un piccolo esempio di un’accoglienza cittadina, non istituzionale e nemmeno “umanitaria”, che può avere tanti volti e può esprimersi in tante e diverse occasioni. Io sto quindi con Samed, e sto con uno Stato non razzista, ossia che non distingue l’applicazione di diritti fondamentali secondo criteri di cittadinanza, e sto con le ONG che considerano che il problema di salvare delle vite umane è un loro problema, anche se è lo Stato che dovrebbe occuparsene.
* NAZIONE INDIANA, 7 agosto 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
I GRECI, LA "GLOBALIZZAZIONE" ELLENISTICA, E LA SAGGEZZA STRANIERA: LA LEZIONE DI ARNALDO MOMIGLIANO...
MOMIGLIANO
di Davide Bidussa *
Il ritorno in libreria, dopo trenta’anni di Pagine ebraiche (ora per le Edizioni di Storia e Letteratura, nel 1987 il volume era stato edito da Einaudi) la raccolta degli scritti di Arnaldo Momigliano, magistralmente “creata” (più che redazionalmente curata) da Silvia Berti, per certi aspetti è di nuovo un evento (come trenta anni fa); per altri, ha la caratteristica di un contro evento. Sono più per la seconda ipotesi, perché il modello storiografico che dà significato alla ricerca di Momigliano, corrisponde a un senso storico che oggi mi sembra latitare o procedere con circospezione.
Prima di tutto il libro.
Pagine ebraiche è la raccolta di saggi o anche di recensioni che hanno per tema la storia degli ebrei e il modo di discuterne o di scavarci intorno. Nel caso si Momigliano significa piccole “perle” - per esempio la recensione a Cecil Roth, Gli ebrei in Venezia, testo che attrae l’attenzione di Antonio Gramsci che ne scrive nei suoi Quaderni del carcere e qui riproposti a pp. 163-167. Per Momigliano si può ripetere ciò Scholem scriveva di Benjamin - come ricorda Silvia Berti: anche nell’accenno marginale, apparentemente eccentrico s’intravede un tesoro di informazioni, ma anche di visioni. “Nel minimo si rivela il massimo”.
Elemento che corrisponde a un metodo e che consiste nel guardare alle culture come macchine, come costruzione nel tempo e soprattutto come dialogo con altre culture con cui ci si misura, ma soprattutto da cui si assorbe, si riformula.
L’idea di partenza è che nessuna cultura è un mondo a sé e dunque la storia della propria cultura non è mai la storia dello sviluppo naturale, del proprio codice interno.
Un tema che nella ricerca appassionata di Momigliano è costituito dalle ricerche dedicate al tema dell’ellenismo e che significativamente raccoglie e propone in un libro dal titolo provocatorio Saggezza straniera (che Einaudi pubblica nel 1980 e poi mai più riedito). Testo dedicato al rapporto tra l’ellenismo e le altre culture antiche: ovvero di come la Grecia e la sua espansione culturale (non disgiunta da quella politico-militare) fosse recepita dalle altre culture dell’area mediterranea; ma anche il problema contrario: come la Grecia recepisse le altre. Una storia di fraintendimenti, idealizzazioni, osmosi reciproche, contrasti e fascinazioni, tipiche di quella prima grande “globalizzazione” europeo-asiatica che fu l’ellenismo.
Proviamo a uscire da quella lunga congiuntura storica.
Dice niente a noi così immersi nello “scontro di civiltà”o convinti dell’ “autonomia” - meglio del’autosufficienza - di ogni singola cultura identitaria?
E’ l’identità la riproduzione di un solo codice culturale, quello della propria appartenenza, codice impermeabile, “senza porte né finestre” e quand’anche capace di assorbire servendosi solo dei propri strumenti interni?
Non è solo un problema di ibridazione di codici culturali, ma anche di rilevanza di metodi di analisi e dunque di modi di leggere e studiare i testi.
Proviamo a riprendere in mano un testo dal titolo Studi biblici e studi classici (scritto originariamente nel 1980). E’ il testo che apre Pagine ebraiche. Otto pagine in tutto che valgono il libro.
A un certo punto scrive Momigliano: “io non ho nulla da obiettare, in linea di principio, all’attuale moltiplicazione di metodi d’analisi retorica di testi storici. Si può fare tutta l’analisi retorica che si ritiene necessaria, purché essa porti al’accertamento della verità - o all’ammissione che la verità, in un dato caso, è purtroppo fuori portata. Ma dev’essre chiaro una volta per tutte che I Giudici e Gli Atti degli Apostoli, Erodoto e Tacito sono testi storici e devono essere esaminati allo scopo di recuperare le verità del passato”.
Si può dire meglio? Forse. In ogni caso vale ripeterlo.
*
David Bidussa: Arnaldo Momigliano, "Pagine Ebraiche", Edizioni di Storia e Letteratura. 2016.
POLITICA, CONFLITTO D’INTERESSE, E ... "UNDERSTANDING MEDIA" ("GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE"). Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre...
VIRTUALE E DINTORNI...
Cosa ci racconta la rete
IL GRANDE FRATELLO E I TELEVISORI SAMSUNG?
di Francesco Bollorino ("Psychiatry on line", 4 agosto, 2017
Non sono mai stato un “complottista”, mi hanno fatto sempre sorridere le ricostruzioni strambe e spesso deliranti degli avvenimenti che circolano in rete e che purtroppo fanno proseliti, ho rischiato rotture di conoscenze per via delle “strie chimiche” e ne ho rotte sul tema dei vaccini.
Mi considero uno spirito laico e mi sento un po’ San Tommaso ma, due giorni fa, è accaduto un piccolo fatto che mi ha molto colpito e che vi voglio raccontare.
Ho acquistato un modernissimo ma sufficientemente a buon mercato televisore della Samsung e, come prevede la prassi, due tecnici sono venuti a consegnarmelo a casa e ad attivarlo, per verificarne il corretto funzionamento.
La procedura prevede l’accensione del televisore, il suo corretto collegamento e il setup di partenza.
Durante l’attivazione del menù di avvio, con sorpresa anche del tecnico, è comparso sullo schermo il C.A.P. della mia abitazione, in maniera automatica, come se il televisore avesse rilevato la geo-localizzazione della sua posizione “nel mondo”.
Va detto che è difficile che ciò possa essere dovuto ad un GPS incorporato nell’apparecchio poiché tale tecnologia necessita che il dispositivo “veda” la rete di satelliti a cui si aggancia per determinare la posizione: evidentemente si trattava di qualcosa di altro, ma il risultato era lì davanti ai nostri occhi, il TV “sapeva” dove si trovava e io non gli avevo chiesto di saperlo.
Questo piccolo episodio mi ha fatto tornare in mente alcuni articoli letti sul tema del controllo remoto, attuabile anche attraverso gli elettrodomestici e non solo attraverso l’eventuale intercettazione delle comunicazioni fatte con apparecchi “mobile”.
Pur non essendo, come detto, un complottista mi son posto e pongo a voi che leggete poche anche se non semplici domande a cui non ho una risposta.
Perché la Samsung ha installato questa tecnologia nel televisore per altro non indicata in nessuna descrizione tecnica dell’apparecchio? Di che tecnologia si tratta? A cosa potrebbe servire “ufficialmente”? A cosa potrebbe servire "riservatamente"? Tra l’altro il televisore è in grado di accettare comandi vocali e comprende il linguaggio un po’ come Siri della Apple.
Conosciamo esattamente tutto ciò che sta dentro le elettroniche che usiamo? Esistono cioè “funzioni” nascoste e/o attivabili che nulla hanno a che fare col funzionamento ma molto possono avere a che fare con qualche forma di controllo remoto, la cui base è, anche e soprattutto, l’individuazione del luogo da cui parte l’eventuale informazione oltre che la "cattura" dei contenuti?
E’ possibile che un elettrodomestico di ultima generazione non si limiti a fornire un servizio ma che possa “anche” ascoltare ciò che gli accade attorno, in maniera autonoma o attivata da remoto e in qualche maniera trasmetterlo? In 1984 Orwell immaginava un televisore che guardava dentro casa non limitandosi a mandare in onda le trasmissioni del Regime.
Esiste un modo per proteggere la nostra privacy davvero?
Ovviamente sarei lieto di essere edotto sui dubbi che mi sono sorti e se vogliamo dirla tutta un po’ tranquillizzato nei confronti degli sviluppi della società futura: il Grande Fratello non so se esiste, certo esiste la National Security Agency e i suoi rapporti documentati coi grandi players tecnologici mondiali e certo esistono i Cookies che, da tempo e col nostro assenso sul loro uso, non sulla natura precisa del loro funzionamento, ci profilano in maniera silente ma molto invasiva nella nostra vita on line, se dovesse accadere che pure gli elettrodomestici ci tracciano o possono essere attivati per farlo non mi pare un gran mondo quello che ci aspetta nel prossimo futuro.
Che ne pensate?
SUL REMA, NEL SITO, SI CFR.:
POLITICA, CONFLITTO D’INTERESSE, E ... "UNDERSTANDING MEDIA" ("GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE"). I nuovi media non sono giocattoli e non dovrebbero essere messi nelle mani di Mamma Oca o di Peter Pan.
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan
Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
Storiografia in crisi d’identità ...
LO SPIRITO E L’OSSO storia, immaginario, filosofia e psicoanalisi
L’analogia armata del Califfato. Parole e conflitti retorici
di Fabio Milazzo*
Sgozzature, lapidazioni, defenestrazioni, crocifissioni, esecuzioni di donne, bambini e anziani, come forma di disciplinamento di massa alle "quali assistono folle intere, mentre fanno acquisti o nel bel mezzo del traffico di tutti i giorni" (p. 10). Tra tanti segni di barbarie, gli omicidi ritualizzati e "scenarizzati" a fini di propaganda, forse, rappresentano l’elemento che più di tutti ha colpito l’immaginario dell’Occidentale, quello che si confronta con ciò che Slavoj Žižek definisce l’orrore del Reale insimbolizzabile. Un orrore incomprensibile che, proprio per questo, scatena sterili reazioni di diniego e ingenui tentativi di reductio ad absurdum. Si invoca l’analfabetismo culturale e politico, l’idiozia gutturale sottolineata "dalle grida dei selvaggi" (p. 10), si riporta tutto alla miseria psico-sociale di chi, nato e cresciuto in una condizione di cieca disperazione, regredirebbe alla condizione animale (avete mai visto animali uccidere ritualmente?). Ma siamo così sicuri che oltre lo sconcerto ci sia solo il confronto con un mondo-barbaro da cui crediamo esserci emancipati?
Non è che semplicemente ci stiamo rapportando con un mondo che utilizza logiche espressive - e quindi modelli mentali - troppo diversi dai nostri per poterli ridurre alle comode e rassicuranti coordinate che danno forma al mondo sorto dall’Illuminismo?
Questi interrogativi tengono in piedi il libro di P.-J. Salazar "Paroles Armées. Comprendre et Combattre la Propagande Terroriste, appena tradotto in Italia per Bompiani. Lo dico subito: quello di Salazar è un grande libro che ha il coraggio di non abbandonarsi ai toni ideologici della maggior parte delle ermeneutiche in circolazione e, senza girarci intorno, chiarisce la posta in gioco dello scontro con l’Is: la retorica.
Continuare a ripetere che le ragioni dello scontro sono (innanzitutto) economiche, legate all’arretratezza dell’Islam o effetti residuali del colonialismo, non consente di focalizzare quella che possiamo chiamare l’oscena fantasia che tiene in piedi le narrazioni in campo. Ci sono visioni del mondo - quindi modi di usare le parole per costruire le storie che riempiono l’immaginario - totalmente diverse tra l’Occidente logocentrico e questo Islam tanto violento quanto retoricamente eccessivo e dallo stile figurato.
Precisiamo che le dicotomie, i "noi" e i "loro", ovviamente, non hanno ragion d’essere alla luce di una microfisica psico-sociale in grado di evidenziare la contingenza e l’irriducibile valore differenziale delle soggettività, ma mostrano il loro valore nel momento in cui si ha a che fare con il campo dell’immaginario di gruppo, con quei quadri-mentali-collettivi[2] su cui tanto si sono dibattuti gli storici novecenteschi delle Annales[3]. Quadri riconosciuti dallo stesso Lacan con la definizione di "mentalità". D’altra parte il parlante è sempre immerso nel proprio involucro immaginario, fatto di parole che organizzano sia le rappresentazioni, sia il senso attraverso cui fa esperienza del mondo. Non si capisce perché questa considerazione - neanche troppo originale oggi - non debba valere per le collettività, per mondi e nicchie-antropologiche che prendono forma entro coordinate storico-discorsive contraddistinte da una condivisione retorica di fondo molto forte.
In quest’ottica, non comprendere la mentalità dei terroristi, ridurla ad epifenomeno di cause economiche e materiali, significa operare con un perverso rasoio irriflesso in nome del riduzionismo più becero e ingenuo. Salazar lo sottolinea a più riprese, evidenziando quanto il problema dello scontro con l’Isis riguardi l’incomunicabilità di mondi che usano forme discorsive diverse.
"C’è - ci dice - una logica dietro i discorsi del Califfato, che sembrano presentare uno scarto rispetto a ciò che noi consideriamo logico, ragionevole e persuasivo in politica. Una logica di altro genere [...] che possiede, oltre alla professione di fede e alla sua forza evocativa poetica un rigore dialettico. Il rigore del ragionamento per analogia" (p. 14).
Soprattutto queste ultime parole fanno venire voglia di riprendere in mano un gigante del pensiero come Enzo Melandri che nel suo «La linea e il circolo»[4] lungamente si è espresso sulle peculiarità di questo procedimento discorsivo. Si tratta di fare fino in fondo i conti con uno stile retorico-espressivo, ma anche con modelli di pensiero, che solo a fatica possono essere ricondotti "al sistema logico dei ragionamenti scientifici o razionali" (p.13). Se l’Europa ha messo al bando (salvo riconoscergli un ruolo osceno) la poetica e la retorica, separandole nettamente dal ragionamento logico e dalle argomentazioni scientifiche, così non è accaduto nel mondo islamico in cui "uno slancio lirico" vale come argomento e prova logica. -Facciamocene una ragione.
Siamo dunque condannati all’incomunicabilità e all’impossibilità del dialogo? Salazar non è così pessimista e lo dice bene in questa intervista:
«Se le armi non bastano, come possiamo contrastare il Califfato? Con l’istruzione. Dobbiamo educare una popolazione, quella europea, che vive di luoghi comuni. [...] Gli allievi europei non studiano bene la storia e la geografia. Di conseguenza, il vecchio continente si ritrova con una marcia in meno rispetto al Califfato che invece mette in mostra una notevole cultura, coltiva i grandi testi non solo religosi, cita i filosofi, recita poesie e canta inni. L’Europa mette in mostra una tecnologia che le si ritorce contro e nel frattempo vive un deficit culturale»[5].
Per inciso, la scuola - e il suo valore formativo - trova in queste dichiarazioni spazi inediti di possibile affermazione e rivalutazione in un periodo di profonda crisi in atto. Ma questo è un altro discorso.
Il libro di Salazar non si limita soltanto ad evidenziare quanto sia scorretto, oltre che inutile, cercare di imporre la logica argomentativa sviluppatasi dopo la rivoluzione scientifica come chiave di lettura per decifrare l’orrore del Califfato, ma sottolinea anche quanto siano falsate - e ingenue - le ermeneutiche che riducono il fenomeno jihadista a semplice effetto sovrastrutturale, a conseguenza di una subordinazione economica, da parte del mondo musulmano, insostenibile nell’epoca della colonizzazione mediatica.
Questa tesi, più o meno argomentata, è inconsistente se consideriamo quanto il proselitismo del Califfato interessi anche (soprattutto?) persone istruite che sembrano essere alla ricerca di valori chiari e di ideali da difendere, piuttosto che il riscatto economico, centrale invece per l’immaginario collettivo Occidentale.
Non «considerare - ci dice l’Autore - il jihadismo come qualcosa di diverso da una patologia di imbecilli» (p.70) è una «cantonata» fondamentale, tipica di una società incapace di relazionarsi con l’Altro - per dirla con Lacan - senza ridurlo all’altro - delle proiezioni narcisistiche. I video e i periodici dei jihadisti dell’Isis, invece, sono pensati «per giovani intelligenti e istruiti, beneficiari di un buon capitale culturale e materiale, lettori attenti alla ricerca di argomenti solidi (anche se in ordine ad una teoria dell’argomentazione diversa dalla “nostra”) e di idee sviluppate con cura» (p.71).
Non deve così sorprendere - né essere considerata una eccezione - che le «tre brillanti liceali inglesi passate al Califfato [...] e il giovane medico australiano che è andato a esercitare il suo mestiere là dove lo hanno portato le sue convinzioni» (p.71) appartengano a quell’universo di gente istruita, che è andata a scuola e si è magari laureata, che le teorie del sottosviluppo economico come molla per l’adesione agli ideali dell’Isis dovrebbero non contemplare.
Invece ecco che si palesa un dato: la propaganda del Califfato si rivolge a persone «animate da un desiderio meditato» (p.71) di martirio. Per quanta fatica si faccia ad accettare questo elemento, questo ci dicono i dati a nostra disposizione e negarli, o cercare spiegazioni poco convincenti e contorte per giustificare una tesi postulata per principio è non soltanto epistemologicamente scorretto ma anche intrinsecamente contraddittorio.
Ma allora «come rispondere a tutto questo? Banalizzando il fenomeno - ci dice Salazar-: facendo circolare quelle riviste [del Califfato] nelle scuole, prendendone spunto per analisi del testo e decostruzioni radicali [...] per ridurre a poca cosa quei documenti materiali attraverso prove argomentate di linguaggio, grazie a ciò che la tradizione culturale francese sa fare meglio. Pensare in modo chiaro e distinto» (p.100). Si tratta cioè di non rifiutare il confronto, di non giocare sulla difensiva ma di contrattaccare retoricamente. E, in tale ottica, la risposta più intelligente che possiamo dare è quella di costruire narrazioni convincenti, basate su argomenti solidi, in grado di convincere quei giovani che sono tentati di abbracciare l’idea mortifera del Califfato di quanto l’intenzione sia una scelta da vicolo cieco. Contro-narrazioni in grado di decostruire la propaganda jihadista e di offrire valide alternative teoriche innanzitutto. Continuare a ripetere lo stanco e logoro mantra dell’arretratezza culturale, figlia del sottosviluppo economico, è controproducente, inutile e scioccamente supponente, anche se di una supponenza perversa, tipica di chi non riconosce effettiva autonomia di pensiero all’Altro ma, implicitamente, lo considera incapace di processi simbolici autonomi e, quindi, di scelte etiche libere. Lo dice con chiarezza Salazar:
«Che si conduca o meno un’offensiva militare effettiva sul campo del Califfato, bisogna ripensare i termini retorici di questo eventuale impegno e ammettere che lo scontro comincia con una guerra retorica in cui l’avversario controlla una panoplia omogenea che va dall’ingiunzione all’analogia, passando per un’arte oratoria convincente e sostenuta dalla potente logica di un legalismo imperativo. [...] Bisognerà pensare islamico, parlare islamico, argomentare islamico. Mettersi alla portata retorica dell’avversario» (p.19).
Mettersi alla portata retorica dell’avversario significa anche considerarlo come tale, nel suo essere radicale differenza, alterità da prendere come tale, anche quando si serve, ragiona e giudica attraverso una forma argomentativa - quella analogica - che alle nostre orecchie stupisce e ci appare «perversa o delirante» (p. 14). «L’analogia è il quarto fondamento del ragionamento giuridico» (p.15) islamico, che vuol dire che attraverso l’analisi di un esempio tratto dalla Tradizione si procede all’emissione di un parere giuridico (fatwa) vincolante. Anche le condanne a morte, che tanto orrore provocano a Occidente, vengono inflitte su questa base logica. Possiamo davvero pensare di confrontarci con questo mondo senza aver adeguatamente sviluppato le conseguenze teoriche ed etiche di ciò? «Utilizzando le analogie nella sua propaganda - ci dice Salazar-, la politica jihadista si nutre quindi di un’atmosfera retorica che ci sembra strana o irrazionale [...], che però costituisce una forma politica di interpretazione delle cose, potente e generale» (p.16). Improntare una guerra-retorica per decostruire la propaganda dell’avversario, significa dunque, innanzitutto, «ripensare i termini retorici» (p. 19) di questo scontro e non sottovalutarne la portata performativa.
In definitiva la lezione di questo libro riguarda il fatto che c’è una "potenza oratoria e persuasiva" (p.8) assolutamente incomprensibile per i canoni logocentrici delle "nostre orecchie" abituati a concatenamenti logici di causa ed effetto e fintanto che non riusciremo a misurarne il peso e il valore saremo "disarmati", teoricamente innanzitutto. Prendere confidenza, conoscere, valutare "una logica di altro genere"(p.14), e i fantasmi (dell’inconscio collettivo) che la incorniciano, è quindi il passo necessario per evitare quella forma di etnocentrismo culturale da cui riteniamo di esserci vaccinati ma che, in forma perversa, rischia di vanificare le nostre interpretazioni e, quindi, le strategie per combattere la propaganda del Califfato.
[1] Cfr. P.-J. Salazar “Parole armate” di Salazar: ecco la cultura del Califfato che sottovalutiamo in «Io Donna- Corriere della Sera», 22 Gennaio 2016, http://www.iodonna.it/attualita/in-primo-piano/2016/01/22/philippe-joseph-salazar-parole-armate-il-califfato-lo-si-combatte-con-la-cultura-e-le-minacce-a-roma-sono-serie/
[2] Cfr. P. Corrao, Storia della Mentalità in «Studi culturali», http://www.studiculturali.it/dizionario/lemmi/storia_delle_mentalita.html
[3] Cfr. Voce «Annales» in Treccani.it, http://www.treccani.it/enciclopedia/annales/
[4] Cfr. E. Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia (1968), Quodlibet, Macerata 2004
[5] Cfr. P.-J. Salazar “Parole armate” di Salazar: ecco la cultura del Califfato che sottovalutiamo...cit.
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA. Storiografia in crisi d’identità:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
VICO, PENSATORE EUROPEO. Teoria e pratica della "Scienza Nuova". Note per una rilettura (pdf, scaricabile)
PAROLA DI VICO. SULLA MODERNITÀ DI CARTESIO, RICREDIAMOCI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
LACAN PROPOSE UN “RITORNO A FREUD”, MA A LONDRA, A “20 MARESFIELD GARDENS”, NON ARRIVÒ MAI ... *
LACAN INTERPRETA “KANT CON SADE” E SI AUTO-INTERPRETA CON “L’ORIGINE DEL MONDO” DI COURBET.... **
KANT CON SADE: “Che l’opera di Sade anticipi Freud, foss’anche solo riguardo al catalogo delle perversioni, è una sciocchezza detta e ridetta nelle lettere, la cui colpa, come sempre, va agli specialisti”. Così inizia il testo di J. Lacan, "Kant con Sade", (Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 762).
Sulla “kantizzazione” di Sade e sulla “sadizzazione” di Kant da parte di Lacan, cfr.: E. Fachinelli, “Lacan e la Cosa”, "La Mente estatica", Adelphi, Milano 1989, pp. 181-195; e, sulla più generale “hitlerizzazione” di Kant, si cfr., mi sia consentito, Federico La Sala, FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA).
LACAN E “L’ORIGINE DEL MONDO” (G. Courbet, 1866): “(...) Jacques Lacan conservava L’origine del mondo nascosta dietro un pannello, nello studio della sua casa di campagna, non rivelandone il segreto che agli ospiti d’élite: Dora Maar, Marguerite Duras, Claude Lévi-Strauss... E quando finalmente svelava il dipinto, Lacan concentrava il proprio sguardo non sul monte di Venere, ma sullo sguardo dello spettatore. Si divertiva a farsi voyeur del voyeur” (Sergio Luzzatto, “L’origine del mondo, storia di un tabù”, Corriere della Sera, 24 maggio 2008).
** PSICOANALISI: LACAN INTERPRETA “KANT CON SADE” E SI AUTO-INTERPRETA CON “L’ORIGINE DEL MONDO” DI COURBET.
Federico La Sala
L’URLO ("HOWL") DI FINNEGANS: "WAKE", "SVEGLIARSI"!
DOMANDE, SAPERE, E POTERE (TEOLOGICO POLITICO PEDAGOGICO E SESSUALE): ...
“FAQ”, “FAKE”, “FUCK”: ATTENZIONE A QUESTE TRE PAROLE ormai di uso comune. Facendo interagire la loro scrittura, la loro pronuncia, e i loro significati, viene alla luce un prezioso invito ad “avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza” (Kant) e a porre “domande su tutto!” (Confucio).
Alle "domande poste frequentemente" (“Frequently Asked Questions, meglio conosciute con la sigla FAQ - pronuncia, in inglese: “F”, “A”, “Q”), CHI risponde (?!), se SA, dà le risposte che sa (fa il suo dovere, e si ferma!), ma, se NON sa e pretende di sapere (come spesso accade - in un abuso di autorità permanente e, ovviamente, di non rispetto di CHI pone le domande), dà solo risposte “false e bugiarde” (FAKE - parola inglese, pronuncia “feik”, che sta a significare "falso", "contraffatto", "alterato". Nel gergo di internet, un fake è un utente che falsifica in modo significativo la propria identità), che cercano solo di ingannare, fregare, fottere in tutti i sensi ( FUCK - parola inglese, pronuncia “fak” - "fach", " faq!": come interiezione equivale all’italiano - cazzo!, come sostantivo: scopata, come verbo: scopare, fottere!).
Non è meglio sapere CHI siamo e cercare di uscire dalla caverna - con Polifemo, Ulisse e compagni (come con il Minotauro, Teseo e Arianna) - senza "fottere" Nessuno e senza mandare Nessuno a farsi “fottere”! O no? La tragedia è finita da tempo!
Federico La Sala
*
A) James Joyce, Finnegans Wake (Libro Primo V-VIII, Oscar Mondadori, Milano 2001, pp. 195-195 bis):
"He lifts the lifewand and the dumb speak
Quoiquoiquoiquoiquoiquoiquoiq"
"Egli brandisce la bacchetta della vita e i muti parlano
Quoiquoiquoiquoiquoiquoiquoiq" *
Quoì-quoì-quoì-quoì-quoì-quoì-quoì...
Quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà...
B) Gesù - nel messaggio evangelico, cfr. Marco 7, 31-37:
Di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano.
E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: «Effatà» cioè: «Apriti!».
E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
C) KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
D) A SCUOLA CON JOYCE. LEGGERE E RILEGGERE FINNEGANS WAKE.
E) "CHI" SIAMO: LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO.
Federico La Sala
IL MITO DELLA ROMANITÀ E DELLA GRECITÀ: LA PUNTA DI UN ICEBERG. Molti filologi, storici, archeologi e filosofi italiani e tedeschi si prestarono a favorire questa operazione ...*
Nazisti antiquari, non filologi
di Roberto M. Danese (Alfabeta-2, 27 luglio 1917)
Nel 2008 esce in Francia il volume di Johann Chapoutot Le national-socialisme et l’Antiquité per le edizioni PUF. Nel 2012 il libro viene ripubblicato in edizione rivista con il titolo Le nazisme et l’Antiquité. È quest’ultima versione che esce ora in Italia come Il nazismo e l’Antichità. La differenza nel titolo non è secondaria. Se vogliamo trovare infatti un limite in quest’opera, è il tono generale un po’ troppo apertamente irridente nei confronti dei nazisti, a partire dalla scelta di sostituire nel titolo l’originario national-socialisme con il più polemico nazisme usato negli anni Venti dagli oppositori di Hitler.
Chapoutot è un brillante storico del Terzo Reich, che ha voluto riservare specifica attenzione a un fenomeno già piuttosto noto e indagato, ma comunque bisognoso di una nuova analisi scientifica. La necessità di un libro come questo, molto ben documentato e altrettanto ben costruito, è data non solo dall’interesse per un aspetto importante della politica culturale nazista, ma anche dall’impatto che uno studio del genere può avere sul nostro tempo.
Chapoutot dimostra con grande abilità che il nazismo non si è limitato a mistificare la cultura greca e romana, ma ha fatto di questa mistificazione una base fondamentale per la giustificazione ideologica del proprio agire politico e uno strumento formidabile di indottrinamento per il popolo tedesco. Insomma, ben più di quanto fece il fascismo con il folclorico riutilizzo della romanità. Hitler (e in qualche modo Himmler) prima crearono, grazie alla connivenza di studiosi tedeschi proni al dettato ideologico del Reich, una base scientifica che sancisse in modo indiscutibile l’origine germanica delle grandi civiltà greca e romana, quindi utilizzarono questa - per loro - incontrovertibile verità per rivendicare a sé tutti i migliori frutti di quelle antiche culture, a cominciare dalle città e dalle opere d’arte.
Non fu purtroppo solo un gioco propagandistico, ma una delle giustificazioni principali per l’espansionismo tedesco e per il progressivo irrobustirsi della politica razziale: proclamandosi eredi e insieme padri delle civiltà di Pericle e Augusto (entrambi, per loro, di sangue nordico), si arrogarono il diritto di proclamare inferiori, corrotte e corruttrici tutte quelle razze e quelle culture che non rientravano in questa netta linea genealogica, arruolando come campioni della razziologia autori quali Tirteo oppure Orazio.
Sulla reviviscenza di quegli antichi valori modellarono poi il loro inquietante programma ideologico: superiorità della razza nordica, eliminazione delle razze degenerate di origine negroide-semitica, una institutio nazionale che unisse cura del corpo e della mente, fede nell’irrazionalismo e nello Stato sociale contro il razionalismo di matrice umanistica, opposizione fra l’uomo “totale” ariano e l’uomo “scisso” di ascendenza cristiana.
Il libro di Chapoutot è molto dettagliato e complesso, ma di lettura agevole e avvincente, soprattutto chiaro nel mettere a fuoco gli obiettivi che il nazismo perseguiva nell’utilizzo dell’antichità classica. Sarebbe interessante analizzare molti aspetti di questo saggio, ma ne sceglierò solo un paio per cercare di mostrarne l’utilità e l’attualità. Nel 1933 Hitler volle una grande riforma scolastica che contribuisse a formare sin dall’infanzia il vero uomo tedesco.
Molti filologi, storici, archeologi e filosofi tedeschi si prestarono a favorire questa operazione, che voleva inculcare nei ragazzi i grandi ideali “nordici” della Grecia e di Roma, senza però farli riflettere troppo sui testi. Chapoutot documenta molto bene il dibattito che si accese in merito fra politica, classicisti e insegnanti di scuola: bisognava esaltare l’affinità di sangue e di cultura con gli antichi, ma bisognava anche diminuire le ore di greco e di latino nelle scuole, privilegiando gli studi storico-ideologici a discapito di quelli linguistico-grammaticali.
Se guardiamo al dibattito oggi in atto in Italia e in Europa sugli studi classici, non possiamo non accorgerci che si stanno usando simili argomentazioni per limitare il ruolo e lo studio delle lingue antiche, in vista del perseguimento di una cultura del fare più che del pensare.
Scrive Chapoutot sul programma educativo nazista: “Il sapere è legittimo solo nella misura in cui è immediatamente utile alla comunità del popolo e allo Stato”. E poi: “Il sapere specializzato consacrato dal regime è un sapere tecnico, pratico, immediatamente disponibile e utilizzabile, che dunque esclude ogni meditazione e quella libertà disinteressata che è propria del pensiero”.
Leggete gli attacchi contemporanei verso il liceo classico e verso lo studio del greco e del latino sui nostri giornali e sul web, considerate la filosofia di accreditamento degli Atenei da parte delle Agenzie per la Valutazione dell’Università e della Ricerca, quindi provate a fare un confronto con la cultura del fare esaltata dal regime nazista e messa alla base di ogni suo progetto formativo. Alla fine anche Heidegger aveva capito che tutto ciò era pericoloso, molto pericoloso...
Veniamo poi al marcato antifilologismo di tanti intellettuali al servizio del Führer. Chapoutot ci racconta che Hitler volle un aumento di attenzione verso l’antichità classica ma un’attenuazione del suo studio dal punto di vista veramente scientifico.
È qualcosa di simile a quello che sta succedendo oggi, in un quadro di crescente attenzione per l’antichità classica: nelle università ci sono sempre più archeologi che non sanno una parola di greco o di latino, modernisti che non riusciranno mai a leggere Stazio o Virgilio in latino, latinisti e grecisti che considerano un fastidio fare edizioni critiche e lavorare su testi ecdoticamente fondati. Non parliamo di quello che succede nei licei.
Lo studio delle grammatiche e della prassi filologica per l’antichità classica insegna a non dar mai per scontato nulla di fronte a un testo, insegna a interrogarsi sempre su ciò che una sequenza di parole o di immagini vuol veramente dire, insegna a capire le retoriche.
Questo per i nazisti non solo era inutile, ma anche dannoso: la verità sul significato dei testi antichi su cui si fondava la loro ideologia la diceva il regime stesso, quindi perché fornire allo studente i mezzi per cercare di comprendere da solo quei testi, rischiando di fargli nascere nella testa idee “sbagliate”?
La filologia è invece un bene prezioso perché, come ci hanno mostrato i primi grandi umanisti, raffina l’arte del dubbio: e anche oggi non dobbiamo dimenticare quanto si debba stare in guardia nei confronti di chi subdolamente bolla come inutile al progresso e perditempo colui che indugia nel lento esercizio della perplessità e della riflessione.
Il libro di Chapoutot non è dunque solo interessante, ma anche assai utile e la sua lettura dovrebbe essere consigliata a molti, se è vero che historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriæ, magistra vitæ, nuntia vetustatis.
*
SUL TEMA, SI CFR.:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA.
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
CARISMA, COSTITUZIONE, E POLITICA: AL DI LÀ DELLA TRAPPOLA ATEA E DEVOTA. Una importante provocatoria riflessione .... *
PSICOLOGIA
Lo strano paradosso del potere
di Annamaria Testa, esperta di comunicazione *
Che cosa frulla nella mente delle persone di potere? Ce lo domandiamo - e capita non di rado - quando i loro comportamenti ci appaiono contraddittori, o poco comprensibili, o così arroganti da essere difficili da sopportare. Un recentissimo articolo uscito sull’Atlantic ci invita a porci la domanda in termini più radicali: che cosa succede al cervello delle persone di potere?
L’Atlantic cita un paio di pareri autorevoli. Secondo Dacher Keltner, docente di psicologia all’università di Berkeley, due decenni di ricerca e di esperimenti sul campo convergono su un’evidenza: i soggetti in posizione di potere agiscono come se avessero subìto un trauma cerebrale. Diventano più impulsivi, meno consapevoli dei rischi e, soprattutto, meno capaci di considerare i fatti assumendo il punto di vista delle altre persone.
Sukhvinder Obhi è un neuroscienziato dell’università dell’Ontario. Non studia i comportamenti, ma il cervello. Quando mette alcuni studenti in una condizione di potere, scopre che questa influisce su uno specifico processo neurale: il rispecchiamento, una delle componenti fondamentali della capacità di provare empatia.
Ed eccoci alla possibile causa di quello che Keltner definisce paradosso del potere. Quando le persone acquisiscono potere, perdono (o meglio: il loro cervello perde) alcune capacità fondamentali. Diventano meno empatiche, cioè meno percettive. Meno pronte a capire gli altri. E, probabilmente, meno interessate o disposte a riuscirci.
Come polli senza testa
Inoltre. Spesso le persone di potere sono circondate da una corte di subordinati che tendono a rispecchiare il loro capo per ingraziarselo, cosa che non aiuta certo a mantenere un sano rapporto con la realtà.
E ancora: è il ruolo stesso a chiedere che le persone di potere siano veloci a decidere (anche se non hanno elementi sufficienti per farlo, né tempo per pensarci), assertive (anche quando non sanno bene che cosa asserire. O quando sarebbe meglio prestare attenzione alle sfumature) e sicure di sé al limite dell’insolenza.
I top manager delle multinazionali girano freneticamente per il mondo come polli decapitati: decidono guidati dall’ansia, senza pensare, senza capire, senza vedere e senza confrontarsi. L’ho sentito dire nel corso di una riunione riservata ai partner di un’assai nota società internazionale di consulenza, dal relatore più anziano e autorevole. Mi sarei aspettata qualche brusio di sconcerto tra gli astanti, e invece: ampi segni di assenso.
Ho il sospetto che la sindrome del pollo possa appartenere non solo a chi guida le imprese, ma anche a chi governale istituzioni e le nazioni.
Il fatto è che le persone di potere “devono” andare dritte per la loro strada, infischiandosene di tutto quanto sta attorno. Questo può aiutarle a raggiungere i loro obiettivi (il che è molto vantaggioso a breve termine) ma ne danneggia le capacità di decisione, di interazione e di comunicazione, che nel lungo termine sono strategiche.
Il potere logora chi non ce l’ha, diceva Andreotti, che di potere sapeva abbastanza, citando Maurice de Talleyrand. Ma la citazione medesima contiene una dose consistente di protervia.
C’è una parola molto antica che descrive bene tutto ciò: hỳbris. Indica la tracotanza presuntuosa di chi ha raggiunto una posizione eminente e si sopravvaluta. È notevole il fatto che nel termine greco sia implicita anche la fatalità di una successiva punizione, divina o terrena: il fallimento, la caduta.
Si stima che il 47 per cento dei manager falliscano, scrive Adrian Furnham, docente di psicologia all’University College di Londra. È una percentuale molto alta. Uno dei principali motivi di fallimento è il narcisismo: un cocktail deteriore di arroganza, freddezza emozionale e ipocrisia.
C’è un paradosso: è facile ammirare e rispettare le persone carismatiche e fiduciose in se stesse. Ma non è così semplice distinguere il carisma dal narcisismo, che per molti versi ne è il lato oscuro. Sappiamo davvero individuare il confine che c’è tra assertività e prepotenza? Tra sicurezza e ostinazione? Tra fascino e manipolazione?Tra pragmatismo e cinismo?
C’è un ulteriore paradosso: prepotenza, ostinazione, manipolazione e cinismo possono perfino rivelarsi utili nelle battaglie per la conquista del potere, che sono spesso logoranti, sleali e feroci. Ma, una volta ottenuto il potere, per mantenerlo servirebbe proprio quella visione più aperta ed equilibrata che - l’abbiamo visto prima - il ruolo stesso sembra rendere difficilissima da procurarsi e mantenere. Il potere è l’afrodisiaco supremo, diceva Henry Kissinger.
Ma “difficilissimo” non vuol dire “impossibile”. D’altra parte, almeno nelle democrazie occidentali e nelle imprese moderne, il potere si conserva nel lungo termine solo attraverso il consenso. E la capacità di mantenere il consenso è direttamente proporzionale alla capacità di comunicare, di ascoltare e di interagire mettendosi a confronto.
Ehi, si può fare! Persone di potere dotate di un carisma privo di narcisismo esistono. In oltre quarant’anni, mi è perfino capitato di incontrarne alcune, tra politica e impresa, ma posso contarle sulle dita di una mano. Ce ne vorrebbero molte di più.
* Internazionale, 25 luglio 2017
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DIO, NATURA, TECNICA COMUNICATIVA, E DEMOCRAZIA. IL "CHARISMA" DELL’ITALIA E IL "CHARISMA" DEGLI ITALIANI E DELLE ITALIANE. CARISMA, COSTITUZIONE, E POLITICA: AL DI LÀ DELLA TRAPPOLA ATEA E DEVOTA. Una importante provocatoria riflessione di Lidia Ravera
Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore"
UBUNTU: "Le persone diventano persone grazie ad altre persone".
"CHI" SIAMO: LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO. "La meditazione" di Marianne Williamson, nel discorso di insediamento (1994).
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
LA RISATA DI KANT
Federico La Sala
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA... *
La prosa clericale di un laico antico
di Giorgio Pecorini (il manifesto, 25 agosto 2012)
La pagina conclusiva dei «Coni d’ombra» in cui Marco D’Eramo (il manifesto del 18 agosto) ha perpetrato quel «crimine di lesa crocianità» di cui molto si è doluto Massimo Raffaeli (21 agosto), inviata a farsi. Non m’avventuro certo in astrattezze filosofiche o esegesi storiche: conto soltanto sulle capacità osservatorie del mio mestiere di cronista. Incoraggiato e aiutato questa volta dalle osservazioni di Norberto Bobbio sul «giustificazionismo intrinseco» ricordate dallo stesso D’Eramo nella sua replica (sempre il 21). E torno, recidivo, al famoso Perché non possiamo non dirci cristiani pubblicato da Benedetto Croce su La Critica del 20 novembre 1942 e due anni dopo ristampato in fascicolo, sempre nel pieno delle seconda guerra mondiale.
In quel suo saggio il filosofo si dichiara impegnato a scrivere con libero spirito laico «né per gradire né per sgradire agli uomini delle chiese». Rivendica come «legittimo e necessario» l’uso di quel nome anche da parte di chi non appartiene ad alcuna chiesa. Vuole «unicamente affermare, con l’appello alla storia, che noi non possiamo non riconoscerci e non dirci cristiani e che questa denominazione è semplice osservanza della verità. (...) Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso e ancora possa apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo».
Il trionfo del genocidio
Ma se davvero non possiamo non dirci cristiani, allora non possiamo neppure non tenerci corresponsabili di una serie di errori e crimini del cristianesimo. Misurandoli col proprio metro razionale laico, il filosofo liberale assolve la «chiesa cristiana cattolica per la corrutela che dentro di sé lasciò penetrare e spesso in modo assai grave allargare», dato che «ogni istituto reca in sé il pericolo della corrutela». E anzi la elogia per aver animato «alla difesa contro l’Islam, minaccioso alla civiltà europea». Le riconosce infine il merito, «continuando nell’opera sua», di aver riportato «i trionfi migliori nelle terre di recente scoperte del Nuovo mondo». Il fatto che quel «trionfo» sia consistito in un genocidio cristianissimo distruttore assieme alla vita della cultura e della dignità di un intero popolo è soltanto uno fra i tanti accidenti del generale processo storico con le sue crisi, e amen. Se poi gli abitatori originarii di quel Nuovo mondo non hanno gioito di quel «trionfo», non se ne sono almeno contentati se non addirittura rallegrati fra una tappa e l’altra di un genocidio cristianissimo che la loro cultura non s’è limitato a minacciarla: l’ha distrutta, assieme alla loro storia e alla loro stessa identità, dipende dalla loro mancante sensibilità eurocentrica e occidentalocentrica, che li autorizza, unici, a non dirsi cristiani. Il «famigerato giustificazionismo intrinseco» all’analisi crociana denunciato da Bobbio, appunto.
Perché non possiamo non dirci cristiani è uno smilzo opuscoletto di appena una ventina di pagine ma dense di analisi e di riferimenti a meditazioni e conclusioni precedenti dell’autore. Tanto dense che molti credenti anziché leggerle si contentano del titolo, per sbatterlo in faccia ai miscredenti: se persino un grande filosofo e critico liberale e ateo come Croce dice così.
Avessero la pazienza di leggerlo, ci andrebbero più cauti nel prenderlo e cercar di imporlo come assoluzione laica dei dogmatismi religiosi. Riconosciuta la «nuova qualità spirituale» di quella rivoluzione, cioè l’aver agito «nel centro dell’anima, nella coscienza morale» dell’uomo, Croce sùbito la ridimensiona: «non fu un miracolo che irruppe nel corso della storia e vi si inserì come forza trascendente e straniera (...) fu un processo storico, che sta nel generale processo storico come la più solenne delle sue crisi».
Il saggio di Croce è del 1942, conviene ripeterlo: nel pieno della seconda guerra mondiale. Mezzo secolo giusto dopo, 1992, chiusa anche la guerra fredda, nel cinquecentenario della presunta scoperta dell’America da parte dell’Europa e dell’inizio del genocidio delle popolazioni americane indigene da parte degli europei in nome della civiltà e del Vangelo, il Nobel per la pace viene assegnato a una donna guatemalteca di 33 anni, discendente dei rari scampati ai massacri: Rigoberta Menchù.
La scelta della giuria del premio sembra ad alcuni un contentino fra il paternalistico e il demagogico al risentimento degli amerindi e dei loro pochi sostenitori bianchi per l’enfasi e la retorica con cui l’Occidente andava celebrando l’impresa di Cristoforo Colombo. Alcuni altri si indignano: per gente di mondo smaliziata, ricca di esperienza e di efficienza pragmatica, è una scelta che suona resa e bestemmia: «Per compiacere la pseudocultura dell’ultimo anticolonialismo abbiamo messo la sordina a una delle più straordinarie vicende della storia europea. È assurdo che il papa, a Santo Domingo, si sia scusato pubblicamente come un qualsiasi uomo politico giapponese; ed è ridicolo che i discorsi commemorativi abbiano fatto ipocrite concessioni agli umori dominanti del terzomondismo pacifista. Ma che i giurati di Oslo abbiano scelto il cinquecentesimo anniversario di una grande epopea occidentale per dare l’insufficienza a Cristoforo Colombo ci pare francamente risibile». Firmato: Sergio Romano, ex ambasciatore della Repubblica italiana presso alcune fra le maggiori capitali del mondo, da molti anni oracolo dei migliori radio e telegiornali italiani pubblici e privati, abituale commentatore politico oggi del Corriere prima della Stampa. (La frase qui citata era sul quotidiano torinese del 17 dicembre ’92, in un articolo intitolato: «Se il Nobel boccia Colombo»).
Lo spirito dei tempi
Per compiacere l’eterno pragmatismo della chiesa postcostantiniana, l’Europa e l’Occidente dovrebbero insomma rivendicare gli sbudellamenti fatti in nome di Dio dalle crociate all’Iraq, i roghi delle streghe e degli eretici, le benedizioni ai regni e agli eserciti, le indulgenze, le scomuniche eccetera: tutto quanto a quelle radici è intrecciato.
Il papa assimilato con disgusto a «un qualsiasi uomo politico giapponese» era il polacco Wojtyla. Per schivare un eguale rischio, il suo successore tedesco, Ratzinger, ci chiede di non giudicare il passato col metro dell’oggi: bisogna tener conto dei diversi contesti, delle percezioni e sensibilità mutate. E come si faccia a farlo ce lo ha mostrato in concreto lui, con la visita e i discorsi ai campi di sterminio nazisti in Polonia.
S’arriva così sullo scivoloso terreno del «segno dei tempi» e alla vecchia storia delle condanne seguite dalle riabilitazioni. Vicende emblematiche di quelle tecniche riappropriatorie, di quelle smanie di normalizzazione che, accompagnate da sapienti manipolazioni censorie e da cauti sondaggi santificatorii, presiedono sempre all’interno di ogni chiesa, religiosa, culturale o politica, a ogni operazione riabilitatoria. Tecniche e smanie vecchie (si pensi soltanto a Galileo) ma che con aggiustamenti minimi continuano a funzionare. Con l’obiettivo di far credere che ad aver bisogno di perdono e riabilitazione sia il perseguitato, non il persecutore. Al quale va sempre riconosciuto lo stato di necessità o almeno l’attenuante del «segno dei tempi».
Segno talmente vago ed elastico da dover tener conto persino del «livello medio della cultura dominante da non contraddire, non urtare, non rovinare», pensa Ferdinando Camon, scrittore cattolico. Che pazientemente ci spiega: «la condanna di Galileo fu pronunciata dalla chiesa come intermediaria del senso comune». (editoriale sul supplemento Tuttolibri de La Stampa, 16 novembre 1995).
Ecco dove si finisce, a furia di non potersi non dichiarare cristiani. Al laico don Benedetto va bene così, convinto com’è che il «reale è razionale», sempre e comunque. Ma ecco anche perché un altro filosofo e matematico ateo, Piergiorgio Odifreddi, ha preso e rovesciato proprio la strausata sentenza di Croce per farne il titolo di un proprio libro contro tutte le radici dei possibili fondamentalismi religiosi: Perché non possiamo essere cristiani. E per scrupolo di maggior chiarezza ci ha aggiunto tra parentesi: (e meno che mai cattolici).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
TEORIA E STORIA DELLA STORIOGRAFIA. IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO E IL PROBLEMA DELLA COSTITUZIONE
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA.
RENZO DE FELICE E LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
CRISTIANESIMO E COSTITUZIONE (DELLA CHIESA E DELL’ITALIA). PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ...
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?".
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
"Legge Morale"
e
"Cielo stellato"
sulla tomba dell’EUROPA
Napoleone-Hegel-Heidegger?!
KANT, FREUD, E LA BANALITA’ DEL MALE
Federico La Sala
COLONIALISMO. ITALIA...
per 500mila Africani uccisi dalla presenza coloniale italiana in
LIBIA, ETIOPIA, E SOMALIA.
UNA PROPOSTA DELLO STORICO ANGELO DEL BOCA
RENZO DE FELICE E LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO. Storiografia in crisi d’identità ...
In base a un regio decreto emanato il 28 agosto 1931 i docenti delle università italiane avrebbero dovuto giurare di essere fedeli non solo allo statuto albertino e alla monarchia, ma anche al regime fascista. L’idea dell’inserimento della clausola di fedeltà al fascismo viene attribuita al filosofo Balbino Giuliano, che ricopriva in quegli anni la carica di Ministro per l’Educazione Nazionale nel governo Mussolini[1].
In tutta Italia furono solo una quindicina di personalità, su oltre milleduecento docenti, a rifiutarsi di prestare giuramento di fedeltà al fascismo perdendo così la cattedra universitaria. Il numero effettivo delle persone che non si sottoposero al giuramento oscilla di qualche unità a seconda delle fonti. L’indeterminazione è dovuta anche ad alcune situazioni particolari, di docenti che vi si sottrassero per vie diverse: Vittorio Emanuele Orlando, ad esempio, andò anticipatamente in pensione, mentre altri, come Giuseppe Antonio Borgese, si allontanarono dall’Italia fascista andando esuli all’estero[1]. Allo stesso modo non si sottopose al giuramento il docente ed economista Piero Sraffa, già da alcuni anni esule a Cambridge[1] .
I nomi dei docenti furono:
Ernesto Buonaiuti (storia del cristianesimo)[2]
Giuseppe Antonio Borgese (estetica)[3]
Aldo Capitini (filosofia)
Mario Carrara (antropologia criminale)
Antonio De Viti De Marco (scienza delle finanze)
Gaetano De Sanctis (storia antica)
Floriano Del Secolo (lettere e filosofia)[4]
Giorgio Errera (chimica)
Giorgio Levi Della Vida (lingue semitiche)
Piero Martinetti (filosofia)
Fabio Luzzatto (diritto civile)
Bartolo Nigrisoli (chirurgia)
Errico Presutti (diritto amministrativo)[3]
Francesco Ruffini (diritto ecclesiastico)
Edoardo Ruffini Avondo (storia del diritto)
Lionello Venturi (storia dell’arte)
Vito Volterra (fisica matematica)
Molti degli accademici vicini al comunismo aderirono invece al giuramento seguendo il consiglio di Togliatti[1], con la giustificazione che il prestare giuramento permettesse loro di svolgere, come dichiarò Concetto Marchesi, «un’opera estremamente utile per il partito e per la causa dell’antifascismo»[5]. Analogamente, la maggior parte dei cattolici, su suggerimento del Papa Pio XI, ispirato probabilmente da Agostino Gemelli[1], prestò giuramento «con riserva interiore»[1][5].
Vi fu chi accondiscese al giuramento, tra questi Guido Calogero e Luigi Einaudi, seguendo l’invito di Benedetto Croce, «per continuare il filo dell’insegnamento secondo l’idea di libertà»[5] a impedire che le loro cattedre - secondo l’espressione di Einaudi - cadessero «in mano ai più pronti ad avvelenare l’animo degli studenti»[6].
* FONTE. Da Wikipedia, l’enciclopedia libera. (ripresa parziale - senza note).
Federico La Sala
La Chiesa non può rimanere prigioniera dell’Occidente
Il filosofo Rocco Buttiglione risponde al collega Marcello Pera che aveva criticato duramente Francesco affermando che non comprende i problemi delle democrazie occidentali
di Rocco Buttiglione *
Marcello Pera ha criticato violentemente Papa Francesco in un articolo sul Mattino di Napoli. Il Papa, dice Pera, non è un difensore dell’Occidente, non capisce i problemi delle democrazie occidentali e, sui temi della immigrazione, assume un punto di vista che noi occidentali non possiamo condividere. Egli ha una posizione profondamente diversa e perfino opposta rispetto a quelle di san Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Pera è acuto come sempre e molte delle cose che dice sono vere. Io penso tuttavia che non abbia capito il senso più profondo di questo pontificato e provo a spiegare perché.
Pera ha ragione in un punto: per questo Papa l’Europa non è più il centro del mondo. Non è giusto pensare che non gli importi dell’Europa o della difesa della sua anima cristiana. È vero però che non pensa che questo sia il suo compito primario. La difesa dei valori cristiani che stanno alla base dell’Europa è compito dei vescovi europei, dei laici e dei politici europei. Il Papa ovviamente li appoggia ma questo non sarà più per lui il compito prevalente.
Il Papa non è europeo ma latinoamericano. Non è soltanto un dato anagrafico. Abbiamo un Papa latinoamericano e non europeo perché la Chiesa Cattolica non è più prevalentemente europea. Viviamo la crisi della egemonia mondiale dell’Europa. Più esattamente viviamo la crisi della egemonia mondiale dell’Occidente. È una crisi demografica: la Chiesa conta sempre meno in Europa ma l’Europa conta sempre meno nel mondo. Cresce invece in Africa ed in tutto quello che una volta si chiamava Terzo Mondo. La maggioranza relativa dei cattolici vive oggi in America Latina e forse due terzi dei cattolici vive nel Terzo Mondo.
La crisi è anche culturale. Una volta era diffusa la convinzione che i paesi non occidentali fossero “arretrati” e avrebbero alla fine seguito le tendenze stabilite dai paesi occidentali. Oggi sembra piuttosto che stiano cercando nuove strade. Molti fenomeni che noi consideriamo di “progresso” potrebbero alla fine risultare piuttosto fenomeni del declino e della decadenza europea. È interessante osservare che anche economicamente Europa e Stati Uniti rappresentano oggi meno del 50% del PIL mondiale.
Sbaglia Papa Francesco a pensare di dovere assumere una ottica più universale e meno europea? Sbaglia ad assumere un punto di vista e un linguaggio che sono più da “Terzo mondo” che europei e che, peraltro, gli sono anche più congeniali? Forse non sbaglia. Chiese che eravamo abituati a considerare periferiche sono diventate (stanno diventando) centrali e noi siamo diventati un po’ periferici. Il processo è complicato, rischioso e pieno di pericoli. È però inevitabile. I problemi della Chiesa nascono dalla dinamica demografica mondiale (America Latina) e dalla grande crescita missionaria della Chiesa stessa (Africa ed Asia). Sarebbe ingeneroso pensare che essi derivino solo o primariamente da Papa Francesco. Derivano in realtà dalla forza delle cose o (meglio) dalla volontà imperscrutabile dello Spirito Santo.
Forse faremmo meglio a domandarci che tipo di conversione lo Spirito di Dio ci chiede in questa tappa della storia della Chiesa e della storia della umanità. Uno dei problemi di questa fase storica per noi occidentali è che dobbiamo fare i conti con una immagine di noi stessi che non ci piace. I poveri del mondo pensano che ci siamo appropriati di una parte troppo grande delle ricchezze del pianeta. Pensano di essere stati espropriati e derubati. Questo giudizio non è del tutto vero ma non è neppure del tutto falso. Con ammirevole equilibrio Papa Francesco ha avuto il coraggio di dire che il colonialismo ha avuto anche dei lati positivi. Non ha nascosto però di pensare che ha avuto i suoi lati negativi, ed è difficile dargli torto. Non si può nemmeno dire che su questo punto si contrapponga a san Giovanni Paolo II. Basta ricordare il discorso di san Giovanni Paolo II a Gorée, alla fortezza degli schiavi.
In questo passaggio di epoca molti importanti valori rischiano di andare perduti. Valori di razionalità sociale ed anche di comprensione scientifica della società. La comprensione dei valori della competizione e del mercato è un valore permanente. Se i paesi poveri oggi sono diventati meno poveri e molti di loro hanno iniziato un percorso virtuoso di crescita economica questo è dovuto al fatto che hanno saputo utilizzare in modo giusto la regola del mercato.
Non riusciremo però a difendere questa verità se non confesseremo che molte volte questa regola della competizione è stata utilizzata in modo falsato, le carte del gioco sono state truccate e i poveri ne hanno fatto le spese. Se si legge con animo sgombro da pregiudizi la grande enciclica Centesimus Annus di san Giovanni Paolo II si vede che essa riconosce pienamente i valori del mercato ma è lungi dall’essere apologetica del capitalismo. Alle economie di mercato, delle quali si riconoscono i meriti anche etici, si pongono però delle forti esigenze morali. Quanto stiamo onestamente dando soddisfazione a questi obblighi morali? È importante notare, d’altro canto, che Papa Francesco ha sottolineato molte volte la positività del modello della economia sociale di mercato.
Noi dobbiamo cercare di aiutare il transito nella nuova sintesi dei valori permanenti dell’Occidente ma per farlo dobbiamo essere capaci di spogliarli di aspetti contingenti che ne possono impedire la giusta universalizzazione. Siamo chiamati anche ad ascoltare e a comprendere, senza pretese di falsa superiorità, altre sensibilità ed altre culture.
Una accusa sollevata frequentemente contro Papa Francesco è quella di essere populista. Forse è vero ma siamo sicuri di sapere esattamente che cosa sia il populismo latino/americano, al di là delle usuali caricature? Il populismo è l’unica originale filosofia politica latino/americana. Essa fa leva sulle idee di giustizia e di diritto naturale che entra nella cultura latino/americana con Bartolomé de Las Casas e con la sua difesa degli Indios. Essa si mescola poi con elementi anarchici, anarco/sindacalisti ed anche fascisti. C’è dentro il meglio ed il peggio ma una autentica visione politica latino/americana verrà fuori da una depurazione e da una scissione interna del populismo.
Un grande amico di Papa Francesco (e mio), Alberto Methol Ferré, ha indicato i lineamenti ed i percorsi di questa possibile purificazione. Non è compito della Chiesa (latinoamericana) accompagnare e sostenere questa purificazione attraverso un confronto serrato con la dottrina sociale cristiana?
Pera vede nel cristianesimo un baluardo dell’Europa e della civiltà occidentale. Ha ragione e questo baluardo io voglio difendere insieme con lui. Quella sintesi europea del cristianesimo contiene valori permanenti e senza di essi l’Europa si dissolve. Il cristianesimo però non si esaurisce nella funzione di difesa della civiltà occidentale. Il cristianesimo può entrare all’interno di altri orizzonti culturali e produrre nuove sintesi. Quella occidentale non esaurisce le potenzialità del cristianesimo. Per questo non è giusto che la Chiesa si identifichi con l’Occidente.
L’Occidente è solo uno dei suoi figli. Come non smettere di esercitare il suo ruolo fondamentale nell’Occidente senza peraltro identificarsi con esso? È necessario che ciascuno si assuma con più decisione le proprie responsabilità. Nel caso della immigrazione è chiaro che il Papa la vede prevalentemente con l’ottica dei paesi poveri. I leader politici e culturali dell’Occidente devono invitare i loro popoli ad essere generosi ma devono anche dire sinceramente, anche al Papa, quali sono i limiti della generosità dei loro popoli, limiti che non possono essere superati senza scatenare una reazione di razzismo e xenofobia.
La Chiesa non può rimanere prigioniera dell’Occidente. Uscendo dal limite dell’Occidente essa può forse mediare quel conflitto delle civiltà di cui parla Huntington che è già cominciato e minaccia di estendersi sempre più nel futuro portando alla fine alla distruzione dell’umanità. La Chiesa è chiamata ad essere più veramente cattolica, cioè universale. Il Papa latinoamericano è una tappa di questo cammino.
* Filosofo, politico e accademico italiano, è stato Ministro per due volte, Parlamentare europeo, consigliere comunale a Torino e Vicepresidente della Camera dei Deputati
* LA STAMPA, 20/07/2017 (ripresa parziale - senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è morto.
INDIETRO NON SI TORNA: GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA. PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI: UT UNUM SINT. Un omaggio a WOJTYLA: UN CAMPIONE "OLIMPIONICO", GRANDISSIMO. W o ITALY !!!
USCIRE DALLO STATO DI MINORITÀ! PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! ... *
Giacomo Contri
“Grazie a Lacan ho viaggiato su una nave pirata. La sua è l’intelligenza più spericolata nella quale mi sono imbattuto. Era il pazzo fuggito dalla gabbia, faceva paura"
di ANTONIO GNOLI (la Repubblica, 16.07.2017) *
Giacomo Contri ha introdotto Jacques Lacan in Italia. Lacan genio e provocatore: fumo (molto per alcuni) e arrosto. "Quando portai gli Scritti di Lacan in Italia la psicoanalisi si era ridotta al palloncino in mano alla creatura, robetta infantile, pisciatine nel letto, sgridate e avvertimenti. E allora ecco giungere un signore, con i suoi baveri di pelliccia e il fumo dei sigari, a portare lo scompiglio. Sì, improvvisamente, senza preavviso, il pazzo era fuggito dalla gabbia e tutti ne ebbero paura o ne furono soggiogati". Gli Écrits ai quali Contri allude comparvero in Francia mezzo secolo fa e in traduzione da Einaudi una decina di anni dopo. Rappresentarono, per molti versi, una svolta, un vocabolario nuovo: a volte astruso, altre affascinante su cui far poggiare quel vasto e traballante regno della psicoanalisi. "A quell’epoca Lacan aveva solo sporadici lettori in Italia. Ricordo ancora una quartina che Elvio Fachinelli mi dedicò: "Mena Lacan per l’aia/ Giacomo Contri analista/ Prima che sian migliaia/ Sparagli a vista". Elvio fu un amico, ma poi il fuoco ha abbondato" . Contri sembra un personaggio disegnato da Max Bunker, alias Magnus, l’accostamento mi viene anche notando una pila di fumetti, seminascosta tra una tenda e il mobile.
Legge anche fumetti?
"Perché non dovrei? È letteratura popolare, ne ho una biblioteca enorme".
Cosa la seduce del fumetto?
"La mitologia che le immagini si portano dietro. Il lato mitologico dell’esistenza fu avversato da Platone, che poi non disdegnò di usare il mito. Freud invece ne ha spremuto il succo".
Ha senso dirsi oggi freudiani?
" È soltanto un modo di dire, un’etichetta e niente più. È venuta meno quella unicità che Freud stesso si era attribuito con i suoi libri e le sue parole. Solo io, ripeteva, posso dire che cosa è o non è la psicoanalisi. Parlava come il Papa".
Poteva permetterselo?
" Certo, costruì la psicoanalisi come se fosse una scienza sperimentale. L’osservazione era il primo momento della sperimentazione. E il territorio delle nevrosi è in larga parte esplorabile".
Ma la nevrosi non è proprio ciò che sfugge alla sperimentazione? Ciascuno vive soggettivamente la propria nevrosi.
" Magari fosse così. La verità è che la nevrosi, come la psicosi, è una gabbia coattiva, non la si vive secondo un modo proprio. Voglio dire che la nevrosi è come un cristallo, incapace di varianti".
Ma allora perché Freud è tramontato?
"Sono tramontati i freudiani. Rimozione, coazione a ripetere, fissazione, angoscia non sono affatto tramontate".
Lei come è finito a occuparsi di psicoanalisi?
" La prima cosa che mi è accaduta è stata laurearmi in medicina. Ma non avrei mai fatto il medico. Mi iscrissi nel 1961, l’anno dopo cominciai a frequentare l’istituto di psicologia e in particolare entrai in contatto con Marcello Cesa- Bianchi. A quel tempo la psicoanalisi freudiana si incarnava in Cesare Musatti e nel suo allievo Franco Fornari. Poi lasciai Milano e presi la strada per Parigi. Pensai di trovare lì il clima culturale giusto".
Come si adattò?
"Cominciai a frequentare l’École pratique. I primi contatti furono con Roger Bastide, Roland Barthes e Claude Lefort. Avevo grande stima per Louis Althusser, e per il suo modo originale di leggere Marx e uccidere la moglie. Neanche Jarry avrebbe saputo tenere insieme quelle due tragedie".
Che cosa le legava?
"Fu un omicidio ad alto tasso simbolico. Consumato contro la sua comunità intellettuale, che gli faceva abbastanza schifo".
Mi sembra un accostamento azzardato.
"E perché? In entrambi i casi agiva contro l’autorità: il matrimonio, gli affetti, le lusinghe. Disse che su Marx si era inventato tutto e che li aveva presi in giro. Trovo divertente che per molto tempo Étienne Balibar, suo allievo prediletto, tutte le settimane gli portasse i panini in manicomio!".
Lei lo avrebbe fatto per Lacan?
"Il manicomio di Lacan era il mondo!".
Come lo ha conosciuto?
" Sentii parlare dei suoi celebri seminari. Avevo conosciuto François Wahl, il direttore delle edizioni Seuil, suo amico. Gli chiesi se poteva introdurmi. Venivo da un po’ di letture psicoanalitiche e nel 1968 ebbi tra le mani gli Écrits. Lacan abitava in rue de Lille. Giunsi in una tarda mattina con la mia personalissima mitologia sull’uomo. Faceva molto freddo. Mi venne ad aprire Gloria, la segretaria".
E Lacan?
" Arrivò dopo un po’. Guardai quest’uomo che sembrava avesse fretta. Avemmo una conversazione rapida e insensata. A un certo punto mi chiese cosa stessi leggendo, risposi Max Weber. Il colloquio si interruppe a quel punto".
Forse si aspettava che citasse un suo libro.
"Non era tipo da accettare piaggerie. Andai a trovarlo diverse volte. Mi considerava un potenziale allievo. Cominciai l’analisi con lui".
Era necessaria?
"Beh, se volevo lavorarci assieme era una premessa indispensabile. Le sue sedute psicanalitiche erano famose per la rapidità, non superavano mai il quarto d’ora".
Finita la seduta come si sentiva?
" Bene, mi piacevano quegli incontri. Avevo la netta sensazione che qualcosa di non presente in me uscisse dal mio pensiero".
Catherine Millot in un recente libro (edito da Cortina) ha raccontato il Lacan privato, ne esce un ritratto piuttosto insolito, perfino sorprendente.
" Ho conosciuto bene Catherine, una donna bellissima che fu prima amante e poi compagna di Lacan. Non ho letto il libro, ma credo sapesse molte cose della sua vita privata".
E lei cosa sapeva del Lacan meno noto?
"Aveva ereditato qualcosa del vecchio surrealismo".
Un provocatore?
" Un provocatore e un maramaldo, nel senso " tu uccidi un Io morto". Non aveva nessuna fiducia nell’Io; nel pensiero; nella norma. Semplicemente era dalla parte della legge simbolica non da quella giuridica. Mi torna in mente un piccolo episodio".
Quale?
"Eravamo in macchina, lui guidava con molta spericolatezza e detestava i semafori. Diventava matto davanti a un semaforo rosso. Era uno dei suoi tratti patologici: non accettare la norma".
Insomma un pessimo cittadino.
" Non era un esempio di urbanità e di disciplina. Per lui il diritto era una entità impensabile. Come impensabile era la libertà. Anni dopo, staccandomi da quella visione, sostenni che dopotutto la vita psichica è vita giuridica".
Un’affermazione misteriosa.
" Frutto delle mie letture kelseniane. Kelsen teorizzò una cosa che ho fatto mia: l’uomo non è imputabile perché è libero; è libero perché è imputabile".
È libero perché una norma può condannarlo?
"Secoli di discussioni sul libero arbitrio sono stati azzerati. La vita psichica è vita giuridica perché niente di quello che facciamo è esente dall’imputabilità. Noi compiamo atti che sono imputabili da altri secondo norma".
Che ruolo gioca la colpa?
" Nessuno. Da quando in qua il delitto è fonte e senso di colpa? Quando Freud legge Delitto e castigo vuole capire perché Raskolnikov prima uccide la vecchia e poi tenta di tutto per farsi scoprire. Il motivo è chiaro: Raskolnikov deve dare un contenuto alla propria colpa. È il senso di colpa che giustifica il delitto e non viceversa".
Il crimine come gratificazione?
" Perfino nella Bibbia si dice: guardatevi da questi uomini, commettono le ingiustizie più atroci e sono felici".
Più che la Bibbia sembra il Marchese De Sade.
"Mi viene in mente il saggio di Lacan su Kant contro Sade".
Le viene in mente perché?
"Sono messe a confronto due forme di perversione".
Sade certamente, ma Kant?
" Kant è uno scrittore dell’orrore e della perversione. È il prezzo che paga per essere il pensatore della purezza e della ragione. Dietro il suo pietismo cristiano si nasconde la più formidabile macchina anticristiana che la modernità abbia mai costruito".
Qual è il suo rapporto con la religione?
"Perché me lo chiede?".
Ci sono molte tracce nel suo pensiero.
"Il cattolicesimo è stato uno dei miei orientamenti. Potevo gettare la fede alle ortiche o tentare di fare un passo ulteriore".
Verso quale direzione?
" Mi sono convinto che Gesù non fosse un semplice maestro, un guaritore o un santone. Era un pensatore, come fu Platone prima di lui o Galileo e Marx dopo di lui. La mia considerazione non implica nessun riferimento alla sua esistenza storica. Per me è sufficiente sapere che il suo pensiero formale si è costituito nella seconda metà del primo secolo".
Si sostiene che sia stato Paolo a dare forma a quel pensiero.
"Si è spesso detto che, stringi stringi, Paolo abbia inventato il cristianesimo. Secondo me lo ha messo in bella copia. La verità è che il cristianesimo nasce da un oscuro pensiero che lo precede".
Oscuro perché? La predicazione del Cristo fu semplice e diretta.
"Nel senso dello "Spirito" che precede la "lettera". Il pensiero di Gesù non è ontologico, né metafisico, mantiene una distanza netta dal pensiero greco. Né tanto meno è un pensiero teologico".
Non è un pensiero religioso?
"È un pensiero che non è né ha religione. È il pensiero dell’innocenza ".
Però lei è cattolico.
"Apostolico e romano. Da questo punto di vista definirei la Chiesa non un unione mistica né di massa, ma una costellazione di legami sociali. Se ha senso distinguere una fede questa può solo consistere in un giudizio di affidabilità. Fede è comprendere se un pensiero è affidabile. Altrimenti è solo un gadget dello spirito".
So che lei si è affidato a don Giussani.
"Sono stato tra i primi a partecipare al movimento di Comunione e Liberazione fondato da don Giussani".
Come avvenne l’incontro?
" Al ginnasio dove lui insegnava religione. Lo incontrai nel 1956. Fino al 1969 sono stato ad ascoltarlo. Nella piattezza abitudinaria del mio credo fu un fulmine a ciel sereno. Parlava di Gesù come di un "fatto"".
Come un fatto in che senso?
" Fuori dalle traiettorie teologiche e morali. Meritava di essere ascoltato. Era un prete che non aveva niente del prete. Il che sembra quasi impossibile".
È una notazione interessante.
"Mi pare fosse Guicciardini a parlare della scelleratezza dei preti. E Giussani non aveva niente di scellerato".
La sua lezione in che cosa è consistita?
" Forse nella difficile collocazione del suo pensiero. Aveva un orientamento che chiamerei il senso del religioso. Che è molto diverso dalla religione in quanto tale. È arduo definire Giussani cattolico e forse anche per questo non ha mai contrastato le cose ufficiali del cattolicesimo. L’ultima volta che lo vidi fu in casa di amici comuni".
Un congedo?
"In un certo senso. Era sulla sedia a rotelle. Mi guardò con quegli occhi grandi e sporgenti che accentuavano il volto scavato: Giacomo, disse stringendomi la mano, non si capisce più niente".
Cosa c’era da capire?
" Non c’era una risposta canonica in grado di spiegare quella confessione che mi fu fatta all’inizio del nuovo secolo. Un uomo che aveva lottato per tutta la vita per un fine improvvisamente si trovava davanti a un fallimento epocale e certo non bastavano, a rendergli meno amara la situazione, le decine di migliaia di persone che componevano il suo movimento. La verità è che don Giussani è stato uno degli uomini più soli che abbia mai conosciuto".
Ma ha coinvolto e fatto crescere un movimento.
" È vero, ma mi fermerei lì. Quel " non si capisce più niente" lo avevo vissuto molti anni prima e fu il motivo per passare armi e bagagli a Freud e poi a Lacan".
Forse a questo punto bisognerebbe accennare al cattolicesimo di Lacan.
"Ah! Diceva di avere un grande amore per il cattolicesimo. Ma nelle sue migliaia di pagine non ho letto nulla di significativo sull’argomento. Dal cattolicesimo aveva ereditato l’amore per le chiese barocche e l’ipocrisia suprema".
Dopo tanti anni di frequentazione non le è venuta la tentazione di liberarsi di Lacan?
"La sua fu l’intelligenza più spericolata nella quale mi sono imbattuto. Con lui è stato come andare dagli Appennini alle Ande senza cercare la mamma. No, non intendo liberarmi dall’esperienza di avere viaggiato su una nave pirata".
Che cosa è un maestro per lei?
" Il maestro non è la buona via, ma tant’è ci passiamo tutti. A Lacan il maître non piaceva né come maestro né come padrone. Ma lui fu maledettamente entrambe le cose".
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.... *
INTERVISTA
L’invito di Alain Badiou: i filosofi imparino (dal)la matematica
La crociata di Alain Badiou: non basta avere opinioni per essere pensatori, occorre conoscere le scienze.
L’«Elogio» a teoremi e calcoli pubblicato da Mimesis
di STEFANO MONTEFIORI, corrispondente a Parigi *
«Chiunque è ormai considerato un filosofo», protesta Alain Badiou. «Oggi è sufficiente avere delle opinioni (e relazioni mediatiche giuste) per farle credere universali, benché assolutamente banali». Il filosofo de L’essere e l’evento (il Melangolo, 1995) a 80 anni critica l’abitudine contemporanea, specialmente francese, a confondere tra le figure del filosofo e dell’opinionista. «Non si può certo dominare l’intero campo delle scienze ma si può, e si deve, averne una conoscenza sufficiente, un’esperienza abbastanza approfondita e ampia. Invece, oggi sono numerosi i “filosofi” ben lontani da questo requisito minimo e, in particolare, lontani dal sapere matematico che, da sempre, è stato il più importante per la filosofia». Così nasce Elogio delle matematiche (Mimesis), il libro con il quale Badiou reagisce a quella che ritiene l’usurpazione della qualifica di «filosofo». Il discrimine è lo studio e la conoscenza della matematica: «Con lei è impossibile barare». La matematica come via per il rigore filosofico dunque, e come fonte di gioia intellettuale per tutti.
Da dove deriva la sua fascinazione per la matematica?
«Si tratta senza dubbio di una tripla origine. Famigliare, per cominciare: mio padre era professore di matematica, e fino alla sua morte ha continuato a risolvere problemi per il semplice piacere di farlo. Un’origine scolastica, poi: ho avuto molti insegnanti di matematica capaci di entusiasmare la classe, in particolare mettendo in evidenza la raffinatezza e la formidabile inventiva che una dimostrazione, anche apparentemente semplice, può contenere. E un’origine filosofica, infine: ho dovuto constatare che, nella storia della filosofia, la matematica occupa un posto decisivo e questo dall’inizio, a cominciare da Platone. Due grandissimi filosofi moderni, Cartesio e Leibniz, sono anche dei grandissimi matematici. Pure Hegel, secondo il quale i matematici riescono a pensare solo un ”falso infinito”, consacra loro un capitolo molto brillante della sua Logica. Mi inscrivo in questa tradizione. Mi oppongo dunque, in ragione della stessa origine della mia passione, a due correnti contemporanee: quella che trascura completamente la matematica o addirittura la disprezza, corrente che ha come iniziatore e leader senza dubbio Nietzsche; e la corrente che tributa alla matematica un culto accademico, sviluppando una filosofia molto povera, ovvero la filosofia analitica americana».
Lei si dedica con regolarità alla matematica?
«Sì. Lo faccio adesso in legame stretto con lo sviluppo della mia costruzione filosofica. Lo studio dettagliato della teoria moderna degli insiemi, con i magnifici teoremi di Gödel e di Cohen, ha accompagnato tutta la concezione e la scrittura de L’essere e l’evento (edito in Francia nel 1988, ndr). Mi sono immerso in seguito nella visione recente della matematica rappresentata dalla teoria delle categorie, secondo la quale non ci sono oggetti matematici in senso proprio ma solo delle relazioni. Faccio il bilancio filosofico di questo studio nelle Logiche dei mondi (2005). In questo momento sto completando un terzo libro sistematico, L’immanenza della verità, per il quale ho studiato a fondo la teoria contemporanea dei ”grandi infiniti”. Tutto questo rappresenta, mi creda, un numero di ore, giorni, o mesi, davvero considerevole»
Esiste un atteggiamento tipico, tradizionale, del filosofo nei confronti del matematico? Magari una diffidenza basata sull’incomprensione? E viceversa?
«La filosofia è nata in Grecia con la matematica, come dicevo prima, nello stesso movimento, e questa vicinanza si è mantenuta, sotto forme diverse, fino a oggi. È vero che una corrente empirista, esistenzialista, vitalista, spesso legata alla psicologia, ha sviluppato un disprezzo diffidente nei confronti della matematica, soprattutto dopo la fine dell’Ottocento. Ma penso che questo atteggiamento, anche in Sartre che fu uno dei miei maestri, è fondato nella maggior parte dei casi sull’ignoranza. Il dramma, in Francia, è che i due grandi pensatori della matematica a metà del secolo scorso, Cavaillès e Lautman, hanno scelto senza esitazione, durante la guerra, il campo della Resistenza e sono stati entrambi uccisi dai nazisti. Questo ha prodotto un ritardo importante, in Francia, nel legame fondamentale che deve esistere tra l’invenzione matematica più recente e la creazione filosofica. Possiamo dire che con il compianto Jean-Toussaint Desanti abbiamo cercato di contribuire all’eliminazione di questo ritardo. Peraltro, in un certo senso, c’è una risposta molto semplice alla sua domanda: chi pratica, davvero, la matematica, non può che amarla. Chi non la ama dimostra per questo stesso fatto di ignorarla»
Pensa che i filosofi potrebbero o dovrebbero trarre maggiore ispirazione dal rigore dei matematici?
«Certo! La filosofia è una disciplina argomentativa, anche se si autorizza retorica politica, transfert sulla persona del Maestro, e le risorse seducenti della poesia. Tutto questo si trova nel fondatore di quel che ancora oggi noi chiamiamo ”filosofia”, ossia Platone. Detto questo, c’è un limite. La matematica propone un modello rigoroso di dimostrazione, del quale conosciamo tutte le regole logiche, dove tutte le nozioni sono chiaramente definite, e che può pure essere formalizzato in una lingua artificiale. La filosofia, che opera nella lingua ordinaria, e che tratta dei problemi fondamentali della vita umana, individuale e collettiva, evidentemente non può pretendere questa trasparenza formale. Ma deve proporre degli argomenti quanto più rigorosi è possibile».
Una figura come Alexandre Grothendieck, con le sue prese di posizione filosofiche e politiche, potrebbe essere considerata come un esempio della relazione possibile tra i due mondi?
«È vero che per intendersi bisogna essere in due. Il legame tra filosofia e matematica deve, se possibile, coinvolgere anche i matematici. Ma è difficile. Era più facile ai tempi di Cartesio e Leibniz, che erano allo stesso tempo grandi filosofi e creatori matematici. È vero che alcuni giganti della matematica, come Poincaré, Gödel o, in effetti, proprio Grothendieck, hanno manifestato un reale interesse per la nostra disciplina. Non sono sicuro, tuttavia, che siano andati lontano quanto avrebbero potuto in questa direzione. Quello di Grothendieck è un caso limite, perché possiamo supporre che convinzioni di natura polito-filosofica lo abbiamo in qualche modo sviato dalla carriera matematica. In generale, tuttavia, la forza dimostrativa della matematica affascina molti filosofi ma la debolezza dimostrativa, inevitabile, della filosofia, i cui fini abbordano il destino umano nel suo insieme, delude i matematici. È normale che sia così...».
Un filosofo del passato come Spinoza è stato influenzato dalla matematica?
«Nel Seicento, il modello matematico ha un tale ascendente che alcuni grandi filosofi tentano di presentare il loro sistema sotto la forma deduttiva che troviamo nel più antico trattato di matematica conosciuto, ovvero gli Elementi di Euclide. Si dice allora che la presentazione della filosofia si fa ”more geometrico”, al modo della geometria. Cartesio ha affermato così i ”principi” della sua filosofia. Leibniz ha anche cercato, per tutta la vita, una lingua in qualche modo assolutamente pura e universale, una ”Mathesis Universalis”, per esprimervi ugualmente le sue scoperte matematiche come il suo sistema filosofico. Il grande libro di Spinoza, l’Etica, che parla di Dio, delle Idee, delle Passioni, della vera vita, è scritto dall’inizio alla fine sotto forma di assiomi, di definizioni, e di proposizioni seguite dalle dimostrazioni. Ma questo non ha assicurato a Spinoza un’adesione universale. Esistono, prima e dopo Spinoza, molteplici orientamenti filosofici, spesso conflittuali, e una sola matematica che è, tranne in qualche periodo di crisi, del tutto consensuale».
Sempre più spesso, soprattutto in Francia, la carriera scolastica di un allievo è determinata dai suoi risultati in matematica, principale strumento di selezione. La cultura generale «respirata in famiglia», come direbbe Pierre Bourdieu, vi gioca un ruolo inferiore rispetto alle scienze umane? La matematica potrebbe dunque essere un’arma di democrazia e di parità delle opportunità, ma viene accusata al contrario di accentuare la separazione delle élite.
«Questo ruolo selettivo della matematica è una piaga. Non c’è niente di più egalitario della matematica perché normalmente, con un po’ di attenzione, una dimostrazione esposta chiaramente, e nella quale il linguaggio sia stato precisato in modo corretto, può convincere chiunque, ovunque si trovi, alla sola condizione che questi appartenga all’umanità. Inoltre, c’è un aspetto ludico nella matematica, perché risolvere un problema è un gioco appassionante. Penso che la matematica possa e debba essere imparata e praticata a lungo e da tutti, tutta la vita, e tenuta lontana dai processi sociali di selezione e di gerarchia. La matematica deve essere considerata come la più bella musica della quale sia capace il pensiero puro».
Perché la matematica può renderci felici? E in che modo?
«Mi piace paragonare il lavoro matematico a un’escursione in montagna. La partenza può essere faticosa, su una salita ripida. La cima può sembrare lontana. Dopo un tornante, eccone un altro, e si perde il respiro. Ci si può perdere, e cercare la direzione su una bussola di fortuna. In matematica, allo stesso modo, l’enunciato del problema può apparire complesso. I teoremi già conosciuti sui quali appoggiarsi sfuggono alla nostra memoria. A un certo punto, ti accorgi che hai seguito una pista sbagliata, che devi ricominciare. Ma quando il camminatore arriva sulla cima, che gioia immensa! Che vittoria! Con la matematica succede la stessa cosa. Quando alla fine hai risolto il problema, ti trovi davanti a un paesaggio mentale illimitato, ammiri in te stesso ciò di cui è capace il pensiero. Provi allora quel che Spinoza chiamava “la beatitudine intellettuale”».
* Corriere della Sera, 13 luglio 2017 (modifica il 14 luglio 2017 | 22:34) (ripresa parziale - senza immagini).
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ARITMETICA E ANTROPOLOGIA. UNA DOMANDA AI MATEMATICI:
COME MAI "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia)?! Non è il caso di ripensare i fondamenti?!
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
KANT, FREUD, E LA BANALITÀ DEL MALE.
FESTIVALFILOSOFIA SULLE ARTI. Modena, Carpi e Sassuolo, 15.16.17 settembre 2017
Presentato il programma del Festival della filosofia
Kermesse. Tema della diciassettesima edizione è le «Arti», sinonimo del buon saper fare
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 13.07.2017)
Il tema è di quelli che frettolosamente potrebbero essere rubricati alla voce «accademia». Ma nelle parole degli organizzatori è declinato invece come chiave di lettura non solo per comprendere cosa si muove nel triangolo urbano dove si svolge da diciassette anni il «Festival della filosofia» ma anche per affrontare alcuni nodi del vivere in società, come la rappresentazione del sé come un’opera. Non si affronteranno quindi solo le «belle arti», ma anche quel saper fare alla base dell’antica etimologia greca del termine «arte».
NELL’ILLUSTRARE il programma, sia Remo Bodei che il nuovo direttore del festival filosofia Daniele Francesconi hanno sottolineato che gli argomenti tratti dai cinquanta relatori chiamati a svolgere le loro lezioni in piazza spazieranno dalle belle arti al design alle macchine e a quella figura idealtipica dell’artigiano che manipola la materia per produrre un’«opera». In fondo, tecnica e arte sono stati sinonimi per secoli, prima di essere separati e posti agli antipodi dell’attività umana.
Dunque, come ogni anno dall’inizio dell’attuale millennio, le piazze di Modena, Carpi e Sassuolo saranno riempite, dal 15 al 17 settembre, da un pubblico desideroso di ascoltare filosofi - più recentemente anche sociologi e scienziati - che affrontano il tema scelto dal comitato scientifico.
IL FORMAT DELL FESTIVAL è semplice: lectio magistralis in piazza per un pubblico non pagante, come invece avviene in altre kermesse culturali. E così il numero delle presenze è salito di anno in anno fino a far raddoppiare nei giorni del festival la popolazione delle tre città.
Un limite, evidenziato nel corso del tempo, si è però manifestato: i relatori spesso erano sempre gli stessi. Forse per questo motivo, che il «corpo docente» di quest’anno è stato parzialmente rinnovato, chiamando a parlare nomi poco invitati in Italia, ma che sul tema delle «arti» (il saper ben fare) hanno scritto molto, come la tedesca Rahel Jaeggi, lo statunitense James Clifford, il croato Deyan Sudijc.
LE «ARTI», dunque, come sinonimo di lavoro artigiano, di scienza, creatività, estetica applicata alla produzione e al consumo. Un ordine del discorso che risponde a quello che è stato qualificato, soprattutto dai tre sindaci intervenuti nella presentazione, come il «capitale sociale» presente nella regione che ospiterà il festival. D’altronde Modena, Carpi e Sassuolo sono luoghi di ricerca scientifica, di produzione tessile o di ceramiche di qualità. Insomma, centralità del «savoir faire» e della produzione di opere che ha spinto nel tempo alcuni autori della modernità a contrapporlo, polemicamente, ai classici della filosofia. O come mezzo per tornare alle origini della filosofia (Hannah Arendt non è mai stata citata, ma l’eco delle tesi della filosofa tedesca espresse in Vita Activa era più che evidente).
Come ogni anno, accanto alle lezioni, ci saranno mostre, proiezioni cinematografiche, cene «filosofiche». Il programma completo può essere consultato nel sito: www.festivalfilosofia.it
IL "CRITÈRA", LA "SCHOLA SARMENTI" DI NARDÒ*, E UNA LEZIONE SUL CRITÈRIO PER BEN LEGGERE LA “CRITICA DELLA RAGION PURA”. Un omaggio al lavoro del prof. Armando Polito
PER BEN GIUDICARE.... per ben fare
PREMESSO E TENENDO PRESENTE CHE la conoscenza del greco a noi è venuta dalla Grecia (VIA Calabria: Boccaccio porta da Napoli a Firenze per tenere lezioni di greco Leonzio Pilato da Seminara - cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP//article.php3?id_article=5421; VIA Salento: Gregorio Messere a Napoli - cfr. http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/15/torre-s-susanna-br-celebra-gregorio-messere-380-anni-dalla-nascita/) e quanto sia grande e decisiva per l’intera vita dell’umanità il buon uso della parola (in ebraico, la parola "verità" è detta con il termine "emet") e la parola "morte" con il termine "met"),
CON LA LETTURA DEL TESTO DI QUESTA BRILLANTISSIMA LEZIONE DI FILOLOGIA DEL PROF. ARMANDO POLITO ("Critèra: attenzione all’accento!": http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/07/13/critera-attenzione-allaccento-al-profano-un-semplice-accento-puo-sembrare-un-banale-tanto-piu-nella-cultura-dominante-cui-prevalgono-approssimazione-incompetenza-assenza-pressoche-tot/)",
INIZIEREI LE LEZIONI DEL CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA NON SOLO ALL’UNIVERSITA’ non solo di Roma, ma anche di Lecce, di Napoli, di Firenze, di Milano, d’Italia e di Europa!!!
A 230 anni dalla pubblicazione dalla seconda, importantissima e decisiva, edizione (per la lotta "Contro l’idealismo" e i sogni dei visionari e dei metafisici), della "CRITICA DELLA RAGION PURA", nell’epoca della "post-verità" (cfr.: https://it.wikipedia.org/wiki/Post-verit%C3%A0) e delle "fake news" (cfr.: https://it.wikipedia.org/wiki/Fake_news) non fa assolutamente male bere un buon bicchiere di vino "Critèra" e di ricordare - per la nostra umana SALUTE! - la lezione del saggio illuminismo kantiano (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829)!!!
*
NOTA: LA "SCHOLA SARMENTI" DI NARDÒ....
A COMINCIARE DALLA FINE, E DALLA BOTTIGLIA DI "ROCCAMORA" (sull’etichetta della bottiglia di rosso "negroamaro", in forma di "croce", appare un "calice" con dentro il "sole"!), GUARDANDO E "LEGGENDO" CON maggiore ATTENZIONE L’IMMAGINE DELL’ETICHETTA, E FREQUENTANDO (di più) LA "SCHOLA SARMENTI" (cfr.: http://www.foodandtravelitalia.it/schola-sarmenti-dallamore-la-terra-leccellenza-bottiglia/), è possibile capire MEGLIO (mi sia lecito!!!) QUESTO PREZIOSO contributo del prof. Armando Polito, "ROCCAMORA, OVVERO IL VINO COME STORIA E COME CULTURA" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/06/05/roccamora-ovvero-vino-storia-cultura/), e, forse, riuscire a non confondere il buon-vino con il vino taroccato, o, diversamente e più pertinentemente, di non perdere il legame che corre e scorre tra il vino, l’acqua sporca, e il bambino [...] (CFR. FEDERICO LA SALA, "LA COMETA, L’APOCALISSE, LE "CIFRE DELL’EUCHARISTIA", E UNA BOTTIGLIA DI ROCCAMORA!!! IN VINO VERITAS": http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/06/05/roccamora-ovvero-vino-storia-cultura/#comments).
Federico La Sala
ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA....
L’evoluzione di un mito che resiste fino al libro di Abécassis e Lacombe
Golem
I segreti del primo umanoide padre di replicanti e di robot
di Marino Niola (la Repubblica, 12.07.2017)
Il primo umanoide della storia è nato cinque secoli fa nel cuore della Praga magica, quando, nell’oscurità sapienziale della Sinagoga Vecchia-Nuova, un Golem prese vita tra le mani del Rabbino Judah Loew, grande cabalista, talmudista e matematico. Che riuscì ad animare quella creatura di fango intonando nenie magiche e incidendo sulla sua fronte le lettere del nome di Dio. Di fatto il sapiente conoscitore delle scritture aveva ricreato la creazione. Il suo colosso d’argilla era una sorta di Adamo senz’anima, asservito al suo creatore e del tutto privo di coscienza. Anche se a furia di perfezionamenti e apprendimenti, finisce per emanciparsi dal suo creatore.
Il mito del gigante dalla forza sovrumana, nato per difendere il popolo d’Israele dai suoi nemici, è arrivato fino a noi ed è diventato di fatto il padre di tutti gli automi che abitano il nostro immaginario. Come racconta la bellissima mostra del Mahj (Museo di Arte e Storia del Giudaismo) di Parigi. Titolo, Golem! Avatar d’une legende d’argile (fino al 16 luglio). I curatori, Paul Salmona e Ada Ackerman hanno messo insieme con scelte espositive di grande suggestione dei pezzi da urlo. Documenti preziosi, testi religiosi, immagini, film, affiches, opere di artisti contemporanei, fumetti, videogiochi e robot per mostrare vita, morte e miracoli di questo archetipo di tutti i mostri. Da Frankenstein alla Cosa, da Hulk a Terminator, dai replicanti ai Pokemon. Tutti figli della creatura leggendaria animata dal grande MaHaRaL di Praga, acronimo di Nostro Maestro Rabbino Loew. -Così i suoi concittadini avevano soprannominato Judah, circondato da un’aura di mistero che il tempo e gli uomini non hanno scalfito. La sua statua, che troneggia davanti al municipio praghese, ha resistito ai regimi, alle bombe, alle intemperie e ai graffitari. Perfino gli uccelli, si dice, evitano di poggiarsi sulla testa del MaHaRaL. Certo è che questo sapiente, amico di Tycho Brahe e Keplero, ha il merito di aver traghettato la figura del Golem dall’antica teologia alla moderna mitologia.
Non senza l’aiuto della letteratura e del cinema. Ad aprire la serie è lo scrittore esoterista austriaco Gustav Meyrink che con il suo romanzo Der Golem, uscito nel 1915, fa del gigante la matrice di tutte le nostre creature artificiali, reali e immaginarie. Con il contributo di un grande illustratore come Hugo Steiner-Prag, che dà al simulacro animato un volto destinato a entrare nell’immaginario globale.
Il resto lo fa il grande schermo che celebra il primo mostro di celluloide con la trilogia di Paul Wegener (1915-20), celebre esponente dell’espressionismo tedesco. Che nella trasposizione cinematografica della leggenda ci crede tanto da metterci la faccia. Sarà lui stesso, infatti, con la sua stazza imponente a vestire i panni dello spaesato Moloch. La meccanica rudimentale della sua camminata, il suo caschetto da sfinge faranno scuola, grazie anche alla fotografia di Karl Freund, collaboratore fisso di Fritz Lang e creatore di Maria, il robot di Metropolis.
Da allora l’androide di argilla diventa il simbolo della creatura che sfugge al controllo del creatore. Della ribellione delle macchine che disobbediscono all’uomo, esattamente come questo ha disobbedito a Dio. Non a caso la prima menzione del termine Golem si trova nel Salmo 139 della Bibbia ed esce dalla bocca di Adamo che si rivolge al Signore definendosi una massa informe. E di fatto si autoproclama primo golem di sempre. Era il parere di quei dottissimi rabbini che nel Medioevo e nel Rinascimento si interrogavano sulla natura e sul ruolo sociale di questi diversamente uomini. Che stando al Talmud era realmente possibile animare usando come tutorial il Sefer Yetsirah, il Libro della creazione, che fornisce istruzioni dettagliate sulle combinazioni alfanumeriche usate da Dio per mettere in moto la macchina del mondo. Una cosmogonia che si fonda sulla magia generativa dei numeri e delle lettere.
E infatti il Golem comincia a vivere grazie alla potenza del termine emet, in ebraico verità. E smette di vivere quando l’iniziale viene cancellata e restano i tre caratteri di met che significa morte. È un principio binario che cifra in un algoritmo il segreto della vita. Non a caso il primo computer prodotto da Israele nel 1965, fu battezzato Golem I e a scegliere il nome fu Gershom Scholem, il grande filosofo, teologo e cabalista amico di Walter Benjamin.
E proprio con la robotica e la cibernetica si conclude la mostra parigina. Corpi aumentati, ibridazioni genetiche, nanotecnologie, transazioni informatiche, avatar. Forme di golemizzazione della realtà. Nel senso che segnano il passaggio dal Golem originario, copia rudimentale e incompleta dell’uomo, a un Golem post-umano che è a tutti gli effetti un uomo ulteriorizzato.
Deve averlo pensato anche Bill Gates quando di recente ha proposto di tassare i robot come se fossero individui. Declinando al presente la domanda che ci pone da sempre il mostro di argilla. Cos’è che definisce la persona? La natura, la forma o la funzione? La stessa domanda che si pone e ci pone anche la carismatica e dilemmatica Lisa Simpson, in un episodio dove il Golem piomba nella famiglia di Homer e Marge.
La risposta è nessuna delle tre. Perché a rendere umani sono la coscienza e i sentimenti. Quelle lacrime nella pioggia che fanno brillare un lampo di umanità nel replicante di Blade Runner. O il balbettio del Golem Josef, protagonista della versione più recente della leggenda. Contenuta nel bellissimo libro L’ombra del Golem, di Éliette Abécassis, splendidamente illustrato da Benjamin Lacombe e appena tradotto in italiano da Camilla Diez (Gallucci, pagg. 184, euro 19,90).
Un avvincente racconto per ragazzi che riscrive la leggenda praghese dalla parte delle bambine. In questo caso, infatti, è Zelmira, la pupilla del MaHaRaL, a far breccia nel cuore del gigante che si è ribellato al suo costruttore e ad arrestare la sua furia distruttiva.
«Golem volere bene a Zelmira ». Sono le ultime parole del mostro prima che Judah lo disattivi chiudendo per sempre quegli occhi che Borges definiva «meno di uomo che di cane e ancor meno di cane che di cosa». Come dire che solo l’amore ha più potere del nome di Dio.
AL DI LA’ DELL’ORIZZONTE DEMIURGICO. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA
“Così capiamo la forza che lega insieme l’Universo”
di Nicla Pancera (La Stampa, 07.07.2017)
«Non era mai stata osservata sperimentalmente, ma sapevamo che prima o poi l’avremmo trovata, perché la sua esistenza era prevista dalle teorie attuali». È orgoglioso Alessandro Cardini,responsabile dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare dell’esperimento LHCb, uno dei quattro montati sul l Large Hadron Collider del CERN (gli altri sono ATLAS, ALICE e CMS) che ha osservato la nuova particella, chiamata X_cc^(++) (Xicc++) la cui peculiarità è quella di essere composta da due quark charm, pesanti, e da un quark leggero, e di essere quindi molto pesante, quattro volte più del protone. «Protoni e neutroni sono composti da tre quark, di cui solo uno pesante, ma le teorie fisiche prevedevano da tempo la possibilità di ottenere particelle formate da più quark pesanti».
Come è nata la vostra scoperta?
«Dal 2015 a oggi, nel corso del secondo periodo di funzionamento di LHC, il Run2, abbiamo osservato 300 particelle Xicc++ e un altro centinaio sono state riconosciute a posteriori negli esperimenti del Run1».
Finora ci avevano già provato, senza successo, altri esperimenti, come «BaBar» in California e «Belle» in Giappone.
«Anche al CERN, quindici anni fa, sembrò di avere visto qualcosa, ma le conferme non erano mai arrivate».
Come mai era così difficile?
«Capita spesso che fluttuazioni statistiche vengano interpretate come prova dell’esistenza di quanto si sta cercando. Solo dettagliate misurazioni spettroscopiche possono dire con certezza cosa abbiamo davanti».
Quindi, pur non essendo una vera e propria new entry nello zoo delle particelle, Xicc++ è motivo di grande orgoglio per i ricercatori. Vederla è stato possibile solo adesso. Perché?
«Grazie a una grande capacità degli strumenti di identificazione delle particelle e alla potenza dell’acceleratore, di 13 TeV, che ci ha consentito di acquisire dati di una purezza particolare».
«Trovare un barione con due quark pesanti è di grande interesse - aggiunge Giovanni Passaleva, il nuovo coordinatore della collaborazione LHCb - Perché può fornire uno strumento unico per approfondire la cromodinamica quantistica, la teoria che descrive l’interazione forte, una delle quattro forze fondamentali», cioè quella, ancora misteriosa, che tiene unite le particelle al nucleo atomico.
I ricercatori sono già al lavoro per misurare i meccanismi di produzione e di decadimento e la durata di vita della nuova particella. La speranza è che poterla vedere «nascere» e «morire» porti verso una maggior comprensione delle regole che creano la materia dell’Universo.
La “Particella Xi”
Ecco che cosa unisce la materia
Inseguita da anni, l’ha trovata il Cern grazie al Large Hadron Collider Servirà per capire una delle forze fondamentali della natura
di Piero Bianucci (La Stampa, 07.07.2017)
L’anagrafe del mondo subnucleare registra una nuova particella, annunciata ieri a Venezia in apertura del convegno della Società Europea di Fisica. Si chiama Xi ed è esotica rispetto alla materia di cui siamo fatti. Mentre tutto il mondo che conosciamo è costruito con due tipi di quark leggeri, Up e Down, la particella Xi è costituita da due quark più pesanti, chiamati Charm, e da uno «normale», un quark Up. La cosa eccitante per i fisici è che mai finora due quark Charm erano stati osservati insieme. Singolare è anche l’assetto delle tre particelle che formano la Xi: i due quark Charm stanno al centro come un minuscolo sole e il quark Up gira loro intorno come un pianeta.
Nell’insieme, Xi è una particella alquanto massiccia. Pesa 3,6 GeV, cioè quasi 4 volte un protone. Ora i fisici cercheranno di produrre un grande numero di Xi per osservarne il comportamento e comprendere meglio i meccanismi dell’interazione forte, cioè la forza che regola i rapporti tra adroni, nome collettivo che si dà alle particelle pesanti. E poiché l’estremamente piccolo e l’estremamente grande dipendono strettamente l’uno dall’altro, alla fine potrà uscirne una migliore conoscenza dell’evoluzione stessa dell’universo.
La scoperta di Xi è interessante ma non rivoluzionaria. Anzi, l’esistenza di questa particella era prevista dalla teoria del Modello Standard e c’erano già indizi della sua esistenza. Non siamo dunque di fronte a una nuova fisica ma piuttosto a una conferma. L’importanza di Xi sta nelle possibilità di indagine che apre ad una sempre più robusta definizione del Modello.
L’osservazione di Xi è frutto di uno dei grandi esperimenti distribuiti lungo il gigantesco collider LHC del Cern di Ginevra, un anello di magneti superconduttori lungo 27 chilometri nel quale vengono fatti scontrare protoni che corrono in direzioni opposte a una velocità vicina a quella della luce. L’energia delle collisioni è la massima mai raggiunta in un laboratorio: LHC lavora a 14 TeV, cioè 14mila miliardi di elettronvolt. Per farsi un’idea di che cosa significa, l’energia in gioco nella vita quotidiana, per esempio quella dei fotoni della luce solare, è dell’ordine di un elettronvolt. A 14 TeV si ricreano le condizioni di energia che esistevano nell’universo miliardesimi di secondo dopo il big bang, un miscuglio di quark, elettroni, neutrini.
I quark previsti dal Modello Standard sono sei: l’ultimo, il quark Top, è stato trovato al Fermilab di Chicago nel 1995. I sei quark possono combinarsi in vari modi, alcuni consentiti e altri proibiti dalle leggi della fisica. Nel mondo ordinario, i nuclei atomici sono costituiti da protoni e neutroni, i quali a loro volta sono combinazioni di quark Up e Down. Solo in un mondo super-energetico compaiono gli altri quattro tipi di quark, le cui combinazioni sono in parte da esplorare. Xi è un passo in questa direzione. Non cambia niente nella nostra vita, non ci sono applicazioni immaginabili. Quello che è si è ottenuto è tassello di conoscenza pura. Il piacere della scoperta per la scoperta.
L’esperimento che ha rivelato Xi è noto tra i fisici come LHCb ed è pensato per indagare su violazioni della simmetria nelle particelle elementari, in particolare la simmetria di carica elettrica e destra/sinistra. Una terza simmetria è quella rispetto al tempo. Nella maggioranza dei casi le simmetrie sono rispettate. Ma sono le rare violazioni ad essere interessanti: si ritiene che una di queste violazioni abbia prodotto la scomparsa dell’antimateria e quindi l’universo che ora ci ospita.
Basta con i sogni della metafisica
Quando Kant si congedò da Platone
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 09.07.2017)
In filosofia non esistono momenti che segnino decisamente un prima e un poi, non ci sono, come, ad esempio, nella scienza, punti di non ritorno. Tutto viene sempre rimesso in discussione. Altrimenti non leggeremmo oggi i testi di Platone. Questo non vuol dire che, nella storia del pensiero, non si siano delineate vere e proprie svolte. Tra queste si staglia, per la sua luminosità e la sua imponenza, la rivoluzione copernicana di Immanuel Kant.
Ad essere rovesciata è la prospettiva della conoscenza umana. Ma non solo. È stato lo stesso Kant a richiamarsi esplicitamente a Copernico nella prefazione della sua più celebre opera La critica della ragion pura, pubblicata nel 1781. Non è l’intera volta stellare a ruotare intorno all’osservatore; piuttosto, nella nuova visione di Copernico, è l’osservatore che ruota intorno alle stelle. Così come è la Terra che ruota intorno al Sole. Un analogo mutamento va introdotto, secondo Kant, anche nella filosofia. Non è il mondo a ruotare intorno all’uomo che lo contempla immobile per scoprirne il segreto ordinamento. Al contrario è l’uomo che, con il suo moto ordinatore, forma il mondo.
Il soggetto acquista, con la rivoluzione copernicana di Kant, un’importanza che non aveva mai avuto prima. Apparentemente decentrato, è tuttavia il soggetto ad avere un ruolo attivo, a muoversi intorno al mondo degli oggetti, per conoscerli, formarli o - come direbbe Kant - «schematizzarli». Le nostre facoltà, il senso e l’intelletto, non sono neutrali, procedono per schemi, lasciano cioè un’impronta sugli oggetti. È vano illudersi ancora: l’ordine del mondo intorno a cui ruotiamo è per noi inaccessibile, così come non arriveremo mai a conoscere l’oggetto «in sé», nella sua essenza intima.
Kant si dissocia da una lunga tradizione che, già partire da Platone, aveva considerato compito della filosofia portare alla luce l’in-sé degli oggetti, la loro idea, la loro forma precipua. Nulla impedisce che questa essenza degli oggetti esista - ammette Kant. Ma quel che degli oggetti noi conosciamo è il modo in cui si manifestano, in cui sono non in sé, bensì per noi. Noi conosciamo solo i fenomeni, mai gli oggetti in se stessi. Non siamo infatti passivi e organizziamo attivamente tutto quello che andiamo conoscendo secondo le forme del nostro percepire e del nostro intendere. La realtà è già sempre articolata dalle nostre condizione soggettive, dai nostri schemi spazio-temporali. In un certo senso è come se, quando conosciamo la realtà, la spingessimo a parlare la nostra lingua.
Impostori e dogmatici, lestofanti e visionari, architetti di mondi campati in aria, sono per Kant tutti coloro che contrabbandano la propria conoscenza dei fenomeni per la vera essenza della realtà. Basta, dunque, con i sogni della metafisica, che pretendeva di svelare l’ordine universale! Dopo Kant il soggetto rinuncia a una conoscenza che superi le sue possibilità per organizzare il proprio mondo secondo autonome norme etiche e politiche che possono aspirare a un’umana universalità.
EBRAISMO E DEMOCRAZIA. PER LA PACE E PER IL DIALOGO, QUELLO VERO, PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo")
Decostruito il mito di Israele
Guerra dei sei giorni. Sulla base di inedite fonti d’archivio ancora sotto segreto, Ahron Bregman mostra le tappe successive dell’occupazione, nei suoi effetti sui popoli dei Territori: «La vittoria maledetta», da Einaudi
di Massimiliano De Villa (il manifesto, 02.07.2017)
Il mattino del 14 maggio 1967, il primo ministro israeliano Levi Eshkol sta osservando, dalla terrazza del suo ufficio, la sfilata del Giorno dell’Indipendenza quando il generale Yitzhak Rabin gli riporta movimenti sospetti di reparti egiziani che, attraversato il Canale di Suez, sono sbarcati nel Sinai. È solo l’inizio: nel giro di tre settimane, l’Egitto ordina ai caschi blu delle Nazioni Unite di ritirarsi dalla penisola sinaitica, schiera sette divisioni militari lungo il confine con Israele, chiude gli stretti di Tiran, importantissimo passaggio per le navi israeliane, e sigla un accordo di difesa con la Giordania.
Lo schieramento di forze egiziane turba un equilibrio già assai fragile: dalla crisi di Suez del 1956, del resto, il presidente egiziano Nasser, leader popolare di un panarabismo montante, non ha mai smesso di parlare della distruzione di Israele e, nei mesi precedenti il giugno 1967, la sua propaganda anti-israeliana si è fatta più virulenta. I nemici sionisti - va ripetendo Nasser con retorica pettoruta, mentre gli altri capi di stato arabi gli fanno variamente eco - devono essere cancellati e ributtati in mare. Per gli israeliani, spaventati dal riproporsi di recenti spettri, la chiusura degli stretti è il casus belli: di qui l’attacco, improvviso e rapidissimo.
Nel giro di sei giorni, dal 5 al 10 giugno 1967, le Forze di difesa israeliane sbaragliano tre fronti, l’egiziano, il giordano e il siriano, irrompendo nei territori arabi e occupando il deserto del Sinai, la Striscia di Gaza, le alture del Golan e la Cisgiordania, compresa la parte orientale della città di Gerusalemme. Per Israele, questa guerra che, con la velocità del fulmine, ne triplica il territorio è una vittoria straordinaria. Un’ondata di fervore messianico dilaga nel paese, gli osservanti parlano di miracolo, i laici non nascondono l’emozione. La terra di Israele è stata restituita ai suoi antichi abitanti, questa è la voce che corre dal deserto del Negev al Mare di Galilea, mentre il mondo sbalordisce alla rapidità e alla potenza dell’apparato militare israeliano. Le operazioni belliche si chiudono in pochi giorni e si apre, in parallelo, la questione, insieme spinosa e delicatissima, dei Territori occupati e degli insediamenti israeliani. Un’occupazione - dicono gli osservatori esterni - che durerà poco e che invece, tolto il Sinai e, solo da qualche anno, la Striscia di Gaza, entra oggi nel suo cinquantesimo anno.
Sono molti i libri che, negli anni e nei mesi scorsi, hanno ripercorso, interpretato, indagato la Guerra dei Sei Giorni nel suo cinquantesimo anniversario. Tra le analisi più acute, quella di Ahron Bregman, inS La vittoria maledetta. Storia di Israele e dei Territori occupati (Einaudi, traduzione di Maria Lorenza Chiesara, pp. 340, euro 33,00).
Già il titolo rivela il taglio del saggio: quella che da Israele era stata vissuta come una benedizione, il compiersi dell’antica promessa fatta da Dio ai padri e il suggello trionfale dell’impresa sionista, mostrerà, nel giro di poco, il suo vero volto, mutando in modo definitivo la fisionomia medio-orientale e trasformando Israele, agli occhi dell’Occidente, da vittima della storia a paese occupante.
Il saggio di Bregman, israeliano emigrato a Londra durante la prima intifada per esplicito dissenso politico e ora professore di storia militare al King’s College, ha inizio inquadrando il problema da un punto di vista giuridico: quella di Israele nei confronti dei territori conquistati nel 1967 è de iure un’occupazione, condotta in aperta violazione della Convenzione dell’Aja, stipulata a inizio Novecento, e della più tarda e più famosa Convenzione di Ginevra del 1949.
Sulla base di inedite fonti d’archivio israeliane, in parte ancora coperte dal segreto, Bregman dimostra, con coerenza aristotelica e senza mai rinunciare a una narrazione brillante, le tappe successive dell’occupazione nei suoi effetti sulla popolazione dei Territori: la creazione di governi militari israeliani, l’uso dell’esercito per soggiogare gli occupati, la raffica di decreti d’urgenza e di ordinanze militari, l’avvio di una vertiginosa macchina burocratica che disciplinerà, di lì in avanti, ogni centimetro di vita pubblica, dall’accesso agli impieghi all’accesso alla rete idrica e all’elettricità, con estenuanti trafile per ottenere, nel migliore dei casi, un permesso o una licenza. Poi le restrizioni sugli spostamenti, i lunghissimi controlli alle frontiere, gli espropri coatti, la pulizia etnica dei territori conquistati, la distruzione di antichissimi villaggi arabi con i trasferimenti forzati dei loro abitanti in Giordania o in Siria, la costruzione, sul medesimo terreno, di basi militari e insediamenti ebraici, e l’invio di coloni israeliani, spesso ebrei ortodossi, a ripopolarli.
Nella ricostruzione storica, il resoconto cede spesso il passo alle memorie e alle testimonianze di prima mano degli occupati, facendo vibrare la corda del vissuto personale senza inficiare la sobrietà dell’analisi e rivelando anzi alcuni angoli ciechi sui quali non era stata fatta sufficiente luce.
Saldamente ancorato a un criterio cronologico, Bregman passa in rassegna le pratiche e i metodi dell’occupazione israeliana, suddividendo l’esposizione in tre parti: il primo decennio di occupazione - con una sezione per ogni territorio occupato a stagliare, di ognuno, la particolare fisionomia - il secondo decennio che culmina con la prima intifada e, infine, gli ultimi vent’anni con il procedere a singhiozzo degli accordi di pace, l’assassinio di Yitzhak Rabin, la passeggiata di Ariel Sharon sulla spianata delle Moschee e l’innesco della seconda intifada fino alla roadmap della pace e al disimpegno israeliano dalla Striscia di Gaza.
Il fuoco principale della ricostruzione storica, l’occupazione israeliana dei Territori, non impedisce all’autore di seguire altri fili, dalla resistenza palestinese alla guerriglia armata, agli attacchi terroristici contro Israele, dalla leadership di Arafat ai successi elettorali di Hamas.
Di decennio in decennio, con i passi accorti e precisi dell’indagine storiografica, Bregman decostruisce, nelle sue pagine, il mito, diffuso dagli israeliani all’indomani della Guerra dei Sei Giorni, dell’occupazione illuminata. Mai - sostennero infatti fin da subito gli israeliani - un popolo che, come il loro, aveva vissuto sulla pelle la spaventosa esperienza della persecuzione avrebbe replicato il trattamento su altri.
Eppure - Bregman lo sottolinea fin dalle prime pagine traendo conclusioni amare - «un’occupazione illuminata è una contraddizione in termini, come quella di un triangolo quadrilatero. Nessuna occupazione può essere illuminata.
I rapporti tra occupante e occupato sono sempre basati su paura e violenza, umiliazione e dolore, sofferenza e oppressione; in quanto sistema di padroni e schiavi, l’occupazione non può che essere un’esperienza negativa per l’occupato. Che Israele - una nazione piena di vita e istruita, terribilmente consapevole dei mali della storia - abbia imboccato la strada dell’occupazione militare è di per sé abbastanza stupefacente».
KANT (1784), FOUCAULT (1984), E "LA FINE DI TUTTE LE COSE" ( KANT, 1794). Una nota ... *
NONOSTANTE LA SOLLECITAZIONE DI FOUCAULT (1984) A ESSERE GIUSTI CON KANT E A RISTUDIARE E A RIPENSARE LA SUA OPERA E LA SUA LEZIONE A PARTIRE DALLA "RISPOSTA ALLA DOMANDA: CHE COSA E’ L’ILLUMINISMO?" (1784), IL LAVORO DELLA GRANDE RESTAURAZIONE IDEALISTICA PRIMA E MATERIALISTICA POI CONTRO LA VIA DELLA “CRITICA” E LA SUA “RIVOLUZIONE COPERNICANA” CONTINUA FEROCE, CALPESTANDO OGNI DECENZA STORIOGRAFICA E ADDIRITTURA IGNORANDO NON SOLO LE OPERE DELLA FASE COSIDDETTA "PRE-CRITICA" (cfr.: Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”) MA ANCHE LE OPERE DELLA FASE "CRITICA" (cfr. I. Kant, "La fine di tutte le cose", 1794 - e in particolare la seconda nota, dove chi si sbizzarrisce in paragoni ripugnanti per rappresentare il nostro mondo terreno, "senza degnare di attenzione la disposizione al bene che vi è nella natura umana, raffigurando la nostra dimora terrena con grande disprezzo: 1) come una locanda - o un caravanserraglio ... 2) come un penitenziario... 3) come un manicomio... 4) come una cloaca, che raccoglie tutti i rifiuti espulsi dagli altri mondi")!!!
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SU KANT (e Freud e la banalità del male), mi sia consentito, si cfr. ALCUNE MIE "NOTE PER UNA RILETTURA": https://www.academia.edu/12356078/KANT_FREUD_E_LA_BANALITA_DEL_MALE.
Federico La Sala
1. Nell’ottobre 1974, in una conferenza sulla progressiva medicalizzazione della società tenuta presso l’Università di Stato di Rio de Janeiro, Foucault introduce il concetto di «bio-storia» per sottolineare che «la storia dell’uomo e la vita sono profondamente intrecciate», dal momento che «la storia dell’uomo» è in grado di modificare, almeno «fino a un certo punto», il «processo» della vita 1. Da allora, a seguito dell’«intrusione di Gaia» - per usare un’espressione di Stengers -, la bio-storia ha assunto una fisionomia molto differente.
Il recente Esiste un mondo a venire? di Danowski e Viveiros de Castro 2 non lascia dubbi al proposito: l’immensa crisi ecologica in corso esercita un tale impatto sulla «storia dell’uomo» da avere definitivamente messo in crisi, oltre all’impianto sociale e allo stile di vita egemoni a livello planetario, una delle più classiche tra le dicotomie su cui si fonda la teologia politica occidentale, quella tra natura e cultura. Come affermano la filosofa e l’antropologo brasiliani, la nostra specie si è trasformata «in forza geologica», «in un oggetto “naturale”» e il «Sistema Terra» in «un agente politico», in «una persona morale» (p. 45).
Il vettore della bio-storia, insomma, non è unidirezionale: se è certo che la “nostra specie” continua a manipolare i processi naturali su scale forse neppure immaginabili fino a poco tempo fa, altrettanto certa è la capacità della storia naturale di sconvolgere a fondo i processi umani; tanto che oggi non è più possibile parlare seriamente di politica senza tenere conto del ruolo politico della “natura”.
Che ci piaccia o meno, grazie alle sempre più continue e terrificanti irruzioni bio-storiche di Gaia «il nostro mondo sta smettendo di essere kantiano». La forza di Gaia nell’arena politica ha definitivamente mandato fuor di sesto «Dio, Anima e Mondo», le «tre grandi idee trascendentali» di Kant (p. 36), destituendole di senso e facendole girare a vuoto: non siamo di fronte a «una “crisi”nel tempo e nello spazio, ma [a] una feroce corrosione del tempo e dello spazio» (p. 52).
2. Esiste un mondo a venire?, allora, non è «solo» un’accurata revisione delle evidenze empiriche della catastrofe in cui siamo già immersi e degli effetti a lunghissimo termine che comunque comporterà. Revisione, sia detto per inciso, sicuramente necessaria vista «la recente e ignominiosa elezione del negazionista Donald Trump» (p. 13) e considerato che - per parafrasare Žižek - un conto è sapere che qualcosa può accadere e un altro è credere che stia accadendo.
Esiste un mondo a venire? è anche, e soprattutto, il tentativo di portare alla luce il clamoroso non dettodelle più recenti narrazioni occidentali - filosofiche, letterarie e cinematografiche; utopiche o distopiche - della fine del mondo: la ripetizione acritica della «dualità mitica “umanità/mondo”» (p. 55). Aspetto questo tutt’altro che trascurabile dal momento che la rigida separazione Uomo/Mondo ha contribuito a forgiare - quantomeno legittimandola - la potenza operativa dell’impresa tecno-scientifica occidentale, principale causa dell’attuale disastro planetario. Anche se a prima vista sembrano contrapporvisi, le «nostre» mitologie della fine del mondo, sia che prevedano «un mondo senza noi» o, all’opposto, «un noi senza mondo», non si smarcano dalla logica più profonda del dualismo gerarchizzante e sezionante che si cela dietro l’«ottimismo “umanista”» (p. 22).
Semplificando molto e senza seguirne le molteplici ramificazioni - che i due autori descrivono in dettaglio e criticano con acume sia che guardino al passato o al futuro, sia che si inseriscano in paradigmi di «sinistra» o di «destra», sia che si presentino come «apocalittiche» o come «integrate» -, ciò che conta è che nessuna di queste visioni ha preso congedo dall’«allucinazione narcisistica» (p. 79) dell’antropocentrismo.
Che il «mondo senza noi» sia inteso come una sorta di mitico giardino dell’Eden prima della Caduta o come il risultato finale della catastrofe ecologica, e che il «noi senza mondo» assuma le tinte fosche di un annientamento su scala globale o quelle deliranti di un’umanità capace di trascendersi riassorbendo il mondo in se stessa, il «mondo che finisce» è sempre «il “nostro” mondo» (p. 98) e il “noi”, che sta parlando e di cui si parla, è sempre «l’“Umano, che lo si chiami Homo sapiens o Dasein» (p. 57).
Detto altrimenti, le «nostre» bio-storie della fine del mondo sono ancora umane, troppo umane, poiché ribadiscono sia l’esteriorità e la singolarità del «mondo» - che servono a naturalizzare la cosmogonia scientifica occidentale - sia l’universalità del «noi» - che in questo caso opera come dispositivo di occultamento del fatto che la crisi ecologica non è attribuibile indistintamente a tutta la specie umana e che i suoi effetti deleteri si estendono, e si estenderanno sempre di più, ben oltre i confini della nostra specie.
3. Come è noto, esistono altre bio-storie oltre alla «nostra», bio-storie meno violente e distruttive che enfatizzano l’intrinseca relazionalità del vivente. Tra queste, Danowski e Viveiros de Castro si concentrano sul prospettivismo amerindio in quanto propone una concezione del «noi» e del «mondo» - ammesso che si possa continuare a usare questa terminologia - diametralmente opposta a quella della modernità umanista.
Per il prospettivismo amerindio all’inizio «tutto era umano» (p. 148) e tutto resta tale anche dopo che i non umani si sono differenziati morfologicamente nel tempo delle trasformazioni. Da un lato, allora, «l’umanità [è] una moltitudine polinomica» che «si presenta [...] nella forma di una molteplicità interna» da cui, solo in un secondo momento, si originano altri individui e altre specie in una sorta di darwinismo invertito (non sono gli umani a evolversi dagli animali, ma gli animali a travestirsi da umani).
E dall’altra il mondo, «quello che noi chiamiamo mondo naturale, o “mondo” in generale, è [...] una molteplicità di molteplicità intrinsecamente connesse. Gli animali e le altre specie sono [...] entità politiche». In breve, «gli amerindi pensano che, tra il cielo e la terra, esistano molte più società [...] di quante ne sognino la nostra antropologia e filosofia. Ciò che noi chiamiamo “ambiente” è per loro una società di società, un’arena internazionale, una cosmopoliteia» (pp. 150-151).
Quest’altra bio-storia che, malgrado tutto, è riuscita a sopravvivere alla fine del suo «mondo» conseguente all’invasione coloniale, permette agli autori, di declinare la crisi ecologica nei termini di una «guerra civile» (p. 195) tra «Umani» e «Terreni», guerra che non coincide con la linea di divisione tra la nostra specie e le altre, poiché non solo è certo, come gli autori affermano, che non tutti gli umani sono «Umani» ma anche che - e questo aspetto non pare essere sufficientemente sottolineato - che la maggioranza dei «Terreni» sono animali.
4. Nella bio-storia di Danowski e Viveiros de Castro gli animali - che sperimentano quotidianamente la fine dei loro mondi - continuano a rivestire un ruolo politico ancora troppo marginale. Sebbene non esitino a definire «l’“eccezionalità umana” [...] un autentico stato d’eccezione ontologico» che legittima «l’immagine prometeica dell’Uomo che conquista la Natura» (pp. 73-74) e a ridicolizzare l’idea secondo cui saremmo animali dotati di un «supplemento spirituale che è “il proprio dell’uomo” - la preziosa proprietà privata della specie» (p. 144), i due autori non riescono a liberarsi completamente dall’antropocentrismo che percorre indisturbato anche il pensiero più critico 3.
Testimonianza di questa tenace persistenza è l’idea discutibile secondo cui antropocentrismo (occidentale) e antropomorfismo (amerindio) rappresentino visioni del mondo diametralmente contrapposte: se è vero, infatti, che «dire che tutto è umano è come dire che gli umani non sono una specie speciale» (p. 155), altrettanto vero è che l’affermazione “tutto è umano” nasconde - volenti o nolenti - un’operazione di appropriazione colonizzante dei mondi non umani. In altri termini, l’umano continua ad essere l’operatore centrale, seppur depotenziato, anche nel caso dell’ antropomorfismo.
Non a caso, allora, pur usando una terminologia corretta per descrivere le loro condizioni di detenzione («La spaventosa legione di animali confinati e torturati in campi di sterminio per l’estrazione di proteine»), i due autori annoverano gli «animali da reddito» tra gli «alleati» degli Umani in quanto «potenti fabbriche di metano» (p. 211) e non esitano a domandarsi: «Quando esauriremo le scorte di pesci?» (p. 243).
Con queste premesse, risulta difficile capire come sia possibile lasciarsi alle spalle le nozioni sezionanti di «Umano-in-sé» e di «Animale-in-sé» (p. 156), passo che Danowski e Viveiros de Castro sembrano considerare necessario per pensare la tanto auspicata «decivilizzazione» (p. 205), per mettersi all’ascolto « dell’eccezionalismo terrestre» (p. 188), per rendersi finalmente «responsabili dinanzi ai Terreni» (p. 235).
5. Pochi dubbi possono sussistere circa il fatto che il motto andino « Vivir bien e no mejor» (p. 163) debba costituire il fine a cui, nel tempo della fine, della «mancanza di scelta» (p. 246), dovrebbe tendere la resistenza dei Terreni alla «logica assolutamente non addomesticabile del capitalismo» (p. 235). Meno certo è invece come tale fine possa trasformarsi in una politica a venire all’altezza dei tempi e del tempo che resta.
Basta il generico «becoming with» di Haraway (p. 237) o il troppo locale «ridivenire-indio» degli autori? O, forse, per trasformare lo «shock» in «evento» (p. 252) è necessario radicalizzare questi divenire nel deleuziano divenire animale? Non è, infatti, il concetto di specie e l’opposizione Umano/Animale l’operatore più tagliente che sta al centro dei meccanismi materiali e simbolici che hanno costruito proprio quella società degli Umani che si vorrebbe combattere?
6. Nel 1955, Deleuze afferma che «L’uomo è un animale che si sta spogliando della specie» 4. L’irruzione di Gaia ha inverato questa intuizione. La questione oggi è come pensare e agire per far sì che questo spogliarsi non si traduca - come finora è accaduto - in spoliazione, ma in esitazione potenziante, gioiosa e creativa. La crisi ecologica in corso, infatti, non è caratterizzata esclusivamente, come pensano i più, dall’urgenza materiale di ridurre, per quanto possibile, i danni - urgenza che, tra l’altro, potrebbe spingere in direzione di un’ulteriore e più salda presa dell’Umano e pertanto «mascherare una grandiosa espansione del vangelo diabolico dello “sviluppo”» (p. 249).
L’ingombrante presenza di Gaia impone infatti un’altra e ancora più decisiva urgenza: il ripensamento radicale delle categorie politiche che ci hanno portato qui dove siamo, nel tempo dell’orrore più estremo, urgenza questa ben più difficilmente digeribile dalle logiche dell’impresa tecno-capitalista. Urgenza più resistente perché libera dal fardello narcisistico dell’antropocentrismo, perché sostenuta dalla consapevolezza che, come sostiene Kojève, «la scomparsa dell’Uomo alla fine della Storia non è [...] una catastrofe cosmica: il Mondo naturale resta quello che è da tutta l’eternità. E non è nemmeno una catastrofe biologica: l’Uomo resta in vita come animale [...]. Ciò che scompare è l’Uomo propriamente detto [...] [e] il Soggetto opposto all’Oggetto [...]. Tutto il resto può mantenersi indefinitamente; l’arte, l’amore, il gioco, ecc.; insomma, tutto ciò che rende l’uomo felice» 5. E questa, ovviamente, è tutta un’altra bio-storia, un mondo a venire che, forse per gli ultimi istanti, sta ancora aspettando un atto di creazione.
1 Michel Foucault, Crisi della medicina o crisi dell’antimedicina?, in Id., Il filosofo militante. Archivio Foucault 2, Milano, Feltrinelli, 2017, p. 210.
2 Le pagine da cui sono tratte le citazioni sono riportate nel testo tra parentesi.
3 Un esempio recente di questa forclusione è il volume di Olivier Razac, Storia politica del filo spinato, Verona, ombre corte, 2017. Il saggio, per altri versi estremamente interessante, si dimentica infatti di porre nella giusta prospettiva il ruolo politico della reclusione degli animali, nonostante il filo spinato sia tuttora uno dei dispositivi di compartimentalizzazione dello spazio centrale nella gestione della vita dei non umani.
4 Gilles Deleuze, Istinti e istituzioni, Milano-Udine, Mimesis, 2014, p. 32.
5 Alexandre Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Milano, Adelphi, 1996, p. 541.
L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!!:
Lettere
Quanto è atavica la mentalità maschile
La donna che non genera è esposta a un dubbio logorante.
Ed è guardata ancora con sospetto
Risponde Umberto Galimberti *
Alla parità tra maschi e femmine non si arriverà mai, perché, non essendo in grado di generare, i maschi capiscono del mondo femminile unicamente quello che loro ritengono sia proprio della donna, e precisamente ciò che per natura a loro non è concesso. Svincolati dai ritmi della natura, i maschi, per occupare il tempo e non morire d’inedia nell’ozio, hanno inventato la storia, e in questa storia hanno inserito la donna come generatrice, madre dei loro figli, prostituta per le loro soddisfazioni sessuali e, a sentire Lévi-Strauss, il più grande antropologo del ’900, come merce di scambio nei loro traffici.
Un altro antropologo, Bronislaw Malinowski, riferisce che gli abitanti delle numerose tribù da lui visitate ignoravano il ruolo maschile nella generazione, e pur tuttavia, le donne da lui interrogate, rispondevano che tutti i figli assomigliano al padre, mentre la madre, genitrice riconosciuta dai suoi figli, non ha con essi alcuna somiglianza. La coppia parentale, "paritetica" nella riproduzione sessuale, diventa "gerarchica" nella rappresentazione sociale. A questo schema non sfugge neppure Aristotele per il quale "la femmina offre la materia e il maschio la forma", e neanche il mito cristiano di Maria Vergine, che con il suo corpo mette al mondo il figlio di Dio che di sé dice: "Io e il Padre siamo una sola cosa" (Gv. 10,30).
Questo impianto ideologico, che affonda negli abissi del tempo e della storia, governa ancora la mentalità maschile, che da qui prende spunto per esercitare il suo potere sul mondo femminile ridotto al rango di "materia", a proposito della quale Aristotele scrive: "La femmina desidera il maschio come la materia desidera la forma, il brutto desidera il bello".
A questo punto il dominio dell’uomo sulla donna appare come perfettamente "naturale", perché non c’è niente di più naturale e di più evidente del suo corpo fatto apposta per la generazione. Ebbene, proprio nella differenza tra il corpo dell’uomo e il corpo della donna si trova la prova inconfutabile del dominio del primo sulla seconda, di cui sono convinti non solo gli uomini, ma anche le donne che per secoli hanno trovato naturale il dominio esercitato su di loro da parte dell’uomo. Com’è noto, infatti, il potere non sta tanto nell’esercizio della sua forza, ma nel consenso dei dominati alla propria subordinazione.
È da questo consenso, quello dei subordinati, che lei si deve liberare. E liberandosi potrà persuadere la mente di qualche uomo e di qualche donna che la donna non è solo materia per la generazione e i piaceri sessuali, ma al pari dell’uomo può generare anche a un altro livello, quale può essere la realizzazione di sé nel mondo lavorativo, in quello culturale, persino in quello sessuale senza doversi ridurre alla pura e semplice opacità della materia. E se sente sopra di sé la disapprovazione di molti tra quanti le stanno intorno, sappia che dobbiamo fare a meno di mezzo mondo per poter generare il nostro mondo, che non è deciso solo dalla biologia al servizio della specie, perché la specie, come sappiamo, è interessata agli individui unicamente per la sua sopravvivenza. E dopo che hanno generato, nella sua crudeltà innocente, li destina alla morte, perché altri individui, nascendo e generando, le assicurino la sua vita.
TOTALITARISMI E POPULISMI. LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA “CAPO”!:
di Erminio Risso ( Alfabeta2, 15 giugno 2017)
Alla fine dello scorso anno, per i tipi della manifestolibri, è uscito Totalitarismi e populismi di Rino Genovese, un libro le cui dimensioni sono inversamente proporzionali all’importanza della pubblicazione e che contiene nelle dimensioni del pamphlet la forza espressiva della comunicazione essenziale senza concedere nulla alla semplificazione e alla banalizzazione. In questo spazio di scrittura convivono fianco a fianco, in forte rapporto dialettico come nella migliore tradizione della teoria critica, teoria e prassi: in quanto l’analisi teorica, l’affinamento dei mezzi gnoseologici ed ermeneutici, è subito messo al vaglio della realtà effettuale, che qui prende le forme di un’analisi storica puntuale.
Per comodità espositiva ed efficacia comunicativa, il testo è bipartito; il primo capitolo, intitolato “Conseguenze dei Totalitarismi”, è riservato alle esperienze totalitarie del Novecento e a come abbiano influenzato il corso della storia e delle sue trasformazioni; mentre la seconda parte, “Premesse dei Populismi”, analizza, partendo dall’occidente e dalle sue “dépendances”, che cosa sia questo fenomeno, dai fascismi all’Iran.
Nella prima parte Genovese delinea compiutamente il rapporto tra massa e potere, chiedendosi come si possa oggi parlare di progresso, rimandando alle questioni tradizionali legate all’illuminismo ma anche alla pasoliniana dicotomia di progresso e sviluppo. A livello teorico ci presenta la sua teoria della storia come compresenza e ibridazione, a partire da una sintesi della concezione benjaminiana di una storia che procede per salti e balzi e dall’idea di Bloch della “contemporaneità del non-contemporaneo”, per approdare a “una concezione del tempo opposta a qualsiasi bergsonismo, all’idea di un progresso continuo e di incessante novità cui l’evoluzione darebbe vita”.
La conseguenza prima di aver fatto saltare benjaminianamente il continuum della storia, alla luce di Bloch, è che “la storia conosce sì cesure, però esse non avvengono quasi mai in modi irreversibili, perché sono per lo più suturate in continuità con il passato che le riaggiusta ibridandole. Così il passato non passa mai completamente - ma neppure si preserva intatto nella luminosità di una tradizione, muovendosi invece a zigzag, sovrapponendosi al presente e chiudendo il futuro con la sua ineliminabile impurità”.
Su questo continuo processo, per salti e balzi, di apertura e chiusura delle possibilità effettuali degli eventi sul piano concreto e materiale della storia, Rino Genovese aveva iniziato a riflettere - almeno a parer mio - già dalla Tribù occidentale (Bollati Boringhieri 1995); ora, nella formulazione di una teoria dell’ibridazione, ne trova la forma compiuta nel senso di più efficace sul piano dell’interpretazione, in quanto davvero capace di rendere conto del caos contemporaneo e dei suoi conflitti in un linguaggio che si mantiene distante dalla koiné intellettuale e filosofica di stampo giornalistico.
Infatti ci mostra chiaramente come le democrazie liberali, i fascismi, la soluzione bolscevico-stalinista siano le dirette conseguenze dell’irruzione delle masse sulla scena della storia e siano “tutte risposte alla questione novecentesca della gestione dei tempi storici dinanzi a una trasformazione in atto e alle sue implicazioni sociali”.
Si apre una gestione dinamica del piano storico-temporale e della presenza del passato nel presente: il fascismo si basa “su un passato da riattivare”, il bolscevismo sul futuro da costruire, la liberaldemocrazia sul presente come quotidianità da “consumare”; ma tutte queste sono comunque ibridazioni. La compresenza di tempi storici eterogenei è la base della teoria dell’ibridazione, che però va oltre, e nell’analizzare lo spazio della ripetizione innovativa e del dominio di una razionalità strumentale mette in gioco anche le culture, ibridanti quasi per natura.
Quando Genovese afferma in maniera molto dura e quasi provocatoria che “il lager e il gulag sono forme di vita sociale”, ci parla non solo delle culture come spazio privilegiato dell’alterità e dell’ibridazione, ma innesca una critica antropologica della storia e una critica storica dell’antropologia e muove verso una sorta di antropologia della storia o storia antropologica. È così che vengono fuori nella loro complessità le modalità attraverso le quali le classi dominanti controllano le masse.
Nella seconda parte, nel caos dell’ibridazione contemporanea, dove la modernità è compresenza di tempi storici eterogenei, Genovese ci presenta la moltiplicazione dei populismi come crisi della politica, come perdita di ogni idea di internazionalizzazione e come lotta contro una sorta di “creolizzazione”. Al centro viene posto “l’individualismo di massa basato, tra l’altro, sulla priorità economica del consumo rispetto alla produzione”.
Andando oltre Benjamin e Debord, e ogni idea di spettacolare concentrato, integrato e diffuso, Genovese definisce l’estetizzazione un fenomeno ampio, che va messo in relazione con l’uso di un mezzo di comunicazione estetico, sul quale si fonda il codice della politica plebiscitaria odierna, in uno spazio dove il politico è totalmente sottomesso all’economico. E questo nuovo potere trova le sue strutture primarie nei “mezzi di comunicazione simbolicamente generalizzati”, una teoria strettamente sociologica dove il potere non viene più inteso come un principio di dominio ma come una sorta di forma di influenza, sotto la quale rientra anche la comunicazione che si rivela un qualcosa non libero dal potere.
Questa attenta analisi dei populismi, in tutte le loro declinazioni, dal peronismo ai nuovi fascismi fino alla visione di un populismo di sinistra (Laclau e Chantal Mouffe), porta Genovese a dimostrare, sul piano concreto della prassi, come non possa esistere un populismo di sinistra, poiché questo uccide ogni idea di pensiero critico; il populismo come fuoriuscita dal bolscevismo-stalinismo merita un discorso a parte, in quanto implica anche un recupero di una forte tradizione russa ottocentesca. Genovese non si limita a portare alla luce negatività e contraddizioni, questioni irrisolte, ma, partendo da una situazione di antagonismi plurimi e di conflitti diffusi, a bassa o ad alta intensità, propone una via d’uscita che comporta - per esempio - non un’uscita dall’Europa, ma una sua vera democratizzazione. Questo può avvenire solo grazie a una democrazia radicale come potere diffuso, che per Genovese necessita di una democrazia rappresentativa funzionante, con qualche situazione di democrazia diretta.
Tutto questo acquista un suo significato e un suo senso nell’ explicit davvero capitale - una sorta di sententia - il quale recita: “In altre parole, i paesi di democrazia occidentale dovrebbero riscoprire quel correttivo interno faticosamente elaborato nel corso della loro storia che si chiama socialismo”.
A questo punto ci permettiamo ancora una piccola glossa, che vorrebbe mettere le condizioni per una nuova apertura; questa scelta implica un’idea gramsciana - a parer mio - di allargamento democratico, con il superamento della distinzione tra governanti e governati. Lo Stato pare quasi diventare un elemento terzo, di equilibrio tra i conflitti, ma per essere così è necessario che recuperi anche una sorta di dimensione neoconsiliare, non in una stanca riproposizione delle esperienze degli anni Venti, ma come capacità di mettere al centro e di fondarsi sul cittadino-lavoratore, reale e concretamente determinato, che agisce e vive. È chiaro che diventa cogente la sintesi di due prospettive che Genovese e Pezzella diversi anni fa sulle colonne del “Ponte” (Prospettiva neosocialdemocratica o prospettiva neoconsiliare?, dicembre 2009) vedevano, se non come opposte, come spazi alternativi. In questa congerie di tempi e di storie frammentate e frammentarie, il soggetto agisce sotto le insegne di un impegno scettico, sul quale può nascere una nuova consapevolezza di appartenenza a un gruppo sociale fondamentale.
Questa nuova coscienza è l’antidoto al dominio dell’ideologia della fine delle ideologie, in virtù della quale il fondamentalismo di un neoliberismo radicale ha riportato una facile vittoria, che ha lasciato guerre e macerie. E da queste sintesi e dai suoi equilibri che può ripartire un nuovo socialismo come esito finale non di un’azione semplicemente riformistica ma di una forte azione riformatrice - per fare piena chiarezza - e non è una mera questione nominalistica, per chi, come me, è cresciuto negli anni Ottanta in pieno craxismo. In questa sua operazione - che possiede le dimensioni del benjaminiano L’opera d’arte nell’epoca della sua riproduzione tecnica e la struttura di una sorta di piccola jonta ai Minima Moralia, in quanto riflessione e testimonianza della vita offesa - Genovese ribadisce perentoriamente, ancora una volta, socialismo o barbarie.
Eichmann smascherato
Di banale non ha nulla
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 11 Giugno 20179)
Dalle «Carte argentine», appunti dell’alto ufficiale delle SS, risulta che era un fanatico ed era rimasto attivo anche in esilio
Si dice Eichmann e si pensa al male nella sua versione novecentesca. Ma che genere di male? Hannah Arendt ci ha spinto a parlare di «banalità del male». Questa formula aveva per lei un significato filosofico preciso. In veste di giornalista Arendt aveva seguito per il periodico «The New Yorker» il processo contro l’ex tenente colonnello delle SS Adolf Eichmann.
Nel maggio del 1963 uscì il suo libro Eichmann a Gerusalemme. Il sottotitolo A Report on the Banality of Evil era destinato a suscitare accese polemiche. Un sinonimo di banalità potrebbe essere stupidità, o «assenza di pensiero», sconsideratezza. Eichmann non era la bestia degli abissi; non aveva nulla di demoniaco, né di profondo o addirittura abissale. A guardarlo da vicino era un piatto e grigio impiegato, una rotella all’interno di un ingranaggio che, anche senza di lui, avrebbe comunque funzionato. Per questa scandalosa banalità Eichmann appariva agli occhi della filosofa il prototipo del burocrate, incapace di «mettersi nei panni degli altri», al quale si poteva imputare l’unica colpa di non aver «pensato» e non aver agito, sottraendosi ai suoi compiti, con la «disobbedienza civile».
Arendt ha avuto il merito di rompere il silenzio sullo sterminio con una riflessione originale. Ma l’impressione che resta, dopo aver letto attentamente il suo libro, è che il ritratto di Eichmann abbia qualcosa di artificioso e sia perciò poco convincente. A spiegare il perché è il prezioso lavoro della storica e filosofa tedesca Bettina Stangneth, La verità del male, pubblicato finalmente in italiano da Luiss University Press.
Il volume imponente, che si legge però con facilità - anche perché ha quasi le caratteristiche di un giallo - è la raccolta meticolosa di prove, testimonianze, documenti inediti, soprattutto le cosiddette Carte argentine, da cui emerge un Eichmann ben diverso da quello descritto da Arendt.
Si capisce perché il libro di Stangneth sia stato un successo sia in Germania, sia soprattutto in America. Ha scritto Steven Aschheim, professore emerito della Università Ebraica e storico della cultura: «Non sarà più possibile in futuro occuparsi del “fenomeno Eichmann” e delle sue implicazioni politiche senza confrontarsi con La verità del male».
Vale la pena ricordare che il titolo del libro in tedesco è Eichmann prima di Gerusalemme (diventato il sottotitolo nell’edizione italiana). Esplicito è dunque il rinvio ad Arendt, verso la quale Stangneth riconosce il suo debito. Ma il suo interesse si concentra sulla figura del gerarca nazista prima di Gerusalemme, cioè nel periodo che va dal 1945 fino al 23 maggio 1960, quando il premier israeliano David Ben Gurion annunciò al mondo che l’architetto della Shoah era stato catturato dagli agenti del Mossad in Argentina e che sarebbe stato presto processato.
Grazie a numerosi appoggi e complicità, Eichmann si era infatti imbarcato a Genova, con il falso nome di Ricardo Klement, ed era riuscito a raggiungere l’Argentina nel luglio del 1950. Aveva cominciato allora una nuova vita grazie alla sua capacità di reinventarsi, senza per questo venir mai meno alla fede nazionalsocialista. Come d’altronde i molti nazisti che avevano trovato rifugio in Sudamerica.
Le Carte argentine sono gli appunti di Eichmann in esilio, nonché i dialoghi e le interviste protocollati, da cui fra l’altro viene fuori l’impressionante rete di rapporti che intratteneva un po’ ovunque nel mondo. Il primo risultato della ricerca di Stangneth è la decostruzione di un mito: quello dell’ex nazista isolato, che cerca di nascondersi, nel tentativo di dimenticare ed essere dimenticato. Nulla di tutto ciò.
La sua vita sociale in Argentina mostra che il grande esperto della «questione ebraica», l’amico del Gran Mufti, il boia che considerava la Shoah il suo «capolavoro», non solo non aveva mai rivisto le sue convinzioni politiche, ma si preparava semmai a realizzarle sotto nuovi cieli e in altre terre. Bettina Stangneth, nata e cresciuta nella Repubblica federale tedesca, riflette criticamente sul ruolo giocato in quegli anni dalla Germania. Il «fenomeno Eichmann» non si limitava solo all’Argentina. Che il principale stratega e testimone di quei crimini contro l’umanità, che pesavano sul popolo tedesco, fosse ancora in vita, costituiva certo un ostacolo che rendeva difficile, se non impossibile, una rielaborazione del passato.
Eichmann era talmente sicuro di sé che si era persino spinto a scrivere una lettera aperta al cancelliere Konrad Adenauer. Quasi a voler suggellare quella continuità, che molti congetturavano, tra il vecchio regime e la nuova repubblica. E Stangneth denuncia il rifiuto delle autorità tedesche che ancor oggi custodiscono gli atti su Eichmann, preclusi al pubblico con la scusa che potrebbero provocare turbamento. Né isolato, né pentito - ma neppure un burocrate.
Arendt è caduta nella trappola ben congegnata dallo stesso Eichmann che, una volta catturato, scelse intenzionalmente la maschera dell’inetto impiegato, del grigio funzionario. Lui che era considerato più intelligente e astuto di ogni altro, lui che aveva concepito e guidato lo sterminio. Sperava di aver salva la vita attraverso quell’abile manipolazione. Non ci riuscì. Ma ottenne almeno di passare alla storia come esponente di un male banale. È tempo di conoscere la sua storia e il male che ha consapevolmente compiuto.
UNA “CATTOLICA”, “UNIVERSALE”, ALLEANZA “EDIPICA” E LA DEMOCRAZIA (DEGLI ANTICHI E DEI MODERNI)!!! L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE (L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO) REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO ...
Intervista
"Sulla democrazia in America chiedi a Tocqueville"
Il regista Romeo Castellucci parla del suo nuovo spettacolo, in tournée da fine aprile liberamente ispirato al libro del saggista francese
di Umberto Sebastiano (l’Espresso, 17 marzo 2017)
Il nuovo spettacolo di Romeo Castellucci, regista fra i più acclamati e visionari della scena teatrale internazionale, si intitola “La democrazia in America” ed è liberamente ispirato al libro di Alexis de Tocqueville, pubblicato in Francia nel 1835 e concepito a partire dall’esperienza del lungo viaggio che il giovane aristocratico francese fece in America nel 1831. Lo stile letterario, lo straordinario acume di Tocqueville nel cogliere luci e ombre della giovane democrazia, la lungimiranza nel prevederne i più nefasti sviluppi, hanno fatto sì che “La democrazia in America” diventasse un classico della riflessione politica moderna e contemporanea.
Da parte sua, Romeo Castellucci, quando si appassiona a un testo, non si limita a illustrarlo, ma lo usa piuttosto come un terreno fertile per seminare immagini, idee, per costruire percorsi alternativi, ramificazioni. Dopo il debutto ad Anversa, lo spettacolo andrà in scena anche in Italia: al Fabbricone - Teatro Metastasio di Prato dal 27 al 30 aprile, poi l’11 e il 12 maggio all’Arena del Sole di Bologna e il 16 maggio al Teatro Sociale di Trento.
Perché ha sentito la necessità di lavorare a uno spettacolo dal titolo “La democrazia in America”? E più in generale, cosa trasforma una suggestione, una lettura in uno spettacolo teatrale?
«Lo dico subito: comprendo che si possa pensare che questo spettacolo nasca come reazione a ciò che sta avvenendo negli Stati Uniti, ma non è così, non c’è il minimo accenno alla cronaca, neanche la minima allusione. È un lavoro sul linguaggio, sull’antico testamento, sulla fede, ma anche sulla perdita dell’innocenza, sul crollo di certi valori che sono ritenuti inossidabili e invece non lo sono. Ho scelto questo titolo per il potere evocativo che scatena, che non è moderno, bensì antico. Per il resto non esistono “ragioni” per voler fare uno spettacolo. Lo si fa e basta; lo si fa perché si cade in un titolo come in un buco per la strada. Poi sono le idee a condurre il gioco».
E allora: che strada stava percorrendo quando è “caduto” ne “La democrazia in America”?
«Quella della grande letteratura americana. Sono interessato a tutto ciò che la letteratura americana ha prodotto, i grandi scrittori del passato come i più recenti, fino ad arrivare a David Foster Wallace che per me è una sorta di Dostoevskij. Sono naturalmente attratto dalla durezza veterotestamentaria della letteratura americana: non c’è amore, c’è la legge, c’è la famiglia, c’è il sangue, ci sono le razze, la terra, il cammino, le strade, e questo universo mi piace molto. Non c’è il perdono, non c’è Gesù, c’è Mosè: l’antico testamento è ancora il pilastro di questa cultura che ha prodotto in letteratura dei capolavori assoluti. È così che mi sono imbattuto nel saggio di Alexis de Tocqueville, un libro bellissimo, che conoscevo solo di fama e che parla proprio delle radici della democrazia americana, del fondamento puritano nella concezione della legge, del destino, della terra. I puritani, che a partire dal 1620 sbarcarono sulle coste del nord America, erano famosi per il loro rigore morale e l’assoluto rispetto della legge, rigidissimo. Venivano chiamati pellegrini, erano cristiani, ma cristiani che mal sopportavano Gesù: per loro i comandamenti andavano presi alla lettera. La forza muscolare dell’individualismo americano nasce da questa radice. Ed è proprio questo aspetto che è diventato il nucleo dello spettacolo».
È quella che Tocqueville definisce la “puritan foundation” della democrazia americana. In che modo prende forma sulla scena?
«La storia è quella di due contadini puritani, un uomo e una donna. La terra è la loro missione. Non una conquista fatta con le armi, ma con il lavoro più semplice. Essi vogliono contribuire a trasformare l’America nella nuova Terra Promessa. Si affidano a Dio, ma la vita durissima li metterà alla prova. La donna entra in una crisi profonda e la sua preghiera si trasforma in una sorta di blasfemia. Questa donna, come unica fonte di consolazione, comincia a bestemmiare, ma lo fa come se fosse una preghiera, e tutto questo è come bruciare sul nascere la radice puritana. Il sogno americano, il sogno che come specie umana abbiamo nei confronti della terra, del destino, della comunità, dello stare insieme, si infrange immediatamente in un fallimento».
A chi rivolge le sue preghiere la donna? Da cosa scaturisce la sua crisi?
«È una preghiera sincera verso il vuoto, o forse dovremmo dire il Vuoto, con l’iniziale maiuscola. Come in un’epifania, il vuoto di colpo si rivela alla donna. Gli spazi immensi americani qui si mostrano, per questa gente, per quello che sono: il grande vuoto. Ciò che mette in crisi la donna è probabilmente quello che l’uomo non riesce a vedere: il fatto che si sono sbagliati e che quella non è la Terra Promessa che avevano sognato. La terra è dura, sterile, e la comunità umana che li circonda è ancora più arida. Ci sono pagine molto precise di Tocqueville su questo, quando parla della morte per carestia delle prime ondate di coloni puritani. Dio non li ascolta perché ha scelto altri. L’uomo cerca di arginare le faglie che la donna spalanca sotto i loro piedi, ma non è abbastanza forte, e la donna a un certo punto sembra dotata di una forza soprannaturale. Una donna con grandi poteri».
Si tratta di una sciamana, di una strega?
«Nel New England, nel Seicento, la caccia alle streghe era un’ossessione collettiva, basta pensare alla vicenda delle streghe di Salem, e fungeva da strumento di controllo sociale, soprattutto nei confronti delle donne. Nel contesto dello spettacolo il richiamo alla stregoneria serve però a gettare un’ombra sui fondamenti delle comunità bianche. Un cuore oscuro dentro corpi bianchissimi».
Ha accennato alla caccia alle streghe e alla capacità di una donna di riconoscere e di affrontare il vuoto. Nel cast ci sono solo attrici. È un caso?
«Niente è un caso nella misura in cui tutto è casuale. Comunque non c’è una vera ragione, vorrei che nessuno lo notasse, mi piacerebbe questo. C’è una mia predilezione a formare delle compagnie “monosessuali”, perché in questo modo si produce un’energia che funziona molto bene. Al di là di questo, mi hanno colpito le pagine che Tocqueville ha dedicato alle donne. Ripete più volte che senza le donne l’America non sarebbe stata l’America, intuisce il ruolo nuovissimo che le donne hanno nella società e preconizza un loro ruolo più attivo. D’altra parte, in quel periodo, c’erano donne che fondavano religioni. Anche questo fenomeno è interessante: in America fioccavano nuove religioni perché tutto era ancora possibile. “La Democrazia in America” è considerata una delle opere fondamentali della riflessione politica contemporanea».
Cosa c’è di politico in questo spettacolo?
«Lo spettacolo non vuole essere politico ma polemico nei confronti della politica. Si potrebbe obiettare che uno spettacolo teatrale è di per sé politico, anche solo per il fatto di andare in scena in un luogo pubblico. A un certo livello sì, è politico. Sulla scena però succede qualcosa: nel luogo dell’invenzione della nuova democrazia, alcune persone prendono distanza dalla promessa della politica. Non ci credono più. Non credono più all’edificio americano. Si volgono altrove, verso un luogo mitologico dove la politica non ha ancora ragione di essere perché deve ancora venire. Tecnicamente, la politica nasce quando gli dei muoiono. Quando il grande dio Pan muore, nasce la politica; quando la festa finisce, nasce la politica. La politica e tutti i diritti che ne conseguono hanno origine nel momento in cui si smette di danzare. In quello stesso istante nasce il teatro greco. E la polemica nei confronti della politica è anche un modo di riconsiderare la funzione del teatro. I modelli politici sono usurati e il teatro dà accesso a una nuova forma di pensiero che è impensato. Il teatro rappresenta il doppio della vita, non fornisce modelli, non c’è nessuna pedagogia, se dio vuole, nessuna pedagogia. Il teatro offre dei lampi, dei bagliori in un abisso, mostra delle possibilità. Grazie alla narrazione, alla finzione, il teatro è in grado di sospendere la realtà, e questa è una forma di autentica liberazione, di riconciliazione con il tuo corpo, con il corpo degli altri, con il fatto di stare insieme».
C’è passione in queste parole, mi sembra che lei riconosca al teatro una grande forza.
«Il teatro ha questa forza perché è il punto di origine, è continuamente il punto di origine: non della tradizione, non si parla di quello, ma è proprio il punto originante. Il grande laboratorio della tragedia greca si faceva carico della disfunzione dell’essere. La tragedia greca non è altro che la teoria dell’uomo, e su quel terreno crescono la civiltà occidentale, l’estetica, la filosofia: germogli che sbocciano su un fondamentale pessimismo antropologico. Tutto questo in America non avviene perché il fondamento puritano è una sbarra, una retta senza alcuna articolazione che recide il legame con la negatività. E per questo motivo la democrazia americana è un fiore nel deserto, un fiore tossico, come ha dimostrato Tocqueville, permeato da un elemento ombroso, un cuore di tenebra».
Dopo il debutto di Anversa e le date italiane, “La Democrazia in America” andrà in scena in molte città europee: Losanna, Berlino, Bilbao, Vienna, Amsterdam, Atene, Parigi. Poi sarà la volta delle tournée in Asia e negli Stati Uniti. Pensa che il grande interesse che questo spettacolo ha suscitato dipenda anche dal bisogno sempre più diffuso di riflettere sulla crisi della democrazia?
«Può essere, certo. Nonostante i produttori siano gli stessi con i quali lavoro da tempo, ho effettivamente notato che rispetto a questo titolo c’è un interesse diverso e più forte. Ne sono rimasto sorpreso e, per così dire, questa consapevolezza mi inquieta perché, come dicevo all’inizio, non voglio creare aspettative tendenziose. Non è uno spettacolo su Trump».
Come avrà notato, non l’ho mai nominato.
«Ha fatto bene, sarebbe meglio non nominarlo. Anche se lui è già presente, completamente, in quello che scrive Tocqueville: basta pensare alle pagine dedicate al pericolo di una tirannia della maggioranza, quando parla della manipolazione delle coscienze, della propaganda, del fatto che i ricchi possono avere accesso a una parola con maggiore peso. Sono tutte cose già scritte nel 1831, negli appunti di viaggio di questo ventiseienne francese. Si spiega perfettamente quello che sta succedendo in questi giorni in America. E non è un caso che, alla luce del disastro delle ultime elezioni americane, Alexis de Tocqueville sia un autore al quale ci si rivolge sempre più spesso».
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Romeo Castellucci, il ventre puritano della democrazia
di Annalisa Sacchi (alfapiù-teatro, 12 giugno 2017)
È critica caratteristica alla democrazia americana, sin dal suo pensiero fondativo, che essa sia mancante del senso del tragico. Basta leggere Emerson, Thoreau, Hawthorne o anche (come ha fatto Romeo Castellucci) un osservatore esterno della democrazia americana, Alexis de Tocqueville, per intuire il dramma immanente alla democrazia: che i suoi limiti sono prodotti dai suoi stessi principi. Ma ciò è appunto un dramma, ovvero una categoria equivoca dove il tragico risiede insieme al comico.
C’è così un segreto e persistente senso di malinconia nel pensiero democratico americano, la consapevolezza che solo un immane sforzo positivo della volontà può sostenere l’agire per il bene comune a fondamento del “governo dei molti”. In quest’ottica, tanto la disperazione che lo scoraggiamento sono emozioni politiche, cui il sistema democratico, le sue narrazioni e le sue filosofie devono opporre continua rassicurazione. Rassicurazione sul fatto che non siamo i soli a percepire un sapore acre nel compromesso con la giustizia, e che il senso di un sé incompiuto non è una fuga da - ma piuttosto un indice de - l’impegno individuale per la comunità non ancora realizzata.
La democrazia ateniese e quella americana spartiscono poco oltre al nome. Le differenzia, per quel che qui interessa, il fatto di essere una germogliata nella stessa polis che diede origine alla tragedia e al teatro occidentale tutto, l’altra di essersi sviluppata nel ventre del Puritanesimo. La prima dopo la morte del dio Pan, la seconda in dialogo col Dio della Bibbia.
Ed è questo dialogo che dà avvio all’opera di Castellucci, La democrazia in America, o meglio la tensione impressa nella ricerca di una lingua per parlare con Dio, la glossolalia. Il parlare glossolalico è un parlare delle origini e alle origini, dove l’ontogenesi si salda alla filogenesi perché glossolalia può dirsi anche l’apice del balbettio dell’infante, colui che ha una lingua - l’organo - ma non ancora un linguaggio - la facoltà -, una delle figure predilette nel teatro della Socìetas.
È la parola la protagonista che lievita al centro dello spettacolo (per la drammaturgia originale di Claudia e Romeo Castellucci) dove si alternano lunghi dialoghi in lingue esistenti o inventate o tradotte a momenti onirici, consumati dietro diaframmi di velo. Attraverso i dialoghi viene a crearsi qualcosa come una trama, una narrazione il cui rimando più prossimo resta il lavoro sulla fiaba della Socìetas. Perché, dileguata la tragedia e restituita la parola ai personaggi, la fiaba si impone come alleato per blindare la genesi delle figure oltre la soglia dell’attualità e della storia.
Ecco allora una coppia di coloni poveri e disperati come i genitori di Buchettino, oppressi dal tradimento delle speranze per cui la terra promessa s’è fatta distesa sterile e infruttuosa, coi figli da sfamare e una comunità che incombe più vessatoria che fraterna. Ma mentre nel padre rimane salda la fede in Dio, per la madre, Elizabeth, la lotta per la quotidiana sussistenza si biforca in una doppia trama, con un versante realistico e uno segreto, ctonio. Veniamo così a sapere, in un parossismo che trova ancora le parole per esprimersi in maniera intelligibile per lo spettatore, che Elizabeth ha venduto una figlia bambina per procurarsi semi e strumenti per lavorare la terra. Ha cercato, confida al marito, di comunicare con quel Dio che non vuole salvarli; ma solo nella bestemmia, che pronuncia come una voluttà e una liberazione, ha trovato sollievo.
Nella tragedia attica, scriveva Rosenzweig, l’eroe si rende conto di essere migliore dei suoi dèi, e questa consapevolezza gli toglie la parola e lo lascia muto. Qui sta il sublime della tragedia: nel paradosso della nascita dell’eroe nell’incapacità morale di parlare. Nella Democrazia in America invece Dio, l’origine del Logos e il Logos in sé, è ostinatamente silenzioso, e gli uomini vengono estenuati dalle preghiere, dalle invocazioni, dalle bestemmie per indurlo a parlare. Il mutismo dell’eroe della tragedia si oppone alla logorrea dell’eroe della democrazia moderna. Perché il Dio della democrazia non è quello che i credenti avevano incontrato nella Genesi, il Dio generoso di parole e contatti, il Dio che aveva lottato corpo a corpo tutta una notte con Giacobbe e alla fine l’aveva benedetto.
Non c’è benedizione su questa scena, la si invoca inutilmente, finché la lingua di Elizabeth inciampa e si lacera, e prende a pronunciare parole sconosciute. Ed è qui che si apre come un doppio umido e sanguinante dell’opera. Perché la donna l’avevamo già vista, dietro a un velo-diaframma che sfumava la scena del palco, nuda e grondante di sangue, a trasportare sulle spalle una bambina a sua volta nuda e docile, in un silenzio cui si opponeva soltanto il rumore di uno scorrere d’acqua, forse un fiume. E la vedremo di nuovo, sempre schermata dal velo di proscenio, ancora nuda ma stavolta immacolata a esibire il ramo d’oro, quello della dea Diana, il permesso all’ingresso della grotta sacra oltre cui si spalanca l’Ade. L’icona del rito più antico, selvaggio e violento tributato alla Dea.
È, questo femminile, uno sforzo titanico di riaccendere il cratere della tragedia in mezzo alla distesa sterile di una democrazia che ha resuscitato Dio ed eliminato il teatro. Un sacrificio anche, che come in altri lavori della Socìetas chiede in pegno il bambino, il figlio, la Concezione della carne e del sangue contro la Creazione dell’opera. Ma la bambina non muore: come in una fiaba è ceduta a una figura esoterica di vecchia che viene solo evocata nei dialoghi. Prima è menzionata dal padre che, di fronte al delirio linguistico di Elizabeth, domanda sconvolto se queste parole le siano state trasmesse dalla “vecchia”, poi nell’altro scambio dialogico dell’opera, quando in scena appaiono due nativi americani. Dal loro ingresso in poi, il dialogo si svolgerà in lingua Chippewa e verrà sovratitolato in italiano.
Dicevo che La democrazia in America è uno spettacolo e il suo doppio, per cui la scena precipita continuamente in una sua ulteriorità, in un dietro o in un sotto che fanno smottare la linea diegetica. Così è anche per l’ingresso dei due nativi, battezzato dal rovesciamento del bassorilievo di memoria ellenistica che campeggiava al centro della scena e che si rivela, nel retro, essere un ventre cavo e rossiccio di terra, una caverna ancestrale. Cultura e Natura, l’eterno conflitto, il monumento della cultura che è al tempo stesso un documento di barbarie e sopraffazione. Basta guardare dietro.
E questa duplicità esorbita nel finale, coi due nativi che discutono sulla opportunità di imparare la lingua dei coloni, e che iniziano a balbettarne i vocaboli, e intanto parlano di una capanna in riva al fiume, di una vecchia, di una bambina ceduta. Poi, prima di lasciare la scena, si spogliano delle tute di lattice dentro cui erano inguainate le attrici e le abbandonano sul palco. Perché il teatro resta, come sapeva Deleuze, il luogo privilegiato della minorazione, perché non è mai un parlare “in vece di”, ma uno scavare una zona di approssimazione, una vicinanza agli oppressi, ai diseredati, agli abbandonati, ai colonizzati, ai violentati, ai senza nome della storia.
Castellucci ci dice che il suo lavoro non vuole essere politico, semmai polemico. Quando il femminismo, il marxismo, la rivoluzione, la resistenza e la lotta diventano nel linguaggio insegne e nell’immagine icone dietro cui allineare tutta l’arte, la moda, la pubblicità e il teatro, quest’opera ci accoglie nel suo nulla dire e nulla rivendicare. Ci ammette, spettatori, nel respiro largo della sua impoliticità, nella pietà della sua minorazione.
di Mario Avagliano *
Adolf Eichmann, ovvero il Male non banale. A 51 anni dalla pubblicazione del libro di Hannah Arendt Eichmann in Jerusalem, proposto in Italia da Feltrinelli con il titolo La banalità del male, una nuova ricerca demolisce le tesi della studiosa tedesca naturalizzata americana, che nel 1961 seguì per la rivista New Yorker le 121 udienze del processo in Israele a uno dei principali responsabili della macchina della soluzione finale, condannato a morte e impiccato l’anno dopo.
E capovolge la rappresentazione del criminale di guerra nazista fatta dalla Arendt come «un esangue burocrate» che si limitava ad eseguire gli ordini e ad obbedire alle leggi.
A firmare il saggio, uscito questa settimana negli Stati Uniti per i tipi di Alfred A. Knopf e già recensito con grande rilievo dal New York Times, è una filosofa tedesca che vive ad Amburgo, Bettina Stangneth, che ha lavorato attorno alla figura di Eichmann per oltre un decennio, scavando a fondo sulla sua storia. Ne è venuto fuori un libro provocatoriamente intitolato Eichmann prima di Gerusalemme. La vita non verificata di un assassino di massa, già pubblicato con scalpore in Germania.
Se ascoltando Eichmann a Gerusalemme, la Arendt rimase impressionata dalla sua «incapacità di pensare», invece analizzando l’Eichmann capo della sezione ebraica della Gestapo, e poi in clandestinità in Sudamerica, la Stangneth vede all’opera un abile manipolatore della verità, tutt’altro che un “funzionario d’ordine” o «un piccolo ingranaggio dell’enorme macchina di annientamento di Hitler», come si autodefinì nel corso del suo processo. Adolf fu un carrierista rampante e ambizioso e un nazista fanatico e cinico, che agì con incondizionato impegno per difendere la purezza del sangue tedesco dalla “contaminazione ebraica”.
In passato già vari ricercatori avevano seriamente messo in discussione le conclusioni della Arendt. Ma con questo libro la Stangneth le "frantuma" definitivamente, come ha dichiarato Deborah E. Lipstadt, storica alla Emory University e autrice di un libro sul processo Eichmann. La Stangneth sostiene che la Arendt, morta nel 1975, fu ingannata dalla performance quasi teatrale di Eichmann al processo. E aggiunge che forse «per capire uno come Eichmann, è necessario sedersi e pensare con lui. E questo è il lavoro di un filosofo».
LA RICERCA
La filosofa tedesca ha però lavorato come uno storico, rovistando in ben 30 archivi internazionali e consultando migliaia di documenti, come le oltre 1.300 pagine di memorie manoscritte, note e trascrizioni di interviste segrete rilasciate da Eichmann nel 1957 a Willem Sassen, un giornalista olandese ex nazista residente a Buenos Aires.
Un libro che rivela tanti dettagli inediti, come la lettera aperta scritta nel 1956 da Eichmann al cancelliere tedesco occidentale, Konrad Adenauer, per proporre di tornare in patria per essere processato e informare i giovani su ciò che era realmente accaduto sotto Hitler (conservata negli archivi di stato tedeschi), oppure la riluttanza dei funzionari dell’intelligence della Germania Ovest - che sapevano dove si trovava Eichmann già nel 1952 - ad assicurare lui e altri ex gerarchi nazisti alla giustizia. Ma il cuore del libro è il ritratto di Eichmann “esule” in Argentina, dove venne scovato e arrestato dagli agenti segreti del Mossad.
All’apparenza era diventato un placido allevatore di conigli, con il nome di Ricardo Klement. In realtà l’ex gerarca nazista aveva conservato l’arroganza di un tempo e non era niente affatto pentito, tanto da spiegare la sua “attività” con una tirata che a leggerla lascia inorriditi. «Se 10,3 milioni di questi nemici fossero stati uccisi - disse degli ebrei - allora avremmo adempiuto il nostro dovere».
Altrettanto interessante è la descrizione del cerchio magico di ex nazisti e simpatizzanti nazisti che lo circondava in Sudamerica. Personaggi che formavano una sorta di perverso club del libro, che s’incontrava quasi ogni settimana a casa di Willem Sassen per lavorare nell’ombra contro la narrazione pubblica emergente della Shoah, discutendo animatamente su ogni libro o articolo che usciva sull’argomento. Con l’obiettivo di fornire materiale per un libro che avrebbe raffigurato l’Olocausto come una esagerazione ebraica, «la menzogna dei sei milioni» di morti.
Eichmann, il boia nazista chiese la grazia a Gerusalemme
di Mario Avagliano *
Fino all’ultimo momento il criminale nazista Adolf Eichmann provò a negare le sue responsabilità nella Shoah, affermando di essere stato un «semplice strumento» di Adolf Hitler. È quanto risulta dalla lettera manoscritta dello stesso Eichmann, datata 29 maggio 1962, che oggi, in occasione della Giornata della Memoria, il presidente israeliano Reuven Rivlin ha deciso per la prima volta di rendere pubblica. Una missiva di quattro pagine, indirizzata all’allora presidente d’Israele Yitzhak Ben-Zvi, di cui già si conosceva l’esistenza (ne aveva parlato tra gli altri Hannah Arendt nel suo libro La banalità del male), ma non il contenuto.
Nella lettera Eichmann sosteneva che il tribunale israeliano avesse esagerato il suo ruolo nell’organizzazione della logistica della «soluzione finale», vale a dire nello sterminio degli ebrei. «Bisogna distinguere i responsabili dalle persone che come me sono state semplici strumenti nelle loro mani», scrisse l’ex ufficiale delle SS. «Io non ero un responsabile e non mi sento quindi colpevole» (...) «pertanto non ritengo giusto il giudizio della corte e vi chiedo, signor presidente, di esercitare il vostro diritto a concedermi la grazia, così che la condanna a morte non venga eseguita».
In realtà il funzionario tedesco, classe 1906, era stato uno dei protagonisti della persecuzione degli ebrei in Europa. Già all’età di ventotto anni venne incaricato dalla Gestapo di occuparsi della questione ebraica. Segretario della conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942 che decise la «soluzione finale», curò in prima persona il meticoloso piano dei trasporti ferroviari di deportazione degli ebrei, contribuendo al perfetto funzionamento della macchina di morte nei lager di Auschwitz e della Polonia orientale (Belzec, Sobibor, Treblinka).
Nel 1945 Eichmann, al pari di altri gerarchi nazisti, riuscì a far perdere le proprie tracce, imbarcandosi nel 1950 a Genova per l’Argentina, con un passaporto falso intestato a Ricardo Klement. Il funzionario nazista lavorava in uno stabilimento della Mercedes a Buenos Aires quando venne individuato dagli agenti del Mossad, i servizi segreti israeliani. Rapito l’11 maggio 1960, fu trasportato a bordo di un aereo in Israele, dove venne processato e condannato a morte nel 1961.
La lettera - insieme a quella con cui Ben-Zvi respinse la richiesta di grazia - è stata esposta nella residenza dell’attuale presidente israeliano Reuven Rivlin, nell’ambito di una mostra inaugurata ieri e dedicata al celebre processo del 1961, che riaccese l’attenzione sulla Shoah, mandato in onda in diretta tv mondiale e svoltosi presso il Beit Haam, la Casa del Popolo di Gerusalemme.
Proprio in questi giorni è uscito in numerose sale cinematografiche italiane, come evento speciale per la Giornata della Memoria, The Eichmann Show, film di produzione britannica, diretto da Paul Andrew Williams, che ripercorre tutte le tappe produttive della diretta televisiva delle 121 udienze del processo, narrando fra l’altro, grazie a videocamere nascoste, le reazioni di Eichmann di fronte alle testimonianze dei sopravvissuti.
Eichmann venne impiccato poco prima di mezzanotte del 31 maggio 1962 in una prigione a Ramia. Come prescriveva il verdetto, il suo cadavere venne cremato e le sue ceneri disperse da una motovedetta israeliana nel Mediterraneo, al di fuori delle acque territoriali d’Israele.
Il suo processo venne seguito per la rivista New Yorker da Hannah Arendt, che lo descrisse come «un esangue burocrate» che si limitava ad eseguire gli ordini e ad obbedire alle leggi. Una tesi poi messa in discussione da vari studiosi e che è stata di recente demolita da un saggio della filosofa tedesca Bettina Stangneth, intitolato Eichmann prima di Gerusalemme. La vita non verificata di un assassino di massa, che lo ha identificato come un carrierista rampante e ambizioso e un nazista fanatico e cinico, che agì con incondizionato impegno per difendere la purezza del sangue tedesco dalla «contaminazione ebraica».
*
La ragione oscurata dalla «guida suprema»
Islam. Un’intervista con Hamed Abdel-Samad, autore di «Fascismo islamico», pubblicato da Garzanti
di Guido Caldiron (il manifesto, 10.06.2017)
Hamed Abdel-Samad è un uomo in guerra. Si muove scortato da guardie del corpo, riceve costanti minacce e il suo nome è oggetto di una fatwa e di un’accusa di «eresia» da parte dei religiosi di al Azhar. Quando, lo scorso anno, insieme alla giornalista Nazan Gökdemir ha realizzato per la tv pubblica tedesca Zdf l’inchiesta I musulmani d’Europa si è visto chiudere più di una porta in faccia. E questo malgrado il suo lavoro di studioso sia apprezzato da figure di rilievo dell’Islam europeo come l’islamologo Bassam Tibi e l’ex imam di Marsiglia, Soheib Bensheikh.
Quarantacinque anni, nato a Giza, non lontano dal Cairo, figlio di un noto imam e lui stesso cresciuto negli ambienti dei Fratelli Musulmani, Abdel-Samad vive in Germania da vent’anni dove si è fatto conoscere per il suo lavoro di politologo all’università di Monaco e dove ha acquisito grande notorietà per quella che considera come una sorta di battaglia esistenziale in nome di un «illuminismo arabo» contrapposto sia all’islamismo politico che all’«oscurantismo religioso» musulmano. Tesi ribadite nel suo libro più noto e polemico, Fascismo islamico, Garzanti (pp. 224, euro 16).
Fin dal titolo, il suo libro è stato percepito in molti ambienti musulmani come una provocazione, cosa l’ha spinta a scriverlo?
Mi sono formato attraverso lo studio dell’Islam e delle culture politiche che vi sono legate. Perciò mi ero già accorto di come buona parte degli studiosi occidentali considerino la relazione tra fede e politica in ambito musulmano, ed in modo particolare l’islamismo, come un fenomeno nuovo, sorto soltanto in reazione al colonialismo e che non avrebbe avuto alcuna genesi specifica e autonoma. È una grave semplificazione che rende poco comprensibile quanto accade oggi e perciò ho deciso di analizzarne le radici ideologiche e il modo in cui si è andato definendo nel corso del tempo, a partire dalle similitudini sinistre che sono emerse all’inizio del Novecento tra l’Islam politico e i fascismi europei.
Lei si concentra sulla nascita dei Fratelli Musulmani nell’Egitto degli anni Venti. I punti di contatto tra costoro e i fascisti non vanno però letti anche come una conseguenza del fatto che la democrazia inglese, erano all’origine del dominio coloniale al Cairo?
Una lettura di questa vicenda all’insegna di un’alleanza tattica con «il nemico del mio nemico» spiega solo superficialmente le cose. Fin dalla fondazione dei Fratelli Musulmani nel 1928, il loro leader, Hassan al-Banna dava più importanza al fatto che fossero banditi tutti gli altri partiti, tranne «quello di Allah» che non alla democratizzazione del paese o alla lotta per l’indipendenza. Quanto alle similitudini con il fascismo, appaiono a più livelli. Mi riferisco ad una visione del mondo che si basa sul fatto di considerare i musulmani superiori al resto dell’umanità, un po’ come avviene per il «mito ariano» dei nazisti.
In entrambi i casi, i nemici sono disumanizzati, paragonati alle bestie, soprattutto gli ebrei, mentre la guerra e la morte sul campo di battaglia, o nella jihad, costituiscono il cuore dell’identità del movimento che si muove nella prospettiva di dominare il mondo con ogni mezzo e, nel frattempo, di ripristinare un rigido ritorno ai ruoli sociali e di genere tradizionali.
Infine, al vertice c’è una «guida suprema», o un «duce» che traduce certezze metafisiche a beneficio delle masse. A tutto ciò, si può poi aggiungere che al-Banna scrisse pagine di ammirazione per Hitler e Mussolini e fu molto vicino al Gran muftì di Gerusalemme, Amin Al Husseini, tra i principali collaborazionisti arabi. Il problema è che le idee dei Fratelli Musulmani sono all’origine sia dei partiti islamisti contemporanei che di gruppi terroristici come Al Qaeda e l’Isis.
Dopo aver definito «il fascismo» come «un lontano cugino del monoteismo», lei spiega che nel mondo musulmano i consensi per gli islamisti traggono origine da una lunga tradizione di oscurantismo religioso consolidatasi nei secoli. Perciò, il suo lavoro a chi si rivolge?
Sono cresciuto nella fede, ma non faccio appello né alla cosiddetta «comunità dei credenti», né ai musulmani in quanto tali. Mi rivolgo ai singoli e alle loro coscienze. Di fronte alla minaccia incarnata da chi giustifica i propri orrori e il proprio dominio evocando «la parola di Dio», il Corano, è sul pensiero e gli sforzi individuali che possiamo ancora puntare per cambiare le cose.
Anche chi parla di una possibile «riforma» dell’Islam si inganna: la fede deve trasferirsi nella sfera privata di chi fa questa scelta e smetterla di voler dettare legge nella vita pubblica, sui corpi e le persone. Solo allora la minaccia che incombe su tutti noi potrà essere sconfitta davvero.
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
Teologia e psicoanalisi (lacaniana)
Alleanza nel segno dell’umanesimo
di Marco Garzonio (Corriere della Sera, 07.06.2017)
Sono lontani i tempi di anatemi e diffidenze tra Chiesa e psicoanalisi. Oggi l’inconscio può essere ponte, non luogo di scontri. Scrive Pierangelo Sequeri: «Tra istituzione religiosa e istituzione psicoanalitica si è consolidato un assetto di reciproca convivenza, che fa largo spazio ad un atteggiamento di rispettosa distinzione degli ambiti e - persino - di virtuale ammissione di margini di cooperazione, nell’interesse di soggetti con speciali difficoltà proprio nell’articolazione psichica dell’esperienza religiosa». Da agosto Sequeri è preside del Pontificio Istituto «Giovanni Paolo II» per gli studi su matrimonio e famiglia. Ce lo ha voluto papa Francesco.
Al culmine d’un percorso quasi ventennale «teoria psicoanalitica» e «ragione teologica» sono spinte «dalla stessa parte», dice ancora Sequeri. All’inizio hanno giocato sensibilità e interessi di docenti della Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale. A Milano si sono svolti corsi e ricerche sui rapporti tra esperienza religiosa e psicologia del profondo, con predilezione per Jacques Lacan perché meglio corrisponderebbe alle esigenze della fede, visti i riferimenti lacaniani al «nome del Padre». Un dialogo nei propositi non ristretto alla ricerca scientifica. Dai chiostri della Facoltà s’è prospettato un percorso di cultura e responsabilità civili da assumersi, cattolici e laici, nei confronti di un diffuso disorientamento in fatto di valori alti a livello individuale e sociale. Tanto che si parla oggi di una sorta di alleanza «nella difesa dello spessore ontologico dell’essere simbolico e dell’essere pratico», nel pronunciarsi «sul senso etico della psiche», scrive (ma lo sostiene da anni) Sequeri.
Quando Bergoglio lo chiamò a Roma, Sequeri era preside della Facoltà Teologica che Paolo VI volle a Milano fuori però dalle mura della Cattolica. Una sofferenza per Giuseppe Lazzati, allora rettore, che puntava a rilanciare l’ateneo dopo il Sessantotto attraverso un dialogo tra scienze umane e teologia. Corsi e ricorsi di storia e di fede!
Prodotto recente della scuola teologica milanese è il libro di Rossano Gaboardi «Un Dio a parte». Che altro? Jacques Lacan e la teologia, pubblicato dalle Edizioni Glossa, l’editrice della Facoltà. È l’esito di una tesi di dottorato: oltre seicento pagine, rassegna densa di autori, testi, riferimenti a Lacan e seguaci e al teologo Hans Urs von Balthasar. Dalla presentazione al volume abbiamo tratto le citazioni di Sequeri intorno alla nuova «frontiera dell’umanesimo», sulla quale sembrano dunque attestate oggi Chiesa e psicoanalisi.
Poste le basi dalla teologia fondamentale, adesso la sfida potrebbe allargarsi e coinvolgere altre branche del sapere teologico, quali ad esempio la teologia pastorale e quella biblica. Si pone per primo infatti un problema di linguaggio, trasmissione, coinvolgimento sulle questioni che una corretta relazione tra fede e psicologia del profondo può generare. Se non diventano parola parlata, spezzata come pane della conoscenza, vissuta, condivisa, le parole dei teologi che studiano la psicoanalisi rimangono per pochi addetti ai lavori, autoreferenziali, lessico per iniziati.
La teologia biblica poi è l’esempio della fecondità di approcci molteplici. Numerosi specialisti già si servono di vari strumenti psicoanalitici per comprendere le Scritture, le componenti umane e storiche dei testi sacri, i pionieri della psicologia del profondo. Questi ultimi sarebbero fuori luogo in soffitta, anche se Lacan li ha criticati con un linguaggio al cui fascino la teologia fondamentale non sembra indifferente.
La rivoluzione di Sigmund Freud, ad esempio, si coglie se si ha il coraggio di affrontare con spirito libero e senza pregiudizi l’essere ebreo del fondatore della psicoanalisi. Un lettore della Bibbia può verificare come Talmud e modi di lettura del testo siano importanti per comprendere L’interpretazione dei sogni. L’ebraicità di Freud è un valore che avvicina in modo significativo il cultore della psiche, che cerca di decifrare i contenuti inconsci attraverso il mondo onirico, e il docente di critica testuale che fa parlare la Parola tramite simboli e immagini.
Discorso simile può essere fatto a proposito di Carl Gustav Jung. Dopo la pubblicazione del Libro Rosso , nel 2010, Jung va riconsiderato, in specie dai teologi: dall’apporto di questi potrebbe venire molto. Un esempio: il «processo di individuazione», cioè la conoscenza e la realizzazione di sé poggiata su riferimenti a Isaia e a Giovanni nel Libro Rosso, è versione moderna e attuale dell’Imitatio Christi, in termini psicologici. Non dimentichiamo che Jung fu psichiatra e in quanto tale ha vissuto in prima persona le sofferenze estreme della psiche che disputa con Dio, come Giobbe, o che del Creato coglie il vuoto, come Qoelet, e rischia di sprofondarci. Sul dolore del singolo e del collettivo fede e psicoanalisi insieme possono chinarsi e farsi prossimo all’uomo.
Il saggio
«Un Dio a parte». Che altro? Jacques Lacan e la teologia di Rossano Gaboardi è pubblicato da Glossa (pp. XXIV-620, e 50), la casa editrice della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale che ha sede a Milano. -La presentazione al volume - l’esito della tesi di dottorato di Gaboardi - è di Pierangelo Sequeri, dallo scorso agosto preside del Pontificio istituto «Giovanni Paolo II». Il francese Jacques Lacan (1901-1981) era psichiatra e filosofo. È stato uno dei maggiori psicoanalisti del Novecento. La sua psicoanalisi si basa sulla tesi secondo cui l’inconscio «è strutturato come un linguaggio»
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La vera società libera è quella che rifiuta la tirannia dei padri
Nel loro saggio Marco Marzano e Nadia Urbinati riflettono sulle trasformazioni della nostra organizzazione di vita proponendo un “patto” tra pari che elimini ogni leaderismo
di Giulio Azzolini (la Repubblica, 02.06.2017)
Chi ha paura della “morte del padre”? Chi teme la crisi di quell’autorità che la tradizione ha visto incarnata nella figura maschile e paterna? Non certo Marco Marzano e Nadia Urbinati, che anzi nel loro saggio La società orizzontale (Feltrinelli) si scagliano apertamente contro quello che chiamano «il modello di Telemaco»: il figlio che, nell’attesa del padre Ulisse, non scatena il conflitto generazionale di Edipo né mira all’autoaffermazione di Narciso. Invece, secondo il sociologo e la teorica della politica, l’attesa del padre tradisce piuttosto l’invocazione del leader, dunque una qualche nostalgia per le vecchie gerarchie.
Alla «logica neo-patriarcale» andrebbe contrapposta, a parer loro, la rivendicazione di una «società orizzontale», ovvero autenticamente democratica. E il saggio, che pone in modo polemico e sempre lucido questioni radicali, àncora tale rivendicazione a una duplice argomentazione, volta a mostrare che una società senza padri è desiderabile e, d’altro canto, che il processo di “orizzontalizzazione” è comunque un destino, malgrado la nostra economia sia stata segnata da quella scandalosa «mutazione antiegualitaria» denunciata proprio da Nadia Urbinati nel 2013 (Laterza).
La società orizzontale, in sintesi, sarebbe non solo augurabile, ma anche possibile, a patto tuttavia di vincere una precisa battaglia culturale: quella che ha per avversario la cosiddetta «controrivoluzione dei padri ». Secondo i due autori, infatti, l’Italia ha bisogno di riaffermare il valore etico della democrazia a partire da tre ambiti cruciali: religioso, famigliare e politico.
Sul piano religioso, Marzano e Urbinati descrivono una sorta di passaggio al protestantesimo, compiuto da una generazione di giovani che ragiona in autonomia e stabilisce un rapporto sempre più diretto e libero con la dimensione del divino. Sul piano famigliare, si nega che il declino della famiglia tradizionale, cioè paternalistica e autoritaria, rappresenti una catastrofe.
Al contrario, la democratizzazione delle famiglie avrebbe portato con sé un clima più pacifico, fatto di dialogo e di rispetto reciproco.
Sul piano politico, infine, viene diagnosticata la crisi dei partiti identitari. La loro restaurazione è una causa persa. Ma la loro natura dev’essere per forza leaderistica o verticale? No. La sfida, secondo gli autori, è quella di costruire partiti orizzontali, con una struttura sempre meno piramidale e più reticolare, capace cioè di federare gruppi sorti nella società civile. E ciò non implica il rigetto della dicotomia destra-sinistra, come pretende l’attuale vulgata movimentista. Marzano e Urbinati sostengono che gli stessi valori democratici possono ancora essere declinati con uno spirito riformista e sociale oppure conservatore e liberista, e dunque che le categorie di destra e sinistra restano utili criteri di orientamento.
Se non è l’assenza di padri, il pericolo che incombe sulla società orizzontale è quindi un altro: la trasformazione dell’individualismo in atomismo, ossia l’aggravarsi di una patologia tipica di quegli individui liberi e uguali che rappresentano il cuore della democrazia moderna. Il rischio dei nostri giorni è che le persone si isolino, risultando sempre più sconosciute, indifferenti o ostili le une alle altre, e che il presente si separi da un passato percepito come oscuro ed estraneo. Ma la salvezza sta nella collaborazione tra pari, non già nel ritorno, magari in nome del padre, del capo.
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Fedeli, femminicidio fenomeno strutturale e trasversale
Serve nuovo patto scuola-famiglia-società, competenze a docenti
di Redazione *
ROMA - "La violenza sulle donne non è un’emergenza sociale ma un fenomeno strutturale, trasversale in tutti i ceti sociali, in tutte le età della vita, e che riguarda gli uomini". Così Valeria Fedeli, ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca partecipando a un convegno sulla violenza di genere e sui minori.
"Si tratta di una violazione dei diritti che interroga i rapporti che si sono storicamente determinati tra uomini e donne. Siamo convinti che la scuola e l’università devono fare il loro lavoro tenuto conto del ruolo molto importante di tutte le agenzie formative. Noi - aggiunge la ministra - siamo pronti a affrontare il tema della formazione e delle nuove competenze su questo tema da parte dei nuovi insegnati.
Ora - conclude Fedeli - serve un nuovo patto tra scuola, famiglia e società. E su questo fronte siamo pronti a fare la nostra parte, pur di superare, a partire dalla scuola, le discriminazioni tra ragazze e ragazzi che poi portano alla violenza".(ANSA).
METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. LA LIBERTA’ DI MARIA E DI GIUSEPPE ...
Milano. Scritta pro aborto sulla chiesa, la reazione del parroco vola sui social
Lettera aperta di don Andrea Bellò sulla pagina Facebook della Parrocchia san Michele Arcangelo e santa Rita, a Milano, è diventata virale.
di Gigio Rancilio (Avvenire, mercoledì 31 maggio 2017)
Questa è una piccola “brutta” storia ma che sta dando ottimi frutti. Arriva dalla pagina Facebook della Parrocchia san Michele Arcangelo e santa Rita, in zona Corvetto, periferia sud di Milano. E come tutte le notizie, soprattutto quelle che girano sui social, va verificata. Al telefono la voce femminile che risponde al numero della parrocchia, appena dici che sei un giornalista, si irrigidisce un po’. E ti liquida con un “il parroco non c’è”. Sfoderi la voce più pacata che riesci a fare e spieghi: “Volevo soltanto sapere se la storia è vera e se la pagina Facebook della parrocchia è davvero vostra”. “Sì, è tutto vero. Ma il parroco non c’è”.
Il parroco è don Andrea Bellò, diventato famoso nelle ultime ore, suo malgrado, per un post Facebook che ha firmato e pubblicato sulla pagina della Parrocchia san Michele Arcangelo e santa Rita. Ottenere 3700 reazioni, 307 commenti e 1590 condivisioni, per una pagina che normalmente registra 15 mi piace, è un record.
A colpire gli utenti è stata la reazione di don Andrea, dopo che il muro della sua parrocchia è stato imbrattato con una scritta offensiva: “Aborto libero (anche per Maria)”. Il parroco ha deciso di scrivere su Facebook una lettera aperta all’anonimo “imbrattatore”.
Eccola:
Che una Chiesa venga imbrattata da scritte offensive, purtroppo non è una novità. E nemmeno che un parroco usi i social per cercare un dialogo con un aggressore. E non è una novità nemmeno che un sacco di persone plaudano alla sua scelta.
Ciò che è nuovo, anzi rinnovato è il coraggio di questo gesto. La bellezza di questo gesto. L’esempio di questo gesto.
Leggere con l’orecchio
di Nadia Fusini *
Se esiste la letteratura non possono non esistere la storia e la critica della letteratura. E dunque, chi si applica a mettere in sequenza i suoi frutti, e chi si dedica al loro giudizio. Alla loro interpretazione. Chi opera per coglierne il senso nascosto, o profondo. O per decifrare nel suo specchio le verità dell’epoca con la quale la letteratura intrattiene rapporti più o meno indiretti.
Se esiste la letteratura non può non esistere una visione, e dunque una teoria della medesima. Nel senso puro e semplice che nei suoi frutti si dà a vedere un mondo. E comunque, al di là del suo valore di intrattenimento, di divertimento - che sia in versi o in prosa, che sia un poema, un romanzo o unracconto - l’opera letteraria condensa in sé un pensiero, un’idea del mondo. Come ogni manufatto linguistico.
Esistono dunque a buon diritto il critico, lo storico, il teorico della letteratura. Ora, tali professioni, anche nel senso di fede - di fede e fiducia nella parola: che possa produrre conoscenza - si esplicano in vari modi. C’è il critico accademico, c’è il critico militante, c’è lo storico, e c’è l’interprete, e c’è il recensore di libri sui quotidiani. Chi insegna dall’alto di una cattedra e chi lodevolmente e quotidianamente si impegna a guidare il lettore comune nella scelta di un romanzo, di un libro di poesie, orientandolo con onestà in un panorama assai vasto di esperienze possibili, ben sapendo che esiste un’industria culturale, la cui volontà espansiva non arretra di fronte alle colpevoli sopraffazioni della buona fede del lettore comune. Appunto, il lettore comune, il destinatario reale e ideale del libro.
Ora a me pare che affinché esista una buona letteratura, è necessario che esista un buon lettore. O, per non ripetere il vecchio adagio dell’uovo e della gallina, un buon lettore e una buona letteratura si danno la mano.
La lettura, è questo l’atto da indagare. Come ci arriviamo. Come lo eseguiamo. Intanto, vari sensi e organi vi sono implicati. C’è l’ occhio, e c’è lo sguardo. Non sono la stessa cosa. C’è l’orecchio, e c’è l’ascolto. Non sono la stessa cosa. Leggere, non è solo una questione di occhio. Sì, certo, si legge con l’occhio la parola scritta. Ma si legge anche con l’orecchio.
Mi assumo a cavia, e rivelo che quando leggo, io ascolto. Ascolto la voce, o quel che resta della voce in quel che è scritto. Come fa Leopardi - ricordate?, quando “porgea gli orecchi al suon della tua voce", dice a Silvia. "Sonavan le quiete stanze, e le vie dintorno", in virtù di quella voce. E lui ne ha nostalgia. Potremmo dire con Leopardi che la poesia nasce così, come un’immensa nostalgia della voce viva. Voce viva, viva voce: voce che è appunto segno vivente, fiato, respiro, anima. È il segno di vita che cerca Lear sulle labbra di Cordelia - la più laconica delle sue figlie. La voce viva, la vita. Nelle parole scritte, o morte (è la stessa cosa, insegna Socrate), quando leggiamo, cerchiamo la voce viva.
Questo fa il lettore che ha orecchio: attende alla parola viva. Ascolta nell’enunciazione umana la lotta per l’espressione. Porge l’orecchio per sentire qualcuno in duello con se stesso, coi propri grovigli espressivi, con il mondo che vuole specchiare, rappresentare, svelare... Insomma, in lotta con la volontà di afferrare nella parola, quand’anche per la coda, un’esperienza che è di un altro ordine, rispetto al linguaggio.
Un’esperienza che è vita.
L’orecchio in quanto organo presenta però una caratteristica particolare: è l’unico orifizio del corpo umano che non si chiude. Si può chiudere la bocca, si possono chiudere gli occhi, si può serrare l’ano, per quanto riguarda la vagina è protetta per un certo tempo almeno dall’imene, e anche dopo si può quanto meno contrarla, se non si vuole far passare qualcosa; ma l’orecchio no. Di suo e per natura, l’orecchio non ha difese contro la penetrazione. Proprio per questo è estremamente vulnerabile. E temo che l’acustica roboante di un’industria editoriale sciatta e volgare contribuisca a corrompere l’udito. E così anche chi vorrebbe tenere le orecchie aperte per accogliere il suono della vita, finirà per non sentire più nulla. E non saprà più intonarsi all’esperienza di conoscenza e di piacere che offre una parola autentica, che con il suono della vita si confronta.
A questa educazione dovrebbero attendere la scuola, l’università, la critica e l’estetica. Accade invece - è sotto gli occhi di tutti - che a fronte di una alfabetizzazione universale, corrisponda una ignoranza epocale, frutto di una ideologia dell’istruzione sempre più marcatamente piegata all’utile e all’immediato impiego delle risorse umane e sempre più estranea, quasi non sapesse più che cos’è, alla cura dello sviluppo della coscienza critica.
Assistiamo sconcertati a istituzioni che assecondano la pigrizia e programmano la volontà di lasciar cadere un patrimonio letterario e culturale, di cui il nostro contemporaneo è l’erede, defraudando in realtà il nostro contemporaneo delle antenne che dovrebbe sviluppare per comprendere la sua propria vita. Così chi avesse nel proprio orizzonte ancora tali fini per se stesso, singolarmente dovrà farsi carico della volontà di conoscenza: volontà di conoscenza che non può non passare attraverso la lettura, in un rapporto dinamico tra la tradizione e il presente.
Il fatto è che o leggere ha questo risvolto esperienziale, o non è nulla: non ha nessun valore. Se non di evasione. Mentre io - di nuovo mi offro come cavia - avanzo nella lettura non in fuga, ma a caccia del reale. Non leggo per evadere. Non sono un disertore. O se leggo per fuggire dalla realtà, è perché credo che la lettura mi permetta di entrare in un altro mondo né falso, né vero, ma per l’appunto “reale”.
Questo me l’ha insegnato una donna filosofa, Rachel Bespaloff. Per la quale “la lettura è la messa alla prova spirituale di un’opera.” Mentre un’altra donna filosofa, Simone Weil, mi ha insegnato l’esercizio della lettura come ‘attenzione’. Che siano Camus o Omero, la Bibbia o Kafka, chi legge, insegnano le due donne filosofe, chi legge cerca il senso dell’esistenza umana. In modo indiretto, sospeso, per niente enfatico, chi legge ritorna a farsi le domande essenziali: da dove veniamo? chi siamo? dove andiamo? È una ginnastica essenziale alla formazione umana dell’uomo. E della donna. È un training a cui la letteratura allena. In questo senso, il lettore mette alla prova l’opera che ha di fronte. E l’opera esisterà, sarà grande, rimarrà viva nei secoli dei secoli, se chi vi si abbevera, almeno un poco, estingue la sua sete di verità spirituale.
Simone Weil insegna che al cuore della lettura v’è un’esperienza etica. Si legge per conoscere, si legge per trasformarsi, per cambiare. Perché come nella muta del serpente, il vecchio Adamo decada e il novello Adamo nasca, e con lui naturalmente una nuova Eva... Si legge perché riconosciamo allo scrittore la capacità di operare in noi una metamorfosi. Sì, certo, è alla realtà, è al mondo vero, che lo scrittore attinge per costruire il suo mondo irreale; ma è del mondo reale, che vuole parlare - per cogliere oltre la sua opacità, oltre il suo capriccio, un’apertura all’essere più profonda, più radicale, che si dà soltanto così, perché lui la inventa. Cioè, la trova. E cioè, la crea. È un momento davvero miracoloso quello in cui trascendenza e invenzione si confondono. E il lettore se ne fa testimone, perché è nel lettore che questo processo si incarna.
Chi risponde così dell’atto della lettura, si fa lui stesso scrittore. A simbolo risponde simbolo, sentenziò anni fa in uno scambio privato il grande Roland Barthes. Aveva assolutamente ragione. Ma perché questo accada, il lettore dovrà farsi deuteragonista attivo e esigente. E coraggiosamente, con ostinazione mettersi alla ricerca - sarà il suo proprio Graal - dei libri che gli offrano tale esperienza. Allontanando da sé la cattiva influenza di tutti quei mediatori che della letteratura fanno commercio, e con i lacci seduttivi di una perniciosa arte della retorica lo dissuadono dallo sviluppare le antenne che servono a distinguere la parola autentica da quella falsa. Siamo diventati così sofisticati nel palato, tanto da distinguere prelibate vivande di raro gusto, e non vogliamo diventare altrettanto capaci di godere della parola?
EUROPA, AFRICA ...
CONTINUITA’ NASCOSTE! USCIRE DALLA PREISTORIA...
“(...) Dal 2013 hanno avuto inizio i sequestri di donne e bambini. C’è chi dice che 2000 siano nelle mani di Boko Haram.
Il web mi ha consegnato storie e pensieri che hanno complicato il mio sentimento.
Mi sono fatto accompagnare dalla rilettura di un classico della storia europea, Norman Cohn, I fanatici dell’Apocalisse, che nell’originale (1957) suona così:
The Pursuit of the Millennium: Revolutionary Millenarians and Mystical Anarchists of the Middle Ages.
(...) Qualcuno al mondo aveva mai sentito parlare di Chibok, Nord della Nigeria, 65.000 abitanti, quasi sempre senza elettricità e acqua?
Lo scrittore nigeriano residente in USA, noto in Italia, si fa per dire, per Angeli Dannati, Sartori, 2005, è tornato dalle sue parti e ha raccontato
The Chibok Girls: The Boko Haram Kidnappings and Islamist Militancy in Nigeria , Columbia Global Reports, dicembre 2016.
Da tradurre”
(Claudio Canal, Festa e dolore per le spose di Boko: https://www.alfabeta2.it/2017/05/23/boko/).
Condivido e sottoscrivo.
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CHI SIAMO NOI, IN REALTÀ?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
RENZO DE FELICE E LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
MEDICINA, ILLUMINISMO KANTIANO, E COSTITUZIONE DEMOCRATICA: CRITICA DELLA CONOSCENZA E DELLA RAGIONE MEDICA....
Obbligo vaccini a scuola, ecco come funziona all’estero *
L’obbligatorietà di alcune vaccinazioni è un strategia diffusa in Europa e non solo. Ma a chiedere il certificato vaccinale per l’ammissione a scuola - come si torna a fare in Italia con il decreto appena varato in Cdm - oggi in Europa c’è solo la Germania e, dall’altra parte dell’oceano, Stati Uniti e Canada. In territorio europeo, da un’indagine comparativa del 2010 sull’attuazione dei programmi vaccinali su 27 Paesi Ue (più Islanda e Norvegia), condotta da Venice (progetto Vaccine European New Integrated Collaboration Effort) e pubblicata sulla rivista Eurosurvellance, risulta che 14 dei 29 Paesi hanno almeno una vaccinazione obbligatoria nel loro programma.
Obbligo vaccini a scuola, come funziona dopo i 6 anni?
I 15 che non ne hanno alcuna obbligatoria sono: Austria, Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Irlanda, Islanda, Lituania, Lussemburgo, Norvegia, Portogallo, Spagna, Svezia, Regno Unito. Differenze si registrano anche nelle scelte delle vaccinazioni rese d’obbligo. Per l’Italia, fino ad oggi, i vaccini obbligatori erano difterite, tetano, epatite b, polio; in Francia difterite, tetano, polio, tbc; in Grecia difterite, tetano, polio; in Belgio e Olanda obbligatoria solo l’antipolio, anche perché gli ultimi casi europei della malattia si sono verificati proprio nei due Paesi.
Per quanto riguarda l’obbligo della vaccinazione per l’iscrizione a scuola "in realtà - spiega all’Adnkronos Salute Pier Luigi Lopalco, docente di Igiene dell’università di Pisa - non abbiamo evidenze scientifiche. Il dato più recente, in un Paese di cultura occidentale, è quello della California, dove per far fronte al calo della copertura, è stata cancellata la possibilità di appellarsi a motivi religiosi per iscriversi a scuola senza certificato vaccinale".
Questa misura "ha fatto effettivamente risalire i dati di copertura. Personalmente - dice l’esperto - credo che il filtro scolastico, declinato in maniera moderna, possa essere utile, perché consente di intercettare i genitori non vaccinisti, convocarli e avviare un confronto per far comprendere l’importanza di proteggere non solo il proprio figlio ma anche gli altri. Mentre non credo siano utili forme di coercizione".
"E’ invece importante lavorare per cambiare la cultura, anche dei medici - insiste - che spesso non sanno fornire risposte a genitori confusi, e generano ancora più confusione. Ed è necessario adottare misure strutturali, non estemporanee, per garantire la copertura vaccinale necessaria a tutelare la salute dei tutti", conclude Lopalco.
Il padre dell’omeopatia usa gli antibiotici
Intervista del Corriere a Christian Boiron: "Farmaci omeopatici vanno usati in sinergia" *
Gli antibiotici? "Li prendo e anche i miei figli". Così, in un’intervista al Corriere della Sera, il ’padre dell’omeopatia’ Christian Boiron, direttore generale del Gruppo Boiron, leader mondiale dei farmaci omeopatici. L’ultimo antibiotico preso risale "all’anno scorso, dopo l’estrazione di un dente del giudizio". E l’ultimo farmaco a stamattina: "la cardioaspirina, la prendo tutti i giorni".
In merito al decesso di un bimbo di sette anni nel pesarese ad Ancona per un’otite curata con metodi omeopatici, Boiron dice:
Boiron insiste sul concetto di sinergia:
E ancora: "Dobbiamo considerare l’omeopatia come una specializzazione che dà strumenti in più per inquadrare e curare le malattie. In sinergia".
INTERVISTA *
Luca Parmitano, astronauta: “Il futuro Cristoforo Colombo lo stiamo già addestrando”
Secondo il primo astronauta italiano protagonista di una passeggiata spaziale, nel futuro non sarebbero da escludere cosmonauti mutanti. E no, non è fantascienza
Di una cosa Luca Parmitano sembra davvero orgoglioso. Ma è difficile scovarla. E non perché l’astronauta catanese, protagonista della prima missione di lunga durata dell’Agenzia spaziale italiana, non vada fiero di quello che fa, anzi. È che complici il suo contegno militare - è Maggiore Tenente Colonnello pilota dell’Aeronautica - e soprattutto il suo carattere. Mai, nei suoi occhi o nelle sue parole, traspare l’ombra del vanto.
Per Parmitano il successo è sempre della squadra. Ogni traguardo, foss’anche Marte, diventa raggiungibile solo grazie alla collaborazione.
E questo, nonostante di risultati personali potrebbe sfoggiarne un elenco: come collaudatore ha accumulato 2mila ore di volo su oltre 40 tipi di velivoli; nel 2005 è stato decorato con la medaglia d’argento al valore per aver portato a terra il suo Amx dopo che l’impatto con una cicogna l’aveva compromesso. Selezionato dall’Agenzia spaziale europea nel 2009 è diventato il sesto astronauta italiano, il quarto ad abitare la Stazione spaziale internazionale (nel 2013, per 166 giorni) e il primo ad averci passeggiato attorno, in due attività extraveicolari, o Eva, portate a termine nonostante una grave avaria della tuta nella seconda occasione.
Nel 2014 è stato comandante della spedizione Caves, con cui l’Esa prepara gli astronauti alle missioni spaziali facendo loro trascorrere sette giorni sottoterra nella diaclasi Sa Grutta, vicino Olbia.
L’anno successivo ha partecipato, sempre come comandante, alla spedizione della Nasa, Neemo20, due settimane vissute dentro Aquarius, una stazione 19 metri sotto la superficie marina al largo della Florida.
Eppure, si diceva, è di un’altra cosa che Luca Parmitano sembra orgoglioso: è il primo europeo a fare da regista a due Eva. Il che significa comunicare direttamente con gli astronauti fuori dalla Iss per guidarli nelle procedure.
Perché, dice lui, “la conquista spaziale non è un’impresa di qualche eroe solitario. E al futuro ci si prepara insieme“.
A proposito, in che modo Neemo e Caves c’entrano con il nostro futuro nello Spazio?
“Entrambe rimandano alla componente esplorativa dei viaggi spaziali, le sono complementari. Consistono in un addestramento in condizioni estreme, come quelle che affronteremo nei prossimi lanci.
“Sottacqua abbiamo un habitat che, per molti aspetti, è come quello di un’astronave sommersa: non solo consente di simulare gravità diverse, implica anche la componente scientifica di ogni missione, con gli esperimenti nel laboratorio, e quella esplorativa grazie alle uscite nello scafandro.
“Che cosa c’entra l’esperienza sottomarina con quella cosmica? Tutto. Lo scafandro è immerso in un ambiente alieno, che consente di testare ingegneria e design degli strumenti che utilizzeremo.
“In Caves ci sono altre componenti: spostarsi dentro grotte sotterranee implica affrontare posti inesplorati e inadatti al nostro soggiorno. Senza supporto, isolati, dove tutto quello che ti serve te lo devi portare appresso. È un contesto in cui sperimentare la dimensione fisica e logistica delle missioni spaziali.
“In sintesi, Neemo e Caves insegnano come addestrare gli astronauti nel futuro. Non è un caso se a breve continuerò la preparazione a Lanzarote, nelle Canarie; quelle zone sono come un pezzo di suolo marziano sulla Terra”.
È plausibile che in tempi brevi colonizzeremo il Pianeta Rosso?
“Al momento prevediamo di raggiungerlo negli anni Trenta [a fine marzo la Nasa ha pubblicato il suo piano in 5 fasi per arrivarci nel 2033, ndr]. Ma meglio non parlare di tempi brevi quando c’è il cosmo di mezzo”.
È pessimista?
“Tutt’altro, ci arriveremo. Mi riferivo al dopo: voglio superare il concetto secondo cui la Terra sarebbe la culla dell’umanità; in questo momento ne è anche la gabbia e a nessuno piace vivere in cattività. A parte la curiosità innata, è per una questione di sopravvivenza ed espansione nel tempo. In questo senso non abbiamo fatto che un primo passo: siamo in orbita in modo continuativo.
“Ce ne sarà presto un secondo, costituito da una probabile permanenza nel sistema Terra-Luna. Questo almeno vorrebbe l’Esa, creare un ambiente adatto alla colonizzazione e allo sfruttamento locale delle risorse. Quindi procedere verso Marte. Il che imporrà si riesca ad affrontare un viaggio interplanetario.
“Non mi azzardo a parlare di terraforming, di trasformazione a nostro uso e consumo di un ambiente extraterrestre. Siamo ancora lontani da questa eventualità, ma molto prossimi a vedere da vicino com’è l’ambiente marziano”.
Poi?
“Poi la prospettiva andrebbe estesa: oggi siamo in grado di confermare la presenza di pianeti abitabili intorno a quasi tutte le stelle, miliardi di mondi in cui la vita è possibile, in cui c’è acqua, con un’atmosfera simile alla nostra. E allora credo sia il caso di pensare al futuro.
“Ecco perché il concetto di tempi brevi, se non altro inteso come un periodo compreso nell’arco della vita umana, andrebbe rivisto.
“I passaggi per effettuare un viaggio interstellare sono esponenzialmente più complessi del volo interplanetario, ma come ricordava Lao Tzu anche il cammino più lungo inizia con un passo.
“Tanto che c’è già chi parla di come inviare un microchip oltre il nostro sistema solare, lambendo frazioni decimali della velocità della luce. Come non intravedere la possibilità di arrivare prima o poi a un’astronave, ovviamente attraverso tutte le tappe intermedie, dai robot ai lander fino all’uomo?”.
L’attività sulla Stazione spaziale rientra in questa progressione?
“Come non potrebbe? Si pensi al Beam, anagramma di Bigelow Expandable Activity Module, installato sulla Stazione nell’aprile del 2016. È un modulo gonfiabile, un esperimento per verificare la resistenza fuori dall’atmosfera terrestre di un ambiente espandibile composto da vari strati, fra cui uno in Vectran, un materiale due volte più resistente del Kevlar.
“È fondamentale comprenderne l’importanza se parliamo del nostro futuro nel cosmo, visto che sarà molto difficile affrontare un viaggio interplanetario con un veicolo di grandi dimensioni.
“L’idea è allora di lanciare masse ridotte per poi espanderle, costruire in volo l’astronave di 2001: Odissea nello spazio con moduli gonfiabili in progressione”.
Adesso mi sembra troppo fiducioso. Eppure visse in prima persona gli imprevisti dello Spazio. Come affrontò l’incidente durante la sua seconda passeggiata fuori dall’Iss? E come lo concilia con il suo entusiasmo attuale?
“Ricordando che nello Spazio non c’è posto per gli individualismi. Se non capissimo noi per primi l’importanza inestimabile del lavoro di squadra, a terra e a bordo, commetteremmo un errore grave. Di quelli che possono costare cari”.
Che cosa intende?
“Il 16 luglio 2013, poco dopo l’inizio della mia seconda attività extraveicolare, l’Eva 23, per un malfunzionamento il mio casco ha cominciato a riempirsi d’acqua. In tutto l’emergenza è durata 35 minuti e per circa 8 l’avaria è stata grave, tanto da costringermi al rientro: in quel frangente ho perso ogni contatto radio oltre che sensoriale. Avevo acqua negli auricolari, nel naso, mi aveva coperto gli occhi. Faticavo a respirare, non potevo sentire né parlare, perché i sistemi di comunicazione, microfoni compresi, si erano bagnati.
“In più, una volta nell’airlock della Stazione, ho dovuto sopportare per 15 minuti la pressurizzazione con il sistema di Valsalva compromesso. È un apparato di compensazione che permette, tappando il naso, di pressurizzare le orecchie, ma essendo spugnoso e zuppo d’acqua si era strappato. Non una bella sensazione: è come scendere di colpo da 3mila metri al livello del mare senza contrastare la spinta sui timpani. Un dolore lancinante cui non ci si può opporre.
“Bene, non voglio sminuire le difficoltà di una situazione critica, fingerei. Sono momenti in cui la tua vita è a rischio. Quello che voglio ridimensionare è il merito dell’individuo.
“Oltre agli astronauti, un’Eva coinvolge numerosi collaboratori a Terra, persone che hanno scelto e curato l’addestramento, selezionato gli strumenti e concordato le procedure. Questo insieme è quello che ti permette di avere il battito cardiaco invariabile durante un’avaria, quello che ti concede l’opportunità di pensare...
“Quel 16 luglio, fuori dall’Iss e con un litro e mezzo di acqua nel casco, non ero solo: portavo con me un bagaglio di esperienze costruitomi, per mesi, da una squadra“.
Sta dicendo di non aver avuto paura?
“Certamente ne ho avuta. Ma la differenza tra una persona senza addestramento e chi è preparato consiste nella gestione dello stress. Fino a un certo livello ha effetti fisiologici positivi: il cuore pompa più forte per preparare i muscoli, l’aumento di adrenalina nel sangue stimola la reattività del cervello, la velocità di ragionamento cresce. È fondamentale imparare a utilizzare queste risposte come uno strumento e non permettere siano loro a controllarci. Proprio a questo obbiettivo punta l’addestramento”.
Qual è il problema maggiore nell’evoluzione dei viaggi spaziali?
“L’essere umano”.
Cioè?
“I nostri limiti fisiologici”.
Si riferisce, per esempio, all’esposizione alle radiazioni cosmiche durante viaggi lunghi?
“Focalizzarsi su un problema non serve. Se non ha soluzione, è un dato: saremo di certo esposti alle radiazioni. Possiamo solo aggirare l’ostacolo”.
Come?
“Tralasciamo per un momento le implicazioni etiche e chiediamoci se sia possibile stimolare un’evoluzione mirata. Sappiamo che il dna umano contiene geni di cui non si conoscono ancora proprietà o funzioni. Per esempio, condividiamo quella parte di corredo cromosomico che permette all’orso bruno di andare in letargo. È possibile attivare quel gene in modo da mandare anche l’uomo in ibernazione?
“In questa condizione il metabolismo rallenta fino quasi ad arrestarsi ed è bene ricordare che le radiazioni hanno effetto sugli esseri umani solo durante meiosi o mitosi, vale a dire quando le cellule si duplicano. Se quindi, durante un viaggio interplanetario, si è in ibernazione, il rischio che si verifichi una mutazione cellulare può essere ridotto di molto”.
Astronauti in letargo?
“Esatto. A questo punto la questione si sposta in ambito eto-biologico: è lecito intervenire sul dna degli esseri umani? O, di contro, fino a che punto è sensato escludere un’evoluzione mirata per una parte di umanità, che possa destinarla all’esplorazione del cosmo e farne il nostro prossimo gradino evolutivo: i viaggiatori interstellari.
“Ricordiamoci che l’etica è flessibile e che trattandosi di evoluzione le questioni da soppesare sono più grandi del singolo individuo.
“Detto altrimenti, se mi trovassi fra mille anni a osservare una parte evoluta della razza umana, capace di andare in letargo, quadrumane e con coda prensile - caratteristiche perfette per l’habitat spaziale -, perché dovrei pensare che è un male?“.
Insiste tanto sulla dimensione esplorativa dei viaggi spaziali.
“Perché è la sintesi di scienza e tecnologia, è l’ampliamento delle nostre conoscenze. Ripercorrendo i tempi, è bene ricordare che siamo andati sulla Luna negli anni ’60. Quel decennio costituì una breve parentesi di stimoli straordinari, capaci di spingere l’uomo a fare cose incredibili. Ma pensiamoci, che cosa abbiamo fatto? Siamo stati come i vichinghi che hanno attraversato la Danimarca, l’Oceano Atlantico, il Circolo polare artico. E arrivati in un nuovo Continente, sono tornati indietro. Un passaggio epocale, un salto nell’ignoto senza precedenti, ma anche un evento a sé stante.
“Poi, per quanto nessun vichingo si sia più avventurato attraverso l’Atlantico, nel Mediterraneo le grandi repubbliche marinare hanno sviluppato enormemente la tecnologia delle proprie imbarcazioni, migliorandone la capacità di navigazione, stoccaggio e anche la strumentazione di bordo. Ecco perché, secoli dopo, si è arrivati in America.
“Cristoforo Colombo ha contrassegnato un altro passaggio, proprio come faremo noi nei prossimi anni con la Luna e Marte. Ecco, probabilmente saremo un po’ come Colombo, nel senso che non riusciremo a rimanere per lungo tempo dove andremo. Non subito, almeno.
“Il vero salto evolutivo sarà quando, come con il Mayflower, diventeremo coloni. E per farlo, avremo bisogno di un balzo non solo tecnologico, ma anche sociale. Chi diventa colone? Quelli che in inglese sono chiamati misfits”.
Reietti?
“Piuttosto persone che non tollerano l’essere costretti in un ambiente. Uomini che hanno un bisogno quasi fisico delle difficoltà, che sono addirittura attratti dalla scomodità.
“Oggi molti vorrebbero rendere il volo spaziale più simile a quello terrestre. Si tende a un ambiente ergonomico, confortevole. Ma quelli che diventeranno i nostri coloni lunari o marziani cercheranno tutt’altro: si imbarcheranno perché hanno bisogno del Far West, di orizzonti aspri, di esperienze ruvide, di una bellezza che non è quella del design raffinato. Ma molto, molto più spartana”.
Ce la faremo a vederli?
“Una parte: forse non vedremo salpare il Mayflower, ma Cristoforo Colombo sì. Lo stiamo già addestrando“.
* WIRED, 19.05.2017 (Ripresa parziale - senza immagini).
Convivenza senza spada
di Marina Lalatta Costerbosa (Alfabeta-2, 18 maggio 2017)
C’è qualcosa che caratterizza la tortuosa vicenda dell’anarchismo: il suo essere bistrattato, denegato, occultato. La storia dell’anarchismo è la storia di un grande assente: perché non riconosciuto, non rintracciato come tale, oppure perché maliziosamente omesso e ridimensionato, sulla base del pregiudizio della sua irrilevanza. Ma, come spesso accade, il rimosso ricompare via via, sempre di nuovo, lavora sotto traccia; e così, un po’ paradossalmente, l’anarchismo è onnipresente, nella forma delle sue domande, fondamentali e ineluttabili, con una «sorprendente persistenza nel tempo» e la capacità di resistere alle «condizioni “climatiche” più difficili».
Gli interrogativi di fondo dell’anarchismo sono quelli connessi al problema della convivenza sociale sullo sfondo di norme prive di violenza, per recuperare una relazione concettuale individuata nell ’Antropologia di Kant che definì l’anarchia come «Gesetz und Freiheit ohne Gewalt» (legge e libertà senza violenza). Ma, ancora, sono cruciali i quesiti impliciti in quella tensione tra libertà e diritto, che si coniuga con l’ineludibile natura bifronte dell’universo giuridico, come è stato ben colto e cristallizzato nelle pagine di Andrea Caffi. E pure sono decisive le questioni legate alla relazione «non ufficiale» tra anarchia e democrazia: rapporto tormentato, questo, a cominciare dall’ambivalenza della cittadinanza democratica che, per includere ed estendere la partecipazione deliberativa, non può bandire l’incombente vocazione all’esclusione.
Non è all’anarchismo filosofico che si rivolge dunque lo sguardo di Massimo La Torre, bensì all’anarchismo politico. Se l’anarchismo filosofico si limita ad affermare «la mancanza di sostrato normativo forte di pretese che comunque rimangono valide da un punto di vista sociologico o fattuale», l’anarchismo politico, l’anarchismo “classico”, rivendica per sé progettualità; la sua «negazione della giustificazione dell’autorità» si fa costruttiva, proiettiva, lanciata verso un futuro immaginato possibile.
Coerente rispetto alla propria radicalità, attratto dalla profondità e dalla ricerca della verità empirica dei rapporti di potere reali, l’anarchismo difende e legittima il primato della ragione, di una ragione nella quale va riposta fiducia, contro le infinite guise del dominio. Ma «anarchismo» significa immediatamente anche centralità di un sentimento, quello della compassione per il debole che subisce il dominio del più forte. «Il terreno comune del “canone” dell’anarchismo politico» non è tanto o prioritariamente «l’avversione per lo Stato», ma «la pietà per il dominato e l’inferiore, quale che esso sia, come che esso fenomenologicamente possa darsi, con in più il “principio speranza”».
Talvolta si è affiancato l’anarchismo all’anarco-capitalismo, ma La Torre fa ordine e ricolloca tutto al suo posto. Avoca al pensiero anarchico il cuore libertario, e precisa il tratto contingente del punto di sovrapposizione esistente tra anarchismo e anarco-capitalismo: l’avversione all’ordine statale. Sono diversissime le ragioni di tale avversione. All’anarco-capitalista non interessa, anzi egli giustifica, il dominio generato dal fenomeno proprietario e delle sue logiche di profitto; al contrario la ragione del reciso antistatalismo dell’anarchico risiede nel fatto che «è penoso che un essere umano comandi su un altro suo simile, e ancor più penoso è che questo comando si perpetui, si strutturi e si autolegittimi».
La Torre ripercorre la vicenda dell’anarchismo entro una densa trama interpretativa, scandita dalle figure polari di Godwin, Proudhon, Stirner, e poi Bakunin, Kropotkin, Tolstoj, e ancora gli «amici avversari» Malatesta e Merlino. Attraverso la lettura dei capitoli dedicati a questi «anarchici “veri”» si segue il filo di un discorso che forse al termine deve in modo particolare a Francesco Saverio Merlino l’onere e l’onore della sintesi di un progetto «plausibile», che persiste e risuona persino oggi nell’ideale di società di Habermas (il cui progetto di giustizia può essere meglio inteso non trascurando il suo essenziale e dichiarato nocciolo anarchico).
Merlino «rivela l’“anima” del libro e le sue intenzioni», la sua idea di anarchia possibile si staglia preziosa sullo sfondo. È infatti proprio lui - spiega La Torre - che «ritessendo il filo della riflessione proudhoniana, distingue tra Stato, o potere di dominio, e dimensione politica, intendendo con quest’ultima designare un dato strutturale (non contingente, dunque) della società: le sue istituzioni». Ed è sempre lui a sottolineare «la dimensione non tecnica, e sempre normativa, e tuttavia non meramente volontaria, o egocentrica, bensì relazionale, dunque pubblica, dell’azione comune tra gli uomini nella loro convivenza». Convivenza questa che costituisce la condizione di possibilità per la pratica di una libertà intesa «come il diritto uguale di ogni essere umano a partecipare delle condizioni che rendono possibile il benessere di tutti e di ciascuno».
Chi ha iniziato a seguire la riflessione “larga” (per dirla ancora con Kant) di Massimo La Torre cominciando dal saggio su Proudhon degli anni Ottanta, non può non aver atteso da tempo questo suo libro tutto dedicato al pensiero anarchico. Un’attesa felicemente ricompensata dal risultato; perché è un libro bello, importante, per chi crede vi possa essere un’idea alta di politica, una politica che si lega intimamente alla libertà ed «è dialettica di conflitto e d’azione in concerto». Ma, in fondo, anche per chi crede in un’idea nobile della filosofia, come pensiero critico rivolto alla complessità e alla rilevanza del reale.
Nostra legge è la libertà è un libro che con sensibilità rara rende giustizia finalmente all’anarchismo; sin dal titolo, e poi in ogni sua pagina. Un libro che ne coglie il valore e il significato autentico, teorico e umano, che permette di avvertirne il portato più profondo in termini di libertà. Un libro insomma contro i mille fraintendimenti, le volute semplificazioni, i tanti silenzi.
I SIKH, LA COSTITUZIONE, E LA TEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO ...
La Cassazione e la teocrazia
di Alessandro Gilioli *
Mi rendo conto che l’argomento è complicato - perfino un po’ filosofico, quindi magari palloso.
Ma la questione posta dalla sentenza della Cassazione sul sikh che voleva girare con un coltello in realtà non parla di un sikh che voleva girare con un coltello: porta dritti a temi come l’ontologia, il relativismo, la teocrazia, perfino a Nietzsche e a Dostoevskij.
Ecco: dopo aver allontanato il 90 per cento dei lettori con la frase sopra, provo a spiegarmi - e chi sa già queste cose mi perdonerà le semplificazioni divulgative.
Per un paio di millenni o quasi, nessuno in Europa aveva dubbi sulla fonte oggettiva di ciò che era giusto e ciò che era sbagliato. La fonte che stabiliva giusto e ingiusto era Dio. Qualcosa di ontologico, appunto: in sé e per sé, oltre l’opinabile umano. Le leggi di cui le società si dotavano derivavano da una fonte etica e valoriale indubitabile, oggettiva, immutabile ed eterna.
Come noto - ma questa è divagazione - la legittimazione ontologica e religiosa della legge finì per attribuire un potere al papato che andava molto oltre i territori controllati dalla Chiesa. Il Papa che nel Medioevo incoronava gli imperatori o i re era il simbolo di questo passaggio di legittimazione: da Dio al Papa, dal Papa al monarca, il quale poi esercita questo potere derivante da Dio. Nel corso della lotta per le investiture, nell’XI secolo, diversi pensatori vicini al papato arrivarono a teorizzare che senza il placet pontificio il re non avesse quindi alcuna legittimazione a governare, e che il popolo avesse nel caso diritto a ribellarsi. Questo - al netto delle questioni di interesse - perché il potere e le sue leggi derivavano da Dio, il Papa ne era l’intermediario in terra e il re ne era solo il provvisorio depositario finale.
Ne conseguiva, sostanzialmente, una società teocratica, come ovvio se tutti i valori e le leggi derivano da Dio.
Questa cosa, tuttavia, a un certo punto si è incrinata. Non la faccio lunga, che è cosa nota: l’Illuminismo, la Ragione, il vaglio critico della mente umana. Frutto, si sa, di una borghesia che voleva spezzare l’ordine antico del rapporto di potere esclusivo tra aristocrazia a Chiesa. Ma al di là delle questioni di classe, fu anche una rivoluzione culturale: si iniziò a dubitare che la fonte del giusto e dell’ingiusto - e delle leggi che vi si conformavano - fosse Dio. Si iniziò a pensare che fosse, invece, l’uomo.
Quindi che il giusto e l’ingiusto fossero qualcosa di soggettivo, opinabile e non eterno. Privo di una fonte oggettiva, di un aggancio ontologico. Era nato il relativismo.
Il relativismo poneva diversi problemi. Ad esempio, Dostoevskij si chiedeva se in assenza di Dio fosse tutto lecito. Cioè se l’assenza di una fonte oggettiva non determinasse la fine dell’etica. Bel problema, se senza Dio ognuno poteva fare quel che gli pareva, perché tanto nessuna legge aveva più un aggancio ontologico.
I relativisti invece partorirono la democrazia. Cioè l’idea che in termini etici ognuno avesse i paradigmi valoriali che voleva, ma in termini pratici la legge con cui regolare la convivenza sociale doveva essere il frutto della volontà della maggioranza.
In altre parole, non è che morto Dio fosse tutto lecito. Semplicemente, morto Dio era la maggioranza delle persone a decidere cos’era lecito e che cosa no. Per regolare la convivenza civile, la società non ha più bisogno di Dio: fa da sé. E la questione etico-valoriale viene staccata da quella pratica-legislativa: la prima è libera e soggettiva, ma all’interno delle regole poste dalla seconda la cui unica fonte è la maggioranza.
Ovviamente anche questa soluzione ha i suoi punti deboli.
Ad esempio, in termini logici contiene un paradosso: si stabilisce che non esiste un valore etico oggettivo e assoluto, se non il fatto che non esiste alcun valore etico oggettivo e assoluto (quindi si fa a maggioranza). Un paradosso logico, appunto. Ma finora non si è ancora trovata una soluzione migliore se non quella di proclamare come oggettiva e assoluta un’opinione valoriale soggettiva e di minoranza. E quest’ultima è una soluzione peggiore, come ho cercato di dimostrare qualche tempo fa sfottendo chi si oppone al suffragio universale.
Il secondo punto debole della relativizzazione di ogni norma a ciò che vuole la maggioranza (senza alcun aggancio ontologico valoriale) è che la maggioranza può fare cazzate gigantesche, dal "Crucifige!" che salvò Barabba alle elezioni che diedero la vittoria a Hitler. Non che invece le decisioni prese da pochi potenti nella storia non abbiano provocato altrettante ingiustizie, ma insomma non è detto che le democrazie la imbrocchino sempre.
Per questo sono nate le Costituzioni. Che hanno mura più solide di leggi ordinarie, esigono più riflessioni e più passaggi per essere modificate, per alcuni punti si stabilisce perfino che non siano modificabili (es.: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale»), quindi - nuovo paradosso - se ne presume una seppur parziale eternità ontologica.
Insomma un discreto casino. Non è tutto semplice e chiaro come quando le leggi provenivano da Dio. Ma finora non si è appunto riusciti a fare di meglio - e tutto sommato la cosa funziona. Se qualcuno ha proposte alternative, dica pure.
È all’interno di questo contesto culturale che forse occorre fare qualche valutazione critica del dispositivo della sentenza della Cassazione.
Perché non vi è dubbio che la legge - la laica legge, semplice espressione della maggioranza - impedisce a chicchessia di andare in giro con un coltello lungo 20 centimetri. Dal 1975, mi pare. Per decisione del Parlamento italiano, eletto dai cittadini, sul tema delle armi improprie.
Altro è fare riferimento all’esigenza, anzi all’obbligo, di "conformarsi ai valori del mondo occidentale". Perché qui vi è un richiamo ontologico. Oggettivo. Assoluto. Metodologicamente teocratico. Pre illuminista, se non anti illuminista. Un richiamo a un presunto sistema di valori oggettivo (la cui vaghezza e i cui confini peraltro potrebbero essere oggetto di discussioni molto ampie) che antecede la legge, ne è la fonte.
Un grosso passo indietro culturale, a mio avviso, frutto delle paure identitarie proprie di quest’epoca incerta, spaventata dalla velocità dei cambiamenti e delle contaminazioni.
Forse non è proprio un caso che gli Stati Uniti - con tutti i loro difetti, ma pur sempre figli dell’Illuminismo - si guardino bene dal chiedere agli immigrati e ai nuovi cittadini di "conformarsi ai valori del mondo occidentale". Chiedono solo, molto a chiare lettere, di rispettare le leggi e di pagare le tasse.
Roba laica, insomma. Non teocratica.
E un grazie di cuore a chi ha avuto la pazienza di leggere fin qui.
Valori occidentali?
di Marco Aime (DoppioZero, 18.05.2017)
Integrazione. Questa è la parola chiave, usata troppo spesso, senza che ci si renda pienamente conto del suo significato reale. Il verbo “integrare” significa, nella sua accezione principale, «rendere integro o intero». Integrare significa quindi rendere un qualcosa di diverso conforme all’intero, renderlo simile. Un’operazione del genere si fonda però su di un presupposto ineluttabile: deve esistere un intero. Se voglio integrare, devo prima avere un integro di riferimento. Integro è un aggettivo che si associa a qualcosa di completo, intatto.
Questo significa che, quando a proposito di stranieri, parliamo di integrazione, partiamo da un assunto fondamentale: la nostra società, la nostra comunità è un intero, è intatta, un unicum in cui tutti condividono gli stessi valori, rispettano le stesse leggi, pensano allo stesso modo.
Questo è un po’ il messaggio che emerge dalla recente sentenza con cui la Corte di Cassazione ha condannato a un’ammenda di 200 euro un sikh che il 6 marzo del 2013 era stato sorpreso a Goito, dove c’è una grande comunità sikh, mentre usciva di casa, come sempre, con il kirpan (un coltello lungo quasi 20 centimetri) infilato nella fascia che avvolge la vita. Quel coltello, per i sikh è un simbolo religioso ed è segno di difesa della fede, non è considerato un’arma. Tanto è vero che la sua richiesta di assoluzione era stata condivisa dalla Procura della Suprema Corte che aveva ritenuto tale comportamento giustificato dalla diversità culturale. Sentenza non confermata dall’ultimo grado di giudizio.
Il fatto ha subito trovato ampio spazio su tutti i giornali e come spesso accade, la questione può essere liquidata in modo semplicistico, da una parte o dall’altra: “poche storie, le leggi sono uguali per tutti” oppure, “ciascuno ha il diritto di esprimere i propri simboli culturali”.
In realtà la questione è più complessa, non tanto sul piano della sanzione, quanto su quello delle motivazioni. Se la legge prevede che non si può circolare con una lama superiore ai venti cm, c’è poco da discutere, il signore in questione l’ha trasgredita. Semmai si può discutere sul fatto se le leggi debbano o no essere adeguate alle nuove realtà culturali che caratterizzano il nostro paese.
Quello che invece fa riflettere sono le affermazioni per cui gli immigrati che hanno scelto di vivere nel mondo occidentale hanno “l’obbligo” di conformarsi ai valori della società nella quale hanno deciso "di stabilirsi" ben sapendo che "sono diversi" dai loro e «non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante».
Di quali valori stiamo parlando? Quelli della società occidentale? In Gran Bretagna, che anche dopo la Brexit credo rimanga occidentale, il kirpan è ammesso. Il velo è proibito nei luoghi pubblici in Francia, ma non in altri paesi occidentali. Per i paladini nostrani dell’abolizione del velo, questa peraltro varrebbe solo per le donne islamiche, non per le suore o le fedeli ortodosse. Proibire di circolare armati è senza dubbio giusto, meno armi, meno pericoli, però stride con lo spirito della legge appena approvata in Parlamento sulla legittima difesa.
Di due l’uno: siamo per bandire ogni arma o solo alcune?
«In una società multietnica, - prosegue il verdetto della Suprema Corte - la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere». Parole condivisibili, ma qual è il nucleo comune? Quali i valori di riferimento? Sono comuni a tutti coloro che includiamo nel “noi”? In altri termini, siamo davvero un “integro” tale da considerarci una unità coerente? Certo, esistono punti di riferimento più o meno condivisi, ma sono difficili da identificare e soprattutto non sono un’esclusiva dell’Occidente, ma in molti casi sono condivisi anche da altri.
Visto che si parla di integrare, esiste peraltro anche un’altra accezione del verbo, che indica: «completare aggiungendo ciò che manca o che serve a migliorare, ad arricchire o a modificare.»
Letta in questo senso, l‘integrazione assume un’altra prospettiva, quella di un processo dove non abbiamo una parte fissa, immobile, monolitica che assorbe l’altra, ma uno scambio dialettico, dove entrambe le parti danno e prendono, dando vita a nuove forme culturali, come sempre è avvenuto nella storia dell’umanità.
Questo episodio, perciò, potrebbe essere un valido e interessante punto di partenza per una riflessione più ampia, che affronti in modo sereno e non strumentale la necessità di armonizzare il carico di memoria e di ricordo che chi arriva da fuori si porta dietro, con il comprensibile desiderio di conservare un certo modus vivendi di chi accoglie, tenendo conto del vantaggio di quest’ultimo. Solo così, negoziando senza pregiudizi, si può arrivare a una convivenza pacifica, tenendo sempre ben presente, che nessuna comunità è mai totalmente omogenea, nessuna è un intero.
Integro, tra l’altro, significa anche onesto, incorruttibile.
“Stiamo cambiando pelle”. Intervista a Remo Bodei
di Emanuele Lepore *
Professore Bodei, vorremmo iniziare da una suggestione che arriva dal suo ultimo libro Limite (Mulino, Bologna 2016), in cui riferisce che la filosofia moderna, da Locke fino a Kant, si interroga incessantemente sui limiti dell’intelletto umano, cercando di stabilire quali siano i limiti tra il conoscibile e l’inconoscibile. Secondo lei la filosofia contemporanea attorno a quali limiti si interroga?
I limiti variano col tempo: da Locke a Kant erano quelli dell’intelletto umano, si ricercava fin dove l’uomo potesse conoscere, avendo come base l’esperienza e la scienza. Fin dove la metafisica o la fede potessero estendersi. Oggi i problemi sono diversi e sono costituiti dall’incontro tra le varie culture e civiltà del mondo, in quanto si è rinunciato ad un’idea che valga per tutti, che poteva essere rappresentata dalla stessa forma di conoscenza.
Un altro limite è segnato dalle biotecnologie: com’è che l’uomo si trasforma? Come si possono scoprire degli aspetti della natura umana che prima non c’erano? È la questione dell’artificialità e del post-umano. Un altro limite è segnato dalla comunicazione e dalle tecnlogie dell’informazione e di come queste possano trasformare persone e culture.
Per certi aspetti si cerca il superamento dei limiti, per altri si cerca invece di stabilire dei confini che sono stati incautamente violati e che bisogna ricostruire: non siamo sicuri di avere una morale saldamente condivisa e per questo si cerca, ad esempio, di evitare che tutto sia permesso: da attraverso la spesso fraintesa espressione della morte di Dio, Nietzsche s’è accorto che non possono più sussistere regole insindacabili perché espresse da Dio: sono gli uomini che devono darsi regole credibili e solide, e di
questo - Nietzsche lo capiva - non siamo stati capaci. Viviamo in una morale provvisoria permanente, che non è di per sé un male ma ci pone in una situazione difficile.
Un’altra posizione indubbiamente difficile e complessa è quella da lei evocata durante la sua lectio magistralis di Modena: la lotta contro se stessi pare essere un confronto drammatico per ritagliarsi un proprio spazio nel mondo. Secondo lei tra le sfide che l’uomo contemporaneo deve affrontare c’è anche quella che lo vede in cerca del suo posto nel mondo? Se sì, a che prezzo?
Trovare il proprio posto nel mondo è sempre stata un’impresa che ha riguardato gli uomini sin dall’età della preistoria: semplicemente cambiano questioni e limiti. Orientarsi oggi in un mondo così complesso e cangiante rispetto a quello della tradizione è più difficile o - per meglio dire - diversamente difficile: bisogna muoversi su d’un piano globale interconnesso e, d’altro canto, in un mondo che cambia continuamente e pone un problema di adattamento.
A proposito della complessità del nostro mondo: uno dei suoi tratti generalmente più riconosciuti è la liquidità, la quale - più di ogni altro - sembra dare un’illusione di libertà. In che modo la fluidità delle relazioni sociali e personali può aver compromesso la stabilità del tessuto sociale contemporaneo?
Questa caratteristica di liquidità egregiamente messa in luce da Bauman, per cui dall’inizio degli anni ’80 ad oggi sembra che non vi sia nulla di solido è una proposizione enunciata da Marx e Engels nel Manifesto del Partito Comunista: tutto ciò che è solido si squaglia. In questa situazione, con le difficoltà del terrorismo e della crisi finanziaria, stiamo scoprendo che il mondo è molto più duro e molto meno liquido di quanto pensavamo. Anzitutto abbiamo la necessità di trovare i limiti, di riconoscerli e comprendere come far fronte alla nuova rigidità della nostra esistenza.
In questo contesto sociale e politico così complesso, che ruolo crede abbiano le passioni umane, calate in un’epoca dominata da una tecnica che, sempre più a fondo, modifica i contesti e i soggetti che vi abitano?
Le passioni hanno sempre costituito un valore per il vivere comune: bisogna tuttavia distinguere tra le varie forme di passione. Noi viviamo in un’epoca in cui le passioni sono state sostituite dai desideri: questi non sono altro che passioni declinate al futuro, quindi passioni che non sono legate a qualcosa che, tradizionalmente, ha dei limiti. Abbiamo delle passioni che, in quanto proiettate verso il futuro, sono elastiche e procedono avanti. C’è poi una dimensione legata alle passioni private come l’amore (messe in risalto dalla modernità e dal Romanticismo) a cui fa da contraltare un declino della dimensione pubblica: in parte ci si richiude in se stessi davanti alla durezza dell’esistenza, in parte c’è una crisi delle passioni democratiche legate agli ideali di uguaglianza tra gli individui.
Secondo lei l’assenza di una bussola per l’agire comune piò dipendere dalla perdita di senso della nozione di bene comune? Se sì, crede che sia oggi possibile ricostruire tale nozione?
La nozione di bene comune è sempre stata da un lato un’aspirazione ideale e dall’altro una sorta di ingannevole prospettiva con cui si sono mascherate tutte le forme di soppressione: i totalitarismi del ‘900 hanno predicato un bene comune che, in realtà, si è rivelato un bene per certi tipi di classi, di individui. L’esistenza di un orizzonte che superi l’individuo segna il problema di trovare la strada per cui esso diventi effettivo e non diventi una maschera che serve a legittimare dei comportamenti che perseguono beni non comuni ma parziali.
Questo è un problema che sembra ripercuotersi anche nella dimensione individuale; nel suo libro Immaginare altre vite: realtà, progetti, desideri (Feltrinelli, Milano 2013) ricostruisce il ruolo fondamnetale che ideali e modelli hanno giocato nelle dinamiche di costruzione di sé. Secondo lei a quali ideali, modelli si può ricorrere? Ve ne sono?
In generale questi modelli sono cambiati abbastanza recentemente perché in precedenza il nostro mondo (limitato, occidentale, europeo) questi ideali erano legati alla realizzazione di se stessi, alla possibilità di avere una soddisfazione in un mondo che, per certi versi, ha rinunciato all’al di là e richiede dunque che si possa trovare godimento nell’arco dell’esistenza fisica degli individui.
Dopo il fallimento di certi regimi completamente laici, i quali ritenevano che l’uomo potesse, nell’arco dell’esistenza storica, trovare il proprio compimento, questi modelli si sono indeboliti ed è tronato il bisogno di trascendente e anche delle religioni: talvolta è tornato in forme piuttosto violente, come nel caso degli islamisti. Stiamo cambiando pelle: c’è un tentativo di ritrovare una soddisfazione che non è solo di questo mondo, non solo secondo una matrice religiosa ma anche estetica, secondo la maniera di Foucault per cui si fa di se stessi un’opera d’arte e si ha un’estetica dell’etica, si diventa come statue, si cerca di far vivere la bellezza nell’etica.
Lei da anni conduce parallelamente un’opera di ricerca filosofica e un’azione di divulgazione molto importante. Crede che il rinnovato e generalizzato interesse per le questioni della filosofia sia connesso con i bisogni del senso comune a cui si riferiva prima?
Penso che nell’esistenza delle persone, da quando ciascuno di noi è un bambino, ci si pone delle domande sul perché si esiste. Sono domande alle quali, a un certo punto, ci si rifiuta di rispondere: talvolta le domande diventano tarli fastidiosi. In forza di ciò ci si costruisce una visione del mondo fatta in casa, non suffragata da riflessioni profonde e perciò in genere non viene poi sviluppata dalla scuola, dalgi studi che guardano ad un sapere tecnico-professionale. Il bisogno di filosifa è una fame di senso che procura una sorta di esame di riparazione in età adulta di messa a fuoco di cose che non si sono osservate lungo la propria esistenza.
Quanto ha appena detto si sposa con la missione ideale de La Chiave di Sophia, che si propone di stimolare la comprensione di quanto la filosofia sia presente nella vita dell’umano, nella sua quotidianità, contrariamente a chi ritiene che essa sia - e, in certa misura, - debba rimanere una disciplina di nicchia, ristretta quanto a temi e pubblico cui si rivolge.
Fare filosofia significa cercare di capire il tessuto connettivo e orizzonte di senso entro cui noi ci situiamo, che non è appunto qualcosa di specifico. Rispetto alla frantumazione dei saperi e delle pratiche la filosofia è un tentativo continuamente rinnovato di trovare un orizzonte entro cui muoverci e situarci, perché essa non è un sapere specialistico. Si potrebbe dire che la filosofia è uno specialismo dell’universale: la filosofia ci riguarda tutti ma è molto difficile orientarsi filosoficamente perché si rischia di creare delle generalizzazioni astratte. Per questo si innesta in un sapere che riguarda un’acquisizione: per esempio, 2500 anni in cui nel nostro occidente si è pensato. Noi siamo debitori nei confronti di queste forme di ricerca che rappresentano una sorta di palestra mentale. Essa serve a tutti: senza di essa saremmo come automi. Essa è una forma di vivere in maniera consapevole. Se facessimo un esperimento mentale in cui la filosofia non avesse fecondato la nostra cultura, noi ci ritroveremmo certamente più creduloni, più stupidi e manipolabili e quindi meno liberi. È un valore per la democrazia, in quanto ci permette di vivere più consapevolmente e in maniera meno dogmatica.
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Emanuele Lepore
Fatima, una storia tra fede e politica
Il contesto nazionale, la restaurazione cristiana del Portogallo, il conflitto mondiale, la guerra fredda, il Concilio, la decolonizzazione
di MARCO RONCALLI (La Stampa, 10/05/2017)
Roma. Un culto che prima si afferma a livello nazionale e poi si dilata nel mondo per un secolo conquistando fedeli, vescovi, Papi. E tutto che inizia con tre pastorelli analfabeti - Jacinta, Francisco e Lúcia -e il racconto dell’ apparizione di una “signora vestita di bianco”: che il 13 maggio 1917 li invita a dire il rosario per i peccatori e la fine della guerra; il 13 giugno ripete l’invito ed esorta Lúcia a imparare a leggere; il 13 luglio torna a chiedere preghiere per la fine della guerra, promettendo un miracolo entro tre mesi e rivelando loro un “segreto”; il 13 agosto dice di usare le donazioni per il culto; il 13 settembre insiste sulla preghiera per la fine del conflitto e chiede una cappella a Fatima; il 13 ottobre - ultima apparizione, durante la quale si verifica un fenomeno solare (il miracolo promesso?) - rivela come richiesta della Madonna del Rosario preghiere e penitenze, garantendo un rapido rientro dei soldati a casa.
Fermandosi solo sulle relazioni coeve alle apparizioni del ‘17, con le risposte semplici dei tre bambini, considerando che la guerra cessò solo alla fine del ‘18, non è facile capire la devozione popolare concentratasi subito su Fatima.
E forse ha ragione José Barreto nel suo saggio “I messaggi di Fatima tra anticomunismo, religiosità popolare e riconquista cattolica” pubblicato da poco su “Memoria e Ricerca” del Mulino, ad allargare lo sguardo anche alla cornice storica e socio-politica. Proviamo a seguirlo.
«Con Fatima - scrive - si aprì un canale di comunicazione con il sovrannaturale in un periodo tormentato della storia contemporanea portoghese, iniziato con la rivoluzione repubblicana del 1910 durante il quale si era verificata la maggiore offensiva contro la Chiesa mai registrata nel Paese». Chiesa che nel precedente periodo del costituzionalismo monarchico (1834-1910), pur con il cattolicesimo come religione di Stato, aveva vissuto una situazione definita da Manuel Clemente «una gabbia e nemmeno dorata».
È dunque un periodo particolare quello che vede la diffusione dei messaggi di Fatima: di guerra, e in Portogallo di guerra di religione. Con una imperante laicizzazione della società che vede scuole cattoliche chiuse, preti detenuti, beni ecclesiastici nazionalizzati, aule di culto e seminari trasformati in uffici pubblici, e vescovi importanti accusati di comportamenti contrari alle leggi e spediti in esilio persino durante le apparizioni del settembre e ottobre ’17.
«Il tentativo di connotare politicamente Fatima era inevitabile, e iniziò immediatamente a partire dal 1917», ha scritto Barreto. Aggiungendo: «I repubblicani denunciarono lo sfruttamento della “superstizione” popolare da parte delle forze anti-repubblicane; quest’ultime interpretarono le apparizioni della Vergine come le precorritrici del “miracolo” dello schiacciamento della “serpe giacobina“ riferendosi al colpo di Stato del dicembre 1917 di Sidonio Pais che destituì i repubblicani radicali e instaurò un regime presidenzialista terminato nel dicembre successivo».
Se si può convenire che, nella regione di Fatima, nei confronti dell’offensiva antireligiosa non ci fu allora una vigorosa resistenza cattolica, né ci fu un immediato consenso del clero sulle apparizioni, così come non è corretto indicare in quel periodo una correlazione tra apparizioni e militanza antirepubblicana, successivamente invece, la trasformazione di Fatima in una “Lourdes portoghese” finì per riflettere nei fatti un’opposizione allo spirito della repubblica atea e massonica. Senza dimenticare che le apparizioni potevano leggersi come un segno di salvezza per un Paese preda di angosce con le sue truppe in trincea a fianco dell’Intesa, preda di incertezze per la scarsità di beni primari e via dicendo.
Detto questo, restando sul fronte politico, è indubbio che è il golpe militare del dicembre ‘17 a riportare la riappacificazione tra il governo e la Chiesa e il riallacciamento delle relazioni diplomatiche con il Vaticano: che avranno pienezza con la dittatura militare (1926-1933) e larga parte dell’ Estado Novo (1933-1968 con Salazar e 1968-1974 con Caetano nel segno delle “tre F”: fado, futbol, Fatima. Ed è solo in questo arco cronologico che pare convincente l’affermarsi di una connotazione anche ideologica - in chiave anticomunista - dei messaggi mariani. Del resto l’ufficializzazione del culto di Fatima passò attraverso tutte le indagini canoniche avviate nel 1922 e concluse ben otto anni dopo con il riconoscimento formale del carattere sovrannaturale dei fatti, mentre in attesa del verdetto si registrarono un impegno del clero nella ricostruzione ufficiale della storia delle apparizioni, una vasta propaganda sulla stampa cattolica, visite importanti, e persino - dopo che Benedetto XV non si era mai pronunciato - la “indiretta approvazione” di Fatima da parte di Pio XI che nel 1929 benedice una statua della Vergine di Fatima arrivata dal Portogallo al Pontificio Collegio Portoghese di Roma. Lo stesso Pio XI di cui il cardinale Confalonieri che era stato suo segretario riportava questa frase a proposito di mistiche che gli inviavano lettere su lettere circa rivelazioni di Maria: «...Se ha qualcosa da farmi sapere, potrebbe dirlo a me».
Quando nel 1930 il vescovo di Leiria-Fatima Correia da Silva dichiara le apparizioni «degne di essere credute», morti Francisco e Jacinta, è Lúcia l’unica testimone di esse: entrata nel frattempo tra le Suore dorotee di Porto e inviata in Spagna, nel monastero di Tuy ha continuato ad avere visioni e locuzioni interiori (nel ’25 la richiesta di diffondere la «comunione dei cinque primi sabati» in riparazione dei peccati) e ha già steso la prima delle sei “Memorie” (1922, 1937, due nel 1941, 1989, 1993, edite in Italia dalla Queriniana con il titolo “Lucia racconta Fatima”, a cura di António Maria Martins) dedicate ai fatti della Cova da Iria e alle rivelazioni. Rivelazioni che, a ben vedere - una volta rese note - palesano intrecci con drammi del XX secolo: dalle guerre mondiali alla parabola della Russia sovietica.
Tra le istruzioni che alla fine del maggio ‘30 Lúcia afferma di aver ricevuto dal cielo - preceduta da un «se non mi sbaglio» - ecco la promessa divina di «porre fine alla persecuzione in Russia se il Santo Padre avesse, insieme a tutti i vescovi del mondo, compiuto un solenne e pubblico atto di riparazione e di consacrazione della Russia ai Sacri Cuori di Gesù e di Maria». Sino a questo momento, fissato in una lettera al confessore, il gesuita José Bernardo Gonçalves, non si trova alcun riferimento pubblico o privato alla Russia e al comunismo, ma proprio nel febbraio precedente, peggiorate le condizioni di ortodossi e cattolici, congelate le trattative segrete che la Santa Sede aveva provato a tessere con i sovietici, Pio XI pubblicamente aveva chiesto a tutto il mondo cristiano una «crociata di preghiera per la Russia». In ogni caso, come ha osservato Barreto nel saggio citato, «le istruzioni celesti ricevute da Lúcia nel ‘30 non ottennero una grande attenzione dal vescovo di Leiria fino al ‘36, quando il Fronte Popolare prese il potere nella vicina Spagna». E proprio in quel periodo Lúcia accettò la proposta del suo confessore di insistere con il vescovo e il Vaticano sul tema della «consacrazione della Russia», pur rinnovando per scritto il timore di «essersi lasciata illudere dall’immaginazione», o da qualche «illusione diabolica»,come scrisse in due lettere del 18 maggio e 5 giugno 1936.
L’anno dopo, imperversando la guerra civile spagnola, il vescovo di Leiria mette a conoscenza Papa Ratti delle richieste celesti a Lúcia circa la «consacrazione della Russia ai Sacri Cuori di Gesù e Maria» da effettuarsi insieme a «tutti i vescovi del mondo cattolico», e l’approvazione papale della devozione dei «primi sabati», come condizioni per la fine della persecuzione religiosa in Russia.
Nella lettera (riportata tra i Novos Documentos de Fátima editi dall’ Apostolado da Imprensa nel 1984), il vescovo ricordava a Pio XI come già nelle raccomandazioni che la Vergine di Fatima aveva fatto nel 1917 fosse chiaro «come Nostra Signora stesse preparando la lotta contro il comunismo», dal quale il Portogallo era stato sino ad allora preservato. Il Pontefice non risponde a questa richiesta (come non rispose ad una analoga richiesta di un’ altra veggente portoghese, Alexandrina da Costa, ai tempi screditata e poi beatificata da Giovanni Paolo II). «Quanto alla consacrazione della Russia al Cuore immacolato di Maria, non è stata fatta nel mese di maggio come lei si aspettava. Si farà certamente, ma non subito», così Lúcia il 15 giugno del ’40 a padre Gonçalves.
Nel frattempo successore di Pio XI è Papa Pacelli. Obbedendo al vescovo di Leiria e di Gurza, Lúcia gli scrive nell’ottobre ’40 collocando per la prima volta la richiesta celeste di consacrazione della Russia nel 1917, come parte del segreto da lei custodito dal 13 luglio di quell’anno (lettera che sarà resa nota pubblicamente solo negli anni ’70).
Nell’estate del ’41 mentre è in corso l’invasione dell’Urss da parte della Germania, il vescovo di Leiria ordina a Lúcia di redigere una nuova memoria sulla guerra e la Russia. E a questo testo - completato nell’ottobre ’41 - Lúcia affida la versione definitiva delle due prime parti del segreto (la terza parte, redatta nel ’44 e inviata a Roma nel ’57, sarebbe stata divulgata da Giovanni Paolo II nel 2000) che Pio XII rende pubbliche nel ’42, la visione di un pezzo di inferno («un grande mare di fuoco» con immersi «i demoni e le anime») e il messaggio della Vergine sulla consacrazione della Russia («se ascolterete le mie richieste, la Russia si convertirà e avrete pace; diversamente, diffonderà i suoi errori nel mondo, promuovendo guerre e persecuzioni....»).
Nel frattempo il testo del “segreto”, integro, per sunto, stralci, con riferimenti alla Russia alterati o tagliati, gira per il mondo. Ed è Pio XII che il 31 ottobre ‘42, data delle nozze d’argento delle apparizioni e della sua consacrazione episcopale, con un radiomessaggio consacra il «genere umano» al Cuore immacolato di Maria, invocata con il titolo di “Regina della pace” (come aveva fatto Benedetto XV). In questa preghiera il Papa si allontanava dalla richiesta precisa della Vergine, ma faceva allusioni alla devozione mariana dei russi «popoli separati dall’errore e la discordia», e alla loro auspicata ricongiunzione «all’unico gregge di Cristo, sotto un unico, vero pastore». Nello stesso testo anche però un riferimento all’intervento celeste grazie al quale la «nave dello stato portoghese «persasi «nella tormenta anti-cristiana e anti-nazionale» aveva ritrovato «il filo delle sue più belle tradizioni che la rendevano una nazione fedelissima» e persino un omaggio anche alla classe politica del cambiamento, definita «uno strumento della Provvidenza». Da non dimenticare che Paolo VI alla chiusura della terza sessione del Vaticano II avrebbe fatto riferimento a questa consacrazione del predecessore inviando con una missione la simbolica rosa d’oro al santuario della Madonna di Fatima.
Non solo. Come ha scritto sulla rivista “Jesus” Alberto Guasco: «Se una rivelazione ex post eventu è manna per critici e avversari, Pio XII mostra invece di prenderla sul serio». Eccolo così promuovere l’istituzione della festa del Cuore immacolato di Maria (1944), far incoronare la Madonna di Fatima regina del mondo (1946), ripetere la consacrazione in una lettera apostolica del 7 luglio 1952. A quella data Pio XII conosce anche la terza parte del segreto ricevuta in busta chiusa dal vescovo di Leiria, ma non ne ha ritenuto opportuna la divulgazione. A quella data le peregrinazioni dell’immagine di Fatima continuano in tutto il mondo e sulla “Piazza Bianca” del santuario si sono già viste scene come quella dell’ottobre 1951: con il noto predicatore americano Fulton Sheen, che davanti a 100mila pellegrini profetizza, come risultato delle preghiere dei milioni di fedeli lì affluiti, la trasformazione del simbolo del martello e della falce in una croce e una luna sotto i piedi dell’Immacolata.
Non tutti però manifestano in quel periodo entusiasmi così accesi. Anzi già dalla fine della guerra, Fatima occupa discussioni fra teologi, avviate da Edouard Dhanis, il gesuita belga che ne ha diviso la storia in due parti - una vecchia sulle testimonianze raccolte nel 1917, una nuova sul corpus originale integrato con i nuovi dati contenuti nelle “memorie”- scrivendo già nel ’44: «Siamo portati a credere che, nel corso degli anni, alcuni eventi esterni e certe esperienze spirituali di Lúcia abbiano arricchito il contenuto originale del segreto». Senza porre in causa la sincerità della veggente, Dhanis osservava che «il modo poco oggettivo in cui nel segreto erano state descritte le cause che avevano provocato la Guerra [mondiale] poteva solo essere spiegato dalla influenza che la Guerra civile spagnola aveva avuto sul pensiero di Lúcia». -In effetti, il segreto imputava alla Russia tutta la responsabilità per le guerre e le persecuzioni verso la Chiesa, seppure all’interno di una concezione non storica e apocalittica di questi flagelli come punizione divina per i peccati del mondo. Le tesi di Dhanis poi rettore della Pontificia Università Gregoriana, sarebbero state duramente dibattute negli ambienti vicini a Fatima costringendolo a toni più concilianti. Lui, membro sino alla morte della Commissione teologica internazionale, a fare da apripista per altri teologi come nel suo caso accusati dai tradizionalisti di essere «nemici di Fatima».
Accuse dalle quali non furono risparmiati Papi come Giovanni XXIII e Paolo VI, invitati più volte a rinnovare in modo completo la consacrazione e a divulgare l’ultima parte del segreto, non disposti in tempi di Ostpolitik e di Concilio, a lasciar passare interpretazioni del messaggio di Fatima ultraconservatrici, anti-ecumeniche, in un quadro rinnovato nel quale la Chiesa tesseva nuove relazioni ad Est, affievolendo le aspettative delle tesi legate all’«ultimo segreto di Fatima» che per molti si sarebbe riferito ad una grave crisi interna alla Chiesa causata dal Concilio. Il resto è noto: nel ‘59 e nel ‘65 Giovanni XXIII e Paolo VI lessero il segreto e decisero di non divulgarlo (facendo alimentare nuove speculazioni).
Negli anni ’60 la questione coloniale segnò un divario tra Vaticano e governo portoghese già alle prese con una vera opposizione cattolica interna intensificatasi con l’inasprimento delle guerre in Africa e l’esilio forzato del vescovo di Porto nel 1959. Proprio quest’ultimo, Ferreira Gomes, rientrando nel ’70 dal suo esilio in Francia, fu il primo prelato portoghese a formulare aperte critiche nei confronti di Fatima (già da lui definita una «Lourdes reazionaria»), sottolineandone aspetti di «culto magico» e «religione utilitaristica». «Per i cattolici che in questo periodo combattevano il regime in Portogallo, Fatima ebbe un significato molto diverso, se non opposto, a quello che avrebbe avuto per la lotta di liberazione polacca degli ani ’80», ha notato Barreceto. Aggiungendo che: «L’episcopato portoghese, tra la crescente contestazione proveniente dalla Chiesa e le critiche cattoliche internazionali, riuscì, seppur tardivamente, a svincolarsi dal regime poco prima della rivoluzione dell’aprile 1974 che ne decretò la fine». Apparentemente incurante degli sconvolgimenti politici, il santuario di Fatima continuò ad accogliere folle di devoti. Anzi la forza della fede popolare protesse la Chiesa dal potere rivoluzionario del biennio ‘74-‘76.
Morto Paolo VI e subito dopo Giovanni Paolo I, che da patriarca di Venezia aveva incontrato Lucìa, ecco Giovanni Paolo II: il “Papa di Fatima” nonché «protagonista della terza parte del segreto». Il Papa che a Fatima nel 1982 non esita a riconoscere che la Vergine gli ha salvato la vita, che ripete la consacrazione del mondo (13 maggio ‘82 e 25 marzo ‘84), che beatifica i due pastorelli che ora Francesco canonizza; che ha consentito la divulgazione del terzo segreto con tanto di “guida alla lettura” dell’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, il cardinale Joseph Ratzinger. Sì, il futuro Benedetto XVI, che nel 1996 a Fatima, ricordò l’invito vero di Maria che «parla ai piccoli per mostrarci quanto è necessario sapere: cioè, prestare attenzione all’unico necessario: credere in Gesù Cristo» . Quanto al resto ci vengono in mente solo le parole di Paul Claudel che definì Fatima «un’esplosione traboccante del sovrannaturale in un mondo dominato dal materiale».
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* www.lastampa.it, 10.05.2017.
RIPENSARE COSTANTINO ... *
Perché Dio viene presentato al maschile?
risponde il teologo Pino Lorizio (Famiglia Cristiana, 11/05/2017)
La Bibbia ci autorizza a pensare Dio anche nel suo volto “materno”. E ci dice che se anche una donna si dimenticasse di suo figlio, il Signore non potrà mai dimenticarsi di noi, né abbandonarci. In tempi nei quali assistiamo a episodi inauditi di violenza non solo di padri, ma anche di madri, su bambini inermi, ricordarcelo non è fuori luogo.
Né dobbiamo dimenticare che pensare Dio come sessuato è un antropomorfismo, che potrebbe risultare fuorviante, se inteso in termini esclusivi. Dio è oltre le differenze sessuali, perché è fuori del tempo e delle contingenze mondane.
Quando però il Figlio si incarna, entra in questa differenza e non può che assumere una delle modalità in cui l’umano si esprime. Se si fosse incarnato al femminile, si sarebbe potuta avanzare la stessa obiezione dal punto di vista maschile. E allora, siccome la storia non si fa con i se e i ma, stiamo dentro l’evento, non alimentiamo inutili fantasie ispirate a machismo o femminismo, e lasciamoci guidare dalla tenerezza materna di Dio, incarnata in Cristo Gesù e vissuta nella madre Chiesa.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA.
Dopo duemila anni di cristianesimo storico (=cattolicesimo costantiniano....
Inedito.
René Girard: non siate nuovi sacrificatori
di Laurent Linneuil e Guillaume De Tanoüarn *
In volume 4 interviste all’antropologo Girard morto nel 2015. “Nessuna fede deve essere troppo fiera di sé e deve chiedersi se è degna della Rivelazione che ha ricevuto Vale anche per i cristiani"
L’esegesi classica, nella lettura di Adamo ed Eva, insiste sul peccato d’orgoglio mentre lei sposta questa lettura sul piano del desiderio mimetico...
È facile trovare nei testi evangelici il fatto che Satana è omicida fin dall’inizio: «Voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio» (Giovanni 8, 44). Nel capitolo 8 Giovanni ci fa vedere l’inizio della cultura, ci dice: «Voi vi credete figli di Dio, ma siete evidentemente figli di Satana poiché non sapete nemmeno come respingerlo. Vi credete figli di Dio in una sequela naturale senza sospettare di rimanere nel sacrificio». Ma questi testi non sono mai veramente letti. Cosa rimprovera Giovanni agli ebrei? In cosa si distingue dal giudaismo ortodosso in questo rimprovero? Queste le vere domande...
Rimprovera agli ebrei di valorizzare la loro comprovata filiazione...
Sì, senza vedere la loro propria violenza, senza vedere il peccato originale in certo modo. «Il nostro padre è Abramo». Gesù gli dice: «Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo» (Giovanni 8, 39). Ora, è la verità che rende liberi. Questa porta a mostrare come il peccato originale, anche se non è il caso di definirlo, è legato alla violenza e al religioso come è nelle religioni arcaiche o nel cristianesimo deformato dall’arcaismo di cui nella storia non giunge a trionfare totalmente. Mi guardo bene dal definire il peccato originale.
Quello che appare molto sorprendente è il fatto che nella Bibbia non si conosce la ragione per la quale Abele è preferito a Caino...
Potrebbe esserci, paradossalmente, una ragione visibile nell’islam. Abele è colui che sacrifica gli animali e siamo in questa fase: Abele non ha voglia di uccidere suo fratello forse perché sacrifica gli animali e Caino è agricoltore. E qui non ci sono sacrifici animali. Caino non ha altro mezzo d’espellere la violenza che uccidere suo fratello.
Ci sono testi davvero straordinari nel Corano che dicono che l’animale inviato da Dio ad Abramo per risparmiare Isacco è lo stesso animale ucciso da Abele per impedirgli di uccidere suo fratello. È affascinante e mostra che il Corano sul piano biblico non è insignificante. È molto metaforico ma di una potenza incomparabile. Mi colpisce profondamente.
Ci sono scene altrettanto confrontabili nell’Odissea, è straordinario. Quelle del Ciclope. Come si scappa dal Ciclope? Mettendosi sotto la bestia. E allo stesso modo che Isacco tasta la pelle di suo figlio per riconoscere, crede, Giacobbe, così il Ciclope tasta l’animale e sente che non è l’uomo che cerca e che vorrebbe uccidere. In un certo modo il gregge di bestie del Ciclope è ciò che salva. Si ritrova la stessa cosa nelle Mille e una notte, molto più tardi, nel mondo dell’islam e questa parte della storia del Ciclope scompare, non è più necessaria, non ha più alcun ruolo, ma nell’Odissea c’è un’intuizione sacrificale molto significativa.
Lei ha detto che questo aspetto di denunzia dell’omicidio fondatore nel discorso di Gesù è stato decisamente mal compreso: vi si legge spesso dell’antisemitismo. Per quale ragione l’evento del cristianesimo, se è stato così mal compreso, non ha provocato uno scatenamento della rivalità mimetica?
Si può dire che questo sfocia in scatenamenti di rivalità mimetica, in opposizione di fratelli nemici. La principale opposizione di fratelli nemici nella Storia è proprio tra ebrei e cristiani. Ma il primo cristianesimo è dominato dalla Lettera ai Romani che dice: la colpa degli ebrei è molto reale, ma è la vostra salvezza. Soprattutto, non andate vantandovi voi cristiani. Siete stati innestati grazie alla colpa degli ebrei. Compare l’idea che i cristiani potrebbero rivelarsi del tutto indegni della Rivelazione cristiana così come gli ebrei si sono rivelati indegni della loro rivelazione. Credo profondamente che sia qui che bisogna cercare il fondamento della teologia contemporanea. Il libro di monsignor Lustiger, La Promesse, è ammirevole proprio in ciò che afferma sul massacro degli Innocenti e la Shoah. Bisogna riconoscere che il cristianesimo non ha di che vantarsi. I cristiani ereditano da san Paolo e dai Vangeli allo stesso modo che gli ebrei ereditano dalla Genesi e dal Levitico e da tutta la Legge. Ma non lo hanno compreso poiché hanno continuato a combattersi e a disprezzare gli ebrei.
Hanno continuato a essere nell’ordine sacrificale. Ma la Cristianità non è una contraddizione in termini? Una società cristiana è possibile? I cristiani non sono sempre dei contestatori dell’ordine di Satana e dunque dei marginali?
Sì, hanno ricreato l’ordine sacrificale. Storicamente è fatale e direi allo stesso tempo necessario. Un passaggio troppo brusco sarebbe impossibile e impensabile. Abbiamo avuto duemila anni di storia e questo è fondamentale.
Il mio lavoro ha rapporto con la teologia, ma ha anche rapporto con la scienza moderna che tutto storicizza. Mostra che la religione dev’essere storicizzata: essa fa degli uomini esseri che restano sempre violenti ma che diventano più sottili, meno spettacolari, meno prossimi alla bestia e alle forme sacrificali come il sacrificio umano. Potrebbe essere che si abbia un cristianesimo storico che sia una necessità storica.
Dopo duemila anni di cristianesimo storico, sembra che siamo oggi in un periodo cerniera: sia che apra direttamente sull’Apocalisse, sia che ci prepari un periodo di comprensione più grande e di tradimento più sottile del cristianesimo. Non possiamo fermare la storia e non ne abbiamo il diritto.
Per lei l’Apocalisse è la fine della storia...
Sì, per me l’Apocalisse è la fine della storia. Ho una visione il più tradizionale possibile. L’Apocalisse è l’avvento del Regno di Dio. Ma si può pensare che ci siano ’piccole o semiapocalissi’ o crisi, vale a dire periodi intermedi...
In un certo senso il cristianesimo è il primo e insuperato «illuminismo». Il sacrificio, esito della “rivalità mimetica” messa in luce da René Girard nei suoi studi come stigma della violenza delle religioni primitive, viene smontato e abbattuto dalla morte di Cristo sulla croce. Cristo muore perché deve morire, come migliaia e migliaia di vittime innocenti prima di lui, ma così prende la parola per la vittima, e svela l’ingiustizia della morte dell’innocente.
Il volume «Girard. Oltre il sacrificio», edito da Medusa (pagine 112, euro 13), raccoglie quattro interviste al grande studioso delle religioni e dei miti, morto nel 2015.
Anticipiamo alcuni brani da una conversazione uscita sulla rivista “Certitude” nel 2005.
Francia
La fascista non ha vinto. Ma il sonno della memoria produce mostri
di Paolo Flores d’Arcais *
L’orrore è stato evitato, il candidato fascista non salirà i gradini dell’Eliseo. Un grande sospiro di sollievo dunque, ma da entusiasmarsi c’è poco. Se nel cuore storico della democrazia europea, la Francia di “liberté, égalité, fraternité” che deve la legittimità delle sue istituzioni ai sanculotti del 1789 e ai resistenti del maquis e del governo in esilio contro il tradimento di Vichy, il candidato di un partito intasato di negazionisti in nostalgia di Petain e di cattolici vandeani, prende un terzo dei consensi, sarebbe più serio mantenere un certo timore, oltre che qualche oncia di vergogna. E capire come sia stato possibile arrivare a tanto, andando alle radici per poter reagire. Prima che sia troppo tardi.
Perché è già molto tardi. Lo dice la noncuranza di massa (e anche di élite) che ha minimizzato o negato, in realtà rimosso, il carattere fascista del partito Fn, nella continuità tra Le Pen padre, figlia e nipotina Marion. E che ancor più lo farà, ora che “Marine la Patriota” cercherà di accreditarsi tale addirittura “rifondando” con nuovo nome e nuovi apporti il Fn.
Noncuranza che si lascia imbambolare da qualche frase ad effetto, belletto e botulino ideologici, e sarebbe il meno, ma che si radica soprattutto per affatturazione della sirena sociale e collasso dello spessore storico, massime nella generazioni più giovani. Circolano massicciamente posizioni del tipo “il nazi-fascismo - salvo frange minoritarie di nostalgiche macchiette - è un fenomeno del secolo scorso”, oggi esistono solo “destre sociali”, “il revisionismo storico è una posizione culturale, all’operaio che vede ridursi i suoi diritti non importa niente di cosa Le Pen pensi di Giulio Cesare”.
Destra sociale? I fascismi si sono sempre dichiarati sociali, dalla parte dei lavoratori e dei disoccupati. Hitler aveva chiamato il suo partito “nazional-socialista” (nazismo è la contrazione). Abbindolate le masse, hanno sistematicamente e regolarmente distrutto ogni organizzazione di lavoratori, intrecciato valzer e amorosi sensi con i più biechi poteri finanziari e industriali, distrutto ogni possibilità legale di lotta per i non privilegiati.
È evidente e sacrosanto che prima viene la pancia piena e poi la morale (citazioni di Brecht a bizzeffe, volendo), e che anzi il grande capitale e la grande finanza, quando messi alle strette, tra un’avanzata democratica di oppressi ed emarginati e la soluzione fascista hanno troppo spesso preferito quest’ultima. E allora? E’ un buon motivo per fare harakiri e immaginare che il DNA della Resistenza antifascista non sia più necessario? La pancia vuota che si lascia affatturare da un fascista resterà vuota, e non potrà neppure lottare, se non a rischio di carcere tortura e vita.
Ma ogni generazione sente il prepotente bisogno di ripetere gli errori delle generazioni precedenti. Anche Mussolini, e Hitler, e i loro scherani, a molte personalità e persone comuni dell’epoca apparivano delle “macchiette”: in pochi anni hanno ridotto l’Europa in macerie e fame.
Oggi queste consapevolezza storica minima si è perduta, e il sonno della memoria, come quello della ragione, produce mostri. Purtroppo, in Francia, come in Italia, come in Europa tutta, si sconta un peccato originale, non aver dato vita nel dopoguerra alla necessaria epurazione antifascista in tutti gli apparati dello Stato (ma anche nel giornalismo e nella cultura). Non aver realizzato quella damnatio memoriae tassativamente ineludibile, che non garantisce contro ritorni di fascismo (la pulsione di servitù volontaria possiede circuiti neuronal-ormonali più antichi e radicati di quelli illuministico-democratici, ahimè), ma ne riduce le probabilità per il possibile.
Invece, nei decenni, con lenta ma infine inesorabile crescita, si è tollerato che partiti e movimenti fascisti si ricostruissero, si legittimassero per partecipazione elettorale, divenissero per mitridatizzazione parte del panorama ordinario del nostro habitat politico e sociale.
È stata questa l’altra faccia di una politica di establishment che per guerra fredda prima e liberismo selvaggio poi ha impedito che venissero realizzate nelle leggi e nella pratica di governo le solenni promesse contenute nelle Costituzioni nate dalla vittoria contro i fascismi.
In Italia fu chiaro da quasi subito, purtroppo. Il 2 giugno 1951 Piero Calamandrei, che della Costituente era stato uno dei massimi protagonisti, già doveva stigmatizzare che mentre nella Costituzione “è scritta a chiare lettere la condanna dell’ordinamento sociale in cui viviamo”, la politica del governo andava in direzione opposta, e il vero nome della festa della Repubblica era perciò “La festa dell’Incompiuta”.
E rivolgendosi ai giovani nel 1955, a Milano, ribadiva: “La nostra Costituzione è in parte una realtà, ma solo in parte. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere”. In Italia, come in Francia, come in Europa, siamo più che mai a questo, e la convinzione ormai dilagante che i fascismi siano lontani dal nostro orizzonte possibile quanto Giulio Cesare, fornisce ai reazionari e conservatori un’ulteriore arma di narcolessia di massa.
Macron non è la soluzione, a meno che da Presidente non diventi un Macron inedito, perché la finanza (e più in generale la politica economica) liberista è il motore della crisi sociale e della deriva politica che, per hybris di diseguaglianze, infesta e mina le democrazie. Rispetto ai lepenismi (in Europa si sono ormai moltiplicati sotto le più diverse e accattivanti fogge, ma sempre humus fascista veicolano), la vittoria di Macron potrebbe confermarsi solo il laccio emostatico che tampona l’emorragia in attesa dell’intervento chirurgico. Ora si tratta di realizzarne gli strumenti, quella sinistra illuminista egualitaria e libertaria oggi purtroppo introvabile in forma politica organizzata, ma diffusa in forma sommersa o carsica nelle società civili di molti paesi d’Europa.
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Nel nome di Mosé
È un prete, vive in Svizzera e lo chiamano così. Ogni giorno divide le acque per i rifugiati. Salvando vite. E invitandoci a restare umani
Ascoltare parole e approfondire. Non lasciarle macinare dal vortice. Nella trama delle parole scelte c’è l’interpretazione del mondo stesso. Quando il vicepresidente della Camera ha usato la parola “taxi” riferita alle imbarcazioni che salvano vite, ha descritto con una parola che sa di comodità una situazione di disperazione.
Poi ha cercato di recuperare distinguendo tra «ong buone e ong cattive». E poi la frase di rito, facile da dire e facile da applaudire: «Che la magistratura faccia il suo corso», pietra tombale su ogni ragionamento. Lo scopo è stato raggiunto e le ong diventano “complici” di malviventi difficilmente identificabili (un capro espiatorio serve e da qualche parte va trovato). Le espressioni da cui vengono accompagnate ormai sono: «improvvisamente proliferate», «finanziate da chi ha interesse a destabilizzare l’Europa» e a usarle è chi sa che non sono proliferate all’improvviso e che sono altri i fattori che destabilizzano l’Europa. Ad esempio la crisi economica, che non è scaturita dall’arrivo di migranti. Ma quanto è più facile dire: state male perché siete invasi, piuttosto che: continuate a stare male perché il nuovo che avanza è uguale al vecchio. Dietro le polemiche sulle ong nessuna volontà di fare chiarezza, ma solo razzismo, quello acchiappavoti e quello di chi ha completamente abdicato al ragionamento.
Vi racconto la storia di un uomo che dal 2003 salva vite. È un prete cattolico di origini eritree che oggi vive in Svizzera. Si chiama Mussie Zerai: Mosé lo chiamano i migranti, perché in qualche modo divide le acque per far arrivare i naufraghi sulla terraferma. Nel 2003 Gabriele Del Grande gli chiese di tradurre le testimonianze di alcuni rifugiati eritrei che erano in un centro di detenzione in Libia dopo aver tentato di migrare verso l’Europa.
Padre Zerai rimase scioccato dalle storie dei suoi connazionali che gli raccontarono la vita in quella prigione, tanto che prese l’impegno di denunciare la situazione e lasciò il suo numero di cellulare ai prigionieri. Nei giorni che seguirono quell’incontro iniziò a ricevere telefonate da migranti che erano in mezzo al mare, che chiedevano aiuto. Come era possibile che chiamassero lui? Semplice. Qualcuno aveva inciso il suo numero su una parete del carcere in Libia con sotto scritto: «In caso di emergenza chiamate questo numero». Lo aveva letto una donna, che se l’era trascritto sulle mani e dalle mani lo aveva trascritto sui legni di un barcone durante il suo viaggio dalla Libia verso Lampedusa.
I migranti, in genere, scrivono il numero dei familiari sui vestiti, in modo che si sappia a chi restituire la salma in caso finisse male, lei invece aveva scritto il numero di Padre Mosé, perché fosse visibile in caso di emergenza. Da quel giorno il cellulare di Padre Zerai non ha più smesso di squillare. A chiamarlo sono indifferentemente cattolici, musulmani, ortodossi, a cui è stato detto che Padre Zerai è capace di far comparire una scialuppa di salvataggio in mezzo al mare. Succede questo: quando le cose si mettono male in mare, chiamano padre Mosé e lui cerca di organizzarne il salvataggio, comunicando alla Guardia Costiera italiana più informazioni possibili per andare a prestare soccorso. Secondo le autorità italiane il cellulare di Padre Zerai ha permesso di salvare finora almeno 5 mila vita umane.
E poi c’è Nawal Soufi, chiamata la vedetta del Mediterraneo. Nawal Soufi è nata in Marocco, vive a Catania ed è diventata un punto di riferimento per chi fugge verso l’Italia. «Tutti hanno il mio numero, ne ho salvati a migliaia», dice. Il suo contatto passa tra chi fugge dalla guerra tentando l’approdo sulle coste europee. I profughi l’hanno soprannominata Lady SOS perché la chiamano dai barconi in difficoltà per dare le loro coordinate prima di affondare. E lei lancia l’allarme telefonando alla Guardia Costiera con un cellulare vecchio di 10 anni «perché almeno la batteria dura 4 giorni e posso essere sempre reperibile». Presta gratis questo servizio da oltre due anni ed è stata anche denunciata per aver facilitato l’immigrazione illegale (per la Bossi-Fini la solidarietà è un crimine). Nawal è in Italia da quando aveva un mese, studia Scienze Politiche e parla perfettamente italiano, la sua storia l’ha raccontata Daniele Bella nel libro “Nawal, l’angelo dei profughi”.
Immagino Padre Zerai e Nawal Soufi chiedere al telefono: «Mi scusi, non sarà mica uno scafista, perché nel caso sa che le dico, potete pure morire tutti».
Saviano: “Mosè per me era un amico immaginario, un alleato, un supereroe”
di Gisella Ruccia *
“Non ho mai visto Mosè come una una severa figura, la più importante dell’ebraismo, ma l’ho visto quasi come un alleato, una di quelle figure a cui parlare come un amico immaginario“. Sono le parole di Roberto Saviano ai microfoni di “Sorgente di vita”, il programma di Rai Due curato dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e dedicato alla cultura ebraica.
Lo scrittore, che ha aperto quest’anno il Festival internazionale della letteratura e cultura ebraica di Roma, racconta il suo amore e la sua ammirazione per l’ebraismo. “La cultura ebraica non mi ha semplicemente attratto, ma formato” - afferma - “Gli scrittori ebrei mi hanno insegnato a non disperare, a cercare sempre una via d’uscita”.
E rivela: “I racconti biblici di mio nonno per me sono stati fondamentali. Quando ero bambino, Mosè era davvero un supereroe. Accanto a Batman, Superman, Spiderman, l’Uomo Tigre, c’era Mosè. Lui era il balbuziente che guida un intero popolo, sbaglia di continuo, viene punito sempre per il minimo errore”. Saviano aggiunge: “Ci penso spesso a Mosè e penso spesso a me bambino che guardava a Mosè come qualcuno che, anche se sbagliava, sapeva che poteva farcela e poteva farcela a trovare un senso alle cose”
di Gisella Ruccia
* The Huffington, 31 luglio 2013 (ripresa parziale - con video).
L’immaginario del cattolicesimo romano.
RENZO DE FELICE E LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"! Alcune note - di Federico La Sala
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
Massimo De Carolis, la libertà e il suo doppio
di Paolo Godani *
Nelle ultime pagine delle Origini del totalitarismo, riflettendo sulle condizioni che possono predisporre l’avvento di un regime totalitario, Hannah Arendt individua in particolare quella che chiama loneliness (termine che viene distinto sia da isolation sia da solitude). La desolazione, cioè la situazione in cui un singolo si sente “abbandonato [deserted] da ogni umana compagnia”, è ciò che, se inizia a presentarsi come un sentimento ordinario e diffuso in una società ancora non totalitaria, “prepara gli uomini alla dominazione totalitaria”. Non si tratta semplicemente della solitudine anonima di cui si può fare esperienza per esempio negli spazi, al contempo sempre affollati e sempre deserti, dei centri commerciali o delle tangenziali congestionate dal traffico, bensì della sensazione per cui ogni condivisione, ogni comunanza sembra divenuta per principio impossibile.
Non c’è da stupirsi che un sentimento del genere sia ancora ben presente nelle nostre società contemporanee, se è vero che può essere considerato come il risultato di una serie di dispositivi che, negli ultimi trent’anni almeno, hanno promosso la distruzione sistematica non solo di ogni organizzazione sociale e politica, ma quasi della stessa possibilità di pensarsi in comune. La logica e la strategia di questi dispositivi di individualizzazione è evidente: dissolvere aggregazioni collettive potenzialmente capaci di mettere in discussione l’ordine stabilito, ed evitare che si ricostituiscano. Meno evidente è come tali dispositivi funzionino e, soprattutto, da dove traggano la loro efficacia.
Prendendo sul serio il pensiero neoliberale, evitando cioè di derubricarlo a mera ideologia della classe dominante e considerandolo invece come un vero e proprio progetto di società nato per contrastare la sconfitta del liberalismo classico di fronte al totalitarismo novecentesco, Massimo De Carolis (in un libro della cui ricchezza e profondità di analisi non potremo qui dare interamente conto) mostra con precisione come e perché il neoliberalismo veda nell’atomizzazione sociale un presupposto necessario allo sviluppo di una società libera.
Il principio di fondo del neoliberalismo è che nessuna autorità di sorta possa pretendere di dar luogo al “governo razionale” di una società complessa e pluralista, se non a scapito della molteplicità delle opportunità e delle scelte che costituiscono la potenza di quella stessa società. In questo senso, la decisione politica neoliberale consiste nel negare la legittimità di ogni decisione politica, per lasciare campo libero all’interazione sociale nella sua perfetta autonomia. Quest’ultima, però, ha luogo solo dal momento in cui si mettono in azione tutta una serie di meccanismi capaci di neutralizzare ogni possibile stratificazione che si sovrapponga alla mera interazione tra individui. Ogni singolo deve poter agire esclusivamente in vista dei propri desideri e degli interessi che suppone siano i suoi, senza che alcuna sovrastruttura di sorta venga a impedire o a complicare la possibilità della sua azione. L’ordine sociale migliore - ed è questo il filo di continuità con il liberalismo classico - sarà quello in cui il governo si limiti a garantire questa prassi, eliminando ogni possibile intralcio al suo dispiegarsi.
Questa concezione si fonda su un presupposto antropologico implicito, secondo il quale la vita umana libera, cioè non sottomessa ad alcun potere di coercizione, può implicare un solo genere di relazione tra individui: “il do ut desformalizzato dal mercato”. Oltre questa relazione “mercantile” non ci sarebbe altro che dominio e sottomissione. Conseguentemente a questo presupposto, la governance neoliberale si dà come funzione propria non certo quella di governare o dirigere il mondo degli scambi, quanto piuttosto quella di mettere in atto tutti i dispositivi necessari affinché l’unica relazione sussistente tra gli individui resti quella fondata sul do ut des.
De Carolis spiega con grande chiarezza come sia proprio da qui che discende quel “governo della vita” già individuato da Foucault come cardine della biopolitica neoliberale. La governance mira a dissolvere tutti gli elementi che possono ostacolare il libero dispiegarsi del processo sociale, ma per far questo deve intervenire sulle convenzioni tacite, sulle abitudini sociali, sui modi di vita, sui legami affettivi e sulle modalità di relazione e comunicazione, deve cioè “fare molto di più che limitarsi a ritoccare le singole norme: [deve] prendere come bersaglio la normalità in sé stessa”. Questo tipo di intervento, diversamente da quello sovrano, non si manifesta esemplarmente nei momenti d’eccezione ma, proprio in quanto prende di mira lo stesso costruirsi della normalità sociale nella continuità e nella contingenza del suo divenire, ha necessariamente la forma di un’eccezione che diviene regola. In questo senso, come Il rovescio della libertà sottolinea in maniera molto convincente, il neoliberalismo si distingue dal modello liberale classico per la sua convinzione che l’ordine spontaneo del mercato possa fondarsi su “regole che sono interamente il risultato di una progettazione deliberata”.
I dispositivi di individualizzazione, dunque, funzionano secondo il criterio della riduzione delle relazioni sociali all’unica forma libera di relazione, ricalcata sul modello dello scambio. Ma da dove derivano la loro efficacia? E perché, di conseguenza, il progetto neoliberale è riuscito, in pochi decenni, a imporsi in maniera così assoluta e pervasiva, sino a presentarsi come l’unico modello possibile di convivenza civile? La risposta di De Carolis, a questo proposito, è tanto realistica quanto dubbia: il successo del neoliberalismo, spiega, “è dipeso dalla capacità di intercettare un genere di desiderio, che i processi di dinamizzazione stavano rendendo sempre più profondo e più diffuso: il desiderio di vedere riconosciute e realizzate le proprie potenzialità, esponendo i propri sogni alla prova dei fatti, perché, in un mondo dominato dalla contingenza, è questo l’unico modo di assodarne l’autentico valore”. Al di là delle possibili obiezioni “antropologiche”, il problema - come del resto lo stesso De Carolis non esita a riconoscere - è che i dispositivi di potere del neoliberalismo contemporaneo producono in realtà un contesto sociale a cui “ci si può solo adattare, per non essere esclusi del tutto da una vita sociale la cui dinamicità apparente diventa il velo sottile di una riproduzione sempre più rigida e sempre meno generosa”.
È indubbio, certo, che nel corso degli anni Sessanta e Settanta le società europee e americane manifestassero desideri di liberazione dalle antiche forme del dominio sociale e della sovranità politica e nazionale, ed è possibile sostenere che il neoliberalismo abbia sfruttato queste istanze per altri fini. Ma mi pare altrettanto certo che le ragioni di fondo dell’imporsi del neoliberalismo si trovino piuttosto nel tentativo di impedire che “l’avanzata di una controcultura dai toni minacciosamente rivoluzionari” mettesse in questione non tanto l’ordine “cosmico” quanto, più prosaicamente, l’ordine economico e sociale costituito.
Che il progetto neoliberale sia riuscito vittorioso è evidente, come anche il fatto che “il tramonto del neoliberalismo sia il vero evento cruciale di questa epoca ”. Il dubbio legittimo è che questo tramonto, decretato dal ritorno di aggregazioni neofeudali radicate solo nella paura e nel risentimento, cioè sugli ultimi sentimenti che restano in un contesto di desolazione, sia solo l’altra faccia che lo stesso ordine costituito presenta quando deve affrontare le proprie crisi ricorrenti. E che un’“alleanza politica [...] autenticamente rivolta alla costruzione di un progetto di vita condiviso” non possa darsi riconoscendo come irrinunciabile il fondamento individualista della “nuova idea di civiltà” neoliberale, ma solo a condizione di saltare fuori dall’orizzonte prodotto dai suoi dispositivi.
* Alfabeta2, 2 maggio 2017 (ripresa parziale).
Una Risposta a Massimo De Carolis, la libertà e il suo doppio
LA DIALETTICA DELLA LIBERAZIONE (1968),IL SENSO DELLA POSSIBILITA’” (1988), E ... L’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’ (2018)! *
SE è VERO CHE “nel corso degli anni Sessanta e Settanta le società europee e americane manifestassero desideri di liberazione dalle antiche forme del dominio sociale e della sovranità politica e nazionale, ... CHE “l’avanzata di una controcultura dai toni minacciosamente rivoluzionari” mettesse in questione non tanto l’ordine “cosmico” quanto, più prosaicamente, l’ordine economico e sociale costituito”;
CHE “il progetto neoliberale sia riuscito vittorioso è evidente, come anche il fatto che “il tramonto del neoliberalismo sia il vero evento cruciale di questa epoca ”,
E SE è, ALTRETTANTO, VERO CHE “un’“alleanza politica [...] autenticamente rivolta alla costruzione di un progetto di vita condiviso” non possa darsi riconoscendo come irrinunciabile il fondamento individualista della “nuova idea di civiltà” neoliberale, ma solo a condizione di saltare fuori dall’orizzonte prodotto dai suoi dispositivi”,
NON SI PUO’ NON RIPRENDERE IL FILO DELLA RIFLESSIONE E DELLA RI-ORGANIZZAZIONE, DALLE INDICAZIONI E DALL’ORIZZONTE DELLA DISCUSSIONE DELLA “DIALETTICA DELLA LIBERAZIONE” (cOOPER, CARMICHAEL, SWEEZY, LAING, MARCUSE, GERASSI, BATESON E altri, EINAUDI 1969) E DA “IL SENSO DELLA POSSIBILITA’” (ATTILIO MANGANO, Antonio Pellicani Editore, Roma 1988).
SU QUANTO E COME sia necessario SALTARE FUORI dall’ORIZZONTE TEORETICO E STORIOGRAFICO dato, mi sia lecito, si cfr. le note su:
RENZO DE FELICE E LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA “CAPO”! (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5889);
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4790).
Per le professioni del futuro bisogna studiare filosofia
di Antonella Bonavoglia (Il Sole-24 Ore, 27 Aprile 2017)
Ci sono domande a cui Google non può rispondere. Ma la capacità di saper ragionare adeguatamente e rispondere a quelle domande potrebbe essere una delle chiavi per preparare i ragazzi di oggi alle professioni di domani. Perché se molte delle professioni attuali saranno sostituite dalla tecnologia e dalla robotica (secondo la previsione che nel 2013 è stata effettuata da un gruppo di economisti della Oxford University più della metà dei lavori nei prossimi 20 anni), quello che distingue l’uomo dai computer sarà il vero valore aggiunto, anche nelle professioni del futuro. Per questo, ai lavori di domani, sarà richiesto di spaziare su più campi, di riuscire a mettere insieme più competenze e saperi. E, a sorpresa, un aiuto potrebbe arrivare, già nelle scuole, dalla filosofia. Come hanno deciso di fare in Irlanda.
La domanda da porsi è quindi come deve cambiare l’istruzione in previsione futura e cosa serve davvero ai ragazzi e alle ragazze di oggi, per diventare gli uomini e le donne di domani. In Irlanda il presidente della Repubblica, Michael Higgins, ha risposto decidendo di introdurre la filosofia come materia di studio già dai dodici anni d’età. Pare che l’iniziativa sia nata dopo un dibattito sul tema della perdita di posti di lavoro e dei cambiamenti in atto nella società irlandese. Così, dallo scorso settembre, la filosofia, in Irlanda, entra a far parte dell’elenco delle materie “irrinunciabili”. E già è in discussione la sua introduzione nelle scuole elementari. Dunque, la filosofia può fornire agli studenti gli strumenti utili al ragionamento e alla risoluzione dei problemi?
“Cosa sono i sogni?” “Chi sono io?” “Cosa è il destino?”: non è mai troppo presto per porsi domande importanti e con lo studio della filosofia i bambini possono essere invitati a riflettere e a confrontarsi, in maniera diretta, su questioni tipiche della discussione filosofica. Concetti come la vita, la gioia, l’amore, la tristezza, la diversità, la pace, la speranza, il tempo, lo spazio, il futuro possono diventare tema di dibattito e confronto e, grazie alla mediazione dell’esperto, diverranno parte del bagaglio di esperienza di ciascun alunno. Insomma, la filosofia, per anni considerata materia “inutile” o relegata esclusivamente nei licei a indirizzo umanistico, riacquista uno spazio importante, diventando una disciplina indispensabile per l’acquisizione del probelm solving, alla stessa stregua della matematica.
In Italia dal 2015 è nata un’associazione culturale “FilosofiaCoiBambini”, che si occupa di diffondere e custodire il metodo educativo originale di approccio “filosofico” all’istruzione, sin dalla scuola dell’infanzia. L’idea arriva da Pesaro da Carlo Maria Cirino e Cecilia Giampaoli, che hanno creato dei laboratori esperienziali, dapprima privati, poi aperti al pubblico. “FilosofiaCoiBambini” è oggi una realtà nazionale che vanta un numero crescente di scuole dell’infanzia e primaria che già adottano la sperimentazione (più di 30 Istituti Scolastici in Italia ed Europa solo alla fine del 2015).
L’immaginazione è alla base del metodo. Senza immaginazione, non andremmo lontano. E’ l’immaginazione che ci spinge a creare le cose, a capirne le funzioni, ad approfondire la curiosità innata, a sperimentare. Immaginare è la base del fare e del saper creare e allenare i bambini all’immaginazione, significa potenziare la loro area cognitiva ed emotiva. Il metodo filosofico è, dunque, entrato in molte scuole italiane, attraverso progetti sviluppati da docenti “filosofi”, formati attraverso training, corsi e laboratori. La filosofia, secondo gli sviluppatori di questo metodo, insegna ai bambini ad utilizzare il controfattuale, allenando così, la loro capacità di immaginare mondi possibili e di trovare soluzioni a problemi concreti e astratti.
LE MAPPE DELLA CRISI
Missili nucleari e truppe della Russia, il “buco nero” di Kaliningrad preoccupa l’Occidente
di Monica Perosino *
Dieci anni fa, si riteneva che Kaliningrad potesse rappresentare la risposta russa al modello Hong Kong: una piccola regione con un’importante influenza economica e una finestra russa sull’Europa. Una anno fa, lo status speciale economico di cui gode la regione, che aveva lo scopo di fare di Kaliningrad una città economicamente prospera, è terminato. Da allora, con l’annessione della Crimea e la crisi in Ucraina, l’enclave è diventata poco più di un avamposto militare strategico. Nell’ottobre 2016, la Russia ha realizzato il suo obiettivo di lunga data: posizionare missili nucleari Iskander sul territorio, proseguendo così la militarizzazione di Kaliningrad. Le principali città europee, sarebbero dunque ora potenzialmente esposte.
Abbiamo intervistato Gustav C. Gressel*, analista dello European Council on Foreign Relations
Oltre a essere un «campo di battaglia ideologico», avamposto di Mosca nel cuore dell’Europa, cosa rappresenta Kaliningrad da un punto di vista strategico e militare?
«Mosca potrebbe bloccare l’accesso al Baltico in qualsiasi momento: le forze europee e alleate attualmente presenti sono limitate e troppo deboli per offrire una difesa efficace. Se dovesse succedere qualcosa si dovrebbe fare affidamento solo sulle forze aeree che dovrebbero innanzitutto neutralizzare il sistema missilistico di Kaliningrad. Ma un attacco all’“oblast” significherebbe una dichiarazione di guerra alla Russia, con tutte le conseguenze del caso, e significherebbe anche lasciare a Mosca mano libera sul Baltico».
Negli ultimi tre anni il numero di violazioni di Mosca dello spazio aereo europeo è aumentato, così come le esercitazioni militari al confine con l’Europa. È cambiato qualcosa dopo l’annessione della Crimea anche a Kaliningrad?
«I russi sono più forti, più veloci, e più armati. E qui non si parla solo della dislocazione dei missili Iskander. Se si guardano le immagini satellitari - o si ascoltano le trasmissioni radio - sopra Kaliningrad c’è una sorta di buco nero: nessuno sa cosa stia succedendo, per questo i Paesi confinanti sono molto preoccupati».
Qual è la strategia di Putin, sta cercando di alzare la tensione per qualche motivo?
«La Russia ha una percezione molto soggettiva della sicurezza: cercano di difendersi da presunte minacce in arrivo dall’Ucraina e dalla Bielorussia, per esempio, cercano di controbilanciare quello che succede in Occidente. Un esempio: i russi pensano che le proteste anticorruzione ribattezzate “il Maidan di Mosca” siano state organizzate dai Paesi scandinavi e quindi puntano i missili su di loro. Mosca vede la libertà all’occidentale come un fantasma e un pericolo e cerca di combatterla, sono sinceramente convinti che dall’estero cerchino di organizzare azioni contro di loro e la loro cultura».
Perché Mosca sta aumentando esponenzialmente gli armamenti dislocati a Kaliningrad?
«È in parte una mossa politica, ma Mosca si sente davvero minacciata dalla Nato, per questo sente la necessità di continuare ad avere un corridoio di sicurezza in Europa con accesso al Baltico».
* Gustav C. Gressel è un analista dello European Council on Foreign Relations specializzato in Europa orientale e Russia
* La Stampa, 26/04/2017 (ripresa parziale - senza immagini).
MARX, LA RIVOLUZIONE FRANCESE, E I POPULISMI - OGGI. UN OMAGGIO AL LAVORO E ALLA MEMORIA DI MIGUEL ABENSOUR... *
SENZA KANT, GLI “SPINOZIANI” E I “MARXIANI” FINISCONO PER DIVENTARE SEMPRE SPINOZISTI E MARXISTI. Il problema J.-J. Rousseau - e la dialettica esistente tra tous uns (tutti unici) e tous Un (tutt’Uno) - non si risolve con la teologia e il misticismo fichtiano ed hegeliano...
SICURAMENTE “Marx avrebbe sempre voluto scrivere un libro sulla Rivoluzione francese (chissà quanto ci avrebbe aiutato a capire meglio sia la rivoluzione sia il pensiero di Marx!): essa può venir intesa come democrazia insorgente nel senso che è sempre stata attraversata da un conflitto interno tra una comunità politica popolare e le istituzioni; sia, da un lato, le istituzioni dell’Ancien Régime (come la monarchia) sia, dall’altro, le nuove istituzioni in statu nascendi” (Miguel Abensour, in dialogo con Daniele Gorgone: http://www.leparoleelecose.it/?p=27245), MA ALTRETTANTO SICURAMENTE avrebbe avuto al suo centro il nodo del ” 18 brumaio di Luigi Bonaparte”:
Non basta dire come fanno i francesi che la loro nazione è stata colta alla sprovvista. Non si perdona a una nazione, come non si perdona a una donna, il momento di debolezza in cui il primo avventuriero ha potuto farle violenza. Con queste spiegazioni l’enigma non viene risolto, ma soltanto formulato in modo diverso. Rimane da spiegare come una nazione dì 36 milioni di abitanti abbia potuto essere colta alla sprovvista da tre cavalieri di industria e ridotta in schiavitù senza far resistenza (https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1852/brumaio/index.htm).
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL “RISCHIARAMENTO” (“AUFKLARUNG”) NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! (cfr.: HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4790):
In Germania, la “distorsione” - e le premesse della ”hitlerizzazione di Kant” - avviene già alla fine del 1700, ad opera di Fichte prima e di Holderlin, Schelling, e Hegel poi. Chi dà il via - contro il programma critico di Kant che, già con “i sogni di un visionario spiegati coi sogni della metafisica” (1766) prima e soprattutto con la “Critica della ragion Pura” (1781 e del 1787) dopo, ha ‘ghigliottinato’ (anticipando gli eventi: la rivoluzione francese e la morte di Luigi XVI) il “Dio” dei Faraoni (atei e devoti) e senza negare la rivelazione (l’antropologico “bisogno razionale” della ragione) ha sbarrato la strada a ogni possibilità di una metafisica e di una teologia come scienza, - è Johann G. Fichte. Questi, nato nel 1762, nello stesso anno della pubblicazione dell’Emilio e del Contratto sociale di J.-J. Rousseau, è segnato paradossalmente dalla lettura del Robinson Crusoe di Daniel Defoe.
Nel 1791 con il “Tentativo di critica di ogni rivelazione” (1792), Fichte dà l’avvio al suo programma, sottopone il discorso di Kant a una radicale distorsione e comincia le sue lezioni “sui doveri degli eruditi” (sulla cosiddetta “Missione del dotto”, un tema che sarà al centro delle sue preoccupazioni fino al 1811-1812, quando sarà eletto rettore del’Università di Berlino), dà il via libera al sogno di una restaurazione della “Scienza” (“Sul concetto della dottrina della scienza“, e il “Fondamenti della intera dottrina della scienza” sono del 1794) e, infine, con i “Discorsi alla nazione tedesca” (1807-8), lavora a stimolare un risveglio politico e morale della coscienza nazionale in modo già fortemente nazionalistico.
Hegel, in una lettera a Schelling del 1795, documenta molto bene l’atmosfera “romantica e mistica” della strada aperta da Fichte e subito condivisa da lui stesso, Schelling, e Holderlin, e a Schelling scrive: “Holderlin mi scrive da Jena di tanto in tanto. (...) Segue le lezioni di Fichte e ne parla con entusiasmo, come di un titano che combatte per l’umanità e la cui sfera d’azione non rimarrà certamente confinata tra i muri dell’aula accademica (...) Venga il regno di Dio e le nostre mani non restino in grembo (...) Ragione e libertà restano la nostra parola d’ordine, e il nostro punto d’incontro resta la chiesa invisibile” (G.W.F. Hegel, Lettere, Laterza, Bari 1972, p. 11-12).
L’ “Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico” (Kant, 1784), per quanto ancora segnata da eurocentrismo e memoria delle origini greco-romane, è buttata alle ortiche e l’ottica diventa sempre più (e già, minacciosamente) nazionale. Nel 1799, quando Kant era ancora vivo (uno dei suoi ultimi scritti, “Logica”, uscì nel 1800), Holderlin lo consegna filosoficamente già morto agli amici del “seminario di Tubinga” e lo im-mortala come la pietra fondante della costruzione dell’idealismo tedesco, come il “Mosè della nostra nazione, che conduce dal torpore egiziano nel libero, solitario deserto della speculazione, portandole dal sacro monte l’implacabile legge” (cit. in: Remo Bodei, Scomposizioni, Einaudi, Torino 1987, p. 90).
E nel 1805, Hegel a Johann H. Voss (che aveva realizzato la traduzione tedesca dell’Odissea nel 1781 e dell’Iliade nel 1793), scrive: “Lutero ha fatto parlare la Bibbia in tedesco, Lei, Omero: è il più grande regalo che possa essere fatto a un popolo; infatti un popolo rimane allo stato barbarico e non considera come sua proprietà le cose pregiate che viene a conoscere, finché non impara a riconoscerle nella propria lingua. Se Lei vuol dimenticare questi due esempi, Le dirò che il mio sforzo è diretto a far parlare la filosofia in tedesco”. E, poco oltre, aggiunge: “Per la Germania sembra essere venuto il tempo in cui la verità debba diventare manifesta, e che a Heidelberg possa sorgere una nuova aurora per la salvezza della scienza” (G.W.F. Hegel, Lettere, cit., p. 68).
Hegel sta alludendo alla imminente pubblicazione della “Fenomenologia dello Spirito”, ma è ancora incerto. Su Heidelberg si sbaglia, ma alla fine dell’anno successivo a Jena, occupata dai francesi, abbagliato dalla luce dello Spirito del mondo, riceve l’ ‘investitura’ e scrive: “Ho visto l’Imperatore [Napoleone] - quest’anima del mondo - uscire a cavallo dalla città per andare in ricognizione; è in effetti, una sensazione meravigliosa vedere un tale individuo che qui, concentrato in un punto, seduto su un cavallo, s’irradia per il mondo e lo domina” (Lettera a Niethammer, op.cit., p. 77). Allora rompe ogni indugio e, preso dall’entusiasmo, taglia il cordone all’ombelico del suo sogno (ma anche di Cartesio) e, agli inzi del 1807, butta giù la famosa ‘Vorrede’ (la “Prefazione” alla Fenomenologia dello Spirito), celebrata da Marcuse di “Ragione e Rivoluzione” come “una tra le più grandi imprese filosofiche di tutti i tempi, costituendo niente di meno che un tentativo di restaurare la filosofia come la forma più alta della conoscenza umana, come La Scienza”. Egli, finalmente, è giunto a cogliere e a ‘svelare’ al mondo l’ “elevatissimo concetto appartenente all’età moderna e alla sua religione”: l’Assoluto come Spirito (“Io che è Noi, e Noi che è Io”)! E il sogno di “far parlare la filosofia in tedesco” comincia. [...] (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4790)
Federico La Sala
La perversione del senso del 25 aprile
Polemiche. Le bandiere palestinesi al corteo? Un vulnus inaccettabile per il presidente della comunità ebraica romana Pacifici e per qualche ultrà del sionismo più isterico. Ma screditando le ragioni di chi lotta per una Palestina libera si sovverte il significato della Resistenza
di Moni Ovadia (il manifesto, 11.04.2015/23.04.2017)
Nel corso della mia vita e da che ho l’età della ragione, ho cercato di partecipare, anno dopo anno a ogni manifestazione del 25 aprile.
Un paio di anni fa, percorrendo il corteo alla ricerca della mia collocazione sotto le bandiere dell’Anpi, mi imbattei nel gruppo che rappresentava i combattenti della “brigata ebraica”, aggregata nel corso della seconda guerra mondiale alle truppe alleate del generale Alexander e impegnata nel conflitto contro le forze nazifasciste. Qualcuno dei componenti di quel drappello mi riconobbe e mi salutò cordialmente, ma uno di loro mi rivolse un invito sgradevole, mi disse: «Vieni qui con la tua gente». Io con un gesto gli feci capire che andavo più avanti a cercare le bandiere dell’Anpi che il 25 aprile è «la mia gente» perché io sono iscritto all’Anpi con il titolo di antifascista. Lui per tutta risposta mi apostrofò con queste parole: «Sì, sì, vai con i tuoi amici palestinesi».
Il tono sprezzante con cui pronunciò la parola palestinesi sottintendeva chiaramente «con i nemici del tuo popolo». Io gli risposi dandogli istintivamente del coglione e affrettai il passo lasciando che la sua risposta, sicuramente becera si disperdesse nell’allegro vociare dei manifestanti.
Questo episodio, apparentemente innocuo, mi fece scontrare con una realtà assai triste che si è insediata nelle comunità ebraiche.
I grandi valori universali dell’ebraismo sono stati progressivamente accantonati a favore di un nazionalismo israeliano acritico ed estremo. Un nazionalismo che identifica stato con governo.
Naturalmente non tutti gli ebrei delle comunità hanno imboccato questa deriva sciovinista, ma la parte maggioritaria, quella che alle elezioni conquista sempre il “governo” comunitario, fa dell’identificazione di ebrei e Israele il punto più qualificante del proprio programma al quale dedica la prevalenza delle sue energie.
Io ritengo inaccettabile questa ideologia nazionalista, in primis come essere umano perché il nazionalismo devasta il valore integro e universale della persona, poi come ebreo, perché nessun altro flagello ha provocato tanti lutti agli ebrei e alle minoranze in generale e da ultimo perché, come insegna il lascito morale di Vittorio Arrigoni, io non riconosco altra patria che non sia quella dei diseredati e dei giusti di tutta la terra.
L’ideologia nazionalista israeliana negli ultimi giorni ha fatto maturare uno dei suoi frutti tossici: la decisione presa dalla comunità ebraica di Roma, per il tramite del suo presidente Riccardo Pacifici, di non partecipare al corteo e alla manifestazione del prossimo 25 aprile. La ragione ufficiale è che nel corteo sfileranno bandiere palestinesi, vulnus inaccettabile per il presidente Pacifici, in quanto nel tempo della seconda guerra mondiale, il gran muftì di Gerusalemme Amin al Husseini, massima autorità religiosa sunnita in terra di Palestina fu alleato di Hitler, favorì la formazione di corpi paramilitari musulmani a fianco della Germania nazista e fu fiero oppositore dell’instaurazione di uno stato Ebraico nel territorio del mandato britannico. Mentre la brigata ebraica combatteva con gli alleati contro i nazifascisti. Tutto vero, ma il muftì nel 1948 venne destituito e arrestato: oggi vedendo una bandiera palestinese a chi viene in mente il gran muftì di allora? Praticamente a nessuno, se si eccettua qualche ultrà del sionismo più isterico o qualche fanatico modello Isis.
Oggi la bandiera palestinese parla a tutti i democratici di un popolo colonizzato, occupato, che subisce continue e incessanti vessazioni, che chiede di essere riconosciuto nella sua identità nazionale, che si batte per esistere contro la politica repressiva del governo di uno stato armato fino ai denti che lo opprime e gli nega i diritti più elementari ed essenziali. Un governo che lo umilia escogitando uno stillicidio di violenze psicologiche e fisiche e pseudo legali per rendere esausta e irrilevante la sua stessa esistenza.
Quella bandiera ha pieno diritto di sfilare il 25 aprile - com’è accaduto per decenni e senza polemica alcuna - e glielo garantisce il fatto di essere la bandiera di un popolo che chiede di essere riconosciuto, un popolo che lotta contro l’apartheid, contro l’oppressione, per liberarsi da un occupante, da una colonizzazione delle proprie legittime terre, legittime secondo la legalità internazionale, un popolo che vuole uscire di prigione o da una gabbia per garantire futuro ai propri figli e dignità alle proprie donne e ai propri vecchi, un popolo la cui gente muore combattendo armi alla mano contro i fanatici del sedicente Califfato islamico nel campo profughi di Yarmouk, nella martoriata Damasco.
E degli ebrei che si vogliono rappresentanti di quella brigata ebraica che combatté contro la barbarie nazifascista hanno problemi ad essere un corteo con quella bandiera? Allora siamo alla perversione del senso ultimo della Resistenza.
La verità è che quella del gran muftì di allora è solo un pretesto capzioso e strumentale. Il vero scopo del presidente Pacifici e di coloro che lo seguono - e addolora sapere che l’Aned condivide questa scelta -, è quello di servire pedissequamente la politica di Netanyahu, che consiste nello screditare chiunque sostenga le sacrosante rivendicazioni del popolo palestinese.
Per dare forza a questa propaganda è dunque necessario staccare la memoria della persecuzione antisemita dalle altre persecuzioni del nazifascismo e soprattutto dalla Resistenza espressa dalle forze della sinistra. È necessario discriminare fra vittima e vittima israelianizzando la Shoah e cortocircuitando la differenza fra ebreo d’Israele ed ebreo della Diaspora per proporre l’idea di un solo popolo non più tale per il suo legame libero e dialettico con la Torah, il Talmud e il pensiero ebraico, bensì un popolo tribalmente legato da una terra, da un governo e dalla forza militare.
Se come temo, questo è lo scopo ultimo dell’abbandono del fronte antifascista con il pretesto che accoglie la bandiera palestinese, la scelta non potrà che portare lacerazioni e sciagure, come è vocazione di ogni nazionalismo che non riconosce più il valore dell’altro, del tu, dello straniero come figura costitutiva dell’etica monoteista ma vede solo nemici da sottomettere con la forza.
Il giornalismo secondo Gramsci: 1500 articoli "contro", rivendicati fino al tribunale fascista
Raccolti in un volume appena pubblicato con la prefazione di Canfora e la postfazione di Frasca Polara. Un vero e proprio manuale della professione e le battaglie su molte testate. Fino all’Unità, della quale racconta la genesi del nome.
di GIOVANNI CEDRONE (la Repubblica, 06 aprile 2017)
Il giornalismo secondo Gramsci: 1500 articoli "contro", rivendicati fino al tribunale fascista
"Io non sono mai stato un giornalista professionista, che vende la sua penna a chi gliela paga meglio e deve continuamente mentire, perché la menzogna entra nella qualifica professionale". Queste parole, contenute in una lettera a sua cognata Tatiana Schucht dell’ottobre 1931, forse meglio di altre testimoniamo l’indomito spirito con cui Antonio Gramsci si è dedicato al giornalismo. Le parole sono contenute nell’ultimo volume dedicato al fondatore del Partito comunista "Il Giornalismo, Il Giornalista. Scritti, articoli, lettere del fondatore dell’Unità" a cura di Gian Luca Corradi (edito da Tessere).
A 80 anni dalla sua morte, avvenuta il 27 aprile 1937, Corradi ha raccolto alcuni fra gli oltre 1.500 articoli che Gramsci pubblicò su varie testate (prima di essere recluso nel 1927) e alcune lettere, antecedenti e successive alla carcerazione, nelle quali tocca l’argomento della stampa periodica. L’ideatore del concetto di egemonia si conferma un pensatore aperto e non dogmatico e le sue intuizioni sul giornalismo stupiscono per l’attualità e la lungimiranza. Come sottolinea Giorgio Frasca Polara nella postfazione, "Gramsci avrebbe potuto insegnare, e bene, quel giornalismo serio, informato di cose serie, che oggi sta diventando una rarità non solo in Italia".
Non bisogna dimenticare che il contributo di Gramsci al giornalismo italiano è stato enorme: oltre ad aver fondato "L’Ordine Nuovo" e "L’Unità", Gramsci scrisse per almeno una decina di giornali, tra cui "La Città futura", numero unico della Federazione giovanile socialista piemontese e "Energie nove", quindicinale diretto da Piero Gobetti. Luciano Canfora ricorda nell’introduzione le parole contenute nel verbale d’interrogatorio di Antonio Gramsci nel carcere giudiziario di Milano, datato 9 febbraio 1927, con cui lo stesso pensatore comunista dichiara di essere "pubblicista" prima ancora che "ex deputato al Parlamento". Sui "Quaderni" il fondatore dell’Unità traccia quasi un manuale del buon giornalista: parla di giornalismo "integrale", cioè quello che non solo intende soddisfare tutti i bisogni del suo pubblico, ma intende creare e sviluppare questi bisogni, rimarca poi la necessità per i giornalisti di "seguire e controllare tutti i movimenti e i centri intellettuali che esistono e si formano nel paese".
Un sano realismo lo porta a considerare i lettori da due punti di vista, sia come elementi "ideologici, trasformabili filosoficamente", sia come elementi "economici, capaci di acquistare le pubblicazioni e di farle acquistare ad altri". Sottolinea come il contenuto ideologico di un giornale non sia sufficiente a garantire le vendite: conta anche la forma in cui viene presentato. Interviene su quella che chiama "l’arte dei titoli" in cui influisce l’atteggiamento del giornale verso il suo pubblico che può essere "demagogico-commerciale" o "educativo-didattico".
Le riflessioni teoriche di Gramsci si riflettono nella sua attività di pubblicista. Il fondatore del Pci non si occupava solo di politica, ma anche di costume, società, teatro, musica e storia. In una pagina del marzo 1916 di "Sotto la Mole", Gramsci contesta, ad esempio, l’assunto che la malavita organizzata sia solo al sud, un discorso che a 100 anni di distanza risuona quanto mai attuale.
Nel maggio 1916 difende il maestro Toscanini per aver scelto una sinfonia di Wagner in un concerto al Teatro Regio di Torino, scelta che, con l’Italia entrata in guerra contro gli Imperi centrali, aveva provocato i fischi del pubblico. Scrive di teatro e in particolare la sua attenzione cade su Pirandello che per lui aveva il merito di creare "delle immagini di vita che escono fuori dagli schemi soliti della tradizione".
Ragiona poi sul "carattere" degli italiani improntato, secondo lui, all’ipocrisia in tutte le forme della vita: nella vita familiare, nella vita politica, negli affari. "La sfiducia reciproca, il sottinteso sleale - sottolinea Gramsci - corrodono nel nostro paese tutte le forme di rapporti: i rapporti tra singolo e singolo, i rapporti tra singolo e collettività. L’ipocrisia del carattere italiano è in dipendenza assoluta con la mancanza di libertà".
Da un punto di vista storico, le pagine più interessanti sono nelle lettere, soprattutto quelle dal carcere, con il racconto della sua detenzione e le riflessioni sul giornalismo che occupano una parte importante della sua corrispondenza. In una missiva al Comitato esecutivo del Pcd’I del settembre 1923 svela perché fu scelto il nome "l’Unità" per il giornale da lui fondato. Aveva un duplice significato: innanzitutto richiamava all’unità tra operai e contadini, non soltanto nell’ambito del rapporto tra le classi, ma anche nel più generale tema della questione nazionale, "unità" tra nord e sud, tra città e campagna.
Nella lettera a Vincenzo Bianco del marzo 1924 emerge il Gramsci "maestro di giornalismo", una pagina che forse qualsiasi giornalista alle prime armi dovrebbe sempre tenere a portata di mano. Prima di iniziare a scrivere - afferma Gramsci - bisogna predisporre uno schema e domandarsi cosa sia veramente importante. Consiglia poi di leggere "Il Manifesto dei Comunisti" che definisce "un capolavoro di chiarezza, di semplicità e di dialettica". Infine invita alla brevità ricordando l’esempio di Andrea Viglongo, suo collaboratore, che allenava a scrivere articoli di al massimo una colonna e mezzo.
La raccolta di scritti ha il grande merito di tracciare con chiarezza un aspetto del profilo di Gramsci forse meno noto, quello del Gramsci giornalista. Un aspetto che conferma, come giustamente sottolinea Canfora, quanto Gramsci sia davvero appartenuto alla cultura italiana di quegli anni molto più che ad una cultura di partito. Pensatore mai banale, marxista irregolare, oggi icona pop e studiato nelle università di mezzo mondo, Gramsci fu anche "maestro di giornalismo" i cui insegnamenti, a distanza di 80 anni, restano più che mai validi.
Senza l’Ue usciamo dalla storia mondiale
di Francesco Bellusci (DoppioZero, 25 marzo 2017)
Alla fine del V secolo a. C., ad Atene, c’era un filosofo che proponeva di salvare e recuperare la giustizia nella vita della comunità, sostituendo la democrazia con un’aristocrazia di custodi, esperti del bene comune, filosofi da convertire in tecnocrati. Il suo nome era Platone. Oggi, agli inizi del XXI secolo, a Francoforte, sede della Goethe-Universität ma anche di un’istituzione comunitaria nevralgica come la Banca centrale europea, c’è un filosofo che propone di salvare la democrazia in Europa facendole varcare i confini nazionali e di sottrarre l’Unione europea alla spirale tecnocratica, in cui è ricaduta soprattutto nel modo di affrontare la crisi economica e finanziaria dei debiti sovrani dopo il 2008. Il suo nome è Jürgen Habermas. A differenza del malcapitato Platone e delle sue disavventure col tiranno di Siracusa, il filosofo di Francoforte sembra, invece, finalmente aver avuto udienza presso la Bundeskanzlerin Merkel e il suo governo di Grosse Koalition.
La proposta recente della cancelliera tedesca di rivedere i Trattati contemplando la possibilità di un’Europa a due velocità o a geometrie variabili, con ritmi e livelli diversi di integrazione, rilanciano e collimano, infatti, con l’idea che Habermas propugna da almeno dieci anni, di procedere più speditamente con l’integrazione politica di un “nucleo di Europa” (Kerneuropa), da far coincidere con l’area dell’euro o dei Paesi fondatori della Comunità economica europea nel 1957.
Erede principale della storica “Scuola di Francoforte” di Adorno, Horkheimer e Marcuse, ma anche allievo coerente delle intuizioni di Hannah Arendt su potere, politica e spazio pubblico, Habermas ha inteso il lavoro del filosofo politico non come il costruttore a tavolino di una “città ideale”, ma come il ricostruttore dei processi politici reali, a partire da un rapporto riflessivo con la tradizione e le istanze della modernità, e, conseguentemente, alla luce dei mutati scenari internazionali post-guerra fredda, non ha smesso, con saggi, interventi e interviste, di incalzare le élites europee in vista del rilancio del progetto comunitario, denunciandone gli stop and go e l’“incrementalismo” dei piccoli passi. E dell’Unione europea che, attualmente, i nuovi “nazional-populismi”, così definiti da Taguieff, hanno fatto assurgere a loro bersaglio privilegiato, Habermas ha sempre difeso la prospettiva e la funzione civilizzatrice, per un continente dilaniato da rivalità e guerre fino alla prima metà del secolo scorso, intrecciando questa difesa con l’approfondimento teorico della sua concezione normativa di democrazia deliberativa.
Sono la recente crisi economica del 2008 e i suoi effetti di medio periodo che, secondo Habermas, hanno posto l’Ue di fronte ad un bivio cruciale: “O danneggiare in maniera irreparabile, rinunciando all’euro, il progetto dell’Unione europea che abbiamo perseguito nel dopoguerra, oppure approfondire l’Unione politica - a partire dall’eurozona -, in maniera tale da dare legittimità democratica, oltrepassando le frontiere, ai trasferimenti di valuta e alla messa in comune dei debiti. Non possiamo evitare la prima cosa senza realizzare la seconda” (Nella spirale tecnocratica. Un’arringa per la solidarietà europea, Laterza 2014). Percorrere la seconda strada e cioè superare ogni remora verso il progetto europeo, affrontando l’errore di aver costruito una comunità monetaria senza unione politica, significa, d’altronde, per Habermas, sconfessare due mainstream che tendono a indebolire e alla lunga inficiare o pregiudicare la realizzabilità di quel progetto.
La prima è la tesi del “No demos”: senza un “popolo” europeo, senza omogeneità etnica, storica e linguistica, non si può edificare una comunità politica, dal momento che un ordinamento democratico-liberale ed egualitario è possibile, nella sostanza, solo dentro il cerchio dell’appartenenza nazionale.
Contro questa tesi che torna a singhiozzo, Habermas ha sempre sostenuto che la coscienza nazionale non è mai stata qualcosa di naturale, anche in presenza di una omogeneità etnico-linguistica, ma il prodotto di una sedimentazione e stratificazione di contributi narrativi di varie fonti (storici, etnologi, giuristi, linguisti e storici letterari) e di vari media (scuola, mezzi di comunicazione di massa, servizio di leva), che ha seguito una duplice declinazione, “patriottica” e “repubblicana” insieme, e non solo la prima. In fondo, in Habermas, troviamo una filosofia della storia ben precisa.
Nel giro di un secolo e mezzo di storia europea e mondiale, dalla Rivoluzione francese alla Seconda guerra mondiale, l’idea di nazione ha suscitato, allo stesso tempo, il risveglio e il più tremendo sonno della ragione. Lo Stato-nazione moderno è stato l’impasto dialettico di due correnti: il repubblicanesimo e il nazionalismo. Il repubblicanesimo ha immaginato una nazione di cittadini che si riconoscono liberi ed eguali nella formazione della volontà collettiva; il nazionalismo ha immaginato una nazione come comunità di destino, fondata sulla discendenza dallo stesso ceppo etnico, cioè su legami prepolitici.
Il primo ha incoraggiato il senso civico, il sentimento della libertà e della partecipazione, ha legittimato la democrazia; il secondo ha incoraggiato la disponibilità a combattere e a morire per la patria, ma anche il senso dello Stato e della sua indipendenza. Durante l’Ottocento romantico, come testimoniano anche i movimenti risorgimentali, il nazionalismo è stato un potente vettore del repubblicanesimo e dell’affermazione dei principi universalistici della democrazia. Emblematica di questa convergenza è la figura di Mazzini, ad esempio. Ma questa complementarietà è stata drammaticamente spezzata dalla strumentalizzazione del mito nazionale, messo prima al servizio dell’imperialismo e della politica di potenza dalle élites politiche europee tra il 1871 e il 1914 e, poi, da Mussolini e Hitler, al servizio di un progetto totalitario, completamente incompatibile con i principi repubblicani. -Nella seconda metà del Novecento, dopo i disastri del nazionalismo bellicoso e totalitario e con l’avvento di società multiculturali e multietniche, l’idea di democrazia repubblicana si è sganciata da un concetto “romantico” di nazione intesa come entità naturalistica, che ha conosciuto un progressivo declino. Ed è da qui che deve ripartire e alimentarsi l’idea europea.
La seconda tesi è quella che vede il compimento dell’integrazione politica europea solo nella costruzione di un super-Stato, cioè di uno “Stato federale europeo”. Habermas si professa un eurodemocratico, ma non un eurofederalista.
A suo avviso, la sfida futura di fronte all’Unione europea è di costruire qualcosa di storicamente inedito. Vale a dire, una democrazia sovranazionale fondata su un doppio binario: i cittadini europei che formano discorsivamente la loro volontà attraverso una sfera pubblica informale e istituzionalizzata, che ha il suo vertice in partiti transnazionali e nel Parlamento europeo; i popoli-di-Stati europei che formano discorsivamente la loro volontà con la mediazione dei rappresentanti di governo e degli Stati nel Consiglio europeo e nella Commissione.
La stessa persona partecipa, quindi, a questo nuovo consorzio, secondo procedure democratiche giuridificate, sia come cittadino dell’Ue sia come cittadino dello Stato membro, che continua ad avere il ruolo di garante dei diritti e delle libertà attraverso le costituzioni nazionali.
Habermas non trascura di esaminare le implicazioni sul piano dell’architettura istituzionale comunitaria di questo approccio: “Il Parlamento europeo dovrebbe poter varare iniziative di legge. La procedura legislativa cosiddetta ordinaria - richiedente l’accordo di entrambe le camere - dovrebbe potersi estendere a tutti i settori della politica.
Nello stesso tempo il Consiglio europeo (cioè l’assemblea dei capi di governo), dopo aver goduto finora di una posizione semi-costituzionale, dovrebbe essere incorporato nel Consiglio dei ministri. E infine la Commissione dovrebbe assumere i compiti di un vero governo, egualmente responsabile sia verso il Consiglio sia verso Parlamento. Con questa trasformazione dell’Unione in una comunità sovranazionale che risponde a criteri democratici, entrambi i princìpi della eguaglianza-degli-stati e della eguaglianza-dei-cittadini verrebbero soddisfatti in maniera paritetica. Nella simmetrica partecipazione di entrambe le “camere” al processo legislativo, così come nella simmetrica posizione di Parlamento e Consiglio nei riguardi dell’esecutivo, si rifletterebbe la volontà democratica di entrambi i soggetti costituenti.” (“Micromega”, 2014).
Questo modello diventerebbe per Habermas anche pilota rispetto a un’associazione sovranazionale di cittadini e dei popoli su scala mondiale, poiché “la concezione, sviluppatasi sull’esempio dell’Unione europea, di una cooperazione costituente fra cittadini e Stati indica la via lungo la quale l’esistente comunità internazionale di Stati intorno alla comunità dei cittadini del mondo potrebbe essere portata a compimento in una comunità cosmopolitica” (Questa Europa è in crisi, Laterza 2012).
Una strada ancora lunga e impervia, ma questo ci rimane da fare: o approfondire politicamente l’unione e contribuire così alla società mondiale e alle sue strategie per fronteggiare le crisi globali (ecologiche, sanitarie, economiche, sociali e tecnologiche) o, tornando divisi, ridurci a una “piccola Svizzera museificata”.
Fino a che punto possiamo interpretare?
Da Foucault a Eco
di Francesco Bellusci (DoppioZero, 05 marzo 2017)
Cinquant’anni fa uscivano in Francia gli atti del Colloquio di Royaumont, svoltosi tre anni prima, che avrebbero segnato i destini della filosofia “continentale” all’insegna della Nietzsche-Renaissance: una rinascita dell’interesse per la figura e l’opera di Nietzsche, definitivamente riscattato dalle strumentalizzazioni naziste, preparata anche dalla pubblicazione nel 1961 del poderoso corso di Heidegger e, soprattutto, dall’edizione critica nel 1964 delle opere di Nietzsche, curata da Giorgio Colli e Mazzino Montinari. Tra gli interventi di quel convegno, quello di Michel Foucault, che, ricordiamolo, poco prima di morire sulle pagine di Les Nouvelles littéraires dichiarerà di essere sempre stato “semplicemente un nietzschiano”, presenta una singolarità. Nietzsche, nel saggio, è in compagnia degli altri “maestri del sospetto”, Marx e Freud, che, a differenza di Ricoeur, non sono visti da Foucault tanto come coloro che dubitano della coscienza trasparente a se stessa, di cartesiana memoria, e l’allargano demistificandone i pregiudizi o i condizionamenti che su di essa operano l’ideologia borghese, le pulsioni libidiche o i valori della tradizione morale e metafisica. Gli autori della Nascita della tragedia e della Genealogia della morale, del Capitale e dell’Interpretazione dei sogni non mettono in campo un soggetto che accede a una verità più profonda di se stesso, ma un nuovo sistema di interpretazione, una nuova possibile ermeneutica, che coglie il senso profondo nell’esteriorità, che decifra, cioè, i segni disposti sulla “superficie” dei rapporti di produzione, dei sintomi e dei lapsus, delle pulsioni vitali alla base di sentimenti morali, idee, valori, che trascendono il soggetto e lo costituiscono. Ma, nello stesso tempo, Marx, Freud e Nietzsche, che fa da capofila in questo, ci consegnano questo compito dell’interpretazione come infinito, senza la possibilità di un compimento che attinga un’origine o un fondamento ultimo. Infatti, scrive Foucault, “se l’interpretazione non può mai giungere a compimento, è semplicemente perché non c’è niente da interpretare. Non c’è niente di assolutamente primario da interpretare, perché in fondo, tutto è già interpretazione, ogni segno è in se stesso non la cosa che si offre all’interpretazione, ma interpretazione di altri segni”.
Quindi, ogni interpretandum è di per sé già intepretans. Così, Marx interpreta i meccanismi del capitalismo interpretati come “naturali” dall’economia politica classica; Freud scopre dietro i sintomi non traumi originari ma fantasmi carichi di angoscia, che sono già nodi interpretativi. In questa prospettiva, l’interpretazione è obbligata ad auto-interpretarsi sempre e a investire l’interprete stesso, chi ha posto l’interpretazione, in un gioco di rimandi speculari e di inversioni (ma anche di lotte), per cui, se Marx ha ragione, Nietzsche è un fenomeno della borghesia del suo tempo, oppure, se Freud ha ragione, bisogna indagare l’inconscio di Nietzsche. E così via. Pertanto, se l’interpretazione precede il segno e il segno è già un’interpretazione che non si dà come tale, “la morte dell’interpretazione - concludeva Foucault - è credere che ci sono dei segni che esistono primariamente, originariamente, realmente, come marche coerenti, pertinenti e sistematiche. La vita dell’interpretazione, al contrario, è credere che non ci sono che interpretazioni.
Mi sembra che bisogna comprendere bene questa cosa che troppi nostri contemporanei dimenticano: l’ermeneutica e la semiologia sono due feroci nemiche. Una ermeneutica che si pieghi di fatto su una semiologia crede all’esistenza assoluta dei segni: abbandona la violenza, l’incompiuto, l’infinità delle interpretazioni, per far regnare il timore dell’indizio, e sospettare il linguaggio. Riconosciamo qui il marxismo dopo Marx. Al contrario, un’ermeneutica che si avvolge su di sé entra nel campo dei linguaggi che non cessano di auto-implicarsi, la regione mitica della follia e del puro linguaggio. È qui che riconosciamo Nietzsche”. Si può dire che, per Foucault, l’evento della filosofia nietzschiana non coincideva con l’ultimo atto della storia della metafisica, secondo la nota lettura di Heidegger emersa in quegli anni, ma nell’approdo più consapevole e coerente di due “sospetti” che hanno sempre accompagnato le culture indo-europee: il sospetto che il linguaggio voglia dire altro rispetto a ciò che dice e il sospetto che ci sia linguaggio all’infuori del linguaggio. Fedele fino alle estreme conseguenze al “lieto messaggero” della morte di Dio, che decretò anche la fine della “cosa in sé” e dell’esistenza dei fatti in nome del gioco infinito e conflittuale delle interpretazioni, Foucault opponeva allora l’ermeneutica, con il suo portato demolitore rispetto alla concezione della verità come corrispondenza alle “cose” fuori di essa, alla semiologia di stampo desaussuriano, dove c’è un codice a stabilire l’equivalenza tra segno e significato già dati.
Sempre alla fine degli anni sessanta, Umberto Eco avviava però gradualmente una rifondazione della semiotica, facendo riferimento non tanto a De Saussure ma a Peirce, lungo la parabola che lo porterà, da La struttura assente (1968) al Trattato di semiotica generale (1975), a vedere nel segno ciò che interpreta un altro segno, a sua volta ancora interpretabile, in un processo illimitato di semiosi, che coinvolge sempre triadicamente il segno, l’oggetto e l’“interpretante”, inteso come costrutto culturale o convenzione socialmente pattuita. Ma, a differenza del Foucault di Royaumont, questo percorso conduce Eco a ritenere che la condizione di possibilità dell’ermeneutica stia nei limiti che l’essere o il reale pongono al discorso interpretativo piuttosto che nella loro assenza: “Se assumessimo che dell’essere si può dire tutto non avrebbe più senso l’avventura nella sua interrogazione continua. Basterebbe parlarne a caso. L’interrogazione continua appare ragionevole e umana proprio perché si assume che c’è un Limite” (Kant e l’ornitorinco, 1997). Infatti: davvero non c’è “nulla” da interpretare e non si dà mai un interpretandum? Davvero l’interpretazione è sempre risucchiata in un circolo infinito nel quale può solo riprendere continuamente se stessa e generarsi, per così dire, per partenogenesi? Se non c’è una “realtà” che si offra all’interpretazione per essere decifrata nel suo senso ultimo, non c’è forse almeno una realtà che c’impedisce certe interpretazioni e certi percorsi di senso?
È proprio quest’ultima, infatti, la tesi di Umberto Eco. Una certa conformazione del nostro corpo c’impedisce d’interpretare il cacciavite come qualcosa di utile per grattarci un orecchio; l’esperienza c’impedisce di interpretare un grave come qualcosa capace di muoversi alternativamente verso il pavimento o il soffitto della nostra casa (lo può fare un poeta, ma in riferimento a un mondo possibile). In questi casi, il reale si oppone e resiste a certe nostre interpretazioni, che dovranno prendere altre direzioni; in altri termini, non c’è una “cosa in sé”, ma di sicuro si manifesta una “cosa che dice no”. In conclusione, per Eco, “ogni ipotesi interpretativa è sempre rivedibile (e come voleva Peirce sempre esposta al rischio del fallibilismo) ma, se non si può mai dire definitivamente se una interpretazione sia giusta, si può sempre dire quando è sbagliata. Ci sono interpretazioni che l’oggetto da interpretare non ammette” (Di un realismo negativo, 2012).
Ma a parte la differenza sul modo di intendere, in senso assoluto o limitato, il compito infinito dell’interpretazione, è indubbio che entrambi, Foucault ed Eco, hanno incarnato con il loro lavoro non solo scientifico, ma giornalistico, civile e politico, due esempi di quel “coraggio di dire il vero”, inteso come abito intellettuale e comportamentale, di quello stile parresiastico, in attrito con il “vero” imposto dai poteri dominanti e dall’ordine del discorso, a cui Foucault s’interessò anche nei suoi lavori genealogici, durante i corsi al Collège de France, poco prima della morte.
Questo sì, da intendere a maggior ragione come un compito infinito, per Foucault, perché, come dichiarò in una delle sue ultime interviste, “niente è più inconsistente di un regime politico che è indifferente alla verità; ma niente è più pericoloso di un sistema politico che pretende di prescrivere la verità. La funzione del ‘dire il vero’ non deve prendere la forma della legge, così come sarebbe vano credere che risieda a pieno titolo nei giochi spontanei della comunicazione. Il compito del dire il vero è un lavoro infinito: rispettarlo nella sua complessità è un obbligo di cui nessun potere può fare economia. Salvo il caso in cui s’imponga il silenzio della servitù” (Le souci de la verité, “Magazine littéraire”, maggio 1984).
FILOSOFIA, MATEMATICA E REALTA’: IMPARARE A CONTARE!!! Una nota in memoria di PRIMO MORONI ...
PLAUDENDO AL VOSTRO "SPECIALE MATEMATICA E REALTÀ", in ottima corrispondenza con l’incontro filosofico del 22 pv (“Realismo Metafisica Modernità”, Aula Biblioteca Guglielmo Marconi - Piazzale Aldo Moro 7, Roma),
PREMESSO CHE il “LOGOS” non è un “NUMERO” (cfr. CONTARE E PENSARE... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4963) e, convinto che occorra legare insieme FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA (cfr. ATENE/EUROPA ... https://www.alfabeta2.it/2017/02/16/ateneeuropa-volare-sullabisso/#comment-625400),
COME CONTRIBUTO al lavoro della Redazione di ALFABETA2 e del SUO CANTIERE, ripropongo qui UNA DOMANDA AI MATEMATICI: COME MAI “UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO”?! Non è il caso di ripensare i fondamenti?! (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3995)
e un mio breve lavoro
in memoria di PRIMO MORONI:
CHI SIAMO NOI, IN REALTÀ?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4198).
BUON-LAVORO!!!
Federico La Sala (18.02.2017)
2)
MATEMATICA, REALTÀ, E CREATIVITÀ. Un omaggio ad “Alfabeta - 1”, “Alfabeta - 2“, e un contributo ai lavori del Cantiere ...
Realismo e Metafisica. A voler rendere meno sintetico ed ellittico il discorso, e a raccordare l’ieri con l’oggi, “ALFABETA 1” con “ALFABETA 2” e il CANTIERE, mi sia consentito richiamare, due miei interventi: il primo sugli atti di un convegno eccezionale sugli “stati generali” del realismo scientifico e filosofico - LIVELLI DI REALTÀ (“Alfabeta”, 66, 1984) e, insieme, il secondo sul “grande scontro” tra razionalismo fondazionalistico e razionalità antifondazionalistica - FILOSOFI CATTOLICI IN POLEMICA (“Alfabeta”, 108, 1988), intorno al lavoro del filosofo cattolico Dario Antiseri, vicino al “pensiero debole” ieri e vicino a studiosi e ricercatori (cfr. il suo contributo “L’universo incerto della ragione umana”, nel volume collettaneo “I modi della razionalità”, Mimesis Edizioni, 2016, pp. 29-45) di questi anni recenti, sino ad oggi.
REALISMO E MODERNITÀ. RIPRENDENDO A “CONTARE”, e portando alla luce del sole (dalla caverna o, se si vuole, da “interi millenni” di labirinto) il legame profondo tra filosofia, matematica, e antropologia, si arriva a comprendere di nuovo e meglio che della razionalità, come dell’essere, si può parlare “in molti modi” - non in un solo modo (quello mono-logico ed ego-latrico, con le sue platonizzanti pretese: “Io, Platone, sono la Verità”). E, altrettanto, come sia possibile riportare - FILOSOFICAMENTE E ANTROPOLOGICAMENTE - la vita e la ricerca sulla strada aperta da ARISTOTELE (al di là di ogni tomistica e neotomistica illusione: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3617#forum3121791) e illuminata da KANT (oltre ogni scetticismo e ogni idealismo-materialismo: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829), definitivamente, fuori dall’orizzonte della creatività “andropologica” dell’ “uomo supremo”, del “superuomo” e della sua società a “una” dimensione.
N.B. - L’uscita dallo “stato di minorità” è all’ordine del giorno già dal 1784...
BUON-LAVORO!!!
Federico La Sala (19.02.2017)
* DUE NOTE A MARGINE DELLO "SPECIALE MATEMATICA E REALTÀ" DI ALFABETA2.
Politica della post verità o potere sovralegale?
di Ugo Morelli *
Gli orientamenti politici e gli esiti delle decisioni collettive sfidano oggi le tradizionali categorie della psicologia del potere. L’opinione pubblica alla base delle scelte si forma per vie che sfuggono alle forme conosciute e le campagne elettorali sono costruite al di fuori del mondo dei fatti. Non solo, ma chi sceglie in un certo modo, concorrendo a esiti determinanti anche per il proprio presente e il proprio futuro, sembra cambiare idea un momento dopo, a fatti compiuti e, almeno per un certo tempo, irreversibili.
Viene sempre più spesso in mente Winston Churchill e la sua affermazione sulla difesa della democrazia «purché non voti mia suocera». Una provocazione alla sua maniera che comunque induce a interrogarsi sul presente della democrazia e delle forme di esercizio del potere. A fare affermazioni senza prove e senza logica; smentendole immediatamente dopo o cambiando versione continuamente, si ottiene seguito e consenso e viene da chiedersi come sia possibile.
Se consideriamo l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti d’America, la domanda da porsi è come abbia fatto una minoranza di americani a portarlo al potere. L’interrogazione è, perciò, su un deficit di democrazia e sulla perdita di democrazia partecipativa, come sostiene Judith Butler.
«Ci avviciniamo all’ipotesi che ci pare di poter sostenere: non siamo di fronte a un’epoca di post-verità, bensì all’affermazione di forme di potere sovralegale», come le aveva definite Carl Schmitt.
L’uso del sistema democratico per prendere il potere e appropriarsene da parte di chi democratico non è, né nello stile né nella sostanza, mentre è comunque in grado di ottenere il consenso soprattutto di chi è in tutt’altra condizione, consente un accentramento del potere che non sarebbe concepibile in situazioni di una almeno relativa democrazia partecipativa. È necessario considerare la dematerializzazione e la virtualizzazione dell’esperienza per cercare di comprendere alcune delle vie di creazione del consenso e di affermazione del potere oggi. Si tratta, ad esempio, di riprendere quello che Jean Baudrillard scriveva parecchi anni fa:
I fatti non contano e la loro rappresentazione narrata predomina e vince. Come sostiene Judith Butler in un’intervista a Christian Salmon, apparsa il 24 dicembre 2016 su Robinson, parlando delle elezioni di Donald Trump e dei contenuti delle sue affermazioni:
Da tempo ci siamo resi conto di vivere in un’epoca in cui non disponiamo più di verità indiscutibili e la nostra condizione, come ampiamente segnalato da un profondo filosofo come Aldo Giorgio Gargani, è quella di chi è passato dalla verità al senso della verità. Secondo Giorgio Agamben: «La civiltà che noi conosciamo si fonda innanzitutto su una interpretazione dell’atto di parola, sullo ‘sviluppo’ di possibilità conoscitive che si considerano contenute e ‘implicate’ nella lingua» (Che cos’è la filosofia?, Quodlibet 2016). L’uso della lingua e soprattutto i suoi effetti non sono determinabili a priori. Vi è una dimensione performativa che piega i significati a seconda delle contingenze.
Accade per esempio oggi che la parola sicurezza sia usata efficacemente per ridurre e decimare i diritti democratici di libertà e, per molti aspetti, la democrazia stessa. E non accade senza consenso. Chi predica la sicurezza dà voce ad aspettative che sono poi alla base di ampi consensi. Sulla consapevolezza delle conseguenze di quel consenso si potrà discutere, ma intanto si produce una legittimazione di un sistema di potere. Sarà pure una minoranza della popolazione americana ad aver portato Trump al potere; rimane il fatto che c’è riuscita affermando le proprie aspettative profondamente antidemocratiche di vivere e agire al di sopra della legge.
Appare evidente che entrano in campo emozioni arcaiche e primordiali sollecitate e amplificate da mezzi virtuali contemporanei che non governiamo, ma ci dominano. Nel momento in cui, in modo confuso e contraddittorio, un leader libera l’odio, invita a usare la cosiddetta pancia per scegliere, legittima la possibilità di esprimere la collera senza limitazioni, rende dichiarabile e proponibile il razzismo, ognuno può sentirsi libero di tirar fuori le viscere. L’arcaismo emozionale e la pratica del voto con lo stile immediato e pratico del “mi piace”/ “non mi piace” di Facebook, producono una miscela sostenuta dalle vie mediatiche, in grado di mettere in discussione le forme della democrazia così come la conosciamo.
I processi di identificazione immediati generano dinamiche di “altercasting” e nel momento in cui le persone si riconoscono in un modo di essere e di fare volendo essere come il leader, non ci sono più disposizioni a verificare la verità delle affermazioni o la fattibilità delle proposte, ma solo adesione massiva e conformista, come abbiamo mostrato nella voce Conformismo.
Ma perché le persone aderiscono? Probabilmente ciò accade per emulazione e per paura. Un leader può guadagnarsi l’ammirazione per aver trovato il modo di non pagare le tasse o per il fatto di riuscire ad avere tante donne a disposizione, molestie sessuali incluse. Il leader va dove vuole, fa quello che vuole e prende quello che vuole. Chi vota vorrebbe essere come lui. Ciò però non basta. L’emulazione riguarda anche la corporeità, la gestualità, la teatralità delle espressioni e la corrispondenza a un modello mediatico stereotipato. Come ha mostrato Marco Belpoliti ne Il corpo del capo , il corpo si afferma come metafora e come forma di esercizio del potere, in particolare nelle modalità totalitarie. La forza attrattiva dei gesti e la loro capacità di coinvolgimento, soprattutto nelle performance comunicative, mostra di essere una componente non secondaria del potere sovralegale.
Accanto a questi fattori e impastandoli di un clima particolare, agisce la paura. Sia la paura suscitata ad hoc enfatizzando fenomeni del tempo come l’immigrazione, il pericolo derivante dagli emarginati o da forme di rivolta, le donne, i disoccupati, i diversi di ogni tipo; sia la paura indotta dai rischi del presente e dalla cosiddetta società del rischio.
Il rapporto tra il potere che non si basa sulla legittimazione, sulla dimostrazione dialogica dei fatti e sulla critica reciproca, ma si situa al di sopra della legge; il rapporto tra quel potere e la paura è stato molto ben descritto da Herta Müller, premio Nobel per la letteratura, a proposito delle continue visite che riceveva a casa dai servizi segreti:
«Mia madre chiese: che cosa vogliono da te?
Risposi: paura.
Era vero. Questa breve parola si spiegava da sé. Perché l’intero Stato era un apparato della paura. C’erano i sovrani della paura e il popolo della paura. Ogni dittatura è formata da chi incute paura e dagli altri, che hanno paura. Da chi vuole farti paura e chi morde per paura. Ho sempre pensato che la paura sia lo strumento quotidiano di chi vuole metterti paura e il pane quotidiano di chi, per paura, morde».
La paura da centralizzata si è fatta diffusa e dà vita a forme di potere non semplicemente riconducibili né ai fascismi storici e neppure alla post-verità.
Abbiamo due volte paura di questi tempi: paura per sé e per gli altri e paura dell’altro. E la maggior parte delle persone contribuisce ad alimentare la paura portandosela con sé, oltre a cercare di ottenere dalla paura propria e altrui il massimo vantaggio. Gestire la paura non è altro che il preludio all’ubbidienza.
C’è un’epidemiologia del potere che si basa su un particolare tipo di collusione tra chi domina e chi è dominato; su un forte accentramento e su un monopolio della comunicazione: tutto è reso possibile dal fatto che la maggioranza delle persone usa subendoli i social network, il sistema mediatico e i molteplici canali di informazione e comunicazione. Più che una post-verità sembra affermarsi una surverità, un potere sovralegale che non è raggiungibile con gli strumenti della critica e del conflitto politico come finora li abbiamo conosciuti.
* DOPPIOZERO, 18 febbraio 2017
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ATENE/EUROPA. VOLARE SULL’ABISSO: THE DESTRUCTION OF EUROPE. La fine del mondo ...
SE PENSIAMO (anzi, Bifo SE PENSI!) CHE IL LAVORO di Ernesto de Martino,”La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali”, è stato pubblicato (a cura di Clara Gallini) dall’Einaudi nel 1977, e che nel 1979 uscì uno straordinario lavoro di Elvio Fachinelli, “La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3263), ci rendiamo conto in quale “abisso di oscurità” siamo scivolati, e come e quanto - nonostante la diffusa ripresa dei lavori e i vari “cantieri” aperti (si cfr., ad es., la lodevolissima rivista dell’Associazione Internazionale “Ernesto De Martino”, “NOSTOS”: http://rivista.ernestodemartino.it/index.php/nostos) - SIA NECESSARIO ripartire dal nostro presente e camminare sulla strada dell’antropologia della storia (non dalla storia dell’antropologia!), da Kant (come ha indicato anche l’ultimo Foucault e, già anche Giambattista Vico! - come aveva cominciato a capire Enzo Paci, al di là di Benedetto Croce!) e, anche, dai contributi di Ernesto De Martino ed Elvio Fachinelli! O no?! (Federico La Sala).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA:
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829
Federico La Sala
DOPO AUSCHWITZ. Dialogo tra un teologo e uno psicologo: Pinchas Lapide e Viktor Frankl. "Entrambi ebrei, entrambi sopravvissuti ai lager: e l’Olocausto sempre lì, con i suoi interrogativi" (Marco Roncalli)
Viktor Frankl, L’amore per la vita, nonostante tutto. Si riproduce l’introduzione a Viktor E. Frankl, L’uomo alla ricerca di senso. Uno psicologo nei Lager e altri scritti inediti (Daniele Bruzzone - Alfabeta2, 27.01.2017)
"DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI". GENERE UMANO: I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE!!! NON SOLO SUL PIANO TEOLOGICO-POLITICO, MA ANCHE ... ANTROPOLOGICO!!!
L’uomo che apre le porte dei capolavori vaticani: “Ho le chiavi del paradiso”
Gianni Crea è il capo dei clavigeri dei musei della Santa sede. "Ogni mattina, quando entro nella Cappella Sistina, mi sento un privilegiato"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 gennaio 2017)
CITTÀ DEL VATICANO. "L’alba è il momento più magico. Entro nel bunker che custodisce le 2797 chiavi dei musei vaticani. Quando non ci sono gli addetti della sagrestia pontificia, tocca a me prelevare l’unica chiave che non ha numero né copie. È un modello antico come la porta che apre, quella della Cappella Sistina. Giro la serratura della Cappella, quella stessa che sigilla i cardinali in conclave, per pochi istanti mi sento investito da una meraviglia che non è facile spiegare. M’inginocchio, mi segno, e dico una preghiera in solitudine. Chiedo che tutti i visitatori che di lì a poco entreranno possano provare il medesimo stupore. Sono un privilegiato, ne sono consapevole. E so che di questo privilegio devo esserne sempre degno".
Gianni Crea, 45 anni, romano ma originario di Melito di Porto Salvo, in provincia diReggio Calabria, è capo clavigero dei musei vaticani. In sostanza, ha il compito di aprire e chiudere tutte le porte e le finestre, 500 in tutto, 300 del percorso dei visitatori e 200 dei vari laboratori collegati. A vent’anni il parroco della chiesa che frequentava sulla via Appia gli chiese se voleva lavorare nella basilica vaticana come custode ausiliario. La Fabbrica di San Pietro in cambio avrebbe contribuito ai suoi studi. Accettò.
Qualche anno dopo, giovane studente di giurisprudenza con il sogno di diventare magistrato, partecipò a un concorso per diventare a tutti gli effetti custode. Per un anno lo osservarono, per valutare se fosse idoneo: puntualità, discrezione e serietà le principali doti richieste. Venne preso: "Da adesso - gli dissero - devi sempre ricordare dove ti trovi. Lavori nel centro della cristianità. I dieci comandamenti devono diventare il tuo secondo vestito". Una richiesta "non da poco", dice. "Tuttavia sono contento di non disattenderla".
Più immaginifica fu, invece, la consegna che gli fece Antonio Paolucci, fino a poche settimane fa direttore dei musei, quando da semplice clavigero venne nominato capo. "Adesso sei tu ad avere simbolicamente in mano le porte del Paradiso", gli disse per fargli comprendere la responsabilità a cui era chiamato. Con lui, infatti, collaborano altri dieci clavigeri che si dividono il lavoro in due turni, una metà dalle 5.30 del mattino alle due del pomeriggio. Gli altri fino a sera tardi. "Da quel momento il Vaticano è diventata la mia seconda casa - dice - Conosco le chiavi come le mie tasche. Ogni porta apre un mondo per me e per tutti i clavigeri familiare. Dietro ogni porta c’è un odore particolare, un profumo, riconoscibile soltanto da noi".
L’apertura e la chiusura di porte e finestre sono momenti entrambi delicati. Alle 5.30 la Gendarmeria di Porta Sant’Anna toglie l’allarme e il clavigero di turno procede con un lungo giro che dura quasi un’ora e mezzo. Dopo ogni apertura c’è il controllo che ogni cosa sia in ordine. "Se ad esempio si rompe un tubo dell’acqua - racconta - spesso tocca a me chiamare l’idraulico". Negli ultimi anni i visitatori dei musei sono parecchio aumentati, 28mila le sole presenze giornaliere in Sistina. Tutto deve essere perfetto. "Ma anche la chiusura non è facile. Bisogna controllare che nessuno rimanga all’interno. Gli imprevisti sono sempre possibili. Una sera chiudemmo tutto e di colpo suonò l’allarme. Accorremmo nella stanza nella quale veniva segnalata una presenza. Per fortuna era soltanto un passerotto rimasto dentro".
Il clavigero è l’erede delle chiavi del Maresciallo del Conclave, colui che fino al 1966 doveva sigillare le porte intorno alla Cappella quando i cardinali si riunivano per eleggere il Pontefice. La sua chiave non è l’unica a essere preziosa: c’è, ad esempio, la chiave numero 1, quella che apre il portone monumentale su viale Vaticano, che oggi è il portone d’uscita dei visitatori dei musei.
E poi c’è la 401, una delle più antiche: apre il portone d’entrata dei musei e pesa mezzo chilo. "Due chiavi decussate, cioè incrociate a X, appaiono negli stemmi ed emblemi dei papi - scrive Tiziana Lupi su "Il mio Papa" - Sono una d’oro (potere spirituale) e una d’argento (potere temporale); hanno i congegni traforati a croce e sono unite da un cordone, simbolo del legame tra i due poteri ". I musei sono divisi in quattro aree. Ad ogni area corrispondono dei numeri a cui le chiavi si riferiscono. Le chiavi con il numero 100 sono del museo etnologico, quelle col 200 sono del Gregoriano, eccetera...
"La gioia più grande in questi anni - dice ancora Crea - l’ho avuta pochi anni fa. Prima che morisse mia madre ha potuto assistere a una messa del mattino a Casa Santa Marta. Ha ricevuto una carezza dal Papa. Un piccolo gesto che per me ha significato molto".
UNA RISPOSTA A "SPECIALE C17":
IL POPULISMO DELLA POST-VERITA’, EPIMENIDE, E LA LEZIONE ITALO-AMERICANA. In memoria di Italo Calvino *
Siamo nella post-verità da sempre, a quanto pare!
SIAMO PROPRIO CONCIATI MALE, MALISSIMO!
Dopo ventanni di berlusconismo stiamo ancora a commentare i giochini di mentitori istituzionalizzati. E a riflettere sulle "spine del C17 - spine nel fianco di un pingue potere" (https://www.alfabeta2.it/2017/01/21/c17-spine-nel-fianco-un-pingue-potere/).
DOPO IL 1917, E DOPO IL 1922, ANCORA NON SAPPIAMO NULLA DELLA "MORTE NERA" (cfr.: Massimo Palma,"Waler Benjamin, l’inquilino in nero", cfr.: https://www.alfabeta2.it/2017/01/11/walter-benjamin-linquilino-nero/) E DELLA MISTICA FASCISTA (cfr.: mia nota a "Infanzia salentina", pagine del lavoro di Nicola Fanizza, "Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini" - https://www.nazioneindiana.com/2017/01/21/infanzia-salentina/).
Tanto tempo fa, in un’isola del Mediterraneo, un tale chiamato EPIMENIDE (con questo nome è rimasto nella storia, come persona degna di essere ricordata per la sopravvivenza della stessa isola), indignato contro i suoi stessi concittadini (che evidentemente lo accusavano di chissà quali malefatte), fece il primo passo nella terra della post-verità, gridò infuriato: "Tutti i cretesi mentono"! Se molti risero, altrettanto molti lo applaudirono.
Qualche anno dopo, sempre in quell’isola, ci furono le elezioni: tra i partiti (quello che la storia non ci ha tramandato) comparve uno strano partito, con il nome "Forza Creta", e il leader era proprio il vecchio EPIMENIDE!
CONQUISTATO IL POTERE LEGALMENTE, IL SUO GRIDO AI CRETESI CHE AVEVANO RISO DELLA SUA "BATTUTA" FU QUASI SIMILE A QUELLO DI BRENNO CONTRO I ROMANI SORPRESI NEL SONNO, ANZI, NEL SONNAMBULISMO: "GUAI AI VINTI"!
SOLO CHE A ROMA CI FURONO LE OCHE CHE SVEGLIARONO UN POCO TUTTI E I GALLI FURONO CACCIATI, MA A CRETA ALLA FINE NESSUNO PIU’ OSO’ RIDERE E ... "TUTTI I CRETESI MENTONO" ANCORA!!! A MEMORIA (E A VERGOGNA) ETERNA.
Federico La Sala
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
ALFABETA2 - Speciale C 17
ALFABETA2 - Walter Benjamin, l’inquilino in nero (Massimo Palma)
NAZIONE INDIANA - "Infanzia salentina", un estratto del libro di Nicola Fanizza Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini, edizioni del Sud, 2016
NAZIONE INDIANA - La lezione americana della post-verità “alternativa ( Anatole Pierre Fuksas)
MADDALENA SANTORO, ARNALDO MUSSOLINI, E I LIBRI DI STORIA:
SU ***NAZIONE INDIANA*** sotto il titolo di "Infanzia salentina" è stato ripreso il primo capitolo di un libro di grande interesse: Nicola Fanizza, Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini. La storia d’amore che il duce voleva cancellare, Ediziioni Dal Sud, Bari 2016.
NON è CHE L’INIZIO! BENE! CONTINUARE LA LETTURA!!! E non fermarsi al primo "libro"! Il "carteggio" della seconda parte (pp. 109-154), è un altro "libro": le 32 lettere che Maddalena Santoro, invia, dal 1919 al 1938, all’amica di Mola di Bari, Caterina Tanzarella, sono dei documenti storici di grande rilevanza, per sapere di più e meglio sia di questa donna salentina, intellettuale e scrittrice, fedele a se stessa e alla sua amica (e alla sua famiglia), sia del fratello del Duce, "il fratello di un Grande Fratello" (che, se "preferì restare nell’ombra", come scrive Indro Montanelli nel novembre del 2000 - cfr. "Il fascino di Arnaldo Mussolini": http://www.corriere.it/solferino/montanelli/00-11-09/01.spm, non per questo deve continuare a restarvi).
Il coraggioso e originale lavoro di Fanizza, sia per la qualità della sua scrittura sia della sua preziosa documentazione storica sulla "storia d’amore che il duce voleva cancellare", è una formidabile occasione per riprendere una "vecchia" indicazione di Luisa Passerini(in una sua relazione nel convegno a Bologna nel 1993, su "Il regime fascista. Bilancio e prospettive di studio"): "coniugare la tradizione della storiografia antifascista sul fascismo con gli studi storici che adottano le categorie di genere e di generazione" e superare definitivamente la obsoleta prospettiva storiografica che voleva e vuole ancora "le questioni di genere e la storia delle donne come questioni separate e secondarie o come questioni che hanno a che fare più col sociale che col politico"(cfr.: AA.VV, "Il regime fascista. Storia e storiografia", a c. di Angelo Del Boca, Massimo Legnani e Mario G. Rossi, Laterza, Bari 1995, pp. 498-506). E riguardare l’intera storia della società (e dell’umanità intera!) con due occhi, non con un occhio solo!
DA NOTARE che in quello stesso Convegno (e si riconsideri il titolo e il tema) una - e dicesi: una! - sola volta è citato Arnaldo Mussolini e solo per problemi relativi al "connubio tra affari e politica" (op. cit., p. 133), e una e una sola volta (e proprio da Luisa Passerini) è citata Rosa Maltoni (p. 504), la madre sua e del "Grande Fratello", oggetto di "un culto molto ampio" durante il fascismo...
Federico La Sala
Una Risposta a Bertolt Brecht, l’intellettuale nell’epoca del mercato *
BRECHT E IL RITORNELLO DEI “TUI” DI IERI E DI OGGI. «Abbiamo appena salvato la cultura» ...
«Un vecchio riccone muore, soffrendo per la miseria del mondo nel testamento lascia una grossa somma per la fondazione di un istituto che studi la causa di questa miseria. La causa è ovviamente il vecchio riccone stesso» (B. Brecht).
IN OMAGGIO A “L’ORMA”, A FRANCESCO FIORENTINO, E AD “ALFABETA2”, CONTRO UN MONDO CONCEPITO COME “IL MONDO COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE” DEL *MACROANTROPO* (“UOMO SUPREMO”, “SUPERUOMO”, “DOMINUS IESUS”), CON TUTTA LA SUA FILOSOFIA, TEOLOGIA POLITICA, E “ANDRO-PO-LOGIA” ATEA E DEVOTA.... ho ripreso in collegamento con LA RISATA DI KANT (si cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5028) la brillante recensione di Fiorentino e sottolineato con alcune note (si cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5028#forum3119870) l’importanza del discorso di Brecht sul ritornello dei “TUI” di ieri e di oggi.
Federico La Sala (Alfabeta2, 15 gennaio 2017).
Normalità
di Giovanni De Mauro, direttore di Internazionale *
John Broich è uno storico statunitense che insegna alla Case Western Reserve university, in Ohio. Studiando materiale d’archivio e diversi saggi usciti negli ultimi anni, ha cercato di ricostruire in che modo la stampa statunitense raccontò l’arrivo del fascismo e del nazismo in Europa. Tra il 1925 e il 1932 sui giornali americani uscirono almeno 150 articoli che parlavano di Benito Mussolini. In quegli anni il regime era già chiaramente violento e autoritario, ma il tono degli articoli è neutro se non addirittura positivo. Nel 1928 il Saturday Evening Post pubblicò a puntate tutta l’autobiografia di Mussolini.
I giornali spiegarono che i fascisti avevano salvato l’Italia dagli estremisti di sinistra e avevano rilanciato l’economia. Il New York Times scrisse che il fascismo avrebbe fatto tornare l’Italia, tradizionalmente turbolenta, alla “normalità”. Il modo in cui la stampa descrisse Mussolini ebbe un’influenza su come poi raccontò l’arrivo al potere di Adolf Hitler, definito nei giornali americani il “Mussolini tedesco”. Il leader nazista venne dipinto come una macchietta, che urlava in modo ridicolo frasi senza senso. “Ricorda Charlie Chaplin”, scrisse Newsweek. “Sembra una barzelletta”, è “volubile” e “insicuro”, scrisse Cosmopolitan.
Quando diventò cancelliere, nel 1933, molti commentatori sostennero che non sarebbe durato a lungo o che, una volta al potere, avrebbe assunto toni più moderati. “Hitler ha il sostegno di elettori impressionabili”, scrisse il Washington Post. Ora che è al governo “diventerà evidente all’opinione pubblica tedesca la sua inconsistenza”.
Tranne poche eccezioni, alla fine degli anni trenta quasi tutti i giornalisti statunitensi si erano resi conto del loro errore di valutazione. Dorothy Thompson, che nel 1928 aveva definito Hitler un uomo di “sorprendente insignificanza”, nel 1935 ammise che “nessun popolo riconosce un dittatore in anticipo”, perché “non si presenta alle elezioni con un programma dittatoriale” e “si definisce uno strumento della volontà nazionale”. E aggiunse: “Quando un dittatore arriverà da noi, di sicuro sarà uno dei nostri, e starà dalla parte di tutto quello che è tradizionalmente americano”.
di Franco Berardi Bifo (alfapiù, 21 gennaio 2017)
In singolare e spiritosa coincidenza con l’inizio della prima presidenza del Ku Klux Klan, comincia oggi a Roma una conferenza dal titolo C17. Si svolge in parte al centro sociale ESC, dove parlerà una folta schiera di pensatori contemporanei, da Saskia Sassen a Silvia Federici a Christian Marazzi e tanti altri. E in parte si svolge alla Galleria d’arte moderna dove ci saranno performance di vario genere, a cominciare con Franco Piperno che ci insegna come leggere il cielo e ci racconta come si è letto il cielo nel corso dei secoli e dei millenni. Guardare il cielo in modo consapevole e immaginativo è il modo migliore di cominciare, perché così il tema del comunismo si ripresenta nella sua cornice più vasta, quella che contiene la sensibilità, l’immaginazione e il desiderio (che d’altra parte è parola che scende etimologicamente dalle stelle).
La questione del comunismo ritorna?
Il comunismo del ventesimo secolo è morto, questo è fuori discussione.
La tragedia del secolo passato ha avuto tre attori protagonisti: il comunismo il fascismo e la democrazia. Il fascismo apparve sconfitto, morto e sepolto dopo la fine della seconda guerra mondiale. Poi venne l’epoca della guerra fredda: i due attori sopravvissuti si contesero l’egemonia sul mondo fino al collasso finale del comunismo sovietico e al trionfo della democrazia.
Il comunismo apparve allora definitivamente liquidato, irreversibilmente condannato perché la democrazia prometteva di rispondere alle domande cui il comunismo sovietico non aveva dato risposta: benessere, pace, allegria.
Il decennio novanta cominciò però subito con una spiacevole sorpresa. Invece della pace promessa la democrazia americana lanciò la guerra nel Golfo.
E nel secolo nuovo anche la promessa di benessere economica è andata svanendo, così che la miseria si è diffusa insieme alla rabbia e all’impotenza.
Molti hanno allora cominciato a pensare che la democrazia non può convivere a lungo con il capitalismo senza diventare un’odiosa ipocrisia.
L’odio per l’ipocrisia democratica ha allora riportato il fascismo sulla scena.
E poiché le sorprese non finiscono mai, in pochi anni partiti razzisti, autoritari quando non apertamente fascisti si sono impadroniti del potere in gran parte del mondo.
Hitler ritorna? Se ritorna è moltiplicato per dodici e per di più ha la bomba nucleare. E poiché la democrazia si è rivelata un’illusione, una maschera dietro cui si nasconde la violenza economica del capitalismo finanziario globale, dobbiamo riconoscere che il comunismo è urgente.
L’urgenza la sentono molti, forse la maggioranza della società, ma molto pochi chiamano quest’urgenza con il suo vero nome: comunismo.
La sofferenza si diffonde, ma pochi sanno che la cura non è farmacologica, perché la cura si chiama comunismo.
Artisti attivisti e pensatori si sono quindi dati appuntamento a Roma, e sarebbe bello se riuscissero a trovare parole, gesti e forme capaci di nominare questa urgenza.
Ci riusciranno?
Io sono andato a leggermi alcuni documenti che introducono questa conferenza e particolarmente le pagine che sono uscite sul Manifesto una settimana fa, una intervista di Benedetto Vecchi con Sandro Mezzadra e una di Francesco Raparelli con Toni Negri.
Confesso che entrambe queste interviste mi hanno molto deluso, come chi fosse invitato ad un pranzo succulento e si trovasse a dover sorbire un’insipida minestrina da ospedale.
Negri ci ha ripetuto negli ultimi anni che la moltitudine si oppone all’impero. Ma la moltitudine oggi si esprime votando per i peggiori nazionalisti o respingendo i profughi che fuggono dalla guerra e dalla fame, e costruendo campi di concentramento lungo le coste del Mediterraneo.
Ora, in questa intervista sul Manifesto dice che occorre trasformare la sofferenza del bisogno in un noi desiderante, e siamo tutti d’accordo naturalmente. Ma questa frase, che è il centro del suo ragionamento, è un’ovvietà poco interessante, perché vorremmo sapere come questo passaggio dalla miseria psichica e sociale dell’oggi può trasformarsi in solidarietà felice.
Mezzadra ripete alcune cose che abbiamo sentito mille volte negli ultimi anni ma sembra dimenticarsi che nel frattempo, proprio in questo ultimo anno, in questo maledetto anno dell’apocalisse 2016, tutte la parole degli ultimi decenni sono diventate vecchie perché il razzismo si è impadronito del governo del mondo.
Negri e Mezzadra (e tutti i documenti che introducono questo appuntamento C17) dimenticano di pronunciare il nome dell’uomo del Ku Klux Klan che proprio in questi giorni si insedia al governo del mondo.
La rimozione non ci sarà di nessun aiuto, eppure è sotto il segno della rimozione che questo appuntamento comincia.
La sintesi di queste interviste sembra essere in un titolo scelto dal Manifesto: I movimenti saranno una spina nel fianco del potere.
Ma questa sintesi è sconsolante. La spina? Il fianco? Ma di che stiamo parlando?
I movimenti sono scomparsi e non ritorneranno, perché sono stanchi di essere una spina in un fianco tanto pingue che della spina neppure se ne accorge.
Speriamo che questi giorni di discussioni e di sperimentazioni ci permettano di intravvedere un orizzonte un po’ più originale ed efficace di questo.
NOTA:
LE SPINE DEL "C17" 0 DEL "C22"?! CHI SIAMO NOI IN REALTA’?!
CONCORDO PIENAMENTE CON L’INTERVENTO DI BIFO ...
A PRIMO MORONI, IN MEMORIA. E ALLA SUA LIBRERIA "CALUSCA", IN UNA BREVE "LETTERA", nel marzo del 2000, così scrivevo:
=[...] "Caro Primo, su questa strada, mi sembra, è la via d’uscita (sul tema, cfr. Michael Walzer, Esodo e rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 1986) dall’Egitto capitalistico e la ‘chiave’, consegnataci dal Dio dei nostri padri e delle nostre madri, per entrare nella Terra... promessa e abitarla in spirito di pace, giustizia, e amicizia. Il comunismo è la cosa semplice, più difficile a farsi.
Dar vita a quello che Tu, nella piccola terra-libreria - lo specchio della tua identità e della tua libertà, il grande spazio aperto e accogliente della Calusca prima e della Calusca City Lights dopo, superando difficoltà e mai perdendo il coraggio e la lucidità, hai saputo far accadere, e mostrarne la possibilità: esseri umani che si incontrano nella libertà, nel rispetto reciproco, e, amichevolmente, fanno Uno (la Relazione Chiasmatica) e questo Uno illumina, spezza le catene e apre i recinti, trasforma le relazioni (a riguardo, ricordo la ‘magica’ giornata - una per tutte, simbolicamente - in cui, in [via] Conchetta, si presentò e si discusse il lavoro di Giorgio Antonucci, Critica al giudizio psichiatrico, Roma, Edizioni Sensibili alle foglie, 1993), e realizza un nuovo rapporto sociale di produzione (di esseri umani, di idee, e di cose), apre a una nuova, chiasmatica, prassi e a una nuova misura di tutti gli affari umani.
Nonostante gli inevitabili errori e inciampi, molti sono stati i LUMHI (Libera Università di Milano e del suo HInterland “Franco Fortini”), i nuclei di microutopie (cfr. Sergio Bologna, Due parole tanto per..., in AA. VV., Lezioni sul revisionismo storico, Cox 18 Books, Calusca City Lights, Milano 1999), da te accesi e disseminati per le strade (del mondo e) della Milano che fa male [...]
Forse è bene riprenderla e rileggerla, questa Lettera. Il suo titolo è proprio sul tema "Chi siamo noi in realtà. Relazioni chiasmatiche e civiltà" (cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3920). E, fondamentalmente, non lo sappiamo ancora!
Federico La Sala
PER NON PERDERE IL FILO... *
STORIA E STORIOGRAFIA: IMMANENZA E TRASCENDENZA. "In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla" (Walter Benjamin):
L’ATLANTE DEL "PARADISO IN TERRA", BOLOGNA, DANTE, E LA "MEMORIA" DI ABY WARBURG... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5878.
IL "LIBER PARADISUS" (https://it.wikipedia.org/wiki/Liber_Paradisus) DEL XX SECOLO: LA LISTA DI SCHINDLER ("Schindler’s List" - https://it.wikipedia.org/wiki/Schindler’s_List_-_La_lista_di_Schindler) - IL GIARDINO DEI GIUSTI ("Il primo Giardino dei Giusti (https://it.wikipedia.org/wiki/Giardino_dei_Giusti), nato a Gerusalemme nel 1962, è dedicato ai Giusti tra le nazioni. Il promotore è Moshe Bejski, salvato da Oskar Schindler).
«Neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere» (Walter Benjamin)
WALTER BENJAMIN, IL “PROGRAMMA DELL FILOSOFIA FUTURA”, E “CAGLIOSTRO”: KANT, IL “MOSE’ DELLA NAZIONE TEDESCA” E LE ORIGINI DELL’“IMPERATIVO CATEGORICO” DI HEIDEGGER E DI EICHMANN.... *
CONDIVIDENDO LA CONCLUSIONE DELLA NOTA DI Iside Gjergji (si cfr.:‘La morte nera’ e il fascista che è in noi - http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/12/23/la-morte-nera-e-il-fascista-che-e-noi/3274504/):
MI PERMETTO DI DIRE, SOLAMENTE, CHE “leggere *monotematicamente* Benjamin” e “metterlo al servizio del comunismo” - come chiarisce Fabrizio Denunzio nelle “Memorie di famiglia” (si cfr. l’Introduzione a “La morte nera”, Ombre Corte, Verona, 2016, p. 14) riporta al punto di partenza, nel vicolo cieco - da cui lo stesso Benjamin non è uscito.
Sulla “teoria del fascismo di Walter Benjamin”, Denuzio ha brillantemente messo e rimesso a fuoco il problema, ma non ha visto e non poteva vedere la “CAGLIOSTRO-sità” del problema per essersi collocato con lo stesso Benjamin in un’orizzonte hegelo-marxista (e non più propriamente “kantiano” - alla Kant, e “marxiano” - alla Marx!) e pensare meglio e bene il nesso tra “ragione e religione”, il materialismo - “quel vuoto che si viene a creare quando la ragione abolisce ogni collegamento con la trascendenza”(op. cit., p. 34), e, infine, lo stesso “Messia” delle Tesi “Sul concetto di storia”.
Benjamin (come Freud, Aby Warburg, Kantorowicz) cerca di imitare “Mosè”, pensa il problema dell’”esodo”, ma alla fine non riesce a scappare “dall’Egitto” e, drammaticamente, finisce per restare (e con Goethe!) nella terra e nell’orizzonte del “Grande Copto”, del “Cagliostro” di turno. La “carica rivoluzionaria dell’Illuminismo” (op. cit., p. 11) di Kant è rimasta impensata - e ancora impensabile!
* Sul tema, mi sia consentito, cfr.: FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829: in particolare, HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4790
Federico La Sala
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO...
“Il romanzo dei tui” uscito solo ora in Italia è una satira (attualissima) su chi vende idee e talento al miglior offerente
“Gli intellettuali da tre soldi smascherati da Brecht”
di Leonetta Bentivoglio (la Repubblica, 05/01/2017)
«Su larga scala la stupidità diventa invisibile», suggerisce Bertolt Brecht, e le sue parole risuonano più che mai concrete e pertinenti mentre galleggiamo negli oceani delle scemenze populiste. Quanto alla prassi del leccapiedi, che è sempre in auge, il sommo drammaturgo del Novecento tedesco la dipinge con cura irresistibile. Perché se è vero che di adulazioni è affollato
il mondo, l’arte del leccapiedismo esige allenamento e disciplina.
«Solo con l’esercizio ci si può elevare dalle bassezze della leccata corriva, e soltanto quando la perseveranza lascia il posto alla fantasia si diventa maestri», scrive. Aggiungendo che bisogna distinguere la più ovvia adulazione dal lecchinaggio artistico: il primo «è merce dozzinale e cicaleggio meccanico»; il secondo «produce espressioni originali e profondamente sentite: crea una forma».
Stiamo pescando citazioni da un libro di Brecht che piacerebbe da matti a Dario Fo: stessa satira sferzante e stessa rabbia giullaresca lanciata a sinistra del marxismo. S’intitola Il romanzo dei tui e lo ha appena pubblicato in Italia L’Orma editore. A questa raccolta di considerazioni e siparietti futuristici sull’opportunismo dei cosiddetti pensatori, Brecht lavorò dal 1931 al 1942, ben piantato nel proprio odio per tutti gli ideologi occidentali: da Hegel a Freud, da Marx a Lenin, dagli artisti partecipi dell’impresa mitica del Bauhaus fino agli accademici, ai ministri, ai rivoluzionari e ai poeti.
È una strage che non salva nessuno, proprio come le vignette schiacciasassi di Charlie Hebdo, irrispettose per principio con chiunque al di là di tendenze e colori. Collezionando ritratti, cronache mascherate e testi corrosivi in un florilegio di nomi storpiati, Brecht offre una messe di materiali acidi e inopportuni, curati nella versione italiana da Marco Federici Solari, abile nell’arricchire il “Roman” con appendici relative alla progettazione dell’opera e con un attento vocabolarietto dei termini e dei loro equivalenti.
Il bersaglio di Brecht sono le creature che non esitano, in ogni tempo e luogo, a prostituire l’ingegno, e sappiamo che il pianeta annovera una tale moltitudine di membri di questa categoria che il lettore, tuffandosi nella costellazione “tuistica”, si sente di continuo emergere sulla punta della lingua una miriade di esempi ritagliati dalla politica e dalla intellighenzia di ieri e oggi.
Nato dalla parola “intellettuale” (Brecht isola le inziali di “Tellekt-uell-in”), il “tui” è il noleggiatore dell’intelletto che ingrassa vendendo analisi e opinioni al miglior offerente. Muovendosi tra la storiografia comica e la parabola filosofica, l’epopea dei “tui” narra le sorti del Reich dal suo primo germinare fino agli apici del nazismo. La storia che dalla disfatta tedesca della prima guerra mondiale arriva all’ascesa di Hitler e all’esilio degli intellettuali passando attraverso la Repubblica di Weimar viene trasposta in “Cima” o in Cina, luogo focale corrispondente alla Germania. Grande territorio in cui tra l’altro dilaga biecamente la razza dei funzionari, dato che la burocrazia dell’impero ha inventato quel genere di “basso” intellettuale pronto ad affannarsi su astrazioni e scartoffie «sostituendo in corso d’opera il mezzo con il fine ».
Così, mentre da esule si aggira furente in una dozzina di paesi, l’autore di Mahagonny e de L’opera da tre soldi si sfoga identificando con il tema del «cattivo uso dell’intelletto » il fulcro della propria rivolta. Nemico della malafede dei cerebralisti di ogni risma, giunge a mettere alla berlina anche eventi tragici come l’assassinio di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Ed è talmente perfido da descrivere, con sprezzo da comunista snob, «i cappellini inguardabili » della Luxemburg.
Paradossale è il tono roboante e impavido che vibra in ogni pagina dello pseudo- romanzo, dove il Führer diventa Gogher Gogh, il ministro della propaganda Goebbels si riconosce in un certo ridicolo Gobbelo e i riflettori della prosa, teatralmente, illuminano le gesta degli agiografi, dei pretestologi e dei reggicoda. Avventurandosi nell’etica “tuista” fin dalle radici, Brecht rievoca Kant, «il grande filosofo tuistico Ka-an», ricordato per la sua definizione del matrimonio come «unione di un uomo e una donna finalizzata alla cessione reciproca degli organi genitali». Il Papa è un grottesco capopopolo catalogato come “Tashi-Lama” che attraversa la Cima marciando a braccia aperte verso l’imperatore, e “Len”, che sarebbe Lenin, è un danneggiatore tarchiato e munito di barba caprina. Nei comportamenti pubblici e privati non esistono alternative al male dei pochi che si approfittano dell’idiozia dei molti. Ogni speranza di giustizia cade nell’irraggiungibilità di auspici buoni e onesti.
Il diario non è mai un apologo sul valore e l’efficacia del raziocinio, anzi: dal Romanzo dei tui è completamente assente il Brecht articolato e finissimo di Vita di Galileo, dove la forza cieca dell’ideologia viene attaccata in nome della ragione. Piuttosto qui s’alza la voce di un individuo folle di sdegno e soffocato dalle proprie risate, o dai propri singhiozzi espressionisti, di fronte allo spettacolo mostruoso del nazismo.
Sotto apparenze ludiche, leggiamo insomma una dichiarazione di assoluto e disperato isolamento. Solo in tal senso Brecht potrebbe somigliare al personaggio di Galileo, che davanti alla sconfitta impostagli dall’Inquisizione si ritira a riflettere in solitudine, abbandonato da tutti. Specialmente dai propri ideali.
Psicoanalisi, Storia e Politica....
‘La morte nera’ e il fascista che è in noi
di Iside Gjergji *
Il recente libro di Fabrizio Denunzio, La morte nera. La teoria del fascismo di Walter Benjamin (Ombre Corte 2016) è uno dei testi più interessanti pubblicati in Italia nel 2016. L’opera prosegue e, forse, conclude una elegante e seducente lettura di Walter Benjamin, già avviata da Denunzio con L’uomo nella radio. Organizzazione e produzione della cultura in Walter Benjamin (Giulio Perrone 2012) e, prima ancora, con Quando il cinema si fa politica. Saggi su “L’opera d’arte” di Walter Benjamin (Ombre Corte 2010).
Il libro tratta un tema attuale - il fascismo - e lo fa attraverso le parole e i silenzi del filosofo berlinese. La morte nera non è solo un testo di critica e, senza dubbio, non è uno di quei lavori che - come va di moda - si accaniscono sul “corpo” di un autore, nella speranza di ricavarne un lembo, al fine di assicurarsi un posto nella koinè culturale che conta.
Al contrario, il testo ha un obiettivo ambizioso: vuole realizzare uno schizzo multidimensionale del fascismo, vuole mostrare il suo cuore segreto, ancora palpitante, per farci sentire anche nella vigna dei testi il suono inquietante del “duro metallo della violenza” (Baudelaire). Obiettivo riuscito.
Inoltre, come si può intuire già dal titolo (per gli amanti di Guerre stellari, la Morte Nera è l’arma potente e segreta dell’Impero, che, da sola, può annientare interi pianeti, cosi come “Morte Nera” è l’espressione con la quale si definisce la peste che sterminò più di un terzo della popolazione europea nel XIV secolo), il lavoro ha un carattere ibrido. Vi si trova la critica più rigorosa attraversata da intuizioni, collegamenti storici e biografici, rimandi a frammenti letterari, epistolari, trasmissioni radiofoniche e film.
Nella prima parte si svolge come una sceneggiatura in tre atti (fasi), denominata “Il fascismo”, il cui prequel, nella seconda parte, è dedicato a “Il fascista”.
Ma andiamo con ordine. Denunzio, come anticipato, individua tre fasi nello sviluppo del pensiero benjaminiano sul fascismo. Nel periodo compreso tra il 1924 e il 1930, Benjamin pensa a un modello di fascismo a partire da una analisi “giornalistico-informativa”, anche come diretta conseguenza del suo girovagare in Europa.
La sua attenzione è catturata pressoché interamente dalla figura del “duce”. L’autore coglie in questa fase lo sguardo critico di Benjamin sull’Illuminismo e la sua conseguente spiegazione della legittimazione popolare del “duce” attraverso il conflitto tra ragione e religione. Il collegamento è da ricercare nel “vuoto che si viene a creare quando la ragione abolisce ogni collegamento con la trascendenza”, creando spazio a “personaggi che, contrabbandando un soprannaturale di scarto, [...] vengono investiti di un potere che sicuramente useranno contro quanti gliel’hanno conferito” (p. 34).
La soggettività a cui Benjamin pensa in questo periodo non coincide con l’uomo razionale, ma con l’uomo religioso, capace di esperire la trascendenza.
La seconda fase, secondo l’autore, coincide con gli anni 1934-36 e si caratterizza per l’approccio “politico-combattente” del filosofo. Benjamin perviene, infatti, a un modello di fascismo fondato su elementi strutturali, tenendo conto della composizione delle classi e delle strategie di dominazione del capitalismo. È in questo passaggio che il filosofo tedesco accantona la coppia concettuale “ragione-religione” e abbraccia un’altra, anch’essa oppositiva, ovvero “natura-tecnica”.
La riflessione più matura sull’Illuminismo e sulla modernità spinge Benjamin a pensare un rapporto inedito tra natura e tecnica, in quanto egli riesce a immaginare la tecnica “liberata dal fine strumentale di dominare la natura e finalmente impiegata per fare giocare e divertire gli uomini” (p. 63).
La soggettività dominante nel pensiero benjaminiano di questa fase non è l’individuo, ma la classe lavoratrice. È il lavoro a mediare le relazioni e, di conseguenza, la trascendenza finisce in secondo piano (senza però scomparire del tutto) per lasciare maggiore spazio alla Ragione.
L’ultimo e terzo atto della sceneggiatura denunziana sulla teoria del fascismo di Benjamin si consuma nel 1940, che è anche l’ultimo anno di vita del filosofo, ormai esule e solitario nelle strade d’Europa, nelle quali imperversa la “follia”. Il modello di fascismo delineato in questa fase conserva il nesso struttura/sovrastruttura sviluppato nelle fasi precedenti, ma questa volta l’elemento (strutturale) economico trova un perfetto rispecchiamento nella sovrastruttura ideologica del fascismo: “La conservazione millenaria della prima si rispecchia fedelmente nell’eternità della seconda” (pp. 72-73). Benjamin perviene così a una riflessione sul tempo nella modernità, sui momenti temporali dell’eternità e dell’istante.
La chiave di lettura dell’intera sceneggiatura è, però, nascosta nel prequel, ovvero nella seconda parte del libro, laddove Denunzio, in modo raffinato, sviluppa un’analisi sociologica e psicoanalitica, setacciando il tempo, la vita e le parole del filosofo tedesco, a caccia di lapsus, di non detti e del rimosso. È nella seconda parte, infatti, che le parole e i silenzi abitano corpi che ci consentono di interpretare e comprendere comportamenti, testi, dottrine ed eventi narrati nella prima parte. E nondimeno ci consegnano un ritratto completo di Benjamin, con le sue luci e le sue (non poche) ombre nere. Qui il fascismo diventa una silhouette autoritaria e tirannica, una presenza che si produce in fasi storiche e passaggi biografici caratterizzati da “vuoti” di autorità e che si manifesta sotto molteplici sembianze: padri sostituivi con simpatie naziste, personaggi letterari che evocano tiranni, poeti vicini alle SS.
L’autore sottolinea, dunque, quanto già evidenziato dalla migliore tradizione della Scuola di Francoforte, ovvero l’imprescindibilità della teoria freudiana nella comprensione del fascismo come fenomeno sociale, in quanto pone l’urgenza di comprendere, accanto a tutto il resto, anche i condizionamenti e le tirannie interne (IL fascista interno) al soggetto. Curiosamente, però, Fabrizio Denunzio attribuisce l’ulteriore sviluppo di tale riflessione, nella seconda metà del Novecento, ad alcuni illustri autori francesi, quali Foucault, Deleuze, Guattari, i quali notoriamente si sono ispirati a pensatori come C. Schmidt, Nietzsche e Heidegger, tutti, almeno a parere di chi scrive, reazionari, anti-dialettici e immersi nel tunnel dell’irrazionale. La lotta contro i residui del “fascista” (morte nera) dentro di noi, a quanto pare, non può mai dirsi conclusa. Che la Forza sia con noi!
*
IL FATTO QUOTIDIANO, di Iside Gjergji | 23 dicembre 2016
Walter Benjamin, l’inquilino in nero
di Massimo Palma (alfapiù, 11 gennaio 2017)
A Fabrizio Denunzio la taccia di eresia non importa. Collocarsi al di fuori di ogni corrente degli studi su Benjamin è in sé un merito, dati i successi di questo loser nelle mode filosofiche, editoriali e culturali di questi anni.
L’angolatura è originale - evidente sin da Quando il cinema si fa politica (2010). Ancor più nella Morte nera. Lo stile è assertorio, didascalico, deduttivo. Denunzio avvicina testi notissimi come fosse la prima volta, li incrocia con frammenti poco visitati e propone un mash up che costringe immancabilmente a leggerlo due volte: quando affianca al celebre saggio su Kraus la poco nota recensione di Haecker, la chiosa è cristallina: «non volendo essere affatto raffinati, anzi, volendo peccare di rozzezza». Lo stesso accade quando impiega concetti inventati con indubbia capacità plastica (l’Illuminismo «compresso»), quasi fossero concetti benjaminiani. In più, Denunzio incrocia temi forti: l’arte politica, l’uso della radio.
Brillante, oggi, la scelta di affrontare una variante della Germania segreta, lemma che Benjamin mutua da Stefan George (chissà perché assente nel libro), e delle tante letture dell’intima affinità tra l’Intelligenz tedesca e le idee naziste, che da Kantorowicz e Lukács a Jesi e Lacoue-Labarthe, hanno attraversato l’incompiuta seduta di autocoscienza europea.
Qui si tocca un capitolo inedito: Benjamin e il fascismo. Fascismo che, ben mostra Denunzio, Benjamin ha visto di persona - nel 1924, nel mitico viaggio a Capri, vede Mussolini, restando colpito da una fisicità goffa e inarticolata -, ha intervistato nella sua versione francese (Georges Valois), ha recensito nella sua variante tedesca prenazionalsocialista (il libro di Ernst Jünger e soci, stroncato nel 1930), per poi farne un oggetto teorico, sicuramente avversario, ma - questa la tesi dirompente - altresì abitante nel corpo biografico e nell’armamentario teorico benjaminiano.
Non solo, quindi, Benjamin studia, avversa e teorizza il fascismo, ma Benjamin ha un fascista dentro di sé: nel senso pasoliniano, deleuziano, che è sempre il caso di riattivare. E Denunzio si cimenta con zelo sull’ipotesi di un Benjamin abitato. Lo mostrerebbero ricordi infantili sedimentati nella Cronaca berlinese, il rapporto negli anni Dieci con Gustav Wyneken, «guida» autoritaria e guerrafondaia del Movimento giovanile, ma anche il ruolo del tiranno nello studio sul barocco tedesco, la cui coincidenza con la «visione» di Capri viene usata come detonatore onniesplicativo, la lettura di Kafka e dei suoi funzionari sadici.
Che i due punti biografici (il padre e Wyneken) ricorrano teoricamente in chiave psicanalitica in due dei suoi scritti maggiori è assunto problematico, ma va a sostanziare la tesi di un inquilino imprevisto nel Benjamin teoreta del fascismo: Benjamin fascista.
Esattamente questo afferma Denunzio: «la coerenza sistemica della teoria del fascismo benjaminiana può essere assicurata solo postulando che il suo autore si sia profondamente identificato con esso. Dal momento che non si può dare fascismo senza l’uomo fascista, allora, la validità di questa teoria di Benjamin sta nel fatto che ad averla pensata è il fascista che lo abitava, ma che, per fortuna, non lo possedeva».
Questo postulato d’inizio libro resta tale. Tutto lo studio ne consegue. Questa premessa-conclusione - «il fascismo intrapsichico di Benjamin», il «padre compensativo interiorizzato da Benjamin per rispondere alla crisi d’autorità paterna: guerrafondaio, criminale e sadico» - si dirama, serpe in seno al lettore, in parallelo alla formula dell’«ebreo comunista esule e perseguitato» che, assieme all’intellettuale antifascista precario declassato non-accademico, classifica WB nel casellario vittimario. Paria come tanti.
Eppure, tale premessa-conclusione per esser presa sul serio deve celare una sottaciuta rilettura del concetto di immedesimazione o empatia, che Benjamin individua come una dannazione operativa della storiografia e della «tecnica» artistica in generale e che legge in questi termini sin dall’Origine del dramma barocco tedesco, per demolirlo nella tesi VII Sul concetto di storia come funzione «fascista» della scrittura.
Ma il libro sul barocco viene ignorato da Denunzio fin quasi alla fine: non lo menziona riguardo alla ricostruzione iper-cattolica, à la Schmitt, della «filosofia» del primo Benjamin (schiacciato sul Programma della filosofia futura e definito «non rassegnato a vivere in un mondo senza dei e trascendenza»), ma solo per affrontare il tiranno. E certo, nel momento in cui si affronta la teoria della storia di Benjamin, la decostruzione dell’Einfühlung deve emergere, perché è una decostruzione politica che modula il concetto anti-fascista di storia che Benjamin lascia ai posteri.
Dobbiamo quindi supporre che Denunzio la dia per scontata, nel momento in cui la sua tesi verte sul consentire col fascismo e sull’identificazione di Benjamin nel capo fascista («Benjamin si trova ad aver interiorizzato proprio una figura di Capo di questo tipo»). Un’immedesimazione il cui precipitato, nel critico che usa fonti tedesche già compromesse col regime, è esposto senza infingimenti: «li si disponga tutti assieme in un’unica immagine, i Kommerell, gli Obenauer e gli Schmitt, a mo’ di foto dell’epoca, semmai con tanto di divise e di fasce al braccio, e si vedrà in tutta la sua crudezza una costante dell’atteggiamento di Benjamin nei confronti di questi gerarchi del sapere fascista idealmente fotografati: la complicità».
Crudo, insinuante, il libro di Denunzio usa una bibliografia parca ed equilibrata (undici titoli di Benjamin, undici di Denunzio, articoli di giornale inclusi, poi altri diciotto testi, poi basta), ed è pieno di intuizioni. Eppure, il tessuto argomentativo rapido, apodittico, oltre al fuoco del libro, lascia colare anche omissioni (dov’è Georges Sorel, menzionato di corsa in un libro sul fascismo e Benjamin?, dove Bachofen?), inutili parafrasi di Habermas (utilizzato a piene mani in un excursus per un riassuntino di storia della filosofia), slalom speciali su temi-chiave: dell’empatia si è detto, ma si pensi al concetto fascista di natura, sfiorato e mai analizzato, ma centralissimo proprio nelle Teorie del fascismo tedesco e possibile volano per sfuggire alla rilettura proposta, iper-francofortese, del bivalente illuminismo benjaminiano; si pensi infine a come, figlio dell’alta borghesia ebraica assimilata, Benjamin della borghesia ha marxianamente mostrato l’ambigua, contraddittoria grandezza.
Restano gli affondo, la profondità abissale del tema, la libertà di ricerca esibita, ma anche l’incedere di un libro pesantissimo che vola da un fiore all’altro dell’orto benjaminiano, decontestualizzando un singolo riferimento epistolare del 1924, un passo di diario del 1938 e passaggi di opere complesse (decenni di ricezione non solo «idealista» né «teologico-politica» sarebbero lì a testimoniarlo), per attribuire all’autore l’inconscia «richiesta di uno Stato forte» e un «desiderio» di fascismo», senza dialogare con alcuno se non i suoi testi.
In questa sua singolare forma anti-scientifica, l’intenzione davvero profonda che abita il saggio, e forse lo possiede, risulta difficilmente comprensibile al di fuori del moto d’identificazione spiegato nelle Memorie di famiglia dell’Introduzione (il lignaggio fascista dell’autore, naturalmente ripudiato). Un tratto, questo, che rende sì il testo una ricerca di antidoti, ma anche una requisitoria senza contraddittorio, perché in sostanza autoaccusa. Raccolta di intuizioni talora lancinanti, La morte nera è un libro da integrare, argomentare, arredare, senz’altro abitare col rigore necessario. Per poi magari espropriarlo di ogni immedesimazione.
NOTA *:
LE “REGOLE DEL GIOCO” DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE. La teoria del fascismo di Walter Benjamin ...
Benché segnata da timore e tremore, l’autore della recensione ("Alfabeta2", 11 gennaio 2017) non ha potuto non riconoscere il coraggio dell’Autore e del suo lavoro sulla “morte nera” ... e superate le resistenze ha saputo accogliere anche dentro di sè “l’inquilino in nero”!!!
Trovata la “cosa” di grande interesse teoretico e storico (sul tema, ad ampio ‘spettro’, si cfr.: “Le due metà del cervello”, “Alfabeta”, n. 17, settembre 1980, p. 11), l’ho ripresa qui: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5556#forum3119697, in collegamento e in riferimento a un mio ‘vecchio’ lavoro (“La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica”, Roma 1991).
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Federico La Sala
1925-2017
Morto Zygmunt Bauman
Nella Shoah vide lucidamente il nesso tra orrore e modernità
Il sociologo polacco è morto lunedì 9 gennaio all’età di 91 anni
L’analisi dello sterminio e il richiamo all’etica: ci si può sempre opporre al male
di DONATELLA DI CESARE
Quando Zygmunt Bauman pubblicò, nel 1989, il suo libro Modernità e Olocausto (il Mulino), ancora pochi, a parte i testimoni, avevano azzardato riflessioni o ipotesi interpretative. A lungo si era protratta una afasia, dovuta non solo a rimozione, inconscia o intenzionale, ma anche alla difficoltà di pensare quel che era accaduto. Il suo libro ruppe il silenzio con un coraggio intellettuale senza precedenti. E da allora è rimasto una pietra miliare.
«Il regime nazista è finito da tempo, ma la sua venefica eredità è tutt’altro che morta», così avvertiva Bauman. Ebreo polacco, scampato all’invasione nazista nel 1939, chiedeva molto più della punizione del crimine. Se si trattasse di questo - scriveva - si potrebbe «affidarlo allo studio degli storici». Ma la questione andava al di là degli esecutori, al di là perfino delle vittime. «Oggi più che mai l’Olocausto non costituisce un’esperienza che appartiene ai soggetti privati (ammesso che mai sia stato così): non ai suoi esecutori, affinché vengano puniti; non alle sue vittime dirette, perché godano di simpatia, favori o indulgenze particolari in nome delle loro sofferenze passate; e non ai suoi testimoni, in cerca di redenzione o di certificati di innocenza. Il significato attuale dell’Olocausto è dato dalla lezione che esso contiene per l’intera umanità».
Bauman è stato il primo ad avanzare l’esigenza di considerare la Shoah un capitolo della storia umana, quella terribile ed estrema del Novecento. Senza farne un evento unico, fuori dalla storia e fuori dalla ragione, ma senza neppure ignorare quelle caratteristiche che l’Olocausto non condivide con nessuno dei precedenti casi di genocidio.
Certo, l’omicidio di massa non è un’invenzione recente. La storia è punteggiata di violenze, massacri, stermini. Ma l’industrializzazione della morte nelle officine di Hitler impone una riflessione peculiare. Lo sterminio appare a Bauman l’epilogo della civiltà industriale e tecnologica, di quella organizzazione burocratica del mondo in cui viene profilandosi il dominio totalitario. Perciò Bauman punta l’indice contro la modernità.
Non si può non vedere il ruolo attivo della civiltà moderna nello scatenamento e nell’esecuzione dell’Olocausto. E, soprattutto, non si può non riconoscere il fallimento della modernità. Auschwitz non è un capitolo chiuso, concluso. Perché noi continuiamo a vivere in quella stessa modernità che ha consentito la «soluzione finale» volta ad annientare gli ebrei d’Europa.
Sul tema della colpa Bauman non si lascia andare a speculazioni metafisiche o a imponderabili teodicee. Quale senso può avere avuto la sofferenza degli innocenti? Non confermerebbe tutto ciò un mondo senza Dio? Anche se l’incommensurabilità dei crimini perpetrati sembra andare oltre ogni giustizia, la responsabilità è tutta umana. Il male non è un principio della mistica di cui dovrebbe rispondere Dio. È un’offesa di cui deve rispondere l’uomo.
La grande domanda che Bauman si è posto, a partire dalla sua riflessione sulla Shoah, è stata quella sulla responsabilità. Si può dire che il suo volume Le sfide dell’etica (Feltrinelli), pubblicato pochi anni dopo, nel 1993, sia in gran parte un precipitato di quei suoi studi. Delegittimata, schernita, l’etica appare fuori moda, destinata alla pattumiera della storia. Come se la modernità avesse decretato una emancipazione dall’etica.
Bauman denuncia l’illusione e il pericolo di questo modo fin troppo diffuso di pensare. Proprio quel che è accaduto ad Auschwitz ci insegna che l’etica è indispensabile e che la responsabilità è sempre assolutamente individuale. Il male non è onnipotente - è possibile, è doveroso resistere. «Non importa quante persone abbiano preferito il dovere morale alla razionalità dell’autoconservazione, ciò che importa è che qualcuno l’abbia fatto».
Zygmunt Bauman ha fatto della Shoah il caleidoscopio attraverso cui guardare nell’abisso disumano di una modernità che non ha mantenuto le promesse. Si condensa forse qui il compito ultimo della sua intensa e instancabile ricerca, un compito che questo grande diagnostico del mondo contemporaneo non ha mai disatteso.
Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito
Intervista a Zygmunt Baumann
UNA NUOVA POLITICA
di Alessandro Lanni (Reset Nov 2008) *
«Lo stato sociale è finito, è ora di costruire il “Pianeta Sociale”». Solo così, spiega Zygmunt Baumann, si potrà uscire dalla crisi globale che il mondo contemporaneo sta vivendo. La politica deve avere la forza di reinventarsi su scala planetaria per affrontare l’emergenza ambientale o il divario crescente tra ricchi e poveri. Altrimenti è con-dannata alla marginalità in una dimensione locale, con stru¬menti obsoleti adatti a un mondo che non esiste più. L’inventore della "società liquida" non crede in una capacità di auto-riforma della politica, «meglio costruire un’opinione pubblica globale e affidarsi a organizzazioni cosmopolite, extraterritoriali e non governative».
I nostri politici ce la faranno a cambiare paradigma, passando dal locale al globale?
«Io non conterei molto sui governi - di nessun paese, piccolo o grande che sia - e ancor meno sui loro tentativi di collaborazione, che finiscono regolarmente in una poesia di nobili intenzioni piuttosto che in una prosa di concreta realtà. I poteri che decidono sulla qualità della vita umana e sul futuro del pianeta sono oggi globali e dunque, dal punto di vista dei governi, sono extraterritoriali ed esenti dalla loro sovranità locale. Finché non innalziamo la politica ai livelli ormai raggiunti dal potere, le probabilità di arrestare gli sviluppi catastrofici cui stiamo conducendo la nostra vita sul pianeta sono, quantomeno, scarse».
Dunque, di quali strumenti alternativi dovrebbe dotarsi la politica per affrontare le grandi emergenze del nuovo mondo globale?
«L’obiettivo di arrestare le ineguaglianze globali che tendono a divenire rapidamente più profonde non compare tra le priorità delle agende politiche degli Stati-nazione più potenti, nonostante le tante promesse fatte al riguardo. Contemporaneamente, mancano ancora un’ "agenda politica planetaria" e delle istituzioni politiche globali efficaci e dotate di risorse che gli permettano di perseguire simili obiettivi rendendoli operativi. Le prerogative territoriali degli Stati-nazione ostacolano la creazione di tale agenda e di tali istituzioni e rendono ancora più difficile il tentativo di mitigare il processo di polarizzazione».
Gli Stati da soli non possono farcela. I singoli cittadini hanno qualche possibilità in più di mettere mano ai disagi che avvertono, per organizzare un’azione collettiva?
«Qui interviene quel fattore che è stato ampiamente descritto con il termine "individualizzazione". Con il progressivo abbassarsi della condizione di difesa mantenuta contro le paure esistenziali, e con il venir meno di accordi per l’autodifesa comune, come per esempio i sindacati o altri strumenti di contrattazione collettiva, depotenziati della competizione imposta dal mercato, spetta ai singoli trovare e mettere in pratica soluzioni individuali a problemi prodotti dalla società nel suo complesso. Ma fare tutto questo da soli e con strumenti per forza limitati risulta palesemente inadeguato al compito prefisso».
Anche il climate change è tra le grandi paure e insicurezze che l’uomo occidentale deve fronteggiare.
«L’insicurezza deriva dal divario tra la nostra generale interdipendenza planetaria e la natura meramente locale, a portata di mano, dei nostri strumenti di azione concertata e di controllo. I problemi più terribili e spaventosi che ci tormentano e che ci spingono a provare una sensazione di insicurezza e incertezza riguardo a tutto ciò che ci cir-conda hanno origine nello spazio globale che è al di là della portata di qualsiasi istituzione politica ora esistente; tuttavia questi problemi sono scaricati sulle entità locali - città, province e Stati - dove si pretende che vengano risolti con quei mezzi disponibi¬li a livello locale: un compito praticamente impossibile».
Eppure in molti sostengono che alcune questioni relative all’inquinamento, alla produzione d’energia, ai rifiuti, possono essere affrontate a livello «micro», di città, di governi locali.
«L’inquinamento atmosferico e la mancanza di acqua potabile sono questioni che traggono origine nello spazio globale, ma sono poi le istituzioni locali a doverle gestire. Lo stesso principio si applica al problema delle migrazioni, del traffico di droga e armi, del terrorismo, della criminalità organizzata, dell’incontrollata mobilità dei capitali, dell’instabilità e della flessibilità del mercato del lavoro, della crescita dei prezzi dei beni di consumo e così via. La sfera politica locale è sovraccarica di compiti e non è abbastanza forte o abbastanza dotata di risorse per svolgerli. Solo istituzioni politiche e giuridiche internazionali - finora assenti - potrebbero tenere a bada le forze planetarie attualmente sregolate e raggiungere le radici dell’insicurezza globale».
E un governo planetario che salverà il mondo?
«Allo stadio di sviluppo a cui è ormai giunta la globalizzazione dei capitali e dei beni di consumo, non esiste nessun governo che possa permettersi, singolarmente o di concerto con altri, di pareggiare i conti - e, senza che si pareggino i conti, è impensabile che si possano effettivamente mettere in atto le misure tipiche dello Stato sociale, volte a ridurre alla radice la povertà e a prevenire che l’ineguaglianza continui a crescere a piede libero. E’ altrettanto difficile immaginare governi capaci di imporre limiti sui consumi e aumentare le tasse locali ai livelli necessari perché lo Stato possa continuare a erogare servizi sociali, con la stessa intensità o con maggior vigore».
La globalizzazione cancella anche lo Stato sociale. Professor Bauman, non lascia speran¬za per un briciolo di giustizia e di eguaglianza nel mondo del XXI secolo?
«Non esiste una maniera adeguata attraverso la quale uno solo o più Stati territoriali insieme possano tirarsi fuori dalla logica di interdipendenza dell’umanità. Lo Stato sociale non costituisce più una valida alternativa; soltanto un "Pianeta sociale" potrebbe recuperare quelle funzioni che, non molto tempo fa, lo Stato cercava di svolgere, con fortune alterne. Credo che ciò che può essere in grado di veicolarci verso questo immaginario "Pianeta sociale" non siano gli Stati territoriali e sovrani, ma piuttosto le organizzazioni e le associazioni extra-territoriali, cosmopolite e non-governative, tali da raggiungere in maniera diretta chi si trova in una condizione di bisogno, sorvolando le competenze dei governi locali e sovrani e impedendogli di interferire».
* Segnalazione di don Aldo Antonelli.
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI. Note per una rilettura del "De vulgari eloquentia" e della "Monarchia"
Scenario
Dobbiamo superare le reticenze sull’islam
L’Isis ha dichiarato la sua guerra contro cristiani e pagani. I suoi messaggi non vanno elusi né liquidati come «deliranti», ma studiati per contrattaccare
di Roberto Calasso *
La ritrosia dei giornali a pubblicare i proclami e le rivendicazioni dei terroristi mi è sempre sembrata stolta. L’argomento secondo cui la pubblicazione equivarrebbe a una involontaria propaganda delle loro idee mi sembra ancora più stolto - e offensivo verso i lettori dei giornali stessi, come se questi avessero bisogno delle parafrasi dei giornalisti per capire qualcosa. Mentre non c’è nulla che possa sostituire la conoscenza diretta. E per conoscere qualcuno essenziale è sapere come parla e come scrive.
Se Mein Kampf, che oltre tutto è un libro ben anteriore alla presa del potere da parte di Hitler, fosse stato letto e commentato subito con la dovuta attenzione e scrupolo filologico, sarebbe stato molto più chiaro con chi il mondo aveva a che fare.
Oggi, più che dichiarazioni del genere: «Non ci fate paura», servirebbero analisi secche e puntuali delle parole usate dai terroristi. Perciò ogni volta che leggo di «rivendicazioni deliranti», la cui lettera non viene riportata, sento un’invincibile irritazione e frustrazione. Se davvero «deliri» sono, si tratta di materiale prezioso da analizzare. Freud fondò la sua teoria della paranoia sull’analisi di un singolo delirio, quello del presidente Schreber, che si manifestava in un libro di 516 pagine.
Stando così le cose, è d’obbligo contentarsi di minuscole schegge che qualche giornalista osa riprodurre fra virgolette. Ma a volte anche le schegge possono essere molto eloquenti.
Nella rivendicazione dell’Isis per l’attentato al Reina di Istanbul si dice che l’azione ha colpito «dove i cristiani stavano celebrando la loro festa pagana».
Poche parole, ma dovrebbero bastare, almeno per capire un dato essenziale: l’Isis è una setta islamica che vuole colpire gli infedeli in quanto tali - fatto non privo di precedenti nella storia. La novità è la composizione degli infedeli, identificati con l’Occidente. E l’Occidente in una sua notevole parte si dichiara cristiano: perciò è assimilabile ai Crociati, nemici da secoli. Ma l’Isis ben sa che l’Occidente non è tutto cristiano. In vasta parte è secolare, privo di affiliazioni religiose. Anzi, il suo apparato tecnico e la macchina dei suoi poteri è tutta secolare.
Ma per chi ha avviato, come la setta dell’Isis (e di Al Qaida), una guerra di religione, non c’è nulla che non dipenda da una religione. Quale sarà allora quella dei secolari? In verità, sarebbero tutti pagani. È questo che l’Isis ha scoperto - e i secolari stessi non lo sanno. In un club dove si celebra la festa pagana del Capodanno, la setta avrà l’occasione di uccidere insieme cristiani e pagani. Quindi la totalità degli infedeli, se si eccettuano gli Ebrei, che sono demograficamente irrilevanti, anche se hanno il privilegio di occupare il primo posto fra gli infedeli e sono perciò meritevoli di un odio specifico ed esemplare.
La rivendicazione dell’Isis non potrebbe essere più chiara. E mostra un tratto euforico nell’osservare l’opportunità dell’occasione per l’attacco. Era ora, si lascia intendere, che i secolari capissero chi sono: semplicemente pagani, camuffati sotto altro nome. Tutti i fieri laici occidentali, convinti di essersi liberati di ogni impaccio religioso, ora dovranno rassegnarsi a riconoscere di essere soltanto dei vecchi pagani. Perciò passibili di essere colpiti non meno dei cristiani, nella nuova guerra di religione.
Perché di questo - e solo di questo - si tratta, anche se la Chiesa e i governi fanno di tutto per evitare l’espressione. E una peculiarità di questa guerra di religione è che avviene in anni dove il sentimento religioso si è ridotto al minimo, in Oriente come in Occidente. Ma bisogna pur sempre ricordare che la guerra di religione è la forma primordiale della guerra. Le guerre politiche, fra nazioni, sono una breve eccezione nella storia, durata meno di tre secoli, dalla pace di Vestfalia allo scoppio della Prima guerra mondiale.
Però dire oggi guerra di religione significa dire anche da quale religione è promossa - e questo obbligherebbe a usare la parola «islamico» (intendendo tutto ciò che si appella ad Allah). E oggi non c’è parola che la Chiesa e i governi evitino con maggiore cura. Davanti a una persecuzione in atto di cristiani in quanto cristiani, che va da larghe zone dell’Africa all’intero Medio Oriente, non basta che il Papa si dichiari «vicino» a chi soffre. Ci si aspetterebbe che nominasse chi fa soffrire.
Così come, durante la Seconda guerra mondiale, non si poteva dire di essere «vicini» agli Ebrei perseguitati senza dire che erano i nazisti a perseguitarli. Spetta a ogni Papa proteggere tutti i cristiani, anche i venticinque copti che sono stati uccisi mentre assistevano alla Messa al Cairo. Certo, il Papa dispone solo della parola, ma è una parola potente. E allora il Papa non potrebbe evitare la parola proibita: «islamico». E non potrebbe neppure più rifugiarsi nella deprecazione del «Dio denaro». Certamente l’Isis e Al Qaida non sono una questione di poveri incattiviti che si rivoltano contro ricchi sopraffattori occidentali.
Non meno pavidi sono stati, sino a oggi, i governi europei e occidentali in genere. Ma la posizione della Chiesa spicca maggiormente, perché l’odio della Croce torna costantemente nei proclami dei terroristi. Che fare, allora? Rispondere combattendo a una guerra dichiarata, come sempre è avvenuto nella storia. E innanzitutto studiare il nemico, non temere di osservare le sue parole e i suoi argomenti, in tutti i dettagli. E non parlare più di un «sedicente» Stato Islamico, così come anni fa si parlava delle «sedicenti» Brigate rosse, facendo intendere che dietro c’era qualcos’altro. Il punto più duro da capire è appunto questo: ciò che i terroristi dicono di essere. Che cosa essi poi siano, lo mostrano i fatti.
Corriere della Sera, 4 gennaio 2017 (modifica il 4 gennaio 2017
STORIA E STORIOGRAFIA. "In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla" (W. Benjamin):
Guida al nuovo occidente che ha perduto l’idea di futuro
Il saggio di Massimo Cacciari e Paolo Prodi analizza la crisi della società attraverso il declino di due categorie fondamentali: “profezia” e “utopia”
di Roberto Esposito (la Repubblica, 13.09.2016)
Il saggio di Massimo Cacciari e Paolo Prodi analizza la crisi della società attraverso il declino di due categorie fondamentali: “profezia” e “utopia”. In molti oggi parlano di crisi dell’Europa e dell’Occidente. Ma ben pochi risalgono alla sua origine scavando tanto a fondo nel corpo della nostra tradizione, come fanno Massimo Cacciari e Paolo Prodi nel loro Occidente senza utopie (il Mulino). Ciò che, pur nella diversità degli strumenti, incrocia i loro sguardi è da un lato il rifiuto di categorie lineari come quella di laicizzazione; dall’altra il coraggio di dichiarare il fallimento del progetto moderno.
La grande tradizione che è nata dalla tensione tra Atene e Gerusalemme e che, attraverso Roma, è sfociata nel diritto pubblico europeo, è arrivata a termine e non è possibile riattivarla, se non passando per la piena consapevolezza di quanto è accaduto. Se non si ha la forza, come scrive Paul Valéry, di fissare gli spettri che ci lasciamo alle spalle, non basteranno incontri di vertice o rifondazioni istituzionali per riprendere quel cammino interrotto.
I due paradigmi su cui gli autori misurano la distanza che separa il presente dalle sue radici, sono quelli di profezia e di utopia. Senza la potenza critica che hanno sprigionato nei secoli, alla nostra civiltà mancherebbe un lievito decisivo. Eppure il loro orizzonte è stato profondamente diverso.
La profezia - al centro del saggio di Prodi - ha espresso una critica del potere che ha aperto lo spazio di libertà per la creazione della democrazia. È lo spirito profetico che per la prima volta, in Israele, ha separato il sacro dal politico, rompendo l’identificazione teologico- politica tra potere e legge. Profeta è colui che, da un punto marginale, ha l’autorità per contestare il potere regale e sacerdotale. Il divieto ebraico di pronunciare il nome di Dio va inteso anche come difesa da ogni indebita sacralizzazione del potere. Ma anche la distinzione cristiana tra quel che è di Cesare e quel che è di Dio conserva, fino a un certo momento, la distinzione. Tuttavia la figura del profeta non resiste a lungo. Già ridotta nel Medioevo a quella del predicatore, è presto espulsa fuori dall’“accampamento” cristiano, nelle frange ereticali. Tradotta in un impossibile progetto politico da Savonarola, a partire da fine Settecento si fa da un lato anelito rivoluzionario e dall’altro contatto personale con Dio. Dopo la parentesi dei totalitarismi, interpretabili come forme perverse di religione politica, nell’attuale dominio della finanza globale sembra venuto meno ogni impulso profetico. E con esso l’anima stessa dell’Occidente.
Un percorso diverso, ma altrettanto esaurito, quello dell’utopia, ricostruito genealogicamente da Cacciari. Intanto essa non va confusa con le mitologie, antiche e medioevali, di ritorno alle origini. L’utopia si strappa dal passato per radicarsi nel proprio tempo con la potenza di un progetto volto al futuro. Da qui il rilievo che in essa hanno la scienza e la tecnica. Se si passa dall’Utopia di Moro alla Città del sole di Campanella, alla Nuova Atlantide di Bacone, questo elemento costruttivo, sistematico, viene sempre più in primo piano. Organizzazione economica, incremento del sapere e tolleranza religiosa sono le precondizioni di una società armonica e pacifica. Ma è proprio questo progetto di neutralizzazione dei conflitti a entrare presto in contrasto con la realtà altamente conflittuale dell’Europa moderna. Non solo la politica, ma anche lo sviluppo dell’economia e della scienza passano per un continuo susseguirsi di crisi che rompono ogni immagine di armonia.
Se le utopie ottocentesche di Fourier e Proudhon presuppongono la crisi della forma-Stato, Marx mette impietosamente a nudo il carattere ideologico dell’utopia. Mentre ancora Bloch persegue una proiezione salvifica verso il futuro, Benjamin revoca in causa ogni modello progressivo. Contro il principio- speranza di Bloch e la coscienza di classe di Lukács, egli nega che la redenzione possa passare per la prassi. Solo l’irrompere del divino nella storia può produrre novità radicale. Ormai l’idea di rivoluzione implode su se stessa insieme a quella di riforma. La via per il futuro è sbarrata. E dunque cosa resta da fare? La risposta di Cacciari, già da tempo avanzata, è quella di un dualismo assoluto. Autonomia del politico, sempre più ridotto a tecnica amministrativa, da un lato. E attesa di un Dio impossibile dall’altro. Weber e Wittgenstein: limpidezza dello sguardo e sobrietà delle parole. Tra i due, l’ascolto dei segni enigmatici con cui il Nuovo può sempre annunciarsi.
Da Bauman a Diamanti, viaggio al termine della democrazia
Avanza l’idea che con la globalizzazione sia finita un’epoca iniziata con l’Illuminismo. E dopo? Ecco le diagnosi
di Wlodek Goldkorn (l’Espresso, 29 dicembre 2016)
Come il romanzo e la borghesia, i due migliori prodotti della modernità occidentale, anche la democrazia da quando esiste è in crisi: si interroga sempre e in continuazione su se stessa mentre lotta per la propria (non garantita) esistenza. Questa volta però, nel quarto lustro del Ventunesimo secolo, forse non siamo più a una qualche correzione di rotta e aggiustamento delle procedure. Molti studiosi concordano ormai sull’ipotesi che siamo nel “dopo la democrazia”.
O meglio, avanza l’idea che qui in Occidente sia finita la democrazia come l’abbiamo conosciuta e immaginata a partire dal Secolo dei Lumi e fino alla globalizzazione. E ancora, fin dall’irruzione dei partiti di massa sulla scena politica (una forma di “parlamentarizzazione” della lotta di classe, altrimenti cruenta perché i proletari erano trattati alla stregua di “selvaggi” come i popoli colonizzati; e basti pensare a Bava Beccaris o al massacro dei comunardi di Parigi) a partire dall’ingresso dei partiti socialisti nel gioco parlamentare dunque, eravamo convinti che ci fosse un nesso intimo tra le seguenti categorie: progresso, libertà, democrazia, crescita economica, scolarizzazione di massa, emancipazione. Le cose andavano insieme, più libertà e più consumi; più democrazia e maggiore crescita economica e personale e via coniugando.
Certo, le guerre mondiali e i fascismi hanno segnato dei passi indietro, ma dal 1945 regnava in Occidente una specie di stabile e progressiva convergenza tra il liberalismo e la socialdemocrazia (due avversari storici): più profitti e più uguaglianza, più libertà e più garanzie dei lavoratori e fino all’apoteosi, quasi hegeliana, dei diritti umani nel 1989. Poi, all’improvviso tutto è finito. I nostri figli vivranno peggio di noi; il voto non stabilisce legame tra gli eletti e i cittadini; il lavoro è precario quando c’è; e il futuro appare come una minaccia angosciante e non più come promessa e magnifica immaginazione. Del progresso nessuno parla se non per dire che è “cane morto” e illusione del passato, il sol d’avvenire è spento e i politici sembrano figuri grotteschi, dediti a celebrare riti vuoti dal punto di vista semantico, perché incapaci di suscitare un motto di identificazione con chi ci dovrebbe rappresentare (e basti pensare all’immagine delle consultazioni quirinalizie poche settimane fa).
E allora, cosa ci aspetta? L’abbiamo chiesto a studiosi, filosofi, scienziati della politica. A partire da Zygmunt Bauman. Ma prima di sentirlo, due ulteriori premesse. Nel 1991 Christopher Lasch, storico americano scomparso ventidue anni fa, in un libro “Il paradiso in Terra” (Neri Pozza) in cui dava addio all’illusione appunto del progresso, citava un’osservazione di George Orwell (del 1940) per cui mentre le democrazie offrirebbero agiatezza e assenza di dolore, Hitler offriva lotta e morte; e ancora, nell’ultimo anno dell’Ottocento, Georg Simmel, sociologo tedesco cantore della metropoli con il suo caos e il denaro come la misura di tutto, diceva di comprendere comunque i laudatori dei valori all’antica e dei gesti eroici. E allora, anche oggi, di fronte alla Babele del pianeta globalizzato, stiamo cominciando (sotto le mentite spoglie dei populismi) a rivalutare il valore della comunità chiusa, isolata e retta da un uomo forte?
La risposta di Bauman è sì. Il sociologo parte dalla nozione di “retrotopia”, utopia retroattiva: richiamo a un passato mitico, inventato e che si presenta come la più seducente possibilità di fuga dalla angustie di un incerto presente. La retrotopia spiega per esempio il successo di Trump. Il presidente eletto non ha offerto, appunto, alcuna visione di un futuro migliore, di avanzamento della condizione della gente (come un Roosevelt o un Kennedy): il suo messaggio è invece quello di ripristinare il “glorioso” passato degli States rurali e proletari, non contaminato dal linguaggio politicamente corretto delle élite mondializzate, attente alle “regole”; regole incomprensibili però per l’uomo comune che così si sente escluso e non all’altezza di competere per il proprio posto al sole. vedi anche: AGF-EDITORIAL-59412-jpg La democrazia? E’ viva e lotta insieme a noi "L’elettorato protesta contro l’establishment, non contro il metodo democratico. Siamo scontenti delle scelte immediate dei nostri governanti, delle loro politiche. Ma non vedo all’orizzonte forze che seriamente vorrebbero rovesciare il sistema democratico". Il controcanto di Bernard Manin
Le élite politiche, a loro volta, non sono in grado di mantenere le promesse fatte. E non lo sono perché abbiamo a che fare con «il divorzio tra il potere e la politica». Il potere è sempre meno legato al territorio, sempre più rappresentato da entità astratte e immateriali (banche, finanza, mercati). Tutto questo crea frustrazione, ricerca del colpevole, del capro espiatorio, desiderio di tornare dalla “condizione cosmopolita” (teorizzata già oltre un secolo fa da austromarxisti e da socialisti del Bund ebraico) verso una comunità chiusa e dove è possibile un’illusoria ed estrema semplificazione. Chiusura e semplificazione (accresciute dalla paura dei migranti) che si trasformano nel desiderio di un “uomo forte”. Dice Bauman: «Forse la parola democrazia non sarà abbandonata, ma sarà messa in questione la classica tripartizione di potere tra l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario». Addio, dunque Montesquieu: porte spalancate a possibili forme dittatoriali. Anche perché, «perfino la speranza è stata privatizzata».
Ma forse Bauman, non teorico dell’azione, ma critico dell’esistente è troppo pessimista (in realtà, in privato ammette di sperare in una rinascita della sinistra cosmopolita). Forse occorre aggrapparsi alle parole di Chantal Mouffe, belga, celebre per i suoi studi sul populismo e sul concetto dell’egemonia, quando parla della necessità di tornare a una sinistra antagonista e che rigetti il compromesso liberal-socialdemocratico. O forse ha ragione Pierre Rosanvallon, politologo francese, tra i più rinomati che va ripetendo che non siamo più in democrazia (“Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia”, “Le Bon Gouvernement”) e propone misure concrete di resistenza. Tra queste: sorvegliare, vigilare, controllare il potere e «parlar chiaro e dire la verità». E con quest’ultima parola d’ordine torna alle ricerche di Michel Foucault sulla “parresia”, il dire ciò che si pensa dei Greci ai tempi di Pericle, virtù cittadina e mezzo di opposizione alle tentazioni di ogni tirannide.
Fin qui la speranza, perché Rosanvallon dice anche che la vecchia idea di un parlamento che legifera e un governo che esegue non esiste più, perché il potere politico è ormai in mano all’esecutivo e cresce la voglia di presidenzialismo ovunque. Gli fa eco David Van Reybrouck, uno studioso che arriva a teorizzare il sorteggio di persone chiamate a decidere delle cose della politica, come avveniva appunto ad Atene, tanto da aver scritto un libro intitolato “Contro le elezioni” (e aggiunge: «Gli eletti sono élite»). Dice Donatella Di Cesare, professoressa di Filosofia teoretica a La Sapienza e femminista con forti tendenze anarchiche: «La democrazia è l’ultimo tabù. Nessuno osa metterlo in questione, eppure bisogna cominciare a farlo se non vogliamo la catastrofe e se desideriamo preservare le nostre libertà». Indica l’America per dire: «La democrazia sta diventando dinastia».
E allora che fare? «Rendere la democrazia più femmina e meno maschio. Accettare, in questi tempi di mondializzazione e di flussi di migranti, una sovranità limitata, condizionata, distaccata dall’ossessione identitaria, aperta invece ad Altri. Chi esalta la sovranità rigida, finirà per rinunciare alla libertà in nome appunto della mera sovranità. Io lo temo». Lo teme pure Jan Zielonka docente a Saint Antonys College, a Oxford, alla Cattedra intitolata a Ralph Dahrendorf, per decenni pontefice massimo del liberalismo. Da Varsavia, dove si trova in vacanza, al telefono conferma: «Sta vincendo la controrivoluzione. Certo, l’ondata controrivoluzionaria avanza grazie a elezioni e non con putsch militari o barricate, ma pensare che si possa tornare indietro verso il rassicurante mondo della democrazia liberale è una follia».
A questo punto non resta che fare un po’ di ordine e ripetere la domanda: che fare? La parola va a Emmanuel Todt, personaggio geniale, controverso, poliedrico, storico «della lunga durata» (così si autodefinisce), che prima di esplicare il suo pensiero ci tiene a presentarsi come prosecutore delle tradizioni della «vecchia borghesia israelitica patriottica». Usa questa definizione desueta per sottolineare la sua impermeabilità alle mode identitarie, perché poi difende una certa idea di identità. Otto anni fa Todt pubblicò un libro intitolato “Après la démocratie” (dopo la democrazia). Oggi dice: «La storia dell’Occidente non coincide con la storia della democrazia». E anche: «La democrazia era legata alla diffusione del sapere a alfabetizzazione delle masse», per arrivare ad affermare: «Oggi invece le élite, minacciate da un popolo ormai in grado di leggere e scrivere cercano di stabilire comunque la differenza culturale. E così tradiscono la democrazia, dicendo che chi vota Trump o Brexit è ignorante». Rimarca: «La democrazia comunque non esiste più. È morta assieme alla globalizzazione e all’euro, ai flussi migratori incontrollati. Se io non sono padrone della moneta e del territorio, non posso esercitare i miei diritti democratici». Ripete: «Non sono uno xenofobo, ho in odio il Front national, ma mi preme dire ciò che penso».
E allora, davvero è finita la democrazia? Conclude Ilvo Diamanti. Che dice due cose fondamentali. La prima: la democrazia è una forma di potere, di “cratos”, non può dunque essere parziale e deve anzi corrispondere a un territorio abitato e gestito da una popolazione di cittadini (una constatazione non del tutto ovvia ai tempi del mondo globale). In altre parole: la responsabilità, principio della democrazia contempla la delimitazione, quindi l’esistenza dei confini. La seconda: la forma della democrazia corrisponde alla tecnologia della comunicazione. Ai tempi dei notabili, l’arena era il parlamento e i partiti nascevano nelle Aule delle assemblee, elette per lo più per censo. Poi sono subentrati i partiti di massa e si è passati alla piazza e ai giornali. Lo stadio successivo è stata la personalizzazione e il leaderismo e siamo alla tv.
Oggi a queste forme (nessuna del tutto scomparsa) va aggiunta la Rete. E siamo alla “democrazia ibrida”. Aggiunge: «La Rete permette qualcosa che assomiglia alla democrazia immediata, dove la deliberazione e l’esecuzione avvengono contestualmente. Ma la democrazia ha bisogno delle mediazioni, là dove invece è immediata e radicale (come nell’utopica visione giacobina o ad Atene del V secolo avanti Cristo) tende ad abolire se stessa». La abolirà? «Penso», risponde, «che vivremo in un mix tra democrazia mediata e immediata». E non è un futuro rassicurante.
Wlodek Goldkorn: la memoria preziosa di un ebraismo che non coincide col sionismo
di Gad Lerner (sabato, 4 giugno 2016)
Ho letto con emozione l’ultimo bellissimo libro di Wlodek Goldkorn, “Il bambino nella neve” (Feltrinelli), non solo perchè si tratta dell’opera più intima e impegnativa di un amico al cui tragitto esistenziale mi sento affratellato. Figlio di ebrei polacchi sopravvissuti alla Shoah che avevano deciso di restare a vivere nel loro paese e che invece dovettero emigrare in Israele nel 1968, di fatto espulsi dal regime comunista con una valigia e cinque dollari a testa, Wlodek ha trovato le parole per raccontarci le molteplici conseguenze di quello strappo perpetrato nel cuore dell’Europa. In cui pure è ritornato a vivere, trovando in Italia una terra capace di ospitare la sua anima tormentata e cosmopolita.
Straordinarie sono le pagine dedicate all’infanzia trascorsa a Katowice, non lontano da Auschwitz, nei casermoni abbandonati nel 1945 dagli occupanti nazisti, col mobilio e le stoviglie ancora marchiati dalle svastiche. Custodire la memoria degli sterminati e perpetuare sotto il comunismo sovietico una cultura yiddish depurata da anacronismi superstiziosi, si rivelò una sfida improba. Eppure, indispensabile. Perchè l’ebraismo vive nel tempo d’attesa del Messia e non solo nello spazio proprietario di una terra idolatrata, sia essa pure la terra d’Israele da cui Wlodek si sentirà nuovamente respinto.
Non a caso si sceglierà come maestro di vita Marek Edelman, il vicecomandante della rivolta del ghetto di Varsavia divenuto cardiochirurgo e testimone del dissenso antiregime. La sua è un’adesione postuma al Bund, il partito socialista ebraico che contrastava il progetto sionista, considerando prioritaria l’emancipazione “qui e ora” degli ebrei nella terra in cui già vivevano da secoli. Impegnati a custodire le tombe e presidiare i luoghi di uno sterminio mai visto prima, ma nello stesso tempo a perpetuare l’anelito di redenzione incarnatosi nell’impegno per la giustizia sociale e i diritti universali.
In altre parole, raccontando le vicissitudini della sua famiglia nelle asperità di un dopoguerra tutt’altro che pacificato, Wlodek Goldkorn mantiene vivo lo spirito di un ebraismo che non può accettare di ricondursi per intero nel destino del sionismo. Tanto più oggi, quando Israele soffre di un’involuzione particolaristica che ne sta mettendo a repentaglio la natura democratica e distorce a fini politici i suoi millenari insegnamenti. Wlodek è un prezioso testimone dell’ebraismo. Laico, non credente, eppure messianico. Con questo libro, corredato dalle belle fotografie di Neige De Benedetti che l’ha accompagnato in una sorta di pellegrinaggio nell’indicibile dei campi di sterminio, si rivela essere anche uno scrittore di vaglia.
“Il bambino nella neve” è un libro importante, colma un buco nero. L’esperienza vissuta in prima persona da persone sensibili e colte come il suo autore, ha un valore inestimabile che durerà nel tempo.
LA "COPPIA FREUDIANA". L’OPERA DI CHRISTOPHER BOLLAS "disegna il limite al quale si può spingere oggi l’analisi reciproca":
Prenderli al volo prima che precipitino
di Pietro Barbetta ( "Doppiozero", 22 ottobre 2016)
Il giovane Holden ha un momento di tenerezza davanti alla domanda della sorellina. Phoebe, questo il nome della piccola, gli chiede che cosa vuol fare da grande. Holden risponde che ci sono tanti ragazzi: “e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere nel dirupo... io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli”.
È la parte più tenera del romanzo, quella che gli dà il titolo in lingua inglese il suo cuore: The Catcher in the Rye (l’intraducibile: Acchiappatore nella segale). Holden Caulfield prosegue: “Non dovrei far altro tutto il giorno. Sarei solo l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia” (Salinger, Il giovane Holden).
Una delle ultime opere di Cristopher Bollas s’intitola Catch Them Before They Fall, prendili prima che precipitino. Prima che cadano nel dirupo. Ciò che Il giovane Holden racconta alla sorellina Phoebe, sembra rispecchiare la missione di Bollas nel suo lavoro con gli schizofrenici.
Cristopher Bollas nasce il 21 Dicembre del 1943 a Washington. Negli Stati Uniti riceve formazione umanistica e letteraria, con predilezione verso gli studi storici. Bollas conosce l’opera di Sigmund Freud come pochi e sviluppa, nel corso della sua vita, una pratica clinica intensa. È il più noto esempio vivente di umanista che, fin da giovane, è immerso nel flusso della clinica, ricevendo - nel tempo, col suo trasferimento a Londra - la formazione psicoanalitica. È un’epoca in cui, nel Regno Unito, non si fanno distinzioni tra medici e laici, conta la passione clinica.
La sua vita si svolge tra gli Stati Uniti e Londra. Nell’ultimo libro Se il sole esplode. L’enigma della schizofrenia, uscito per Raffaello Cortina, Bollas racconta il suo lavoro con persone schizofreniche e la sua formazione clinica, come se le due cose andassero in parallelo.
Bollas sembra sostenere che per lavorare con la psicosi, in particolare con la schizofrenia, l’essere psicoanalisti, o psicoterapeuti di qualunque scuola, non basta. Bisogna riconoscere che questo lavoro è una pazzia. Che il terapeuta ha bisogno di condividere la pazzia, di liberarsi dal terrore di venire contaminato, di essere, anche lui, un po’ schizofrenico, folle, delirante; al punto da considerare il delirio nient’altro che un sistema complesso di libere associazioni. Un esempio di sovra-determinazione freudiana.
Autore prolifico - le opere di Bollas hanno avuto particolare successo in Italia, grazie a Raffaello Cortina, Astrolabio, Borla e Antigone - è tra i massimi psicoanalisti viventi e attivi. Mentre qui da noi ci sono ancora psicoanalisti che si chiedono se sia corretto usare la lampadina elettrica, dal momento che ai tempi di Freud si usavano le lampade a gas, Bollas, senza alcuna inibizione da psicoanalista, scrive delle sedute che fa per telefono, via Skype; lasciandoci surplace.
Durante le mie lezioni di psicologia dinamica, propongo a un gruppo di studenti un seminario su Cristopher Bollas. Gli studenti intitolano il paper, scaturito dal lavoro collettivo: Alla scoperta dei temi controversi nella psicoanalisi. Ne nasce un animato dibattito tra il gruppo degli studenti coinvolti, il resto della classe e me. Il gruppo dà questo titolo al seminario per sottolineare come una serie di argomenti di Bollas si sviluppi a partire da riferimenti critici, addirittura di rottura, rispetto alla psicoanalisi. Evocano Ronald Laing e, più in generale, l’idea di psichiatria democratica.
Altri sottolineano che la cultura di Bollas è ricca di elementi storici, letterari, filosofici, che il libro sulla Mente orientale ricorda lo Zen e le considerazioni di Bateson su Bali.
Altri ancora sostengono che il transfert in Bollas è il contrario dell’idea di neutralità nella psicoanalisi classica, che per molti aspetti Bollas somiglia a un terapeuta rogersiano, a un terapeuta narrativo sistemico, a uno psicoanalista della relazione.
C’è chi, infine, dice che tutte queste tematiche sono recepite da buona parte dei membri della società psicoanalitica freudiana (la famosa IPA) e che oggi non si può più definire chi sia eretico in psicoanalisi. Chi, tra gli studenti, è già in terapia, dichiara che il suo terapeuta è come Bollas, ha lo stesso stile.
Forse Bollas dà voce a un modo accogliente difare terapia che è già diffuso in campo psicoanalitico, transazionale, sistemico, gestaltico. Non fa che descrivere la terapia, distinguerla da quel guazzabuglio di interventi coatti e autoritari che hanno dominato l’inizio del millennio e che - finalmente! - stanno tramontando. Se così, dobbiamo dire che la sua voce è efficace, è un autentico metodo basato sull’evidenza; evidenza che la psicoterapia è, come la follia: creazione.
I racconti dei casi clinici, così come li scrive Bollas - in quello stile elegante tipico della letteratura anglosassone - sono opere letterarie, lontane dai gerghi psicoanalitici. Racconti didascalici, chiari, privi di espressioni tecniche. Bollas non usa la scolastica psicoanalitica in modo diretto. Quando la usa, come nel caso del termine inconscio collettivo, non dà mai per scontato che cosa significhi per lui e come mai, in quella circostanza, ha usato quel termine junghiano.
Il lettore che legge i suoi libri non sente sul collo il fiato della psicoanalisi seria, di quella cosa che Foucault chiamerebbe pratica discorsiva. Mi capita spesso di leggere in parallelo un testo letterario e dei saggi. Mentre leggo Bollas, non mi accorgo della differenza, non sento il salto tra saggistica e narrativa. I suoi scritti partono sempre dal soggetto Christopher, piuttosto che dal dottor Bollas.
Bollas non ha dunque alcuna pretesa teoretica astratta, nessun modello filosofico/antropologico definitivo da proporre. Scrive partendo dalla vita e la vita è vita di relazione tra sé e i suoi casi clinici, casi della vita. Nel libro Il mondo dell’oggetto educativo, Bollas insiste in maniera singolare su un termine: coppia freudiana. Non si tratta di un nuovo concetto da inserire nel lessico psicoanalitico, si tratta di un lemma che riguarda la relazione terapeutica.
Che cos’è la coppia freudiana? La coppia freudiana è un evento. Accade quando l’inconscio del soggetto che frequenta la terapia tocca l’inconscio del terapeuta. Questa definizione della traslazione in psicoanalisi non può non ricordare un autore che sta sullo sfondo del pensiero di Bollas, un po’ come Nietzsche sta sullo sfondo del pensiero di Freud: Sandor Ferenczi.
Il termine coppia freudiana evoca l’analisi reciproca di Ferenczi. L’opera di Bollas disegna il limite al quale si può spingere oggi l’analisi reciproca. Il coraggio di parlare di sé alle persone che frequentano le sedute e di scrivere di sé ai suoi lettori, non va scambiato con il narcisismo. È semmai il contrario. È immerso in un orizzonte di ironia e di curiosità terapeutica. È la maniera di mettere in comune le proprie esperienze con quelle del soggetto in terapia, di condividere le passioni, di reagire agli eventi, di riconoscere gli errori del terapeuta, di entrare in relazione.
Insomma, la traslazione del terapeuta non è contro-transfert, semmai co-transfert, se vogliamo usare il gergo della psicoanalisi.
Il terapeuta non è istruttore, interpretante, riparatore, è la parte di un incontro, non sempre dialogico, non senza conflitti. Ma la terapia è anche un mondo in cui i conflitti si gestiscono insieme.
Vorrei infine sottolineare l’uso diagnostico del termine psicosi per definire il periodo storico di una nazione: le tendenze psicotiche interne agli Stati Uniti negli anni Sessanta, secondo capitolo del suo ultimo libro, nome del capitolo: “La follia di una nazione”.
Mi è capitato di recente di scrivere su doppiozero.com alcune note sull’epoca psicotica che stiamo attraversando in Europa - sto persino cercando di scriverci sopra un libro - e mi conforta sapere che le mie riflessioni sono corroborate da un autore ben più importante. Dall’assassinio di Kennedy alla guerra del Vietnam, venti psicotici hanno pervaso gli Stati Uniti così come oggi questi venti pervadono l’Europa; dai comportamenti delle banche e dei più potenti manager alle incursioni dello Stato Islamico, dal risorgere di venti fascisti e nazionalisti all’insorgenza dei massacri della crescente sociopatia. Come i bimbi dell’East Bay Activity Center di Oakland, in California, negli anni Sessanta sentivano la patologia della nazione dentro la pelle, così gli adolescenti che mi capita di incontrare nel mio lavoro quotidiano sentono i venti psicotici dell’Europa contemporanea.
Dallo Stato sovrano allo Stato partecipato
di Paolo Prodi (Il Mulino, 19 dicembre 2016]) *
In un precedente intervento su questa rivista, ho avanzato la tesi che la riduzione del problema delle pensioni a dilemma tra sistema retributivo e sistema contributivo ‒ come avviene non solo nella stampa e nei talk show, ma anche in interventi di autorevoli esperti ‒ è deviante e pericoloso particolarmente in questo momento storico: quando stiamo già abbandonando, con la rivoluzione tecnologica, il sistema della fabbrica e delle strutture burocratiche sulle quali si era costruito il Welfare State nell’Ottocento, con il coinvolgimento dei lavoratori e delle imprese. Il ricorso alla tassazione generale, al fisco, diventa invece inevitabile e urgente quando le figure del produttore-lavoratore e del consumatore non coincidono più.
Ora penso sia inevitabile ampliare il discorso con una seconda tesi, mettendo in discussione le conseguenze che questa diagnosi ha ‒ se è vera ‒ nel processo generale di superamento del moderno Stato sovrano di diritto. Senza affrontare il problema della crisi dello Stato nazionale nel mondo globalizzato, devo precisare come punto di partenza che per me è in crisi lo «Stato sovrano», non lo «Stato» considerato come realtà che muta attraverso i secoli e che, persa la sovranità tradizionale, sta cercando nuove funzioni. Non si tratta di un mutamento solo di pelle, ma di una metamorfosi che sta investendo sia il potere politico sia quello economico (nonché il sacro, sembra): pensiamo ai fondi sovrani o, forse in senso inverso, al capitalismo di Stato cinese.
È entrata dunque in crisi la sovranità statale, ma con questa anche, secondo l’espressione che era così cara all’amico Roberto Ruffilli, la sovranità del cittadino che sta perdendo con la crisi della rappresentanza politica la sua identità collettiva, la sua personalità sociale senza che nessuno possa fare da arbitro. Quando si parla di crisi della politica mi sembra che anche gli esperti politologi, sia negli interventi più tecnici sia sulla stampa, si limitino, sulle orme dei nostri classici sino a Norberto Bobbio, a grandi discorsi sui sintomi della malattia, senza vedere che la crisi ha le sue radici proprio nella non-partecipazione e non viceversa, nella perdita soprattutto del collante collettivo che un tempo era costituito dalla «Patria».
Per fare un esempio che sembra marginale ‒ ma che non lo è ‒ se io dovessi scegliere una data periodologica per segnare, almeno per l’Italia, un passaggio epocale, io sceglierei il 2005 come anno in cui fu decisa l’abolizione della leva militare obbligatoria: se non si deve più morire per la Patria, mi sembra che tutto il resto diventi secondario.
Venuto meno questo collante, mi sembra che il rapporto tra detentori del potere economico e del potere politico sia radicalmente cambiato dal paradigma che è nato dalle rivoluzioni industriali dei secoli precedenti: è caduta l’ideologia della rivoluzione che ad esse era collegata ma non certo l’idea di rivoluzione come progetto di una nuova società.
La distinzione tra destra e sinistra è messa in causa non perché sia venuta meno, ma perché è venuto meno il rapporto storico, del quale la Rivoluzione francese era stata la massima espressione, tra tra libertà, uguaglianza a fraternità che ne aveva caratterizzato il successo nel passaggio dal sistema feudale a quello della proprietà.
Da questo punto di vista, le proposte che oggi vengono avanzate non affrontano in nessun modo i mutamenti che procedono con il nuovo capitalismo finanziario. Anche le proposte di un reddito di cittadinanza sembrano partire dalla coda anziché dalla testa del problema; così come il taglio delle pensioni più alte con l’invocazione della solidarietà risulta totalmente al di fuori di ogni logica giuridica nell’ordinamento attuale, anche se malformazioni ereditate dai cosiddetti «diritti acquisiti» possono essere corrette nel breve termine.
L’intervento pubblico organico deve essere basato su un ripensamento della fiscalità generale non per statalizzare, ma ancor più quando si vuole alleggerire il peso del welfare sullo Stato e ricorrere ai corpi intermedi e al volontariato.
Qui si toccano naturalmente i punti più profondi della crisi della democratica parlamentare e dei nuovi populismi. L’obiettivo della politica è ora certamente l’acquisizione del consenso, e non possiamo fermarci alle strutture di rappresentanza parlamentare. Dobbiamo forse arretrare e riflettere ancora una volta sulle origini della democrazia nella Grecia antica: l’acquisto del consenso da parte dei detentori del potere non ha più confini né geografici né di comunicazione nelle nuove cosmopoli (anche il tema delle frodi fiscali può essere evasivo).
*
[Riproduciamo un articolo uscito il 15 giugno 2016. Anche questo breve intervento, come tutte le cose pubblicate da Paolo Prodi per questa rivista, siasu carta sia sul sito, testimoniano una instancabile curiosità per un mondo in continua e faticosa trasformazione. Le sue riflessioni, a partire dallo straordinario lavoro di storico, venivano spesso condivise con alcuni amici e, per fortuna di tutti, si traducevano quasi sempre in scrittura. L’opera di Paolo Prodi è quasi interamente patrimonio del «suo» Mulino, che gli deve molto quanto a lavoro intellettuale e di animatore culturale.]
L’etica perduta della politica
di STEFANO RODOTÀ (la Repubblica, 17 Dicembre 2016)
TRA una politica che fatica a presentarsi in forme accettabili dai cittadini e un populismo che di essa vuole liberarsi, bisogna riaffermare una “moralità” delle regole attinta a quella cultura costituzionale diffusa la cui emersione costituisce una rilevantissima novità.
Mai nella storia della Repubblica vi era stata pari attenzione dei cittadini per la Costituzione, per la sua funzione, per il modo in cui incide sul confronto politico e le dinamiche sociali. I cittadini ne erano stati lontani, non l’avevano sentita come cosa propria. Nell’ultimo periodo, invece, si sono moltiplicate le occasioni in cui proprio il riferimento forte alla Costituzione è stato utilizzato per determinare la prevalenza tra gli interessi in conflitto.
Dobbiamo ricordare che nell’articolo 54 della Costituzione sono scritte le parole “disciplina e onore”, vincolando ad esse il comportamento dei «cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche». I costituenti erano consapevoli del fatto che il ricorso al diritto non consente di economizzare l’etica. Non si affidarono soltanto al rigore delle regole formali, ma alla costruzione di un ambiente civile all’interno del quale potessero essere esercitate le “virtù repubblicane”. Colti e lungimiranti, guardavano alla storia e al futuro. Non avevano solo memoria del fascismo. Rivolgevano lo sguardo ad un passato più lontano, anch’esso inquietante: agli anni del “mostruoso connubio” tra politica e amministrazione denunciato da Silvio Spaventa.
Così la questione “morale” si presenta come vera e ineludibile questione “politica”. Lo aveva messo in evidenza in passato Enrico Berlinguer. L’intransigenza morale può non piacere, ma la sua ripulsa non può divenire la via che conduce a girare la testa di fronte a fatti di corruzione anche gravi. Altrimenti la caduta dell’etica pubblica diviene un potente incentivo al diffondersi dell’illegalità e a una sua legittimazione sociale.
In questi anni il degrado politico e civile è aumentato. È cresciuto il livello della corruzione, in troppi casi la reazione ai comportamenti devianti non è stata adeguata alla loro gravità. Tra i diversi soggetti che istituzionalmente dovrebbero esercitare forme di controllo, questa attività si è venuta concentrando quasi solo nella magistratura. Ma la scelta del ceto politico di legare ad una sentenza definitiva qualsiasi forma di sanzione può produrre due conseguenze negative. Non solo la sanzione si allontana nel tempo, ma rischia di non arrivare mai, perché non tutti comportamenti censurabili politicamente o moralmente costituiscono reato.
Non ci si è accorti dell’ampliamento del ruolo che da ciò derivava per la magistratura, eletta a unico e definitivo “tribunale della politica”. E questo non è un segno di buona salute, perché i sistemi politici riescono a mantenere equilibri democratici solo quando vi è il concorso di tutti i soggetti istituzionali ai quali questi equilibri sono affidati.
È stata dunque la politica stessa ad affidarsi ai giudici come “decisori finali”, azzerando in questo modo per se stessa i vincoli di moralità e di responsabilità propriamente politica. Ma questa constatazione porta ad un interrogativo: come restituire alla politica l’etica perduta?
Gli 80 anni del papa
Papa Francesco che cammina sulle tracce di Agostino
di EUGENIO SCALFARI (la Repubblica, 17 dicembre 2016)
COMPIE ottant’anni papa Francesco e li porta molto bene, sia fisicamente e sia spiritualmente. Viaggia continuamente nel mondo intero e nelle parrocchie romane. Di Roma è vescovo e questa qualifica la rivendica spesso perché gli consente di definirsi come “primus inter pares” e lui è consapevole di quanto sia utile a quella Chiesa missionaria da lui realizzata.
Personalmente ho avuto la fortuna di diventargli amico ancorché io non sia un credente. Papa Francesco aveva bisogno di un non credente che approvasse la predicazione di quello che lui chiama Gesù Cristo ed io chiamo Gesù di Nazareth figlio di Maria e di Giuseppe della tribù di David, cioè era figlio dell’uomo e non di Dio. Ma su questo modo di considerare Cristo papa Francesco è d’accordo: il Figlio di Dio quando decide di incarnarsi diventa realmente un uomo con tutte le passioni, le debolezze, le virtù d’un uomo. Francesco racconta spesso la settimana della Passione che ha il suo inizio con l’ingresso quasi trionfale di Gesù a Gerusalemme, seguito da molti dei suoi fedeli e naturalmente dei suoi apostoli. Ma a Gerusalemme trova anche quelli che lo temono e lo odiano. Soprattutto la gerarchia ebraica del Tempio che si sente minacciata nei suoi privilegi.
A quell’epoca Israele era sotto la "protezione" dell’impero di Roma e l’imperatore era Tiberio che nulla sapeva di quanto avvenisse in province assai lontane. Papa Francesco ricorda gli ultimi giorni di quella che poi fu chiamata la "Via Crucis", l’ultima cena e poi quel che avvenne nell’orto di Getsemani. Gli apostoli a quella cena erano tredici ma uno di loro, Giuda Iscariota, lo aveva già tradito e quando Gesù cominciò a parlare abbandonò quel tavolo e andò via. Restarono in dodici e fu lì che Gesù condivise il pane e il vino identificandoli con il suo corpo e il suo sangue. Il Signore era già stato battezzato da Giovanni nelle acque del Giordano e battesimo ed eucarestia furono i soli due Sacramenti; gli altri vennero dopo. La natura umana del Cristo si ha nei racconti dei Vangeli, nel Getsemani e poi sulla Croce. Nell’orto, dove sarà poi arrestato dai soldati romani guidati dall’Iscariota, Gesù entra in contatto con il Padre e dice: «Se tu puoi allontana da me questo amaro calice ma se non vuoi lo berrò fino in fondo». Sulla Croce, negli ultimi istanti prima della morte dice: «Padre, perché mi hai abbandonato?». Quindi era un uomo, l’incarnazione era stata reale.
Papa Francesco è affascinato da questi racconti. Mi sono chiesto e gli ho chiesto il perché del fascino che esercitano su di lui e la risposta è stata che nel mistero trinitario Cristo rappresenta l’amore in tutte le sue manifestazioni. L’amore verso Dio che si trasforma in amore verso il prossimo. «Ama il prossimo tuo come te stesso» è una legittimazione dell’amore all’individuo e alla comunità, in cerchi concentrici: la famiglia, il luogo dove vive e soprattutto la specie cui appartiene.
Francesco indica i poveri, i bisognosi, gli ammalati, i migranti. Francesco sa bene quello che dice la Bibbia: «I ricchi e i potenti debbono passare per la cruna d’un ago per guadagnare il Paradiso». Occorre dunque che i popoli si integrino con gli altri popoli. Si va verso un meticciato universale che sarà un beneficio, avvicinerà i costumi, le religioni. Il Dio unico sarà finalmente una realtà. È questo che Francesco auspica. «È ovvio che sia unico, ma finora non è stato così. Ciascuno ha il suo Dio e questo alimenta il fondamentalismo, le guerre, il terrorismo. Perfino i cristiani si sono differenziati, gli Ortodossi sono diversi dai Luterani, i protestanti si dividono in migliaia di diverse confessioni, gli scismi hanno accresciuto queste divisioni. Del resto noi cattolici siamo stati invasi dal temporalismo, a cominciare dalle Crociate e dalle guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa e l’America del Nord e del Sud. Il fenomeno della schiavitù e la tratta degli schiavi, la loro vendita alle aste. Questa è stata la realtà che ha deturpato la storia del mondo».
Quando papa Francesco ha partecipato alla celebrazione di Martin Lutero e della sua Riforma ha colto l’essenza delle tesi luterane: l’identificazione dei fedeli con Dio non ha bisogno dell’intermediazione del clero ma avviene direttamente. Questo ci conduce al Dio unico e assegna al sacerdozio un ruolo secondario. Così avveniva nei primi secoli del cristianesimo, quando i Sacramenti erano direttamente celebrati dai fedeli e i presbiteri facevano soltanto il servizio. Francesco è d’accordo su queste tesi luterane che coincidono con quanto avvenne nei primi secoli.
Ma quali sono i Santi che il nostro Papa predilige? Gliel’ho chiesto e lui mi ha risposto così: «Il primo è naturalmente Paolo. È lui ad aver costruito la nostra religione. La Comunità di Gerusalemme guidata da Pietro si definiva ebraico-cristiana, ma Paolo consigliò che bisognava abbandonare l’ebraismo e dedicarsi alla diffusione del cristianesimo tra i Gentili, cioè ai pagani. Pietro lo seguì in questa sua concezione anche se Paolo non aveva mai visto Gesù. Non era un apostolo, eppure si considerò tale e Pietro lo riconobbe. Il secondo è San Giovanni Evangelista, che scrisse il quarto Vangelo, il più bello di tutti. Il terzo è Gregorio, l’esponente della Patristica e della liturgia.
Il quarto è Agostino, vescovo di Ippona, educato adeguatamente da Ambrogio vescovo di Milano. Agostino parlò della Grazia, che tocca tutte le anime e le predispone al bene compatibilmente con il libero arbitrio. La libertà accresce il valore del bene e condiziona il suo eventuale abbandono.
Ebbene, sembrerà che io esageri ma ne sono fermamente convinto: dopo Agostino viene papa Francesco. L’intervallo temporale è enorme, ma la sostanza è quella. L’ho definito, quando l’ho conosciuto, rivoluzionario e profetico ma anche modernissimo.
In uno dei nostri incontri gli chiesi se pensava di convocare un nuovo Concilio e lui rispose: «Un Concilio no: il Vaticano II, avvenuto cinquant’anni fa, ha lasciato una precettistica che in buona parte è stata applicata da Giovanni Paolo II, da Paolo VI e da Benedetto XVI. Ma c’è un punto che non ha fatto passi avanti ed è quello che riguarda il confronto con la modernità. Spetta a me colmare questa lacuna. La Chiesa deve modernizzarsi profondamente nelle sue strutture ed anche nella sua cultura».
Santità - ho obiettato io - la modernità non crede nell’Assoluto. Non esiste la verità assoluta. Lei dovrà dunque confrontarsi con il relativismo. «Infatti. Per me esiste l’Assoluto, la nostra fede ci porta a credere nel Dio trascendente, creatore dell’Universo. Tuttavia ciascuno di noi ha un relativismo personale, i cloni non esistono. Ognuno di noi ha una propria visione dell’Assoluto da questo punto di vista il relativismo c’è e si colloca a fianco della nostra fede».
Buoni ottant’anni, caro Francesco. Continuo a pensare che dopo Agostino viene Lei. È una ricchezza spirituale per tutti, credenti o non credenti che siano.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
IL “PARADISO IN TERRA”, LA “MEMORIA” DI ABY WARBURG, E LA LEZIONE DI WALTER BENJAMIN. *
C’ERA UNA VOLTA IL PARADISO SEGNATO SULLE CARTE. “Il paradiso in terra. Mappe del giardino dell’Eden”, (Bruno Mondadori, Milano, 2007) di Alessandro Scafi è per molti versi un’opera sorprendente - soprattutto per l’essere il lavoro di un “Lecturer in Medieval and Renaissance Cultural History” presso il Warburg Institute di Londra.
Muovendo dalla storica acquisizione che la “gran parte delle mappe medievali contengono un riferimento visivo al giardino dell’Eden”, egli cerca di rispondere alla domanda su quali siano state “le condizioni che hanno reso possibile la cartografia del paradiso”. Lo scopo del suo libro, infatti, è quello di “visitare il nostro passato come si fa con un paese straniero, tentando di effettuare la visita con la massima apertura mentale e il massimo rispetto” e cercare di esplorare e scoprire - premesso che “chi metteva il paradiso su una carta aveva le sue buone ragioni” - queste “buone ragioni” (p.7).
Se è vero - come egli stesso sostiene - che “ieri segnare il paradiso su una carta significava una confessione dei limiti della ragione una dichiarazione di fede in un Dio che interveniva nell’arena geografica della storia”, e, altrettanto, che “oggi una mappa che tra le ragioni del mondo comprenda anche il paradiso sembra dover richiedere uno slancio di fantasia o uno sforzo di immaginazione”, è da pensare che l’Autore - alla luce del suo percorso e, ancor di più, delle sue stesse conclusioni - ha trovato molte e grandi difficoltà e che - per dirlo “con una parola-chiave dell’orizzonte di Aby Warburg - che la Memoria (“Mnemosyne”) gli ha giocato un brutto scherzo!
Nell’ Epilogo, con il titolo “Paradiso allora, paradiso ora”, dopo aver premesso in esergo la seguente citazione:
Scafi così comincia: “Per cercare di capire la cartografia del paradiso abbiamo compiuto un lungo viaggio nel tempo. Siamo partiti dagli albori del cristianesimo e, passando attraverso il Medioevo, il Rinascimento e la Riforma, siamo arrivati ai giorni nostri. Abbiamo incontrato il paradiso terrestre in una grande varietà di forme, sia descritto a parole sia sagomato dalle linee di una carta”.
E ormai stanco del percorso fatto, nello sforzo di non farsi accecare dalla varietà delle forme e di (farci!) cogliere l’essenziale (il “dio”) che nei “dettagli” si “nasconde”, così ricorda e prosegue: “Come si è visto, localizzare il paradiso terrestre descritto dalla Genesi non era soltanto un problema geografico, e tutti coloro che hanno voluto interpretare il racconto del peccato di Adamo si sono trovati di fronte ai grandi interrogativi sul destino ultimo dell’uomo”. E, a chiusura del discorso e a esclusione di ulteriori domande in questa nebbiosa direzione metafisica ed escatologica, così precisa: “Non c’è meravigliarsi, allora, che le risposte offerte da tanti secoli di tradizione cristiana siano state formulate e riformulate, con il passare del tempo, in maniera così diversa”!
LA RINASCITA DELLA “HYBRIS” ANTICA: I MODERNI. L’attenzione di Scafi, nonostante ogni buona intenzione, è conquistata da altro: “Quello che colpisce, invece, è il modo in cui, a partire dal Rinascimento e dalla Riforma, ogni autore che si sia cimentato sull’argomento si è sempre industriato a ridicolizzare le teorie dei suoi predecessori. Scrivere sul paradiso sembrava richiedere sempre una carrellata preliminare sulle stravaganze precedenti, per bollare come insostenibili tutte le teorie pregresse e quindi proporre la propria soluzione, che si auspicava definitiva”. E così sintetizza e generalizza: “L’abitudine di presentare, in un’ironica rassegna, le assurdità e gli errori del passato è diventata così un topos che è durato fino ad oggi”; e, ancora, precisa: “A ben vedere, si possono rintracciare già nella tarda antichità le avvisaglie di questa pratica post-rinascimentale”(p. 306).
Colpito da questa “evidenza” e da questa “scoperta”, egli prosegue con l’antica e moderna ‘tracotanza’ (il “folle volo”) a narrare la sua “odissea”, aggiorna il numero della “varietà delle forme” delle mappe del giardino dell’Eden, e, senza alcun timore e tremore, completa la sua personale “ironica rassegna”, - con una “carrellata” sulle ultime e ultimissime “stravaganze”, su quelle degli artisti russi Ilya ed Emilia Kabakov, coi loro “progetti singolari e fantasiosi” (in particolare, “Il paradiso sotto il soffitto”), che Scafi così commenta:
“MAPPING PARADISE”. Questa è la conclusione di "A History of Heaven on Earth”: per dirla in breve, una pietra tombale sull’idea stessa del “paradiso in terra”, e non solo sulle “carte” dei Kabakov, anche se “i due artisti russi sembrano condividere il pensiero dei teologi e dei cartografi medievali”.
Che a questo “destino” dovesse approdare tutta la ricerca, nonostante le apparenze del percorso, Scafi l’aveva già ‘annunciato’, come in una “profezia che si auto-adempie”, in un breve paragrafo dedicato a Dante e alla “Commedia”, intitolato “Un volo poetico in paradiso”, dove - separata “poesia” e “non poesia” - così pontifica:
Fin qui, niente di speciale: il suo punto di approdo è lo stesso di “chi scrive di storia per il grande pubblico” e degli “storici di professione”(p. 7)! E la sua “storia dell’arte” cartografica del “paradiso in terra” di “oggi”, alla fin fine, potrebbe benissimo essere collocata, in una possibile ristampa, nel “Dictionary of the Bible” di “ieri” (1863).
LA SCALA DEGLI INDIANI PUEBLO E LA “MEMORIA” DEL PARADISO DI ABI WARBURG. Per “ironia della sorte”, quasi cento anni prima della mostra dei Kabokov a Londra (1998), nel 1896, Aby Warburg è nel Nuovo Messico e in Arizona, incontra gli indiani Pueblo e - come poi racconterà e cercherà di descrivere con disegni e foto nel 1923 (cfr. “Il rituale del serpente”, Adelphi, Milano, 2005) - conosce elementi della loro cosmologia, un universo “concepito come una casa”, con il tetto con “le falde a forma di scala”, una “casa-universo identica alla propria casa a gradini, nella quale si entra per mezzo di una scala”, e comprende quanto è importante per l’uomo “la felicità del gradino”, il salire (“l’excelsior dell’uomo, il quale dalla terra tende al cielo”). E, al contempo, sempre nel 1896 (il 26 giugno), ad un suo amico, così scrive:
Warburg rimase persuaso di ciò sino alla fine. Ma se fu questo suo atteggiamento ad allontanarlo dagli esteti e anche dagli storici dell’arte, fu il suo intenso interesse - come cita, scrive, e commenta Ernst H. Gombrich (cfr. Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Feltrinelli, Milano, 2003, pp 274) - per le questioni psicologiche fondamentali ad avvicinarlo a una generazione che aveva assimilato la lezione di Freud e si rendeva sempre più conto dell’immensa complessità della mente umana. E qui la fama di Warburg non si basa certo su un fraintendimento.
IL PARADISO E L’ANGELO DELLO STORIA. LA LEZIONE DI WALTER BENJAMIN:
"Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo "come propriamente è stato". Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo [...] In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere"(Tesi di filosofia della storia).
*
Allegato:
“LIBER PARADISUS” (BOLOGNA, 1257):
Dio onnipotente piantò un piacevole Paradiso (giardino) e vi pose l’uomo, il cui corpo ornò di candida veste donandogli una libertà perfettissima ed eterna. Ma l’ uomo, misero, immemore della sua dignità e del dono divino, gustò del frutto proibito contro il comando del Signore. Con questo atto tirò se stesso e i suoi posteri in questa valle di lagrime e avvelenò il genere umano legandolo con le catene della schiavitù al Diavolo; cosi l’ uomo da incorruttibile divenne corruttibile, da immortale mortale, sottoposto a una gravissima schiavitù. Dio vedendo tutto il mondo perito (nella schiavitù) ebbe pietà e mandò il Figlio suo unigenito nato, per opera dello Spirito Santo, dalla Vergine madre affinché con la gloria della Sua dignità celeste rompesse i legami della nostra schiavitù e ci restituisse alla pristina libertà. Assai utilmente agisce perciò chi restituisce col beneficio della manomissione alla libertà nella quale sono nati, gli uomini che la natura crea liberi e il diritto delle genti sottopone al giogo della schiavitù.
Considerato ciò, la nobile città di Bologna, che ha sempre combattuto per la libertà, memore del passato e provvida del futuro, in onore del Redentore Gesù Cristo ha liberato pagando in danaro, tutti quelli che ha ritrovato nella città e diocesi di Bologna astretti a condizione servile; li ha dichiarati liberi e ha stabilito che d’ora in poi nessuno schiavo osi abitar nel territorio di Bologna affinché non si corrompa con qualche fermento di schiavitù una massa di uomini naturalmente liberi.
Al tempo di Bonaccorso di Soresina, podestà di Bologna, del giudice ed assessore Giacomo Grattacello, fu scritto quest’ atto, che deve essere detto Paradiso, che contiene i nomi dei servi e delle serve perché si sappia quali di essi hanno riacquistato la libertà e a qual prezzo: dodici libbre per i maggiori di tredici anni, e per le serve: otto libbre bolognesi per i minori di anni tredici (...).
Illusi e confusi
Tristram Shandy siamo noi
L’inizio della modernità liquida e del mondo di oggi: ritorna il capolavoro di Laurence Sterne
In anticipo su Charlie Chaplin e Buster Keaton è l’eroe di un’epica dell’irrilevanza dove l’effetto comico serve a risvegliarci
di Nadia Fusini (la Repubblica, 14.12.2016)
Un piccolo Meridiano tutto per lui, Tristram Shandy se lo merita. Perché è senz’altro un fenomeno quel gentiluomo nato nella seconda metà del secolo dei Lumi. E niente affatto invecchiato malgrado duecento e più anni siano passati dalla sua nascita. Anzi, lo ritroviamo oggi vivo e vegeto grazie alle cure sollecite di Flavio Gregori, settecentista doc, e nella traduzione impeccabile di Flavia Marenco. Rinascono così “la vita e le opinioni” dell’eccentrico personaggio cui Laurence Sterne affidò la sua buona novella, ovvero la comica narrazione della nascita di un bambinello. Non in una capanna, ma a Shandy Hall.
Ne risulta un ritratto di famiglia con tanto di padre Walter genialoide e madre Elizabeth ottusa e zio Toby ex ufficiale a riposo pacifico, con al seguito il caporale Trim e la vedova Waldman e il parroco Yorick, buffo e ingenuo fool di shakespeariana memoria. Quanto al narratore, e cioè Tristram, già nel nome segnato dalla tristezza, mentre narra la propria venuta al mondo commenta non solo le disgrazie che gli capitano, ma anche l’inesorabile fatica di un processo di scrittura, virtualmente interminabile, che lo induce a un sentimento di impotenza.
Impotenza, inconcludenza, disastro, fallimento emergono come i contenuti di un’esistenza che si configura sulla pagina nella forma spezzata, interrotta, di una rappresentazione che si offre come una lotta tormentata con il principio e con la fine, mentre nel mezzo tutto prende il senso di una deviazione incontrollabile. Tutto sfugge. È così che in un virtuosismo sperimentale anticipatore di avanguardie future, la forma e il contenuto del romanzo e l’esistenza del protagonista narratore si specchiano l’uno nell’altro.
Da vero “spirito libero” - così lo definì Nietzsche - Sterne onora il suo secolo con l’invenzione di una nuova forma narrativa, che eccede ogni regola in un prodigio di stravaganze, che verranno accolte in tutta la loro portata, non solo tecnica, ma di concezione del mondo, qualche secolo dopo, da scrittori e critici d’avanguardia del Novecento.
Se c’è un effetto Sterne, che con piena evidenza si dispiegherà nel Modernismo europeo, lasciando tramortiti scrittori come Beckett e Joyce, e critici come Sklovskij, quell’effetto a tutt’oggi non s’è spento. In che consiste?
Nel paradosso che perfettamente Bertrand Russell colse e nominò per l’appunto come “paradosso Shandy”. E’ un problema di logica matematica che il gentiluomo Tristram ci pone: ovvero, se un campo di possibilità aperte all’infinito possa o no risolversi in un che di concluso. Se per descrivere i primi due giorni della mia vita, ragiona il gentiluomo, ci ho messo due anni, a questo ritmo, con il materiale che si accumula così in fretta, mai e poi mai riuscirò nella scrittura a tenere il passo dell’esistenza. Nei suoi Principi della matematica Bertrand Russell contestò il ragionamento come fallace: fosse Shandy vissuto per sempre e non si fosse stancato del compito e fosse la sua vita continuata piena di casi e accidenti, nessuna parte della sua biografia sarebbe rimasta non scritta.
Ecco il paradosso: riguarda il rapporto tra il finito e l’infinito. Quanto all’eccentrico protagonista di questo libro tra i più stravaganti mai scritti, e non solo, ripeto, dal punto di vista formale, ma concettuale, se pianifica una narrazione piena di digressioni e di incidenti, è proprio perché in un empito sperimentale prova a salvarsi dal vettore del tempo, che va nell’unico verso della fine. Chi non segua una linea retta, avrà molte probabilità di perdersi, ragiona Tristram; ma anche di durare, perché chi non arriva a destinazione, non termina. Non conclude, non finisce, non muore.
Arte concettuale? Gioco del wit? e cioè messa in campo di quella virtù suprema di una lingua, l’inglese, che nell’ironia e nel tocco parodico raggiunge altezze sublimi? Sì, certo, ma anche una visione del mondo che dal nome del protagonista si può condensare nell’aggettivo “shandiano”. Cangiante, mutevole, attraente, insidioso, indecente, sarcastico, licenzioso, sono alcuni dei significati del termine. È il modo in cui un soggetto prende coscienza del mondo che lo circonda come intensamente sfuggente e rispetto ad esso della propria impotenza.
«Vorrei tanto che mio padre e mia madre, o tutti e due in egual modo coinvolti, avessero badato a che cosa stavano combinando quando mi generarono... »: così inizia la personalissima narrazione dell’avventura infausta cui il piccolo Tristram si trova esposto nel momento stesso in cui è concepito. E nel suo caso il concepimento non potrebbe essere più ridicolo: in un fatidico innesto tra la carica dell’orologio di casa e dell’organo riproduttivo del padre, che la madre impassibile accosta nella domanda: «Scusa, caro, ti sei mica scordato di caricare la pendola?»; il «Buon D-!» del padre fa temere una pericolosa cilecca dell’organo. Da cui la conseguenza irreparabile di una dispersione degli “spiriti animali” - ovvero il danno collaterale di una generazione su cui peseranno «forza muscolare e virilità ridotte al lumicino ». Povero Tristram!
Da questa prima fatale interruzione è segnato il destino del protagonista, che farà della digressione la sua strategia d’attacco e difesa. In anticipo su Chaplin e Keaton Tristram sarà l’eroe di un’epica dell’irrilevanza con l’effetto comico di risvegliarci al pericolo dell’esistenza. Se davanti alla porta per uscire più volte Keaton rompe il vetro, chi non sia irrimediabilmente caduto nell’automatismo della percezione riscoprirà tutta l’audacia dell’azione. Ecco comparire nella narrazione il fantasma di Yorik e di Don Chisciotte e i nomi di Rabelais e Cervantes, nel tono di una gioco-mania, che Sterne chiama hobby-horse. Il primo degli hobby-horse è il romanzo che sta scrivendo.
Con in mente Nietzsche, suo ammiratore, viene da pensare che il personaggio che così si disegna è in chiave paradossale un uomo di specie diversa. Un “oltre-uomo”? Non dimentichiamo che Sterne è lo stesso che scrive The sentimental journey, ovvero il viaggio sentimentale, come tradusse Foscolo. Dove il personaggio-uomo si presenta come un apparato di sensibilità in cui esperienza morale ed estetica si intrecciano privilegiando nella definizione dell’identità il cuore e la coscienza.
Laicismo, l’anti-religione contraria alla laicità
di Fabrice Hadjadj (Avvenire, 04.12.2016)
La parola "laico" è un segno ostensibile nella lingua francese e anche in quella italiana. È vero che l’udibile spicca meno del visibile; ecco perché il suono della parola "laico" ci colpisce meno della visione di un crocifisso. Tuttavia, a chi sa ascoltare quel suono, a chi sa ricollocarlo nella sua prospettiva storica, si offre la visione di uno strano spettacolo: alcune persone brandiscono un crocifisso garantendo che si tratta invece di un martello - o del segno più dell’addizione; si esprimono con il tono degno dei migliori predicatori e ci spiegano che è per sottolineare una neutralità quando non una distanza dalle religioni; ripetono infine senza sosta un versetto del vangelo ma sono persuasi di intonare un ritornello del loro repertorio.
Essi infatti dicono e ridicono che bisogna «dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio», si fanno promotori di carte della laicità, senza accorgersi che questa promozione è stata resa possibile dall’eredità cristiana. Perché è in primo luogo la teologia cattolica che distingue il laico dal chierico. Ed è sempre la teologia cattolica che pone quella «separazione dei poteri» ben più fondamentale di quella di Montesquieu, la separazione del potere temporale e del potere spirituale.
A dire il vero, anche la capacità di bestemmiare è ancora un segno ostensibile del cristianesimo. Un pensiero di Pascal lo dice con chiarezza: «Vi è campo aperto per la bestemmia, anche su verità quanto meno assai visibili». Il vero teologo non può essere fondamentalista: egli sa che, se Dio è trascendente, non fa parte delle evidenze mondane (la verità «erra coperta da un velo» dice ancora Pascal, immagine molto interessante che mostra il rifiuto dei sostenitori del burqa di una trascendenza trascendente e dunque velata: nascondendo la donna, il velo integrale pretende di esibire la verità islamica, affermarla come un’evidenza di quaggiù). Allora, l’accesso a tale trascendenza non può avvenire attraverso seduzioni o coercizioni: esso esige un movimento intimo del cuore, che impegni liberamente la persona, un atto di fede. Ora, questa esigenza stessa implica la pazienza davanti al rifiuto.
Ecco perché il campo della fede è «aperto alla bestemmia». Si può dirlo in un altro modo prendendo il punto di vista del bestemmiatore. Che cosa c’è dietro al piacere di bestemmiare? Da una parte ci vuole che l’idea di Dio sia ancora abbastanza viva nella società. Se Dio - ahimè! - non c’è, che divertimento ci sarebbe a coprirlo di ingiurie?
Di questo si lamenta il Marchese de Sade nella sua Storia di Juliette: «Il mio più grande dolore è che in realtà non esiste un Dio, e quindi mi vedo privato del piacere di insultarlo più positivamente». Ma per godere della bestemmia, non occorre solamente che Dio esista, almeno nel pensiero, è anche necessario non incappare subito nella pena di morte. Così, in una società completamente atea la bestemmia è impossibile; nello stato islamico è vietata. L’unica configurazione perfetta per il blasfemo è quella di una società ancora cristiana.
In una tale società, Dio è ancora presente; ma, dato che il suo stesso Figlio fu condannato come blasfemo dai grandi sacerdoti della sua epoca, si fa attenzione a non condannare troppo rapidamente uno che bestemmia. Ecco il paradosso implacabile con cui siamo confrontati noi francesi e noi europei: affermare un «principio di separazione della società civile e della società religiosa» nello stato presuppone ancora un legame privilegiato con la fede cristiana (e alla fede cristiana aggiungo l’esistenza ebraica che le è legata intimamente - la permanenza del popolo ebraico è un principio di pluralità irriducibile all’interno del pensiero stesso della Chiesa).
O, per dirlo in altro modo, la neutralità dello stato a riguardo delle confessioni religiose presuppone una predilezione per l’eredità culturale giudaico-cristiana. Senza tale predilezione, o quella neutralità diventa impotente, perché il neutro in sé non può produrre una qualsiasi determinazione; o si trasforma in neutralizzazione e diventa la religione dell’anti-religione, il laicismo.
Il laicismo è il contrario della laicità. La laicità non può affermarsi che distinguendosi da un clero di cui riconosce l’esistenza. Può essere anticlericale, nel senso di una diffidenza critica nei confronti dei chierici, delle loro prediche e dei loro comportamenti, come nel Decamerone di Boccaccio; ma non oserebbe escluderli dal dibattito pubblico, perché, in questo caso, tradirebbe se stessa costituendosi come un nuovo e supremo clero.
Quanti sedicenti difensori della laicità salgono in tribuna, più che in cattedra, per pronunciare scomuniche e imporre un catechismo molto più rigido e riduttore del dogma cattolico? Il laicista corrisponde molto precisamente al curato di fantasia che vuole denunciare. Riprende il discorso preliminare dell’enciclopedia, nel quale D’Alembert deplora l’«abuso dell’autorità spirituale riunita a quella temporale» ma commette egli stesso quell’abuso nel senso opposto.
ALBERT EINSTEIN, LA MENTE ACCOGLIENTE. L’universo a cavallo di un raggio di luce (non di un manico di scopa!).
LA LUCE, LA TERRA, E LA LINEA DELLA BELLEZZA: LA MENTE ACCOGLIENTE. "Note per una epistemologia genesica"
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Il confronto con l’esito del referendum costituzionale del 2006
di Salvatore Settis (la Repubblica, 07.12.2016)
IL DATO più rilevante nei risultati del 4 dicembre emerge dal confronto con l’esito del referendum costituzionale del 2006. In ambo i casi il voto popolare ha respinto una riforma costituzionale assai invasiva (54 articoli modificati nel 2006, 47 nel 2016), approvata a maggioranza semplice da una coalizione di governo che ostentava sicurezza per bocca di un premier (allora Berlusconi, ora Renzi) in cerca di un’investitura plebiscitaria.
Le due riforme abortite non sono identiche, ma vicine in aspetti cruciali (la fiducia riservata alla sola Camera e il nebbioso ruolo del Senato). Se guardiamo ai numeri, il confronto è impressionante: nel 2006 i No furono il 61,29%, nel 2016 il 59,25; quanto ai Sì, si passa dal 38,71% (2006) al 40,05 (2016). Un rapporto di forze simile, che diventa più significativo se pensiamo che l’affluenza 2016 (68,48%) è molto superiore a quella del 2006 (52,46%): allora votarono 26 milioni di elettori, oggi ben 32 milioni, in controtendenza rispetto al crescente astensionismo delle Europee 2014 e delle Regionali dello stesso anno.
Eppure, dal 2006 ad oggi il paesaggio politico è completamente cambiato, per l’ascesa dei 5Stelle, la frammentazione della destra berlusconiana, le fratture di quella che fu la sinistra. Più affluenza oggi di dieci anni fa, un cambio di generazioni, con milioni di giovani che votavano per la prima volta a un referendum costituzionale: eppure, nonostante i mutamenti di scenario, un risultato sostanzialmente identico, con un No intorno al 60%.
Una notevole prova di stabilità di quel “partito della Costituzione” che rifiuta modifiche così estese e confuse. Esso è per sua natura un “partito” trasversale, come lo fu la maggioranza che varò la Costituzione, e che andava da Croce a De Gasperi, Nenni, Calamandrei, Togliatti. Il messaggio per i professionisti della politica è chiaro: non si possono, non si devono fare mai più riforme così estese e con il piccolo margine di una maggioranza di parte.
Nel 2006 e nel 2016, due governi diversissimi hanno cercato di ripetere il discutibile “miracolo” del referendum 2001, quando la riforma del Titolo V (17 articoli) fu approvata con il 64% di Sì contro un No al 36%: ma allora l’affluenza si era fermata al 34% (16 milioni di elettori). Si è visto in seguito che quella riforma, varata dalle Camere con esiguo margine, era mal fatta; e si è capito che astenersi in un referendum costituzionale vuol dire rinunciare alla sovranità popolare, principio supremo dell’articolo 1 della Costituzione.
Per evitare il ripetersi (sarebbe la terza volta) di ogni tentativo di forzare la mano cambiando la Costituzione con esigue maggioranze, la miglior medicina è tornare a un disegno di riforma costituzionale (nr. 2115), firmato nel 1995 da Sergio Mattarella, Giorgio Napolitano, Leopoldo Elia, Franco Bassanini. Esso prevedeva di modificare l’art. 138 Cost. nel senso che ogni riforma della Costituzione debba sempre essere «approvata da ciascuna Camera a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti», e ciò senza rinunciare alla possibilità di ricorrere al referendum popolare.
Questo l’art. 4; ma anche gli altri di quella proposta troppo frettolosamente archiviata sarebbero da rilanciare. L’art. 2 prevedeva che la maggioranza necessaria per eleggere il Presidente della Repubblica debba sempre essere dei due terzi dell’assemblea (l’opposto della defunta proposta Renzi-Boschi, che avrebbe reso possibile l’elezione da parte dei tre quinti dei votanti, senza computare assenti e astenuti); e che qualora l’assemblea non riesca ad eleggere il Capo dello Stato «le funzioni di Presidente della Repubblica sono provvisoriamente assunte dal Presidente della Corte Costituzionale». L’art. 3, prevedendo situazioni di stallo nell’elezione da parte del Parlamento dei membri della Consulta di sua spettanza, prevedeva che dopo tre mesi dalla cessazione di un giudice, se il Parlamento non riesce a eleggere il successore «vi provvede la Corte Costituzionale stessa, a maggioranza assoluta dei suoi componenti». Previsione lungimirante: è fresco il ricordo del lungo stallo delle nomine alla Corte, finché nel dicembre 2015 si riuscì a nominare tre giudici dopo ben 30 tentativi falliti.
In quelle proposte, come si vede, la Corte Costituzionale aveva un ruolo centrale, e il rafforzamento delle istituzioni passava attraverso un innalzamento delle maggioranze necessarie per passaggi istituzionali cruciali, come le riforme costituzionali o l’elezione del Capo dello Stato. In un momento di incertezza come quello che attraversiamo, quella lezione dovrebbe tornare di attualità, anche se molti firmatari di quella legge sembrano essersene dimenticati.
La riforma Renzi-Boschi è stata bocciata, ma fra le sue pesanti eredità resta una cattiva legge elettorale, l’Italicum, che la Consulta potrebbe condannare tra poche settimane, e che comunque vale solo per la Camera. Compito urgente del nuovo governo, chiunque lo presieda, sarà dunque produrre al più presto una legge elettorale finalmente decorosa, e compatibile (si spera) con riforme costituzionali come quelle sopra citate. Le prossime elezioni politiche, anticipate o no, dovranno portare alle Camere deputati e senatori liberamente eletti dai cittadini e non nominati nel retrobottega dei partiti.
Il referendum da cui veniamo è stato un grande banco di prova per la democrazia: ma ora è il momento di mostrare, per i cittadini del No e per quelli del Sì, che sappiamo essere “popolo” senza essere “populisti”. Che per la maggioranza degli italiani la definizione di “popolo”, della sua sovranità e dei suoi (dei nostri) diritti coincide con quella della Costituzione, la sola che abbiamo. Il “ritorno alla Costituzione” che ha segnato i mesi scorsi e che ha portato all’esito del referendum mostra che è possibile.
Smuraglia: è un No per attuare la Costituzione
"Al referendum non hanno vinto i partiti", dice il presidente dell’Anpi. "Leggere la vittoria referendaria del 4 dicembre solo sul terreno del confronto politico è un modo per ridimensionare il risultato popolare"
intervista di Andrea Fabozzi (il manifesto, 7.12.2016)
Carlo Smuraglia, presidente dell’Associazione nazionale partigiani, si aspettava questo successo del No?
Onestamente no. Immaginavo il paese spaccato a metà e speravo in una vittoria con il minimo distacco. Avevo indicazioni molto positive dalle nostre manifestazioni, in particolare l’ultima a Roma al teatro Brancaccio. Ma l’esperienza mi insegna a non fidarmi di quello che si vede nelle piazze e nei teatri, perché è la gente silenziosa che decide il risultato. E c’era da temere la propaganda del governo, le promesse, le proposte e le minacce del presidente del Consiglio, la complicità della stampa con il Sì...
E invece.
Mi ha sorpreso felicemente la grande partecipazione. Avevamo captato questo desiderio di capire e di partecipare, ma forse l’abbiamo persino sottovalutato. Evidentemente i cittadini che si sono informati sulla riforma, l’hanno compresa bene e giudicata male, sono stati la maggioranza. Anche se questa parte ragionata del No, adesso, mi pare messa del tutto tra parentesi, rimossa.
Non le piace come viene raccontata la vittoria del No?
Mi sorprende che tra le tante ragioni della sconfitta del Sì, la più elementare - e cioè che la riforma è stata bocciata nel merito - sia finita nell’ombra. Tutte le analisi sono sul terreno politico, tornano a farsi sentire come vincitori partiti che in campagna elettorale avevamo visto poco. Io credo che leggere il 4 dicembre esclusivamente sul terreno del confronto tra partiti sia un modo per ridimensionare lo straordinario risultato popolare.
Lei invece ci legge il segnale di una speranza? Si può ricominciare a parlare di attuazione della Costituzione?
Noi ne parliamo da sempre e lo abbiamo fatto anche in questa campagna elettorale. Alla fine dei miei incontri c’era sempre chi mi chiedeva “ma se vince il No cosa facciamo?”. E io rispondevo “Prima brindiamo, poi diciamo che invece di cambiarla la Costituzione bisogna attuarla”. A quel punto arrivava l’applauso più forte. Perché tutti vedono l’enorme contrasto che c’è tra i principi fondamentali della Carta e la realtà. Non voglio illudermi, ma credo che dentro questo 60% di No ci sia anche questa richiesta di attuazione.
Insieme a un voto contro il governo, non le pare?
Non per quanto ci ha riguardato. L’ho detto anche a Renzi nel nostro confronto di settembre a Bologna. Non ci è mai interessata la sorte del governo, volevamo solo difendere la Costituzione da uno strappo. Mi pare che lei non sia rimasto contento del modo in cui è stato raccontato quel confronto alla festa dell’Unità. Non sono rimasto contento che sia stato oscurato. Evidentemente non si era concluso come giornali e tv si auguravano, con la vittoria di Renzi.
Secondo lei, adesso, come si viene fuori dalle dimissioni del presidente del Consiglio?
La richiesta di votare presto mi pare infondata. Mancano molti presupposti, innanzitutto la legge elettorale: ne abbiamo due diverse per camera e senato e la prima è attesa al giudizio della Consulta. In più tutti i partiti dicono di volerla cambiare. La corsa alle urne è ingiustificata, il presidente della Repubblica, anche di fronte alle dimissioni di Renzi, ha molti strumenti prima di accettare le elezioni anticipate, provvederà con saggezza.
Questo No mette fine ai tentativi di riscrivere la Costituzione, almeno per un po’?
La Costituzione non è mai messa sufficientemente al riparo e bisogna stare sempre in guardia. Ma un No di questa entità ha anche un valore di ammonimento molto forte, si è capito che la Costituzione non è una legge ordinaria e non si può modificarla a cuor leggero, ma solo quando ce n’è effettivamente bisogno. E con il massimo di consenso.
In campagna elettorale si è parlato molto delle divisioni dell’Anpi. Vicenda chiusa? Lascerà qualche segno tra voi?
I segni sono stati più esterni che interni. Ogni piccola cosa è stata ingigantita e presa per buona, noi non abbiamo mai allontanato né sanzionato nessuno. Abbiamo solo chiesto ai nostri iscritti di non fare campagna per il Sì nel nome dell’Anpi, visto che la nostra posizione era opposta. La verità è che ha dato molto fastidio che l’Anpi si fosse schierata per il No. La nostra associazione è portatrice di valori in cui tutti devono riconoscersi, e dunque a molti abbiamo fatto fare almeno un pensierino.
LA ’NAZIONALIZZAZIONE’ DEL MENTITORE
Il paradosso della Costituzione
Difesa oggi dagli antipartito, 70 anni fa nel mirino degli “apolitici” dell’Uomo Qualunque. Bobbio li definiva il “pantano in cui finirà per impaludarsi il rinnovamento democratico”
di Giovanni De Luna (La Stampa, 09.12.2016)
Il paradosso del referendum del 4 dicembre è questo: la Costituzione del 1948 è stata vittoriosamente difesa dalle forze politiche che ne hanno sempre criticato il carattere «comunista» (Berlusconi e la Lega) o denunciato la fissità «talmudica» (così Grillo, nel 2011 sul suo blog). Il paradosso è anche più evidente se lo si confronta con le polemiche che - tra il 1945 e il 1947 - accompagnarono il varo della Carta Costituzionale.
Allora, il passaggio dalla dittatura alla democrazia fu accolto con sospetto e diffidenza da una larga fetta dell’opinione pubblica, abituata da venti anni di fascismo a considerare la politica una pratica «inconcludente» e incline a guardare agli uomini dei partiti con la diJffidenza dovuta a chi svolgeva «non un’attività disinteressata al servizio della collettività e della nazione, cercando invece di procurare potere, ricchezza, privilegi a sé stesso, alla propria famiglia, fazione, clientela elettorale». Queste frasi - tratte da uno dei tanti rapporti dei carabinieri che allora funzionavano come oggi i sondaggi di opinione - fotografavano un diffuso sentimento «antipartito» che si tradusse negli impetuosi successi elettorali dell’Uomo Qualunque.
La nuova Repubblica
Anche tra le file del Partito d’Azione - al quale oggi viene attribuita la paternità della Costituzione - all’inizio la forma partito era vista con sospetto. La nuova Repubblica che nasceva dalla Resistenza avrebbe dovuto puntare direttamente sugli uomini (con un rinnovamento della classe dirigente) e sulle istituzioni (con un allargamento della partecipazione politica fondata sulle autonomie e sull’autogoverno). Lo scriveva un giovane Norberto Bobbio (non aveva ancora 40 anni): «Una responsabilità pubblica ciascuno può assumerla dentro o fuori dei partiti, secondo le sue capacità e le sue tendenze, e magari meglio fuori che dentro».
Ma proprio i suoi articoli di allora sul quotidiano Giustizia e Libertà ci consentono oggi di capire che intorno alla Costituzione la partita si giocò essenzialmente tra la politica e l’antipolitica, meglio - come si diceva a quel tempo - tra gli «apolitici» e gli uomini dei partiti. Il qualunquismo nascondeva dietro la maschera della «apoliticità» e dell’«indipendenza» una lotta senza quartiere ai partiti del Cln, giudicati come il lascito più significativo e più pericoloso della Resistenza. BJobbio lo diceva esplicitamente: «gli indipendenti [...] non sono né indipendenti, né apolitici. Sono politici, ecco tutto, di una politica che non è quella dei comitati di liberazione o del fronte della Resistenza».
«Vizi tradizionali» italiani
L’«apoliticismo» (per Bobbio «l’indifferenza o addirittura l’irrisione per ogni pubblica attività in nome dell’imperioso dovere di lavorare senza ambizioni né distrazioni per la famiglia, per i figli e soprattutto per sé») si traduceva in una critica alla «politica di partito» che, scriveva, «lusinga e quindi rafforza inveterate abitudini, vizi tradizionali del popolo italiano, incoraggia gli ignavi, fa insuperbire gli ottusi e gli inerti [...], offre infine a tutti gli apolitici un motivo per allearsi, facendo di una folla di isolati una massa organica, se non organizzata, di persone che la pensano allo stesso modo e hanno di fronte lo stesso nemico [...] generando di nuovo quel pantano in cui finirà per impaludarsi lo sforzo di rinnovamento democratico dello Stato italiano».
Per gli uomini della Resistenza il nemico era quindi diventato quella «sorta di alleanza dei senza partito», «scettica di quello scetticismo che è proprio delle classi medie italiane», alimentata «da un dissenso di gusti, un disaccordo di stati d’animo, uno scontro di umori, una gara di orgogli, dai quali null’altro può derivare che invelenimento di passioni, impacci all’azione ricostruttrice».
La Carta strumentalizzata
Sembra che Bobbio parli proprio di quell’estremismo di centro che caratterizza oggi una parte della società italiana e un movimento come quello di Grillo. Allora fu un passaggio decisivo per l’approdo a una sua convinta adesione alla «democrazia dei partiti», frutto di una riflessione approfondita su un «modello», quello inglese, che, partendo dai capisaldi fondamentali delle origini (la divisione dei tre poteri, la monarchia costituzionale e il governo parlamentare), era stato in grado di rinnovarsi, spostando progressivamente verso il basso, verso il corpo elettorale, rappresentato e diretto dai partiti, il baricentro del sistema politico.
Le cifre del referendum del 4 dicembre ci dicono come l’elettorato dei movimenti più tipicamente antipartito (Cinque Stelle e Lega) abbia votato massicciamente per il No (l’80%), affiancato da una ristretta fascia di elettori appartenenti al Pd (23%) o alle varie sigle accampate alla sua sinistra. Essere salvata da quelli che volevano affossarla, adesso come nel 1948: da questo duplice paradosso cronologico la Costituzione esce come schiantata, degradata a puro pretesto, con una torsione innaturale che la espone, in futuro, a ogni tipo di uso strumentale.
Caro Scalfari, con il Sì passa un’espropriazione di sovranità
di Gustavo Zagrebelsky *
Caro Eugenio Scalfari, ieri mi hai chiamato in causa due volte a proposito del mio orientamento pro-No sul referendum prossimo venturo e, la seconda volta, invitandomi a ripensarci e a passare dalla parte del Sì. La "pessima compagnia", in cui tu dici ch’io mi trovo, dovrebbe indurmi a farlo, anche se, aggiungi, sai che non lo farò. Non dici: "non so se lo farà", ma "so che non lo farà", con il che sottintendi di avere a che fare con uno dalla dura cervice.
I discorsi "sul merito" della riforma, negli ultimi giorni, hanno lasciato il posto a quelli sulla "pessima compagnia". Il merito della riforma, anche a molti di coloro che diconono di votare Sì, ultimo Romano Prodi, appare alquanto disgustoso. Sarebbero piuttosto i cattivi compagni l’argomento principale, argomento che ciascuno dei due fronti ritiene di avere buoni motivi per ritorcere contro l’altro.
Un topos machiavellico è che in politica il fine giustifica i mezzi, cioè che per un buon proposito si può stare anche dalla stessa parte del diavolo. Non è questo. Quel che a me pare è che l’argomento della cattiva compagnia avrebbe valore solo se si credesse che i due schieramenti referendari debbano essere la prefigurazione d’una futura formula di governo del nostro Paese. Non è così. La Costituzione è una cosa, la politica d’ogni giorno un’altra. Si può concordare costituzionalmente e poi confliggere politicamente. Se un larghissimo schieramento di forze politiche eterogenee concorda sulla Costituzione, come avvenne nel ’46-’47, è buona cosa. La lotta politica, poi, è altra cosa e la Costituzione così largamente condivisa alla sua origine valse ad addomesticarla, cioè per l’appunto a costituzionalizzarla. In breve: l’argomento delle cattive compagnie, quale che sia la parte che lo usa, si basa sull’equivoco di confondere la Costituzione con la politica d’ogni giorno.
Vengo, caro Scalfari, a quella che tu vedi come un’ostinazione. Mi aiuta il riferimento che tu stesso fai a Ventotene e al suo "Manifesto", così spesso celebrati a parole e perfino strumentalizzati, come in quella recente grottesca rappresentazione dei tre capi di governo sulla tolda della nave da guerra al largo dell’isola che si scambiano vuote parole e inutili abbracci, lo scorso 22 agosto. C’è nella nostra Costituzione, nella sua prima parte che tutti omaggiano e dicono di non voler toccare, un articolo che, forse, tra tutti è il più ignorato ed è uno dei più importanti, l’articolo 11. Dice che l’Italia consente limitazioni alla propria sovranità quando - solo quando - siano necessarie ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Lo spirito di Ventotene soffia in queste parole. Guardiamo che cosa è successo. Ci pare che pace e giustizia siano i caratteri del nostro tempo? Io vedo il contrario. Per promuovere l’una e l’altra occorre la politica, e a me pare di vedere che la rete dei condizionamenti in cui anche l’Italia è caduta impedisce proprio questo, a vantaggio d’interessi finanziario-speculativi che tutto hanno in mente, meno che la pace e la giustizia. Guardo certi sostegni alla riforma che provengono da soggetti che non sanno nemmeno che cosa sia il bicameralismo perfetto, il senato delle autonomie, la legislazione a data certa, ecc. eppure si sbracciano a favore della "stabilità". Che cosa significhi stabilità, lo vediamo tutti i giorni: perdurante conformità alle loro aspettative, a pena delle "destabilizzazioni" - chiamiamoli ricatti - che proprio da loro provengono.
Proprio questo è il punto essenziale, al di là del pessimo tessuto normativo che ci viene proposto che, per me, sarebbe di per sé più che sufficiente per votare No. La posta in gioco è grande, molto più grande dei 47 articoli da modificare, e ciò spiega l’enorme, altrimenti sproporzionato spiegamento propagandistico messo in campo da mesi da parte dei fautori del Sì. L’alternativa, per me, è tra subire un’imposizione e un’espropriazione di sovranità a favore d’un governo che ne uscirebbe come il pulcino sotto le ali della chioccia, e affermare l’autonomia del nostro Paese, non per contestare l’apertura all’Europa e alle altre forme di cooperazione internazionale, ma al contrario per ricominciare con le nostre forze, secondo lo spirito della Costituzione. Si dirà: ma ciò esigerebbe una politica conforme e la politica ha bisogno di forze politiche. E dove sono? Sono da costruire, lo ammetto. Ma il No al referendum aprirà una sfida e in ogni sfida c’è un rischio; ma il Sì non l’aprirà nemmeno. Consoliderà soltanto uno stato di subalternità.
Questa, in sintesi, è la ragione per cui io preferisco il No al Sì e perché considero il No innovativo e il Sì conservativo.
Ti ringrazio dell’attenzione. A cose fatte avremo tempo e modo
"I DUE CORPI DEL RE" - E DI OGNI ESSERE UMANO. La lezione di Dante, Kantorowicz, Freud e Mandela ...
La storia Come nelle antique esequie reali, un autentico teatro sacralizza l’ultimo viaggio del Comandante
La scomparsa del Capo
Così l’isola celebra l’apoteosi dell’ultimo sovrano del secolo breve
di Marino Niola (la Repubblica, 29.11.2016)
HASTA SIEMPRE Comandante. Ieri in Plaza de la Revolución è cominciato il solenne addio di Cuba a Fidel Castro. Una folla oceanica sfila davanti all’urna con le ceneri del Líder Máximo, circondata da un picchetto d’onore di militari in alta uniforme e sovrastata da una sua foto in bianco e nero. Il lutto per l’ultima icona del Novecento durerà nove giorni. E culminerà il 4 dicembre a Santiago, città madre della rivoluzione, da dove nel 1959 partì la marcia vittoriosa della Carovana della Libertad. Il compagno presidente riposerà a Santa Ifigenia, il cimitero dei padri della patria, accanto a José Marti, il liberatore di Cuba dalla colonizzazione spagnola e a Compay Segundo, l’entrañable presencia del Buena Vista Social Club, che toccava la chitarra con la grazia di un Orfeo tropicale.
Adesso un’isola senza voce e senza musica si prepara a celebrare l’apoteosi laica dell’ultimo sovrano del secolo breve. E lo fa ricorrendo a una simbologia millenaria che, sin dai tempi degli imperatori romani, fa della scomparsa del capo, un autentico teatro della morte. Una grande drammatizzazione dello scarto che sussiste tra l’immortalità del potere e la mortalità dell’uomo che lo incarna. Quello stesso scarto che separa le ceneri di Fidel dalla gigantografia dell’eroe rivoluzionario. I resti mortali dell’uomo dalla sua effigie immortale. Che, ora come allora, serve a rappresentare e garantire la continuità del potere e dunque la continuità della vita di tutti.
Nel Medio Evo, un’autorevole dottrina politica, destinata a sopravvivere fino alla fine delle monarchie assolute, accreditava ai regnanti due nature, a immagine e somiglianza di Cristo. È la cosiddetta teoria dei due corpi del re, secondo la quale il sovrano possiede sia un corpo fisico, che palpita, sanguina, si ammala, muore. Sia un corpo politico, che coincide con la sua nazione e il suo popolo, di cui è il simbolo supremo. Questa seconda natura invece è considerata immortale. La simbiosi tra queste due facce della sovranità rendeva indispensabile scongiurare in tutti i modi il contagio di malattie e lo stesso invecchiamento del re, perché l’indebolirsi del suo organismo fisico non contagiasse l’organismo sociale. Perché in un certo senso l’uomo può morire, ma lo Stato assolutamente no. Tanto che nella Francia e nell’Inghilterra rinascimentali per esorcizzare il pericolo dell’interregno, cioè del vuoto di potere che si apriva alla morte del sovrano, si nutriva e si trattava come persona viva un simulacro del defunto, una sorta di manichino regale, fino all’incoronazione del successore. Insomma, il re è morto, viva il re!
Si trattava di una sorta di transfert simbolico dal potere verso l’immagine. Come dire che la mano del defunto non ha più la forza di reggere lo scettro, ma non ha ancora lasciato la presa. Paradossalmente per allungare la vita del morto, ogni giorno veniva visitato dai medici il suo avatar, fatto di cera o di cuoio, che per tutta la durata del periodo di lutto ne constatavano il peggioramento. Come se il cadavere fosse ancora gravemente ammalato, ma non spirato. Questa messa in scena si chiamava funus imaginarium, ovvero funerale dell’immagine. Un rito che prevedeva una lunghissima processione attraverso l’intera nazione, durante la quale i due corpi del sovrano erano inseparabili. Il climax veniva raggiunto con il rogo finale del fantoccio su una pira di aromi e incensi, che trasportavano l’immagine del sovrano in cielo tra gli dei. Solo allora il re veniva dichiarato morto. E sepolto.
Il caso più celebre è quello del funerale di Francesco I di Francia, avvenuto nel 1547 e che durò alcuni mesi, perché il feretro regale doveva toccare tutte le città più importanti e non poteva saltarne nemmeno una, senza provocare una rivolta popolare.
Questa necessità di sospendere il tempo prima della sepoltura trova la sua spiegazione nel fatto che il rito funebre ha un fortissimo senso politico, sociale, culturale. E soprattutto emotivo. In questo senso l’urna cineraria del Jefe Máximo toccherà insieme alle città e ai villaggi, anche e soprattutto i cuori del suo popolo. Anche perché l’itinerario ripercorre a ritroso il cammino dei barbudos. È un ritorno nel ventre materno della revolución. Che torna sui suoi passi. Fino a quella prova generale che è stato l’assalto fallito alla caserma Moncada di Santiago del 26 luglio del 1953, quando Fidel lanciò il primo guanto di sfida a Fulgencio Batista.
Insomma proprio come nelle antiche esequie reali, e come nelle processioni delle icone religiose, l’ultimo viaggio del Comandante sacralizza un percorso che è fatto di spazio e di tempo, di sentimenti e di avvenimenti. Così il corpo cremato del capo riassume insieme la storia e la geografia dell’isola. Con un rituale solenne che chiude per sempre una pagina memorabile del Novecento e al tempo stesso ne apre una nuova. Giunsero anni, più tardi, in cui Castro, dopo l’ascesa al potere di Hugo Chavez a Caracas, poté contare sulla straordinaria generosità del caudillo venezuelano e sulle sue forniture di petrolio a prezzo scontato. Ma la morte di Chavez e la crisi venezuelana hanno chiuso il rubinetto degli aiuti e costretto i fratelli Castro ad approfittare della presenza di Barack Obama alla Casa Bianca per fare un passo decisivo verso la riconciliazione con gli Stati Uniti: un evento in cui probabilmente papa Francesco ha avuto una parte importante. Il prossimo capitolo della storia cubana comincerà nel 2018 quando Raul Castro, come ha annunciato dopo la morte del fratello, rinuncerà a chiedere un nuovo mandato.
Un pontefice romano a Cuba. Il diavolo e l’acqua santa
risponde Sergio Romano (Corriere della Sera, 30.11.2016)
Caro Massa,
Fidel Castro aveva studiato in un istituto dei gesuiti e non aveva avuto, nel corso della gioventù, una formazione strettamente marxista. Il suo rapporto con l’Unione Sovietica, dopo la definitiva rottura delle relazioni con Washington, era stato un matrimonio di convenienza. Per sopravvivere, a 150 chilometri da un Paese ostile ed enormemente potente, il leader cubano aveva bisogno di un adeguato protettore e dovette ritenere che il suo rapporto con l’Unione Sovietica sarebbe stato tanto più stretto quanto più l’isola avesse accettato di esibire tutti i segni distintivi dei regimi comunisti. Ma le riforme fallite di Michail Gorbaciov e il crollo del sistema sovietico all’inizio degli anni Novanta ebbero per la economia cubana effetti disastrosi. Privato degli sbocchi commerciali che l’Urss offriva ad alcuni prodotti tipici dell’isola (soprattutto zucchero e sigari) e degli aiuti finanziari provenienti da Mosca, il castrismo corse il rischio di essere travolto da una crisi di regime.
Furono queste le ragioni per cui Castro dovette rivedere i rapporti internazionali dell’isola e, nel novembre del 1996, approfittò di una Assemblea generale della Fao (l’organizzazione mondiale dell’Agricoltura e della Alimentazione) per un viaggio a Roma. Non vi sarebbe stata un’udienza papale poco più di un anno dopo, tuttavia, se anche Giovanni Paolo II non avesse avuto interesse a stabilire migliori rapporti con Cuba. Nell’America del Sud, in quegli anni, la Chiesa Romana sapeva di essere minacciata da due pericoli. Il primo era la Teologia della Liberazione, una sorta di marxismo cristiano che Giovanni Paolo II, probabilmente, detestava più del comunismo; il secondo era lo straordinario successo delle confessioni evangeliche in terre che erano state lungamente dominate dalla Chiesa cattolica. Una più forte presenza a Cuba le avrebbe permesso di resistere meglio a questo duplice pericolo.
Le nuove baie dei Porci e noi
di Tommaso Di Francesco (il manifesto, 2.12.2016)
Le immagini e le voci che giungono da Cuba sono inequivocabili. Milioni di persone di ogni età aspettano la carovana con le ceneri di Fidel e danno il loro personale e collettivo addio all’uomo che considerano giustamente come il leader che ha difeso, a caro prezzo, l’indipendenza dell’isola e quelle che possiamo definire come le difficili, minime quanto straordinarie, conquiste in campo sociale.
Mentre tutto questo accade, una miriade di altisonanti tromboni di destra e di ex sinistra si scatena in un nuovo gioco: aprire nuove baie dei Porci, lanciando vere e proprie aggressioni verbali e scritte.
Prima di tutto al buon senso e alla verità storica. L’invasione della Baia dei Porci fu, nel 1961, il tentativo dell’Amministrazione Usa di abbattere il giovane potere rivoluzionario dell’Avana, fallito per la sollevazione armata del popolo cubano.
Ora quella baia sembra tornare d’attualità. Il fatto è che a distanza di quasi sessanta anni a Fidel non riescono a perdonare l’avere garantito che Cuba non diventasse misera come Haiti e che, nel cortile di casa degli Stati uniti, non venisse aggregata senza identità e dignità come Porto Rico alle altre stelle americane; non riescono a perdonarle che l’affermazione della rivoluzione cubana sia stata d’esempio per l’intero continente, latinomaericano che, negli anni Settanta subì l’intervento militare dei golpisti locali supportati dall’Occidente «democratico», Usa in prima fila a ordire il massacro del Cile di Allende e a coordinare le stragi sanguinose del Plan Condor.
Un continente intero che poi si riscattò con un dispiegarsi di movimenti, dal Brasile al Cile, dal Venezuela all’Argentina e alla Bolivia che, arrivati al potere, realizzarono cambiamenti epocali del potere e delle condizioni sociali di milioni e milioni di esseri umani. Certo ora i governi di quella svolta sono dappertutto in crisi, ma la transizione dai golpe alla democrazia è potuta accadere fra l’altro avendo Cuba come punto di riferimento.
Non gli perdonano a Fidel anche il fatto di avere sostenuto in Africa le lotte dell’Anc di Nelson Mandela contro l’apartheid e quelle anticoloniali in Angola, Mozambico e Guinea Bissau.
Non gli perdonano in buona sostanza l’avere dimostrato che «ribellarsi è giusto». Per questo Obama e quasi tutti i leader europei non vanno ai funerali di Fidel (come non va Putin per «rispetto» al neoeletto Donald Trump).
E sfottono sulla libreta, la carta annonaria cubana che dà diritto ai beni alimentari essenziali, non sapendo che negli avanzati Stati uniti 30milioni di persone vivono con la più semantica food card; sfottono sulla egualitaria sanità cubana, dimenticando che a soli 6 km dalla Casa bianca, a Washington, nel famigerato e nascosto ghetto nero di Anacostia c’è una così alta mortalità infantile da essere denunciata nelle statistiche di Save the Children e delle Nazioni unite; strillano sui diritti umani ma scordano che il campo di concentramento di Guantanamo - base militare Usa in terra cubana - è una vergogna del mondo e di ogni diritto internazionale che si rispetti.
Sono queste aggressioni ignoranti le nuove invasioni della baia dei Porci.
Detto questo però, per noi resta decisivo un ragionamento. Se non vogliamo avere un atteggiamento solo celebrativo, dobbiamo considerare che non sarà la nostra solidarietà verbale a salvare dal nuovo isolamento a cui Cuba sarà di nuovo costretta per l’avvento di Trump - meraviglioso prodotto del disastro democratico statunitense. Solo una capacità di critica positiva delle trasformazioni realizzate a Cuba come delle difficili, contraddittorie riforme avviate da Raúl Castro, sosterrà lo sforzo di continuare quell’esperienza rivoluzionaria. E insieme solo la ripresa di una iniziativa politica e di movimento per la trasformazione radicale del potere e del modello di sviluppo qui, nelle cittadelle avanzate del capitalismo, in Occidente, potrà rompere una logica rituale e immobile per fare dell’addio a Fidel Castro una testimonianza concreta di nuovo impegno. Hasta siempre.
Silenziata la manifestazione contro la violenza sulle donne: una brutta pagina dell’informazione
di Elisabetta Addis *
Sabato 26 novembre, un corteo allegro, ironico, di popolo, guidato dalle donne e formato da uomini e donne di tutte le età, ha sfilato per le vie di Roma per dire basta alla violenza di genere. Tra le centomila e le duecentomila persone. Chiedevano un cambiamento di prospettiva e di cultura, chiedevano politiche attive, e quindi denaro pubblico per creare reti di assistenza, educazione dei giovani e delle giovani al problema, strumenti giuridici nuovi e adeguati.
Una manifestazione che riempie Via Cavour dalla Stazione Termini ai Fori Imperiali, senza staccare vetrine e senza bruciare cassonetti, che non ha dietro nessuno sponsor, totalmente autofinanziata, in grado di fare proposte politiche, di interloquire con i governi e le autorità, non si improvvisa. È il frutto del lavoro che migliaia di persone in maggior parte donne hanno fatto negli ultimi anni in tutta Italia.
Lavoro in particolare sul femminicidio e sulla violenza di genere, e più in generale sui temi della eguaglianza di diritti e di risorse tra le persone dei due sessi. La violenza nasce anche dalla persistente svalorizzazione delle donne, dalla loro mancanza di reddito e risorse, di politiche sociali adeguate e di reti di sostegno.
Questa è la dimostrazione di una crescita politica sana, non corrotta, non chiusa nei palazzi, non solo parolaia, non gridata ma presente nel quotidiano. Una cosa, insomma, molto importante.
Bene. Peccato che per i principali media questa manifestazione non c’è stata. Come dice il comunicato firmato da Non Una di Meno e dalle altre organizzazioni che avevano indetto la manifestazione, "il TgUno, che appena il 25 novembre condannava la violenza sulle donne, ieri sera ha intervistato solo la Ministra Boschi e poi, come per caso, è stata data la notizia che migliaia di donne avevano sfilato a Roma per dire no alla violenza. RaiDue ha mostrato un papà con un bambino sullo sfondo del Colosseo e della manifestazione, sembrava una festa per famiglie. La7 non si è accorta di niente".
E là dove se ne è parlato, se ne è parlato dopo la morte di Castro, dopo il maltempo, dopo la giornata della raccolta alimentare, e soprattutto, dopo aver parlato molto più a lungo della manifestazione per il no, che ha raccolto un centesimo delle persone, ma aveva alla testa un comico rabbioso, e di un altro evento molto meno frequentato sul si al referendum, tenutosi sempre nella capitale.
Perché evidentemente sarebbe una gran notizia che a una settimana dal referendum tutte e due le parti facciano eventi. Ma le donne in piazza no, anche nel servizio pubblico, non sono notizia. Sono velate, nascoste, sono invisibili, sono ascose, non sono importanti, non rilevano, ah già che vuoi che facciano le donne? Per tutto il giorno precedente abbiamo detto che, a una a una, si fanno massacrare, bruciare, attaccare con l’acido, picchiare, stuprare, che il loro destino da grandi è di finire all’ospedale picchiate dal marito.
Come facciamo ora a descriverle insieme, forti organizzate, allegre, ironiche, coi loro figli e coi loro compagni, con una loro azione e un loro pensiero politico?
È anche per via di un sistema informativo che non sa fare il suo mestiere, che blandisce i potenti di turno e i loro eventi e non informa sulla realtà, che ci ritrova poi con le élites politiche incapaci di capire quel che succede veramente nelle teste e nei cuori della gente, e con la gente che crede che la politica sia solo teatrino di palazzo. Questa è una pagina vergognosa del servizio pubblico e dell’informazione italiana, i responsabili se ne dovrebbero almeno scusare.
* Elisabetta Addis
Economista, di Se Non Ora Quando
Appello degli intellettuali per salvare l’Europa: "È tempo di mobilitarsi per fermare i populisti" *
Politici, uomini d’arte e cultura creano una piattaforma per far sentire la voce dei cittadini nella Ue e prevenire le derive nazionaliste
Come la Brexit, la vittoria di Donald Trump ancora una volta ci ha colto di sorpresa. Eravamo per lo più convinti che un approccio ragionevole al dibattito politico avrebbe prevalso su un discorso populista.
Le radici della Brexit e della vittoria di Trump sono in gran parte le stesse: aumento delle disuguaglianze, ascensore sociale bloccato, paura della perdita di identità moltiplicata per la paura dell’immigrazione di massa, abbandono della questione sociale, sistema educativo e culturale carente, diffidenza verso élite ossessionate per i propri interessi personali e verso istituzioni pubbliche percepite come costose e inefficaci.
In entrambi i casi, le conseguenze per gli europei e per il mondo sono rilevanti.
Al rischio di disgregazione dell’Unione Europea, causato dalla Brexit, si aggiunge quello di un allontanamento progressivo tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea e della fine del mondo costruito nel dopoguerra, basato sul multilateralismo e sulla leadership benevola degli Stati Uniti. Il presidente americano eletto è stato chiaro: gli europei devono occuparsi di più della propria sicurezza, politicamente e finanziariamente. Le sue parole non fanno che accelerare una dinamica in atto sin dalla caduta del Muro di Berlino, 27 anni fa.
Questi eventi non possono che galvanizzare i populisti del Vecchio continente, in vista degli appuntamenti elettorali o degli importanti referendum che si terranno nei prossimi mesi in Austria, Italia, Paesi Bassi, Francia e Germania. Ovunque, i partiti moderati sono minacciati.
È dunque urgente agire.
Se noi europei non impariamo rapidamente la lezione che viene da questi eventi, il crollo dell’Unione e la marginalizzazione dei nostri interessi e dei nostri valori in un mondo in cui presto non rappresenteremo più del 5% della popolazione (e dove nessuno Stato europeo farà più parte del G7) diventeranno sempre più probabili.
Non avremo più i mezzi per essere ascoltati, né per garantire la sicurezza, mentre si moltiplicano le minacce alle nostre frontiere. Sarà sempre più difficile difendere i nostri interessi economici e commerciali - quelli della prima potenza esportatrice mondiale - quando la tentazione protezionista troverà sempre più consenso. La nostra idea di sviluppo sostenibile del pianeta rimarrà lettera morta. Non sarà più possibile finanziare i nostri modelli sociali fondati sulla redistribuzione, né i nostri importanti servizi pubblici.
Nessuno dei nostri Stati ha gli strumenti per trovare, da solo, soluzioni a queste sfide. Ora più che mai, l’unità europea è indispensabile. L’urgenza è quella di trovare il modo di riconciliare i cittadini con il progetto europeo e di inventare l’Europa del futuro, capace di offrire speranza per tutti. L’Europa del futuro deve avere il cittadino nel cuore, e dimostrare che serve in modo efficace gli interessi di tutti i cittadini europei, e non solo delle proprie élite.
È questa convinzione che ci porta al Movimento del 9 maggio, lanciato da cittadini e personalità da ogni provenienza, da ogni settore e da ogni sensibilità del continente, per far sì che l’Europa adotti senza indugio una tabella di marcia ambiziosa, concreta e pragmatica. La sfida è ridurre concretamente le disuguaglianze, stimolare la crescita, dare una risposta forte alla questione delle migrazioni, rafforzare la sicurezza dei cittadini, ambire a un’ulteriore democratizzazione dell’Unione e rimettere istruzione e cultura, fondamento della nostra identità democratica, al centro della Ue. Tra le nostre proposte ce ne sono alcune fortemente simboliche: la creazione di un Erasmus degli studenti medi; una politica di ricerca e sviluppo (R&S)comune nel campo della difesa; un raddoppio immediato del piano Juncker per gli investimenti; la creazione di liste transnazionali per le prossime elezioni europee.
In parte siamo stati ascoltati dalle istituzioni europee, che hanno ripreso alcune delle nostre linee guida e adottato l’idea di una tabella di marcia.
Ma oggi è necessaria più ambizione, è giunto il momento di lanciare una vera politica estera e di difesa europea. È tempo che l’Unione diventi una grande potenza politica, democratica, culturale, sociale, economica e ambientale. Il vertice europeo che si terrà a Roma il 25 marzo prossimo, in occasione del 60° anniversario dei Trattati di Roma, dovrà rappresentare l’opportunità di un forte rilancio dell’Ue. Dovrà anche essere l’occasione per rafforzare la democrazia in Europa, sviluppando di metodi di democrazia deliberativa che possano permettere in modo efficace ai cittadini di contribuire alla definizione di priorità per il progetto europeo, e inventare i nuovi diritti e le nuove libertà del XXI secolo.
Senza questo nuovo slancio politico rivolto ai nostri cittadini i demoni populisti che ora ci stanno indebolendo, ci porteranno alla sconfitta. La Storia varia nelle sue forme, ma il risultato sarebbe comunque disastroso. E la possibilità che l’Ue non festeggi neppure il suo 70° anniversario è concreta.
Questa riscossa sarà possibile solo se le decine di milioni di cittadini che condividono la nostra ambizione si mobiliteranno per dare un futuro al nostro continente. È per questo che nel prossimo mese di gennaio creeremo una Piattaforma Civica Federale, ed è per questo che abbiamo lanciato in tutta Europa degli accordi civici per diffondere collettivamente la nostra voce. Dopo Parigi, lo scorso 15 ottobre, le prossime tappe saranno a Bratislava, Berlino, Roma e Bruxelles. Invitiamo tutti coloro che vogliono trasformare l’Europa a unirsi a noi.
All’appello aderiscono anche: László Andor; Lionel Baier ; Mercedes Bresso; Elmar Brok; Philippe de Buck; Georges Dassis; Paul Dujardin; Cynthia Fleury; Markus Gabriel; Danuta Huebner; Cristiano Leone; Jo Leinen; Sofi Oksanen; Maria Joao Rodrigues; Petre Roman; Nicolas Schmit; Gesine Schwan; Kirsten van den Hul; René Van Der Linden; Philippe van Parijs; Luca Visentini; Vaira Vike- Freiberga; Cédric Villani; Sasha Waltz; Mars di Bartolomeo
* la Repubblica, 18 novembre 2016
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Per dizionario Oxford ’post-verità’ è parola del 2016
Scelta fatta sullo sfondo di elezioni Usa e referendum Brexit
di Redazione Ansa *
LONDRA E’ ’post verità’, in inglese ’post-truth’, il neologismo dell’anno secondo gli esperti di Oxford Dictionaries. La scelta e’ quella di un’espressione che secondo un comitato di esperti ha segnato profondamente la scena politica internazionale durante il 2016, con riferimento in particolare alle polemiche legate alla campagna referendaria britannica sfociata a giugno nella vittoria della Brexit (il divorzio dall’Ue) e a quella americana per le presidenziali appena culminata nel trionfo di Donald Trump.
L’annuncio è arrivato in queste ore, riporta la Bbc: ’post-truth’ ha prevalso in una short list finale che comprendeva anche termini come ’Brexiteer’ (sostenitore della Brexit). Si tratta, ha sentenziato Casper Grathwohl, fra i curatori dei prestigiosi dizionari editi a Oxford, "di una di quelle parole che definiscono il nostro tempo".
Le oligarchie e il suicidio delle vecchie sinistre. «La vittoria del tycoon è frutto di rigetto dell’establishment globalizzato e delle sue politiche neoliberali»:
(...) Il guaio è che la vecchia sinistra non crede di vivere il sonno della ragione. Crede d’incarnare la ragione ed esser più sveglia di tutti gli altri (Barbara Spinelli, Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2016)
Elezioni USA 2016
Trump, la seconda profezia del regista Moore: “Non arriverà a fine mandato”
Il documentarista americano aveva già profetizzato la vittoria del magnate repubblicano alle primarie e poi alle presidenziali. Ora è sicuro che il tycoon si dimetterà o subirà l’impeachment: "Un narcisista come lui è probabile possa infrangere la legge"
di F. Q. (12 novembre 2016)
“Donald Trump non porterà a termine il suo mandato”. E’ la seconda profezia di Michael Moore. Il regista, che a luglio aveva preannunciato la vittoria del magnate repubblicano alle primarie e poi alle presidenziali, sostiene che si dimetterà o dovrà subire l’impeachment, la messa in stato d’accusa del presidente, prima della fine del suo mandato. “Il motivo per cui non dovremo soffrire per 4 anni è il fatto che Trump non ha nessuna ideologia se non la sua - ha detto alla Msnbc il premio Oscar del 2003 con ‘Bowling for Columbine‘ - e quando ti trovi davanti a un narcisista come lui, è probabile che possa, anche involontariamente, infrangere le leggi”.
Moore è sicuro: “Trump infrangerà le leggi perché penserà solo a ciò che è meglio per lui”. Secondo il regista, la vittoria del tycoon si rivelerà una benedizione per la sinistra e i democratici non cadranno nella disperazione dopo il risultato inaspettato delle elezioni. “Resisteremo e ci opporremo - ha aggiunto Moore - sarà una resistenza massiccia, un milione di donne hanno già annunciato che marceranno nel giorno del suo insediamento. Sarà la più grande manifestazione mai organizzata”. Il documentarista americano è ormai una bandiera della sinistra schierata contro il miliardario newyorchese: a ottobre è uscito il suo ultimo film ‘Michael Moore in TrumpLand‘, una sorta di instant movie realizzato per contrastare la corsa alle presidenziali americane del candidato repubblicano.
di Massimo Franco (Corriere della Sera, 11.11.2016)
Il Vaticano aveva scelto la strategia del «male minore». E alla fine sembrava così rassegnato alla vittoria di Hillary Rodham Clinton da pensare a lei come alla candidata meno sgradita: sebbene forse non ci credesse fino in fondo. Donald Trump era considerato «non votabile» per le rivelazioni sul suo maschilismo aggressivo, che si aggiungevano alle minacce di deportare oltre il confine sud undici milioni di messicani, di impedire l’entrata negli Usa agli islamici: cose ormai archiviate.
E invece, il presunto «male maggiore» Trump è emerso a furor di popolo come nuovo inquilino della Casa Bianca, a conferma di un’America arrabbiata e radicalizzata.
E per la Santa Sede si tratta di una sconfitta bruciante: culturale prima che politica. Tra l’altro, è il segno che la Chiesa cattolica non aveva captato i sommovimenti più profondi in atto nel maggiore Paese occidentale.
La cautela ufficiale e le parole di augurio rivolte al neopresidente dal segretario di Stato vaticano, cardinale Piero Parolin, sono state doverose e ineccepibili. Ma si affiancano a una preoccupazione palpabile. Va detto che sarebbe stata una sconfitta anche se avesse vinto la Clinton, considerata un bastione del laicismo più ideologico e indigesto alle gerarchie ecclesiastiche. Ma Trump è simbolicamente «l’uomo del muro» col Messico. È il cantore della sbrigativa associazione Islam-terrorismo. Ancora, ha vinto dopo essersi presentato come argine «bianco» contro l’invasione demografica degli immigrati latino-americani, di cui l’argentino papa Francesco è il sommo protettore.
Così, a Roma è stato percepito e raffigurato come una sorta di anti Papa, al di là dei suoi meriti e demeriti. Lui stesso, d’altronde, scelse questo ruolo quando il 18 febbraio scorso accusò Jorge Mario Bergoglio di essere «un agente del governo messicano per l’immigrazione». Il Papa tornava da un viaggio al confine tra Messico e Usa, dove aveva celebrato una messa proprio sul versante «povero» . E reagì con una durezza insolita. «Chi pensa che bisogna costruire muri e non ponti», scolpì, «non è cristiano».
«Nessuno sa cosa è rimasto nell’anima di Trump dopo le parole del Santo Padre...», ammette un influente cardinale italiano. Allora, il candidato repubblicano replicò a brutto muso. Oggi, quella domanda rimbalza nella Roma papale, perché il «cristiano non cristiano» Trump dal 20 gennaio sarà alla Casa Bianca. La sua «cultura dei muri» e l’islamofobia minacciano di legittimare tutti i populismi; e soprattutto di fare breccia nei circoli cattolici più conservatori, che diffidano dei toni inclusivi di Bergoglio verso i divorziati e gli omosessuali e della difesa dei migranti.
Non è un caso che il 22 settembre scorso Trump, protestante presbiteriano, abbia diramato una lista di «trentatré cattolici conservatori» come consiglieri elettorali: era un amo elettorale.
L’arcivescovo di New York, Timothy Dolan, ha definito la campagna per le presidenziali «disgustosa», pur invitando i cattolici a non astenersi. E l’episcopato americano si è tenuto su una posizione di formale equidistanza che è suonata come presa di distanza da entrambi i candidati; ma alla fine è apparso disorientato.
Nelle pieghe buie dei sondaggi è cresciuto silenziosamente un «partito di Trump» affezionato al motto «Dio, patria, famiglia e armi», caro all’America profonda; e appoggiato da pezzi di organizzazioni cattoliche potenti come i Cavalieri di Colombo, in quanto contrario all’aborto e alle unioni gay.
Ultimamente, anche in Vaticano si parlava sottovoce dell’esistenza di frange della Curia affascinate da Trump in opposizione alla «laicista Hillary», e come nemico di un establishment logorato dal potere. Si tratta di settori minoritari che però adesso si sentono rafforzati. Capofila è il cardinale Raymond Leo Burke, critico coriaceo delle aperture di Bergoglio: Burke ha già benedetto il neopresidente come «difensore dei valori della Chiesa». Ma dietro di lui si indovinano invisibili benedizioni di cardinali e vescovi di peso, schierati da sempre per la «sacralità della vita»: «guerrieri culturali» contro il Partito democratico di Barack Obama e dei Clinton.
La lotta all’aborto è uno dei punti di incontro fra Trump e l’episcopato cattolico nordamericano, che teme una Corte Suprema e una legislazione troppo progressiste. In più, potrebbe emergere una sintonia con Francesco se fosse confermata una politica più conciliante con la Russia di Putin, che il Vaticano considera un alleato in Medio Oriente e nei rapporti col mondo ortodosso. Al fondo, tuttavia, la vera incognita per Bergoglio rimangono l’Occidente e la sua metamorfosi culturale. «Crediamo che a votare per Trump siano stati pochi vescovi», spiega un profondo conoscitore degli Usa dentro la Santa Sede. «Il problema è che lo hanno votato molti cattolici».
Significa evocare un’opinione pubblica percorsa da pulsioni che vanno in direzione opposta a quella indicata da Francesco: in America e in Europa, dove la categoria del populismo va declinata con meno sufficienza, perché coinvolge anche persone che populiste non sono. C’è chi prevede che, se Bergoglio non ricalibra la strategia, dal prossimo Conclave potrebbe spuntare un Papa ultraconservatore. Il texano col cappello da cowboy e il crocifisso al collo, felice per l’elezione di Trump, che mercoledì 8 novembre è stato intervistato dai media statunitensi all’udienza in piazza San Pietro, non era un’anomalia. Era l’emblema di un paradosso destinato a scuotere la Chiesa di Francesco.
Padre della antropologia criminale Cesare Lombroso (Verona 1835 - Torino 1909) era alla fine dell’Ottocento uno degli scienziati più noti a livello internazionale
Cesare Lombroso sionista riluttante
Nel 1898 Theodor Herzl tentò di conquistare lo scienziato alla causa del nazionalismo ebraico: lo rivela un carteggio
di Emanuele D’Antonio (La Stampa, 11.11.2016)
Nell’estate del 1898 Theodor Herzl, il fondatore del sionismo politico, tentò di conquistare Cesare Lombroso alla causa del nazionalismo ebraico. L’episodio, documentato da alcuni carteggi inediti conservati presso il Museo Lombroso di Torino e i Central Zionist Archives di Gerusalemme, riporta alla luce una pagina poco nota di storia dell’ebraismo nella turbolenta fin-de-siècle europea. Il sionismo si era costituito in soggetto politico al Congresso di Basilea del 1897, nel nome dell’autodifesa dall’antisemitismo e della preservazione dell’identità ebraica dalla «assimilazione».
Il nuovo movimento spaccò l’ebraismo europeo, suscitando entusiasmi ma anche ostilità. L’ideologia dell’emancipazione, egemonica nelle Comunità, ne criticava il carattere «antimoderno», pericoloso per le conquiste seguite all’affrancamento dal ghetto. È dunque in un contesto di forte conflittualità interna che, alla vigilia del secondo Congresso di Basilea, si inscrive l’abboccamento di Herzl a Lombroso. Il veronese, docente di Psichiatria a Torino e padre dell’antropologia criminale, non era solo una celebrità internazionale della scienza e della cultura ma anche uno dei più noti intellettuali ebrei dell’epoca. La sua adesione avrebbe prodotto gran clamore, offrendo nuova legittimazione al movimento sionista.
Ebreo «assimilazionista»
Che il compito fosse malagevole, Herzl doveva ben saperlo. Lombroso aveva già detto la sua alla vigilia dello scoppio dell’affaire Dreyfus, nella monografia su L’antisemitismo e le scienze moderne (1894). Lo scienziato aveva allestito un’autorevole difesa dell’emancipazione respingendo, in nome del sapere socio-antropologico, la sfida dei movimenti antisemiti di massa. L’antisemitismo gli appariva uno strumento di propaganda nazionalista, che mobilitava atavici odi etno-religiosi. L’ideale della nazione ariana era fuorviante e regressivo: il métissage aborrito dagli antisemiti era da secoli realtà e fonte di sviluppo delle società europee. Gli ebrei erano una popolazione «più aria che semita», protesa all’integrazione nel corpo nazionale e, dove emancipati, alfieri del progresso comune.
Il discorso lombrosiano si faceva ferocemente critico, trattando di alcuni usi ebraici, a suo dire, residuali e anacronistici. Lombroso, ribadita la bontà dell’emancipazione, dava voce alla sua identità di ebreo «assimilazionista»: l’umanità era chiamata a superare le appartenenze tradizionali, raccogliendosi in una nuova solidarietà universale. Il sionismo, in questo quadro, non poteva trovare alcuno spazio.
Il viennese Nathan Birnbaum, importante figura della fase pre-herzliana, lo aveva interpellato al riguardo. Lombroso gli riservò una cocente delusione: il suo progetto era un’utopia antistorica e irrealizzabile. La Palestina era «un deserto» poco attraente per gli ebrei d’Europa, legati da vivissimo amore alle loro patrie. I «pochi fanatici» disponibili a migrarvi, russi e romeni incolti, non erano in grado di portare avanti ambiziosi progetti di colonizzazione agraria. Il precedente era ben poco incoraggiante.
«Troppo vecchio...»
Nel luglio 1898 Herzl gli inviò fiducioso una propria brochure. Lo scienziato, benché non ne fosse molto impressionato, formulò un giudizio positivo grazie alla mediazione della rete familiare e amicale: il tessuto connettivo lo crearono la figlia Gina e il Kulturkritiker Max Nordau, intimo di Lombroso e braccio destro di Herzl. La Welt, organo ufficiale del sionismo, annunciò la sua «conversione», sollecitata dai «figli» e giunta dopo «un lungo dibattito» familiare.
A questo punto Herzl alzò il livello delle richieste, invitandolo nel novero dei suoi opinionisti: «Io credo che [Lombroso]», scriveva alla figlia Gina il 13 luglio, «potrebbe riscontrare più il genio che la follia della razza ebraica in questo movimento [che] abbraccia i figli - e le figlie! - della nostra nazione». Il 29 luglio, la Welt pubblicò in prima pagina il lombrosiano Der Zionismus in Italien und anderswo. Lo scienziato, fatta ammenda del precedente giudizio, legittimava il sionismo quale risorsa per risollevare dall’oppressione le masse ebraiche dell’Europa orientale. La sua testimonianza alimentò la speranza della leadership sionista di riuscire a coinvolgerlo nell’attività del movimento. Alla metà di agosto Lombroso fu acclamato delegato del circolo di Braila, in Romania, all’imminente Congresso di Basilea. Il mandato gli fu comunicato separatamente da Herzl e Nordau. «La nostra causa, che voi stesso giudicate grande», gli scriveva il leader sionista il 19 agosto, «trarrebbe il massimo vantaggio dalla vostra presenza e dall’autorità del vostro nome».
Lombroso non era convinto, né riusciva a concepire il sionismo diversamente da una pratica filantropica. Nordau, ben consapevole, lo invitò a ponderare l’accettazione: «Vi si attaccherà certo in Italia, e voi non avrete altra ricompensa della soddisfazione di coscienza». Il dovere di un buon ebreo, anche alieno a «una parte attiva», era quello di rivendicarsi tale: «Voi apportate una grande forza morale al sionismo, dichiarandovi simpatico ai suoi obiettivi».
Poco dopo Lombroso comunicò a Herzl il rifiuto del mandato: «Troppo vecchio di mente e corpo, non però [...] di spirito, la prego di dire ai suoi amici che se io fossi più giovane [...] sarei uno dei più ardenti partigiani del sionismo». Il messaggio, letto all’assise congressuale, avrebbe scatenato un’ovazione fra i delegati.
PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" (KANT):
Quelle urne sommerse da sessismo e razzismo
Elezioni Usa. Un commento inedito della filosofa statunitense a proposito dell’elezione presidenziale di Donald Trump. «Con quali condizioni abbiamo a che fare se l’odio più scatenato e la più sfrenata smania di militarizzazione riescono a ottenere il consenso della maggioranza?»
di Judith Butler (il manifesto, 10.11.2016)
Due sono le domande che gli elettori statunitensi che stanno a sinistra del centro si stanno ponendo. Chi sono queste persone che hanno votato per Trump? E perché non ci siamo fatti trovare pronti, davanti a questo epilogo? La parola «devastazione» si approssima a malapena a ciò che sentono, al momento, molte tra le persone che conosco. Evidentemente non era ben chiaro quanto enorme fosse la rabbia contro le élites, quanto enorme fosse l’astio dei maschi bianchi contro il femminismo e contro i vari movimenti per i diritti civili, quanto demoralizzati fossero ampi strati della popolazione, a causa delle varie forme di spossessamento economico, e quanto eccitante potesse apparire l’idea di nuove forme di isolamento protezionistico, di nuovi muri, o di nuove forme di bellicosità nazionalista. Non stiamo forse assistendo a un backlash del fondamentalismo bianco? Perché non ci era abbastanza evidente?
Proprio come alcune tra le nostre amiche inglesi, anche qui abbiamo maturato un certo scetticismo nei riguardi dei sondaggi. A chi si sono rivolti, e chi hanno tralasciato? Gli intervistati hanno detto la verità? È vero che la vasta maggioranza degli elettori è composta da maschi bianchi e che molte persone non bianche sono escluse dal voto? Da chi è composto questo elettorato arrabbiato e distruttivo che preferirebbe essere governato da un pessimo uomo piuttosto che da una donna? Da chi è composto questo elettorato arrabbiato e nichilista che imputa solo alla candidata democratica le devastazioni del neoliberismo e del capitalismo più sregolato?
È dirimente focalizzare la nostra attenzione sul populismo, di destra e di sinistra, e sulla misoginia - su quanto in profondità essa possa operare.
Hillary viene identificata come parte dell’establishment, ovviamente. Ciò che tuttavia non deve essere sottostimata è la profonda rabbia nutrita nei riguardi di Hillary, la collera nei suoi confronti, che in parte segue la misoginia e la repulsione già nutrita per Obama, la quale era alimentata da una latente forma di razzismo.
Trump ha catalizzato la rabbia più profonda contro il femminismo ed è visto come un tutore dell’ordine e della sicurezza, contrario al multiculturalismo - inteso come minaccia ai privilegi bianchi - e all’immigrazione. E la vuota retorica di una falsa potenza ha infine trionfato, segno di una disperazione che è molto più pervasiva di quanto riusciamo a immaginare.
Ciò a cui stiamo assistendo è forse una reazione di disgusto nei riguardi del primo presidente nero che va di pari passo con la rabbia, da parte di molti uomini e di qualche donna, nei riguardi della possibilità che a divenire presidente fosse proprio una donna? Per un mondo a cui piace definirsi sempre più postrazziale e postfemminista non deve essere facile prendere atto di quanto il sessismo e il razzismo presiedano ai criteri di giudizio e consentano tranquillamente di scavalcare ogni obiettivo democratico e inclusivo - e tutto ciò è indice delle passioni sadiche, tristi e distruttive che guidano il nostro paese.
Chi sono allora quelle persone che hanno votato per Trump - ma, soprattutto, chi siamo noi, che non siamo state in grado di renderci conto del suo potere, che non siamo stati in grado di prevenirlo, che non volevamo credere che le persone avrebbero votato per un uomo che dice cose apertamente razziste e xenofobe, la cui storia è segnata dagli abusi sessuali, dallo sfruttamento di chi lavorava per lui, dallo sdegno per la Costituzione, per i migranti, e che oggi è seriamente intenzionato a militarizzare, militarizzare, militarizzare? Pensiamo forse di essere al sicuro, nelle nostre isole di pensiero di sinistra radicale e libertario? O forse abbiamo semplicemente un’idea troppo ingenua della natura umana? Con quali condizioni abbiamo a che fare se l’odio più scatenato e la più sfrenata smania di militarizzazione riescono a ottenere il consenso della maggioranza?
Chiaramente, non siamo in grado di dire nulla a proposito di quella porzione di popolazione che si è recata alle urne e che ha votato per lui. Ma c’è una cosa che però dobbiamo domandarci, e cioè come sia stato possibile che la democrazia parlamentare ci abbia potuti condurre a eleggere un presidente radicalmente antidemocratico. Dobbiamo prepararci a essere un movimento di resistenza, più che un partito politico. D’altronde, al suo quartier generale a New York, questa notte, i supporter di Trump rivelavano senza alcuna vergogna il proprio odio esuberante al grido di «We hate Muslims, we hate blacks, we want to take our country back».
(traduzione di Federico Zappino)
RIVOLUZIONE SCIENTIFICA E RIVOLUZIONE COPERNICANA IN FILOSOFIA ....
La domanda filosofica più importante
Dov’è l’origine della modernità?
A Boston se ne discute a partire da due figure cruciali nella storia dell’umanità: Galileo e Machiavelli
di Mario De Caro (Il Sole-24 oRE, Domenica, 06.11.2016)
«Cos’è la realtà?», «Cos’è giusto e cos’è ingiusto?», «Cosa possiamo conoscere?», «Qual è la forma migliore di convivenza umana?», «Chi sono io?», e così via. Come ognun sa (o dovrebbe sapere), le domande filosoficamente più profonde non trovano mai risposte del tutto convincenti. Una volta venute alla luce, infatti, esse non cessano mai di ripresentarsi, in forme solo parzialmente diverse di epoca in epoca, e continuano così a sfidare la capacità di comprensione degli esseri umani. Così, se qualche sapientone vi venisse a dire che la risposta a qualcuna di quelle domande è ovvia, potete stare certi che o bluffa oppure non sa di cosa parla.
È però legittimo chiedersi se tra queste domande ce ne sia una più importante delle altre. Uno dei maggiori filosofi viventi, John Searle, in proposito non ha dubbi. A suo giudizio, la domanda più importante che la filosofia contemporanea si trova davanti è: «Come si può conciliare la concezione di noi stessi in quanto agenti creatori di significati, liberi, razionali e così via con un universo che consiste interamente di brute particelle fisiche, sprovviste di mente, significato, libertà e razionalità?». Dalla risposta che diamo a questa domanda, discendono tutte le altre.
Nella sostanza, molti filosofi contemporanei la pensano come Searle, anche se non tutti si esprimerebbero in modo tanto crudo. Il punto è che, in sostanza, la domanda di Searle ne generalizza un’altra, che fu posta nientemeno che da Immanuel Kant nella terza antinomia della Critica della Ragione Pura. In quell’opera il grande filosofo di Königsberg si chiedeva come fosse possibile conciliare due affermazioni che singolarmente prese ci paiono certe, ma che tra loro sembrano contraddittorie. La prima affermazione (la «tesi» della terza antinomia) è che noi possiamo agire esercitando il libero arbitrio e quando lo facciamo siamo responsabili per l’azione che compiamo. La seconda idea (l’«antitesi»dell’antinomia) è che la facoltà del libero arbitrio è incompatibile con il carattere deterministico delle ineludibili leggi naturali scoperte da Newton.
Il problema di Kant è generalizzato da Searle, perché oltre al libero arbitrio, anche le altre prerogative fondamentali che ci autoattribuiamo (la coscienza, la moralità, la razionalità, la capacità di dare significato alle azioni e alle cose) sembrano incompatibili con il mondo naturale, così come esso ci viene presentato dalla scienza. In effetti, al di là della sicumera di Searle, è innegabile che il problema generale della collocazione del mondo umano nel contesto del mondo naturale sia centrale per la filosofia contemporanea - almeno nel caso in cui non si prendano facili scorciatoie, come quella di chi nega legittimità alla visione scientifica del mondo o quella di chi, a contrario, sostiene che questo problema è illusorio perché la scienza, e solo la scienza, spiega tutto ciò che c’è da spiegare.
Come gli altri genuini problemi filosofici, anche il problema di Searle ha una lunga storia, che risale a ben prima di Kant. Secondo qualcuno, il suo termine a quo è rappresentato dalla filosofia di Descartes che rispondeva al problema del posto dell’umano nel mondo naturale con il suo rigido dualismo: la mente, con tutte le sue prerogative, prima tra tutte la libertà, si colloca, secondo Descartes, in un mondo ontologicamente irrelato al mondo della materia. Una soluzione molto drastica, che però si rivelò subito insoddisfacente, perché è evidente che le due presunte sostanze (il pensiero e la materia), lungi dall’essere irrelate, interagiscono causalmente l’una con l’altra. Sarebbe però errato iniziare la genealogia della frattura tra l’immagine umana e l’immagine scientifica del mondo con la filosofia cartesiana. L’origine di questa scissione, infatti, si ritrova nel grande pensiero italiano del Rinascimento e della prima età moderna, e in particolare nei suoi due maggiori protagonisti: Niccolò Machiavelli e Galileo Galilei.
Il Segretario fiorentino fu il primo a offrire, a inizio Cinquecento, una compiuta visione secolarizzata, in cui l’agire umano si emancipava dai vincoli di un’etica religiosamente informata e, più in generale, da un quadro metafisico in cui tutto era tenuto assieme dalla provvidenza divina. Nella visione machiavelliana si saldavano in modo originale temi aristotelici (la rilevanza delle idee di virtù e di autonomia, l’eternità del mondo, il valore dell’astrologia) ed epicurei (il ruolo della contingenza nell’esercizio della virtù politica, la prossimità tra esseri umani e animali). E in questo modo Machiavelli plasmava un’antropologia naturalistica che avrebbe avuto grande influenza nei secoli successivi. In quell’antropologia, però, la razionalità (nella sua accezione politica) e la normatività (nel suo senso metastorico) continuavano a giocare un ruolo cruciale.
Quando, però, un secolo dopo, Galileo comprese che le categorie matematiche con cui si studiavano i moti celesti erano applicabili anche sulla Terra, e in questo modo fondava la fisica moderna, la dimensione del reale si restrinse alle cosiddette «qualità primarie» dei corpi, quelle quantitative e relazionali, mentre le «qualità secondarie» (qualitative e modali), e con esse le categorie modali e normative, venivano cancellate dal mondo reale. Come Husserl scrisse in Krisis, capolavoro della sua maturità, con Galileo iniziava la separazione tra il mondo della percezione e quello della scienza. Una separazione che avrebbe portato alla terza antinomia di Kant e alla questione prioritaria della filosofia contemporanea di cui parla Searle.
Machiavelli fondò dunque la moderna concezione dell’umano, Galileo la moderna concezione della natura: la modernità, con la sua costitutiva scissione tra mondo umano e natura, ha le proprie radici saldamente piantate in Italia. Di questo, e degli sviluppi che ne seguirono, discuteranno tra pochi giorni, in un grande convegno che si terrà a Boston presso le università di Harvard e di Tufts, alcuni dei massimi esperti mondiali.
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Boston, 10 e 11 novembre 2016, Harvard University e Tufts University, con la collaborazione dell’Università Roma Tre: convegno su The Italian Roots of Modernity: Machiavelli e Galileo. Tra i partecipanti Antonio Clericuzio, Mario De Caro, Ioannis Evrigenis, James Hankins, Harvey Mansfield, Gabriele Pedullà, Eileen Reeves, Mark J. Schiefsky, George Smith, Michelle Tolman-Clarke e Vickie Sullivan
Simone Weil: la violenza pietrifica le anime
di Elena Tebano (Corriere della Sera, 03.11.2016)
«Mettiamo la maiuscola a parole prive di significato e, alla prima occasione, gli uomini spargeranno fiumi di sangue, accumuleranno rovine su rovine ripetendo quelle parole, senza mai ottenere davvero qualcosa di corrispondente; niente di reale può davvero corrispondere a queste parole, poiché non significano niente». Quando Simone Weil si esprimeva così in Non ricominciamo la guerra di Troia, quasi 80 anni fa, l’Europa era alla vigilia della Seconda guerra mondiale e i termini al centro dello scontro erano «nazione, sicurezza, capitalismo, comunismo, fascismo, ordine, autorità, proprietà, democrazia».
Il libro del potere, la breve raccolta di saggi dell’autrice francese a cura di Mauro Bonazzi, appena edita da Chiarelettere, ha il merito di restituircene tutto il vigore per un oggi in cui sono cambiati i termini con la maiuscola, ma non la loro pericolosa indefinitezza (si pensi alla contrapposizione tra una visione integralista dell’«Islam» e l’«Occidente»).
I tre testi del libro sono uniti dalla stessa, attualissima, esigenza: una riflessione sulla forza e sui suoi effetti al cospetto del mondo in cui vige il suo dominio. Per Simone Weil il modello è l’«ispirazione greca», la cui «essenza» - sostiene in L’ispirazione occitana , il terzo scritto della raccolta, pubblicato originariamente nel 1942, un tentativo di identificare nel cristianesimo evangelico il vero erede della cultura greca - è «la conoscenza della forza» e cioè «riconoscerla come pressoché unica sovrana di questo mondo e rifiutarla con disgusto e disprezzo».
All’analisi del «suo potere di trasformare gli uomini in cose», che «pietrifica seppur in modo diverso sia l’animo di coloro che la subiscono sia quello di coloro che la esercitano», è dedicato in particolare il primo saggio, L’Iliade o il poema della forza del 1940.
Ed è qui l’intuizione forse più interessante: un no fortissimo alla «scorciatoia» della violenza, come la definisce Bonazzi nell’introduzione, che alla complessità del reale preferisce «soluzioni drastiche, fondate su opposizioni nette: il bene contro il male, la luce contro il buio», perché distrugge anche chi ne esce vincitore.
Un rifiuto che Simone Weil ha incarnato con il suo radicalismo fino a morirne: non si è mai sottratta alle guerre che hanno segnato il suo tempo e ha sempre combattuto per gli ultimi, senza però mai cedere alla logica della forza.
Walter Benjamin, la felicità profana degli uomini
«La Politica e altri scritti» di Walter Benjamin, a cura di Dario Gentili
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 26.10.2016)
Filosofo dei frammenti, e del loro montaggio, Walter Benjamin ha fatto di necessità virtù. La sua esistenza nomade, alla prese con una precarietà che non ha nulla da invidiare alla nostra, si è conclusa in fuga dai nazisti con un tragico suicidio. Un’esistenza costellata di illuminazioni e anticipazioni sulle quali si continua ancora a riflettere. L’ultimo caso è quello della «Politica»: sin da giovane il filosofo aveva concepito un’opera organica di cui si conoscono frammenti notissimi come Sulla critica della violenza, pubblicata nel 1921.
La Politik è al centro di una discussione intensa almeno quanto le discussioni sulla valigetta che Benjamin portava sempre con sé e che si pensa custodisse il suo ultimo lavoro, un libro a cui il filosofo diceva di tenere più che alla sua vita. Oggi non è possibile ricostruirla completamente, ma dai frammenti emergono lampi significativi. È questo il tema de La politica e altri scritti (Mimesis, pp.122, euro 12), un volume per il quale il curatore Dario Gentili ha scelto un filo conduttore che, pur non rispettando la disposizione dei materiali nell’opera completa, permette di organizzarli secondo un ordine tematico e cronologico. Per ricostruire il senso di questa opera incompiuta è decisiva la corrispondenza con l’amico e filosofo Gershom Scholem. In questi scritti Benjamin lega la «verità» all’opera «comune» che gli uomini possono fare insieme. A differenza di una lunga tradizione iniziata con Weber, il politico non è una personalità o individualità, ma si dà nella radicale immanenza dell’opera comune degli uomini. In questo consiste la loro felicità profana.
La politica, nella sua caducità, non aderisce a ciò che esiste, ma adempie a un compito messianico. Accompagnato da visioni materialistiche, il messianesimo comunista di Benjamin procede in senso inverso rispetto alla teologia e alla volontà di rappresentare il Regno di Dio sulla Terra. Tra l’anarchismo giovanile e la stagione marxista della maturità la distanza è notevole, ma esistono alcune costanti.
In questa raccolta di frammenti emergono due idee che Benjamin ha coltivato ancor prima di scoprire il materialismo: la rivoluzione è «innervazione degli organi tecnici della collettività» e «scassinare la teleologia naturale». Concetti che ribaltano molte versioni del materialismo che ha ignorato il fatto che la tecnologia è un fenomeno sociale e incarnato nella forza lavoro. Per non parlare della filosofia della storia che ha legato il comunismo alla teleologia naturale. Per Benjamin nulla è irreversibile, la tecnica è una questione politica, la politica si dà quando l’azione non ha uno scopo finale, ma è l’espressione di una felicità comune.
La morte di Dio libera l’uomo o lo priva di ogni senso etico? Due classici visti da Leo Strauss nella crisi della modernità Resta incerto l’esito del conflitto tra ragione e rivelazione. La fragilità degli ideali illuministi alla luce della terribile catastrofedi Weimar
di Mauro Bonazzi (Corriere della sera, La Lettura, 23.10.2016)
Ci si chiede sempre cosa sia un classico. Leo Strauss non avrebbe avuto dubbi: è chi aiuta a capire i problemi. Come Baruch Spinoza, ad esempio. Strauss gli si era avvicinato quasi per caso, su invito dell’Accademia per le Scienze del Giudaismo. Non se ne allontanò più. La ragione della lunga frequentazione è facile da intuire: chi meglio di Spinoza, emarginato dalla sua comunità per l’empietà delle dottrine professate, il pensatore radicale per eccellenza, poteva servire come guida per indagare il grande problema della modernità, lo scontro tra religione e filosofia (e scienza)? Lo Spinoza del Trattato teologico-politico è colui che più decisamente si era scagliato contro il principio di autorità e dunque la Rivelazione. Ma neppure lui era riuscito a riportare una vittoria definitiva. Quello che rende il suo attacco così interessante agli occhi di Strauss è il fallimento: neanche Spinoza è riuscito a dimostrare la superiorità di filosofia e scienza rispetto alle verità rivelate.
Certo, riconosce Strauss, filosofia e scienza godono ormai di maggior prestigio, nel discorso pubblico, rispetto alle tradizioni religiose. Nel mondo disincantato (il riferimento corre ovviamente a Max Weber) in cui viviamo non c’è più posto per miracoli e profeti. Ma il maggior prestigio di filosofia e scienza rispetto alla religione non si fonda sulle basi solide di una confutazione autentica. Perché se è vero che la Rivelazione non riesce a sottomettere la filosofia, non meno vero è che la filosofia non riesce a debellare la Rivelazione: dimostrare (per via di ragionamento o ricorrendo all’esperienza concreta) che Dio non esiste è impossibile. Così come è impossibile dimostrare che esiste (è un fatto di fede, non di argomentazioni). Ed è questo che importa a Strauss: la persistenza della tensione tra due modi di considerare la realtà, diversi e incompatibili; è lo scontro tra Atene e Gerusalemme, come scriverà negli anni della maturità.
Ma già in quegli anni giovanili, l’analisi di Spinoza lo aveva aiutato a capire che la questione decisiva, in questo scontro, riguardava la (presunta) autonomia della ragione. Il progetto della modernità, che si propaga fino ai nostri giorni, si fonda sulla convinzione che la ragione umana basti per rendere adeguatamente conto della realtà, permettendoci di costruire un mondo di pace e benessere. Il progetto è nobile e ambizioso. Ma anche realizzabile? Strauss aveva iniziato le sue letture nel pieno della crisi di Weimar: una bella espressione, la Repubblica di Weimar, degli ideali illuministici, che però stava implodendo di fronte a una realtà che si rivelava più complicata, refrattaria a farsi irreggimentare secondo schemi e categorie moderni. Non sono diversi i problemi che stiamo affrontando oggi. Intanto Strauss era finito esule, come molti altri, ebrei e non solo.
Il testamento di Spinoza (Mimesis) contiene la prima traduzione italiana dei saggi che Strauss era venuto scrivendo su questo tema tra il 1924 e il 1932, a completamento dell’opera principale La critica della religione in Spinoza, uscita nel 1930, e chiarisce alcuni punti decisivi della sua interpretazione. In particolare, questi lavori aiutano a meglio comprendere l’importanza della presenza di un ospite inatteso, a cui Strauss continuamente pensa quasi mai nominandolo. Friedrich Nietzsche. Senza di lui non si può capire che cosa sia davvero in gioco.
L’ateismo di Spinoza (perché a questo conduceva il suo razionalismo radicale) nasceva con un intento liberatorio, facendo propria la battaglia di Epicuro contro la paura degli dèi. Dobbiamo liberarci di Dio per smettere di vivere nel terrore, e tornare a guardare serenamente il mondo che ci circonda; seguendo le leggi della natura, non asserviti alla minaccia del peccato. Con Nietzsche si comprende che il vero problema è un altro: come pensare a un mondo senza Dio? Questa è la sfida a cui la rivoluzione scientifica, di cui sia Nietzsche sia Spinoza erano convinti sostenitori, ci invita. Liberati dal giogo degli dèi, gli uomini si sono fatti padroni del loro destino. Per farne cosa? Il Dio biblico, il creatore del cielo e della terra, era anche il garante dell’esistenza del bene e del male. Nell’universo retto dalla provvidenza divina vigeva la fiducia che esistessero valori oggettivi come il bene o la giustizia, a cui rifarci per le nostre decisioni. La morte di Dio mette in crisi la fondatezza di questa convinzione: dove contano solo le leggi fisiche di causa ed effetto ha senso parlare ancora di bene o male?
Qualche anno fa Leo Strauss ha goduto di un’improvvisa notorietà, diventando oggetto di critiche veementi e adesioni incondizionate, in un clima quasi da stadio (soprattutto negli Usa). Questo perché si riteneva che il suo pensiero politico stesse alla base dell’ideologia neo-conservatrice della presidenza di George W. Bush. Molti suoi allievi, in effetti, hanno occupato cariche di rilievo nell’amministrazione repubblicana. Ma le interpretazioni solo politiche della sua filosofia sono inutilmente riduttive. Il suo interesse è altrove: in un pensiero inattuale, capace di illuminare le questioni del presente grazie a una ripresa degli antichi - gli ultramoderni, li chiamava lui.
Sono celebri le due definizioni aristoteliche dell’essere umano: l’animale razionale e l’animale politico. Per natura tendiamo tutti al sapere, si legge all’inizio della Metafisica: conoscere, trovare il senso di ciò che siamo e di ciò che ci circonda, esprime un aspetto essenziale della nostra natura. Ma, a differenza di tanti altri animali, non possiamo vivere da soli, perché abbiamo bisogno gli uni degli altri: siamo politici nel senso che viviamo sempre insieme (questa è la Politica). Sembra banale ma non lo è, perché desiderio di conoscenza e rispetto delle norme etico-politiche non sempre vanno d’accordo. Oggi lo sappiamo fin troppo bene. La ricerca scientifica procede impavida verso scoperte sempre più meravigliose, offrendoci possibilità fino a poco tempo fa impensabili. Che uso fare però di queste scoperte? Ci sono dei limiti per la ricerca? E chi li stabilisce?
Con altri termini, discutendo di vita contemplativa (dedicata alla conoscenza) e di vita attiva (dedicata alla politica), sono gli stessi problemi di cui si preoccupava Aristotele, seguito dai filosofi medievali che avrebbero poi influenzato Spinoza (l’ultimo degli ultramoderni, in fondo, perché consapevole di questa tensione insormontabile). L’impulso inestirpabile a conoscere che caratterizza i sapienti, nella misura in cui mette in discussione tutti i valori su cui si fonda la città, non rischia di essere eversivo? Forse che Socrate è stato condannato giustamente? Sono domande inquietanti, che almeno ci aiutano a chiarire la portata dei problemi - di problemi che sembrano scontati e che poi si scoprono d’impervia risoluzione. A questo servono i classici, come ha insegnato Leo Strauss, e per questo conviene continuare a leggerli.
LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA -- IL SERPENTE DI BRONZO: MICHELANGELO, WARBURG, E UN ANAGRAMMA:
CRUCIVERBA ed ENIGMISTICA.
"Dal metodo non nasce niente": un omaggio a Edipo, "Il mancino zoppo" (Michel Serres)
Pur sapendo a quali "pericoli" ("So benissimo...") andava incontro, il prof. Polito, ha aggiunto CORAGGIOSAMENTE al "mosaico sempre in fieri" (vale a dire, in cammino!) una "tessera" e, pur sapendo di ERMETE TRISMEGISTO, ha aperto - SENZA VOLERLO - non solo (come ha fatto alla fine dell’articolo) la porta della CATTEDRALE DI SIENA, ma anche la porta della CAPPELLA SISTINA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5195)!!!
CON un semplice ANAGRAMMA ("Serpente? Presente!": http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/04/serpente-presente/) ha sollecitato a riconsiderare e a riguardare tutte le tessere del MOSAICO. A questo punto, però, non è più solo un "gioco di parole"! Ora, non si sono solo Apollo, Pitone, le Sibille, e le Muse, c’è anche MOSÈ e MICHELANGELO - e FREUD ("L’uomo Mosè e la religione monoteistica": http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829).
C’è il richiamo a tutto l’immaginario biblico e, in particolare, alla interpretazione di Michelangelo della vicenda del SERPENTE DI BRONZO, racchiuso nel "pennacchio" della Volta della Cappella Sistina - https://it.wikipedia.org/wiki/Serpente_di_bronzo_(Michelangelo): il richiamo a un ALTRO serpente, "all’amico serpente" - "al sulfureo amico" -"all’amico ritrovato"!!!
ENIGMI: CRUCI-VERBA!!! A MEMORIA, e ad evitare EQUIVOCI, è BENE ricordare che i "verba volant"!!! Se, e solo se, le parole, i "VERBA" sono agganciati alla croce ("CRUCI"), al "palo", al "bastone" - alla "colonna vertebrale" della propria persona, diventano "scripta", parole scritte, parole degne di essere ricordate - scrittura, Scrittura!!! Altrimenti, sono solo parole al vento di serpenti impazziti - in un mare di sabbia!!!
Federico La Sala
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Aby Warburg
Il rituale del serpente
Una relazione di viaggio *
Aby Warburg è stato forse l’uomo che più ha influenzato, in questo secolo, la nostra visione della storia dell’arte. Attraverso i suoi studi egli ha indicato la via che consente di ritrovare nelle arti figurative la concrezione di una intera civiltà, con tutte le sue oscure tensioni psichiche. Ma lo stesso Warburg, mentre sviluppava la sua opera grandiosa, era periodicamente colpito da crisi nervose, che lo obbligavano a prolungati soggiorni in clinica.
Nel 1923, al termine di uno di questi soggiorni, per dimostrare la propria guarigione, egli tenne ai pazienti e ai medici della casa di cura di Kreuzlingen un «discorso d’addio» - la celebre conferenza sul Rituale del serpente, apparsa poi nel 1939 sul «Journal» del Warburg Institute con una pudibonda nota che la diceva pronunciata per la prima volta «davanti a un pubblico non specialistico». Di fatto, quel discorso era insieme una confessione e un testamento.
In poche pagine, prendendo spunto da una sua spedizione presso gli indiani Pueblo, Warburg risale alle origini del paganesimo e della magia. E illumina il potere stesso - innanzitutto psichico - delle immagini, il loro potere di ferire e di guarire, stabilendo così un circuito fulmineo fra il serpente dell’arcaico rito dei Pueblo e quello che Mosè invitava a innalzare nel deserto.
Per comprendere un testo fondamentale come Il rituale del serpente occorre considerarne in ogni dettaglio la genesi e le allusioni: compito che qui assolve il prezioso saggio di Ulrich Raulff.
* SCHEDA EDITORIALE: ADELPHI (Risvolto - copertina).
L’antropologo Warburg e la vendetta degli indiani Hopi
di Maurizio Cecchetti (Avvenire, 16 luglio 2014)
Nel febbraio di quest’anno [16 luglio 2014, fls] era prevista a Boudler, nel Museo d’arte dell’Università del Colorado, una mostra di studio sul viaggio nel Sud-Ovest americano di Aby Warburg tra il 1895 e il 1896. Il titolo suonava così: «Incontrando culture: il viaggio di Aby Warburg nel Sud-Ovest americano».
Ma questa mostra non ha mai visto la luce, e la notizia rimbalza da noi grazie al mensile «Il giornale dell’arte» che nel numero in edicola spiega, con un lungo articolo di Davide Stimilli, docente in Colorado e cocuratore dell’esposizione, le ragioni per cui non si è fatta, sebbene già dall’ottobre scorso fossero arrivati dal Warburg Institute di Londra tutti i materiali della mostra.
Come vedremo, le ragioni si radicano in una oggi più che mai accesa disputa fra colonizzatori e colonizzati (spesso depredati o sterminati), così che i Paesi ex coloniali si vedono ogni tanto presentare il conto dalle vittime, nei modi più vari: dalla restituzione dei beni o le reliquie loro sottratti (vedi il caso dei Maori), alla richiesta di un risarcimento morale per la violazione delle loro tradizioni e delle loro credenze religiose.
Chi era Warburg? Morto nel 1929, rampollo di una famiglia di banchieri tedeschi di origine ebraica, fu uno dei grandi storici delle immagini a cavallo tra Otto e Novecento, che con le sue ricerche aprì la strada a quella che oggi molti conoscono col nome di «iconologia », una disciplina che lui non teorizzò mai (qualcuno, per questo, l’ha anche definita una «disciplina senza nome»), che ha trovato un assetto teorico grazie a un altro storico dell’arte tedesco, Erwin Panofsky, il quale peraltro ha forzato molto la mano a Warburg, attribuendo al suo metodo di studio una sistematicità che non ebbe mai. Warburg fu uno sciamano delle immagini, un rabdomante che si faceva guidare da fluidi mentali che, forse, presero anche una direzione visionaria a causa della instabilità psicologiche dello studioso (come si dice in questi casi: il sintomo del genio saturnino). A Panofsky Warburg avrebbe potuto rispondere: la méthode c’est moi, il metodo sono io, e lo dimostra il suo grande progetto incompiuto, l’atlante delle immagini Mnemosyne.
Che ci faceva Warburg nel Sud-Ovest americano? Quello che facevano molti altri intellettuali come lui dotati di una formazione da antropologi, che spaziavano dalla filosofia all’arte, dall’antropologia alla religione: guardavano le altre culture con una mentalità per così dire eurocentrica. Oggi l’incontro delle culture sembra quasi una trita ovvietà dopo decenni di martellante discussione sui diritti dell’altro.
Il martello batte dove il dente duole? L’Occidente, sia pure in posizione dominante, ha da tempo capito di essere uno dei mondi possibili fra i tanti che si affrontano nella globalizzazione: parlare dell’altro, difenderne le specificità, considerare il dialogo come un ragionare ponendosi dalla parte dell’interlocutore, fino a farsi paladini della sua diversità rispetto alla nostra (diversità), è una sapiente, quanto necessaria, forma retorica per tenere il punto.
E qual è il punto? Il punto è che dietro la filosofia dell’altro, nella propaganda geopolitica si celano spesso nuove forme di colonialismo. Nel momento in cui ci s’impanca difensori dei diritti dell’altro, in qualche modo si dice che noi glieli riconosciamo. È una sottile prevaricazione, che può riservare brutte sorprese.
La mostra dell’Università di Boulder (una ridente cittadina di circa centomila abitanti, posta a 1.700 metri sopra il livello del mare, all’incrocio tra le Montagne Rocciose e le Grandi pianure), è una di queste docce fredde che il mondo occidentale - democratico, pari opportunità, politicamente corretto, e chi ne più ne metta -, subisce quando tenta di spacciare come neutrale operazione di studio qualcosa che è ancora materia di «scuse» quasi mai ricevute dalle vittime di un colonialismo che ha derubato i popoli sottomessi anche della loro cultura e della loro storia.
Wole Soyinka, in un suo saggio breve, ma durissimo sulla questione della riconciliazione in Sudafrica, ricordava che la violenza maggiore sui popoli colonizzati non furono quelle fisiche e morali sui singoli (con orrori imperdonabili), ma quelle che depredarono la memoria di quei popoli e le loro testimonianze culturali. Restituiteci l’identità che ci avete rubato, diceva Soyinka. Intendeva: lasciate che siamo noi a chiedervi giustizia, non siete voi che ce la rendete, ma noi che la pretendiamo. Qualcosa del genere ascoltai qualche anno fa a Mantova anche dalla bocca del grande Edouard Glissant.
Warburg, che era arrivato alla fine del 1895 a New York per partecipare al matrimonio del fratello, disgustato da quella società opulenta aveva deciso di spingersi verso l’Ovest, in quella terra mitica abitata da tribù indiane come quella degli Hopi. Questa esperienza di Warburg si compie - scrive Stimilli - nel «groviglio straordinario di progresso e arcaicità che è la storia degli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento». E Warburg? Warburg era guidato dall’interesse per un rituale degli Hopi: quello del serpente, che era per lui l’occasione di comparare il paganesimo originario della Grecia arcaica verificandolo de visu su una «sopravvivenza» attuale (lasciamo stare, qui, l’errore sostanziale di questo comparatismo diacronico).
Come si comporta Warburg con gli Hopi? Come gli antropologi depositari di una mentalità coloniale: preleva, senza troppe remore, i loro oggetti, i loro simboli, persino la loro immagine attraverso la fotografia.
Stimili ricorda che gli Hopi, una tribù indiana dei Pueblos, erano spaventati dalla macchina fotografica, perché credevano che potesse rubare loro l’anima. Così non erano contenti di essere fotografati, mentre Warburg, nota Stimilli analizzando una foto celebre, dà prova di una certa violenza costringendo l’indiano a starsene fermo accanto a lui mentre lo tiene per un braccio perché, evidentemente, era restio a farsi fotografare.
Ed è proprio questa la ragione per cui la mostra è saltata: alcuni docenti all’Università del Colorado, appartenenti alle diverse tribù indiane, si sono opposti all’intenzione degli organizzatori di esporre materiali che ancora oggi creano problemi morali e spirituali agli eredi degli indigeni di un secolo fa.
Il Museo, intimorito dalle promesse di boicottaggio e dalle polemiche sui giornali, ha abbandonato il progetto. Se lo stesso caso si fosse verificato in Europa forse gli organizzatori avrebbero tenuto duro, giustificando tutta l’operazione come un modo per capire e rendere le scuse alle vittime di quella mentalità: è l’obiezione implicita nel discorso di Stimilli; ma, appunto, è in America che si svolge questa storia, dove la violazione delle nuove convenzioni linguistiche ed etiche nel rapporto fra le culture e i popoli, può anche costare a un docente la carriera universitaria.
Stimilli, mettendosi il cuore in pace, conclude: «Sono, a ragion veduta, sinceramente felice che la mostra non sia avvenuta». Possibile, mi chiedo, che tutto il buon senso che oggi apprezza, e che nasce da una consapevolezza etica, non lo avesse nemmeno sfiorato quando preparava quella mostra? Come si dice in questi casi: si deve far buon viso a cattiva sorte.
"PATHOS A ORAIBI: CIO’ CHE WARBURG NON VIDE" di David Freedberg (cfr.: Lo sguardo di Giano - Columbia University)
LA LEZIONE DI MANDELA - GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Warburg e la "Sphaera Barbarica"
di Mario Cobuzzi *
Per Monstra Ad Sphaeram è un volume pubblicato da Abscondita e curato da Davide Stimilli e Claudia Wedepohl, che raccoglie un corpus notevole di lettere, appunti, scritti di vario genere di Aby Warburg, risalenti ai suoi ultimi anni di vita. E’ un libro curato in maniera eccelsa, ricco di note esplicative e con una utilissima postfazione di Stimilli; se quella di Warburg è una figura che vi affascina, non potete perderlo: addirittura, basterebbe la sola presenza del saggio di cui voglio parlarvi in questo post per giustificare ampiamente i 20 euro spesi.
Infatti L’effetto della “Sphaera Barbarica” sui tentativi di orientamento cosmici dell’occidente, che lo studioso scrisse nel 1925 come conferenza in onore del suo amico recentemente scomparso, Franz Boll, è un saggio straordinario, affascinante oltremodo; soprattutto, esso si presenta come summa del pensiero warburghiano, di quel problematico e fondamentale metodo di studio che ha segnato la nascita dell’iconologia.
In queste poche pagine si affacciano infatti i problemi principali della biografia intellettuale dello studioso: come da titolo del saggio, l’ Orientamento; l’astrologia e la migrazione delle immagini; la rinascita degli antichi dèi e quindi, di conseguenza, il tema del Nachleben (Sopravvivenza); in ultimo, il non meno fondamentale e affascinante Spazio del pensiero.
L’apertura ricorda quella del saggio su Schifanoia del ’12, perché anche qui Warburg sembra giustificarsi[1]: «A una linea di ricerca che si occupa di arte e di Rinascimento italiano [i corsivi sono di Warburg], nulla sembra più estraneo che la discesa nelle oscure regioni della superstizione tardo-antica. Il bello in sé, e l’antico che emerse per gli italiani nell’epoca della rinascita come guida verso una formazione ideale più elevata, sembrano avere nel fatalismo astrologico addirittura il loro più riottoso avversario.- Ma si tratta di un’osservazione solo superficialmente azzeccata!»
Il Nostro dunque rivaluta l’astrologia come pratica positiva per lo sviluppo del Rinascimento, «poiché se si intende l’illuminismo che la riscoperta dell’antichità classica portò all’Europa [...], allora proprio l’antico che si impose, demonicamente deformato nell’astrologia, come oggetto di culto, offre allo storico della cultura l’opportunità di comprendere chiaramente la restaurazione dell’antichità classica come il risultato di un tentativo di liberazione della personalità moderna dall’incantesimo della pratica magico-ellenistica».
Importante e problematico quest’ultimo passaggio: l’antichità classica si scinde in due fazioni; da un lato l’autentica classicità umanistica e razionale ripresa nel Rinascimento, dall’altra quella ellenistica, irrazionale e mostruosa. Infatti «è la stessa scienza matematica della Grecia, che venne ripristinata nel corso del Rinascimento alle sue forme originarie, a offrire all’uomo europeo l’arma per lottare contro i demoni provenienti dalla Grecia, o meglio dalla Grecia asiatica».
Ecco dunque (e qui veniamo a uno dei motti più affascinanti e famosi di Warburg[2]) che «l’Atene greca vuol sempre di nuovo essere liberata dall’Alessandria arabizzante».
L’astrologia diventa quindi determinante sia perché «nel caso della dottrina del cielo si ha a che fare con il più ampio problema dell’orientamento spirituale di contro all’universo», sia perché, per quanto riguarda gli affreschi di Palazzo Schifanoia a Ferrara, «la curiosità del fatto che un astrologo arabo del IX secolo, 600 anni più tardi, dettasse ancora il programma iconografico a un pittore del Rinascimento, non ci esime dall’obbligo di intendere questo processo come un anello organico nell’evoluzione stilistica complessiva della cultura del Rinascimento»; inoltre «tutto ciò che appare stasera [nella conferenza, cioè] in testimonianze, note e ignote, in parola e immagine, mostra l’uomo che osserva in lotta per lo spazio del pensiero».
Così, come dicevo prima, il tema dell’astrologia permette a Warburg di riprendere i fili principali del suo ampio affresco teorico: l’Orientamento, la cultura rinascimentale, lo Spazio del Pensiero.
E non solo: «oscillando tra posizione di causa figurativa mitologica e numericamente calcolabile, le costellazioni hanno per lui [l’Uomo] [...] un carattere ambivalente, polarizzato, che da un lato esige venerazione cultuale nella pratica magica, e dall’altro ha il valore di una determinazione di estensione distaccata e oggettiva per gli oggetti rilucenti nello spazio dell’universo, nella volta del cielo».
Qui, chiaramente, Warburg mette in campo l’altro suo grande tema, quello della Polarità.
Polarità riscontrabile, come è noto, a Schifanoia: se infatti in «Francesco Cossa si fa avanti una specie di umanità emancipata sotto il segno dell’ antichità autentica, [...] i restanti affreschi, grazie alla troppo erudita ispirazione del consigliere Pellegrino Prisciani, vengono ostacolati nell’ascesa alla divinità olimpica dalla mostruosità demonica».
Ma queste oscillazioni, nella visione del Rinascimento di Warburg, sono destinate a risolversi: «Nella Scuola di Atene di Raffaello non vi è più traccia di un tale valore d’espressione simbolico del complesso agonale mostruoso [riscontrabile, per lo studioso, nella cultura della Firenze medicea]. La profonda calma dell’Accademia greca pervade la sala. La dea Atena si cela nell’ombra della nicchia e tuttavia sporge dallo sfondo. Per monstra ad sphaeram! Dalla terribilità del monstrum alla contemplazione nella sfera ideale della meditazione paganamente dotta. E’ questo il percorso nella evoluzione culturale del Rinascimento».
E non è finita qui: una tale razionalizzazione umanistica riguarda anche le pratiche religiose, nel momento in cui esse passano dal sacrificio umano a pratiche «più semplici»- qui è evidentemente ripreso uno dei temi cardine de Il rituale del serpente [3].
Insomma, spero che questi pochi e riduttivi accenni possano avervi fatto capire quanto questo saggio sia ricco, complesso, affascinante: è una lettura di cui non vi pentirete! Per concludere, vi lascio con un accenno al programma metodologico su cui si basa la ricerca di Warburg, per come lo stesso studioso la espone (forse in termini un po’ semplicistici ed eccessivamente “umili”) al termine della conferenza: -«L’orientamento cosmico per immagini dell’uomo europeo nel XV secolo: un capitolo di storia della cultura nell’epoca della rinascita dell’antichità, così si potrebbe designare lo schizzo che stasera ci è passato davanti in rapida successione. [...] Il procedimento quivi seguito tecnicamente non è nuovo: presupposta molta pazienza, abbiamo bisogno solo nel buon vecchio stile di una fidata esegesi filologica - ermeneutica more majorum -, per guadagnare un orizzonte più ampio».
[1] Per un discorso generale sullo stile di scrittura di Warburg vi segnalo questo bel saggio di Katia Mazzucco pubblicato su Engramma - un sito che vi consiglio caldamente di visitare!
[2] Già presente, in forma diversa, in almeno un altro saggio, Divinazione antica pagana in testi ed immagini dell’età di Lutero, del 1920.
[3] Adelphi 1998
* Appunti di storia dell’arte, 8 ottobre 2012 - ripresa parziale, senza foto.
IL “PARADISO IN TERRA”, LA “MEMORIA” DI ABY WARBURG, E IL DESTINO ULTIMO DELL’UOMO *
C’ERA UNA VOLTA IL PARADISO SEGNATO SULLE CARTE. “Il paradiso in terra. Mappe del giardino dell’Eden”, (Bruno Mondadori, Milano, 2007) di Alessandro Scafi è per molti versi un’opera sorprendente - soprattutto per l’essere il lavoro di un “Lecturer in Medieval and Renaissance Cultural History” presso il Warburg Institute di Londra.
Muovendo dalla storica acquisizione che la “gran parte delle mappe medievali contengono un riferimento visivo al giardino dell’Eden”, egli cerca di rispondere alla domanda su quali siano state “le condizioni che hanno reso possibile la cartografia del paradiso”. Lo scopo del suo libro, infatti, è quello di “visitare il nostro passato come si fa con un paese straniero, tentando di effettuare la visita con la massima apertura mentale e il massimo rispetto” e cercare di esplorare e scoprire - premesso che “chi metteva il paradiso su una carta aveva le sue buone ragioni” - queste “buone ragioni” (p.7).
Se è vero - come egli stesso sostiene - che “ieri segnare il paradiso su una carta significava una confessione dei limiti della ragione una dichiarazione di fede in un Dio che interveniva nell’arena geografica della storia”, e, altrettanto, che “oggi una mappa che tra le ragioni del mondo comprenda anche il paradiso sembra dover richiedere uno slancio di fantasia o uno sforzo di immaginazione”, è da pensare che l’Autore - alla luce del suo percorso e, ancor di più, delle sue stesse conclusioni - ha trovato molte e grandi difficoltà e che - per dirlo “con una parola-chiave dell’orizzonte di Aby Warburg - che la Memoria (“Mnemosyne”) gli ha giocato un brutto scherzo!
Nell’ Epilogo, con il titolo “Paradiso allora, paradiso ora”, dopo aver premesso in esergo la seguente citazione:
“Sarebbe difficile trovare un qualsiasi argomento in tutta la storia delle idee che abbia invitato a formulare così tante ipotesi, per poi smentirle tutte e renderle assolutamente inutili, come ha fatto il giardino dell’Eden (...) Sono state proposte teorie dopo teorie, ma non è stata trovata nessuna veramente convincente (...) Il luogo dell’Eden sarà sempre classificato, insieme alla quadratura del cerchio e all’interpretazione della profezia non avverata, tra quei problemi irrisolti - forse insolubili - che esercitano un fascino così pieno di mistero” (William A. Wright, Eden, in Smith, Dictionary of the Bible, 1863),
Scafi così comincia: “Per cercare di capire la cartografia del paradiso abbiamo compiuto un lungo viaggio nel tempo. Siamo partiti dagli albori del cristianesimo e, passando attraverso il Medioevo, il Rinascimento e la Riforma, siamo arrivati ai giorni nostri. Abbiamo incontrato il paradiso terrestre in una grande varietà di forme, sia descritto a parole sia sagomato dalle linee di una carta”. E ormai stanco del percorso fatto, nello sforzo di non farsi accecare dalla varietà delle forme e di (farci!) cogliere l’essenziale (il “dio”) che nei “dettagli” si “nasconde”, così ricorda e prosegue: “Come si è visto, localizzare il paradiso terrestre descritto dalla Genesi non era soltanto un problema geografico, e tutti coloro che hanno voluto interpretare il racconto del peccato di Adamo si sono trovati di fronte ai grandi interrogativi sul destino ultimo dell’uomo”. E, a chiusura del discorso e a esclusione di ulteriori domande in questa nebbiosa direzione metafisica ed escatologica, così precisa: “Non c’è meravigliarsi, allora, che le risposte offerte da tanti secoli di tradizione cristiana siano state formulate e riformulate, con il passare del tempo, in maniera così diversa”!
LA RINASCITA DELLA “HYBRIS” ANTICA: I MODERNI. L’attenzione di Scafi, nonostante ogni buona intenzione, è conquistata da altro: “Quello che colpisce, invece, è il modo in cui, a partire dal Rinascimento e dalla Riforma, ogni autore che si sia cimentato sull’argomento si è sempre industriato a ridicolizzare le teorie dei suoi predecessori. Scrivere sul paradiso sembrava richiedere sempre una carrellata preliminare sulle stravaganze precedenti, per bollare come insostenibili tutte le teorie pregresse e quindi proporre la propria soluzione, che si auspicava definitiva”. E così sintetizza e generalizza: “L’abitudine di presentare, in un’ironica rassegna, le assurdità e gli errori del passato è diventata così un topos che è durato fino ad oggi”; e, ancora, precisa: “A ben vedere, si possono rintracciare già nella tarda antichità le avvisaglie di questa pratica post-rinascimentale”(p. 306).
Colpito da questa “evidenza” e da questa “scoperta”, egli prosegue con l’antica e moderna ‘tracotanza’ (il “folle volo”) a narrare la sua “odissea”, aggiorna il numero della “varietà delle forme” delle mappe del giardino dell’Eden, e, senza alcun timore e tremore, completa la sua personale “ironica rassegna”, - con una “carrellata” sulle ultime e ultimissime “stravaganze”, su quelle degli artisti russi Ilya ed Emilia Kabakov, coi loro “progetti singolari e fantasiosi” (in particolare, “Il paradiso sotto il soffitto”), che Scafi così commenta:
“Per la nostra mentalità moderna, l’unico vero paradiso, per usare le parole di Proust, è sempre quello che abbiamo perduto. I Kabakov invece negano questa visione pessimistica, anche se non parlano di un paradiso celeste che ci aspetta alla fine dei tempi. Quando alzano lo sguardo verso il soffitto per superare il pessimismo di chi immagina paradisi solo remoti e inaccessibili e scoraggiare la pericolosa idolatria di chi insegue paradisi artificiali, invitandoci a vedere il cielo in una stanza, i due artisti russi sembrano condividere il pensiero dei teologi e dei cartografi medievali. Anche per loro il paradiso perduto porta sempre con sé la promessa di un paradiso ritrovato, e anche per loro questo paradiso è accessibile in qualunque momento. Basta soltanto prendere una scala, e salirne i gradini. Qui e ora” (p. 314).
“MAPPING PARADISE”. Questa è la conclusione di "A History of Heaven on Earth”: per dirla in breve, una pietra tombale sull’idea stessa del “paradiso in terra”, e non solo sulle “carte” dei Kabakov, anche se “i due artisti russi sembrano condividere il pensiero dei teologi e dei cartografi medievali”.
Che a questo “destino” dovesse approdare tutta la ricerca, nonostante le apparenze del percorso, Scafi l’aveva già ‘annunciato’, come in una “profezia che si auto-adempie”, in un breve paragrafo dedicato a Dante e alla “Commedia”, intitolato “Un volo poetico in paradiso”, dove - separata “poesia” e “non poesia” - così pontifica:
“L’interesse dei teologi e dei filosofi naturali per la geografia era condiviso da Dante Alighieri, che aveva una grande varietà di interessi e che nella sua Commedia (c. 1305-20) raccontava, come è noto, la sua esperienza attraverso i tre regni dell’inferno, del purgatorio e del paradiso. Il celebre poema era un’opera letteraria che esprimeva la conoscenza geografica e cosmografica del tempo (...) Per Dante la geografia era sempre subordinata alla poesia. Nel canto XXVI dell’Inferno, il poeta si riferisce al “folle volo” di Ulisse. La morale della storia del marinaio ed eroe greco che oltrepassò le colonne d’Ercole e che da lontano riuscì a gettare solo uno sguardo verso la montagna del paradiso, prima di vedersi sbarrata la strada da una tremenda tempesta, era che l’uomo non poteva penetrare, solo con le sue forze e senza il sostegno della rivelazione divina, il mistero del paradiso terrestre” (p.153).
Fin qui, niente di speciale: il suo punto di approdo è lo stesso di “chi scrive di storia per il grande pubblico” e degli “storici di professione”(p. 7)! E la sua “storia dell’arte” cartografica del “paradiso in terra” di “oggi”, alla fin fine, potrebbe benissimo essere collocata, in una possibile ristampa, nel “Dictionary of the Bible” di “ieri” (1863).
LA SCALA DEGLI INDIANI PUEBLO E LA “MEMORIA” DEL PARADISO DI ABI WARBURG. Per “ironia della sorte”, quasi cento anni prima della mostra dei Kabokov a Londra (1998), nel 1896, Aby Warburg è nel Nuovo Messico e in Arizona, incontra gli indiani Pueblo e - come poi racconterà e cercherà di descrivere con disegni e foto nel 1923 (cfr. “Il rituale del serpente”, Adelphi, Milano, 2005) - conosce elementi della loro cosmologia, un universo “concepito come una casa”, con il tetto con “le falde a forma di scala”, una “casa-universo identica alla propria casa a gradini, nella quale si entra per mezzo di una scala”, e comprende quanto è importante per l’uomo “la felicità del gradino”, il salire (“l’excelsior dell’uomo, il quale dalla terra tende al cielo”). E, al contempo, sempre nel 1896 (il 26 giugno), ad un suo amico, così scrive:
“Non permetto che mi si trascini attraverso l’Inferno se non a colui che confido sappia anche portarmi attraverso il Purgatorio fino al Paradiso. Ma proprio di ciò difettano i moderni. Non dico un Paradiso dove tutti cantino salmi avvolti in bianche tuniche e privi di genitali, dove le care pecorelle si aggirino in compagnia dei bei leoni fulvi senza desideri carnali - ma disprezzo chi perde di vista l’ideale dell’homo victor”.
Warburg rimase persuaso di ciò sino alla fine. Ma se fu questo suo atteggiamento ad allontanarlo dagli esteti e anche dagli storici dell’arte, fu il suo intenso interesse - come cita, scrive, e commenta Ernst H. Gombrich (cfr. Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Feltrinelli, Milano, 2003, pp 274) - per le questioni psicologiche fondamentali ad avvicinarlo a una generazione che aveva assimilato la lezione di Freud e si rendeva sempre più conto dell’immensa complessità della mente umana. E qui la fama di Warburg non si basa certo su un fraintendimento.
IL PARADISO E L’ANGELO DELLO STORIA. LA LEZIONE DI WALTER BENJAMIN:
"Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo "come propriamente è stato". Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo [...] In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere"(Tesi di filosofia della storia).
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Federico La Sala
La Germania drogata di Hitler
Patria, partito e anfetamine
Norman Ohler rivela quanta parte avesse la chimica nel mito del vigore nazista
di Mirella Serri (La Stampa, 18.10.2016)
Pezzi di cuore, di fegato e di pancreas di maiale, arricchiti con estrogeni e ormoni sintetici, furono frullati in unico composto. Il cocktail, confezionato peraltro in pessime condizioni igieniche, finì in vena al «paziente A» che accusava dissenteria, raffreddore, crampi intestinali: nell’agosto del 1941, nella Tana del Lupo nella buia foresta della Prussia orientale, il malato Adolf Hitler aveva bisogno di recuperare rapidamente le forze. Il composto funzionò, il Führer vispo e dinamico balzò dal letto per concertare l’avanzata in Russia. Ma poi di quel miscuglio dopante, progressivamente arricchito di circa ottanta sostanze diverse, non ne poté più fare a meno e, sempre più dipendente, passò al consumo dell’Eukodal, un derivato dell’oppio più potente della morfina e dell’eroina.
L’artefice del benessere drogato del Cancelliere fu il suo medico, Theodor Gilbert Morell: adesso, tramite i diari del dottore ritrovati insieme a una serie di documenti rintracciati in archivi tedeschi e americani, lo scrittore Norman Ohler ha ricostruito l’appassionante vicenda dei Tossici. L’arma segreta del Reich. La droga nella Germania nazista (Rizzoli pp. 383, € 22).
Già, proprio così: non solo il Capo tedesco fu addicted agli stupefacenti ma anche il suo potente esercito. Come dimostra Ohler, a favorire, la conquista della Polonia nel 1939 e la corsa trionfale dei panzer nel 1940 verso la Francia non fu la fiducia nel superuomo germanico ma l’assunzione del Pervitin.
Oggi il preparato a base di metanfetamina è comunemente chiamato «crystal meth» ed è considerato assai dannoso; allora lo sperimentarono anche gli scrittori Heinrich Böll, Gottfried Benn, Klaus Mann e Walter Benjamin. I soldati con la svastica dovettero il successo alla magica pillolina distribuita in dosi massicce dai comandanti e che permise loro di andare all’attacco senza mangiare né dormire per quattro giorni e quattro notti. La Wehrmacht, annota il saggista, fu il primo esercito al mondo a puntare su una droga chimica: in Germania in un giorno si producevano 833 mila compresse, l’esercito e la Luftwaffe ne richiesero in breve tempo 35 milioni di pezzi. Nel 1944, quando la guerra chiaramente era persa, marina, aviazione e milizie di terra ne ordinarono quattro milioni di confezioni
Nel Pervitin, però, come in tutti gli stupefacenti, si nascondeva una trappola micidiale: gli effetti si avvertirono durante le campagne di Russia e d’Africa quando i soldati del Reich furono affetti da psicosi, forme incontrollate di eccitazione, perdita delle forze. Anche Hitler non ne venne risparmiato: prendeva cento-centocinquanta pasticche alla settimana accompagnate da otto o dieci iniezioni di Eukodal, e subì i pesanti contraccolpi della sua dipendenza.
Dopo il fallito attentato di von Stauffenberg che, facendo scoppiare una bomba, gli perforò un timpano, cominciò a sniffare cocaina. Il cumulo di quegli eccitanti lo ridusse a una larva perennemente insonne, con le mani mosse da un tremito incontrollato e la bava alla bocca. La somministrazione delle medicine al Führer venne registrata giorno per giorno e ora per ora da Morrell il quale ci illumina così sulla dinamica di tante scelte militari e politiche.
Joseph Goebbels, per esempio, due giorni dopo l’8 settembre 1943 rilevava che il despota aveva dormito solo due ore a seguito dei drammatici avvenimenti che avevano portato all’armistizio dell’Italia con gli angloamericani. Eppure appariva fresco, di buon umore e riposato. Successivamente anche altri ministri e generali furono contagiati dal suo eccezionale ottimismo. Ugualmente entusiasti, nel drammatico autunno del 1943, furono i giovani ufficiali che lo incontrarono a Breslavia, esterrefatti dal suo pensiero così positivo. Si diffuse la convinzione che Hitler era tanto allegro e forte proprio perché era in possesso di un’arma miracolosa e segreta in grado di capovolgere le sorti dello scontro mondiale. Cos’era accaduto? Il medico, soprannominato dal morfinomane Hermann Göring «la prima siringa del Reich», aumentava continuamente le dosi di Eukodal.
Una notte di luglio del 1943 il Cancelliere si svegliò piegato in due dai dolori. Non aveva digerito, disse, gli involtini di spinaci e il formaggio della sera prima. Ma in realtà era preoccupato da quello che lo aspettava: a Feltre il giorno dopo doveva incontrare Mussolini che voleva sfilarsi dal conflitto dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia.
Morrell - che peraltro aveva «in cura» anche il capo del governo italiano, Eva Braun, Leni Riefenstahl, Goebbels e tanti altri - ancora una volta lo rimise in sesto. E gli iniettò un altro sostegno per via intramuscolare poco prima della partenza all’aeroporto.
Come riferiscono tutti i testimoni, Hitler parlò per tre ore sovraeccitato mentre il leader del fascismo non apriva bocca e riceveva i dispacci che lo informavano del bombardamento su Roma. Alla fine il Duce, preso dalla stanchezza, cedette e Morrell scrive: «Il Führer sta bene... e ha dichiarato che il merito è tutto mio». Niente di più vero: la vicenda delle dittature e del secondo conflitto mondiale interpretata nell’ottica del consumo delle droghe è tutta un’altra storia. E chissà, forse, senza lo zelante dottor Morrell l’Italia ce l’avrebbe fatta anche a uscire dalla guerra.
Oppiacei e anfetamine, le armi segrete di Hitler
In un libro tutte le droghe del Reich: dal Führer ai soldati al fronte
I soldati al fronte assumono soprattutto la metanfetamina Pervitin, del tutto legale, che permette di combattere per giorni e notti
di Tonia Mastrobuoni *
Inviata a Berlino
«Ricordatevi di spedirmi tanto Pervitin, la prossima volta. Fa miracoli». Lettera dal fronte di uno dei più grandi scrittori tedeschi del Novecento: Heinrich Böll. Supplica la famiglia di mandargli «tanto» Pervitin. Niente di scandaloso: la metanfetamina va di moda, nella Germania nazista, soprattutto nelle trincee della Seconda guerra mondiale. Una droga travestita da farmaco che mantiene svegli ed euforici per ore e ore. L’ha sviluppata un medico, Fritz Hauschild, strabiliato dagli effetti delle benzedrine sugli atleti americani arrivati a Berlino nel 1936, per le Olimpiadi del Führer. Pazienza se questo micidiale «Crystal Meth» del Terzo Reich rende dipendenti e ha effetti devastanti: il Pervitin si diffonde rapidamente, nel regno degli «invincibili». Lo prendono sportivi, cantanti, studenti sotto esame. La fabbrica di Pervitin inventa addirittura il cioccolatino al Pervitin per allietare le casalinghe.
«La grande euforia»
Quando comincia la Seconda guerra mondiale, la droga si diffonde rapidamente tra i soldati della Wehrmacht. Tanto che l’autore di un libro appena uscito sull’argomento è convinto che abbia avuto un ruolo fondamentale non solo nel Blitzkrieg contro la Francia del 1940, ma anche nel comportamento di Adolf Hitler. «Medici e droghe spiegano molto della struttura interna del nazismo» sostiene Norman Ohler, autore di «Der totale Rausch» («La totale euforia»).
Per il capo dei medici del Reich, Otto Ranke, è «un farmaco militarmente prezioso!». Quando la Germania invade la Francia, Ranke non fa fatica a convincere i generali, tra cui Erwin Rommel, che guidano l’attacco a distribuire Pervitin tra i soldati. Rommel, l’abile generale passato poi alla storia come la «volpe del deserto», conosce il farmaco perché lo usa personalmente. L’attacco della Wehrmacht è notoriamente micidiale: i carri armati procedono a tutta velocità attraverso le Ardenne senza fermarsi mai, notte e giorno, in quattro giorni macinano centinaia di chilometri. A metà maggio del 1940 raggiungono e radono totalmente al suolo l’accampamento militare francese ad Avesnes. I soldati francesi sono sconvolti dallo stato si esaltazione dei loro nemici. Sono inarrestabili. È un blitzkrieg metanfetaminico.
Ma dopo il 1941, scrive Ohler, anche il Führer comincia ad assumere comportamenti che gli storici non sono mai riusciti del tutto a spiegare: Ohler è convinto che siano in parte attribuibili agli stupefacenti. Alla «Süddeutsche Zeitung» ha dichiarato che «ovviamente ciò non solleva minimamente Hitler dalle sue colpe». I risultati della ricerca sono impressionanti.
Metanfetamine, steroidi e altre sostanze vengono iniettate a Hitler 800 volte in 1349 giorni; prende 1100 pillole. Tanto che Hermann Göring soprannomina il medico personale del Führer, Theo Morell, «il maestro delle punture del Reich». Non senza una punta di sarcasmo: i fedelissimi del Führer non amano il suo medico, ne temono il potere. A quanto pare, a ragione. Nel 1945 Hitler è ormai un rottame: gli cascano i denti, poco prima della capitolazione, il 17 aprile, minaccia il medico di morte, mangia zucchero per superare le crisi di astinenza. Ma un episodio della sua tossicodipendenza ha anche segnato il destino dell’Italia.
Nell’estate del 1943, quando Benito Mussolini sembra voler mollare l’alleato tedesco, Hitler lo raggiunge in Italia. Arriva piegato in due dai mal di stomaco. Morell gli inetta un potentissimo oppioide, l’Eukodal. Il Führer si riprende in un battibaleno, diventa euforico, logorroico. Convince il duce a non mollare. La sera, Morell si appunta nel diario che il Führer ha detto che se Mussolini gli resterà fedele è merito suo. Il resto è storia.
* La Stampa, 09/09/2015 (ripresa parziale - senza foto).
Nazismo
La «cultura» della purezza razziale
La concezione che portò allo sterminio di massa fu attuata non solo da Hitler e dal partito, ma da una foltissima schiera di dotti giuristi, scienziati, medici, teologi e giornalisti
di Emilio Gentile (Il Sole-24 Ore, Domenica, 16.10.2016)
Nel 1945, diciotto medici tedeschi di un ospedale pediatrico furono processati dal tribunale di Amburgo, su iniziativa delle truppe di occupazione britanniche, perché accusati di aver assassinato con iniezioni letali cinquantasei bambini malati. Il direttore dell’ospedale respinse l’accusa di «crimine contro l’umanità» perché tale crimine, disse agli inquirenti britannici, «non può essere commesso che contro uomini, mentre gli esseri viventi di cui dovevamo occuparci non possono essere qualificati come “esseri umani”». Cinque anni dopo, i giudici assolsero gli imputati affermando di «aver creduto alla legalità dei loro atti».
Inizia con questo episodio un’ampia indagine dello storico francese Johann Chapoutot sul modo di pensare e di agire dei nazisti, ricostruito con una folta documentazione di oltre milleduecento libri e articoli pubblicati durante il regime nazista negli ambiti più vari, dai testi ideologici alla letteratura pedagogica, dal diritto alla medicina, dalla biologia alla filosofia, dall’antropologia alla storia e alla geografia, con l’aggiunta di una cinquantina di film prodotti dal Terzo Reich. Dall’indagine, suddivisa per temi, emerge un’elaborata e coerente concezione nazista del mondo, che fu messa in pratica durante i dodici anni del dominio hitleriano. Il nazismo attuò così una rivoluzione culturale oltre che politica, per istituire un diritto, una morale, un’etica e una religione esclusivamente tedesche, fondate sulla superiorità biologica della razza germanica, e per inculcare nel popolo tedesco l’imperativo categorico di preservare la purezza del sangue, che era l’essenza della sua superiorità su tutte le altre razze.
Milioni di tedeschi si convinsero che per preservare l’integrità e la salvezza della razza germanica, era necessario eliminare con la sterilizzazione o l’eutanasia le persone afflitte da mali ereditari; impedire la contaminazione biologica con altre razze; invadere i Paesi dell’Europa orientale per conquistare spazio vitale alla razza germanica e sottomettere gli slavi come schiavi.
E soprattutto si convinsero della necessità inevitabile di una spietata guerra razziale contro gli ebrei, fino alla loro totale eliminazione, perché da seimila anni l’ebreo era il nemico naturale del popolo tedesco, un pericolo mortale per la sua purezza e la sua integrità, come il bacillo della tubercolosi per un corpo sano e vigoroso.
Per molti decenni dopo la fine del regime hitleriano, la concezione nazista del mondo è stata considerata dagli storici una paccottiglia di farneticanti elucubrazioni, esibite da folli criminali per adornare con arcaici miti una sfrenata libidine di potere, che alla fine si sfogò con una barbarica guerra di conquista e con il sadico sterminio organizzato di oltre cinque milioni di ebrei. La follia, la barbarie, il sadismo apparivano motivi sufficienti per spiegare storicamente la criminalità del nazismo, alimentata anche dall’avidità di un capitalismo imperialista che per due volte nell’arco di trent’anni aveva tentato di dare l’assalto al potere mondiale provocando due guerre mondiali.
Comune a queste interpretazioni, osserva Chapoutot, era la «disumanizzazione dei protagonisti del crimine nazista», ma in tal modo, aggiunge, «facendo di loro dei soggetti estranei alla nostra comune umanità, noi ci esoneriamo da ogni riflessione sull’uomo, l’Europa, la modernità, l’Occidente, insomma su tutti i luoghi che i criminali nazisti abitano, dei quali partecipano, e che noi abbiamo in comune con loro», confortandoci al pensiero che «l’idea secondo la quale noi potremmo condividere qualcosa con gli autori di tesi e crimini così mostruosi ci ripugna».
Pur se legittima, tale ripugnanza ci induce però a eludere questioni fondamentali della nostra storia e del nostro tempo, perché le idee della concezione nazista del mondo erano solo in minima parte originaria produzione dei nazisti: «Né il razzismo, né il colonialismo, né l’antisemitismo, né il darwinismo sociale o l’eugenismo sono nati tra il Reno e Memel». Inoltre «la Shoah avrebbe provocato un numero molto minore di vittime se non ci fosse stato lo zelante concorso di poliziotti e di gendarmi francesi e ungheresi», insieme a «innumerevoli nazionalisti baltici, volontari ucraini, antisemiti polacchi, alti funzionari e uomini politici pervasi da volontà di collaborazione». Come lo furono, in Italia, politici, funzionari e intellettuali fascisti.
Vi erano tuttavia movimenti culturali tedeschi che fin dall’Ottocento avevano diffuso con convinzione le idee sopra citate, e la loro presenza favorì il successo della concezione nazista, che dopo il 1933 fu messa in pratica con ossessiva tenacia non solo da Hitler e dal partito nazista, ma da una foltissima schiera di dotti giuristi, scienziati, medici, teologi, ideologi e giornalisti, con l’ausilio del cinema di finzione e del cinema documentario. Milioni di tedeschi, sia persone di elevata cultura sia gente comune, si convinsero che gli ebrei tramavano da seimila anni per distruggere il popolo tedesco, inquinandolo con incroci di sangue e con idee disgregatrici, come il cristianesimo, il diritto romano, l’individualismo, l’universalismo, l’umanitarismo, il liberalismo, il socialismo, il bolscevismo. Queste idee minavano le virtù, la morale, l’etica, le tradizioni e l’integrità della comunità germanica.
Fu la concezione nazista del mondo, diffusa con martellante, capillare, pervasiva propaganda quotidiana, a trasformare milioni di uomini e donne, non predestinati alla follia né al crimine, in zelanti esecutori della persecuzione e dello sterminio. Ogni tentazione alla pietà fu anestetizzata con l’invocazione della necessità di agire con mezzi spietati per annientare i nemici della razza germanica che da seimila anni tramavano per annientarla.
Conoscere il modo di pensare e di agire dei nazisti considerandoli uomini cresciuti e vissuti in contesti particolari, con un proprio universo di significati e di valori, è il compito proprio dello storico, afferma Chapoutot. Ciò non attenua affatto la mostruosità delle idee e dei crimini nazisti: anzi, rende ancora più consapevoli della sua gravità, perché nulla esclude che tale mostruosità possa ripetersi, con altre idee e in altri contesti, nell’azione di altri uomini convinti che essa sia necessaria per salvare la propria comunità.
I tabù del mondo
Se la morte non è un abisso da vincere
Freud non pensava al corrompersi delle cose come a un male da sconfiggere. Per lui è proprio la caducità a generare bellezza Il trascorrere del tempo, il suo divenire inesorabile ci fa apprezzare i dettagli più insignificanti e arricchisce il senso della nostra esistenza
La meditazione filosofica come precisa Schopenhauer non sorge platonicamente dallo spettacolo del mondo quanto piuttosto dal trauma e dall’incontro con il dolore
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 16.10.2016)
Davanti a me il ricordo indelebile delle mani nodose di mio nonno paterno che decretavano inesorabilmente, con gesti lenti e precisi, la morte di un coniglio impaurito. Un colpo secco alla testa, poi le operazioni di scuoiamento. È attraverso questa pratica antica della vita contadina che ho fatto da bambino il mio primo incontro con la morte. Restavo basito di fronte a quella mescolanza di violenza e tranquillità chiedendomi come era possibile integrare il ritmo naturale della vita - uccidere l’animale per nutrirsi - con la brutalità ordinaria che orientava i gesti antichi del nonno.
Non era, il suo, un desiderio sadico: stava lavorando per prepararci la cena, non stava uccidendo con piacere la sua vittima. Tuttavia, il ritmo naturale della vita contadina non poteva assorbire del tutto lo sconcerto dell’incontro con la nuda morte. Quel coniglio, scelto casualmente tra i suoi simili rinchiusi nella stessa gabbia, mi faceva incontrare una dimensione di non-senso che già da bambino intuivo non essere per nulla estranea alla vita.
La morte introduceva nella vita un tabù che mi appariva psichicamente indigeribile. La morte del coniglio non mi spingeva a pregare, né a fare alcun lavoro del lutto. Quella morte mi obbligava semplicemente a pensare. La meditazione filosofica, come precisa Schopenhauer, non sorge tanto, platonicamente, dallo spettacolo del mondo, dalla meraviglia di fronte all’essere, quanto piuttosto dal trauma, dall’incontro spesante nei confronti del male, del dolore e della morte. È la morte, come egli scrive, il vero punctum pruriens della metafisica.
Le pagine heideggeriane di Essere e tempo, che scoprii con entusiasmo a vent’anni, lasciarono in me una traccia indelebile: la morte non è l’ultima nota che conclude, aggiungendosi dall’esterno, la melodia dell’esistenza; essa è, piuttosto, radicalmente inclusa, un’imminenza sovrastante, una impossibilità sempre presente, una pressione sempre in atto che non lascia in pace.
Cosa da ragazzo avevo amato così profondamente in Gesù se non l’offerta radicale di sé, l’esposizione del suo corpo trafitto, se non il suo passaggio attraverso l’abisso della morte? Non era la potenza dell’amore a salvarci dal nostro destino di conigli? La vittoria sulla morte non avveniva attraverso l’ascesi epicurea, non avveniva allontanandola semplicemente dalla vita (dove c’è vita non c’è morte e dove c’è morte non c’è vita affermava Epicuro), ma accadeva nella morte, nell’incontro con l’alterità assoluta della morte.
Era questa l’esperienza decisiva di Cristo: scendere negli abissi della morte, scendervi come uomo, per vincere la morte, per risorgere dal suo ventre scuro e ricongiungersi al padre. Si trattava dello stesso passo che ritrovai più tardi in Heidegger? Liberare la vita dalla paura e dall’orrore della morte, renderla risorta.
Come spesso accade, la mia fede in Dio incontrò un primo scacco il giorno in cui, adolescente, mi recai all’ospedale Niguarda di Milano per trovare un amico coetaneo colpito da un tumore al cervello. Aveva già perso la vista e giaceva al buio cantando in modo surreale una vecchia canzone d’alpini. Portava il mio stesso nome e quando provai a chiamarlo e lui girò la testa bendata verso di me senza rispondermi scoppiai a piangere. Perché Dio non aveva ascoltato le mie preghiere? Dov’era mentre le metastasi distruggevano il cervello del mio amico? Cosa c’è di più assurdo di questo? Cosa c’è di più assurdo, scrive in apertura de Il Mito di Sisifo Camus, della morte di un bambino, della fine di una giovane vita?
La lettura dell’articolo di Freud titolato Caducità offrì una risposta nuova ai miei interrogativi. Freud non pensava alla morte come un abisso da vincere, ma come condizione della vita. È il trascorrere del tempo, il suo divenire inesorabile a farci apprezzare i dettagli apparentemente più insignificanti della vita. Il corrompersi delle cose, anziché generare disperazione, introduce ad una esperienza della bellezza non disgiunta da quella della caducità: «Nel corso della nostra esistenza, vediamo svanire per sempre la bellezza del corpo e del volto umano, ma questa breve durata aggiunge a tali attrattive un nuovo incanto. Se un fiore fiorisce una sola notte, non perciò la sua fioritura ci appare meno splendida». Il senso tragico della vita non sopprime la vita, né il suo senso, ma la arricchisce. Nel Freud di Caducità trovavo un “sì!” alla vita che non implicava la resurrezione dei corpi, la loro salvezza eterna, ma che si fondava, al rovescio, sulla loro estrema caducità.
Freud era ben consapevole della paura degli uomini nei confronti della morte e della loro attitudine a trovare rimedi, illusioni, “scacciapensieri”. Per questa ragione una psicoanalista come Gennie Lemoine ha potuto affermare che dalla vita non ci si deve attendere nulla; si tratta solo di fare, di vivere; nella vita bisogna fare perché, in effetti, non c’è altro da fare.
L’assunzione della propria morte sfronda la realtà dall’Ideale, ma non annulla la possibilità dell’amore. Anzi, l’amore - ed è qui che ritrovo il motivo decisivo della testimonianza di Cristo - può salvare dalla morte e dalla distruzione. Esso è come la bellezza della rosa che sa essere eterna nel battito di un solo giorno.
Il nazismo secondo Heidegger: «Hitler risveglia il nostro popolo»
Esce il 17 ottobre in Germania per Herder un carteggio inedito con il fratello Fritz
Il filosofo aveva letto «Mein Kampf» e apprezzava l’istinto politico del Führer
di DONATELLA DI CESARE (Corriere dlla Sera, 13.10.2016)
-***Il filosofo Martin Heidegger (1889-1976, a sinistra) con il fratello Fritz nel luglio 1961 presso la canonica di Schwandorf (archivio Heinrich Heidegger)
Lieber Fritz, «Caro Fritz, sembra che la Germania si risvegli, che comprenda il suo destino. Desidero che tu legga il libro di Hitler, che è debole negli iniziali capitoli autobiografici. Nessuno può ormai contestare che quest’uomo possieda, e abbia sempre posseduto, un sicuro istinto politico, quando noi tutti eravamo ancora obnubilati. Il movimento nazionalsocialista si arricchirà, in futuro, di nuove ulteriori forze. Non si tratta più di meschina politica di partito - ne va piuttosto della salvezza o del tramonto dell’Europa e della cultura occidentale».
Questa lettera del 18 dicembre 1931 fa parte del carteggio tra Martin Heidegger e il fratello minore Fritz, che esce il 17 ottobre in Germania dalla casa editrice Herder. Il volume, curato da Walter Homolka e Arnulf Heidegger, contiene anche una raccolta cospicua di interventi firmati da filosofi, scrittori, intellettuali sul tema dell’antisemitismo. Il carteggio, che occupa più di cento pagine, è la grande novità editoriale che farà certamente discutere. Le lettere vanno dal 1930 al 1949 - un periodo decisivo per la Germania, per Heidegger, per il suo pensiero. Anche se il carteggio non è completo (si può però leggere il resto nell’Archivio di Marbach), la pubblicazione ha grande rilievo perché, dopo i Quaderni neri, diviene accessibile un’altra significativa fonte che può far luce sull’impegno politico di Heidegger.
Oltre a offrire uno spaccato della vita privata, le lettere fanno emergere lo stretto rapporto tra i due fratelli, che si rivela un forte sodalizio intellettuale. Sorprende la figura di Fritz, del quale si sapeva poco: soltanto che era rimasto sempre a Messkirch, il villaggio natìo, che una balbuzie gli aveva impedito di proseguire gli studi, che ciò aveva paradossalmente acuito il suo senso per la lingua, al punto che si era fatto una certa fama per i giochi di parole e le arguzie. Il ritratto del saggio giullare, che di mestiere faceva, suo malgrado, l’impiegato di banca, viene corretto dal carteggio.
Fritz Heidegger appare una figura di primo piano. A lui Martin affida i manoscritti delle sue opere, affinché vengano riletti, rivisti, ricopiati e messi al sicuro. Fritz ammira il fratello, ne segue con orgoglio il successo, lo difende. È il suo migliore amico. Già Hannah Arendt aveva scritto: «L’unica persona che ha realmente è il fratello». Ma Fritz è anche un interlocutore nei temi filosofi e politici.
L’ulteriore grande sorpresa del carteggio sta nell’importanza che riveste Hitler. Fin qui non si sapeva se Heidegger lo avesse letto e molti negavano. Ora è chiaro che dal 1931 al 1933 Hitler diventa addirittura tema di dibattito tra i due fratelli. Fritz si mostra poco convinto. Resta perplesso quando Martin gli spedisce in regalo Mein Kampf; ma promette che lo leggerà. Gli confessa tuttavia il suo «disgusto» per la politica volgare, l’esigenza di giudicare autonomamente gli eventi. I fratelli concordano, però, nel considerare ineluttabile la fine della Repubblica di Weimar e della socialdemocrazia. Solo che Fritz vede nel tracollo finanziario della Germania, oberata dai debiti, l’occasione colta dal nazionalismo di Hitler. La sua analisi politica è più prudente. Martin invece insiste; gli spedisce lo scritto propagandistico di Beumenburg La Germania in catene e gli consiglia la lettura del romanzo di Hans Grimm Popolo senza spazio. E commenta: «Chi non lo sa, può imparare qui che cosa vuol dire patria per il nostro popolo». Di fronte alle «inibizioni» del fratello verso il nazismo, Martin prende una posizione netta. Nel 1932 afferma che, nonostante tutti gli errori, «occorre essere dalla parte dei nazisti e di Hitler. Ti manderò il suo nuovo discorso».
La novità delle lettere sta proprio nella fermezza che Heidegger mostra. E in una adesione che appare incondizionata. Divenuto rettore a Friburgo, racconta in una lettera del 4 maggio del 1933: «Sono entrato ieri nel partito, non solo per intima convinzione (...). In questo momento è necessario pensare non tanto a se stessi, quanto al destino del popolo tedesco». E rivolto al fratello: «Se non ti sei ancora deciso, vorrei che ti preparassi interiormente per fare il tuo ingresso».
Negli anni successivi affiorano le delusioni e le amarezze di Heidegger. Più cauto, più pacato, Fritz guarda gli eventi con una certa distanza. Nel luglio del 1941 giudica «problematica» la vittoria tedesca, mentre qualche mese dopo Martin calcola la distanza dell’esercito da Mosca: «Solo 30 chilometri!». Quando l’isolamento politico, filosofico, soprattutto umano, tormenta e angustia il filosofo, Fritz gli resta accanto. Lo sostiene; legge i suoi scritti. «Ho iniziato a studiare la Storia dell’essere, frase per frase». Si capisce perché Heidegger vada spesso a Messkirch e, quando è lontano, spedisce al fratello una lettera dopo l’altra. Ricorda la loro infanzia, apprezza quel forte legame fraterno, parla delle loro passeggiate lungo il sentiero di campagna.
A lui si rivolge nel febbraio del 1946 da Badenweiler, vicino Friburgo, dove è ricoverato nella clinica psichiatrica. Non è chiaro che cosa lo «spirito del mondo» intenda fare dei tedeschi, né perché voglia servirsi, per i suoi disegni, degli americani. Lieber Fritz - gli scrive - «nell’epoca della spaesatezza», in cui nessuno più è a casa, nel tempo della «piattezza planetaria», resta la possibilità di una dimora. Per lui è quel rapporto con il fratello. «La dimora resta, Fritz; siamo noi a rifondarla».
La storia del diario ritrovato del gerarca nazista che teorizzò la mistica del sangue e l’Olocausto. E che anche Hitler temeva
di Wlodek Goldkorn (la Repubblica, 30.09.2016)
Capita che il male non rasenti la banalità, anzi, che proprio quando si tratta di un nazista, il Male non sia una serie di procedure burocratiche o stupidità (come invece ipotizzava Hannah Arendt parlando di Eichmann), ma assuma le sembianze di una persona e diventi pensiero egemone. È il caso di Alfred Rosenberg, architetto di mestiere, classe 1892, nato in Estonia a Reval, oggi Tallinn, studente a Riga in Lettonia, laureato a Mosca, innamorato della letteratura classica russa e che a partire dagli anni Venti diventa il principale ideologo del nazismo, teorico dell’antisemitismo radicale e inventore di una di mistica alternativa al cristianesimo.
Condannato a morte a Norimberga e impiccato, alla storia è passato (si fa per dire) per Il mito del ventesimo secolo dove tre anni prima dell’arrivo di Hitler al potere, affascinato dalla lettura dei Protocolli dei savi di Sion e traumatizzato dalla rivoluzione bolscevica (lui all’epoca era a Mosca), narrava di un presunto complotto giudeo-comunista ai danni dell’umanità e della Germania. Ma poi andava oltre: teorizzava appunto la mistica del sangue e della razza ariana e sosteneva che Gesù non era ebreo e che siano state le chiese cristiane a falsificare la “vera storia”.
Questa mitologia, per quanto oggi possa sembrare ridicola, ai tempi era di forte richiamo, anche perché attingeva a fonti potenti come Wagner, Fichte, Schopenhauer, Nietzsche e via elencando. Tanto che Il mito del ventesimo secolo fu il secondo libro più venduto del Reich (dopo il Mein Kampf).
Il radicalismo di Rosenberg era tale da suscitare una certa diffidenza da parte dello stesso Führer (diffidenza dettata dalla tattica, i valori erano condivisi) e l’inimicizia di gerarchi come Goebbels, Himmler e Goering. Per sfogare le frustrazioni (non divenne mai il numero due del regime) e probabilmente per tramandare un insegnamento alle future generazioni, Rosenberg, a partire dal 1934 tenne un diario. Che, finita la guerra andò disperso. È in un uscita in questi giorni Il diario perduto del nazismo. I segreti di Adolf Hitler nei diari inediti di Alfred Rosenberg e del Terzo Reich, scritto da Robert K. Wittman, un ex agente del Fbi, e da David Kinney, giornalista premio Pulitzer (Newton Compton).
Al centro della trama, oltre al nazista e alle sue carte c’è l’uomo che portò alla sua condanna a morte, Robert Kempner. Kempner, a sua volta, era un ebreo tedesco, avvocato intelligente e spregiudicato, fuggito nel 1936 dalla Germania, approdato negli Stati Uniti, collaboratore dei servizi segreti americani e infine procuratore al celebre processo dei gerarchi del Terzo Reich. Affascinante, spietato (negli interrogatori era durissimo con gli imputati, al limite del lecito), Kempner aveva un certo successo con le donne; le sue assistenti diventavano le sue amanti.
Non si tratta di un pettegolezzo in un libro che in apparenza potrebbe risultare sensazionalistico - e non lo è grazie alla buona ricostruzione storica - ma di un dettaglio fondamentale. Le carte di Rosenberg, finito il processo, Kempner le ha portate negli Usa. Ma non lo sapeva nessuno.
La storia del ritrovamento è una specie di thriller e raccontarla toglierebbe gusto alla lettura. Per sommi capi: le carte le ha scoperte, con l’aiuto di un archivista del Museo dell’Olocausto, negli anni Novanta, l’agente del Fbi Wittman (uno degli autori del volume). Non erano tutte, erano disordinate ed erano gestite dall’ex-assistente di Kempner. E lì sono sorte le prime difficoltà nella trasmissione del tesoro al Museo.
Successivamente, e diversi anni dopo, Wittman, ormai pensionato, ritrovò altre carte, in modo da completare il diario sparito. Che dal 2013 è a Washington, a disposizione degli studiosi. Detto così, sembra semplice, ma nel frattempo i documenti finirono in mano a un altro personaggio strano che ebbe una grande influenza sulla ex assistente, e che tentò di portarle in Canada.
La storia di quel diario, circa 400 cartelle ci dice alcune cose. La prima: era interessante per gli storici entrare nelle stanze segrete della cerchia ristretta di Hitler. Rosenberg racconta infatti, dal suo punto di vista, le motivazioni di certe decisioni prese dal Führer, nonché le dinamiche di potere degli uomini al vertice del Reich. La seconda cosa che mettono in rilievo gli autori è la personalità controversa di Kempner. Il più famoso tra gli accusatori di Norimberga non solo nascose in casa sua documenti che avrebbe dovuto depositare negli archivi delle istituzioni statali, ma aiutò pure, in quanto avvocato, la vedova di Goering. Insomma, l’uomo non era l’incarnazione del Bene.
E Rosenberg? Cresciuto in città periferiche e multiculturali Tallin e Riga, dove abitavano tedeschi, estoni, lettoni, russi, ebrei e che appartenevano all’Impero zarista, decise che la purezza della razza era l’unico valore assoluto, quasi a rinnegare la propria infanzia e gioventù, quasi a cercare di essere più tedesco dei tedeschi: capita ai neofiti. Cercava di muovere la guerra a oltranza contro le chiese, ma Hitler non lo seguì (o meglio gli diede retta solo parzialmente), tanto che il Mito del ventesimo secolo finì sull’Indice dei libri proibiti dalla Santa Sede, mentre Mein Kampf, no. Durante la guerra fu ministro per i territori occupati dell’Est, ma si occupava anche della razzia delle opere d’arte all’Ovest, soprattutto a Parigi e in Francia.
Il libro racconta bene la natura profondamente corrotta dei gerarchi nazisti in lite tra di loro su come accaparrarsi i tesori delle vittime. Su una cosa erano unanimi e Rosenberg lo narra nel suo Diario. In una riunione un anno prima dell’invasione dell’Urss, discutevano degli ebrei. Lui, Rosenberg parlava di futuri e terribili pogrom in terre russe e ucraine. Hitler ipotizzò che di fronte ai massacri l’Europa tutta si sarebbe levata in difesa degli ebrei. I nazisti risero fragorosamente: capirono che quella del Führer era una barzelletta. Avevano ragione.
Ultima annotazione: gli autori più volte usano il termine “razza ebraica”. Nel contesto di un libro sull’ideologo della razza non è elegantissimo.
DIBATTITI. Pubblicato un rovente scambio epistolare tra Kristeller e Lowinsky, entrambi studiosi del Rinascimento colpiti dalle leggi antisemite, sul coinvolgimento di intellettuali e professori con il regime di Hitler Due giudizi storici diversi, tra responsabilità collettiva e scelte individuali
Nazismo, fu colpa o pregiudizio?
di Paolo Simoncelli (Avvenire, 28.09.2016)
La colpa della Germania, la Shoah, la vita universitaria tedesca..., d’improvviso appaiono come fotogrammi spericolatamente divaricanti dall’incontrovertibile immagine politico-morale dei fatti. La sorpresa viene da un breve, intenso carteggio tra due grandi intellettuali ebrei tedeschi rifugiati negli Stati Uniti: il grande storico della filosofia rinascimentale, Paul Oskar Kristeller (Berlino 1905 - New York 1999), e l’altrettanto famoso musicologo rinascimentalista, Edward Lowinsky (Stoccarda 1908 - Chicago 1985).
Più noto Kristeller che, allievo di Heidegger, nel ’33 poté rifugiarsi nell’Italia fascista al pari di altri ebrei suoi connazionali grazie a Gentile e insegnare tedesco alla Normale di Pisa fino al ’38. Lowinsky lasciata parimenti la Germania nel ’33, si trasferì in Olanda, da dove nel ’39 emigrò in America. Vite diverse congiunte dal conseguimento del dottorato a Heidelberg (rispettivamente nel ’29 e ’33), dal rifugio e poi dall’insegnamento universitario negli Stati Uniti.
Il loro lungo carteggio, avviato nel ’43 e concluso alla morte di Lowinsky, testimonia un’amicizia salda improvvisamente a rischio di una traumatica lacerazione politica.
Ce la indicano alcune loro lettere straordinarie scambiate tra il dicembre 1982 e l’aprile 1983, ora edite da uno storico statunitense del Rinascimento, Antony Molho, in una miscellanea di studi offerta a Riccardo Fubini ( Il laboratorio del Rinascimento, a cura di Lorenzo Tanzini, Le Lettere, pagine 294, euro 28.00).
Kristeller ebbe l’onore d’essere invitato a Heidelberg a festeggiare il cinquantesimo del suo dottorato; una cerimonia ufficiale cui presero parte le massime autorità accademiche, durante la quale tenne la lezione Philosophie und Gelehersamkeit [erudizione].
Prestigiosa, normale cerimonia universitaria; ma a distanza di alcuni anni Lowinsky, avuto già il testo della lezione dell’amico, il 17 dicembre ’82 gli scrisse garbatamente eccependo che vi mancava il ricordo dei tanti ebrei che non erano sopravvissuti, che non si poteva né doveva dimenticare il tracollo morale delle Università tedesche al- l’avvento del nazismo, e che gli sarebbe sembrato doveroso un pubblico ringraziamento agli Stati Uniti per quanto fatto per tutti loro.
Una settimana dopo Kristeller rispondeva essere vicende note a ognuno e che non aveva mosso accuse ai nazisti non essendovene alcuno presente a quella cerimonia; comunque il suo primo libro del dopoguerra (voluto pubblicare in italiano, Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino) l’aveva dedicato alle vittime del nazismo; infine, in merito all’atteggiamento delle Università tedesche, Kristeller evocava il cedimento, senza alcun rischio, dei professori americani alla pressione (e alla moda) della contestazione degli anni ’60: come fatto sì dai professori tedeschi nel ’33, ma di fronte a ben gravi rischi. Il diverbio sale di tono e s’allarga a temi diversi e connessi.
Lowinsky replica il 5 gennaio ’83, profilando una responsabilità collettiva tedesca (un popolo coraggioso militarmente, non civilmente), ricordando per contro il rettore dell’Università di Leida, Johan Huizinga che, occupata l’Olanda dai tedeschi, piuttosto che subirne controlli e norme discriminatorie, preferì chiudere l’Università finendo (e morendo) in prigione a De Steeg (Arnhem); invece Karl Jaspers nel ’33 aveva iniziato i suoi corsi di filosofia ad Heidelberg col saluto a Hitler (finendo comunque sollevato dalla cattedra nel ’37).
Il 13 seguente, la replica di Kristeller, noto liberal-conservatore, è platealmente not politically correct: glielo consentiva la sua drammatica storia personale e familiare (morti i genitori nel lager di Theresienstadt nel ’42, ad Auschwitz i parenti della moglie). Rievoca allora un caleidoscopio di intellettuali tedeschi che avevano marcato la vita culturale europea negli anni ’20 e ’30, weimariani, nazisti e non nazisti, noti e meno noti, giovani studiosi o professori affermati, affollando la lettera di richiami a Cassirer e Panofsky, Nussbaum e Klibansky, ebrei abilitati all’insegnamento negli anni ’20, poi Walter Bulst, Ernst Hoffmann, Herbert Dieckmann che addirittura recensì il Supplementum ficinianum dell’ebreo Kristeller sulle ’Romanische Forschungen’ del ’39.
Lo stesso Heidegger, ricorda Kristeller, lo aveva ripetutamente aiutato. E in proposito aggiunge un’attendibile testimonianza (« good testimony ») che dava Heidegger distaccato dal nazismo ai primi del ’36 se non già nel ’35; nel dopoguerra, dopo lunghe esitazioni, Kristeller aveva quindi ripreso i contatti con lui.
Kristeller procedeva dunque contro un’inaccettabile genericità di giudizi, in particolare da parte di intellettuali e ricercatori: la cultura tedesca non aveva prodotto il razzismo, né quindi lui credeva in una “colpa collettiva” della Germania. Il che non significava ridurre il portato delle atrocità commesse dai nazisti; i civili tedeschi accampavano improbabili scuse di non sapere dei lager e di ciò che vi accadeva, pure, in qualche caso, davvero non sapevano.
Ma altrettanto vere e inescusabili erano le atrocità occorse che, scrive Kristeller, non avevano avuto uguali né precedenti; paragoni recenti per Kristeller potevano essere il trattamento inferto dai turchi ad armeni e greci, e quello subìto dalle popolazioni tedesche orientali alla fine della guerra.
E tornando a parlare ancora della vita universitaria americana (e della sottostima delle scienze umanistiche) ricordava la confidenza di un suo collega che di fronte alla contestazione studentesca riteneva opportuno adeguarsi per salvare il salvabile: parli come i professori tedeschi nel ’33, era stata la replica.
Nell’ultima lettera ora edita, Kristeller volle testimoniare in modo bruciante come la sua inesausta battaglia per tenere la filosofia e la storia lontane dalle falsificazioni indotte dall’ideologia, fosse stata persa quando in America, la new left aveva introdotto la politica nelle aule e con essa la pretesa di sostituirsi alla serietà degli studi. Aveva conosciuto e combattuto invano la sostanza di ogni totalitarismo, brutale o sofisticato: il conformismo della cultura.
Intervista. Parla il filosofo e psicoanalista argentino, ospite a «Next», il salone europeo della ricerca
di Riccardo Mazzeo (il manifesto, 24.09.2016)
La psicoanalisi deve rinunciare alle sue pretese di scientificità se vuol cogliere le tendenze profonde nella realtà sociale e quanto esse si riflettano sulla dimensione individuale. Miguel Benasayag sostiene questo cambiamento di prospettiva da molti anni. Non nega cioè che la psicoanalisi possa aiutare uomini e donne in forte sofferenza psichica. Più realisticamente, invita a mettere in relazione una tecnica di intervento psicoanalitico a quanto si muove nella società. Usa un lessico mutuato dalla filosofia francese - l’«essere in situazione» di Jean-Paul Sartre, ma anche il Michel Foucault di Storia della follia - da molti anni. È questo il filo rosso che unisce saggi molti diversi tra loro, da L’epoca delle passioni tristi a Oltre le passioni tristi a La salute a ogni costo (i primi libri due pubblicati da Feltrinelli, il terzo da Vita e Pensiero).
È un punto di vista maturato all’interno del suo lavoro di «operatore sociale e psicoanalitico» che svolge in Francia seguendo giovani «a rischio», «ammalati di lavoro», «depressi sociali», ma che assume un «sapore» diverso se applicato al ruolo delle tecnologie digitali nella percezione della realtà, come testimonia il dialogo su Il cervello aumentato, l’uomo diminuito (Erickson). Nel confronto vis-à-vis con la rete, Benasayag sostiene che l’uso immersivo del computer sta amplificando alcune funzioni cognitive del cervello, a scapito tuttavia di quella caratteristica specifica dell’animale umano che è la socialità e la «naturale» attitudine a costruire relazioni con i suoi simili attraverso il linguaggio. Sono questi i temi del suo intervento all’iniziativa «Next. Umano post-umano» in corso a Trieste da ieri (Miguel Bensayag parlerà oggi). L’intervista è avvenuta prima dell’inizio della manifestazione triestina.
Nella prefazione al libro «Il cervello aumentato, l’uomo diminuito», si legge: «Forse la nostra capacità di accettare i limiti umani si è andata a nascondere in una piega della Storia e riaffiorerà in un momento più propizio, forse bisogna solo aspettare che il pendolo temerariamente sospinto in una corsa folle verso l’attuale estremo di egocentrismo assetato di trasparenza e di immortalità, giunto al suo approdo, rioscillerà tornando a una dimensione che abbandoni il farnetico del trans e del post (transumanismo, postumanismo...) per rientrare nell’alveo dell’umano».
Siamo uomini e le donne della crisi, della fine di un mondo, ma dipende da noi fare in modo che ciò non accada. Il mondo che finisce, quello che Foucault chiamava l’epoca dell’uomo, è stato segnato dall’esilio dell’uomo dal mondo e dal suo ecosistema. Si è costruita questa finzione in cui noi eravamo il soggetto di un luogo disincantato che costituiva il nostro oggetto. Era stata dichiarata guerra alla natura, e si doveva vincerla. Ogni costrizione sarebbe dovuta sparire con la promessa che l’uomo, divenuto il proprio profeta e il proprio messia, aveva fatto a se stesso.
La «guerra», come in fondo ciascuna guerra, non ha avuto che vinti, e siamo qui per dire che forse è il momento di finirla con l’esilio, che è il momento di ritornare a essere vivi fra i vivi, come scriveva Prigogine, che è tempo di creare una «nuova alleanza». L’umanesimo, che sembra così bello visto dall’Occidente, è stato il nome del colonialismo. Bartolomeo de Las Casas spiegava che anche gli indiani erano umani, di un’umanità però ancora non realizzata. Realizzare l’umanità è stato il compito del colonialismo, dell’addestramento delle vite dal razzismo fino all’epoca del capitalismo.
La crisi di quel mondo ci lascia la constatazione dura e amara del fatto che ogni guerra contro la natura è né più né meno che un suicidio. In quel momento si sarebbe creduto, un po’ ingenuamente, che la piccola umanità si fermasse un momento per riflettere, per valutare, per fare amicizia con il suo mondo della vita, vivi tra vivi. Contrariamente a quanto credeva Platone, l’uomo è un essere che affonda le sue radici nella terra, fra le altre creature a loro volta territorializzate.
E invece no: nel momento della crisi del modello della dominazione, le cose sono andate diversamente, alla crisi dell’impotenza e alla minaccia ha fatto eco un incontro davvero catastrofico, alla nostra umanità che affondava nella disperazione è giunta una nuova promessa, una nuova tentazione di vincere la natura, di schiacciare qualunque costrizione. Come la colomba di cui parlava Kant, la quale credeva di poter volare molto meglio se avesse eliminato la resistenza dell’aria.
Nell’«Epoca delle passioni tristi» ha reso evidente il fatto che il dilagare di malattie psichiche non riguardi tanto le singole persone quanto piuttosto la società per la deriva in cui è incorsa. Una posizione vicina a quella espressa di Zygmunt Bauman ne «Retrotopia», un volume in uscita Polity Retrotopia. Che cosa suggerisce come via, magari molteplice, d’uscita da questo cul de sac?
I nostri contemporanei sono lanciati in questa nuova avventura di eliminazione di qualunque limite, di qualunque costrizione, di qualunque regolazione organica, e credono che senza regolazioni, senza limiti, la libertà totale ci sia, più che promessa, dovuta.
Ma nella loro fascinazione e nella loro stupidità i nostri contemporanei ignorano appunto la differenza che faceva Kant fra limiti e confini: se i confini possono essere aboliti, i limiti, che possono cambiare, sono la condizione stessa della vita; senza limiti non c’è vita.
Se tutto è possibile, se il mondo post-organico su cui delirano ricercatori e banchieri è possibile, lo sarà sotto il segno della morte e della tristezza.
Il confine tra l’«umano e il post-umano»
«Umano Post-umano» è il tema di Next, il salone europeo della ricerca organizzato dal comune di Trieste, l’università, la Regione Friuli Venezia Giulia, l’Area Science Park e la Scuola Internazionale di Studi avanzati. Con oltre 100 appuntamenti, l’iniziativa vuole esplorare il ruolo delle tecnologia e della robotica nella realtà contemporanea. Dall’«Etica della robotica» allo sviluppo dei Big Data, filosofi, ricercatori e psicoanalisti affronteranno i temi che si sono imposti con la diffusione della Rete e la progressiva automazione del lavoro manuale e intelelttuale. Durante Next, sarà presentato in anteprima del volume «Macchine intelligenti» di John E. III Kelly (Egea edizioni).
GRECITA’ ED ETA’ DI GOETHE: I GRECI CON GLI OCCHI DI WINCKELMANN, IL FONDATORE DEL MITO DELLA CLASSICITA’ E DELLA GERMANIA COME LA NUOVA ELLADE DELL’EUROPA MODERNA ...
DIALOGHI
Le lettere di Winckelmann, il tedesco padre dei greci
Maria Fancelli ha curato per l’Istituto Italiano di Studi Germanici i tre volumi delle «Lettere» di Winckelmann: la rete di relazioni per il fondatore del mito della classicità
di CLAUDIO MAGRIS (Corriere della Sera, 22.09.2016)
«È grigia qualunque teoria, ma verde è l’albero della vita», dice nel Faust Mefistofele burlandosi di uno studente che vorrebbe spendere la sua vita fra i libri e gli studi eruditi. Questa contrapposizione tra vita e cultura, nata soprattutto nella Germania dello Sturm und Drang e del Romanticismo, è presto divenuta un diffuso luogo comune, sino all’esaltato vitalismo dilagante tra fine Ottocento e primo Novecento. A essere celebrata è la vita nel suo scorrere, morire e rifiorire come una pianta, ma presto sarà la vitalità ad apparire distruttiva e angosciosa, come un’indomabile radice che affiora squarciando il terreno e devastando la rassicurante casa costruita su quel terreno dall’uomo e dalla sua ragione. Nell’ultimo e più affascinante dei suoi libri, il vecchio Croce è sgomento dinanzi alla «vitalità verde» che sconvolge il classico e solido edificio dei concetti e delle categorie filosofiche.
Quella contrapposizione è seducente ma falsa e pochi la smentiscono come Winckelmann, infaticabile e geniale studioso fondatore di quel mito della grecità, indagato con precisione antiquaria e appassionata partecipazione sensuale, che avrebbe rivoluzionato non solo la storia dell’arte ma in generale lo spirito, il gusto, la sensibilità, lo stile della Germania e dell’Europa. La sua Storia dell’Arte nell’Antichità è una monumentale opera storiografica e un canone di bellezza assoluta, non soggetta ai mutamenti della Storia.
Bellezza della classicità greca - conosciuta da lui peraltro non nei capolavori originali, bensì nelle copie romane - che è modello della bellezza universale umana, perfetta sintesi di «nobile semplicità e serena grandezza». Serenità dell’anima e armonia del corpo rispecchiate dall’insondabile serenità del mare, dalla trasparente lievità dell’acqua non increspata e dalla perfezione del marmo pario. Una minuziosa ricerca erudita e un’inesausta passione vitale, permeata di eros omosessuale, porta Winckelmann a formulare il primato assoluto dell’arte e dunque dell’umanità greca - la perfezione dell’Ercole Farnese, l’Apollo del Belvedere «sopra ogni cosa» - e a vedere nella Germania la nuova Ellade dell’Europa moderna.
Filologia e passione, archivi e biblioteche e sogno del mare ellenico, enorme lavoro a tavolino e una rete di relazioni con personalità di tutto il mondo, che esigono e creano un epistolario ricco come un’enciclopedia e affascinante come un romanzo; anzi che è pure un vero romanzo epistolare, come scrive Maria Fancelli che ha pubblicato, insieme a Joselita Raspi Serra, tre fondamentali volumi di Lettere (1742-1768), in un lavoro di anni.
Lavoro filologico, storico e letterario che rappresenta un evento di eccezionale importanza nella cultura italiana. Edita dall’Istituto Italiano di Studi Germanici, l’eccellente traduzione delle lettere in tedesco - molte Winckelmann le scrisse in italiano - è dovuta a Bianca Maria Bornmann, Barbara Di Noi, Paolo Scotini, Francesca Spadini e Delphina Fabbrini, col coordinamento di Fabrizio Cambi.
Per realizzare quest’opera, di una ricchezza culturale e di una chiarezza classica degne del grande autore studiato, è sceso dunque in campo uno Stato maggiore della germanistica italiana. Maria Fancelli, formatasi alla grande scuola fiorentina di Vittorio Santoli da lei originalmente proseguita, è autrice di studi fondamentali (per esempio In nome del classico, 1979; Il secolo d’oro della drammaturgia tedesca; l’edizione italiana del Werther).
I suoi saggi - su Goethe, Kleist, Heine, Stifter o Benn - e la sua ventennale direzione di una notevolissima collana di classici tedeschi per l’editore Marsilio e il suo impegnato e creativo insegnamento le hanno valso una laurea ad honorem presso l’Università di Bonn, che ha premiato una singolare simbiosi di rigore filologico e originale e generosa intelligenza critica, una sanguigna e fresca comprensione delle cose e delle persone e una innovativa attività di scambio culturale che coinvolge Italia, Germania e Francia.
Joselita Raspi Serra, storica dell’arte allieva del grande Cesare Brandi, ha curato tra l’altro l’edizione in quattro volumi Il primo incontro di Winckelmann con le collezioni romane (2002-2005) e ha scritto il saggio La Fortuna di Paestum e la memoria moderna del Dorico 1750-1830, importante per la comprensione di quel mito dorico così presente e talora inquietante nella cultura tedesca.
Come nasce - chiedo a Maria Fancelli - l’idea di questa edizione? Cosa significano queste lettere per un lettore di oggi?
Maria Fancelli - A parte l’occasione del duplice giubileo di Winckelmann, la nascita a Stendal e la tragica morte a Trieste, l’idea nasce anzitutto per rendere accessibile agli italiani un’opera che è insieme un grandioso affresco culturale sovranazionale e un appassionante romanzo di vita vissuta, uno spaccato di grande storia europea e italiana, in cui sfilano protagonisti dell’arte, della cultura e della politica di vari Paesi, vicende di danaro, di passione, di accorta diplomazia, di indomabile entusiasmo, mentre grazie a Winckelmann, alle verità e alle menzogne della sua vita, nasce una nuova storia dell’arte e un nuovo senso dell’arte e nasce una nuova Germania, rinnovatrice ed erede della civiltà e dell’arte greca. - Uno dei grandi libri che hanno indagato questo binomio di Grecità ed Età di Goethe - come dice il titolo, Griechentum und Goethezeit - l’ha scritto non a caso il grande germanista che ha curato la prima edizione di queste Lettere di Winckelmann, Walther Rehm, che del resto tu hai conosciuto e frequentato...
Claudio Magris - Sì, quando studiavo a Freiburg im Breisgau, in quei semestri 1962-63 che sono stati fondanti per il mio percorso germanistico, ho seguito in modo particolare le lezioni di Walther Rehm, anche perché il mio Maestro Lionello Vincenti, che era suo amico, mi aveva per così dire un po’ affidato a lui. E Rehm - credo fosse il suo ultimo anno di insegnamento - parlava proprio di Grecità e Germania goethiana, riprendendo e rinnovando i suoi antichi studi. È stata per me un’esperienza molto importante, in quella piccola vivacissima Freiburg nella Selva Nera, in cui c’erano anche Heidegger e ogni tanto compariva Celan, che però non ho mai visto, nonostante fossi legato a un altro germanista, più giovane, Gerhart Baumann, che era molto vicino a quella cultura così radicalmente diversa da quella classica. Ma è a Freiburg che, per così dire, ho incontrato la classicità tedesca e anche Winckelmann. Ma Winckelmann fonda forse non tanto il Classico, la Classicità tedesca, quanto il Neoclassicismo - che differenza c’è tra i due?
Maria Fancelli - La nozione di Classico è estesa e antica, ha molte variazioni di senso e spesso si definisce per opposizione (classico-romantico), è difficile da definire sinteticamente, e lo stesso vale per Neoclassico. Comunque, classico è ciò che è divenuto esemplare, che è riconosciuto quale modello e che dispiega la sua esemplarità nel corso delle generazioni e della lunga durata. Questo termine raggiunge il suo massimo potenziale a metà Settecento, quando classico diventa idea portante di un progetto, aspirazione a un sapere organico e unitario, mito fondativo del nuovo. - Classico indica l’esemplarità del mondo greco nella sua fase più alta ma anche la potenzialità più autentica e più duratura del moderno. Classico per eccellenza è il prodigioso decennio della collaborazione tra Goethe e Schiller (1795-1805), straordinario cantiere della modernità. Neoclassico indica piuttosto movimenti definibili in senso temporale e spaziale, legati a un’epoca o a un periodo storico nel quale si torna a sentire l’esemplarità dei valori etici, formali ed estetici del Classico, il bisogno del decoro e della misura. Epoche in cui le speranze del rinnovamento politico paiono meno forti e prevale il ritorno a modelli antichi più imitati che ricreati, forme levigate e nobili, Antonio Canova, il Foscolo de Le grazie.
Claudio Magris - Forse Winckelmann è il padre di entrambi, classico e neoclassico... Nei mesi trascorsi a Firenze tra il 1758 e il 1759, si è occupato pure di arte etrusca, come testimonia la mostra in corso (fino al 30 gennaio 2017) al Salone del Nibbio del Museo Archeologico di Firenze, curata da Giovannangelo Camporeale e Stefano Bruni. Quale significato ha questa sua esperienza nella sua vita e nella sua opera?
Maria Fancelli - La mostra lascerà un segno nel campo degli studi winckelmanniani e, quel che più conta, susciterà domande e nuove ricerche: sulla malinconia degli Etruschi, sulla linea che lega gli Etruschi all’arte di Michelangelo. Lo dimostra il prestigioso catalogo uscito in versione italiana e tedesca a cura di Barbara Arbeid, Stefano Bruni e Mario Iozzo per l’Ets di Pisa. Pur affascinato dagli Etruschi, che comunque conosceva solo in parte, Winckelmann scrive che alla loro arte mancava «la grazia», un concetto chiave del Neoclassicismo. Sì, forse Winckelmann è stato il padre del Classico e del Neoclassico, ma è stato soprattutto il fondatore di quell’età che sarà detta classica per eccellenza e che altri renderanno, per sempre, «esemplare», da Goethe a Schiller a Hölderlin. Una classicità non certo levigata ma vitale, inquietante, anche esplosiva.
Intervista
Bauman: «Parliamoci. È vera rivoluzione culturale»
di Stefania Falasca (Avvenire, 20/09/2016)
«Le guerre di religione? Solo una delle offerte del mercato ». Zygmunt Bauman, il più acuto studioso della società postmoderna che ha raccontato in pagine memorabili l’angoscia dell’uomo contemporaneo - lo incontriamo ad Assisi prima del suo intervento - ci parla della sfida del dialogo.
Professore, la sua intuizione sulla postmodernità liquida continua a offrire uno sguardo lucido sul tempo presente. Ma in questa liquidità si registra un esplosione di nazionalismi, identitarismi religiosi. Come si spiegano?
Cominciamo dal problema della guerra. ll nostro mondo contemporaneo non vive una guerra organica ma frammentata. Guerre d’interessi, per denaro, per le risorse, per governare sulle nazioni. Non la chiamo guerra di religione, sono altri che vogliono sia una guerra di religione. Non appartengo a chi vuole far credere che sia una guerra tra religioni. Non la chiamo neppure così. Bisogna stare attenti a non seguire la mentalità corrente. In particolare la mentalità introdotta dal politologo di turno, dai media, da coloro che vogliono raccogliere il consenso, dicendo ciò che loro volevano ascoltare. Lei sa bene che in un mondo permeato dalla paura, questa penetra la società. La paura ha le sue radici nelle ansietà delle persone e anche se abbiamo delle situazioni di grande benessere, viviamo in una grande paura. La paura di perdere posizioni. Le persone hanno paura di avere paura, anche senza darsi una spiegazione del motivo. E questa paura così mobile, inespressa, che non spiega la sua sorgente, è un ottimo capitale per tutti coloro che la vogliono utilizzare per motivi politici o commerciali. Parlare così di guerre e di guerre di religioni è solo una delle offerte del mercato.
Al panico delle guerre di religione si unisce quello delle migrazioni. Già anni fa Umberto Eco diceva che per chi voleva capitalizzare la paura delle persone, il problema dell’emigrazione era arrivato come un dono dal cielo....
Sì è così. Guerre di religione e immigrazione sono nomi differenti dati oggi per sfruttare questa paura vaga incerta, male espressa e mal compresa. Stiamo però qui facendo un errore esistenziale, confondendo due fenomeni differenti: uno è il fenomeno delle migrazioni e l’altro il fenomeno dell’immigrazione, come ha fatto osservare Umberto Eco. Non sono un fenomeno, sono due differenti fenomeni. L’immigrazione è un compagno della storia moderna, lo Stato moderno, la formazione dello Stato è anche una storia di immigrazione. Il capitale ha bisogno del lavoro il lavoro ha bisogno del capitale. Le migrazioni sono invece qualcosa di diverso è un processo naturale che non può essere controllato, che va per la sua strada.
Come pensa si possa trovare un equilibrio per questi fenomeni?
La soluzione offerta dai governi è quella di stringere sempre più il cordone delle possibilità di immigrazione. Ma la nostra società è ormai irreversibilmente cosmopolita, multiculturale e multireligiosa. Il sociologo Ulrich Beck dice che viviamo in una condizione cosmopolita di interdipendenza e scambio a livello planetario ma non abbiamo neppure iniziato a svilupparne la consapevolezza. E gestiamo questo momento con gli strumenti dei nostri antenati... è una trappola, una sfida da affrontare. Noi non possiamo tornare indietro e sottrarci dal vivere insieme.
Come integrarci senza aumentare l’ostilità, senza separare i popoli?
È la domanda fondamentale della nostra epoca. Non si può neppure negare che siamo in uno stato di guerra e probabilmente sarà anche lunga questa guerra. Ma il nostro futuro non è costruito da quelli che si presentano come ’uomini forti’, che offrono e suggeriscono apparenti soluzioni istantanee, come costruire muri ad esempio. La sola personalità contemporanea che porta avanti queste questioni con realismo e che le fa arrivare ad ogni persona, è papa Francesco. Nel suo discorso all’Europa parla di dialogo per ricostruire la tessitura della società, dell’equa distribuzione dei frutti della terra e del lavoro che non rappresentano una pura carità, ma un obbligo morale. Passare dall’economia liquida ad una posizione che permetta l’accesso alla terra col lavoro. Di una cultura che privilegi il dialogo come parte integrante dell’educazione. Si faccia attenzione, lo ripete: dialogo-educazione.
Perché secondo lei il Papa è convinto che sia la parola che non ci dobbiamo stancare di ripetere? Alla fine il dialogo cos’è?
Insegnare a imparare. L’opposto delle conversazioni ordinarie che dividono le persone: quelle nel giusto e quelle nell’errore. Entrare in dialogo significa superare la soglia dello specchio, insegnare a imparare ad arricchirsi della diversità dell’altro. A differenza dei seminari accademici, dei dibattiti pubblici o delle chiacchiere partigiane, nel dialogo non ci sono perdenti, ma solo vincitori. Si tratta di una rivoluzione culturale rispetto al mondo in cui si invecchia e si muore prima ancora di crescere. È la vera rivoluzione culturale rispetto a quanto siamo abituati a fare ed è ciò che permette di ripensare la nostra epoca. L’acquisizione di questa cultura non permette ricette o facili scappatoie, esige e passa attraverso l’educazione che richiede investimenti a lungo termine. Noi dobbiamo concentraci sugli obiettivi a lungo termine. E questo è il pensiero di papa Francesco, il dialogo non è un caffè istantaneo, non dà effetti immediati, perché è pazienza, perseveranza, profondità. Al percorso che lui indica aggiungerei una sola parola: così sia, amen.
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. -- KANT CON IL COSMOPOLITISMO DI DIOGENE E NON DI ALESSANDRO MAGNO E NAPOLEONE (O HITLER E MUSSOLINI)!!!:
Siamo umani, dunque globali
Quando gli chiesero quale fosse la sua patria, Diogene il cinico rispose che era un cosmopolita, un cittadino del mondo
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 18.09.2016)
Quando gli chiesero quale fosse la sua patria, Diogene il cinico rispose che era un cosmopolita, un cittadino del mondo. Una frase brillante, di cui Immanuel Kant si sarebbe ricordato nel 1784, quando diede alle stampe un breve saggio con un titolo lungo, Idee di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, che fondava su basi più solide l’ideale del cosmopolitismo. Solo una comunità politica universale permetterà agli uomini di realizzare la loro natura di esseri razionali e sociali, offrendo la possibilità di una vita soddisfacente. Questa, scriveva, è la meta verso cui ci stiamo dirigendo e per cui dobbiamo lottare.
Kant è stato un grande filosofo e per una volta si è rivelato buon profeta, visto che il cammino dell’umanità sta procedendo nella direzione di una sempre maggiore integrazione, proprio come lui aveva auspicato. Il suo entusiasmo, però, non troverebbe molto seguito oggi. Il mondo appare più piccolo ma i problemi sono sempre più complicati e diffusi. E così si leva insistente la voce di chi sogna un ritorno alle genuine tradizioni nazionali che fecero grande l’Europa e che l’Illuminismo avrebbe colpevolmente cancellato.
Fosse tutto così semplice: come ricorda Jean-François Pradeau (Gouverner avec le monde. Réflexions antiques sur la mondialisation, Manitoba/Les Belles Lettres, 2015), la vocazione universalista precede, e di molto, le discussioni di Kant e Voltaire. Cosmopolita è una parola greca: e lo è anche l’idea, che poi passò nel mondo cristiano. Gli uomini sono uguali e non si capisce perché non possano vivere insieme, seguendo le indicazioni della ragione: questi sono gli Stoici. Gli uomini sono tutti figli di Dio e non si capisce perché non debbano vivere insieme, aspirando alla pace comune: questo è Agostino. Anche «cattolico», lo si dimentica spesso, è un termine greco; vuol dire universale. Insomma: i Greci, il cristianesimo, l’Illuminismo. L’ideale cosmopolitico è parte costituente della tradizione europea.
Per gli antichi era tutta una questione di cerchi concentrici. Ciò che siamo, la vita che viviamo, si definisce a partire da una serie di relazioni sempre più estese: ci sono la famiglia e gli affetti privati; poi il mondo degli amici e del lavoro; e ancora, quello dei cittadini e della patria; e via di seguito fino al cerchio esterno che include tutti gli uomini. È evidente che ciò che ci è più vicino importa, e tanto. Ma non possiamo non riconoscere la linea di continuità che ci lega a tutti gli altri esseri umani in quanto esseri umani. In fondo dove nasciamo dipende in gran parte del caso: ma rimaniamo pur sempre parte dell’unica famiglia umana, membra dello stesso corpo. «Sono un Antonino, la mia patria è Roma; sono un essere umano, la mia patria è il mondo», scriveva Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, accampato presso le rive del Danubio. Lo aveva già detto anche uno scrittore di commedie, Terenzio, arrivato a Roma dall’Africa (come Agostino del resto): «Sono un uomo, nulla che sia umano mi è estraneo».
Erano riflessioni che nascevano spontanee, tentativi di comprendere il senso della storia degli uomini, mentre Roma estendeva il suo controllo su parti sempre più estese del mondo conosciuto, e i confini tradizionali venivano meno. Non si trattava di annullare le differenze ma di accoglierle in un’unità più ampia. Le istituzioni sovranazionali odierne, nate per tutelare i diritti dell’uomo, affondano le radici in questa tradizione.
I problemi non sono soltanto, come si continua a ripetere, politici o economici, argomenti su cui gli antichi avevano peraltro idee strampalate. Platone e gli Stoici intitolavano i loro trattati Costituzione o Repubblica e finivano inevitabilmente per parlare di sesso. Diogene, poi, il primo cosmopolita confesso, con la politica non voleva avere proprio nulla a che fare, rifiutandosi di pensare che le convenzioni sociali o eventuali appartenenze di gruppo potessero concorrere a definire quello che lui era, la sua identità. Famigerato per i comportamenti scandalosi al limite del tollerabile (c’era un motivo se lo chiamavano il «cane»), fautore di una libertà così estrema da non essere desiderabile (ma davvero tutto può essere permesso?), ha comunque il merito di chiarire il vero problema in discussione con il cosmopolitismo.
È una questione prima di tutto individuale, che riguarda come noi vediamo noi stessi. Il confronto con gli altri è sempre faticoso: si giudica e si è giudicati, su tutto. Non è facile scoprire che molte delle idee e principi a partire da cui organizziamo le nostre giornate non costituiscono verità insindacabili ma sono semplici abitudini, che potrebbero anche essere modificate. La tentazione di rinserrarsi nel cerchio di ciò che è familiare o consueto nasce da qui ed è onnipresente. È scontato criticare gli operai inglesi che si sono chiusi al mondo votando contro l’Unione Europea. Ma, come ha scritto giustamente Ross Douthat sul «New York Times», bisogna stare attenti a non cadere nella retorica stantia che oppone nativisti (o localisti) e internazionalisti (o cosmopoliti).
I «cittadini globali» che si sentono sempre a casa propria in qualunque parte del mondo, e che però di fatto dormono in alberghi sempre uguali, comprano gli stessi vestiti negli stessi negozi, e fanno insomma sempre le stesse identiche cose in non importa quale posto (con l’aggiunta eventuale di un tocco di esotismo: un po’ di religiosità orientale, di dolce vita italiana...), non costituiscono una tribù anche loro? Una tribù, quel che è peggio, che non si riconosce come tale e non è perciò in grado di confrontarsi con gli altri gruppi di chi la pensa diversamente. È sempre una questione di appartenenza, e la sfida del cosmopolitismo è tutta qui, nell’invito a ripensare le nostre relazioni in tutte le direzioni.
«Essere vasto, diverso e insieme fisso», scriveva Montale: non rifiutare i rapporti più stretti, ma provare a guardare allo spettacolo della vita umana, così diverso eppure così simile, con occhi meno preoccupati. Al filosofo Pirrone è servito. Aveva seguito Alessandro Magno nella sua campagna alla conquista del mondo. Vide quanto vari o arbitrari potessero essere gli usi e i costumi dei popoli ma osservò anche che gli uomini si affaccendavano sempre dietro agli stessi problemi, sempre inquieti, come le api e le mosche. Senza giudicare, imparò a dare il giusto peso alle cose, liberandosi della pretesa di essere il centro del mondo. Si racconta che trovò la felicità.
I cerchi, intanto, continuano a espandersi. Quando Diogene o Marco Aurelio affermavano di essere cosmopoliti, intendevano quello che dicevano. Parliamo di mondializzazione, globalizzazione, cosmopolitismo, ma pensiamo sempre a noi stessi, agli uomini, mai al mondo (al globo, al cosmo). È come se importassimo solo noi. E invece quello che siamo dipende anche dalla nostra relazione con ciò che ci circonda.
Ogni tanto conviene alzare lo sguardo e realizzare che è tutto molto più grande: quale è il senso della nostra esperienza di esseri umani - di questa mia esistenza particolare - rispetto a questo universo immenso che ci circonda? Per gli antichi la domanda era naturale perché sentivano di far parte di un tutto vivente e perfettamente organizzato: anche i pianeti, esseri divini e perfetti che percorrono eternamente le loro orbite circolari, sostenevano, sono abitanti di quella città immensa che è l’universo, e dunque nostri concittadini. Può sembrare bizzarro, ma anche Dante nell’ultimo canto del Paradiso, quando ha finalmente coronato l’obiettivo del suo viaggio, inizia a ruotare («sì come rota ch’igualmente è mossa») intorno a Dio, «l’amor che move il sole e l’altre stelle». Ci sono di nuovo i cerchi e i moti circolari: l’immagine questa volta è aristotelica, ed è l’espressione di un’armonia raggiunta - con se stessi, con gli altri, con le cose, finalmente consapevoli di fare parte di un tutto che si squaderna ogni giorno nella sua meravigliosa regolarità. È questa la vera appartenenza: «La sola vera cittadinanza è quella che si esercita nell’universo», ripeteva il solito Diogene.
La scienza moderna ha definitivamente smantellato l’idea, in fondo così rassicurante, di un universo chiuso e perfettamente organizzato intorno a noi. E tutto diventa più complicato. Il pensiero corre a Friedrich Nietzsche, quando parlava di un universo che precipita eternamente, spaventoso nell’infinita solitudine del tutto («non si è fatto più freddo?»); o alla luna di Giacomo Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, silenziosa, indifferente, ormai estranea, lontana. Sono immagini suggestive. Ma troppo unilaterali, forse. Perché il mondo è anche la natura, quel ciclo della vita che fiorisce intorno a noi, e di cui dovremmo ritornare a riconoscere il ritmo, come esortava un poeta, Archiloco, consapevoli del fatto che anche noi ne facciamo comunque parte.
Gli antichi non avrebbero mai creduto che l’uomo potesse arrivare a modificare l’ambiente naturale che lo circonda, come invece sta accadendo. Ma, per una volta tutti insieme senza litigare, avrebbero osservato con uno sguardo benevolo i presidenti degli Stati Uniti d’America e della Repubblica Popolare cinese, Barack Obama e Xi Jinping, firmare l’accordo per ridurre le emissioni di gas inquinanti.
La terra sarà pure un piccolo punto insignificante e marginale nelle immensità dell’universo; la vita sarà pure il risultato casuale di alcune reazioni chimiche innescatesi accidentalmente. Ma sarebbe comunque un peccato sprecare tutto, no?
Il carisma politico della verità che manca all’Europa
di Roberto Napoletano ( Il Sole-24 Ore, 18 settembre 2016)
«La ragione ultima di esistenza di un governo consiste nell’offrire ai propri cittadini sicurezza fisica ed economica e, in una società democratica, nel preservare le libertà e i diritti individuali insieme a un’equità sociale che rispecchi il giudizio degli stessi cittadini. Coloro che nel secondo dopoguerra volsero lo sguardo all’esperienza dei trent’anni precedenti conclusero che quei governi emersi dal nazionalismo, dal populismo, da un linguaggio in cui il carisma si accompagnava alla menzogna, non avevano dato ai loro cittadini sicurezza, equità, libertà; avevano tradito la ragione stessa della loro esistenza».
Mario Draghi scandisce queste parole, al Teatro Sociale di Trento, nella sua lectio in occasione del conferimento del premio Alcide De Gasperi, e mi colpisce quel riferimento al linguaggio «in cui il carisma si accompagnava alla menzogna», ma anche la parola cittadini che ritornerà spesso dopo, il richiamo ai loro bisogni e ai loro timori, alla sicurezza, all’equità, alla libertà. In una parola, a tutto ciò che la menzogna, aiutata dal carisma, aveva tradito. La traccia ispirativa di De Gasperi(«In Europa si va avanti insieme nella libertà») è dichiarata, ma c’è qualcosa di politico, nella sua cifra recondita, che appartiene naturalmente all’argomentare del più innovativo dei banchieri centrali: racconta del passato, ma parla al futuro.
Riproduco un passaggio che riguarda la stagione d’oro dei Fondatori dell’Europa: «I padri del progetto europeo furono capaci di coniugare efficacia e legittimazione. Il processo era legittimato dal consenso popolare e trovava il sostegno dei governi: il progetto era diretto verso obiettivi in cui l’azione delle istituzioni europee e i benefici per i cittadini erano direttamente e visibilmente connessi; l’azione comunitaria non limitava l’autorità degli Stati membri, ma la rafforzava e trovava quindi il sostegno dei governi. A incoraggiare De Gasperi e i suoi contemporanei non fu solo l’esperienza fallimentare del passato, furono anche gli immediati successi a cui portarono queste prime fondamentali decisioni del dopoguerra. La costruzione della pace, questo risultato fondamentale del progetto europeo, produsse immediatamente crescita, iniziò la strada verso la prosperità. Al suo confronto stanno le devastazioni dei due conflitti mondiali. Il PIL pro capite in termini reali si riduce del 14% durante la Prima guerra mondiale e del 22% durante la Seconda, annullando gran parte della crescita degli anni precedenti. L’integrazione economica costruita su questa pace produce a sua volta miglioramenti significativi nel tenore di vita».
Tutto cambia, quando si passa all’oggi: «Con il referendum del 23 giugno i cittadini del Regno Unito hanno votato a favore dell’uscita dall’Unione europea. Per alcuni dei Paesi dell’Unione questi sono stati anni che hanno visto: la più grave crisi economica del dopoguerra, la disoccupazione, specialmente quella giovanile, raggiungere livelli senza precedenti in presenza di uno stato sociale i cui margini di azione si restringono per la bassa crescita e per i vincoli di finanza pubblica. Sono anni in cui cresce, in un continente che invecchia, l’incertezza sulla sostenibilità dei nostri sistemi pensionistici. Sono anni in cui imponenti flussi migratori rimettono in discussione antichi costumi di vita, contratti sociali da tempo accettati, risvegliano insicurezza, suscitano difese».
Questa la fotografia, poi un altro passaggio che riguarda i nostri giorni e ripropone la straordinaria attualità del pensiero degasperiano: «L’impianto dell’integrazione europea è saldo, i suoi valori fondamentali continuano a restarne la base, ma occorre orientare la direzione di questo processo verso una risposta più efficace e più diretta ai cittadini, ai loro bisogni, ai loro timori e meno concentrata sulle costruzioni istituzionali. Queste sono accettate dai cittadini non per se stesse ma solo in quanto strumenti necessari a dare questa risposta (...). Quanto alle risposte che possono essere date soltanto a livello sovranazionale, dovremmo adottare lo stesso metodo che ha permesso a De Gasperi e ai suoi contemporanei di assicurare la legittimazione delle proprie azioni: concentrarsi sugli interventi che portano risultati tangibili (...). Se si applicano questi criteri, in molti settori il coinvolgimento dell’Europa non risulta necessario. Ma lo è invece in altri ambiti di chiara importanza, in cui le iniziative europee sono non solo legittime ma anche essenziali. Tra questi oggi rientrano, in particolare, i settori dell’immigrazione, della sicurezza e della difesa».
Mi tornano in mente il carisma e la menzogna e mi rendo conto che anche la verità ha bisogno di carisma, ha bisogno di donne e uomini che si riconoscono nel leader politico carismatico, se ne facciano portabandiera. Ha bisogno di una comunità che abbia fiducia in chi lo governa, di modo che scatti la scintilla emotiva, si avvertano i benefici, si percepisca il trasporto, c’è bisogno di una comunità che si senta parte attiva di un progetto di vita e di un disegno condiviso di sviluppo e di equità. Rispondere subito ai timori e ai bisogni dei cittadini, in fondo è questo il messaggio più alto della politica, è il segno costitutivo della lectio di Draghi.
A suo modo, è stata la cifra di una vita di un uomo come Ciampi che ha avuto in Italia tutte le responsabilità e mi piace ricordarlo in questi giorni che se ne è andato. Li chiamano “tecnici”, semplificando molto, rappresentano in realtà la passione e l’intelligenza politica di cui ha bisogno la verità di un’Europa che non può tornare indietro e non riesce ad andare avanti.
SUL TEMA, due TWEET:
L’ITALIA CONTESA DA "DUE" PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA E IL MANCATO " GIUDIZIO DI SALOMONE":
UN OMAGGIO A #Ciampi. A sua memoria. RIPARTIRE DALL’#Italia: VIVA L’ITALIA, VIVA LA #Costituzione ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=913
#Ciampi LA #BIBBIACIVILE e il #Giudizio di #SALOMONE (la #Cortecostituzionale senza #coscienza e #sapienza) ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5171
La ragion pratica del web di cui oggi abbiamo bisogno
Perché la cultura filosofica può aiutarci a capire le potenzialità di Internet e i limiti della nostra libertà
di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 08.09.2016)
In uno dei suoi ultimi libri, la conversazione con Jean-Claude Carrière “Non sperate di liberarvi dei libri”, Umberto Eco faceva notare che ci sono volute un po’ di generazioni di galline per imparare a non finire sotto le automobili. Ecco il senso minimale di ciò che intendo con “ragion pratica per il web”. Le galline finivano sotto le automobili perché le scambiavano per carrozze.
È quello che accade a noi con il web. In molti lo consideriamo una super-televisione, facendoci trarre in inganno dal fatto che nei due casi c’è uno schermo; ma non si considera che c’è anche una tastiera, e una memoria, e che la differenza è tutta lì: non si tratta di uno strumento passivo di comunicazione, ma di uno strumento attivo di registrazione, di un archivio, di un sistema di costruzione della realtà sociale e di mobilitazione della intenzionalità individuale e collettiva.
Senza registrazione ci sono alberi e sedie ma non matrimoni o titoli nobiliari, crisi economiche o premi Nobel. È così da sempre, ed è per questo che documenti, monumenti e riti sono così importanti. È la documentalità, ancora più importante della “governamentalità” di cui parlava Foucault, perché ne è la condizione: niente potere senza registrazione. La novità è che il web porta alla luce del sole ciò che in altri tempi era un arcanum imperii. Chiamo questa situazione “documedialità” (documentalità + medialità), la condizione emersa con la diffusione capillare del web, e di cui non abbiamo ancora preso le misure: è tra noi, ma non si sa che cos’è, e si pensa magari che sia il sogno di uno scienziato pazzo.
Non lo dico tanto per parlare: nella calma di agosto si è letto un articolo in cui si sosteneva che il grande dittatore, Putin, disporrebbe di un apparato diabolico, il Nooskop, capace di scrutare nelle anime dei suoi sudditi: «una specie di computer collegato a sensori di diverso tipo che registrano tutto quello che è successo nel tempo e nello spazio, fino alle transazioni delle carte di credito e agli scambi di ogni genere tra persone». Che perversità, che malizia: ma perché una specie di computer? E perché chiamare “Nooskop” quello che c’è già, e si chiama web?
Il Nooskop, o web che dir si voglia, è l’assoluto, letteralmente: con ciò che è absolutus, che non ha legami. Il web è una rete che lega tutto e che non è legata a nulla - tranne, e non è un dettaglio, alla rete elettrica. Ma non c’è assoluto che non abbia a sua volta dei vincoli tecnici, si pensi alle dispute trinitarie o ai problemi della dialettica hegeliana.
Dunque, e sia pure con il suoi legami pericolosi con la rete elettrica, il web è l’assoluto: il sapere assoluto, sul mondo e su noi stessi. La mobilitazione è il risultato primario di questo assoluto. Siamo continuamente stimolati ad agire, a fare cose (nel caso minimo, a rispondere). Il web è il solo apparato che può spingere qualcuno a lavorare dovunque e a qualunque ora, e magari a farlo gratuitamente, per esempio alimentando i social network o dando, attraverso la propria attività in rete, informazioni su di sé utili a terzi.
Perché è impossibile non rispondere all’appello? Come funziona il comando? Per responsabilizzazione: hai ricevuto il mio messaggio, so che lo hai ricevuto (specie se hai whatsapp), tutto è registrato, bisogna che tu risponda altrimenti è come se tu distogliessi lo sguardo dal volto dell’altro. Per ritorsione: se non mi rispondi, la prossima volta che mi cerchi non rispondo, e alla lunga sarà la morte civile. Per minaccia: se non mi rispondi, ci sono decine (centinaia, migliaia) di altri che risponderanno al tuo posto. La base di questi atteggiamenti è la registrazione. All’epoca del fisso, le chiamate non lasciavano traccia, adesso ognuna lascia traccia, e in gran parte sono scritte - non ci sono scuse, siamo colpevoli.
Si tratta di alienazione, come si dice e si ripete? No. La tecnica non è alienazione, ma rivelazione di quello che noi siamo, animali bisognosi di tecnica, e prontissimi a scambiare una libertà immaginaria con una sicurezza e un conforto reali. Niente è più falso della sentenza di Heidegger secondo cui solo l’uomo ha un mondo, mentre l’animale sarebbe povero di mondo. Solo gli umani, per esempio, sanno, e fin troppo bene, che cosa sia la povertà materiale e soprattutto solo gli umani sperimentano, in loro e nel loro prossimo, la povertà di spirito, e se “avere un mondo” ha un senso qualsiasi, questo si rivela nella povertà piuttosto che nella ricchezza.
Il bastone è la più rudimentale delle tecnologie, ma lo smartphone è il più sofisticato dei bastoni. Se le cose stanno così, bisogna capovolgere la prospettiva: solo l’uomo è povero di mondo e proprio per questo ha bisogno di tecnica, e anzitutto di quelle tecniche capitali che sono la cultura e le libertà, cioè appunto la ragion pratica.
Che siano tecniche lo si capisce dal fatto che richiedono esercizio, abilità, istituzioni e fatica: cultura e libertà non scendono dal cielo. Che siano capitali dipende dalla circostanza per cui cultura e libertà sono le uniche capaci di uno sviluppo riflessivo. Nessuno ha previsto gli sviluppi della ruota, del fuoco, della scrittura o del web, ma ognuna di queste tecniche ha aiutato la cultura a rispondere alla domanda: che cosa è l’uomo? E questa consapevolezza ha insegnato a quell’altra tecnica che è la libertà a rispondere, con l’azione politica e con la decisione morale, agli imperativi di altre tecniche, che sono tassativi solo per chi (in genere, per mancanza di cultura) pretende che lo siano.
Di qui l’esigenza, anzitutto per il web, di una basilikè téchne (la tecnica politica che cerca il meglio per la società) per esprimersi con Platone, e di una educazione della volontà, come diceva Kant. Cioè appunto di una ragion pratica. Sembra ovvio ma non è così: basti considerare che la tecnica sembra riassumersi ancor oggi, nei programmi di insegnamento, nella trinità Inglese-Internet-Impresa, e che la riflessione più critica si limita (lo rivela benissimo lo sgomento per il Nooskop) a richieste di tutela della privacy. Ma la tecnica non è solo (per fortuna) una nuova lingua sacra in cui manifestare azioni di cui non si capisce il senso, né la libertà può consistere nella libertà puramente negativa del non lasciare tracce, del diritto all’oblio.
Sarebbe impotenza e in molti casi ingiustizia. No: la ragion pratica del web deve consistere in una libertà positiva, e la speranza va riposta nel progresso di quella tecnica peculiare che è la cultura umanistica. La cultura è ragion pratica. Non è erudizione, è il tentativo di capire il presente e di trasformarlo, anzitutto guardando all’umano senza farsi troppe illusioni.
È proprio di qui che si deve partire, per rilanciare la cultura che, ripeto, non è il contrario della tecnica, ma è la tecnica in senso eminente, ed è anche l’unica tecnica che può, in linea di principio, essere guidata da una ragion pratica - dove “pratico” va inteso in senso kantiano: ciò che è possibile attraverso la libertà, una libertà che è a sua volta una tecnica, la più difficile.
PLATONE, ARISTOFANE, E NOI, OGGI. LE "REGOLE DEL GIOCO DELL’OCCIDENTE" E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE: "L’indicazione
del
Commediografo
è
più
che
chiara
e
non
è
affatto
(non
fraintenderlo,
"non
volgerlo
al
comico",
egli
ripete
a
chi
ascolta
il
suo
discorso -
noi
abbiamo
sempre
sottovalutato
le
sue
Nuvole,
ma
egli
aveva
visto
molto
bene
che
cosa
Socrate
stava
preparando)
una
boutade.
Platone
non
comprende
nulla,
stravolge
e
continua,
con
il
suo
Eros
(avido,
cieco
e
saettante)
e
con
la
sua
filosofia,
sulla
strada
del padre.
Titanicamente come
Zeus,
spaccato
tutto
in
due,
tenterà
di
rimettere
insieme
i
cocci,
con
la
forza -
una
storia
di
steminata
e
"incurabile"
follia.
Aristofane
parla
della
noslra
mente,
della
nostra
anima
e
della
nostra
vita
e
Plalone
taglia
e
ricuce -
a
specchio,
"divinamente"... tutto all’incontrario! - fls! (F. La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp, 187-188)
Sentimenti
Il re degli dei divise i corpi degli androgini. Leopardi ci spiega che cosa vuol dire
Da Zeus la formula del desiderio: l’altra metà non ci apparterrà mai
di Ilaria Gaspari (Corriere della Sera, La Lettura, 28.08.2016)
Prendete un foglio di carta e una matita, e provate a disegnare un essere fatto così: un blocco di un pezzo unico, con dorso e fianchi disposti in tondo; quattro mani e quattro braccia, quattro gambe e quattro piedi. Un collo tondeggiante su cui stanno due facce identiche, ma una testa sola. Quattro orecchie, e genitali doppi.
Molto probabilmente concluderete di essere pessimi disegnatori. Eppure è così, secondo quel che Aristofane racconta nel Simposio di Platone, che apparivano gli androgini, le creature più compiute mai concepite. Questi esseri primordiali partecipavano di nome e di fatto della natura del maschio e di quella della femmina; e quando camminavano di fretta, come acrobati saltellavano su tutte le estremità a disposizione, per un totale di otto fra gambe e braccia. L’immaginazione è costretta ad arrancare, quando tentiamo di dare una forma plausibile alla buffa sagoma sferica dell’androgino.
Ma nella goffaggine di questi scarabocchi potrebbe essere nascosta una chiave per capire come funziona il desiderio. Zeus gli androgini li tagliò in due per punire la loro arroganza, come si tagliano le albicocche per fare le marmellate: voleva indebolirli. È in quella mutilazione che nasce il desiderio - nello struggimento di voler essere una cosa sola con chi si ama, e nel sapere che si tratta di una fantasia irrealizzabile. Proprio l’amputazione imposta agli androgini ci permette di immaginarli e capirli: sappiamo figurarci facilmente la camminata di esseri incompleti che cercano la propria metà su due gambe, mentre non sappiamo fare altrettanto con le strane parabole circolari descritte da quelle coppie di individui fusi insieme, che saltellavano su quattro.
Aveva per l’appunto solo due gambe, e due piedi - di cui uno sollevato quasi verticalmente a sfiorare il terreno nella grazia inconsapevole di un passo disegnato nella pietra - la Gradiva di cui si innamora Norbert Hanold, archeologo, in una celebre novella di Wilhelm Jensen scritta nei primi anni del Novecento, che appassionò Freud. Da una lontananza di secoli, l’incedere della ragazza, colto nel dettaglio di quel piede alzato, scatena in Hanold un desiderio prossimo all’ossessione. E non importa che la Gradiva fosse una figura scolpita in un bassorilievo pompeiano; la storia di questo amore impossibile, di questa fantasia dolorosa, ha molto da dire sugli amori fra esseri in carne e ossa.
Marcel Proust, grande mistagogo dei tormenti del desiderio, ha scritto che le attrattive di una qualsiasi passante sono in genere in rapporto diretto con la rapidità del passaggio, con l’intuizione di una vita che non ci appartiene, di cui cogliamo al massimo un bagliore. Perché nasca il desiderio basta un dettaglio insignificante, spesso spiato, se ci colpisce nell’istante che retrospettivamente sarà chiamato il momento giusto: in genere, quando non ci si sente preparati, quando non si sta attenti, quando non si aveva niente da fare.
Non aveva molto da fare, probabilmente, nella Parigi del Secondo Impero, un certo dandy di nome Swann il pomeriggio in cui - racconta Proust nel primo libro della Recherche - un po’ per curiosità e un po’ anche per noia, va a trovare una piccola cocotte con un nome da gran dama che suona falso come un gioiello d’ottone, Odette de Crécy; la vede piegarsi in un gesto noncurante e imbronciato. E mentre lei si china per guardare da vicino un’incisione, lui - che l’aveva già incontrata, e covava un sottile fastidio per le imperfezioni della sua pelle e la sua aria malaticcia - si sorprende a rivedere in lei una somiglianza con la ninfa Sefora in un affresco di Botticelli.
L’istante del colpo di fulmine rimane fissato come una cesura nella memoria di chi lo vive ed è destinato a essere costruito e ricostruito nel ricordo, con tutte le falsificazioni del caso.
Giacomo Leopardi nello Zibaldone lo associa allo spavento che nasce, nel primo concepimento del desiderio, dalla prefigurazione della sua insaziabilità: «E lo spavento viene da questo, che allo spettatore o spettatrice, in quel momento, pare impossibile di star mai più senza quel tale oggetto, e nel tempo stesso gli pare impossibile di possederlo com’ei vorrebbe; (...) perché neppure il possedimento carnale (...) gli parrebbe poter soddisfare e riempere il desiderio ch’egli concepisce di quel tale oggetto; col quale ei vorrebbe diventare una cosa stessa (...); ora ei non vede che questo possa mai essere». E non sarà per caso se nello stesso brano Leopardi riconosce quanto sia profonda la descrizione «scherzevole» che Aristofane fa degli androgini.
È un destino inevitabile, quello prefigurato nello Zibaldone: perché un desiderio completamente appagato non è già più un desiderio. Chi ha visto molte stelle cadenti e per ognuna ha espresso un desiderio sa bene che, quando questo si realizzerà, sarà già cambiato qualcosa in lui, o in lei, rispetto alla notte d’estate in cui ha visto la scia luminosa nel cielo.
Però, molto probabilmente, a ogni nuovo San Lorenzo se lo dimenticherà, e continuerà a esprimere desideri, e a concepirne molti di più di quelli che poi esprime. Il desiderio non conosce il principio dei vasi comunicanti o altri equilibri meccanici di riempimento e svuotamento; il solo fatto di desiderare cambia la persona che desidera e questo può generare grandi delusioni. Lo scrittore americano Truman Capote scelse di intitolare il suo libro di memorie Answered Prayers, da una frase di Teresa d’Avila: «Niente è più tremendo di una preghiera esaudita». Il libro è rimasto incompiuto.
È sempre con il senno di poi che riviviamo l’istante in cui il desiderio si è acceso, portando a conseguenze allora imprevedibili: per questo abbiamo la tentazione - e l’abitudine - di applicare a quello stesso istante un fatalismo che non gli appartiene, di rileggerlo in maniera quasi superstiziosa. Non c’è niente di fatale, invece: un colpo di fulmine non obbedisce a nessuna predestinazione.
È vero, spesso ci si innamora senza farci caso, in un attimo di disattenzione; questo non significa, però, che in quei momenti si sia meno presenti a se stessi. Lo si è, anzi, di più: Swann era più che mai se stesso quando, facendo visita a Odette con la mezza scusa di mostrarle un’incisione che sapeva non interessarla troppo, ritrovava in sé l’occhio del collezionista innamorato di arte rinascimentale. Quando non ci si sovraccarica di aspettative e non si rincorre niente - neppure l’immagine di sé che si vuole mostrare agli altri - è allora che si è più vicini alla propria essenza.
L’attimo in cui intravvediamo distrattamente una vita che non potrà mai appartenerci del tutto - perché non sarebbe più la vita di un altro ma una proiezione della nostra o, nel migliore (peggiore?) dei casi, un suo prolungamento - non è per forza un segno di vulnerabilità, anche se possiamo raccontarcelo così.
È il momento in cui smettiamo di fissare la ferita inferta dal coltello di Zeus e ci accorgiamo della presenza reale di un altro: e proprio lo slancio verso quell’altro ci fa muovere, sulle due gambe che ci restano.
Fichte e la superiorità tedesca
di Giuseppe Bedeschi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 21.08.2016)
Da molti anni Johann Gottlieb Fichte non è più al centro degli studi e delle dispute filosofiche. Eppure la sua opera merita ampiamente di essere ripresa e discussa, se si vuole intendere davvero la storia etico-politica tedesca dalla fine del Settecento all’unificazione bismarckiana della Germania e oltre. Nel pensiero di Fichte, infatti, sono presenti molti motivi statalistico-nazionalistici, che avranno sviluppi drammatici nel secolo che ci siamo lasciati alle spalle: il Novecento.
Questa mia affermazione può forse stupire. Il pensiero di Fichte non si forma infatti a contatto con la Rivoluzione francese, e non inizia con una ferma difesa di essa? Fu lo stesso Fichte, del resto, a sostenere un’affinità globale e profonda tra la Grande Rivoluzione e la propria filosofia: «il mio sistema - scrisse in una lettera a Baggesen del 1795 - è il primo sistema della libertà: come quella nazione [la Francia] scioglie l’uomo dalle catene esterne, così il mio sistema lo scioglie dalle catene delle cose in sé, dall’influenza esterna, e lo pone nel suo vero fondamento primo come essere indipendente».
Del resto, l’influsso di Rousseau è ben percepibile nella costruzione politica di Fichte. Lo Stato nasce da un contratto di unione di tutti con tutti, che dà vita a una totalità in cui il singolo è legato stabilmente all’insieme. È vero che Fichte non teorizza la separazione dei poteri, in quanto per lui il potere esecutivo comprende in sé anche il potere giudiziario e quello legislativo, poiché, se il governo dovesse sottomettersi ai verdetti dei giudici, sarebbe loro sottoposto; mentre il potere legislativo ha come suo compito non quello di creare nuove leggi, bensì quello di applicare la legge fondamentale, che è data dalla coesistenza giuridica degli individui.
È evidente che in questo modo il potere esecutivo viene ad avere una enorme forza (governa, emette ordinanze, controlla la giustizia), e si configura di fatto come un governo assoluto. Ma il potere esecutivo trova un significativo contrappeso nell’eforato, che emana direttamente dalla comunità. Gli efori, infatti, possono sospendere un procedimento giudiziario, così come possono sollevare dal loro incarico tutti o alcuni membri dell’esecutivo. Gli efori, poi, convocano la comunità, e affidano a essa il giudizio ultimo: questo giudizio è infallibile, perché il popolo riunito è il depositario della razionalità politica.
Si avverte chiaramente, in questa costruzione fichtiana, un impasto, per così dire, di motivi autoritari e di motivi democratici. Ma successivamente, nell’evoluzione del filosofo tedesco, saranno i motivi autoritari ad avere la prevalenza. Il testo decisivo, in questo senso, è Lo Stato commerciale chiuso (1800), che viene ora riproposto da La Vita Felice. In questo famoso saggio Fichte delinea uno Stato che interviene assai largamente nella vita economica. Le classi che costituiscono tale Stato (i proprietari terrieri, gli artigiani e i commercianti) si impegnano, con il controllo statale, a usare e a consumare i loro prodotti. E se i produttori o proprietari terrieri finiscono per avere una posizione di vantaggio rispetto alle altre classi, lo Stato ristabilisce subito l’equilibrio. Allo stesso modo lo Stato stabilisce i prezzi delle merci, decide il numero di coloro che si dedicano ai mestieri, fornisce strumenti di lavoro agli agricoltori, abitazioni, vestiario, eccetera.
Lo Stato commerciale chiuso (che è tale perché in esso i governanti devono porsi come obiettivo una piena autarchia, e di conseguenza i privati non possono commerciare con l’estero) è chiaramente uno Stato interventista-autoritario, in cui la libera iniziativa dei cittadini è pressoché annullata.
Questo modello autoritario si carica di motivi nazionalistici nei celebri Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808). Naturalmente, non bisogna perdere di vista il fatto che con tali Discorsi Fichte reagiva alla dominazione francese sulla Germania. Ma in essi svolge un ruolo prepotente un popolo (Volk), anzi un «popolo originario» (Urvolk), il popolo per eccellenza: ovvero i Germani, che furono il ceppo originario delle nazioni dell’Europa post-romana. Qui ogni spunto democratico-liberale è scomparso, e Fichte incomincia un cammino che darà tristi frutti nella storia tedesca. Utilizzando alcuni risultati della linguistica romantica, il filosofo si propone di dimostrare la potenziale superiorità del popolo tedesco e la missione rigeneratrice che la storia gli ha assegnato. Infatti le popolazioni di stirpe germanica parlano una lingua «viva», mentre i popoli neo-latini si esprimono in lingue morte. Solo i Tedeschi producono una cultura autentica, fondata sull’unità di pensiero e azione, capace di estendersi a tutto il popolo; i popoli non germanici, invece, producono una cultura astratta e formale, limitata ai ceti più elevati. In altri termini - come ha osservato giustamente Massimo Mori nel suo libro La ragione delle armi - per Fichte soltanto i Tedeschi costituiscono un vero popolo e una vera nazione.
“Storia delle donne filosofe”
di Alessandra Pigliaru *
Ragionatrice sottile e maestra d’eloquenza, sono alcune delle espressioni che si ritrovano nel Menesseno di Platone e nel quarto libro degli Stromati di Clemente Alessandrino riferibili ad Aspasia di Mileto che insegnò retorica a Pericle e filosofia a Socrate.
Ciò nonostante, simili appellativi venivano assai raramente utilizzati per il suo sesso; così segnala Gilles Ménage in un libro piccolo quanto fondamentale dal titolo Mulierum philosopharum historia, scritto in prima istanza nel 1690 e ampliato due anni dopo.
Arrivato in Italia solo 11 anni fa grazie alla traduzione e cura di Alessia Parolotto per le edizioni ombre corte, Storia delle donne filosofe (pp. 115, euro 9) viene ora rieditato per essere letto, studiato e sgranato con curiosità.
L’introduzione di Chiara Zamboni colloca acutamente la figura di Ménage, l’abate francese che oltre a essere stato un grande latinista e grammatico fu precettore di madame de Sévigné e madame de Lafayette.
Le sue relazioni in quegli anni straordinari, dai salotti delle Preziose all’immersione in quella che Benedetta Craveri ha poi chiamato e descritto nel suo La civiltà della conversazione, possono essere lette come il frutto di un’attenzione rara nei confronti di 70 pensatrici dell’antichità classica.
L’esercizio di Ménage, senza precedenti, rimane un isolato e pur tuttavia importante censimento filosofico, esito di una erudizione raffinata e rigorosa che fa avere fiducia sullo stato dei documenti consultati - seppure non tutti di immediato reperimento. Setacciare trattati, lessici, opere filosofiche è servito così a imbastire un ritratto a più voci.
Le fonti di riferimento utilizzate da Ménage sono quasi tutte maschili e, come sottolinea Zamboni nella introduzione, l’insistenza sul legame tra biografia e pensiero era in linea con la tradizione del suo tempo.
Accanto alle più note Ipazia e Diotima, maestre di eccellenza e amore per la sapienza, altre si fanno avanti e vengono per la prima volta suddivise per appartenenza di scuola - là dove se ne possa avere in qualche modo conferma. Di scuola incerta infatti restano ancora tante che vanno a comporre la prima parte del volumetto di Ménage.
Così accanto al nome di Aspasia risuonano quello di Cleobulina, Panfila, Giulia Domna, Eudocia, Novella e altre. E poi Temistoclea (nella Suda - lessico enciclopedico compilato intorno al 1000 - viene chiamata Teoclea), sorella di Pitagora a cui già Diogene Laerzio attribuisce la maggior parte dei precetti morali del più noto filosofo. Insieme alle pitagoriche, che sono anche le più numerose, sono presenti Epicuree, Ciniche, Stoiche, Accademiche, Peripatetiche, Platoniche, Cirenaiche.
E seppure di tutte le filosofe non resti quasi niente in termini di scritti, il lavoro di Gilles Ménage non si riduce a un contributo elenchico criticamente muto; bensì concorre a delineare una fisionomia storico-filosofica che anni dopo verrà decostruita e fatta definitivamente saltare dal femminismo.
*
Alessandra Pigliaru
* http://pigiotto.blog.tiscali.it/2016/08/19/storia-delle-donne-filosofe/?doing_wp_cron - Venerdì, 19 Agosto 2016
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITà. --- ’Histoire des femmes philosophes’. Se ci si chiede chi sia l’autore, Gilles Ménage, si scopre che viveva nel diciassettesimo secolo, era un latinista precettore di Madame de Sévigné e di Madame de Lafayette e il suo libro, apparso nel 1690, s’intitolava ’Mulierum philosopharum historia’ (di Umberto Eco - Filosofare al femminile).
I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!!
ANTROPOLOGIA come ANTROPOLOGIA o come "ANDROPOLOGIA" E "ANDRAGATIA"?! L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE (E DEL FIGLIO), DI "MAMMASANTISSIMA":
Miti d’oggi
Insegnare l’antropologia nelle scuole, arma contro fondamentalismo e razzismo
di Marino Niola (la Repubblica, Venerdì, 12.07.2016)
Insegnare l’antropologia culturale nelle scuole per sconfiggere integralismo, radicalismo e razzismo. Lo hanno chiesto alle Istituzioni della Ue i rappresentanti delle associazioni antropologiche europee che si sono riuniti nei giorni scorsi a Milano rispondendo all’appello delle due sigle italiane, Anuac e Aisea. È singolare che in un mondo sempre più globalizzato e multiculturale, dove forme di vita, tradizioni, identità e religioni diverse convivono gomito a gomito, manchi totalmente nelle nostre scuole una qualsiasi educazione alla differenza. Che sarebbe invece il presupposto indispensabile per costruire un dialogo interculturale pacifico.
Insomma conoscenza contro diffidenza. E contro violenza. Che spesso nascono dall’ignoranza reciproca. E dalla paura dell’altro. È paradossale, secondo Cristina Papa, presidente dell’Anuac, che in uno scenario del genere la scuola, che avrebbe il compito di formare i cittadini di domani, non preveda l’insegnamento dell’antropologia, l’unica scienza che studia proprio le differenze, ma anche le compatibilità tra culture, modi di vita, usi e costumi dei diversi popoli. E che oggi sarebbe fondamentale sia per i ragazzi europei sia per i migranti di seconda e terza generazione che, sempre più spesso, reagiscono negativamente all’impatto con il paese ospitante. Col risultato, che è sotto i nostri occhi, di rinchiudersi nella propria apartheid identitaria. E di radicalizzare la propria origine, o la propria religione, trasformandole in un’arma a disposizione del fondamentalismo. È indispensabile che la scuola e l’università colmino questo anacronistico ritardo formativo. E facciano della competenza antropologica la chiave di volta di un nuovo umanesimo.
La questione Heidegger. Jean-Luc Nancy riapre il dossier
di Luigi Azzariti-Fumaroli (Alfabeta-2, 30 luglio 2016)
In un saggio apparso nel 1969 Iris Murdoch osservò che «in filosofia è difficile capire se si sta dicendo qualcosa di sensato e obiettivo o se si sta solamente erigendo una barriera, adatta al proprio temperamento, contro le proprie paure personali». L’affermazione, una volta sottratta a labili letture esistenzialiste, sembra introdurre a un piano che non può essere compreso concettualmente, poiché esso è appena illuminato da una luce fioca ed incerta, che lascia soltanto cogliere l’ombra sfuggente che «dorme addosso e ferisce il fianco» d’ogni pensiero. La biografia di Martin Heidegger, a dispetto di quanti vorrebbero mantenerla avvolta in un’olimpica perfezione aliena a ogni tremito, è, nel Novecento, fra quelle che maggiormente tradiscono fragilità alla luce delle quali un’intera filosofia si rivela racchiusa in un disperato solipsismo.
A questo riguardo, se le congetture a proposito di un tentativo di suicidio che si sarebbe verificato fra il 1937 e il ’38 non sono mai state suffragate da prove certe, è però senz’altro vero - come ha documentato anni fa Michele Ranchetti - che nell’estate del ’45 Heidegger fu ricoverato in una clinica psichiatrica a seguito di un crollo nervoso. Nel diario ch’egli tenne in quei giorni si rinvengono alcune affermazioni decisive per provare a condurre un’analisi che non si risolva nell’accertamento dell’evidenza frontale della sua riflessione, ma tenti di cogliere ciò che in essa giace sul fondo, trasversalmente. Vi si fa riferimento, in particolare, a una «situazione di smarrimento, di stallo, di disperazione», che parrebbe «del tutto consueta»: è - scrive - «la descrizione della mia normalità», «e forse della mia filosofia».
Prestando fede a tale confessione, e dunque accedendo all’idea che il pensiero heideggeriano smarrisca ogni punto di riferimento, procedendo alla deriva sino al definitivo naufragio, si può meglio riflettere sul perché a partire dai Contributi alla filosofia del 1936-1938, quasi non vi sia pagina - ha osservato Franco Volpi - non intrisa «dalla triste luce dell’esaurimento», mentre l’Essere sarebbe rimasto «l’ultima chimera che valesse la pena sognare», lasciandosi ogni volta sorprendere dalle sue mutazioni sempre eccedenti l’essere-sé o l’essere come sé.
Tale era stata l’immagine di Heidegger che maggiormente si era imposta nel corso della seconda metà del Novecento; suscitando, specialmente in ambito francese e italiano, una sorta di attrazione onirica, sospesa fra coscienza e incoscienza. Il progresso «inedito e irreversibile» aperto nella storia della filosofia dall’autore di Essere e tempo, specialmente negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, si volle rinvenire nel considerare l’essere «non come ciò che non può non essere, bensì come ciò che diviene, che nasce e muore, che ha una storia»: un essere «tarlato», secondo l’icastica definizione di Gianni Vattimo.
Ancora di recente Jean-Luc Nancy, in un saggio tempestivamente tradotto da Antonella Moscati per Cronopio, scrive al riguardo: «non possiamo non riconoscere che proprio da Heidegger sono venuti gli slanci e gli sforzi che avrebbero aperto nuove strade», percorrendo le quali si sarebbe pervenuti a concepire l’essere al di fuori di qualsiasi sua esatta determinazione, inducendo non da ultimo a profilare la possibilità di un’affinità segreta fra la sua filosofia e «un certo ebraismo». Ma tale ultima evenienza - avverte lo stesso Nancy - si rivela ormai insostenibile: troppo acuto è il suo stridere con quanto, a mano a mano che la loro pubblicazione procede, si evince in modo inconfutabile da alcuni passi dei Quaderni neri (pubblicati in Italia, fra rumorose polemiche, da Bompiani: di quest’anno il secondo volume, che comprende i quaderni del 1938-39), nei quali le proposizioni di chiaro segno antisemita, e le conseguenti affinità e sincronie ideologiche con le politiche naziste, frangono ogni silenzio, vanificando ogni tentativo di voler dedurre proprio da questa sigetica, da questa strategia del silenzio - come, nel 1988, suggerì Derrida -, un retaggio ancora da pensare.
Nancy lo osserva con amaro disincanto, incapace di trovare una spiegazione per l’abiezione con la quale una filosofia, ch’era parsa svettare per originalità e rigore su tutte le altre, si mostra sempre più frammista. È, quello di Nancy, un travaglio segnato da un’ideale agnazione tradita, da un’eredità guasta che, fino all’ultimo, si vorrebbe riscattare: ravvisando una giustificazione plausibile a ciò che l’evidenza condanna come osceno, quale modo d’essere che «appartiene a ciò che è totalmente privo di grazia».
Quanto emerge dai Quaderni inficerebbe infatti proprio quel richiamo alla grazia che Heidegger in più luoghi della sua opera non manca di compiere, certo consapevole che il greco «charis» a sua volta traduce il nome ebraico (chen) nel quale si condensa «l’ingiustificabile giustificazione che può venire dal completamente-fuori».
Sarebbe sotto questo profilo riduttivo ricondurre - come voluto dal curatore dell’edizione originale dei Quaderni, Peter Trawny, in Heidegger e il mito della cospirazione ebraica (Bompiani 2015) - la portata delle annotazioni redatte nell’arco di un quarantennio, dal 1930 al 1970 (e consegnate agli Schwarze Hefte, con l’espressa volontà di non renderle pubbliche fino a quando non fosse terminata l’edizione delle Opere complete), a un istupidirsi del pensiero del filosofo tedesco, quasi suo malgrado trascinato «nella peggiore e più malevola banalità» dal torbido vaniloquio fomentato dai Protocolli dei Savi di Sion. Occorre piuttosto tornare a considerare l’intero precipitato heideggeriano, senza indulgere in ammirazioni supine, né in transfert a occhi aperti.
Ed è a questo approdo che, con formidabile capacità d’analisi, invita la lezione di Nancy, nel soffermarsi a considerare la palinodia che Heidegger di nascosto parrebbe aver costantemente compiuto rispetto a un pensiero che dichiarava e rivendicava, con mirabile persuasione illusionistica, definitive differenze rispetto a ogni altra ontologia della pura presenza, ma che nelle sue latebre era affetto da un’inesorabile sclerosi autarchica, unita alla più bigia e greve xenofobia.
Come, in Da fuori (Einaudi 2016), ha con lucidità osservato Roberto Esposito, il tratto precipuo delle analisi di Heidegger è da considerarsi dominato da un assoluto accentramento: l’intera sua semantica non può infatti che dirsi dominata da un «centro raddoppiato su se stesso». È dunque a cospetto di tale egotismo che deve porsi l’interrogativo già avanzato da Derrida e rilanciato da Nancy: se una metafisica razzista e in particolare antisemita, che, contrariamente a quanto sostenga una certa «filologia col botto», i Quaderni neri attestano in diversi passi, sia più o meno grave di un naturalismo o di un biologismo razziali. Le risposte che al riguardo sono provenute hanno voluto sottolineare il nesso che legherebbe Heidegger a una lunga serie di filosofi, cominciando da Agostino e proseguendo fino a Nietzsche, accomunati da un inquietante spregio nei confronti del popolo ebraico.
In questo senso secondo Donatella Di Cesare, autrice di Heidegger e gli Ebrei e di Heidegger & Sons (Bollati Boringhieri, 2014 e 2015), più che al nazionalsocialismo, per spiegare l’avversione che il pensiero heideggeriano nutre nei confronti degli ebrei, occorrerebbe far riferimento al loro essere un popolo senza radici, e per questo scisso, separato da un Essere che Heidegger, contrariamente a quanto tentato in Essere e tempo (1927), pare sottomettere sempre più a un ordine di discorso concluso e rigidamente determinato.
Ma il limitarsi a ritenere, assecondando il dettato dei Quaderni, che l’antisemitismo sorga in Heidegger in ragione di una possibile equivalenza fra ebraismo ed entificazione dell’essere, come si trae dai contributi recentemente raccolti in Reading’s Heidegger’s Black Notebooks (MIT Press 2016), se dà ragione di un progressivo coincidere della sua ontologia con le coercizioni omologanti proprie di un universo concentrazionario, non è sufficiente. Seguendo questo indirizzo interpretativo, si mancherebbe infatti di considerare che il pensiero ebraico produce una desostanzializzazione dell’«indogermanico essere» nella misura in cui lo immette in un divenire, in un avvenire, in un incontro, così da introdurre a una dimensione in cui è dato pensare - nelle parole di Nancy - un esistere «senza denominazione e senza destinazione».
La massima distanza fra l’ontologia heideggeriana e l’Être juif sarebbe pertanto da far risalire all’apertura di quest’ultimo a quella paradossale insecuritas di cui Abramo, chiamato a essere straniero abitando, appare la più emblematica incarnazione. «Al mito di Ulisse che torna ad Itaca», il pensiero ebraico - ha scritto in un’intensa pagina Emmanuel Levinas - «contrappone la storia di Abramo che abbandona per sempre la propria patria per una terra ancora sconosciuta e che proibisce al suo servo di ricondurre perfino suo figlio a quel punto di partenza».
All’opposto, in Heidegger l’idea di erranza è sempre destinata a un compimento, a una meta, a una risposta. Aver creduto il contrario, ritenendo che nella sua riflessione gli estremi dell’ebreo-greco e del greco-ebreo potessero incontrarsi, è forse l’errore con il quale - ammette anche Nancy - occorre misurarsi, non tanto per chiarire il peso che la «questione ebraica» riveste in Heidegger, quanto perché il suo antisemitismo comporta l’«aggravarsi» di un pensiero che, movendo dall’esegesi heideggeriana, aveva inteso verificare le condizioni di possibilità per un superamento del nostro vivere nella e della differenza fra l’Ebreo e il Greco, onde consentire «il movimento della significazione» al di là dell’ontologia. «Non basta» - scrive risoluto Nancy - «che essere non si sottometta ad alcuna “ontologia”», occorre assumere il rischio di ricominciare a pensare senza ambire ad alcuna conclusione, ad alcuna identità che non sia, insieme, alterità, ad alcuna presenza che non sia anche assenza. Solo «per questo - notava Fëdor Tjutčev - deve esserci la notte paurosa».
Storia. Mentre compone una cartografia del discorso nazista, Johann Chapoutot sottrae a quel crimine e a quella colpa ogni pretesa di eccezionalità: «La legge del sangue»
di Massimiliano De Villa (il manifesto, 17.07.2016)
«La poiana non avrà mai il suo nido insieme al pipistrello»: perentoria, anzi apodittica, la sentenza si affaccia dalle Fonti del diritto tedesco di Walter Buch, giudice supremo del partito nazionalsocialista. Dentro questa sola immagine, la più secca smentita dei Lumi e della Rivoluzione francese: è chiaro che l’egualitarismo orizzontale, uscito dalle fucine del pensiero illuminato e rivoluzionario, non incontra il favore delle camicie brune. «L’essenza, non solo degli uomini ma anche di ogni cosa, è la differenza», seguita l’autore imboccando la strada del paradosso. Che di paradosso si tratti è evidente al lettore odierno, che conosce le conseguenze e le ricadute storiche di questo pensiero, ma non lo era a chi scriveva queste parole o ai destinatari del messaggio, immersi in un quadro culturale coeso e inossidabile. Questo che inneggia alla differenza come valore aggiunto sembrerebbe uno slogan multiculturale, non fosse per il richiamo all’«essenza», concetto fermo e stabile, che traccia il perimetro di una costituzione originaria, non negoziabile e legata alle cose nel loro primo manifestarsi.
Un’essenza che, percorrendo il filo di questa logica, fonda la differenza e chiede di essere salvaguardata a ogni costo. Un’essenza che alberga nel sangue. E il sangue è - sempre seguendo da vicino l’argomentazione compatta e legnosa del nazipensiero - concetto passe-partout e vera testata d’angolo: strato oscuro e pesante che chiama alla vita, che scorre nella catena dei padri e delle madri, che nutre l’individuo, nel discendere delle generazioni.
È per le vie del sangue che si strutturano l’identità e l’appartenenza, nel legame con i gangli dell’esistere, con i nuclei biologici primari. Nel sangue si determinano la volontà e il pensiero, si cementa una comunità di uomini. Uomini del passato, del presente e del futuro, che dividono la stessa sostanza biologica. Quella tedesca - recitano monocordi gli scritti di diffusione del discorso nazista - è una «comunità del sangue», il cui vincolo si rinsalda lì dove la vita, la vita pura, trae origine e che congiunge anello ad anello nella continuità della discendenza, facendo della comunità popolare germanica un grande, secolare organismo.
In gioco è dunque lo ius sanguinis, e della specie più scura, che unisce i fratelli di stirpe nel rifiuto di quanti a questo sangue non partecipano. La sostanza germanica è, prima di ogni costruzione culturale, l’evidenza di un sangue che è necessario isolare, analizzare nella sua purezza, proteggere da contaminazioni e misture: da qui l’esclusione dei corpi estranei, gli ebrei prima di tutto, ma non solo. Sono questi i fondamenti della giurisprudenza nazista e della sua legislazione razziale. Niente di nuovo fino a qui, soprattutto nelle strettoie della sintesi.
Nella pioggia di studi sul nazismo composti in mille chiavi - storica, sociologica, politica, filosofica, antropologica, teologica - e nella gamma qualitativa che naturalmente accompagna la quantità, il libro di Johann Chapoutot, La legge del sangue Pensare e agire da nazisti (traduzione di Valeria Zini, Einaudi, pp. 463, euro 32,00) si distingue per taglio e accuratezza, essendo tutto fuorché sintetico e semplificatorio. Tema fondante del volume è la ricostruzione dell’universo mentale che unisce, in un unico orizzonte di riconoscibilità, tutti gli attori del discorso nazista, dagli ideologi, ai quadri, ai militanti, agli sgherri, ai criminali senza ulteriore sfumatura.
Le coordinate del pensiero nazista sono nette, percorse dalla forza e dalla rigidità dell’assioma, e descrivono la «coerenza rassicurante di un sistema chiuso, che si basava su alcuni postulati particolaristici e sulla deduzione implacabile delle loro conseguenze». Il merito del saggio di Chapoutot è nel disegno di una geometria del discorso nazionalsocialista, nella ricostruzione di un quadro di riferimento comune, il cui universo di significati, di principi e di (dis)valori viene scandagliato in modo reticolare, a partire dai nodi concettuali e lungo i rami delle loro molteplici variazioni e modulazioni.
Data per acquisita la sempre necessaria riflessione sulla dialettica tra cultura e barbarie, sul fondamento distruttivo di ogni umanesimo; bandita ogni scorciatoia che derubrichi il pensiero e soprattutto le pratiche del nazismo a figli di un’aberrazione vertiginosa o a esiti di un folle calcolo - la famosa «lucida follia», sintagma che, passando di bocca in bocca, si è da tempo logorato - lo studio di Chapoutot attinge a un serbatoio documentale di amplissima portata: un corpus di scritti - più di un migliaio - che vanno dalla scrittura pubblica a quella privata e passano per pagine di carattere informativo o divulgativo, per volantini ad usum militis, opuscoli, colonne di quotidiano, pamphlet, discorsi pubblici, stralci di diario o di lettere fino alle immagini squadrate e icastiche dei filmati didattici di regime.
Su queste testimonianze si struttura l’orientamento culturalista al nazismo di Chapoutot che, stazione dopo stazione, attraversa tutti i cardini del discorso bruno: la battaglia ingaggiata contro il giudaismo e il cristianesimo, colpevoli di avere instradato la serena e luminosa naturalità germanica verso una sterile antinatura, gravata dalla colpa e dal peccato, segnata dalla condanna del corpo e, va da sé, porta d’accesso di ogni stortura figlia della repressione. E ancora, per conseguenza, la paganizzazione della religione o, come minimo, la sua degiudaicizzazione per consentire a un tedesco di ceppo sano e di pura razza di seguire un profeta nato in Giudea. Resta comunque il fatto che «Gesù ha più familiarità col lago di Tiberiade che con le dune di Rügen».
Poi il rifiuto del diritto romano, soprattutto nella sua versione tarda e bizantina, e la rifondazione di un diritto germanico ancorato alla vita e alla forza, al senso buono del contadino che vive in accordo con le leggi della terra e con i cicli delle stagioni. Un’archeologia normativa, dove l’arcaico è la cellula primordiale per una rifondazione giuridica della nuova Germania.
Ancora, di capitolo in capitolo, Chapoutot descrive le politiche razziali, con gli inviti alla procreazione e la selezione, su base eugenetica, dei più forti e dei migliori, la sterilizzazione dei soggetti la cui prole sarebbe indesiderata, lo sbarramento della via patologica per una comunità dove lo spazio è riservato, in esclusiva, ai puri e ai sani. In una parola, ciò che il pensiero nazista pretende è la revoca risoluta della dottrina della pietà, frutto avvelenato offerto da rabbini e preti, da sempre nemici della vita, alla nobile semplicità delle stirpi germaniche.
Il transito dalla biologia alla storia avviene poi, per estensione concettuale, sulle cadenze della legge del conflitto, la guerra razziale che apre, per ineludibile necessità storica, gli spazi dell’Est all’eterno popolo germanico, costretto in una terra insufficiente che ne frena la propulsione. Di qui, il tempo storico si squarcia verso l’escatologia del Regno, raggiunge la frontiera del millennio e va oltre, stabilendo il governo sul mondo, in un compiersi del tempo che è nient’altro che una rimasticatura, in chiave politica, di un messianesimo depurato dalla grammatica giudaico-cristiana.
All’avanzare degli anni e al restringersi degli spazi di libertà, la pretesa del sangue è sempre più imperiosa e, dal 1939 al 1945, si riversa nell’eliminazione di quella sub-umanità esclusa dal tocco aureo della purezza biologica: malati ereditari, individui asociali, nemici del popolo, fino alla creazione dell’universo concentrazionario, nella logica d’acciaio di un umanitarismo inverso: «Esigere che individui difettosi non possano più generare altri scarti», infatti «è l’atto più umano dell’umanità» perché «là dove regna veramente la volontà di Dio, nel cuore della natura, non si trovano tracce di pietà per il debole e per il malato».
Questo è ciò che si ritrova nel volume di Chapoutot: un’esatta cartografia del discorso nazista nella sua coerenza interna e, allo stesso tempo, una tessera significativa di storia sociale e intellettuale che toglie al crimine ogni manto di eccezionalità: recingere l’orrore dentro lo steccato della mostruosità e dell’incomparabilità è, infatti, operazione tra le più pericolose e facile via alla rimozione. «Facendo dei criminali soggetti estranei alla nostra comune umanità» - questo è il rischio che Chapoutot addita in ogni sua pagina, l’avvertimento che trapela dietro ogni stralcio documentale - «noi ci esoneriamo da ogni riflessione sull’uomo, l’Europa, la modernità, l’Occidente, su tutti i luoghi che i criminali nazisti abitano, dei quali partecipano, e che noi abbiamo in comune con loro».
HIROSHIMA SUL LUNGOMARE DI NIZZA. BREVE DISCORSO SUL NOSTRO ORRORE QUOTIDIANO E SUI COMPITI DELL’ORA
1. Ovunque e’ Hiroshima
In ogni luogo si puo’ essere sterminati.
Esistono armi cui non si puo’ sfuggire, e poteri assassini disposti ad usare quelle armi contro chiunque. L’umanita’ e unificata nel segno del dolore e della paura.
E questa violenza che dall’alto incombe su tutti, tutti contagia, e dagli eserciti passa alle milizie, dalle milizie alle mafie, e dai criminali ai reietti, dagli emarginati senza speranza alle persone fino a ieri integrate o equilibrate che un giorno il delirio offusca o la sventura abbatte e precipita nella sofferenza piu’ inesorabile e nel rancore che null’altro desidera se non che altri soffrano anch’essi, che anche ad altri sia strappato ogni bene, e di ogni bene il fondamento: la nuda vita.
E questa violenza trova sempre un’ideologia, infinite ideologie, che la giustifichino, che la glorifichino; e che effettualmente inducono esseri umani oppressi e infelici, o illusi e avidi, a farsi assassini.
I poteri imperiali hanno le atomiche, i proiettili a uranio impoverito, il fosforo bianco, i droni, gli equipaggiamenti robotici. Ma basta un mitra, una pistola, una daga. O anche: un aereo, un camion, un coltello per tagliare il pane che alla bisogna anche le gole squarcia, le nude mani del marito e del fidanzato.
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2. La guerra ha raggiunto le nostre citta’
Fino a ieri i nostri governi - ed i potentati economici di cui sono asservita espressione - compivano o commissionavano stragi altrove, ma strage dopo strage la piena del fiume di sangue ha rotto gli argini dilagando ovunque, il massacro sta arrivando nei nostri quartieri, nei nostri bar, nella redazione del giornale da ridere, nel locale del concerto pop, nel ristorante degli imprenditori, sulla passeggiata della festa, e alle stazioni dei treni, negli aeroporti, dinanzi agli stadi.
Questo terrorismo cellulare e artigianale che raggiunge le nostre citta’ e’ il nostro terrorismo coloniale e imperiale che in un movimento pendolare ritorna e ci investe. Ne e’ il prodotto diretto. Pochi giorni fa i mass-media davano notizia dell’uccisione di uno dei principali capi dell’Isis, detto "il ceceno", ed aggiungevano con noncuranza che era stato addestrato dagli americani. La carriera di terrorista di Bin Laden inizio’ in Afghanistan finanziata dagli Usa. La nascita dell’Isis e il suo radicamento territoriale (con la sua enorme efficacia in termini propagandistici, di reclutamento e di possibilita’ di addestramento e armamento) e’ conseguenza diretta delle nostre infamissime e scelleratissime guerre che hanno destrutturato l’Iraq, la Siria, la Libia.
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3. Aprire gli occhi
Certo, noi vediamo solo le stragi che avvengono dove i nostri telefonini le riprendono, le nostre televisioni le trasmettono. E non vediamo il massacro quotidianamente eseguito dai nostri aerei, le nostre bombe, i nostri armamenti venduti ed usati nei continenti delle dittature e della fame, della schiavitu’ e della desertificazione, della rapina imperialista e razzista.
Certo, noi ci sentiamo il cuore spaccato quando muore un nostro concittadino, e non vediamo le innumerevoli vittime delle nostre guerre, che consentiamo che siano chiamate "missioni di pace", che arricchiscono il "made in Italy" dei mercanti di morte, e neppure ci accorgiamo che i milioni di esseri umani in fuga dall’Africa e dall’Asia che muoiono nei lager turchi e libici, che muoiono nel braccio di mare tra l’Anatolia e Lesbo, che stanno colmando di cadaveri il Mediterraneo, sono i nostri governi a trucidarli, in una immane mattanza. L’orrore e’ tale che non lo percepiamo piu’.
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4. Tornare a sentire, tornare a pensare
Questo dovremmo innanzitutto fare: tornare a sentire, tornare a pensare.
Tornare a pensare alla condizione umana nell’eta’ atomica con Guenther Anders, tornare a pensare alle tre verita’ di Hiroshima di cui ci parlava Ernesto Balducci, tornare a pensare i nostri pensieri in dialogo con i pensieri di Mary Wollstonecraft, di Karl Marx, di Rosa Luxemburg, di Virginia Woolf, di Simone Weil, di Mohandas Gandhi, di Hannah Arendt, di Emmanuel Levinas, di Nelson Mandela, di Wangari Maathai, di Franca Ongaro Basaglia e di Luce Fabbri.
Riconoscere che ogni vittima ha il volto di Abele.
Riconoscere che vi e’ una sola umanita’, che esiste nella pluralita’ di esseri umani tutti diversi e tutti eguali in dignita’ e diritti, tutti ugualmente bisognosi di aiuto, tutti ugualmente viventi in quest’unico mondo vivente casa comune dell’umanita’, tutti ugualmente esposti al dolore e alla morte e quindi tutti in diritto di ricevere aiuto e tutti in dovere di recarlo altrui.
Opporsi alla guerra e a tutte le uccisioni. Giacche’ togliere la vita ad un essere umano (ovvero rapinarlo di quell’unico bene senza del quale nessun altro bene si da’) significa ed implica negare l’umanita’ di tutti e di ciascuno, anche la propria.
Opporsi al razzismo e a tutte le persecuzioni. Giacche’ negare la dignita’ umana di qualcuno significa ed implica estinguerla in tutti, innanzitutto in se stessi.
Opporsi al maschilismo e a tutte le oppressioni. Sapere che l’oppressione maschile che spacca in due l’umanita’ e pretende ridurre meta’ dell’umanita’ a servo e merce e cosa e possesso - e che cosi’ disumanizza l’umanita’ intera, nelle vittime e nei carnefici - e’ la prima radice e il primo paradigma di ogni violenza.
Opporsi al totalitarismo e alla schiavitu’, opporsi alla violenza non solo nei confronti degli altri esseri umani, ma anche nei confronti degli esseri viventi e del mondo vivente tutto, quest’unico mondo vivente di cui siamo parte, quest’unico mondo vivente in cui possiamo vivere.
Ricordarsi di essere fallibili.
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5. Cosa occorre fare subito
Abolire le armi.
Abolire gli eserciti.
Soccorrere, accogliere, assistere tutte le persone bisognose di aiuto.
Nei luoghi della sofferenza recare aiuti umanitari: tutto e’ interconnesso, tutto e’ interdipendente.
Del sapere e della tecnica fare uso non piu’ per opprimere e rapinare e asservire altri, ma per recare assistenza e giovamento.
Educare al rispetto di se’ e quindi al riconoscimento degli altri e quindi alla riconoscenza per gli altri, all’empatia ed alla responsabilita’. Educare alla consapevolezza che la civilta’ umana e’ un cammino unitario e un compito comune, che l’umanita’ e’ plurale e una, che ogni persona deve sentirsi responsabile di tutto.
Avere sempre come primo criterio di giudizio la liberta’ delle donne: dove sono negati, misconosciuti o violati i diritti umani delle donne, li’ e’ gia’ il fascismo.
Riconoscere a tutti gli esseri umani il diritto di muoversi su quest’unico mondo casa comune.
Prendere le decisioni che tutti riguardano sempre e solo col consenso di tutte le persone coinvolte.
Tutto cio’ puo’ esser detto con una sola parola: nonviolenza.
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6. Solo la nonviolenza puo’ salvare l’umanita’
Chiamiamo nonviolenza la lotta che a tutte le violenze si oppone ed opera in modo concreto e coerente affinche’ tutte le vite siano riconosciute, difese, salvate.
Chiamiamo nonviolenza la lotta delle oppresse e degli oppressi per la liberazione comune dell’umanita’ e la preservazione della biosfera.
Chiamiamo nonviolenza la consapevolezza che solo facendo il bene ci si puo’ opporre al male, solo salvando le vite si contrasta la morte, solo agendo umanamente si resta umani.
Trattare l’umanita’ con umanita’: tu sei il prossimo del tuo prossimo.
Questa e’ la politica necessaria, la sola politica adeguata alla tragica ora presente dell’umanita’.
Questo e’ l’unico modo per non dimenticare tutte le vittime.
Rispetto per la vita, forza della verita’, amore per il mondo: solo la nonviolenza puo’ salvare l’umanita’ dalla catastrofe.
Peppe Sini, responsabile del "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" di Viterbo
Viterbo, 15 luglio 2016
Mittente: Centro di ricerca per la pace e i diritti umani, strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, -e-mail: nbawac@tin.it, centropacevt@gmail.com, centropaceviterbo@outlook.it
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-PO-LOGIA" ATEA E DEVOTA....
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
L’eccellenza del Nietzsche italiano
di Federico Vercellone (La Stampa, 10.07.2016)
Tra le poche cose che vanno relativamente bene in Italia c’è la filosofia. Nonostante il totale disinteresse della classe politica nei confronti della ricerca, l’Italian Theory emerge con ottimi risultati anche sul piano internazionale.
La filosofia italiana del secondo Novecento è segnata nel suo percorso dalla presenza influente della grande filosofia classica tedesca. È una vicenda che si avvia da lontano, perlomeno dalla grande rilettura di Hegel prodotta dal neo-hegelismo napoletano e da Benedetto Croce. Successivamente, grazie a Luigi Pareyson, emerge l’altro versante dell’idealismo tedesco, Fichte e Schelling, oltre a Goethe e ai romantici e a Nietzsche, nel quadro di un progetto filosofico volto a superare l’eredità neo-idealistica.
Proprio Nietzsche costituisce un punto di svolta. La grande impresa dell’edizione critica presso Adelphi delle Opere di Nietzsche, avviata nel 1964, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, apre un nuovo capitolo di notevole significato anche sul piano internazionale. È un capitolo che contribuisce a portare alla ribalta alcuni tra i più significativi filosofi italiani, da Massimo Cacciari a Emanuele Severino a Gianni Vattimo.
Su questo passaggio così significativo si sofferma Emilio Carlo Corriero in un volume ponderoso, equilibrato ed esaustivo uscito ora da Aragno, Il Nietzsche italiano. Il punto di avvio fondamentale, in un quadro per altro estremamente composito in relazione alla ricezione di Nietzsche, è l’idea di Crisi della ragione dibattuta in un volume del 1979 comparso da Einaudi a cura di Aldo Giorgio Gargani. Venuti meno i fondamenti della ragione classica, Nietzsche costituisce un indispensabile punto di riferimento per cogliere i tratti di un tempo di crisi dei fondamenti. Fare i conti con la «morte di Dio» e con il venir meno dei valori trascendenti comporta una rivoluzione del pensiero e dei modi di vita che mette in gioco aspetti fondamentali della nostra civiltà con implicazioni notevoli sul piano della convivenza civile, della morale pubblica, e della nostra provenienza religiosa dal mondo cristiano.
Fine della Storia o della "Preistoria"?
Un’idea di continente, Europa a braccia aperte
Gli storici antichi la descrissero diversa dall’Asia per clima e politica. E si accorsero che era più aperta all’accoglienza
di Martino Menghi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 10.07.2016)
Di fronte alle pesanti emergenze odierne, l’Europa sembra scontare la mancanza di un forte progetto politico unitario, come confermano le spinte centrifughe che l’attraversano. Un problema cui potrebbe porre rimedio prendendo spunto da una appropriata conoscenza dell’esperienza greco-romana, come sostiene Alejandro Bancalari Molina nella parte conclusiva del suo libro La idea de Europa. Una vicenda, allora come oggi, segnata da conflitti, da pregiudizi nei confronti dello straniero, ma anche dalla capacità di inclusione, di integrazione e di scambio culturale tra i popoli. Rivediamone i punti essenziali sulla scorta dell’eccellente lavoro di questo studioso.
Nel racconto del conflitto tra Greci e Persiani Erodoto ci fornisce una prima accezione di Europa come entità politica, economica e culturale contrapposta all’Asia. È per bocca di Demarato, un esule spartano presso la corte persiana, che viene enunciato questo dualismo. Interrogato da Serse sul possibile esito di quella guerra, gli ricorda che la Grecia è sempre stata un Paese “povero”, ma proprio questa sua condizione ha permesso agli Elleni di essere forti, di superare le difficoltà, di difendere fino alla morte la propria terra e la propria libertà dall’invasore.
All’opposto, la ricchezza dell’Asia, in mano al Gran Re, ha corrotto la massa dei sudditi, asservendoli al suo capriccio e deprivandoli del senso di una causa comune per cui lottare. Sulla base di questo stereotipo veniva letta e celebrata la vittoria dei Greci sui Persiani a Maratona e a Salamina (490; 480 a.C.).
Non c’è ancora in Erodoto una precisa delimitazione geografica dell’Europa, vagamente situata lungo un asse Nord-Est/Ovest che dal Tanai (Don) giunge fino alle Colonne d’Ercole (Gibilterra) passando per la Grecia e le sue colonie nel Mediterraneo. Con Ippocrate (fine del V secolo a.C.) e Aristotele (IV secolo a.C.), il discorso si amplifica in senso geografico e si radicalizza in quello ideologico. Per il primo, l’instabilità del clima dei popoli europei, ora situati anche nelle regioni settentrionali del continente, li rende più operativi e coraggiosi, mentre il clima più uniforme degli asiatici li spinge all’inerzia e alla pigrizia; di più, l’essere costoro governati da monarchi accentua la loro debolezza di carattere.
Aristotele, tripartisce l’ecumene, assegnando ai popoli settentrionali il coraggio ma non l’intelligenza, e a quelli asiatici l’intelligenza ma non il coraggio, per attribuire ai popoli mediani, ovvero ai Greci, sia l’uno che l’altra e la loro vocazione al dominio delle altre genti. Quest’ultima prospettiva conoscerà un’originale attuazione con Alessandro che, nel segno dello scambio culturale e dell’integrazione, unifica la Grecia con l’impero persiano in un’unica realtà economico-politica.
Erede di questa vicenda sarà Roma, che conquisterà in pochi secoli un impero esteso dalla Scozia all’Africa settentrionale, da Gibilterra ai Balcani e a parte del Medioriente, sempre grazie a una sapiente politica di integrazione dei popoli man mano conquistati.
Il dualismo Europa/Occidente vs. Asia/Oriente, archetipo di tanti stereotipi xenofobi e razzisti, è di fatto contraddetto dalla storia. Ma lo è anche dal mito, che della storia è in qualche modo il riflesso: il nome di Europa deriverebbe dall’omonima principessa fenicia che Zeus, nelle sembianze di un docile toro, rapì, portò a Creta e lì si unì a lei; Enea, il leggendario fondatore della stirpe romana, è un eroe troiano, fuggito dalla sua città conquistata dagli Achei. Lo è infine dall’esperienza del cristianesimo, nato in Palestina in seno al giudaismo, che nell’arco di pochi secoli diventerà la religione dello Stato romano ereditandone le istituzioni, la cultura, compresa la capacità di integrare i popoli barbari.
Il modello romano rivive nell’impero fondato da Carlo Magno, in quello di Napoleone, e infine nel progetto europeo del secondo dopoguerra. Ma di quel modello occorre oggi conoscere, per valorizzarli, i punti di forza, prima di cedere alla tentazione di andare ognuno per la sua strada.
Galline o esseri umani non fa differenza: siamo stati tutti un uovo
Il “laboratorio molecolare” per eccellenza è al centro delle ricerche di editing genomico
di Gianna Milano (La Stampa, TuttoScienze, 06.07.2016)
Siamo a Firenze, alla fine del Duecento: Dante siede su un muretto di fronte alla cattedrale. I suoi pensieri vagano assieme al volo degli uccelli. D’un tratto gli si avvicina uno sconosciuto e gli chiede: «Messere, voi che siete così dotto, potreste suggerirmi... qual è il miglior boccone?». Senza esitazione Dante risponde: «L’uovo». Una ghiottoneria, ma anche la matrice del concepimento degli esseri umani e della riproduzione di molte specie, come la gallina appunto, oltre all’oca, il piccione, lo struzzo, l’aquila.
«Se, come ebbe a dire Aristotele, “la natura non fa nulla di inutile”, l’uovo è lì a testimoniarlo. Questo straordinario laboratorio di biologia molecolare nella sua armonia e bellezza rappresenta in molte culture lo zero, l’origine della vita e del mondo». A raccontare è Carlo Alberto Redi, biologo all’Università di Pavia, che con Manuela Monti, ha pubblicato per Sironi «Storia di una cellula fantastica». Ovvero un percorso scientifico e culturale (nonché culinario) attorno alla cellula che dà origine a ciascuno di noi.
«La locuzione latina ab ovo, “dall’inizio”, include la concezione secondo la quale ogni essere vivente nasce da un uovo - aggiunge Redi -. Un’intuizione che si accompagna all’altrettanto tradizionale interrogativo “è nato prima l’uovo o la gallina?” (La risposta giusta è l’uovo). È attraverso la cellula germinale femminile, l’uovo, che si trasmette da una generazione all’altra il proprio Dna. La storia dell’uomo è anche la storia dell’uovo che, fecondato, dà luogo attraverso un evento fantastico alla vita».
Nel Seicento, ancor prima che ci arrivasse Louis Pasteur, fu Francesco Redi (antenato dell’autore) a compiere il famoso esperimento che dimostrò l’impossibilità della generazione spontanea. «Omne vivum ex ovo», ovvero la nascita degli animali avviene dall’uovo, che siano ovipari (si riproducono deponendo le uova fecondate fuori del corpo) o vivipari (il cui embrione si completa nell’utero materno).
Ma, a seconda della specie, le caratteristiche dell’uovo cambiano: dalle uova gigantesche dell’Aepyornis maximus, un uccello estinto che viveva in Madagascar, con un volume di nove litri (160 volte quello di un uovo di gallina) alle uova dello struzzo, oggi le più voluminose. E poi ci sono le uova che non si vedono a occhio nudo e per le quali serve il microscopio. Intanto, «le innovazioni tecnologiche hanno permesso di fare un salto quantico alle ipotesi legate allo sviluppo delle uova, perfezionando la visione embriologica nelle sue fasi - dice Redi -. La biologia dello sviluppo ha avuto nell’uovo e nell’embrione di gallina il suo primario modello di studio e continua a esserlo». Con le biotecnologie è stato possibile fare ciò che sembrava impensabile, come clonare un vertebrato (la prima è stata la pecora Dolly), sostituendo il nucleo di una cellula uovo con quello di una cellula somatica già differenziata. E oggi la possibilità di crioconservare le cellule uovo è utile per le coppie che devono affrontare la fecondazione in vitro.
E ora cosa ci riserva il futuro? «I ricercatori si propongono di migliorare la qualità delle uova da impiantare in utero, con grandi vantaggi in medicina umana e veterinaria - sostiene Manuela Monti -. Già ora, grazie alla tecnica Crisp-Cas9, è possibile intervenire sul genoma di una cellula, vegetale o animale, per alterare sequenze di Dna legate a geni specifici e correggere anomalie». Tecnica che si potrebbe usare anche sulla cellula-uovo, e che suscita non pochi dilemmi etici. C’è chi offre un trattamento, si chiama Augment, capace di accrescere le capacità energetiche e metaboliche di una cellula uovo, somministrando mitocondri (organelli con un proprio Dna che fanno da centrali d’energia della cellula) prelevati da cellule germinali primordiali, come gli oogoni.
Dal laboratorio alla cucina. La buona notizia è che il loro contenuto di colesterolo non è più considerato un pericolo. Un adulto - precisa Redi - può consumarne fino a 5-6 la settimana. Ma, per chi continua a temerle, sono state messe a punto in Usa le uova artificiali vegetali e così si potrà dire addio agli allevamenti intensivi di galline ovaiole, criticate per motivi etici e ambientali.
Siamo liberi? Yes, Edipo, we can
Il vero complesso non è quello indagato dalla psicoanalisi e definitivamente entrato nel nostro immaginario con Freud
Il vero complesso è quello dell’uomo di fronte a se stesso e alla storia: ciò che ci fa grandi non sono le risposte che troviamo ma le domande che ci poniamo
Al di là delle scoperte delle neuroscienze
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 03.07.2016)
Perché Edipo, subito dopo che si è strappato gli occhi con le sue proprie mani, accusa Apollo, lo incolpa di tutto quello che gli è successo? Sono lontani i tempi in cui il romanzo giallo era considerato un genere minore. Di sicuro è quello più adatto alla filosofia: in entrambi i casi si tratta di ricomporre una trama, di cercare il disegno che si cela dietro al disordine apparente. L’ordine magari non sarà quello auspicato ma comunque esiste, come ne Il giorno della civetta di Sciascia, in cui il commissario Bellodi riporta alla luce il sistema di corruzione e connivenze che permette ai tanti don Mariano Arena di prosperare sul «bosco di corna» dell’umanità.
A volte invece il giallo serve a mettere in crisi l’illusione dell’ordine, rivelando che il mondo è dominato dalla confusione. Come ne La promessa di Friedrich Dürrenmatt: paziente, meticoloso, ostinato il commissario Matthäi ha capito tutto, sa dove l’assassino colpirà la prossima volta: si apposta, ma l’attesa durerà tutta la vita (il commissario si licenzia e si mette a fare il benzinaio in una sperduta piazzola di servizio perché sa che è lì che tutto deve accadere), inutilmente, perché la sua preda, l’assassino in viaggio per il delitto, è morta in un banale incidente automobilistico. Era tutto giusto, il commissario aveva compreso, il disegno era quello, ma la realtà è governata dal caso: ogni tentativo di controllo razionale del disordine, ogni progetto di riduzione del caos a cosmo, è destinato allo scacco. Matthäi però continua ad aspettare, mentre la luce del sole si dispiega su un mondo sempre più incomprensibile.
Il dio della luce, in Grecia, era Apollo. Edipo, invece, è l’archetipo del detective, e la tragedia di Sofocle che racconta la sua vicenda, l’ Edipo re, è il modello ineguagliato del romanzo giallo. Un investigatore, intelligente, caparbio, implacabile, è sulle orme di un assassino. Laio, il re di Tebe, è stato ucciso, e Edipo, il nuovo re, vuole fare giustizia. Raccoglie gli indizi, ascolta i testimoni, ricostruisce i fatti. Alla fine scopre che il colpevole è lui stesso. È la trama più semplice, quella perfetta. L’investigatore è l’assassino: tutto si concentra in un unico personaggio, il resto non conta, fa da contorno.
Ma Sofocle non si accontenta, vuole di più. I romanzi gialli si reggono sull’incertezza. L’ Edipo re invece non fa nulla per nascondere l’identità dell’assassino, fin dall’inizio: il pubblico lo sapeva prima ancora che la tragedia cominciasse (il mito era noto) e Tiresia lo rivela subito allo stesso Edipo. L’oracolo di Delfi aveva predetto a Edipo che avrebbe ucciso il padre e sposato la madre; Edipo era subito fuggito da Corinto, ignorando che Polibo e Merope non erano i suoi veri genitori. E durante la fuga aveva prima ucciso il suo vero padre e poi sposato la madre, Laio e Giocasta, i sovrani di Tebe.
La tragedia - l’indagine del commissario Edipo - svela una storia che conoscevano tutti. Come si spiega allora quella suspence che inchioda al testo qualunque lettore, che impedisce di distogliere lo sguardo dal palcoscenico? Perché Edipo non sta cercando soltanto un assassino. E noi stiamo cercando con lui. Sperando che abbia successo, ma allo stesso tempo terrorizzati da quello che lo attende in fondo al tunnel in cui si è addentrato, come in un vortice, lento all’inizio e poi sempre più impetuoso, che avvolge tutto.
Edipo è definitivamente entrato nell’immaginario collettivo nel 1900, con L’interpretazione dei sogni . Freud aveva visto bene: le vicende di Edipo ci appassionano perché in lui vediamo qualcosa di noi. Ma nella tragedia c’è molto di più che la semplice scoperta delle pulsioni (desiderio della madre, conflitto con il padre) che si annidano dentro di noi. Edipo era partito alla ricerca di un assassino e si era poi messo a indagare sui suoi genitori. Ma il vero obiettivo dell’indagine è un altro ancora, più profondo: come Diogene (quello che girava con la lanterna in pieno giorno), Edipo è in cerca dell’uomo, della sua libertà.
L’indagine riguarda tutti.
Quando era arrivato a Tebe, la città era oppressa da un mostro terribile, la Sfinge, che uccideva chiunque non rispondesse al suo enigma. Edipo aveva trovato la soluzione, salvando la città. Il mondo, quello degli antichi non meno del nostro, è opaco, oscuro, ambiguo, sempre rischioso: questo significa la Sfinge. Edipo è colui che porta la luce, con la forza della sua intelligenza. È l’eroe dell’età di Sofocle, dell’illuminismo trionfante ad Atene, «la scuola della Grecia». Come Protagora sa che l’uomo è misura di tutte le cose, come Pericle sa che possiamo rispondere alle sfide dell’esistenza. Ha insegnato che la nostra vita e la nostra felicità dipendono da noi, dalla nostra capacità di comprendere la realtà, di metterla in ordine. È un «modello» per tutti, riconosce il coro. Quando si mette in cerca dell’assassino è questo che vuole dimostrare, una volta di più.
Il momento decisivo è in uno scambio di battute con Giocasta. Edipo ha finalmente trovato un testimone decisivo. Il testimone parla e Giocasta inizia a capire: che Edipo è l’assassino di Laio; che Laio era il padre di Edipo e che lei ha sposato suo figlio. Che niente è come sembrava. Prega Edipo di smettere con le indagini, di fermarsi prima che sia troppo tardi. Scappa. Edipo si irrita, non comprende la reazione di Giocasta. Equivoca: pensa che provi vergogna all’idea di aver sposato il figlio di uno schiavo. Ma a lui questo non importa. Lo grida gonfio d’orgoglio: non era nessuno ed è diventato il re di Tebe, grazie alla sua pazienza, alla sua intelligenza, al suo coraggio. Lui è «figlio del destino», le sue origini non contano. We can . Ha mostrato di cosa è capace un essere umano.
Non ha capito nulla. Infaticabile e ostinato, Edipo, l’uomo più intelligente, per tutta la tragedia non capisce mai nulla, ha sempre vissuto nel buio dell’ignoranza. Poi, finalmente capisce: precipita nella verità come in un abisso, è stato detto. L’indagine è conclusa. Maledice Apollo. Dopo non resta che l’orrore, e il dolore.
Il figlio del destino: Edipo credeva di essere libero, padrone e responsabile per le sue scelte. Credeva che la sua vita dipendesse da lui. Ha scoperto che un destino più grande incombeva sulla sua testa, dominandolo. La libertà è un’apparenza; la vita di Edipo, il «modello» degli uomini, era già da sempre costretta in un disegno su cui lui non aveva nessuna possibilità di controllo. Si è scoperto ingranaggio di un meccanismo: un meccanismo, imperscrutabile ma implacabile, che ha il sorriso beffardo di Apollo - i Greci scolpivano le statue dei loro dèi con un sorriso enigmatico - il dio che illumina, che mostra come stanno le cose. Sul tempio di Apollo, a Delfi, campeggiava una scritta celebre: «Conosci te stesso». Edipo ha seguito l’esortazione del dio, ha indagato se stesso. Quello che ha trovato riguarda tutti.
In effetti, i problemi con cui ci confrontiamo oggi non sono diversi. Che cos’è l’uomo? Quale controllo abbiamo sulle nostre azioni, decisioni, scelte? Quanto di ciò che ci accade è dovuto a cause che non dipendono da noi - eventi del passato, condizionamenti sociali, situazioni impreviste, predisposizioni del carattere? Tanto più conosciamo, di noi e delle cose che ci circondano, tanto più le domande si fanno pressanti.
Il parallelo più interessante è con le neuroscienze. Conosciamo come non mai il funzionamento del nostro cervello: e quello che sembra emergere è che non abbiamo un controllo effettivo, consapevole e razionale, delle nostre decisioni e azioni. «Il tuo senso d’identità personale e di libero arbitrio in realtà non sono niente più che il comportamento di un’ampia organizzazione di cellule nervose e delle molecole loro associate»: questo è Francis Crick, scopritore del Dna e premio Nobel.
Tutti i nostri stati mentali sono epifenomeni, spiegano altri scienziati, non esercitano alcun impatto causale sulla realtà. Che senso ha allora parlare di libertà o responsabilità? Sarà incredibile, ma è così. E poi, a pensarci bene, non è neppure incredibile. La rivoluzione scientifica, fin dal Seicento, ha rivelato che tutto l’universo si muove secondo leggi necessarie di cause ed effetto.
E Kant aveva posto il problema, con la consueta chiarezza: per quale ragione gli esseri umani non dovrebbero essere vincolati a queste stesse leggi di natura? Cambiano i modi per dire le cose, ma l’ironia è la stessa: tanto più conosciamo tanto più ci pensiamo grandi; fino a scoprire la nostra irrilevanza. Come tutto il resto siamo parte di un meccanismo, di cui ci sfugge il senso, fuori dal nostro controllo.
Ma proprio dove maggiore sembra la miseria, lì è la nostra grandezza. È vero: ci crediamo forti e non lo siamo, pensiamo di vedere e non capiamo nulla. Ma non per questo ci arrendiamo. Siamo sempre in cerca. E in questa continua ricerca di un significato, nel coraggio con cui affrontiamo le domande più scomode, costi quello che costi, emerge qualcosa che è nostro e solo nostro, che ci distingue e ci fa unici nell’universo immenso che ci circonda. L’uomo, l’animale che fa domande, che vuole capire.
Fino a che come Edipo non smetteremo di interrogarci su quello che ci circonda senza accontentarci delle apparenze; fino a che come Matthäi e Bellodi continueremo a stare lì, in una piazzola abbandonata, su un pianeta insignificante, in attesa, cercando di capire e cercando la giustizia: fino ad allora dimostreremo che siamo qualcosa di speciale. È buffo, forse folle, ma è così. Ciò che ci fa grandi non sono le risposte che troviamo, ma le domande che poniamo. È questo il vero complesso di Edipo.
Mosè va dallo psicologo
Da Freud agli esegeti più recenti questa figura continua a suscitare interesse e interrogativi sulla sua storicità
di Gianfranco Ravasi s.j. (Il Sole-24 Ore, Domenica, 03.07.2016)
«Questo lavoro che prende le mosse dall’uomo Mosè sembra al mio spirito critico una ballerina in equilibrio sulla punta di un piede». Questa confessione di Freud riguardo al trittico di saggi raccolti sotto il titolo L’uomo Mosè e la religione monoteistica è condivisa dalla maggioranza degli esegeti che hanno letto quelle pagine; anzi, essi sono per lo più convinti che la ballerina abbia alla fine perso l’equilibrio e sia piombata a terra.
Tuttavia è indubbio il fatto che, come spesso accade, non si possa del tutto uscire indenni da una lettura provocante e provocatoria. È ciò che suggerisce di sperimentare il libretto che raccoglie un’analisi succinta di quello scritto freudiano approntata da Pier Cesare Bori, un noto docente di storia delle dottrine teologiche, morto nel 2012 a Bologna ove insegnava. A lui, tra l’altro, dobbiamo (con Giacomo Contri ed Ermanno Sagittario) la migliore versione del Mosè freudiano, edita da Boringhieri nel 1977.
Bori, anche se più anziano di cinque anni, era stato mio compagno di studi teologici presso l’Università Gregoriana di Roma. Poi le nostre strade si erano divaricate, non solo per ragioni topografiche (lui era di Casale Monferrato e forse alla sua fine, sia pure tardivamente, ha contribuito l’inquinamento da Eternit), ma anche religiose. Egli era, infatti, successivamente approdato all’«Associazione religiosa degli Amici», i cosiddetti Quaccheri (da quake, “tremare” davanti al Signore), una confessione fondata nel 1649 dall’inglese George Fox, priva di ogni predicazione, rito, sacramento, ministri, affidata solo al silenzioso incontro personale con Dio. Ritrovo ora la sua acribia e finezza ermeneutica in questo breve testo, ampiamente introdotto da Gianmaria Zamagni che ci conduce, però, con acutezza anche nell’orizzonte della particolare e “ballerina” esegesi di Freud.
Come riassume lo stesso Bori, tre sono le tesi centrali: l’origine egizia di Mosè; la sua sorte tragica, simile a un parricidio operato dagli stessi Ebrei (su questo il padre della psicanalisi si appoggiava a un’interpretazione ipotetica di un noto esegeta tedesco, Ernst Sellin, riguardo a un passo oscuro del profeta Osea); infine il dualismo tra il culto e il legalismo jahvista, da un lato, e il monoteismo puro, propugnato poi dai profeti, dall’altro.
La questione della dipendenza del monoteismo ebraico da quello professato dal faraone Akhnaton, attraverso la fede nell’unico dio solare Aton, connessione fieramente dibattuta e controversa, permette però di affrontare indirettamente un quesito più generale, quello del rapporto complesso e rilevante tra storia e religione. Non per nulla il titolo del saggio di Bori è emblematico: È una storia vera? Ed è facile immaginare quanto sia arduo discernere i due fili nel groviglio del loro intrecciarsi, annodarsi e ingarbugliarsi.
Gli stessi interrogativi, puntati soprattutto sul monoteismo, hanno coinvolto la ricerca anche di uno dei più famosi egittologi contemporanei, Jan Assmann, che però ha allargato il ventaglio delle sue analisi oltre il perimetro storico-filologico per inoltrarsi nell’orizzonte più fluido del nesso tra cultura e religione. Tra l’altro, la sua analisi si è incrociata con quella dello studioso bolognese, tant’è vero che ne è nata una Lettera a Pier Cesare Bori che si può leggere nello scritto di Assmann Monoteismo e distinzione mosaica, edito dalla Morcelliana nel 2015. A tradurre quella lettera era stata Elisabetta Colagrossi alla quale dobbiamo ora una suggestiva intervista all’egittologo, autore lui pure di un Mosè l’egizio (Adelphi, II ed. 2007). Il dialogo permette di ricomporre la mappa dei «sentieri teorici e autobiografici» percorsi da questo “archeologo” della memoria e dei popoli, divenuto noto per la sua rovente (e contestata) tesi sulla radice violenta dei monoteismi.
In queste pagine vengono ovviamente affrontati in modo sintetico i tanti itinerari di ricerca assmanniani. Noi ne vogliamo segnalare due in particolare. Il primo concerne la cosiddetta “distinzione mosaica” formulata dallo studioso nel 1995, riguardante la distinzione tra vero e falso.
Sentiamo lo stesso autore: «La mia tesi afferma che essa non appartiene alla religione. Nella religione si tratta di ciò che puro e impuro, santo e profano, giusto o sbagliato nello svolgimento dei riti, ma non di ciò che è vero e falso. Questa distinzione appartiene alla scienza, che lavora per dimostrazioni, come la logica, la matematica, la storia, la giurisprudenza, ma non alla religione. In tale dominio essa è penetrata per la prima volta col monoteismo, che delimita il vero Dio rispetto ai falsi dèi e il vero credo rispetto alla falsa credenza e all’eresia».
L’altra tesi di Assmann che segnaliamo è quella della cosiddetta religio duplex. In pratica si confrontano, per contrappunto o per dialettica, in duello o in duetto secondo i casi, una verità religiosa rivelata e una di indole più naturale e universale. Si delinea così, nella storia dell’umanità una sorta di doppia verità che spesso si polarizza, pur avendo talora tangenze e convivenze personali e sociali. Si configura in tal modo «una sovra- o inter-religione, una religione naturale, comune a tutti gli uomini, al di là delle loro religioni positive ereditate». La declinazione di questa dualità si attua nel contrasto o confronto tra fede popolare e religione codificata, affidata a una rivelazione, a misteri e riti, tra una spiritualità personale e una religiosità pubblica, tra una epifania cosmica, essoterica cioè aperta a tutti, e una teofania circoscritta ed esoterica.
È facile intuire in quale linea prevalentemente si collochi, secondo Assmann, il monoteismo all’interno della religio duplex. Significative sono le ultime battute dell’intervista, in cui lo studioso rimanda alla famosa parabola dei tre anelli di Lessing per concludere - con una punta di relativismo faticosamente esorcizzato dallo stesso autore - centrando ancora una volta la sua batteria contro il monoteismo: «Il problema del monoteismo della verità risiede nel suo pretenzioso concetto di rivelazione, con la sua paradossale connessione di esclusività e universalità. Ci sono molte religioni, ma non può esistere più di una verità assoluta e universale».
La cosiddetta “teologia fondamentale”, interpellata da tempo su questa aporia, ha elaborato una serie di repliche che non trovano, però, eco nelle pagine di Assmann e questo è un po’ dovuto anche all’autoreferenzialità che relega spesso la teologia sistematica nell’hortus conclusus delle accademie teologiche.
Addio a Elie Wiesel, mai in silenzio di fronte al male
Nobel per la pace, sopravvisse alla Shoah e ne raccontò l’orrore
di Redazione ANSA *
E’ morto Elie Wiesel. Nobel per la pace e sopravvissuto alla Shoah, aveva 87 anni. Lo ha annunciato Yad Vashem da Gerusalemme.
Eliezer "Elie" Wiesel era nato il 30 settembre del 1928 in Romania a Sighet. Autore prolifico (57 libri) e attivista dei diritti umani, Wiesel è stato conosciuto in tutto il mondo per la promozione dell’educazione e del memoria della Shoah. Il suo libro di memorie ’Notte’ basato sulla sua esperienza da ragazzo nel campo di sterminio di Auschwitz è uno dei racconti più importanti sull’Olocausto.
Quando gli fu assegnato il Nobel fu definito "messaggero per l’umanità" e il suo lavoro per la causa della pace un potente messaggio di "pace, di espiazione e di dignità umana" alla stessa umanità. Educato in una famiglia religiosa su di lui ha avuto grande influenza il nonno materno Dodye Feig come ha ricordato in molti libri lo stesso Wiesel.
Dopo la guerra Wiesel si trasferì in Francia dove cominciò a collaborare con diversi giornali israeliani tra cui Yediot Ahronot. Per oltre 10 dieci non volle scrivere della sua esperienza nella Shoah, ma fu decisivo l’incontro con Francois Mauriac e nacque ’Notte’. Nel 1955 Wiesel si trasferì negli Usa e prese la cittadinanza Usa. Nel 1986 il Nobel per la Pace per il suo impegno contro il razzismo e la violenza.
Il congedo magistrale
«Banalità di Heidegger», edito da Cronopio in libreria da domani
Un’anticipazione tratta dal nuovo libro di Jean-Luc Nancy
La questione dell’antisemitismo non lascia dubbi: c’è un legame insostenibile con il pensiero e con il suo impianto
di Jean-Luc Nancy (il manifesto, 29.06.2016)
La sfida della lettura di Heidegger, e soprattutto dei suoi testi più esposti alla condanna o all’anatema, è quella di condurci ancora una volta, ma con una potenza tutta particolare, di fronte all’esigenza di interrogare ciò che, con «il mondo moderno», è accaduto al mondo - e al mondo in quanto tale, al mondo, cioè, come presunta configurazione di una o più possibilità di costituire, ricevere e condividere senso (qualunque cosa s’intenda con questo termine). Ed è stato proprio Heidegger che ha operato la prima metamorfosi della questione filosofica del senso, definendola come la questione del «senso dell’essere».
Che il suo modo di porre la questione l’abbia condotto, non verso il nazismo come «visione del mondo» (espressione che rifiuta per motivi filosofici), bensì verso qualcosa che si può caratterizzare come «archi-fascismo», secondo un’espressione di Lacoue-Labarthe, o come una specie di rivelazione iperbolica di una verità dell’essere destinale e «in popolo» (uso la parola «rivelazione» con un’intenzione che preciserò più avanti) - ecco ciò che merita di essere analizzato da vicino, di essere smontato e sconfessato. Ma che si sia trattato di un gesto filosofico, è innegabile.
Questo non fa che rendere ancora più drammatiche le questioni che i suoi Quaderni ci mettono di fronte senza ambiguità. È evidente innanzitutto che la definizione di «antisemitismo storico-universale» è pienamente giustificata. Essa riassume ciò di cui la frase che abbiamo citato costituisce il primo nucleo: il popolo ebraico, in quanto tale, svolge un ruolo determinante, per non dire primordiale, nello «sradicamento dell’essere». Abbandonato a se stesso - «totalmente liberato» o «affrancato» - questo popolo si rivela particolarmente appropriato e dedito al compito dello sradicamento. È l’attore privilegiato del tramonto dell’Occidente o perlomeno ne presenta la figura più caratteristica.
Sorge una prima domanda: perché mai un movimento così ampio come quello che s’incarna contemporaneamente nell’americanismo, nel bolscevismo, nella democrazia, nella tecnica, nella razionalità e nell’oggettività deve fare ricorso a una figura particolare - se è vero che non sono tutti ebrei gli attori di questa storia catastrofica?
Questa necessità risponde al principio secondo il quale è necessario un popolo per mettere in opera ogni disposizione decisiva della storia-destino, la quale non è un semplice processo, ma un impegno, una decisione presa e ripresa sotto forma di figure determinate e dai portatori di tali figure.
Questa necessità prende qui una piega molto precisa e singolare: il popolo ebraico fa appello per se stesso a un principio razziale. Un tale principio proviene anch’esso da una «sottomissione della vita alla macchinazione». Ora la macchinazione che fa sorgere un tale principio naturalista conduce in direzione della «de-razzializzazione» (Entrassung) integrale di un’umanità ridotta all’uguaglianza indifferenziata di tutti gli enti.
È interessante notare che l’argomento non è molto lontano da quello usato da Marx per definire il denaro come «equivalente generale», nel quale viene alienata e livellata tutta l’umanità produttrice della propria esistenza e dunque del proprio valore o senso. Questo parallelismo nella percezione di un livellamento e di un’indifferenziazione si accompagna a un parallelismo di natura molto diversa: quello di una classe destinata a rovesciare i rapporti di classe e quello di un popolo destinato ad annullare le distinzioni di razza. Ciò che è comune a queste due prospettive è il ricorso a un’istanza determinata e privilegiata - di un privilegio che ogni volta si avvale della sua negatività: il proletariato e il popolo ebraico sono esclusi entrambi dall’umanità.
OPINIONI E CONFUSIONI
Sono entrambi dotati di un’identità tutta negativa e/o negatrice. Ciò che questo parallelismo, di cui non pretendo di approfondire l’analisi, suggerisce è un certo regime escatologico e figurale del pensiero: si avvicina una fine - una fine, quindi anche un inizio - e questo avvenimento richiede una figura, l’identificazione della forza annientatrice. Per Heidegger - che in questo caso non fa che confermare un topos che data almeno dal Rinascimento - il primo inizio è greco. La fortuna (Glück) dei Greci è stata quella di aver osato «determinarsi a partire dall’essere». Ed è per questo motivo che i Greci sono stati un popolo, il popolo dell’inizio.
Va notato che questa singolarità greca appare sola, priva di ogni rapporto con l’ambiente storico, mentre la storia che si apre a partire da quel momento si presenta subito, se non come cosmopolita, almeno come mescolanza e volgarità, di cui Roma fornisce la prima figura («dispotismo dell’opinione e confusione [Mischmasch]»), e che in seguito non faranno che aumentare. L’inizio si fa attraverso un popolo (nel senso forte del termine) e il declino attraverso la mescolanza, la confusione e l’indistinzione dei popoli in un’umanità che non pone abbastanza in alto l’humanitas dell’uomo come affermerà la Lettera sull’umanismo.
Il precipitarsi del declino che precede e annuncia la venuta dell’altro inizio si segnala, invece, mediante una figura - un popolo? Forse, ma allo stesso tempo anche il rovesciamento o addirittura la caricatura di un popolo - che concentra in sé i tratti e le disposizioni del declino. Da dove Heidegger prende questa figura? Semplicemente dal più banale, volgare, triviale e torbido discorso che da molto tempo vaga per l’Europa e da una trentina d’anni si avvale della miserabile pubblicazione dei Protocolli dei Savi di Sion.
La prossimità fra i discorsi di Heidegger e quel testo (il tema del calcolo, della democrazia, della manipolazione, dell’internazionalismo) non lascia dubbi. E non occorre nemmeno indagare se Heidegger abbia o meno letto quel falso grossolano e grottesco, la cui esistenza era semplicemente l’effetto e il riflesso di un’opinione ampiamente diffusa, accolta dappertutto e con sempre maggior interesse, via via che crescevano in Europa le ragioni di quel «disagio» di cui Freud aveva parlato nel 1930.
Già dal 1921 era stata riconosciuta la falsità dei Protocolli: nel mondo universitario e colto lo si poteva sapere. Nel 1940 restare vicini ai discorsi di quel testo, senza citarlo direttamente ma senza neanche prenderne le distanze, non poteva essere un caso. Heidegger sa bene quello che fa. Raccoglie la spazzatura banale per fini superiori. E questo vuol dire anche riconoscere una verità superiore dell’antisemitismo. Una verità talmente superiore da non poter diventare pubblica senza essere associata alle critiche al nazismo e al cristianesimo (diverse, certo, ma congiunte), di cui abbonda il testo delle Überlegungen che resta perciò privato e riservato a una pubblicazione lontana. Questa verità superiore è quella di cui ho appena tratteggiato lo schema. Tale schema merita di appoggiarsi sulla volgarità più diffusa, più odiosa e ottusa, perché tale volgarità dice a modo suo la verità dell’essere-ebreo, dello Judentum, entità e identità ben individuabili del precipitare del mondo nella volgarità, appunto, e in tutti i sensi del termine.
DEL RIFIUTO DI SÉ
Si potrebbe dire che Heidegger condivide la banalità di uno spirito pubblico per il quale gli ebrei incarnano un’insaziabile banalizzazione del mondo - la perdita dello spirito dei popoli nell’universale (all-gemein, come talvolta scrive) volgare. È il dispositivo di pensiero che va a cercare il tema dell’antisemitismo o è, invece, l’antisemitismo che suggerisce una parte del dispositivo? È difficile, probabilmente impossibile, dare una risposta. Per Heidegger l’antisemitismo non è soltanto un’atmosfera diffusa, perché a questa atmosfera appartiene tutta una vena di pensiero per certi versi già tradizionale: il pensiero del popolo, di una storia i cui momenti e le cui inflessioni appartengono ai popoli definiti come soggetti singolari o eccezionali. Nei primi venticinque anni del Novecento si è prodotta una congiunzione tra i temi del declino, della massa, della democrazia e le volontà di sussulto, rigenerazione ed eliminazione dei fattori morbosi dell’Occidente.
Heidegger collega strettamente la decostruzione (Abbau) dell’ontologia metafisica - grande gesto filosofico che prolunga e rilancia le premesse di Nietzsche, Kierkegaard e Husserl - e la distruzione (Zerstörung) di tutto questo e di coloro che gli paiono appunto distruggere il mondo e la storia. Come, per esempio, a proposito dell’interpretazione di Hölderlin che esige «anzitutto superare la storiografia (Historie)», cosa che richiede a sua volta «la distruzione dell’assenza di storia (o d’invio destinale, Geschichtslosigkeit)». Ora questa assenza di storia è un tratto distintivo dello Judentum, che d’altronde è caratterizzato dalla mancanza di tutto ciò che permette l’apertura al Seyn (suolo, invio, decisione, popolo). Si tratta quindi di decostruire la metafisica e distruggere le forze che portano a compimento la sua opera deleteria. Occorre distruggere la distruzione - che è già essa stessa una curiosa distruzione di sé (dello spirito dell’inizio).
La logica e l’economia di questa decostruzione/distruzione della distruzione propongono un intrico abbastanza curioso di auto-affermazione e auto-distruzione. L’Occidente si distrugge, compiendo così una necessità del suo invio iniziale e richiede la distruzione della propria distruzione al fine di liberare un altro inizio che, pur essendo altro, deve tuttavia essere il suo nella maniera più vera e autentica. E se si trattasse di un rifiuto di sé all’interno dell’Occidente? È intorno a questo tema - presagito, ma mai sviluppato come tale - che qui s’intrecciano, con un legame tuttavia insostenibile, il pensiero e l’antisemitismo.
(la traduzione del libro è di Antonella Moscati)
C’è vita nell’universo, molta vita
Gli scienziati di Kepler, un grande telescopio lanciato in orbita nel 2009, hanno da poco annunciato di avere scoperto 1.284 nuovi pianeti extra-solari (o esopianeti), cioè pianeti che ruotano attorno a una stella diversa dalla nostra. Tutto fa immaginare che ce ne siano miliardi, alcuni «ospitali». Il mondo sta entrando in una nuova epoca
di Guido Tonelli * (Corriere della Sera, La Lettura, 26.06.2016)
Stiamo entrando in una nuova epoca e nessuno sembra rendersene conto. Di tanto in tanto giornali e televisioni riportano qualche notizia; se ne parla per un paio di giorni poi tutto viene macinato dal tritacarne dell’attualità. L’ultima, di qualche settimana fa, riguarda Kepler, una sonda della Nasa che prende il nome dal grande astronomo tedesco. La sua missione è la scoperta di esopianeti, o pianeti extra-solari, che orbitano cioè attorno ad altre stelle; il fine ultimo è quello di identificare pianeti abitabili, simili alla nostra Terra.
Le primissime ricerche risalgono addirittura agli anni Quaranta, ma utilizzavano tecniche di osservazione piuttosto grossolane. Usando i migliori telescopi allora disponibili si cercavano nuovi sistemi solari sperando di osservare una perturbazione periodica nella posizione della stella-madre. È ben noto che, per le leggi della gravitazione, in presenza di un pianeta la stella-madre non sta ferma, ma compie anch’essa una piccola rotazione intorno al centro di massa del sistema.
Tanto più massiccio è il pianeta tanto maggiore è lo spostamento periodico della stella. Il metodo, detto astrometrico, non ha portato a risultati di rilievo; sono stati identificati un gruppo di potenziali candidati ma nessuno è mai stato confermato. Risultati molto più interessanti si sono avuti con il metodo della misura della velocità radiale. Il principio è lo stesso, si cerca di osservare il minuscolo spostamento periodico della stella-madre, ma la tecnica è basata su misure spettroscopiche che consentono maggiori precisioni. Si analizza lo spettro di emissione luminosa della stella e si controllano nel tempo le righe corrispondenti alle varie frequenze. Se la stella presenta un piccolo movimento orbitale causato dalla presenza di un pianeta, si misura una piccola variazione periodica in frequenza della sua emissione luminosa dovuta all’effetto Doppler.
Quando la stella ha una velocità radiale positiva - cioè si avvicina al nostro punto di osservazione sulla Terra - le righe di emissione si spostano verso il blu, per poi passare dal lato opposto, verso il rosso, quando la stella si allontana. È lo stesso metodo che ci permette di riconoscere, dal suono della sirena, se un’ambulanza si sta avvicinando o si sta allontanando. Con la misura della velocità radiale della stella possiamo calcolare il periodo del moto orbitale del pianeta e la sua massa. I primi pianeti extra-solari sono stati scoperti, con questo sistema, negli anni Novanta. Si trattava di enormi corpi celesti, simili al nostro Giove. Giganti caldi, per lo più gassosi, che gravitavano molto vicini alle loro stelle-madri e avevano quindi una temperatura superficiale spaventosa.
Il metodo della velocità radiale è limitato dal fatto che si deve osservare una stella per volta ed è efficace solo per stelle relativamente vicine a noi, si fa per dire, entro una distanza di circa 160 anni luce, mentre la stragrande maggioranza delle stelle della nostra galassia sta a distanze maggiori.
La vera rivoluzione nella caccia ai pianeti extra-solari è venuta da quando è stato messo a punto il metodo dei transiti. È una tecnica basata sulla fotometria di precisione, cioè si tiene sotto controllo la luminosità della stella e si misura la lievissima attenuazione della luce prodotta dal pianeta che le transita davanti. Anche in questo caso si richiede che la perturbazione, il segnale di transito, abbia carattere periodico. La forma caratteristica del disturbo permette di misurare le dimensioni del pianeta e questa informazione, combinata con la misura della velocità radiale che dà la massa, permette di conoscerne la densità. In questo modo, da alcuni anni, la ricerca di nuove «Terre» ha ricevuto un impulso incredibile e si sono identificati i primi pianeti rocciosi simili al nostro.
Il grande vantaggio del metodo dei transiti è che si possono tenere sotto osservazione, in contemporanea, centinaia di migliaia di stelle e la sensibilità raggiunta dagli strumenti più moderni è tale che il campo d’azione si può estendere fino a distanze di migliaia di anni luce. La sensibilità del metodo è talmente spinta che si possono identificare pianeti addirittura più piccoli di Mercurio. Occorre poi considerare che, nel caso che il pianeta abbia una atmosfera, la luce della stella-madre giunge fino a noi dopo averne attraversato gli strati superiori. Misure accurate della polarizzazione della luce emessa dalla stella permettono quindi di ricavare informazioni essenziali sulla presenza di atmosfera nel pianeta.
L’unico problema del sistema dei transiti è che, per produrre segnali il punto di osservazione deve appartenere al piano delle orbite, cosa che statisticamente avviene solo per una frazione delle stelle osservate. Se poi si cercano pianeti simili alla Terra, che hanno una massa compresa fra metà e due volte quella del nostro pianeta, e che compiono una rivoluzione completa intorno alla loro stella in circa un anno, occorre aspettare molti anni per essere sicuri di avere visto un transito periodico.
Kepler è un grande telescopio lanciato in orbita nel 2009, che sorveglia da anni una piccola zona del cielo compresa fra le costellazioni del Cigno e della Lira. L’apparato tiene sotto controllo circa 150 mila stelle della nostra galassia, distribuite in una regione di dimensioni paragonabili a quella che copriamo con il palmo della nostra mano, se tendiamo il braccio verso il cielo.
La zona di osservazione copre un cono di circa duemila anni luce intorno al nostro Sole che si trova in Orione, un piccolo braccio secondario della spirale che costituisce la nostra Via Lattea. Il telescopio è ottimizzato per misure di fotometria e utilizza un sistema di camere fotografiche molto sofisticate, da 95 milioni di pixel, ma concettualmente simili a quelle che usiamo nei nostri cellulari.
Un mese fa gli scienziati di Kepler hanno annunciato di avere scoperto 1.284 nuovi pianeti extra-solari. La maggior parte dei nuovi corpi celesti sarebbero posti assolutamente inospitali, caratterizzati da atmosfere molto dense, composte essenzialmente da elio e idrogeno, e temperature torride alla superficie. Ma la novità davvero eclatante è la scoperta che pianeti simili alla Terra sono corpi celesti molto comuni fra quelli che orbitano intorno alle stelle.
Fra i nuovi venuti almeno nove dovrebbero essere pianeti rocciosi che si trovano nella fascia cosiddetta abitabile, cioè a una distanza dalla stella-madre tale da consentire temperature simili a quelle che abbiamo qui da noi. Se un pianeta roccioso si trova nella fascia abitabile e contiene acqua, questa potrebbe formare laghi e oceani come quelli che sono così diffusi sulla nostra Terra. Ecco che, di colpo il numero dei nostri potenziali cugini è quasi raddoppiato. E la cosa sorprendente è che Kepler ha osservato soltanto una piccola porzione della nostra galassia. Si stanno già preparando nuove missioni e nuove campagne di osservazioni e nel prossimo futuro si costruirà una mappa sempre più dettagliata delle «nuove Terre». Nel giro di un paio d’anni sarà lanciato un nuovo telescopio per tenere sotto osservazione le 200 mila stelle più vicine a noi fra le quali ci si aspetta di scoprire 500 pianeti rocciosi simili al nostro.
La nostra Via Lattea contiene circa 200 miliardi di stelle ed è soltanto una fra cento miliardi di galassie che popolano il nostro universo. I numeri fanno impressione: se soltanto una stella su diecimila ospitasse pianeti rocciosi nella fascia abitabile dovremmo accettare l’idea che il numero di «Terre» della nostra galassia, quindi astronomicamente vicine a noi, potrebbero essere decine di milioni. Se si considerano i 100 miliardi di galassie dell’Universo intero si potrebbe raggiungere la cifra fantastica di miliardi di miliardi. Insomma c’è pieno di pianeti abitabili intorno a noi ed è molto probabile che ci sia abbondanza di forme di vita nell’universo. Non c’è alcun motivo di credere che acqua e materia organica siano componenti ultra rari.
Fra qualche tempo saremo in grado di analizzare la composizione dell’atmosfera dei nuovi pianeti che orbitano nelle fasce abitabili per cercare eventuali composti organici, chiari indizi della presenza di forme di vita simili a quelle che ci sono familiari. Non mi interessa qui discutere il problema delle distanze e neanche la tecnologia con cui potremo stabilire una comunicazione o un contatto. Sarebbe sciocco argomentare oggi intorno a questioni che, ne sono sicuro, faranno sorridere gli scienziati del futuro.
Vorrei invece sottolineare la necessità di prepararsi a quello che sarà sicuramente un grosso choc culturale. Un’umanità che fa fatica a convivere con se stessa, sarà in grado di superare la crisi di valori legata alla scoperta di altre forme di vita? Che rapporti instaureremo fra noi, per prepararci a queste prime forme di contatto con «gli altri»? Noi che nella colonizzazione della terra non siamo stati capaci di praticare altro che depredazione e spoliazione delle popolazioni con cui siamo venuti in contatto, accetteremo di essere «i primitivi» al cospetto di civiltà che si sono sviluppate qualche milione di anni prima di noi?
E viceversa, quali relazioni saremo in grado di instaurare con forme di vita, magari simili alle nostre, ma che ci potranno apparire a un livello di sviluppo primordiale? È pensabile che si cominci a ragionare dei problemi etici connessi a questo passaggio? Noi che non siamo in grado di gestire l’integrazione di alcuni milioni di rifugiati o di emigranti che sfuggono la guerra o precarie condizioni di vita, con quali strumenti culturali arriveremo a questo appuntamento che ci chiama a un salto di civiltà?
I nostri pronipoti vedranno un mondo che noi, oggi, possiamo solo immaginare. Riusciremo ad attrezzarci nel giro di qualche generazione a questo cambio di paradigma sul piano antropologico?
«Il paradosso dell’inglese che resta la lingua ufficiale nei palazzi a Bruxelles»
di Dino Messina (Corriere della Sera, 26.06.2016)
«La “Brexit” - dice il professor Giovanni Iamartino, presidente degli anglisti italiani - ha prodotto un paradosso: l’inglese continuerà a essere la lingua più importante dell’Europa, così come lo è nel resto del mondo, mentre la Gran Bretagna è fuori».
Sarà così anche nei palazzi delle istituzioni a Bruxelles e a Strasburgo?
«Le regole dell’Ue prevedono che i documenti ufficiali vengano tradotti in tutte le lingue dell’Unione, mentre le discussioni si svolgano in inglese, tedesco o francese. È difficile che la situazione cambierà e che l’inglese venga bandito come lingua, perché, mi scusi il bisticcio, l’inglese non è più degli inglesi».
Che cosa pensano i suoi colleghi, italiani e inglesi, della Brexit?
«Sono tutti scioccati e si strappano le vesti. Una collega mi ha scritto sconsolata: d’ora in poi per consultare un libro alla British library ci chiederanno il visto? Ma al di là dei professori, pensi a tutti gli studenti dell’Erasmus che non potranno più andare in Inghilterra. Una vera rivoluzione nel nostro costume».
Ne risentirà anche la ricerca?
«Sicuramente. Cesseranno i finanziamenti europei verso i dipartimenti delle grandi università britanniche. I colleghi di Oxford, Cambridge e di altre prestigiose istituzioni erano bravissimi a chiederli e a ottenerli».
Forse è per questo che tra i giovani e i laureati ha vinto il voto favorevole al Remain...
«Sì, ma non è bastato. Si è affermato lo spirito interpretato da una famosa battuta di fine Ottocento: nebbia nella Manica, il continente isolato. I risultati del referendum sono la prova che gli inglesi si ritengono superiori al resto del mondo».
Irlandesi del Nord e scozzesi non sono d’accordo...
«Nell’Irlanda del Nord protestante potrebbe ripetersi quel che è già avvenuto nella cattolica Scozia: un referendum per staccarsi dalla madre patria e restare in Europa... E anche in Scozia, nonostante nel recente referendum i separatisti siano stati sconfitti ci potrebbero essere ripercussioni».
Quale personaggio letterario oggi sarebbe contento per l’affermazione della Brexit?
«C’è un personaggio inventato agli inizi del Settecento dal giornalismo inglese che si chiama John Bull: la perfetta incarnazione dello scetticismo, del sano buon senso, del patriottismo, del malcelato disprezzo inglese nei confronti dello straniero. Un po’ saggio, un po’ ottuso».
E quale sarebbe invece oggi addolorato?
James Boswell nella sua biografia del critico Samuel Johnson, fa dire al suo protagonista che il perfetto gentiluomo inglese, per dirsi tale, deve aver viaggiato nei Paesi del Mediterraneo, culla della civiltà occidentale. Se invece vogliamo restare nella fiction, al di là dei personaggi di Shakespeare, penserei a David Copperfield di Charles Dickens, un orfano che prima di ottenere il suo riscatto viaggia in lungo e in largo per l’Europa».
Cultura
I margini infuocati del mondo
Gayatri Chakravorty Spivak. Un’intervista con la teorica femminista indiana, presenza fondamentale dei postcolonial e subaltern studies. Disapprendere il proprio privilegio significa imparare a costruire una relazione etica e politica tra i viventi
di Francesca Maffioli (il manifesto, 23.06.2016)
Contestare l’occupazione da parte dell’Occidente e della filosofia occidentale riguardo la posizione di Soggetto cardine del discorso è sempre stato un punto fondamentale dell’analisi di Gayatri Chakravorty Spivak. Così anche in un recente incontro pubblico tenutosi presso la sede dell’University of Paris, e titolato emblematicamente Il presente in dissolvenza, la filosofa e femminista ha sottolineato la presa di parola da parte dei «soggetti subalterni», secondo una logica di decostruzione di questa dinamica gerarchizzata e ignorante della diversità.
Il soggetto che le interessa è sessuato, femminile, messo a margine da un sistema di valori centralizzato, in cui l’Occidente è sovrano e l’altra esiste in quanto oggetto da analizzare, da rappresentare e da controllare, anche nel momento della locuzione.
Quando alla «subalterna» è concessa la parola si tratta, infatti, di una parola che mima le aspettative del Soggetto che le ha permesso la libertà di espressione. La finalità della presa di parola del «soggetto subalterno donna», in comunicazione con il soggetto femminista occidentale, dovrebbe passare, secondo Spivak, dal superamento e dalla decostruzione dei rapporti gerarchici e dalla (ri)costruzione di un dialogo tra agenti parlanti. Si tratta di articolare un’agentività che implica un’egemonia non convenzionale, oltre i sistemi simbolici prestabiliti - in uno spazio dove la comunicazione si costituisce in quanto atto performativo.
Quanto, disporci all’ascolto di un «Other Knowledge», può renderci aperti a spazi di comunicazione che consentano di cogliere le opportunità per un dialogo con le voci marginalizzate? In che misura mettere in discussione la credibilità e la significatività di categorie teoretiche apprese agevolerebbe i requisiti per instaurare una comunicazione che ci volga alla comprensione dell’altra e dell’altro, della subalterna e del subalterno?
Abbiamo incontrato Gayatri Chakravorty Spivak per porle qualche domanda a riguardo.
Il suo monito «unlearn one’s privilege as one’s loss», ovvero «disimparare il proprio privilegio perché è una perdita», l’ha portata a riconsiderare il privilegio, anche di carattere gnoseologico, per (auto)instillare il dubbio critico e stabilire un rapporto etico con l’altro e l’altra - nell’obiettivo cioè di apprendere ad ascoltare le voci marginalizzate. Crede che oggi sia ancora valido?
Voglio partire dalla mia esperienza biografica, dalla storia della mia condizione di soggetto privilegiato in un contesto esplicitamente e sfacciatamente non-egualitario: il sistema delle caste hindu. Questo sistema, apparentemente imprescindibile, i ruoli sociali occupati dalla mia stessa famiglia di origine, costituiscono l’esemplificazione di privilegi millenari profondamente radicati. Ciò per dire che vi è una radicata struttura di potere in cui sono consapevole di essere attualmente collocata, riguardo per esempio il mio ruolo accademico negli Stati Uniti. Questa breve premessa che introduce ai privilegi che ho conosciuto, vuole essere però funzionale a ciò che intendo quando convoco il senso del disapprendere. Disimparare il privilegio significa allora costruire la risposta a un modello teorico a partire dalla mia esperienza di donna privilegiata, cresciuta in una famiglia facoltosa, in un sistema di diseguaglianze non celate.
La decostruzione dei propri privilegi può allora condurre ad una comunicazione autentica e a farci attori ed attrici di una pratica dialogica relazionale, definibile come relazionalità etica?
Il disapprendimento dei propri privilegi non significa la loro decostruzione. Sarebbe stata una posizione eccessivamente narcisistica da parte mia quella dell’insistenza, negli anni, verso il non riconoscimento e l’inconsapevolezza dei miei privilegi. Sarebbe stato come ripiegarsi nella negazione, riconoscere solo come perdita il privilegio di essere nata in una famiglia facente parte della casta dei brahmani (la casta sacerdotale, la prima delle quattro caste della società induista, ndr). A partire da un esatto momento della mia vita ho smesso di considerare i miei privilegi come perdita: ho trasformato questa presa di coscienza in un vettore di chance per la ricerca, in una pratica di utilizzo volta al dialogo con i soggetti meno ascoltati, i soggetti per cui l’identità e la parola sono forcluse. La necessità di «unlearn one’s privilege as one’s loss» deve essere rivista, completata secondo il fluire trasformativo del mio pensiero, che nel tempo ha subito delle evoluzioni. Devo confessare che questa considerazione l’avevo concepita precocemente, ben prima di entrare nel cuore dei temi che poi ho trattato nella mia attività di ricerca. In altre parole, credo sia fondamentale focalizzarsi sui privilegi, ma invece di disapprenderli, o prima ancora di imparare a disapprenderli, è necessario vedere dove essi si situano, riconoscerli e «to use them»: vedere e usare un privilegio in maniera funzionale, per volgersi a nuove pratiche di apprendimento e di comunicazione.
I riferimenti a questi interrogativi, come lei ce li descrive, sono suggeriti anche dalle intuizioni dalla filosofa e femminista postcoloniale Sara Ahmed che nel suo «Declarations of Whiteness: The Non-Performativity of Anti-Racism» sostiene come le stesse culture dell’apprendimento siano modellate esattamente sul privilegio...
Disapprendere il privilegio deve infatti trasformarsi in «learning to learn by below». Imparare a imparare dal basso, disattendendo le aspettative e le risposte che ci saremmo aspettati di ricevere e modificando i meccanismi di apprendimento, diventa un processo attivo per minare i meccanismi di dominazione e di controllo. Ammettere il privilegio significa cambiare la propria prospettiva d’osservazione, rappresenta il tentativo di ruotare l’angolo d’apprendimento attraverso cui ci hanno insegnato si debba guardare; significa andare oltre la tradizione che ha limitato le opportunità per una conoscenza alternativa. La prima fase per mettersi in ascolto dell’altro, per consentire che alle nostre orecchie la sua parola non sia muta, è dunque il riconoscimento critico del proprio privilegio.
* BIOGRAFIA E RICEZIONE - Al centro del dibattito internazionale e fuori commercio in Italia
Dal 2007, Gayatri Chakravorty Spivak, insegna alla Columbia University e fa parte dell’Institute for Comparative Literature and Society. Teorica della letteratura e critica femminista, è riconosciuta come una delle figure di spicco degli studi post-coloniali.
Si deve al suo contributo in quanto traduttrice l’introduzione della filosofia contemporanea francese - e in particolare di Jacques Derrida - nell’accademia statunitense. Ha partecipato alla fondazione a Dehli nel 1982 della rivista «Subaltern Studies» e nel 1988 ha codiretto la pubblicazione del celebre Selected Subaltern Studies.
Si deve a Spivak inoltre la pubblicazione di uno degli articoli fondatori degli studi post-coloniali, intitolato «Can the Subaltern Speak» del 1983: la filosofa ha contribuito infatti a rilanciare il termine di «subalterno» che Ranajit Guha aveva ripreso direttamente dalla concezione marxiana di Gramsci, per riconfigurarlo nella prospettiva della voce della donna subalterna e non in quella della storia raccontata dagli altri, il patriarcato o gli stati coloniali.
Tra le sue opere più note si ricordano: «A Critique of Postcolonial Reason: Toward a History of the Vanishing Present» (1999), «Death of a Discipline» (2003) e «An Aesthetic Education in the Era of Globalization» (2012).
In Italia, grazie alle traduzioni e le cure di Ambra Pirri, Angela D’Ottavio, Patrizia Calefato, Vita Fortunati, Lucia Gunella, Sandro Mezzadra e altri, alcuni suoi titoli, molti dei quali ormai fuori commercio, sono stati pubblicati per le case editrici Meltemi e ombre corte.
Il 6 giugno l’University of Paris, l’Institut Humanités et Sciences de Paris (Université Paris Diderot) e il CIPh (Collège International de Philosophie) hanno organizzato una giornata dedicata alla filosofa: «Pensée post-coloniale et genre. Rencontre autour de Gayatri Chakravorty Spivak». Il titolo della sua conferenza è stato «The Vanishing Present».
I cittadini europei riprendano il progetto europeo tra le proprie mani
Salviamo l’Europa, adesso!
Domenica 9 ottobre marciamo da Perugia ad Assisi per costruire una nuova Europa solidale e nonviolenta
Non è uno scherzo. E’ la vittoria dell’egoismo, della paura e del nazionalismo. L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea è un eccezionale terremoto politico ed economico che cambia la storia dell’Europa e del mondo. Le sue conseguenze sono immense. Ora si apre un periodo difficilissimo che aggiunge instabilità ad instabilità.
I responsabili di questo disastro sono da ricercare tra tutti quelli che hanno spento il sogno europeo di pace, prosperità e diritti umani.
Da decenni chiediamo ai responsabili dei governi e delle istituzioni dell’Europa di cambiare strada, di rimettere al centro le persone e il lavoro dignitoso, di promuovere equità e giustizia, inclusione sociale e sviluppo sostenibile. Lo abbiamo fatto con tutta l’energia e la passione che abbiamo avuto a disposizione. Senza essere ascoltati.
Ma un’Europa che abbandona i suoi cittadini in difficoltà, un’Europa stanca e rassegnata, senza un forte progetto, incapace di rispondere alla crisi economica, ai grandi drammi delle guerre e delle migrazioni, prigioniera di lobby irresponsabili, non ha futuro.
E senza l’Europa anche per l’Italia sarà tutto più difficile. Per questo è urgente cambiare. Chi si ostina a non sentire, deve farsi da parte!
C’è stato un tempo in cui i cittadini europei si sono uniti contro il pericolo di guerra atomica e la mancanza di libertà e sono riusciti a far cadere il muro di Berlino e a mettere fine a cinquant’anni di guerra fredda. E’ tempo che i cittadini europei riprendano il progetto europeo tra le proprie mani e costruiscano una nuova Europa.
Dopo il grande dibattito sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea è indispensabile aprire il grande dibattito sull’Europa che vogliamo, i nostri valori, la sua ragione di esistere in un mondo sempre più complesso, globalizzato e interdipendente, i nostri interessi comuni, il nostro ruolo nel mondo.
Lo abbiamo detto mille volte e lo ripetiamo ancora: è tempo di cambiare! Con coraggio e lungimiranza. Per questo invitiamo tutti a partecipare alla Marcia PerugiAssisi della pace e della fraternità del prossimo 9 ottobre. Ri-uniamo tutte le energie positive. Riflettiamo sulle cose che dobbiamo fare ma poi rimettiamoci in cammino. Insieme. Per una nuova Europa solidale e nonviolenta.
Flavio Lotti, Coordinatore della Tavola della pace
Perugia, 24 giugno 2016
Tavola della Pace
Cell. 3356590356 - segreteria@perlapace.it
www.perlapace.it - www.perugiassisi.org
di Armando Massarenti (Il Sole-24 Ore, Domenica, 19.06.2016
Dopo la recente affermazione della destra xenofoba in Austria, a un passo dal vincere le elezioni, ho ripensato a ciò che scriveva Paul K. Feyerabend nella sua splendida autobiografia, intitolata Ammazzando il tempo e uscita per Laterza nel 1994, anno della sua morte, a 70 anni di età. Esordiva fin dalle prime pagine avvertendo degli strani scherzi che può fare la memoria: quelli in forza dei quali magari oggi ci si stupisce del rinascere di certe idee che pensavamo del tutto tramontate.
Aveva deciso di scrivere quel libro nel 1988, durante il cinquantenario dell’unificazione tra Austria e Germania. «Ricordavo che gli austriaci avevano accolto Hitler con straordinario entusiasmo, ma ora mi ritrovavo ad ascoltare condanne secche e toccanti appelli umanitari. Non che fossero tutti in malafede, eppure suonavano vuoti: lo attribuii alla loro genericità e pensai che un resoconto in prima persona sarebbe stato un modo migliore di fare storia. Ero anche piuttosto curioso. Dopo aver tenuto lezioni per quarant’anni in università inglesi e americane, mi ero quasi dimenticato dei miei anni nel Terzo Reich, dapprima come studente, poi da soldato in Francia, Iugoslavia, Russia e Polonia».
Persino lui, Paul K. Feyerabend, dunque, già allora quello spirito libero che poi sarebbe divenuto famoso come l’epistemologo dell’anarchismo metodologico, aveva subito una forma di attrazione per il regime, e aveva anche meditato di entrare nelle SS. «Perché? Perché un uomo delle SS aveva un aspetto migliore, parlava meglio e camminava meglio di un comune mortale: le ragioni erano estetiche, non ideologiche». Finalmente un libertario, un democratico capace di non cadere nelle trappole dell’ipocrisia! ho pensato ai tempi leggendo Ammazzando il tempo. E che ci fa capire meglio perché il nazismo potesse attrarre le giovani generazioni. Anche rivedere l’immagine stereotipata di Hitler era per Feyerabend un modo per capire meglio la realtà. Abbiamo visto mille volte spezzoni di documentari che ce lo mostrano come una macchietta in preda all’ira. Si tratta di una precisa scelta della propaganda post-bellica. Feyerabend descrive invece così la sua arte oratoria: «Hitler accennava ai problemi locali e a quanto era stato fatto fino ad allora, faceva battute, alcune abbastanza buone. Gradualmente cambiava il modo di parlare: quando si riferiva a ostacoli e inconvenienti aumentava il volume e la velocità del parlare. Gli accessi violenti che sono le uniche parti dei suoi discorsi conosciute in tutto il mondo erano preparati con cura, ben interpretati e utilizzati con umore più calmo una volta finiti; erano il risultato di controllo, non di rabbia, odio o disperazione».
Ancora oggi, se del nazismo non cerchiamo di capire le ragioni interne, e magari non ci spaventiamo a rileggere Mein Kampf, non sapremo mai perché esso ha appassionato così tante persone. E sarà anche più difficile difendere i nostri valori più cari: libertà, pluralismo, democrazia. Benché l’intelligenza critica di Feyerabend fosse già piuttosto acuta, al punto da commentare la lettura di Mein Kampf (ad alta voce alla famiglia riunita) come un «modo ridicolo di esporre un’opinione», «rozzo, ripetitivo, più un abbaiare che un parlare», egli stesso, pochi giorni dopo, avrebbe concluso un tema scolastico su Goethe legandolo proprio a Hitler. Non solo la memoria collettiva può fare brutti scherzi: anche la nostra attenzione critica è qualcosa di quanto mai fragile. Ma lo è ancora di più se ci rifiutiamo di rileggere senza ipocrisia le pagine più buie della nostra storia.
I confini del Mein Kampf
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 16.06.2016)
HO LETTO la prefazione che lo storico contemporaneista Francesco Perfetti (Luiss, Roma) antepone per una dozzina di pagine al volume. Nonostante le dichiarate simpatie politiche del professor Perfetti, la presa di distanza dallo scritto di Hitler è abbastanza netta anche se un tema così sanguinoso avrebbe meritato ben altro approfondimento. Una cautela editoriale comunque fragile. Il volume riproduce in anastatica l’edizione fascista pubblicata (Bompiani) tra il 1934 e il 1937.
C’è la breve prefazione allora scritta ad hoc dal Fuhrer e una “Vita di Adolf Hitler” redatta con molta enfasi. Il tono di questi contributi stabilisce la vera temperatura del volume delineando la figura di un eroe, come del resto l’asservimento dell’Italia fascista al Reich imponeva. Nulla quindi a che vedere con le cautele storico-critiche di ben altra serietà adottate in Germania dopo lungo dibattito.
Non so perché il direttore de Il Giornale abbia preso una decisione di tale gravità. Sono state fatte molte ipotesi che vanno dalla simpatia personale per quei giorni al calcolo elettorale in vista dei ballottaggi. Si tratta di illazioni e non ho elementi per commentarle. So per certo che pubblicare un volume che ha avuto un tale peso criminale nella storia umana comporta una responsabilità morale (come sottolinea anche la signora Heymann) che la frettolosa edizione italiana, a voler essere benevoli, ignora: il 1937 è l’anno che precede la promulgazione delle leggi razziali il cui fondamento si trova in queste pagine.
SCHEDA *
La città divisa
Nicole Loraux
Neri Pozza Editore, pagg.448, Euro 40,00
IL LIBRO - Questo libro è il capolavoro di Nicole Loraux, la grande antichista francese da poco scomparsa. Esso tenta di ripensare da capo la polis greca, questo modello prestigioso di tutta la tradizione politica occidentale. La scoperta della Loraux è che a fondare la città greca, a fungere da paradigma alla democrazia, non sono né la libertà, né l’unità, né la comunità, ma qualcosa come un paradossale legame attraverso la divisione. Si tratta, cioè, di ripensare Atene sotto il segno della “stasis”, della guerra intestina, che divide e insanguina non solo la città, ma anche, l’”oikos”, la famiglia -o, piuttosto, circola, in un movimento incessante, dalla famiglia alla città, dai fratelli rivali ai cittadini nemici. La guerra civile non è, però, soltanto rottura e anomia, ma costituisce il legame politico segreto che anima e segna profondamente la vita e le istituzioni della democrazia greca, dal giuramento all’amnistia, dalla vendetta alla riconciliazione. Una città divisa deve essere, infatti, capace non solo di ricordare, ma anche di dimenticare, di ricomporre attraverso l’oblio (l’amnistia) l’unità perduta. E a poco a poco, come in ogni grande libro di storia, l’analisi del passato permette di guardare in una nuova luce le divisioni e i conflitti, la memoria e la smemoratezza della società in cui viviamo.
DAL TESTO - “La città degli antropologi [...] non agisce nel tempo dell’evento, ma in quello ripetitivo delle pratiche sociali - il matrimonio, il sacrificio -, in cui fare è ancora un modo di pensare. Di pensare se stessi assegnando (tentando di assegnare) un posto all’altro, a tutti gli altri e, di conseguenza, al medesimo: ricollegando i margini al centro, a quegli “andres” che sono la città ma hanno bisogno, per esempio, delle donne per costituirla veramente. Così il matrimonio fonda la città assicurandone la riproduzione. Dopodiché, una volta costituitasi la “polis” in società umana, la si può situare in rapporto a un altrove. O meglio: di questo altrove, tempo degli dei, mondo selvaggio delle bestie, la città proclama la distanza per meglio farlo, mettendolo al posto opportuno. La città ha assorbito il suo fuori, e il sacrificio fonda la “polis”: lontani dagli dei, ma dotati della cultura, gli uomini sacrificano loro un animale, e questo gesto distribuisce il sistema di esplosioni e integrazioni intorno al nucleo degli “andres”. Dal taglio sacrificale e della sua interpretazione in atto nascerebbe a ogni cerimonia il politico: ugualitario come la condivisione, isomorfo... Diremo anche neutralizzato? Il politico come circolazione immobile, o la città a riposo”.
L’AUTORE - Nicole Loraux (1943-2003) ha insegnato «Histoire et anthropologie de la cité greque» presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales dal 1981 al 1994. Dei suoi numerosi libri, in italiano sono apparsi: “Come uccidere tragicamente una donna” (Laterza, 1988), “Il femminile e l’uomo greco” (Laterza, 1991), “Le madri in lutto”(Laterza, 1991), “Nati dalla terra. Mito e politica ad Atene” (Meltemi, 1998) e “La voce addolorata. Saggio sulla tragedia greca”(Einaudi, 2001).
INDICE DELL’OPERA - Introduzione, di Gabriella Pedullà - Prefazione - La città divisa: sopralluoghi - I. L’oblio nella città - II. Ripoliticizzare la città - III. L’anima della città - Sotto il segno di Eris e di alcuni suoi figli - IV. Il legame della divisione - V. Giuramento, figlio di Discordia - VI. Dell’amnistia e del suo contrario - VII. Su un giorno vietato del calendario ateniese - Politiche della riconciliazione - VIII. La politica dei fratelli - IX. Una riconciliazione in Sicilia - X. Della giustizia come divisione - XI. E la democrazia ateniese dimenticò il “kratos” - Ringraziamenti - La guerra nella famiglia
* http://www.archiviostorico.info/Rubriche/Librieriviste/recensioni6/Lacittadivisa.htm
Mein Kampf in edicola, scherzare con il fuoco
L’iniziativa de Il Giornale. La scelta di Sallusti non offende solo la sensibilità degli ebrei, come si sente dire da più parti, ma il buonsenso di tutte le persone civili. Al di la della illeggibilità di un testo infarcito delle farneticazioni di un tribuno da operetta che sfruttava il disorientamento di un popolo, ciò che impressiona oggi è l’ingenuità della sua riproposizione come se in esso si trovasse anche l’antidoto ai veleni di cui esso stesso è portatore.
di Enzo Collotti (il manifesto, 14.06.2016)
La trovata de Il Giornale di distribuire il Mein Kampf per aumentare le vendite è semplicemente indecente. Non si capisce se è una trovata spregiudicata o se vuole essere un ammiccamento morboso ad uso di un pubblico sicuramente non avvezzo a bocconi così forti.
Certo non è una lettura neutrale, e il proposito di farne l’introduzione ad una serie di pubblicazioni sul nazismo non rende l’idea meno perversa. Essa sfrutta l’appeal che continua ad avere il Führer in virtù dell’attrazione del mostro ma senza fornire gli strumenti per neutralizzarlo.
È un po’ scherzare con il fuoco, come se in un frangente in cui tornano virulenti populismi e razzismi nelle più diverse matrici ci fosse ancora bisogno di normalizzare l’orrore offrendolo in pasto agli ignari lettori fuori dal contesto in cui il Führer lo concepì e a distanza di quasi un secolo dalla sua originaria pubblicazione.
Un anacronismo, si direbbe, se non fosse che c’è ancora qualcuno che pensa a pulizie etniche, a muri di separazione, a gerarchie di razza, ad egoistici esclusivismi e che potrebbe trovare in un simile oggetto incoraggiamento e argomenti.
Al di la della illeggibilità di un testo infarcito delle farneticazioni di un tribuno da operetta che sfruttava il disorientamento di un popolo uscito dalla sconfitta, dalla catastrofe economica e dalla demoralizzazione e che prometteva con freddo calcolo l’assassinio di milioni di esseri umani, ciò che impressiona oggi è l’ingenuità della sua riproposizione come se in esso si trovasse anche l’antidoto ai veleni di cui esso stesso è portatore.
Il fatto singolare è che mentre in Germania, come cercheremo di spiegare in altra sede, si procede con cautela a ristampare con un’edizione «critica», corredata da un autorevole e anche troppo pignolesco commento di accompagnamento, il testo incriminato, in Italia senza troppi complimenti lo si distribuisce quasi gratuitamente e senza troppo curarsi della sua correttezza non dico filologica ma neppure logica.
Si tratti di una consapevole provocazione o di una operazione mirata e sicuramente male architettata, l’iniziativa de Il Giornale non offende solo la sensibilità degli ebrei, come si sente dire da più parti, ma il buonsenso di tutte le persone civili che sono messe a confronto con uno dei capolavori del pensiero perverso senza essere necessariamente preparati a svelenirne il contenuto.
Sarebbe vano invocare censure, dovremmo contare solo sulle capacità di ciascuno di esercitare la propria censura interna e di avere una cultura e un’educazione storica e politica superiori a quella dei media che insieme al buon senso insidiano la buona fede e la curiosità dello sprovveduto lettore attratto dall’apparente novità nel singolare quanto orrido messaggio.
Mein Kampf
Non è un libro normale, è un inno allo sterminio
di Donatella Di Cesare (Corriere Sera, 14.06.2016)
Hitler non si addice alle edicole. La scelta di «regalare» Mein Kampf come allegato deve essere condannata con grande fermezza da una società civile. Quali che siano i motivi reconditi che possono aver spinto il Giornale a diffondere il libro di Hitler, si tratta di una scelta gravissima, irragionevole e ingiustificabile.
Questo fatto - come ha dichiarato Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme - è «senza precedenti». Non stupisce che la stampa internazionale abbia dato rilievo alla notizia. Dalla Frankfurter Allgemeine a Die Welt e al Washington Post , per citare solo alcune testate, lo sconcerto è unanime. E ci si chiede come mai, nell’Italia di oggi, Hitler possa tornare a essere popolare.
Il «regalo» è giunto sabato scorso - per gli ebrei alla vigilia di Shavuot, la festa in cui si ricorda il dono della Torah, il Libro dei libri. Triste coincidenza, dunque, che nelle edicole di un Paese europeo, coinvolto nello sterminio, girasse la «Bibbia del nazismo». Né si può sorvolare su una coincidenza inquietante: solo pochi giorni fa è stata finalmente approvata la legge contro il negazionismo.
Vuoi per richiamo morboso, vuoi per banale interesse, nelle edicole l’allegato è esaurito. Questa sarebbe una operazione culturale? Distribuire il secondo volume del testo di Hitler, intitolato La mia battaglia , nella vecchia edizione Bompiani del 1937? Non è una edizione critica: non ci sono né note, né commenti. Non può farne le veci la breve e discutibile introduzione di Francesco Perfetti, il quale sembra ignorare il successo ottenuto, persino nel mondo accademico tedesco, dall’«antisemitismo della ragione» propugnato da Hitler. L’edizione critica, pubblicata in Germania nel gennaio del 2016, è costituita da due volumi di 2.000 pagine e corredata da ben 3.500 note.
Ma arriviamo al punto. I campioni dell’ultraliberalismo hanno gridato alla censura e si sono appellati alla necessità di leggere Hitler come «documento storico». Qui è bene chiarire: Mein Kampf non è un libro come un altro. Non può essere paragonato ad altri libri antisemiti che hanno propagato e propagano ancor oggi le teorie del complotto. Mein Kampf è il libro che contiene il primo progetto di sterminio planetario del popolo ebraico.
Chi lo ha letto lo sa. E sa giudicare la gravità incommensurabile di quelle pagine che preludono all’annientamento. Per Hitler gli ebrei sono gli «stranieri», che cancellano i confini - quelli geografici e quelli tra i popoli. Distruggono gli altri per dominare il mondo; la loro «vittoria» sarebbe «la ghirlanda funeraria dell’umanità», decreterebbe la fine del cosmo. Il pericolo maggiore viene indicato nella possibile fondazione di uno «Stato ebraico». Perché non ci deve essere luogo alcuno, per gli ebrei, nel mondo. Di qui l’annientamento.
Dare allora queste pagine da leggere senza una guida critica? Certo che occorre conoscere Mein Kampf . E chi responsabilmente si occupa della Shoah lo legge e lo fa leggere. Non era necessario che il Giornale degradasse la cultura italiana per avvertirci che il male si deve conoscere. Noi il male non lo dimentichiamo. Ma siamo convinti che uno studio critico, come quello che d’altronde già si compie in molte università e scuole italiane, sia la strada giusta per conoscere il passato e per guardare con più consapevolezza al futuro.
Perché SI
Leggere il Mein Kampf apre gli occhi
Il volume è utile per capire che il centro delle emozioni dell’estrema destra non è essere forti, ma la paura di essere deboli. Il senso di inferiorità spinge a voler dominare gli altri anche attraverso il terrore
di Carlo Rovelli (Corriere della Sera, 14.06.2016)
Il Giornale propone in edicola copie del libro di Hitler, Mein Kampf. Ci sono ragioni per essere offesi o disgustati da questa scelta, e Alessandro Sallusti, il direttore del Giornale, lo dico apertamente, non è persona che mi piace. Eppure mi sono trovato d’accordo con lui quando, forse un po’ goffamente, ha provato a difendere la sua provocazione dicendo che per combattere un male bisogna conoscerlo.
Ho letto Mein Kampf qualche tempo fa, e effettivamente mi ha insegnato delle cose: cose che non mi aspettavo. Provo a riassumerle. Il nazismo è stato un feroce scatenarsi di aggressività. Dalla notte dei lunghi coltelli alla disperata difesa di Berlino, ha cavalcato la violenza estrema. La giustificazione ideologica immediata per la brutalità e la violenza era la superiorità della razza e della civiltà germanica, l’esaltazione della forza, la lettura del mondo in termini di scontro invece che di collaborazione, il disprezzo per chiunque fosse debole.
Questo pensavo, prima di leggere Mein Kampf. Il libro di Hitler è stato una sorpresa perché mostra cosa c’è alla sorgente di tutto questo: la paura. Per me è stata una specie di rivelazione, che mi ha d’un tratto fatto comprendere qualcosa della mentalità della destra, per me da sempre difficile da cogliere. Una sorgente centrale delle emozioni che danno forza alla destra, e all’estrema destra sopratutto, non è il sentimento di essere forti: è la paura di essere deboli.
In Mein Kampf, questa paura, questo senso di inferiorità, questo senso del pericolo incombente, sono espliciti. Il motivo per cui bisogna dominare gli altri è il terrore che altrimenti ne saremo dominati. Il motivo per cui preferiamo combattere che collaborare è che siamo spaventati dalla forza degli altri. Il motivo per cui bisogna chiudersi in un’identità, un gruppo, un Volk, è per costruire una banda più forte delle altre bande ed esserne protetti in un mondo di lupi. Hitler dipinge un mondo selvaggio in cui il nemico è ovunque, il pericolo è ovunque, e l’unica disperata speranza per non soccombere è raggrupparsi in un gruppo e prevalere.
Il risultato di questa paura è stata la devastazione dell’Europa, e una guerra con un bilancio totale di 70 milioni di morti. Cosa ci insegna questo? Penso che quello che ci insegna è che ciò da cui bisogna difendersi per evitare le catastrofi non sono gli altri: sono le nostre paure degli altri. Sono queste che sono devastanti. È la paura reciproca che rende gli altri disumani e scatena l’inferno. La Germania umiliata e offesa dall’esito della prima guerra mondiale, spaventata dalla forza della Francia e della Russia, è stata una Germania che si è autodistrutta; la Germania che, imparata la lezione sulla sua pelle, si è ricostruita come centro di collaborazione e di resistenza alla guerra è una Germania che è fiorita. A me questo insegnamento suona attuale. Forse ora nel mondo la paura reciproca sta aumentando, non lo so, ma a me sembra che noi siamo i primi ad alimentarla. Chi si sente debole ha paura, diffida degli altri, difende se stesso e si arrocca nel suo gruppo, nella sua pretesa identità. Chi è forte non ha paura, non si mette in conflitto, collabora, contribuisce a costruire un mondo migliore anche per gli altri. Pochi libri svelano questa intima logica della violenza come Mein Kampf.
Hitler secondo l’anarchico Feyerabend
di Armando Massarenti (Il Sole-24 Ore, Domenica, 19.06.2016)
Dopo la recente affermazione della destra xenofoba in Austria, a un passo dal vincere le elezioni, ho ripensato a ciò che scriveva Paul K. Feyerabend nella sua splendida autobiografia, intitolata Ammazzando il tempo e uscita per Laterza nel 1994, anno della sua morte, a 70 anni di età. Esordiva fin dalle prime pagine avvertendo degli strani scherzi che può fare la memoria: quelli in forza dei quali magari oggi ci si stupisce del rinascere di certe idee che pensavamo del tutto tramontate.
Aveva deciso di scrivere quel libro nel 1988, durante il cinquantenario dell’unificazione tra Austria e Germania. «Ricordavo che gli austriaci avevano accolto Hitler con straordinario entusiasmo, ma ora mi ritrovavo ad ascoltare condanne secche e toccanti appelli umanitari. Non che fossero tutti in malafede, eppure suonavano vuoti: lo attribuii alla loro genericità e pensai che un resoconto in prima persona sarebbe stato un modo migliore di fare storia. Ero anche piuttosto curioso. Dopo aver tenuto lezioni per quarant’anni in università inglesi e americane, mi ero quasi dimenticato dei miei anni nel Terzo Reich, dapprima come studente, poi da soldato in Francia, Iugoslavia, Russia e Polonia».
Persino lui, Paul K. Feyerabend, dunque, già allora quello spirito libero che poi sarebbe divenuto famoso come l’epistemologo dell’anarchismo metodologico, aveva subito una forma di attrazione per il regime, e aveva anche meditato di entrare nelle SS. «Perché? Perché un uomo delle SS aveva un aspetto migliore, parlava meglio e camminava meglio di un comune mortale: le ragioni erano estetiche, non ideologiche». Finalmente un libertario, un democratico capace di non cadere nelle trappole dell’ipocrisia! ho pensato ai tempi leggendo Ammazzando il tempo. E che ci fa capire meglio perché il nazismo potesse attrarre le giovani generazioni. Anche rivedere l’immagine stereotipata di Hitler era per Feyerabend un modo per capire meglio la realtà. Abbiamo visto mille volte spezzoni di documentari che ce lo mostrano come una macchietta in preda all’ira. Si tratta di una precisa scelta della propaganda post-bellica. Feyerabend descrive invece così la sua arte oratoria: «Hitler accennava ai problemi locali e a quanto era stato fatto fino ad allora, faceva battute, alcune abbastanza buone. Gradualmente cambiava il modo di parlare: quando si riferiva a ostacoli e inconvenienti aumentava il volume e la velocità del parlare. Gli accessi violenti che sono le uniche parti dei suoi discorsi conosciute in tutto il mondo erano preparati con cura, ben interpretati e utilizzati con umore più calmo una volta finiti; erano il risultato di controllo, non di rabbia, odio o disperazione».
Ancora oggi, se del nazismo non cerchiamo di capire le ragioni interne, e magari non ci spaventiamo a rileggere Mein Kampf, non sapremo mai perché esso ha appassionato così tante persone. E sarà anche più difficile difendere i nostri valori più cari: libertà, pluralismo, democrazia. Benché l’intelligenza critica di Feyerabend fosse già piuttosto acuta, al punto da commentare la lettura di Mein Kampf (ad alta voce alla famiglia riunita) come un «modo ridicolo di esporre un’opinione», «rozzo, ripetitivo, più un abbaiare che un parlare», egli stesso, pochi giorni dopo, avrebbe concluso un tema scolastico su Goethe legandolo proprio a Hitler. Non solo la memoria collettiva può fare brutti scherzi: anche la nostra attenzione critica è qualcosa di quanto mai fragile. Ma lo è ancora di più se ci rifiutiamo di rileggere senza ipocrisia le pagine più buie della nostra storia.
di Angelo d’Orsi (il manifesto, 12.06.2016)
Nel 1949 uno studioso francese diede alle stampe Les grandes ouvres politiques. De Machiavel à nos jours, un manuale che presentava 15 opere, la prima delle quali era Il Principe machiavelliano, l’ultima, Mein Kampf di Adolf Hitler. Una scelta singolare, che appariva ancora più bislacca, nel titolo della edizione italiana, Le grandi opere del pensiero politico.
Eppure quel libro, adottato in molti corsi universitari, fino a pochi anni or sono, anche per la sua relativa semplicità espositiva, ebbe enorme circolazione.
Certo, ancor prima di soffermarsi sul contenuto, era a dir poco discutibile che tra le «grandi opere», si inserisse un testo farraginoso, confuso, privo di qualsiasi coerenza espositiva, e anche di originalità.
L’autore, che lo vergò nella breve detenzione, dopo il fallito colpo di Monaco nel novembre ’23, non faceva che rimasticare teorie razziste diffuse in Europa dal tardo Ottocento, mescolandole a ricordi autobiografici, e a bizzarre «folgorazioni», come quella che nasceva dalla constatazione della ebraicità di Karl Marx, e dunque il bolscevismo marxista, era una sola cosa con l’ebraismo, colpendo l’uno si colpiva l’altro...
Un testo che, anche dopo che fu aggiustato a fini editoriali, appare di disarmante rozzezza, ma pieno di tossine velenose.
Un campionario di scemenze rivestite, talora, di «scienza», talaltra semplicemente condite in intingolo politico che raccoglie i risentimenti di classi medie e classi popolari frustrate, economicamente e psicologicamente, dalla sconfitta della Germania.
Il libro fu il vademecum nazista e fu imposto ovunque nel Terzo Reich, con milioni di copie diffuse, e spesso vendute, con relative royalties incassate dall’autore. Poi venne la damnatio del Secondo dopoguerra, anche se l’opera ha continuato a circolare un po’ ovunque, in circuiti semiclandestini o, in molti paesi, liberamente.
Della «Mia battaglia» (ecco il significato dello stentoreo titolo tedesco), sono in circolazione diverse edizioni italiane. Da poco, essendo scaduti i diritti (70 anni dalla morte dell’autore), detenuti dal Land della Baviera, è stato annunciato un ritorno del testo originale negli scaffali in Germania (dove era vietato), e, anche altrove, grazie a un’edizione critica, che si annuncia filologicamente ineccepibile.
L’annuncio aveva suscitato immediato dibattito, sia pure di alto livello, mentre davanti all’attuale distribuzione dell’opera hitleriana con il Giornale le polemiche appaiono di basso profilo.
Si tratta innanzitutto di un’operazione commerciale (le copie del quotidiano a metà mattina erano esaurite nelle edicole da me battute...); anche se il significato politico-culturale è fuori discussione, i commenti di dirigenti del Pd che hanno denunciato l’ azione «elettoralistica» di Sallusti & C., per far votare i candidati «estremisti» contro quelli del partito renziano suonano grotteschi.
Se perderanno, sarà dunque colpa di Hitler?
Qualcuno tra costoro non ha mancato di evocare lo spettro penale: sorvegliare e punire, insomma.
Precisato che, a differenza di quanto è stato detto alla vigilia, il libro non era «omaggio» ma a pagamento, inquieta comunque che un quotidiano si sia preso la briga di inaugurare una collana editoriale con siffatta perla.
Personalmente, forse anche sulla base della mia professione di studioso di idee politiche, ritengo ovvio che si possa leggere Hitler; ma non come gadget di un quotidiano di informazione; che al Giornale se la cavino asserendo che il loro retropensiero sarebbe attivare i controveleni rispetto al nazifascismo fa sorridere.
Perché quel giornale, non certo da solo, da anni alimenta razzismo e intolleranza, diffidenza o addirittura odio per lo straniero: e fa specie dunque, che quel giornale (che del revisionismo storico ha fatto una linea di condotta, contribuendo a «normalizzare» il fascismo) distribuisca oggi un testo che se la prende, guarda caso, con «gli sporchi stranieri». E l’ebreo, era per Hitler, il più sporco degli «stranieri», e andava eliminato, in un modo o nell’altro.
Auschwitz è in nuce in quel testo.
Siamo ora giunti a uno dei punti terminali del revisionismo: siamo passati dalla constatazione filosofica della «banalità del male», alla sua deliberata, volontaria e più sconcertante banalizzazione.
I maestri del disprezzo per le donne
di Daniela Monti (Corriere della Sera, 08.06.2016)
Nel 1929 Virginia Woolf, nel saggio Una stanza tutta per sé, inventa una storia: quella di Judith, ipotetica sorella di William Shakespeare, stessa genialità, stessa irrequietezza, stessa voglia di fare del fratello. Per seguire il proprio talento, Judith si istruisce come può, leggendo il poco che trova per casa (ma appena i genitori se ne accorgono, le tolgono i libri e le mettono in mano delle calze da rammendare), rifiuta il matrimonio spezzando il cuore al padre, scappa per inseguire il sogno di fare teatro e viene accolta da un impresario che la schernisce e da un agente teatrale che, impietosito, la mette incinta. Alla fine, non trova altra via di uscita che uccidersi.
Mentre il talento del fratello è celebrato, il suo non vale niente: ha sfidato l’ordine naturale delle cose che la vuole debole, inferiore, indegna di ricevere un’istruzione e, insieme, selvaggia e ingestibile, una a cui mettere fin da subito il guinzaglio; si è illusa di potersi esprimere da donna e artista, senza neppure ricorrere all’espediente di camuffarsi da uomo, che pure è una strada battuta; ha sbagliato tutto, è andata fuori ruolo e infatti non c’è nessuno disposto ad ascoltarla. Così Judith «giace sepolta a un certo incrocio, lì dove ora gli autobus si fermano nei pressi di Elephant and Castle». Potessimo posare una lapide mortuaria, sopra ci sarebbe scritto: coraggiosa e ingenua Judith Shakespeare, vittima di due millenni di pregiudizi contro le donne.
Perché quello contro il genere femminile, «a conti fatti, appare come il più antico, radicato, diffuso pregiudizio che la vicenda umana è stata in grado di produrre», scrive Paolo Ercolani nel suo Contro le donne (Marsilio, pp. 318, e 17,50), resoconto dettagliato di come, dalle origini della società occidentale, scrittori, filosofi, intellettuali abbiano alimentato un dibattito «tutto fra uomini» - le donne sembrano assenti dalla filosofia, se non come oggetto del discorso dei filosofi maschi - «per arrivare a stabilire l’inferiorità inemendabile e irrecuperabile dell’essere femminile». I grandi filosofi greci, i padri della Chiesa, gli illuministi, i rivoluzionari, i filosofi idealisti, persino quel campione della causa femminile che fu John Stuart Mill: un’operazione culturale a senso unico che affonda le radici nella presunta «deficienza fisica» delle donne per poi esportare tale mancanza in altri campi, quelli dell’etica, della morale, dell’organizzazione politica della società.
Fu nell’Atene democratica, «tanto esaltata dalla tradizione occidentale, che si diffuse il costume di imporre alle donne il velo di fronte a situazioni pubbliche e a uomini scapoli, al contrario di quello che accadeva a quel tempo in Persia o in Siria», scrive Ercolani, aprendo il fronte della globalizzazione del pregiudizio, il quale, come le malattie contagiose, è riuscito a infettare culture lontane e all’apparenza inconciliabili, stringendole in un unico blocco misogino.
E loro, le donne? «Molto spesso sono le donne stesse a sminuirsi rispetto al maschio, in una sorta di autofobia indotta da secoli di indottrinamento», scrive Ercolani. Il femminismo, che pure è una delle grandi narrazioni della modernità, resta ai margini del lungo excursus, diventando esso stesso un bersaglio quando «negando l’esistenza di una specificità femminile (differente dal maschio) e prefigurando irrealistici scenari di individui a-sessuati ha finito con il fare da sponda al pensiero misogino».
La via d’uscita proposta sta nel ridefinire i canoni dell’identità e soggettività umana, al di là del «narcisismo di genere». Come scriveva Caterina Botti nel suo Prospettive femministe (Mimesis), «fino a relativamente poco tempo fa l’assenza delle donne dalla filosofia non era considerata una questione degna di nota. Oggi invece lo è».
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
La sinistra prigioniera dell’Io
di Vittorio Giacopini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 05.06.2016)
Lo scrive quasi per inciso, velocemente. Nel ’73, ragionando della débâcle della “sinistra” di fronte al Vietnam, Elvio Fachinelli chiarisce di mettersi «dal punto di vista del futuro», che è «ciò che conta», mentre, nell’immediato, prevalgono la lingua di legno dell’ideologia, i motivi «di auto apologia anche nella sconfitta», la consolazione da niente dell’estremismo facile, il moralismo ricattatorio, gli schemi sterili. Di fronte alle bombe americane e allo sterminio, l’elusione del tema “privato” della responsabilità individuale da dichiarazione retorica, e politica, scadeva in alibi e apatia, falsando tutto. Non stava prendendo le distanze dalla sua parte politica: decifrava i segnali del presente, giudicava.
Da psicoanalista diffidente anche della sua istituzione (e di ogni istituzione, semplicemente), Fachinelli andava ancora una volta diritto “al cuore delle cose”, strappando maschere. L’esempio dei marines americani era, appunto, un esempio, o meglio un sintomo. Non erano «bestie assetate di sangue» ma gente normale, giovani «normali ai quali nessuno ha insegnato come compito primario il rifiuto di obbedienza ai feticci». Così, «dal punto di vista del futuro», coglieva un passaggio di fase capitale e la fine di un decennio confuso, ma bellissimo.
Con gli anni Settanta, si inaugura una nuova fase di controllo - di dominio - e la mancata capacità della sinistra di leggere nella Storia un inesauribile, esasperante intreccio di vicende individuali e collettive che ha creato un effetto di delega suicida.
«Come una volta si concedeva il cielo ai teologi, la sinistra ha concesso ai teologi dell’Io il problema della soggezione e della ribellione al potere».
Ecco, in questi suoi scritti politici (bellissimi), Fachinelli va effettivamente al cuore delle cose proprio scagliandosi contro i “teologi dell’Io”, questi sciamani, per tornare a mettere in primo piano quell’intreccio di piani labirintico che lega i fantasmi dell’Io al mondo e alla Storia e persino nella Storia e nel mondo genera (altri) fantasmi e blocchi e strozzature. Era il suo modo di fare politica e psicoanalisi, leggere il tempo.
In questa raccolta di saggi, articoli di giornali e interviste, editoriali, ci sono quasi trent’anni di Storia e una “lezione” di metodo e di sguardo inarrivabile. Nella prefazione al volume Dario Borso nota che forse il «paziente più complicato» di Fachinelli «fu l’Italia» e coglie nel segno. L’impressione - a leggere seguendo l’ordine temporale, anno per anno - è semplicemente raggelante.
La lunga analisi della società italiana che Fachinelli conduce sulle pagine dei «Quaderni Piacentini», o dell’«Erba Voglio», o dalle più posate colonne del «Corriere della Sera», o dell’«Espresso» radiografa una chiusura - una progressiva claustrofilia - che mette i brividi. Energie, pulsioni, istanze di liberazione e autonomia finiscono per svilirsi e impallidiscono. Lui non è che se ne lamentasse, ci ragionava.
Nel ’68 aveva ritrovato al cuore della “protesta” giovanile un’istanza di desiderio dissidente, cioè senza oggetto, capace quindi di scarto liberatorio nei confronti del reale, del potere (i giovani - diceva - si scagliano contro «un’immagine di società che mentre promette una sempre più completa liberazione dal bisogno, nello stesso tempo minaccia una perdita dell’identità personale»).
Oltre vent’anni dopo, ai tempi di Chernobyl, questo impulso di sovversione appare riassorbito, “recuperato”. «La novità più caratteristica, per un analista, di questa epoca dell’inquinamento, è la corrispondenza, a volte la coincidenza puntuale, tra alcuni dei più profondi fantasmi individuali e i tratti tipici dell’epoca stessa». Tra l’Io e la Storia, non c’è più margine di gioco, e non c’è più scarto.
“Al cuore delle cose. Scritti politici (1967-1989)” di Elvio Fachinelli a cura di Dario Borso, una raccolta di testi che offrono una chiave inedita per affrontare le questioni politiche
di Delia Vaccarello (l’Unità, 1 giugno 2016)
Psicanalisi e politica: due volti per un solo “cuore”. C’è un nesso stretto tra la psicanalisi che considera l’inconscio un “ospite interno”, straniero eppure intimo, e una visione secondo la quale «il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia». Due volti e una voce, quella di Elvio Fachinelli nella veste di giornalista che giunge a noi grazie alla raccolta Al cuore delle cose.
Scritti politici (1967-1989) a cura di Dario Borso (DeriveApprodi). Pagine attraversate da uno slancio che vede il pensiero, la clinica e la pratica politica in grado di lavorare per azzerare barriere ed esclusioni. Fachinelli crea, anticipa, interroga con quel coraggio che al contrario di Don Abbondio «uno se lo può dare». La sua politica, che vuole uscire dai problemi «tutti insieme», trova radici nelle innovazioni da lui proposte in psicanalisi. Ed è legata all’uso di una parola che è atto in grado di cambiare la realtà sia nelle stanze di analisi (quando il setting funziona) che nella politica degna di questo nome.
Nelle riflessioni “Sulla spiaggia”(“la mente estatica”, Adelphi) Fachinelli abbandona la psicanalisi come difesa pignola da un presunto pericolo interno, come fabbrica di armi ben appuntite e di corazze, per volgersi all’accoglimento dell’inconscio, a un modo «femminile» di andare al cuore delle cose. L’inconscio, ancora prima di esaminarlo, diventa un «ospite» da accogliere. Ma se il sistema di vigilanza-difesa è collegato con la impostazione virile, «allora accogliere: femminile? Il femminile sarebbe allora nel cuore, il cuore di molte e diverse esperienze». Sarebbe esporsi all’estasi laica e alla gioia, rinunciando all’illusione di padronanza. Tematica ripresa dalla «fachinelliana» Cristiana Cimino nel suo Il discorso amoroso (manifestolibri, del quale abbiamo parlato in queste pagine) dove proprio a partire dalla «posizione femminile», che implica l’accantonamento del primato della coscienza ed è strada praticabile da maschi e femmine senza prerogative di genere, c’è una possibilità di uscire da sé per intrecciare un legame intimo.
Con Fachinelli giornalista è come se ci trovassimo alla radice di un doppio registro: se non mi difendo dall’Altro che mi abita dentro, cioè dall’inconscio, ma lo accolgo, posso aprire gli occhi anche sull’Altro fuori di me e prendermi cura del legame sociale. Il cambiamento rispetto all’inconscio diventa «visione». Così una psicanalisi che è atto etico nei confronti dell’Altro può ispirare una politica che si muova nella stessa direzione. Messaggio attualissimo.
Pensiamo alla necessità di rapportarci agli esclusi di oggi, i migranti, che sono in mezzo a noi ma “estranei”, in cerca di casa e lavoro, ma sempre di passaggio. Ospiti. Specchio di una precarietà esistenziale che suscita inquietudine e angoscia. Sarebbe vitale una politica dell’immigrazione ispirata dall’etica di una vulnerabilità che riguarda tutti. I migranti di oggi sono, negli scritti politici di Fachinelli, i ragazzi che scrivono Lettera a una professoressa con Don Milani, e saranno tra le urgenze che lo spingeranno a immergersi nel ’68. «Trovai in quel libro», dice, «un richiamo alla eguaglianza delle condizioni e una prima denuncia delle deficienze della istituzione scolastica».
Di 56 alunni, dopo gli anni dell’obbligo, ne erano rimasti 16. Richiamo che lo portò nell’asilo autogestito di porta Ticinese ad analizzare il sorgere della società fascista o mafiosa: se manca la figura dell’adulto, a fare legge è la prepotenza, dice Fachinelli, o meglio “Elvio cacato”, come per un periodo fu chiamato da quei bimbi molti dei quali immigrati del nostro Sud. Articolo dopo articolo vediamo la psicanalisi offrire chiavi alla politica. Così ne Il desiderio dissidente, scritto comparso in Quaderni piacentini proprio nel ’68, «la società che soddisfa il bisogno ruba l’identità».
Allora, essenziale per i gruppi di giovani che si stavano formando proprio in quel momento è alimentare uno stato nascente: «il gruppo impara sempre meglio che essenziale per la sua sopravvivenza non è l’oggetto del desiderio ma lo stato di desiderio», laddove il desiderio appagato muore trascinando con sé il gruppo. Occhio ad incarnare il desidero nella figura del leader - che sia persona o valore -perché altrimenti si entra nella fissità del bisogno. Osservazioni fertili anche oggi se pensiamo alla trasformazione dei movimenti nati grazie al web in nome di una modalità orizzontale di rappresentanza e gestiti poi dalle logiche del leaderismo. Anni dopo, nel 1988, in “estasi metropolitane” la condizione estrema della mente, nella sua accezione laica diviene accessibile a tutti grazie al gusto della «velocità per la velocità» che attrae in quanto stravolgimento del tempo.
Una metropoli come New York permette l’estasi della promiscuità, l’appartenenza a una dimensione più vasta e la gioia. Se la voce di Fachinelli si fa graffiante e interrogante dinanzi al «suo paziente più complicato» che fu l’Italia, come sottolinea l’ottimo curatore , non è priva dei toni dell’indignazione e dello scacco. Una delle chiavi va trovata nell’uso del termine «prudenza», cioé viltà. Con i ragazzi di Barbiana Fachinelli concorda: si accettano consigli «purché siano per la chiarezza, si rifiutano i consigli di prudenza». Nel ’75 analizzando il nuovo rapporto tra operai e imprenditori, gli uni “pro tetti” gli altri “assistiti”anticipa la fisionomia della futura classe dirigente: «ne deriva un nuovo potere costretto a concentrare politica, economia e controllo sociale».
Così come una società frenata, immobile, che taccia di “imprudenza” i piccoli gruppi capaci di cambiamento: le femministe, i radicali per l’aborto. Toccante, infine, l’ultimo scritto della raccolta, Don Abbondio, “il vittorioso”. Fachinelli nota che Manzoni, mostrando il cuore nero (e avaro) dell’universo umano, ha cancellato dal lessico del curato viltà e coraggio, e «al posto della prima troviamo la prudenza». E’ il 1989, Fachinelli sta per morire, lasciandoci un buon itinerario per andare al «cuore delle cose» . E tutto il suo coraggio.
di DARIO BORSO e ELVIO FACHINELLI *
Premessa
di Dario Borso
1. Una psicanalisi della domanda invece che della risposta: questo fu in sintesi l’indirizzo che perseguì Elvio Fachinelli nella sua breve vita[1]. Quindi fondamentalmente interrogò - non solo i soggetti in analisi, e neanche solo gli individui in genere, interrogò la «realtà», quel fantasma che Jacques Lacan amava ridicolizzare e invece lui prendeva assai sul serio. Così il paziente suo più complicato fu l’Italia, e il trattamento più lungo fu della realtà italiana - esattamente dal 1966, appena conclusa con il decano Cesare Musatti l’analisi didattica, all’anno di morte 1989.
Di Musatti, ergo di Freud, Fachinelli adottò lo sguardo obliquo, lo scarto del cavallo che spiazzato sa spiazzare. E perciò dell’Italia, quasi fosse un quadro, seppe cogliere i particolari illuminanti, gli imprestiti da esperienze altrui, le persistenze di uno stile nell’alternarsi dei periodi: tre decenni tondi, che nella sua attività «giornalistica» sezionò e ricompose con sapiente tempestività.
Ciò che è noto, l’elenco intendo (rivolta studentesca, lotte operaie, speranze e accelerazioni negli anni Sessanta; terrorismo, derive autoritarie, progetti di autonomia, delusioni e tracolli nei Settanta; riflusso edonistico, innovazioni tecnologiche e nuove forme di sopravvivenza negli Ottanta), viene riscritto da Fachinelli per chiavi e spie assolutamente inedite, per brevi rilievi sismografici che segnalano pur senza spiegarla (senza risposta cioè) una realtà in continuo movimento, ossia un sommovimento. Non quindi storia, e men che meno enciclopedia - piuttosto un mosaico, o più ancora un puzzle.
2. Da presto egli aveva intuito che con Freud «si apre il campo di una ricerca sui rapporti interindividuali: comincia una sorta di nexologia umana (dal latino nexus: legame, intreccio), che include il corpo come parte in causa e interlocutore»[2]. Per Fachinelli dunque non si trattava né di integrare il dettato freudiano ibridandolo ad altre «scienze», né di restaurarlo nella sua ortodossa purezza, bensì di aprirlo, allargarlo. E se nexologia è la scienza a venire, la ricerca di nessi fu conoscenza in fieri, per vie varie e vieppiù complesse, ma sempre animata da: curiositas, Lebensinstinkt, eros[3].
Solo assai tardi, invece, capì di essersi staccato in qualche modo da Freud, seppure per completarlo: vide cioè che, essendosi Freud perlopiù impegnato a smantellare barriere psichiche, il suo apparato teorico aveva assunto i contorni analoghi di una fortezza, idonea più a controllare che ad accogliere[4].
Lo stacco ovviamente era stato progressivo, anzi si originava da una sua forma mentis, anteriore in quanto tale a ogni «teoria». Logico perciò che a coglierla, più che i lettori o i pazienti, siano stati i promiscui nella vita: colleghi, compagni di strada e soprattutto amici. Uno lo intervistò poco prima della morte. Gli chiese dei suoi inizi con Musatti, ed ebbe per risposta:
Dopodiché fu l’amico a evocare gli inizi del loro rapporto, Milano 1974, l’anno in cui Fachinelli aveva allestito un gruppo aperto di autoformazione, salvo poi scioglierlo in fretta: «quando, in privato, gli chiesi perché, mi rispose candidamente “non mi divertiva più!”»[6].
Ecco, lo spettro ampio di significati impliciti nel verbo «divertire», che va dall’imprevisto al gioco, basta a classificare l’attitudine di Fachinelli verso il reale, ovvero la sua forma mentis. Così, se Freud fu maestro nel «tenere fermo al mortuum», sulla sua scia lui fu più aperto al vivum, tant’è che la realtà gli si presentò infine come regalo:
Da questo punto di vista, il détournement predicato dai situazionisti è, prima che un enunciato teorico, un tentativo di recuperare e praticare il gesto infantile del gioco. E come nelle attività di provocazione situazionista, il bambino usa le occasioni della vita quotidiana, più che il mondo dei giocattoli a lui espressamente destinato dagli adulti. Cos’è mai il telefonino gracchiante di plastica rispetto al telefono in persona, misterioso organo tubante che secondo ogni verosimiglianza contiene in sé tante persone, delle quali lascia uscire soltanto la voce? Se guardiamo senza paraocchi i bambini più piccoli, meno addomesticati, li vedremo accorrere, nonostante i divieti, verso gli infiniti tasti bottoni pulsanti da premere, chiavi e chiavette da girare, rubinetti da aprire e chiudere, verso gli innumerevoli comandi che da vicino o da lontano spargono luci e suoni in ogni punto della nostra vita quotidiana. Mentre ci affanniamo a costruire per loro un universo fittizio, facsimile ridotto e talora grottesco, sempre insufficiente, del nostro mondo, e questo mondo ci appare difficile, inquinato ed esplosivo, i bambini aprono gli occhi sul più meraviglioso Paese dei Balocchi che si sia mai visto[7].
* * *
Destra e Sinistra [i]
di ELVIO FACHINELLI
Mi sia consentito di partire, per fissare i pochi punti del mio intervento, da un’osservazione storica a prima vista marginale, o tutt’al più laterale. Come certamente molti sanno, e come si legge nei testi di scienze politiche, la distinzione parlamentare tra destra e sinistra sembra risalire all’assemblea detta Costituente, durante la Rivoluzione francese: i rivoluzionari moderati sedevano alla destra del presidente, i rivoluzionari accesi alla sua sinistra. Rilevo questo particolare: i due lati erano e sono tuttora individuati rispetto al capo o centro dell’assemblea.
Non sarà allora azzardato supporre che in questa distribuzione spaziale abbia inconsapevolmente giocato un riferimento simbolico ben noto in tutto l’Occidente e singolarmente coerente sia nella tradizione greco-romana che in quella ebraico-cristiana. Alla destra del presidente: come alla destra del Signore stanno i santi e gli eletti; la destra, ossia il lato, secondo Eschilo, del braccio che brandisce la lancia; il lato maschile di Adamo, secondo i commenti rabbinici che vedevano nel primo uomo un androgino; il lato divino e diurno, secondo i teologi medievali; il lato dei buoni presagi, dell’abilità e del successo, secondo gli indovini romani. E la sinistra? Si può notare come i suoi principali predicati simbolici si dispongano fondamentalmente in opposizione a quelli della destra: la sinistra è il lato dei dannati e dell’inferno, di Satana e della notte; il lato femminile di Adamo; il lato dei cattivi presagi e degli insuccessi: sinister è passato a significare, in alcune lingue tra cui la nostra, l’incidente o la sciagura. È questa «assonanza», questo aparentamiento che Fidel Castro, pochi giorni fa, ha fatto notare a Enrico Berlinguer. Ma non si tratta di assonanza, o di affinità etimologica; si tratta di correlazione simbolica - e il simbolico è molto più ampio del verbale, e per sbarazzarsene non basta dichiarare, come ha dichiarato Berlinguer, che la gente sa distinguere[ii].
Se infatti la destra siede alla destra del Presidente-Signore, nella piena luce del successo virile e legittimo, a sinistra si dispongono gli altri, la massa confusa e tenebrosa di coloro che dicono di no, di coloro che sono votati allo scacco o che nel loro essere testimoniano, come una piaga, di una debolezza femminea. Nell’ambito di una società patriarcale, non mi par dubbio che la sinistra abbia assunto simbolicamente il posto della manchevolezza, quando non del Male che eternamente si oppone al Bene, del Male che eternamente dà l’assalto al cielo e ne viene ricacciato...
Si dirà che di questa collocazione simbolica non vi è traccia in alcuna delle definizioni che la sinistra politica ha dato o cercato di se stessa, comprese quelle che in questi giorni molti di noi stanno cercando. Ma se nessuno, a quel che so, ha evocato la coppia simbolica a cui ho accennato, è la storia stessa della sinistra da un centinaio d’anni che testimonia come essa ne abbia incarnato uno dei termini nel modo più intenso e radicale. Quando Marx circolava ancora sotto le bandiere rosse delle grandi sfilate, probabilmente pochi tra le centinaia di migliaia sapevano che oltre al Marx del Capitale c’era il Marx che aveva parlato del «comunismo dell’invidia»[iii] - e che cos’è l’invidia se non l’attacco maligno, anzi l’attacco del Maligno al Bene che lo sovrasta al punto da accecarlo? Pochi lo sapevano, ma nelle loro lotte quotidiane e persino nei loro più intimi pensieri essi erano nelle file del popolo di Satana o, se volete, dal lato della parte mancante.
Ciò che questo popolo si proponeva risulta chiaro: era la tramutazione in valori di quei disvalori che la simbolica della destra continuamente espelle da sé. La debolezza espulsa dalla forza doveva diventare solidarietà comune e giustizia; la fragilità femminile davanti alla virilità fallica doveva tramutarsi in delicatezza e finezza; l’oscurità rispetto al giorno doveva acquistare profondità così come, rispetto al centro, doveva prevalere l’eccentrico e al posto dell’uomo riuscito doveva comparire lo spostato, lo sbagliato, il nuovo protagonista di una inedita uguaglianza.
Che questo tentativo di rivincita nel simbolico si trovi oggi davanti a una situazione di grave scacco, risulta mi pare evidente a ciascuno di noi. Ed è appunto la situazione odierna che ce ne offre ripetute conferme. Nel campo politico in senso stretto, la polarità sinistra-destra è andata perdendo via via la sua forza di tensione ed è ormai adibita in prevalenza a operazioni di localizzazione spaziale, per così dire, di ripartizione e classificazione dell’esistente. Di sinistra è perciò quel che viene fatto o avviene nell’ambito di uno spazio politico occupato da forze di sinistra. Ciò che prevale insomma è un’attività nomenclatoria essenzialmente tautologica: sinistra è sinistra è sinistra[iv]...
Il depotenziamento della polarità sinistra-destra avviene dunque attraverso una sua prevalente spazializzazione e la perdita dell’incisività temporale. La sinistra rimedia, lavora nel presente, non è più in grado di operare in un orizzonte più ampio e lontano. E la sua spazialità è immobile, definita, coartata. Un indizio di questa situazione è facilmente leggibile nel terrore della mobilità che di fatto, a vari livelli, e con risultati indubbiamente notevoli, ha contraddistinto in Italia l’azione delle forze politiche di sinistra negli ultimi anni.
Se usciamo dall’ambito della politica in senso stretto, ci accorgiamo di come lo scacco nel simbolico si manifesti essenzialmente come un regime di sdoppiamento nei rapporti sociali, interpersonali e, di sicuro, anche intrapersonali: mentre in profondo si fa avanti la simbolica tradizionale della destra, in superficie prevale un luogo comune di sinistra, talmente esteso da ricoprire settori tradizionalmente estranei se non ostili alla problematica della sinistra.
Potrei moltiplicare gli esempi, ma per non superare i limiti di un intervento concludo in tre punti, che mi sembrano essenziali:
1. Come operazione preliminare di ogni compito intellettuale significativo, propongo il non uso, esplicito e implicito, della polarità sinistra-destra. Attenzione! Non ne propongo l’abolizione, sarebbe assurdo, trattandosi appunto di una polarità nel simbolico. Ne propongo il non uso, perché ciò che si è svolto nell’ambito della sinistra si è disegnato quasi per intero dentro un negativo, un disvalore complessivo disegnato dalla destra e, entro questi limiti, si è concluso con uno scacco. L’impiego attuale è puramente locativo, detemporalizzato e quindi profondamente paralizzante.
2. In via del tutto provvisoria, propongo l’uso implicito e il privilegio, in ogni valutazione intellettuale, di qualcosa che si potrebbe chiamare creatività-generatività, contrapposta a non creatività e a non generatività. Sarà facile notare come il valore simbolico della creatività-generatività sia fondamentalmente estraneo alla coppia sinistra-destra, che è dominata dall’elemento della potenza virile e dalle varie opposizioni a essa. La creatività-generatività esorbita da quest’ambito e si pone come criterio valutativo di esso. Inoltre, e soprattutto, essa costituisce uno spostamento nel campo simbolico: parlo di spostamento, e non intendo una creazione velleitaria di uno o pochi individui, perché questa coppia simbolica è già o è già stata attiva in masse storiche recenti.
3. Per una riflessione intellettuale e non, propongo di esaminare la necessità tragica, in cui si è trovata finora gran parte della specie, di ricorrere a una serie di polarità in forte tensione, di dicotomie simboliche che, variando di sostanza e figura, hanno sempre svolto un ruolo fondamentale nella storia. Basterà pensare alla dicotomia fedele-infedele, credente-non credente nell’ambito religioso; oppure alla dicotomia razza eletta-razza reietta nel successo della propaganda hitleriana. Ed è caratteristico di queste polarità il loro spostarsi spesso, con sempre maggiore intensità e crudezza, ad ambiti via via più ristretti e selezionati. Ci basti qui pensare alle scissioni che hanno successivamente segmentato tutto l’ambito della sinistra politica. Ma tale tipo di polarizzazione non risparmia nessun campo culturale se è vero, come sosteneva Freud, che si potrebbero avere guerre in nome della scienza[v]. Vi è qui un ambito di ricerche che può estendersi dalla scissione detta schizoparanoide nel bambino che succhia il latte, secondo le ipotesi di Melanie Klein[vi], fino al manicheismo adulto, sicuro di sé e in apparenza correttamente razionale.
NOTE
[1] Cfr. E. Fachinelli, Che cosa chiede Edipo alla Sfinge?, In «Quaderni piacentini», aprile 1970 (subito tradotto in francese su «Topique»).
[2] Continua: «Di essa, la psicanalisi comunemente intesa è solo un momento parziale, limitato, anche se di grande fecondità. La sua prima linea di sviluppo, non l’unica, è in direzione dell’analisi della struttura familiare», E. Fachinelli, Il deserto e le fortezze (parte II), in «L’erba voglio», aprile 1972, poi ripreso col titolo Il paradosso delle ripetizione in Id., Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli, Milano 1974.
[3] Nell’accezione anche hegeliana («Vita è la connessione della connessione e della non-connessione») che da un punto di vista culturale Fachinelli integrò col concetto kierkegaardiano di Gjentagelse (cfr. S. Kierkegaard, La ripetizione, a cura di D. Borso, Guerini, Milano 1991).
[4] Il riferimento qui è a E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989.
[5] Pubblicata postuma da Sergio Benvenuto col titolo Sull’impossibile formazione degli analisti in Aa.Vv., La bottega dell’anima, a cura di S. Benvenuto e O. Nicolaus, F. Angeli, Milano 1990.
[6] S. Benvenuto, La «gioia eccessiva» di Elvio Fachinelli, in E. Fachinelli, Intorno al ’68, a cura di M. Conci e F. Marchioro, Massari, Bolsena 1998.
[7] E. Fachinelli, Un regalo? La realtà, su «L’Espresso» del 16 dicembre 1984. [i] «Lotta continua», 27 ottobre 1981. Comunicazione presentata al convegno Il concetto di sinistra, Roma, 20-22 ottobre 1981. (Poi in Aa.Vv., Il concetto di sinistra, Bompiani, Milano 1982, pp. 21-24.)
[ii] La visita all’Avana del segretario nazionale del PCI si svolse a inizio ottobre 1981.
[iii] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1949, p. 104: «L’idea di ogni proprietà privata come tale è rivolta contro la proprietà privata più ricca sotto forma di invidia e di tendenza al livellamento, tanto che questa stessa invidia e questa stessa tendenza al livellamento costituiscono l’essenza della concorrenza.Il comunista rozzo non è che il compimento di questa invidia e di questo livellamento».
[iv] Qui Fachinelli fa il verso a Rose is a rose is a rose is a rose di Gertrude Stein.
[v] Cfr. S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte (1915), in Id., Opere, cit., VIII.
[vi] Cfr. M. Klein, Invidia e gratitudine (1957), Martinelli, Firenze 1969.
Un libro racconta i tre giorni in cui il grande scrittore, da esule, scelse tra mille tormenti di esporsi pubblicamente contro il nazismo
Thomas Mann
Nella notte d’Europa il dilemma tra silenzio e denuncia del Male
Quando seppe dei poteri illimitati a Hitler prese la moglie per mano: stava tremando
di Ezio Mauro (la Repubblica, 28.05.2016)
C’è un uomo col cane sul sentiero che porta nel bosco gelato della campagna di Kusnacht, sul lago di Zurigo, quel sabato mattina d’inverno. Attorno i corvi beccano la terra, dai campi affiora uno spaventapasseri, nell’aria passa il suono delle campane senza che la nebbia lasci vedere la chiesa. Il cane è un terrier marrone con una striscia nera sulla schiena e sui fianchi. Di fronte ci dev’essere il lago nascosto nella foschia, perché qui c’è la panchina dove normalmente lo si può guardare in pace. Sciolto il guinzaglio, l’uomo si siede sulla panca col cappotto nuovo dal collo di pelliccia grigio scuro abbottonato in alto, i guanti imbottiti, la sciarpa stretta sotto il mento, i suoi 61 anni. Da tre - fa il conto quel primo giorno di febbraio del 1936 - vive in esilio volontario in Svizzera, dopo aver dedicato al suo Paese il premio Nobel per la letteratura: «Depongo questo premio mondiale ai piedi della Germania e del mio popolo». Adesso ha poche ore di tempo per decidere se la Germania diventata hitleriana merita che lui denunci l’orrore davanti al mondo, oppure se gli conviene tacere e vivere come se non sapesse. Ieri nel suo studio, da solo, ha riletto per l’ultima volta la lettera di condanna indirizzata alla Neue Zurcher Zeitung, ha tolto la stilografica dall’astuccio e ha firmato i tre fogli col suo nome: Thomas Mann.
Mentre getta un ramoscello al cane, cerca in tasca il portasigarette d’argento, non riesce a smettere di torturarsi come ha fatto tutta la notte. Soprattutto una frase della lettera gli torna in mente, come un’ossessione: «Dall’attuale governo tedesco non può venire nulla di buono né per la Germania né per il mondo ». Gli sembrava perfetta, quando l’ha scritta, riletta e corretta. Ma di notte ne ha avuto timore. Stamattina appena alzato ha chiamato il caporedattore del giornale svizzero in lingua tedesca, Korrodi, e gli ha chiesto di aspettare, di non pubblicare nulla: ha bisogno di riflettere. È come se i tre anni passati fuori dalla Germania fossero stati vissuti solo per arrivare fin qui, a questi tre giorni finali e supremi, quelli della scelta. I gesti di ogni giorno, che gli danno la sicurezza della regolarità - sveglia alle 8, colazione con caffè, pane e marmellata, lavoro, passeggiata, pranzo, riposo, corrispondenza, tè, passeggiata serale, cena, lettura, diario - adesso gli appaiono puri strumenti per portarlo a questo fine settimana che non riesce a finire, dilatato nell’incertezza della scelta. Settantadue ore che sembrano montate apposta per riassumere e ingigantire l’angoscia del dilemma, quel nodo tra vita e letteratura che può sciogliere soltanto lui, tra Germania e Europa, esilio e patria, essere e dover essere: per lasciarlo infine solo e nudo davanti al dubbio capitale della sua vita. Un dubbio che confida ogni sera al suo diario, tormento dopo tormento, e che Britta Böhler ha rovesciato nel romanzo sulla Decisione, ora proposto in Italia da Guanda, proprio mentre il Saggiatore con La svolta pubblica la scelta di campo contro il regime di suo figlio Klaus.
Lui, Thomas, non aveva guardato un’ultima volta la terra di Germania tre anni prima, mentre in treno attraversava il confine svizzero-tedesco tra Lindau e Bregenz, un po’ perché era assopito, ma soprattutto perché non sapeva che sarebbe stata l’ultima volta. Dopo una serie di conferenze su Wagner a Monaco, Amsterdam, Bruxelles e Parigi, ecco tre settimane di riposo in montagna al Waldhotel di Arosa, che come ogni anno gli riservava la stessa camera, dove poteva lavorare. Gli erano sempre piaciuti i grandi alberghi coi tappeti spessi, gli enormi lampadari, gli stucchi e d’inverno le slitte a cavalli. Voleva rimettersi a scrivere Giuseppe in Egitto, stava immaginando le sponde del Nilo coperte di limo mentre ordinava il punch del pomeriggio all’Old India, quando dai giornali cominciò a capire che il suo mondo si stava distruggendo. L’incendio del Reichstag, i comunisti messi fuori gioco, la croce uncinata che diventa la nuova bandiera della Germania, abolendo i colori del Reich. Non poteva pensare che il suo Paese fosse perduto, si trattava solo di aspettare. In fondo, non aveva sempre pensato che per la politica poteva bastare la mano sinistra? Ma quando Medi, la figlia, pianse al telefono da Monaco chiedendo ai genitori di poter scappare, subito, perché a scuola tutto era cambiato, ogni mattina dovevano cantare l’inno nazista, cominciarono a capire. Quando ascoltò alla radio Svizzera la votazione di fine marzo al Reichstag sui poteri dittatoriali a Hitler, aveva già compreso. Era in poltrona nella hall dell’albergo, prese la moglie Katja per mano e stava tremando.
Fu allora che arrivarono i primi attacchi dai giornali tedeschi. Improvvisamente lo accusavano di «aver imbrattato Wagner», proprio mentre la Gestapo entrava per una perquisizione nella sua casa di Monaco e il Rotary gli comunicava per lettera l’espulsione. Era chiaro che non poteva più tornare in Germania. Lui, che non aveva fatto del male a nessuno. Che nelle Considerazioni di un impolitico parlava del suo sensibilissimo «spirito di solidarietà con la mia epoca». Che nel Mio tempo scriverà di aver «sempre sentito il bisogno di essere patriota ». Basta. Non sarebbe più tornato nel suo studio, non avrebbe avuto i suoi ottomila libri e il pianoforte a coda dietro cui appariva vestito da mago a Carnevale, col mantello nero e le stelle dorate sul cilindro quando Erika e Klaus erano piccoli. La casa era perduta, come la Germania.
E infatti vagarono per sette mesi tra Lugano, Basilea, il Sud della Francia, dove poteva incontrare in un caffè del porto il fratello Heinrich, sotto il maestrale. Infine la Svizzera, dove Erika trovò la casa sul lago. Arrivarono i pochi mobili che avevano potuto salvare, la sua scrivania, la poltrona da lettura, il grammofono con i dischi per la sera. Ma la sensazione era di un albero strappato dalla sua terra, quasi come se vivere lontano significasse tradire il Paese, con il tormento di sperare talvolta che la Germania «rimettesse la testa a posto». Ma ecco quella stella gialla, le leggi razziali. Dove sta andando la Germania, dove finirà? Come aveva scritto nella lettera? Ecco, l’aveva riletta così tante volte da saperla a memoria: «L’odio dei tedeschi o dei loro governanti per gli ebrei è il tentativo di scrollarsi di dosso legami di civiltà e minaccia di portare a un orribile e sciagurato allontanamento tra la terra di Goethe e il resto del mondo».
Ma c’è anche un’altra frase della lettera che dice la verità. Prima di tutto a se stesso: «Com’è difficile I’arte di restare neutrali». Sono le vicende angosciose del suo Paese che lo hanno spinto fin qui, sul bordo del lago a mezzogiorno del sabato, sull’orlo della decisione che non sa prendere. Anche la sua famiglia lo spinge. Il fratello Heinrich da lontano, Klaus e Erika, i figli grandi, rimproverandolo com’è successo a Natale perché tace da troppo tempo, davanti alla fine del mondo. Erika soprattutto si attende che lui, il suo Mago, parli. Poi quegli allarmi, la Gestapo che a Monaco interroga i suoi camerieri e l’autista. Il rogo dei libri. Aveva ragione Erika, non poteva restare in disparte, come fosse superiore a tutto e a tutti. Aveva ragione Klaus: «Non c’è più ritorno». D’altra parte come scriveva lui in Mario e il Mago? C’è sempre un momento in cui lo spettacolo finisce e ha inizio la catastrofe. Così aveva preparato la lettera in una settimana, fumando quei sigari svizzeri che gli facevano rimpiangere Monaco. Poi ieri, venerdì, aveva chiesto a Katja di accompagnarlo in auto a Zurigo. Tutto sembrava risolto. Ma ecco che al giornale manca proprio Korrodi, deve lasciare la lettera più importante della sua vita a un assistente, la mano esita, vorrebbe ritirarla, infine la consegna.
Va al cinema con la moglie, vedono Le Rosier de madame Husson, ma lui nel buio si lascia catturare nuovamente dal dubbio. Cosa diranno gli amici? Gli viene in mente l’ultimo incontro con Herman Hesse e il suo consiglio: «Non si immischi, amico mio, si tenga fuori». Ma come si può rimanere “fuori” dall’orrore, c’è un fuori? La notte non dorme e sente che sta cambiando idea: non può dare l’addio definitivo alla Germania, ci sarà pure un’altra strada. Il sabato mattina esce nel freddo per schiarirsi le idee, poi telefona al giornale e ferma la lettera. «Voglio pensarci bene», dice alla moglie, che non commenta. Ma poi Katja non scende a pranzo. Lui mangia tre bocconi di carne, da solo, si chiude nello studio. Guarda le edizioni straniere dei suoi romanzi sugli scaffali, si domanda a cosa servono se i suoi libri finiranno all’indice in Germania. Perché si sta rendendo la vita così difficile? Eppure c’è una via di mezzo, che porta alla salvezza: terrà semplicemente la bocca chiusa, esiste il diritto di tacere.
Si sente solo, nella casa adesso silenziosa e non sa che quello è il dilemma dell’Europa intorno a lui - tacere o rischiare - , un pezzo della tragedia morale dell’Occidente e delle democrazie davanti al Male. L’individuo di fronte al peso della storia, la coscienza personale e la vicenda di un intero Paese, la sproporzione tra il suo dandismo letterario e l’abisso tedesco, e tuttavia il sentimento di dichiararsi e infine il calcolo delle conseguenze. Poi, laggiù in fondo alla stanza, la paura. Dovrà giustificarsi, in un caso o nell’altro? Non sa che fare. Accompagna Katja dalla sarta a Zurigo, l’aspetta all’hotel Baur du Lac dov’erano stati in luna di miele. Quel tavolino d’angolo, con un vermut che profuma di erbe mentre intorno passano torte “Foresta Nera” è il posto giusto per prendere la decisione, vuole costringersi a farlo prima che Katja ritorni. Gli è insopportabile l’idea di rompere con Erika ma anche quella di rompere coi suoi lettori. Poi, mentre si fa buio, un’idea si fa strada dentro il tormento. Lucida, chiara: non vuole tornare in Germania, vuole che la Germania torni da lui, torni com’era prima della follia.
Sardine, uova sode, pane e prosciutto, birra e limonata, cucina Katja e cenano soli. I bambini sono a Basilea, Klaus è continuamente in viaggio, Golo ormai lavora a Rennes, Monika è a Firenze, Erika ovunque col suo cabaret. Alza la birra verso la moglie: «Salute. A volte bisogna lasciare che le cose seguano il loro corso». Nello studio mette sul grammofono il preludio del Lohengrin, la sua opera preferita. Si addormenta in poltrona, cercando nel dormiveglia qualcosa tra politica e cultura, musica e sventura, chiedendosi se star zitti oggi è un’altra forma del patto col diavolo, ricordando confusamente che anche nel suo Doctor Faustus l’accordo con Satana era stato siglato fuori dalla Germania. Finché il disco arriva alla fine. La domenica si sveglia sapendo che non c’è più tempo e non ci sono alternative. È vero, sarà senza terra, ma lo spirito e l’arte non possono essere separati dalla politica e poi la sua Germania non esiste più. Si lucida le scarpe con la cera, scende per colazione, beve un bicchiere di sambuco. «Telefono adesso - dice a Katja - . Domani la lettera uscirà sul giornale». Nel diario di tela cerata chiuso nel primo cassetto dello studio insieme con vecchi occhiali, spago, ceralacca, fiammiferi, c’è scritto: «Ho concluso con commozione». Poco più in là, il calendario arrivato chissà come da Monaco, spalancato sulla data del giorno d’addio alla Germania tre anni prima, l’11 febbraio. Adesso quei fogli si potevano finalmente girare per arrivare al terribile 1936 dell’Europa, il tempo poteva ricominciare a scorrere, come la vita.
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA. “Come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).:
L’amore ai tempi di Sant’Agostino
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 28.05.2016)
LA RAGIONE sottostante a certi atteggiamenti da parte di uomini che non ne avrebbero in apparenza titolo, viene da molto lontano. Nella sua versione più antica la si vede nel famoso precetto di Sant’Agostino: dilige et quod vis fac - cioè: ama e fai ciò che vuoi. Che significato ha amare nel senso usato dal primo, grande filosofo cristiano (354-430)?
Con forte slancio poetico, un giorno Agostino disse ai suoi fedeli: «Ama e fa’ ciò che vuoi; sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene».
Non c’è film o sceneggiato sul vescovo di Ippona in cui questa poetica esortazione non venga mostrata. In realtà quei versi sono molto meno benevoli di quanto la parola amore li faccia apparire; il santo vescovo dice in sostanza che l’amore giustifica anche l’esercizio dell’autorità. Amare davvero qualcuno vuol dire volere il suo bene, il bene sommo, rappresentato dall’eterna salvezza. Lecito quindi, anzi doveroso, forzare per amore chi sbaglia a entrare nell’ortodossia; anche qui abbiamo un imperativo celebre “Compelle entrare”.
Ancora più esplicito diventa l’invito quando Agostino chiarisce in cosa consista l’esercizio della carità: «Sia fervida la carità nel correggere, nell’emendare... Non voler amare l’errore nell’uomo, ma l’uomo; Dio infatti fece l’uomo, l’uomo invece fece l’errore. Ama ciò che fece Dio, non amare ciò che fece l’uomo stesso... Anche se qualche volta ti mostri crudele, ciò avvenga per il desiderio di correggere ».
Quando dice che la carità «infierisce», Agostino usa il verbo latino saevire che vuol dire infuriare, incrudelire.
Saevus significa feroce; da saevire deriva “sevizia”. Il termine carità può avere questa valenza ambigua. Si sarà notato che papa Francesco ne usa uno più mite: misericordia.
L’uomo forte e le democrazie
di Zygmunt Bauman (Corriere della sera, 27.05.2016)
Uno spettro si aggira nella terra della democrazia: lo spettro di un Uomo (o Donna) forte. Come suggerisce Robert Reich, nel suo «Donald Trump e la rivolta della classe ansiosa», quello spettro (che nel caso in questione indossa le vesti di Donald Trump, benché non disdegni di indossare molti e variegati costumi, sia popolari che nazionali) nasce (proprio come Afrodite emerse dalle onde spumeggianti del Mar Egeo) dall’ansia che di questi tempi sta attanagliando «la grande classe media americana», oggi impaurita dalle «elevatissime probabilità di finire in miseria».
Due terzi dei cittadini americani oggi vivono con i soldi contati e la stragrande maggioranza rischia di perdere il posto di lavoro da un momento all’altro. Molti ingrossano le file della manodopera «a chiamata» - lavorano cioè quando sono necessari, si accontentano dei compensi che gli vengono offerti, a discrezione del datore di lavoro. Eppure, queste stesse persone, nel momento in cui non riescono più a pagare l’affitto o il mutuo della casa, rischiano di precipitare nel baratro.
Questi «due terzi degli americani» sono costretti a camminare sull’acqua, squassati da venti di tempesta non meno impetuosi di quelli che agitavano il Mar di Galilea, descritti nel Vangelo di Matteo. Nelle parole dell’evangelista, camminare sulle acque era una questione di fede: ma oggi la «classe ansiosa» di Reich non sa più in che cosa riporre la sua fiducia. «Le reti di sicurezza sono piene di buchi. La maggior parte di coloro che perdono il lavoro non ha nemmeno diritto alla disoccupazione. Il governo non fa nulla per proteggere il lavoro, impedendo che le aziende delocalizzino in Asia oppure che i posti di lavoro vengano presi da immigrati clandestini disposti a lavorare per meno».
«Trucchi da impostore»
Tuttavia, osserva Reich, affidarsi all’onnipotenza dell’uomo forte rappresenta un «sogno impossibile», e se Trump è riuscito a guadagnarsi la fiducia dell’elettorato, lo ha fatto ricorrendo a «trucchi da impostore». Eppure, la chiamata a raccolta della «classe ansiosa» per stringersi attorno al mago, che li inganna facendo balenare ai loro occhi quel sogno impossibile, non rappresenta necessariamente una reazione scontata e inevitabile. La risposta alla domanda posta di recente da Joseph M. Schwartz, professore di Scienze politiche alla Temple University - «La classe media e i lavoratori bianchi, oggi in difficoltà economiche, sono pronti a seguire la politica razzista e nazionalistica di Trump e del Tea Party (convinti che il gioco sia tutto predisposto a favore delle fasce più povere della popolazione di colore), oppure si uniranno per dare battaglia contro le élite imprenditoriali, che hanno sancito l’annientamento della classe operaia?» -, non è per nulla ovvia.
Come suggerisce Schwartz, un sondaggio effettuato da New York Times/Cbc News «appena prima del discorso del senatore Bernie Sanders alla Georgetown University sul socialismo democratico il 19 novembre 2015» rivela che il 56% degli elettori storici del partito democratico erano favorevoli al socialismo, contro il 29% dei contrari, e questo ci consente di ipotizzare che «la maggior parte degli intervistati associ il capitalismo con la disuguaglianza, l’eccessivo indebitamento per gli studi universitari e un mercato del lavoro stagnante. Costoro vedono invece nel socialismo una società più giusta e ugualitaria». Dalle attuali difficoltà in cui si dibatte la «classe ansiosa» (oppure i ranghi sempre più affollati del «precariato»), scaturiscono molteplici scelte politiche. Una di queste fa appello a un uomo forte; l’altra, a un popolo forte.
La paura cosmica
Nelle parole del grande filosofo russo, Mikhail Bakhtin, tutte le potenze terrestri si alimentano e prosperano sulla diffusione di «timori cosmici», i quali possono essere innati o endemici per gli esseri umani: ciò vuol dire il timore davanti a tutto ciò che è sconfinato e potente; davanti al cielo stellato, la mole materiale delle montagne, il mare, la paura degli sconvolgimenti cosmici e delle catastrofi naturali istillata da antiche mitologie, credenze, immaginazioni, persino la paura delle lingue e dei modi di pensare a loro connaturati... questo terrore cosmico, in senso stretto anziché mistico (trattandosi di timore di tutto ciò che è materialmente grande e rappresenta una potenza difficile da definire) viene sfruttato da tutte le grandi religioni per reprimere la persona e la sua coscienza, trasformandola in una variante artificiale e volutamente «ufficiale».
Nel suo studio delle complesse relazioni tra i gestori terrestri della «paura ufficiale» e i soggetti nei quali si inducono questi timori, ricorrendo all’aiuto de «Il processo» e de «Il castello», i due celebri romanzi di Franz Kafka, Roberto Calasso dimostra che l’azione della «paura ufficiale» è tutt’altro che semplice e immediata. «Se i cittadini avessero sentito gli esegeti de “Il castello” dilungarsi su Dio e divinità e su come questi interferiscono nella loro vita, avrebbero reagito con sdegno», suggerisce Calasso. Si sarebbero risentiti dei tentativi colti di paragonare gli occupanti del Castello a Dio o ad altre divinità a loro ben note per gli insegnamenti religiosi ricevuti. «Come sarebbe facile trattare con gli abitanti del Castello se, come nel caso di Dio, bastasse studiare un po’ di teologia e affidarsi alla devozione - potrebbero pensare. Ma i funzionari del Castello sono assai più complessi. Non esiste scienza né disciplina che possa aiutarci a trattare con loro».
Difatti i sistemi religiosi - che secondo Bakhtin rappresentano i primi tentativi per riciclare il timore «cosmico» in un timore «ufficiale» (in altre parole, fabbricare la «paura ufficiale» sullo stampo di quella «cosmica», e capitalizzando allo stesso tempo sulle fondamenta già predisposte dalle fonti primordiali e originali della paura) - tendevano ad assicurare la sottomissione e l’obbedienza dei soggetti con la promessa (spesso disattesa per quantità e qualità in confronto a quanto stipulato) di ricette infallibili per attirare la grazia e i favori divini, o per placare la Sua collera qualora ogni sforzo per rispettare i Suoi dettami alla lettera si fosse dimostrato, all’atto pratico, troppo difficile e oneroso. Senza perdere nulla della sua temibilità, a Dio si poteva parlare - a differenza delle fonti mute e ottuse della paura cosmica. Dio poteva essere pregato, implorato, scongiurato, tramite parole e azioni, per impetrare il perdono dei peccati e la ricompensa delle virtù.
E a differenza della Natura sorda e cieca, Dio magari poteva ascoltare, ed esaudire i voti dei peccatori contriti. Le chiese, plenipotenziari terreni dell’autorità divina, spiegavano meticolosamente, fin nel minimo dettaglio, il codice di condotta indispensabile per indurre Dio, con un gioco simultaneo di benedizioni e tribolazioni, ad esaudire il credente. Doloranti sotto i colpi del destino, le vittime dell’ira divina sapevano esattamente che cosa fare per meritarsi la redenzione. Quando la redenzione tardava ad arrivare, si convincevano di aver mancato di zelo, e pertanto si ritenevano colpevoli di una manchevolezza facile da correggere.
Potere e «delega» alla società
Ma questo è esattamente il dispositivo che la paura ufficiale, nella sua veste moderna, arruolata e dispiegata nuovamente in campo dai poteri politici laici, respinge nella pratica - anche se ben di rado si sottrae alla tentazione ipocrita di esaltare a parole i suoi precetti. In un’aperta violazione dell’intenzione e promessa moderna di sostituire i ciechi giochi del fato (cioè quel divario irritante e confuso tra le azioni umane e le loro conseguenze sia per coloro che le compiono che per coloro che le subiscono) tramite un ordine di cose coerente e relativamente inequivocabile, guidato dai principi morali di giustizia e responsabilità - pertanto assicurando una stretta corrispondenza tra la situazione in cui vengono a trovarsi gli esseri umani e le loro scelte di comportamento - gli uomini di oggi si ritrovano esposti a una società traboccante di rischi e al contempo vuota di certezze e di garanzie.
Due nuove circostanze ci invitano a ripensare e, se non a correggere, perlomeno a integrare il modello di Bakhtin. La prima è l’«individualizzazione» su vasta scala - un nome in codice che vede nel potere costituito un’immagine complessiva della «società» che mira a «delegare» il compito di affrontare i problemi innescati dall’incertezza esistenziale sui singoli individui e sulle loro risorse del tutto inadeguate. Nelle parole dello scomparso Ulrich Beck, oggi si addossa agli individui la responsabilità irrealizzabile di trovare, da soli, le soluzioni ai problemi generati dalla società.
Lo spettro che si aggira in una società di attori-per-decreto incarna l’orrore che si prova nel trovarsi inetti e inefficaci; come pure il terrore dei suoi effetti immediati, la perdita di autostima e le sue probabili conseguenze: l’emarginazione e l’esclusione. Come generatori di paura ufficiale, i detentori del potere si affannano a ingigantire le incertezze esistenziali che hanno dato forma allo spettro e perennemente lo ricreano; i detentori del potere puntano a fare qualsiasi cosa per rendere quello spettro il più tangibile e credibile - il più «realistico» - possibile. Dopo tutto, la paura ufficiale dei loro soggetti è ciò che, in ultima analisi, li mantiene al potere. Tuttavia, in una società disgregata e ridotta a un ammasso di attori individuali (costretti a fingere la loro autosufficienza), i detentori del potere potrebbero anche essere tentati di appoggiarsi sempre di più su di noi, i loro stagisti insicuri, precari, non retribuiti e non tutelati, che vivono la loro vita frammentata in una società la cui frammentazione è da loro voluta, alimentata e giornalmente riprodotta.
Avendo attraversato le incarnazioni religiose e politiche della «paura ufficiale» della «società disciplinata», la paura cosmica che emana dalla dolorosa fragilità e finitudine delle capacità cognitive e pragmatiche si è calata nella «società di attori» nell’arena della «politica della vita» (definizione di Anthony Giddens) ed è atterrata sulle spalle dei praticanti individuali di quella vita. Stretti tra l’infinità di opzioni e tentazioni presumibilmente accessibili, come pure le sconfinate richieste rivolte all’individuo che si presuppone «autonomo, capace e risoluto» , stimolati a «sforzarsi incessantemente a migliorarsi» da un lato - e dall’altro la scarsità di risorse a disposizione, messa tristemente a nudo dalla grandiosità pura e semplice di quella sfida - agli attori-per-decreto, tormentati dalla consapevolezza della propria inadeguatezza, non resta altra scelta che quella di invocare la salvezza dall’imminente depressione rivolgendosi «alle loro divinità». Nelle parole memorabili di Ulrich Beck, «alle divinità da loro scelte». Ma questo scambio di appartenenza ha fatto ben poco per mitigare sia l’assillante ansietà generata dalla precarietà ovvia del loro stato esistenziale, sia il dolore dell’autocensura e dell’autocondanna per non essere riusciti nemmeno a fermare - figuriamoci invertire - il suo progressivo aggravarsi.
Immigrazione e razzismo
La seconda circostanza nuova è l’erosione della sovranità territoriale delle attuali unità politiche, provocata dal processo oggi in corso della globalizzazione del potere (ovvero la capacità di realizzare certe cose) cui non è seguita la globalizzazione della politica (ovvero la capacità di decidere quali cose debbano essere realizzate), ottenendo come risultato una discrepanza irritante tra gli obiettivi e i mezzi a disposizione per un’azione efficace. Il risultato è la scomparsa delle cause della «paura ufficiale» dal modello tratteggiato da Bakhtin: invisibili e irraggiungibili a tutti gli effetti, esse sono - proprio come le fonti della «paura cosmica» - mute e ottuse. A grande distanza dai richiedenti, esse restano sorde alle loro istanze generiche, per non parlare delle loro specifiche richieste. La maggior parte dei loro soggetti sono tagliati fuori dalle comunicazioni - e sempre in maggior numero hanno perso, o stanno perdendo rapidamente, ogni speranza di dialogo sensato con le istituzioni.
Eric Hobsbawm, uno degli storici più acuti dell’era moderna, intuiva già, un quarto di secolo addietro (ben prima dell’attuale «crisi dell’immigrazione», e ancor prima che si diffondesse l’odierna consapevolezza della nuova «globalità» della condizione umana) che «l’urbanizzazione e l’industrializzazione, poiché si fondano su movimenti massicci e variegati, migrazioni e spostamenti di popolazioni, erodono il concetto nazionalistico di base per cui un territorio è abitato essenzialmente da una popolazione omogenea per etnicità, lingua e cultura.
Xenofobia e razzismo rappresentano il sintomo, non la cura. Le comunità e i gruppi etnici nelle società moderne sono destinati a coesistere, qualunque sia la retorica che fa balenare il sogno del ritorno a una nazione pura». «Ogni volta - prosegue Hobsbawm - i movimenti di identità etnica sembrano scaturire da reazioni di debolezza e di paura, tentativi per innalzare barricate atte a tenere a bada le forze del mondo moderno... Ciò che alimenta queste reazioni di difesa, contro minacce reali o immaginarie, sono gli spostamenti di popolazioni internazionali che si accompagnano a drammatiche trasformazioni socio-economiche, senza precedenti e ultraveloci», trasformazioni che sono sotto gli occhi di tutti ai nostri giorni. «Dovunque viviamo, in una società urbanizzata, incontriamo stranieri: uomini e donne sradicati dai loro Paesi, che ci richiamano alla mente la fragilità e il decadimento delle nostre stesse radici familiari». «Loro, gli stranieri - ci ricorda Hobsbawm dall’aldilà -, saranno accusati di tutte le nefandezze, incertezze, disorientamento e confusione che molti di noi provano, dopo quarant’anni di sconvolgimenti così rapidi e profondi da risultare senza precedenti nella storia umana».
Come dicevano i nostri antenati, «la storia è maestra di vita», un insegnamento, questo, che stiamo dimenticando a nostro rischio e pericolo. Per assicurare la nostra sopravvivenza, ascoltiamo quella maestra; leggiamo e rileggiamo l’opera cardine di Hobsbawm, «Nazioni e nazionalismi dal 1780», in cui ci insegna che le società in declino puntano tutte le loro speranze su un salvatore, su un uomo (o una donna) della provvidenza, e sono alla ricerca di un nazionalista risoluto, militante e battagliero: qualcuno che promette di spegnere l’interruttore del pianeta globalizzato, di sbarrare quelle porte che già da tanto tempo hanno perso - o a cui sono stati rotti - i cardini, rendendole inutilizzabili.
La verità è che le scorciatoie suggerite dagli uomini e dalle donne forti che aspirano al governo restano assai seducenti, per quanto fuorvianti. Tratteggiano una visione di ripristino e riappropriazione di tutto ciò di cui un numero crescente dei nostri contemporanei avverte la mancanza nella politica odierna, contraddistinta da una carenza progressiva di potere, incapace pertanto di impedire i danni arrecati da elementi che si sottraggono al suo controllo, pronta a ignorare, o a distruggere sul nascere, ogni tentativo messo in atto dai politici liberal-democratici per riconquistare la loro sempre più debole autorità. Il peccato imperdonabile della democrazia, agli occhi di un numero sempre crescente di quanti dovrebbero beneficiarne, è la sua incapacità ad attuare quanto promette. Il ruolo di uomo o donna forte, che tanto seduce i candidati elettorali, sta proprio nella promessa di agire. In ultima analisi, l’attrattiva dell’uomo o della donna forte si basa su una serie di pretese e promesse che restano ancora tutte da dimostrare.
(Traduzione di Rita Baldassarre)
MICHEL SERRES "DENUNCIA" CARTESIO ("Dal metodo non nasce niente") E FA "UNA CONFESSIONE". "Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere"(M. Serres, Distacco, 1986):
Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 138-189 (capp. II e III):
CHI SIAMO NOI, IN REALTA’?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTA’: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Il fondamentalismo religioso vuol cancellare il protagonismo della libertà femminile
di Lea Melandri (il manifesto, 21.05.2016)
Non si può negare il fatto che la religione sia un prezioso archivio della memoria degli individui e della specie, di vicende che stanno ai confini tra inconscio e coscienza. C’è la stupidità del fanatismo, ma ci sono anche sublimi simbolizzazioni, interrogativi che vanno alla radice dell’umano. È su questa stratificazione di simboli che va portato lo sguardo, riconoscendoli come proiezioni del modo in cui viviamo.
Il pensiero laico e il pensiero religioso sono in realtà imparentati, anzi «consanguinei», come dice Stefano Levi nel suo Laicità, grazie a Dio (Einaudi) che alcuni anni fa presentammo al Festival delle Letterature di Mantova: se la religione è quella che cerca le «cause occulte» delle cose, lo stesso fanno la filosofia e la metafisica. E la religione sembra avere la precedenza.
Ora, riflettere sul pensiero, sulle forme che ha preso nelle sue costruzioni, laiche o religiose che siano, vuol dire chiedersi innanzi tutto chi è il soggetto del pensiero e come si è configurata, nella storia che abbiamo conosciuto - opera di una comunità di soli uomini - la sua nascita. La consanguineità fra la religione e le altre costruzioni simboliche sta prima di tutto nel fatto di discendere dalla stessa matrice: quel «principio maschile» che - come scrive Bachofen ne Il matriarcato - «nell’ambito dell’esistenza fisica è al secondo posto, subordinato al principio femminile».
Da ciò si deduce che la «consanguineità» tra pensiero laico e religioso è molto più di una «contaminazione»; discende dal fatto che traggono la loro origine da quel soggetto unico maschile, da quella visione unica del mondo che ha violentemente e astrattamente differenziato - complementarizzato e posto secondo un ordine gerarchico- materia e spirito, natura e cultura, individuo e genere, corpo e pensiero, identificando e confondendo l’uscita dall’animalità e la nascita del linguaggio con il destino del maschio e della femmina.
La «consanguineità» sta dunque in quello che Otto Weininger - singolare figura di intreccio tra filosofia e religione, posta all’inizio del Novecento ed espressione della crisi della ragione occidentale, nel momento in cui avanza l’emancipazione femminile - chiama l’enigma del dualismo, collegandolo col peccato originale. Il corpo, la sessualità, comparendo sulla scena pubblica - sono gli anni della scoperta della psicoanalisi -, rappresentano una minaccia per quello che era stato il fondamento etico, filosofico/religioso della cultura occidentale, greca-romana-cristiana. In questo discorso appare chiaro come la trascendenza, su cui la religione costruisce il mistero di Dio, l’Essere perfetto, il Valore assoluto, è imparentata con la trascendenza che si è attribuita l’Io maschile. Alla donna, che rappresenta la sessualità, la materia, il non essere, e che perciò incarna per l’uomo la caduta, la colpa, si impongono regole morali superiori a quelle dell’uomo: la purezza, la verginità. Per essere «redentrice» dell’uomo deve «essere uccisa e riportata in vita». L’Io maschile e Dio si pongono così su una linea di continuità: L’Io (Dio) come tempo è volontà. La volontà diventa valore (l’uomo diventa Dio) quando esce dal tempo. Per concludere allora, l’essenza dell’idea di Dio e la sua importanza per l’umanità, è che «Dio è l’uomo perfetto», e l’uomo perfetto, come Gesù Cristo, è Dio.
Le figure e i gesti che la mente religiosa proietta sull’oscurità del mistero parlano dunque dell’origine della civiltà maschile, del modo con cui ha inteso differenziarsi dalla natura, dal corpo femminile che genera e che porta perciò i segni dei limiti mortali dell’umano. Parlano della ri-nascita o ri-generazione del mondo spostata sul versante di un principio maschile spirituale: una genealogia di padre in figlio dove la donna è mediazione simbolica, contenitore.
Forse è proprio in queste rappresentazioni così vicine all’origine e a quelle domande insopprimibili dell’umano, che hanno a che fare con la nascita, la morte, il diverso destino toccato all’uomo e alla donna, che la religione esercita un fascino così duraturo. Nella rappresentazione del sacro, si può dire che il soggetto maschile della storia ha tentato di dare un senso, volgendolo a proprio favore, al mistero della nascita e della morte, all’uscita della coscienza dall’animalità, all’angoscia dell’originaria in distinzione col corpo della madre, al bisogno di differenziarsi e di controllarne la potenza.
La rivalsa delle religioni oggi può essere legata alla crisi delle istituzioni politiche, ma anche al protagonismo che hanno preso il corpo, la sessualità e la libertà femminile.
Si può pensare che la durata e il fascino della religione venga dal fatto che l’aspetto sessuato e sessuale lì è esplicito - non rimosso -, teatralizzato e spettacolarizzato.
Vi si possono leggere confusi amore e violenza, il sogno di armonia degli opposti e il sessismo, il razzismo. Ecco perché non stupisce leggere il recente interesse giornalistico sul rapporto fra donne e religioni, soprattutto monoteistiche, nel volume appena pubblicato da Giuliana Sgrena, con il titolo provocatorio Dio odia le donne (Il Saggiatore).
La religione parla di madri, figli, padri, nascite, morti e resurrezioni, dannazione e riscatto della carne, dell’umano, del femminile. La religione sublima in modo evidente il rapporto tra i sessi, le figure di genere nella loro ambiguità: figure che strutturano rapporti di potere ma anche d’amore, che tengono dentro la complementarietà e la spinta alla riunificazione. Affrontando le problematiche del corpo, dei sessi, il femminismo ha portato la laicità al suo fondamento primo. Ma non ha affrontato la religione direttamente, nelle sue costruzioni simboliche, così come non ha affrontato il sogno d’amore, la fusionalità, l’unione mistica. Forse è proprio da ricercare in questa ambiguità la ragione prima del consenso di cui la religione gode anche presso le donne.
La trappola della verginità
Tempi presenti. «Dio odia le donne», il nuovo libro di Giuliana Sgrena, uscito per Il Saggiatore. Una ricognizione, anche in chiave autobiografica, sulle ambiguità e le efferatezze delle religioni perpetrate ai danni del corpo (e della mente) femminile
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 21.05.2016)
Si intitola Dio odia le donne (pp. 2014, euro 18) ed è il nuovo libro di Giuliana Sgrena pubblicato di recente da Il Saggiatore. Fin dall’introduzione si apprende che non si tratta di un pamphlet, né è un lavoro che desideri offrire una nuova esegesi delle fonti o una disquisizione teologica. La disposizione attraverso cui leggere questo volumetto, agile e al contempo solido, equipaggiato di dati ma godibile nella scrittura tagliente e svelta, si adegua allora a ciò che la stessa Sgrena dichiara di aver effettuato: una narrazione di carattere esperienziale, frutto di una ricerca personale che l’ha portata ad analizzare l’immaginario e le ricadute sociali che emergono nel confronto tra le tre religioni monoteiste e il sesso femminile.
La ricognizione è ampia e si innerva nella stessa biografia dell’autrice. A essere messe a nudo non sono solo le contraddizioni interne alle singole religioni che, secondo Sgrena, hanno sostenuto il patriarcato; ciò che appare è la manipolazione costante della laicità e dei suoi simboli da parte di chi perpetra e piega a proprio uso e consumo testi, scritture e fonti spesso lette malamente con l’unico scopo di controllare e mondare la sessualità e i corpi. In questo senso, il libro colpisce fin dall’immagine del fotografo russo Oleg Dou scelta per la copertina. Un primo piano di una figura non ben identificabile e liscia nei lineamenti che allude al nome dell’opera, «nun» ovvero suora, intercettabile solo dal copricapo.
La figura ambivalente della suora apre e chiude il volume, dapprima legata all’infanzia di Sgrena che si è misurata con delle scuole cattoliche e che, in considerazione del padre comunista, veniva costantemente avvisata delle preghiere per lei. Così alla fine, quando racconta che una suora incontrata per caso le rammenta che in molte e molti hanno pregato durante la sua prigionia. Ma lei no, certo grata per la solidarietà, tuttavia non ha mai pregato neppure in quelle ore di dolore: «anche quando sentivo la morte vicina, ogni volta che i miei guardiani giravano la chiave nella toppa della porta e pensavo potesse essere arrivata la mia fine, quando avevo paura all’idea che mi potessero sgozzare». Il punto è è complesso, perché a restituire un approccio «neutrale» e da atea sulle religioni è una donna che ha contezza del suo sesso. E che osserva i meccanismi e gli attraversamenti storico-politici di oppressione senza per questo tacere i guadagni delle forme di autodeterminazione e libertà femminili, con quel rovesciamento dello sguardo quando negli anni ’70 racconta dei primi gruppi di self-help dopo la dirompenza del ’68.
Il libro si dipana per temi, ciascuno dei quali è sgranato al dritto e al rovescio. Ciò che rappresenta oggi la verginità non è più quella restituitaci da Margaret Mead; risente invece, secondo i vari e distinti contesti, di ulteriori e ben più terrestri storture nella sua appropriazione. Lo racconta la giornalista che ha intervistato alcune giovani musulmane e che hanno accusato il disagio di non poter vivere con agio la propria sessualità. Esistono in questa configurazione, ad altre latitudini, vere e proprie «fabbriche della verginità», che propongono per esempio l’imenoplastica; a Parigi nella clinica di Marc Abecassis, per 2000 dollari, o dalla società Gigimo, con sede a Shangai, che confeziona per 15 dollari un imene artificiale con accluse gocce rosse, simili al sangue.
Al di là di queste annotazioni, il tema della verginità richiama quello più vasto del controllo proprietario della sessualità femminile; i dati sconcertanti sono pubblicati nel 2013 dall’università di Cambridge dalla rivista di criminologia Aggressive Behaviour, secondo uno studio condotto in Giordania in cui un terzo degli studenti ascoltati si sono dichiarati d’accordo con il delitto d’onore. Retaggi culturali duri a morire, come quello legato alla piaga ancora devastante delle mutilazioni genitali. Sgrena riferisce i dati di ciò che accade ancora in Somalia, nonostante la strenua battaglia intrapresa da Edna Adan Ismail che da parecchi anni riesce a sottrarre molte bambine a questo efferato rito di iniziazione, insieme ad altre attiviste in tutto il mondo; basti pensare alle testimonianze della scrittrice egiziana Nawal El Saadawi.
L’appropriazione della sessualità si attaglia, drammaticamente, a quella dell’aborto, con la presenza degli obiettori di coscienza che hanno contribuito allo svuotamento qui in Italia della 194. Se allora è in nome della fede che si sdoganano pratiche simili, sarà il caso di soffermarsi ancora e di discutere nel profondo altri nodi, ancora irrisolti. Perché all’odio, tutto umano, si possa rispondere con l’agire politico.
La Città Invisibile
Serres, il computer e San Dionigi
di Luigi Bruschi *
Michel Serres è un filosofo francese molto noto in tutto il mondo. I suoi interessi hanno riguardato la matematica, la storia della scienza, la comunicazione, l’informatica, la politica e l’ecologia. Docente presso l’ Université - I - Panthéon-Sorbonne e presso la Stanford University, viene considerato l’ultimo dei maîtres a penser di Francia.
«Michel Serres è la mente filosofica più fine che esista oggi in Francia» ebbe a dire di lui, in una sua lectio magistralis del 2015, Umberto Eco.
Michel Serres - 85 anni - conferma alla grande questo lusinghiero giudizio con il suo ultimo bellissimo libro dal titolo Il Mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente (Bollati Boringhieri, aprile 2016, pp. 285, € 18,00).
Un libro così denso di idee affascinanti che richiederebbe molte pagine solo per darne dei cenni. Mi limiterò pertanto ad un paio di argomenti.
Il primo è quello che illustra in qualche modo il titolo. Secondo Serres l’evoluzione «deriva dagli scarti dell’equilibrio» e sono i personaggi sghembi e magari difettosi a realizzare questi scarti perché per loro è più facile imboccare le biforcazioni.
Non a caso Mosè è balbuziente, Edipo ha i piedi gonfi e discende da Labdaco, «il cui nome significa "zoppo", "asimmetrico", come le due gambette, una più corta e una più lunga, della lettera greca lambda». Efesto «gobbo e deforme, fabbro geniale, che Omero chiama Κυλλοποδίων cioè "Piè-Zoppo" non era mancino, ma avrebbe meritato di esserlo» e molti altri sono gli esempi.
«Per innovare, bisogna uscire dal cammino previsto, biforcare. Innovare significa biforcare. Il mio mancino zoppo è qualcuno che è “biforcato” nel corpo. E’ una metafora, perché non voglio dire che tutti gli innovatori siano mancini o zoppi o tutti e due insieme. Però, per esempio, i miti dell’Antichità sono pieni di zoppi». (intervista a La Stampa, Salone del Libro).
E nel libro possiamo leggere:
«La mutazione presuppone la diversa lettura di un messaggio - un errore? - come se il lettore, mancino, o il trascrittore, zoppo, avesse dato anche segni di strabismo».
La seconda questione (collegata alla prima) di cui voglio parlare è l’entusiasmo di Serres per l’innovazione e per "la mutazione antropolgica indotta dalle tcnologie".
Per magnificare il computer il filosofo ricorre al supplizio di San Dionigi che (come racconta nella Legenda aurea Jacopo da Varagine) decapitato da un centurione romano si china a terra per raccogliere la sua testa e portarla in cima alla collinetta di Montmartre.
«Adesso considerate il computer, lì sul tavolo, di fronte a voi, è sotto le vostre mani: dotato di una memoria colossale, non paragonabile alla mia o alla vostra, fornito di un motore di ricerca che presentifica il ricordo quasi all’istante; ricco di un numero gigantesco di immagini; provvisto, infine, di programmi capaci di risolvere mille calcoli operazioni che né voi né io sapremo portare a buon fine. [...] Le nostre facoltà non sono forse ancora una volta appena salpate, uscite dal corpo, esternalizzate?[1] Eccoci decapitati come il Vescovo di Lutezia: prodotta nel senso forte del termine, la nostra testa rotola davanti a noi, e noi la teniamo tra le mani. Il miracolo previsionale della Legenda aurea ha avuto luogo. Chiamate "Dionigi" la vostra macchina.
Sì, perché quella testa è il nostro computer.
Ancora una volta resto stupito dall’entusiasmo di un pensatore che palesa un’audacia intellettuale insospettabile in un’età così avanzata.
Ennesima dimostrazione che l’intelligenza poco ha a che fare con l’anagrafe.
* l’Espresso, Verba Woland - 15 mag 2016 (ripresa parziale).
MICHEL SERRES
"Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente".
Indice
Premessa - Pensare, inventare - Il viaggio e l’itinerario
Tempo
I. Le cose del mondo
Quattro regole universali - Informazione, novità
II. Viventi, idoli, idee
Figure di flora e di fauna - Trasformazioni - I feticci - Imitare o trasformarsi - L’ego di questo cogito - Pensare costruendosi - Un albero della conoscenza - Idea o figura? - Un esempio di questo processo: il vulcano greco - Sfolgorii della bellezza
III. Il corpo inventivo
Le età del corpo - La durata del pensiero - La storia o l’oblio - Emergenza di personaggi annunciatori - Emergenza: scoperta - Emergenza: l’acqua trasformata in vino - Emergenza: incarnazione
Figure e movimenti
IV. Personaggi
Esplosione di mille personaggi - La filosofia produce personaggi - Il pastore che guida molteplicità fluttuanti - Molteplicità - Prime figure dolci
V. Messaggeri
Di ritorno al Grande Racconto - Altri personaggi - Doppio peso della figura - Apertura politica? - Inviare o esternalizzare - Angeli messaggeri - L’ego del nuovo cogito - I miei tre giri del mondo
VI. Levare gli ormeggi
Macchine semplici e macchine a vapore - San Dionigi decollato - Pensare, inventare - I personaggi emergono alla fine dell’analisi - Cogito, cogitamus - Pensare, inventare, ossia produrre - Delle interferenze - Ritorno ai feticci
VII. Il mancino zoppo
I suoi scarti dall’equilibrio producono movimento - Lo schema corrispondente - La deviazione - Modello generale - I modelli migliori - Pensare o pesare - La nostra essenziale debolezza - Chiasmo, rottura di simmetria - Un elogio della distrazione - Essere-nel-mondo - Invenzione x: corpo e anima - La rete - Banalità - Il sesto senso, la propriocezione - La più antica metamorfosi - Sostanza e sostituzione - Di nuovo, degli inviati - Serendipità contro metodo - Ambo: variazioni attorno al punto vernale - Il ramo delle confluenze - La confusione dimostrata - Tempio e tenda - Cattedrale - Deviazione per Città del Messico - Il passo della temporalità - Novità
Spazi e campi
VIII. Traversate
Il feticcio attraversa più regioni - La filosofia come traversata - Analisi triviale - Una legge dei tre stadi - L’inviante e l’inviato - Dualità della decisione - Dalla marineria al governo e alla teologia - Nave e governo - L’inviato, il deviato o il vagabondo - Le proposizioni indicizzano le geodetiche della Pantopia
IX. Tra
La tempesta di Giorgione - Lo spazio del pensiero si situa "tra" - Carpaccio, Sacra Conversazione - Questo non è uno scenario - Rivali di Goya - Spazio di comunicazione: energia, topologia - Delle cose, prima di tutto - Denaro e quasi oggetti - Utopia dello stadio: il pallone - Chimica delle catalisi - Dei viventi - Gli umani - Scienze cognitive primitive - Per vedere il sapere - Invenzione della pietra filosofale - Mi-lieu e milieu - Anassimandro e lo spazio indefinito - Le matematiche - Fisica e chimica - I voli spaziali abitati - Il messaggero diventa il messaggio - Corpi - Da capo: una favola alla rovescia - Esitazione tra presenziale e virtuale - Annunciazione, Visitazione, nozze di Cana - Religione
X. Serre
Serre - Topologia aperta-chiusa di questo spazio - Porte, pori, passi, ponti, porti - Dell’amore e dell’odio - Abitare, ancora - Ancora l’amore
Potenze
XI. Preposizioni
Eureka!
XII. Elogio del virtuale
Il quadrato modale: del dolce e del virtuale - La virtù del virtuale - Breve racconto della mano: come pervenne al dolce - Come il dolce perviene alla blocca e al corpo - Non definire la vita - Dei personaggi possibili - Rivalsa del virtuale - Morale della storia - L’impotente - Che cos’è la letteratura - Il ritorno del Terzo Istruito
XIII. Capitale
Gli strumenti musicali capitalizzano dei possibili - Che cos’è un artefatto? - Progresso: da una finalità ristretta a fanalità generalizzate - Avatar degli artefatti - Apertura delle finalità - Riassunto in tre stadi - Il possibile come capitale - Ed ecco il capitale - La caverna inondata di luce - La notte delle luci e delle molteplicità - Dalle rivoluzioni per rotazione a un Universo in espansione - Materia e specchi
Elogio dell’attuale
XIV. Fine della rivoluzione industriale
Fine delle età dure - Conseguenze culturali - Professioni - Della libertà banale
XV. Condizioni dolci del pensiero
Pace - Anonimati dolci - Omnes in unum: scienze dolci e dure - Favola dell’abete e dell’acero globoso - Hermes e la pace - La distruzione uccide la concentrazione - Effetti sociopolitici: la fine della Tour Eiffel - Le Pollicine travolgono gli augusti - Degli individui invisibili in massa - Il prezzo del capo - Ancora spazi - Variazione formale sulla questione - Utopia - Sociologia dolce - Secondo capovolgimento di questo libro - Perdita dei punti di riferimento - Variazione erudita sulla questione - Un altro pastore: un’etica individuale - L’invisibilità per ciascuno - Dalla morale al diritto: un’altra foresta
XVI. Questo dissolverà quello
La fluidità - Uccelli volano - Vecchio elogio dei solidi - Questo dissolverà quello
Invio
Progetto di una filosofia della storia
Pianeta Terra. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
Storie congetturali che raccontano l’inaudito
SAGGI. «Il contratto sessuale» di Carole Pateman pubblicato per Moretti&Vitali. I fondamenti nascosti della società moderna in un libro che dopo quasi trent’anni fa ancora discutere
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 14.05.2016)
Dare conto di ciò che Carole Pateman ha prodotto in relazione al pensiero politico moderno è decisivo. Al centro di numerose discussioni pubbliche, sia accademiche come docente al dipartimento di Scienze Politiche dell’università della California, sia politiche per le sue caustiche critiche alla democrazia liberale, tra i molti volumi e interventi che ha scritto nel corso della sua lunga vita soltanto uno è stato tradotto in italiano. Unico però, in tanti sensi - di cui il primo è l’aver costituito un punto di non ritorno. Si tratta di The sexual contract, pubblicato nel 1988 (Stanford U.P.) e tradotto per la prima volta in Italia nove anni dopo (Editori riuniti). Ormai nel dimenticatoio dei tanti «fuori commercio», è allora più che lodevole la sua recente ristampa.
Il contratto sessuale (Moretti&Vitali, pp. 339, euro 21, traduzione di Cinzia Biasini, collana «Pensiero e pratiche di trasformazione») è pietra miliare della teoria politica contemporanea, così scrive Olivia Guaraldo nell’ottima introduzione di questa nuova edizione, inquadrando il lavoro che Carole Pateman ha condotto non solo sotto il rilievo del dibattito femminista, ma anche nel senso di inaggirabilità che ha assunto nella scolarship internazionale da parte di chi si occupa di contrattualismo. A osservare la diversità di ricezione in Italia e all’estero, non potrà sfuggire che in altri paesi del mondo le ristampe sono proseguite costanti in questi decenni.
L’inganno iniziale
La discontinua ricezione de Il contratto sessuale ne perimetra tuttavia la circolazione, tracciando il terreno in cui hanno attecchito le tesi di Pateman, ovvero quasi esclusivamente nell’ambito della riflessione del pensiero della differenza sessuale (di cui l’esito più recente in merito è Sovrane, di Annarosa Buttarelli per Il Saggiatore). Avere l’occasione di rileggere un testo simile significa oggi ribadire con forza intanto la tesi iniziale, e cioè che esiste un momento precedente al contratto sociale - così chiaro nello stesso titolo - che non è stato compreso dai teorici sei-settecenteschi (Hobbes, Locke, Rousseau e poi lo stesso Kant) quando si sono prodigati dapprima a stabilire l’esistenza di quel patto secondo loro originario - e poi a descrivere con minuziosa tenacia le forme della vita associata. Tornare a Pateman non è solo consigliabile a chi desidera rispolverarne il tenore teorico-pratico.
Assistere allo svelamento dell’inganno iniziale vuol dire stanare il rimosso, misurarsi con una radicalità che può costruire un ragguardevole equipaggiamento per leggere il presente. La storia «congetturale» a cui si affida Pateman serve certo all’avanzamento rivoluzionario della sua tesi; al contempo e per converso, dispone anche la cifra di ciò che è stato «il racconto più autorevole dell’età moderna».
Molti sono allora gli elementi da rimarcare della conquistata libertà civile. Intanto non è universale, visto che il contratto originario istituisce sia la libertà che il dominio, bensì ha un attributo maschile e dipende dal diritto patriarcale.
E se massiccia è stata la decostruzione operata da Pateman intorno alla radice democratica moderna, individualista e proprietaria, la narrazione ha a che fare con la genesi del diritto politico inteso come «diritto patriarcale o diritto sessuale, ossia in quanto potere che gli uomini esercitano sulle donne»; da qui viene proposta la tesi secondo cui il contratto sessuale si mantenga su un patto tra fratelli, un «fratriarcato». Seguendo la lezione di Adrienne Rich, anche Pateman si posiziona nella certezza che esista una «legge del diritto sessuale maschile». Tale diritto è, sostanzialmente, quello coniugale.
Assunzioni materiali
Eppure, se nella separazione tra contratto sociale e contratto sessuale si viene a delineare una precisa rappresentazione (il primo è tangente alla sfera pubblica e il secondo alla sfera privata), ignorando la metà della storia si cade facilmente in equivoco. Alla fine degli anni ‘80, cioè quando Pateman scrive, ha in mente di fare luce sulle strutture istituzionali di Gran Bretagna, Australia e Stati Uniti per chiarire come, attraverso l’interezza della storia del contratto originario, si verifichino comunanze patriarcali insospettabili.
In questa direzione, l’autrice analizza diversi tipi di contratto, da quello di matrimonio, disossato in verità da numerosi contributi soprattutto da parte di teoriche femministe, a quello di lavoro, come anche quello che viene a definirsi tra prostituta e cliente. Tutte assunzioni che andrebbero discusse, e che infatti lo sono state possibilmente piegandole ai vari contesti, transitori e pur sempre materiali. Se i contratti presi in esame sono connotabili da iter che ne prevedono regolamentazioni o proibizioni da parte della legge, è chiaro come si tratti di particolari forme ascrivibili alla proprietà che si ritiene ciascuno e ciascuna abbiano sulle proprie persone. Ciò nonostante, «il contratto sessuale è il mezzo attraverso il quale gli uomini trasformano il proprio diritto naturale sulle donne nella sicurezza civile patriarcale».
Contingenze complesse
A restituire gradi di attualità che il testo non solo conserva ma intuisce con puntuale efficacia, il riferimento è a una clausola su cui Pateman si sofferma alla fine del settimo capitolo e che è da tenere presente nel contratto sessuale: la maternità surrogata, definita «una nuova forma di accesso e di uso del corpo femminile da parte degli uomini».
Questo per dire come il dibattito intorno alla «surrogazione», fosse il caso di tenerlo a mente quando imperversa spesso non privo di strumentalità e costruzione di blocchi identitari, aveva assunto già alla fine degli anni ‘80 una declinazione cruciale. Il caso sollevato da Pateman accenna alla celebre sentenza disposta dalla corte del New Jersey (1986 ma in due fasi e l’una contraddittoria rispetto l’altra) passata poi alla storia come «il caso Baby M.» in cui la «madre surrogante» cambiò idea e decise di non separarsi più dalla bambina. Se il carattere vincolante dello statuto giuridico di questi contratti poneva infatti delle questioni complesse in uno scenario come quello in cui già diverse erano le agenzie aperte per la surrogazione, venivano già dettagliati numeri rispondenti a profitti precisi, differenziando circa il legame tra accordi commerciali o non commerciali con la relativa soglia di legalità e liceità o meno secondo i paesi.
Ciò che viene messa a tema è però la domanda iniziale, quella secondo cui a essere in gioco sia una semplice prestazione. Da un punto di vista contrattuale infatti è puramente accidentale che la prestazione attenga o meno a questo o a quell’oggetto, così come trascurabile è il fatto che ciò che viene prodotto sia un bambino, una bambina. Su questo punto, come per altri su cui Pateman si sofferma, Il contratto sessuale è un volume ancora incandescente che vale la pena di essere rimeditato.
Donne nella Chiesa, il Papa apre al diaconato femminile *
Papa Francesco ha annunciato che istituirà una Commissione di studio sul diaconato femminile nella Chiesa primitiva ritenendo che le donne diacone sono "una possibilità per oggi".
Se all’annuncio seguirà una decisione, per la prima volta in questo millennio si riaprirà una prospettiva che era considerata definitivamente chiusa da una decisione di Giovanni Paolo II. Il diaconato, infatti, è il primo grado dell’ordine sacro, seguito dal sacerdozio e dall’episcopato. I diaconi possono amministrare alcuni sacramenti tra i quali il battesimo e il matrimonio e in alcuni paesi ci sono intere regioni nelle quali sostituiscono ormai i sacerdoti nella guida delle comunità parrocchiali.
L’apertura prefigurata da Francesco avvicinerebbe la Chiesa Cattolica a quella anglicana dove ci sono donne preti e vescovi. Al Sinodo si era parlato di questo "tema audace" con l’intervento del reverendo Jeremias Schroder, arciabate presidente della Congregazione benedettina di Sant’Ottilia.
"Sul diaconato femminile la Chiesa non ha detto no", aveva spiegato già nel 1994 il cardinale Carlo Maria Martini, commentando lo stop di Giovanni Paolo II alle donne prete: una dichiarazione solenne, ad un passo dai crismi dell’infallibilità pontificia ed alla quale Papa Francesco ha detto più volte di volersi attenere.
Malgrado quel "no", per il porporato c’erano però ancora "spazi aperti", perchè il discorso sul ruolo della donna avrebbe potuto continuare a partire dal diaconato, "che il documento non menziona, quindi non esclude". Questo perchè, avvertiva il cardinale, occorre evitare che l’ecumenismo si blocchi proprio sul tema delle donne. Il diaconato è il primo grado di consacrazione "ufficiale" che precede l’ ammissione al sacerdozio e nelle prime comunità cristiane era aperto anche alle donne. Per Martini, dunque, non sarebbe stato male riaprire anche alle donne, pur ammettendo che sul sacerdozio femminile "il documento papale è decisivo, non ammette replica, nè riformabilità".
"Tuttavia credo che il vero compito di fronte a questa lettera - aveva osservato il cardinale - non è l’ esegesi puntigliosa dal punto di vista dogmatico, ma è vedere come, con questa lettera e malgrado le difficoltà che potrà suscitare, è ancora possibile sia un cammino di dialogo ecumenico, sia soprattutto un cammino in cui mostrare presenza e missione della donna a tutto campo. Rispetto a un documento di questo tipo, che sembra chiudere una via, come già altri in passato, mentre in realtà hanno favorito un ripensamento teologico e pratico che ha fatto superare certi scogli e ha fatto comprender meglio la natura e la forza della presenza della donna nella Chiesa, io penso che uno spazio rimanga aperto".
Di fatto il principale argomento per il "no" al sacerdozio femminile è infatti l’assenza delle donne nel cenacolo al momento dell’istituzione dell’Eucaristia. Ma una recente decisione di Papa Francesco già lo "smontava" in parte: quella sull’ammissione delle donne alla Lavanda dei piedi che il Papa aveva già attuato nel primo giovedì santo del suo Pontificato, quando andando al carcere minorile di Casal del Marmo, decise che quel giorno anche le ragazze potessero partecipare come protagoniste al rito della Lavanda dei piedi, diventa quest’anno una possibilità per tutte le parrocchie del mondo.
E’ significativo che Papa Francesco abbia scelto l’incontro di oggi nell’Aula Nervi con circa 900 superiore generali degli istituti religiosi femminili per affrontare questo tema così decisivo. Le religiose gli hanno chiesto, nel corso di una sessione di domande e risposte perchè la Chiesa esclude le donne dal servire come diaconi.
E una ha aggiunto "Perchè non costruire una commissione ufficiale che potrebbe studiare la domanda?". Il papa ha risposto che aveva parlato della questione una volta qualche anno fa con un "buon, saggio professore", che aveva studiato l’uso delle diaconesse nei primi secoli della Chiesa e gli ha aveva detto che ancora non è del tutto chiaro quale ruolo avessero. E soprattutto se "avevano l’ordinazione o no? "E’ rimasto un pò oscuro quale fossero ruolo e statuto delle diaconesse in quel momento". Costituire una commissione ufficiale potrebbe studiare la questione?", si è chiesto il Papa ad alta voce. E poi si è risposto: "Credo di sì. Sarebbe fare il bene della Chiesa di chiarire questo punto. Sono d’accordo. Io parlerò per fare qualcosa di simile. Accetto la proposta. Sembra utile per me avere una commissione che chiarisca bene".
L’urgenza di una riforma
di Vito Mancuso (la Repubblica, 13.05.2016)
FORSE ci troviamo al cospetto della prima significativa mossa di quella che potrebbe essere una rivoluzione davvero epocale. Credo la più importante tra tutte le meritorie iniziative di riforma intraprese finora dal pontificato di Francesco. Se c’è una via privilegiata infatti per il rinnovamento di cui la Chiesa cattolica ha oggi un immenso bisogno, essa è la via femminile.
PIÙ della riforma della curia, più dell’ecumenismo, più della riforma della morale sessuale, più della libertà di insegnamento nelle facoltà teologiche, più di molte altre cose, l’ingresso delle donne nella struttura gerarchica della Chiesa cattolica avrebbe l’effetto di trasformare in modo irreversibile tale veneranda e anche un po’ acciaccata istituzione.
Prendendo atto dell’emancipazione femminile ormai giunta a compimento in Occidente in tutti gli ambiti vitali, Giovanni Paolo II aveva prodotto una serie di documenti altamente elogiativi verso ciò che egli definiva “genio femminile”, si pensi alla lettera apostolica Mulieris dignitatem del 1988 e alla specifica Lettera alle donne del 1995. Né in questi testi né altrove però il papa polacco definì mai cosa intendesse realmente con tale espressione, usata in seguito più di una volta anche da Benedetto XVI nei suoi interventi in materia. Anche papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium del 2013 ha parlato di “genio femminile”. Ieri però, con l’apertura al diaconato femminile, parlando davanti a oltre ottocento suore superiore, questa ermetica espressione papale ha ricevuto finalmente la possibilità di passare da edificante proclamazione retorica a concreto sentiero istituzionale.
Forse a breve non si parlerà più di genio femminile, ma di geni femminili, perché le singole donne avranno finalmente la possibilità di tornare a donare a pieno titolo il loro patrimonio genetico all’intero organismo di madre Chiesa, la quale ora nella sua mente è femminile unicamente quanto alla grammatica, mentre quanto al diritto canonico è esclusivamente maschile (e da qui le deriva l’attuale sterilità, perché anche la vita spirituale, oltre a quella biologica, ha bisogno di cromosomi y e di cromosomi x).
Ho usato l’espressione “tornare a donare” perché l’apertura al diaconato femminile da parte di Francesco non è una novità assoluta, già nel Nuovo Testamento si parla di diaconesse. Anzi, tale apertura papale può comportare la rivoluzione epocale di cui parlavo proprio perché rimanda a una doppia fedeltà: a una fedeltà al presente, al fine di rendere la Chiesa cattolica all’altezza di tempi in cui l’emancipazione femminile è almeno in Occidente un processo pressoché compiuto, e a una fedeltà al passato, al fine di recuperare la straordinaria innovazione neotestamentaria quanto al ruolo delle donne.
Se si leggono i Vangeli infatti si vede come Gesù, in modo del tutto discontinuo rispetto alla prassi rabbinica del tempo, ricercasse e incoraggiasse la presenza femminile. Luca per esempio scrive che nel suo ministero itinerante «c’erano con lui i Dodici e alcune donne», dando anche i nomi delle stesse: Maria Maddalena, Giovanna, Susanna e aggiunge «molte altre», espressione da cui è lecito inferire un numero di seguaci donne più o meno pari a quello dei seguaci uomini.
Non deve sorprendere quindi che la Chiesa primitiva conoscesse le diaconesse, come appare da san Paolo che scrive: «Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è diaconessa della chiesa di Cencre» (Romani 16,1; il testo ufficiale della Cei purtroppo è infedele all’originale perché traduce il greco diákonon con “al servizio”! Ben diversa la Bible de Jérusalem che traduce correttamente “ diaconesse de l’Église”).
Che esito avrà l’istituenda commissione di studio sul diaconato femminile? Quanto tempo passerà prima che sia effettivamente al lavoro? Quanto prima che consegni i risultati? E questi che sapore avranno? Sono domande a cui al momento non è possibile rispondere, di certo però la riforma al femminile di papa Francesco è un’urgenza da cui la Chiesa non si può più esimere. Si tratta semplicemente di giustizia: quando si entra in una qualunque chiesa per la messa le donne sono sempre in netta maggioranza, com’è possibile che nessuna di esse possa commentare il Vangelo dall’altare? Il diaconato femminile metterebbe fine a questa ingiustizia e aprirà molte nuove strade.
È un sogno destinato ad avverarsi? Nessuno lo sa, certamente però il successo della riforma al femminile di papa Francesco dipenderà dalla capacità di saper mostrare la doppia fedeltà che vi è in gioco: fedeltà alle donne di oggi e fedeltà al Maestro di duemila anni fa, fedeltà all’attualità e fedeltà a quell’eterno principio di parità emerso al momento della creazione: «E Dio creò l’essere umano a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Genesi 1,27).
di Marcello Neri (Il Mulino, 10 maggio 2016])
Il discorso di papa Francesco, in occasione della consegna del Karlspreis alla presenza dei rappresentanti di tutte le istituzioni europee (dal Parlamento alla Bce), spariglia le carte e traccia un nuovo profilo dell’interlocuzione tra Chiesa cattolica e Europa. I grandi vocaboli, dalla legge naturale alla nominazione costituzionale di Dio, su cui si era articolato un diritto pregiudiziale della Chiesa sulla configurazione del continente e sulle scelte delle sue istituzioni, sono scomparsi come d’incanto.
Indice di un mutato interesse con cui si guarda all’Europa: non più per una residuale riaffermazione della Chiesa e del cristianesimo, ma in virtù di qualcosa che solo l’Europa può nel contesto attuale della vita del mondo. Le coordinate di fondo per una nuova alleanza tra la secolarità europea e la fede cristiana sono offerte in attesa di una risposta all’altezza del meglio della storia, passata e recente, del nostro continente. Tutti i soggetti coinvolti, su entrambi i lati, sono chiamati a dare prova di sé. All’Europa, guardandola come chi viene dall’esterno, il papa chiede semplicemente un esercizio di riapprendimento di quella «capacità generatrice e creatrice» che l’ha resa possibile sul piano storico, culturale e politico.
Inventare sintesi inedite, nel crocevia dell’incontro di civiltà e culture di matrici diverse, senza previ punti in comune, è l’impresa di cui è stata capace l’Europa; quella da cui essa si genera sempre di nuovo, come un modo specifico del suo essere una parte del mondo. Le difficoltà e gli arretramenti che conosce oggi l’Europa rappresentano quindi, in primo luogo, una sorta di malessere rispetto a se stessa e al compito che essa si è data per diventare, nella seconda metà del secolo scorso, «una novità senza precedenti nella Storia». E anche le tensioni che si possono produrre, su singole questioni, tra idealità evangelica della Chiesa e pragmatismo delle politiche nazionali vengono ricondotte all’idea di Europa come spazio che ha in se stesso non solo le forze per ricomporle, ma anche per farle funzionare in maniera virtuosa. La parola di Francesco intercetta e s’innesta esattamente sul profilo più alto di cui l’Europa è stata capace: diritti dell’uomo, democrazia, libertà. Smascherando il cortocircuito in cui queste grandi figure cadono quando vengono praticate come la loro privatizzazione, secondo la logica di un individualismo spinto che le sgancia dalla dimensione sociale a cui esse sono votate.
Ridare ariosità sociale a queste figure vuol dire, per Francesco, declinare i diritti dell’uomo come capacità di integrazione, la democrazia come esercizio di dialogo che riconosce in ogni abitante delle nostre città un interlocutore valido, la libertà come principio di una cultura che convoca tutti alla «sua elaborazione e costruzione». Quello che Francesco immagina è una corrispondenza creativa, capace di immaginarsi nuovi scenari e adeguate forme di convivenza umana fra i diversi, che siano all’altezza dell’ideale di queste figure portanti dello spirito europeo.
Nel sogno di un’Europa capace di un nuovo umanesimo, che attinga a quello di cui essa «è stata la culla e la sorgente», Bergoglio lancia la sfida di un’inusuale confessione di europeismo intorno a cui intrecciare le passioni della fede e la passione per l’umana dignità di essere della storia che ci ha generati.
Lo snodo decisivo di questo incontro, libero e autonomo, di passioni è rappresentato dalla capacità di immaginarsi e realizzare un diverso ordinamento economico, che non richieda il sacrificio dei legami fondamentali dell’umano e non viva dell’ossessione di consumarsi in se stesso per produrre profitti a breve durata. L’investimento che deve azzardare oggi l’Europa è quello sulle generazioni più giovani, che già oggi sono «agenti di cambiamento e trasformazione». L’azzardo di una fiducia da concedere per uscire dalla stanchezza e dagli arretramenti che sembrano governare la litigiosità delle politiche europee.
Pensando la Chiesa come collaboratrice per questa «rinascita di un’Europa affaticata, ma ancora ricca di energie e di potenzialità». Non padrona dispotica del destino dell’Europa, ma istituzione fra le istituzioni che realizza il Vangelo che custodisce andando «incontro alle ferite dell’uomo». Memoria, questa, in cui la radicalità evangelica e l’idealità europea possono stringere davvero un’alleanza capace di sognare insieme un nuovo umanesimo per tutti: «Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stata la sua ultima utopia. Grazie».
La decisione di conferire quest’anno a Papa Francesco il premio Carlo Magno è eccezionale
Le tre missioni del futuro per noi leader della Ue
di Jean-Claude Juncker - Martin Schulz (la Repubblica, 06.05.2016)
LA DECISIONE di conferire quest’anno a Papa Francesco il premio Carlo Magno è eccezionale. Alcuni potrebbero fare dell’ironia sul fatto che all’Unione europea le cose vanno male al punto di avere bisogno di un aiuto dal Papa, mentre altri potrebbero chiedersi perché un Papa che viene dall’Argentina riceva un premio che rende omaggio a chi si è prodigato per l’unificazione pacifica dell’Europa. Siamo convinti che Papa Francesco si sia meritato questo premio per il messaggio di speranza rivolto all’Europa.
Forse occorrono gli occhi di un argentino, che osservano dall’esterno ciò che intimamente lega noi europei, per prendere coscienza dei nostri punti di forza. Proprio in un momento in cui l’Europa e la crisi vengono spesso messe sullo stesso piano, tendiamo facilmente a dimenticare ciò che l’Europa ha già fatto e ciò di cui è capace: i nostri padri e le nostre madri hanno costruito un progetto di pace e umanità che ha visto la luce dalle macerie della Seconda guerra mondiale. Si sono allontanati consapevolmente dalla propaganda bellica, dal desiderio di distruzione e dalla disumanità che hanno caratterizzato la prima metà del XX secolo. Essi hanno invece messo insieme le loro forze per costruire un’Europa dove non vi sarebbero stati vincitori né vinti, bensì solo vincitori. Agendo in tal modo, hanno dimostrato di aver imparato dalla storia che, quando noi europei ci siamo combattuti, le conseguenze sono state tragiche per tutti, mentre quando siamo rimasti uniti tutti ne hanno tratto beneficio.
L’anima dell’Europa è rappresentata dai suoi valori. Ed è proprio a questi ultimi che il Papa ci rinvia quando ricorda che «l’Europa che guarda e difende e tutela l’uomo è un prezioso punto di riferimento per tutta l’umanità». Eppure, in un momento in cui l’Europa passa da un vertice di emergenza all’altro e la gente si chiede se tutti in Europa condividano gli stessi valori, risulta ancora più importante prendere coscienza della nostra forza comune. Nell’era della globalizzazione noi europei abbiamo quanto mai bisogno gli uni degli altri, come testimoniano le tre sfide cui siamo attualmente confrontati.
In primo luogo, la necessità di preservare il nostro stile di vita europeo. In un mondo sempre più connesso, dove emergono inesorabilmente altri Paesi e regioni, dobbiamo unire le nostre forze, in quanto il contributo dell’Europa e dei suoi Stati ai risultati economici mondiali nonché alla popolazione del pianeta si sta riducendo. Chi di fronte a tali prospettive crede che sia arrivato il momento di tornare agli Stati nazionali ha perso il senso della realtà. Tali sviluppi potranno anche non piacerci, ma non possiamo tornare indietro; possiamo invece plasmarli come desideriamo se restiamo uniti. Nessuno Stato membro - per quanto possa essere influente - è in grado da solo di imporre i propri interessi e valori; tuttavia, se resteremo uniti, potremo riuscire a definire le regole che disciplinano la competizione tra le grandi potenze.
Per noi europei appare quindi sensato restare uniti, poiché è in gioco il nostro modello di società, che poggia sui valori di democrazia, Stato di diritto, solidarietà e diritti umani. In Europa sono garantiti i diritti civili, la libertà di stampa e il diritto di sciopero, non si pratica la tortura e non esiste il lavoro minorile né la pena di morte. La nostra forza economica deriva dal mercato unico, la cui solidità ci permetterà di assicurare e sviluppare in futuro il nostro modello sociale europeo fondato sui valori.
Secondo: garantire la sicurezza e la pace. Se noi europei restiamo uniti, possiamo fare grandi cose. Ne sono dimostrazione l’accordo sul nucleare con l’Iran e l’accordo di Parigi sul clima. Questi esempi dovrebbero incoraggiarci, come europei, ad agire uniti e ad assumere maggiori responsabilità sulla scena mondiale. Il mondo è sempre più complesso e, secondo alcuni, più pericoloso. Gli Stati Uniti riducono progressivamente il loro impegno a livello internazionale, la Russia si mostra sempre più aggressiva, la Cina acquisisce influenza nell’Asia orientale. Nel nostro immediato vicinato sono in atto conflitti e guerre: in Siria si registrano ogni giorno nuove vittime, mentre nell’Ucraina orientale la situazione rimane preoccupante. Gli attentati di Bruxelles, Lahore, Istanbul e Parigi ci ricordano amaramente che il terrorismo islamico rappresenta una minaccia globale. Di fronte a un simile scenario mondiale non possiamo permetterci di sprecare le nostre forze a causa di vanità nazionali. Dobbiamo esprimerci con una sola voce: solo così potremo rafforzare la nostra influenza.
Terzo: gestire la migrazione. Oggi le persone in fuga da guerre, conflitti e persecuzioni sono molto più numerose che in ogni altro periodo dopo la Seconda guerra mondiale. Uomini, donne e bambini vengono da noi in cerca di protezione dalla brutalità dello Stato islamico e dalle bombe di Assad. Il problema ha una portata tale che nessuno Stato membro è in grado di risolverlo da solo; insieme però possiamo condividere questa responsabilità, in quanto continente con oltre 500 milioni di abitanti.
La visita di Papa Francesco a Lesbo è stata più di un gesto simbolico. Accogliendo dodici profughi siriani, ha agito in modo più concreto e solidale di molti Stati dell’Unione. Papa Francesco incoraggia anche noi ad agire. La solidarietà e l’amore per il prossimo non devono essere soltanto belle parole; questi valori sono importanti solo se li mettiamo in pratica. È quello che fanno ogni giorno numerose decine di migliaia di volontari che si adoperano fino allo sfinimento e anche oltre per garantire alle persone un rifugio dal terrore, dalla guerra e dalla violenza. Forniscono cibo ai rifugiati, si assicurano che abbiano vestiti e sostengono i bambini nell’apprendimento per garantire loro un futuro. Questi volontari mostrano ai rifugiati e al mondo intero il volto di un’Europa umana.
È anche questo il compito della politica, soprattutto in un continente che troppo spesso, nella sua storia, è stato diviso da muri e recinzioni, trincee e frontiere. Superare queste divisioni per creare un’Europa di pace e di benessere è stata una delle nostre conquiste. Ciascuno di noi ne beneficia, ad esempio quando viaggiamo o commerciamo oltre le frontiere.
A tale riguardo, Papa Francesco ripone in noi una grande fiducia e auspica che riusciremo a sfruttare meglio le nostre potenzialità. Il nostro modo europeo di cooperare e gettare ponti tra i popoli e i Paesi ci ha già permesso, in fondo, di superare la divisione del nostro continente. Di fronte alle molteplici crisi odierne, abbiamo più che mai bisogno di attingere a questa forza. Le premesse sono forse migliori di quanto non crediamo. In ogni caso, Papa Francesco ci infonde coraggio quando afferma che «le difficoltà possono diventare promotrici potenti di unità». È ormai tempo che noi europei ci mobilitiamo e lottiamo insieme per un’Europa unita.
Si fa presto a dire famiglia
La vita umana non è la vita di una pianta o di un animale, ha bisogno di casa, radici, appartenenza non si accontenta della biologia, si nutre dell’amore dell’Altro, esige di essere riconosciuta
Ma tutto questo non ha nulla a che vedere con il sesso dei genitori o con la capacità di generare
Esiste davvero qualcosa come un istinto materno o un istinto paterno o forse queste formulazioni contengono una profonda contraddizione in termini?
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 01.05.2016)
Famiglia è ancora una parola decente che può essere pronunciata senza provocare irritazione, fanatismi o allergie ideologiche? Famiglia è ancora una condizione fondamentale e irrinunciabile del processo di umanizzazione della vita oppure è un tabù da sfatare? Se c’è stato un tempo nel quale essa appariva circondata da un alone di sacralità inviolabile non rischia forse oggi di essere condannata come una sopravvivenza ottusa della civiltà patriarcale? Sono solo i cattolici più intransigenti a sostenere la sua esistenza come indispensabile alla vita umana?
Dal punto di vista laico della psicoanalisi la famiglia resta una condizione essenziale per lo sviluppo psichico ed esistenziale dell’essere umano. La vita umana ha bisogno di casa, radici, appartenenza. Essa non si accontenta di vivere biologicamente, ma esige di essere umanamente riconosciuta come vita dotata di senso e di valore. Lo mostrava “sperimentalmente” un vecchio studio di Renè Spitz sui bambini inglesi orfani di guerra che dovettero subire il trauma della ospedalizzazione ( Il primo anno di vita del bambino, Giunti 2009).
La solerzia impeccabile delle cure somministrate dalle infermiere del reparto nel soddisfare tutti i bisogni cosiddetti primari dei bambini non erano sufficienti a trasmettere loro il segno irrinunciabile dell’amore. Effetto: cadute depressive gravi, anoressia, abulia, marasma, stati di angoscia, decessi. Se la vita del figlio non è raccolta e riconosciuta dal desiderio dell’Altro, resta una vita mutilata, cade nell’insignificanza, si perde, non eredita il sentimento della vita. Non è forse questa la funzione primaria e insostituibile di una famiglia? Accogliere la vita che viene alla luce del mondo, offrirle una cura capace di riconoscere la particolarità del figlio, rispondere alla domanda angosciata del bambino donando la propria presenza.
La clinica psicoanalitica ha riconosciuto da sempre l’importanza delle prime risposte dei genitori al grido del figlio. Non si tratta solo di soddisfare i bisogni primari perché la vita umana non è la vita di una pianta, né quella dell’animale, non esige solo il soddisfacimento dei bisogni, ma domanda la presenza del desiderio dell’Altro; vive, si nutre del desiderio dell’Altro. La vita umana non vive di solo pane, ma dei segni che testimoniano l’amore.
L’attualità politica ci impone a questo punto una domanda inaggirabile: tutto questo concerne la natura del sesso dei genitori? Essere capaci di rispondere alla domanda d’amore del figlio dipende dalla esistenza di una coppia cosiddetta eterosessuale? La famiglia come luogo dove la vita del figlio viene accolta e riconosciuta come vita unica e insostituibile - ogni figlio è sempre “figlio unico”, afferma Levinas, - è un dato naturale, un evento della biologia? Siamo sicuri che l’amore di cui i figli si nutrono scaturisca, come l’ovulo o lo spermatozoo, dalla dimensione materialistica della biologia? Esiste davvero qualcosa come un istinto materno o un istinto paterno o forse queste formulazioni che riflettono una concezione naturale della famiglia contengono una profonda e insuperabile contraddizione in termini?
Se, infatti, quello che nutre la vita rendendola umana non è il “seno”, ma il “segno” dell’amore, possiamo davvero ridurre la famiglia all’evento biologico della generazione? Non saremmo invece obbligati a considerare, più coerentemente, che un padre non può essere mai ridotto allo spermatozoo così come una madre non può mai essere ridotta ad un ovulo?
La domanda si allarga inevitabilmente: cosa significa davvero diventare genitori? Lo si diventa biologicamente o quando si riconosce con un gesto simbolico il proprio figlio assumendosi nei suoi confronti una responsabilità illimitata? Le due cose non si escludono ovviamente, ma senza quel gesto la generazione biologica non è un evento sufficiente a fondare la genitorialità. In questo senso Françoise Dolto affermava che tutti i genitori sono genitori adottivi.
Generare un figlio non significa già essere madri o padri. Ci vuole sempre un supplemento ultra-biologico, estraneo alla natura, un atto simbolico, una decisione, un’assunzione etica di responsabilità. Un padre e una madre biologica possono generare figli disinteressandosi completamente del loro destino. Meritano davvero di essere definiti padri e madri? E quanti genitori adottivi hanno invece realizzato pienamente il senso dell’essere padre e dell’essere madre pur non avendo alcuna relazione biologico-naturale coi loro figli?
Questo ragionamento ci spinge a riconsiderare l’incidenza del sesso dei genitori. Ho già ricordato come l’amore sia a fondamento della vita del figlio. Ma l’amore ha un sesso?
Prendiamo come punto di partenza una formula di Lacan: “l’amore è sempre eterosessuale”. Come dobbiamo intendere seriamente l’eterosessualità? Questa nozione, per come Lacan la situa a fondamento dell’amore, non può essere appiattita sulla differenza anatomica dei sessi secondo una logica elementare che li differenzia a partire dalla presenza o meno dell’attributo fallico.
L’amore è eterosessuale nel senso che è sempre e solo amore per l’Altro, per l’eteros. E questo può accadere in una coppia gay, lesbica o eterosessuale in senso anatomico. Non è certo l’eterosessualità anatomica - come l’esperienza clinica ci insegna quotidianamente - ad assicurare la presenza dell’amore per l’eteros! È invece solo l’eterosessualità dell’amore a determinare le condizioni migliori affinchè la vita del figlio possa trovare il suo ossigeno irrinunciabile.
Due saggi raccontano come l’Occidente non solo ridisegnò la geografia delle terre tra Egitto e India, ma ne fece un’ideologia
Lawrence D’Arabia l’uomo che creò l’Oriente
“Se non manteniamo la parola con quei popoli genereremo rabbia e fanatismo”
di Giuseppe Catozzella (la Repubblica, 28.04.2016)
Per Edward Said il modo dell’Occidente di rapportarsi al Medio Oriente ha un nome preciso: “Orientalismo” (titolo del suo saggio del 1978). E orientalismo è «l’insieme delle istituzioni create dall’Occidente al fine di gestire le proprie relazioni con l’Oriente». Istituzioni che implicano rapporti di forza economici, politici e militari.
Ma occorrono anche, per Said, “fattori culturali”, vale a dire un «insieme di nozioni sull’Oriente», non importa se veritiere o fittizie, che consentano all’Occidente di esercitare «la propria influenza e il proprio predominio » su quelle terre. Un discorso, comune e condiviso da tutto l’Occidente, nell’accezione suggerita da Foucault nell’Archeologia del sapere.
Senza quel discorso, quei fattori culturali, spiega Said, «risulta impossibile spiegare la disciplina costante e sistematica con cui la cultura europea ha saputo trattare - e persino creare - l’Oriente in campo politico, sociologico, militare, ideologico, scientifico e immaginativo». L’idea che oggi abbiamo di quelle terre, «sede delle più antiche, ricche, estese colonie europee» è, per Said, frutto di decenni di pratiche discorsive su «uno dei più ricorrenti e radicati simboli del Diverso ».
Ma dove si forma questo discorso, come oggi lo conosciamo? Un libro di Phillip Knightley e Colin Simpson, da poco pubblicato, Le vite segrete di Lawrence d’Arabia (Odoya, pagg. 362, euro 22), rintraccia quel momento nel primo periodo in cui Thomas Edward Lawrence, a diciannove anni, si iscrisse a Oxford, nel 1907. Lì conobbe David George Hogarth, suo mentore, confessore e protettore, senza il quale «non è esagerato dire che non ci sarebbe stato nessun Lawrence d’Arabia».
Hogarth lo introdusse al circolo della Round Table, un periodico che propugnava la Federazione (cioè l’unione di tutti i bianchi dell’Impero) e l’Imperialismo. Sulle sue pagine si legge del ruolo di «principale forza civilizzatrice dei paesi di lingua inglese», e che l’imperialismo «dovrà diventare la fede riconosciuta di tutta la nazione».
È così che Lawrence, attraverso il suo maestro, coltiva, come scrive lui stesso, l’idea di «formare una nuova nazione di gente entusiasta della nostra libertà e desiderosa di entrare a far parte del nostro Impero»: si riferisce al popolo arabo, a coloro che stavano tra l’Egitto e l’India, i due grandi possedimenti della Corona.
Un altro testo, recentemente pubblicato, ci viene in aiuto. È Lawrence d’Arabia e l’invenzione del Medio Oriente di Fabio Amodeo e Mario José Cereghino (Feltrinelli, pagg. 208, euro 17), dove si comprende come «all’inizio del Novecento la parola Medio Oriente non esisteva. A usarla per primo fu nel 1902 Alfred Mahan sulla National Review». Non era infatti ancora sorta la necessità di identificare le terre tra Egitto e India. Mahan era un ammiraglio, e per primo teorizzò che «la Royal Navy dovesse proteggere le rotte tra il Canale di Suez, il Mar Rosso, il Golfo Persico».
Perché? C’era, certo, la doppia minaccia: da nord, da parte «dello zar di tutte le Russie»; e da ovest, «la crescente egemonia finanziaria e commerciale del Reich tedesco sulla Turchia asiatica». Ma c’era anche altro. Verso la fine del 1908, Lawrence presenta l’idea della sua tesi di laurea: la premessa è che i crociati abbiano portato nel Medio Oriente quei princìpi di architettura militare che in genere tutti gli esperti asseriscono venire dal Medio Oriente. Così, impara l’arabo e parte per la Siria, che allora comprendeva le attuali Israele, Giordania e Libano. Ma queste spedizioni archeologiche erano finanziate da ministeri che con l’archeologia nulla avevano a che vedere.
Ecco che Lawrence si trova in pieno dentro il Grande Gioco, e nel 1914, Hogarth lo fa entrare nei servizi segreti militari. Occorreva vincere la Prima guerra, e vincerla sia via mare, sfruttando la geniale trovata dell’ammiraglio Fisher di alleggerire i vascelli militari dal carbone, alimentandoli con motori a scoppio da poco inventati, sia via terra «sfruttando gli arabi per scardinare la Sublime Porta».
Così Lawrence, il 10 giugno 1916, convince «lo sceriffo della Mecca a innalzare il suo vessillo contro i turchi», e per farlo promette loro la libertà e l’indipendenza, pur sapendo che una volta vinta la guerra la politica imperiale britannica, che lui ha collaborato a formulare, farà di quelle promesse lettera morta. Certo, scrive Lawrence, «era meglio vincere e rinnegare la parola che perdere». E non soltanto per questioni geografiche. I dispacci che giungevano alla Corona parlavano infatti del «propellente del futuro, un idrocarburo viscoso, i cui giacimenti si trovano tra la Persia e la Mesopotamia (attuali Iran e Iraq): petrolio ». Energia del futuro capace di far correre le nuove navi della Royal Navy. Nascono le grandi compagnie petrolifere, dalla Turkish Petroleum, alla Shell, alla Deutsche Bank Petroleum.
Gli arabi sconfiggono gli Ottomani, ma in cambio non ottengono nulla. Al contrario, Inghilterra e Francia si dividono il neonato Medio Oriente creando nazioni a tavolino nate per spartire le royalties dei proventi dei pozzi, sulla base dell’accordo di Sykes-Picot, senza tenere conto delle differenti etnie o confessioni: «Sciiti con sunniti, curdi con armeni, alawiti con drusi». La Mesopotamia (l’Iraq) e la Persia (Iran) agli inglesi, e così la Palestina. Fu inventata la Giordania, sempre agli inglesi. La Siria e il Libano ai francesi. La penisola arabica finì sotto il controllo inglese.
Lawrence, di fronte al fatto compiuto e pentito, in quei mesi avvertì: se non manteniamo la parola «il prezzo da pagare sarà altissimo», si genererà un «desiderio di riscatto, rabbia e deviazioni fondamentaliste». Rimase inascoltato.
Il patrono di Milano affermò per primo la supremazia della chiesa sullo stato
di Paolo Mieli (Corriere della Sera, 26.04.2016)
Nel IV secolo il mondo cristiano fu sconvolto dall’eresia ariana. Ario, teologo nordafricano, sosteneva che Cristo, essendo stato «generato» da Dio unico, eterno e indivisibile, era «venuto dopo» e non poteva essere considerato allo stesso modo del Padre: c’era stato, cioè, «un tempo in cui il Figlio non c’era». Ai tempi di Costantino, che aveva spalancato le porte dell’impero ai seguaci di Cristo, si tenne il Concilio di Nicea (325) che condannò la dottrina ariana. Ma qualche tempo dopo l’imperatore riabilitò Ario e costrinse all’esilio il suo grande nemico, Atanasio vescovo di Alessandria. Dopodiché i decenni successivi furono contrassegnati da una lunga controversia tra ariani e atanasiani e la Chiesa di Roma faticò non poco per venire a capo della dottrina eretica che nel frattempo aveva conquistato vescovi e sovrani. Un grande protagonista di questa battaglia fu Ambrogio, che pure sulle prime aveva avuto qualche indulgenza (o qualcosa di più) nei confronti dell’arianesimo. È questo il punto di partenza di un originale libro di Franco Cardini Contro Ambrogio, che sta per essere dato alle stampe dalla Salerno.
Fin dalle prime righe, Cardini mette le mani avanti per difendersi dalle accuse che potrebbe ricevere per questo saggio impertinente. Il suo non vuol essere né un pamphlet «provocatorio», né «un’indecorosa dissacrazione», tantomeno «un dissennato attacco a livello storico o peggio ancora teologico» all’indirizzo dell’uomo che, tra l’altro, fu ispiratore e modello per sant’Agostino. Non vogliono essere, i suoi, «giudizi moralistici del tutto antistorici», né «paradossali esercitazioni ucroniche» e neppure «fatue e faziose polemiche» con il senno del poi. È, quello di Contro Ambrogio , solo un tentativo di «uscire dal comodo riparo dello storico» a favore di una modalità che gli consenta di «scoprirsi», «esporsi», «prendere posizione». Il tutto non disgiunto da un «pizzico di autoironia per aver tentato, al cospetto di un gigante della storia e del pensiero, una specie di ruggito del topo».
Tra l’altro che ci siano aspetti controversi nella vita di Ambrogio traspariva già, tra le righe, dalle impeccabili note di Marco Navoni alla Vita di sant’Ambrogio (edizioni San Paolo) scritta da Paolino, coevo e principale collaboratore del patrono di Milano. Così come, sempre tra le righe, dalle biografie di Cesare Pasini, Ambrogio di Milano. Azione e pensiero di un vescovo (edizioni San Paolo) e di Angelo Paredi, S. Ambrogio e la sua età (Jaca Book). E anche, sia pur marginalmente, dallo straordinario Teodosio il Grande (Salerno) di Hartmut Leppin.
Il libro di Cardini prende le mosse dal 374 allorché, avendo esercitato fin lì il ruolo di governatore laico di una regione che all’epoca corrispondeva alla Liguria e all’Emilia e pur non essendo ancora battezzato, il trentacinquenne Aurelio Ambrogio (era nato nel 339 a Treviri, città che dal 292 era la residenza ufficiale dell’imperatore romano d’Occidente) fu nominato vescovo di Milano, dal 286 «sede imperiale».
Era figlio di un alto magistrato del sovrano Costantino II, ma su suo padre c’è un «ambiguo silenzio» che ci indurrebbe a sospettare fosse stato coinvolto in una delle controversie dell’epoca e avesse «militato dalla parte degli sconfitti». A «portarlo così in alto» era stato il prefetto Sesto Petronio Probo, un uomo molto chiacchierato con evidenti inclinazioni all’arianesimo, così come l’imperatrice Giustina (moglie di Valentiniano I e madre di Valentiniano II) protettrice di Probo. Ariano fu anche il suo predecessore alla cattedra episcopale milanese, Aussenzio.
A decidere della sua elevazione a quell’importantissimo incarico sarebbe stato il grido di un bambino, che in una riunione popolare avrebbe invocato «Ambrogio vescovo!», suscitando un immediato entusiasmo popolare in quella che Cardini definisce una evidente «messinscena», un «ben architettato episodio di organizzazione del consenso», un genere di «spontaneità popolare accuratamente pilotata». Dietro la quale è ancora ben riconoscibile la regia di Probo. In ogni caso, a seguito di quell’acclamazione, Ambrogio si fece battezzare, divenne vescovo (con qualche irregolarità formale) e non tardò a liberarsi dell’ingombrante appoggio del suo potente protettore.
Da quel momento comparve al suo fianco il presbitero Simpliciano, fedele di Atanasio, che gli fu accanto tutta la vita e, nonostante avesse venti anni più di lui, gli sopravvisse. Per un breve periodo ci fu anche suo fratello Satiro, che Cardini sospetta nutrisse simpatie ariane. Quanto a lui, nel 376, in contrasto con l’imperatrice Giustina, si oppose all’elezione a Sirmio di un vescovo seguace di Ario e dal 378 iniziarono a comparire spunti anti-ariani nelle sue omelie. Giusto in tempo per essere in sintonia con l’editto di Tessalonica (380), con il quale l’imperatore d’Oriente, Teodosio, impose «a tutti i popoli a noi soggetti» la disciplina apostolica e la dottrina evangelica del credo «nell’unica divinità» di Padre, Figlio e Spirito Santo. Sicché Teodosio, secondo Franco Cardini, «ben più adeguatamente di Costantino, può essere considerato il vero fondatore dell’impero romano-cristiano».
Comunque la partita religiosa si riaprì nel 386, quando Giustina impose un decreto per la libertà di culto che consentiva agli ariani di pretendere una basilica in cui poter celebrare il rito. Ambrogio si oppose con forza e una folla («spontaneamente convocata», ironizza Cardini) scese in piazza a spalleggiare il vescovo, creando «una situazione al limite della legalità». La «contesa delle basiliche» andò avanti per settimane, incrinò il rapporto di Giustina con il proprio figlio Valentiniano, si concluse con il trionfo di Ambrogio e la sconfitta della libertà di professare religioni diverse da quella stabilita al Concilio di Nicea.
Il vescovo di Milano, una volta piegata la corona d’Occidente, si dedicò a sottomettere quella d’Oriente. Vale a dire Teodosio. Una prima volta, nel corso di una cerimonia religiosa, il vescovo invitò l’imperatore a lasciare il presbiterio e ad andarsi a sedere, sia pure in prima fila, tra i fedeli. Quasi esplicito il significato, sotto il profilo simbolico, di questo gesto. Ma l’occasione decisiva si presentò, dopo una serie di piccoli e grandi sgarbi da parte dell’autorità religiosa nei confronti di quella imperiale, con l’orrenda vicenda del tempio di Callinicum (l’odierna Raqqa). Lì un gruppo di cristiani aveva date alle fiamme una sinagoga, l’imperatore li aveva condannati a risarcire la comunità ebraica: Ambrogio impose a Teodosio di revocare quell’ingiunzione.
Poi, nel 390, ci fu la strage di Tessalonica. Un auriga dei giochi circensi era stato imprigionato per «comportamento immorale». I suoi tifosi avevano reagito aggredendo a sassate un funzionario imperiale, Buterico, che era stato ucciso e trascinato per le vie della città greca. Teodosio giudicò sospetta quell’esplosione di rabbia e accondiscese alla richiesta dei militari di reprimere con violenza (migliaia di morti) i rivoltosi. Ambrogio ne approfittò per umiliare una seconda volta Teodosio, chiedendogli un pubblico pentimento per l’eccidio. L’imperatore provò a resistere, ma poi decise di sottomettersi all’ingiunzione.
Secondo la ricostruzione di Paolino, Teodosio «pianse pubblicamente nella Chiesa il suo peccato... con lamenti e lacrime invocò il perdono». Anche Agostino, nel De civitate Dei, ricorda la scena: Teodosio «fece penitenza con tale impegno» che tra i fedeli il «dolore nel vedere umiliata la maestà dell’imperatore» prevalse sullo sdegno per il ricordo della strage. Teodosio si accorse probabilmente di quel che era accaduto nel profondo e, per rimediare, si recò a Roma dove fu accolto da senatori e ottimati con feste che più o meno esplicitamente rendevano omaggio agli antichi culti pagani.
Tuttavia l’episodio dell’imperatore «penitente per imposizione di un vescovo», osserva l’autore, fece scalpore in tutta l’ecumene romana: era la prima volta che «l’Augusto, da principe aureolato di autorità sacrale qual era sempre stato, da vicario del Cristo in terra, era sceso al livello di un semplice fedele, pronto ad umiliarsi per ricevere il perdono».
Ambrogio approfittò di quell’atto di sottomissione per riprendere e condurre a compimento «il progetto di delegittimazione totale e irreversibile dei ceti diversi da quello cristiano niceno in tutto l’impero». Fu lui ad ispirare l’editto del 391 che vietava qualunque forma di ossequio alle divinità «gentili» nella città di Roma e prevedeva pesanti sanzioni per i funzionari inadempienti. Era la «totale palinodia» rispetto al comportamento tenuto e alle misure adottate dall’imperatore un po’ meno di due anni prima nel corso della menzionata visita a Roma.
Da quel momento fino alla morte, nel 397, Ambrogio esercitò una sorta di «dittatura» sottile sul potere imperiale d’Oriente e d’Occidente. Anche a costo di lasciarsi andare ad imprudenze, di commettere errori, e di fare scelte in contraddizione con i suoi principi. Ma la sua missione era compiuta.
Il suo lascito fu inequivocabile. Dal momento che il sovrano era stato per lui non al di sopra, bensì all’interno della Chiesa, ne discendeva che risultava subordinato all’autorità ecclesiale. In tal senso, Ambrogio si pone alla base «di un lungo e complesso itinerario che in vario modo, attraverso l’agostinismo politico, la riforma della Chiesa dell’XI secolo e il monarchismo pontificio», ha configurato una ben delineata tradizione. Tradizione «che in ambito cattolico - una volta battute le eresie e isolati come eretici o comunque pericolosi molti movimenti “non conformisti” medievali - solo il conciliarismo quattrocentesco, in una certa misura il Vaticano II e, oggi, le scelte innovatrici di papa Francesco, hanno teso in qualche modo a limitare e a correggere».
Un messaggio venuto da lontano, radicato nella certezza che «il liberare e il mantener libero il clero dai controlli e dai condizionamenti di qualunque autorità terrena - ben al di là se non al contrario di quanto Gesù dichiara esplicitamente a Pilato - sarebbe stata condizione necessaria e sufficiente per salvarlo dalle tentazioni terrene». E sappiamo, aggiunge Cardini, che «l’intera storia della Chiesa dimostra l’opposto».
Dopo Ambrogio, la Chiesa romana divenne potente «con la forza di una mirabile espansione intellettuale e missionaria, ma anche con l’inflessibilità e l’intransigenza della fedeltà a un disegno egemonico affermatosi poi tra l’XI e il XVI secolo attraverso la rimozione delle istanze provenienti dal mondo greco, da quello orientale, da quello vario, insidioso e imprevedibile delle eresie, da quello musulmano (pensiero filosofico-scientifico a parte), salvo dover poi subire i contraccolpi degli scismi, della Riforma protestante, dell’offensiva razionalistico-scientifica».
Traendo ispirazioni e suggestioni da Francesco d’Assisi, Nicola Cusano ed Erasmo da Rotterdam, Cardini si chiede se, «astraendo dal modello e dal magistero ambrosiani la Chiesa sarebbe mai giunta a dover concepire i tribunali inquisitoriali, ad affrontare scismi e riforme, a subire lo “strappo culturale” della “modernità” con il relativo processo di secolarizzazione». Dubbi e rilievi che, come è evidente, vanno ben al di là della figura storica di Ambrogio.
Una raccolta di scritti politici ripropone la figura di Elvio Fachinelli, psicoanalista originale che mette in discussione un pilastro della lezione freudiana
L’inconscio alla ricerca di una nuova lingua
La parte più nascosta di ognuno non è la sede dell’irrazionale. Bensì l’occasione di trasformazione del soggetto
È utopico pensare di costituire nel sociale relazioni di eguaglianza tra non uguali? Delle comunità di non alienati?
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 13.04.2016)
La recentissima pubblicazione di alcuni scritti politici di Elvio Fachinelli, curati con attenzione dal filosofo Dario Borso, col titolo semplice ma suggestivo “Al cuore delle cose” (Derive Approdi), suggerisce un bilancio dell’opera di una tra le figure più notevoli e originali della psicoanalisi italiana. Fachinelli si è ricollegato per primo in Italia, sebbene in modo mai scolastico, ad alcune profonde intuizioni di Lacan conferendo loro uno sviluppo singolare. Fra tutte lo sforzo di costruire una nuova lingua della psicoanalisi. Il suo codice si è, infatti, logorato, cristallizzato, è divenuto un tecnicismo privo di vita. Si rilegga in questa luce la breve ma folgorante introduzione a La freccia ferma (1979) dove Fachinelli dichiara di mettere tra parentesi la terminologia psicoanalista classica, al fine di poter seguire il filo di una interrogazione originale che in quel libro egli muove sul senso del tempo.
Ma il punto dove più sensibilmente si manifesta il lacanismo originale di Fachinelli concerne la concezione dell’inconscio. Come per Lacan anche per lui l’inconscio non è l’istintuale, l’irrazionale, l’animale che un rafforzamento pianificato dell’Io - posto come obbiettivo principale della terapia analitica - dovrebbe governare sino a sedare. L’inconscio non è il luogo di una minaccia che deve essere scongiurata, ma di un’apertura che può diventare un’occasione di trasformazione del soggetto. Più radicalmente, per Fachinelli la dottrina psicoanalitica è stata colpevole di essersi eretta come una vera e propria “difesa” nei confronti dell’inconscio finendo per perdere il contenuto più specifico della propria invenzione. La sua tesi diventa sempre più chiara e audace col passare degli anni. Quello che in La freccia ferma attribuiva a una certa degenerazione scolastica della psicoanalisi, in La mente estatica (1989) viene descritto come un problema già presente nell’originaria posizione di Freud. Per Fachinelli la psicoanalisi stessa, già con Freud, tende a difendersi dall’inconscio, non essendo altro che un tentativo (“infantile”) di arginarne la forza eccedente.
L’apertura di La mente estatica, nell’intensissimo racconto fenomenologico delle proprie percezioni sulla spiaggia di San Lorenzo, pone al centro l’interpretazione della psicoanalisi come barriera, argine, difesa nei confronti dell’eccedenza dell’inconscio. La sua tesi è chiara: «La psicoanalisi ha finito per basarsi sul presupposto di una necessità: quella di difendersi, controllare, stare attenti, allontanare... Ma certo questo è il suo limite: l’idea di un uomo che sempre deve difendersi, sin dalla nascita, e forse anche prima, da un pericolo interno. Bardato, corazzato».
Questa “apologia della difesa” anziché rendere possibile l’incontro con l’inconscio come occasione, apertura, desiderio, finisce per sbarrarne l’accesso. È la metafora, giudicata da Fachinelli “soffocante”, che Freud offre dell’inconscio come “salotto” borghese separato dall’”anticamera”. Metafora «triste come la sua casa in Bergstrasse, con la finestra dello studio rivolta a un muro di cemento».
Come intendere l’inconscio senza ricondurlo paranoicamente a una minaccia? In diverse occasioni Fachinelli ha ricordato l’importanza della rilettura lacaniana del famoso detto di Freud Wo es war soll Ich werden ( tradotto da Cesare Musatti in italiano: «Dove era l’Es, deve subentrare l’Io»). Quello che Fachinelli trova decisivo di questa lettura è l’accento nuovo che Lacan pone non tanto sull’Io come istanza deputata a bonificare l’Es, ma sull’Es come luogo di una apertura inedita, di una possibilità nuova e, al tempo stesso, antica, scritta da sempre, che chiama il soggetto alla sua ripresa, alla sua soggettivazione in avanti. Fachinelli si spinge a pensare, con Lacan, l’inconscio all’avvenire e non più come mera ripetizione del già stato. Così in La mente estatica può scrivere che il sogno non è solo la ripetizione di tracce mnestiche già scritte, ma il testimone di «ciò che vuoi essere» e di «ciò che puoi essere ». Si tratta di cogliere «l’inaudita penetranza dell’inconscio», la sua capacità di «creare il futuro», di «osare».
Un secondo grande tema della riflessione di Fachinelli, presente anche in questa raccolta di scritti politici, è il legame sociale, o, più precisamente, la possibilità di realizzare una comunità umana non alienata: «È possibile emancipare le relazioni tra chi gestisce il potere e chi lo subisce essendone escluso? È utopico pensare di costituire delle relazioni di eguaglianza tra non uguali?», si chiede Fachinelli. La relazione di uguaglianza non può essere una relazione che appiattisce le differenze ma che le emancipa dalla dipendenza. La relazione di uguaglianza non può mai essere relazione tra uguali. Non si dà, infatti, Comunità possibile se non sullo sfondo di una impossibilità condivisa: l’impossibilità della Comunione, di fare e di essere Uno con l’Altro, di scrivere il rapporto sessuale, direbbe Lacan.
È questo un tema decisivo in Fachinelli (la sola condizione in comune è l’impossibilità del comune) che troverà, in anni più recenti sviluppi considerevoli. Ma la particolarità psicoanalitica della riflessione di Fachinelli consiste nel mettere in connessione la problematica della Comunità con quella della femminilità. La versione dell’inconscio di Freud risente, infatti, di una priorità del “sistema vigilanza-difesa” che denuncia una chiara “impostazione virile”. La sua alternativa sarà allora quella di dare ospitalità e accoglienza al femminile come luogo dell’eccesso.
Si tratta di un movimento di apertura che riguarda innanzitutto gli psicoanalisti e la psicoanalisi: «Accogliere chi? Un ospite interno. Accoglierlo prima di esaminarlo ed eventualmente respingerlo. Intrepidezza, atteggiamento infinitamente più ricco e alla fine forse più efficace della prudenza di chi edifica muraglie». Questa accoglienza è un nome del femminile: «Diminuzione della vigilanza, allentamento della difesa». Si tratta, ancora una volta, di mettere in movimento “un’altra logica”. Di nuovo risorge forte il problema della lingua, di un’altra lingua per la psicoanalisi. «Come scrivere tutto questo?», si chiede Fachinelli. Come dare figura all’eccedenza del femminile? All’ospite che ci attraversa? «Vento sulla fronte, rombo del mare, luce torpore, pensiero dell’accettazione, gioia con senso di gratitudine, verso chi?».
*
IL LIBRO Fachinelli Al cuore delle cose ( a cura di Dario Borso, Derive Approdi, pagg. 250, euro 18)
Essere giusti con Freud
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 23.04.2016)
Fabio [Elvio, fls] Fachinelli è stato una figura significativa della Società Psicoanalitica Italiana tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso. Pensatore elegante e originale, era poco incline all’ortodossia. La sua morte prematura privò la psicoanalisi del nostro paese di una voce «fuori dal coro». Massimo Recalcati, analista lacaniano, gli ha tributato recentemente un giusto riconoscimento. Nel farlo, ha sottolineato la sua presa di distanza dalla concezione freudiana dell’inconscio. La critica di Fachinelli a Freud, che Recalcati condivide e rilancia, seppure colga una prospettiva importante, lo fa a spese di una valutazione giusta del criticato. Questo non è privo di conseguenze: la critica che non coglie bene il suo bersaglio, non coglie bene neppure la propria prospettiva.
Dire che l’inconscio non è una minaccia, ma il luogo di un’apertura dell’essere che può trasformare il soggetto, è giusto. L’affermazione che secondo Freud l’uomo deve difendersi dal suo inconscio, arginarlo come pericolo interno, è infondata. Freud aveva una concezione omeostatica dell’apparato psichico: privilegiava la capacità della psiche di mantenere l’equilibrio del suo lavoro (la rappresentazione della realtà sul piano affettivo e ideativo) al variare delle condizioni esterne. Delle spinte pulsionali, alloggiate nell’inconscio, non aveva una percezione paranoica, considerava insidioso il loro conflitto con la realtà esterna. Nel suo modo di pensare l’essere umano è sano quando riesce a tener conto della realtà senza reprimere troppo le spinte vitali che vengono dal suo corpo.
Nella prospettiva freudiana l’Io, l’istanza dell’apparato psichico preposta all’autoconservazione, deve prevenire «un soddisfacimento pulsionale immediato e senza riguardi per nulla e nessuno» che rovinerebbe il rapporto con il mondo esterno, mettendo in discussione sia l’appagamento del desiderio sia quello del bisogno e quindi anche la sopravvivenza fisica del soggetto. Nello svolgere questa funzione l’Io non si comporta nei confronti delle pulsioni come se dovesse sbarrare l’accesso a un invasore. Nella metafora che Freud ha usato per rendere chiara la sua asserzione che “L’Io non è padrone in casa propria”, l’Io è il Re, la coscienza è il primo ministro e le forze pulsionali e i processi inconsci ad esse associate sono il popolo. L’Io è un monarca costituzionale che governa in nome e per il bene del suo popolo. Non ascolta solo il primo ministro.
Con la sua celebre asserzione «Dove era l’Es, l’Io deve avvenire», Freud non intendeva affatto dire che l’Io dovesse «bonificare» l’Es (l’inconscio pulsionale) come sostiene Recalcati, sulla scia di un accostamento tra Fachinelli e Lacan. L’Io era visto da Freud come prodotto di una differenziazione dell’Es che tiene conto delle condizioni oggettive dell’esistenza umana: deve crescere nel luogo dell’Es, come la casa si innalza sulle sue fondamenta. Tra l’Io e le forze pulsionali Freud non ha immaginato una divisione insormontabile, una barriera di difesa contro un nemico. Ha visto il loro rapporto in termini di continuità nella discontinuità, come processo di trasformazione perenne della materia umana. Questo processo è la matrice della nostra reale apertura al mondo, che alle sue radici è inconscia.
Il limite vero nel discorso di Freud deriva dal suo percepire l’apertura prevalentemente come rischio e dall’inclinazione conseguente a interpretare il piacere come ritorno dell’organismo a uno stato di equilibrio precedente. Ancorando, tuttavia, i processi trasformativi nel rapporto con la realtà, egli si allontanò da una concezione metafisica dell’inconscio.
HUSSERL CONTRO L’HOMUNCULUS: LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI). Una ’traccia’ dal "Diario fenomenologico"):
L’homunculus di Goethe è il simbolo di quella che Husserl denuncia come “crisi delle scienze”.
Dal “Diario fenomenologico” di Enzo Paci, una traccia per la lettura della "Crisi delle scienze europee" di Edmund Husserl
Nel patto biblico tra Dio e l’uomo c’è una clausola fondamentale: “Sia chiaro” dice Dio “che creatore sono soltanto io che ti ho creato e non tu. Io sono, su questo punto, un Dio geloso”. Come può essere nato un pensiero di questo genere?
Per una analisi fenomenologica vedo due vie. La prima è la proiezione, in Dio, del padre. Il figlio, per essere uomo, deve ribellarsi al padre. È la via del complesso edipico, la via di Freud. Ovviamente la proiezione si pone come divieto e come gelosia proprio perché il divieto deve essere superato. L’uomo diventa “virile” per la violazione della proibizione. Se il padre è Dio, raggiunge il massimo della umana virilità e cioè diventa Dio. Questa posizione è immatura. Infatti il padre è sempre divinizzato. La sostituzione al padre è eroica: il figlio diventa o Dio o il Diavolo. La maturità dell’uomo in quanto uomo viene raggiunta proprio quando cade la divinizzazione del padre. Se il padre diventa un uomo, anche il figlio diventa un uomo. Di solito ciò avviene quando il figlio, di fatto, diventa padre. di un nuovo figlio, e così via. Di fronte a suo figlio, il figlio divenuto padre si pacifica col proprio padre: ora lo può. Spetta a lui l’essere divinizzato.
La seconda via. Nell’atto sessuale procreante non mi accoppio per avere un figlio. Nella esperienza jn prima persona di me stesso e dell’altro nell’atto sessuale non sento di procreare, non ho l’esperienza in prima persona del “far nascere”. L’evidenza sessuale è l’evidenza dell’altro in me e di me nell’altro. Non può essere l’evidenza del figlio che non c’è ancora.. Se le conseguenze saranno procreative, nota Husserl, lo saprò dopo. Dai fatti. Ma posso pormi la domanda: “come avviene?” Fenomenologicamente questo “come” deve essere sperimentato dal soggetto. Ma il soggetto è il soggetto che inizia la sua nascita in seguito alla fecondazione. Non sono io ma è mio figlio, o sono io, ma nell’atto del mio nascere. C’è qui un distacco. Il distacco che si inizia subito, appena compiuto l’atto sessuale. Anche la donna si estrania da me. Ciò che ha di mio in sé è ancora mio, ma non sono più io.
Nell’amore, all’inizio, ho proiettato me stesso in lei: è diventata la “mia vita”. Proprio per questo devo possederla: per “riavere la mia vita”. Ma la “mia vita”, invece di essermi restituita, diventa concretamente un’altra vita. Così si diventa padre, diventando un altro soggetto. Ma così si è figli: si inizia geneticamente la propria storia, la storia della propria soggettività. Procreare e nascere sono due operazioni mie, di me soggetto, che mi sfuggono.
La prima mi sfugge nel distacco che segue all’atto sessuale dal quale ha inizio, appunto, la procreazione. La seconda operazione, il nascere, mi sfugge perché che sia mia mi viene detto da altri. Non è in prima persona. Non posso ricordare la mia vita intrauterina e la mia nascita. Le due operazioni, che mi sfuggono, sono proiettate in Dio che diventa il solo creatore.
C’è un’implicazione: lo studio scientifico della procreazione e della nascita è, alla fine, la genetica. Come scienza fenomenologica rientra, in qualche modo, nell’antropologia, oltre che nella psicologia e nella somatologia, in quanto il suo problema si pone come studio delle modalità e del significato della genesi, sperimentata soggettivamente, e per ciò fenomenologicamente. Una delle conseguenze dell’implicazione scientifica è la seguente: lo studio scientifico della genesi, lo studio scientifico obiettivo, può porsi come un sostituto dell’atto sessuale.
Uno scienziato si può accorgere, magari tardi, che la conoscenza scientifica si è per lui sostituita alla “conoscenza” in senso biblico e cioè all’atto sessuale. Ciò può accadere al filosofo in quanto ricercatore della genesi del mondo. O allo storico: la genesi è la storia.
La feticizzazione è fascinosa perché sostituisce l’atto sessuale creativo. Le tecniche possono esercitare, da questo punto di vista, un’attrazione magica. Una tecnica può sostituire l’atto sessuale e, in cibernetica, la procreazione mancata.
Il tecnico vorrà costruire il figlio come un homunculus nell’inconsapevole desiderio di sostituire agli uomini le macchine. L’homunculus di Goethe è il simbolo di quella che Husserl denuncia come “crisi delle scienze”.
* Enzo Paci, Diario fenomenologico, Il Saggiatore, Milano 1961, pp. 95-97.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Agnès Heller: l’Europa non è innocente
Filosofia. Incontro con la filosofa ungherese Agnès Heller. Muri e fili spinati tornano ai confini degli Stati-Nazione, la fortezza chiude le porte e respinge moltitudini di rifugiati e migranti dalla Grecia verso la Turchia. «Questa crisi è un test di esistenza per un continente senza identità politica, dove risorge il bonapartismo dei leader, mentre il nazionalismo ha sconfitto la solidarietà»
intervista di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 08.04.2016)
Da bambina Agnès Heller ha fatto l’esperienza della persecuzione e dello sterminio nazista. L’origine ebraica condannò suo padre, che fu ucciso a Auschwitz nel 1945. Con sua madre lei si salvò per miracolo, nel ghetto di Budapest. L’inizio sconvolgente di una vita: «Ho pensato tutta la vita cosa significa negare a un perseguitato un rifugio in un altro paese - racconta oggi - Se gli altri paesi europei ci avessero dato asilo forse la metà degli oltre 600 mila ebrei ungheresi si sarebbero salvati».
Da filosofa, già allieva di Gyorgy Lukacs ha perso due volte la cattedra per le sue opinioni politiche: la prima dopo il 1956, dopo la repressione sovietica della rivoluzione ungherese; la seconda perché criticò l’invasione della Cecoslovacchia e Praga rimase sola. Agnès fuggì prima in Australia, poi a New York dove ha insegnato nella cattedra di Hannah Arendt. Due grandi filosofe unite dallo stesso destino, nello stesso luogo: quello dell’immigrazione, della persecuzione per le idee o per l’origine. Insieme hanno vissuto il paradosso del migrante,: un essere umano protetto dai diritti umani che per essere rispettato deve diventare oggetto di repressione, di controllo o respingimento da parte delle leggi degli stati.
Una contraddizione esplosiva nel cuore della democrazia liberale e dello stato di diritto, prospettive oggi sostenute da questa filosofa ungherese di 86 anni. Oggi c’è qualcosa di peggio dei fili spinati e dei muri che tornano a svettare sui confini dell’Europa dell’Est fino alla Germania: il miscuglio di paure dello straniero, cinismi geopolitici e nazionalismi risorgenti che hanno portato al discutibile e gravoso accordo tra Unione Europea e Erdogan che bloccherà migranti e profughi provenienti dalla Siria (e non solo) in Turchia. Sei miliardi di euro per tenere lontano dall’Europa gli effetti delle guerre, rafforzando un continente che vuole restare una fortezza.
«I filosofi non offrono soluzioni, illuminano le contraddizioni» sostiene Heller parlando prima di iniziare una conferenza organizzata dai senatori del Pd ieri nella biblioteca di piazza della Minerva a Roma. Comunque una soluzione viene proposta dalla filosofa: «Fare entrare in Europa chi è in pericolo e in cambio chiedergli l’osservanza della legge e della costituzione - sostiene - Tutti devono potere diventare cittadini e non essere rifiutati». Il problema, tuttavia, resta l’Europa e le sue politiche migratorie. «Sono il frutto di un conflitto tra diritti umani e diritti di cittadinanza - spiega Heller - Le carte dei diritti umani sono finzioni giuridiche che hanno valore di fatto. I diritti di cittadinanza sono invece fatti che hanno un valore politico. L’universalismo dei diritti umani spinge ad aprire le porte ai rifugiati, senza fare distinzione tra migranti e profughi di guerra. In nome dei diritti di cittadinanza si può arrivare a chiudere la porta usando la motivazione del Welfare: visto che è in crisi, e le risorse sono poche, si sostiene che gli europei non dovrebbero condividerli con chi non lo è. In questo modo salta l’unico legame possibile tra queste prospettive: la solidarietà».
Quella che prima era una faglia, ora è diventato un abisso. La crisi economica l’ha squadernato, i partiti xenofobi e nazionalisti intingono il loro pungolo dentro l’inchiostro dell’odio. Heller cita il premier del suo paese, Viktor Horban, il primo ad avere eretto muri e fili spinati sulle rotte delle moltitudini umane che hanno attraversato nell’ultimo anno i confini d’Europa. «Come cittadina ungherese trovo assurdo puntare sull’odio infondato contro gli stranieri, e opporre un «noi» europeo o nazionalistico a un’entità astratta ed estranea identificata con i migranti». Questo è accaduto. Il trattato di Schengen non ha avuto più storia: molti altri paesi hanno chiuso i confini e le paure delle destre sono diventate incendi nelle cancellerie. L’Europa coltivava il sogno di un’entità sovranazionale, ma si è riscoperta un’unione di Stati-Nazione.Horban si è messo all’avanguardia di una delle tradizioni politiche europee: il bonapartismo che diventa un nazionalismo che sembrava non avere più credito.
L’Europa non è mai stata innocente. I primi rifugiati, ricorda Heller, sono stati gli europei che fuggivano dalle loro guerre. Dopo la prima guerra mondiale e i primi anni venti la «nazione» - un concetto che ha un passato rivoluzionario - sconfisse l’internazionalismo proletario e le aspirazioni cosmopolitiche della borghesia e generò il fascismo. Heller ha vissuto nel socialismo reale e descrive l’universo concentrazionario dei Gulag.
«L’Europa ha sempre definito gli altri come “infedeli”, “selvaggi”, “barbari”, “nemici” o “sottosviluppati” - afferma - Dopo il nazifascismo si è identificata con le sue vittime e ha istituzionalizzato l’universalismo.
Oggi è in corso una battaglia sui suoi valori costituenti che mette a rischio la sua stessa esistenza. L’identità europea non può essere data per scontata, oggi più che mai, visto che non suscita entusiasmo». «Questa crisi è un test di esistenza per l’Europa. Se gli stati sceglieranno il bonapartismo e le rivendicazioni nazionalistiche e persino etniche, ai danni dell’universalismo della tradizione repubblicana e federalista, se sceglieranno il nazionalismo al posto della solidarietà, l’Europa resterà un insieme economico di Stati, senza identità politica». E questo può essere l’antefatto di un altro inferno.
Nata nel 1929 da una famiglia ebrea di Budapest, Agnès Heller è stata una delle principali esponenti della «Scuola di Budapest», una corrente del marxismo critico che ha ispirato le politiche del «dissenso» nei paesi comunisti dell’Europa dell’Est. Il libro che l’ha fatta conoscere in Italia è stato La teoria dei bisogni in Marx» e gli studi sull’economia politica e la rivoluzione della vita quotidiana. Allieva di Gyorgy Lukacs nel 1959 è stata espulsa dall’università ungherese per aver sostenuto «le idee false e revisioniste» del maestro da giovane, ispiratore del marxismo critico per cinquant’anni con il potente libro «Storia e coscienza di classe».
Nel 1973 è stata di nuovo espulsa dall’Accademia delle Scienze. Nel 1977, insieme al marito Ferenc Fehér, altro esponente della scuola di Budapest, lasciò l’Ungheria per l’Australia dove ha insegnato sociologia. Poi il trasferimento a New York alla New School for Social Research. Tra i suoi libri più recenti: «La filosofia radicale. Il bisogno di un’utopia concreta e razionale» (Pgreco); con Z. Bauman, «La bellezza (non) ci salverà» (Il Margine); il classico che ha segnato il suo rapporto con l’Italia: «L’Uomo del rinascimento. La rivoluzione umanista» (Pgreco).
di Roberto Toscano (la Repubblica, 03.04.2016)
DEPLORANO quello che definiscono moralismo e denunciano le campagne anti-corruzione come sempre tendenti a squalificare l’avversario politico. Invece occuparsi, e preoccuparsi della corruzione, oggi convertita in una perversa normalità, non è moralismo, ma una oggettiva necessità sia politica che culturale.
Come punto di partenza dovremmo cercare di liberarci da molti luoghi comuni. Il primo è quello che la corruzione sia un inevitabile corollario della democrazia, mentre le dittature sarebbero in grado di stroncarla grazie alla loro spietata inflessibilità repressiva. Falso. Si sapeva di certo che Pinochet era un assassino, ma è poi risultato che era anche un ladro e che aveva trasferito su un conto di Washington denaro pubblico di cui si era illegalmente appropriato. E che dire della Cina, dove i corrotti sono arrivati a un “fatturato” di miliardi di dollari a dispetto dei ricorrenti processi che si concludono anche con condanne a morte?
L’altro luogo comune è che la corruzione sia esclusivamente legata al capitalismo, sistema che si basa sulla legittimazione anche culturale dell’avidità («L’avidità è buona. L’avidità funziona» - come dice Gordon Gekko nel film Wall Street), e che l’unico antidoto sia quello di un’etica rivoluzionaria basata sui doveri sociali e sull’austerità. Falso. La Corea del Nord, il meno democratico e il meno capitalista fra i sistemi politici esistenti, è elencata da Transparency International in testa alla classifica della corruzione a pari merito con la Somalia, lo stato fallito più anarchico del mondo.
Prendiamo alcune fra le grandi cause rivoluzionarie del secolo scorso. Il successore di Mandela, il presidente sudafricano Zuma, è appena stato incriminato per uso privato di fondi pubblici, e la classe dirigente del glorioso African National Congress è coinvolta in una serie di scandali. Daniel Ortega, l’eroe della rivoluzione sandinista in Nicaragua, ha impiantato un regime in cui la retorica rivoluzionaria è ormai solo una consunta copertura di un sistematico andazzo corruttivo. In Angola, ancora governata da quel Mpla che aveva resistito, con l’aiuto cubano, all’attacco combinato di Sudafrica e Cia, la figlia del presidente dos Santos è diventata la prima miliardaria africana. È vero che il tema della corruzione viene usato contro gli avversari politici. Sta avvenendo in Brasile, contro Dilma Rousseff e Lula, ma il problema è che la corruzione c’è davvero, e a livelli colossali.
Altro luogo comune è quello che la corruzione sia un fenomeno del settore pubblico. Come se le frodi che hanno innescato la crisi finanziaria globale non fossero attribuibili a Wall Street - anche se con la complicità dei “cani da guardia” federali che non hanno abbaiato. In Italia tutti danno addosso alla pubblica amministrazione e ai suoi funzionari, definiti come una manica di disonesti parassiti. Pubblico cattivo/ privato buono. Viene in mente La fattoria degli animali di Orwell: “due gambe cattivo, quattro gambe buono”. Come se potesse esistere un funzionario pubblico corrotto senza un privato corruttore - come se ci potesse essere la prostituzione senza i clienti. Basterebbe ascoltare con attenzione i linguaggi, oltre che i contenuti, delle intercettazioni per capire con quanta protervia, quanta arroganza, i corruttori privati sentono di poter dominare i loro prezzolati manutengoli nella pubblica amministrazione.
Ma cosa spiega il fatto che la corruzione sia passata da trasgressione a sistema? Non certo che l’umanità sia diventata più criminale. E nemmeno che siano venuti meno i freni derivanti dai precetti religiosi: che la fede religiosa non sia incompatibile con la corruzione e in genere la criminalità lo dimostrano fatti come i santini nel covo di Provenzano e l’appartamento del cardinale Bertone, finanziato con i soldi dell’ospedale Bambin Gesù. Senza parlare dei corrotti ayatollah iraniani e degli iper-religiosi/iper-corrotti sauditi.
Qualcosa di profondo è però avvenuto. Si tratta del restringersi degli orizzonti culturali all’interno di una comunità che non è globale né nelle norme né nella solidarietà, ma è unificata rispetto a quello che è ormai il criterio singolo del valore, del successo, della stessa identità: il denaro.
Ha ragione il Papa quando parla di idolatria. Si tratta della perdita di rilevanza della molteplicità di valori e obiettivi che dovrebbero dare un senso alla vita umana, ma che oggi risultano accantonati per lasciare tutto il campo a uno spirito acquisitivo in termini di denaro e del benessere e potere che dal denaro si possono ricavare. Un tempo il denaro serviva ad acquisire potere, oggi il potere viene usato per conseguire il denaro.
Sarebbe assurdo manifestare nostalgia per il tempo delle ideologie totalitaria e dei loro crimini, dalla Shoah al Gulag, ma non dovremmo cadere nell’errore di non vedere la totalità idolatrica di quella che è oggi l’ideologia dominante. Non avrebbe senso a questo punto ripercorrere le fallite strade della lotta contro Mammona e contro il Capitale e riproporre pauperismo o collettivismo. Dobbiamo lottare non contro, ma per.
Riconoscendo il giusto spazio che l’aspirazione al benessere occupa nel quadro di un sano equilibrio etico-antropologico, dovremmo ridare diritto di cittadinanza a tutto quello che il denaro e il “pensiero unico” che lo accompagna hanno accantonato, negato, squalificato, strumentalizzato: arte, cultura, religione, etica, politica.
Si deve certo combattere la corruzione con gli strumenti della legge, ma la vera battaglia dovrà essere quella, di natura culturale ed etico-politica, anti-totalitaria e anti-idolatrica. Altrimenti non servirebbe nemmeno - né in Italia né altrove - mettere un poliziotto dietro ogni cittadino e sottoporlo a intercettazioni costanti.
DOPO "Una stanza tutta per sé" (1929), DOPO i "Pensieri di pace durante un’incursione aerea" (1940), DOPO LA DECAPITAZIONE DI OLOFERNE E LA FINE DELLA CLAUSTROFILIA, CHI HA (ANCORA!) PAURA DI "GIUDITTA", di "JUDITH", DI VIRGINIA WOOLF, E DI FACHINELLI E FREUD NELLA "NAVE" DI GALILEI?!:
PENSIERI DI PACE DURANTE UN’INCURSIONE AEREA [1940]
di Virginia Woolf *
I tedeschi sono passati sopra questa casa ieri sera e la sera prima. Eccoli un’altra volta. E’ una strana esperienza, questa di stare sdraiata nel buio e ascoltare il ronzio di un calabrone che in qualsiasi momento può pungerci mortalmente. E’ un rumore che non permette di pensare freddamente e coerentemente alla pace. Eppure è un rumore che dovrebbe costringerci - assai più che non gli inni e le preghiere - a pensare alla pace. Poiché se non riusciamo, a forza di pensare, a infondere esistenza a questa pace, continueremo per sempre a giacere - non questo corpo in questo letto bensì milioni di corpi non ancora nati - nello stesso buio, ascoltando lo stesso rumore di morte sulla testa. Facciamo tutto il possibile per creare il solo rifugio antiaereo efficace, mentre là sul colle sparano i cannoni e i riflettori tastano le nuvole; e qua e là, a volte vicino, a volte lontano, cade una bomba.
Lassù in cielo combattono giovani inglesi contro giovani tedeschi. I difensori sono uomini, gli attaccanti sono uomini. Alla donna inglese non vengono consegnate armi, né per combattere il nemico né per difendersi. Ella deve giacere disarmata, questa sera. Eppure se ella crede che quel combattimento lassù in cielo è una lotta da parte degli inglesi per proteggere la libertà, da parte dei tedeschi per distruggere la libertà, ella deve lottare, con tutte le sue forze, dalla parte degli inglesi. Ma come può lottare per la libertà senza armi? Fabbricandole, oppure fabbricando vestiti e alimenti. Ma c’è un altro modo di lottare senza armi per la libertà. Possiamo lottare con la mente; fabbricare delle idee, le quali possano aiutare quel giovane inglese che combatte lassù in cielo a vincere il nemico.
Ma perché le idee siano efficaci, dobbiamo essere in grado di accendere la loro miccia. Dobbiamo metterle in azione. E quel calabrone in cielo mi sveglia un altro calabrone nella mente. Ce n’era uno questa mattina, che ronzava nel "Times"; era la voce di una donna che protestava: "Le donne non possono dire una parola sulle questioni politiche." Non c’è nessuna donna nel Gabinetto; né in nessun posto di responsabilità. Tutti i fabbricanti di idee, in grado di attuare queste loro idee, sono uomini. Ecco un pensiero che soffoca il pensiero, e incoraggia invece l’irresponsabilità. Perché non sprofondare allora la testa nel cuscino, otturarsi le orecchie e abbandonare questa futile attività di fabbricare idee? Poiché ci sono altri tavoli, oltre ai tavoli dei militari, e i tavoli delle conferenze. Potrebbe darsi che se noi rinunciamo al pensiero privato, al pensiero del tavolo da tè, perché esso ci sembra inutile, stiamo privando quel giovane inglese di un’arma che potrebbe essergli utile. Non stiamo esagerando la nostra incapacità, solo perché la nostra capacità ci espone forse all’insulto, al disprezzo? "Non cesserò di lottare mentalmente", scrisse Blake. Lottare mentalmente significa pensare contro la corrente, e non a favore di essa.
E quella corrente scorre veloce e violenta. Straripa in parole dagli altoparlanti e dai politici. Ogni giorno ci dicono che siamo un popolo libero il quale combatte per difendere la libertà. Quella è la corrente che ha trascinato nei suoi turbini quel giovane aviatore fino al cielo, e che lo fa girare incessantemente tra le nuvole. Quaggiù, protetti da un tetto, con una maschera antigas sotto le mani, è nostro dovere sgonfiare questi palloni d’aria e scoprire qualche germe di verità. Non è vero che siamo liberi. Questa sera siamo tutti e due prigionieri: lui nella sua macchina con un’arma accanto, noi sdraiati nel buio con una maschera antigas accanto. Se fossimo liberi saremmo all’aperto, a ballare, o in un teatro, o seduti davanti alla finestra, conversando. Che cosa ce lo impedisce? "Hitler!" esclamano unanimi gli altoparlanti. Chi è Hitler? Che cosa è Hitler? L’aggressività, la tirannia, l’amore forsennato del potere, rispondono. Distruggetelo, e sarete liberi.
Ora sulla mia testa gli aerei rombano come se segassero il ramo di un albero. Gira e gira, segando e segando quel ramo proprio sopra la mia casa. E nel cervello un altro suono comincia a aprirsi, anch’esso segando, una galleria. "Le donne capaci" - così diceva Lady Astor nel "Times" di questa mattina - "vengono ostacolate in tutte le carriere a causa dell’inconscio hitlerismo nel cuore dell’uomo." E’ vero, siamo ostacolate. E questa sera siamo tutti prigionieri: gli inglesi nei loro aerei, le inglesi nei loro letti. Ma se lui smette un attimo di pensare, possono ucciderlo; e anche noi. Pertanto, pensiamo per lui. Cerchiamo di fare conscio l’inconscio hitlerismo che ci opprime. E’ il desiderio di aggressione; il desiderio di rendere schiavi. Perfino nel buio possiamo vederlo chiaramente. Vediamo le vetrine dei negozi illuminati a giorno, e le donne che guardano; donne incipriate; donne travestite; donne dalle labbra rosse e dalle unghie rosse. Sono schiave che cercano di rendere schiavi gli altri. Se potessimo liberarci dalla schiavitù, avremo liberato gli uomini dalla tirannia. Gli Hitler sono generati dagli schiavi.
Cade una bomba. Tutte le finestre tremano. I cannoni antiaerei entrano in azione. Là, sull’alto del colle, sotto una rete con pezzi appiccicati di stoffa verde e bruna, imitando i colori delle foglie d’autunno, si nascondono i cannoni. Ora sparano tutti insieme. Il giornale radio delle nove ci dirà: "Questa sera sono stati abbattuti quarantaquattro aerei nemici, dieci dei quali dal fuoco antiaereo." E una delle condizioni della pace, dicono gli altoparlanti, sarà il disarmo. Non ci saranno più armi, né esercito, né marina, né forza aerea nell’avvenire. I giovani non saranno più addestrati a combattere con le armi. Quello sveglia un altro calabrone nelle camere del cervello, un’altra citazione: "Combattere contro un nemico reale, meritare eterno onore e gloria uccidendo dei perfetti sconosciuti, e tornare a casa con il petto coperto di medaglie e di decorazioni, quello era il colmo delle mie speranze... A questo era stata dedicata, finora, tutta la mia vita, la mia educazione, la mia preparazione, tutto..."
Queste sono le parole di un giovane inglese combattente nell’ultima guerra. Davanti a queste parole, possono credere onestamente i pensatori dell’accennata corrente che scrivendo "disarmo" su un pezzo di carta in una conferenza di ministri, avranno fatto tutto ciò che si doveva fare? Otello non avrà più occupazione, ma egli sarà sempre Otello. Quel giovane aviatore in cielo non è spinto soltanto dalle voci degli altoparlanti; è spinto anche dalle voci che ascolta in sé, antichi istinti, istinti incoraggiati e nutriti dall’educazione e dalla tradizione. Glieli dobbiamo forse rimproverare? Si potrebbe forse sopprimere l’istinto materno, perché così ha voluto un gruppo di politici? Supponiamo che fra le condizioni di pace ci fosse questa, imperativa: "L’esercizio della maternità sarà ristretto a una classe ridotta di donne accuratamente selezionate", forse sarebbe accettata? Piuttosto diremmo: "L’istinto materno è la gloria della donna. A questo è stata dedicata finora la mia vita, la mia educazione, la mia preparazione, tutto..." Ma se fosse necessario, per il benessere dell’umanità, per la pace del mondo, che l’esercizio della maternità venisse ristretto, e l’istinto materno messo a tacere, forse le donne non si rifiuterebbero. Gli uomini le aiuterebbero. Onorerebbero queste donne per il loro rifiuto di generare. Aprirebbero altre possibilità al loro potere creativo. E anche questo deve essere parte della nostra lotta per la libertà. Dobbiamo aiutare i giovani inglesi a togliere dai loro cuori l’amore delle medaglie e delle decorazioni. Dobbiamo creare attività più onorevoli per coloro i quali cercano di dominare in se stessi l’istinto combattivo, l’inconscio hitlerismo. Dobbiamo compensare l’uomo per la perdita delle sue armi.
Il rumore di sega sulle nostre teste aumenta. Tutti i riflettori puntano in alto, verso un punto sito esattamente sopra questo tetto. In qualunque momento può cadere una bomba in questa stanza. Uno due tre quattro cinque sei... passano i secondi. La bomba non è caduta. Ma durante quei secondi di attesa, l’attività del pensiero è cessata. E anche è cessato ogni sentimento, tranne un opaco timore. Un chiodo fissava tutto l’essere a un’asse di legno duro. L’emozione della paura e dell’odio è pertanto sterile, non fertile. Non appena la paura scompare, la mente affiora di nuovo e istintivamente cerca di rivivere creando. Siccome la stanza è al buio, può creare soltanto con la memoria. Si protende verso il ricordo di altri agosti, a Bayreuth, ascoltando Wagner; a Roma, passeggiando per la campagna romana; a Londra. Ritornano le voci degli amici; frammenti di poesia. Ognuno di questi pensieri, anche nella memoria, era assai più positivo, rinfrescante, consolatore e creativo di quanto non lo fosse quell’opaco spavento, fatto di paura e di odio. Perciò, se vogliamo compensare quel giovane della perdita della sua gloria e della sua arma, gli dobbiamo aprire l’accesso ai sentimenti creativi. Dobbiamo fabbricare felicità. Dobbiamo liberarlo dalla macchina. Dobbiamo tirarlo fuori dalla sua prigione, all’aperto. Ma a che cosa serve liberare il giovane inglese, se il giovane tedesco e il giovane italiano rimangono schiavi?
I riflettori, ondeggiando sulla pianura hanno trovato finalmente l’aereo. Da questa finestra si può vedere un piccolo insetto argentato che gira e si contorce nella luce. I cannoni sparano e sparano. Poi smettono. Probabilmente l’attaccante è stato colpito, dietro il colle. L’altro giorno, uno dei piloti riuscì ad atterrare in un campo qui vicino. In un inglese abbastanza tollerabile, disse ai suoi catturatori: "Come sono contento che la lotta sia finita!" Poi un inglese gli diede una sigaretta, e una inglese gli offri una tazza di tè. Questo starebbe a dimostrare che se si riesce a liberare l’uomo dalla macchina, il seme non cade in un suolo completamente sterile. Il seme può essere ancora fertile.
Finalmente tutti i cannoni hanno smesso di sparare. Tutti i riflettori si sono spenti. Il buio naturale della notte d’estate ritorna. Si sentono nuovamente gli innocenti rumori della campagna. Una mela cade per terra. Un gufo grida, spostandosi da un albero all’altro. E qualche parola quasi dimenticata di un vecchio scrittore inglese mi viene in mente: "I cacciatori si sono alzati in America... " Mandiamo dunque queste note frammentarie ai cacciatori che si sono alzati in America, agli uomini e alle donne il cui sonno non è stato ancora interrotto dal rumore della mitragliatrice, con la speranza che vengano ripensate, generosamente e caritatevolmente, e forse rimaneggiate fino a diventare qualcosa di utile. E adesso, in questa metà buia del mondo, a dormire.
1940, da The Death of the Moth
* Virginia Woolf, Romanzi e Altro, "I Meridiani" - Mondadori, pp. 871-876.
KANT.
LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE:
LA LEZIONE DI
La mente più creativa?
È quella androgina
Il 1789 dei tagliateste
Haim Burstin esplora i meccanismi che hanno fatto emergere capipopolo, uomini sanguinari, le dames de la Halle e altri soggetti refrattari ai meriti della democrazia rappresentativa
di Sergio Luzzatto (Il Sole-24 Ore, Domenica, 27.03.2016)
«Le sezioni sono per tre quarti deserte; sembrano appartenere ormai a un pugno di individui che finiscono per nominarsi l’un l’altro. Sono questi stessi individui che, a furia di dispute insolenti e propositi oltraggiosi rivolti contro pacifici cittadini senza ambizioni, hanno creato in loro il disgusto di andare a votare nelle sezioni». Suonava così - all’inizio del 1793, anno I della Repubblica francese - la denuncia di tale citoyen Labenette, poligrafo bretone trasmigrato nella Parigi della Rivoluzione e redattore di un periodico dal titolo insieme fantasioso, misterioso, minaccioso: «Journal de la Savonette républicaine, à l’usage des députés ignorans et de ceux qui se proposent de trahir la patrie». Cioè: «Giornale della Saponetta repubblicana, a uso dei deputati ignoranti e di quelli che si propongono di tradire la patria».
Nella Francia rivoluzionaria, molti giornali somigliavano a certi blog d’oggidì. Si davano l’aria di valere da organi dell’uno o dell’altro movimento d’opinione, mentre non erano nulla più che torrenziali e autoreferenziali logorree dell’uno o dell’altro mitomane. Lo stesso cittadino Labenette non lascerà alcun’altra traccia, nella storia della Rivoluzione, che una piccola sfilza di giornali tanto roboanti nel titolo quanto effimeri nella durata. Ma la sua denuncia del 1793 va colta al volo, perché conduce dritto al cuore del libro di Haim Burstin, Rivoluzionari. Un’«antropologia politica della Rivoluzione francese», secondo l’ambizioso sottotitolo di questo volume laterziano.
Da un secolo e mezzo in qua, ciascuna generazione di storici interroga il passato della Rivoluzione sulla base di un questionario più o meno esplicitamente dettato dalle Faq (Frequently asked questions) del suo presente. Nel caso di Burstin - il maggiore studioso italiano della Rivoluzione francese - le domande sollecitate dall’attualità sono oggi quelle che ruotano intorno alla crisi della democrazia rappresentativa. Perché le sezioni (da intendere qui, per metonimia, come i luoghi deputati all’esercizio della politica democratica) sono per tre quarti deserte? Perché la politica non appartiene più che a un pugno di individui che si nominano l’un l’altro? E come stupirsi se, a queste condizioni, i cittadini dabbene provano un disgusto sempre maggiore nell’andare a votare?
Facendo perno sulla Parigi del 1789 e degli anni immediatamente successivi, Burstin scopre quanto presto i rivoluzionari francesi - homines novi per definizione - siano divenuti, a loro volta e a loro modo (cioè nel caos di un mondo sottosopra), professionisti della politica: un notabilato, se non proprio un’oligarchia. Quanto rapidamente il personale della Rivoluzione abbia ragionato in termini di carrierismo e di favoritismo, a misura che il sistema assembleare inaugurato dall’Ottantanove andava degradandosi in lotta fazionaria.
Inoltre, Burstin scopre quanto naturalmente la logica della Rivoluzione abbia promosso come sovrana la figura dell’estremista. E quanto copiosamente la radicalizzazione rivoluzionaria abbia alimentato una specie di indotto sociale dell’estremismo: un vasto sottobosco fatto di portieri delle prigioni, di custodi di abitazioni poste sotto sequestro, di emissari addetti alla sorveglianza o alla repressione, insomma l’equivoco demi-monde di chi aveva tutto l’interesse a brandire senza posa la «saponetta» della Rivoluzione.
Fin dalla primavera del 1789 e poi nel fatidico 14 luglio, con la presa della Bastiglia, le «giornate» insurrezionali del popolo parigino scatenarono una dinamica che era - al tempo stesso - collettiva e individuale: era collettiva, poiché traeva la propria legittimità dall’essere mobilitazione di massa; era individuale, poiché non poteva prescindere dall’azione di un gruppetto di agitatori o di un singolo capopopolo. E fin dall’indomani del 14 luglio 1789 la Rivoluzione riconobbe ufficialmente il principio di una remunerazione politica del merito patriottico, dal momento che il Comune di Parigi istituì una commissione deputata ad attribuire il titolo ufficiale (accompagnato da premi vari) di Vainqueur de la Bastille: a conti fatti, non meno di 861 prodi!
È nel rapporto tra individui e folla che nasce e cresce l’estremismo insurrezionale. E che un popolo in rivoluzione, lungi dall’accontentarsi della democrazia rappresentativa incarnata da deputati formalmente eletti, investe l’uno o l’altro agitatore della carica informale di genuino rappresentante del popolo: quand’anche si tratti - letteralmente - di un tagliateste. Così nel giorno della Bastiglia, quando un macellaio disoccupato, François Desnot, con il suo coltello da tasca provvede a decapitare il governatore della famosa prigione, e su questo costruisce la sua reputazione di rivoluzionario. «Sono un ottimo cittadino», si vanterà Desnot di lì a qualche mese: un cittadino che «se ne intendeva di amputazioni», e «sapeva trattare le carni».
Neppure tre mesi dopo il 14 luglio 1789, tocca alle donne del popolo parigino di farsi interpreti del protagonismo e del radicalismo della Rivoluzione: sono le dames de la Halle - le donne dei Mercati generali - che marciano compatte verso la reggia di Versailles, il 5 ottobre, e che l’indomani trascinano a Parigi il re Luigi XVI e la regina Maria Antonietta, un po’ in trionfo, un po’ alla gogna. A condurre tali donne è un’avvenente fruttivendola, Louise-Renée Audu, destinata a pagare per tutte: un anno e passa di carcere. Colpevole di sommossa, la «Regina Audu». Ma colpevole anche, o forse soprattutto, di avere sognato che la Rivoluzione degli uomini potesse essere la Rivoluzione delle donne.
Più che un’antropologia della Rivoluzione francese, il libro di Burstin offre una fenomenologia di tipi rivoluzionari. E ha il merito di indugiare - piuttosto che sui grandi nomi - sui piccoli. In qualche caso, nomi quasi incredibilmente rivelatori: come nel caso del gendarme Charles-André Merda, che il 9 termidoro dell’anno II (27 luglio 1794) entrò nella storia per avere arrestato Maximilien Robespierre. E per avere osato sparargli in faccia, sosteneva Merda, bloccando qualunque tentativo del «tiranno» di chiamare a raccolta i suoi feroci pretoriani.
In realtà, probabilmente Robespierre si era sparato da solo, aveva cercato di togliersi la vita. Ma su quel controverso colpo di pistola, il granatiere Merda fonderà una bella carriera da ufficiale napoleonico. Riuscendo a diventare, nel 1807, nientepopodimeno che barone dell’Impero.
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI
IL SOGGETTO COLLETTIVO
Dalla psicanalisi a due alla psicanalisi a enne
di Antonello Sciacchitano (psychiatryonline, 19 marzo 2016)
L’Elvio, nel senso di Fachinelli, non si è mai concesso al maestro.
Ogni volta che passava per Milano - siamo negli anni Settanta - Lacan faceva visita a Fachinelli o gli lasciava un biglietto per dirgli che l’aveva cercato.
Cosa cercava Lacan in Fachinelli?
Per rispondere a questa domanda bisogna aver ben presente il sintomo (o la sublimazione?) di Lacan. Più vicino alla perversione che alla nevrosi, il sintomo di Lacan, che si poneva in posizione di maestro, era mes élèves; gli allievi erano il feticcio di Lacan. Riuscì ad averne un migliaio, che seguivano i suoi seminari; il top, se non sbaglio, ai seminari su Joyce senza inconscio.
Non soddisfatto di mille, Lacan cercava l’uno. Fachinelli era l’uno che gli mancava. Cosa aveva di speciale Elvio? Semplice: Elvio era un lacaniano pensante; era diverso dagli allievi parigini di Lacan, che erano semplicemente lacaniani. Cosa pensava Elvio? Pensava la psicanalisi del collettivo, una dimensione carente in Freud, fissato alla psicanalisi individuale, e appena abbozzata in Lacan con la teoria del discorso come legame sociale. Ma l’ “Elvio cacato” praticava effettivamente - non solo pensava - una psicanalisi collettiva, cioè di tutti e per tutti, senza bisogno di indottrinare nessuno; la “faceva” all’asilo non autoritario di Porta Cicca, quartiere popolare e ai tempi degradato di Milano.
Insomma, Elvio era il prezioso pezzo mancante alla collezione di allievi del maestro parigino. Il collezionista forse pensava di farlo suo, sfruttando la posizione ambigua - un po’ dentro, un po’ fuori - di Elvio rispetto alla società musattiana di psicanalisi. Ingenuo, il maestro. Elvio non entrò mai nel cerchio magico che il maestro cercava di disegnare in Italia, il “tripode” di Verdiglione, Contri, Drazien, che avrebbe dovuto formare il nucleo di una scuola lacaniana in Italia. Insomma, non glielo diede.
Dettagli personali a parte, che sono di scarso interesse, la lezione che il potenziale allievo diede all’attuale maestro, ha una rilevanza teorica non piccola, tuttora da recepire e che forse il maestro non recepì.
Si tratta della freudiana Versagung, che dovrebbe caratterizzare il regime in cui condurre l’analisi terapeutica. I freudiani ortodossi traducono con “frustrazione”, nel senso che in analisi non si dovrebbe soddisfare il desiderio del paziente. I lacaniani, che pretendono - wollen, si direbbe in tedesco - tornare a Freud, oscillano tra varie versioni: dalla “disdetta” al “diniego”, passando per l’improbabile dottrina morale lacaniana, per cui l’etica dello psicanalista sarebbe non cedere sul proprio desiderio.
Niente di tutto questo. La Versagung è la funzione dell’oggetto del desiderio che “non si concede” al soggetto. Sich versagen in tedesco significa “non concedersi” (la negazione è nel prefisso ver); non significa “dire di no”, ma “non dire di sì”; introduce così una sospensione temporale nel cui intervallo fa avvenire qualcosa del soggetto.
La mia versione non antropomorfa di questa situazione è che l’oggetto del desiderio, essendo infinito, non si concede al soggetto finito. Ma non entro nei dettagli di una complessa topologia, che non ha niente a che vedere con la topologistica lacaniana. Mi limito a ricordare che, originario del Trentino, Elvio sapeva un po’ di tedesco. E diede una lezione di tedesco al maestro francese.
Io mostro, invece,
come in Francia la
lotta di classe
creò delle
circostanze
e una situazione che
resero possibile a un personaggio mediocre
e grottesco
di far la parte
dell’eroe *:
"Degli scritti che,
quasi
contemporaneamente
al mio, si occuparono
dello stessa argomento
[5], solo due sono, degni
di
nota:
Napoléon le Petit
di
Victor Hugo
e il
Coup d’Etat
di Proudhon
[6].
Victor Hugò si limita a un’invettiva
amara e piena di sarcasmo,
contro l’autore
responsabile del
colpo di stato.
L’avvenimento
in sé gli appare come un fulmine a ciel sereno.
Egli non vede
in esso altro che
l’atto di violenza di un
individuo. Non si accorge che ingrandisce questo individuo invece di rimpicciolirlo, in quanto gli
attribuisce
una
potenza di iniziativa personale
che non avrebbe
esempi nella storia del
mondo.
Proudhon, dal canto
suo, cerca
di rappresentare il colpo di stato come il risultato di una
precedente
evoluzione storica;
ma la ricostruzione storica dei colpo
di stato si trasforma
in lui in una
apologia
storica dell’eroe del colpo di stato. Egli
cade nell’errore dei nostri cosiddetti storici
oggettivi.
Io mostro, invece,
come in Francia la
lotta d
i classe
creò delle
circostanze
e una situazione che
resero possibile a un personaggio mediocre
e grottesco
di far la parte
dell’eroe".
* K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte Prefazione dell’autore alla seconda edizione, [1869].
Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte
by Karl Marx, Giorgio Giorgetti (Editor), Palmiro Togliatti (Translator)
Vittorio Ducoli’s Reviews (Goodreads, 16 marzo 2013)
Attualità di Marx
L’altro giorno, 14 marzo, ricorreva il 130° anniversario della morte di Karl Marx.
Per puro caso, nello stesso giorno ho finito di leggere Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, che ritengo uno dei testi fondamentali per addentrarsi nelle idee di questo grandissimo pensatore e per apprezzarne appieno l’attualità, a dispetto della vulgata interessata che vorrebbe il pensiero marxiano solo un retaggio del passato.
Un primo elemento a favore di questo testo è il tema. Non si tratta di un trattato filosofico o di critica all’economia politica, la cui lettura spesso richiede un sostrato culturale molto solido, ma dell’analisi di Marx degli avvenimenti che tra il febbraio 1848 e il dicembre 1851 videro la Francia passare dalla fase rivoluzionaria che aveva portato alla caduta della monarchia di Luigi Filippo d’Orleans al trionfo della più bieca reazione con il colpo di stato attuato da Luigi Napoleone Bonaparte, il futuro Napoleone III. Si tratta quindi di un’analisi storica di fatti che hanno avuto conseguenze importantissime sull’intera storia europea, e non solo, dei decenni successivi.
Ho messo in corsivo l’aggettivo storica perché Marx scrive i testi che formano il libro pochissimo dopo, nel 1852: eppure la sua analisi è così compiuta, così lucida, così minuziosa e supportata da dati ed elementi oggettivi da assumere il carattere pieno dell’indagine storica.
Un altro elemento che caratterizza il 18 brumaio è la brillantezza della scrittura. A differenza di quanto si possa pensare, Marx non è affatto un autore pesante, ma una delle più brillanti penne del XIX secolo. Basta pensare a quante sue frasi, aforismi, paradossi facciano parte del nostro bagaglio culturale per rendersi conto di ciò; purtroppo, molti dei suoi testi riguardano argomenti ostici, trattati ed approfonditi con rigore, e questo ovviamente genera complessità: pregio di questo volume è di offrirci un Marx sicuramente non leggero ma scorrevole, per molti tratti appassionante, laddove gli avvenimenti si susseguono incalzanti e Marx ce ne disvela le ragioni vere e ultime.
Sì, perché il senso di questo libro è far capire, anche a noi oggi, la distanza che esiste tra le cause ideologiche dei conflitti e le loro cause vere che, ci dice Marx, vanno sempre ricercate nei conflitti tra le classi e i loro diversi interessi.
Marx, pagina dopo pagina, ci narra gli scontri di piazza e le lotte tra le diverse fazioni parlamentari che caratterizzarono il biennio, individuando oggettivamente le motivazioni vere che ne erano alla base. Così, l’acerrima lotta avvenuta nell’Assemblea legislativa tra Partito dell’Ordine (monarchici) e Montagna (repubblicani), lungi dall’essere una lotta sulla forma dello stato è una lotta tra gli interessi della grande borghesia e quelli dei borghesi medi e piccoli. Leggendo questo testo è quindi agevole comprendere in pratica la tesi marxiana per cui la storia è il risultato della lotta tra le varie classi sociali.
Forse però l’aspetto del libro che affascina di più è l’analisi delle motivazioni che portarono al colpo di stato di Luigi Napoleone. Marx parte dalla constatazione che la Repubblica è la forma di stato con cui la borghesia esercita direttamente il potere (come insegna la prima rivoluzione francese); eppure, favorendo oggettivamente ed anche attivamente il colpo di mano del Napoleone piccolo consegna questo potere ad altri, ai militari e ad una consorteria di avventurieri che aveva la sua base sociale nel lumpenproletariat rurale. Perché questa abdicazione?
La risposta di Marx è lucidissima, e si sarebbe purtroppo dimostrata vera molte altre volte nella storia. La borghesia si era accorta che la Repubblica borghese era il terreno di lotta ideale per il proletariato, che poteva progredire ed organizzarsi grazie alle libertà civili e politiche: aveva quindi preferito consegnare il potere a chi, pur non organico alla sua classe, potesse garantire ordine e tranquillità agli affari, piuttosto che rischiare una emancipazione proletaria. Quante volte, nel secolo successivo, questa logica avrebbe prevalso in varie parti dell’Europa e del mondo!
Quante volte la borghesia avrebbe consegnato interi popoli nelle mani di mascalzoni e di buffoni pur di salvaguardare la roba.
Fortunatamente Marx morì 130 anni fa, perché credo che altrimenti avrebbe dovuto nel tempo istituire una sezione d’analisi specificamente dedicata al nostro paese, dove la borghesia ha sempre assunto questo atteggiamento, sia pure in modi diversi, da Mussolini a Berlusconi.
Resta da spiegare il titolo, che è una delle grandi invenzioni di Marx: il 18 brumaio (9 novembre) 1799 Napoleone I abbatté il direttorio ed instaurò la sua dittatura, come farà il 2 dicembre 1851 il nipote Luigi Napoleone. Ma, ci avverte Marx nella prima pagina di questo libro, con una delle sue frasi fulminanti ”Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima come tragedia, la seconda come farsa”. Oggi noi sappiamo che i grandi fatti possono presentarsi più e più volte; sappiamo inoltre che anche quando si presentano come farsa spesso sono causa di grandi tragedie. Fortunatamente in Italia l’abbiamo imparato, e (almeno per ora) riusciamo a mantenerci sul terreno del burlesque.
In tragedia e in farsa, la storia che raddoppia e non conclude
Una nuova edizione de «Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte», per Editori Riuniti. Un’analisi del bonapartismo la cui lettura è utile anche per indagare i fenomeni politici contemporanei. In una nuova edizione l’opera del 1852
di Francesco Marchianò (il manifesto, 30.01.2016)
Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (Editori Riuniti, pp. 248, euro 18,00) è, certamente, uno dei testi più originali di Marx nel quale l’analisi materialistica della storia è connessa a quella politica. In quest’opera, dedicata agli avvenimenti che dal 1848 al 1851 modificarono il sistema politico francese e lo fecero transitare da una repubblica all’impero, dopo il colpo di stato di Luigi Bonaparte, Marx si distinse per essere un attento studioso delle dinamiche giuridiche, politiche, economiche e sociali, compiendo una precisa analisi sistemica.
Scritto dal dicembre 1851 al marzo 1852, inizialmente per il settimanale Die Revolution, edito a New York dall’amico editore Weydemeyer, l’opera subì diverse vicissitudini e solo nel 1869 comparve ad Amburgo una seconda edizione europea, dopo che in passato in tentativi di darne diffusione nel continente erano falliti.
In Italia è da poco comparsa per Editori Riuniti una nuova edizione affidata alla cura di Michele Prospero che, in una densa e raffinata introduzione, non solo offre le necessarie chiavi di lettura per comprendere meglio l’opera, ma ne attualizza in maniera impeccabile la portata. Ne escono, così, fuori due testi in uno che è molto fruttuoso leggere insieme.
Il testo di Marx brilla da diversi punti di vista, non ultimo per lo stile letterario e la coniazione di alcune frasi rimaste poi celebri, come quella della storia che si ripete due volte, prima come tragedia, poi come farsa, con la quale si apre il volume. Oppure per il «cretinismo parlamentare», malattia diagnostica ai difensori della repubblica che abusando dei trucchi e delle imboscate in aula non facevano altro che screditare il parlamento che volevano difendere.
L’aspetto essenziale che caratterizza l’opera, tuttavia, è l’analisi contestuale che indaga tutti i fattori che intervengono in un cambio di regime o, diremmo oggi con un lessico più moderno, in una transizione. È cioè la spiegazione di come la repubblica, non riuscendo a trovare gli ancoraggi necessari al suo consolidamento nella società francese, produsse come esito il successo di una leadership personale che portò a un’altra forma di dominio politico.
Nella lettura compiuta da Marx si colgono perfettamente le cause di questo passaggio che non sono da attribuire al magismo del capo, al suo carisma, ma al concatenarsi di elementi esterni. Come spiega Prospero, «esistono condizioni politiche e sociali di fondo il cui degrado spiega anche l’emergere di tendenze carismatiche pronte a sfruttare le fragilità del sistema sottoposto allo stress della partecipazione politica di milioni di elettori».
Marx mette in luce tutti gli elementi essenziali che intervengono in questa dinamica. A cominciare da quelli giuridico-politici, dati dalle contraddizioni della costituzione, dal carattere limitativo della legge ordinaria rispetto ai diritti enunciati in essa, dal conflitto potenziale tra l’assemblea e il presidente della repubblica. In questa situazione di perenne incertezza veniva meno un elemento essenziale dato dalla legittimità che richiedeva il sistema, specialmente dopo l’allargamento del suffragio. -Occorreva cioè trovare nel sociale la base di sostegno del politico.
È ciò che è mancato alla repubblica che finì per non includere affatto le masse. Anzi, proprio questa «asimmetria tra forte apparato statale e debolezza della società civile», secondo Prospero, è l’espressione peculiare del bonapartismo. Luigi Bonaparte, invece, lungi dal non avere un radicamento sociale, si manifesta, secondo le parole di Marx, come il rappresentante di «una classe, anzi della classe più numerosa della società francese, i contadini piccoli proprietari», una «classe a metà» i cui appartenenti sono tra loro isolati, ma condividono situazioni di forte miseria che li mettono contro le altre classi sociali. Non avendo la capacità di far valere i propri interessi, essi hanno bisogno di farsi rappresentare da qualcuno che appare loro come un «padrone», «come un potere governativo illimitato, che li difende dalle altre classi»; ne consegue che «l’influenza politica del contadino piccolo proprietario trova quindi la sua ultima espressione nel fatto che il potere esecutivo subordina la società a se stesso».
L’analisi contenuta nel 18 brumaio rimane perennemente attuale per indagare i fenomeni politici contemporanei poiché fornisce tutte le categorie necessarie per comprendere cosa succede nei momenti di debolezza del sistema politico. Essa può essere utile anche per interpretare le dinamiche che coinvolgono il nostro Paese dove il continuo tentativo di riforma della costituzione, l’incertezza del sistema, la scarsa legittimazione sua e dei suoi attori, il consolidarsi di interessi e forze private, può sempre consentire, volendo usare le parole di Marx, «a un personaggio mediocre e grottesco di fare la parte dell’eroe».
Chiamare la maternità surrogata una donazione è un eufemismo perché in realtà si tratta di un vero e proprio mercato che ha dei tariffari, una domanda e un’offerta, dei contratti, un marketing, dei mediatori, come in qualunque scambio di merce o di prestazione
di Mariangela Mianiti (il manifesto, 15.03.2016)
Nel felice racconto della genitorialità con la gestazione per altri si è trattato con pochi accenni a una parte importante della questione, ovvero il prima dell’impianto dell’embrione. Quel prima non è un pezzo da poco perché riguarda la selezione e l’acquisto del materiale genetico che serve per costruire la nuova vita, ovvero lo sperma e gli ovuli, fondamentali perché determinano le caratteristiche di una persona. La scelta di questi donatori e della portatrice di utero hanno dei costi e si stanno muovendo secondo criteri economici e geografici simili a quelli dei movimenti dei capitali finanziari.
Chiamare la maternità surrogata una donazione è un eufemismo perché in realtà si tratta di un vero e proprio mercato che ha dei tariffari, una domanda e un’offerta, dei contratti, un marketing, dei mediatori, come in qualunque scambio di merce o di prestazione. L’invasione del linguaggio e della mentalità del marketing nel mercato dei corpi, perché di questo si tratta, è già avvenuto e basta guardare gli slogan di certe agenzie che ricalcano quelli della promozione di viaggi low cost, come Pacchetto bimbo in braccio, Pacchetto Surrogacy, pacchetto Economy Plus che stabiliscono tariffe diverse secondo i tentativi di fecondazione e le scadenze del compenso.
In questa compravendita lo sperma è la merce che costa di meno. Si va dalle poche centinaia di dollari chiesti da un’agenzia israeliana, ai diversi prezzi che un’agenzia russa paga secondo la nazionalità del donatore/venditore. Per la stessa quantità di liquido seminale a un russo vengono dati meno di 200 euro, mentre a un danese o a uno svedese più di 800. Stessa cosa succede con le donatrici di ovuli. Negli Usa, dove la media per una donazione di ovuli è ricompensata dai 10 ai 15mila dollari, se la donatrice è alta, bionda e ha frequentato Harvard può chiedere un prezzo molto più alto di una donna non laureata.
Anche per le portatrici di utero le tariffe si adeguano a una geografia economica. Un’americana percepisce al massimo 30mila dollari, un’indiana poco più di 5mila, un’ucraina 10mila circa e basta guardare il costo complessivo dell’operazione per farsi un’idea di come si muove questo business. Negli Usa il costo totale di una maternità surrogata può andare dai 150 ai 200mila dollari, in Ucraina dai 30 ai 50mila, in Russia dai 30 ai 65mila dollari. Per offrire prezzi concorrenziali c’è chi si è organizzato con gli stessi criteri della movimentazione dei capitali. E allora ecco agenzie americane che ricorrono a portatrici di utero messicane, o agenzie israeliane che propongono l’inseminazione negli Usa e poi trasferiscono gli embrioni congelati in Nepal dove vengono impiantati nell’utero di donne indiane, per risparmiare.
In «Clinical Labor», libro uscito nel 2014, le ricercatrici australiane Melinda Cooper e Catherine Waldby analizzano le nuove forme di lavoro bioeconomico come la maternità surrogata. Osservano come il mercato della riproduzione assistita cresce sempre di più espandendosi in servizi e settori dell’industria biomedica. Rivelano come il clinical labor diventerà sempre più rappresentativo delle economie neoliberiste del 21esimo secolo.
C’è chi per pagare un percorso così vende una proprietà, se ce l’ha, o chiede un prestito. Dall’altra parte ci sono donne che si sottopongono a cure ormonali e a una gravidanza conto terzi per comprare una casa o pagare l’università ai figli. Intanto medici, cliniche, agenzie, assicurazioni, ospedali e avvocati vedono crescere il proprio conto in banca. In mezzo c’è il desiderio di un figlio. Viene davvero da chiedersi se un bisogno così ha il diritto di essere esaudito a qualunque costo, letteralmente parlando.
“Non la Costituzione, l’hanno distrutta”
Ha detto Il giurista: non faccio lezione sul testo Renzi-Boschi
intervista di Jacopo Iacoboni (La Stampa, 15.03.2016)
«Tutto al mondo passa e quasi orma non lascia». Gustavo Zagrebelsky ci scherza su; una citazione leopardiana invita a non drammatizzare troppo la notizia che vogliamo commentare: a quasi 73 anni uno dei decani della cultura torinese - e un simbolo, nonostante lui neghi insistentemente - della Torino post-azionista lascia l’Università della città per accettare l’invito ad andare a insegnare a Milano, al San Raffaele. È un momento che segna oggettivamente la fine di una stagione, e forse di una fase del dibattito politico italiano.
Le fa effetto lasciare l’insegnamento a Torino? È esagerato dire che è la fine di tutto un mondo, di laicità e democrazia intransigente?
«Appunto: è un’esagerazione. Quel verso di Leopardi dice che tutto passa, ma aggiunge: “quasi”. Una certa Torino non c’è più dagli anni cinquanta, ma quel mondo non è sparito. Rivive in altre forme, magari non è più egemone, ma quando lo è stato? Torino insegna ancora una sorta di repulsione del mondo intellettuale verso il potere politico, la ripulsa dell’arruolamento. L’idea di entrare in una squadra ci sembra un tradimento. D’altra parte non mi sono mai sentito figlio legittimo della Torino azionista, non sono stato allievo di Bobbio, anche se, specialmente negli ultimi anni, ho avuto con lui una grande amicizia. Ma la mia Torino era anche Giuseppe Grosso, un cattolico, accanto appunto a Bobbio o a Galante Garrone. E Leopoldo Elia, colui con il quale ho iniziato gli studi costituzionalistici. Era questa sintonia tra laicità e il miglior pensiero cattolico liberale. La favola della Torino azionista “covo di moralisti, giacobini e intollerante” è una vulgata polemica creata ad arte da destra, a fini denigratori».
Vulgata poi arrivata, anche solo come ronzio, all’orecchio dei governanti di oggi, quelli che le danno del “professorone”.
«Mah! Lei crede che sappiano qualcosa dell’azionismo? Il nuovismo e il giovanilismo bastano a se stessi. Non hanno bisogno d’altro per compiacersi di sé».
Torniamo a Torino.
«Non è un addio, avrei comunque lasciato l’Università. Per una serie di ragioni. Per stanchezza, fisica ma anche mentale. Ho quasi 73 anni, preparare le lezioni di diritto costituzionale diventava più faticoso, anche se poi l’incontro con gli studenti è sempre stato molto bello. Qualche mese fa Massimo Cacciari, che era venuto a presentare un mio libro sul Grande inquisitore, mi ha chiesto se mi avrebbe fatto piacere tenere un corso al San Raffaele. Mi disse “vieni a insegnare filosofia del diritto”. La cosa mi ha stuzzicato e ho accettato; ma non parlerò di Tommaso o di Aristotele. Parlerò dei limiti, dei confini del diritto. Le idee migliori sul diritto, diceva Bobbio, vengono dai giuristi pratici, più che dai filosofi. Il diritto ha dei limiti? Può invadere tutte le sfere dell’esistenza o ce ne sono alcune davanti alle quali deve fermarsi? Non è rimasto allibito davanti all’idea che il legislatore, nel dibattito sulle unioni civili, possa legiferare su cose come la fedeltà? Siccome il diritto incontra dei limiti, e non ce la fa a vietare, per esempio il cosiddetto l’utero in affitto o la maternità surrogata, quello è il campo in cui deve operare non l’homo iuridicus, ma l’homo moralis. Poi, di fronte all’impotenza, i politici rimettono le decisioni ai giudici e, ipocritamente, si lamentano delle loro “invadenze”».
Lei che posizione ha sulla maternità surrogata?
«Gli aspetti commerciali mi turbano, sono un uomo dell’altro secolo. Che tutto sia o possa essere business mi spaventa. Comunque, non si può derogare a due principi: la non discriminazione del bambino nato con gestazione diversa, e l’interesse del minore. A Milano parlerò di cose come queste».
Che bilancio fa oggi di 50 anni in cattedra?
«Parafrasando San Paolo, che disse “ho combattuto la buona battaglia, e ho mantenuto la fede”, io direi invece che ho perduto la fede».
Perché?
«Non voglio più insegnare il diritto costituzionale. La Costituzione non è una materia come le altre, è qualcosa che implica l’adesione a certi valori. Se passerà il referendum sulla riforma Boschi non saprei neanche più che cosa insegnare. È un testo scritto malissimo, in certe parti contraddittorio e incomprensibile. La Costituzione del ’48 fu rivista da personaggi come Concetto Marchesi. La chiarezza, per una Costituzione, è anche un fatto di democrazia» (Zagrebelsky ha davanti l’articolo 70 sulla funzione legislativa. Ne legge le sgrammaticature, e fa impressione).
Chi ha scritto materialmente questa roba?
«Persone che hanno trovato su questo tema l’occasione, la volta buona, per emergere nel dibattito tra i costituzionalisti».
Renzi e Boschi non sono molto toccati dalle sue critiche.
«Me ne sono fatta una ragione. Siamo in mano a persone per le quali tutto diventa negoziabile. L’opportunismo governa. Per questo, mi va bene la filosofia del diritto; la consolatio philosophiae come, se mi è lecito, per Severino Boezio».
Scheda-Recensione *
Arrigo Colombo
La Chiesa, la sua defezione dal progetto evangelico di comunità fraterna e dal progetto e processo di liberazione dell’umanità Mursia, Milano, 2015, pp. 275, 20€
Nella Trilogia della Nuova Utopia che il filosofo lombardo Arrigo Colombo, attivo nell’Università del Salento- Lecce, ha scritto per l’editrice Mursia, non poteva mancare la questione del progetto evangelico di una comunità fraterna e di come la Chiesa gerarchica abbia finito per tradirlo, soccombendo al blocco della società ingiusta che domina la storia umana.
Così, dopo il primo volume dedicato al progetto di costruzione di una società giusta e fraterna (La Nuova Utopia. Il progetto dell’umanità, la costruzione di una società di giustizia, 2014) e il secondo centrato sul quadro di quella che può e deve essere una società di giustizia (La società di giustizia. Ciò che l’umanità ha progettato nel tempo e ciò che sta costruendo, 2015), l’autore sviluppa la sua riflessione sul ruolo che ha giocato e che gioca la Chiesa in questo progetto.
Di certo, spiega Colombo, la ricerca sulla Chiesa e sulla sua storia è un passo necessario per comprendere la vicenda della Nuova Utopia, quel «“non-luogo” che è il “buon-luogo”; la società che non esiste perché è la società buona, giusta, mentre domina ovunque la società ingiusta; la società che non esiste ancora, ma su cu l’umanità è protesa da sempre; e però in parte già esiste perché l’umanità la sta costruendo».
Un progetto «che l’umanità ha in sé sempre», ma che a un certo punto è stato raccolto nell’annuncio evangelico, come la “buona novella” da portare ai popoli, e affidato dal Cristo alla comunità che si era formata attorno a lui, come «la sua Chiesa», intesa, «originariamente e propriamente», come il luogo della società giusta e fraterna.
Un compito che è stato poi neutralizzato e affondato «nel blocco millenario di dispotismo, conquista di popoli, formazione di imperi, guerra perenne, espropriazione e discriminazione del popolo-povero, asservimento della donna, schiavitù», da cui però si sta liberando, «in un processo lungo e difficile» di recupero del progetto evangelico e di purificazione della fede da tutti quegli errori in cui è caduta la Chiesa gerarchica e papale: dall’assunzione del modello monarchico e imperiale alla condanna dei moderni movimenti di liberazione, dalla dottrina androcentrica e patriarcale all’oscuramento del principio fraterno e della legge dell’amore, dal rifiuto della libertà di coscienza all’etica repressiva della sessualità.
* Adista Segni nuovi, 19 MARZO 2016 • N. 11
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA. “Come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.
Un appello del teologo Hans Küng a Francesco per annullare il dogma
Aboliamo l’infallibilità del Papa
di Hans Küng (la Repubblica, 09.03.2016)
È difficile immaginare che papa Francesco avrebbe fortemente voluto una proclamazione della infallibilità papale come quella che nel diciannovesimo secolo venne sollecitata da Pio IX con ogni mezzo. Si può invece ritenere che Francesco (come fece a suo tempo Giovanni XXIII davanti agli studenti del collegio greco) dichiarerebbe sorridendo: «Io non sono infallibile». Di fronte allo stupore degli studenti, Giovanni aveva aggiunto: «Sono infallibile solo quando parlo ex cathedra, ma non parlerò mai ex cathedra». Questo tema mi è familiare da tempo. Ecco qualche importante dato storico, che ho acquisito di persona e ho meticolosamente documentato nel quinto volume delle mie opere complete.
1950: Il 1° novembre Pio XII proclama come dogma di fronte a una folla gigantesca: «L’immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo». Allora, studente ventiduenne di teologia, accolsi con entusiasmo questo evento. Fu dunque un primo infallibile pronunciamento ex cathedra del supremo maestro e pastore della Chiesa cattolica, il quale si appellò alla particolare assistenza dello Spirito Santo, in piena conformità alla proclamazione dell’infallibilità papale avvenuta nel Concilio Vaticano I!
1958: Con la morte di Pio XII giunge alla fine anche il secolo dell’eccessivo culto di Maria promosso dai papi “Pii“. Il suo successore Giovanni XXIII è contrario a nuovi dogmi e la maggioranza del Concilio decide con una votazione aperta di non promulgare un proprio decreto su Maria, anzi, mette in guardia da manifestazioni esagerate di devozione mariana. 1965: Nella costituzione pastorale sulla Chiesa si trova - capitolo III sulla gerarchia - l’articolo 25 sull’infallibilità, che però sorprendentemente non viene affatto discusso. Tanto più che di fatto il Vaticano II ha proceduto a un allargamento sconcertante, estendendo espressamente e senza motivazione all’episcopato quell’infallibilità che il Vaticano I aveva attribuito solo al papa.
1968: Appare l’Enciclica Humanae Vitae sulla regolazione delle nascite. L’enciclica, che vieta come peccato grave non solo la pillola e i mezzi meccanici, ma anche l’interruzione del rapporto sessuale per evitare una gravidanza, viene percepita come un’enorme provocazione. Con essa il papa si pone in contrasto, per così dire, con tutto il mondo civilizzato, richiamandosi al suo infallibile magistero e a quello dell’episcopato. Certo, le proteste formali e le obiezioni materiali sono importanti, ma questa pretesa di infallibilità delle dottrine papali non può proprio essere riesaminata a fondo? Ne faccio un tema di discussione nel mio libro Infallibile? Una domanda, del 1970.
1979/1980: Revoca della mia abilitazione alla docenza in teologia cattolica. Che si trattasse di un’azione segreta preparata nel minimo dettaglio, dimostratasi contestabile sul piano giuridico, infondata su quello teologico e controproducente su quello politico, è ampiamente documentato nel secondo volume delle mie memorie, Verità contestata. A quel tempo il dibattito si soffermò a lungo su questa revoca della mia missio e sulla infallibilità. Tuttavia, la mia considerazione nella comunità religiosa non poté essere distrutta. E, come avevo previsto, le discussioni sui grandi compiti della riforma non sono cessate. Mi riferisco al dialogo interconfessionale, al reciproco riconoscimento delle funzioni e delle celebrazioni eucaristiche, alle questioni del divorzio e dell’ordinazione sacerdotale delle donne, al celibato ecclesiastico e alla drammatica crisi delle vocazioni, e soprattutto alla guida della Chiesa cattolica. Posi la questione: «Dove state portando questa nostra Chiesa?».
Dopo 35 anni, questi interrogativi sono attuali ora come allora. Ma la ragione decisiva dell’incapacità di realizzare riforme a tutti questi livelli continua ad essere la dottrina dell’infallibilità del magisterio, che ha portato alla nostra Chiesa un lungo inverno. Come allora Giovanni XXIII, anche oggi papa Francesco cerca con tutte le forze di far soffiare un vento fresco sulla Chiesa. E deve scontrarsi con una forte resistenza, come in occasione dell’ultimo sinodo mondiale dei vescovi dell’ottobre 2015. Non ci si faccia illusioni, senza una “re-visione” costruttiva del dogma dell’infallibilità un reale rinnovamento sarà ben difficilmente possibile.
Tanto più sorprendente, allora, è che la discussione su questo tema sia scomparsa dallo schermo. Molti teologi cattolici, temendo sanzioni come quelle che hanno colpito me, hanno quasi rinunciato a esprimere posizioni critiche sull’ideologia dell’infallibilità, e la gerarchia cerca, per quanto possibile, di evitare un tema così impopolare nella Chiesa e nella società. Solo poche volte Joseph Ratzinger vi si è richiamato, nella sua veste di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Ma, tacitamente, il tabù dell’infallibilità ha bloccato tutte le riforme che, a partire dal Concilio Vaticano II, avevano sollecitato una revisione di precedenti definizioni dogmatiche.
2016: È il mio ottantottesimo anno di vita, e posso dire di non essermi risparmiato per raccogliere i numerosi testi compresi nel quinto volume delle mie opere complete. Ora, con questo libro in mano, vorrei rivolgere di nuovo al papa un appello che ho più volte inutilmente lanciato nel corso di una discussione pluridecennale in materia di teologia e di politica della Chiesa. Imploro papa Francesco, che mi ha sempre risposto in modo fraterno: «Riceva questa ampia documentazione e consenta nella nostra Chiesa una discussione libera, non prevenuta e aperta su tutte le questioni irrisolte e rimosse legate al dogma dell’infallibilità. Non si tratta di banale relativismo, che mina i fondamenti etici della Chiesa e della società. E nemmeno di rigido e insulso dogmatismo legato all’interpretazione letterale. È in gioco il bene della Chiesa e dell’ecumene.
Sono ben consapevole che a lei, che vive “tra i lupi“, questa mia preghiera potrà sembrare poco opportuna. Ma lo scorso anno lei ha coraggiosamente affrontato malattie curiali e perfino scandali, e nel suo discorso di Natale del 21 dicembre 2015 alla curia romana ha ribadito la sua volontà di riforma: “Sembra doveroso affermare che ciò è stato - e lo sarà sempre - oggetto di sincera riflessione e decisivi provvedimenti. La riforma andrà avanti con determinazione, lucidità e risolutezza, perché Ecclesia semper reformanda”.
Non vorrei accrescere in modo irrealistico le aspettative di molti nella nostra Chiesa; la questione dell’infallibilità nella Chiesa cattolica non può essere risolta dal giorno alla notte. Ma per fortuna lei è più giovane di me di quasi dieci anni e, come tutti ci auguriamo, mi sopravvivrà.
E certamente comprenderà che io, da teologo alla fine dei miei giorni, sostenuto da una profonda simpatia per lei e per la sua azione pastorale, abbia voluto, finché sono in tempo, esporre la mia preghiera per una libera e seria discussione sull’infallibilità, motivata come meglio posso nel presente volume: non in destructionem, sed in aedificationem ecclesiae, “non per la distruzione, ma per l’edificazione della Chiesa“. Per me personalmente sarebbe la realizzazione di una speranza mai abbandonata». (Traduzione di Carlo Sandrelli)
Il Dogma dell’infallibilità
di Hans Küng (la Repubblica, 28.04.2016)
IL 9 MARZO è apparso su importanti giornali di diversi Paesi il mio appello a papa Francesco per avviare una discussione libera, non prevenuta, aperta sulla questione dell’infallibilità. Mi ha fatto molto piacere ricevere già subito dopo Pasqua, attraverso la nunziatura di Berlino, una lettera personale di papa Francesco datata la domenica delle Palme (20 marzo).
In questa lettera sono per me molto significativi i seguenti punti: che papa Francesco mi abbia risposto e che non abbia, per così dire, lasciato cadere nel vuoto il mio appello; che abbia risposto di persona e non attraverso il suo segretario privato o il cardinale segretario di Stato; che sottolinei il carattere fraterno della sua lettera in spagnolo con l’appellativo tedesco «lieber Mitbruder» («caro confratello»), scritto in corsivo; che abbia letto attentamente l’appello che gli avevo rivolto anche in traduzione spagnola; che tenga in grande considerazione le riflessioni che mi hanno indotto a pubblicare il quinto volume dei miei scritti, nel quale propongo di discutere sul piano teologico, alla luce della Sacra Scrittura e della tradizione, le diverse questioni sollevate dal dogma dell’infallibilità, allo scopo di approfondire il dialogo costruttivo della Chiesa del ventunesimo secolo, «semper reformanda», con l’ecumene e la società postmoderna.
Papa Francesco non pone alcuna limitazione. Egli ha così corrisposto al mio desiderio di dar luogo a una libera discussione del dogma dell’infallibilità. Ritengo, perciò, che occorra utilizzare questo nuovo spazio libero per portare avanti il chiarimento delle definizioni dogmatiche contestate nella Chiesa e nell’ecumene cattolica.
Allora non potevo immaginare quale spazio libero avrebbe aperto pochi giorni dopo papa Francesco nello scritto apostolico post-sinodale Amoris laetitia. Già nell’introduzione egli dichiara che «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero».
Egli si volge contro una «una morale fredda da scrivania» e non vuole che i vescovi continuino a comportarsi come «controllori della grazia ».
Non vede l’eucarestia come un premio per i perfetti, ma come un «alimento per i deboli». Cita ripetutamente affermazioni del sinodo dei vescovi e delle conferenze episcopali nazionali. Non vuole più essere il portavoce solitario della Chiesa. Questo è il nuovo spirito che ho sempre atteso dal magistero.
Sono convinto che in questo spirito anche il dogma dell’infallibilità, questa fondamentale questione chiave della Chiesa cattolica, potrà alla fine essere discussa in modo libero, non prevenuto e aperto.
Per questo libero spazio rivolgo a papa Francesco un ringraziamento profondamente sentito.
Aggiungo l’aspettativa che i vescovi, le teologhe e i teologi facciano proprio senza riserve questo spirito in un dialogo collegiale e collaborino a questo compito nel solco della Scrittura e della grande tradizione ecclesiale.
* Hans Küng è teologo, presbitero e saggista svizzero
Francesco apre il caso dell’infallibilità del Papa
Il teologo Küng: «Mi ha risposto con una lettera fraterna, non ha posto limiti alla discussione sul dogma»
Il dogma dell’infallibilità del Pontefice è stato sancito dal Concilio Vaticano I e da Pio IX il 18 luglio 1870. Stabilisce che il Papa non può sbagliare quando parla come dottore o pastore universale della Chiesa.
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 28.04.2016)
CITTÀ DEL VATICANO Racconta Hans Küng che la lettera di Francesco, con la data del 20 marzo, gli è stata recapitata attraverso la nunziatura di Berlino. Una lettera «che risponde alla mia richiesta di una libera discussione sul dogma dell’infallibilità» del Papa. «Mi ha risposto in maniera fraterna, in spagnolo, rivolgendosi a me come Lieber Mitbruder, caro fratello, e queste parole personali sono in corsivo», ha fatto sapere Küng.
Il grande teologo svizzero «per la riservatezza che devo al Papa» non cita frasi del pontefice. Però dice che «Francesco non ha fissato alcun limite alla discussione», che ha «apprezzato» le sue considerazioni. E con malcelato stupore fa notare quanto sia «per me importante» il fatto che abbia risposto di persona e soprattutto «non abbia lasciato, per così dire, cadere nel vuoto il mio testo».
E in effetti il testo, rivolto ad un pontefice, era impegnativo: «Imploro papa Francesco, che mi ha sempre risposto in modo fraterno: riceva questa ampia documentazione e consenta nella nostra Chiesa una discussione libera, non prevenuta e aperta su tutte le questioni irrisolte e rimosse legate al dogma dell’infallibilità. Non si tratta di banale relativismo, che mina i fondamenti etici della Chiesa e della società. E nemmeno di rigido e insulso dogmatismo legato all’interpretazione letterale. È in gioco il bene della Chiesa e dell’ecumene».
Küng lo aveva reso pubblico, tradotto in più lingue, il 9 marzo. Giunto all’ottantottesimo compleanno, «da teologo alla fine dei miei giorni, sostenuto da una profonda simpatia per lei e per la sua azione pastorale», il pensatore svizzero aveva rilanciato «un appello che ho più volte inutilmente lanciato nel corso di una discussione pluridecennale».
Francesco non ha mai parlato del dogma dell’infallibilità, sancito dal Concilio Vaticano I e da Pio IX il 18 luglio 1870. Del resto nessuno Oltretevere ritiene abbia mai pensato di metterlo in discussione. Bergoglio è il Papa della sinodalità ma ha ben presenti le prerogative del pontefice, che elencò in un discorso memorabile il 18 ottobre 2014, alla fine del Sinodo, citando il Codice di diritto canonico: il Papa è «il garante dell’ubbidienza e della conformità della Chiesa alla volontà di Dio, al Vangelo di Cristo e alla Tradizione della Chiesa, mettendo da parte ogni arbitrio personale, pur essendo - per volontà di Cristo stesso - il “Pastore e Dottore supremo di tutti i fedeli” (canone 749) e pur godendo “della potestà ordinaria che è suprema, piena, immediata e universale nella Chiesa” (canoni 331-334)».
Diverso è dire che Francesco non abbia posto «alcun limite alla discussione», come riferisce Küng. Anche perché si tratta del dogma forse più frainteso, oltre che dibattuto. Il Concilio Vaticano I non disse affatto, come molti credono, che il Papa è infallibile tout court . Il Papa è un essere umano e la prima cosa che Bergoglio disse al conclave, subito dopo l’elezione, fu: «Io sono un peccatore». Dopo lunghe discussioni, nel 1870 si stabilì che il Papa è infallibile solo «quando parla ex cathedra , cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi».
Sono casi rarissimi, come quando nel 1950 Pio XII proclamò solennemente l’Assunzione di Maria in cielo. Ma l’estensione dell’infallibilità resta dibattuta tra i teologi. La posizione di Küng è netta: vorrebbe abolirla o almeno sottoporla ad una revisione radicale. Già il fatto che Francesco non abbia posto un limite alla discussione, scrive, è una bella notizia: «Penso che sia ora indispensabile utilizzare questa nuova libertà per portare avanti la riflessione sulle definizioni dogmatiche, che sono motivo di polemica all’interno della Chiesa cattolica e nel suo rapporto con le altre chiese cristiane».
“Le mani? Un disegno del Creatore”
di Elena Dusi (la Repubblica, 07.03.2016)
Che la meravigliosa destrezza della mano umana, l’“architettura di tendini, muscoli e articolazioni” sia “il disegno del Creatore per consentirci di compiere una moltitudine di attività quotidiane” non è frase che si legga spesso sulle riviste scientifiche. Quando l’affermazione è apparsa su Public Library of Science (Plos) - una rivista specialistica gratuita di San Francisco - la comunità scientifica è insorta, sommergendo di critiche la direzione e costringendola a ritirare lo studio.
L’episodio può essere letto con ironia. Ma nell’ambiente culturale americano, dove il rapporto fra scienza e fede è tutt’altro che risolto e le sensibilità su entrambi i fronti sono molto acute, citare l’intervento divino in uno dei templi della razionalità scientifica come Plos è considerato un’intollerabile invasione di campo.
Quell’accenno al Creatore con la C maiuscola ha fatto intravedere agli scienziati un rigurgito di creazionismo in un paese che nelle sue scuole non è mai riuscito a imporre del tutto la spiegazione scientifica della nascita dell’universo. Nello stato del Mississippi, per esempio, è attualmente in discussione una legge che consente di presentare la versione della Bibbia nelle lezioni di storia.
Lo studio di Plos, scritto da quattro ricercatori cinesi, uno dei quali affiliato al Politecnico di Worchester, menziona il Creatore tre volte: una nell’abstract che riassume il senso della ricerca e due nel testo. Difficile dunque che la giustificazione degli autori - una cattiva conoscenza dell’inglese, lingua in cui è scritto lo studio - possa essere accettata come valida. «Forse il Creatore ha fatto un buon lavoro, ma lo stesso non può essere detto dei revisori di Plos » è solo uno delle migliaia di messaggi di protesta pubblicati su Twitter.
La rivista ha ammesso i suoi errori nel processo di valutazione e revisione dell’articolo. Ha chiesto scusa alla comunità scientifica e ha ritirato lo studio. Essendo Plos anche il portabandiera della cosiddetta “scienza democratica” cioè delle riviste accessibili gratuitamente - i suoi detrattori non hanno perso l’occasione per ribadire che la qualità ha un prezzo, rivalutando le quotazioni degli editori che richiedono sostanziosi abbonamenti a istituzioni scientifiche e università.
Se molti quotidiani che hanno raccontato la storia hanno scelto di illustrarla con la mano di Adamo di Michelangelo, Twitter ha accompagnato i messaggi sulla “mano di Dio” con la foto di Maradona.
Maternità surrogata, uno scambio ineguale
È generosità nei casi di affetto, intimità, amicizia (la sorella, l’amica). Diverso il gesto della donna che mette il corpo gratuitamente a disposizione di sconosciuti
di Valentina Pazé (il manifesto, 09.01.2016)
Nel dibattito sulla maternità surrogata c’è un grande assente. Si tratta dell’art. 3, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che stabilisce «il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro». In base a questa disposizione, contenuta in un documento che - ricordiamolo - ha oggi lo stesso valore giuridico dei Trattati, sono vietate nell’ambito dell’Unione non solo la vendita del rene o l’affitto dell’utero, ma anche la vendita di “prodotti” corporei come il sangue, gli ovuli, i gameti, che possono essere donati, ma non divenire merce di scambio sul mercato. Simili pratiche (con l’eccezione della vendita del rene, oggi consentita - a mia conoscenza - solo in Iran), sono invece perfettamente lecite al di fuori dell’Unione europea; non solo in India o in Ucraina, ma negli Stati uniti, dove da anni esiste e prospera un fiorente mercato del corpo.
Sottrarre alle persone, uomini o donne che siano, la possibilità di disporre a piacimento di ciò che “appartiene” loro nel modo più intimo significa esercitare una forma di paternalismo? Qualcuno lo sostiene. Se di paternalismo si tratta, certo è lo stesso che giustifica la previsione dell’inalienabilità e indisponibilità dei diritti fondamentali. In stati costituzionali di diritto, come il nostro, non si può vendere il voto, e un contratto con cui qualcuno si impegnasse a farlo sarebbe nullo. Lo stesso dicasi del contratto attraverso il quale qualcuno disponesse, “volontariamente”, di rinunciare alla propria libertà, dichiarandosi schiavo di qualcun altro.
La ratio di simili divieti è chiara: si tratta di impedire che soggetti in condizioni di debolezza economica e culturale compiano scelte a loro svantaggio solo apparentemente libere, in realtà tristemente necessitate. Là dove simili divieti non esistono, o sono rimossi, i diritti diventano, da fondamentali, patrimoniali: la salute e l’istruzione si vendono e si comprano, così come le spiagge, l’acqua potabile, l’aria pulita. L’ultima frontiera è quella della cannibalizzazione del corpo e dei suoi organi che, da «beni personalissimi», «la cui integrità è tutt’uno con la salvaguardia della persona e della sua dignità» (L. Ferrajoli), vengono degradati a beni patrimoniali, merce di scambio sul mercato capitalistico.
«Di quale esercizio della libertà si può parlare quando il condizionamento economico esclude la possibilità di decisioni davvero autonome?»- si chiede Stefano Rodotà. E prosegue: «Ecco perché appare necessario collocare il corpo fuori della dimensione del mercato, consentendo invece che le allargate possibilità di disporre di sue parti o prodotti possano essere esercitate nella forma del dono, come espressione della solidarietà» (Libertà personale. Vecchi e nuovi nemici, in Quale libertà? Dizionario minimo contro i falsi liberali, a cura di M. Bovero, Laterza 2004).
Si tratta di un principio che vale per il sangue, che, nel nostro paese, si dona ma non si vende. Può essere esteso all’utero? È possibile difendere il “prestito” dell’utero, distinguendolo dal vero e proprio “affitto”? Anche sul dono, in realtà, è bene fare un po’ di chiarezza. Sulle pagine dei giornali (come anche sul manifesto) si sono pubblicati racconti di donne che, per “amore”, portano avanti gravidanze per altri. È una generosità che si può ben comprendere quando riguarda persone che intrattengono fra loro legami di affetto, intimità, amicizia: la sorella o l’amica che si offrono di aiutare una persona cara a realizzare il sogno della genitorialità. Davvero eroico - e anche un po’ sospetto - appare invece il gesto della donna che mette il proprio corpo gratuitamente a disposizione di sconosciuti, contattati attraverso un’agenzia (anch’essa mossa da pure intenzioni oblative?).
Di sicuro si tratta di un genere di altruismo che non trova riscontro nell’enorme mole di studi antropologici, psicologici, sociologici che - da Marcel Mauss in avanti - si sono occupati del fenomeno del dono. Questi studi ci dicono che, in realtà, il dono davvero gratuito non esiste. Dalla notte dei tempi, il dono è uno strumento per creare e rinsaldare legami sociali. Comporta sempre l’aspettativa di una restituzione, non intesa nei termini contabili dello scambio mercantile, ma in quelli morali e relazionali propri del paradigma della reciprocità (rinvio, per farsi un’idea a Il dono perduto e ritrovato, Manifestolibri 1994). Come può rientrare in questo schema la maternità surrogata a favore di estranei, in molti casi destinati a rimanere tali?
Il confronto con la donazione del rene - con tutte le differenze del caso - può aiutare ad orientarci. Mentre fino a qualche tempo fa in Italia, come in molti altri paesi, il prelievo del rene da persone viventi era consentito solo a patto che esistesse un legame di parentela o di affetto tra donatore e ricevente, e che fosse escluso il passaggio di denaro tra di loro, una legge del 2010 ha introdotto la cosiddetta “donazione samaritana” (su cui rimando a P. Becchi, A. Marziani, Il criterio di reciprocità nella donazione degli organi. Per un nuovo approccio alla questione dei trapianti, Ragion pratica 39, 2012, cui ho attinto largamente per le considerazioni che seguono ). Si tratta in sostanza della possibilità, aperta a chiunque, di donare un rene a una persona sconosciuta, la cui individuazione spetterà esclusivamente al personale medico.
La legge prevede che il donatore ed il beneficiario rimangano all’oscuro dell’identità l’uno dell’altro e che non stabiliscano alcun legame tra loro neanche dopo l’intervento. Quando ho appreso dell’esistenza di questa norma, ho provato a immaginare l’identità della persona tanto generosa da farsi mutilare “per il bene dell’umanità”. Un angelo? Un autentico soggetto morale kantiano, che agisce per il dovere e solo per il dovere, senza cercare alcuna gratificazione personale? In realtà, se andiamo a vedere come ha finora funzionato questa legge, scopriamo che i (pochi) casi in cui è stata applicata riguardano soggetti in condizioni del tutto particolari, come i detenuti.
È facile immaginare le motivazioni che possono spiegare il loro gesto: il bisogno di espiare, così diffuso tra i soggetti subalterni, incoraggiati magari dalle premurose pressioni di pii assistenti spirituali. La pulsione narcisistica a compiere un atto eroico, super-rogatorio, in grado di riscattare una vita “sbagliata”. Certo, la donazione del rene ha conseguenze ben più devastanti, per il donatore, di quanto non comporti condurre a termine una gestazione per altri (che, pure, non è una passeggiata, né un’esperienza priva di conseguenze sul piano fisico e psichico). Non riesco comunque a non chiedermi se i casi di maternità surrogata per “amore” di estranei non si prestino a una simile lettura.
Teniamo presente che nella stragrande maggioranza dei casi, oggi, nel mondo, la maternità surrogata avviene dietro compenso (talvolta mascherato da rimborso spese o regalo). Un nuovo, potenzialmente enorme, mercato si sta aprendo, con giri di affari per nulla trascurabili se si tiene conto del contorno di agenzie di intermediazione, cliniche private, consulenze legali e assicurative che comporta. È di questo che dobbiamo discutere. Sia che coinvolga donne del terzo mondo, indotte a mettere la propria capacità riproduttiva al servizio di coppie benestanti dell’Occidente, sia che riguardi donne statunitensi che investono i trenta o cinquantamila dollari ricavati dalla gestazione per pagare l’università al figlio, stiamo parlando di scelte necessitate, o fortemente condizionate, da fattori economici.
Non chiamiamola, per favore, libertà. Assomiglia troppo alla libertà del proletario di vendere la propria forza-lavoro al capitalista.
Boncinelli mette in guardia dal rischio di affidarsi al sacro
Lo studioso nell’ultimo libro (edito da Rizzoli) invita a riflettere sulle contraddizioni di una società che vive di scienza ma in cui il senso del sacro è sempre più forte
di STEFANO GATTEI (Corriere della Sera, 26.02.2016)
Alla fine del II secolo d.C. Sesto Empirico apriva i propri Schizzi pirroniani con la descrizione dei tre esiti possibili di un’attività di ricerca (sképsis, in greco): scoprire ciò che si cerca, dichiararlo irraggiungibile o continuare a cercare. Gli scettici, dichiarava subito dopo, scelgono quest’ultimo approccio. Molti secoli dopo Karl Popper, a conclusione della Logica della scoperta scientifica (1934), affermava che «non è il possesso della conoscenza, della verità irrefutabile, che fa l’uomo di scienza, ma la ricerca, persistente e temerariamente critica, della verità».
L’intera storia del pensiero occidentale, dai Presocratici ai giorni nostri, è caratterizzata dall’indagine razionale sul mondo. Ricerca scientifica e dubbio metodico sono inseparabili: la scienza è profana per definizione, si svolge cioè «fuori dal tempio» ( pro fano). Al contrario della religione, che vincola (re-ligare) a un certo numero di credenze indubitabili. Dubbio, dunque scienza (e «scienza, dunque democrazia», come ha mostrato Gilberto Corbellini); credenza, dunque religione, cioè gestione del sacro.
La nostra società vive quotidianamente di scienza (per sostentarci, viaggiare, comunicare e quant’altro) e ampie fasce della popolazione si entusiasmano per le conquiste della ricerca: ne è un esempio il recente clamore seguito all’annuncio della rilevazione delle onde gravitazionali, previste un secolo fa da Albert Einstein con l’esercizio della pura ragione.
Eppure la nostra non è una società secolarizzata: è, anzi, una società in cui il senso del sacro - l’idea di appartenenza, di adesione a un gruppo - appare sempre più forte. E sempre di più le nostre comunità sembrano essere il terreno di coltura ideale per ogni sorta di fondamentalismi.
Nel suo ultimo libro Contro il sacro. Perché le fedi ci rendono stupidi (Rizzoli, pp. 233, e 18) Edoardo Boncinelli ci invita a riflettere su questa contraddizione, illustrando i bisogni biologici e sociali che hanno favorito la nascita e la crescita dell’idea del sacro. L’uomo sente la necessità di avere punti di riferimento (all’interno o all’esterno di una religione costituita): per orientarsi in ciò che non conosce, per agire e per sopravvivere.
È forse per noi un’esigenza ineludibile, ma rischia di svilire la nostra stessa natura. A questi «appigli», sostiene infatti Boncinelli, sarebbe bene aggrapparsi il meno possibile: altrimenti finiamo per assuefarci a un modo di ragionare in cui non c’è più spazio per la libertà individuale.
Il culto del sacro, qualunque esso sia, ci porta a escludere l’idea che alcune cose possano avvenire semplicemente per caso, senza una ragione specifica o senza una ragione semplice da individuare. La convinzione che dietro a ogni cosa ci sia un «agente» ci porta a pensare che esistano sempre dei responsabili (altri da noi) alla base degli eventi. Siamo allora portati a giudicare e a condannare, rifiutando ogni responsabilità.
Nel «sonno della ragione» la razionalità si mette al servizio dell’emotività e dell’irrazionalità, e il ricorso all’intoccabilità del sacro favorisce l’ignoranza e conduce all’isolamento.
Nuovi misticismi e rinvigoriti fondamentalismi, conclude Boncinelli, sono un indice puntato contro la nostra innata propensione a fuggire le nostre responsabilità.
Sapere aude!, esortava Immanuel Kant: «Abbi il coraggio di sapere!». Per osare sapere, però, occorre sapere osare. Ci vuole coraggio, perché sapere comporta una disponibilità e una capacità di affrontare rischi ai quali per secoli ci è stato comodo sfuggire. Comporta una responsabilità che, per quanto gravosa, dà sapore al nostro essere umani.
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 13.02.2016)
LE CRISI possono diventare occasioni importanti di rinnovamento e di ridefinizione di vecchi equilibri di potere, soprattutto in quelle congiunture storiche nelle quali l’ordine esistente si alimenta della rovinosa continuazione della situazione di stallo. Questa è stata per molti versi la dinamica che ha visto nascere l’ideale europeo moderno. Essa si è sprigionata dall’interno dell’Europa dei totalitarismi e dei nazionalismi; anzi, dalle prigioni e dai luoghi di confino dove quei regimi liberticidi avevano voluto mettere a tacere gli avversari politici.
L’ideale di una unione politica continentale fu maturato nella clandestinità, intuizione di pochi visionari convinti che solo gettando il cuore oltre l’ostacolo si potesse sconfiggere lo status quo e dar vita all’Europa del dopo, democratica e pacifica. È importante ricordare oggi che fu all’interno di una cornice anti-nazionalistica che prese corpo il Manifesto di Ventotene, uno dei prodotti più significativi dell’ideale liberal socialista.
Nelle interviste di Eugenio Scalfari a Laura Boldrini e di Stefano Folli a Giorgio Napolitiano, ospitate su Repubblica, non si può non sentire la forza di quell’ideale, e soprattutto la consapevolezza che ci troviamo, di nuovo, in una situazione di stallo critico, di equilibrio catastrofico che può avere esiti regressivi. Perché, come allora, anche oggi i pericoli al progetto di unione vengono dal nazionalismo, populista e non.
Ben inteso, da quando la crisi economica si è abbattuta sul nostro continente e le politiche europee hanno messo a dura prova le politiche economiche e fiscali nazionali, le rimostranze degli Stati membri non sono state sempre ingiustificate. Le resistenze della Grecia, che lo scorso anno si trovò pressoché sola a contestare Bruxelles e la Troika, hanno aperto tuttavia un fronte nel quale altri paesi oggi sembrano volersi identificare. Le polemiche sulle politiche monetarie e le regole bancarie, sulla mancanza di una politica comune sull’immigrazione e il rischio di sospendere provvisoriamente Schengen: tutte queste questioni aperte, e le dinamiche politiche che possono innescare, ci inducono a temere per il futuro del progetto europeo.
Chi può rompere questo stallo, questo equilibrio potenzialmente catastrofico? Sostiene Napolitano, con ottime ragioni, che solo chi sa vedere oltre le strette politiche nazionali, chi non si lascia incagliare nelle questioni locali, può vincere la battaglia europea e, quindi, anche quella nazionale. Non vi è modo per reagire a chi vuole rialzare muri e chiudere le frontiere se non portando il cuore oltre l’ostacolo, progettando una soluzione che non sia nè un ritorno al passato, con gli stati padroni (nani) in casa loro, ma nemmeno la persistenza dello status quo, magari per strappare con trattative nazionali un piccolo “parecchio”. L’Europa degli accordi intergovernativi che si è stabilizzata in questi anni di crisi rischia di aprire entrambi questi scenari, alimentando una voglia di secessione. Per contenere sul nascere questi esiti occorrerebbero grandi leader, visionari che sappiano convicere i loro cittadini e quelli europei che il vero utile nazionale si persegue con politiche anti-nazionaliste. Che si deve volere l’Europa per voler il bene delle proprie società nazionali.
L’Europa deve farsi politica, dunque; superare il livello intermedio dell’attuale costituzionalismo funzionale, indiretto e burocratico, per marcare il corso verso un costituzionalismo compiutamente politico, dove obiezioni e proposte possano godere di legittimità democratica. E che sia il presidente della Bce, Mario Draghi, a farsi propugnatore di questo salto oltre l’ostacolo, a suggerire una unione politica “più perfetta” come direbbero gli americani, a prospettare la necessità di una politica bancaria e fiscale europea, strada verso un governo continentale legittimo, rende pienamente il senso della situazione grave nella quale si trova il progetto di Ventotene. Non leader politici, ma un leader “tecnico”, responsabile di un potere neutro, sente l’urgenza di avviare un’innovazione istituzionale forte. L’Europa con un bilancio comune, con politiche fiscali comuni e cogenti, condizioni essenziali per una vera unione monetaria e bancaria: l’Europa come progetto federale.
Nell’Europa autoritaria e dei totalitarismi, nacque una visione politica e morale che aveva un respiro sovrannazionale. Il Manifesto di Ventotene rispecchiava quella visione assai fedelmente quando sosteneva che “il principio di libertà” é fondamento della società umana e la critica di “tutti quegli aspetti della società che non hanno rispettato quel principio”. In conseguenza di ciò dichiarava il nazionalismo degli Stati come il vero responsabile della Prima guerra mondiale e dell’imperialismo nazionalista che ne era seguito.
Il Manifesto sosteneva inoltre che senza il superamento della sovranità assoluta degli Stati la diseguaglianza economica e il nazionalismo avrebbero continuato ad essere un rischio per la pace, anche qualora gli stati europei fossero divenuti democratici. Fino a quando non fosse stata superata la prospettiva nazionalistica, non ci sarebbe stato futuro sicuro né per la pace né per la libertà.
Traducendo il paradigma di Kant in un programma politico, i visionari di Ventotene lanciavano il loro doppio progetto: una trasformazione democratica e costituzionale interna agli stati (che è avvenuta), e la creazione di una federazione europea (che stenta ancora a nascere).
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO".
Uno sguardo psicoanalitico sulla vita comune
L’ARROGANZA INCOMPIUTA DELL’OCCIDENTE
di Sarantis Thanopulos (PSYCHIATRY ON LINE 8 febbraio 2016)
La decisione del governo di Danimarca, condivisa dalla maggioranza dei danesi, di confiscare ai rifugiati i loro beni superiori al valore di circa 1350 euro, come contributo alle spese del loro mantenimento, qualche senso di colpa l’avrà provocato anche tra i suoi sostenitori.
Tuttavia, i sensi di colpa si inchinano sempre alla “forza maggiore” (le reazioni impulsive alle difficoltà) e sono assai utili nell’arredo dell’auto-assoluzione: se si diventa inumani per “necessità”, si torna umani con un po’ di dolore. Se le ferite che infliggiamo ai più deboli, sfociassero dentro di noi in un senso di vergogna, invece che di colpa, le cose nel mondo andrebbero meglio.
La vergogna è la trasformazione della ferita dell’altro in ferita del nostro amor proprio: ci umilia la sua umiliazione. L’incapacità di vergognarsi, di cui diamo prova ampia, è coperta con un principio considerato di buon senso: si deve rispettare la casa di cui si è ospiti perché l’ospitalità possa essere offerta. Questo non è chiaro come possa valere quando le relazioni di scambio e di buon vicinato sono sconvolte e mentre la casa gli uni la mantengono, gli altri l’hanno perduta. Le regole della buona educazione e del rispetto reciproco non valgono, quando le loro premesse sono sconvolte.
Gran parte dell’Occidente è tentata a far sentire la voce del padrone con i suoi ospiti: “A casa mia comando io”. Sennonché, le regole di gestione della propria casa non sono più valide, se cambia rapidamente la composizione di chi la abita e diventa anche confusa la distinzione tra interno e esterno. In queste condizioni, l’unica alternativa al caos e all’arbitrio è il principio della fraternità universale: tutte le persone sono pari sul piano del desiderio, indipendentemente dalla loro differenza sul piano dei bisogni, delle capacità fisiche e mentali, del sesso, delle scelte sessuali, della cultura, della religione e della concezione del mondo.
Ogni conflitto, derivante dalla differenza, può essere realmente risolto solo all’interno di questa prospettiva, che vede la differenza come condizione della persistenza e dell’appagamento del desiderio.
La differenza ci fa confliggere ma ci fa anche sentire desideranti e vivi.
A due condizioni:
a) che la differenza non sia confusa con l’estraneità, quando il più forte annienta il più debole che gli attraversa la strada;
b) che la differenza identitaria dell’uno non domini quella dell’altro, trasformando la loro coesistenza in annessione e sfruttamento. In entrambi i casi, la differenza di fatto svanisce: essa non ama la supremazia dell’uno sull’altro; cresce nell’eguaglianza.
L’occidente è convinto della supremazia dei suoi valori. La sua autoreferenzialità è contraddetta dal fatto che i valori fondamentali, dai quali emanano tutti gli altri (se non sono funzioni normative, strumentali), sono espressione della materia viva dell’umanità, non sono fabbricati da una cultura che li possiede.
Coloro a cui condizioni storico-culturali hanno consentito un miglior riconoscimento e inquadramento di questi valori, dovrebbero spogliarsi di ogni senso di superiorità e diffonderli con umiltà, rispettandoli nelle loro relazioni con gli altri.
La supremazia occidentale poggia su un potere economico, politico e militare che dei valori etici fa tranquillamente a meno.
È la grande contraddizione storica della democrazia: con l’esercizio del potere nelle sue relazioni esterne viola palesemente i principi della sua costituzione.
Manifestazione di un’ambiguità del suo funzionamento interno, incompiutezza che l’Atene di Pericle ha compensato con l’arroganza. Non è andata bene.
La tragedia dell’Illuminismo
La Rivoluzione francese fu la fine dell’età dei Lumi, non la sua consacrazione Robespierre ne eliminò gli uomini più lungimiranti e moderati, come Condorcet
di Vincenzo Ferrone (Il Sole-24 Ore, Domenica, 07.02.2016)
Che libro strano questo di Jonathan Israel sulla Rivoluzione francese. Con le sue quasi mille pagine esso appare tanto affascinante e provocatorio quanto discutibile - se non inaccettabile, a mio parere - nella sua tesi di fondo che «l’Illuminismo radicale fu incontrovertibilmente l’unica “grande” causa della Rivoluzione francese» (pag. 790).
Non v’è dubbio che Israel figuri in prima fila tra quanti hanno alimentato l’impetuoso e inevitabile rinnovamento della storiografia internazionale dopo il 1989 e la liquidazione dell’utopia comunista. Un rinnovamento che ha avuto il suo cuore pulsante soprattutto nel mondo di lingua inglese, e di cui, curiosamente, le motivazioni ideologiche e le forme che esso sta assumendo sono passate sotto silenzio in Europa.
Spetta infatti a questo autorevole professore dell’ Institute of Advanced Studies di Princeton il merito di aver riportato la questione dell’Illuminismo al centro del dibattito storiografico mondiale, facendone un tema che per interesse e ricchezza di risultati è secondo solo all’ormai affollatissimo settore di studi della Global History.
In tre monumentali volumi, Israel ha dato vita a una suggestiva e potente narrazione unitaria dell’Illuminismo come da tempo non si era più vista. Lo ha fatto con una sorta di ritorno al passato, coniugando polemicamente storia e filosofia contro la storia sociale, la storia economica di matrice marxista, la nascente storia culturale e quel poco che ancora restava in circolazione degli epigoni delle «Annales».
Israel reinterpreta i Lumi come la concreta realizzazione nel corso del Settecento di un sistema filosofico, di una coerente e specifica ideologia spinoziana fondata sul monismo razionale e materialistico e sull’ateismo di Spinoza, e nutrita della circolazione e della diffusione di un sistema di idee eversive, repubblicane e democratiche che aveva i suoi nemici naturali nelle monarchie e le religioni.
In questa prospettiva Israel divide, con tassonomica inflessibilità, gli illuministi buoni da quelli cattivi, gli atei dai deisti, i radicali dai moderati. Al Radical Enlightenment (titolo del suo primo volume sul tema, pubblicato nel 2001) rappresentato soprattutto da Helvetius, Diderot, d’Holbach, Condorcet - atei, anticlericali, fautori del repubblicanesimo, dei diritti umani, della democrazia rappresentativa - egli oppone una sorta di Illuminismo moderato, incarnato da Locke, Hume, Montesquieu, Voltaire, Turgot, Rousseau, fautori della religione naturale e del provvidenzialismo deista e “colpevoli” di posizioni politicamente conservatrici come l’assolutismo monarchico o il costituzionalismo inglese, o pericolose come la democrazia diretta celebrata dal grande ginevrino, padre spirituale di Robespierre e del Terrore.
Inutile dire che questa rigida rappresentazione di un Illuminismo radicale che vive di un legame organico tra il materialismo ateo e il radicalismo politico è stata duramente e giustamente contestata dalla critica. Per rimanere in Italia, come si fa a considerare un illuminista radicale quel Gaetano Filangieri che univa il costituzionalismo repubblicano e l’amore per i diritti dell’uomo alla militanza massonica e al credo deista? E che dire di Vico, addirittura segnalato come repubblicano e materialista?
Indomabile, impermeabile a ogni critica, Israel ora non esita a entrare con il suo teorema riduzionista nel terreno incandescente della Rivoluzione, rilanciando la vexata quaestio del nesso tra quest’ultima e i Lumi, nesso antico e tutto teleologico da tempo abbandonato dagli specialisti. Lo fa accusando tutti i protagonisti di un’ormai secolare storiografia - da Mathiez a Lefebvre a Soboul, sino a Furet - di non avere capito che la soluzione dell’enigma delle origini del 1789 non stava nello studio dei prezzi, o delle sollevazioni contadine o delle dinamiche di piazza, ma soprattutto se non esclusivamente nella storia intellettuale, nella potente «rivoluzione della mente» (per usare una sua espressione) prodotta dagli illuministi radicali. Inutile dire che l’Hegel della Fenomenologia dello spirito avrebbe sorriso vedendo finalmente confermata la sua tesi della Rivoluzione come frutto del pensiero; non lo hanno fatto, invece, gli studiosi americani, che hanno subito reagito alla provocazione con recensioni al curaro.
Israel ripercorre la Rivoluzione reinterpretandone i momenti cruciali, naturalmente a modo suo. Prende sul serio le tesi complottarde di Barruel e le accuse di Burke agli illuministi quali padri della Rivoluzione, salvo tacciarle di genericità per non aver distinto tra illuministi radicali e moderati. Ai primi, pochi, ma padroni dell’opinione pubblica attraverso i giornali, guidati da Mirabeau, Sieyès, Brissot, Condorcet, Israel attribuisce la leadership rivoluzionaria sino al 1793. Sono loro i veri fautori dei diritti dell’uomo (non i deisti alla Voltaire o alla Rousseau), i padri delle leggi per l’eversione dell’aristocrazia, la separazione tra Chiesa e Stato, l’eguaglianza di fronte alla legge, l’abrogazione della monarchia, l’abolizione della schiavitù, l’introduzione del divorzio.
Nei convulsi dibattiti sulla prima costituzione democratica del mondo, nel 1793, i radicali si scontrarono con gli illuministi moderati ispirati al modello britannico, e seguaci di Montesquieu, Voltaire, Hume; al tempo stesso ebbero contro da un lato i robespierristi, dall’altro i fautori del Contro-illuminismo ispirati ai valori dell’Antico Regime. Essi si batterono a favore dei diritti dell’uomo, poi brutalmente sospesi nel 1793-94 e progressivamente abbandonati tra il 1799 e il 1804, anno del ripristino della schiavitù da parte di Napoleone.
La narrazione, va detto, è avvincente. E tuttavia, a un’analisi attenta, essa risulta tanto suggestiva quando artificiosa. Israel sopravvaluta l’omogeneità, l’identità e quindi i successi del fronte radicale. Condorcet, il grande eroe del libro, presunto capo degli illuministi radicali, non era certo un ateo militante ma bensì un massone deista, lockiano e ammiratore di Voltaire e di Rousseau. Così come deista era Thomas Paine, l’autore dei Rights of Man che fondava i diritti nella religione naturale.
Del resto persino un indiscutibile materialista come d’Holbach preferiva parlare di doveri anziché di diritti dell’uomo, rendendo evidente come radicalismo filosofico e progressismo politico non andassero necessariamente accoppiati. La stessa Chiesa temeva e denunciava, più che gli atei materialisti, i deisti riformatori alla Voltaire; per Pio VI la Costituzione civile del clero era eretica e scismatica, non figlia dell’ateismo.
Si potrebbe continuare, ma sarebbe ingeneroso. Ad Israel spetta infatti il grande merito di aver raccontato per la prima volta quella che potremmo definire la tragedia dell’Illuminismo, la sua fine nel sangue al di là delle ipotizzate distinzioni al suo interno. Quel mondo, in tutte le sue componenti, fu infatti la prima vittima del Terrore, dell’odio di Marat e Robespierre e del cosiddetto «populismo autoritario» dei montagnardi per gli intellettuali, gli accademici e le élite. Giustiziati i massimi rappresentati dell’Illuminismo, fatti morire in carcere personaggi come Condorcet, la ghigliottina non risparmiò neppure le prime coraggiose femministe, teoriche dei diritti della donna, Olympe de Gouges e Madame Roland.
Il racconto di questa tragedia appare in queste pagine indignate una risposta forte anche a chi ha sempre voluto trasformare le vittime in carnefici invocando le presunte origini illuministiche del Terrore e condannando in blocco una Rivoluzione nata nel segno dei diritti dell’uomo e terminata con la dittatura di Napoleone, le Restaurazioni dell’Antico regime e la nascita dei primi egoismi nazionali.
Ma soprattutto queste pagine aprono di fatto una nuova stagione di studi sull’eredità dell’Illuminismo nella storia dell’Occidente: toccherà indagare, in futuro, sui cosiddetti Risorgimenti nazionali del XIX secolo, cui è estraneo il concetto di diritti dell’uomo, per comprendere davvero da dove veniamo. Di questo, al di là dei dissensi, dobbiamo essere grati alla fatica di Jonathan Israel.
Dai diritti dell’uomo al Terrore, una storia “intellettuale” che riporta in primo piano il ruolo di filosofi e ideologi
di Massimiliano Panarari (La Stampa, TuttoLibri, 06.02.2016)
Ci sono questioni che infiammano gli studiosi. Una di queste, ça va sans dire, riguarda la genesi e le «cause scatenanti» della Rivoluzione del 1789, il dibattito intorno alle quali è stato rilanciato da un monumentale volume ora pubblicato anche in Italia. La Rivoluzione francese. Una storia intellettuale dai Diritti dell’uomo a Robespierre di Jonathan Israel ha fatto esplodere in vari ambienti intellettuali una discussione furibonda e accesissima. Lo storico dell’Institute for Advanced Studies di Princeton propone infatti quello che, per molti versi, rappresenta un cambio di paradigma interpretativo, con l’obiettivo di rimettere al centro, in materia, la storia intellettuale e delle idee rispetto alla lunga egemonia di quella sociale. Una via alternativa (quarta assai più che terza...) tanto rispetto al nutrito filone marxista del passato che al revisionismo neoliberale di François Furet, e che configura una linea storiografica per la quale gli eventi rivoluzionari discesero in linea retta dall’Illuminismo. E, così facendo, in buona sostanza Israel individua nell’eredità dei Lumi il cuore autentico (e il «nocciolo duro») dell’identità culturale dell’Occidente, quel complesso di valori da mesi sotto attacco ferocissimo, stretto nella morsa a tenaglia di un rifiuto che viene dall’interno dei confini della nazione che l’ha partorito (il populismo del Front national) e di un mostruoso rigetto omicida che arriva dall’esterno, targato Isis e islamismo armato.
Analizzando nel dettaglio (attraverso nuovi documenti e la disamina approfondita degli Archives parlamentaires), e per centinaia di pagine, la battaglia culturale tra le fazioni e le «correnti» della Rivoluzione, Israel individua una filiazione diretta del suo lascito a partire dalle elaborazioni del «partito» degli illuministi radicali (tesi che caratterizza fortemente il suo lavoro da vari anni a questa parte). Un’avanguardia autentica, secondo lo studioso (che colloca nelle élites il motore fondamentale dei fatti rivoluzionari da cui venne scalzato l’Antico regime), coincidente con la componente del «parti des philosophes» (assai più che con l’ampia pattuglia di avvocati che finì per detenere la leadership politica, ma non culturale) accomunata sotto il profilo ideologico dal repubblicanesimo, da un anticlericalismo inflessibile (fondato quasi sempre sull’adesione al materialismo), dalla fiducia nell’empirismo e nella scienza e dalla strenua opposizione alla ripartizione dell’Assemblea nazionale secondo i tre ordini o «stati».
Un’ala giustappunto radicaleggiante dell’Illuminismo nella quale si riconosceva un gruppo variegato di personalità che andava dal «caposcuola» marchese di Condorcet (teorico della valenza democratica dei sistemi elettorali, nonché alfiere dei diritti delle donne e dell’emancipazione dei neri) al leader girondino Brissot, dall’idéologue conte di Volney al deputato Kersaint, dal direttore del Mercure national Robert al medico Lanthenas, dal giornalista (e «ghostwriter» di Mirabeau) Chamfort fino all’americano Thomas Paine (anch’egli eletto alla Convenzione) - gran parte dei quali ghigliottinati o imprigionati dal Terrore.
Alla base della loro visione si trovava l’idea dell’uguaglianza quale fondamento di un rinnovamento della politica, delle istituzioni e delle relazioni tra gli individui che prendeva la forma della nozione originalissima dei diritti umani fondamentali.
Nel libro di Israel siamo quindi marcatamente in presenza della concezione per cui sono le idee a muovere la storia, camminando sulle gambe degli uomini (e di varie donne che ebbero ruoli decisivi, dalle dame dei salotti anticamere della Rivoluzione sino a Olympe de Gouges), e circolando per mezzo del gran numero di pamphlet e giornali che, tra il 1787 e l’88, veicolarono una «nuova cultura politica».
Lo storico ritiene imprescindibile riconoscere l’esistenza di un dualismo costitutivo della Rivoluzione, in seno alla quale si confrontò sostanzialmente una coppia di prospettive antitetiche. L’una contro l’altra armate - la prima con le armi della critica e la seconda, invece, con una sanguinosissima critica delle armi - si fronteggiarono così la Rivoluzione della Ragione degli illuministi radicali e la Rivoluzione della Volontà dei robespierristi (incarnatasi nel russovismo giacobino istituzionalizzato nel dopo 1793 e di cui, insieme all’«Incorruttibile», erano capi Marat, Saint-Just e Hébert). Ambedue acerrime avversarie della terza anima - quella del moderatismo politico ispirato alle dottrine di Montesquieu e Voltaire, tra liberalismo monarchico e fascinazione per il «modello inglese» - ma orientate da visioni inconciliabili, che assumevano anche le forme del cosmopolitismo del parti de philosophie e del patriottismo xenofobo dei montagnardi. Insomma, secondo Israel, a dominare la scena rivoluzionaria fu il duello, mortale, tra l’Illuminismo radicale e il populismo dispotico. Echi di futuro...
il nuovo libro
La sfida di Lévy, parlare ai nemici
«È questo lo spirito dell’ebraismo»
Dall’Ucraina al Bangladesh, dal Ruanda alla Libia, il filosofo francese spiega perché ha sempre messo alla prova sul campo la sua visione morale
di STEFANO MONTEFIORI, corrispondente a Parigi (Corriere della Sera, 02.02.2016)
«In questo libro difendo l’umanesimo contro il comunitarismo. Sostengo che l’essere ebrei è rivolgersi agli altri uomini e mai restare chiusi in se stessi. Difendo una concezione aperta del giudaismo», dice al «Corriere» Bernard-Henri Lévy, alla vigilia dell’uscita in Francia del suo nuovo saggio L’esprit du judaïsme (Grasset). È un’opera filosofica e politica, un manifesto e un racconto personale. Sono 438 pagine che spiegano come sia stato inevitabile, per l’uomo che ha avuto la fortuna di conoscere Emmanuel Lévinas e diventarne allievo, sporcarsi le mani con la realtà. Difendere Israele, a partire dalla guerra dei Sei giorni fino a oggi. E accanto a questo, provare a modificare gli eventi e rifiutarsi di assistere all’orrore. Pensare, scrivere e agire, dal Bangladesh all’Ucraina, dal Darfur al Ruanda, dal Kurdistan alla Libia: cause teoricamente lontane, sentite come una chiamata individuale alla quale sarebbe stato illogico e ignobile resistere.
«Il personaggio centrale del mio volume è il profeta Giona, l’unico che non parla ai suoi, ma che si rivolge al popolo più lontano, il più ostile. Ed è questo il suo dovere. Il libro di Giona è il mio libro preferito all’interno dell’Antico Testamento. Quello che nei viaggi ho portato sempre con me». Giona predica agli abitanti di Ninive, la capitale corrotta dei nemici, gli Assiri, sui quali sta per abbattersi la punizione divina. Giona parla ai nemici, e li salva. Oggi Ninive è Mosul, cuore dell’Isis in Iraq. «Sono stato a Ninive - scrive Lévy - non una ma molte volte. E ho passato una parte non trascurabile della mia vita ad agire in favore di popoli che non erano i miei, la cui sorte avrebbe potuto essermi indifferente e che erano talvolta, in potenza o in atto, i nemici di chi io sono».
Oggi Ninive è anche la Libia. Nel 2011 Lévy si è impegnato di persona per convincere l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy a intervenire in favore dei ribelli, per evitare il bagno di sangue promesso da Gheddafi. I raid aerei dell’Occidente fermarono i carri armati che stavano per compiere un massacro a Bengasi, Gheddafi è stato ucciso, ma le speranze di una primavera libica sono andate tradite, il Paese è in preda all’espansione dello Stato islamico. Molti si indignano perché l’Occidente non è intervenuto in Siria e non ha salvato i siriani dalla furia di Assad, ma allo stesso tempo si rimpiange Gheddafi e la sua funzione stabilizzatrice. Si è pentito, Lévy, di avere aiutato i ribelli libici?
«No, non ho cambiato opinione su quel che ho fatto in Libia e quel che continuerò a fare per tutta la mia vita - risponde -. Lo scontro tra democratici e fondamentalisti, tra moderati e integralisti è la battaglia della nostra epoca. Bisogna fare tutto il possibile per appoggiare coloro che, con molto coraggio, si battono all’interno dell’Islam contro la sua versione mortifera». Lévy crede nell’universalità dei diritti dell’uomo: è il suo spirito del giudaismo. «Niente di quel che ho fatto l’avrei fatto - dice -, se non fossi stato ebreo».
*
Non credere ma capire
la missione degli ebrei
di BERNARD-HENRI LÉVY (Corriere della Sera, 3 febbraio 2016 )
Uno dei miei figli, cui faccio leggere qualche pagina di questo libro e che si meraviglia del mio modo di evocare, evitare, senza però invocarlo mai veramente, il nome del divino, mi pone la domanda che forse si porranno altri lettori: credi in Dio? A una domanda così diretta, rispondo altrettanto direttamente che non è lì il problema e che, in ogni caso, non si pone in quei termini.
Infatti, se tutto quello che ho scritto finora è, se non vero, almeno sensato, se il genio di Rashi, di Maimonide o di Giona somiglia a ciò che asserisco, se il Talmud è proprio quel getto di scintille che continuano a sfavillare fra coloro che hanno mantenuto il gusto di accostarsi alla parola di Mosè accantonata e riattivata a colpi di enigmi, di paradossi, di parole limpide o ingannevoli, di sensi costruiti o decostruiti, di enunciati ben articolati o bruscamente aberranti, allora tutto questo significa che gli Ebrei sono venuti al mondo meno per credere che per studiare; non per adorare, ma per comprendere; e significa che il più alto compito al quale li convocano i libri santi non è di ardere d’amore, né di estasiarsi davanti all’infinito, ma di sapere e di insegnare.
Ricordo i testi di Levinas che accompagnarono i miei primi passi e che insistevano sulla grande ostilità del pensiero ebraico al mistero, al sacro, alla mistica della presenza, alla religiosità. Ricordo i suoi ammonimenti, ripresi da Blanchot, contro il grande errore che sarebbe dare ai nostri doveri verso Dio la precedenza sugli obblighi verso gli altri, al punto di vista sull’etica, all’indiscrezione nei confronti del divino la precedenza sulla sollecitudine verso il prossimo. (...)
Maimonide parla di veridicità, non di convinzione religiosa. Dice o, piuttosto, sotto-intende che la conoscenza, e la conoscenza solamente, di questo presupposto è il primo dei comandamenti. Senza retorica, senza parola di scongiuro, magica o mistica, insiste che l’edificio dei mondi riposa su un sapere originario, un pensiero, un da’at, mai su una fede iniziale. (...)
E tutti i testi ebraici che conosco lo dicono e lo ripetono: l’uomo non può vedere e vivere; stare nello spazio e nel tempo significa condannare se stessi a non vedere colui che è fuori da questo spazio e da questo tempo; se lo si vedesse, se si rivelasse in un vero vedere, ecco che io stesso non sarei più né in questo spazio né in questo tempo.
Ma soprattutto, mai e poi mai si tratta di crederci. Mai, da nessuna parte, è pronunciato il «credo in unum Deum» richiesto da coloro ai quali si domanda se «credono in Dio». La verità è che tutta questa storia del credere riguarda un’altra storia, molto bella, intensamente intrecciata nei cuori e negli affetti: è la storia della «fede che salva» dei paolini. Ma non è la storia di chi insiste nel dirsi ebreo...
Il «credo quia absurdum», per esempio, la rinuncia a entrare nel mistero della tomba aperta il giorno di Pasqua che fa così bella la cieca preghiera di Agostino o di Claudel: nulla è più contrario alla non meno grande bellezza della volontà di capire che è al centro del giudaismo. (...)
Sono lontano, molto lontano dall’essere all’altezza del nome ebreo e del mio nome. Ma questo io so e ripeto un’ultima volta: non viene chiesto all’Ebreo, dal più istruito al più ignorante, dal più grande (che è anche il più piccolo) al più piccolo (che è anche il più grande) di «credere in Dio». Il riferirsi a Dio come credenza è il punto di inizio, l’atto di nascita della religione, voglio dire del cristianesimo: ma per l’Ebreo può essere un errore; infatti l’abbandonarsi al cuore, il ricorrere alla fede dei semplici in nome dell’impossibilità del sapere, è un modo di differire l’intellezione che è ciò per cui, ancora un volta, l’Ebreo è giunto.
E non significa offendere i cristiani, tutti i cristiani, quelli della comunione come quelli dell’amore per il debole, i cristiani della confessione come quelli del cuore, se ricordiamo che la loro teologia, nata da una relazione geniale e al tempo stesso tragica al testo ebraico e al suo uso non è il punto di partenza di tutti gli atteggiamenti umani e che ne resta uno, quello ebraico, che si ostina a dire questo: ciò che si sa, lo si sa; ciò che si sa e si conosce, non è necessario crederlo; e se lo si crede, significa che si è rinunciato a conoscerlo, che si è voluto guadagnare tempo, tentare un azzardo che abolisca non il caso, ma la necessità di ostinarsi nel pensiero: e questa impresa, questo salto al quale Pascal ha dato la carica esistenziale, emotiva, intellettuale più grande che si possa immaginare, questo salto che fece di lui un genio prodigioso e infelice, all’ebreo si chiede soprattutto di non compierlo. (traduzione di Daniela Maggioni)
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO: *
Un libro, una vita
Alessandro Pansa
Io, capo della Polizia, leggo Marcuse
di Stefano Brusadelli (Il Sole-24 Ore, Domenica, 31.01.2016)
«Marcuse aveva previsto tutto. Basta rileggere quello che scriveva cinquant’anni fa nell’Uomo a una dimensione. Secondo lui i soggetti rivoluzionari non sarebbero stati più gli appartenenti alla classe operaia, ormai integrati nel sistema, ma, cito testualmente “il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili. Essi permangono fuori dal processo democratico, la loro presenza prova quanto sia immediato e reale il bisogno di porre fine a condizioni e situazioni intollerabili. La loro opposizione è rivoluzionaria anche se non lo è la loro coscienza...“». Se una rivisitazione del filosofo-simbolo della contestazione sessantottina (e della lotta a qualsiasi potere costituito) è ormai doverosa, la circostanza che a incaricarsene sia Alessandro Pansa, il capo della Polizia, ma anche uomo di buone e vaste letture, dimostra quanto i libri siano il terreno più propizio per la contaminazione tra storie, esperienze e sensibilità diverse.
Pansa lesse per la prima volta L’uomo a una dimensione a 17 anni, all’immediata vigilia del ’68. E racconta che ne fu conquistato per due motivi. «Il primo è che sollevava il tema del cambiamento, avvertito fortemente da tutta la mia generazione. Il secondo era che indicava tale prospettiva fuori dal marxismo, che veniva anzi criticato. Una sorta di riscatto per chi, come me, era tra i pochi non marxisti fra i suoi coetanei. Rilessi il libro molti anni più tardi, nel 2003, quando divenni capo della Direzione per l’Immigrazione, e mi stupì non solo l’esattezza della sua previsione sulla potenzialità eversiva dell’immigrazione, ma anche la diagnosi sulla non neutralità delle tecnologie, sul loro ruolo di strumento di dominio sugli esseri umani. E tutto questo, scritto a metà degli anni ’60, quando i profughi non arrivavano in Occidente a milioni e internet ancora non esisteva!».
Nella mente del capo della Polizia, l’antica suggestione del cambiamento, da lui inteso come costruzione di un sistema in cui il maggior numero possibile di esigenze individuali riescano ad essere soddisfatte, non ha mai cessato di operare. Ed è a causa di quella fascinazione, del resto, che ha deciso di parlare dell’Uomo a una dimensione come del libro della sua vita.
Ma da questo punto di vista il pensiero di Marcuse, sia pure così acuto per altri versi, gli è sempre apparso monco, se non contraddittorio. «La trasformazione sociale e politica non può verificarsi nel modo da lui prospettato, perché la liberazione di ogni tipo di istanze individuali non produce mai un interesse collettivo, bensì anarchia. Dunque deve essere sempre un’autorità ad assicurare questo riequilibrio tra esigenze singole e collettive. E tale operazione, tutt’altro che facile, può avvenire solo per l’azione di un personaggio capace di cambiare la storia stando però con i piedi dentro la storia».
A questo proposito Pansa cita un’altra lettura giovanile che è stata per lui molto importante. Si tratta de Gli eroi, pubblicato al filosofo scozzese Thomas Carlyle nel 1841. Una galleria di grandi figure (da Odino a Napoleone passando per Dante, Rousseau, Cromwell) che hanno saputo cambiare il loro tempo. «In quei ritratti ho sempre scorto l’identikit ideale dei leader. Non superuomini alla Nietzsche, collocati sopra il resto del genere umano e sprezzanti verso di esso, ma figli del loro tempo capaci di agire con la forza delle idee e dell’esempio. Una categoria nella quale oggi potremmo annoverare personaggi come Gorbaciov, Bill Gates, Papa Francesco. Capaci di rompere un ordine e passare a un altro, più soddisfacente per un maggiore numero di esseri umani, e senza fare uso della violenza. Sono in fin dei conti sempre gli uomini il vero motore della storia».
Domando se tale aspirazione al mutamento non finisca coll’essere in contraddizione con il suo ruolo di tutore dell’ordine costituito. «No, non lo credo, perchè il mio compito è quello di garantire a tutti di esprimere liberamente le proprie esigenze, e di consentire a quelle che poi risulteranno più condivise di potere prevalere».
Pansa, che tiene sul comodino i Pensieri di Pascal, ha fatto ricorso a un metodo innovativo per rintracciare i libri disposti anche su tre file sugli scaffali. Li ha catalogati in modo tale che aprendo su uno schermo la foto della sua biblioteca si ottiene un’immediata localizzazione di ciascun volume.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
SCUOLA DI FRANCOFORTE. Teoria critica....
MARCUSE. Herbert Marcuse, il filosofo mito del ’68: un’eredità controversa. Una riflessione di Gian Enrico Rusconi
FILOSOFIA E MESSAGGIO EVANGELICO. IL MONITO DI PASCAL A SERGIO GIVONE
L’Occidente tedesco di Heidegger lasciava sempre fuori gli ebrei
Tradotto da Bompiani il secondo volume dei «Quaderni neri», con i taccuini scritti tra il 1938 e il 1939. Una visione della civiltà occidentale che mette al centro la Germania
di DONATELLA DI CESARE (Corriere della Sera, 29.01.2016)
È uscito in questi giorni, nell’eccellente traduzione di Alessandra Iadicicco, il secondo volume dei Quaderni neri di Martin Heidegger (Bompiani) in cui sono comprese le Riflessioni che vanno dal 1938 al 1939. Alle quasi 700 pagine del primo volume si aggiungono così altre 584 pagine: una sfida per i lettori italiani, ma anche un monito. Perché sarebbe doveroso affrontare il testo in modo critico, prima di emettere giudizi sbrigativi o di lasciarsi andare a facili scoop.
L’ultimo è quello lanciato dal giornalista tedesco Thomas Vašek, e ripreso da Angelo Bolaffi («la Repubblica», 4 gennaio), secondo cui Heidegger non sarebbe che un epigono di Julius Evola e del suo razzismo. La prova flagrante sarebbe un fantomatico foglietto, di poche righe e di oscura provenienza, che potrebbe, tutt’al più, essere un appunto. Per i tedeschi un bel modo, certo, per scaricare sugli altri responsabilità proprie. Sì, perché il nazismo non è stato il fascismo. E soprattutto perché l’antisemitismo metafisico di Heidegger non è riducibile al razzismo tradizionale. D’altra parte l’aggettivo «metafisico» non mitiga l’antisemitismo, bensì ne indica la gravità abissale. L’antisemitismo metafisico di Heidegger ha una provenienza teologica, una intenzione politica, un rango filosofico.
Se deleteri sono, per un serio dibatto, i vuoti scoop, esiziali sono gli interventi dei «negazionisti» dell’ultima ora, quelli che pretenderebbero di cancellare con una spugna i passi antisemiti. Come se Heidegger non parlasse di Verjudung o di Weltjudentum, cioè di «ebraizzazione» e di «ebraismo mondiale» - termini non neutri, né casuali. Nei Quaderni neri vengono mosse, d’altronde, accuse precise: privi di suolo, di fondo, di fondamento, gli ebrei sono gli sradicati agenti dell’accelerazione, della tecnicizzazione del pianeta, della desertificazione della terra. Ma soprattutto gli ebrei sono la figura della fine che si ripete, impedendo al popolo tedesco di risalire al mattino dell’Occidente.
Proprio l’Occidente è uno dei grandi temi del secondo volume dei Quaderni neri. Il tedesco Abendland rende bene ciò che l’etimologia suggerisce: l’Occidente è la «terra della sera», il Paese dove sembra che il sole vada declinando. Dalla prospettiva dei greci - s’intende. Sono allora le coste dell’Esperia, dell’Italia odierna, quelle dove il sole pare quasi inabissarsi nel mare. Ma non si deve fraintendere: per Heidegger l’Occidente non è un luogo geografico, né un sistema di valori, bensì un’epoca nella storia del mondo. E gli esperii sono quelli venuti tardi e dopo - rispetto ai greci. L’inizio dell’Occidente è greco. Non è possibile, perciò, alcuna meditazione sul mondo occidentale senza un confronto con quel primo inizio greco. Il che poi vuol dire riprendere il filo della «filosofia» che costituisce la trama segreta della storia occidentale.
Sebbene l’Occidente sembrasse sprofondare nel nulla del nichilismo europeo, non si trattava di un tramonto, Untergang - secondo la famosa profezia di Spengler - bensì di un passaggio, Übergang. Il buio di quell’epoca, al termine degli anni Trenta, è considerato da Heidegger non come l’oscurità della fine, ma come lo spegnersi dell’ultimo lume della sera che avrebbe permesso di scorgere l’albore del mattino. Non si poteva, certo, resuscitare il primo inizio greco; ma si doveva attraversare sino in fondo la lunga notte dell’Essere, per risalire, oltre la metafisica, quella perversa malattia dell’Occidente, a un «altro inizio». La Terra della Sera avrebbe dovuto risvegliarsi a una nuova, dorata alba, scoprirsi Terra del Mattino.
Chi avrebbe potuto scorgere il passaggio, là dove tutti vedevano un crollo ineluttabile? Chi poteva seguire la strada della fine, per imboccare il sentiero dell’inizio? Solo i tedeschi. Il destino dell’Occidente, la sua «salvezza» era nelle loro mani. I tedeschi avrebbero dovuto essere gli Übergehenden, «coloro che passano oltre», che aprono un varco anche per gli altri popoli europei. Ecco il loro compito.
«Tutto il «sangue», tutta la «razza», ogni «carattere nazionale» è inutile, e solo un decorso cieco, se non vibra già in un azzardo dell’Essere». Più volte Heidegger si chiede: «Dove sono finiti i tedeschi?». La decisione a cui li richiama è filosofica: tra il sonno dell’uomo occidentale, immerso negli enti, e il risveglio all’Essere.
Ma non per questo i termini sono meno gravi. Nell’epoca della fine il rischio non sarebbe solo la vittoria della metafisica ma anche, per quel legame di complicità che li lega, la vittoria dell’ebraismo. Vincerebbe allora «la più grande assenza di suolo che, a nulla vincolata, tutto quanto si asservisce (l’ebraismo)». Già nel 1938, all’indomani della Notte dei cristalli, Heidegger parla di «battaglia», e non esita a individuare nell’Ebreo il nemico metafisico che impedisce ai tedeschi l’accesso all’altro inizio. Il tratto greco-tedesco lascia fuori gli ebrei, l’asse dell’Essere li esclude. Per loro - questo è il verdetto - non c’è spazio nella topografia dell’Occidente.
Il sorpasso in magistratura, ci sono più donne che uomini
Il procuratore generale della Cassazione: hanno raggiunto il 50,7 per cento. Il cambiamento più significativo nelle nomine agli incarichi direttivi
di FRANCESCO GRIGNETTI (La Stampa, 29/01/2016)
ROMA Alla notizia non è stata data l’enfasi che meritava, eppure è possibile leggerla nella relazione del procuratore generale della Cassazione, sua eccellenza Pasquale Ciccolo: «Rispetto agli anni precedenti - scrive - nella popolazione dei magistrati in servizio si ribalta il rapporto tra uomo e donna, pur rimanendo attorno alla parità: 50,7% di donne, e 49,3% di uomini».
È una piccola grande rivoluzione. Alle donne, come ricordava qualche tempo fa a un convegno la presidente dell’Associazione donne magistrato italiane, Carla Marina Lendaro, è stato aperto l’accesso in magistratura appena 50 anni fa. Perciò fecero una festa in Cassazione «per ricordare quelle prime otto temerarie - diceva Lendaro - che affrontarono, vincendolo, il duro primo concorso del 1965».
Molta acqua nel frattempo è passata sotto i ponti. Da qualche anno, al concorso per magistratura le donne stracciano regolarmente gli uomini. È una donna il capo dell’ufficio degli ispettori ministeriali, Elisabetta Cesqui. Ci sono due donne nel consiglio direttivo della Scuola superiore della magistratura. Sono molte le donne ai vertici delle correnti della magistratura associata. Ed è lontano il tempo in cui le (poche) donne che entravano in magistratura finivano confinate nella riserva indiana della giustizia minorile.
LA SVOLTA
Delle 252 nomine fatte dal Consiglio superiore della magistratura negli ultimi 15 mesi sotto l’impulso del vicepresidente Giovanni Legnini, se si guarda agli incarichi direttivi si vede che 101 sono uomini e 25 sono donne; se si esaminano i vicedirettivi, 83 sono uomini e 43 sono donne. Il cambiamento dei vertici della magistratura è in effetti una mezza rivoluzione. «Un passaggio storico e un’autentica palingenesi», lo definisce Legnini.
Il cambio di rotta - più donne, più giovani, più attenzione al merito - ha del clamoroso per un mondo tradizionalista come quello delle toghe. Diceva ieri il ministro Andrea Orlando intervenendo all’inaugurazione dell’Anno giudiziario: «Si sta rompendo il tetto di cristallo che impediva alle donne l’accesso alla guida degli uffici giudiziari. Dobbiamo andare avanti su questa strada partendo dal dato che vede ormai un sostanziale equilibrio di genere nella composizione della magistratura».
Evidentemente stanno meritando i loro successi, le donne in toga. C’è un’altra statistica fondamentale nella relazione del procuratore generale, in una materia che gli compete strettamente: se uomini e donne in magistratura sono in numero pressoché uguale, salta però agli occhi che i magistrati oggetto di procedimenti disciplinare sono al 69,2% uomini e 30,8% donne. A controprova di come sia aumentato il peso specifico femminile in magistratura, però, c’è anche un caso negativo. È una donna, infatti, anche la protagonista della vicenda più dolorosa che la magistratura sta vivendo: l’ex presidente delle Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, indagata dai colleghi di Caltanissetta per un uso spregiudicato dei beni confiscati alla mafia, sospesa dal Csm. Guarda caso, ha trascinato nello scandalo anche due prefette, amiche sue. Uno scandalo, quello di Palermo, tutto in rosa.
Secondo il filosofo tedesco, dopo Auschwitz la trascendenza non offre piú all’immanenza alcun significato. Auschwitz ha lo stesso effetto nel campo del sociale che il terremoto di Lisbona ha avuto nel campo dei fenomeni naturali. La malvagità umana ha realizzato “l’inferno reale”.
Th. W. Adorno, Dialettica negativa
Non è piú possibile affermare che l’immutabile sia verità e il mosso apparenza caduca, l’indifferenza reciproca del temporale e delle idee eterne, neppure con il pretesto hegeliano che l’esistenza temporale serva - grazie all’annientamento implicito nel suo concetto - all’eterno, che si presenta nell’eternità dell’annientamento.
Uno degli impulsi mistici, secolarizzato nella dialettica, fu la dottrina della rilevanza dell’intramondano, storico per ciò che la metafisica tradizionale privilegiava come trascendenza, o almeno, detto meno gnosticamente e radicalmente, per la posizione della coscienza rispetto ai problemi che il canone filosofico assegnava alla metafisica.
L’impressione che, dopo Auschwitz, si ribella ad ogni affermazione di positività dell’esistenza come una consolazione a poco prezzo, ingiustizia nei confronti delle vittime, la resistenza contro la possibilità di spremere dal loro destino un qualche senso per quanto esiguo, ha un suo momento oggettivo dopo eventi che ridicolizzano la costruzione di un senso dell’immanenza, irraggiato dalla trascendenza posta affermativamente. Una tale costruzione affermò la negatività assoluta e collaborò ideologicamente alla sua persistenza, che comunque è realmente implicita nel principio della società esistente fino alla sua autodistruzione.
Il terremoto di Lisbona, fu sufficiente per guarire Voltaire dalla teodicea leibniziana, e la catastrofe ancora comprensibile della prima natura fu minima confrontata con la seconda, sociale, che si sottrae all’immaginazione umana, preparando l’inferno reale sulla base della malvagità umana.
La capacità alla metafisica è paralizzata perché ciò che è successo ha mandato a pezzi la base dell’unificabilità del pensiero speculativo metafisico con l’esperienza. Ancora una volta trionfa, indicibilmente, il motivo dialettico del rovesciarsi della quantità in qualità.
La morte, con l’assassinio burocratico di milioni di persone, è diventata qualcosa che non era mai stata tanto da temere. Non c’è piú alcuna possibilità che essa entri nella vita vissuta dei singoli come un qualcosa che concordi con il suo corso. L’individuo viene spossessato dell’ultima e piú misera cosa che gli era rimasta. Poiché nei campi di concentramento non moriva piú l’individuo, ma l’esemplare, il morire deve attaccarsi anche a quelli sfuggiti a tale misura. Il genocidio è l’integrazione assoluta che si prepara ovunque, dove uomini vengono omogeneizzati, “scafati” - come si dice in gergo militare - finché li si estirpa letteralmente, deviazioni dal concetto della loro completa nullità. Auschwitz conferma la norma filosofica della pura identità come morte.
Th. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino, 1975, pagg. 326-327
Dopo Auschwitz, Hitler ci costringe ad impegnarci con tutte le nostre forze per fare in modo che ciò che è avvenuto non possa ripetersi. Questo è diventato l’“imperativo categorico” della nostra epoca. Auschwitz dimostra inconfutabilmente il fallimento della cultura e dell’interpretazione illuminista della storia. Ma la negazione della cultura non è una soluzione. Neppure il silenzio.
Th. W. Adorno, Dialettica negativa
Hitler ha imposto agli uomini nello stato della loro illibertà un nuovo imperativo categorico: organizzare il loro agire e pensare in modo che Auschwitz non si ripeta, non succeda niente di simile. Questo imperativo è tanto resistente alla sua fondazione quanto una volta la datità di quello kantiano.
[...].
Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura. Il fatto che potesse succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte e delle scienze illuministiche, dice molto di piú che essa, lo spirito, non sia riuscito a raggiungere e modificare gli uomini. In quelle regioni stesse con la loro pretesa enfatica di autarchia, sta di casa la non verità.
Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura. Poiché essa si è restaurata dopo quel che è successo nel suo paesaggio senza resistenza, è diventata completamente ideologia, quale potenzialmente era dopo che, in opposizione all’esistenza materiale, presunse di soffiarle la luce, offertale dalla divisione tra lavoro corporale e spirito.
Chi parla per la conservazione della cultura radicalmente colpevole e miserevole diventa collaborazionista, mentre chi si nega alla cultura, favorisce immediatamente la barbarie, quale si è rivelata essere la cultura. Neppure il silenzio fa uscire dal circolo vizioso: esso razionalizza soltanto la propria incapacità soggettiva con lo stato di verità oggettiva e cosí la degrada ancora una volta a menzogna.
Th. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino, 1975, pagg. 330-331
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FONTE: FILOSOFICO.NET
I guardiani del Leviatano sovranazionale
di Dario Melossi (il manifesto, 19 gennaio 2016)
Difficile pensare ad un libro più «topico» di questo appena apparso di Giuseppe Campesi, Polizia della Frontiera. Frontex e la produzione dello spazio europeo (DeriveApprodi, pp.236, euro 17), specialmente perché tratta di questioni delle quali quotidianamente leggiamo e vediamo nelle news.
Sembra essere in corso un tentativo di revisione della struttura, compiti e ruolo della «Guardia di frontiera europea» o come la si vorrà chiamare. Campesi ci fa vedere come Frontex costituisca un osservatorio privilegiato dal quale scrutnare in realtà il complesso della costruzione europea. Se ciò che è in gioco, come egli propone, è la costruzione di «uno spazio politico europeo», tramite la designazione dei «confini» (borders) di questo spazio, la questione che è lecito porsi, e che Campesi pone nelle prime pagine del suo testo è: per cosa sta tale «spazio»? Di quale spazio si tratta?
Campesi è assai cauto nel rispondere che questo è lo spazio di una sorta di «superStato» o forse meglio tout court di uno Stato federale europeo «in formazione». E che, così come per altri concetti fondamentali della convivenza politica, cittadinanza, fiscalità, forza, democrazia, anche per lo «spazio» si pone la questione di cosa significhi che esso è «europeo». -In particolare, se ciò significhi semplicemente che si tratta dello spazio-somma di 28 (per il momento) spazi nazionali oppure se sia qualcosa di più e di diverso. Al fine di rispondere a questa domanda di fondo Campesi ripercorre prima la genealogia della costruzione dell’organizzazione il cui agire dà vita a questo spazio, Frontex appunto, e poi quella che ne potremmo definire la fenomenologia.
Frontex è quindi un «capitolo fondamentale della costituzione materiale d’Europa», che ha dato vita ad uno spazio europeo della sicurezza. Tale spazio costituisce un aspetto cruciale di quell’animale burocratico-amministrativo che verrebbe voglia di chiamare il Leviatano europeo. E che, così come il Leviatano di Hobbes prendeva forma - si veda il bel saggio di Carlo Ginzburg nel suo recente Paura reverenza terrore - dalla paura della moltitudine di soggetti che gli conferiva vita, così anche la sua nuova versione «europea» sembra essere sospinta da una sorta di mantra ripetuto incessantemente in decine di documenti, trattati e convenzioni, quello della lotta contro «il terrorismo, il crimine organizzato e l’immigrazione illegale». -Si ripete qui, naturalmente, una storia che abbiamo già vista, nel corso del ventesimo secolo, sull’altra costa dell’Atlantico, laddove il sorgere delle «polizie federali», in primis l’Fbi, si nutrì della lotta contro anarchici e «tratta delle bianche» negli anni Venti del Novecento, «gangsters» come John Dillinger negli anni Trenta, comunismo negli anni della guerra fredda e infine pericolosi sovversivi, soprattutto il «Partito delle Pantere Nere», negli anni Settanta.
Sino ad oggi, secondo Campesi, il ruolo di Frontex veniva individuato in una produzione di conoscenza, a beneficio degli stati membri e delle loro forze di sicurezza, che si basava innanzitutto sulla individuazione di elementi di rischio. -Particolarmente efficaci appaiono le pagine di Campesi ove egli spiega come il problema centrale di Frontex stia nel contemperare e bilanciare l’imperativo neoliberale di aprire, rendere fluidi, e quasi inesistenti, i confini, e presidiare al tempo stesso la sicurezza della società neoliberale. A ciò si è finora risposto con la politica definita, sulla scorta della leadership nordamericana, degli «smart borders». I confini sono «intelligenti» quando riescono a capire - preferibilmente in 12 secondi - se l’individuo che chiede di transitare dal confine corrisponda o meno ad un profilo prestabilito di pericolosità.
Profilo che si basa sull’incrocio delle informazioni provenienti da un numero sempre crescente di banche dati (di qui, ad esempio, il dibattito attuale tra chi vorrebbe estendere in modo ancora più universale l’acquisizione di dati, come nel caso del Pnr e i difensori invece della privacy dei viaggiatori).
Dopo gli attentati di Parigi, tuttavia, tendenze già presenti da tempo ma che erano state tenute a bada da una coalizione mista di euroscettici e difensori della privacy, sembrano essere emerse con maggiore aggressività, e il processo di costruzione della sagoma del Leviatano europeo sembra avere fatto passi avanti, al punto di prospettare addirittura la trasformazione di Frontex in una opportunamente denominata polizia, o guardia, o agenzia europea di frontiera, in grado anche di imporsi alle forze di sicurezza nazionali se queste sembrassero esitare nell’affrontare i compiti che l’Ue, come interpretata da Frontex, ha loro imposto. Tutta la tematica della creazione dei cosiddetti «Hotspots», che si dovrebbero accompagnare - ma qui, guarda caso, la «volontà europea» sembra vacillare assai - ad un superamento delle «regole di Dublino», è legata a tale impostazione. In luoghi come Lampedusa, Pozzallo, o Lesbo, l’iniziale registrazione dei rifugiati dovrebbe avvenire, si dice, anche a costo di usare la forza, sotto l’occhio vigile di «guardie europee» che non si capisce se siano più interessate a ispezionare i migranti o coloro che li devono registrare.
C’è infatti una curiosa ironia - verrebbe da chiamarla ironia se non si trattasse della vita e del destino di milioni di persone! - in ciò che è accaduto alle frontiere meridionali d’Europa negli ultimi due anni e cioè che la sostanziale «devianza» di migranti e rifugiati - devianza rispetto a quello che dovrebbe essere l’«ordinato svolgersi» degli spostamenti da un paese all’altro, e che nel caso dei rifugiati non ha alcun modo di svolgersi in maniera ordinata in quanto non esiste «visto» per i rifugiati e quindi chi voglia sottrarsi ai pericoli sulla propria persona e sulla persona dei propri famigliari lo può fare solamente in modo eslege, al di fuori della legge - tale devianza, insomma, si è magicamente comunicata agli stessi organi di vigilanza e di sicurezza delle nazioni presidianti i confini i quali hanno finito per assecondare la volontà di centinaia di migliaia di rifugiati di cercare di trasferirsi verso quelle zone d’Europa che essi, a torto o a ragione, ritenevano più accoglienti.
In pratica, ciò ha significato la creazione di vie di fuga analoghe a quelle che, ai tempi della lotta antischiavista negli Stati Uniti antebellum, si chiamavano underground railroad. I cosiddetti «trafficanti di esseri umani» non fanno infatti che fornire, per un prezzo, un servizio che gli aspiranti rifugiati richiedono, nella assoluta assenza di alternative, sacrificati sull’altare del nuovo Moloch della «legalità». Non vi è dubbio che il bel libro di Giuseppe Campesi abbia dato un contributo importante alla critica della costruzione del Leviatano europeo, critica che fa tutt’uno con l’emergere di un reale processo di costruzione della democrazia europea. Anche per questo ci auguriamo che venga al più presto tradotto in inglese e nelle altre lingue dell’Unione.
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di Frediano Sessi (Corriere della Sera, 25.01.2016)
Nel riscrivere buona parte di alcuni capitoli del suo importante saggio Heidegger e gli ebrei. I «Quaderni neri» per la nuova edizione appena uscita (Bollati Boringhieri, pagine 367, e 20), Donatella Di Cesare si rivolge al lettore in modo appassionato: «Spero che questo libro venga giudicato solo dopo essere stato letto davvero sino alla fine». E aggiunge, quasi a citazione di un pensiero che Primo Levi aveva consegnato al suo saggio I sommersi e i salvati : «In questo tempo la complessità è mal sopportata». Levi, che dovrà lottare contro grumi e mucchi di fraintendimenti, scriveva che se il nostro desiderio di semplificazione è giustificato, «la semplificazione non sempre lo è». Lui era arrivato a porre l’attenzione sulla condizione della vittima che collabora al male, rifiutando ogni visione manichea delle parti in causa nei lager.
Con il saggio Heidegger e gli ebrei, l’autrice si allontana da facili giudizi o ricostruzioni storiche, anche dotte, dell’opera heideggeriana che hanno animato il dibattito di questi anni. Proprio lo scavo in profondità è l’essenza del lavoro della Di Cesare. E qui, complessità e approfondimento non vogliono dire difficoltà di lettura, o linguaggio oscuro. Il saggio della filosofa romana (allieva di Hans-Georg Gadamer ed ex vicepresidente della Martin Heidegger-Gesellschaft, l’associazione tedesca dedicata al filosofo) è di grande leggibilità e chiarezza. Tanto che si presta a una lettura agevole sia da parte di giovani e insegnanti non specialisti; sia da parte di coloro che si propongono lavori di ricerca.
Magistrale l’analisi dei rapporti tra il Mein Kampf di Hitler, ora ripubblicato anche in Germania, e i suoi echi e fondamenti filosofici e politici, da cui emerge un razzismo non solo biologico, ma culturale; importante e acuta la discesa nel pensiero filosofico tedesco e i suoi legami con l’antisemitismo.
Senza equivoci poi le parole sulla posizione di Heidegger: «Fa corpo con il popolo tedesco. Non c’è traccia di distanza, neppure di fronte alle prove dei crimini». Siamo nel capitolo del libro intitolato «Dopo Auschwitz». Donatella Di Cesare è ferma nel sostenere che c’è una evidente continuità tra i Quaderni neri heideggeriani (vale a dire gli appunti personali del filosofo tedesco) e la sua opera.
Ed ecco uno dei punti di snodo: l’antisemitismo di Heidegger è più che altro metafisico, ontologico (vale a dire all’origine delle cose, radicale). L’ebreo sarebbe estraneo alla storia dell’Occidente, una specie di artefatto che costituisce un impedimento alla storia dell’Essere. In concreto, per Heidegger gli ebrei sono un nulla e allo stato del nulla vanno riportati, anche senza dignità, senza rito funebre, senza sepoltura, facendo scomparire i loro cadaveri, come fecero in concreto i nazisti, non mai accusati di errore e orrore da Heidegger.
Auschwitz allora che cosa è se non la fabbrica dei cadaveri, l’elogio della tecnica della distruzione? Proprio qui, Heidegger vede nello sterminio una sorta di autoannientamento. La Shoah avrebbe allora un ruolo decisivo nella storia dell’Essere, perché, coincidendo con il compimento della tecnica, consuma se stessa e l’ebreo che ne è il motore.
Da parte di Heidegger non ci sono colpe da dichiarare, perché in realtà sono i tedeschi le vittime, «contro di loro è stato compiuto il vero incommensurabile crimine». «Nessuna pietà né del pensiero né del sentire», perché ancora non si guarda «alle vere vittime che si sono offerte in sacrificio per la salvezza dell’Occidente».
Heidegger si chiama così fuori da ogni responsabilità e chiama fuori il popolo tedesco, per lui vera vittima della vergogna e dell’infamia.
Sotto il segno di Copernico
Una splendida edizione critica dell’«opera-mondo» che rivoluzionò l’astronomia e l’umanità.
La Chiesa l’avrebbe condannata nel 1616, ma l’autore fu incoraggiato a uscire allo scoperto dal cattolico Nicolas Schönberg
di Massimo Bucciantini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 24.01.2016)
Il 21 marzo 1543 Sébastien Kurtz, agente dei banchieri Fugger alla corte imperiale, informava Carlo V dell’imminente pubblicazione a Norimberga di un libro che certamente lo avrebbe incuriosito: «Niccolò Copernico, matematico, ha dato in questi giorni alle stampe sei libri de Revolutionibus orbium coelestium. E si tratta di una cosa non meno meravigliosa che nuova, e mai vista, né intesa, né pensata, che il Sole sarebbe il centro di tutto e che non si muove come si è sempre creduto, e che il nostro mondo si muove sullo zodiaco esattamente come fino a oggi ha fatto il Sole». Kurtz, che conosceva la passione per l’astronomia dell’imperatore, decideva di inviargliene un esemplare, convinto che sarebbe stato felice di apprendere la nuova concezione del mondo «di questo autore che molti matematici lodano» e attraverso la quale «si spiegano più facilmente tutti i movimenti del cielo».
Che fine abbia fatto quella copia non è noto. Nella Biblioteca San Lorenzo dell’Escorial si trova una prima edizione del De revolutionibus, ma non si tratta della copia spedita all’imperatore, bensì di quella acquisita nel 1545 dal figlio Filippo II. Né si sa, e sarebbe cosa più importante, se Carlo V lesse mai il libro. A cominciare da quell’anonimo Avvertimento al lettore che - come osservò Tiedemann Giese, vescovo di Culm e amico fraterno di Copernico - tradiva completamente il pensiero dell’autore.
Giese fu il primo a denunciare quel “crimine”, che trasformava l’indagine su un universo considerato vero e reale in un’ingegnosa ma fittizia ipotesi matematica introdotta al semplice scopo di salvare le apparenze dei movimenti celesti. Si sbagliava solo su un punto: ne addossò la responsabilità allo stampatore Johannes Petreius invece che al teologo luterano Andreas Osiander. Per il resto aveva visto giusto, tanto che nel difendere l’onorabilità dell’amico appena scomparso si rivolse perfino al Senato di Norimberga. All’insaputa dell’autore era stata compiuta un’operazione indegna, che svuotava di significato una vita spesa a «osare d’immaginare qualche movimento della Terra, contro l’opinione universalmente accolta dai matematici e contro il senso comune».
Una vera e propria impostura che contraddiceva la nova ratio mundi ricercata ossessivamente da Copernico e che, nella prefazione a Paolo III, gli faceva dichiarare in modo solenne: «quanto più assurda apparirà ora la mia dottrina sul movimento della Terra, tanta maggiore ammirazione e gratitudine riceverà una volta che si sarà vista l’edizione dei miei commentari in cui le tenebre delle assurdità saranno dissolte con chiarissime dimostrazioni».
Nessuno prima di lui aveva accettato di correre un simile rischio. A nessuno era mai venuto in mente di realizzare un progetto così ambizioso e al tempo stesso considerato dai suoi contemporanei così assurdo. Da solo, per giunta, e in un momento per tanti versi ostile ad accogliere tali novità Copernico confezionò un libro che - per riprendere una fortunata immagine di Franco Moretti - è davvero un’opera-mondo. Che fin da subito venne etichettato come il nuovo Almagesto. E il suo autore come un nuovo Tolomeo. E come quest’ultimo sarebbe diventato altrettanto grande, anzi più grande ancora, a tal punto che toccò a lui, dopo quattrodici secoli di incontrastato dominio, decretarne l’inesorabile tramonto.
Sotto il segno della grandezza va inscritto anche questo lavoro appena uscito. Senza retorica va detto che oggi Copernico ha finalmente trovato una “casa” degna della sua straordinaria impresa. Grazie a questa edizione - frutto di anni di studio da parte di un gruppo di specialisti nel campo dell’astronomia, della matematica, della filologia, della storia e della filosofia coordinato da Michel-Pierre Lerner, Alain-Philippe Segonds e Jean-Pierre Verdet - il De revolutionibus torna di nuovo a parlarci. Una sfida, anch’essa, che non era affatto scontato vincere, e che suona come una mirabile conferma - semmai ce ne fosse ancora bisogno - di come la cultura sia una, e di come solo dalla collaborazione di forze intellettuali diverse possano nascere opere di questo valore.
La ricostruzione di questa opera-mondo si compone di tre volumi. Il secondo e il terzo contengono il testo con traduzione francese a fronte, un ampio commento e un vasto apparato di note e appendici di documenti e materiale iconografico. Il primo, invece, è di fatto un libro su Copernico, dove per la prima volta sono indagati in modo esaustivo sia i molteplici aspetti della sua biografia sia le numerose tracce della circolazione europea che il libro ottenne fino alla condanna decretata dal Sant’Uffizio romano il 5 marzo 1616.
L’intricata e in gran parte sconosciuta genesi del De revolutionibus ha giustamente meritato l’attenzione (e la fantasia) di uno scrittore come John Banville (il suo Doctor Copernicus sta finalmente per uscire in Italia da Guanda). Non sappiamo infatti quando Copernico prese la decisione di pubblicare un trattato di astronomia paragonabile all’Almagesto di Tolomeo, ovvero un’opera che doveva contenere, accanto all’esposizione di un nuovo sistema cosmologico, «un catalogo delle stelle fisse, le dimostrazioni matematiche dei movimenti planetari sia in longitudine che in latitudine e, infine, le tavole di tali movimenti».
Si sa che l’idea originaria era quella di stampare soltanto queste ultime, sul modello delle tolemaiche Tavole alfonsine, ma fondate sulla dottrina del movimento della Terra. L’incoraggiamento a fare di più, ad abbandonare ogni prudenza e a rendere pubblici i principi della sua concezione del mondo, «diametralmente opposta alle ipotesi degli Antichi», gli venne da un personaggio di primo piano della Chiesa cattolica: Nicolas Schönberg. Nominato cardinale da Paolo III nel 1535, e in precedenza legato pontificio in Germania, Ungheria e Polonia (dove forse incontrò Copernico), nel 1537 partecipò al Concilio di Trento, e fu uno dei pochi - secondo la testimonianza di Melantone - a schierarsi a favore di alcune concessioni nei confronti dei luterani.
Nel novembre 1536, da Roma, Schönberg scrisse una lettera a Copernico, invitandolo a comunicare quanto prima agli studiosi la sua dottrina del mondo, nella quale si insegna che «la Terra si muove e l’ottavo cielo rimane perpetuamente immoto e fisso».
Difficile sapere cosa avrebbe fatto Copernico se non avesse ricevuto questa lettera che custodì gelosamente per sette anni e poi volle riprodurre proprio all’inizio dell’opera. Assai meno incerto è invece il giudizio - e lo conferma anche questo lavoro - sul ruolo svolto da Georg Rheticus nella stampa del De revolutionibus. L’entusiasmo e la determinazione del giovane matematico luterano proveniente dall’università di Wittenberg, che alla fine di maggio del 1539 si recò nella cattolicissima Warmia per conoscere il canonico e astronomo polacco, furono decisivi. Sua l’idea di fornire una breve esposizione della concezione eliocentrica che anticipasse l’uscita dell’opera del maestro. E fu un successo: ben due edizioni nel giro di due anni. Senza la Narratio prima di Rheticus molto probabilmente il De revolutionibus avrebbe fatto la fine del Commentariolus redatto da Copernico prima del 1514: sarebbe rimasto manoscritto e la sua circolazione non sarebbe andata oltre la ristretta cerchia di matematici e astronomi.
L’opera venne pubblicata a Norimberga nella primavera del 1543. A portare una copia del manoscritto nella città tedesca e poi a seguirne la lunga e delicata fase della stampa toccò a Rheticus. Almeno fino a quando, nell’agosto del 1542, non venne richiamato a Wittenberg, lasciando così Andreas Osiander libero di mettere in atto la sua strategia editoriale.
Alla fine di quello stesso anno Copernico si ammalò gravemente. La morte lo colse il 24 maggio 1543. Come scriverà Giese a Rheticus il 26 luglio, una grave paralisi lo aveva colpito lungo tutta la parte destra del corpo e già da qualche tempo aveva perso la memoria. Crudeltà della sorte volle che l’opera arrivasse a Frombork proprio nei suoi ultimi giorni. Copernico la poté vedere e sfogliare solo poche ore prima di morire. Forse senza neppure rendersi conto che tra le sue mani c’era il suo libro, il libro di un’intera vita.
Jonathan Israel.
La fiaccola dei philosophes
«La Rivoluzione Francese» avrebbe origine nei ragionamenti dei più radicali fra gli Illuministi:
In un Saggio Einaudi Jonathan Israel istituisce una corrispondenza precisa,
Anzi meccanica, tra riferimenti intellettuali e scelte politiche
di Francesco Benigno (il manifesto, Alias, 24.01.2016)
Dopo aver dedicato molti anni alla trattazione dell’Illuminismo, Jonathan Israel, notissimo professore di storia moderna a Princeton, irrompe ora con un libro, La Rivoluzione francese. Una storia intellettuale dai Diritti dell’uomo a Robespierre (Einaudi, traduzione di Palma di Nunno e Marco Nanni, pp. 960, euro 42,00) che promette di épater les historiens. Malgrado un paio di secoli di investigazioni, infatti, gli storici non avrebbero capito nulla della Rivoluzione francese, o almeno, della sua natura profonda.
Le origini del più grandioso terremoto politico dell’età moderna sono state variamente attribuite: vuoi a una crescita economica dirompente, capace di travolgere un sistema politico fatiscente, vuoi, all’opposto, a una crisi congiunturale, un micidiale cocktail di finanza statale dissestata e di carestia; allo stesso modo, il tormentato ma resiliente percorso della Rivoluzione è stato spiegato facendo riferimento al radicalismo ideologico giacobino, oppure, alternativamente, alle «circostanze», quel trascinamento inesorabile indotto dalla «forza delle cose».
Dopo due secoli e passa d’inesausta eziologia, quasi una ricerca del Sacro Graal, si è ora diffusa - scrive Israel - una certa stanchezza e la tendenza a propendere per una molteplicità di concause, materiali, culturali, sociali; mentre è venuto il momento di affermare con nettezza che la rivoluzione ha una sola vera big cause, e cioè il propagarsi, in una sezione della classe dirigente francese, delle idee dell’Illuminismo radicale.
Torna tra queste pagine il sistema di pensiero esposto dallo storico inglese in un precedente e assai discusso volume, Una rivoluzione della mente (Einaudi, 2011).
Negli ultimi venti anni Israel, già autore di importanti studi sull’ebraismo europeo - Gli ebrei d’Europa nell’età moderna (Il Mulino 1991) e sull’Olanda - The Dutch Republic (Clarendon Press 1995), si è dedicato a tratteggiare una tradizione di pensiero democratico e critico che fa risalire a Baruch Spinoza. In una serie di poderosi saggi è venuto delineando, così, l’evoluzione secolare delle idee dell’Illuminismo radicale come fondatrici della tolleranza, del laicismo e della democrazia. Proprio queste idee diventano ora la causa causans della Rivoluzione, che dunque non sarebbe tanto - come era parso a molti contemporanei prima ancora che a molti storici - un inatteso e sconvolgente evento, capace di evocare la tempestosa forza della natura (il fortunale, il cataclisma) e di modificare il mondo conosciuto dell’Ancien régime al punto da renderlo irriconoscibile, quanto la mise en scène di un copione già scritto, o almeno di un canovaccio per una recita a soggetto. Le idee, insomma, precedono e rischiarano la strada agli avvenimenti, che, come la salmeria, seguono.
Da Daniel Mornet in poi la storiografia ha lungamente dibattuto il tema delle origini intellettuali della rivoluzione francese, ovvero, per dirla con Roger Chartier, quello delle sue radici culturali. E naturalmente il nesso Illuminismo-rivoluzione, ovvero la questione del legame fra concezioni filosofiche e morali e sovversione politica, è stato al centro di accesi dibattiti. C’è stato anzi chi - tra loro Robert Darnton - ha provato a legare direttamente la diffusione della stampa clandestina, satirica e iconoclasta, alla crisi dell’autorità politica. Mai nessuno, però (se non, con tutt’altri intenti, la pubblicistica reazionaria), aveva collegato tanto strettamente l’affermarsi del ruolo dei philosophes nell’imporre la centralità della ragione illuministica e la disgregazione politica della monarchia dei Borbone.
Ma - e sta qui la principale innovazione proposta da Israel - queste idee, non sono, come tante volte si è affermato genericamente, quelle dell’Illuminismo: sono invece i ragionamenti di una sua specifica sezione, quella radicale, corrispondente ai nomi di Diderot, del barone D’Holbach e di Helvétius: idee perciò democratico-repubblicane, materialiste e atee, le sole capaci di ispirare e attrezzare la leadership rivoluzionaria sia politicamente, sia sul piano filosofico e logico. Per rendere credibile la sua tesi, Israel deve dimostrare come la pattuglia di intellettuali alla guida della rivoluzione sia stata, sin dal 1788, di orientamento democratico-radicale e repubblicano: ipotesi invero azzardata e, a dirla tutta, malgrado l’inesausta erudizione sfoggiata, priva di sostegni documentari.
Piuttosto che immaginare la rivoluzione come un calderone di esperienze capaci di trasformare gli individui, inducendoli a divenire rivoluzionari, Israel ha bisogno di sostenere che alcuni fra loro, i leader della rivoluzione, lo fossero in qualche modo sin dall’inizio, e che costoro coincidano esattamente con chi si era dotato di «buone» letture.
Israel sostiene infatti che la rivoluzione «progressista», quella repubblicana, dell’emancipazione e dei diritti umani, discende direttamente dalle idee dell’Illuminismo radicale e si invera nel filone girondino prima e in quello degli idéologues, poi. Le idee dell’Illuminismo moderato, da Voltaire a Montesquieu, nutriranno invece la corrente «inglese» ovvero monarchico-costituzionale e liberale, mentre da quelle di Mably e di Rousseau originerà il populismo autoritario dei giacobini e in primo luogo di Robespierre.
C’è dunque una corrispondenza precisa e anzi meccanica tra riferimenti intellettuali e scelte politiche, una coincidenza avanzata con l’intenzione esplicita di privilegiare il gruppo degli amici di Brissot, qualificati come gli unici veri democratici perché capaci di attingere al filone ideale «giusto»; mentre a destra come a sinistra scelte politiche errate dipenderebbero da letture filosofiche improprie. Questo eccessivo schematismo, man mano che la trattazione procede, non si attenua, e anzi tende ad accentuarsi.
Liquidata la stagione monarchico-costituzionale come passatista, il panorama che emerge all’indomani del 10 agosto 1792, la journée che segna l’avvento della Repubblica, è quello di un drammatico bivio. Da una parte c’è l’unica rivoluzione che possiamo ancora rivendicare - insinua Israel ammiccando al lettore contemporaneo - quella dei veri philosophes, e con loro dei diritti umani, delle libertà civili, dell’emancipazione degli ebrei, della rivendicazione della cittadinanza femminile e dell’abolizione della schiavitù. Mentre dall’altra c’è la rivoluzione sanguinaria inaugurata coi massacri del successivo settembre e sfociata poi nel Terrore. La prima è l’opera esclusiva di una pattuglia di filosofi e politici idealisti, chiamati brissotins o girondini, sostenitori del cosmopolitismo e dell’uso della ragione in politica, laddove la seconda è il prodotto di una deriva sciovinista, dispotica e demagogica di cui sono responsabili i giacobini, adoratori della volonté générale.
Lo scenario storico che ne discende, malgrado l’enorme mole di fonti mobilitate in quasi mille pagine di testo, suona artificiale, senza sfumature, una sorta di rassicurante film western d’antan in cui tutto il bene sta da una parte e tutto il male dall’altra.
Israel non sembra preoccuparsi troppo dei rischi di anacronismo interni a una simile contrapposizione e anzi arriva al punto di affermare che il populismo autoritario di Robespierre prefigurerebbe «il moderno fascismo». Ora, mettere sulle spalle dell’avvocato di Arras, oltre alle sue personali, indubitabili colpe, anche il gravoso fardello dei mali di ciò che sarebbe divenuto «il socialismo reale», sembra già - all’altezza di questo nostro 2016 - inappropriato; ma aggiungerci quest’ultimo gravoso peso è davvero troppo.
C’è poi un’altra insidia che Israel sceglie intemeratamente di non considerare, ed è la dichiarata approvazione dell’aggressivo imperialismo francese, prima repubblicano e poi napoleonico; l’idea cioè che esso vada non solo capito ma creduto nella sua pretesa di essere indirizzato a donare la fiaccola della ragione a paesi sprofondati nelle tenebre dell’ignoranza e della superstizione religiosa. Israel difende insomma, con convinzione, la diffusione per via militare delle idee rivoluzionarie, facendone una sorta di precorritrice dell’idea attuale dell’esportabilità con la forza della democrazia, e della cosiddetta responsibility to protect. Dunque, non solo approva acriticamente la scelta brissottina di lanciare il paese in una guerra sanguinosa e interminabile - portatrice di infiniti lutti e, in ultima analisi, della trasformazione della prima repubblica in una dittatura militare e poi in una monarchia imperiale - ma accredita la spedizione del generale Bonaparte in Egitto come finalizzata a convertire gli egiziani e le popolazioni arabe confinanti agli ideali dell’Illuminismo. La propaganda bonapartista diviene così canone interpretativo.
Ora, come si sa, il risveglio nazionalistico che infiammò l’Europa nel primo ventennio del XIX secolo non discese soltanto dal nuovo concetto di popolo-nazione ma anche dall’inaudita invasione delle armate napoleoniche in molti paesi del vecchio continente, dove (in Germania, in Tirolo e soprattutto in Spagna) avrebbe dato luogo all’apparizione in grande stile di ciò che i teorici militari settecenteschi chiamavamo «piccola guerra» e che da allora si sarebbe chiamata guerriglia.
Meno noto è il fatto che la presenza di truppe straniere produsse effetti simili anche in Egitto. Israel, sulla scia di Napoleone, non nasconde la sua delusione per la scarsa penetrazione in Medio Oriente degli ideali democratico-radicali e per la contrarietà di quelle popolazioni a farsi «illuminare»; e sorvola sul fatto che anche in Egitto i francesi si trovarono a mal partito nel fronteggiare una tenace guerriglia, ispirata dalla «jihad» ordinata dal Califfato e rilanciata dagli ulema.
Già il giorno successivo al suo sbarco, il 2 luglio 1798, in una viuzza di Alessandria Napoleone fu ferito a un piede da un cecchino. Era solo l’inizio: la resistenza politica, ma anche religiosa, dei locali - rafforzati da combattenti giunti dall’Arabia - lo condusse in ottobre a ordinare di bombardare la città e la moschea di El-Akzar, centro spirituale della sollevazione. Tornano alla mente le famose, irreverenti domande di Brecht: «Su chi trionfarono i Cesari?», «chi ne pagò le spese?».
Georg Büchner e Giacomo Leopardi: Morte di Danton è del 1835, La ginestra fu scritta un anno dopo. Appartengono entrambe al loro tempo ma ci parlano anche di oggi:
Nel suo allestimento del dramma di Büchner, Martone mette in scena il fallimento della Rivoluzione e della grande scommessa di creare l’uomo nuovo: un testo del 1835, ma parla anche del Secolo breve
di Giovanni De Luna (La Stampa, 05.02.2016)
È un processo quello che va in scena con Morte di Danton di Georg Büchner. Sotto accusa c’è la Politica e con la Politica la Rivoluzione, il suo atto fondativo. Sul palcoscenico si impongono Robespierre da un lato, Danton dall’altro. Il primo rivendica tutta la grandezza della Politica e della Rivoluzione; nella loro azione implacabile è la Virtù che agisce, chi vi si oppone è solo un misero schiavo del Vizio, «il Vizio è il segno di Caino dei regimi aristocratici». La Virtù deve dominare anche attraverso il Terrore, perché «la Rivoluzione è come le figlie di Pelia: fa a pezzi l’umanità per ringiovanirla».
Il bene contro il male: quelli che tradiscono la Rivoluzione lo fanno perché cadono nel Vizio, è «gente che in genere viveva nelle soffitte e adesso viaggia in carrozze e fa sconcezze con ex marchese e baronesse». Nel disegno grandioso dell’Incorruttibile, l‘uomo può sottrarsi alla schiavitù delle passioni, alla sua fragilità naturale, per costruire la propria grandezza, e riplasmare la sua essenza, in una visione in cui una rigida pedagogia autoritaria si intreccia con un disperato slancio di speranza.
Contro Robespierre si erge Danton che sprezzantemente lo chiama «poliziotto del cielo». «Non siamo noi che abbiamo fatto la rivoluzione, è la rivoluzione che ci ha fatti», gli dice. La rivoluzione non appartiene agli uomini che l’hanno avviata. È come una cieca forza della natura che li ha ghermiti e scrollati per poi lasciarli andare attoniti, sgomenti. Così come si è scatenata, è destinata a placarsi. E tutto sarà come prima: «Domani sarà come oggi, e dopodomani e via di seguito tutto come al solito». No, nessun delirio di grandezza è permesso agli uomini: «Siamo marionette, i cui fili sono tirati da forze sconosciute; quanto a noi, niente, non siamo niente! Solo spade con le quali combattono gli spiriti...».
Cambiare gli uomini, cambiare la Natura, o accettarli così come sono. Tra queste due opzioni, Il Novecento ha scelto la prima. E, con Mario Martone che propone il testo di Büchner, è proprio il Novecento a finire sul banco degli imputati assieme a Robespierre. Proprio il «secolo dei totalitarismi» con la sua ambizione prometeica, con la sua grande scommessa di creare «l’uomo nuovo», di violentare a modificare le coordinate naturali o divine in cui da sempre sembrava essere stato inscritto il destino dell’umanità. La Politica, il Lavoro, lo Stato, il Partito, tutte queste maiuscole hanno definito l’universo granitico del Novecento. E non soltanto nel campo dell’agire politico e dell’ideologia. Il «secolo del fordismo» è stato anche quello della generalizzazione alla totalità delle relazioni umane dei metodi e dei valori della produzione industriale, diventati il centro motore della vita sociale.
Tutto questo si è sbriciolato sotto le macerie del muro di Berlino. Mario Martone sembra avere intessuto il suo rapporto con la storia all’insegna di questa consapevolezza. È stato il fallimento delle «magnifiche sorti e progressive» ad avvicinarlo a Leopardi. È stato il naufragio dell’«artificialismo politico» a fargli riscoprire ora l’Ottocento di Büchner. Morte di Danton è del 1835, La ginestra fu scritta un anno dopo. Appartengono entrambe al loro tempo ma ci parlano anche di oggi.
Allora il lucido pessimismo di Leopardi sceglieva come bersagli le utopie rassicuranti del suo secolo, la meschinità di un progresso adorato, invocato, accettato acriticamente con tutto il suo carico di illusioni e menzogne. E Martone ce lo ha riproposto con un film bello e coraggioso come Il giovane favoloso e con la messa in scena, ancora più coraggiosa, delle Operette morali. Ma era stato già così con l’altro suo film risorgimentale, Noi credevamo: per elaborare il lutto di antiche sconfitte non serve rimpiangere il passato, il nostro passato, quello del Novecento. Meglio scavare alla ricerca di quali avrebbero potuto essere le possibili alternative a quel passato e custodire gelosamente l’invito leopardiano a distinguere, oggi, quella che è la realtà da quella che è la rappresentazione della realtà.
Il Papa: non confondere la famiglia voluta da Dio e altre unioni. Ma quale famiglia, quale Dio?:
Il Papa: non confondere la famiglia voluta da Dio e altre unioni
Francesco alla Rota romana: «La Chiesa continua a proporre il matrimonio, nei suoi elementi essenziali non come un ideale per pochi ma come una realtà che, nella grazia di Cristo, può essere vissuta da tutti i fedeli battezzati». Serve una maggiore preparazione, un «nuovo catecumenato»
di ANDREA TORNIELLI (La Stampa, 22/01/2016)
CITTÀ DEL VATICANO
Nel percorso sinodale sul tema della famiglia, la Chiesa ha «indicato al mondo che non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione». Lo ha detto Papa Francesco ricevendo nella Sala Clementina giudici, officiali e avvocati della Rota romana, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario.
Bergoglio ha ricordato che la Rota «è il tribunale della famiglia» ma anche «il tribunale della verità del vincolo sacro», due aspetti «complementari» perché la Chiesa mostra l’«amore misericordioso di Dio» verso le famiglie, «in particolare quelle ferite dal peccato e dalle prove della vita», e allo stesso tempo proclama «l’irrinunciabile verità del matrimonio secondo il disegno di Dio».
Dopo aver sottolineato come il Sinodo abbia ribadito che «non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione», Francesco ha detto che la Chiesa, tramite il servizio della Rota, «si propone di dichiarare la verità sul matrimonio nel caso concreto, per il bene dei fedeli» e «al tempo stesso tiene sempre presente che quanti, per libera scelta o per infelici circostanze della vita, vivono in uno stato oggettivo di errore, continuano ad essere oggetto dell’amore misericordioso di Cristo e perciò della Chiesa stessa».
«La famiglia, fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo, appartiene al “sogno” di Dio e della sua Chiesa per la salvezza dell’umanità», ha spiegato Francesco, ricordando che «Dio ha voluto rendere partecipi gli sposi del suo amore: dell’amore personale che Egli ha per ciascuno di essi e per il quale li chiama ad aiutarsi e a donarsi vicendevolmente per raggiungere la pienezza della loro vita personale; e dell’amore che Egli porta all’umanità e a tutti i suoi figli, e per il quale desidera moltiplicare i figli degli uomini per renderli partecipi della sua vita e della sua felicità eterna».
La famiglia, ha aggiunto, è «chiesa domestica» e «lo “spirito famigliare” è una carta costituzionale per la Chiesa: così il cristianesimo deve apparire, e così deve essere». E la Chiesa sa che tra i cristiani, «alcuni hanno una fede forte, formata dalla carità, rafforzata dalla buona catechesi e nutrita dalla preghiera e dalla vita sacramentale, mentre altri hanno una fede debole, trascurata, non formata, poco educata, o dimenticata».
A proposito del peso della fede personale circa la validità del matrimonio, Papa Bergoglio ha ribadito «con chiarezza che la qualità della fede non è condizione essenziale del consenso matrimoniale, che, secondo la dottrina di sempre, può essere minato solo a livello naturale». Infatti, il dono ricevuto nel battesimo «continua ad avere influsso misterioso nell’anima, anche quando la fede non è stata sviluppata e psicologicamente sembra essere assente». Non è raro che gli sposi nel momento della celebrazione abbiano «una coscienza limitata della pienezza del progetto di Dio, e solamente dopo, nella vita di famiglia, scoprano tutto ciò che Dio Creatore e Redentore ha stabilito per loro».
«Le mancanze della formazione nella fede e anche l’errore circa l’unità, l’indissolubilità e la dignità sacramentale del matrimonio viziano il consenso matrimoniale soltanto se determinano la volontà», precisa il Pontefice. «Proprio per questo gli errori che riguardano la sacramentalità del matrimonio devono essere valutati molto attentamente».
«La Chiesa - ha concluso Francesco - con rinnovato senso di responsabilità continua a proporre il matrimonio, nei suoi elementi essenziali - prole, bene dei coniugi, unità, indissolubilità, sacramentalità -, non come un ideale per pochi, nonostante i moderni modelli centrati sull’effimero e sul transitorio, ma come una realtà che, nella grazia di Cristo, può essere vissuta da tutti i fedeli battezzati». Proprio per questo è urgente, dal punto di vista pastorale, coinvolgere tutte la Chiesa nella preparazione adeguata degli sposi al matrimonio «in una sorta di nuovo catecumenato, tanto auspicato da alcuni padri sinodali».
Nespresso fa causa per uno spot di una concorrente con il sosia di Clooney
Chiesti 50mila dollari di risarcimento e rimozione spot
di Redazione ANSA ROMA 22 gennaio 2016
Clooney e Nespresso, binomio inconfondibile. Non per la compagnia di caffè israeliana, la Israeli Espresso Club, che ha cercato invece di confondere le idee a suo vantaggio ricorrendo ad un sosia della star hollywodiana per un suo spot. Mossa che che gli è subito costata una citazione in giudizio da parte della Nespresso che rivendica l’unicità del suo volto-immagine.
Durante la pubblicità della compagnia israeliana compare una scritta sullo schermo che avverte che l’attore, dai capelli argento e con in mano quello che sembra essere un sacchetto di Nespresso, "non è George Clooney. La Nespresso chiede 50,000 dollari di danni e la rimozione dell’annuncio pubblicitario.
Lo spot della società concorrente con il sosia di Clooney (da Youtube)
di Alberto Asor Rosa (la Repubblica, 20 gennaio 2016)
Nelle settimane passate è apparso in Italia un testo di Papa Bergoglio, che a me sembra di grande importanza. Si tratta dell’intervento da lui pronunciato a un Congresso internazionale di teologia (da lui stesso voluto e preparato), svoltosi a San Miguel in Argentina dal 2 al 6 settembre 1985, sul tema “Evangelizzazione della cultura e inculturazione del Vangelo”.
L’intervento, nella forma pubblicata da Civiltà cattolica, porta il titolo “Fede in Cristo e Umanesimo”. Ritengo però che il suo vero tema sia più esemplarmente testimoniato da quello del convegno.
Andrò per accenni, limitandomi a segnalare quello che, dal mio punto di vista, spicca per novità e intelligenza del discorso. In effetti, trovo, per cominciare dagli inizi, che ipotizzare questa doppia missione - che è anche un doppio movimento di andata e ritorno per ognuno dei due elementi che lo compongono, e cioè: “evangelizzazione della cultura” e “inculturazione del Vangelo”- significa offrire una visione nuova dei rapporti tra la “fede cristiana” e “il mondo”.
Bergoglio, infatti, non dice: “questa” o “quella cultura”. Dice: “cultura”. A chiarimento della tesi scrive: «Stiamo rivendicando all’incontro tra fede e cultura, nel suo duplice aspetto di evangelizzazione della cultura e di inculturazione del Vangelo, “un momento sapienziale”, essenzialmente mediatore, che è garanzia sia dell’origine (movimento di creazione) sia della sua pienezza e fine (movimento di rivelazione)». «Un momento sapienziale, essenzialmente mediatore...»: se la traduzione dallo spagnolo in italiano non ha deformato qualche senso, questo vuol dire che tra “fede” e “cultura” si può stabilire un confronto, i cui momenti di reciprocità sono destinati a influenzare sia l’una sia l’altra parte, producendo, attraverso la “mediazione”, un accrescimento di sapere e di conoscenza per tutti.
Bergoglio chiama in causa una parola-concetto tipicamente laica o quanto meno mondana: “mediatore”, mediazione. Tale impressione però si accentua, in misura significativa, nella lettura di un brano seguente, che qui riporto per intero, perché lo trovo denso di parole-concetti sorprendenti: «La base di questo sforzo è sapere che nel compito di evangelizzare le culture e di inculturare il Vangelo è necessaria una santità che non teme il conflitto ed è capace di costanza e pazienza. Innanzi tutto, la santità implica che non si abbia paura del conflitto: implica parresia, come dice San Paolo. Affrontare il conflitto non per restarvi impigliati, ma per superarlo senza eluderlo. E questo coraggio ha un enorme nemico: la paura. Paura che, nei confronti degli estremismi di un segno o di un altro, può condurci al peggiore estremismo che si possa toccare: l’ “estremismo di centro”».
In questo caso, la parola-concetto centrale è: “conflitto”. Si deve ammettere che siamo di fronte a una acquisizione inedita nel campo della cultura cristiano-cattolica. Il termine infatti ricorre nel pensiero e nelle problematiche del pensiero dialettico e sociologico europeo e americano degli ultimi due secoli: da Hegel a Marx, e poi Simmel, von Wiese, Dahrendorf... -Nessun equivalente, almeno della stessa portata, nel pensiero cristiano-cattolico dello stesso periodo, e si capisce perché: la predicazione evangelica sembrerebbe escludere una virata di tale natura.
Ma la sorpresa è destinata persino ad aumentare se si procede nell’analisi del ragionamento. «Affrontare il conflitto», scrive Bergoglio, «per superarl », ma «senza eluderlo»; si misura con «un enorme nemico: la paura». Paura di che? Paura dei possibili estremismi, che dal conflitto possono scaturire. Ma tale paura, se incontrollata, è destinata a condurre «al peggiore estremismo che si possa toccare: l’“estremismo di centro”, che vanifica qualsiasi messaggio». L’“estremismo di centro”! -In un paese come l’Italia, spesso arrivato a catastrofiche conclusioni proprio a causa di un sistematico e prevaricante “estremismo di centro”, tale messaggio dovrebbe risultare più comprensibile che altrove. Anche il riferimento alla parresia s’inserisce in questo contesto: solo chi parla alto e libero può vincere la paura.
Quali considerazioni si possono fare su posizioni, di questa natura? Su Bergoglio sono stati scritti molti articoli (bellissimi quelli di Eugenio Scalfari). Pochi, però, si sono soffermati sulla scaturigine storica delle sue prese di posizione, che è inequivocabilmente gesuitica. I gesuiti, nel corso della loro lunga storia, ne hanno combinate di tutti i colori, nella difesa perinde ac cadaver della Chiesa di Roma. E però...
Molti anni or sono ho studiato a lungo la cultura gesuitica del Seicento in Italia. Mi risultò chiaro allora che carattere perspicuo della cultura gesuitica, nei momenti migliori, è sempre stato il tentativo «di operare la saldatura fra cultura laica e cultura ecclesiastica, fra tradizione e rinnovamento... »; e questo su base mondiale.
Se le cose stanno così, la domanda (provvisoriamente) finale di questa ricostruzione è: quale rapporto esiste fra la centralità della parola-concetto “conflitto” e la centralità della parola-concetto “misericordia”, alla quale Papa Francesco ha voluto dedicare il Giubileo?
La risposta più semplice è: nessuno. “Misericordia” è parola evangelica, pochissimo usata in ambito laico, come pochissimo “conflitto” in ambito ecclesiale.
Sono passati trent’anni dalla prima formulazione, padre Jorge Mario Bergoglio, divenuto Papa Francesco, ha ripensato radicalmente le sue posizioni, rientrando nell’ambito più tradizionale della cultura ecclesiastica.
Come tutte le soluzioni troppo semplici, anche questa però si presta a un’obiezione di fondo. Una noticina al testo pubblicato da Civiltà cattolica informa infatti che il testo è stato ripresentato «in forma rivista dal Santo Padre». -Questo ci rende lecito pensare che nel pensiero di Papa Francesco “conflitto” e “misericordia” possano stare insieme. Cioè: il prodotto di una cultura laica può stare insieme con il prodotto tipico di una cultura evangelico-cristiana.
Non può esserci “misericordia” se non c’è stato “conflitto”; il “conflitto” è buono, anzi, addirittura indispensabile, se è necessario per superare la paura, e superare la paura è necessario per arrivare alla “misericordia”. Sarebbe troppo pretendere che Bergoglio, divenuto Pontefice, dopo averci additato come il conflitto sia necessario per attivare la misericordia, ci additi come la misericordia sia necessaria per attivare il conflitto, motivo quest’ultimo inesauribile - e positivo, quando c’è - delle azioni umane.
Però la connessione possibile - il prima e il dopo, insomma, che però è anche o può essere anche, un dopo e un
prima - almeno a noi laici e non credenti, risulta - credo - ben chiara.
Politiche e territori. Il "Leviatano" e l’esercizio centralizzato del potere
Il migrante «mobile» che mette in crisi la staticità dello Stato
di Franco Farinelli (Corriere della Sera, La Lettura, 17.01.2016)
Che fine hanno fatto gli abitanti di Parigi? Se lo chiedeva Walter Benjamin a proposito delle foto scattate da Eugène Atget nell’Ottocento, del tutto prive di persone quasi che la città fosse deserta, una scena vuota. E metteva in guardia, nella sua Piccola storia della fotografia, contro il «nascosto carattere politico» di tali immagini, di cui non riusciva però a decifrare la natura, la ragione.
Per rispondere sarebbe bastata un’occhiata al frontespizio del Leviatano di Hobbes, il testo cui più di ogni altro lo Stato moderno deve la propria fondazione teorica, apparso a metà Seicento: un’epoca in cui la prima pagina di un libro valeva come sintesi illustrata di tutto il contenuto, al punto che Cartesio poteva vantarsi di non aver bisogno di aprire un volume per venire a capo del problema posto dal titolo.
A prima vista il corpo del Leviatano, emblema dello Stato territoriale centralizzato come lo chiamava Carl Schmitt, sembra soltanto villoso, oppure formato da molteplici scaglie. In realtà la gigantesca forma del mostruoso principe, che brandisce sul mondo le insegne del potere sia religioso che civile, risulta costituita dalla massa dei singoli corpi dei sudditi, tutti privi di volto perché ritratti di spalle, a segno dell’assenza di ogni loro reciproca differenza al cospetto del nuovo «Dio mortale». -Soltanto il capo e le mani (gli organi del pensiero e dell’azione) della potentissima creatura sono fatti di una sostanza non umana, del tutto estranea rispetto all’ingombro materiale della somma degli individui: i cui apparati fisici, parti coerenti e solidali dello stesso unico insieme, già anticipano, nella loro reciproca equivalenza e nella intercambiabilità della loro disposizione, la logica della produzione di serie, il cui primo annuncio i filosofi di Francoforte scorgeranno invece nelle macchine erotiche descritte da de Sade.
Diversamente però da quel che accade in quest’ultime, nel corpo del Leviatano i soggetti debbono restare immobili o almeno in tal modo vengono concepiti, pena la crisi della staticità dello Stato stesso, che si chiama così proprio perché non si muove.
Fu Machiavelli, all’inizio del Cinquecento, il primo ad adoperare tale termine nel significato di una formazione politica che coincide con un’estensione territoriale: ancora nel Quattrocento «stato» era soltanto sinonimo di condizione, quella privilegiata di un essere umano dotato di particolari e superiori prerogative dal punto di vista dell’esercizio del potere, a partire da quello di dire giustizia.
Come un soggetto si sia oggettivato trasformandosi in una cosa, come la parola che designa un potente sia passata invece a distinguere l’ambito d’esercizio del suo potere (di ciò infatti si tratta) è un processo che ancora attende puntuale ricostruzione. Ma intanto è proprio da tale sparizione del soggetto che deriva l’assenza di persone nelle fotografie che a Benjamin facevano problema, e di cui intuisce la funzione politica: come nelle foto Alinari su cui abbiamo studiato al liceo Storia dell’arte, gli uomini e le donne sono assenti perché stanno altrove, a comporre il corpo dello Stato, di cui le immagini stesse sono più o meno consapevole e mediata espressione.
E oltre che invisibili gli atomi di cui il Leviatano si compone sono immobili perché se è vero che lo Stato moderno non ha territorio ma è il territorio, come insegnano i giuristi, quest’ultimo è una costruzione geometrica, uno spazio propriamente detto, al cui interno ogni cittadino corrisponde a un punto, dalla cui supposta stabilità la stabilità (la staticità) dell’intero sistema dipende. Da dove altrimenti deriverebbe l’uguaglianza (l’egalité) dei cittadini? Accadde l’11 settembre, del 1789: per la prima volta, a Parigi, il voto dell’Assemblea venne espresso singolarmente, non più per «ceto» ma per «testa», appunto in omaggio al principio dell’equivalenza generale dei punti geometrici sul piano.
Ecco perché le figure del migrante e del rifugiato mettono davvero in crisi l’ordinamento politico esistente: perché la loro visibilità e mobilità, ripristinando le più immediate funzioni antropologiche, minano prima d’altro la fondamentale finzione (la funzionale idealizzazione, il «congelamento metonimico» direbbe Arjun Appadurai) sulla cui base l’intero sistema statale moderno è stato costruito.
Spiace che neanche la sinistra misuri la democrazia con la libertà delle donne
di Susanna Camusso (The Huffington Post, 12/01/2016)
Ho una convinzione irremovibile: la libertà delle donne è metro di misura della democrazia. Non da oggi, non dalla notte di Capodanno, ma da quando ho preso coscienza penso che la libertà non sia uguale a quella degli uomini se le donne sono considerate un corpo di proprietà altrui, sganciato dalla loro testa che... Non esiste.
Convinzione che si rafforza quando nei conflitti, anche in quelli più recenti, ho visto, sentito, capito che si ripetevano azioni di guerra condotte sui corpi delle donne; quando ho seguito con ammirazione le donne di Kobane; quando mi sono indignata perché siamo pronti a onorare le vittime del terrorismo in tutto il mondo, ma poi dimentichiamo le ragazze rapite, convertite a forza, stuprate e uccise da Boko Haram, come fossero altro, diverse dagli altri morti.
La libertà delle donne è metro di misura della democrazia, ha la stessa forza degli altri fondamenti democratici? No, né per la destra, né, spiace dirlo, per la sinistra. Ricordo ancora il dibattito sulla rivoluzione iraniana, quando il ritorno al velo, i limiti all’istruzione, i guardiani o la Shari’a erano considerati conseguenze secondarie ed ininfluenti. Sbagliavamo. Per questo "Colonia", al di là delle ricostruzioni, mi chiama in causa perché di aggressione alla libertà delle donne si tratta. La sostanza non cambia se si è trattato di aggressione organizzata, collettiva, preparata o meno. L’aggressione alle donne è aggressione alla libertà delle donne.
Certo si sprecano in queste ore le classificazioni, atto di guerra, scontro di civiltà, terrorismo e per ognuna possiamo trovare motivazioni per negarle prima di tutto perché ciascuna di quelle pone la l’interpretazione e la giustificazione fuori di noi, della cultura europea. Sottintende che solo ad "altri", di una differente cultura o ancor di più di religione diversa, la libertà delle donne fa orrore e mette paura. Come dire che in Europa le donne sono considerate sempre inviolabili. Purtroppo, milioni di statistiche, fatti, evidenze, racconti, spiegano l’opposto.
Per questo è odioso, strumentale e anche insopportabile che si leghi quanto avvenuto a Colonia direttamente all’immigrazione o ai rifugiati. È salvifico per gli uomini, per l’intera cultura europea, per la finzione di non sapere cosa succede, con infinita frequenza, tra le mura delle nostre case. Anche non ritrovandomi in quelle definizioni penso comunque che sia indispensabile approfondire la riflessione. Lo scopo evidente è la proprietà e la trasformazione in oggetti dei corpi delle donne diffondendo paura. La paura è lo scopo precipuo del terrorismo. Cambia i comportamenti, genera richiesta di sicurezza, protezione e favorisce l’idea che per difendersi si possa limitare la libertà. Paura e modifica dei comportamenti mettono in forse la civiltà, come noi la intendiamo, fondata sulla libertà, esercitabile perché sancita dai principi democratici.
Fu faticoso alzare la voce sugli stupri di piazza Tahrir. Fu difficile perché per molti, troppi, veniva prima l’importanza di una lotta per la democrazia che la libertà e la sicurezza delle donne, senza neppure domandarsi che democrazia possa essere quella che può fare a meno della libertà di metà del mondo Molte domande suscita "Colonia" e molto ancora c’è da riflettere, non nel silenzio ma provando ad aprire un dibattito pubblico sul che fare, su cosa chiediamo a noi stesse e a noi stessi per affermare la piena libertà delle donne e, certo, anche sull’integrazione e sui modelli di accoglienza, su ciò che chiediamo a chi arriva per avere asilo e futuro. Dobbiamo riflettere su come rendere esplicita e inviolabile la libertà delle donne, senza dare per scontato, perché non lo è, che il nostro modo di essere sia rispettoso della loro libertà, della loro autodeterminazione, della loro libertà di scelta. Poi, dobbiamo porci la domanda, non ultima, se la religione, sfera privata per eccellenza, sia parte di questo ragionamento.
Penso che per troppo tempo abbiamo finto che non lo sia, che non ci sia relazione tra laicità dello Stato e libertà delle persone. L’Islam che si fa Stato, che applica la Shari’a (e non mi riferisco solo a Daesh), che vuole determinare la proprietà e la sottomissione delle donne a un uomo, non può più essere un problema di altre, delle donne musulmane prime vittime di questa radicale confessionalizzazione della politica e del governare. Mondi paralleli non esistono, nonostante le politiche d’integrazione siano state spesso questo. È una condizione che riguarda tutti e tutte perché se condividi spazio e tempo non possono esistere isole separate e intangibili.
La lunga strada della laicizzazione e della della secolarizzazione dello Stato e dei governi è un patrimonio - ancora incompiuto - della cultura europea e non solo. Che sia Colonia, Delhi o Raqqa è al centro di un conflitto e di uno scontro che è tuttora in corso e che coinvolge il mondo intero.
FILOSOFIA E TEOLOGIA POLITICA DELL’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
Hitler, un figlio dell’occidente
70 anni fa il futuro Fuhrer diventava cancelliere del Reich. Aveva già programmato tutto in "Mein Kampf".
Lo storico Giorgio Galli ha curato la ristampa del libro per Kaos: "Razzismo e antisemitismo non erano sue invezioni".
di Oreste Pivetta *
Settant’anni fa Adolf Hitler diventava cancelliere dei Reich. Era la mattina del 30 gennaio quando il presidente Paul Hindenburg gli affidò l’incarico. Hitler poteva contare su una coalizione di destra, ma quarantotto ore dopo l’investitura ottenne da Hindenburg lo scioglimento del parlamento. A febbraio il nuovo governo decretò la sospensione della libertà di stampa e i nazisti scatenarono un’ondata di violenze contro gli oppositori politici. Soprattutto i nazisti misero in moto la formidabile macchina della propaganda, diretta da Goebbels, mentre per decreto legge (a fine febbraio) venivano sospese le libertà costituzionali e proibito l’attivismo politico delle sinistre. Il giorno prima, il 27 febbraio, era stato dato alle fiamme il Reichstag. Dell’incendio fu accusato un cittadino olandese di presunte simpatie comuniste, Marinus van der Lubbe.
Cominciava così la più tragica avventura del nostro secolo, alla fine la guerra, le deportazioni, lo sterminio. Le idee che ispirarono tutto questo, stanno in un libro, Mein Kampf, che Hitler aveva dettato al suo segretario Rudolf Hess nell’anno di prigionia, nel carcere di Landsberg, tra l’11 novembre 1923 e il 20 dicembre 1924. Hitler era stato condannato per alto tradimento per il tentato putsh di Monaco, il putsh della birreria. Mein Kampf, scritto in forma prolissa e contorta, fu rivisto e corretto (anche dagli errori grammaticali) da un prete che era diventato giornalista antisemita, Bernhard Stempfle, e da Josef Czerny, di origine cèca, giornalista e poeta ugualmente antisemita. Il titolo era di Max Amman, che stava in carcere con Hitler ed era il direttore commerciale della casa editrice del partito nazionalsocialista.
Il libro ebbe all’inizio scarsa fortuna. Alla fine della guerra, al crollo del nazismo ne erano state vendute dieci milioni di copie. Veniva regalato ad ogni coppia di neo-sposi. In Italia fu Bompiani a pubblicare nel 1934 il secondo volume, quello dichiaratamente teorico, che si intitolava Il movimento nazional socialista. Il primo volume (Resoconto), più autobiografico, apparve sempre con Bompiani nel 1938. L’editore Kaos ristampa ora entrambi i volumi, a cura di Giorgio Galli, che ha scritto anche un’ampia introduzione (con una postfazione di Gianfranco Maris, presidente dell’Aned, associazione nazionale ex deportati).
Professor Galli, la prima domanda nasce dal disagio: il disagio, persino materiale di fronte a un oggetto come un libro, di chi ha sempre visto in «Mein Kampf» uno dei simboli della barbarie nazista. Un libro respinto dalla nostra coscienza. Perchè ristamparlo?
«Intanto perchè in una società aperta non dovrebbero esistere tabù. Poi perchè Mein Kampf non è mai scomparso: ne sono circolati estratti in una chiara logica apologetica e si sa che una cosa proibita esercita sempre una certa attrazione. Questa riedizione ha un dunque un senso: non accettare i tabù e offrire un testo storicamente collocato, un testo che può illuminare la figura di Hitler, che tante ambiguità, tante rimozioni e persino le censure possono avvolgere di un fascino sinistro... Proprio sere fa in un programma televisivo, padre Amorth, il prete esorcista del Vaticano, trattava Hitler al pari di un indemoniato. L’oscurità può sedurre: una indagine ha catalogato centocinquanta siti internet ispirati ad una sorta di mito hitleriano».
L’idea della follia è anche un’idea di alterità. Leggendo invece «Mein Kampf» si dovrebbe capire quanto Hitler viva invece nel solco della cultura del suo tempo?
«Mein Kampf è stato sempre giudicato un prodotto abbastanza singolare, sorprendente, quasi un incidente nei percorsi della storia politica occidentale. Non è vero. Hitler raccoglie idee che vengono da lontano. Mi rifaccio alle tesi di Poliakov e di Mosse. Il razzismo e l’antisemitismo non sono invenzioni di Hitler».
Raul Hilberg, nella «Distruzione degli ebrei d’Europa» (Einaudi), presenta addirittura le tavole comparative tra diritto canonico e misure naziste: dal divieto dei matrimoni misti (Sinodo di Elvira del 306) alla legge per la difesa del sangue e dell’onorabilità tedesca (15 settembre 1935), dalla proibizione per gli ebrei a rivestire cariche pubbliche (Sinodo di Clermont del 535) alla legge sulla riorganizzazione delle professioni burocratiche pubbliche (7 aprile 1933). Il distintivo di riconoscimento fu inventato dal Concilio Lateranense nel 1215. Scrive Hilberg: i nazisti non hanno rinnegato il passato, hanno costruito sulle vecchie fondamenta...
«Nel testo hitleriano il razzismo antigiudaico è l’approdo di una concezione razziale che affonda nella cultura occidentale. Hitler per esempio utilizza il francese Joseph-Arthur Gobineau e il suo Saggio sull’ineguaglianza delle razze. Ne ricava l’esecrazione per il "meticciato", che avrebbe portato alla degenerazione dell’umanità. Nel Mein Kampf si ritrovano le teorie eugenetiche dello psicologo inglese Francis Galton...».
Erano tutte letture di Hitler?
«Non letture dirette, ma non credo che la cultura di Hitler si limitasse a pochi opuscoli antisemiti. Conosceva Nietzsche e Schopenhauer. Ipotizzo che conoscesse anche Weber: nella concezione che Hitler manifesta del "capo carismatico", che dev’essere confermato dal successo e che è forte di una tradizione, vi è affinità con il pensiero del sociologo. Tra i dirigenti nazisti era popolare Gobineau».
La storiografia revisionista, che come scrive uno studioso che lei cita, Enzo Traverso, tende a espellere i crimini nazisti dalla traiettoria del mondo occidentale, spiegandoli come una reazione alla rivoluzione russa...
«Non fu l’antibolscevismo a indurre Hitler all’invasione dell’Unione Sovietica. L’operazione Barbarossa non fu il risultato di una contrapposizione ideologica, ma di una pretesa di "spazio vitale". Lo si legge appunto nel Mein Kampf: "Chiudiamo finalmente la politica coloniale e commerciale dell’anteguerra... quando oggi parliamo di nuovo territorio in Europa, dobbiamo pensare in primo luogo alla Russia o agli Stati marginali a essa soggetti. Sembra che il destino stesso ci voglia indicare queste regioni: consegnando la Russia al bolscevismo, rapì al popolo russo quel ceto di intellettuali che finora ne addusse e garantì l’esistenza statale...".
Come si spiega invece la simpatia per l’Inghilterra. Anche qui fa testo il «Mein Kampf», a proposito di Inghilterra e Italia: «La più grande Potenza mondiale e un giovane Stato nazionale offrirebbero ben altri elementi per una lotta in Europa, rispetto ai putridi cadaveri di Stati ai quali la Germania si alleò nell’ultima guerra».
«Sullo sfondo c’è sempre la missione della razza ariana. Secondo i nazisti da una parte della Manica stavano gli ariani di mare, dall’altra gli ariani di terra».
«Mein Kampf» definisce anche il ruolo dello stato. Che cosa rappresenta per Hitler lo stato?
«Lo stato è uno strumento. Scrive: "Lo stato non rappresenta un fine, ma un mezzo. Esso è la premessa della formazione di una civiltà umana superiore, ma non è la causa di questa...". Hitler ribalta le conclusioni di Gobineau: il meticciato non è irreversibile, l’ariano resiste, lo stato è solo il mezzo per invertire la tendenza alla degenerazione, da qui la politica eugenetica dedotta da Galton, teorizzata nel Mein Kampf, attuata dal Terzo Reich. Nella concezione hitleriana lo Stato non è dunque un oggetto di culto, ma uno strumento al servizio di una razza che si edifica in nazione e costruisce una civiltà».
Altro tema fondamentale del «Mein Kampf» è quello relativo alla concezione della classe politica...
«Di Weber appunto è l’idea del capo carismatico investito di una missione, attorno al quale si forma il primo nucleo dei fedeli e che deve essere confermato dal successo, "la inequivocabile prova del successo visibile, il quale, in fin dei conti darà sempre l’ultima conferma della giustezza di un’azione". I profeti disarmati non contano».
Siamo ancora nella tradizione occidentale?
«Tutti i politici anche i più moderati coltivano l’idea di essere investiti da una missione, coltivano la convinzione di avere un compito di pubblica utilità. Questo Weber lo coglie con lucidità. La storia politica dell’Occidente è costruita da personaggi di questo genere, da Cronwell a Napoleone. Hitler ha aggiunto la dimensione divina: capo politico e sacerdote del nuovo rito. Le sue oceaniche assemblee erano quasi cerimonie liturgiche: la massa dei sottoposti nel buio, la tribuna nella luce, il capo che arriva al culmine della rappresentazione. Non cita ovviamente una religione: Hitler si appella agli dei o a una provvidenza che non è mai la provvidenza cristiana... Hitler scrive: "Noi ci rivolgiamo a quelli che adorano non il denaro, ma altri Dei, ai quali votano la loro esistenza"».
«Mein Kampf» dunque sintesi della futura politica hitleriana. Singolare che non faccia cenno alle fonti...
«Mein Kampf esprime un progetto compiuto. Gli atti successivi sono rintracciabili in quelle pagine. Il nazismo si affermò sulla base di un disegno preciso e chiuso, al contrario del fascismo che procedette in modo molto più empirico. L’unica teorizzazione del fascismo sta in quella voce dell’enciclopedia Treccani scritta da Gentile e rivista da Mussolini... Per quanto riguarda le fonti, tacendole Hitler rivendicava l’originalità del proprio pensiero».
Non fu solo un progetto però ad assicurare il successo del nazismo... un movimento che fino al 1928 non aveva che il tre per cento dei voti dopo cinque anni andava al potere.
«Non fu l’ideologia ed anche questo smentisce i revisionisti. Furono sei milioni di disoccupati, con i quali il comunismo non aveva nulla a che fare. La crisi tedesca stava tutta all’interno del sistema liberal democratico. La classe politica della repubblica di Weimar si era mostrata incapace, non solo divisa. La soluzione venne da una medicina keynesiana, come quella adottata negli Stati Uniti, proposta a Hitler da Hjalmar Schacht, il presidente della Banca tedesca: investimenti pubblici per rilanciare l’economia. Il bello è che Schacht aveva presentato lo stesso piano al governo di Weimar, che l’aveva respinto. Fu il primo successo di Hitler: la disoccupazione di massa cancellata. Il "miracolo economico" consentì la seconda performance di Hitler: il riarmo. Nel 1933 la Germania aveva un esercito di centomila uomini, male armati, senza aerei. Nel 1938 la Germania era la prima potenza militare europea».
Mein Kampf, il libro di Hitler torna in vendita: “Meglio, l’ignoranza non aiuta mai. E i tedeschi hanno fatto i conti con la Storia. Non come l’Italia”
di Davide Turrini
Il volume in cui il Führer anticipava l’ideologia dello sterminio antisemita. Ilfatto.it ha intervistato un giornalista (Gad Lerner), un politologo (Piero Ignazi) e uno storico (Gian Enrico Rusconi). E sono tutti d’accordo: è giusto che quelle pagine tornino "libere" di circolare. "Edizione critica come questa ci aiuterà a capire cosa abbiamo imparato in questi 70 anni"
di Davide Turrini *
Duemila pagine, quasi 5mila note a margine, 4mila copie in prima tiratura, e 59 euro come prezzo di copertina. Il Mein Kampf di Adolf Hitler tornerà ufficialmente nelle librerie della Germania dopo 70 anni da gennaio 2016. L’iniziativa della pubblicazione di un edizione “critica” del testo scritto dal dittatore nazista in due volumi, tra il 1924 e il 1926 mentre era detenuto in carcere dopo il fallito Putsch del 1923, e dove venivano delineati i prodromi ideologici dello sterminio antisemita, è stata presa dal prestigioso Istituto di Storia Contemporanea di Monaco di Baviera. Secondo la legge tedesca la scadenza del copyright scatta a 70 anni dalla morte dell’autore (Hitler si suicidò nel bunker di Berlino il 30 aprile 1945).
E’ dal 1946 che il ministero delle Finanze del governo della Baviera detiene i diritti del libro che tra il 1933 e il 1945 aveva registrato 13 milioni di copie vendute. Il Land bavarese ne ha negato la pubblicazione a livello editoriale più volte nel corso dei decenni del dopoguerra, anche se non ha potuto fare nulla rispetto alle copie agiografiche circolate sottobanco in lingua inglese o francese (diverso il caso italiano che ha visto la pubblicazione di un volume “critico” di tutto rispetto edito in Italia da Kaos Edizioni e curato dal politologo Giorgio Galli).
Un’opposizione che però il ministero bavarese non potrà più esercitare per legge dal 31 dicembre 2015. Ed è qui che è entrato in gioco l’Ifz, con un team di validi e preparati storici tedeschi - Christian Hartmann, Thomas Vordermayer, Othmar Plöckinger, Roman Töppel -, a cui era già stata rifiutata a metà anni 1990 la pubblicazione del Mein Kampf dove aver dato alle stampe un volume contenente diversi discorsi hitleriani tenuti tra il 1925 e il 1933. “Il libro di Hitler è già ‘disponibile’ in una varietà di modi. L’obiettivo è quello di decostruire completamente la propaganda in maniera duratura e, quindi, di indebolirne l’ ancora vivo potere simbolico. In questo modo cerchiamo anche di contrastarne un uso improprio ideologico e propagandistica con fini commerciali”, viene spiegato sul sito dell’Istituto Storico di Monaco.
Sono stato di recente a visitare il serissimo istituto tedesco che ha ricevuto l’incarico di questa pubblicazione - racconta spiega Gad Lerner a ilfattoquotidiano.it - Ho parlato con i curatori che hanno molto ben presente la responsabilità che si assumono: l’alternativa è una circolazione clandestina dell’opera in forma apologetica venduta nei mercatini, mentre loro invece con grande senso di responsabilità ne fanno un’edizione critica, soprattutto come strumento di lavoro per studiosi, perfino poco maneggevole, oserei dire dissuasiva, costosissima, sovrastata di note, dove vengono denunciate molte delle falsità storiche contenute”. Secondo quanto spiega il giornalista, gli storici dell’Ifz “hanno avuto un confronto anche aspro con le personalità del mondo ebraico tedesco, che ha vissuto con fatica questa decisione. Però la scelta è stata veramente soppesata e non presa alla leggera. Non mi sento di criticarla anzi trovo positivo il fatto che questo tabù in Germania venga affrontato”.
In Germania “grazie ad un’opera di divulgazione storica avvenuta persino in prima serata sulla tv pubblica già dagli anni Novanta ci si è richiamati ad una responsabilità storica collettiva su quanto accaduto col nazismo - continua Lerner - Da questo punto di vista i tedeschi hanno fatto i conti con un buco nero della loro storia in modo ben più consapevole rispetto a quanto l’Italia ha fatto con il fascismo. La classe dirigente italiana ha adottato uno spirito di autoassoluzione e di reticenza culminata nella minimizzazione del ruolo di Mussolini su quegli avvenimenti, come nelle bestialità proferite da Berlusconi al memoriale del Binario 21 nel Giorno della Memoria nel 2013”.
“Era ora”, commenta il politologo Piero Ignazi che si è occupato in parecchi volumi delle origini dell’estrema destra in Europa. “Non sono per la censura dei libri in generale, come comprendo il problema che può vivere la Germania. Ma attenzione, di testi maledetti se ne trovano sempre come ad esempio alcuni di Rousseau che portano ai disastri della Rivoluzione francese. Questi sono documenti che servono per capire ancora meglio ciò che è accaduto. L’ignoranza non aiuta mai. Anche se più complessa e spiacevole è sempre meglio affrontare la realtà dei fatti”. “Dal punto di vista della propaganda partitica dei partiti di destra odierni, a parte qualche folkloristico gruppo neonazista, non c’è più nessuno che si richiama al fascismo storico - continua Ignazi - Anche il Front National per ricevere così tanti consensi ha avuto la capacità con la nuova leadership di distaccarsi dal filo conduttore sottile del passato francese dell’Oas e di Vichy, altrimenti avrebbero fatto la fine del Movimento Sociale Italiano”.
Per lo storico Gian Enrico Rusconi, esperto del Novecento tedesco, il ritorno alla pubblicazione del Mein Kampf “è un segno di maturità questa pubblicazione a cui i miei colleghi di Monaco pensavano da tempo. Non siamo ingenui: copie del Mein Kampf ne giravano da anni. Scientificamente e storicamente il capitolo lo reputo relativamente chiuso, mentre rimane aperto e diffuso un aspetto antropologico-culturale più sottile e presente prima e dopo la pubblicazione di questo libro, perché le radici profonde del volkisch erano già vive prima di Hitler”.
Quindi secondo Rusconi questo testo non va letto “in maniera deterministica”. La “radicalizzazione sterminatoria”, aggiunge, è un processo “che avviene lentamente in una cultura che ha trovato l’espressione di Hitler per realizzarla e che adesso magari trova altre scorciatoie dove incanalarsi.
Se non fossimo in questo clima xenofobo, dell’ostilità verso lo straniero, legato alle ondate migratorie dal Medio Oriente, non ne parleremmo neanche. Semmai cogliamo l’occasione della pubblicazione di un’edizione critica del Mein Kampf come questa per capire, paradossalmente, quali sono le forme con cui oggi si manifesta questo sentimento radicale di appartenenza nazionale e di patria, e cosa abbiamo imparato in questi 70 anni”.
Ma Charlie è blasfemo?
di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani (Il Sole-24 Ore, Domenica, 10.01.2016)
Un anno dopo la strage, la copertina di Charlie Hebdo mostra l’immagine del carnefice: è Dio con il mitra in spalla, che ancora fugge con l’abito insanguinato. Questa è un’immagine blasfema? E, se blasfema, è illecita? Sicuramente aiuta ad avere gli strumenti per deciderlo un bel libro curato da Alberto Melloni, Francesca Cadeddu e Federica Meloni, Blasfemia, diritti e libertà, fresco di stampa per il Mulino. È un confronto tra storici, teologi, filosofi e giuristi sul tema della parola che offende il sacro: si va dall’evoluzione del concetto di blasfemia, al racconto di episodi di vilipendi storici - con qualche esempio in forma di immagine - e di persecuzioni, fino al tentativo di definire i limiti dell’intervento statale nella punizione. Il volume mantiene quel che Melloni promette nell’introduzione, ovvero «fornire [...] conoscenze giuridiche, politiche, storiche e teologiche che servano a comprendere e giudicare fatti, atti, ragioni, sfondi - incluso quello ambivalente della “blasfemia”».
Dai saggi non emerge una risposta univoca, anzi le posizioni sono diverse e a volte in contrasto tra loro. Ciò non ci pare discendere soltanto dalle credenze personali ma anche dalle differenti prospettive delle scienze di cui gli autori sono esponenti. Gli studiosi della società - antica o contemporanea - hanno un’ottica che consente di affermare l’inopportunità e financo la pericolosità di alcune espressioni oltraggiose, specie in alcuni passaggi storici o in contesti culturalmente non omogenei, con diversi gradi di tolleranza all’irrisione.
Il giurista, invece, lo evidenzia bene Giancarlo Bosetti, sembra avere una via maestra: quella di riconoscere che il diritto a non essere offesi nei propri sentimenti religiosi debba passare attraverso una porta stretta. Il poco spazio che gli ordinamenti liberali possono riservare ai reati a presidio delle fedi deriva dalla constatazione che le religioni sono anche dei poteri che condizionano la vita pubblica. E come ogni altro potere, esse meritano, con le parole di Rushdie citate da Mauro Gatti, «le critiche, la satira e tutta la nostra impavida irriverenza».
Del resto, in una società laica, le convinzioni religiose non hanno maggiore dignità e valore rispetto a quelle filosofiche, politiche o di altro genere. E quindi, come nessuno può invocare la forza dello Stato per offese a una propria qualunque ideologia, analogamente, in una società davvero aperta, i fedeli non hanno strumenti giuridici per opporsi alla critica, anche feroce o irrisoria, alle religioni, soprattutto quando queste non si curano solo d’anime.
A conferma di ciò, non è certo un caso che in Europa negli ultimi decenni le leggi che puniscono la blasfemia siano sempre meno e sempre meno applicate. E pure negli Stati Uniti, ove nel Primo Emendamento sono incise una accanto all’altra la neutralità nei confronti delle religioni e la libertà di parola, già negli anni ’50 la Corte Suprema ha stabilito che «lo Stato non ha alcun legittimo interesse a proteggere una qualsiasi religione, o tutte le religioni da espressioni a loro sgradite», come ricorda ancora Gatti.
La violenza contro Charlie ha mutato il clima e ha fatto sostenere a taluno, forse per un principio di prudenza, che vietare l’offesa alla religione fosse una buona soluzione.
Al contrario, grazie anche alla lettura del libro, a noi piace ancora un legislatore che rinuncia a usare lo strumento penale contro il blasfemo, invece di cercargli «l’anima a forza di botte», come nella Spoon River di De Andrè.
UN BLASFEMO (DIETRO OGNI BLASFEMO C’E’ UN GIARDINO INCANTATO)
Mai più mi chinai e nemmeno su un fiore,
più non arrossii nel rubare l’amore
dal momento che Inverno mi convinse che Dio
non sarebbe arrossito rubandomi il mio.
Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino,
non avevano leggi per punire un blasfemo,
non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte,
mi cercarono l’anima a forza di botte.
Perché dissi che Dio imbrogliò il primo uomo,
lo costrinse a viaggiare una vita da scemo,
nel giardino incantato lo costrinse a sognare,
a ignorare che al mondo c’e’ il bene e c’è il male.
Quando vide che l’uomo allungava le dita
a rubargli il mistero di una mela proibita
per paura che ormai non avesse padroni
lo fermò con la morte, inventò le stagioni.
... mi cercarono l’anima a forza di botte...
E se furon due guardie a fermarmi la vita,
è proprio qui sulla terra la mela proibita,
e non Dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato,
ci costringe a sognare in un giardino incantato,
ci costringe a sognare in un giardino incantato
ci costringe a sognare in un giardino incantato.
* FONTE: VIA DEL CAMPO - Testi NON AL DENARO NON ALL’AMORE...
Charlie Hebdo un anno dopo, la copertina con Dio insaguinato: “L’assassino è sempre in fuga”
Il giornale satirico uscirà nelle edicole nel giorno dell’anniversario della strage che ha decimato la redazione: in prima pagina l’immagine di un Dio con i vestiti sporchi di sangue. La Conferenza episcopale francese: "Non commentiamo chi cerca solo di provocare"
di F. Q. | 4 gennaio 2016 *
Un Dio con i vestiti sporchi di sangue e un kalashnikov sulle spalle. A fianco il titolo “l’assassino è sempre in fuga”. E’ questa la copertina del numero speciale del giornale satirico Charlie Hebdo che sarà pubblicato un anno dopo l’attentato terrorista che ha decimato la redazione facendo 12 mortie quasi due mesi dopo le stragi del 13 novembre. La decisione della redazione ha subito provocato numerose polemiche. “La Conferenza episcopale francese”, hanno scritto i vescovi in un Tweet, “non commenta chi cerca solo di provocare. E’ il genere di polemiche di cui la Francia ha bisogno?”.
Riss, il charlie hebdodirettore che fu gravemente ferito nell’attacco del sette gennaio scorso, firma inoltre un duro editoriale, che sarà pubblicato nella rivista in uscita, in difesa della laicità dove attacca “i fanatici abbrutiti dal Corano” e i “baciapile di altre religioni” che auspicavano la morte del giornale per aver “osato ridere della religione”. “Le convinzioni degli atei e dei laici possono spostare più montagne delle fede dei credenti”, aggiunge Laurent Sourisseau, meglio noto come Riss.
Sul numero straordinario, che avrà una tiratura di un milione di copie e sarà diffuso anche all’estero, compaiono disegni dei vignettisti uccisi: Cabu, Wolinski, Charb, Tignous e Honoré. Vi sono inoltre contributi esterni del ministro della Cultura Fleur Pellerin, delle attrici francesi Isabelle Adjani, Charlotte Gainsbourg e Juliette Binoche, oltre a intellettuali come la francese Élisabeth Badinter, la scrittrice del Bangladesh Taslima Nasreen, l’americano Russell Banks e il musicista Ibrahim Maalouf.
Dopo una serie di commemorazioni di basso profilo nel corso di questa settimana, la Francia organizzerà una grande cerimonia in ricordo delle 17 vittime alla redazione di Charlie Hebdo e negli attacchi immediatamente successivi di un anno fa, tra il 7 e il 9 gennaio 2015. L’appuntamento è a Place de la République, luogo simbolo della capitale francese che ha già ospitato grandi manifestazioni.
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana .....
Il protagonista della tragedia di Sofocle è diventato la figura emblematica dell’uomo vittima del suo destino
Condannato senza colpa a infrangere i due divieti fondativi: non uccidere tuo padre, non giacere con tua madre
Ma secondo Lacan più che l’incesto il re di Tebe incarna l’eccessivo desiderio di verità che è in noi
Siamo tutti Edipo l’eroe maledetto della conoscenza
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 10.01.2016)
Per definire la vita umana Lacan ha più volte evocato la leggenda antica dello schiavo-messaggero che portava iscritto sulla propria nuca rasata il messaggio che avrebbe dovuto recapitare senza poterlo leggere. Tutti noi portiamo sulle nostre nuche le sentenze, le maledizioni, gli auspici, le speranze, i desideri, le gioie delle nostre madri e dei nostri padri senza mai poterle leggere direttamente. Ciascuno porta scritto sulla propria nuca il destino che l’Altro ci ha assegnato senza poterlo decifrare. La nostra vita è allora solo l’esito di una necessità inesorabile? Ecco arrivare la sagoma inquietante di Edipo, il figlio innocente che il destino ha voluto colpevole. L’oracolo consultato al momento della sua nascita legge la sua nuca: infrangerà i tabù più grandi, i tabù dei tabù: ucciderà suo padre e si unirà sessualmente con sua madre. È questo il suo dramma: la fine della sua vita coincide con il suo inizio senza alcuna possibilità di movimento.
Conosciamo la sua storia che per Freud è la nostra storia: l’oracolo sentenzia al padre Laio il destino disgraziato di suo figlio Edipo. Per evitare che la profezia si compia, il re consegna il figlio a un pastore con la raccomandazione spietata di ucciderlo. Abbandono e infanticidio sono alle radici del dramma del figlio Edipo. Nel racconto di Sofocle il primo ad infrangere la Legge non è il figlio ma il padre: Laio vuole fare uccidere il figlio perché altrimenti ne sarebbe ucciso. Figlicidio e parricidio si corrispondono drammaticamente come due facce della stessa medaglia. Tutto, proprio tutto, è già scritto per Edipo, sin dall’inizio. Il pastore mosso a pietà affida il bimbo a un altro pastore che a sua volta lo affida a una coppia regale della città di Corinto che non poteva avere figli. Edipo scopre il suo destino consultando il Dio Apollo e proprio per evitare che si compia decide di allontanarsi dalla sua città. Lungo la strada incontra però, senza riconoscerlo, il proprio padre e lo uccide in uno scontro mortale. In seguito risolverà l’enigma della Sfinge e diventerà il re di Tebe, sposo della sposa di Laio, di sua madre Giocasta. La tragedia di Edipo si condensa nella sua impossibilità a sfuggire al proprio destino: tutto era già scritto e più Edipo rifiuta la scrittura del proprio destino, più resta impigliato.
In un primo tempo Edipo è vittima passiva della sentenza dell’Altro che porta tatuata sulla sua nuca: è un figlio abbandonato e adottato. In un secondo tempo della sua vita diviene un eroe, un salvatore; libera Tebe risolvendo il mistero della Sfinge. Sembra aver modificato il suo destino: diventa un re che assicura prosperità al suo popolo e alla sua famiglia. Ma l’ombra tetra dell’epidemia cade sulla sua città a causa di una colpa oscura. Edipo vuole sapere la causa del flagello. Attiva con decisione un’inchiesta per scoprire il colpevole ma anche in questo caso volendo sfuggire al proprio destino lo incontra inesorabilmente. La sua inchiesta trascura di indagare se stesso; è tutta rivolta verso l’esterno. È il contrario di Socrate; se questi sa di non sapere, Edipo non sa di sapere. La sua determinatezza lo allontana, paradossalmente, dalla verità. Il nucleo della tragedia, scrive Ricoeur, «non è il problema del sesso, ma quello della luce». Mentre Edipo pensa di vedere, è cieco; è Tiresia, il veggente cieco, che invece può vedere rivelandogli la verità più scabrosa: «Sei tu l’impuro che infetta questa terra... tu cerchi l’assassino di Laio. L’assassino sei tu: questo ti dico... viene da te il tuo Male...».
Edipo preferisce la verità al suo bene e a quello di chi gli sta vicino e lo ama («tutto questo bene mi ha seccato!»). Edipo non patteggia, non media, non ascolta i consigli di Tiresia e di Giocasta, non è attaccato alla propria identità, alla sicurezza delle sue proprietà. La verità, per lui, conta di più di ogni altra cosa. La sua volontà di sapere assume la forma di una hybris radicale che sfida ogni tabù. E questa verità, alla fine, sarà accecante, violenta, traumatica. L’accecamento a cui si sottopone dopo la rivelazione di Tiresia denuncia la sua colpa irrimediabile: «Luce di questo giorno, tu devi essere l’ultima mia luce. Ecco chi sono: nato da chi non mi doveva generare. Vissuto accanto a chi non mi doveva vivere accanto. Chi non dovevo uccidere, io l’ho ucciso».
Edipo non ha il dono della visione immediata della verità propria dell’oracolo. Egli è solo un uomo. La sua ricerca della verità - come quella di tutti gli uomini - è un cammino necessariamente lento e faticoso. Egli paga la colpa del suo desiderio di sapere che non si frena di fronte a nessun limite. Se Edipo non avesse voluto sapere la verità della sua origine sarebbe rimasto padre, Re e marito. Egli non accetta la rimozione, la maschera, non si accontenta di quello che sa; vuole interrompere l’omertà borghese dell’Io, vuole andare sino in fondo.
È la forza tragica di questa figura maledetta. Edipo esce dall’oscurità del non-sapere potendo finalmente vedere quello che ha compiuto. La sua identità di Re, padre e liberatore si ribalta in quella di figlio parricida e incestuoso, destinato a vivere da reietto. È il punto su cui ha insistito, dopo Freud, Lacan: la tragedia del parricidio e dell’incesto è, in realtà, una tragedia della verità. Possiamo chiederci, con Edipo, quanta verità può sopportare un uomo? Nel suo caso la rivelazione della verità coincide con la realizzazione del suo destino; la sua innocenza diventa la sua colpa; la verità non è soltanto luce che libera la visione, ma può essere anche talmente insopportabile da rendere impossibile ogni visione.
Inciviltà di genere
Colonia. Donne vittime e profittatori maschi dello scontro di civiltà
di Giuliana Sgrena (il manifesto, 10.01.2016)
Se fosse stato un attacco preordinato - ma non c’è nessuna prova per sostenerlo - sarebbe stato perfetto. Mentre tutta l’Europa si prepara militarmente e psicologicamente ad affrontare attentati terroristici la maggiore destabilizzazione arriva nella notte di capodanno in piazza. In diverse piazze della Germania - Colonia, Amburgo, Stoccarda - ma anche Zurigo ed Helsinki.
Una massa incontrollabile di maschi - di origini arabe o musulmane, forse anche richiedenti asilo, ma ci sono anche occidentali, ubriachi, armati di bottiglie, anche qualche molotov, coltelli e forza bruta - aggrediscono le donne, tutte quelle che si trovano di fronte, sulla strada, le picchiano, feriscono, stuprano, perfino derubano, la polizia non può, non sa, non ha i mezzi per intervenire. Tanto che ad Amburgo sono i buttafuori dei locali notturni a salvare le donne aprendo le porte dei locali che proteggono.
È un attacco molto diverso da quello che è avvenuto a Parigi - al quale è stato da alcuni media paragonato - non sono locali di musica, ristoranti o la sede di un giornale satirico - i simboli della laicità francese - ad essere colpiti, ma la piazza come luogo di incontro di tutti e le donne, che simbolizzano il nemico - il diavolo verrebbe da dire - per i sostenitori di una cultura misogina e patriarcale.
Non solo tra i musulmani, la barbarie è ovunque. Aggredire, violentare le donne vuol dire colpire un genere nella sua più profonda identità e intimità, vuol dire usare strumenti che sono purtroppo diventati usuali nelle guerre e non solo moderne.
Un attacco di questo tipo non spinge a uscire per dimostrare di essere ancora presenti - anche se c’è chi lo fa - nonostante le bombe e i kamikaze, si può rischiare una pallottola ma andare incontro a uno stupro è diverso.
Eppure ieri le donne sono scese di nuovo coraggiosamente in piazza contro le violenze subite e contro la destra anti-islam e i neonazisti, pronte ad accusare «i nemici, uguali dappertutto, del sessismo e del fascismo». Nonostante la gente resti attonita e, colpita psicologicamente, cancella la partecipazione al famoso carnevale di Colonia.
Se fosse stato un atto terroristico sarebbe riuscito perfettamente. Ma anche se fosse stato organizzato dalle bande naziste e xenofobe, del resto i terroristi - anche quelli dell’Isis - non hanno forse la stessa ideologia fascista? La destra tedesca vedrebbe in questi atti confermata la sua previsione: verranno i barbari e stupreranno le nostre donne. E anche se non è così, la destra più estrema ne sta già approfittando. Ma anche tutta quella che vuole il respingimento dei migranti e Angela Merkel pagherà sicuramente - in termini elettorali - la sua politica di accoglienza, anche se finora era riuscita a contenere le opposizioni. La sua reazione a questi fatti è stata infatti molto dura.
Le reazioni sono state ritardate dai rapporti edulcorati della polizia che ha peccato oltre che per il mancato intervento anche per l’eccesso di politically correct: i temi della migrazione, dei profughi, dell’islam e la violenza sono tabù in Germania.
È chiaro che se tra le bande che hanno attaccato le donne ci fossero stati anche profughi o richiedenti asilo saranno loro a pagare il prezzo più alto o comunque lo saranno soprattutto i prossimi profughi che cercheranno di approdare sul territorio europeo. Lo vediamo anche in Italia dove la legge per l’abolizione del reato di clandestinità - che doveva passare tra breve in parlamento - sarà con ogni probabilità rinviata, con il beneplacito di tutti, a non si sa quando.
Ancora una volta possiamo dire che le donne sono state le vittime di questo criminale assalto ma saranno i maschi sostenitori dello scontro di civiltà ad approfittarne.
Utopia
Quell’isola che non c’è diventata la madre di tutte le Costituzioni
La grande opera di Thomas More compie 500 anni
Non una fuga nel sogno: un modello a cui ispirarsi
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 08.01.2016)
Thomas More creò “Utopia” cinquecento anni fa, nel 1516, in età matura e mentre si stava avviando a una brillante carriera politica che lo avrebbe portato a essere cancelliere di Enrico VIII. Il divorzio del re segnò la rottura dell’Inghilterra con la Chiesa di Roma e la fine della carriera e della vita del cardinale cattolico More, giustiziato il 6 luglio del 1535 (santificato da Pio XI nel 1935 e proclamato da Giovanni Paolo II protettore dei politici).
“Utopia” é il capolavoro di questo grande umanista cristiano che Erasmo da Rotterdam descrisse come un credente ansioso di una fede verace e nemica di ogni superstizione, e che i bolscevichi immortalarono in un monumento posto davanti al Cremlino accanto a quello di Tommaso Campanella. Prima opera che porta questo nome, Utopia non é un libro semplice e sulle intenzioni del suo autore (che riconobbe la schiavitù e la subordinazione delle donne) gli studiosi non si trovano ancora d’accordo.
Certamente, si trattò di un progetto che rifletteva le condizioni storiche dell’Inghilterra del tempo, afflitta dall’intolleranza religiosa (alle soglie della Riforma protestante) ma prima ancora dalla miseria delle classi povere e dall’opulenza di un’oligarchia abituata al privilegio di rapina.
Utopia non disegna però un sogno d’evasione nella terra dell’abbondanza. Racconta una società in sintonia con l’etica dei moderni, dove il lavoro è onorato, anche se nessuno è costretto alla stessa mansione per tutta la vita; dove si rispetta un tempo lavorativo di sei ore giornaliere affinché ognuno abbia il tempo dello svago e possa coltivare rapporti affettivi e sociali, l’arte e la scienza.
In Utopia, la legge è uguale per tutti; la giustizia segue un dosaggio di oneri e di onori misurato secondo il servizio reso alla società, non l’appartenenza a un ceto o una classe; la vita pubblica aborre la retorica perchè menzognera; e infine, il popolo non è una platea addomesticata da retori e da legulei. Nelle città federate di Utopia si promuovono la cultura, la letteratura e l’arte; sono abolite le sofisticherie teologiche e metafisiche, si educano i giovani secondo i principi del metodo sperimentale, il più adatto a un popolo che si autogoverna e ha il potere ultimo delle decisioni; i cittadini delegano l’amministrazione a magistrati che sono scrupolosamente controllati; le amicizie e le parentele sono bandite da ogni relazione pubblica.
L’utopia non è propriamente un luogo di evasione dal presente, ma un esercizio di immaginazione che denuncia il disordine della società esistente e mostra i principi a partire dai quali è possibile correggerlo. L’isola che non c’è di More illustra le norme del ben vivere collettivo e privato secondo un ideale che appartiene alla natura umana come un dover essere che la ragione indica - non un assurdo, non un disegno che sta fuori della nostra portata.
L’utopia è, in questo senso, la matrice delle costituzioni moderne, delle leggi che i popoli scrivono nella loro fase creatrice, quando emergono da grandi sofferenze e sanno ragionare per grandi visioni, pensando non a quel che conviene a loro in quel momento e alla loro generazione, ma a quel che farà dignitoso il paese per le generazioni a venire.
Insieme al cinquecentesimo anniversario dell’Utopia di More, nel 2016 si celebrerà anche il settantesimo anniversario della nostra Repubblica, la matrice utopica della nostra società. L’Assemblea che si insediò dopo il 2 giugno 1946 segnò il carattere della nostra Costituzione, nata dalla lotta partigiana e guidata da partiti politici, da cittadini, cioè, con diverse idee politiche e capaci di convenire pur dissentendo. La capacità di immaginare il futuro è innervata nel presente, come un punto di riferimento senza il quale non ci è possibile fare scelte. L’utopia è una creazione esemplare di questa capacità. Un luogo che non c’è del quale non si può fare a meno.
di Roberto Esposito (la Repubblica, 08.01.2016)
Fin nel suo stesso nome - che rimanda a un luogo perfetto, ma inesistente - l’utopia presenta un’ambivalenza costitutiva, che percorre la sua intera storia. Sempre oscillante tra realtà e immaginazione, letteratura e politica, dogmatismo e critica, essa è stata alternativamente vista come prodromo del totalitarismo e come annuncio di libertà.
Ricondotta da alcuni alla Repubblica di Platone, essa è in realtà un genere essenzialmente moderno, risalente al sedicesimo secolo. Diversamente dai racconti utopici di matrice ellenistica - come quelli di Evemero, Ecateo, Giambulo -, che guardano a una mitica età dell’oro situata nel più remoto passato, l’utopia rinascimentale si rivolge piuttosto al futuro.
La stessa idea di “isola”, in cui è collocata da Moro, simboleggia lo strappo dalla terraferma della tradizione classica e cristiana. Certo, essa intende ricostruire una condizione di uguaglianza naturale, ma attraverso strumenti artificiali e una pianificazione di tipo tecnico. Non per nulla, soprattutto nella Nuova Atlantide di Francesco Bacone, la scienza ha un posto di rilievo. Lo stato perfetto non è dato in natura, ma è il prodotto di una determinata progettazione umana. Proprio questo elemento di pianificazione integrale, volto alla produzione di una società perfetta, espone però l’utopia al rischio della degenerazione. Ben visibile nella Città del sole di Campanella, tale carattere ingegneristico percorre le utopie settecentesche e ottocentesche.
Neanche la critica di Marx al socialismo utopistico di Saint-Simon e Fourier, in nome di un socialismo scientifico, risulta immune da una tendenza totalizzante. Ciò spiega il ribaltamento del racconto utopico nella sua versione distopica operato, nel Novecento, nel Mondo nuovo di Huxley e in 1984 di Orwell.
Eppure questa condanna non chiude la storia dell’utopia, come dimostra il suo rilancio nello Spirito dell’utopia e nel Principio speranza di Ernst Bloch. Una volta caduta la pretesa prometeica della perfettibilità del genere umano, l’utopia conserva intatta la propria carica emancipativa nei confronti dei poteri esistenti. Si direbbe che essa resti valida a patto di non immaginarsi integralmente realizzabile - di restare un disegno aperto, incompiuto.
Come insegna Kant, le idee della ragione non sono destinate a concretizzarsi nella realtà, ma, se assunte come ideali regolativi, la possono spingere verso esiti apparentemente irraggiungibili.
L’idealismo ormai lontano dal mondo del lavoro
di Giancarlo Bosetti (la Repubblica, 08.01.2016)
Nonostante l’incandescente fantasia di Thomas More (o di Tommaso Campanella) la distanza tra l’utopia e una realistica riforma è esposta al tira e molla della retorica e all’interesse di chi deve pagarne il prezzo. Nell’isola inventata dall’inglese si lavorava sei ore al giorno, nella Città del Sole del calabrese solo quattro. Erano davvero utopie e lo sono rimaste. Ma per molti è rimasta utopia la limitazione a otto ore, anche dopo che una convenzione internazionale l’ha sancita come un diritto nel 1919. Ancora più utopia oggi la piena occupazione.
Il fatto è che a meritarsi cattiva fama non sono stati gli ideali, ma alcuni vizi che si accompagnano spesso all’utopia e fanno sì che venga regolarmente trasformata in incubo. Il vizio non è l’altitudine del desiderio, ma quello che i grandi critici dell’utopismo - due per tutti: Karl Popper e Isaiah Berlin - hanno identificato come il suo aspetto più pericoloso: la convinzione che si possa realizzare una società perfetta, esente dai comuni difetti - egoismo, avidità, opportunismo, eccetera. Il perfezionismo è dunque parente stretto del costruttivismo rivoluzionario, il quale ritiene, attraverso una élite che si auto-investe del mandato di conoscere la direzione della storia.
Che alcuni sappiano dove va quel fiume fa sì che i prezzi di sofferenza da pagare siano soltanto un inevitabile pedaggio per liberare il suo corso dagli impacci (Popper), mentre gli eletti che cucinano la storia continuano a rompere una quantità crescente di uova giustificandosi, come faceva Stalin, con il bisogno di fare una omelette, che però non arriva mai in tavola (Berlin).
La cura di questo vizio che tende sempre a ripresentarsi, incontenibile - il desiderio di purificare l’umanità accompagna anche le pulizie etniche - sta sia nel coltivare moderazione e gradualità delle riforme sia nell’accettare quella varietà e imprevedibilità di comportamenti che ripropongono l’evidenza del nostro essere fallibili. E diversi. È il dato inoppugnabile su cui Voltaire costruiva l’edificio della tolleranza.
La grandezza degli ideali non è dunque da reprimere. Non era, non è gigantesco l’ideale della cittadinanza cosmopolitica? O quello della pace perpetua in un mondo tutto democratico? Eppure proprio in quelle stesse pagine in cui ne parlava, Emmanuel Kant, che perfezionista non era, collocava la celebre riflessione sul «legno storto», come quello di cui è fatto l’uomo, da cui non si ricaverà nulla di interamente diritto. «Solo l’approssimazione a questa idea ci è imposta dalla natura».
Il “principio speranza” oltre i calcoli della ragione
di Vito Mancuso (la Repubblica, 08.01.2016)
A proposito di utopia occorre sempre ricordare quanto scriveva Oscar Wilde nel 1891: «Una carta geografica che non comprenda l’isola di Utopia non merita nemmeno uno sguardo, perché escluderebbe l’unico paese al quale l’Umanità approda in continuazione» ( L’anima dell’uomo sotto il socialismo). La capacità di utopia però, chiamata da Ernst Bloch «il principio speranza», è imparentata con un superamento della ragione calcolante e per questo all’uomo coi piedi per terra appare spesso irrazionalità e follia. Non è quindi un caso che, qualche anno prima del capolavoro di More, Erasmo da Rotterdam avesse dedicato a lui l’Elogio della follia (1509), composto proprio nella casa londinese di More.
Ma cosa permette di distinguere l’utopia dall’immaginazione fantastica e dall’illusione? È il fatto che l’utopia rimanda sempre a un luogo, a un topos; di esso, di cui si dichiara consapevolmente l’inesistenza qui e ora, si avverte il bisogno per mostrare quale potrebbe e dovrebbe essere il volto più vero dell’esistenza. L’utopia perciò non è fuga dal reale, ma penetrazione nella sua essenza più autentica grazie a una più acuta capacità di visione.
Prendiamo l’essere umano: limitandosi a ciò che appare, può essere considerato solo un grumo di istinti e di voglie, ma nella luce del pensiero utopico diviene soggetto di armonia, creatore di bellezza, promotore di giustizia e apparire come il fenomeno più nobile prodotto dall’universo.
Qual è la prospettiva più realistica? La prima. Qual è quella più produttiva? La seconda. Lo statuto epistemologico del pensiero utopico appare quindi paradossale: si fugge con la mente in un luogo inesistente ma, ben lungi dall’alienarsi nelle illusioni, si diviene più capaci di incidere sulla realtà. Non ci si lascia scoraggiare dalla pesantezza del quotidiano, ma lo si trasforma.
Si impone però la domanda decisiva: qual è la sorgente del pensiero utopico? Come nominare cioè quella dimensione dell’essere più alta rispetto alla piana del reale e per questo capace di illuminarla e di riformarla? Un tempo si chiamava Dio e l’utopia era religiosamente connotata. Poi la si chiamò società socialista e l’utopia divenne politicamente connotata. Il libro di Thomas More, come già la Repubblica di Platone, rappresenta una felice sintesi delle due prospettive, all’insegna di un’ideale teologia politica e di una politica spiritualmente connotata. Stiamo ancora aspettando di vedere la realizzazione di qualcosa di simile ma credo che coltivarne la prospettiva sia una forma di felice utopia.
Rodotà, il divenire universale dell’autonomia individuale
Saggi. «Diritto d’amore» di Stefano Rodotà per Laterza. Dalle unioni civili alla laicità dell’istruzione. Un libro che segnala come la legge non può colonizzare la vita affettiva e la sessualità di uomini e donne. L’amore non rinuncia al diritto. Lo usa come un mezzo per realizzare una sua pienezza. Questo è possibile perché la sua storia è storia politica
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 07.01.2016)
È arduo per un giurista parlare del diritto di amare, dato che la disciplina che rappresenta ha usato l’amore come premessa di un progetto di controllo delle donne, ridotte a proprietà del coniuge, mentre la politica continua a decidere sulla vita di uomini e donne. E tuttavia, scrive Stefano Rodotà nel suo ultimo libro Diritto d’amore (Laterza, pp.151, euro 14), l’amore non rinuncia al diritto. Lo usa come un mezzo per realizzare una sua pienezza. Questo è possibile perché la sua storia è storia politica.
Proprietà, credito e obbedienza: questa è la triade usata dal «terribile diritto», il diritto privato, per assoggettare l’amore - e la vita delle persone - alla razionalità dello Stato e al dominio della legge. Rodotà conduce da sempre una critica instancabile a questo modello. Per lui il diritto d’amore, come tutti i diritti, non nasce dall’arbitrio soggettivo, né da un fondamento naturalistico, ma dal legame tra il diritto e la realizzazione di un progetto di vita. Il diritto è legittimato dalle persone che decidono di riconoscerlo e lo usano per affermare l’autonomia e la libertà di tutti, non solo la propria.
Ciò non toglie che il diritto e l’amore, il desiderio di unirsi a un’altra persona, indipendentemente dal suo sesso, mantengano una distanza irriducibile. Quasi mai, infatti, il diritto è un complice della vita. Anzi, esiste per disciplinare gli affetti e per creare il modello del cittadino laborioso, maschio, proprietario. L’amore, invece, non sopporta regole o norme. Preferisce crearle da sé, nell’esperienza delle relazioni, seguendo un divenire che difficilmente può essere contenuto in un’unica disciplina valida per tutti. Per questa ragione il diritto ha preferito confinare «l’amore senza legge in uno stato di eccezione», come ha scritto un grande giurista francese, Jean Carbonnier.
L’autonomia irrinunciabile
In questo stato di eccezione prevale l’originaria ispirazione del diritto privato - cioè la riduzione della passione a cosa e della persona a proprietà di qualcuno. Orientamenti presenti ancora oggi in alcune sentenza della Corte Costituzionali o in fatali decisioni come quella sulla legge 40 sulla fecondazione assistita approvata dal governo Berlusconi.
A tutela dell’autonomia e della libertà delle persone, Rodotà usa la Costituzione e dai suoi articoli fondamentali traccia un uso alternativo del diritto che distrugge i valori di cui la stessa carta fondamentale è espressione. A questo punto è quasi inevitabile per il giurista raccontare la storia dei movimenti che hanno fatto esplodere il perimetro formalizzato dei poteri e della legge nel secondo Dopoguerra. Prima il movimento femminista, oggi i movimenti Lgbtq a cui Rodotà dedica un intero capitolo. Il diritto di amare è diventato una questione politica di rilievo perché alimenta la ricerca dell’autonomia delle persone. Il conflitto è emerso, fortissimo, sulle unioni civili come, di recente, hanno dimostrato i movimenti Lgbtq che hanno organizzato una «marcia dei diritti» per criticare l’insufficienza, addirittura le potenziali discriminazioni presenti nel disegno di legge Cirinnà che il governo intende approvare.
Storia di un incontro
In questa partita rientra anche il conflitto sull’educazione alle differenze nelle scuole: da una parte, c’è un movimento vasto che sostiene la laicità dell’istruzione pubblica e la critica dei ruoli sessuali per tutelare la libertà dei bambini e degli insegnanti. Dall’altra parte, c’è una reazione furibonda che attraverso il meme dell’«ideologia del gender» - una narrazione tossica strumentale e infondata - ha saldato un ampio movimento conservatore con le istanze più reazionarie del cattolicesimo e mira a colpire la laicità dell’istruzione e la libertà nelle scelte d’amore.
Come accade nei suoi libri, Rodotà unisce la storia dei movimenti a quelle della Costituzione italiana e della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea alla quale ha contribuito. L’incontro con i movimenti serve al diritto per «conoscere se stesso, il proprio limite, l’illegittimità di ogni sua pretesa di impadronirsi della vita - scrive Rodotà -. Emerge così uno spazio di non diritto nel quale il diritto non può entrare e di cui deve farsi tutore, non con un ruolo paternalistico, ma con distanza e rispetto». Dal punto di vista dei movimenti, il diritto serve a riconoscere e a coltivare una tensione nel darsi regole che possono cambiare, seguendo una geometria delle passioni interna alle relazioni tra il soggetto e la sua vita.
In questo quadro è fondamentale il ruolo delle minoranze: il movimento omosessuale, insieme a quello femminista, quello Lgbtq, interpretano lo stesso modo di fare politica: per vincere i movimenti si coalizzano con altri soggetti attivi nella società al fine di ottenere un riconoscimento sociale e istituzionale. Le conquiste sulle libertà personali sono valide per tutti, come hanno dimostrato l’aborto e il divorzio. Il diritto d’amore si inserisce in questa nobile vicenda e risponde a un’esigenza che ha dato il titolo a un altro, notevole, libro di Rodotà: il diritto ad avere diritti.
Tensioni singolari
Auspicio, affermazione performativa, atto di cittadinanza: il diritto ad avere diritti è una formula che caratterizza l’azione coordinata delle minoranze e afferma i diritti universali di tutti: il welfare state, l’ambiente, i beni comuni, per esempio. L’universalismo singolare dei diritti si pratica sottraendosi dall’identità maggioritaria fissata per legge (Deleuze la definiva «divenire minoritario») e, allo stesso tempo, nella creazione di un diritto all’esistenza che sfugge ai principi della morale dominante e agli assetti del potere organizzato dal diritto. Questa duplice azione rivela l’esistenza di uno spazio rivoluzionario. Rodotà lavora alla sua riapertura, in un momento non certo felice di arretramento generale.
Diritto d’amore è infine un libro che va letto insieme a quello dedicato da Rodotà alla solidarietà. Da tempo il giurista è impegnato in una ricostruzione genealogica delle passioni e delle pratiche volte alla costituzione di una soggettività caratterizzata da un rapporto di reciprocità, irriducibile al narcisismo o alla naturalizzazione dei ruoli. Parla di uguaglianza e ne rintraccia la storia nelle pratiche della solidarietà e nella dignità della persona. In questa fittissima tessitura, l’amore è un «rapporto sociale», mentre la sua tensione singolare «a bassa istituzionalizzazione» spinge a creare mondi nuovi. Questa può essere considerata una risposta all’invocazione di Auden: «La verità, vi prego, sull’amore».
L’analisi di Bori
E Freud propose un Mosè liberale
di Marco Rizzi (Corriere della Sera, La Lettura, 03.01.2015)
L’ultima opera di Sigmund Freud è L’uomo Mosè e la religione monoteistica. Il padre della psicoanalisi sottrae Mosè all’ebraismo e ne fa un principe egizio, che trasferisce al popolo d’Israele il concetto di monoteismo, elaborato dal faraone Akhenaton, e si pone alla sua guida. Viene però ucciso dal suo popolo di adozione e sostituito da un omonimo: nasce così il dualismo - tra sacerdoti e profeti, tra Yahweh e Adonài - che percorre la storia ebraica sino alla dicotomia tra legge e grazia di Paolo. Per Freud, il parricidio commesso dagli ebrei nei confronti di Mosè sta alla base della forza del fenomeno religioso, che rappresenta a livello sociale ciò che nell’inconscio individuale è il ritorno del rimosso.
Pier Cesare Bori, scomparso nel 2012, curò l’edizione italiana del saggio di Freud per Boringhieri nel 1977. Vent’anni dopo tenne una relazione, ora ripubblicata a cura di Gianmaria Zamagni ( È una storia vera? Le tesi storiche dell’uomo Mosè e la religione monoteistica di Sigmund Freud , Castelvecchi, pp. 48, e 6), in cui condensa il significato più duraturo dello scritto freudiano: la prospettiva di una religione liberale, priva di immagini e fondata solo sulla verità e sulla giustizia.
La democrazia per Freud e Kelsen
di Giulio Azzolini (la Repubblica, 03.01.2016)
Qual è il legame che ha stretto Hans Kelsen e Sigmund Freud? Nel saggio edito da Morcelliana lo spiegano, con attenzione a testi, critica e storia, Federico Lijoi e Francesco Saverio Trincia.
Nel 1921 Freud invitò Kelsen alla “Società psicoanalitica di Vienna” per una conferenza sul rapporto tra lo Stato e la psicologia delle masse. I due dialogarono su rischi e potenzialità della democrazia. Se in Totem e tabù, i fratelli uccidevano il padre, nella storia erano le masse a voler distruggere le gerarchie aristocratiche. Ma non basta una rivoluzione per fare una democrazia. Il monito freudiano di “educazione alla realtà” e quello kelseniano di “educazione alla democrazia” risuonano preziosi e lontani.
LA TERRA, LA BUONA NOVELLA, E LA COSTITUZIONE - LA LEGGE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI...
CHI SIAMO NOI?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTA’
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
MARINA BOSCAINO - Dall’ANP un vergognoso attacco alla democrazia scolastica *
In un paese normale ci si sarebbe aspettati delle scuse accalorate ed il tentativo di allontanare in tutti i modi accuse e sospetti. Ma il nostro - il paese di Mussolini, Tambroni, Scelba, Pomicino, De Michelis, Craxi, Berlusconi, Scilipoti, Renzi - non è un paese normale. È accaduto che l’ANP (Assoziazione Nazionale Dirigenti Scolastici e Alte professionalità) abbia pubblicato delle slides per la formazione, che nei giorni scorsi hanno suscitato un grande e ragionevole scandalo.
Veniva infatti in esse segnalato un identikit di “docente contrastivo” (leggi pensante, divergente, critico, dialettico, incapace di ossequio e di acquiescenza) indesiderabile nella “Buona Scuola”. Non solo. Il materiale per la formazione passava dalla compiaciuta considerazione che gli insegnanti “non avranno la certezza di una scuola vita natural durante, come adesso”, all’ossimorica celebrazione del dirigente “specialista del generale”.
Il deprecato regime della collegialità e dell’elettività - per ANP fortunatamente superato dall’attuale centralità del DS, normata dalla “Buona Scuola” - avrebbe consentito agli insegnanti di approvare nei Collegi e nei Consigli di istituto atti di indirizzo viziati addirittura da “conflitto di interessi”. Occorre dunque spazzare via le prerogative degli organi collegiali, sembra indicare il vademecum e liberarsi di tutta la residuale democrazia scolastica.
Come intervenire? Semplice. È tutto descritto nelle slides: il Ptof va portato in Collegio Docenti "quando vi siano le condizioni per raccogliere il consenso" per "una discussione da contenere quanto più possibile" ed "evitando mozioni di tipo ostruzionistico e comunque illegittime"; e poi in Consiglio di Istituto cui spetta, secondo la 107, "approvare" il testo. E qui l’ANP si preoccupa perché "potrebbe significare che può modificarlo": "si tratta di un evento da evitare con ogni cura" e allora "il Dirigente avrà preparato accuratamente la delibera" "che sostanzialmente dovrà essere una ratifica". Ecco, in un’unica, sapiente mossa, spazzato via il diritto di rappresentanza di docenti, genitori, studenti, personale Ata, casomai anche tra questi ci fosse qualche “contrastivo”.
Un altro punto qualificante è la citazione relativa ai Marines - Don’t ask, don’t tell (“non chiedere, non dire”) - utile per invitare a non sollecitare proposte: concezione post renziana di dibattito, confronto, dialettica (sintetizzati - nello strano mondo di Anp - nel concetto di “ostruzionismo”).
Una serie di gaffes a dir poco imbarazzante, che inficia decisamente l’immagine dell’Anp, il senso della scuola come organo dello Stato e dell’esercizio della democrazia; e non come potentato di qualche modesto burocratino, arrogante e asfittico che gioca a fare il dittatore di provincia, vanificando decenni di battaglie per la democrazia scolastica e per la scuola della Repubblica.
Sorprendemente la risposta alle critiche, come si diceva, non sono state scuse; ma un ulteriore, incredibile rigurgito di arrogante autoritarismo. Infatti, in una riunione al Miur di qualche giorno fa, l’Anp si è difesa, etichettando l’intera questione come “strumentale” e opponendo alcune domande, che - qualora ce ne fosse bisogno - non fanno che aggravare la situazione e rendere ancora più esplicita l’assoluta incapacità di questa associazione di assumere una posizione differente da una volontaria esasperazione della conflittualità, quella tra dirigenti scolastici e docenti, indotta dalla legge 107.
“Basterà solo il richiamo ad uno dei più noti e sperimentati strumenti logici per vagliare la validità di un’affermazione: quello che va sotto il nome di “prova ex adverso”. Cosa accadrebbe se la categoria concettuale e comportamentale della “contrastività”, cui con orgoglio si richiamano non pochi dei nostri più accesi contestatori, fosse assunta a criterio regolatore della vita delle scuole, e delle comunità in genere? O, più banalmente, degli studenti nei confronti di quegli stessi docenti?”
Sono domande che minano alla base non solo i principi della democrazia scolastica e della libertà di insegnamento. Ma l’intero concetto di democrazia e partecipazione. Sono il segno scellerato di questo tempo triste ed angusto, quello degli omuncoli che - protetti evidentemente da chi percepiscono come più forte e più potente - alzano la testa. Finalmente senza censure e freni inibitori, legittimati da esempi più illustri e da una norma che serve da abbrivio per consentire interpretazioni di autorità arbitraria e liberticida, spacciati per efficienza ed ammantati di tecnicismi in salsa di modernità.
Siete davvero disponibili a lasciare i vostri figli, nipoti, le future generazioni in mano ad un manipolo sconsiderato, all’autoritarismo più becero? Noi no, perché consideriamo la libertà dell’insegnamento e la libera circolazione delle idee, la manifestazione delle opinioni e il pensiero divergente non una garanzia per i docenti. Ma una tutela per chiunque voglia iscrivere uno studente alla scuola pubblica con la convinzione di poter esigere da quella istituzione dello Stato il rispetto di qualsiasi identità, individualità, precipuità quello studente incarni, senza differenza di sesso, razza, convinzioni politiche, condizioni economiche e sociali, credo religioso.
Anche per quella scuola - la scuola della Costituzione, pubblica, laica, pluralista, democratica, inclusiva - hanno peraltro sacrificato la propria vita alcuni “contrastivi” d’eccellenza: Gramsci, Pertini, Gobetti, a cui sono intitolate alcune istituzioni scolastiche repubblicane; e non per caso. Senza la cui capacità di fare della propria “contrastività” esattamente il proprio “criterio regolatore”, il senso del proprio essere al mondo, il nostro Paese non avrebbe conosciuto quella democrazia che sta ignobilmente dilapidando.
Insomma: vergogna! L’ANP deve chiedere scusa. I dirigenti scolastici in servizio - quelli che non hanno partecipato ad una sola dei grandi momenti di mobilitazione degli ultimi anni contro lo scempio della scuola della Repubblica - si devono dissociare apertamente da dichiarazioni e intenzioni che sono - quelle sì - apertamente in contrasto con qualcosa con cui non si può entrare in conflitto legittimamente: la Costituzione, e non solo negli artt. 33 e 34.
E il ministro Giannini deve uscire dal suo offensivo silenzio e dire in modo esplicito cosa pensa di una vicenda che vilipende non solo la dignità professionale di docenti incapaci di ossequiare il capo di turno con acritica osservanza delle regole del quieto vivere; ma la democrazia intera in un Paese che ha perduto, assieme alla capacità di vigilare, anche quella di individuare limiti oltre i quali non è possibile andare. L’epica dell’uomo solo al comando, incarnata dal presidente del Consiglio segretario di partito, rischia di essere esportata definitivamente nel luogo in cui più che in ogni altro la libertà di espressione ha una funzione sacra, nel senso più laico della parola.
Marina Boscaino
Settant’anni dopo siamo pronti a leggere il Mein Kampf?
Mentre in Germania gli storici preparano la prima edizione critica al libro-manifesto di Hitler è dedicato il nuovo numero di Origami
di Umberto Gentiloni (La Stampa, 16.12.2015)
Si può vietare la pubblicazione di un libro per tutelare valori e consuetudini? E chi ha il potere di deciderlo e di controllarne la diffusione? Possiamo ancora porre vincoli e barriere nel tempo della rete quando tutto è rintracciabile, alla portata di un motore di ricerca? Interrogativi che sembrerebbero futili se il libro in questione non fosse il concentrato del pensiero e della piattaforma politica di Adolf Hitler. Il Mein Kampf (a cui è dedicato il nuovo numero di Origami da domani in edicola, mentre in Germania gli storici preparano la prima edizione critica) è un oggetto che incute timore, il suo impatto va ben al di là di pagine sconclusionate ricche di propaganda nazista disarticolata e confusa.
Sappiamo che ha avuto un peso nella costruzione di una terribile realtà politica, ha contribuito a rafforzarne lo spessore e la capacità attrattiva, ha avuto una storia e un itinerario editoriale simile alla traiettoria del regime di cui ambiva a cantare le lodi e narrare le gesta.
Hitler lo scrive mentre è in prigione a Lansberg, recluso in quella che con sprezzo definirà «un’università a spese dello Stato». Sembra che altri detenuti gli suggerirono di iniziare a scrivere le sue memorie per tentare di contenere i suoi monologhi logorroici, porre un freno a quel fiume incessante e insensato di parole. Vane illusioni. Hitler leggeva o meglio recitava ad alta voce i brani che riusciva a mettere sulla carta. Il titolo provvisorio suona come un manifesto d’intenti: «Quattro anni e mezzo di lotta contro menzogne, stupidità e codardia», poi la scelta definitiva mentre detta pensieri sparsi al suo autista Emil Maurice.
Errori e ripetizioni
Il primo volume - esce nel luglio 1925 - tiene l’impronta autobiografica in uno strano connubio tra sfondoni e riferimenti di vario genere conclusi dal ridondante richiamo al programma del partito. La seconda parte viene concepita dopo la scarcerazione - pubblicata nel ’26 - ed è incentrata sui caratteri della proposta politica emergente: ideologia di riferimento, propaganda come necessità strategica, richiami alla centralità della politica estera o meglio della proiezione internazionale del suo disegno aggressivo.
I biografi di Hitler da tempo hanno ricostruito che in molti misero le mani sul manoscritto per renderlo leggibile e presentabile, depurandolo tra l’altro da errori grammaticali e ripetizioni ricorrenti. L’autore stesso non mancò di ridimensionarne la natura fino a condurla a un insieme di articoli o contributi sporadici. E tuttavia quelle pagine contribuirono a incendiare l’Europa negli anni tra le due guerre.
Bestseller per forza
L’esordio fu tutt’altro che un successo. La casa editrice del partito (Franz Eher-Verlag) lo mise in circolazione con un prezzo impegnativo, 12 marchi. Nel 1929 il primo volume aveva venduto 23 mila copie, mentre il secondo aveva raggiunto le 13 mila. Un punto di partenza che s’intreccia con il percorso dei successi del partito, con l’ampliamento dei consensi e dei potenziali sostenitori. Tra il 1930 e il 1932 le copie diventano 80 mila. Con la presa del potere, l’anno successivo viene superato il milione e mezzo di copie.
Una marcia inarrestabile: dal 1936 viene predisposta la versione braille per i non vedenti e ogni coppia di sposi riceve in dono un volume in versione rilegata. Nel tornante conclusivo della Seconda guerra mondiale le tirature e le vendite avevano superato i 10 milioni, senza contare la diffusione all’estero grazie alle 16 lingue in cui venne tradotto. Un potente strumento di diffusione e soprattutto di identificazione collettiva nel pensiero (per quanto caotico e delirante) di un uomo solo che al comando avrebbe risollevato le sorti della Germania tracciando un nuovo cammino per il genere umano.
Il nucleo delle idee portanti è noto: la razza come chiave di lettura delle stratificazioni sociali, lo spazio vitale orizzonte e frontiera di ogni conquista necessaria, la violenza del più forte esercizio di identità rinnovate, la dittatura come approdo di un progetto di trasformazione. Il significato del libro nel dibattito tra gli studiosi ha oscillato tra due estremi: una piattaforma ideologica che contiene le premesse dell’ascesa successiva o al contrario uno scritto marginale che non merita particolari attenzioni.
Le ragioni della storia
Ecco le origini delle paure, i timori che la pubblicazione di un testo del genere possa offrire spunti a chi è in cerca di legittimazioni o pericolose scorciatoie. Ma attenzione, il tema non è certo quello di riaprire dopo decenni un confronto di merito sul nazismo, né può essere confuso con le prerogative della libertà di espressione, del pluralismo delle idee.
Un’edizione critica di duemila pagine, con 3.700 note, dopo tre anni di lavoro nel quadro di un prestigioso istituto storico (quello di Monaco di Baviera) si basa sulla scelta di contestualizzare storicamente: distruggere il mito e le sue tracce rafforzando le ragioni della storia quindi la sfida e gli strumenti per una consapevole comprensione del passato. Non è poco.
Hitler, un figlio dell’occidente
di Oreste Pivetta *
Settant’anni fa Adolf Hitler diventava cancelliere dei Reich. Era la mattina del 30 gennaio quando il presidente Paul Hindenburg gli affidò l’incarico. Hitler poteva contare su una coalizione di destra, ma quarantotto ore dopo l’investitura ottenne da Hindenburg lo scioglimento del parlamento. A febbraio il nuovo governo decretò la sospensione della libertà di stampa e i nazisti scatenarono un’ondata di violenze contro gli oppositori politici. Soprattutto i nazisti misero in moto la formidabile macchina della propaganda, diretta da Goebbels, mentre per decreto legge (a fine febbraio) venivano sospese le libertà costituzionali e proibito l’attivismo politico delle sinistre. Il giorno prima, il 27 febbraio, era stato dato alle fiamme il Reichstag. Dell’incendio fu accusato un cittadino olandese di presunte simpatie comuniste, Marinus van der Lubbe.
Cominciava così la più tragica avventura del nostro secolo, alla fine la guerra, le deportazioni, lo sterminio. Le idee che ispirarono tutto questo, stanno in un libro, Mein Kampf, che Hitler aveva dettato al suo segretario Rudolf Hess nell’anno di prigionia, nel carcere di Landsberg, tra l’11 novembre 1923 e il 20 dicembre 1924. Hitler era stato condannato per alto tradimento per il tentato putsh di Monaco, il putsh della birreria. Mein Kampf, scritto in forma prolissa e contorta, fu rivisto e corretto (anche dagli errori grammaticali) da un prete che era diventato giornalista antisemita, Bernhard Stempfle, e da Josef Czerny, di origine cèca, giornalista e poeta ugualmente antisemita. Il titolo era di Max Amman, che stava in carcere con Hitler ed era il direttore commerciale della casa editrice del partito nazionalsocialista.
Il libro ebbe all’inizio scarsa fortuna. Alla fine della guerra, al crollo del nazismo ne erano state vendute dieci milioni di copie. Veniva regalato ad ogni coppia di neo-sposi. In Italia fu Bompiani a pubblicare nel 1934 il secondo volume, quello dichiaratamente teorico, che si intitolava Il movimento nazional socialista. Il primo volume (Resoconto), più autobiografico, apparve sempre con Bompiani nel 1938. L’editore Kaos ristampa ora entrambi i volumi, a cura di Giorgio Galli, che ha scritto anche un’ampia introduzione (con una postfazione di Gianfranco Maris, presidente dell’Aned, associazione nazionale ex deportati).
Professor Galli, la prima domanda nasce dal disagio: il disagio, persino materiale di fronte a un oggetto come un libro, di chi ha sempre visto in «Mein Kampf» uno dei simboli della barbarie nazista. Un libro respinto dalla nostra coscienza. Perchè ristamparlo?
«Intanto perchè in una società aperta non dovrebbero esistere tabù. Poi perchè Mein Kampf non è mai scomparso: ne sono circolati estratti in una chiara logica apologetica e si sa che una cosa proibita esercita sempre una certa attrazione. Questa riedizione ha un dunque un senso: non accettare i tabù e offrire un testo storicamente collocato, un testo che può illuminare la figura di Hitler, che tante ambiguità, tante rimozioni e persino le censure possono avvolgere di un fascino sinistro... Proprio sere fa in un programma televisivo, padre Amorth, il prete esorcista del Vaticano, trattava Hitler al pari di un indemoniato. L’oscurità può sedurre: una indagine ha catalogato centocinquanta siti internet ispirati ad una sorta di mito hitleriano».
L’idea della follia è anche un’idea di alterità. Leggendo invece «Mein Kampf» si dovrebbe capire quanto Hitler viva invece nel solco della cultura del suo tempo?
«Mein Kampf è stato sempre giudicato un prodotto abbastanza singolare, sorprendente, quasi un incidente nei percorsi della storia politica occidentale. Non è vero. Hitler raccoglie idee che vengono da lontano. Mi rifaccio alle tesi di Poliakov e di Mosse. Il razzismo e l’antisemitismo non sono invenzioni di Hitler».
Raul Hilberg, nella «Distruzione degli ebrei d’Europa» (Einaudi), presenta addirittura le tavole comparative tra diritto canonico e misure naziste: dal divieto dei matrimoni misti (Sinodo di Elvira del 306) alla legge per la difesa del sangue e dell’onorabilità tedesca (15 settembre 1935), dalla proibizione per gli ebrei a rivestire cariche pubbliche (Sinodo di Clermont del 535) alla legge sulla riorganizzazione delle professioni burocratiche pubbliche (7 aprile 1933). Il distintivo di riconoscimento fu inventato dal Concilio Lateranense nel 1215. Scrive Hilberg: i nazisti non hanno rinnegato il passato, hanno costruito sulle vecchie fondamenta...
«Nel testo hitleriano il razzismo antigiudaico è l’approdo di una concezione razziale che affonda nella cultura occidentale. Hitler per esempio utilizza il francese Joseph-Arthur Gobineau e il suo Saggio sull’ineguaglianza delle razze. Ne ricava l’esecrazione per il "meticciato", che avrebbe portato alla degenerazione dell’umanità. Nel Mein Kampf si ritrovano le teorie eugenetiche dello psicologo inglese Francis Galton...».
Erano tutte letture di Hitler?
«Non letture dirette, ma non credo che la cultura di Hitler si limitasse a pochi opuscoli antisemiti. Conosceva Nietzsche e Schopenhauer. Ipotizzo che conoscesse anche Weber: nella concezione che Hitler manifesta del "capo carismatico", che dev’essere confermato dal successo e che è forte di una tradizione, vi è affinità con il pensiero del sociologo. Tra i dirigenti nazisti era popolare Gobineau».
La storiografia revisionista, che come scrive uno studioso che lei cita, Enzo Traverso, tende a espellere i crimini nazisti dalla traiettoria del mondo occidentale, spiegandoli come una reazione alla rivoluzione russa...
«Non fu l’antibolscevismo a indurre Hitler all’invasione dell’Unione Sovietica. L’operazione Barbarossa non fu il risultato di una contrapposizione ideologica, ma di una pretesa di "spazio vitale". Lo si legge appunto nel Mein Kampf: "Chiudiamo finalmente la politica coloniale e commerciale dell’anteguerra... quando oggi parliamo di nuovo territorio in Europa, dobbiamo pensare in primo luogo alla Russia o agli Stati marginali a essa soggetti. Sembra che il destino stesso ci voglia indicare queste regioni: consegnando la Russia al bolscevismo, rapì al popolo russo quel ceto di intellettuali che finora ne addusse e garantì l’esistenza statale...".
Come si spiega invece la simpatia per l’Inghilterra. Anche qui fa testo il «Mein Kampf», a proposito di Inghilterra e Italia: «La più grande Potenza mondiale e un giovane Stato nazionale offrirebbero ben altri elementi per una lotta in Europa, rispetto ai putridi cadaveri di Stati ai quali la Germania si alleò nell’ultima guerra».
«Sullo sfondo c’è sempre la missione della razza ariana. Secondo i nazisti da una parte della Manica stavano gli ariani di mare, dall’altra gli ariani di terra».
«Mein Kampf» definisce anche il ruolo dello stato. Che cosa rappresenta per Hitler lo stato?
«Lo stato è uno strumento. Scrive: "Lo stato non rappresenta un fine, ma un mezzo. Esso è la premessa della formazione di una civiltà umana superiore, ma non è la causa di questa...". Hitler ribalta le conclusioni di Gobineau: il meticciato non è irreversibile, l’ariano resiste, lo stato è solo il mezzo per invertire la tendenza alla degenerazione, da qui la politica eugenetica dedotta da Galton, teorizzata nel Mein Kampf, attuata dal Terzo Reich. Nella concezione hitleriana lo Stato non è dunque un oggetto di culto, ma uno strumento al servizio di una razza che si edifica in nazione e costruisce una civiltà».
Altro tema fondamentale del «Mein Kampf» è quello relativo alla concezione della classe politica...
«Di Weber appunto è l’idea del capo carismatico investito di una missione, attorno al quale si forma il primo nucleo dei fedeli e che deve essere confermato dal successo, "la inequivocabile prova del successo visibile, il quale, in fin dei conti darà sempre l’ultima conferma della giustezza di un’azione". I profeti disarmati non contano».
Siamo ancora nella tradizione occidentale?
«Tutti i politici anche i più moderati coltivano l’idea di essere investiti da una missione, coltivano la convinzione di avere un compito di pubblica utilità. Questo Weber lo coglie con lucidità. La storia politica dell’Occidente è costruita da personaggi di questo genere, da Cronwell a Napoleone. Hitler ha aggiunto la dimensione divina: capo politico e sacerdote del nuovo rito. Le sue oceaniche assemblee erano quasi cerimonie liturgiche: la massa dei sottoposti nel buio, la tribuna nella luce, il capo che arriva al culmine della rappresentazione. Non cita ovviamente una religione: Hitler si appella agli dei o a una provvidenza che non è mai la provvidenza cristiana... Hitler scrive: "Noi ci rivolgiamo a quelli che adorano non il denaro, ma altri Dei, ai quali votano la loro esistenza"».
«Mein Kampf» dunque sintesi della futura politica hitleriana. Singolare che non faccia cenno alle fonti...
«Mein Kampf esprime un progetto compiuto. Gli atti successivi sono rintracciabili in quelle pagine. Il nazismo si affermò sulla base di un disegno preciso e chiuso, al contrario del fascismo che procedette in modo molto più empirico. L’unica teorizzazione del fascismo sta in quella voce dell’enciclopedia Treccani scritta da Gentile e rivista da Mussolini... Per quanto riguarda le fonti, tacendole Hitler rivendicava l’originalità del proprio pensiero».
Non fu solo un progetto però ad assicurare il successo del nazismo... un movimento che fino al 1928 non aveva che il tre per cento dei voti dopo cinque anni andava al potere.
«Non fu l’ideologia ed anche questo smentisce i revisionisti. Furono sei milioni di disoccupati, con i quali il comunismo non aveva nulla a che fare. La crisi tedesca stava tutta all’interno del sistema liberal democratico. La classe politica della repubblica di Weimar si era mostrata incapace, non solo divisa. La soluzione venne da una medicina keynesiana, come quella adottata negli Stati Uniti, proposta a Hitler da Hjalmar Schacht, il presidente della Banca tedesca: investimenti pubblici per rilanciare l’economia. Il bello è che Schacht aveva presentato lo stesso piano al governo di Weimar, che l’aveva respinto. Fu il primo successo di Hitler: la disoccupazione di massa cancellata. Il "miracolo economico" consentì la seconda performance di Hitler: il riarmo. Nel 1933 la Germania aveva un esercito di centomila uomini, male armati, senza aerei. Nel 1938 la Germania era la prima potenza militare europea».
Mein Kampf così cade in Germania l’ultimo tabù
Comparirà un’edizione critica che evidenzia l’uso strumentale di luoghi comuni e falsità
A 70 anni dalla morte di Hitler scadono i diritti del manifesto del Terzo Reich detenuti dalla Baviera. Non fu mai pubblicato, ora cambia tutto
di Angelo Bolaffi (la Repubblica, 17.12.2015)
IL prossimo gennaio uscirà nelle librerie tedesche l’edizione storico-critica del “Mein Kampf” di Adolf Hitler: cade così in Germania anche l’ultimo tabù. Ma la decisione presa dall’Institut für Zeitgeschichte di Monaco molto difficile e controversa è anche saggia e lungimirante. Il 31 dicembre di quest’anno, infatti, trascorsi settant’anni dalla morte del Führer e novant’anni dalla prima edizione scadranno i diritti d’autore del Manifesto ideologico del III Reich.
Nel ‘45 dopo la capitolazione tedesca gli Alleati avevano assegnato per competenza al Land della Baviera, che ne vietò la riedizione, la custodia dei diritti del “Mein Kampf”. E questo per due ragioni: Monaco era stata la città culla del movimento nazista e in essa Hitler aveva scelto di avere la sua residenza e continuò a mantenerla anche dopo essere stato nominato a Berlino Cancelliere del Reich. E poi perché a Monaco nel 1925 per i tipi dell’editore Franz Eher legato al movimento nazista, era apparso con il titolo Una resa dei conti il primo volume dell’opera. Hitler l’aveva scritto durante la sua detenzione nel carcere di Landsberg mentre scontava la condanna (per la verità molto mite) dopo il fallito putsch del Novembre del 1923. A questo primo volume di carattere prevalentemente autobiografico contenente le descrizioni degli anni dell’infanzia e della gioventù nella nativa Braunau, di quelli bohèmien vissuti in miseria a Vienna e delle traumatiche esperienze nella Prima guerra mondiale, fece seguito, tra la fine del 1926 e l’inizio del 1927, sempre per lo stesso editore, il secondo intitolato Il Movimento nazionalsocialista: quello più propriamente programmatico.
Benché Hitler fosse allora uno dei tanti esponenti dell’estrema destra nazionalista che odiava Weimar, la democrazia e gli ebrei nel segno della rinascita della “vera Germania” ed era noto solo come acceso comiziante e pittore fallito, Mein Kampf fu subito un best seller. E questo nonostante le feroci stroncature dei critici: un libro «noioso, confuso, scritto male e fumoso» lo definì Andreas Andernach nel saggio del 1932 intitolato Hitler ohne Maske. E un altro recensore parlò di «un guazzabuglio di frasi costruite male oppure sbagliate dal punto di vista grammaticale che non ha alcun valore intellettuale ».
Ma i recensori e con loro quasi tutta la classe politica e intellettuale della Germania weimariana si sbagliarono clamorosamente. Commisero un gravissimo errore di sottovalutazione sulla pericolosità del personaggio («la storia di Hitler» secondo il grande studioso Karl Dieter Bracher «è una ben nota storia di sottovalutazione»). E soprattutto non colsero la luciferina determinazione e la radicalità programmatica dello scritto: «nella storia raramente o forse mai un dittatore» così lo storico Eberhard Jäckel «ha con tanta precisione messo per iscritto prima di arrivare al potere quello che poi ha veramente fatto».
Della prima edizione del Mein Kampf vennero tirate e vendute 10mila copie che diventarono più di 200mila alla fine del gennaio del 1933 quando i nazisti andarono al potere. Tra il 1933 e il 1945 del Mein Kampf fu pubblicata una serie infinita di edizioni. Di quella in versione popolare veniva regalata una copia agli sposi all’atto delle nozze. Quella di lusso in pelle bianca e incisioni d’oro era destinata ai Gauleiter e agli altri gerarchi del regime.
Quando il III Reich fu sconfitto e per la Germania fu ”l’ora zero” del Mein Kampf risultarono venduti oltre 12 milioni di esemplari che avevano fruttato a Hitler 15 milioni di Reichsmark. 8 dei quali vennero scoperti in una banca e poi confiscati dagli Alleati. Ovviamente nonostante il divieto di pubblicazione in vigore in Germania, il Mein Kampf ha continuato negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale a essere reperibile e letto.
Nell’area di lingua tedesca era possibile acquistare nelle librerie d’antiquariato una delle copie di cui dopo la fine della guerra ci si era volentieri sbarazzati. Nel mondo circolavano edizioni in molte lingue. In Francia le Novelles Editions Latines sin dal 1934 avevano in catalogo una versione non autorizzata della quale ogni anno sono state e ancora vengono vendute alcune centinaia di copie. In India ne circolano addirittura diverse versioni. L’editore americano Random House si è sin dagli anni Trenta assicurato i diritti per l’edizione inglese devolvendo per la verità in beneficienza i proventi delle vendite. Perfino in Israele circola sia pure in forma molto limitata e a fini di studio una versione ebraica del Mein Kampf. Oggi poi da internet è possibile scaricare il testo tradotto in quasi tutte le lingue del mondo.
E allora qual è il problema? È esattamente quello a cui si intende dar risposta con questa edizione critica del Mein Kampf. Intanto dimostrare che una solida democrazia consapevole della propria forza non ha e non deve avere paura di un libro, neppure del Mein Kampf, se sa criticamente discuterne. Questa pubblicazione, inoltre, vuole essere un ennesimo contributo alla rielaborazione in Germania di un «passato che non deve e non può passare». La risposta alle sfide del presente nel segno dell’illuminismo e della difesa dei valori liberal-democratici dell’Occidente. Un ulteriore capitolo, dunque, di grande significato simbolico, di quella “resa dei conti” con la propria storia che costituisce il vero segreto della odierna forza “egemonica” della Germania post- tedesca.
Come? Decostruendo criticamente il testo hitleriano (l’edizione consta di due volumi di 2000 pagine, oltre il doppio dell’originale, corredate da ben 3700 note e commenti) per metterne in luce le falsità ideologiche, le mezze verità, le genealogie razziste di un social darwinismo allora molto in voga e di un niccianesimo pervertito e caricaturale, l’uso demagogicamente strumentale di luoghi comuni come il cosiddetto “spazio vitale”. O l’utilizzo a scopi manipolatori di vere e proprie menzogne. Prima fra tutte quella dei cosiddetti Protocolli di Sion.
Ma il senso forse più rilevante di questa che è stata una vera e propria impresa editoriale costata anni di lavoro e di ricerca ad un team di storici non è, si badi bene, solo quello, pur nobile, di un archeologico ristabilimento della verità. Ma di offrire uno strumento utilizzabile anche pedagogicamente e per questo capace di avere conseguenze politiche nel presente. Infatti l’arrivo in Germania di centinaia di migliaia di profughi provenienti dal mondo arabo (ma il discorso vale per tutta l’Europa) da una realtà culturale in cui in nome della cosiddetta lotta contro il “nemico sionista” la propaganda antisemita, compresa anche la lettura di testi nazisti, è componente fondamentale dell’ideologia dominante e, purtroppo, anche della formazione delle giovani generazioni, potrebbe avere un impatto culturale e politico dalle conseguenze imprevedibili. Soprattutto in Germania un paese in cui la coscienza storica della catastrofe della Shoà rappresenta, per usare le parole di Joschka Fischer, il fondamento della costituzione spirituale della nazione.
Questa pubblicazione, non a caso fortemente appoggiata dalla comunità ebraica tedesca preoccupata dalla possibile rinascita di un “senso comune antisemita”, vuole essere, dunque, uno strumento pratico, una fonte di informazioni e di argomenti di cui potranno servirsi coloro che avranno il difficile compito di favorire non solo dal punto di vista materiale ma anche da quello spirituale e culturale l’integrazione nella società tedesca dei nuovi “ospiti” provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo.
Inoltre potrà e dovrà funzionare da antidoto anche nei confronti del razzismo neonazista che usando strumentalmente l’argomento della difesa dell’identità tedesca sta cercando, soprattutto in alcune realtà della ex Germania Orientale, di organizzarsi nel segno della xenofobia.
Certo, come ha scritto Sven Felix Kellerhoff, un autore che per anni ha studiato il testo hitleriano, quella del Mein Kampf è «una lettura che fa male, mostruosa, molto ma molto perturbante». E tuttavia ha concluso «fare luce » perché questo significa illuminismo «è sempre meglio che tacere o nascondere».
LO STATO DEL FARAONE, LO STATO DI MINORITA’, E IMMANUEL KANT "ALLA BERLINA" - DOPO AUSCHWITZ:
“come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo):
Neil Gregor
“Bisogna leggere il Mein Kampf per disarmarlo”
Da ieri il manifesto di Hitler è nelle librerie tedesche in edizione critica e autorizzata. Con quali rischi? Parla Neil Gregor, uno dei massimi esperti mondiali di storia del nazismo
intervista di Enrico Franceschini (la Repubblica, 09.01.2016)
LONDRA «Era giusto proibire il libro di Hitler nel 1945, ma oggi la Germania fa bene a pubblicarlo, perché possa essere studiato, per capire ancora meglio come nacque il genocidio degli ebrei durante il nazismo e per mettere in guardia contro i genocidi del presente».
Neil Gregor, docente di storia all’università di Southampton, uno dei più grandi studiosi al mondo del Terzo Reich, guarda cadere l’ultimo tabù della Germania. Ieri, per la prima volta dal 1945, è tornato nelle librerie tedesche il “Mein Kampf”: edizione critica di due volumi, duemila pagine, un apparato di note e commenti monumentale, curato dal team dello storico Christian Hartmann dell’Istituto di Storia Contemporanea di Monaco di Baviera.
Sono passati settant’anni dalla morte del Führer, novanta dalla prima edizione e appena sette giorni dalla scadenza dei diritti d’autore. Non è stata una sorpresa, ma vedere l’opera in vetrina dopo che per tutti questi anni il Land della Baviera ne aveva vietata la riedizione, è stato uno choc. A Monaco soprattutto, la città culla del movimento nazista, dove Hitler aveva scelto di avere la sua residenza e dove nel 1925 per i tipi dell’editore Franz Eher, era apparso con il titolo Una resa dei conti il primo volume dell’opera. Eppure l’interesse è stato tale da arrivare già ieri a 15mila ordini, 4mila in più della tiratura iniziale. Un successo di copie che sembra dar ragione agli editori.
Cosa pensa della pubblicazione del “Mein Kampf”, professor Gregor?
«Non penso che la Germania avesse molta scelta. Ritengo comunque che pubblicarlo sia stata la decisione giusta, per le ragioni che gli editori hanno anticipato da tempo, a cominciare dal fatto che il libro era disponibile comunque online a chiunque volesse leggerlo, per finire con il fatto che è passato molto tempo, la Germania è cambiata ed è comunque giusto potere studiare anche un testo simile per comprendere la storia del passato e i rischi del futuro».
Nel saggio “How to read Hitler” lei ha analizzato non solo gli argomenti, ma anche la lingua e la forma del “Main Kampf”. Siamo sicuri che non ci siano problemi a leggere oggi il Führer?
«Non credo. La Germania oggi è probabilmente la democrazia più stabile d’Europa. È inoltre un paese che ha ragionato a lungo sul proprio passato nazista, lo ha digerito con grande attenzione ed è consapevole di che cosa significa come retaggio storico e culturale. Il Mein Kampf è un esempio del retaggio del Terzo Reich, non differente da altri testi e manifestazioni politiche, artistiche, culturali di quel periodo che vanno egualmente analizzate».
Quale potrà essere la reazione dei circoli di estrema destra e filo-nazisti, in Germania e nel resto d’Europa?
«È vero che esistono gruppi di questo genere nella Germania odierna, come del resto ne esistono in Gran Bretagna, Italia e altri paesi del nostro continente. Ma è altrettanto vero che si muovono in una prospettiva differente rispetto al nazismo del Terzo Reich e alle idee propagate dal libro di Hitler. Sono gruppi anti- profughi, anti-immigrati, più concentrati sull’islamofobia che sull’antisemitismo, ben diversi dai predecessori ai quali si rifanno, seppure anch’essi pericolosi e da emarginare con fermezza. Il danno che possono fare relativamente alla pubblicazione del libro di Hitler, tuttavia, dovrebbe essere marginale, non mi aspetto che possa diventare la miccia di un risorgere del nazismo, con vecchi o nuovi slogan».
Andreas Wirsching, direttore dell’istituto che ha curato l’edizione, ha detto che questo lavoro «smaschera le informazioni false diffuse da Hitler, le sue bugie e rende riconoscibili tutte le mezze verità finalizzate agli effetti propagandistici»...
«Conosco il lavoro che è stato fatto dagli editori: hanno fornito nelle note i nomi, le date, il contesto storico, necessari a inquadrare il testo e a capirne meglio il significato. Un lavoro ben fatto, che mira per così dire a detossificare il libro, a dimostrare quanto folli, orribili e sbagliate fossero le tesi dell’autore».
Le opere di Mao, Stalin, Lenin, sono sempre state pubblicate senza suscitare polemiche, sebbene oggi quei leader siano giudicati dalla storia come dei dittatori sanguinari. Perché il “Mein Kampf” andrebbe considerato diversamente?
«La mia risposta è che in effetti il Mein Kampf non dovrebbe essere considerato diversamente. La differenza è che, dopo la morte di Hitler e la fine della Germania nazista, la nuova Germania democratica mise al bando quel testo per dare un messaggio simbolico di condanna totale del passato, un segno di rottura, mentre i libri di Lenin, Stalin, Mao continuavano a venire pubblicati, in Russia, Cina o in Europa orientale, con il sostegno di governi o regimi che non avevano preso le distanze da essi. La mia opinione è che la Germania fece bene a vietare il Mein Kampf nel 1945, ma oggi viviamo in un’epoca differente. Pubblicare le opere di un tiranno non vuol dire condividere le sue idee, vuol dire soltanto che è possibile studiarlo».
Come si studierebbero Napoleone, Genkis Khan, Giulio Cesare?
«Sì, ma Napoleone o Cesare non concepirono il genocidio di massa di un popolo. La ragione per studiare Hitler e il suo libro è diversa: serve a capire non solo il meccanismo ideologico che portò la Germania nazista verso il genocidio degli ebrei, ma anche a comprendere la minaccia del genocidio nel mondo contemporaneo, una minaccia che, dal Ruanda alla Cambogia al Darfur, purtroppo non è scomparsa».
Crede che in Israele la pubblicazione del ‘Mein Kampf” da parte della Germania verrà presa con maggiore ansia?
«Probabilmente sì e per ragioni interamente comprensibili. Molti cittadini di Israele hanno perso la propria famiglia nell’Olocausto ed è legittimo che guardino ancora con preoccupazione al risveglio di un simile orrore in qualunque forma. Ma penso che anche molti israeliani concordino che, a distanza di settant’anni, è un fenomeno da studiare per capire appunto come si è sviluppato. E inoltre Israele sa che la Germania, proprio per quello che fece Hitler agli ebrei, è oggi il suo miglior amico e sostenitore in Europa».
fuoritempio
Dal potere alla comunione
di Francesco Gesualdi *
Io non so se i magi siano realmente esistiti, né se siano mai andati a rendere omaggio a Gesù bambino inseguendo una stella. Né mi scandalizzerei se si trattasse di un’invenzione ai fini narrativi, una sorta di leggenda che ha cominciato a strutturarsi da esempi e immagini usati dai primi testimoni per rendere più comprensibile il loro messaggio.
Del resto chiunque si prefigga di trasmettere messaggi nuovi, di quelli che rompono con l’impostazione mentale dominante, sperimenta la necessità di ricorrere ad allegorie, metafore, accostamenti per trovare dei modi per farsi intendere.
E può succedere che certe rappresentazioni colpiscano così tanto l’immaginario collettivo da imporsi come fatti avvenuti. Forse nascono così le leggende, i fatti epici che finiscono per entrare se non nella storia, nella cultura e nelle visioni dei popoli.
Ma se la mitologia può servire a darci carica, bisogna stare attenti a non farne il centro dell’attenzione, altrimenti può impedirci di cogliere l’essenziale, come succede quando ci si concentra sul dito invece che sulla luna.
Come in molti altri episodi del Vangelo, anche nel racconto dell’Epifania l’essenziale che vi scorgo è il sovvertimento dell’ordine costituito nei suoi principi fondanti. Di mira in questo caso è il sapere, il suo ruolo, la sua legittimità.
Ai miei occhi, i magi che si prostrano davanti al bambino Gesù rappresentano la potenza del sapere che si inchina di fronte alla grandiosità dell’etica. È il riconoscimento che il sapere non può vivere senza la guida dell’etica, che ha bisogno del suo sostegno per capire che strada imboccare.
Mi rendo conto che il discorso si fa scivoloso perché assume un sapore oscurantista.
Ma l’etica a cui sto pensando non è quella delle ideologie, bensì l’etica dell’equità, della sostenibilità, della dignità umana, su cui Gesù ha così tanto insistito.
In un momento in cui la scienza è dominata dal potere industriale e le multinazionali pretendono di impossessarsi della natura, di manipolarla e brevettarla per arrogarsi il diritto di vendita esclusiva delle sementi, affamando milioni di contadini e spingendo l’agricoltura sempre di più verso la chimica, dovremo decidere se continuare a dare briglia sciolta a questo uso del sapere o se porgli dei limiti.
Allo stesso modo dovremo interrogarci sulla liceità di miliardi di euro investiti in farmaci contro le rughe, mentre non si investe nella prevenzione della malaria e altre malattie endemiche del Sud del mondo, solo perché i soldi si fanno vendendo prodotti di bellezza ai vecchi ricchi piuttosto che salvando le vite di giovani poveri.
Potremmo continuare col sapere usato ai fini bellici, ma senza scomodare la guerra, penso che ne abbiamo abbastanza per affermare che il sapere è vera ricchezza solo se è concepito come un bene comune da mettere al servizio dell’umanità per l’elevazione di tutti.
E mentre è poco fecondo se coltivato solo per l’erudizione personale, è sicuramente nocivo quando è usato come strumento di sopraffazione e violenza.
Non a caso la prima decisione che i magi dovettero prendere, dopo la visita a Gesù, fu se condividere le loro informazioni con Erode. E conosciute le intenzioni decisero per il no.
Da sempre il sapere è espressione di potere. Don Milani l’aveva capito così bene che si mise a fare scuola ai poveri nella convinzione che liberandoli dalla schiavitù dell’ignoranza li avrebbe messi in condizione di riscattarsi.
Ma a Barbiana eravamo costantemente stimolati a non usare il sapere per la carriera personale, bensì per la liberazione di tutti. Il motto era: «Uscirne da soli è l’avarizia, uscirne tutti insieme è la politica».
L’informazione stessa rischia di diventare una forma di consumismo se non si trasforma in azione. A che serve conoscere tutte le miserie del mondo se poi non ci trasformiamo in soggetti di cambiamento?
Mi piace pensare ai magi che andandosene dalla stalla di Betlemme vissero il sapere come una delle forme più alte di comunione.
* “discepolo” di don Milani, è fondatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo (www.cnms.it), ha da poco pubblicato “Risorsa umana. L’economia della pietra scartata”, San Paolo (v. Adista Documenti n. 26/15; il volume è acquistabile presso Adista)
* ADISTA, 12 DICEMBRE 2015 - Anno XLIX - n. 6300
Se il carcere cancella la nostra Costituzione di Adriano Prosperi *
«Voi qui non applicate la Costituzione». Così ha detto un detenuto delle carceri italiane. Si chiama Rachid Assarag. Non importa perché si trovi in carcere. Basti solo sapere che ha registrato, con molte altre cose, questo breve dialogo.
Un dialogo con un graduato (un brigadiere) delle forze della polizia carceraria. Gli ha chiesto: «Brigadiere, perché non hai fermato il tuo collega che mi stava picchiando?». Gli è stato risposto: «In questo carcere la Costituzione non c’entra niente». E anche: «Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni».
La cosa stupefacente non è che un detenuto sia stato picchiato. Né che ci siano state quella domanda e quella risposta. La cosa fra tutte più singolare è proprio il nostro stupore. Davvero riusciamo a stupirci? Davvero non sapevamo che ci sono dei luoghi dove la Costituzione non vale? E non sapevamo forse che fra quei luoghi ci sono proprio quelli che si richiamano alla Giustizia? Gli uomini che picchiano ne recano il nome sulla loro divisa. Il loro ministero di riferimento è quello che si chiamava di Grazia e Giustizia. La Grazia se n’è uscita alla chetichella. Ma la parola Giustizia è ancora lì.
Non solo: quei luoghi sono governati in nome della Costituzione. La Costituzione è come un cielo che ci copre tutti. Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me, diceva Kant. La Costituzione nasce dalla volontà di sostituire all’illusoria volta di un cielo che, come diceva una canzone di Jacques Brel, “n’existe pas”, la protezione effettiva di un orizzonte comune, quella di princìpi e regole validi dovunque si estendano i confini dello Stato sovrano. È la coscienza di essere coperti da questo cielo che ci fa muovere negli spazi della vita quotidiana.
Ma ora, questo scambio di parole affiora in superficie dal fondo di un carcere e ci sbatte in faccia una verità che abbiamo finto ostinatamente di non conoscere: nelle nostre carceri la Costituzione non esiste. Ma davvero si può dare uno spazio pubblico, addirittura un luogo della giustizia dove la Costituzione non vale? Quando questo accade, è come se sulle mura della casa comune si aprisse una crepa. La crepa, trascurata, si allarga. Come in un celebre racconto di E.A.Poe, minaccia la rovina finale dell’edificio. Sottrarre una parte dello Stato alle regole costituzionali è un reato. La legge deve punirlo. Ma quando nella comune coscienza si installa la certezza che esiste uno spazio - quello carcerario - dove la Costituzione non vale, quando lo si sa e lo si dice apertamente in difesa di una pratica di vessazioni e torture nelle nostre piccole Guantanamo, allora vuol dire che la crepa sta intaccando le fondamenta.
Quel brigadiere ha detto che se la Costituzione valesse in quei luoghi, le carceri sarebbero state chiuse da tempo. Con quel brigadiere siamo in disaccordo totale per le cose che non ha fatto: doveva impedire che il detenuto venisse picchiato e non lo ha fatto. Ma siamo d’accordo con lui su quello che ha detto. Se la Costituzione è in vigore, quelle carceri debbono essere chiuse. Dovevano esserlo da decenni.
È un ritardo da colmare. Rachid Assarag, quali che siano le sue colpe, resterà nella storia italiana per aver smascherato una lunga, non più tollerabile ipocrisia collettiva.
Frantz Fanon e la materia viva dell’oppressione
Nuova edizione e nuova traduzione di «Pelle nera, maschere bianche», l’opera giovanile dello psichiatra martinicano che rivela ancora oggi una forte capacità di interrogare il presente
E che fornisce strumenti per comprendere criticamente il perdurare del diffuso razzismo in Europa e Stati Uniti verso rom, afroamericani, arabi, indigeni
di Roberto Beneduce (il manifesto, 3.12.2015)
L’esplosione è ormai ogni giorno, e continuerà ancora a lungo. Sarebbe stato forse questo l’esordio di Pelle nera, maschere bianche (Ets, pp. 216, euro 20), se Frantz Fanon l’avesse scritto oggi. Perché le esplosioni che egli avvertiva nei muscoli, quando sentiva qualcuno dire «Toh, un negro!» o rivolgerglisi in petit nègre, le esplosioni i cui fuochi già vedeva dalla lontana Fort-de-France, sembrano moltiplicarsi nel nostro presente come un lugubre salmo. Altri corpi, sessant’anni dopo, sono ancora alle prese con quel maledetto «Toh, un negro!»: nelle strade di Los Angeles, a Parma, nella banlieue di Parigi, nei nuovi ghetti in cui il razzismo non cessa di riprodursi.
L’elenco delle circostanze in cui la violenza continua ad affiorare prendendo di mira neri, rom, musulmani, immigrati, insomma quell’umanità «al ribasso», dà al libro di un Fanon allora appena ventisettenne una forza unica, che pochi scritti mantengono allo stesso modo a distanza di oltre sessant’anni. E se ogni epoca rilegge i classici cercandovi risposte ai suoi dubbi, Fanon è un classico indubbiamente atipico: perché è lui che continua a interpellare il nostro presente, e a rendere necessarie nuove traduzioni dei suoi scritti, in grado di estrarre con maggiore adeguatezza idee e argomenti che in quelle precedenti non avevano trovato analoga attenzione. Quella di Silvia Chiletti raggiunge l’obiettivo.
La malta di un pensiero
Oggi Pelle nera, maschere bianche il lettore italiano può assaporarlo finalmente appieno: traduzione meditata, che restituisce la tensione originaria del testo fanoniano e penetra nelle pieghe di uno stile a tratti nervoso, fra parole che vogliono colpire, farsi dardi, proiettili, come lui stesso scriveva in una lettera al fratello Joby, che intendono «provocare», come ricordava il filosofo francese Francis Jeanson nella prefazione del 1952.
Traduzione doppiamente riuscita perché permette di cogliere nella costruzione del testo e nel suo originalissimo linguaggio i materiali e i vocabolari con i quali Fanon costruisce la sua malta: il sistematico procedere hegeliano, la fenomenologia di Merleau-Ponty, l’esistenzialismo di Sartre, e naturalmente la psicoanalisi, quella di Lacan: un autore «contestato come pochi», la cui appassionata difesa dei «diritti della follia» lo interrogano da molti punti di vista, e con il quale a tratti sembra quasi identificarsi («il fatto che i suoi avversari siano di gran lunga più numerosi dei suoi sostenitori, non sembra preoccupare questo logico della follia», aveva scritto l’anno prima nella tesi di specializzazione sull’atassia di Friedreich).
Le traduzioni inglesi che si sono succedute negli anni, da quella del 1967 di Lam Markmann a quella del 2008 di Philcox, passando attraverso l’edizione del 1986 con l’introduzione di Homi Bhabha, hanno conosciuto le stesse incertezze e rivelato come potessero essere riconosciuti, in quello che Mbembe ha definito un «lavoro gigantesco», profili nuovi e aspetti lasciati sino a quel momento in ombra. Per Bhabha, era «il linguaggio psicoanalitico della domanda e del desiderio» l’orizzonte scelto «nell’articolare il problema dell’alienazione culturale nella colonia». Giusto. Nel clima degli studi postcoloniali diventava questo l’orizzonte più significativo. E d’altronde Fanon, nell’esplicitare il suo progetto di dissoluzione del «doppio narcisismo» (quello dei Bianchi e quello dei Neri), scrive sin dalle prime pagine: «In effetti penso che solo un’interpretazione psicoanalitica possa rivelare le anomalie affettive responsabili dell’intero edificio di un tale complesso».
Quel linguaggio costituisce dunque un aspetto certo fondamentale, ma il rischio è quello di dimenticarne altri, altrettanto decisivi, finendo per dare un rilievo eccessivo a quello che è stato il Fanon «postcoloniale». Ogni lettura che voglia però isolare e far prevalere uno solo dei profili a svantaggio del Fanon clinico e militante, o del Fanon lucido analista della dell’apocalisse coloniale e profeta delle sue conseguenze sociali e psichiche, finirebbe col ripetere quel gesto di frammentazione contro il quale aveva protestato Ernesto de Martino quando chiedeva, per sé e per gli altri, che si fosse considerati «persone intere».
Questo rischio deve essere sorvegliato soprattutto al cospetto di una scrittura che si sviluppa con testarda coerenza nel corso degli anni, e non intende trascurare nulla nel realizzare il suo progetto. Se complesso di inferiorità esiste, scrive del resto Fanon, il processo è «economico innanzitutto, di interiorizzazione, o meglio, di epidermizzzione di questa inferiorità, in secondo luogo».
Marx e Merleau-Ponty, dunque, non solo Lacan: perché è dal corpo e dall’esperienza vissuta, dagli sguardi che lo hanno tormentato, che Fanon trae la linfa infinita delle sue riflessioni («non parlo che di cose vissute», questa l’epigrafe, tratta da Nietzsche, posta nella sua tesi di specializzazione).
E soprattutto un’attenzione incessante al tempo e alla storia («l’architettura del presente lavoro si situa nella temporalità»): il colonizzato, il nero che sogna la vendetta nel letto della bianca, l’indocinese nient’affatto docile, il bambino che vede Tarzan, la società antillana nevrotica perché dominata dall’idea del confronto con l’altro. Ciascun soggetto è ancorato al suocontesto, alla storia, e solo da quest’ultima traggono senso la sua esperienza e la sua sofferenza.
La nuova edizione di Pelle nera, maschere bianche, oltre a rispondere a un’attesa diffusa e giungere in un momento in cui la riflessione di Fanon è per più ragioni propizia (il lettore può trovare in italiano ormai tutti i suoi libri, nonché gli scritti psichiatrici, a torto giudicati minori), ha però un altro merito. L’introduzione di Vinzia Fiorino, nell’offrire preziose chiavi di lettura, spinge infatti Fanon a incontrare una riva inconsueta, o meglio «imprevista», come suggerisce la stessa autrice: quella del pensiero femminista italiano in una delle sue espressioni più note, Carla Lonzi.
Oltre le velenose diagnosi
Si tratta di un’operazione doppiamente coraggiosa. In primo luogo perché il dialogo fra Fanon e la donna (antillana, in particolare), individua senza dubbio una delle tensioni più feconde del suo pensiero, ma soprattutto perché in passato a Fanon non sono state risparmiate critiche di ogni genere: omofobo, misogino, sedotto dal mito del guerrigliero algerino con il quale avrebbe tentato di guarire la ferita narcisistica di una mascolinità martinicana ferita e umiliata... A scrivere queste velenose diagnosi, di cui hanno fatto giustizia interpreti rigorosi come Gibson o Sharpley-Whiting, sono state firme prestigiose: da Françoise Vergès a Albert Memmi, quest’ultimo giungendo a sostenere che l’opera di Fanon è essenzialmente motivata da bisogni personali, scandita da un’identificazione con la Francia («con il dominante») e dal «rifiuto di sé». Mediocre psicologismo, ha commentato giustamente Brigitte Riera, adottando un giudizio sin troppo benevolo nei confronti di una critica ingiusta e stizzosa.
Di un libro da leggere e rileggere con pazienza, con passione, devo ricordare almeno un ultimo aspetto, oggi particolarmente saliente. Se per Fanon «inventariare il reale» è «compito colossale», che ci lascia sempre con un senso di incompletezza, se non cessa mai di rivelarsi, nulla nascondendo - a chi sa leggere le sue parole - della propria esperienza, egli chiede (a sé e a noi) l’impegno forse più doloroso, non essere cioè schiavi del passato: «Non ho dunque altro da fare su questa terra che vendicare i Neri del XVII secolo? (...) Io sono il mio proprio fondamento. Ed è superando il dato storico, strumentale, che introduco il ciclo della mia libertà». Domanda sorprendente, affermazione radicale: nasce qui forse l’invito più decisivo di un pensiero che, mai amnesico nei confronti del passato, degli inganni del sapere (quello psichiatrico, in primo luogo), e delle radici oscure dell’alienazione, intende però curare la Storia stessa.
In un momento così difficile per l’Europa, la scelta di ripubblicare Pelle nera, maschere bianche di Frantz Fanon (Edizioni ETS, Collana «Studi culturali», pp. 216, euro 20, cura redazionale di Marica Setaro) non è solamente un’operazione culturale meritoria, è un atto politico. L’attualità di questo testo - spiega Vinzia Fiorino nell’introduzione - è del tutto evidente di fronte «ai significativi processi migratori che negli ultimi anni hanno visto riemergere antichi e beceri razzismi, afflati umanitari, inquietanti silenzi e insulsi balbettii».
Il rinnovato interesse per la figura di Fanon è anche contiguo alla ripresa degli studi su altri maestri del pensiero critico come Michel Foucault, Franco Basaglia e Carla Lonzi: una nouvelle vague che si spiega alla luce «delle trasformazioni epocali che nelle regioni del mondo economicamente più avanzate hanno ridisegnato nuove aree di marginalità e definito inedite perdite di status per figure sociali diverse».
La traduzionedi Silvia Chiletti restituisce la forza prorompente del linguaggio di Fanon, impegnato nel decostruire la realtà circostante per svelarne attraverso l’analisi critica dei discorsile contraddizioni socio-culturali. Tra i danni a lungo termine provocati dal colonialismo figura il desiderio di «lattificazione» innestato dalla società bianca occidentale. «Il Nero non è un uomo. (...) Il Nero è un uomo nero», spiega Fanon: «ciò vuol dire che a causa di tutta una serie di aberrazioni affettive egli si colloca all’interno di un universo da cui bisognerà tirarlo fuori». Agli occhi dello psichiatra lo svelamento del desiderio di «bianchezza» si impone dunque in prima istanza come una terapia (militante) per liberare «l’uomo di colore da se stesso».
Dal punto di vista politico, la critica ai sostenitori della «negritudine», che pure aveva attratto originariamente Fanon, allarga l’orizzonte in direzione di una lotta di più ampio raggio. Scrive Francis Jeanson nell’introduzione francese del 1952: «(Per Fanon), il postulare una salvezza futura delle società umane non apporta alcun rimedio alle disgrazie degli uomini di questo tempo. (...) L’uomo che si tratta di salvare non è l’astrazione di un’epoca inesistente, è il negro strappato dal suo villaggio, il fuciliere senegalese (...), esistenze attualmente in questione, di cui ciascuna è unica, insostituibile, vissuta senza ritorno...».
Le dialettiche di Hegel e Marx, ma anche le categorie psicoanalitiche di Freud e Adler, ne escono quindi fortemente ridimensionate e vengono ricondotte alla loro natura occidentale (centrica). Nello stesso tempo, se la «bianchezza» è un marcatore che«definisce la titolarità della sovranità e i confini della cittadinanza», la lotta per salvare il nero non può che divenire rivoluzionaria per l’intero sistema. La pelle e il corpo saranno il campo di battaglia, il «desiderio», una volta rivelata e superata la nevrosi, lo strumento di liberazione. (Alessandro Santagata)
Robinson Crusoe
Chi ha detto che il protagonista di Defoe è un modello positivo?
L’eterna epopea del naufrago eroe capitalista
di Lucio Villari (la Repubblica, 3.12.2015)
La moderna Europa occidentale - quella del benessere, della ricchezza, del capitalismo industriale e finanziario - deve molto agli schiavi neri, provenienti dall’Africa, al loro lavoro, al loro riprodursi e al contributo fondamentale che hanno dato alla nascita degli Stati Uniti sia quando soffrivano nelle piantagioni del Sud sia quando furono liberati, dopo una sanguinosa guerra civile, dalla loro condizione. Liberati, ricordiamolo, grazie anche all’indignazione morale suscitata da un mediocre romanzo apparso nel 1851. Uno dei libri più celebri e più letti in America e in tutto il mondo: La capanna dello zio Tom. La sua autrice, Harriet Elizabeth Beecher Stowe, fu definita da Lincoln “la piccola donna che vinse la guerra civile”.
Un romanzo del genere non sarebbe stato pensabile, ovviamente, in Europa, dove gli schiavi neri (in America, nel 1861, erano quattro milioni) non esistevano, ma forse avrebbe potuto essere scritto dal qualche discendente di imprenditori, commercianti, banchieri, avvocati, faccendieri, investitori in Borsa, vissuti tra il Seicento e il Settecento. Distinti gentiluomini che quei neri avevano portato in America con un flusso regolare e secolare di navi che partivano a pieno carico dalle coste occidentali dell’Africa. Fecero guadagni da capogiro e con i loro investimenti gettarono le basi della rivoluzione industriale europea.
Lo scrisse chiaramente un quasi coetaneo della Beecher Stowe, Karl Marx. In tante parti del Capitale e in particolare nel capitolo del Libro Primo “Genesi del capitalista industriale” attribuì anche alla tratta degli schiavi «uno dei momenti fondamentali dell’accumulazione originaria ». Ecco una sua frase: «La trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale dei neri è tra i segni che contraddistinguono l’aurora dell’era della produzione capitalistica».
Dal punto di vista letterario le tante pagine che Marx ha dedicato al colonialismo e a uno dei suoi plusvalori più redditizi, la tratta degli schiavi, sono forse più efficaci della prosa della Beecher Stowe. Ad esempio: «La funzione preponderante che ebbe allora il sistema coloniale fu il “Dio straniero” che si mise sull’altare accanto ai vecchi idoli dell’Europa e che un bel giorno con una spinta improvvisa li fece ruzzolar via tutti insieme e proclamò che fare del plusvalore era il fine ultimo e unico dell’umanità».
La ricerca storica ha confermato che la Beecher Stowe e Marx avevano colto nel segno. Una recente indagine della nostra Banca d’Italia ha documentato che dall’Africa partirono, incatenati, per l’America 12 milioni e mezzo di persone. Il pensiero corre, evidentemente, alle centinaia di migliaia di profughi, fuggiaschi, esuli, perseguitati, migranti che continuano a solcare il Mediterraneo in cerca di salvezza, facendo però guadagnare milioni di euro a “imprenditori” africani, mediorientali, europei.
Vedremo sul lungo periodo come andrà a finire questa diversa ma singolare “tratta” di esseri umani. Comunque, tra il Seicento e il Settecento altri esseri umani, presi prigionieri e venduti come merce, diedero un reddito enorme ai “negrieri” e agli armatori delle navi negriere.
Che la cosa allora fosse del tutto normale per gli europei lo prova, tra i tanti documenti che conosciamo, un romanzo tra i più affascinanti della letteratura europea: La vita e le straordinarie sorprendenti avventure di Robinson Crusoe di York. L’opera è del 1719 ed ebbe un successo enorme. Robinson, vissuto, come è scritto nel titolo, “ventotto anni tutto solo in un’isola disabitata presso le coste dell’America”, è un’invenzione letteraria sulla quale si è detto tutto.
Ma ancora oggi a qualche lettore forse possono sfuggire alcune singolari pagine di Defoe che svelano alcuni lati inediti di Robinson, la cui vicenda umana e la cui capacità di sopravvivenza sono sempre state lette come simboli, come mito dell’intelligenza pragmatica, della solidità morale, della abilità consapevole. Anche il nostro Marx fu colpito dal fascino sottile del romanzo e, sempre nel Capitale, sottolineò che «tutte le relazioni tra Robinson e le cose che costituiscono la sua ricchezza sono semplici e trasparenti. In esse sono contenute tutte le determinazioni essenziali del valore ».
Ma un lettore più acuto e ironico fu James Joyce che in una conferenza tenuta a Trieste nel 1912 dichiarò: «Tutta l’anima inglese è in Crusoe: l’indipendenza virile, la crudeltà inconscia, l’intelligenza tardiva eppur efficace, l’apatia sessuale, la religiosità pratica, la taciturnità calcolatrice».
Ma né Marx né Joyce si erano accorti che il “marinaio” Robinson non era affatto un marinaio, ma un avventuriero in cerca di fortuna. Non contento di essere divenuto proprietario terriero in Brasile, aveva fiutato nuovi affari più redditizi. Era diventato un trafficante di schiavi. E fu in uno dei suoi viaggi come negriero che era naufragato in un giorno di settembre del 1659. La sua vita di prigioniero su un’isola deserta non cambiò il suo modo di essere e di pensare.
Defoe mostra un uomo la cui struttura morale e culturale resta inalterata nella solitudine di quegli anni, mantenendo i tratti duri e invincibili del proprietario, del padrone (questa è la prima parola che insegna a Venerdì), del colono bianco (nell’isola deserta, oltre all’abitazione fatta all’inizio con duro lavoro manuale «avevo la mia residenza di campagna; e anche lì, possedevo ora una discreta colonia»).
Tutto questo fa parte della struttura portante del racconto di Defoe, ma c’è in lui una strana consapevolezza nel far muovere, nel romanzo, il suo straordinario personaggio che, nonostante tutto, tende alla mediocrità opportunista più che, dopo quell’esperienza eccezionale, a significati e valori alti. Infatti, uscito vivo dalla prigionia, Defoe fa ritornare Robinson sull’isola, dove intanto si erano insediati degli scampati da altri naufragi e loschi figuri d’ogni genere. Torna con intenzioni precise: «suddivisi l’isola tra loro riservandomene la proprietà ». Anche da qui cominciava “l’accumulazione originaria”.
A un civile e savio relativismo e a una umana tollerante convivenza, c’è chi sente il bisogno di contrapporre, con gesta eclatanti, la fedeltà a un Dio antico, dispotico e fermo nel tempo
di Dacia Maraini (Corriere della Sera, 27.11.2015)
«Il fanatismo sta alla superstizione come il delirio sta alla febbre. Chi ha delle visioni e scambia i sogni e le proprie fantasie per profezie, è un entusiasta. Chi scambia la propria follia per un impegno ad uccidere, è un fanatico». Lo scrive Voltaire nel 1764.
Il fanatismo ha radici antiche, profonde. E ubbidisce a una drastica e volontaria semplificazione della realtà. Chi conosce la complessità del mondo, sa che il diverso va prima di tutto conosciuto, poi avvicinato, per confrontarsi, per discutere, per contrattare. Il mondo è ampio e diversificato. Chi semplifica, non vuole conoscere l’altro, vuole solo eliminarlo. Tagliare una testa è piu semplice, piu chiaro, più decisivo che dialogare. Ma per tagliare le teste bisogna disporre di armi, libertà di movimento e potere; per questo il fanatico cercherà di procurarsi armi e denaro, senza tanti scrupoli, con l’imbroglio, il furto, la rapina se necessario. Per il semplificatore, il fine giustifica sempre i mezzi.
«Una volta che il fanatismo ha incancrenito il cervello, la malattia è quasi incurabile», continua Voltaire, «i fanatici sono persuasi che il Dio che li ispira sia al di sopra delle leggi e che il loro entusiasmo sia la sola legge che devono ascoltare... Cosa rispondete a chi dichiara che è sicuro di meritare il cielo scannandovi?».
Riconosciamo questa logica, che oggi praticano i ragazzi dell’Isis, altrimenti detto Daesh. È una logica perversa, ma seducente nella sua radicale brutalità. Ci vuole intelligenza, sensibilità, rispetto, pazienza, per stabilire dei rapporti reali col mondo. Il Dio semplificatore, come la regina folle del Paese delle Meraviglie, non conosce né rispetto, né pazienza, ma solo un bisogno sbrigativo e spietato di imporre la propria funebre volontà: via quella testa, via quell’altra! Presto, presto, tagliate, tagliate! «Sono di solito i furfanti a guidare i fanatici e a mettere il pugnale nelle loro mani», continua Voltaire nella sua lucida analisi che sembra scritta oggi : «Le leggi, la religione, non valgono contro questa peste degli animi. La religione, lungi dall’essere per loro un cibo salutare, si trasforma in veleno... essi attingono i loro furori dalla stessa religione che li condanna».
Si ricordano due avvenimenti che sono rimasti incisi a fuoco nella memoria storica, per la loro atrocità. Il caso dei protestanti fatti a pezzi dai cattolici al tempo della Regina Elisabetta: «I borghesi di Parigi corsero la notte di san Bartolomeo ad assassinare, scannare, fare a pezzi e gettare dalle finestre i loro concittadini che non andavano a messa». E quello della setta di eretici ismaeliti che, guidati da un famoso «Vecchio della montagna», diffusero, nel secolo XI, il terrore in tutto il Medio Oriente con i loro assassini a freddo, contro chiunque giudicassero non in linea con il loro Dio. Si chiamavano Hashishiyyin (uomini dediti all’hashish), da cui deriva la parola «assassino». Il Vecchio della montagna, Hasan i-Sabbah, prometteva loro un paradiso di freschi ruscelli e di vergini disponibili e innamorate, se si fossero lasciati uccidere; ma solo dopo avere pugnalato e sgozzato un buon numero di miscredenti. Il Vecchio aveva un carisma straordinario e i ragazzi andavano a morire pieni di entusiasmo, sicuri della meravigliosa ricompensa. Ora ci chiediamo: erano solo criminali o ragazzi bisognosi di assoluto in un mondo che aveva perso ogni rapporto con l’utopia? Ragazzi che scambiavano il coltello per la chiave che avrebbe aperto loro le porte del paradiso?
La cronaca non parla mai del genere femminile. Non era pertinenza delle donne tagliare le gole. Le donne vinte diventavano schiave, proprietà del vincitore assieme alle pecore, ai cavalli, alle mucche. Merce pregiata che si poteva comprare, vendere, utilizzare a proprio piacimento. Solo quando si ribellavano all’orribile destino, venivano sgozzate pure loro.
Il fanatismo non appartiene a una cultura piuttosto che a un’altra, non ha niente a che vedere con l’osservanza di una fede. Forse non è neppure una espressione dell’odio che anima gli esseri umani. Chi odia è anche capace di amore. Il fanatico respinge sia l’uno che l’altro. Piuttosto si direbbe un bisogno profondo e non ascoltato di trascendenza. Un bisogno che, non soddisfatto con umanità, si trasforma in un mostruoso innamoramento della morte e del nulla.
Il continuo battersi il petto gridando che siamo noi i responsabili, siamo noi i colpevoli, suona un poco ridicolo a dire la verità e anche presuntuoso: come se fossimo noi a determinare le svolte nelle coscienze degli esseri umani. Perché dovremmo togliere a questi ragazzi la libertà di scelta e di azione? Anche se loro non riconoscono il libero arbitrio, anche se sostengono che è tutta colpa di chi ha cominciato per primo ad aggredire, che sia il crociato o il colonialista, è presuntuoso ritenere che siamo responsabili di quello che fanno. Certamente l’Europa ha compiuto dei grandi errori, ma ciò non toglie che ogni generazione, ogni persona, risponde delle proprie scelte e delle proprie azioni. Le giustificazioni suonano paternalistiche e grottesche.
Le religioni si sono sempre divise, anche con ferocia, su questo problema di fede: Dio esiste in quanto essere pensante, con un corpo riconoscibile, o è una entità soprannaturale, una mente che comprende tutto e tutto capisce, ma non può intervenire perché è piu simile al cosmo infinito che all’uomo finito? Le piu feroci guerre esplose all’interno delle fedi monoteiste si basano su questo punto: se Dio è onnipotente, perché permette il male? Se invece Dio può solo il bene, poiché il male spetta al demonio, allora Dio non è onnipotente, ma solo una parte che combatte contro un’altra. E come distinguere il bene dal male? Ed esiste un male universale, riconosciuto da tutti? Quel bene e quel male stanno in un Libro Sacro o nella coscienza degli uomini?
I Sunniti e gli Sciiti si sono combattuti per secoli su questi interrogativi. Fagocitando e distruggendo altri gruppi religiosi come i Mutaziliti (nel IX secolo) e le varie tendenze mistiche dei Sufi. Chi crede che la volontà divina sia simbolica e ideale, è più disposto ad accogliere e adattarsi alle trasformazioni storiche. Chi invece concepisce Dio come un Padre assolutista, tirannico e geloso, è portato a ritenere che la realtà sia immobile, che la storia non conti, e la ragione non abbia alcun valore. Di solito le grandi Chiese hanno scelto l’interpretazione simbolica e idealistica, (spesso paradossalmente unita a una precettistica rigorosa), perché ha permesso loro di adeguarsi ai cambiamenti, di mutare visione del mondo, di diventare più umane e di durare nel tempo.
Ogni tanto però, non si sa come, esplode un corto circuito. A un civile e savio relativismo e a una umana tollerante convivenza, qualcuno sente il bisogno di contrapporre, con gesta eclatanti, la fedeltà a un Dio antico, dispotico e fermo nel tempo. Pretendendo di applicare i precetti del VII secolo dopo Cristo. Come se da noi a qualcuno venisse in mente di applicare le regole della Bibbia, quando la schiavitù era legale, la vendetta era l’unica forma di giustizia e gli adulteri e gli omosessuali venivano lapidati.
Come fingere di non sapere che c’è stato Cristo, che ha contraddetto tutto quello che era considerato normale a quei tempi, ha introdotto la pratica dell’umiltà, del rispetto dell’altro, della povertà, dell’uguaglianza? Per questo è stato crocefisso, ma alla fine il cristianesimo ha trionfato sui cultori della Bibbia. E come fingere di non sapere quanto è costato raggiungere il concetto della divisione fra Stato e Chiesa? Quanto è stato doloroso stabilire i valori dei diritti civili?
L’accettazione della immanenza o meno di un Libro Sacro sta alla base della saggezza di una religione. E certamente papa Francesco questo l’ha capito bene e sta dando un esempio straordinario. Ma la logica, la tolleranza, il rispetto, suonano come parole blasfeme per chi ha messo al posto del cuore una spada appuntita, per cui ogni abbraccio diventa una ferita mortale.
Voglio finire queste brevi riflessioni, da una parte con le parole di Voltaire, che ci raccomanda, nei momenti di crisi, di affidarci alla filosofia, perché i filosofi non fanno la guerra ma ragionano e il ragionamento è «il solo bene che abbiamo da contrapporre alle furie degli invasati». E, dall’altra parte, con le parole del poeta Ibn Arabi, uno dei piu grandi poeti del XIII secolo, deriso e attaccato per le sue posizioni conciliatorie: «Un tempo io mi offendevo col mio compagno se la sua religione non era uguale alla mia, ma ora il mio cuore ammette ogni forma. Il mio cuore oggi è un prato per le gazzelle, un chiostro per il monaco, una Kaaba per il pellegrino, per le tavole della legge e per il sacro libro del Corano. Seguo la tenerezza e dovunque mi portano i cammelli d’amore, là trovo la mia religione, la mia fede».
FISICA E METAFISICA. "La «teoria del tutto» mi ricorda le tavole della legge della religione, più che la scienza. Io mi accontenterei: la materia che abbiamo conosciuto finora rappresenta solo il 4% della densità di energia dell’universo. Il resto è ancora da capire. Siamo lontani anche da una «teoria del molto». Il «tutto» lasciamolo perdere" (Giovanni Amelino-Camelia).
Il 2 dicembre del 1915 veniva pubblicata la versione definitiva della teoria della relatività.
Intervista con Giovanni Amelino-Camelia, fisico dell’università La Sapienza. «Di Einstein ce ne sono almeno tre: c’è il divo che fa le smorfie sulle magliette, il giovane che compie scoperte straordinarie e quello della maturità, che dà contributi trascurabili e perde la bussola»
intervista di Andrea Capocci (il manifesto, 27.11.2015)
Cento anni fa, Albert Einstein spediva all’Accademia Prussiana delle Scienze l’articolo Feldgleichungen der Gravitation («Le equazioni di campo della gravità»), in cui veniva presentata la versione «definitiva» della teoria della relatività generale, pubblicata poi il 2 dicembre del 1915. Era la conclusione di un percorso iniziato nel 1905, e che proseguirà ancora nei primi mesi del 1916. Dieci anni prima, Einstein aveva contribuito anche alla fondazione della meccanica quantistica e delle particelle. Grazie alla teoria della relatività generale, il fisico tedesco si conquistò un ruolo indiscutibile nella cultura non solo scientifica del ventesimo secolo.
Secondo molti, la vicenda di Einstein è irripetibile: la dimensione industriale della scienza attuale impedisce che un singolo scienziato dia un contributo così rilevante al progresso delle conoscenze. D’altra parte, Einstein continua a rappresentare un riferimento per generazioni di studenti e per l’immagine della scienza veicolata dai media.
Solo qualche anno fa, la rivista americana Discover individuava sei possibili nuovi «Einstein» in grado di rivoluzionare la fisica andando anche oltre Einstein stesso: unificando, cioè, la teoria della relatività e la meccanica quantistica. T ra loro anche un italiano: Giovanni Amelino-Camelia, cinquantenne fisico dell’università La Sapienza di Roma. Un ottimo interlocutore, dunque, per comprendere l’eredità scientifica di Einstein e i futuri sviluppi delle sue teorie.
«Prima però dobbiamo metterci d’accordo. Di Einstein non ce n’è uno solo: ce ne sono almeno tre». In che senso, professore?
C’è il divo, quello che fa le smorfie e va sulle magliette, che nasce ufficialmente nel 1919. È l’anno in cui Eddington conferma la validità della teoria della relatività generale. Einstein finisce sulle prime pagine e la stampa lo trasforma in un personaggio di fama mondiale. Quello è lo scienziato-icona che piace molto ai media, svampito e stravagante come ormai immaginiamo che debba essere uno scienziato. Ma è un Einstein che fa comodo a tutti. È simpatico, fa vendere, quando compare sulla copertina di una rivista funziona sempre. È un’icona dotata di un valore economico.
E gli altri?
C’è l’Einstein giovane, quello che tra il 1905 e il 1916 compie alcune delle scoperte più straordinarie della storia della scienza. Sarebbero tante anche per un’intera generazione di scienziati, figuriamoci per un uomo solo. Infine, c’è l’Einste della maturità che, dopo il 1919, dà un contributo scientifico trascurabile. Non si tratta di vecchiaia, perché nel 1919 ha solo quarant’anni. Eppure contraddice completamente il suo modo di lavorare. Perde la bussola, attacca la meccanica quantistica come un crociato. Secondo Wolfgang Pauli, un altro grande fisico poco più giovane di lui, le ricerche di Einstein di quel periodo sono «terribile immondizia». Solo il peso scientifico del personaggio costringe gli altri a prenderlo sul serio. Però così riesce anche ad avere un ruolo politico importante, a cavallo della seconda guerra mondiale.
A lei quale Einstein interessa di più?
Quando me lo chiedono, a me piace parlare del giovane scienziato, anche se è quello più difficile da raccontare. Ma se ci ricordiamo lo scienziato spettinato o quello pacifista, è grazie al giovane Einstein.
È lo scienziato delle grandi intuizioni...
Anche il suo intuito certe volte ci azzeccava e altre no, come tutti. La grande forza di Einstein fu piuttosto la adesione totale al metodo scientifico, che ci aiuta a liberarci dai pregiudizi. Einstein studiò i risultati di esperimenti che nessuno riusciva a interpretare. Ipotizzò per primo che la luce potesse comportarsi come una particella, il fotone, il primo mattone della meccanica quantistica. E fu ancora Einstein a sviluppare la teoria atomica della materia, studiando il moto casuale di un granello di polline in un liquido. Quegli undici anni sono un perfetto manuale del fare scienza confrontandosi con i dati e solo con loro, senza pensare alla teoria più «elegante» o più «bella». Studiandoli da vicino si impara molto più che la relatività o la meccanica quantistica.
A lei cos’altro hanno insegnato?
Ad esempio, che anche senza microscopio si può indagare i componenti più piccoli della realtà. Quando Einstein teorizzò atomi e molecole non c’erano gli strumenti di oggi, che riescono persino a fotografarli. Ma gli atomi, se esistevano, collettivamente dovevano produrre effetti visibili. Fu proprio studiando gli effetti macroscopici che Einstein scoprì i costituenti più piccoli della materia.
Oggi però i microscopi in cui misurare gli effetti quantistici esistono, sono gli acceleratori di particelle...
Ma persino al Cern non arrivano ad osservare le distanze più piccole, laddove la teoria della gravità e meccanica quantistica devono ancora essere comprese. Allora anche io, come Einstein, cerco di studiare sistemi più grandi. Fortunatamente, ce n’è uno grande abbastanza: è l’Universo. Gli effetti quantistici della gravità sono invisibili su scala planetaria. Ma su una particella che viaggia abbastanza a lungo nell’Universo gli effetti accumulati possono lasciare tracce osservabili. Se il nostro modello di gravità quantistica funziona, deve essere in grado di prevedere gli effetti che essa ha su queste particelle.
E dove troviamo queste particelle?
Per esempio, c’è un esperimento in Antartide chiamato IceCube, «cubetto di ghiaccio». In realtà, è un cubo di ghiaccio di un chilometro e mezzo di lato pieno di sensori. IceCube riesce a rilevare i neutrini, particelle di massa piccolissima provenienti dall’universo lontano, ben al di fuori dalla nostra Galassia. Per ora ne ha intercettati qualche decina. Se riuscissimo a capire da dove arrivano e quanta strada hanno fatto, potremmo confrontare i dati e i modelli. Ma c’è ancora molto da fare prima di mettere d’accordo gravità e meccanica quantistica.
Questa è la strada verso la «teoria del tutto»?
Non parlerei di «teoria del tutto». Il primo nemico di questa idea fu proprio Einstein. Già a fine Ottocento, quando Einstein era uno studente, le leggi di Newton sulla gravità e alle equazioni di Maxwell sull’elettromagnetismo sembravano aver spiegato l’intero universo. Anche a Max Planck, vent’anni prima, era stato sconsigliato di intraprendere studi di fisica, perché non c’era più niente da scoprire. Un paio di decenni dopo, quando Einstein aveva quarant’anni, quella fisica era stata rasa al suolo e sostituita da meccanica quantistica e relatività. La «teoria del tutto» mi ricorda le tavole della legge della religione, più che la scienza. Io mi accontenterei: la materia che abbiamo conosciuto finora rappresenta solo il 4% della densità di energia dell’universo. Il resto è ancora da capire. Siamo lontani anche da una «teoria del molto». Il «tutto» lasciamolo perdere.
PSICOANALISI E FILOSOFIA. DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE....
Nel tempo accelerato e precipitoso, che ci prende tutti, la sospensione estatica del tempo, riconosciuta o no, è un fenomeno di massa. Non lo era anche nel Medioevo? Da religiosa che era è diventata profana, politeista, portatile. Distinguere le situazioni estatiche è l’ ultima risorsa della Ragione?
ANDIAMO IN ESTASI
di Alfredo Giuliani *
PER ANNI ho letto trattati e saggi di psicoanalisi come fossero romanzi, zibaldoni poetici, peripezie antropologiche e terapeutiche di nuovi intrigantissimi sciamani. Sono stato toccato nel vivo della fantasia, nell’ ombelico dei sogni, nel cocuzzolo mitologico-filosofico. La letteratura psicoanalitica ha finito con l’ occupare uno spazio cospicuo della mia biblioteca.
A un certo punto della vita ho fatto una soddisfacente esperienza, né troppo breve né troppo lunga, del confessionale junghiano. Che tutto questo mi sia servito per conoscere un po’ meglio me stesso e gli altri, a percepire la forza e le deformazioni degli impulsi, per congetturare la presenza di campi e confini invisibili, mi sembra ovvio.
Per me il fascino principale dell’ analisi risiede nel metodo e nell’ idea che lo muove: che si possa riuscire a conoscere (o riconoscere) ciò che non sappiamo di sapere, ossia la nostra distorta ignoranza o sepolta sapienza. Infatti, c’ è un’ altra cosa ovvia che troppo spesso viene dimenticata: gli oggetti di cui discorre la psicoanalisi sono tanto arcaici e lontani quanto i modi della nostra vita emozionale, affettiva e mentale.
La psicoanalisi è un’ arte maieutica, è un teatro alchemico e manierista, è l’ avventura psichica, come aveva intuito lo Zeno di Italo Svevo; e l’ operatore, lo sciamano, lo esercita a proprio rischio, modificandosi continuamente. Certo, esistono anche sciamani mediocri o cialtroni; ma questo è un altro problema. Nel fascino esercitato dall’ analisi c’ è un fondamentale elemento critico. Io devo supporre che il nostro sciamano possieda i criteri della Ragione e della patologia psichica; e insieme con lui, grazie alla delicata e penetrante manovra di tali criteri, mi avventurerò nel mio sepolto e confuso sapere.
E’ vero che per l’ analisi non esiste la malattia, esiste il malato. Eppure, oggigiorno la relazione terapeutica (che dovrebbe configurarsi come una trasfusione di ritrovamenti e ideazioni dall’ analista al paziente e viceversa) corre due pericoli perfino grotteschi. In sostanza, che sia l’ analista sia il paziente si abbarbichino al già noto. L’ uno per l’ accumulo di conoscenze e interpretazioni trasmesse e collaudate. L’ altro perché subisce la frammentazione temporale delle sedute e perché tende a incanalarsi nella prevedibilità delle cose da dire. Prevedibilità che non finisce mai, attirata dal miraggio di comunicare tutto.
In un libro uscito presso Adelphi nel 1983, Elvio Fachinelli ha indagato con molta finezza questi meccanismi; ma il fatto curioso è che il suo Claustrofilia individua un’ area psicologica che circoscrive diversi fenomeni, tutti individuati dalla ricerca del chiuso (immagine o modello: l’ utero materno). Sicché dalle considerazioni sui limiti e il tempo dell’ analisi si arriva ai sogni di soggiorno intrauterino e al tempo stagnante, estatico, vissuto dal feto nella sua unità duale con la madre (relazione contraddittoria di co-identità).
Se si tiene conto che esperienze di tipo protonirico sembrano presenti nel feto negli ultimi mesi della gravidanza, mentre maturano le funzioni del suo sistema nervoso centrale, e quindi un inizio di vita mentale e sensoriale si sviluppa prima della nascita, ecco che ci si può azzardare a supporre che il bambino non ancora nato avverta nella sua estatica dimora l’ oscura e terrorizzante intrusione di un terzo! La claustrofilia sarebbe dunque un sentimento naturale, acquisito nel soggiorno intrauterino (casa-fortezza, bellissimo giardino, buia piscina ondulante).
L’ avventura psichica comincia assai prima del trauma della nascita; ma, in fondo, le madri sensibili non l’ avranno sempre sospettato? E proprio riflettendo sul tempo stagnante del soggiorno intrauterino, su quel tempo estatico fuori del tempo che a volte ritorna nei sogni dei pazienti, e che si lascia plausibilmente ipotizzare come protoattività mentale secondo le recenti acquisizioni della neurofisiologia, Fachinelli è arrivato al suo appassionante nuovo libro, La mente estatica (Adelphi, pagg. 202, lire 20.000).
Scrittore lucido, sobrio ma vibrante, dotato di un bel garbo stilistico insolito tra i suoi colleghi, Fachinelli non ricorre pressoché mai al formulario gergale della psicoanalisi. Rigoroso nel pensiero e nello stile, non si adatta però completamente alla forma del resoconto scientifico; non lo appagano del tutto neppure le flessibili maniere del saggio.
Per lui un libro deve argomentare una sequenza di sorprese. Così La mente estatica presenta alla rovescia i capitoli d’ una intrepida peregrinazione esplorativa. Prima i risultati: l’ affiorare della percezione estatica, la scoperta che la nostra civiltà si è difesa dalla nozione di estasi attribuendola soltanto a stati di rapimento mistico o religioso, oppure confinandola nel patologico.
Poi la ricognizione storica di esperienze estatiche, per exempla: Meister Eckhart, Dante, il matematico Poincaré, Proust, Bataille e l’ inaspettato Moses Herzog, protagonista dell’ omonimo romanzo di Saul Bellox. Quindi: resoconti di varie esperienze, letture, note ai margini del tema, sondaggi rapsodici del tempo estatico. Segue un approfondimento e ampliamento del motivo già trattato in Claustrofilia: la disponibilità del feto, e qui soprattutto del neonato, alla percezione estatica (unità sublime con la madre). E infine: un sottilissimo esame di alcuni scritti di Freud (e di Lacan), che a detta dell’ autore costituisce l’ antecedente di quanto abbiamo letto nei primi due terzi del libro.
La struttura anomala della Mente estatica è in questo capovolgimento, che fa risaltare l’ assemblaggio delle parti. I capitoli, tanto diversi tra loro, sono scorci, passaggi, giri, percorsi a volte tortuosi, oppure misteriosamente rettilinei, di uno stesso labirinto. Come capita spesso quando si consultano i nostri sciamani, i loro discorsi sembrano inoltrarsi in zone dove le frontiere si annullano. Ma l’ oggetto che quei discorsi evocano con cauta suggestione lo riconosciamo sùbito. Ma s, l’ estasi! Chi può dubitare della sua diffusione profana? Non si dice comunemente: mi ha mandato in estasi, era in estasi, e così via? Lo si dice magari con una sfumatura di enfasi comica, ma anche in quella forma impoverita la parola attesta una parvenza di specialissima condizione esperibile da chiunque. Specialissima e banale! Quale portentosa contraddizione.
Ma l’ opinione di Fachinelli è che non sia più lecito separare dogmaticamente considerandoli incompatibili come si fa ora i differenti livelli dell’ esperienza estatica. Nell’ estasi di qualsivoglia natura si è come fuori di sé, fuori dal sé abituale, secondo il significato originale della parola greca ékstasis, e in questo stato si prova una contentezza, una gioia anch’ essa non abituale, un reale rapimento dell’ animo.
Tale excessus mentis, descritto dai mistici medioevali, è di fatto disponibile in ciascuno di noi. Lo si ammette generalmente nell’ ambito dei sentimenti, nell’ artista e in coloro che godono interiormente l’ opera d’ arte, quale essa sia. Ma come stacco rapinoso dal tempo, sospensione totale del vivere, quasi perdita del respiro, come attimo vuoto che ti accoglie e ti perde (campo di tensioni da attraversare), la situazione estatica viene misconosciuta o cancellata. Si vuole interrompere, perché fa paura, quel movimento verso il nulla, che è familiare al mistico, ma non gli è peculiare.
Il profano teme l’ abolizione dell’ io, per angoscia arretra prima che la smisurata gioia del rapimento invada il vuoto. Peccato, non sa quello che perde. Ma una spiegazione c’ è: si ha terrore della gioia eccessiva (stato che si pone al di là del piacere comunemente inteso) poiché essa è contigua alla pulsione di morte (il vecchio Freud l’ aveva intuito). Mi viene in mente la saggia e bella Porzia del Mercante di Venezia, quando nel terzo atto perora a se stessa: Mòderati, amore, reprimi la tua estasi, trattieni la tua gioia, frena questo eccesso!.
Lo sciamano, ancora una volta, ha attivato un vortice di pensieri che ci toccano nel cocuzzolo e nell’ ombelico. Alcuni di tali pensieri sono futili. L’ estasi degli antipatici sarà anch’ essa antipatica, o varrà la metà? E quella degli sciocchi, varrà poco più di niente? Fachinelli sembra dare la preferenza all’ estasi degli intelligenti. Ma l’ estasi, di per sé, sarà indifferente; cadrà dove vuole, come soffia il capriccioso Spirito biblico? Se è un tipo particolare di percezione, non si potrà attenderla e provocarla con un certo metodo? E chi si droga non è forse un estatico coatto?
Dice Fachinelli: l’ estasi non è soltanto nelle sue epifanie riconoscibili; è anche nella sua irradiazione al resto. Ma allora l’ attimo estatico avrebbe una inimmaginabile potenzialità trasformativa. Io credo che sia proprio così, ma ne traggo conseguenze personali e non saprei inferirne effetti teorici d’ interesse generale. Della gioia eccessiva non si può parlare. Il silenzio la custodisce, e tuttavia... essa parlava apertamente in certi romanzi che hanno segnato la nostra giovinezza.
Trovo strano che Fachinelli non si sia ricordato di Dostoevskij; nel suoi romanzi, penso principalmente a L’ idiota, c’ è un vero delirio di situazioni estatiche. Per alcuni dei suoi personaggi il cadere o il trovarsi fuori di sé, il provare una gioia smisurata, è una condanna, una frenesia ingovernabile che frantuma ogni convenienza, un segno grottesco-sublime del destino; potremmo dire che per loro l’ eccitazione estatica è il meglio dell’ incomprensibile. E può portare al peggio.
L’ argomento di Fachinelli ha mille risvolti, è vago e intenso e non vorrei abbandonarlo. La mente estatica è un libro di evidenze inquietanti, dove buio e luminosità, lontano e vicinoi accelerazione e immobilità, oggetti ancestrali e nuovissimi si proiettano in un misterioso deserto esistenziale popolato di sogni realizzati e di immani attese frustrate. Tempi e spazi percettivi hanno subìto un sommovimento, e anche l’ estasi brulica sulla terra in forme orripilanti.
Nel tempo accelerato e precipitoso, che ci prende tutti, la sospensione estatica del tempo, riconosciuta o no, è un fenomeno di massa. Non lo era anche nel Medioevo? Da religiosa che era è diventata profana, politeista, portatile. Distinguere le situazioni estatiche è l’ ultima risorsa della Ragione?
* di ALFREDO GIULIANI (la Repubblica, 04 aprile 1989).
La storia della geometria non euclidea tra le intuizioni di Beltrami e i dubbi di un certo ingegner Dostoevskij
Quando Escher conobbe quelle teorie realizzò i suoi disegni più celebri
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 23.11.2015) *
Nella seconda parte dei “Fratelli Karamazov” Ivan e Alioscia hanno una lunga conversazione teologica in trattoria, nel corso della quale il primo se ne esce sorprendentemente con queste parole: «Posto che Dio esista, e che abbia realmente creato la Terra, questa, come tutti sappiamo, è stata creata secondo la geometria euclidea, e l’intelletto umano è stato creato idoneo a concepire soltanto uno spazio a tre dimensioni. Vi sono stati, invece, e vi sono pure ora, geometri e filosofi, anche fra i più grandi, i quali dubitano che tutta la natura, o più in generale tutto l’universo, siano stati creati secondo la geometria euclidea. E s’avventurano perfino a supporre che due linee parallele, che secondo Euclide non possono a nessun patto incontrarsi sulla Terra, potrebbero anche incontrarsi prima o poi nell’infinito».
La sorpresa però svanisce quando si tiene conto di due fatti. Anzitutto, che Dostoevskij era un ingegnere, laureatosi nel 1843 all’Università Politecnica Militare di San Pietroburgo. E poi, che la geometria non-euclidea alla quale egli alludeva nel 1879 era un’invenzione russa del 1829, diventata nel frattempo di dominio pubblico in tutta l’Europa, e certo non dimenticata nel suo paese.
In realtà, fin dagli inizi dell’Ottocento i tempi erano ormai maturi per la scoperta o l’invenzione della geometria non-euclidea: una geometria, cioè, in cui «per un punto fuori di una retta passa più di una parallela alla retta data », invece che una sola come nella geometria euclidea. E, come spesso accade in matematica, quando i tempi sono ormai maturi se ne accorge più di una persona, e non una sola. Ma per la storia conta la prima che, oltre ad accorgersene, lo fa sapere al resto del mondo.
Nel caso della geometria non-euclidea questa persona fu appunto un russo di nome Nikolaj Lobachevskij, che nel 1826 tenne all’università di Kazan, oltre gli Urali, un’Esposizione succinta dei princìpi della geometria, con una dimostrazione rigorosa del teorema delle parallele.
Quasi un millennio prima un altro letterato, più sensibile alla matematica dell’ingegner Dostoevskij, era già stato attratto dalla possibilità di una geometria non-euclidea. Si trattava del poeta persiano Omar Khayyam, autore delle famose Rubaiyat, “Quartine”, che l’Occidente venne a conoscere soltanto nell’Ottocento, in una libera e popolare traduzione inglese di Edward Fitzgerald.
Khayyam intravide l’esistenza di tre tipi di geometrie, distinte tra loro dal fatto che le parallele a una retta data passanti per un punto fuori di essa sono rispettivamente nessuna, una o più. O, se si preferisce, dal fatto che la somma degli angoli di un triangolo è rispettivamente maggiore, uguale o minore di 180 gradi. La seconda geometria, quella intermedia in cui c’è una sola parallela e la somma degli angoli di un triangolo è uguale a 180 gradi, è ovviamente la geometria piana studiata ancor oggi nelle scuole.
La prima, quella in cui non c’è nessuna parallela e la somma degli angoli di un triangolo è maggiore di 180 gradi, è la geometria sferica. Le sue rette sono i meridiani, analoghi a quelli così chiamati sulla sfera terrestre. E poiché due meridiani si incontrano sempre in due poli opposti, non possono appunto mai essere paralleli. Il problema è capire come raffigurarsi la terza geometria, quella in cui ci sono più parallele e la somma degli angoli di un triangolo è minore di 180 gradi. Lobachevskij ne aveva descritte le proprietà, ma c’era il rischio che si trattasse della descrizione di un mondo puramente immaginario, senza nessun modello reale. Il primo a capire come raffigurarsela in termini concretamente visualizzabili fu Eugenio Beltrami nel 1868, nel suo Saggio di interpretazione della geometria non- euclidea.
L’idea era che bisognava trovare qualcosa che fosse l’analogo, uguale e contrario, della sfera. Beltrami lo individuò in quella che egli chiamò pseudosfera: una strana superficie che in ogni punto aveva la stessa curvatura negativa, esattamente come la sfera in ogni punto ha la stessa curvatura positiva. E ne costruì a mano alcuni modelli, chiamati da un giornale satirico dell’epoca “cuffie della nonna”, a causa del loro aspetto ondulato come i bordi dei cappelli da notte di pizzo di una volta.
Ad esempio, era noto fin dall’antichità che il piano si può pavimentare con piastrelle triangolari regolari, raggruppate sei a sei attorno ai vertici. I pitagorici avevano scoperto che se si raggruppano invece i triangoli cinque a cinque, si ottiene una superficie che si chiude su se stessa, e diventa un solido regolare chiamato icosaedro, così chiamato perché ha venti facce triangolari, che approssima una sfera. Beltrami capì che un’analoga approssimazione della pseudosfera si poteva ottenere raggruppando invece i triangoli sette a sette.
In seguito si è scoperto che queste cose esistono già bell’e fatte in natura. Molti organismi biologici, soprattutto marini, esibiscono infatti una geometria non-euclidea, dalle alghe kelp ai nudibranchi, e così fanno le foglie di lattuga e di cavolo nero. Ma proprio a causa dei loro tipici bordi ondulati, questi modelli non si possono distendere perfettamente sul piano. Beltrami inventò dunque altri modelli piani, mettendo le piastrelle della pavimentazione dentro un cerchio, e facendole diventare sempre più piccole man mano che si avvicinano al bordo, in modo da farcene stare infinite.
Oggi questi modelli sono diventati famosi perché al Congresso Internazionale dei Matematici del 1954, che si tenne ad Amsterdam, il grafico Maurits Cornelis Escher ne venne a conoscenza e se ne innamorò. Dedicò dunque quattro opere ai Limiti del cerchio, la terza delle quali viene considerata la più bella raffigurazione del piano non-euclideo prefigurato dal persiano Khayyam, scoperto o inventato dal russo Lobachevskij, modellato dall’italiano Beltrami e rappresentato dall’olandese Escher, in un lavoro collettivo e millenario tipico delle imprese matematiche e scientifiche.
* LA CONFERENZA Piergiorgio Odifreddi oggi sarà tra i relatori della conferenza “Dalla Neva alle Alpi: avventure del pensiero matematico che scorrono attraverso la Scienza, l’Arte e la Musica”, organizzata a San Pietroburgo nel Consolato Generale d’Italia. La sua lezione si concentrerà sulla figura di Eugenio Beltrami
PER LA PACE E PER IL DIALOGO, QUELLO VERO, PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo"):
I «QUADERNI NERI» DI HEIDEGGER 1931-1948
ROMA, 23-25 NOVEMBRE 2015
I "Quaderni neri" non sono stati una pietra tombale sul pensiero di Heidegger. Al contrario, è avvenuto un fenomeno inconsueto, che va ben al di là dell’interesse suscitato solitamente dagli inediti di un filosofo. Si è aperto un intenso dibattito che ha varcato i confini dell’accademia e che mostra ancora una volta la rilevanza del pensiero di Heidegger nell’orizzonte contemporaneo.
Il convegno aprirà il confronto su un ampio spettro di questioni: non soltanto politiche, ma anche teologiche e filosofiche. E si interrogherà sul modo in cui i "Quaderni neri" stanno modificando, di fatto, la filosofia continentale.
Direzione scientifica: Donatella Di Cesare
Partecipano: Gérard Bensussan, Joseph Cohen, Donatella Di Cesare, Jesus Adrian Escudero, Sebastiano Galanti Grollo, Rico Gutschmidt, Alessandra Iadicicco, Alberto Martinengo, Gian Luigi Paltrinieri, Riccardo Pozzo, Peter Sloterdijk, Francesco Valerio Tommasi, Peter Trawny, Gianni Vattimo, Paolo Vinci, Vincenzo Vitiello, Judith Werner, Holger Zaborowski, Raphael Zagury-Orly
Informazioni organizzative: Alberto Martinengo (alberto.martinengo@unimi.it)
Informazioni per gli studenti: Marcello Di Trocchio (marcello.ditrocchio@gmail.com)
Con il patrocinio dell’Ambasciata della Repubblica Federale di Germania
Con il sostegno di Alexander von Humboldt-Stiftung, Sapienza Università di Roma, Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee-CNR, Dipartimento Scienze Umane e Sociali, Patrimonio Culturale-CNR
Un secolo fa usciva il capolavoro di James Frazer che indagava sui riti e sulla forza della sovranità e che influenzò psicanalisi, filosofia, letteratura e cinema
di Marino Niola (la Repubblica, 17.11.2015)
Senza “Il ramo d’oro” di Frazer la cultura moderna non sarebbe la stessa. Quei dodici volumi, iniziati nel 1890 e terminati giusto un secolo fa, negli ultimi mesi del 1915, sono un fantastico viaggio attraverso mitologia e magia, credenze e rituali di tutti i tempi e di tutto il mondo, alla ricerca della sorgente delle nostre istituzioni politiche e religiose. Del filo evolutivo che unisce passato e futuro dell’uomo. Muovendosi arditamente tra i popoli antichi e quelli primitivi. E facendosi beffe dell’eurocentrismo della sua epoca.
Il risultato è un monumentale compendio dell’antropologia evoluzionista. Uno strepitoso Grand Tour dell’immaginario che parte dall’Italia. Dalle sponde boscose del lago di Nemi, dove si trovava il tempio di Diana Nemorensis, la dea del bosco sacro. Proprio questo significa la parola latina “nemus”. A fondarlo era stato Oreste, fuggito dalla Grecia dopo aver ucciso la madre Clitemnestra. A custodirlo era il cosiddetto re nemorense, una singolare figura di sovrano e sacerdote, signore degli uomini ma anche della natura, della cui energia era il rappresentante terreno. Come del resto tutti gli antichi sovrani, il cui ruolo aveva una potenza misteriosamente magnetica, numinosa e magica insieme.
Insomma una carica politica, ma anche una carica elettrica. Proprio per questo gli era permesso tutto tranne che mostrarsi debole, ammalato, invecchiato. Ecco perché il rituale del tempio obbligava il rex ad una prova di forza periodica. Un duello mortale con un pretendente al sacerdozio. Era necessario però che lo sfidante entrasse nell’area consacrata in una notte di tempesta, quando la natura è al massimo dello scatenamento, e strappasse un ramo dorato dall’albero sacro a Diana. Era questo il ramo d’oro. Lo stesso che Enea aveva impugnato durante la sua discesa agli inferi.
Il vincitore diventava il nuovo re della selva. Fino al prossimo duello. Una successione per mezzo della spada che mette a nudo le due metà del potere: eccezione e istituzione, forza e diritto, caos e ordine, legittimità e potenza. L’uccisione del re debole e sconfitto - che in molti popoli studiati da Frazer prende addirittura la forma di un regicidio di Stato - serve in realtà a preservare il ruolo del sovrano, l’uomo che rappresenta la collettività, dalla debolezza del corpo che lo incarna. Come dire che la capacità di difendersi e di offendere, di rendere funzionale la violenza, è la materia prima della leadership. La grande lezione di Frazer sta nell’aver fatto affiorare, esempi alla mano, questa trama oscura della potenza che nessuna legittimazione è in grado di far sparire, né di razionalizzare. Quella che gli antichi chiamavano la Regola di Nemi è, insomma, la legge del più forte. O, come avrebbe detto Carl Schmitt, lo stato di eccezione che diventa norma. Col giovane che fa fuori il vecchio. È la cultura che imita la selezione naturale, trasformando la physis in polis.
Questa Bibbia dell’antropologia ha influenzato tutto il Novecento. Sigmund Freud ammetteva di dovere proprio a Frazer l’idea dell’uccisione del padre che sta al cuore edipico di Totem e tabù. Un filosofo come Ernst Cassirer era decisamente ispirato dai venti animistici che soffiano sul Ramo d’oro quando scriveva la Filosofia delle forme simboliche. E Henri Bergson ci trovò una sorta di motore di ricerca per la teoria dello slancio vitale che è alla base della sua Évolution creatrice. Un poeta come Yeats cercava nello zibaldone frazeriano il filo che lo riconducesse alle matrici epiche della poesia. E David H. Lawrence, l’autore di L’amante di Lady Chatterley, dichiarava senza mezzi termini il suo debito verso il padre di tutti gli antropologi. Mentre Joseph Conrad scrive Cuore di tenebra ispirandosi in toto alla pagina frazeriana che racconta l’assassinio rituale del re africano di Chitombé. E, last but not least, La terra desolata di Thomas S. Eliot, il grande poema sulla crisi della civiltà occidentale, che si può considerare una vertiginosa variazione poetica sul Ramo. Con al centro la mitica figura del re pescatore, il sovrano morente la cui malattia contagia la terra trasfor-mandola in una landa arida e senza vita.
Fino ad Apocalypse Now, il film che Francis Ford Coppola trasse dal capolavoro conradiano trasferendone la scena in Vietnam. E che costituisce un’autentica summa del frazerismo novecentesco. Una discesa nelle profondità dell’umano che mette insieme Conrad e l’Inferno di Dante, la Terra desolata di Eliot e la leggenda del Graal, fino alla cultura psichedelica degli anni Sessanta. E su tutti James George Frazer, vera chiave di volta del film. Addirittura dichiarata dal regista che inquadra due libri sul tavolo del colonnello Kurtz, il rex nemorensis dell’esercito americano, interpretato da Marlon Brando. Uno è il Ramo d’oro e l’altro è Dal rito al romanzo di Jessie Weston, a sua volta ispirata all’opera di Frazer.
Il regista tesse una tela di ragno che cattura il sentimento del tempo, i bagliori apocalittici che illuminano la conclusione del se- colo breve, il tramonto di una storia esausta. In questo senso il colonnello Kurtz è due persone in una. Ha due corpi e due anime, proprio come gli antichi re divini di cui parla il Ramo d’oro. L’ufficiale, sfiancato dalla guerra, non rappresenta solo se stesso, ma anche la malattia contagiosa dell’Occidente imperialista, che sta trasformando il mondo in una terra desolata.
L’ex soldato modello, che ormai prende ordini solo dalla giungla, si è trasformato in un signore della vegetazione e regna sulla foresta tra Vietnam e Cambogia, proprio come il re sacerdote regna sul bosco della dea cacciatrice. E come prescrive la Regola di Nemi, Kurtz va incontro al destino senza opporre resistenza. Del resto l’esecuzione, affidata al capitano Willard, ha le cadenze di un rito.
A confermarlo è la colonna sonora, con la voce di Jim Morrison che canta The End. La canzone parla di un uomo perso in una “roman wilderness of pain”, una desolata terra romana. E di un “ancient lake”, un lago antico. Come in un lampo si chiude un cerchio millenario. L’antico lago dei Doors e quello di Diana si rivelano una sola regione dell’anima.
Se il concetto di umanità cambia tra Parigi e Beirut
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, 17.11.2015)
«Un attacco all’umanità e ai nostri valori universali». Così Obama ha commentato l’attentato di Parigi. Ma le sue parole sono stata aspramente criticate in un articolo del New York Times molto cliccato nei social media. Non sono forse esseri umani quelli sterminati qualche giorno prima nella strage di Beirut? E che dire delle tante stragi che trovano spazio marginale nei media? Viene da pensare che ci siano ranghi diversi di umanità. Quel concetto, che prometteva di essere universale, sembra disgregarsi. I corpi mutilati, che un’impietosa telecamera ci mostra sul selciato di Beirut, o per le vie di una sconosciuta città della Siria, non ci inquietano come i feriti e i morti intravisti nel buio della notte di Parigi.
Per giustificarci potremmo dire che dove riconosciamo un volto, l’umanità ferita suscita in noi compassione e sdegno. In quelle strade di Parigi avremmo potuto trovarci anche noi; ci immaginiamo al posto dell’altro, vittima inerme. E l’immaginazione diventa la spinta per l’etica. Se invece l’umanità ci appare lontana, anonima, senza volto, il nostro sentire si inceppa. Diventiamo quasi analfabeti emotivi, mentre quelle persone scadono a nonpersone. Ecco perché è così importante il ruolo dei media.
Tuttavia dobbiamo ammettere che continuiamo a dividere l’umanità per ranghi (non sta forse qui la fonte del razzismo?) e che anche dove razionalmente riconduciamo gli essere umani a un concetto universale, riguardiamo l’«umanità» di quegli «estranei» come se fosse diversa dalla nostra, non dello stesso rango.
L’umanità, così spesso invocata nel discorso pubblico, si rivela un concetto troppo astratto, quasi vuoto, che richiede di essere ripensato. A partire dal volto di ciascuno.
Storia del tempo profondo
In base al racconto biblico nel 1654 si calcolò che la terra fosse nata nel 4004 a.C.
Ecco come si capì che era molto più antica
di Franco Giudice (Il Sole-24 Ore, Domenica, 15.11.2015)
Freud non aveva dubbi. In una prospettiva psicoanalitica, come scrisse in un articolo del 1916, la storia della scienza è una storia di umiliazioni inferte all’uomo e al suo ingenuo amor proprio. E a provocare queste autentiche ferite narcisistiche sono state soprattutto tre grandi rivoluzioni intellettuali: quella di Copernico, che ha privato l’uomo della sua posizione centrale nell’universo; quella di Darwin, che ha inserito l’uomo nel processo evolutivo del regno animale; e quella infine dello stesso Freud, che si attribuiva il merito di aver dimostrato che l’Io non è padrone nemmeno della propria interiorità.
Dal suo elenco tuttavia - come ha osservato Stephen Jay Gould - Freud ometteva una quarta rivoluzione che fu in realtà la seconda in ordine storico e che, pur non essendo associata a un singolo autore, meritava certamente di farne parte: la scoperta del tempo profondo della Terra. Essa si è rivelata tanto dirompente quanto le altre, poiché ci ha costretto a riconoscere non solo che la storia della Terra precede di gran lunga quella dell’uomo, ma anche che la natura stessa ha avuto una storia sua propria.
La complessa vicenda di questa rivoluzione, in parte già ricostruita da Paolo Rossi (I segni del tempo, Feltrinelli, 1979), è ora al centro del libro di Martin J. S. Rudwick, che rappresenta una splendida e accessibile sintesi delle ricerche cui si dedica da oltre quarant’anni. E che ha un ulteriore merito: raccontare una storia, quella appunto della scoperta del tempo profondo, poco nota al grande pubblico e spesso ridotta a una sorta di preludio alla teoria della evoluzione di Darwin. Ma che invece, secondo Rudwick, «è del tutto indipendente da Darwin e da ogni altra teoria evoluzionistica».
Il viaggio nel tempo che siamo invitati a compiere inizia nel 1654, quando James Ussher, arcivescovo anglicano di Armagh, nell’Irlanda del Nord, fissò come data della Creazione il 23 ottobre del 4004 a. C. Ussher non fu l’unico a stabilire una data precisa per la Creazione. Durante il XVII secolo, vennero scritte intere biblioteche sull’argomento, suscitando aspre controversie, cui presero parte personaggi insospettabili come Newton.
Il risultato fu una girandola di cronologie, tutte in competizione tra loro, ma tutte concordi nell’attribuire al mondo una storia di circa seimila anni. Che era però prevalentemente umana, poiché la natura vi faceva da scenario quasi immutabile per il destino degli uomini e l’iniziativa divina.
Le scale temporali elaborate dai cronologisti, sulla base di dati ricavati dalle fonti scritte, erano condivise anche dai filosofi naturali che valorizzavano invece ogni evidenza empirica, come quella fornita dai reperti fossili. Lo dimostra il caso di Robert Hooke, il curatore degli esperimenti della Royal Society, e del naturalista danese Niels Stensen (meglio noto come Stenone), attivo presso la corte dei Medici in Toscana. Per entrambi i fossili non erano sostanze inorganiche, come per lo più si supponeva, bensì resti di corpi una volta realmente vissuti e poi pietrificatisi a causa delle diverse alterazioni subite dalla Terra nel corso della sua storia. Una storia però che s’inseriva ancora nei tempi del racconto biblico.
Dalla seconda metà del XVIII secolo tuttavia, come fa notare Rudwick, le ricerche sul campo dischiusero una nuova prospettiva. Le rocce esplorate e descritte in diverse parti d’Europa mostravano che i vari strati di cui erano composte risalivano a periodi differenti; che i fossili si trovavano soltanto nelle rocce di più recente formazione; e che in esse non si rinveniva alcuna traccia di resti umani. Tutti indizi insomma che suggerivano una cosa ben precisa: la Terra doveva essere molto più antica di quanto si era ritenuto.
Benché fosse ormai evidente che bisognava pensare in termini di centinaia di migliaia di anni, o addirittura di milioni, difficilmente però i naturalisti fornivano una stima quantitativa dell’età della Terra, almeno non pubblicamente. Così, il naturalista francese Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, nel manoscritto delle sue Epoche della natura (1778) ipotizzava un’età di quasi tre milioni di anni, anche se poi nell’opera a stampa ragioni di cautela lo portassero a ridurla a circa 75.000 anni. Non stupisce quindi che, nell’individuare una successione di sette “epoche” o di momenti significativi nella storia della Terra, egli collocasse la comparsa degli esseri umani soltanto nell’ultima epoca.
Buffon infatti rendeva esplicito ciò che altri naturalisti sospettavano già: il nostro pianeta aveva alle spalle un profondo passato, la maggior parte del quale era stato completamente preumano. Ma fino a che punto la Terra, per un tempo così sterminato, era stata significativamente diversa dallo stato attuale? La vita aveva avuto una vera storia? E soprattutto: sarebbe stato possibile conoscere cosa era accaduto prima dell’arrivo dell’uomo sulla scena del mondo?
Le risposte a tali quesiti, racconta Rudwick, arrivarono da una rinnovata attenzione per i fossili, ed ebbero come protagonista un giovane studioso di provincia approdato a Parigi nel 1795 e destinato a un’inarrestabile ascesa negli ambienti scientifici della capitale: Georges Cuvier.
Applicando le sue straordinarie conoscenze di anatomia comparata allo studio dei fossili, Cuvier sosteneva che appartenessero a specie diverse dagli animali viventi e con ogni probabilità estinte. Erano cioè espèces perdues, come il mammut siberiano e il mastodonte americano, o come il mosasauro, un enorme rettile marino, e lo pterodattilo, un rettile volante. Avevano popolato «un mondo precedente al nostro», finché un’improvvisa e violenta catastrofe non le spazzò via per sempre. La storia della Terra e quella della vita, secondo Cuvier, erano intrecciate e scandite da eventi di questo tipo, che ne spiegavano la direzione e la discontinuità.
La “resurrezione” da parte di Cuvier di uno stravagante zoo di animali estinti fu un evento di grande impatto. E agli inizi dell’Ottocento diede luogo a una vera e propria moda: la caccia agli esemplari fossili. Soprattutto in Inghilterra, dove si distinse una giovane donna di nome Mary Anning, che si conquistò la ribalta con la scoperta del teschio di un ittiosauro su una scogliera calcarea nel Dorset, e poi di un fossile di plesiosauro quasi completo. Ulteriori testimonianze di specie perdute, che si aggiungevano a quelle già identificate da Cuvier, e che trovavano una vivida illustrazione in un acquarello dipinto nel 1830 dal geologo inglese Henry De la Beche: «una scena dal tempo profondo» che, per la prima volta, raffigurava tali specie nel loro presunto habitat.
La storia della Terra delineata da Cuvier ottenne un consenso quasi unanime tra i geologi. Tranne che in un caso: quello di Charles Lyell, che sfidò la sua visione, sostenendo che non esisteva alcuna prova che la superficie terrestre nel passato fosse stata trasformata da improvvise catastrofi. Anzi, come spiegava nei suoi Principles of Geology (1830-1833), era vero piuttosto il contrario: ogni cambiamento geologico era il risultato di processi graduali e uniformi operanti nel corso di tempi immensamente lunghi e tuttora in azione.
Per i sostenitori di queste due teorie, il filosofo di Cambridge William Whewell, che nutriva un forte interesse per la geologia, coniò due neologismi: «catastrofisti» e «uniformisti». Al contrario di quanto spesso si afferma però, tiene a precisare Rudwick, le loro posizioni non furono mai considerate del tutto inconciliabili.
Molti geologi riconoscevano per esempio che processi come la sedimentazione, l’erosione e il vulcanismo fossero dovuti a cause ancora osservabili nel presente. Ma poiché nessuna “causa attuale” sembrava in grado di spiegare i depositi alluvionali di ghiaia e argilla o i cosiddetti massi erratici, essi convenivano che, almeno in questi casi, bisognasse ricorrere all’azione di immani cataclismi.
Così, intorno alla metà del XIX secolo, si arrivò a un compromesso: la Terra aveva avuto una storia davvero movimentata, governata da leggi costanti tuttora attive, ma punteggiata anche di eventi catastrofici globali. Inoltre, erano tutti convinti che il tempo profondo della Terra ammontasse come minimo a diverse centinaia di milioni di anni o forse perfino a miliardi.
Dagli anni sessanta dell’Ottocento, tuttavia, proprio la durata di questo tempo diventò oggetto di disputa, e a scatenarla non fu un geologo, bensì un fisico: William Thomson, futuro Lord Kelvin. Basandosi sulle leggi della termodinamica, all’epoca da poco formulate, e sulle stime correnti del progressivo raffreddamento del Sole, Kelvin affermò che l’età della Terra non poteva superare i cento milioni di anni.
Una cifra incompatibile con i tempi lunghi richiesti sia dall’uniformismo di Lyell sia dalla nuova teoria dell’evoluzione di Darwin. E che per quasi quarant’anni ebbe lo stesso effetto paralizzante che la cronologia biblica aveva avuto sulla geologia del Seicento. Dopo il 1903 però, con la scoperta della radioattività, i rigorosi calcoli di Kelvin si sarebbero rivelati privi di significato: lo studio del decadimento radioattivo di alcuni elementi, come per esempio gli isotopi dell’uranio, ha stabilito che l’età della Terra è di circa 4,5 miliardi di anni.
IL PROBLEMA DELLA GENESI, LA CRISI DELLE SCIENZE EUROPEE, E LA FENOMENOLOGIA TRASCENDENTALE....
HUSSERL CONTRO L’HOMUNCULUS: LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI). Una ’traccia’ dal "Diario fenomenologico")
L’homunculus di Goethe è il simbolo di quella che Husserl denuncia come “crisi delle scienze”
EDMUND HUSSERL: VITA, FILOSOFIA, E CRISI DELLE SCIENZE EUROPEE.
Inside Out
Se Cartesio sbarca al cinema
di Piergiorgio Odifreddi(la Repubblica, 08.11.2015)
Sta circolando da qualche settimana in Italia il film Inside out, il cui titolo allude al tentativo della Pixar di “tirar fuori ciò che abbiamo dentro”. Cioè di mostrare visivamente i meccanismi mentali nelle loro componenti razionali ed emotive. I critici cinematografici, che evidentemente si intendono solo di cinema, l’hanno esaltato come un’esposizione quasi scientifica delle nuove frontiere neurofisiologiche, scomodando al proposito addirittura i nomi di Antonio Damasio e Oliver Sacks.
In realtà il film avrebbe fatto meglio a intitolarsi Outside in, perché non fa altro che “metter dentro ciò che siamo fuori”. Cioè ripete l’antico “errore di Cartesio”, che credeva che a guidare l’uomo fosse un homunculus dentro di lui, fatto a sua immagine e somiglianza in versione miniaturizzata. Il quale, come i protagonisti del film, sta seduto in un “teatro cartesiano” e osserva dal di dentro ciò che il suo principale a grandezza naturale percepisce dal di fuori.
Naturalmente, poiché un homunculus differisce da un homo solo nelle dimensioni, si può immaginare che nella sua testa ci sia un homunculissimus ancora più piccolo che lo osserva e lo dirige, e così via. L’ipotesi porta dunque a un regresso all’infinito, che non ha bisogno delle neuroscienze per essere confutato: basta la logica, in una delle innumerevoli variazioni del paradosso di Achille e la tartaruga.
Che fatica essere logici
Un omuncolo testardo si contrappone sistematicamente al buon ragionatore che c’è in noi. Lo dicono le scienze cognitive. La scuola deve fornire a tutti gli adeguati strumenti critici
di Roberto Casati (Il Sole-24Ore, Domenica, 8.11.2015)
«Prendiamo persone con la stessa gravità di disturbi (misurata, per esempio, attraverso i test di memoria) e li confrontiamo su due fronti: il livello di scolarità e il livello di compromissione cerebrale, rilevata monitorando l’attività metabolica nelle aree tipiche dell’Alzheimer. Cosa osserviamo? Che i soggetti a scolarità alta hanno un peggiore quadro cerebrale: a parità di disturbi manifestati, il loro cervello è più sofferente.» (Stefano Cappa intervistato da Michele Farina, Quando andiamo a casa? Milano BUR, pag. 149).
Quando faccio leggere questa frase, noto una certa sorpresa nei miei interlocutori: sembra che un modo di proteggersi dall’Alzheimer sarebbe quello di non impegnarsi negli studi. In realtà la frase dice esattamente il contrario. «Nonostante siano a uno stadio più avanzato della degenerazione cerebrale, i pazienti a scolarità più alta dimostrano le stesse capacità di memoria di chi presenta un cervello meno devastato e un livello culturale minore. Perché compensano meglio». Adesso, forse, le cose ci sono più chiare. Ma come diceva il biologo americano Stephen Jay Gould, anche se abbiamo capito il senso corretto della frase, se la rileggiamo ci sembra di sentire un omuncolo che va su e giù per nostro cervello a ripetere che è meglio non studiare troppo se ci si vuole proteggere dall’Alzheimer. C’è qualcosa nel testo con cui si apre questo articolo che ci impedisce di arrivare facilmente al senso inteso.
Di omuncoli dispettosi è popolato il cervello raziocinante. Un altro omuncolo ci fa voltare sistematicamente la carta sbagliata nel classico test inventato dallo psicologo britannico Peter Wason: quattro carte sul tavolo davanti a noi, una rossa, una blu, una con scritto sette e una con scritto sei. Sappiamo che le carte hanno un retro colorato in rosso o blu, e un fronte con un numero pari o dispari. Domanda, qual è il numero minimo di carte da girare per verificare la regola «Tutte le carte rosse portano un numero pari»? Pensateci un attimo. Voltare la blu non serve. La rossa va bene (ovviamente: se ci fosse un numero dispari sull’altro lato, la regola sarebbe invalidata). Quali altre? La maggioranza degli intervistati dice che a questo punto basta voltare la sei. Va bene? In realtà, se scoprite che ha il retro blu, questo non vi dice nulla sulla regola. La carta da voltare è la sette. Se il retro della sette fosse rosso, la regola verrebbe violata.
Tutto chiaro, ma la tentazione di voltare anche la carta pari è sempre in agguato. Questo omuncolo testardo è un po’ la maledizione dell’insegnamento della logica perorato con passione nel libro di Paolo Legrenzi e Armando Massarenti (La buona logica. Imparare a pensare, Cortina) che Ermanno Bencivenga ha commentato su queste colonne il 18 ottobre.
L’insegnamento della logica ci informa sulle procedure corrette da mettere in opera quando si affrontano problemi che richiedono di ragionare. Ma non ci mette al riparo dall’omuncolo testardo, che continua a farsi strada nel pensiero. Nella fattispecie, il nostro omuncolo potrebbe venir definito “antispreco”: egli cercava di far tesoro di tutte le informazioni che ha trovato nella formulazione del problema, e in particolare del fatto che si era parlato di una carta pari, il sei, quando si metteva alla prova una regola che richiedeva di pensare ai numeri pari. L’omuncolo antispreco fa parte di quello che oggi gli psicologi cognitivi chiamano il “Sistema Uno”, una batteria di moduli cerebrali che formano l’ossatura delle nostre intuizioni sul mondo, a tutti gli effetti un’eredità biologica che ci permette di risolvere al volo problemi pratici impellenti come scansare ostacoli o fare due conti su cosa ci conviene nel futuro immediato.
Le caratteristiche principali di questi moduli sono la velocità, l’automaticità, e una certa testardaggine; dopotutto, servono a trarci d’impaccio in situazioni in cui il tempo è prezioso, e non hanno molta voglia di star lì a discutere. Al Sistema Uno viene contrapposto il Sistema Due, un modo di operare più lento e modulato dall’attenzione cosciente. Quando attraversiamo la strada a Vicenza noi nati e cresciuti in Italia agiamo in Sistema Uno, ci fidiamo delle nostre intuizioni sul traffico, sappiamo stimare i tempi, non dobbiamo pensare per guardare dalla parte giusta prima di avventurarci sull’asfalto pericoloso. La nostra azione è fluida, agire e pensare fanno un tutt’uno. Quando andiamo a Londra l’ambiente nuovo ci sfida, poniamo invece attenzione a ogni passo: siamo in pieno nel Sistema Due, sincopato, lento e dubitativo. E nonostante tutto anche a Londra l’omunculo “della guida a destra” si fa sentire (è veloce, automatico e testardo) e bisogna cercare di metterlo a tacere se si vuole portare a casa la pelle.
Studiare la logica, fare esercizi come quelli che troviamo in un manuale, ci permette di vedere che il Sistema Uno non sempre dà i risultati migliori. Ma adottare una modalità riflessiva, ovvero esercitare il controllo proprio del Sistema Due, non è cosa che si guadagna facilmente anche dopo aver studiato logica: non dimentichiamo che gli omuncoli automatici devono venir continuamente inibiti. Questo perché la competenza non si riflette automaticamente sulla performance.
Cos’altro possiamo fare, allora, per risollevare i destini della nazione, renderla più raziocinante? Uno dei suggerimenti più interessanti degli ultimi anni viene dal lavoro di Dan Sperber e Hugo Mercier, che hanno messo in luce come la funzione cognitiva principale del ragionamento non sia di migliorare le conoscenze di un dato individuo ma argomentare, cioè convincere gli altri della bontà dei nostri argomenti e valutare gli argomenti altrui in modo critico al fine di essere convinti solo quando è necessario. Segue dalla loro ipotesi che i ragionamenti svolti in coppia o in gruppo danno risultati migliori che quelli effettuati in solitudine. Lavorare in gruppo è un toccasana logico!
Un altro dei fattori che possono rinforzare l’applicazione del pensiero critico è acquisire una certa consuetudine con le procedure di verifica empirica di un’ipotesi che son pane per i denti delle discipline scientifiche. Per esempio, imparare che bisogna sempre controllare i fattori che potrebbero aver influenzato una misura, o imparare a diffidare della ricerca automatica di conferme per le proprie ipotesi.
Un’altra strategia è legata al fatto che si fanno meno errori di ragionamento quando si conosce ciò di cui si parla: imparare bene qualcosa è il primo passo per imparare a pensare bene (contrariamente all’idea di una conoscenza logica generale, passepartout).
Ma direi che non c’è una soluzione definitiva, che ci possa dire che abbiamo finalmente “imparato” a pensare. Gli omuncoli testardi non possono venir eliminati né sconfitti. Possono solo venir tenuti a bada, ed è sulle tecniche per imbrigliarli che potrebbe focalizzarsi una pedagogia innovativa che, mi pare, dovrà necessariamente far uso di checklist.
EBRAISMO E DEMOCRAZIA. PER LA PACE E PER IL DIALOGO, QUELLO VERO, PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo")
Il filosofo olandese era anche un po’ palestinese
Polemiche. Una risposta all’articolo uscito sul «Corriere della Sera» dal titolo «Spinoza sionista», firmato dalla studiosa Donatella Di Cesare
di Stefano Visentin (il manifesto, 03.11.2015)
È senz’altro una pura coincidenza il fatto che, pochi giorni dopo le frasi razziste e antisemite (perché anche gli arabi appartengono al ceppo linguistico semitico) di Benjamin Netanyahu a proposito della soluzione finale suggerita ad Hitler dal Gran Muftì di Gerusalemme, sia apparso sulle pagine culturali del Corriere della Sera un articolo della filosofa Donatella Di Cesare su «Spinoza Sionista» ([La Lettura], domenica 25 ottobre).
I due interventi, peraltro, si collocano su piani assolutamente diversi: il primo è un’orribile falsificazione storica operata da un primo ministro, che non prova vergogna a strumentalizzare per motivi politici una delle grandi tragedie del Novecento; il secondo è uno scritto di un’importante studiosa italiana (anche se forse non tra le più note interpreti del pensiero spinoziano) che rilegge in maniera originale - e per molti versi inaccettabile - un momento significativo della biografia di uno dei maggiori filosofi della prima modernità, il «maledetto» Spinoza (maledetto, sia ben chiaro, tanto dagli ebrei, quanto dai cristiani), per ricondurlo alla religione natia e, in tal modo, mostrare il carattere ideologico dell’interpretazione della modernità come processo di secolarizzazione e di graduale (e problematica) presa di distanza dall’eredità delle grandi religioni monoteiste (in particolare dall’ebraismo). E tuttavia, pur tenendo ben presente la grande differenza tra questi due interventi, è forse possibile trarne un insegnamento comune.
Una pioggia di maledizioni
Che le radici culturali e politiche del moderno abbiano un rapporto complesso e ambivalente con la dimensione teologica è un dato storicamente acclarato; e tuttavia la lotta per l’emancipazione dall’invadenza del clero nella vita della società e dei singoli individui rimane un passaggio fondamentale nel processo di costruzione dell’orizzonte politico della modernità.
Che Spinoza non sia stato scomunicato - come afferma Di Cesare, giocando sul fatto che per la religione ebraica la scomunica non esisteva - bensì «semplicemente» bandito dalla comunità ebraico-portoghese di Amsterdam («Che egli sia maledetto di giorno e maledetto di notte, maledetto quando si sdraia e maledetto quando si alza, maledetto quando esce e maledetto quando rientra»), e che vi fossero dei fondati motivi di opportunità politica perché la comunità agisse in questo modo, tutto ciò è, in ultima analisi, poco rilevante per il percorso filosofico spinoziano; il giorno dello Cherem Spinoza di fatto aveva già abbandonato la sua comunità, andando a vivere fuori dal quartiere ebraico, frequentando perlopiù cristiani «senza Chiesa» (come l’ex-gesuita Van den Enden, oppure gli amici Collegianti Balling e Jelles), e successivamente dialogando con i maggiori scienziati dell’epoca (come Henry Oldenburg, segretario della Royal Society) e, forse, perfino istituendo rapporti con personaggi di spicco della politica olandese, come Johan De Witt.
Soprattutto, egli aveva abbandonato l’orizzonte ideologico della sua antica religione, leggendo Machiavelli e Hobbes, gli storici latini e Terenzio, Descartes e i trattati seicenteschi di medicina; e iniziando, passo dopo passo, a costruire un sistema filosofico che attribuiva a Dio la materialità, privandolo della volontà creatrice, e al mondo una necessità antifinalistica che mirava a liberare gli uomini dal giogo del peccato e della colpa.
Per questo la stesura del Trattato teologico-politico, composto tra il 1665 e il 1670, quando Spinoza era ormai lontano da Amsterdam, non era pensata per chiudere dei conti con l’ebraismo e con la sua comunità, né tantomeno - come sembra indicare Di Cesare - per testimoniare un qualche debito filosofico con la fede degli avi, quanto piuttosto, come dice lui stesso in una lettera all’amico Oldenburg, per difendere «la libertà di filosofare e di dire ciò che sentiamo» dai pregiudizi dei teologi di ogni religione, in particolare di quella calvinista, che preoccupava Spinoza ben più dei suoi ex-correligionari.
Così i capitoli dedicati alla respublica Hebraeorum, sui quali Di Cesare costruisce la sua tesi di uno Spinoza proto-sionista, sono in realtà composti in aperta polemica con la filia vetero-testamentaria dell’ortodossia calvinista, allo scopo di trarre dalla storia politica ebraica «alcuni insegnamenti politici» (titolo del cap. XVIII) da adoperare nella lotta per la libertà di pensiero e di parola nelle Province Unite del XVII secolo. Il carattere problematicamente democratico della teocrazia mosaica appare, agli occhi di Spinoza, un modello inimitabile in una società nella quale «non ci sono più profeti», dove l’idea di un patto con Dio risulterebbe niente altro che un grande inganno teologico: è la «società tutta intera» (cap. XVI), e non la divinità, alla quale una collettività «moderna» deve attribuire il diritto di governare, in modo che tutti i cittadini rimangano liberi e uguali.
Spirito non addomesticabile
Concludendo: il tentativo di arruolare Spinoza tra i figli prediletti del popolo ebraico (tentativo uguale e contrario alle numerose interpretazioni di uno Spinoza traditore della sua fede avita, che Di Cesare omette di ricordare; pars pro toto quella di Leo Strauss) appare un’operazione fortemente a rischio di manipolazione politica, nella direzione di una conferma dell’eccezionalismo ebraico, oggi rappresentato eminentemente dallo Stato di Israele, culla della democrazia moderna, minacciata dal progetto di sterminio architettato fin dalla prima metà del secolo scorso da una presunta congiura araba (la ripresa in chiave farsesca della leggenda dei Protocolli dei Savi di Sion).
E però Spinoza non appartiene al popolo ebraico - né tantomeno alla nazione israeliana - più di quanto non appartenga all’intera umanità, e in particolar modo a coloro che, senza distinzioni di nazione, etnia, fede religiosa, lottano per emancipare gli uomini dai pregiudizi della morale e della religione e dall’asservimento al potere dispotico di pochi; in tal senso, forse, Spinoza è anche un po’ palestinese.
Il sionista Spinoza
Il filosofo ebreo, mai «scomunicato» dai rabbini, vedeva nella Bibbia le origini della democrazia e ipotizzava la nascita di un nuovo Stato d’Israele
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera - La Lettura, 25.10.2015)
Può capitare di salire su un autobus, fermo alla stazione di sosta, e di imbattersi in un autista immerso nella lettura di un libro. La sorpresa aumenta quando si riesce a scorgere il titolo. Il libro è l’ Etica di Baruch Spinoza, la stazione degli autobus è quella di Tel Aviv.
Ma che ci fa Spinoza in Israele? Non è stato forse «scomunicato», espulso dal popolo ebraico già secoli fa? Come mai il suo spettro si aggira nel cuore della società israeliana? Per rispondere occorre ripartire proprio dal mito di quella «scomunica» che continua a essere divulgato in modo acritico. Secondo la versione più diffusa, il 27 luglio 1656 le autorità rabbiniche della comunità di Amsterdam avrebbero «scomunicato», con tanto di cerimonia lugubre, celebrata sotto la volta della sinagoga dello Houtgracht, Bento Spinoza, registrato con il nome ebraico di Baruch. La scena assume un valore emblematico: è l’apice dello scontro fra il libero pensiero e la rigida ortodossia ebraica, tra l’apertura della scienza e l’intolleranza della religione. La condanna di Galilei e la «scomunica» di Spinoza segnerebbero la fine di un’epoca buia, inaugurando la modernità.
Descritta talvolta con dovizia di particolari, tra candele nere, voci accorate, suono dello shofàr , la scena della «scomunica» non si è mai verificata. Frutto di una immaginazione, per nulla innocente, è la «scomunica» stessa. Da che cosa avrebbe dovuto essere «scomunicato» Spinoza? L’ebraismo non ha, a differenza della Chiesa, né un’autorità centrale né un dogma teologico, sulla cui base si possa impedire la «comunione» di sacramenti. Secondo le ricerche condotte negli ultimi anni si può dire che, in una saletta attigua alla sinagoga, i parnassìm , le autorità laiche, i capi riuniti nel ma’amad , il consiglio della comunità, diedero lettura di un testo in ebraico, andato perduto, di cui depositarono una copia in portoghese: per via delle sue horrendas heregias , «orrende eresie», si vietava ai membri della comunità di Amsterdam di avere ancora rapporti con Bento Spinoza.
Il divieto non fu rispettato. Dal canto suo Spinoza, che non era presente alla lettura, per difendersi inviò un testo in spagnolo, la Apologia , di cui non resta traccia, ma che dovette confluire nel suo celebre Trattato teologico-politico . L’evento non ebbe risonanza. La comunità prosperò e fiorì senza il giovane ribelle, il quale continuò a frequentare gli amici di prima e a sviluppare le sue «idee eretiche».
Oscuro resta il motivo concreto del provvedimento: forse Spinoza aveva deciso di disfarsi dell’eredità del padre, un cumulo di debiti, forse non aveva pagato le quote alla comunità, forse fu colto in flagrante mentre, insieme a Juan de Prado, violava apertamente lo Shabbat. Ma Spinoza, per carattere, era riservato e introverso; non amava la bagarre . La serena intimità dei quadri di Vermeer non deve ingannare: tra i canali del quartiere di Vlooienburg, nella «Gerusalemme olandese», i conflitti erano all’ordine del giorno. I vecchi marrani, che avevano resistito alle persecuzioni in Spagna e Portogallo, erano convinti di aver conservato in segreto l’ebraismo. Non ne avevano, però, che un pallido ricordo. L’impatto con la tradizione, che si era mantenuta viva negli altri Paesi europei, fu dunque traumatico. Giunsero da Venezia rabbini famosi come Rabbi Saul Levi Mortera, per insegnare a quegli ex conversos che Purim non era, come loro immaginavano, la festa di Santa Ester.
Fioccavano perciò i provvedimenti di cherem , di bando dalla comunità. Lo storico Yosef Kaplan ne ha contati almeno 40 nel periodo tra il 1622 e il 1683. Il cherem poteva durare anche solo un paio di giorni. La tensione era alta anche all’esterno. I capi della comunità dovevano dimostrare alle autorità olandesi che gli ebrei, oltre a seguire l’ortodossia, si guardavano bene dal sostenere idee politiche troppo radicali. Che fare con il giovane Spinoza, strenuo difensore della democrazia e della sovranità popolare? Il cherem ebbe, dunque, un valore politico. Ma a che scopo alimentare il mito della «scomunica», come hanno fatto già i primi biografi, Johan Colerus e soprattutto Jean-Maximilien Lucas, che riportano notizie tendenziose e apocrife?
Ha parlato, senza mezzi termini, di «antisemitismo» Richard Popkin, tra i maggiori studiosi del filosofo: sulla scia di precedenti illustri, Spinoza è stato dipinto come un martire per gettare discredito sulla comunità di Amsterdam e su tutto il mondo ebraico.
Eppure Spinoza è rimasto sempre ebreo. In veste geometrica e in lingua latina ha articolato la tradizione ebraica, inserendola nella riflessione europea. Di qui la straordinaria complessità della sua opera. Né ricchezza, né onore, né piacere sono beni certi. Eppure li inseguiamo ogni giorno, lasciando la nostra vita in balia di passioni e sbalzi morali che la turbano. Questo patetico amore per il bene effimero non è che idolatria. Chi è eticamente libero non teme la sorte avversa né attende ricompensa nell’aldilà.
Per spezzare le catene della schiavitù etica occorre amare ciò che è infinito, eterno, perfetto. Solo l’«amore intellettuale di Dio» è fonte di «letizia» - e nella laetitia riecheggia l’ebraico simchà . Che cosa significa, d’altronde, l’emendazione dell’intelletto, di cui Spinoza parla nel suo primo trattato? A chiarirlo è l’ebraico tikkùn , riparazione. Emendare l’intelletto vuol dire ricondurlo al Sommo Bene. Perfino la formula Deus sive natura , secondo cui Dio è natura, non è la negazione della trascendenza, ma proviene - come ha mostrato il noto studioso Moshe Idel - dalla Kabbalà. Lo aveva già detto, d’altronde, in un saggio del 1864, il grande rabbino di Livorno Elia Benamozegh.
Il mondo ebraico non ha mai dimenticato Spinoza. Certo, ha guardato con qualche sospetto quel primo grande intellettuale della modernità. Tracce di ciò si rinvengono nel breve racconto di Isaac B. Singer Lo Spinoza di via del Mercato . Nahum Fischelson, un filosofo in pensione, viveva nella quieta solitudine del suo piccolo appartamento di Varsavia, lontano dalla comunità. Di tanto in tanto gettava un’occhiata sulla via del Mercato, poi tornava beato a leggere l’ Etica di Spinoza. Ma improvvisamente si ammalò. Una vicina, Dobbe la nera, fu presa allora da pietà; superato il timore per l’«eretico», andò ad accudirlo. Sbocciò l’amore e, inatteso, si celebrò il matrimonio. Durante la prima notte di nozze, l’anziano filosofo, finalmente felice, si affacciò alla finestra. «Aspirò profondamente l’aria della notte, poggiò le mani tremanti sul davanzale e mormorò: “Divino Spinoza perdonami. Sono diventato uno sciocco”».
Ma l’immagine dell’eretico, riflessa dall’esterno, non ha mai fatto presa nel mondo ebraico, screditata e confutata da un approfondito dibattito sul Trattato teologico-politico . Di solito quest’opera è letta come un attacco all’ebraismo. Vengono omessi, a questo scopo, due lunghi capitoli dedicati alla «Repubblica degli ebrei».
Spinoza può allora essere presentato come il pioniere del pensiero secolare, come appare nella versione addomesticata che ne dà Steven Nadler. Come mai Spinoza si sofferma sulla costituzione del popolo ebraico? Non sono stati i greci a introdurre la democrazia. Spinoza punta l’indice contro Platone e Aristotele. Non solo hanno affiancato la democrazia all’aristocrazia e alla monarchia, non solo hanno visto nel potere dei più una forma deteriore di governo, ma hanno persino tollerato al margine la schiavitù. Dove c’è schiavitù, però, non ci può essere democrazia. Per Spinoza è stato il popolo ebraico a introdurre per la prima volta la democrazia nella storia del mondo. In una pagina magistrale situa quell’istante all’uscita dall’Egitto. Liberati dall’oppressione, gli ebrei seguirono il richiamo del Dio sovversivo che fece uscire il popolo «con braccio teso».
Furono finalmente cittadini, non più sudditi. Una volta riconquistato il proprio diritto, avrebbero potuto conservarlo ciascuno per sé, o trasferirlo ad altri. Invece presero una decisione che li distinse da tutti gli altri popoli. Con le parole di Spinoza: «Decisero di non trasferire il proprio diritto a nessun mortale, ma soltanto a Dio e, senza esitare, promisero tutti ugualmente a una voce», uno clamore .
Nel patto teologico-politico che stringono non ci può essere dominio di un essere umano sull’altro. Se ci fosse, verrebbe meno l’eguaglianza di tutti. La forma politica di Israele è la teocrazia. Anzi, theocratía è la traduzione greca dell’ebraico Israel , «che Dio regni!», il «Regno di Dio». Il potere di Dio garantisce che non ci sia comando, dominio di un essere umano sull’altro.
Martin Buber e Jacob Taubes parleranno perciò di «teocrazia anarchica» di Israele. Nella visione radicale di Spinoza la teocrazia è però sospesa non appena il popolo ebraico riconosca un altro potere. L’ebreo divenuto cittadino della Repubblica d’Olanda non è tenuto più a osservare lo Shabbat, che ha anche un eminente valore politico. Della teocrazia ebraica resta allora il «braccio teso» del popolo, gesto di libertà, simbolo di uguaglianza, promessa di democrazia, esempio per tutti gli altri popoli, impegno di Israele nel futuro.
Che ne sarà allora della «Nazione ebraica» in esilio? Per Spinoza l’«elezione» degli ebrei, legata alla storia, è politica, motivata dalla loro forma di governo. E scrive: «Potrei assolutamente credere che, se si presentasse la possibilità, gli ebrei ricostruiranno un giorno il loro Stato e Dio li eleggerà di nuovo».
Spinoza è stato il primo sionista? L’aveva già riconosciuto con chiarezza Moses Hess nel suo scritto del 1862 Roma e Gerusalemme . D’altronde Spinoza è stato anche il primo vero linguista dell’ebraico. Il suo Compendio di grammatica ebraica è lo studio pionieristico dell’ebraico vivo, la dimora che, per Spinoza, attendeva la nazione ebraica in esilio.
Ahinu attà, «sei nostro fratello!». Il 21 febbraio 1927 Yosef Klausner pronunciò un discorso ufficiale all’Università ebraica di Gerusalemme in cui toglieva il bando e rivendicava Spinoza alla cultura ebraica. Quando mai aveva contato quel cherem ? - commentò caustico Gershom Scholem. Nel 1953 Ben Gurion proclamò che era venuta l’ora di riparare al torto e tradurre Spinoza in ebraico. Emmanuel Levinas criticò dapprima Ben Gurion, ma poi a sua volta scrisse Avete riletto Baruch? L’edizione delle opere in ebraico ha prodotto una rinascita di studi. Fondato da Yirmiyahu Yovel nel 1984 il Jerusalem Spinoza Institute è solo uno dei centri universitari dove si discute, non senza toni accesi, l’eredità del grande filosofo. Poco note sono ancora in Italia le ricerche dell’ultimo decennio su Spinoza e, più in generale, sul pensiero politico ebraico.
Marrani. Nel 1492 in Spagna si decretò l’espulsione o la conversione forzata degli ebrei. Costretti a ripudiare la fede, vissero scissi in un sé duale rappresentando «l’altro dell’altro»
Quelle anime in esilio
di Remo Bodei (Il Sole-24 Ore, Domenica, 10.06.2018)
Nel 1096, in occasione dell’imminente partenza dei cristiani per le Crociate, gli ebrei renani, in particolare quelli di Magonza, furono uccisi «come animali da macello» per aver rifiutato di convertirsi. Anche in altri luoghi e occasioni, accettando il martirio, molti, morendo, «santificarono il Nome». Non così, sostanzialmente, accadde nella Spagna e nei suoi domini (compresa l’Italia meridionale, la Sicilia e la Sardegna). Infatti, dopo che nel gennaio del 1492 venne decretata la cacciata degli ebrei o, in alternativa, la loro conversione forzata, piuttosto che essere costretti all’emigrazione o al martirio, una parte consistente di loro preferì la conservazione della vita, insinuando così il dubbio sul valore di una verità testimoniata dalla morte. Per necessità molti accettarono, dunque, formalmente il cristianesimo, pur conservando in segreto la loro fede. Avendo perso nel tempo ogni rapporto con l’ebraismo militante, i suoi insegnamenti e i suoi rituali, la religiosità di coloro che venivano popolarmente chiamati marrani (o, nel linguaggio ufficiale, «nuovi cristiani» o «conversi») finì per diventare sempre più «atrofizzata» e legata a una memoria che si assottigliava e si frammentava di generazione in generazione. Il loro si trasformò in un «ebraismo per sottrazione», che conservava la speranza del ritorno alla religione dei padri e aveva il suo punto di riferimento in Ester, «simbolo umile e insieme potente del ritorno»che aveva persuaso Assuero a desistere dall’annientamento del popolo ebraico.
La condizione di questi ebrei rinnegati, che vivevano nella «cripta» di un esilio interiore, era precaria ed esposta al pericolo di rivelare la loro condizione. Per questo esercitarono il virtuosismo dell’autocontrollo, aiutati nelle loro tribolazioni dalla speranza di un ritorno alla fede degli avi, qualora le circostanze diventassero favorevoli (cosa che accadrà in città come Ferrara, Venezia, Ancona, Livorno, Amsterdam o Anversa). Come sostiene Donatella Di Cesare, la loro era «una identità lacerata, tragicamente scissa fra due apparenze inconciliabili: una esteriore e ufficiale, l’altra intima e nascosta». Non erano più ebrei, ma nemmeno cristiani. Per i primi, rappresentavano dei traditori, per i secondi, individui essenzialmente inaffidabili. Non erano però «né eroi né martiri».
Traditori di due fedi, diventarono con il tempo inassimilabili rispetto a ogni rigido sistema di credenze, a ogni fondamentalismo. In questo senso, essi rappresentano gli esponenti di una modernità dissonante, scissa, non conciliata o armoniosa: «I marrani portano con sé il seme del dubbio, il fermento dell’opposizione. Dissidenti per necessità, danno avvio a un pensiero radicale». In essi «si frantuma il mito dell’identità», sono scissi in se stessi, provvisti di un «sé duale». Se l’ebreo è l’altro, il marrano è, appunto, «l’altro dell’altro». Inutilmente gli spagnoli tentarono di assimilarlo con la forza, ponendolo di fronte all’alternativa di essere inglobato nello Stato nazione o di esserne espulso, dichiarato nemico. Non riuscendo a penetrare nel suo intimo, inventarono la prima forma di razzismo, quella che chiedeva ai propri cittadini la limpieza de sangre, poiché sospettavano che l’acqua del battesimo non avesse cancellato nei marrani la loro alterità.
Tra i conversos e i loro discendenti s’incontrano per noi gli opposti: Tomás de Torquemada, il primo Grande Inquisitore dell’Inquisizione spagnola è accanto a Teresa d’Avila, proclamata da Paolo VI dottore della Chiesa nel 1970. Della granitica fede cattolica di Torquemada è difficile dubitare, mentre nella mistica di Teresa e, soprattutto, nel suo Castello interiore, è ben presente la tradizione marrana del sottrarre l’io a ogni unità monolitica, del considerarlo ignoto e inaccessibile anche a se stesso, del custodire il segreto: «l’altro abita nel sé, il sé nell’altro. Nessuna identità integrale. Tu sei altro da te stesso [...] è grazie alla separazione che l’anima può ospitare, può far posto all’infinito. Questa è la scoperta delle Indie di Dio».
Pur nel suo geometrico razionalismo, anche Baruch Spinoza, di famiglia marrana portoghese, sottoposto all’herem, alla scomunica da parte della comunità ebraica, rivendica nel Trattato teologico-politico il diritto al segreto quando formula l’idea di una libertà per cui non si può prescrivere a nessuno cosa sia vero.
Il marranismo non è finito, segue un percorso carsico che non si può cancellare e che sottende un segreto così profondo da sfuggire agli stessi interessati. Derrida, scherzando, ma non troppo, ha dichiarato negli ultimi anni della sua vita di essersi sempre più spesso sentito come un marrano a causa della «ricerca clandestina di un segreto più grande e più vecchio di me». In situazioni più angosciose, il marranismo riaffiora nel Novecento, specie all’avvento del Terzo Reich, quando diversi ebrei, al pari di Husserl o Edith Stein, si convertirono al cristianesimo: «Certo è sconcertante che, dopo aver in tutti i modi costretto gli ebrei a integrarsi nella cristianità, a fondersi con il corpo politico della nazione, una volta che siano assimilati, simili al punto da non essere più riconoscibili, si proceda a una rinnovata discriminazione basata sul sangue e consacrata dalle leggi statali».
Il volume di Donatella Di Cesare, con il suo terso e incalzante stile, scopre e illustra con acume una storia ritenuta erroneamente minore o esaurita, ma che ha, invece, una considerevole incidenza sulla genesi della coscienza moderna: «Nella notte della clandestinità, in assenza di ogni testimone storico, i marrani testimoniano il segreto in una esasperata anacronia, una disperata resistenza al tempo del calendario dominante, lottando nell’attesa per una controstoria che, da quel segreto, avrebbe potuto riprendere”.
Eppure i marrani, sebbene più numerosi e sottoposti a condizionamenti più drammatici, non sono i soli nella modernità a essere obbligati a fingere per sopravvivere. A prescindere dai libertini, per i quali vale il motto Intus ut libet, foris ut mos est, qualcosa di simile accadde a quanti, per sfuggire all’assolutismo e all’Inquisizione, furono indotti alla «dissimulazione onesta», di cui parla Torquato Accetto nel 1641 (è significativo il fatto che Benedetto Croce facesse ristampare nel 1928, in pieno fascismo, il Della dissimulazione onesta per lasciare una via d’uscita al dilemma tra l’acquiescenza completa al regime e il suo frontale ripudio). Se, come dice Accetto, «non è permesso di sospirare quando il tiranno non lascia respirare», allora non resta altra possibilità che far mostra di un’esteriore obbedienza per resistere alle vessazioni dell’«ingiusta potenzia». Sarebbe riduttivo (e riporterebbe a un arcaico cliché ermeneutico) considerare il fenomeno della dissimulazione sotto il profilo puramente moralistico.
Presupponendo, infatti, un ideale metastorico di autenticità nelle relazioni tra gli uomini, si finirebbe per infliggere ai soggetti agenti un’esplicita censura, quasi avessero arbitrariamente deciso di complicarsi la vita. Si dimentica così non solo che la «dissimulazione onesta» viene concepita quale ombra che mette in risalto la luce e dà «riposo al vero», ma anche quale forma di resistenza razionale e creativa all’oppressione di un potere che cominciava allora a infiltrarsi direttamente nelle coscienze (anche per colmare il vuoto di egemonia interiore lasciato dagli scismi teologici e dalle guerre di religione che allora dissanguavano l’Europa).
Per uscire dalle abitudini dell’immaginazione
(Italo Calvino, La memoria del mondo, Club degli Editori, Milano 1968, p. 5).
La memoria del mondo: Italo Calvino, Google e la NSA
di Domenico Talia (Nazione Indiana, 30 ottobre 2015) escher-scale
«La nostra organizzazione garantisce che questa quantità di informazione non si disperda, indipendentemente dal fatto che essa venga ricevuta o no da altri. Sarà scrupolo del direttore far sì che non resti fuori niente, perché quel che resta fuori e come se non ci fosse mai stato. E nello stesso tempo sarà suo scrupolo fare come se non ci fosse mai stato tutto ciò che finirebbe per impasticciare o mettere in ombra altre cose più essenziali, cioè tutto quello che anziché aumentare l’informazione creerebbe disordine e frastuono.
L’importante è il modello generale costituito dall’insieme delle informazioni, dal quale potranno essere ricavate altre informazioni che noi non diamo e che magari non abbiamo.» Al contrario di quello che si potrebbe pensare, questo brano non è tratto da un discorso del generale Alexander, direttore della National Security Agency americana, ma da un breve racconto che Italo Calvino ha scritto nella metà degli anni ’60 e al quale lo scrittore delle cosmicomiche ha dato un titolo che sicuramente piacerebbe al capo della NSA: La memoria del mondo. Un racconto quasi dimenticato anche se ha dato il nome al libro, pubblicato per la prima volta nel 1968 dal Club degli Editori, che raccoglie insieme a questo racconto profetico, venti cosmicomiche calviniane.
Il discorso fatto in occasione di un finto passaggio di consegne tra due direttori dell’”archivio generale del tutto” riempie le sette pagine de La memoria del mondo, e in quel discorso scritto circa cinquanta anni fa, Calvino narra uno scenario reale al punto che oggi appare del tutto usuale. Uno scenario che i casi Wikileaks e Datagate (con protagonisti Julian Assange e Edward Snowden) hanno svelato in tutta la loro preoccupante drammaticità. Raccontando di un’organizzazione che costruisce “un catalogo di tutto momento per momento”, Calvino in pochissime pagine mostra come la spasmodica necessità di archiviare tutto quello che si conosce o si vuol conoscere di persone e fatti (“una memoria centralizzata del genere umano”) generi inevitabilmente intrighi, drammi e infine morte.
Quasi sicuramente il generale Alexander non ha mai letto quel racconto, ma ha fatto di tutto per farlo transitare dallo stato di una semplice cosmicomica a quello che una descrizione perfetta, fatta con decenni di anticipo, di uno scenario concreto, tangibile. Stessa cosa varrà anche per Larry Page e Sergey Brin, fondatori di Google, che pur non avendo sicuramente mai avuto il tempo di leggere il racconto di Calvino, hanno stabilito che la missione della loro azienda è “organizzare l’informazione del mondo”. Page e Brin fondarono Google mentre, da dottorandi della Stanford University, lavoravano allo sviluppo di algoritmi di data mining per analizzare grandi quantità di dati ed estrarre le piccole parti più interessanti da essi. Per uno strano parallelo, Müller, il quasi neo direttore della fondazione che archivia tutto nel racconto di Calvino, viene assunto vincendo il concorso di ammissione con il progetto “Tutto il British Museam in una castagna”.
Il Müller di Calvino viene istruito dal direttore uscente sul compito della fondazione che, oltre a riempire gli archivi di informazioni importanti su fatti e persone, spesso cataloga «sbadigli, starnuti, foruncoli, associazioni di idee sconvenienti, fischiettii» e li nasconde «nel pacco delle informazioni più qualificate.» Perché il ruolo del direttore, a cui Müller sembra essere stato chiamato, ha il privilegio «di poter dare un’impronta personale alla memoria del mondo.» E qui il racconto di Calvino prende una piega preoccupante, una piega che assomiglia in maniera sorprendente a quella del caso Snowden e all’uso improprio che delle informazioni raccolte negli USA si potrebbe fare in quella nazione o in altre a danno dei cittadini e delle regole democratiche. Quella piega preoccupante per tutti noi si disvela quando il vecchio direttore informa Müller del fatto che «nel materiale finora raccolto si nota qua e là l’intervento della mia mano; vi sono disseminati giudizi, reticenze, anche menzogne.» Ovviamente il tutto sarebbe fatto a fin di bene perché «in molti casi le menzogne ... sono indicative quanto o più della verità.»
Calvino nell’epilogo del racconto mette un sigillo finale al rischio che è insito nella raccolta pervasiva e indiscriminata di informazioni sui privati cittadini e sui loro rappresentati pubblici. Raccolta di dati che la NSA, e non solo lei, fa esplicitamente, ma che tanti colossi del Web come Google e Facebook fanno grazie all’aiuto che gli utenti forniscono loro inserendo motu proprio moltissime informazioni personali e private che potranno essere usati anche contro la loro privacy e la loro libertà. Specialmente quando le informazioni diventano strumento di potere e potere stesso, può accadere quello che avviene nel racconto di Calvino sotto la guida del vecchio direttore dell’archivio del mondo che forza la realtà e la vita delle persone, comprese quella di Müller, perché «Se nella memoria del mondo non c’è niente da correggere, la sola cosa che resta da fare è correggere la realtà dove essa non concorda con la memoria del mondo.» E qui le informazioni conservate nel “catalogo di tutto” s’impongono come la verità che guida il mondo e piegano la realtà come i corpi celesti piegano il campo gravitazionale fino a renderla funzionale agli obiettivi e ai desideri dei detentori del potere, dei padroni della memoria del mondo.
Questa cosmicomica conferma lo scopo dichiarato di Calvino di voler non tanto costruire con la sua narrazione fantastica un nuovo tipo di fantascienza ma piuttosto tentare di narrare il quotidiano nei termini più lontani dalla nostra esperienza per elevare quello che è vicino alla nostra vita fino a farlo diventare paradigma che possa spiegare quello che ci accade al di là della contingenza. Calvino a suo modo pone con un anticipo sorprendente, il problema della verità dei dati oggi disponibili in Rete e delle informazioni - anche quelle spesso apparentemente banali e senza significato - che i governi e le loro agenzie raccolgono su ognuno di noi per le tracce digitali che ormai ci lasciamo dietro ogni giorno.
E’ interessante un confronto tra la narrazione di Calvino e le teorie sull’intelligenza digitale collettiva di Derrick de Kerckhove, allievo di McLuhan e studioso dei nuovi media e della cultura digitale. In una recente intervista, de Kerckhove ha espresso ottimismo circa la possibilità che gli uomini siano capaci di padroneggiare l’enorme massa di dati e informazioni che circolano nella Rete e, pur esprimendo preoccupazioni sull’uso che il potere fa della Rete e delle informazioni digitali oggi disponibili, crede nell’intelligenza collettiva che la Rete rende possibile come antidoto ai totalitarismi. Derrick de Kerckhove, pur cosciente dell’uso politico che di Internet si fa, crede che «i Big Data rappresentano una situazione in cui noi siamo bagnati d’informazione e dobbiamo capire se il nostro corpo, bagnato dentro quest’acqua, continua ad avere la sua individualità o se diverremo completamente trasparenti. Sono un momento di transizione in cui la comunità diventa più forte di quell’individuo che abbiamo conosciuto nel Rinascimento.»
In effetti, grazie alle tecnologie digitali e alla loro pervasività, oggi gli individui diventano sempre più trasparenti, perdono la loro interiorità, la loro privatezza per apparire sulla Rete in tutti i loro aspetti, anche quelli più intimi. Una società composta da questi individui diventa una società trasparente purtroppo non nel senso illuministico del termine - più trasparente, più illuminata - né il quello che il filosofo Gianni Vattimo cercava nel suo libro pubblicato una diecina di anni fa e intitolato appunto La società trasparente. Gli individui diventano trasparenti rispetto a chi li conosce per quello che mostrano e per come agiscono nella Rete, divengono un libro aperto per chi accede o “ruba” le loro personalità digitali (disegnate sempre più perfettamente dai loro dati) e la società diventa trasparente per chi accentra e analizza tutti i dati su tutti gli individui, per il potere che vuole avere la memoria del mondo, ma non necessariamente per le strutture democratiche che i cittadini hanno costruito e che devono garantire i loro diritti e la loro privacy. Alla fine i singoli sono meno liberi in una società trasparentemente esposta e pedinata tramite la Rete. Sono cittadini di una democrazia spiata e resa debole dalla sua trasparenza.
In un mondo in cui l’informazione spoglia le nostre individualità e ci attraversa, è pervasiva nel tempo e nello spazio, appariamo tutti meno protetti. Dunque diventa una necessità riflettere su come comportarsi, su cosa e come fare: imparare a convivere o difendersi? La nostra intimità diventa sempre più digitale e può essere invasa dagli strumenti tecnologici che l’uomo ha imparato a costruire. Un uomo che nelle sue élite diventa sempre più capace di approntare oggetti complessi e intelligenti e nella sua massa non riesce a costruire la necessaria coscienza per gestire la nuova vita che fa largo uso delle potenti tecnologie digitali. Gli individui diventano sempre più sensori nell’ambiente, sensori mobili viventi che alimentano la memoria del mondo accumulata dai pochi Grandi Fratelli che sorvegliano e guidano il mondo.
I sistemi perfetti non esistono, dunque anche la sicurezza perfetta non è di questo mondo e se qualcuno alla NSA mirava alla perfezione, la vicenda di Edward Snowden, tecnico che loro hanno selezionato e assunto, sta lì a dimostrarlo. Il caso Snowden è un effetto della costruzione della memoria del mondo, un effetto che potrà essere utile almeno per riflettere se la difesa della sicurezza dei cittadini e di una nazione richieda necessariamente uno spionaggio di massa, per comprendere quanto potere ha il popolo in una democrazia sorvegliata e per rifiutare una sorveglianza di massa condotta senza il consenso della maggioranza dei cittadini e senza che i cittadini stessi siano avvertiti di ciò.
Ogni tecnologia può essere usata per il bene o per il male. L’immensa quantità di informazione che viaggia sulle reti telematiche mette a nostra disposizione un’incredibile montagna di dati e informazioni che soltanto pochi sembrano in grado di padroneggiare. E ogni volta che la cerchia degli accumulatori e dei gestori si restringe il rischio per i cittadini e per le democrazie aumenta. Se questo rischio non si può del tutto eliminare, bisogna almeno lavorare per limitarlo richiamando i singoli e gli organismi della società ad ruolo attivo per creare leggi e strumenti critici basati sulla cultura della Rete e sulla coscienza dell’uso individuale e sociale delle tecnologie che eviti la vendita delle identità in Rete e vigili su tutti quelli che vogliono costruire la memoria del mondo e sui rischi di tali operazioni di gigantismo informativo che possono trasformarsi in manipolazioni di massa basate su verità fabbricate perché funzionali al dominio di pochi.
di Pierluigi Panza (Corriere della Sera, 28.10.2015)
Come sta la filosofia in questi anni di crisi? È in crisi, e si è piegata a scorciatoie, mode e costruzioni di consenso. Si è piegata, insomma, a ciò che la filosofia non dovrebbe mai essere. È questa la diagnosi, condivisibile, espressa nell’ultimo libro del filosofo Elio Franzini (Filosofia della crisi, Guerini e Associati, pp. 190, e 17,50), quasi una «cartella clinica» che evidenzia molte opacità nel paziente analizzato.
Le crisi sorgono nel momento in cui un modello, prevalendo sugli altri, li prevarica e mira alla loro soppressione. È quanto sta avvenendo in Occidente con l’imporsi di un «pensiero unico», di un nuovo «totalitarismo» che premia un solo modello di sviluppo economico, sociale e post-culturale. Un modello - di cui la fascinazione per i social network e il globalismo sono la più estrinseca manifestazione - che ha ucciso la ricerca e la critica. È amaro constatare come l’Europa, passata da non dissimili abbagli nella prima parte del Novecento, non riesca a tenere viva una pluralità di punti di vista. C’è infatti un metodo che unisce tutte le ricette che si propongono per superare «la crisi»: quello della semplificazione.
Oggi, insiste Franzini, assistiamo a riflessioni autoreferenziali, caratterizzate dalla volontà, spesso narcisistica, di semplificare quel che è complesso e storicamente stratificato. Una tendenza che incarna un’esigenza sempre più forte di divulgazione, ma che sfiora la banalizzazione e l’eccitazione per il nuovo.
Il «nuovismo» e la spettacolarizzazione a ogni costo sembrano gli unici strumenti che rendono «vendibile» e appetibile anche il pensiero. In questa fase, la filosofia dovrebbe invece riattivare un’interrogazione critica sugli strumenti del pensiero e non appiattirsi su «un riduzionismo fattualista». La strada è quella di riannodare il senso di un discorso esaminando le funzioni essenziali della filosofia: formare le idee, capire le cose, verificare la corrispondenza tra reale e razionale, dare un valore all’esperienza...
La radice di crisi, krino, ovvero separare (il grano dalle scorie), è la stessa che dà origine a krites, critica, giudicare. Pertanto è la critica che ci permetterà di superare la crisi. La tecnica, che si presenta come strumento di superamento della crisi, ne è invece parte integrante. Si tratta di ripartire dall’appendice alla Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1937) di Edmund Husserl per riscoprire la relatività come base per superare l’obiettivismo, lo psicologismo e l’ingenuo positivismo e riscoprire che la filosofia è un cammino intersoggettivo razionale, un rischiaramento che avviene esercitando la funzione critica. «Nessuna linea conoscitiva, nessuna verità singola, dev’essere assolutizzata e isolata», scrive Husserl nella Crisi. È questo lo «stile» di vita della filosofia che la filosofia in tempo di crisi deve riscoprire.
Attualità delle Lettere persiane
Rileggere Montesquieu
Cosa rischiano i paesi dell’Occidente se cedono al fascino del modello cinese di capitalismo antidemocratico
di Gabriele Pedullà (Il Sole-24 Ore, Domenica, 25.10.2015)
Pochi filosofi del passato sono presenti nella nostra vita di tutti i giorni quanto Montesquieu. Le nostre costituzioni sono modellate sul principio della separazione dei tre poteri, legislativo esecutivo e giudiziario (formulata per la prima volta nello Spirito delle leggi). Ogni discorso sulla possibilità di esportare la democrazia nei paesi non occidentali è, consapevolmente o meno, debitore delle sue riflessioni sul dispotismo.
Ma anche quando ci confrontiamo con un libro e un film che adopera deliberatamente un punto di vista “alieno” per presentarci un ambiente o un mondo, secondo il così detto principio dello “straniamento”, è soprattutto alla grande lezione di Montesquieu che, una volta di più, conviene risalire, e al suo capolavoro romanzesco, Le lettere persiane, con la geniale intuizione di rappresentare l’Europa del primo Settecento attraverso le impressioni di un piccolo gruppo di viaggiatori orientali. Al posto dei persiani potremo incontrare un bambino, un extraterrestre o magari un migrante pakistano, ma il meccanismo - da allora ripetuto infinite volte - rimane essenzialmente lo stesso. Il Sé colto nell’occhio dell’Altro.
Come tutti i grandi pensatori, Montesquieu rischia però di essere ricondotto a una manciata di idee e di formule di straordinario impatto. Il migliore antidoto, in questi casi, è sempre tornare direttamente ai testi, e per farlo oggi disponiamo di uno strumento straordinariamente utile: la recentissima edizione di tutte le opere del presidente del parlamento di Bordeaux approntata da uno dei suoi massimi specialisti, Domenico Felice.
Il volume comprende, tra l’altro, tutti e tre i capolavori di Montesquieu: per l’appunto, Le lettere persiane (1721), Le considerazioni sulla causa della grandezza e della decadenza dei Romani (1734) e Lo spirito delle leggi (1748); un secondo tomo, con tutti i testi pubblicati dopo la morte di Montesquieu (abbozzi, frammenti, progetti incompiuti) dovrebbe uscire a breve, offrendo ai lettori italiani quella che è destinata a rimanere per lungo tempo l’edizione di riferimento, anche in virtù del ricco apparato di note e del testo originale francese a fronte.
Il saggio introduttivo di Felice costituisce da solo una piccola monografia, dove la militanza pluridecennale del curatore negli studi su Montesquieu si coglie soprattutto dal modo in cui riesce a far dialogare i testi più celebri e più vulgati con una miriade di altri scritti noti esclusivamente a chi da molto tempo ha eletto le sue opere a propria residenza permanente. In particolare, anche se forse Felice non tributa sempre al talento di romanziere di Montesquieu tutte le lodi che esso merita e preferisce insistere sui contenuti della sua unica ma mirabile prova narrativa, è assai importante che questa edizione rivendichi con forza la sostanziale unità dell’opera del pensatore francese.
Qui potrà essere aggiunto almeno un altro tassello. Le lettere persiane sono lette tradizionalmente come un geniale gioco di rovesciamento a due termini: l’Europa e l’Asia, l’Occidente e l’Oriente, dove il mondo cristiano cui appartiene Montesquieu viene osservato, parzialmente frainteso ma anche sostanzialmente demistificato dall’apparizione di un Altro che si rivela capace di comprenderlo proprio in virtù della propria estraneità.
Bene, in realtà, a leggerlo attentamente, il romanzo chiama in causa un terzo polo decisivo: la moglie del saggio viaggiatore persiano Uzbek, rinchiusa assieme ad altre compagne di sventura nel suo serraglio privato. Alla fine del volume Roxane, che nel frattempo ha ingannato e tradito Uzbek, si suiciderà, non senza però aver inviato prima al marito una lettera nella quale smaschera a sua volta la sua apparente giustizia. Pure il saggio straniero si rivela allora nella sua natura di despota; ma con questo ribaltamento Montesquieu sembra anticipare in chiave romanzesca quello che sarà il principio guida dello Spirito delle leggi: un potere senza limiti (come quello di cui Uzbek dispone sulle mogli-schiave del suo harem) è sempre cattivo, anche se a esercitarlo fosse il re-filosofo di Platone.
Eppure leggere oggi Montesquieu può essere importante non solo per ripercorrere la genealogia di alcune idee contemporanee o per passare qualche decina di ore in compagnia di una intelligenza superiore. I problemi di Montesquieu ci riguardano perché ci aiutano a vedere anche con più chiarezza ciò che i paesi occidentali potrebbero perdere per effetto del crescente fascino che il modello cinese di capitalismo anti-democratico esercita su fasce sempre più estese delle élite economiche internazionali.
In un libro recente, forse la più acuta diagnosi della cesura provocatasi all’interno della tradizione liberale con l’avvento del così detto neo-liberalismo, Pierre Dardot e Christian Laval hanno mostrato come il modello della nuova razionalità politica promosso dai discepoli di Lippmann, von Mises e von Hayek non sia lo sguardo reciproco del bilanciamento dei poteri di Montesquieu ma il Panopticon e il Codice costituzionale di Bentham.
Bentham, un democratico radicale, aveva teorizzato infatti una prigione nella quale tutti i presenti si sentissero sempre potenzialmente spiati da un unico guardiano posto al centro di una immaginaria circonferenza e un ufficio nel quale i dipendenti venissero perennemente osservati dalla popolazione nello svolgimento dei loro compiti.
È a questo modello di sorveglianza (sterilizzato dei suoi tratti politici democratici e radicali) che secondo Ducrot e Laval si ispirano le retoriche attuali dei nuclei di valutazioni, delle agenzie di controllo e del rating che stanno ridisegnando le nostre istituzioni e pratiche politiche, consegnando il potere a una casta di controllori a loro volta sottratti a ogni controllo. Esattamente il contrario del modello teorizzato da Montesquieu sul quale (almeno formalmente) ancora si reggono le nostre costituzioni.
Ducrot e Laval sono due marxisti foucaultiani e Montesquieu non figura tra i loro punti di riferimento. Eppure - viene da pensare - proprio dalle sue pagine avrebbero potuto trarre più di un suggerimento per il loro ammirevole La nuova ragione del mondo (DeriveApprodi).
Nelle ricostruzioni storiografiche tradizionali Montesquieu è il pensatore dei liberali, laddove la tradizione socialista ha preferito guardare piuttosto a Rousseau e alla sua teoria, in fondo già così romantica, della “volontà popolare”.
Oggi però siamo finalmente in grado di vedere come Montesquieu sia stato invece probabilmente il più conseguente continuatore (per quanto in chiave moderata) del grande progetto di repubblicanesimo radicale di Niccolò Machiavelli.
Le parole d’ordine sono le stesse: rifiuto di qualsiasi potere sprovvisto di vincoli (per Machiavelli l’eccezione necessaria è il legislatore al momento della fondazione o rifondazione dello stato); accorto bilanciamento dei poteri attraverso la costituzione mista già teorizzata, tra gli antichi, da Polibio e soprattutto da Dionigi di Alicarnasso; valutazione positiva dei conflitti intestini regolati (un’altra idea di Dionigi lasciata da Machiavelli in eredità al pensiero politico moderno).
Il risultato di questo seminale fraintendimento di Montesquieu ha fatto sì che, quando non si è accontentata di facili slogan anarcoidi, la tradizione socialista abbia rinunciato ad affrontare la questione dello stato, limitandosi ad annunciare il suo imminente superamento per poi - già con Lenin - promuoverne invece l’espansione illimitata (secondo l’idea di Stato e Rivoluzione, che, prima di estinguersi del tutto, lo stato dovesse brillare un’ultima, gigantesca vampata, proprio come una fiamma).
Oggi, Ducrot e Laval, riconoscono che la teoria socialista non è mai riuscita a elaborare una sua idea di governamentalità alternativa rispetto a quelle dell’esercito e dell’azienda che hanno dominato l’Occidente moderno.
Montesquieu non trova posto nella loro cassetta degli attrezzi, ma c’è da pensare che, magari integrato e corretto con il suo “maestro” Machiavelli, anche i due filosofi francesi potrebbero trarre dalle sue pagine più di uno spunto decisivo per provare a pensare un governo degli uomini ispirato ai tre fini della vita associata secondo lo Spirito delle leggi: libertà, giustizia, mitezza.
Novecento
Lo sterminio sotto la lente
Abram de Swaan fa una ricognizione della violenza di massa, analizzando la mentalità che si cela dietro l’orrore: dissente dalla tesi di Hannah Arendt sulla «banalità del male»
di Emilio Gentile (Il Sole-24 Ore, Domenica, 25.10.15)
Il Novecento ha una pessima reputazione fra la gente comune e fra gli studiosi. Teatro delle carneficine di due guerre mondiali, di genocidi e di stermini per motivi razzisti, etnici, religiosi, politici, ideologici, è considerato il secolo più violento della storia umana. «Nel secolo scorso, la violenza di massa nei confronti di persone inermi ha causato un numero di vittime oscillanti tra il triplo e il quadruplo di quelle della guerra: almeno cento milioni, ma verosimilmente assai di più». Con questo macabro calcolo Adam de Swaan, sociologo e psicanalista, inizia l’analisi della mentalità dell’omicidio di massa, in un libro che lascia nel lettore un senso di orrore, imponendogli però gravi riflessioni sulla natura dell’uomo e sulla sua disponibilità a diventare un carnefice.
De Swaan ha studiato le pratiche di annientamento collettivo messe in atto con sistematica crudeltà da forze armate organizzate, sostenuto dallo Stato, contro popolazioni inermi, che sono state prima «compartimentate» e «disidentificate», secondo la terminologia di de Swaan, cioè sono state separate, isolate e condannate dalla propaganda di regime come persone nocive alla comunità razziale, etnica o ideologica, con la quale si identificano i carnefici.
Chi sono i carnefici di massa? Cosa li spinge a compiere efferate violenze su civili indifesi, donne e bambini compresi, fino a sterminarli? Secondo alcuni studiosi, i carnefici sono persone ordinarie, che in determinate situazioni diventano criminali perché sottoposte agli ordini o perché incapaci di pensare e di agire consapevolmente. La filosofa Hannah Arendt, che seguì a Gerusalemme il processo ad Adolf Eichmann, giudicò il criminale nazista un burocrate dell’ingranaggio genocida, zelante esecutore perché incapace di pensare: nella sua insignificante mediocrità, Eichmann incarnava, secondo la Arendt, «la banalità del male».
Altri studiosi attribuiscono la genesi dello sterminio di massa alla modernità: «L’età moderna è fondata sul genocidio ed è nutrita di genocidi», afferma il sociologo Zygmunt Bauman. Nell’età moderna, non solo le dittature militari e i regimi totalitari hanno praticato l’assassinio in massa: lo hanno fatto anche le democrazie imperialiste contro le popolazioni indigene. «La pulizia etnica omicida è un problema della nostra civiltà», «il lato oscuro della democrazia», secondo il sociologo Michael Mann, il quale asserisce inoltre che sono «le normali strutture sociali a spingere la gente comune a commettere omicidi e a partecipare alla pulizia etnica».
Da queste interpretazioni de Swaan dissente in modo deciso e chiaro, perché finiscono per assolvere i carnefici reali, negando la loro personale responsabilità. Egli critica il giudizio della Arendt sulla «banalità del male», osservando che non può esser considerato “banale” un convinto fanatico nazista come Eichmann, «che mostrò una grande pervicacia nell’organizzare e attuare espulsione, deportazione e sterminio di milioni di ebrei infierendo talvolta sulle vittime più di quanto richiedessero gli ordini ricevuti».
L’isolamento, la deportazione, lo sfruttamento bestiale, lo sterminio di milioni di persone, aggiunge de Swaan, «non hanno nulla di banale. Definirli tali è una pura sciocchezza». Nello stesso senso, egli giudica «piuttosto sorprendente» definire «normali strutture sociali» i campi di sterminio di Hitler, i campi di eliminazione di Pol Pot, i massacratori hutu del Ruanda. Infine, de Swaan contesta l’attribuzione di una congenita vocazione genocida alla modernità, ricordando che sin dalle loro origini «gli esseri umani hanno massacrato i propri simili. Ogni guerra, ogni battaglia si concludeva con saccheggi, incendi, stupri di donne sconfitte, e con la riduzione in schiavitù o con lo sterminio dei nemici sopravvissuti».
Basta sfogliare i grandi libri delle antiche civiltà per leggervi frequenti descrizioni di stermini di popolazioni inermi da parte di eserciti conquistatori. Narra l’Iliade che Agamennone ordinò che nessuno dei troiani doveva «sfuggire all’abisso di morte, per nostra mano, neanche chi è ancora nel ventre della madre, se è maschio, ma tutti spariscano insieme con Troia». I libri del Vecchio Testamento raccontano una sequela ininterrotta di carneficine di donne e bambini, compiute per volere del Signore nelle città conquistate da Israele. Quando Giosuè attaccò Gerico, i suoi soldati «sterminarono tutto quanto era nella città, uomini e donne, giovani e vecchi, perfino i buoi e gli asini passarono a fil di spada». Poi Giosuè conquistò Azor e «passò a fil di spada tutti quelli che vi si trovavano, votandoli allo sterminio». E quando gli israeliti fecero guerra alla tribù di Beniamino ebbero l’ordine di uccidere «gli abitanti di Iabes di Galaad, comprese donne e bambini».
Le cronache medievali raccontano numerosi gli omicidi di massa. Al tempo della prima crociata, nel 1096, i soldati di Cristo massacravano gli ebrei in tutte le città che attraversavano: a Magonza, in un solo giorno «mille e cento anime sante furono uccise e massacrate, bambini e lattanti»; poi, conquistata Gerusalemme nel 1099, i crociati, presi da «divino furore», passarono a fil di spada i musulmani, uomini e donne: «Nelle strade della città si potevano vedere mucchi di teste, mani e piedi», «gli uomini cavalcavano con il sangue fino alle ginocchia e alle redini».
Lo sterminio degli inermi viene dalla notte dei tempi. Secolo dopo secolo, millennio dopo millennio, attraversando tutti i continenti, è giunto fino ai giorni nostri. E minaccia di continuare nei giorni che verranno. L’età moderna non ha inventato l’omicidio di massa, non ha iniettato la crudeltà genocida nell’essere umano, ma certamente ha messo a disposizione dei carnefici nuovi mezzi organizzativi, tecnici, culturali, per rendere lo sterminio degli inermi più vasto ed efficiente.
Nessun male è banale, e non si può dimostrare che in ciascuno di noi, persone ordinarie, dorme un potenziale carnefice di massa. Dopo tutto, se moderni sono i genocidi, moderna è anche l’indignazione che essi suscitano e la volontà di condannare chi li compie. Fra questi due opposti aspetti della modernità, c’è posto per la speranza, che è l’ultima a morire, come si dice. Purché non sia uccisa prima, inerme com’è.
La perdita del centro psichico, così l’Io è diventato liquido
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 13.10.2015)
IL NOSTRO tempo sembra vivere, come ha mostrato anche Bauman, l’esasperazione del carattere liquido dell’identità: cambiamento di sesso, di pelle, di razza, di religione, di partito, di professione, di immagine. Anche il New York Times recentemente si pone la domanda: «Chi crediamo di essere?». L’identità vacilla, barcolla, diventa un concetto sempre più mobile, borderline .
Mentre l’età moderna aveva sempre ricercato una identità (anima, spirito, cogito, ragione, Io) che avesse, come scrisse Descartes, la stessa solidità della roccia sotto la sabbia, nel tempo ipermoderno, quale è il nostro, l’identità si pare dissolversi in un camaleontismo permanente. Anche il contributo della psicoanalisi, almeno per un verso, sospinge in questa direzione: la malattia psichica non deriva tanto da una liquefazione dell’identità, ma da un suo rafforzamento. Non è il deficit dell’Io a causare la sofferenza mentale, ma una sua amplificazione ipertrofica. Lacan scherniva la supponenza identitaria dell’Io quando ci ricordava che se un pazzo che crede di essere Napoleone è chiaramente un pazzo, ma non lo è affatto di meno un re che crede di essere un re.
Freud si era una volta paragonato a Copernico e a Darwin come fustigatore del narcisismo umano. Copernico aveva inferto il primo colpo mostrando che la terra non è il centro dell’universo; Darwin il secondo affermando la nostra derivazione dai primati. Ma il passo più scabroso e decisivo, nel limitare le ambizioni narcisistiche dell’Io, fu quello di Freud che ha evidenziato come l’Io non sia «padrone nemmeno in casa propria ». L’identità dell’Io non è un centro statico dal quale si irradia la personalità; essa assomiglia piuttosto ad un arlecchino servitore di tre padroni: tirato dall’Es, dal Super-Io e dalla realtà esterna in direzioni differenti e spesso inconciliabili. Su queste orme Lacan concepirà l’Io non come il custode del nocciolo duro della nostra identità, ma come una cipolla: composto da una stratificazione di piccole foglie (le identificazioni che lo hanno costituito) senza alcun cuore solido. Per questa ragione egli riteneva che la «follia più grande» dell’uomo è quella di «credersi davvero un Io».
Se però l’Io non è più il centro permanente della nostra vita psichica tutto appare più libero, senza confini e delimitazioni rigide. L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari è probabilmente l’elogio filosoficamente più alto di questa nuova prospettiva: l’identità concepita come una sostanza permanente viene abbandonata come un residuo autoritario e disciplinare dell’età moderna e della sua paranoia costitutiva per lasciare il posto ad una idea nomadica, anarchica, rizomatica, senza Legge, della vita. Anziché vivere con angoscia la perdita di centro essa viene salutata come una grande possibilità di apertura e di liberazione.
Nondimeno, come il rovescio di una stessa medaglia, questa evaporazione dell’Io innesca - come esito di un movimento reattivo che Bauman non ha colto sufficientemente - l’esigenza di trovare una identità solida. Il vento del fondamentalismo spira chiaramente in questa direzione: il dubbio, la scomposizione della personalità psichica, il superamento dei confini identitari lasciano il posto alla rivendicazione di una certezza che non deve conoscere incrinature. Noi siamo quello che pensiamo di essere, punto. L’Io torna ad essere padrone più che mai non solo in casa propria, ma anche in quella degli altri.
Si riabilita così una concezione paranoica dell’identità fondata sull’esistenza, altrettanto solida, dei suoi “nemici” più irriducibili. Si tratta di una riabilitazione che può risultare altamente attrattiva anche per un Occidente che ha perduto il suo centro identitario. Nietzsche ci aveva ammoniti: verrà un tempo dopo la morte di Dio - dopo la perdita irreversibile del “centro” - dove gli uomini adoreranno la sua ombra in lugubri caverne afflitti dalla nostalgia di un mondo che non esiste più. Anziché vivere le turbolenze del mare aperto essi cercheranno porti sicuri per le loro barche.
Perdite di memoria in Europa
di Barbara Spinelli *
L’Unione europea è un animale ambiguo, dal punto di vista della memoria e di quella che i tedeschi chiamano politica della memoria.
Da una parte fu il progetto di imparare dal passato, di capire perché nel ‘900 le guerre tra europei avevano raggiunto il culmine della devastazione. Le radici furono individuate nell’osmosi che il fascismo aveva creato tra nazione, Stato, e cittadino. La Stato-nazione era divenuto valore supremo e sovrano assoluto, e ai cittadini veniva tolta ogni sovranità: anch’essi dovevano entrare in osmosi con lo Stato deificato e totalizzante. Il fascismo italiano ideò questo termine - totalitarismo - applicato poi a varie forme di dispotismo. Secondo Giovanni Gentile, uno dei più intelligenti ideologi dell’epoca mussoliniana, “per il fascista tutto è nello Stato e nulla di umano e spirituale esiste e tantomeno ha valore fuori dallo Stato. In tal senso il fascismo è totalitario».
L’Europa unita fu nel dopoguerra il tentativo di superare i tre mali che avevano prodotto il fascismo: la grande crisi economica con la miseria e il furore che essa aveva creato nelle popolazioni; il nazionalismo che doveva assorbire questo furore; infine il colonialismo. Il Manifesto di Ventotene affronta insieme questi tre mali, proponendo non solo un’unità tecnica fra europei ma una democrazia più disseminata e un sistema di protezioni sociali che avrebbe ridotto la solitudine e il risentimento dei cittadini davanti alla miseria. Non dimentichiamo che gli estensori del Manifesto, gli antifascisti Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, proposero un reddito minimo europeo, e che tra i fondatori dell’europeismo originario c’è anche William Beveridge, l’inventore del Welfare State.
Ma l’Europa è stata anche il contrario di tutto questo. Non la memoria viva, ma la sua deliberata negazione. La Germania ovest fu riammessa nell’area delle democrazie come se il nazismo fosse stato un incidente, anche perché simultaneamente fu inserita nella Nato. Il solo fatto di essere nella Comunità la esentava da una politica della memoria che cominciò molto più tardi, negli anni ’60 sulla scia del processo Eichmann e dei movimenti studenteschi.
Fu così che l’Europa fu al tempo stesso lavoro di memoria e amnesia collettiva, non solo in Germania. L’Italia non ha mai lavorato sulla propria memoria: onorò perfino i responsabili della guerra chimica in Etiopia. E a differenza della Germania, che ha chiesto ufficialmente scusa per il bombardamento di Guernica, non si è mai scusata per i bombardamenti di Barcellona durante la guerra di Spagna. La Francia per decenni non ammise la propria collaborazione col nazismo. I primi storici di Vichy furono americani, non francesi. L’Unione è stata anche questo: una specie di patto dell’oblio, di patto della Moncloa.
Non c’è dunque da stupirsi se il passato si banalizza e rivive. L’Europa si sta trasformando oggi in un territorio cosparso di centri di detenzione per migranti senza documenti, e chi ha visitato questi centri ha visto quanto somiglino a campi dove le persone sono concentrate, in attesa di un’esplosione che di sicuro verrà.
L’Europa torna a essere un esercizio in amnesia. Anche in Germania, dove più si è lavorato sul passato, pareti intere di memoria precipitano. I tedeschi hanno ricordi vividi dell’inflazione che colpì la democrazia prima dell’avvento di Hitler, ma hanno completamente dimenticato che una delle cause di tale avvento fu la recessione - antikeynesiana già allora - adottata subito prima dal governo Brüning. Hanno dimenticato che nel dopoguerra parte dei suoi debiti le furono condonati dagli Stati stessi che aveva distrutto (fra essi la Grecia).
Intanto siamo sommersi dalle commemorazioni, ripetitive e sempre più vuote. La cosa più insopportabile sono le chiacchiere sui valori. È Habermas a chiamarle così. Più parliamo di valori, più calpestiamo quel che davvero conta: non i valori in astratto, ma i diritti e le costituzioni.
Il disastro della memoria è questo: dell’Europa antifascista si ricorda solo la parte tecnica del progetto, e la delega di sovranità nazionali si riduce a un fine in sé. Serve a schiacciare ogni altra sovranità: delle nazioni come dei popoli. Ai vertici ecco di nuovo un sovrano assoluto, anche se meno afferrabile: legibus solutus, sciolto dalle leggi, dallo Stato di diritto. Un’Unione siffatta ci fa forse uscire dallo Stato nazione, non dall’esperienza fascista.
* BARBARA SPINELLI.IT giovedì, settembre 24, 2015 (ripresa parziale).
DEMOCRAZIA, TEOCRAZIA (LA MONARCHIA "EDIPICA" VATICANA), E RISPETTO PER LA REPUBBLICA ITALIANA!!!:
Il Papa è un personaggio molto autorevole, ma è il Capo di un altro Stato (Furio Colombo) - e non democratico!!!:
PROCESSO ALLA DEMOCRAZIA!? NO! CRITICA DELL’ ECONOMIA POLITICA, FILOSOFIA, E TEOLOGIA!!!:
Quando Rousseau e Montesquieu temevano pericoli autocratici non avevano previsto il rischio opposto: è possibile che i cittadini siano stanchi di essere rappresentati?
di Roberto Esposito (la Repubblica, 04.10.2015)
Che la democrazia non stesse così bene lo si sapeva da un pezzo. Lo sanno i cittadini e gli scienziati politici. Nel giro di un ventennio i certificati di morte, o quantomeno analisi inclini al pessimismo, si sono succedute a un ritmo incalzante. Se già negli anni Novanta Jean-Marie Guéhenno aveva parlato di “fine della democrazia” (Garzanti), a qualche anno di distanza Colin Crouch coniava il fortunato neologismo “postdemocrazia” (Laterza), mentre Ralf Dahrendorf ci collocava direttamente “dopo la democrazia” (Laterza). Diverse le cause di questo malessere, alcune ben note ai suoi stessi primi teorici. Si sa che Rousseau riteneva il sistema democratico tanto perfetto da convenire solo a un popolo di angeli, così come Tocqueville metteva in guardia in anticipo dalla possibilità di un dispotismo democratico. E a rischi simili pensava Montesquieu quando si preoccupava di proteggere la divisione dei poteri da un eccesso di concentrazione.
I fatti hanno in buona parte smentito tali timori. Oggi la democrazia - o almeno qualcosa che le assomiglia - è di gran lunga la forma politica più diffusa nel mondo. E tuttavia proprio questa straordinaria performance ha messo in evidenza una serie di limiti strutturali che il tempo ha reso ancora più stridenti. Il più paradossale è quello rilevato da Bernard Manin in Principi del governo rappresentativo (il Mulino): nella sua stessa formulazione la democrazia rappresentativa include un ineliminabile elemento aristocratico.
Non essendo vincolati da un mandato imperativo e dunque non revocabili in ogni momento da coloro che li hanno eletti, i rappresentanti del popolo non devono rispondere a nessuno delle proprie scelte per tutta la durata della legislatura. Del resto il carattere oligarchico delle democrazie contemporanee è attestato dalla percentuale incredibilmente bassa dei cittadini che partecipano direttamente al governo della cosa pubblica. Il presidente degli Stati Uniti è eletto, ad esempio, da non più del 15 per cento degli aventi diritto al voto. Una buona metà di essi non si iscrive neanche alle liste elettorali e un’altra metà degli iscritti si astiene. Il restante quarto di elettori effettivi si divide quasi sempre con uno scarto minimo, che riduce ancor più i voti confluiti sul presidente eletto. Del resto le dinastie dei Kennedy, dei Bush, dei Clinton non ha il profilo inquietante di una democrazia ereditaria?
Ma a questi limiti, per così dire strutturali, del dispositivo democratico se ne sono aggiunti da qualche tempo altri che hanno accresciuto il senso di disillusione certificato nell’analisi di Roberto Foa e Yascha Mounk. Diverse sono le cause che rendono sempre più friabile, perfino lì dove è nata, la fiducia verso la democrazia. La prima è il contrasto, sempre più palese, tra il contesto statuale degli ordinamenti democratici e la dimensione globale del mercato e della finanza che condizionano le politiche pubbliche.
Il punto di cedimento sta in quel paradigma di sovranità cui la pratica della democrazia è stata finora legata, messa in crisi da una governance mondiale che fa capo a gruppi di interessi e lobby di carattere non elettivo. A questo deficit di legittimità si associa, potenziandolo, il ruolo dei media nella formazione dell’opinione pubblica. È noto che un sondaggio di modeste proporzioni incide sulle scelte governative più di un mese di dibattiti parlamentari, allargando il distacco tra forme e contenuti della democrazia. Un’intera fascia di popolazione resta esclusa dai processi decisionali, concentrati alla fine in poche mani in grado di orientarli in direzione di interessi particolari. Quando poi chi governa è anche padrone, direttamente o indirettamente, di mezzi di informazione, il cerchio si chiude con effetti nefasti nei confronti di quel principio di uguaglianza su cui dovrebbe fondarsi il sistema democratico.
A risultarne colpito non è tanto l’estensione della rappresentanza, quanto la sua reale efficacia. Per certi versi, anzi, quanto più i canali rappresentativi si moltiplicano - ciascuno di noi è rappresentato in sedi diverse, locali, nazionali, internazionali - tanto meno incidono sulla vita effettiva delle persone, dipendente da questioni di carattere biopolitico, quali la sussistenza materiale, la salute, il rapporto con i flussi migratori, etc.
Tutto ciò determina una doppia divaricazione. Da un lato quella dei cittadini nei confronti della istituzioni - l’insieme di riserve e di atteggiamenti negativi che Pierre Rosanvallon ha rubricato col termine “controdemocrazia” (Castelvecchi). Dall’altro quella delle istituzioni nei confronti di un popolo sempre più incline a forme di vera e propria antipolitica. Lo scivolamento della legittima protesta contro determinate opzioni governative verso forme di populismo costituisce oggi il rischio maggiore per le democrazie contemporanee, strette nella tenaglia tra disinteresse ed avversione.
La deriva populista ha l’effetto controproducente di scavare un solco sempre più profondo tra potere e società rendendo il primo ancora più indipendente dalla seconda. In questo cortocircuito perverso il populismo finisce per espropriare del tutto il popolo dalle decisioni che lo riguardano, mettendo, come diceva M. Gauchet, “la democrazia contro se stessa” (Gallimard).
Come rispondere a questa deriva autodistruttiva? Di antidoti ne esistono. Essi vanno dalla riduzione delle pratiche corporative del ceto politico - liste elettorali bloccate, governi tecnici, finanziamenti illeciti - all’incremento di forme di democrazia diretta, come campagne di informazione, primarie regolate, referendum non solo abrogativi. Ma tutto ciò avrà scarsi esiti se non si va al cuore del problema, che non riguarda tanto la forma, quanto la sostanza, della democrazia. Ad essere alle corde non è tanto il sistema democratico, quanto la politica che dovrebbe renderlo vitale. È questa che sembra dissolversi in discussioni tecniche sugli strumenti che finiscono per perdere di vista i fini.
La politica, ridotta ad amministrazione, s’incarica di risolvere solo i problemi emergenti, senza dirci cosa intende fare e perché. Quali sono i suoi progetti e come raggiungerli. E in questo assordante silenzio che le alternative politiche appaiono tutte interne allo stesso modello e dunque irrilevanti. Ciò che manca è la capacità di alzare il tono del discorso pubblico, facendo della democrazia lo spazio necessario delle regole comuni, ma della politica il luogo in cui si confrontano, e affrontano, valori ed interessi diversi e contrapposti.
"DIO E’ SPIRITO": MA QUALE SPIRITO?!
Cercando il vero Dio in un’immagine
Dopo la morte filosofica di Dio annunciata da Nietzsche e rilanciata da Heidegger, occorre constatare anche una morte estetica di Dio?
di Vito Mancuso (la Repubblica, 04.10.2015)
Rappresentare il creatore biblico è sempre stata la principale sfida nella storia dell’arte occidentale Dopo la morte filosofica di Dio annunciata da Nietzsche e rilanciata da Heidegger, occorre constatare anche una morte estetica di Dio? Credo sia sufficiente percorrere in senso cronologico un museo per rendersi conto del declino, per non dire tracollo, dell’arte sacra in occidente. All’inizio nei secoli medievali quasi ogni dipinto è una raffigurazione religiosa, poi con l’avvento del rinascimento compaiono anche soggetti profani, ma la religione rimane ancora la protagonista indiscussa: impossibile pensare Raffaello, Michelangelo o Caravaggio senza i loro soggetti religiosi.
Il Settecento con l’illuminismo segna la svolta, così che, anche quando l’interesse per la religione si ravviva con il romanticismo, l’iconografia tradizionale ormai non sa più parlare al sentimento contemporaneo e i tentativi di rivitalizzarla producono solo opere artificiali, in modo analogo alla neoscolastica nel campo del pensiero. Osservava in quegli anni Oscar Wilde: «Ogni imitazione, nella morale come nella vita, è errata». Quando poi la visita al museo ci avrà condotto alle sale del Novecento e della contemporaneità, i soggetti religiosi appariranno delle eccezioni.
Ma il punto è che anche l’arte sacra guidata dalle migliori intenzioni non raffigura quasi più i soggetti dove più risplende la gloria del divino, come Dio Padre o la Trinità. Ci si concentra quasi solo su Cristo, ma insistendo sulla sua dimensione umana, non su quella divina: Cristo è colui che soffre e che muore, non più il Pantokrator che domina il mondo come nella cattedrale di Monreale o nel duomo di Cefalù. Perché? Perché le immagini religiose di un tempo oggi appaiono estremamente improbabili nel loro comunicare Dio. Anzi, proprio mentre pretendono di rappresentare al sommo grado la gloria del divino dipingendo Dio Padre con il triangolo luminoso sulla testa, ne sono palesemente lontane. Fanno venire in mente il titolo di un celebre saggio teologico di John Robinson del 1963: Dio non è così.
Il punto è che “Dio è spirito”, come dice il vangelo (Giovanni 4,24) e come sostengono i grandi pensatori che hanno seriamente riflettuto al riguardo tra cui Platone, Aristotele, Origene, Agostino, Maimonide, Tommaso d’Aquino, Cusano, Hegel, e non è per nulla semplice, anzi è sostanzialmente impossibile, raffigurare lo spirito. Per questo osservava Montaigne: «È difficile portare le cose divine sulla nostra bilancia, senza che esse non ne soffrano un calo». Da qui l’implausibilità di tutte le opere artistiche che, a dispetto di ciò, cercano di rappresentare Dio.
Eppure il cristianesimo gioca gran parte del suo destino nell’impresa estetico-teologica. Esso infatti è la religione del Dio resosi visibile in forma umana e per questo, a differenza dell’ebraismo e dell’islam, ha sempre creduto nella possibilità di rappresentare il divino. Anche quando la Riforma protestante diede avvio a una sistematica distruzione delle immagini religiose, il cattolicesimo non smise mai di incoraggiare l’immaginazione artistica: nel nord Europa si distruggevano le immagini sacre, da noi Michelangelo dipingeva il Giudizio universale!
Nella capacità di tornare a esprimere in modo credibile la gloria del divino si determina in non piccola parte il futuro del cattolicesimo: se tornerà cioè a saper incidere nell’anima contemporanea, non solo in senso etico spingendola a essere buona, ma prima ancora in senso estetico, affascinandola per la sua bellezza e per la sua gloria. Il guaio è che ben pochi tra le gerarchie ecclesiastiche sembrano rendersi conto di tutto ciò.
Noi tedeschi in crisi d’identità
di Peter Schneider (la Repubblica, 26.09.2015)
LEGGENDO le drammatiche notizie sul caso Volkswagen, mi sembra che una parte dell’anima tedesca oggi appartenga ai colossi dell’auto made in Germany.
E QUINDI l’anima tedesca è in crisi, perché scopre all’improvviso che un simbolo decennale del suo successo di Paese risorto nel dopoguerra dalle macerie, democrazia solida e aperta al mondo - lo dico per Vw, non so quanti e quali altri produttori mondiali siano coinvolti - è fondata da tempo sull’inganno. L’anima tedesca è in crisi, perché questo inganno fa a pezzi l’immagine di credibilità attendibile che a fatica il Paese si era ricostruito.
Il caso colpisce al cuore l’anima tedesca, anche perché abbiamo sempre pensato che tutti gli altri paesi sono corrotti, ma noi no: addio all’illusione di essere diversi, migliori rispetto agli altri, in Europa e nel mondo.
Inutile illudersi, noi tedeschi e il resto d’Europa e del mondo, che sia in gioco solo la reputazione di Vw: è in gioco l’immagine del Made in Germany quale sinonimo costitutivo della ricostruzione postbellica, e della fierezza di se stessi, delle virtù tedesche - onestà, serietà, affidabilità - che dopo il 1945 ci fu così arduo ritrovare. Sono spesso in America, sento spesso dire dagli amici americani che per loro i sinonimi della Germania nel loro immaginario collettivo sono “Hitler and good engineering”. Ora purtroppo quel primo orrendo sinonimo resta, ma il secondo diventa “cheating engineering”, tecnologia imbrogliona. Truffa con cui Vw si è creata un vantaggio illegale e scorretto rispetto alla concorrenza mondiale, e questa sua truffa pesa oggi sulla coscienza della nazione.
Riflettendo ancor più a fondo, emergono altre consapevolezze amare: per anni Vw e forse altri produttori hanno mentito al mondo. Proprio loro simbolo del Made in Germany, di eccellenze di un Paese ecologista come pochi altri, hanno detto il falso, hanno sostenuto che è possibile produrre e vendere auto sempre più grandi, potenti e pesanti ma sempre meno inquinanti.
Fu soprattutto l’industria dell’auto tedesca e americana a illudere i consumatori mondiali convincendoli che i SUV, quelle orrende jeep di lusso sinonimo di visibile egoismo arrogante, erano ecologici. E’una menzogna di cui adesso paghiamo il conto.
La situazione è tanto seria, che persino la Schadenfreude (la gioia maligna per le disgrazie altrui, in questo caso gioia di altri per la disgrazia tedesca) non fa piacere. Nella mia vita, ho avuto la fortuna di vivere nella Germania più felice, migliore, più amata dal mondo che la Storia abbia mai visto. Fino a pochi giorni fa era così... anche con Angela Merkel e le sue braccia aperte ai migranti, risposta civile europea ai razzisti come Orbàn. Ma adesso ci troviamo a una cesura seria. Non siamo alla fine della Storia di questa Germania felice e in pace col mondo, ma alla fine della sua identificazione folle con i successi dell’industria dell’auto. Che tristezza, se pensiamo a come le nostre “famose capacità tecnologiche” avrebbero potuto essere usate per produrre auto sempre più pulite, anziché per imbrogliare con quei software che falsavano i test.
Ci è mancato qualcosa di costitutivo, in un comparto economico chiave e determinante. Ci è mancata, per scelta dei big dell’auto che volevano soltanto vendere ogni anno più vetture, l’immaginazione e la creatività che a volte non vediamo, a volte fingiamo di non vedere altrove. Penso per esempio agli Stati Uniti dove l’alta tecnologia è culturalmente piu legata all’innovazione in nome della curiosità e della qualità della vita. Basta l’esempio della Tesla, la supercar familiare elettrica da 500 cavalli che loro hanno pensato e costruito, e che vendono con successo. Noi avremmo la capacità tecnologica di farlo, ma i nostri grandi Autokonzern hanno scelto di rinunciarvi.
Purtroppo rimane un’altra domanda sul Dieselgate. Come spiegare il silenzio di anni del sindacato più potente del mondo, rappresentato in forza al vertice Volkswagen in nome della Mitbestimmung, la cogestione? Che cosa significa, e che cosa cela, questa armonia dei silenzi tra azienda-simbolo e sindacato- simbolo della democrazia nata dalle macerie? Finché ci mancheranno i risultati delle indagini sui responsabili, sulle aziende colpevoli e mentitrici tedesche e magari anche non tedesche, ci rimane solo etichettare ogni auto Volkswagen come un pacchetto di sigarette, con avvisi obbligatori sul pericolo dell’uso.
(testo raccolto da Andrea Tarquini)
UN "PLATONISMO PER POPOLO": UNA "VOLKS-WAGEN" PER TUTTI! Una nota:
Il merito va alla curiosità di alcuni ricercatori e a coincidenze. Tutto iniziò due anni fa, quando l’International council on clean transportation (Icct) - una non-profit la cui missione è "migliorare le performance ambientali e l’efficienza energetica" nei trasporti "per il bene della salute pubblica e per mitigare il cambiamento climatico" condusse test in Europa per capire la reale performance di automobili dotate di motori diesel "puliti" *
MILANO - Ci ha impiegato oltre un anno per ammettere di fronte alle autorità americane che il suo è stato un tentativo deliberato di raggirare le leggi sulle emissioni, e non una questione di problemi tecnici. Ma Volkswagen l’aveva quasi scampata. Se non fosse stato per una serie di pure coincidenze e per la curiosità di vari ricercatori specializzati nelle quattro ruote, il gruppo tedesco forse non sarebbe mai stato scoperto a barare sui livelli di particelle inquinanti prodotte da milioni dei suoi motori diesel. E’ il New York Times a ricostruire i fatti.
Tutto iniziò due anni fa. Allora l’International council on clean transportation (Icct) - una non-profit la cui missione è "migliorare le performance ambientali e l’efficienza energetica" nei trasporti "per il bene della salute pubblica e per mitigare il cambiamento climatico" - stava conducendo test in europa per capire la reale performance di automobili dotate di motori diesel "puliti". Non particolarmente colpiti dai risultati, gli esperti del gruppo (tra le cui fila ci sono molti ex funzionari dell’agenzia per la protezione ambientale americana o epa, quella che venerdì scorso ha formalmente accusato Volkswagen di avere barato) decisero di condurre la stessa analisi su vetture negli Stati Uniti. Consapevoli del fatto che in Usa le norme sulle emissioni erano più stringenti e quasi certi che l’esito del test avrebbe fatto sfigurare le auto europee, i ricercatori si misero al lavoro senza immaginare che invece sarebbero inciampati in una delle maggiori truffe nel settore automobilistico della storia recente. In cerca di aiuto, l’Icct pubblicò un annuncio per la ricerca di un partner con cui testare vetture diesel. La West Virginia university decise di partecipare al bando.
"Testare veicoli leggeri a diesel in condizioni reali sembrava molto interessante", ha raccontato al Nyt Arvind Thiruvengadam, professore all’ateneo. "Ci siamo guardati e ci siamo detti ’proviamoci’". Alla fine quell’università fu selezionata, senza immaginare che avrebbe trovato un gruppo auto intento a barare. Per di più Volkswagen non era stata presa di mira. Per caso due dei tre veicoli a motore diesel acquistati per il test erano del gruppo tedesco. Ma ci volle poco per fare sorgere dubbi tra gli esperti. "Se sei imbottigliato nel traffico di Los Angeles per tre ore, sappiamo che la vettura non si trova nella condizione migliore per dare buoni risultati sulle emissioni", ha spiegato al Nyt Thiruvengadam. "Ma se si va a 70 miglia all’ora, tutto dovrebbe funzionare perfettamente. Le emissioni dovrebbero calare. Ma quelle di Volkswagen non scesero". E’ vero che le condizioni reali di guida sono condizionate dalla velocità, dalla temperatura, dalla topografia e da come il conducente preme sui freni. Ma la performance dei veicoli del gruppo tedesco sembrava piuttosto strana. A confermarlo fu poi il California air resources board (Carb), l’agenzia dello stato della California preposta a fissare standard sulle emissioni.
Venuto a conoscenza dei test in corso dell’Icct, il Carb decise di prenderne parte. E così i regolatori misero alla prova gli stessi veicoli analizzati dal gruppo di esperti aiutato dalla West Virginia university. I test si svolsero prima nei laboratori sofisticati del Carb, e l’esito sui due veicoli Volkswagen fu perfetto (il merito, con il senno di poi, fu il ricorso al controverso software chiamato "defeat device"). Ma quando quei due veicoli furono messi sulle strade del Golden state, le emissioni di diossido di azoto risultarono tra le 30 e le 40 volte più alte dei limiti di legge. Di conseguenza il Carb e l’Epa iniziarono le loro indagini su Volkswagen nel maggio 2014, come emerso dai documenti diffusi venerdì scorso. Il gruppo auto disse di avere scoperto la ragione di tali livelli alti di emissioni e propose un rimedio software.
Ciò risultò lo scorso dicembre in un richiamo di quasi 500.000 vetture in Usa. Ma il Carb continuò la sua inchiesta, non convinto che la performance su strada delle auto del gruppo sarebbe migliorata. Aveva ragione. Gli standard sulle emissioni continuavano ad essere violati, motivo per cui il Carb scelse di condividere quanto scoperto con l’Epa l’8 luglio. A quel punto l’agenzia per la protezione ambientale minacciò Volkswagen: o risolveva la questione o le autorità non avrebbero dato il via libera ai modelli 2016 dell’omonimo marchio e di quello Audi (una procedura generalmente di routine). Solo a quel punto arrivò l’ammissione del secondo maggiore gruppo di auto al mondo e con essa una crisi reputazionale smisurata.
Volkswagen, Die Welt: “Il governo tedesco sapeva della truffa sulle emissioni”
Secondo il quotidiano conservatore "la tecnica della manipolazione dei motori è nota da tempo a Berlino e Bruxelles". A dimostrarlo sarebbe la risposta del ministero dei Trasporti a un’interrogazione dei Verdi. Hillary Clinton su Twitter: "Vergognoso, ci siano conseguenze"
di F. Q. (Il Fatto, 22 settembre 2015) *
Lo scandalo della manipolazione dei dati sulle emissioni dei motori diesel da parte di Volkswagen diventa un caso politico. Perché il governo tedesco sapeva della truffa. A sostenerlo è l’edizione online di Die Welt, secondo cui “la tecnica della manipolazione dei motori è nota da tempo a Berlino e Bruxelles”. Lo dimostra, secondo il quotidiano conservatore, un documento del ministero dei Trasporti presentato in risposta a un’interrogazione dei Verdi in materia, che risale al 28 luglio scorso. Il ministero tedesco avrebbe ammesso di essere a conoscenza del software incriminato e avrebbe tirato in ballo anche la Commissione europea. Anche se nella risposta non compare alcun riferimento a specifiche case auto o modelli, la rivelazione del quotidiano se confermata cambierebbe completamente le carte in tavola.
Nell’interrogazione i Grünen chiedevano una presa di posizione sul problema dei dispositivi capaci di riconoscere se una vettura è sottoposta a un test di prova e di abbassare i giri del motore e con essi le emissioni. Manipolando così i risultati. Il governo federale ha risposto di condividere “l’opinione della Commissione europea, che ha sottolineato come l’impegno volto a eliminare i meccanismi manipolativi non si sia ancora del tutto affermato nella prassi comune”. Il ministero dei Trasporti, è la conclusione di Die Welt, sapeva dunque dell’esistenza di un dispositivo come quello scoperto negli Stati Uniti. Il seguito della risposta chiamerebbe poi in causa la Ue perché recita che “il governo federale sostiene, in queste circostanze, gli attuali sforzi per lo sviluppo di norme europee con lo scopo di diminuire ulteriormente le emissioni reali delle automobili”.
Mentre negli Usa è in corso un’inchiesta e diversi Paesi europei hanno a loro volta annunciato indagini per verificare gli effettivi livelli delle emissioni delle auto di Wolfsburg, la notizia che Berlino era al corrente del problema mette nel mirino lo stesso esecutivo guidato da Angela Merkel. Che martedì, contestualmente al varo di una commissione di inchiesta ad hoc, ha auspicato che “i fatti siano messi sul tavolo il più velocemente possibile”. Non sembra casuale la presa di posizione dell’ex segretario di stato americano Hillary Clinton: “E’ una cosa vergognosa. Quando una società mette i profitti davanti alla salute e all’ambiente ci devono essere delle conseguenze”, ha scritto su Twitter la candidata democratica alla Casa Bianca.
Volkswagen, la caduta degli dei
di Marco d’Eramo *
Lo so che è abietto e infantile, ma non è possibile non provare un piacere maligno di fronte al caso Volkswagen, le cui auto a motore diesel emettevano fino a 40 volte più emissioni di quello che appariva dai test, grazie a un software che avvertiva il motore quando un accertamento era condotto su di esso, per poi liberare le emissioni quando il test era finito.
Sono anni che la Germania ce la mena con il rispetto delle regole, con il giocare corretto. Su un punto è sempre stata inflessibile, quasi teutonica: gli impegni presi vanno onorati, come i debiti vanno ripagati: in nome di questo principio, ha spillato i greci al muro come farfalle di un entomologo (e ha incassato svariate decine, se non centinaia di miliardi dai profitti sui differenziali dello spread con i vari paesi del sud Europa). E poi si scopre che la più grande industria tedesca fa ecologia creativa, proprio come i politici greci e italiani fanno “finanza creativa”: l’una nasconde le emissioni tossiche sotto il tappeto, come fanno gli altri con i debiti delle amministrazioni locali.
E vai con il capitalismo renano e con l’ordo-liberismo e il rimettere in ordine casa propria. Senza parlare dello sfoggio persino imbarazzante di “tecnologia tedesca” qui e “tecnologia tedesca” là. Mancava solo che si vantassero della tecnologia tedesca per i calzini: certo è che se ne sono gloriati per un prodotto come lo shampoo: e non è un’esagerazione, vedi lo spot dello shampoo Alpecin in Gran Bretagna e in Italia, che ha lasciato interdetto anche il Financial Times.
Ora scopriamo che il secchione della scuola truccava i compiti in classe, dopo aver sempre rifiutato di aiutare i compagni di banco meno dotati. Scopriamo che una delle industrie più potenti del mondo, e più avanzate, replicava con tecnologia sofisticata l’antico mestiere napoletano del pittore di pesci, l’artigiano che prima di esporre sul banco rionale la sua mercanzia ittica, dipingeva le branchie di rosso vivido e gli occhi di smalto brillante per far sembrare più freschi cefali e merluzzi.
Esiste un termine tedesco che descrive in modo appropriato il piacere che tutti noi europei non possiamo non provare, ed è Schadenfreude. La gioia per il dispiacere altrui. Ma c’è anche un sentimento più sano. Ed è la vittoria del principio di realtà su ogni mito, su quello dell’invincibilità, quello della perfezione, quello dell’inappuntabile affidabilità. Sembrava troppo bello per essere vero, e infatti non lo era.
Ma c’è un altro bagno di umiltà che è reso necessario da questa sporca storia, e riguarda la sensibilità ambientale dei vari continenti. Un bagno che riguarda tutti noi europei e non solo i tedeschi. Da decenni noi popoli del vecchio continente siamo stati portati a credere di essere i più sensibili all’ambiente, i più attenti ai pericoli ecologici, i più decisi nella lotta all’inquinamento, contro gli scialacquatori di energia (statunitensi), i drogati di carbone (cinesi) e i disboscatori di giungla (brasiliani).
Prova di questo impegno naturale sarebbe la religiosa compunzione con cui ogni mattina differenziamo la nostra spazzatura, in un rito che ha preso il posto della lettura dei giornali in quella che Hegel considerava la devozione mattutina del borghese europeo. E invece la vera ragione per cui Volkswagen ha truccato i motori e ha rischiato il disastro che oggi si verifica puntualmente è che voleva esportare oltre Atlantico il modello “diesel” che prevale da noi. I tre quarti dei motori diesel mondiali circolano infatti in Europa provocando quella che l’Epa (l’Agenzia per la protezione ambientale Usa) ha chiamato “la catastrofe sanitaria europea”. Non solo ma le emissioni dei motori diesel contribuiscono pesantemente allo smog, al cambiamento climatico, all’assottigliarsi dell’ozono. Se cominciassero a disinquinare a casa nostra?
Dopo la parola tedesca Schadenfreude, in questa vicenda non poteva mancare un termine greco, ed è Nèmesi. Basta fare un po’ di conti: mentre scrivo, le azioni Volkswagen sono quotate 110 euro, mentre 52 settimane fa valevano 255 euro. Solo negli ultimi due giorni hanno perso il 30% del proprio valore (circa 15 miliardi di euro). Negli Usa VW dovrà ritirare 500.000 auto a un costo di 39.000 dollari l’una (quasi 20 miliardi di dollari in tutto) e molto probabilmente dovrà pagare una multa equivalente, portando le perdite immediate a circa 60miliardi di euro. Senza contare le perdite in prospettiva dovute al quasi certo crollo delle vendite mondiali e a agli altri ritiri che saranno richiesti da numerosi paesi: secondo le agenzie stampa, circolano nel mondo 11 milioni di veicoli Volkswagen (e della sua sottomarca Audi) identici a quelli messi sotto accusa negli Stati uniti.
Contando tutti questi fattori insieme, nel medio termine, la perdita potrà sforare i 300 miliardi di euro, che provocherebbero una bancarotta immediata se non fossero ripianati. E chi sarà chiamato a ripianare questa voragine? Sarà certamente il contribuente tedesco che per l’Auto del popolo (questo significa Volkswagen) dovrà sborsare di tasca sua l’equivalente di quel che non ha voluto concedere per ripianare il debito greco: è qui che constatiamo la nemesi storica.
Un’ulteriore circostanza rafforza il contrappasso. Ed è che i fondi che inevitabilmente dovranno essere scippati ai contribuenti tedeschi - ed europei - (“O la tassa o la vita”) potrebbero non servire a molto (proprio come nel caso greco), ove si rivelasse che simili trucchetti erano praticati anche da Daimler-Benz, da Bmw (e probabilmente da Peugeot, Renault, Fiat e gli altri grandi produttori europei).
Dalla Schadenfreude, passando per la nèmesi, non si può che finire nella Götterdämmerung (il “crepuscolo degli dei”).
Brasile: Volkswagen spiava operai durante dittatura
Ex lavoratori denunciano azienda, ’fatti arrestare e torturati’*
Nuova tegola per la Volkswagen. Una dozzina di ex dipendenti brasiliani ha denunciato l’azienda automobilistica tedesca, nell’occhio del ciclone negli Usa per violazioni delle norme anti smog, per presunte violazioni dei diritti umani durante la dittatura militare (1964-1985). La Commissione nazionale per la verita’ (Cnv), istituita per fare piena luce sui crimini commessi durante la dittatura, ha raccolto le testimonianze degli ex dipendenti arrestati e torturati in seguito alle delazioni ed ha chiesto l’apertura di una inchiesta civile per accertare le persecuzioni denunciate, ’’che si configurano come crimini contro l’umanita’’’.
La denuncia si basa sulle dichiarazioni rese da 12 ex dipendenti dello stabilimento Volkswagen di Sao Bernardo do Campo, alla periferia di San Paolo, lo stesso dove lavoro’ e mosse i primi passi da sindacalista l’ex presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva. Secondo la denuncia, che e’ stata presentata al procuratore per i diritti dei cittadini di San Paolo, Pedro Antonio de Oliveira Machado, la multinazionale raccolse informazioni su sindacalisti ed attivisti di sinistra, considerati ’sovversivi’, che poi trasmise al Dops, la polizia politica dei golpisti, che li arresto’ e li fece torturare in carcere.
La Volkswagen e’ stata una delle prime aziende automobilistiche ad aprire una fabbrica in Brasile, nel 1959. Nel 1980, quando Lula e altri sindacalisti guidarono uno storico sciopero durato 41 giorni, i dirigenti della casa automobilistica stilarono e consegnarono al Dops una lista con i nomi di 436 lavoratori che avevano aderito allo sciopero, indetto per chiedere il miglioramento delle condizioni di lavoro e un aumento del 15% dei salari. Nella ’lista nera’ compaiono annotazioni, dati personali e gli indirizzi privati degli operai. In una audizione alla Cnv, nel marzo scorso, i legali della Volkswagen negarono qualsiasi tipo di collaborazione dell’azienda con la giunta militare ma non seppero spiegare come la ’lista nera’ fosse finita nelle mani degli aguzzini del Dops.
’’Sono stato arrestato dalla polizia politica dopo che il mio capo reparto mi aveva denunciato per aver distribuito in fabbrica il giornale ’Voce Operaia’. Mi hanno portato in carcere e torturato per quasi un mese’’, ha raccontato alla Cnv Lucio Antonio Bellantani, 71 anni, secondo il quale ’’la Volkswagen dovrebbe confessare i crimini commessi durante la dittatura militare ed erigere un memoriale che serva di monito alle nuove generazioni affinche’ certe cose non si ripetano mai piu’’’.
Pianeta Terra, 2015. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
Papa Francesco: "Donna tentatrice è luogo comune"
Bergoglio: "Famiglie combattano la subordinazione dell’etica alla logica del profitto" *
CITTA’ DEL VATICANO - "Esistono molti luoghi comuni, alcuni anche offensivi, sulla donna tentatrice", "invece c’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa generazione di Dio". Lo ha detto il Papa, dopo aver affermato che "la donna, ogni donna, porta una segreta e speciale benedizione per la difesa della sua creatura dal maligno, come la donna dell’Apocalisse che corre a difendere il figlio dal drago e lo protegge".
"Il mondo creato è affidato all’uomo e alla donna: quello che accade tra loro dà l’impronta a tutto", ha detto Bergoglio concludendo un ciclo di catechesi sulla famiglia. "Cristo è nato da una donna ha aggiunto il Papa di fronte a oltre 25mila fedeli in Piazza San Pietro - "e questa è la creazione di Dio sulle nostre piaghe, sui nostri peccati, ci ama come siamo e vuole portarci avanti con questo progetto, e la donna è la più forte nel portare avanti questo progetto".
"La famiglia ci salva da tanti attacchi, distruzioni e colonizzazioni, come quella del denaro o quelle ideologiche che minacciano il mondo", ha detto Francesco, "la famiglia - ha affermato - è la base per difendersi" e contrastare quanti "dispongono di mezzi ingenti e di un appoggio mediatico enorme".
Secondo Bergoglio, "l’attuale passaggio di civiltà appare segnato dagli effetti a lungo termine di una società amministrata dalla tecnocrazia economica" e dunque il nemico da combattere è "la subordinazione dell’etica alla logica del profitto". "In questo scenario - ha scandito - una nuova alleanza dell’uomo e della donna deve ritornare ad orientare la politica, l’economia e la convivenza civile! Essa decide l’abitabilità della terra, la trasmissione del sentimento della vita, i legami della memoria e della speranza". "La famiglia ci salva dalla colonizzazione del denaro", ha poi aggiunto.
"Di questa alleanza - ha continuato - la comunità coniugale-famigliare dell’uomo e della donna è la grammatica generativa, il ’nodo d’oro’, potremmo dire. La fede la attinge dalla sapienza della creazione di Dio: che ha affidato alla famiglia non la cura di un’intimità fine a sè stessa, bensì l’emozionante progetto di rendere domestico il mondo".
L’equilibrio tra egoismo e altruismo
di Gillo Dorfles (Corriere della Sera, 10.09.2015)
Fare e desiderare il bene degli altri è una delle azioni più lodevoli e convincenti da parte dell’uomo di oggi e di sempre; naturalmente non sempre il proprio desiderio corrisponde a quelle che sono le nostre aspettative, perché molte volte ragioni etiche, estetiche, sociologiche si sovrappongono tra quello che è il nostro desiderio e quella che è la sua meta. Non è sempre possibile che il nostro altruismo corrisponda alle migliori conseguenze possibili. Molto spesso prevale nell’uomo un atteggiamento egoistico e questo fa sì che tutte le tendenze altruistiche vengano contaminate e contraddette da questo comportamento. Tra l’altruismo e l’egoismo che di solito prevalgono nella nostra costituzione, non c’è dubbio che il primo dovrà avere ogni tipo di privilegio, perché agire a favore del prossimo è uno dei dettami evangelici e una delle fondamentali prerogative dell’umanità.
Le due contrapposte tendenze psicologiche dell’altruismo e dell’egoismo vengono indubbiamente a costituire la duplice base della nostra affettività; che sarà a seconda dei casi rivolta verso il prossimo o verso noi stessi. Non dobbiamo dimenticare che tanto il primo che il secondo movente possono essere modificati se l’individuo ne è cosciente e riesce ad arginare gli impulsi coattivi, separandoli da quelli che sono i suoi atteggiamenti verso se stesso o verso il prossimo.
Bisognerà sempre tenere conto che nella parola e nel concetto di altruismo non si cela solo la prassi del bene altrui, ma si celano anche molti dei compromessi del nostro carattere e quindi della nostra tendenza a proiettare su di noi quelli che dovrebbero essere gli affetti riservati al prossimo. Esistono diverse forme di altruismo dovute ad elementi psicologici, patologici e persino etnici e religiosi; per questo, molto spesso quella scissione tra altruismo e egoismo è più frequente di quanto non si creda.
Così non bisogna scordare che esiste un «altruismo patologico», ossia quello che potremmo identificare con un vero e proprio sadismo. In altre parole, il desiderio del male altrui viene a sostituire il desiderio del bene, secondo una prassi ideativa che può condurre a dei pessimi risultati. Lo stesso fenomeno del sadismo, infatti, non solo è patologico se osservato nella comune situazione affettiva; ma può costituire un germe creativo di cui l’artista si è servito e può servirsi; per cui il contrasto tra altruismo e sadismo viene a costituire una sorte di rete affettiva che può trasformarsi quale vero messaggio letterario.
Un interessante e complesso saggio sull’altruismo è quello di David Sloan Wilson L’altruismo. La cultura, la genetica e il benessere degli altri (Bollati Boringheri, traduzione di Andrea Migliori, pp. 162, e 19,50), il quale prende in considerazione quest’atteggiamento dell’uomo nelle sue più sottili ramificazioni. Non si dimentichi che, mentre l’altruismo viene costantemente «aiutato» e incoraggiato pubblicamente attraverso i più svariati mezzi persuasivi, dalla letteratura alla televisione agli altri mass media, compresi quelli della religione e persino della razza, l’egoismo in realtà non viene mai ufficialmente «promosso». L’altruismo dunque gode di un aureola di «gloria» mentre l’egoismo non possiede altro che la sua efficacia soggettiva.
In definitiva nella lotta impari tra altruismo e egoismo, come viene ben rilevata nel testo di Wilson, non ci saranno mai né vinti né vincitori; e non è detto che gli sconfitti siano effettivamente svantaggiati. Forse, i veri vincitori saranno quelli dove il «braccio della bilancia» dell’egoismo sarà identico a quello dell’altruismo, poiché le due fazioni si saranno strette equilibratamente la mano.
La Germania chiude i conti con il passato
di Ferdinando Camon (La Stampa, 09.09.2015)
L’accoglienza (così massiccia, così vistosa) dei profughi da parte della cancelliera Merkel chiude nella memoria degli europei l’epoca della Germania crudele e ostile, costruita dalla Seconda guerra mondiale. Per chi ha la mia età, quella era la Germania, non sarebbe mai cambiata.
Una Germania che attuava un rifiuto degli altri fino a compiere il più grande misfatto che la Storia abbia conosciuto. «Come faremo a liberarci di quel passato?» si chiedevano gli intellettuali tedeschi (e austriaci). Nel dibattito in Germania e in Austria quel passato era noto come «il passato che non passa». Nelle scuole per interi decenni non si parlava di quella colpa. Fu uno choc quando arrivò in tv un film (grossolano ma non reticente), intitolato «Olocausto» (termine sbagliato), in cui si vedeva l’incendio di case di ebrei con gli ebrei dentro, ma ricordo che tra i soldati tedeschi che osservavano il rogo correva questo dialogo: «Chi sono?», «Spie». Ancor oggi, nel far giustizia per la strage di Stazzema, la Germania non collabora con noi.
Aspetta che gli imputati, molto vecchi, muoiano. E se muoiono, con queste tremende accuse, sarà dannata la loro memoria? No, per niente. Una docente di Letteratura italiana all’università di Potsdam, Isabella von Tretzskow, aveva adottato per il suo corso un libro in cui raccontavo le stragi dei tedeschi nel Veneto. Il libro s’intitola La Vita Eterna in italiano, Das Ewige Leben in tedesco. I suoi studenti restano impressionati, vogliono saperne di più, cercano nelle biblioteche e negli archivi, ma non trovano nulla.
Come mai? Perché tutte le prove contro il comandante tedesco erano state distrutte, in obbedienza a una legge. Quel comandante era stato citato in processo da un pool di magistrati (onore a loro), e Das Ewige Leben era tra i documenti a carico, ma la notte prima della prima udienza ebbe un infarto e morì. Le prove contro di lui furono bruciate. Perché la Germania aveva varato una legge in base alla quale, se un cittadino tedesco viene accusato di crimini che possono infangare la sua memoria, ma muore prima che il processo sia giunto a condanna, ha diritto che tutte le prove siano distrutte. Il passato che non passa passa dichiarandolo mai esistito.
Non amo la Germania. Ho un amico che dice: «D’estate prendo l’auto e giro per l’Europa, se sento parlare tedesco accelero». Lo capisco. La lingua tedesca fu legata a eventi indelebili. A chi l’ha sentita urlare negli ordini militari, fa ancora paura. Nei libri, nei film, nei documentari, è la lingua del terrore. Pare inventata apposta per «dare sfogo a una rabbia vecchia di secoli» (Primo Levi). Era la lingua della superiorità, del disprezzo, della sopraffazione, della distruzione.
In pochi giorni, quell’immagine della Germania viene sostituita da un’altra immagine: masse di uomini disperati, che una volta sarebbero stati chiamati Untermenschen, entrano nei confini di quello Stato, agitano le mani in segno di giubilo, scandiscono il nome dello Stato e della cancelliera come santi e benefattori. E tutti vengono accolti. Chi voleva opprimere i popoli che nella gerarchia dell’umanità erano terzi, quarti, quinti, ora offre cibo e aiuto a uomini che sono gli ultimi. Chi in nome di Nietzsche cancellava il Cristianesimo, ora in nome del Cristianesimo cancella Nietzsche. Non è un caso che a guidare la storia tedesca verso questo ricominciamento sia una donna. Nella sua bocca la lingua tedesca perde ogni timbro militare.
Mi gira per il cervello la frase di uno scrittore tedesco, forse Goethe?, che dice: «La lingua tedesca e la lingua spagnola sono lingue sublimi, la lingua italiana e la lingua francese sono lingue belle». Penso che si potrebbe tranquillamente affermare il contrario. Però sulla militarità della lingua tedesca è tempo di ricredersi. Nella bocca della donna che ora guida la Germania la lingua tedesca ha un suono mite, languido, gentile. È una lingua umana. Come tutte. Il passato che non passava da 70 anni è passato in tre giorni.
Un lascito prezioso
Il valore di parole sincere
La nostra società e umanità sono basate sulla trasmissione di conoscenze attraverso dei testimoni con precise caratteristiche di probità, onestà e ponderatezza
di Nicla Vassallo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 06.09.2015)
La conoscenza e l’aspirarvi con lungimiranza nonché costanza ci dona la possibilità di trasformarci da animali non umani in esseri umani. Dal primo libro della Metafisica di Aristotele difficile rifiutarlo. Non mi sto riferendo alla conoscenza del saper fare (es: so nuotare), né alla conoscenza diretta (es: conosco Giovanna), bensì alla conoscenza proposizionale (es: so che mi chiamo Nicla Vassallo o so che le radiazioni gamma posseggono alcune proprietà), conoscenza che viene definita, in termini minimi e platonici, quale «credenza, vera e giustificata».
Ereditiamo la conoscenza proposizionale dagli altri, attraverso diversi mezzi, scambi conversazionali, diretti e quotidiani, oggi potenziati da mezzi irrealistici fino a non troppi secoli orsono (telefoni, cellulari, sms, e-mail, blog, social network, piattaforme varie, e così via), nonché ad ascolti, letture, trasmissioni su cui confidiamo, grazie a volumi, enciclopedie, giornali, riviste, radio, televisione, internet.
Che altro? Da non escludere la cartellonistica, i documentari, le foto, la mimica, le mappe, le segnaletiche. Eredità preziosa, più di quanto di norma si immagini. Non posso non menzionare la folgorante la Premessa de Il fu Mattia Pascal: «Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de’ miei amici o conoscenti dimostrava d’aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo
Io mi chiamo Mattia Pascal.
Grazie, caro. Questo lo so.
E ti par poco?
Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè come prima, all’occorrenza: «Io mi chiamo Mattia Pascal».
Ma come si fa a conoscere il proprio nome? Perché qualcuno (i nostri genitori o il registro comunale) ce lo ha trasmesso, in termini tecnici filosofici, perché qualcuno ce lo ha testimoniato.
Palese che dai propri albori, la nostra società e la nostra umanità si ergono sull’ereditare conoscenza attraverso la testimonianza. Non solo senza testimonianza non sapremmo neanche il nostro nome, soprattutto il nostro status conoscitivo, nonché pratico ne risulterebbe impoverito: probabilmente, ci troveremmo ancora sull’orlo dell’età della pietra, e saremmo, a ogni buon conto, a rischio di carenza cognitivo-affettiva, incoerenza, ignoranza, paranoia. Pure le stesse scienze ne risentirebbero in modo pesante: gli scienziati sono difatti incapaci di scoperte e progressi, se non si basano sulle testimonianze di altri.
È così necessario capire che la testimonianza costituisce una delle forme più importanti in cui l’ereditare gioca un ruolo privilegiato: ereditiamo conoscenza, e tale eredità si attesta imprescindibile per le nostre esistenze, per il come e il cosa ci consente di sapere. È altresì necessario capire quanto sia errato svalutare la testimonianza, rifugiandosi nell’individualismo o nell’egoismo, o perché in troppi l’hanno voluta e la vogliono controllare nonché manipolare.
La testimonianza ci dona conoscenze, ci garantisce democrazie, evita che la nostra società si trasformi in quella angosciante e orwelliana del «Grande Fratello», o in un banale talk-show, e via dicendo, in cui la possibilità di ereditare conoscenza viene del tutto screditata, se non massacrata. Massacrata nell’esatto istante in cui, invece di testimoniare il vero, si mente, ovvero si testimonia quanto a cui non si crede. La cronaca quotidiana riporta in abbondanza episodi di falsa testimonianza, la cui gravità e le cui ricadute sulle nostre esistenze non risultano prive di significative ripercussioni.
Si dovrebbe costantemente esigere dai testimoni, da coloro da cui ereditiamo conoscenza, verità probità, onestà, ponderatezza, sempre che costoro tengano al proprio buon nome e alla propria reputazione. Altrimenti, ci ritroveremmo a diffidare di quasi tutti, e, di conseguenza, a soffrire di problemi psichici ed epistemici non da poco.
Eppure, purtroppo, non risultiamo sempre a sufficienza esigenti, neppure nei confronti di coloro con cui intratteniamo rapporti di amicizia o d’amore. Con le loro false testimonianze, vi sono “cari” testimoni che ci azzerano, imbrogliano, fingono, confondono, allo scopo di celare importuni avvenimenti del proprio passato e presente.
Senza poi nominare la questione dei cosiddetti esperti. Individui con una posizione e reputazione che dovrebbe attestare il loro expertise, si mostrano, alla resa dei conti, poco preparati, a dispetto dell’alta opinione che nutrono di sé.
Basti richiamare alla memoria politici incapaci di governare (politici-clown e clown-politici), manager che conducono al fallimento le proprie aziende, operatori di Borsa che esortano ad acquistare titoli destinati a crollare, medici che, pur testimoniando il vero, tradiscono il proprio segreto professionale, atleti mondiali le cui vittorie si devono al doping, e via dicendo. Eppure, oggi come oggi, questi pessimi testimoni spesso non perdono il loro buon nome e la propria reputazione, nonostante l’eredità del conoscere ne esca annientata.
Tuttavia, come ho specificato, è proprio da questa eredità a dipendere la nostra esistenza di umani. Si tratta di scelte di vita. C’è chi lascia un’eredità di glorie e virtù, e chi le eredita. C’è chi lascia un’eredità di scandali e vizi, e chi li eredita.
Rispetto a quanto ci viene tramandato, raccontato, testimoniato occorre senz’altro attestarsi accorti: alla testimonianza, e alla sua essenzialità, noi umani non possiamo rinunziare.
Eppure, non ci sono forse eredi illegittimi della conoscenza? Palese che sì. Si tratta di coloro che alla conoscenza non aspirano, che prediligono l’ignoranza o la menzogna o la falsità o l’indifferenza coniugata al narcisismo. Con costoro, ogni causa è perduta: ogni generosità del testimone probo, onesto, ponderato è - occorre con amarezza ammetterlo - sprecata.
La lezione di Weimar
di Marino Freschi (Il Mulino, 24 agosto 2015)
Il genius loci di Weimar - e forse della migliore Germania - è Goethe, che, pur essendo nato nel 1749 a Francoforte sul Meno, in Occidente, a ventisei anni si trasferì a Oriente, nell’allora Ducato di Sassonia-Weimar, invitato da un intelligente quanto irruente principe, il duca Carl August, che in breve sarebbe divenuto l’illuminato monarca di un piccolo Stato che grazie a lui e a sua madre, la duchessa Anna-Amalia, divenne il centro spirituale, intellettuale, artistico della Germania e d’Europa.
Weimar contava allora circa 6.000 abitanti (oggi non arriva a 65.000); era impensabile che Goethe, che con il Werther era diventato l’autore più noto d’Europa, si fermasse più di qualche mese in quella minuscola capitale. E invece ci rimase fino alla morte, nel 1832. D’estate andava in vacanza in Boemia, alle famose terme di Karlsbad e di Marienbad, spesso con il duca, con la nobile Charlotte von Stein, cui si era legato da un profondo legame sentimentale (lei era sposata con sette figli), e con Herder, che era riuscito a far chiamare a Weimar.
Con una sorprendente eccezione: soggiornò quasi due anni in Italia, soprattutto a Roma, il grande amore della vita, dove, comunque, si guardò bene dal restare. Come pure non accettò l’invito di trasferirsi a Parigi che gli rivolse Napoleone, imperatore dei francesi e padrone d’Europa. Perché rifiutare? Proprio lui che era un leale ammiratore dell’Empereur, simpatia che gli procurò l’avversione della gioventù tedesca, che l’occupazione francese aveva risvegliato a un insano nazionalismo. E così Goethe rimase per tutta la vita in una cittadina che in virtù della sua presenza divenne un santuario culturale e artistico dell’Europa.
E la forza d’attrazione di questo “santuario” continuò. A Weimar si trasferì negli anni successivi Liszt; a Weimar morì, ancorché ormai obnubilato, Friedrich Nietzsche, di cui la città custodisce l’archivio, insieme a quelli, preziosissimi per la cultura mondiale, di Goethe, di Schiller e di Herder. E a Weimar agì anche il giovane Richard Strauss, proponendo le sue sinfonie giovanili più innovative. Nello stesso periodo all’Archivio Goethe lavorò Rudolf Steiner che, meditando sulle opere scientifiche di Goethe, fondò l’antroposofia e il suo straordinario centro spirituale, il Goetheanum, in Svizzera.
Ma la storia di questo luogo eccezionale continua: a Weimar Walter Gropius fondò il Bauhaus nel 1919 e nello stesso anno qui si raccolse il primo Parlamento tedesco per emanare la celebre Costituzione di Weimar (da cui la “Repubblica di Weimar”), così liberale e permissiva da non prevedere robusti argini contro il nazionalsocialismo, che scelse la città come uno dei suoi emblemi, nazificando il volto architettonico della città, altrimenti gioiosamente settecentesco e Biedermeier. Il terrore hitleriano è presente con il lager di Buchenwald, nei dintorni della città. Questa storia ora è raccontata da Annette Seemann in un godibile libro, Weimar (edizioni Beck), che varrebbe la pena tradurre.
Ma la città oggi può fornirci ancora molte lezioni: la sua storia recente comincia a metà Settecento. Vi sono musei e archivi e, da non trascurare, il più bel parco d’Europa, sul fiume Ilm. La Biblioteca Nazionale di Roma ha chiuso per il caldo. Quella universitaria di Roma Tre chiude per risparmiare energia. Quella di Weimar, aperta fino alle 21 (e anche qui fa caldo), è un gioiello (dedicato alla fondatrice Anna-Amalia) di organizzazione e di gentilezza, con fondi librari notevolissimi, molti di recente acquisizione (quando non c’è “mafia capitale”!) a cura della Fondazione Klassik Stiftung, mentre a Lipsia, a Marburg, a Friburgo le biblioteche non chiudono mai (a Berlino e a Monaco alle 24)! In questi giorni la maggioranza dei frequentatori sono italiani, e si capisce perché.
Weimar ha investito in cultura e ne ha ricevuto un riscontro immenso, sia finanziario sia come immagine di civiltà. Per dirla con Benedetto Croce: “Questa è la Germania che amiamo”. (Mi chiedo se Goethe trascorrerebbe ancora quasi due anni nella Città Eterna, a via del Corso 18, dove un bel museo lo ricorda: un museo tedesco!)
L’egemonia morale di frau Merkel
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 27.08.2015)
«Nessuna tolleranza per chi mette in dubbio la dignità di altri uomini e non è pronto ad aiutare quando è richiesto da umanità e diritto». Queste sono le parole chiare e forti pronunciate da un capo di governo incurante delle contestazioni e degli insulti. E alle parole sono seguite iniziative molto concrete. Questa è la cancelliera Angela Merkel.
La Germania accoglierà tutti i profughi dalla Siria, anche quelli entrati nell’Ue dall’Italia, dalla Grecia, dall’Ungheria. In deroga alla norma (cosiddetta di Dublino) secondo cui i profughi dovrebbero rimanere nel Paese di arrivo. Non è un dettaglio burocratico: è la correzione ragionevole di una norma fissata a suo tempo, in modo astratto e formalistico, che si è rivelata di fatto contraria ai criteri di «umanità e diritto», di cui - in teoria - va fiera l’Europa.
La tragedia della migrazione di massa, cui stiamo assistendo impotenti, ha spalancato l’abisso tra i principi cui ci appelliamo e la nostra incapacità di rispondervi concretamente. Sappiamo perfettamente quanto sia difficile trovare risposte pronte e adeguate. Ma come è stato possibile trovarci così impreparati, dopo tanti segnali di premonitori di avvertimento? È umiliante leggere le cifre degli arrivi, le condizioni in cui sono costretti a vivere coloro che ce l’hanno fatta, la loro voglia di raggiungere le località desiderate, il numero (stimato) degli «spariti». Tutto questo a fronte della scarsità delle risorse a disposizione, anche perchè continua a dominare la convinzione che ogni euro speso per sistemare i profughi è rubato ai cittadini. Se lo è sentito urlare contro anche la cancelliera Merkel, con toni ancora più brutali perché accompagnati dall’accusa di «tradimento del popolo». Nulla di nuovo in questa Europa.
La decisione della cancelliera Merkel è stata salutata con soddisfazione dalla Commissione Ue che ha in programma di lanciare presto una politica comune dell’immigrazione. Se ne parla da tempo. Speriamo che non ci riservi l’ennesima delusione fatta di sole affermazioni generali, o anche solo di norme di regolamentazione selettiva più efficienti, o semplicemente di criteri vincolanti per tutti nella distribuzione dei legalizzati. Occorre un investimento di risorse materiali e culturali di grande proporzioni di cui la classe politica di tutto i Paesi non sembra rendersi conto, convinta com’è che in fondo si tratta una emergenza temporanea anziché di sommovimenti geo-politici profondi che mettono alla prova anche la nostra civiltà. È una sfida politica di prima grandezza.
Non mi è chiaro se il gesto di Angela Merkel, con tutta la forza simbolica che ha innanzitutto nei riguardi dei suoi concittadini tedeschi, vada in questa direzione. Se ha intenzione di incidere direttamente nella politica europea in tema di migrazione. O si limiterà a dire «fate come noi» - come ha dichiarato in altre circostanze. La Germania come nazione di riferimento.
Da qualche tempo nel dibattito pubblicistico tedesco è in atto una cauta riabilitazione del concetto di egemonia tedesca (respinta nettamente da un vecchio politico tradizionale come Wolfgang Schaueble). Egemonia intesa come sinonimo di responsabilità verso gli altri membri dell’Ue. È una elegante soluzione - purché non rimanga solo nominalistica. La sfida della migrazione offre il banco di prova.
Le invasioni barbariche
di Marco Bascetta (il manifesto, 28.08.2015)
I germanisti ci sperano sempre. In un qualche piccolo segnale di ripresa dell’etica e della cultura tedesca. A maggior ragione dopo una lunga sequenza di aspre critiche contro le forme che andava assumendo l’egemonia germanica sull’Europa: dall’ultimo pamphlet di Ulrich Beck alla pesantissima accusa rivolta da Juergen Habermas al governo di Berlino di aver dissipato in una sola notte (quella dell’imposizione del Memorandum ad Atene) l’intero patrimonio di apertura e affidabilità europeista accumulato dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Sarebbe di fronte all’ «immane tragedia» dell’immigrazione che alla Germania si offrirebbe ora l’occasione del riscatto, l’opportunità di correggere l’egemonia finanziaria con una «egemonia morale tedesca», come si intitola l’editoriale di Gian Enrico Rusconi su La Stampa del 27 agosto.
Del resto quel grande fenomeno storico che nei nostri libri di testo viene designato con l’espressione alquanto sprezzante di «invasioni barbariche» nelle scuole di lingua germanica è chiamato die Voelkerwanderung, ossia la migrazione dei popoli. Una espressione che però difficilmente vedremmo oggi applicata al gigantesco spostamento di popolazioni da numerose aree devastate del pianeta verso i più ricchi paesi d’Europa. Sarà perché questi uomini e queste donne non sono guidati dai rispettivi monarchi, dai quali, al contrario, rifuggono o perché l’unica arma di cui dispongono è quella del numero, di uno squilibrio intollerabile e, infine, di una necessità storica.
Di qui l’illusione che si tratti di una «emergenza umanitaria» e non di un processo incontenibile destinato a mutare radicalmente la composizione e la cultura delle società europee. Certo, l’ecatombe quotidiana, via terra e via mare, e le sue orripilanti circostanze (i sepolti vivi nelle stive dei barconi e nei camion), rivelano e celano al tempo stesso.
Rivelano la violenza spropositata delle condizioni di «viaggio» imposte ai migranti da trafficanti e guardie confinarie e dunque l’«emergenza umanitaria», ma celano la natura strutturale e affatto contingente dei flussi migratori.
Ma vediamo più da vicino in che cosa consiste l’ «esempio morale» di Angela Merkel. Sfidando i fischi e gli insulti di un gruppo di contestatori ultranazionalisti in quel di Heidenau, cittadina teatro di ripetute violenze dell’estrema destra, la cancelliera ha condannato con toni duri razzismo e xenofobia.
Qualunque altro governante europeo non avrebbe potuto fare altrimenti. A maggior ragione di fronte a una escalation di attentati e aggressioni di matrice razzista o neonazista come quella che la Germania ha lasciato crescere al suo interno, spesso civettando con l’ideologia della «priorità nazionale».
Fin qui, dunque, nulla di straordinario. Più rilevante, invece, la decisione di sospendere la regola di Dublino che impone ai richiedenti asilo di rimanere nel primo paese dell’Unione in cui sono arrivati. Un buon motivo per far tirare il fiato ai paesi di confine come il nostro. Ma c’è un però.
La Germania apre le porte ai soli siriani, considerati la punta dell’iceberg «umanitario». Così facendo propone un modello che di morale non ha proprio nulla.
Se anche si assumesse come solo motivo di legittima fuga la guerra guerreggiata, in che cosa si distinguerebbe chi fugge da Mosul da chi fugge da Aleppo, da Kandahar o dallo Yemen?
Se il «paradigma siriano» può alleggerire una contingenza esso introduce tuttavia una delirante tassonomia dei migranti, suscettibile di continue partizioni: profughi di guerra (da suddividere sulla base di un qualche indice bellico?), rifugiati politici (da ripartire secondo un diagramma della repressione?), rifugiati climatici ( da individuare sulle statistiche meteo?), perseguitati religiosi (da definire secondo una misura della libertà di culto?) migranti economici (tanto peggio per loro). Infine la distinzione più assurda di tutte: quella tra paesi sicuri e paesi insicuri. Un paese, infatti, non è parimenti sicuro o insicuro per tutti. Per un omosessuale l’Iran non è, per esempio, un paese sicuro, come non lo è l’Arabia saudita per una donna desiderosa di guidare un’automobile e l’elencazione potrebbe procedere all’infinito.
Possiamo immaginare i burocrati dei centri di identificazione e registrazione alle prese con questo ginepraio. Così, di fronte a tanta complicazione che manda in pezzi la stessa dimensione «umanitaria», il modello tedesco procede verso una ulteriore restrizione del diritto di asilo (del resto più volte ridimensionato nel corso degli ultimi anni) alla quale sta alacremente lavorando il ministro degli interni Thomas de Mazière.
A questo si affianca una politica di restrizione del welfare e degli strumenti assistenziali (per i migranti in primo luogo, ma non solo) tali da rendere il paese sempre meno appetibile per chi intendesse stabilirvisi.
Quanto a «egemonia morale» non c’è davvero che dire. Risparmio e deterrenza in un colpo solo. Ogni breccia nei muri visibili e invisibili che dividono l’Europa è per molti un’occasione di salvezza, ma non bisogna perdere di vista il fatto che il «paradigma siriano» risponde a una logica di governo e di controllo del «diritto di fuga» che, sia pure sotto la pressione di eventi estremi ( fomentati da politiche globali senza scrupoli), risponde pur sempre alla volontà di garantire l’impiego profittevole e competitivo delle «risorse umane».
«È la lezione di Kant»
Il filosofo Markus Gabriel analizza la svolta tedesca sull’emergenza migranti: «È la Germania cosmopolita figlia di Kant».
di Danilo Taino (Corriere della Sera, 06.09.2015)
BERLINO. È la «Nuova Germania» che si manifesta, dice Markus Gabriel di fronte all’ondata di solidarietà nei confronti dei rifugiati che sta attraversando il Paese. «La Germania cosmopolita in senso kantiano», nata nel 1989. Gabriel, 35 anni, è uno dei filosofi emergenti tedeschi. Insegna Epistemologia, Filosofia moderna e contemporanea all’Università di Bonn. Parla sette lingue oltre a conoscere latino, greco antico, ebraico biblico. Quest’anno ha pubblicato in Italia Perché non esiste il mondo.
Professore, è stupito dalla solidarietà dei tedeschi?
«No, non sono molto sorpreso. Trovo piuttosto che sia interessante il fatto che altri lo siano. Siamo di fronte a un diritto di persone perseguitate per ragioni politiche. Negare questo diritto è come negare la democrazia o il governo della legge. Per noi è anche un principio della costituzione».
In altri Paesi la reazione non è la stessa.
«Rispetto ad altri Paesi la Germania è in una buona forma ideologica. Ma sta solo vivendo all’altezza di quelli che sono i valori europei».
Anche il governo ha risposto in modo positivo.
«È quello che speravo. In parte dipende dal fatto che si tratta di un governo stabile, al quale questa scelta non costa politicamente niente. La Germania d’oggi è come Cuba, con un partito unico, cristiano-democratico e socialdemocratico, al governo. Ma ha fatto una scelta intelligente. Non dimentichiamo che la Germania ha una storia di benvenuto nei confronti dei siriani lunga decenni. Apprezza da tempo le loro competenze. Come quelle degli iraniani. Si tratta di Paesi che hanno una classe media incredibilmente istruita. Chi arriva ha spesso valori che sono quelli che la Germania desidera».
Cos’è che mobilita i tedeschi? Solidarietà? Senso del dovere?
«È quella parte di ideologia tedesca universalista che considera tutti gli individui uguali, al di là della pelle, della lingua, della nascita. Che punta alla legge universale. Un’ideologia che puoi sempre usare. Ora, è la Germania al suo meglio, in certi momenti è stata al suo peggio».
Da dove viene?
«In questo momento non pensiamo come tedeschi ma come esseri. Deriva dall’Illuminismo dei primi tempi, una prevalenza che in Germania è tornata dopo la Seconda guerra mondiale».
Gioca un ruolo anche il senso di colpa per il passato?
«Forse in parte e per qualcuno. Ma non scordiamo che questo è un Paese di immigrati da decenni. Persone arrivate da altrove che oggi sono tedesche a tutti gli effetti. Non conta come sei: la Germania è cosmopolita. La vecchia Germania è finita nel 1989, con una rivoluzione. E con la riunificazione siamo diventati definitivamente un Paese di immigrati».
Conta anche la religione? La Germania sembra un Paese secolarizzato.
«Guardi che il 40% dei tedeschi vota per i cristiano-democratici. Il presidente federale Joachim Gauck era un pastore. Non direi che siamo un Paese secolarizzato. Vero, si può dire che l’Italia è un Paese cattolico e non si può dire che la Germania sia cattolica o protestante o musulmana. Ma ha una struttura molto teologica e il movimento di questi giorni ha anche una componente religiosa, di obbligo cristiano».
Quali radici filosofiche ci vede?
«La Germania è cosmopolita in senso kantiano. Per un certo periodo, fino ad anni recenti, hanno prevalso filosofie che spingevano al nazionalismo, compreso Heidegger. Ora, Kant e Habermas hanno preso il sopravvento. Ora l’idea prevalente è: essere tedeschi non è niente più che avere la cittadinanza tedesca e parlare la lingua. Non ci sono più consuetudini e usanze tedesche. Sono sparite. Nel bene e nel male».
Perché i Länder dell’Est sono più restii ad accettare i rifugiati?
«A dire il vero, opposizioni ci sono anche nel Baden-Württemberg, che è il Land più ricco con la Baviera, a Heidelberg. A Est, dove la popolazione è meno benestante, c’è più paura della concorrenza di chi arriva da fuori, si teme che porti via posti di lavoro. A fianco della nuova Germania c’è anche una Germania razzista che ha una sua idea di Heimat, di Patria».
Lei parla esplicitamente di Nuova Germania.
«Senza dubbio. La trasformazione si vede nella nazionale di calcio, dai Mondiali del 2006 (anche se non potremo mai vincere contro l’Italia). Müller e Özil fanno parte dello stesso team, senza differenza. E nessuno ne dubita. Durante la crisi greca, questa Nuova Germania non è stata capita da molti osservatori, che hanno visto un atteggiamento imperialista e repressivo nei confronti di Atene. È che spesso emerge quest’idea della Germania che cerca l’egemonia. Idea razzista: come dire che l’Italia è pizza e pasta. E incomprensione del fatto che c’è una Nuova Germania».
A proposito di Grecia: quanto pesa la buona salute economica del Paese sulla disponibilità dei cittadini ad accettare i profughi?
«Conta. Non credo che i tedeschi siano più caritatevoli di altri. Vista la sua situazione economica, la Germania può permettersi di mettere denaro a disposizione di altri. Se invece sei in difficoltà economiche il problema è molto diverso».
Quindi va ringraziato il ministro delle Finanze Schäuble.
«In qualche modo sì. Ma soprattutto va ringraziata la Cina, che finora è stato un partner economico fondamentale. Questo è il problema: beneficiamo tutti di un regime illiberale».
Conoscenza e opinioni
La scienza non è un parere
di Riccardo Pozzo (Il Sole-24 Ore/Domenica, 23.08.2015)
Se è vero che due sono i sillogismi, il sillogismo apodittico, che conclude alla verità, e quello dialettico, che conclude all’opinione, ne segue che tutti gli oggetti si dividono in phainómena e éndoxa, dice Aristotele (Topica Alpha 1, 100b18-22), e se per i primi il Peripato aveva un museo, per i secondi aveva una biblioteca. La prima università nel senso moderno, ovvero il primo istituto nel quale insegnamento e ricerca scientifica si trovarono congiunti, fu dunque il Peripato, nel quale, appunto, Aristotele e Teofrasto per primi considerarono la necessità di disporre di una ricca raccolta di libri come strumento di lavoro, indispensabile quanto un museo di oggetti naturali - e infatti un’opera sistematica come la Atheniensium respublica di Aristotele, ha suggerito Giorgio Pasquali nell’ancora splendido articolo «Biblioteca» della Treccani, non avrebbe potuto essere realizzata senza una biblioteca ben fornita.
L’origine peripatetica della biblioteca di Alessandria è chiara, se solo si considera che vi venne riproposta la stessa interazione che aveva trovato realizzazione nel Peripato tra il mouseîon e la bibliothéke. Nacque un istituto di ricerca scientifica che era università e accademia assieme e al quale i Tolomei cercarono di attirare i maggiori tra i filosofi del tempo, dai quali ci si aspettava, come ricorda il noto opuscolo di Luciano Canfora su La biblioteca scomparsa, che proseguissero l’opera di Aristotele trovando la verità nello studio dei fenomeni e discutendo le fonti secondo la loro attendibilità, secondo una visione tanto nitida quanto funzionale di quello che oggi chiamiamo il dibattito sulle due culture.
La collettanea curata da Francesca Dragotto e Marco Ferrazzoli raccoglie una serie di casi che si collocano esattamente al confine tra gli astrolabi, i solidi, i minerali e le conchiglie del mouseîon e i papiri della bibliothéke: vaccini, mangiar biologico, sperimentazione animale, prevedibilità e comunicazione dei terremoti, riscaldamento globale, omeopatia, metodo Stamina. Si tratta di tematiche per le quali, spiegano i curatori, la conoscenza «non è più considerata un valore intangibile e la parola dello studioso, dello scienziato, di chi detiene le competenze, tende a sfumare in un mero parere».
In effetti, la natura antinomica delle risposte sul piatto ci dice che ci troviamo ai confini della fisica sperimentale, per dirla con Kant, che stiamo per entrare nella metafisica, cosa della quale non abbiamo paura. Eppure fa paura l’uso ideologico, l’uso antiscientifico della fallacia ad ignorantiam proposta da chi giustifica la propria tesi con la mancanza di prove del contrario, magari asserendo di avere «letto qualcosa su Internet».
Oltre che con i mass media, gli scienziati di oggi devono confrontarsi continuamente con i responsabili politici e i loro consiglieri, che stabiliscono la natura e la quantità delle risorse da destinare alla ricerca. Poi c’è la comunità imprenditoriale, che si muove nella costante ricerca dello sfruttamento delle conoscenze per la crescita e lo sviluppo economico. Infine si arriva al tribunale della società civile, che valuta potenzialità e pericoli dell’innovazione scientifica, spesso decretandone in ultima analisi il successo o la sconfitta.
Molto attento ai processi di trasferimento della conoscenza, il Cnr, il principale ente pubblico di ricerca italiano, non a caso si avvale di una prestigiosa Commissione per l’Etica della Ricerca e la Bioetica, presieduta da Luigi Nicolais e coordinata da Cinzia Caporale. L’innovazione tecnologica produce sì innovazione sociale e innovazione culturale, ma a condizione che si tenga conto della Rome Declaration on Responsible Research and Innovation in Europe (22 novembre 2014), nella quale si dichiara che «il solo marketing di tecnologia, per quanto efficace, non è garanzia di innovazione sociale; secondo, che la diversità nella ricerca e nell’innovazione è fondamentale per migliorare creatività e qualità scientifica; terzo, che il coinvolgimento di tutti i soggetti interessati è essenziale per un’innovazione sostenibile. Oggi l’eccellenza non consiste solo nelle scoperte rivoluzionarie. L’eccellenza include apertura, responsabilità e produzione di conoscenza condivisa».
Un intervento di Emmanuel Faye sull’antisemitismo del pensatore tedesco
Heidegger scelse Hitler e non cambiò mai idea
di Emmanuel Faye (Corriere della Sera, 21.07.2015)
Più di un anno e mezzo fa, in un mio articolo pubblicato da «Le Monde» il 24 gennaio 2014, menzionavo la «guerra di successione» ormai in atto tra gli heideggeriani incaricati di pubblicare la cosiddetta Opera completa dell’autore di Essere e tempo. Da una parte la Heidegger Gesellschaft controllata da Friedrich-Wilhelm von Herrmann, l’ultimo assistente di Heidegger, e da François Fédier, che supervisiona da decenni la traduzione francese dei testi di Heidegger per conto degli eredi. Dall’altra il Martin Heidegger Institut di Wuppertal creato recentemente da Peter Trawny, uno dei curatori dei volumi dell’ Opera completa e in particolare di quelli dei Quaderni neri. La notizia fornita dal «Corriere della Sera» il 4 luglio scorso, a firma Antonio Carioti, conferma quella mia diagnosi.
Se infatti il Martin Heidegger Institut non è che un’istituzione locale, nell’articolo di Carioti si legge che Peter Trawny annuncia adesso un progetto più ambizioso: il «Circolo internazionale Martin Heidegger» che egli intende fondare insieme a Donatella Di Cesare, già vicepresidente della Heidegger Gesellschaft prima delle sue recenti dimissioni. Lo scopo di tale «Circolo» sarebbe quello di «favorire la discussione critica dell’opera del filosofo». Nello stesso tempo Trawny, nel suo intervento apparso nello stesso numero del «Corriere», si propone di difendere la libertà di pensiero rispetto a chi, come me, avrebbe il torto di proporre una critica «mor ale» di Heidegger. Che dire?
Desta molta ironia vedere Trawny porsi come paladino della libertà di pensiero, che è inscindibile dalla libertà di espressione e di pubblicazione, quando la cura dei Quaderni neri è stata affidata a Trawny con il sostegno del figlio di Heidegger, Hermann, che si è reso famoso per tutta una serie di censure. Una delle più memorabili è quella subita da Franco Volpi quando ha voluto muovere delle critiche ad Heidegger nella sua prefazione alla traduzione italiana dei Contributi alla filosofia , di cui era curatore. In quel caso Hermann Heidegger ha letteralmente impedito la pubblicazione di quei passaggi.
Tornando a Trawny, che ha dichiarato di voler «salvare Heidegger», egli è ora il rappresentante della nuova apologetica ufficiale autorizzata e sostenuta dall’editore dell’ Opera completa di Heidegger, Vittorio E. Klostermann. Quest’ultimo infatti, a proposito di una nuova edizione del saggio di Trawny sull’antisemitismo dei Quaderni neri a ridosso dell’uscita di un nuovo volume di tali quaderni, ha dichiarato: «Ci tenevo che il soggetto (l’antisemitismo di Heidegger) non arrivasse alla casa editrice dall’esterno, ma fosse trattato al nostro interno».
Questa è dunque la strategia attuale: assicurarsi il monopolio di una sedicente critica in realtà sotto controllo. Se ormai si riconosce l’antisemitismo di Heidegger, che invece von Herrmann e Fédier persistono a negare contro ogni evidenza, lo si confina a «una decina di anni» (Trawny), cioè al periodo tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta, in cui secondo la nuova apologetica non ci sarebbe vicinanza di Heidegger al nazionalsocialismo. In breve, Heidegger sarebbe diventato antisemita quando non era più nazista.
Tale tesi problematica consente di disconoscere il carattere trivialmente nazista degli attacchi al «giudaismo mondiale» contenuti nei Quaderni neri, per elevarli all’altezza di tema «inscritto nella storia dell’Essere» (Trawny), sino a parlare di un «antisemitismo metafisico» (Di Cesare). Ma bisogna anche sostenere, come fa Trawny sempre nel suo intervento sul «Corriere», che il pensiero dell’Heidegger antisemita degli anni Trenta «non aveva più alcun nesso con le effettive vicende storiche», il che consente di decontestualizzare il suo antisemitismo.
In realtà, è vero il contrario. La lettura dei Quaderni neri ci rivela un Heidegger costantemente attento all’effettività storica, diplomatica e militare, come si nota dal fatto che è nel momento del patto tedesco-sovietico che egli pronuncia un elogio del popolo russo. Peraltro, la pubblicazione nel 1953 di un corso in cui egli vanta la «verità e grandezza» del movimento nazionalsocialista, così come il contenuto dei Quaderni neri degli anni 1942-1948 da poco disponibile (volume 97 dell’ Opera completa), ci mostra come Heidegger non abbia mai chiuso con il nazismo, anche se negli anni Trenta lo ha superficialmente tacciato di essere «piccolo-borghese» e non abbastanza «barbaro».
Trawny, dissociando nazismo e antisemitismo in Heidegger, tende a rendere accettabili sia l’uno che l’altro. Non è la libertà di pensiero che in realtà si difende, né la libertà di espressione, che non è mai stata messa in discussione da qualsiasi critica al pensiero di Heidegger, bensì la libertà di «errare con Heidegger», come indica il titolo francese di un secondo saggio di Trawny pubblicato lo scorso anno, un testo nel quale si arriva a proporre Heidegger come «filosofo che ha salvato Auschwitz».
Ebbene, concedersi oggi la libertà di partecipare all’«erranza» dell’autore dei Quaderni neri, significa concretamente accettare il suo antisemitismo come inscritto in una «storia dell’Essere» da cui è scartata qualsiasi idea di responsabilità morale. Allo stesso modo, nello stesso testo, Trawny respinge la forma argomentativa della filosofia. Cosa ci resterebbe dunque, se non i soli rapporti di forza e la barbarie? E cosa resterebbe del pensiero critico se la responsabilità umana e l’argomentazione filosofica ne fossero di colpo allontanate?
Non ci ispira dunque fiducia il «Circolo Heidegger» con il quale la nuova apologetica heideggeriana intende gestire il pensiero critico, soprattutto leggendo che Trawny, nel suo intervento, continua a presentare Heidegger come paradigma del «grande filosofo». Con ben altra lucidità Hans Jonas, già a partire dagli anni Venti, aveva visto che l’insegnamento heideggeriano «non era una filosofia ma un affare segreto, pressoché una nuova credenza».
Quanto al nuovo campo di ricerche critiche internazionali che abbiamo costruito con Sidonie Kellerer, Johannes Fritsche, Richard Wolin, Julio Quesada, François Rastier, Livia Profeti, Gaëtan Pégny, Jocelyne Sfez, Édith Fuchs e molti altri, pensiamo che esso abbia molto da guadagnare nel rimanere libero, aperto a tutti, senza una rigida struttura istituzionale. Perché è di una filosofia libera e senza Scuola che abbiamo bisogno oggi.
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Un nuovo «circolo» intitolato al filosofo
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 04.07.2015)
Si chiamerà «Circolo internazionale Martin Heidegger»: il suo obiettivo è favorire la discussione critica sull’opera del filosofo nelle università di tutto il mondo. L’iniziativa parte da Peter Trawny, curatore dei Quaderni neri , e da Donatella Di Cesare, che nel marzo scorso si è dimessa dalla carica di vicepresidente della Martin Heidegger Gesellschaft («Società»), in dissenso con una gestione che reputa chiusa all’esigenza di ampliare il dibattito sull’autore di Essere e tempo . «La Heidegger Gesellschaft ha una struttura rigida che non agevola l’interscambio delle idee, mentre il nostro intento è creare un organismo aperto, a cui tutti gli studiosi possano liberamente aderire, senza gerarchie precostituite», chiarisce Donatella Di Cesare al «Corriere».
Si tratta di intercettare, aggiunge la filosofa, il forte interesse verso Heidegger a livello mondiale: «C’è grande fermento nelle università del Brasile, degli Stati Uniti, dell’Australia, persino della Cina. Compito del circolo sarà coordinare il lavoro, favorire il confronto tra gli studiosi, promuovere seminari e convegni. Pensiamo a un organismo itinerante, adatto all’era globale, la cui direzione venga assunta a turno dagli accademici che nel mondo organizzano iniziative per approfondire temi legati alla filosofia di Heidegger».
Ma il fatto di richiamarsi al nome di un autore così controverso non rischia di essere un ostacolo? «Noi - risponde Donatella Di Cesare - non vogliamo certo alimentare un culto heideggeriano. Pensiamo però che i cento volumi dell’opera di Heidegger abbiano ancora molto da dire sui problemi del nostro tempo e quindi meritino di essere studiati e dibattuti».
Altruisti sì, senza esagerare
Il rischio è diventare talebani
Dai geni alle tribù: le ultime scoperte sulla selezione di gruppo
di Maurilio Orbecchi (La Stampa TuttoScienze, 15.07.2015)
«Gli egoisti prevalgono all’interno di gruppi isolati, ma i gruppi che hanno altruisti al loro interno hanno la meglio su quelli nei quali prevalgono gli egoisti. Per questo motivo gli altruisti, in una specie sociale come la nostra, sono tenuti in grande considerazione. Così gli altruisti, nel corso dell’evoluzione, hanno ottenuto molti vantaggi, tra cui l’accesso alla riproduzione, diffondendo ulteriormente l’altruismo». Chi parla, dal suo studio nella Binghamton University dello Stato di New York, è David Sloan Wilson, uno dei più importanti sostenitori della selezione multilivello.
Negli ultimi 150 anni si è molto discusso su quale fosse l’«oggetto» colpito dalla selezione naturale: se il gene, come sostenevano William Hamilton, Richard Dawkins e altri teorici del «gene egoista», oppure gli organismi, i gruppi o persino le specie intere. Ma ora sembra superata la posizione estrema del gene (egoista) come unica unità di selezione. In occasione del 30° anniversario della pubblicazione de «Il gene egoista» lo stesso Dawkins ha infatti aggiustato il tiro, facendo una parziale autocritica e parlando di «gene cooperativo», più che egoista, e di selezione che, quindi, si svolge su due oggetti contemporaneamente: oltre che sul gene, anche sull’organismo nel suo complesso.
David Sloan Wilson, insieme con molti altri evoluzionisti, tra cui il famoso e omonimo entomologo Edward O. Wilson, allargano ancora di più questa visione pluralista, sostenendo che la selezione naturale darwiniana agisce su tutti i livelli di organizzazione della vita biologica e culturale: sui geni e sugli organismi, ma anche su cellule, popolazioni e specie. In particolare è la competizione tra gruppi di individui che spiega l’altruismo, scrive Wilson nel suo «L’altruismo: la cultura, la genetica e il benessere degli altri», appena uscito per Bollati Boringhieri.
Wilson sa bene che in un animale complesso come l’Homo sapiens possono essere presenti motivazioni differenti e che ciò che appare altruistico a livello di azione può invece essere egoistico a livello di pensiero (per esempio per ottenere la salvezza dell’anima o per fissare il proprio ricordo nel mondo terreno). Proprio per non incorrere in simili contestazioni, sceglie quindi di limitare il suo discorso all’altruismo come azione, che è poi l’unica forma di altruismo che davvero interessa agli altri. In questo senso il massimo altruismo è quello che limita la propria probabilità di sopravvivenza per favorire quella di altri. Tuttavia, senza arrivare a questo estremo, «esiste comunque un altruismo cooperativo piuttosto riconoscibile e condivisibile: io mi riferisco a questo - dice Wilson -. Per una persona che ha bisogno di soldi, l’importante è che questi arrivino. Non importa se sono donati per salvarsi l’anima, per diventare famoso come benefattore o per un senso di dovere morale».
Naturalmente anche gli evoluzionisti che non ammettono la selezione multilivello sono consapevoli della presenza di azioni altruistiche nella vita sociale. Esistono infatti altre due teorie per spiegare il fenomeno dell’altruismo in natura: la selezione parentale, ossia il riconoscimento inconsapevole della presenza dei propri geni nei parenti stretti, che sarebbe alla base dell’accudimento della prole (e della sua degenerazione nel nepotismo), e l’altruismo reciproco, una teoria che interpreta le azioni altruistiche come un gioco di crediti che ci si aspetta saranno ricambiati in un secondo tempo.
Wilson ammette entrambe le teorie, ma ritiene che, da sole, queste non siano sufficienti a spiegare la diffusione di forme importanti di altruismo: «Non penso che l’azione di una persona che fa da scudo ad amici o sconosciuti a prezzo della propria vita possa essere spiegata con l’altruismo reciproco e neppure con l’altruismo di parentela. È necessario usare linguaggi diversi per cose diverse. Un unico linguaggio non è sufficiente per descrivere la complessità del mondo».
La teoria della selezione di gruppo, tuttavia, non spiega solo la nascita dell’altruismo, ma anche i conflitti sociali che esistono nella specie umana dall’inizio della storia. Nel corso dell’evoluzione si è passati da una guerra endemica tra tribù, formate da poche decine di persone, a conflitti sociali di ampia portata. Uno dei motivi dell’allargamento dei conflitti sta nel fatto che, nel tempo e grazie ai mezzi di comunicazione, l’identità di gruppo si è estesa a nazioni composte da decine o centinaia di milioni di persone. Se la teoria della selezione di gruppo è vera, non possiamo che aspettarci altre guerre, che tenderanno a scomparire solo quando l’identità di gruppo sarà estesa a tutta l’umanità. Si tratta di un processo in corso, la cui soluzione positiva non è scontata, ma neppure impossibile.
Il colpo di stato Ue è in pieno svolgimento
di Franco Berardi Bifo *
Il ricatto della classe dirigente finazista europea sta vincendo. Il risultato del referendum è sovvertito e tradito dall’accordo che Tsipras ha fatto accettare al Parlamento greco rompendo l’unità di Syriza. Non possiamo prendercela con Tsipras del voltafaccia. Ha una pistola puntata alla tempia. Quello che l’Unione europea sta compiendo è un colpo di stato fondato sulla minaccia della guerra civile e del colpo di stato militare.
Quello che accade è un ritorno vittorioso della Troika, una reimposizione del memorandum. Le reazioni si stanno già manifestando nelle strade di Atene. I partiti di destra e le forze militari che sono legate ad esse prima o poi presentano il conto.
Il colpo di stato europeo è in pieno svolgimento
Naomi Klein: l’imperativo di cambiare rotta per salvare il Pianeta
di Naomi Klein
Grazie. È un onore essere qui oggi e specialmente condividere questa tribuna con il card. Peter Turkson che ha fatto così tanto per condurci a questo momento storico. ADISTA, 02/07/2015.
Papa Francesco all’inizio della sua enciclica Laudato Si’ scrive che questa non è un insegnamento rivolto al mondo cattolico ma a «ogni persona che vive su questo pianeta». Da laica ebrea femminista, piuttosto sorpresa di essere stata invitata in Vaticano, posso dire che certamente parla a me.
«Non siamo Dio» dichiara l’enciclica. Tutti gli esseri umani lo sanno. Ma circa 400 anni fa, vertiginose scoperte scientifiche hanno fatto pensare a qualcuno che l’umanità fosse sul punto di sapere tutto ciò che c’era da sapere sulla Terra e che quindi fosse “maestra e padrona” della natura, come Cartesio ha mirabilmente detto. Questo, dicevano, è ciò che Dio ha sempre voluto.
Questa teoria si è mantenuta in vita per molto tempo. Ma scoperte scientifiche più recenti ci hanno rivelato qualcosa di molto diverso. Perché mentre bruciavamo sempre più combustibili fossili - convinti che le nostre navi container e i nostri jumbo jet avessero livellato il mondo, che noi fossimo dei - i gas a effetto serra si stavano accumulando nell’atmosfera trattenendo incessantemente calore.
E ora siamo posti di fronte alla realtà: non siamo mai stati né maestri né padroni e stiamo scatenando forze naturali di gran lunga più potenti delle nostre macchine più ingegnose. Possiamo salvarci, ma solo se abbandoniamo il mito del dominio e del possesso e impariamo a lavorare con la natura, rispettando la sua intrinseca capacità di rinnovamento e rigenerazione.
E questo ci conduce al cuore del messaggio dell’interconnessione al centro dell’enciclica. Ciò che il cambiamento climatico ribadisce - per quella minoranza dell’umanità che lo avesse dimenticato - è che non esiste un rapporto a senso unico di puro dominio nella natura. Come scrive papa Francesco, «niente di questo mondo ci risulta indifferente».
Per coloro che vedono l’interconnessione come una degradazione cosmica, questo è troppo da sopportare. E così - incoraggiati attivamente dagli attori politici sostenuti dalle compagnie di combustibili fossili - scelgono di negare la scienza.
Ma questo sta cambiando, come cambia il clima. E cambierà ancora di più con questa enciclica. Questo potrebbe significare guai seri per i politici statunitensi che fanno affidamento sull’uso della Bibbia come copertura per la loro opposizione ad agire in difesa dell’ambiente. In questo senso, il viaggio di papa Francesco negli Stati Uniti nel prossimo settembre non poteva cadere in un momento migliore.
Tuttavia, come sottolinea l’enciclica, la negazione assume tante forme. E ci sono molti politici ovunque nel mondo che accettano la scienza ma rifiutano le sue difficili implicazioni.
Ho passato le ultime due settimane leggendo centinaia di commenti all’enciclica. E anche se la risposta è stata positiva, ho notato un argomento comune tra i suoi critici. Papa Francesco può anche avere ragione sulla scienza, dicono, e anche sulla morale, ma deve lasciare l’economia e la politica agli esperti. Sono loro gli unici ad avere le competenze in materia di commercio del carbonio e privatizzazione dell’acqua, ci dicono, e su come il mercato possa efficacemente risolvere ogni problema.
Sono fortemente in disaccordo. La verità è che siamo arrivati a questo punto - pericoloso - anche perché molti di questi esperti ci hanno deluso, usando le loro potenti competenze tecnocratiche senza saggezza. Hanno prodotto modelli in cui i valori della vita umana sono considerati poco e niente, in particolare la vita dei poveri, pensando solo alla protezione dei profitti delle imprese e alla crescita economica.
Questo deformato sistema di valori ci ha condotto a un mercato del carbonio inefficace anziché a forti tassazioni sui combustibili fossili. E così siamo arrivati a porci come obiettivo un aumento delle temperature non superiore ai 2 gradi centigradi, che potrebbe comportare la sparizione di intere nazioni, solo perché i loro Pil non erano abbastanza alti.
In un mondo in cui il profitto è costantemente messo al primo posto, prima delle persone e del pianeta, l’economia climatica ha a che fare con la morale e l’etica. Perché se concordiamo nel dire che mettere in pericolo la vita sulla Terra è una crisi morale, allora è nostro dovere agire.
Questo non significa scommettere sui cicli di espansione e frenata del mercato nel futuro. Significa politiche che regolino direttamente quanto carbonio può essere estratto dalla terra. Significa politiche che ci portino al 100% di energie rinnovabili in 20-30 anni, non entro la fine del secolo. E significa condivisione di risorse comuni - come l’atmosfera - sulla base della giustizia e dell’equità, non che i vincitori si prendono tutto.
Ecco perché un nuovo tipo di movimento per il clima sta rapidamente emergendo. Esso è basato sulla verità più coraggiosa espressa nell’enciclica: che il nostro attuale sistema economico sta alimentando la crisi climatica e ci impedisce di prendere i provvedimenti necessari per contrastarla. Un movimento fondato sulla consapevolezza che se non vogliamo che il cambiamento climatico ci sfugga di mano, allora dobbiamo cambiare il sistema.
E siccome il nostro attuale sistema sta anche alimentando disuguaglianze crescenti, abbiamo la possibilità di risolvere insieme molteplici, sovrapposte crisi.
In breve, possiamo passare a un’economia allo stesso tempo più sostenibile e giusta.
Questa crescente consapevolezza è alla base delle sorprendenti e improbabili alleanze cui stiamo assistendo. Come, per esempio, me in Vaticano. Come sindacati, indigeni, gruppi di fedeli e ambientalisti che lavorano a stretto contatto insieme come mai prima.
All’interno di queste coalizioni non siamo d’accordo su tutto - neanche per idea! - ma ci rendiamo conto che la posta in gioco è così alta, il tempo così poco e l’impegno così grande che non possiamo lasciare che queste differenze ci dividano. Quando 400mila persone hanno marciato per la giustizia climatica a New York nel settembre scorso, lo slogan era “Per cambiare tutto, abbiamo bisogno di tutti”.
Tutti significa anche i leader politici, naturalmente. Ma avendo partecipato a molti incontri con i movimenti sociali in vista della Cop21 di Parigi, posso dire questo: non possiamo sopportare un altro fallimento presentato come un successo ai media, per poi vedere, a distanza di una settimana, quegli stessi politici tornare a estrarre petrolio nella regione artica, a costruire più autostrade e a fare nuovi accordi commerciali che rendono più difficile regolare chi inquina.
Se non si riesce a ottenere una immediata riduzione delle emissioni provvedendo a reali e sostanziali aiuti per i Paesi poveri, allora lo si dovrà presentare come un fallimento. Quale sarebbe.
Ciò che dobbiamo sempre ricordare è che non è troppo tardi per invertire la rotta - quella che ci sta portando verso un aumento di 4 gradi centigradi. È ancora possibile limitare il riscaldamento entro la soglia del grado e mezzo se facciamo di questo obiettivo la nostra priorità collettiva.
È difficile, questo è certo. Difficile quanto il razionamento e le riconversioni industriali fatte in tempo di guerra. Ambizioso come i programmi di lavori pubblici e di lotta alla povertà lanciati in seguito alla Grande Depressione e alla Seconda Guerra Mondiale.
Ma difficile non significa impossibile. E rinunciare di fronte a un compito che potrebbe salvare molte vite e prevenire molta sofferenza solo perché è difficile, costoso e richiede sacrifici da parte di chi più può permettersi di fare a meno di qualcosa, non è pragmatismo.
È la resa più vile. E non c’è analisi costi-benefici nel mondo capace di giustificarla.
«Non lasciate che la perfezione sia nemica del bene». Sono 20 anni che sentiamo ripetere queste parole. E ogni volta che un nuovo summit delle Nazioni Unite non riesce a raggiungere politiche coraggiose, vincolanti e basate sulla scienza, lanciando invece promesse vuote di aiuti economici, le sentiamo di nuovo.
«Sicuramente non è abbastanza ma è un passo nella giusta direzione». «Faremo il lavoro più difficile la prossima volta». E ancora: «Non lasciate che la perfezione sia nemica del bene».
Questo, va detto dentro queste sacre mura, è puro nonsense. La “perfezione” non è più di questo mondo dalla metà degli anni ’90, dopo il primo summit sulla Terra di Rio.
Oggi abbiamo solo due strade davanti a noi: una difficile ma giusta e l’altra facile ma riprovevole.
Ai nostri cosiddetti leader che stanno preparando i loro impegni per la Cop21 di Parigi, imbellettando un altro pidocchioso accordo, voglio dire questo: leggete l’enciclica di papa Francesco, non il suo sommario ma tutta.
Leggetela e lasciate che pervada i vostri cuori. Il dolore per ciò che abbiamo già perso e la celebrazione di ciò che possiamo ancora proteggere e aiutare a prosperare.
Ascoltate, poi, le voci delle centinaia di migliaia di persone che durante il summit percorreranno le strade di Parigi e di tante città del mondo.
Questa volta diranno qualcosa di più di “dobbiamo agire”. Diranno: stiamo già agendo. Siamo la soluzione: con le nostre richieste che le istituzioni disinvestano dalle compagnie di combustibili fossili e investano invece in attività che riducano le emissioni. Coi nostri metodi di coltivazione ecologica, che fanno meno affidamento sui combustibili fossili, fornendo cibo sano e lavoro. Con i nostri progetti di energia rinnovabile controllati a livello locale, che stanno riducendo le emissioni, abbassando i costi e definendo l’accesso all’energia come un diritto. Con la nostra richiesta di mezzi pubblici affidabili e convenienti, se non gratuiti, che farebbero sì che lasciassimo le nostre automobili che inquinano le nostre città, congestionano le nostre vite, ci isolano gli uni dagli altri. Con la nostra insistenza senza compromessi sul fatto che non ci si può definire leader climatici mentre si aprono strade per nuove trivellazioni, fracking e miniere negli oceani o sulla terra. Con la nostra convinzione che non ci si può definire democrazie se si è legati a multinazionali inquinanti.
Ovunque sul pianeta, il movimento per la giustizia climatica sta dicendo: guardate il bellissimo mondo che sta al di qua di queste politiche coraggiose, i cui semi stanno già dando frutti che chiunque abbia voglia di guardare può vedere.
Smettete di fare del difficile il nemico del possibile. E unitevi a noi per rendere il possibile reale.
Il commissario Charitos ci spiega la Grecia
di Fabrizio Tonello *
È il 1 gennaio 2014 e la Grecia è uscita dall’euro, tornando alla dracma. Il governo annuncia che per tre mesi gli stipendi pubblici non saranno pagati. La famiglia Charitos (il commissario Kostas, la moglie Adriana, la figlia Caterina e il genero Fanis) si affida alla saggezza popolare di Adriana: “Non dobbiamo fare altro che ricominciare a vivere come si faceva nei paesi dove siamo cresciuti. Mangeremo carne solo una volta ogni tanto: tutti gli altri giorni verdure e legumi. Sono anni che in televisione gli esperti ci rompono le scatole con tutte le loro teorie sulla dieta sana. E ora la loro dieta sana è diventata obbligatoria”.
Inizia così Resa dei conti, l’ultimo romanzo di Petros Markaris, appena uscito da Bompiani, il volume che completa la trilogia dedicata alle vicende della Grecia nella crisi: i precedenti erano stati Prestiti scaduti e L’esattore. Anche in queste pagine il commissario Charitos indaga su delitti che hanno la loro origine nella politica, o meglio nel cocktail di affari, evasioni fiscali e corruzione che per decenni in Grecia è stato definito “politica”. Markaris, di famiglia greco-armena, nato a Istanbul nel 1937, non ha compiacenze per il paese dove ha scelto di vivere, definendolo “l’unica mafia al mondo che è riuscita a fare bancarotta” (L’esattore).
Il commissario Charitos compie 20 anni di carriera: fu nel 1993, infatti, che Markaris iniziò a scrivere romanzi che sarebbe improprio definire “polizieschi”. Si tratta, infatti, di “romanzi sociali con una trama poliziesca”, come dice lui stesso in una miniautobiografia pubblicata nel 2010 (Io e Kostas Charitos). Le indagini sui delitti sono parte di affreschi assai più vasti, in cui l’autore dipinge la società greca, con le sue famiglie piccoloborghesi, i suoi arricchiti, la sua memoria ancora divisa da una guerra civile (1945-49) che non è mai finita. E, paradossalmente, il suo obiettivo polemico principale è la “generazione del Politecnico”, come vengono chiamati gli ex studenti che si ribellarono nel 1971 ai colonnelli andati al potere nel 1967. La loro vittoria del 1973 ha creato una classe dirigente partita con grandi ideali e finita nella corruzione. Markaris, traduttore di Brecht e collaboratore del regista Anghelopoulos, la definisce “una generazione che è partita di sinistra ed è finita stronza” (La lunga estate calda del commissario Charitos).
Non è difficile capire il perché: la vita politica greca negli ultimi 40 anni è stata dominata da appena tre famiglie, che hanno fatto del clientelismo, dell’indebitamento, dell’acquisto dei voti un’arte: i Karamanlis, i Mitsotakis, i Papandreou. Una élite che ha portato il Paese prima nell’Unione Europea e poi nell’euro ma non ha intaccato minimamente le “tradizioni” locali: le opere pubbliche inutili, le raccomandazioni, le bustarelle, l’evasione fiscale, il debito con l’estero.
Markaris affronta tutti questi temi: le Olimpiadi del 2004 (Si è suicidato il Che), gli evasori (L’esattore), le banche (Prestiti scaduti). Il suo commissario Charitos assomiglia a Maigret nella testardaggine con cui continua a indagare su casi apparentemente insolubili ma, a differenza del commissario di Georges Simenon, ha a che fare con la politica quotidianamente: il capo della polizia Ghikas lo controlla passo passo. Charitos accumula prove lentamente, non usa la tecnologia (Resa dei conti è il primo romanzo in cui si serve di un computer, per altro regalatogli dalla figlia), non ha mai grandi intuizioni, in un certo senso è un poliziotto fin troppo normale. Il fascino dei romanzi sta nell’accuratezza con cui Markaris descrive una città, Atene, strangolata dal traffico, sprofondata nella corruzione ma piena di vitalità e di contraddizioni.
Kostas Charitos è uno dei protagonisti di quella che si potrebbe ben definire la scuola del “poliziesco mediterraneo”, come l’ispettore Fabio Montale, del compianto Jean-Claude Izzo, il commissario Montalbano di Camilleri e Petra Delicado, la protagonista dei romanzi di Alice Gimenez-Bartlett. A differenza degli ultimi due Charitos ha una vita sentimentale tranquilla, per non dire inesistente: una moglie che cucina e guarda la televisione ma piena di saggezza popolare, una figlia che diventa avvocato per difendere gli immigrati, un genero medico che sorveglia la sua salute. Questo microcosmo non è una tela di cartone, uno sfondo piatto come nei romanzi di Simenon (dove la signora Maigret compare solo per portare il caffè o la grappa dopo cena) ma un mondo concreto e vitale.
Charitos, come Montalbano e la Delicado, ha però quotidianamente a che fare con burocrazie che non vogliono noie, soprattutto se si tratta di indagare sui ricchi e sui potenti: Grecia, Italia e Spagna sono accomunate da questo, prima che dal sole del Mediterraneo e dai debiti con l’estero. Un motivo in più per inserirlo nella valigia dei libri da portare in vacanza.
Fabrizio Tonello
* IL BO. Il giornale dell’Universita’ di Padova, 3 luglio 2013
Petros Markaris: "Tsipras ha sbagliato tutto, ma l’Ue è miope e ossessionata dai numeri".
Parla lo scrittore padre del Commissario Charitos
di Giulia Belardelli (L’Huffington Post, 08/07/2015)
Per un po’ il Commissario Kostas Charitos resterà in sospeso, senza casi da risolvere. Il “fratello greco di Maigret” o il “Montalbano di Atene”, come è stato soprannominato dalla critica internazionale, è rimasto anche lui vittima della tragedia greca a cui stiamo assistendo negli ultimi giorni. Il suo creatore, il famoso scrittore greco Petros Markaris, ha le vertigini di fronte a un baratro che sente di non poter (ancora) raccontare. “Sono arrabbiato sia con il primo ministro Alexis Tsipras che con le istituzioni europee - racconta ad HuffPost - perché da entrambe le parti manca un pensiero politico: non c’è la volontà di guardare oltre i numeri, si persevera in un assurdo gioco di potere”.
Oggi Markaris sarà a Expo per l’iniziativa organizzata da Coop “We Not Me - Il cibo di tutti”, una giornata dedicata alla cooperazione e all’economia partecipata. Oltre al racconto di eccellenze cooperative internazionali, come Park Slope Coop, ci sarà spazio per esplorare i limiti economici e sociali del liberismo su scala mondiale, regionale e nazionale. Di questi limiti Markaris è testimone e vittima diretta. Perché la sua Grecia - ripete con foga - è stata condannata a morte dall’egoismo dei politici greci e dalla miopia di un’Europa incapace di cooperazione.
Che opinione ha di Tsipras, e del modo in cui ha gestito il negoziato con i creditori?
Tutti i governi della Grecia, non solo quello guidato da Mr Tsipras, hanno perso tempo e gestito i negoziati nel modo sbagliato. Penso che la politica interna, in Grecia, abbia fatto e continui a fare degli errori enormi. Mr Tsipras non ha creato questa situazione, l’ha ereditata dai governi precedenti. Ciò che ha fatto, però, ha peggiorato ancora di più le cose. Negli ultimi cinque mesi non ha condotto negoziati seri e non ha fatto proposte specifiche. Ha tirato troppo la corda... e ora dove ci ha portato?
Dal mio punto di vista, l’ultima proposta di accordo della Commissione europea doveva essere accettata. Nell’ultima settimana le condizioni finanziarie della Grecia hanno subito un tracollo pesantissimo. Ora la situazione è molto più difficile di com’era prima. Abbiamo perso del tempo prezioso.
Pensa che la Grecia sia uscita più debole da questo referendum?
Penso che l’unico vincitore sia stato Tsipras. L’unico che ne ha tratto qualche vantaggio è stato lui. Per il resto, il referendum non ha aiutato nessuno. La domanda, tra l’altro, riguardava qualcosa che non esisteva più, un accordo già scaduto. Ora Tsipras gode di un mandato molto forte in Grecia, ma la sua posizione in Europa non si è rafforzata rispetto a prima.
Uno dei suoi libri - “Resa dei Conti” - è ambientato in uno scenario in cui Grecia, Spagna e Italia hanno appena lasciato l’euro... Pensa che stiamo andando in quella direzione?
Spero tanto che questa mia ipotesi non diventi realtà... Tornare alla dracma sarebbe un disastro, il colpo di grazia alla nostra economia. Chi afferma il contrario non realizza quanto sia dannoso. Purtroppo non ci sono soluzioni facili, bisogna scegliere l’opzione meno cattiva.
Eppure i giovani si sono espressi con forza contro quella proposta. La stragrande maggioranza ha votato “no” all’austerity...
Quando vivi in un Paese in cui la disoccupazione giovanile si avvicina al 60%, è comprensibile che i giovani siano furiosi. Vogliono una reazione, e questo voto, per loro, è stato una reazione. Non era un voto contro l’Europa, ma la richiesta di condizioni migliori. Capisco la rabbia dei giovani, di chi ha studiato tanto e non ha un lavoro. Ma la realtà, purtroppo, è che oggi andiamo verso un periodo molto molto duro. Abbiamo perso cinque mesi, e nell’ultima settimana la situazione è precipitata. Non c’è modo di scappare da questa situazione. Non riesco a vedere una possibilità, ora...
Che colpe ha in tutto questo l’Europa?
L’Europa ha responsabilità enormi. L’errore più grande risale al 2010, quando la Troika accettò la controproposta della Grecia. Il governo Papandreou, invece di essere spinto a fare le riforme, le posticipò: la resa dei conti venne spostata più avanti, accumulando ritardi e distruggendo la classe media. Commissione europea, Bce e Fmi avrebbero dovuto forzare il governo a fare le riforme allora. Avrebbero dovuto dire: ’non accettiamo nulla, tranne le riforme’. Invece hanno accettato una politica miope basata sull’aumento delle tasse, condannando a morte la classe media.
Entrambe le parti - governi greci e Ue - hanno fallito: la Grecia aveva bisogno di una forte spinta riformatrice su tutto il sistema, ma questa spinta non c’è stata. È stato facile per gli europei di Bruxelles e Francoforte dire che i greci non facevano le riforme; la verità è che non li spingevano a farle. Per racimolare soldi i governi greci hanno continuato ad aumentare le tasse per tutti i greci, arrivando a disintegrare la classe media. Peccato che, in un piccolo Paese come il nostro, l’economia sia fatta dalla classe media: se si distrugge questa fascia, se si toglie l’ossigeno alle piccole e medie imprese, alle cooperative, non c’è modo di ottenere un miglioramento. Sono profondamente convinto che di questo processo l’Europa sia responsabile.
Come si esce da questo vicolo cieco? A chi giova restarci?
Stiamo assistendo a un gioco di potere tra Ue e Grecia, un gioco tra minori che avrebbero un disperato bisogno di custodia. Dovremmo fermare questo stupido gioco di potere. Anche perché questo atteggiamento aggressivo dei vertici Ue rischia di diventare un boomerang per l’Europa. Ormai in Europa parliamo solo di economia. Renzi ha ragione quando dice che l’Europa ha bisogno di una prospettiva politica. Qui servono decisioni politiche: non ci sono solo i numeri, serve anche la cooperazione. Se la Grecia dovesse tornare alla dracma, sarebbe una sconfitta per l’Europa. Possiamo considerarlo un effetto collaterale, ma non possiamo prevederne gli effetti politici.
Che tipo di scenario ha in mente?
Le uniche forze che vedo fiorire in Europa sono quelle dell’estrema destra. Inutile che le spieghi chi sono i neonazisti di Alba Dorata. Questa situazione non è solo molto triste: è pericolosa. Ho molte critiche da obiettare a Syriza, ma vorrei che avesse successo. Altrimenti non voglio neanche immaginare cosa potrebbe succedere con Alba Dorata.
Quando dico che non c’è pensiero politico, intendo questo: bisognerebbe scongiurare in ogni modo la prospettiva dell’ascesa di un partito neonazista. Né i greci né tantomeno gli europei capiscono cosa potrebbe succedere... Non pensano politicamente: vedono solo i numeri, non c’è pensiero politico. L’Europa fa finta di niente, ma si trova di fronte un problema enorme: pensa che sia tutto economico, quando invece è tutto politico.
Nei sui libri crisi, povertà e corruzione fanno da sfondo alle avventure del Commissario Charitos. Lo troveremo a indagare con lo spettro di una Grexit?
Non voglio scrivere, voglio solo vedere cosa succederà. Ho molte idee, ma prima ho bisogno di capire. È la prima volta che mi capita di trovarmi in una situazione così complicata e oscura. Prima era più facile: sapevo che c’era una crisi, vedevo la sofferenza della popolazione... Ora ho un’immagine molto più confusa, devo aspettare che il quadro mi si chiarisca un po’... Nella vita di tutti i giorni sto attraversando una fase molto stressante, anche dal punto di vista emotivo. Sento di essere dentro a una storia che, per ora, non riesco a raccontare.
L’INDICAZIONE DELLA "X" ( "CHI") DEL "NO" ("OXI") DELLA GRECIA: la CARITA’ GRECA (χάρις - chàris, dono, grazia) NON E’ LA CARITA’ CATTOLICO-EUROPEA (Caritas - “carus”, caro - affetto, caro-prezzo)
L’eresia di Syriza può salvare l’Europa della solidarietò egualitaria
di Slavoj Zizek (la Repubblica, 09.07.2015)
LA VITTORIA del “no” al referendum greco, netta oltre ogni aspettativa, è un voto storico, espresso in una situazione disperata. In passato ho spesso citato la barzelletta che circolava negli ultimi dieci anni di vita dell’Unione Sovietica e che aveva come protagonista Rabinovitch, un ebreo intenzionato a emigrare. Il funzionario dell’ufficio emigrazione gliene chiede il motivo e Rabinovitch risponde: «I motivi sono due. Il primo è che ho paura che in Unione Sovietica i comunisti perdano il potere e che il nuovo governo incolpi noi ebrei di tutti i crimini dei comunisti - che si torni ai pogrom antisemiti...». «Ma è assurdo», lo interrompe il funzionario, «in Unione Sovietica non può cambiare nulla, il potere dei comunisti durerà in eterno!». «Beh» risponde calmo Rabinovitch, «quello è il secondo motivo ».
Mi hanno detto che ora ad Atene circola una nuova versione della storiella: un giovane greco va al consolato australiano di Atene per chiedere il visto di lavoro. «Perché vuole lasciare la Grecia?» gli chiede il funzionario. «Per due motivi», risponde il giovane. «Il primo è che ho paura che la Grecia esca dall’Ue, della nuova povertà e del caos che ne verranno...». «Ma è assurdo », lo interrompe il funzionario, «la Grecia rimarrà nella Ue e si assoggetterà alla disciplina finanziaria!». «“Beh», risponde calmo il greco, «quello è il secondo motivo... ». Vuol forse dire che, parafrasando Stalin, entrambe le scelte sono le peggiori? È ora di andare oltre i dibattiti sterili sui possibili errori di comportamento e valutazione da parte del governo greco. Le poste in gioco ormai sono troppo alte.
Il fatto che negli attuali negoziati tra la Grecia e gli amministratori Ue si arrivi sempre a un passo da un accordo senza raggiungerlo è in sè profondamente sintomatico, poiché in realtà non si tratta di vere e proprie questioni finanziarie - a questo livello, la differenza è minima. La Ue di solito accusa i greci di esprimersi solo in termini generali, facendo promesse vaghe senza entrare nello specifico, mentre la Grecia accusa la Ue di voler controllare anche i minimi dettagli e di imporre al nuovo governo greco condizioni più dure rispetto al passato. Ma dietro queste recriminazioni aleggia un altro conflitto, più profondo. Tsipras ha dichiarato recentemente che se avesse avuto occasione di andare a cena da solo con Angela Merkel avrebbero trovato una soluzione in due ore. La sua tesi è che lui e la Merkel, due politici, avrebbero affrontato il dissidio come contrasto politico, a differenza degli amministratori tecnocrati, come il capo dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem. Se c’è un cattivo per eccellenza in tutta questa storia è Dijsselbloem: «Se pongo le questioni sul piano ideologico non risolvo nulla» è il suo motto.
Questo ci porta al nodo della questione: Tsipras si esprime come se i problemi fossero parte di un processo politico aperto, in cui si devono prendere decisioni in fin dei conti “ideologiche” (basate su preferenze normative) mentre i tecnocrati della Ue si esprimono come se tutto si riducesse a specifici regolamenti e nel momento in cui i greci rifiutano questo approccio e sollevano questioni più prettamente politiche, li si accusa di mentire, di evitare soluzioni concrete e così via. Non c’è dubbio che la verità qui sta dalla parte greca: rifiutare il “piano ideologico” come fa Dijsselbloem equivale alla più pura ideologia, significa spacciare per regolamenti elaborati da esperti decisioni che sono in realtà fondate su scelte politico-ideologiche. La lotta in atto è la lotta per la Leitkultur economica e politica in Europa. Le potenze della Ue appoggiano lo status quo tecnocratico che da decenni mantiene l’Europa in uno stato d’inerzia.
Nel suo Notes Towards a Definition of Culture (Note sulla definizione di cultura) il grande conservatore T.S.Eliot osserva che in alcuni momenti l’unica possibile scelta è tra l’eresia e il non credere, per tener viva una religione bisogna cioè creare nel suo corpo principale una frattura settaria. È questa la nostra posizione oggi riguardo all’Europa: solo una nuova “eresia” (rappresentata in questo momento da Syriza) può salvare quello che vale la pena di salvare dei valori europei: la democrazia, la fiducia nelle persone, la solidarietà egualitaria... L’Europa che vincerà se Syriza verrà messa fuori gioco sarà un’”Europa dai valori asiatici” (che ovviamente nulla ha a che fare con l’Asia, ma molto con la tendenza netta e attuale del capitalismo contemporaneo a sospendere la democrazia).
Non è solo che il destino della Grecia è in mano all’Europa. Noi dell’Europa occidentale amiamo guardare alla Grecia da osservatori distaccati, che seguono con compassione e simpatia il dramma della nazione impoverita. Questa posizione di comodo poggia su una pericolosa illusione - ciò che accade in Grecia in questi ultimi giorni ci riguarda tutti, è in gioco il futuro dell’Europa.
Il problema è che la politica dei tecnocrati si basa su una finzione, quella di estendere i termini di restituzione del debito dando a intendere che verrà ripagato in toto. Perché ci si ostina in questa finzione? Non è che renda l’estensione del debito più accettabile agli elettori tedeschi; e non è neppure che la cancellazione del debito greco possa innescare pretese analoghe da parte di Portogallo, Irlanda, Spagna... È che ai vertici in realtà non si vuole che il debito venga del tutto ripagato. I finanziatori accusano i paesi indebitati di non mostrare sufficiente senso di colpa, li accusano di sentirsi innocenti. Le loro pressioni corrispondono perfettamente a quello che gli psicoanalisti definiscono come superio: il paradosso del superio sta nel fatto che, Freud ci insegna, più obbediamo alle sue richieste più ci sentiamo in colpa.
Immaginate un perfido insegnante che assegna ai suoi alunni compiti impossibili e ghigna con sadismo vedendoli in ansia e in preda al panico. Il vero obiettivo di prestare denaro ai debitori non è ottenere il rimborso del debito lucrando, ma perpetuare il debito a tempo indefinito, tenendo il debitore in perenne dipendenza e subordinazione... questo per la maggior parte dei debitori, perché ne esistono varie tipologie. Non solo la Grecia, ma anche gli Usa non saranno in grado neppure in teoria di ripagare il loro debito, come ormai è di pubblico dominio. Esistono quindi debitori (le grandi banche) in grado di ricattare i creditori perché non possono permettersi di farle fallire, debitori che possono controllare le condizioni di pagamento del loro debito (il governo Usa) e, infine, debitori che possono essere maltrattati e umiliati (Grecia).
I finanziatori fondamentalmente accusano il governo Syriza di non mostrare sufficiente senso di colpa, lo accusano di sentirsi innocente. È questo che disturba l’establishment Ue: il governo Syriza riconosce il debito, ma senza colpa. Si sbarazza della pressione del superio.
Ma ripetere all’infinito che la politica di Syriza rientra nei modesti confini della vecchia buona socialdemocrazia per convincere gli eurocrati che non è pericolosa e spingerli a concedere gli aiuti, in qualche misura non riesce nell’intento.
Syriza è in realtà pericolosa, pone effettivamente una minaccia all’attuale orientamento della Ue - il capitalismo globale odierno non può permettersi un ritorno al vecchio stato sociale. Quindi c’è dell’ipocrisia nelle rassicurazioni circa la sobrietà delle istanze di Syriza: in realtà il suo obiettivo è impossibile da realizzarsi entro le coordinate del sistema globale esistente. Servirà una seria scelta strategica: e se fosse giunto il momento di gettare la maschera della sobrietà e di chiedere invece apertamente il cambiamento ben più radicale necessario per ottenere un progresso, seppur modesto? Forse il referendum sarà il primo passo in questa direzione.
Traduzione di Emilia Benghi
Germania: etica protestante o riscrittura della storia?
di Paolo Ferrero
Segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista - Sinistra Europea *
Tra le leggende metropolitane che circolano maggiormente attorno alla vicenda greca, vi è quella dell’etica protestante che caratterizzerebbe la Germania e che renderebbe incomprensibile ai loro occhi la mediterranea Grecia. Gli elementi della leggenda sono pochi e semplici: i tedeschi sono seri, laboriosi protestanti e nella lingua tedesca debito e colpa hanno la stessa etimologia. I greci hanno il sole caldo, una furbesca attitudine al commercio e sono eredi del buonismo neotestamentario. La morale della fiaba (favola!, fls) altrettanto chiara: i tedeschi hanno ragione, i greci torto e non si possono capire tra di loro.
Penso che questa rappresentazione sia completamente falsa, inventata. In realtà i tedeschi hanno poco o nulla a che vedere con la loro autorappresentazione. In realtà ci troviamo di fronte ad una vera e propria riscrittura della storia che le classi dominanti tedesche hanno fatto nel corso dell’ultimo secolo. Una riscrittura della storia che è diventata egemone a causa della sudditanza dei molti ma non per questo meno falsa.
In primo luogo la storia del debito. Nel corso del 1900 i tedeschi non hanno mai pagato i loro debiti. Non hanno pagato i debiti di guerra della prima guerra mondiale se non dopo trent’anni ed un enorme sconto. Grazie alla conferenza di Londra del 1953, non hanno pagato i debiti della seconda guerra mondiale se non in parte limitatissima e dilazionati anch’essi in trent’anni. Inoltre non hanno pagato alcun risarcimento agli stati invasi per i danni prodotti nella Seconda Guerra mondiale nonostante la Conferenza di Londra del ’53 avesse previsto il loro pagamento quando fosse avvenuta la riunificazione della Germania. Nel 1990 la Germania si è riunificata ma non ha voluto pagare nulla.
La Germania è lo stato europeo di gran lunga più insolvente e di gran lunga meno portato a mantenere la parola data e gli accordi sottoscritti, oltre ad essere lo stato europeo di gran lunga più devastante nei confronti dei suoi vicini.
L’invenzione della tradizione non riguarda però solo il debito, riguarda anche le origini del nazismo. Secondo la vulgata corrente il nazismo sarebbe il frutto dell’iperinflazione che colpì la repubblica di Weimar. I biglietti da un miliardo di marchi portate a carrettate per comprare un chilo di burro sarebbero all’origine del nazismo. Niente di più falso. L’Iper inflazione tedesca avvenne nel corso del 1923 e terminò nel 1924 con il piano statunitense (Dawes) che impose nel 1924 una nuova moneta. La grande inflazione terminò quindi nel 1924 e non ve ne fu più traccia negli anni successivi, che furono invece anni di significativa ripresa economica e produttiva. Nel 1923, cioè l’anno culmine della grande inflazione praticamente il Partito Nazista esisteva solo sulla carta e ad esempio nelle elezioni del dicembre 1924 non risulta pervenuto. Del resto nelle stesse elezioni del 1928, quattro anni dopo la fine della grande inflazione i nazisti elessero 12 deputati, un quinto di quanti ne eleggevano i comunisti e meno di un decimo di quanti ne eleggevano i socialisti. La grande inflazione non ha quindi prodotto nessun sviluppo del movimento nazista, anzi.
Il partito nazista inizia a crescere velocissimo nel 1930 (107) deputati che raddoppiano nel 1932 (230), fino a vincere le elezioni nel 1933. Che cosa era successo nel frattempo? Era successo che il governo Bruning fece fronte alla crisi del 1929 con una politica economica di austerità, identica a quella che la Merkel ha oggi imposto a tutta Europa e che produsse in brevissimo tempo una recessione gravissima e milioni di disoccupati. Il nazismo è il frutto diretto delle politiche di austerità e il nazismo ebbe buon gioco ad indicare l’origine della crisi nella speculazione e quindi nei banchieri indicati come i registi del complotto giudaico massonico. La super disoccupazione frutto delle politiche di austerità e non la iper inflazione (di 5 anni prima) sono stati all’origine del nazismo. Hitler è figlio diretto delle folli politiche di austerità del governo Bruning, le stesse che la Merkel applica all’Europa, non dell’inflazione. Anche questa gigantesca operazione di riscrittura della storia non è innocente ma tutta finalizzata alle politiche di destra oggi in auge.
Più che davanti all’etica protestante, ci troviamo quindi dinnanzi ad un depistaggio continuo. Più che con Max Weber - che per altro parlava del calvinismo e non del luteranesimo proprio della cultura tedesca - abbiamo a che fare con Orwell: "Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato". Non mancano del resto altri esempi: Lo stato maggiore dell’esercito tedesco, sconfitto militarmente nelle trincee della prima guerra mondiale, scaricò la responsabilità della sconfitta addosso ai partiti di sinistra e al movimento dei lavoratori, facendo una campagna - poi ripresa in grande stile dal nazismo - sulla "pugnalata nella schiena".
La storia tedesca nel corso del 1900 è stata completamente e sempre riscritta dalle sue classi dirigenti a proprio uso e consumo. La Merkel non è da meno, anzi. Il fatto di essere nata nell’ex DDR, fa sì che lei non prenda nemmeno in considerazione le responsabilità collettive della nazione tedesca per quanto riguarda il nazismo. Bisognerebbe quindi smetterla di raccontare le frottole che le classi dirigenti tedesche raccontano a proprio vantaggio come se fossero vere. Non facciamo un buon servizio al popolo greco, all’Europa e nemmeno al popolo tedesco, che andrebbe aiutato a liberarsi da queste classi dirigenti e dalle loro narrazioni rassicuranti quanto completamente false.
.*** LA "X" DELLA GRECIA: "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.
Il primo voto e la «barbarie» dei Ciclopi senza democrazia
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 06.07.2015)
Pensando alla partecipazione dei greci al referendum viene da pensare che a muoverli sia stata, accanto alla gravità del momento, anche l’eredità di una idea che risale a un’epoca precedente di molti secoli alla nascita delle istituzioni democratiche. Quando Omero nell’Odissea vuole descrivere la barbarie di Polifemo non parla del suo cannibalismo. Parla di qualcosa di peggio: il fatto che i Ciclopi «non hanno assemblee di consiglio, non leggi/fa legge ciascuno/ai figli e alle mogli e l’uno dell’altro non cura» (Od., 9, 112-115).
Il segno dell’inciviltà sta nella mancanza di quel momento di incontro che, pur non avendo ancora poteri istituzionalmente previsti, è il momento più importante della vita pubblica. Quel momento che, dice Omero, è «la gloria degli uomini» (Il., 1, 490). E di lì a qualche secolo Alceo, esiliato dalla patria, scriverà che la sua vita lontano dalle istituzioni civiche è quella di «un solitario lupo».
Come non avere la sensazione che i greci in fila, mentre uno per uno deponevano il loro voto fossero la raffigurazione dei valori che, con la nascita della democrazia, essi ci hanno tramandato? L’isegoria, vale a dire (un voto uguale per tutti) e la parrhesia (totale libertà di parola).
All’epoca di Pericle infatti, con l’affermazione della democrazia radicale, all’assemblea (ekklesia) avevano diritto di partecipare tutti i cittadini maschi che avevano compito i 20 anni, vale a dire raggiunto la maggiore età e compiuto due anni di servizio militare. E poi, su un ordine del giorno comunicato in precedenza, si votavano, sulla collina della Pnice, le proposte fatte dalla Boule, un Consiglio di 400 persone estratte a sorte, di età superiore ai 30 anni: a maggioranza assoluta, di regola per alzata di mano (cheirotonia) e dunque e scrutinio palese. Nei casi, invece, in cui il voto doveva essere segreto si votava introducendo nelle apposite urne una pietruzza (psephos).
Infine una considerazione sulle competenze dell’assemblea, che non si limitavano all’approvazione delle leggi, ma riguardavano la politica interna ed estera, la pace e la guerra, i trattati internazionali e le questioni finanziarie. In altre parole, tutti gli affari di Stato. La divisione dei poteri, ovviamente, era di là da venire, così come , ovviamente, il suffragio universale (donne e schiavi ne erano esclusi). Ma le basi perché ci si potesse arrivare erano state messe.
"X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI":
IL NUOVO PARADIGMA..
L’analisi. La biforcazione antropologica tra il centronord e il sud del continente inizia nel Settecento. E produce effetti ancora oggi
Quello strappo tra le due Europe nato per troppo amore verso l’antica Grecia
di Marino Niola (la Repubblica, 04.07.2015)
L’Europa è figlia della Grecia. Poi ne è diventata madre. E adesso rischia di diventare la sua crudele matrigna. Che l’Ellade sia il momento aurorale dell’Occidente moderno e delle sue parole chiave non ci sono dubbi. Su questa genealogia sono stati versati fiumi del migliore inchiostro. Le idee dell’essere e dell’avere del vecchio continente sono state fabbricate nell’officina egea.
Ma è tra gli ultimi anni del Settecento e i primi dell’Ottocento che la Grecia, e con lei il Meridione europeo, sono stati ripensati e in un certo senso reinventati dallo sguardo del Nord, quello germanico prima di ogni altro. È allora che si determina la biforcazione antropologica tra le due Europe, che da quel momento smettono di essere una. E cominciano specchiarsi, ciascuna nella differenza dell’altra. Nel senso che le potenze del Settentrione, Germania, Inghilterra e Francia, ovvero gli attuali pilastri dell’Unione, diventano moderne. E, soprattutto cominciano a rappresentare la loro modernità per contrasto con il mondo euromediterraneo, consegnato per sempre alla sua irredimibile antichità. Non a caso è allora che nasce la scienza della mitologia greca. E a inventarla non sono i legittimi abitatori delle contrade del mito, ma filologi, filosofi, storici e archeologi tedeschi. Come Wilamowitz e Winckelmann. La cui devozione estetica per l’Ellade è indiscutibile. Ma è altrettanto indiscutibile che idealizzandola di fatto l’hanno reinventata.
L’amico Marcel Detienne, il più grande grecista vivente, diceva poco tempo fa che in realtà la Grecia che noi conosciamo, quella che abbiamo studiato a scuola, è stata letteralmente creata da questi studiosi. Perché la mitologia antica diventasse un archetipo, un antecedente logico e archeologico, destinato a lasciare il posto alla razionalità moderna. Che i miti non li vive ma li spiega. Ed è un grande errore, aggiungeva Detienne, perché pensiero mitologico e filosofia, cioè poesia e pensiero razionale non succedono l’uno all’altro sulla scena della storia. Ma nascono insieme. È per questo che la filosofia di Platone, anche quella politica, parla sempre attraverso il mito.
Nella cultura nord-europea, a dominanza protestante, il Sud del continente e il mondo classico in generale diventano così la metafora culturale di un passato che non passa. Che non riuscirebbe a trasformarsi in presente, perché incapace di sincronizzarsi sul cambio di marcia della storia. E perciò resta fissato per sempre, come il fotogramma nobile di uno sviluppo mancato. Di una condizione submoderna. Che è alla radice della nostra nozione di sottosviluppo. «Questa è la patria delle divinità della mitologia greca. Terra degli dèi e degli eroi», diceva Tocqueville, uno dei padri del liberalismo, sottintendendo così che non è la terra degli uomini di oggi.
E in quegli stessi anni, le scoperte archeologiche compiute per lo più da tedeschi, inglesi e francesi, fanno affiorare un passato glorioso di cui i popoli mediterranei appaiono gli indegni continuatori. Portatori sani dell’antico, una sorta di archeologia vivente. E spesso i grandi archeologi come Schliemann, che nel 1871 scopre le rovine di Troia e nel 1874 quelle di Micene, la città di Agamennone, parlano con accenti liricamente solenni delle rovine di pietra. E con disprezzo di coloro che abitano senza merito quelle terre. Parlandone, come fa qualche volta anche Voltaire, come di selvaggi di casa nostra. Con un cortocircuito tra antichi e primitivi. Tra popoli lontani nella geografia e popoli lontani nella cronologia. È quella che Giacomo Leopardi chiamava una meridionalità nel tempo, un Sud della storia.
E così la Grecia emigra verso eredi che si ritengono più degni del lascito. L’altare di Pergamo va a Berlino, il frontone del Partenone a Londra e la Nike di Samotracia a Parigi.
E perfino coloro che hanno amato alla follia l’altra Europa, come Goethe, Madame de Staël, Hölderlin, fino a Nietzsche e a D.H. Lawrence, l’hanno di fatto minorizzata sul piano sociale e antropologico, arretrando il suo presente in una antichità spesso di maniera. Più mitologica che storica. Più neoclassica che classica. Contrapponendo, per esempio, la fredda ragione calcolante del Nord, così ben rappresentata oggi a Bruxelles, al calore antico ma improduttivo del Mezzogiorno. «Risorgi Omero! Se nel Nord di porta in porta, ti scacciarono freddi, qui troveresti un popolo ancora greco, e greco il firmamento». Questo idillio di August Von Platen fa il paio con Goethe il quale arriva a dire che «più di ogni altro popolo i Greci hanno sognato il sogno della vita nella maniera migliore ». E non è da meno Henry James, che parla di quella «interminabile luna di miele paganeggiante » da cui i popoli del Mare Nostrum non riuscirebbero a ridestarsi. Il problema resta sempre quello di un risveglio mancato. Di un asincrono dello sviluppo che riproduce la faglia tra popoli che fanno la storia e popoli portatori inerti della tradizione. Fissati nel fermo immagine di una non-storia prigioniera del passato. Una faglia antica che pesa sul futuro dell’Europa.
L’Ue ha cancellato le sue radici spirituali. Ma se cade la Grecia, crolla l’intero edificio europeo
di Mauro Maldonato
Professore universitario e autore di "Quando decidiamo" *
Comunque vada a finire, il dramma greco è solo un sintomo di un male profondo che attanaglia l’Europa. Il rischio di bancarotta non riguarda solo la nazione greca, ma l’intero edificio europeo: una mastodontica struttura, ininfluente sugli equilibri geopolitici planetari, nel contrasto al terrore, preoccupata solo di immunizzarsi contro epocali flussi migratori e di coltivare i propri ottusi egoismi.
Un panottico più che una casa comune. Ed è davvero di stupefacente interesse l’inadeguatezza delle nostre classi dirigenti di fronte agli sconvolgimenti che avvengono minuto per minuto, all’enorme movimento di faglia della nostra civiltà. Una fitta nebbia e una tremenda incertezza. Come se lo sfinimento febbrile delle ’leggi’ della storia avesse spinto tutti verso una sorta di catatonia intellettuale.
A pensarci bene, non è nemmeno sorprendente. All’indomani del crollo del vecchio ordine bipolare, intere generazioni di intellettuali e politici occidentali sono apparse confuse, incapaci di formulare una prognosi credibile sull’avvenire della politica europea. Da un lato è prevalsa una formidabile strategia di rimozione; dall’altro, è emersa una fervente quanto acritica adesione all’unico modello rimasto in piedi: quello liberaldemocratico. Neppure l’ombra di un’analisi della catastrofe.
Non un tentativo di comprendere le ragioni, di ripensare valori, regole e istituzioni. La liberaldemocrazia si è affermata, così, come l’unico paradigma sopravvissuto ai totalitarismi di destra e di sinistra. Come terza utopia novecentesca, non solo ha preso il posto delle ideologie precedenti, ma si è estesa con ansia omologatrice oltre i tradizionali confini d’Europa, senza considerare specificità geografiche, tradizioni storiche, culture e identità nazionali.
Per tale obiettivo il progetto liberaldemocratico si è dotato di un’intelaiatura istituzionale e di sistemi raffinati e apparentemente neutrali.
L’irrazionalità dell’eurozona e il dilemma euro-moneta nazionale sono solo aspetti di superficie di un problema più profondo. Quello, cioè, di una costruzione nata da una innaturale uniformazione, non da una unificazione spontanea e volontaria. Del resto, a cosa poteva portare l’europeismo ideologico con i suoi feticci della coesione, dell’armonizzazione e della sussidiarietà forzata?
Non era difficile immaginare che le conseguenze sarebbero state, da un lato, una valanga di direttive burocratiche su ogni minuzia; e, dall’altro, un vuoto tremendo, proprio là dove c’è bisogno di decisioni cruciali: esteri, difesa, migrazioni. Davanti a noi vi sono domande inaggirabili. Innanzitutto, che legittimità hanno le istituzioni europee? Cosa vuol dire, oggi, "sovranità popolare"? Essere sovrani di se stessi? E chi è sovrano, e su chi?
Eppure, gli effetti più preoccupanti di tutto questo non sono solo l’infiacchimento della vitalità della civiltà europea, della sua dinamica pluralità, della fiducia e della speranza in una comunità di destino. Non è nemmeno aver generato una patetica cultura della resa e del piagnisteo. L’aspetto più inquietante è l’aver messo ai margini la potenza delle sue radici spirituali (greche, bibliche, rinascimentali, illuministe) e, infine, aver provocato odio di sé. Hanno origine qui le ombre sinistre che si allungano sul futuro dell’Europa.
“La Grecia esisterà anche dopo la Ue. Vogliono far cadere Syriza, è ingerenza”
da il Fatto, 02.07.2015
PARLARE della perdita di un pilastro della cultura europea, qualora la Grecia dovesse lasciare l’Ue a seguito del referendum che si svolgerà domenica, non è corretto perché "la Grecia preesiste all’Europa ed esisterà anche dopo". A pensarla così è il filologo e professore emerito dell’Università di Bari, Luciano Canfora. Conversando con l’AdnKronos, lo studioso sostiene, infatti, che "la Grecia, per moltissimo tempo, è stata posta ai margini della storia d’Europa. Mi riferisco dice ai secoli precedenti, cioè fino al pieno Ottocento e poi in tempi a noi più vicini, durante la Seconda guerra mondiale".
L’Italia, ricorda il filologo, "ha aggredito la Grecia e, in seguito, la Cia ha alimentato il Golpe dei colonnelli. La Grecia è sempre stata trattata per metà come terzo mondo e per metà come nostro subalterno. Il problema che viene posto dalla crisi monetaria è di altro tipo: alla Ue, che non è uno Stato federale ma è una moneta, conviene perdere questo pezzo? Gli effetti a catena sarebbero preoccupanti”.
Per la situazione politica attuale, Canfora spiega "che la partita è apertissima e il disegno concreto è quello di far cadere Tsipras, siamo di fronte a un caso dice ironicamente di rispetto assoluto dell’indipendenza dei singoli paesi. Se invece Tsipras dovesse vincere, si dovrebbe costringere Christine Lagarde (presidente del Fmi, ndr) a mollare qualche soldo in più per tenere agganciata la Grecia all’Europa. Sarebbe un caso di finto altruismo e di vero egoismo", conclude.
Colpo di Stato in Grecia
La finanza globale sta organizzando un colpo di stato riducendo alla fame milioni di greci. Facciamo finta di non sapere che si sta compiendo questo pogrom, mentre in altri luoghi si stanno svolgendo pogrom ai danni dei migranti
di Franco Berardi Bifo *
Osservando giorno per giorno il comportamento del Fondo monetario internazionale e della Banca centrale europea, cominciamo a decifrare lo scenario: il sistema finanziario globale sta organizzando un colpo di stato in Grecia, e per realizzarlo umilia e affama milioni di persone, spingendole verso un disastro umanitario quale in Europa avremmo pensato di non vedere mai.
Quand’ero giovane leggevo con orrore delle popolazioni di villaggi polacchi o tedeschi che fingevano di non sapere che a cinquecento metri dalle loro case si gettava la gente nei forni crematori. Nei villaggi italiani francesi o tedeschi oggi facciamo finta di non sapere che si sta compiendo un pogrom di dimensioni continentali contro il popolo greco, e in altri luoghi si stanno svolgendo pogrom ai danni del popolo migrante, gettato nella guerra dalla follia bellicista dei francesi e ora respinto verso l’abisso.
La guerra che già rumoreggia ai confini d’Europa si prepara ad esplodere in ogni sua città per il futuro prossimo. Nazionalismi aggressivi tendono a diventare maggioranza in Italia, Francia, Austria, per tacere d’Olanda e d’Ungheria.
Le condizioni sociali precipitano verso la povertà di massa e la precarietà generalizzata. In questo scenario mi pongo alcune domande.
. Domanda uno: Può sopravvivere l’Unione europea?
Risposta: Non può sopravvivere per la semplice ragione che l’Unione non esiste, e non è mai esistita, anche se ci abbiamo messo troppo tempo per capirlo. Da Maastricht in poi l’Unione non è nient’altro che un progetto finanziario di predazione della ricchezza sociale e di impoverimento dei lavoratori. Tutto il resto sono chiacchiere nelle quali siamo caduti.
L’aggressione finanziaria e il tentativo di umiliazione del governo greco sono prova evidente dell’inesistenza dell’Unione. Il fatto che non si sia manifestato alcun movimento di solidarietà con il popolo greco è prova che non vi è alcun popolo europeo: l’aggressione neoliberista ha distrutto ogni dimensione cosciente della società europea.
Ma a questo si aggiunge l’ottusità delle politiche europee nei confronti della popolazione migrante: la capitolazione del governo francese davanti al ricatto nazionalista, e il rifiuto generalizzato di condividere quote di immigrazione dimostrano che l’Unione non esiste. L’Unione europea è solo un fascio di crimini finanziari, di cinismo politico, e di viltà ignorante.
. Domanda due: Si può riformare l’Unione?
Risposta: La mia risposta è no, perché nazionalismo e razzismo sono la forza egemone in tutti i paesi europei con l’eccezione della Spagna e della Grecia. Noi - la sinistra, gli intellettuali, l’università, coloro che avrebbero dovuto rendere impossibile il ritorno della peste bruna in Europa - ne siamo responsabili: chi nel 2005 invitò francesi e olandesi a votare a favore di una finta costituzione europea che era sanzione definitiva della violenza neo-liberale porta la responsabilità di aver consegnato alla destra l’egemonia sociale che ora emerge invincibile. La peste bruna è in marcia in ogni villaggio di questo continente che è unito oggi come lo fu nel 1941.
. Domanda tre: Come se ne esce?
Risposta. Gli spiriti semplici indicano una soluzione sciocca: torniamo alla moneta nazionale. Come se la dracma o la lira potessero risolvere qualcosa perché finalmente potremmo svalutare e vendere molte merci a qualche pinguino. Gli spiriti semplici alla Bagnai non si rendono conto che il dramma non riguarda l’import-export, ma l’alternativa tra dittatura finanziaria globale e prospettiva di un rinascimento fondato sulla fine del Regime del Lavoro Salariato. Lo sguardo collettivo è incapace di vedere la possibilità di quel Rinascimento, dunque quel Rinascimento non ci sarà. E nessuno sa come se ne esce.
Il ceto finanziario intendeva distruggere l’Europa, e ora l’Europa è distrutta. Ma al tempo stesso non c’è modo di uscire da un’Unione che non esiste. Nella fine sta il segreto dell’inizio. La politica europea non è mai stata altro che una chiacchiera vuota per allocchi. Mentre noi discettavamo di democrazia il potere finanziario costruiva l’unica Europa che sia mai esistita: un dispositivo per lo spostamento di reddito dalla società alle banche, per la riduzione del salario e la precarizzazione del lavoro. Null’altro che questo è stato l’Unione, e non si esce per via politica da una trappola che ha natura meramente finanziaria.
Se a governare il mondo è l’emisfero sinistro
L’influenza del cervello nella politica e nella cultura secondo lo psicologo e filosofo britannico Iain McGilchrist
di Massimo Ammaniti (la Repubblica, 20.06.2015)
Probabilmente nessun editore italiano si lancerà nell’impresa di tradurre il libro di Iain McGilchrist The Master and His Emissary: The divided brain and the making of the Western World (Il Signore e il suo Emissario: il cervello diviso e la costruzione del mondo occidentale; Yale University Press) perché si tratta di un testo molto denso e corposo, più di 800 pagine nell’edizione americana. È sicuramente una perdita per gli studiosi e i lettori italiani perché il libro solleva interrogativi di grande originalità, rileggendo in una prospettiva diversa l’influenza esercitata dall’asimmetria dei due emisferi cerebrali, studiata in passato da Roger Sperry a cui fu assegnato il Premio Nobel.
La domanda che si pone McGilchrist, psichiatra e filosofo britannico, può sembrare inizialmente troppo riduttiva e semplificatrice: come può la specifica asimmetria cerebrale aver influito così tanto sulle caratteristiche delle varie società che si sono susseguite nell’Occidente?
Nella prima parte del libro vengono discusse le ricerche neurobiologiche degli ultimi decenni sulle modalità di esperienza dei due emisferi, quello sinistro considerato dominante perché legato al linguaggio, alla pianificazione e alla realizzazione, il polo razionale, mentre quello destro più legato alle emozioni, ossia il polo artistico. Questa concezione è ormai troppo scontata, secondo McGilchrist, sarebbe meglio parlare della diversa attenzione verso il mondo sancita dall’incapacità dell’emisfero sinistro di comprendere le metafore, legate alla figurazione di un significato originario, capacità questa più consona all’emisfero destro. E questa diversa attenzione interverrebbe nel cambiare e modificare il mondo che viene plasmato a seconda della supremazia di uno dei due emisferi.
Proprio come la storia raccontata da Nietzsche e che dà il titolo al libro, l’emisfero destro si comporta come il saggio e generoso signore di un paese con grandi risorse che non può governare da solo e pertanto è costretto a delegare i suoi emissari fra cui un visir, che ben presto si contrappone al suo signore pretendendo lui di governare.
È una storia antica come il mondo ma che si attaglia soprattutto a quello che sta succedendo nel mondo occidentale, che viene troppo condizionato dai dettami dell’emisfero sinistro. Le motivazioni esplicite di questo emisfero sono la competizione e la ricerca del potere che portano ad un mondo meccanico e privo di vita in cui c’è sempre meno spazio per il mondo implicito dell’affettività, dell’empatia e delle metafore.
Naturalmente McGilchrist non ritiene che sia il cervello a guidare la cultura, come anche il contrario, entrambi interagiscono e si plasmano vicendevolmente. Ripercorrendo i periodi storici dell’Occidente nell’antica Grecia viene ampiamente documentata la progressiva affermazione dell’emisfero sinistro con gli inizi della filosofia analitica, la codifica delle leggi e la formalizzazione della conoscenza.
Ma è con la rivoluzione industriale del Diciannovesimo secolo che l’emisfero sinistro diviene egemone, giungendo sempre più a dominare lo scenario del mondo della natura, a cui vengono contrapposte forme regolari, il quadrato, il rettangolo o il cerchio create dall’uomo, che possono essere riprodotte all’infinito anche in modo meccanico.
E ancora di più oggi nel periodo del post-modernismo con l’urbanizzazione crescente, l’espansione industriale a livello globale, la cultura tecnologica di massa si affermano desideri di possesso, competizione e rapporti d’uso che stanno soppiantando i legami e la continuità culturale. E’ la rivincita dell’emisfero sinistro, ma il prezzo che si paga è eccessivo, il senso di appartenenza ne viene indebolito e diventa difficile capire il contesto in cui si vive e i rapporti cogli altri con un distacco crescente.
Per ritornare al racconto di Nietzsche, la verità non è così unilaterale, non è solo colpa del Visir se si va incontro ad un conflitto disastroso forse anche il Signore illuminato non ha prestato abbastanza attenzione a quello che stava succedendo.
Filosofia
I nodi della secolarizzazione
La cultura disinnesca l’ordigno della religione
Kelsen e Habermas denunciano il rischio di relegarla al foro interiore: così, paradossalmente, la si abbandona a laicismo e fondamentalismo
di Federico Vercellone
Insegna estetica all’Università di Torino *
La modernità nascente era sorta nel segno di una meravigliosa ubriacatura messianica, quella primo-romantica, la quale faceva derivare lo spirito del tempo «nuovo» dal carattere inaugurale del cristianesimo. Il mondo secolare moderno sarebbe, da questo punto di vista, l’esito di una sorta di parto messianico, e questo ne fa un universo votato a un progresso indefinito, orientato a un’infinita approssimazione alla meta ultima. A partire dallo storicismo tedesco e dalla teologia liberale protestante le cose vanno modificandosi, e sempre di più il mondo moderno si palesa come un mondo secolare sorto in forza del cristianesimo e liberatosi dall’ipoteca di Dio grazie allo stesso Gesù Cristo, il quale, morendo, ha emancipato questa terra dall’incombente presenza del divino per affidarla alla sola responsabilità umana.
Il problema è che il mondo secolare moderno soffre della propria sobrietà priva di certezze ed è tentato di creare nuove fedi, secolari e non, e comunque di far rientrare nella sfera pubblica quella fede religiosa che si era ritratta nei più intimi recessi dell’animo umano. Il mondo secolarizzato non regge dinanzi agli effetti che esso stesso ha prodotto, e sempre più si rinnova la necessità di ritrovare nuove divinità ideologiche o mass-mediatiche.
Su questi temi ci invitano a riflettere Hans Kelsen in Religione secolare, il suo ultimo libro uscito postumo nel 2012, comparso ora in italiano da Cortina e, ben più di recente, Jürgen Habermas in Verbalizzare il sacro pubblicato da Laterza. Il libro di Kelsen ha dietro di sé una lunga e sofferta vicenda. Kelsen giunse persino a sottrarlo alla stampa, nel 1964, dopo averne corretto le bozze, preferendo pagare una salata penale all’editore piuttosto che vedere pubblicate quelle pagine delle quali non era pienamente convinto.
La questione posta da Kelsen è quanto mai attuale. La sua formulazione è tuttavia fortemente condizionata dall’epoca nella quale il libro fu scritto, un’epoca variegatamente dominata da grandi ideologie che assumevano il volto di prospettive totalizzanti, di vere e proprie visioni del mondo. Si va in questo quadro dal mito della tecno-scienza al marxismo.
La domanda di Kelsen è quanto mai esigente e precisa: si può parlare di religione nel caso di visioni del mondo onnilaterali le quali tuttavia non si organizzano intorno a un’ipostasi divina trascendente? Si può, in breve, avere religioni senza Dio?
La risposta di Kelsen è decisamente negativa. Kelsen polemizza contro coloro, da Ernst Cassirer a Karl Löwith, ma tra questi va annoverato principalmente il suo allievo Erich Voegelin, i quali tendono a interpretare gli esiti delle filosofia illuministica e della secolarizzazione come delle vere e proprie proposte di fedi immanentistiche le quali hanno, per parte loro, una remota radice nella tarda antichità e nel Medioevo.
La modernità sarebbe percorsa in quest’ottica da un sotterraneo stream neo-gnostico che costituirebbe una sorta di unico comune denominatore delle spinte secolarizzanti e addirittura di quelle rivoluzionarie del tempo presente. Dalla gnosi antica ad Agostino a Gioacchino da Fiore, vero e proprio padre delle rivoluzioni moderne, avremmo così a che fare con un unico filo rosso che conduce sino a Marx e a Nietzsche, i due grandi pensatori che minano le fondamenta del mondo cristiano-borghese.
La posizione di Kelsen è di estremo significato. Essa è potentemente anticipatoria e, per così dire, ci fa gettare lo sguardo sul nostro tempo, spesso definito come «post-secolare», intriso di sincretismi e di fedi eteroclite. Kelsen ci guida infatti oltre un’idea di secolarizzazione intesa come rinchiudersi della religione nell’ambito dell’intimità individuale a grande distanza dalla sfera pubblica.
La questione è del massimo rilievo. Non a caso a riprenderla è il massimo filosofo vivente. E’ infatti Jürgen Habermas, in Verbalizzare il sacro, a metterci in guardia, con eccellenti ragioni, dall’idea che la religione possa essere separata dalla sfera pubblica e dalla cultura e consegnata esclusivamente al foro interiore. Un’ipotesi di questa natura, che recide i legami tra religione e cultura, finisce, tra l’altro, per abbandonare la sfera religiosa, paradossalmente, al laicismo e al fondamentalismo insieme. Abbiamo cioè a che fare con contenuti di fede troppo dogmatici per essere interpretabili i quali, pertanto, possono soltanto o essere esclusi dalla sfera pubblica oppure, volendo far valere nella sfera pubblica il proprio presunto contenuto di verità, entrare in conflitto violento gli uni con gli altri. Questo induce a sottolineare, suggerisce Habermas, il significato della presenza della religione nella cultura: le argomentazioni che derivano dalla sfera della fede possono e debbono essere ammesse nello spazio pubblico e nel dialogo politico, trovando qui un’adeguata collocazione, purché la loro formulazione si sorregga su argomentazioni razionali che si sostengono indipendentemente dai presupposti dogmatici sui quali i diversi mondi religiosi si fondano.
* La Stampa TuttoLibri, 27.06.2015
Che cos’è quello che c’è?
Autorevoli studiosi italiani e stranieri affrontano i temi metafisici e ontologici che furono cari al grande pragmatista
di Carola Barbero (Il Sole-24 Ore, Domenica, 21.06.2015)
Nel famoso saggio On what there is del 1948 alla domanda «che cosa c’è?», Willard Van Orman Quine, uno dei padri dell’ontologia contemporanea, rispondeva «tutto», che è un po’ come rispondere alla domanda «chi è?» con «io»; o a «dove sei?» con «qui». Dato che infatti con la parola «tutto» ci riferiamo alla totalità delle cose che esistono, dire «tutto esiste» è equivalente ad affermare l’ovvietà che ciò che esiste, esiste.
Il punto interessante però, come peraltro osservava lo stesso Quine, è capire in base a che cosa possiamo stabilire che qualcosa meriti di essere incluso tra ciò che c’è. Ecco perché «che cosa c’è?» e «che tipi di cose sono quelle che ci sono?», ossia rispettivamente la domanda ontologica e quella metafisica, si caratterizzano come interrogativi rilevanti non solo per molte, o forse tutte, le discipline filosofiche, ma anche per la scienza e per il senso comune.
Per esempio Platone nella Repubblica può muovere la sua condanna all’arte proprio perché il suo inventario ontologico prevede una gerarchia di livelli di realtà ciascuno dei quali dipende, per la sua esistenza, da quello a esso sovraordinato, ed è rispetto a questo meno reale e meno perfetto, costituendone un’imitazione. Al vertice dell’ontologia platonica c’è il mondo delle idee, subito sotto la realtà fisica percepibile con i sensi (che è imitazione del mondo delle idee), e infine, al fondo della gerarchia, c’è il mondo delle opere d’arte che, essendo a loro volta imitazioni della realtà sensibile, risultano confinate al rango di mere copie di copie. Platone può quindi criticare l’arte proprio perché riconosce un particolare statuto ontologico al mondo delle idee.
La concezione di Platone costituisce, secondo i curatori di questo volume, un caso paradigmatico di teorie filosofiche che il «tribunale della ragione» ha oramai definitivamente confinato nella sfera del mito, delle concezioni cioè che non hanno retto alla disamina razionale secondo gli standard di adeguatezza che la ricerca filosofica, in modo a sua volta mutevole nel corso della storia del pensiero, pone a se stessa.
Tuttavia non bisogna pensare che la storia della metafisica e dell’ontologia non sia altro che una carrellata di opinioni, di espressioni che riflettono diverse visioni del mondo, perché invece si caratterizza come un percorso almeno moderatamente progressivo in cui alcune teorie sono (oggettivamente) migliori di altre, in base a standard di volta in volta condivisi.
E oggi quali sono tali standard? Oltre al ricorso ad argomentazioni razionali (ossia conformi a criteri di adeguatezza logica) per suffragare le proprie tesi, svolgono oggi un ruolo regolativo il riferimento alla scienza e al senso comune, non nel senso forte che una teoria metafisica o ontologica debba necessariamente essere conforme ad entrambi, ma in quello più debole che una concezione metafisica che confliggesse tanto con la scienza quanto con il senso comune sarebbe giudicata insoddisfacente. Ed è proprio questo il caso della concezione platonica.
Platone è però in buona compagnia e, più in generale, nei dibattiti in cui su una determinata questione sono difese posizioni opposte, spesso si sentono gli uni accusare gli altri di difendere posizioni poco fondate o dogmatiche. Un nominalista magari accetta solo entità concrete spazio-temporali (come Socrate, poniamo) mentre un platonista non ha difficoltà ad accettare anche entità astratte come le proprietà (come la proprietà di essere un uomo, di essere ateniese, ecc.). Oppure, per spiegare in che cosa consiste il reale, un monista ammetterà solo entità di un certo tipo, per esempio le particelle subatomiche, mentre un pluralista si richiamerà a diverse entità a diversi livelli del reale, quindi a un certo livello avrà oggetti come tavoli e sedie, mentre a un altro livello soltanto atomi e forze). E a ciascuna delle parti l’una contro l’altra armate potrà capitare di accusare l’altra di venir meno ad alcuni degli standard di adeguatezza dell’indagine metafisica, di ricadere dunque dal logos al mythos, di far prevalere sull’argomentazione razionale e/o sul rispetto del senso comune o delle acquisizioni della scienza un ingiustificata inclinazione per una certa concezione del reale.
Methaphysics and Ontology Without Myths si propone di affrontare alcuni dei temi più importanti al centro oggi della discussione in metafisica e ontologia, attraverso i contributi di autorevoli studiosi italiani e stranieri. Si parte dalla annosa questione relativa alla effettiva possibilità di una distinzione netta tra ontologia e metafisica (Bottani), per passare alla presentazione della posizione di Quine e alla sua nota predilezione per i paesaggi desertici (Varzi, Rainone). Poi si prende in esame il dibattito tra realisti e anti-realisti per quanto riguarda il successo delle teorie scientifiche (Alai) e ci si interroga sulla natura degli oggetti matematici criticando alcune posizioni nominalitiche (Plebani). Quindi si valuta la possibilità di una genuina conoscenza metafisica e si spiega come una forma di realismo disposizionale sia particolarmente adatta per garantire la conoscenza delle cose, della loro natura e delle loro proprietà (Tiercelin).
Successivamente si analizza la potenza delle intuizioni negli argomenti contro il principio di indiscernibilità degli identici (Casati e Torrengo) e infine si prendono in esame alcune questioni centrali in quell’ambito dell’ontologia che negli ultimi anni è stato tra i più vivi e produttivi che prende il nome di “ontologia sociale” (Ferraris, Davies, Bojanic, Vaselli).
Si tratta davvero di ottimi esempi di come la metafisica e l’ontologia possano efficacemente resistere alla tentazione di rifugiarsi nel mito, sobbarcandosi la fatica della discussione razionale e facendo di questa l’unica, anche se impervia, strada percorribile per rispondere alle domande «Che cosa c’è?» e «Che cos’è quello che c’è?».
C’è un sapere che precede la scienza
La filosofia riguarda l’esperienza originaria della mente, che non si può ridurre a pura funzione cerebrale
di Emanuele Severino (Corriere della Sera, 26.10.2015)
Sono esistiti ed esistono scienziati con interessi, competenze e attitudini filosofiche rilevanti. D’altra parte non pochi scienziati dicono che in genere i filosofi non conoscono la scienza e che questa loro ignoranza rende inconsistente e superfluo il loro lavoro. E questi scienziati hanno spesso ragione. Ma, per quanto la domanda possa sembrare inutile, che significato ha l’espressione «conoscere la scienza»? Vi sono soprattutto due modi di rispondere.
Fermo restando che ormai nemmeno gli scienziati possono conoscere l’intero contenuto delle proprie discipline, conoscere la scienza - questo, il primo modo di rispondere - significa conoscere per lo meno i metodi secondo i quali essa procede, i principali risultati ai quali è pervenuta, la sua genesi, i suoi rapporti con le altre forme di sapere e con la società, i problemi che sorgono dai rapporti tra le singole discipline scientifiche e all’interno della stessa disciplina. Se è in questo modo che i filosofi non conoscono la scienza, allora è come se essi non conoscessero l’esistenza del cielo, delle stelle, degli animali, delle piante. Non solo non sono filosofi, ma nemmeno uomini.
Ma si può rispondere anche (ed è la risposta che molto spesso gli scienziati si danno) dicendo che ormai la filosofia deve porre alla propria base il sapere scientifico. Questa volta sono gli scienziati a mostrarsi ingenui. Perché questa loro risposta non esprime una prospettiva scientifica, ma filosofica, e ingenuamente filosofica. Quale disciplina scientifica, infatti, contiene la strumentazione concettuale che le consenta di affermare che la filosofia deve porre alla propria base la scienza? Nessuna.
Anzi, accade qui che sia proprio la scienza a porre alla propria base una cattiva filosofia (oggi peraltro adottata da molti filosofi). Sin dal suo inizio, invece, la filosofia intende essere la forma assolutamente radicale del sapere. E per mostrare in che consista il sapere radicalmente incontrovertibile si porta alle spalle di ogni altro sapere (mitico, artistico, economico, politico, tecnico, scientifico) e quindi esclude di porlo alla propria base. Inconsistente e superflua, dunque, è la filosofia che si fonda sulla scienza - giacché se, così fondandosi, non è inconsistente e superflua, allora non è filosofia, ma scienza.
Uno degli aspetti più importanti di quel «portarsi alle spalle» di ogni altro sapere riguarda l’esperienza umana del mondo. Non esisterebbe infatti alcun sapere, quindi nemmeno quello scientifico, se il mondo non fosse manifesto, cioè non si mostrasse, non apparisse: non se ne facesse, appunto, esperienza. Certo, la scienza è una continua critica dell’esperienza. Afferma ad esempio che il sole non si muove, come sembra. Ma è necessario che questo sembrare appaia, perché la scienza possa affermare che è illusorio.
La scienza però non si interessa di quel fondo che è appunto l’esperienza e da cui la scienza pur parte. Su di esso la scienza fa luce con le proprie lampade, tendendo però a dimenticare che sono sempre costruite con materiali che da quel fondo sono tratti. A quel fondo la filosofia si è invece sempre rivolta: per stabilire se, al di là delle apparenze che esso contiene, esso non custodisca in sé anche un nucleo innegabile, incontrovertibile, che stia al fondamento di ogni sapere e di ogni agire. (E qui non dirò nulla sull’esito di questo tentativo, che sin dall’inizio concepisce la manifestazione del mondo come manifestazione della sua caducità).
La filosofia «si porta alle spalle» di ogni sapere e agire dell’uomo anche in uno dei campi oggi più frequentati nel campo della neurofisiologia e dell’intelligenza artificiale: quello del rapporto tra mente e cervello. Carl Sagan, uno dei maggiori astrofisici e astrobiologi del XX secolo (e tra i più importanti consulenti e collaboratori della Nasa), scriveva nel suo libro I draghi dell’Eden: «La mia premessa fondamentale riguardo al cervello è che le sue attività - ciò che talora chiamiamo “mente” - sono una conseguenza della sua anatomia e della sua fisiologia e nulla più». Tesi sottoscritta da una nutrita schiera di scienziati à la Francis Crick o à la Richard Dawkins, ma antichissima (risale alla filosofia greca). Si ricorda che nell’Ottocento era già sostenuta da Emil Du Bois-Reymond - ma si ignora che Giacomo Leopardi aveva scritto: «Che la materia pensi è un fatto», chiarendo il significato di questo asserto in modo da far invidia a scienziati e filosofi.
Ma la «premessa fondamentale riguardo al cervello» di Sagan può essere avanzata dopo aver fatto molta strada. Infatti, come si fa a sapere che esistono cervelli e quelle «attività» «che talora chiamiamo “mente”»? E che quindi esistono corpi in cui i cervelli si trovano e lo spazio dove tali corpi vivono e stanno in rapporto con altre cose? Non si può rispondere che così: si sa che tutto questo esiste, perché appartiene al mondo che si mostra, si manifesta, appare, al mondo che sperimentiamo: all’esperienza.
A questo punto va detto che, per un insieme di motivi che qui non possono esser richiamati, si è prodotto, non solo negli scienziati, una sorta di obnubilamento, per il quale non ci si rende conto che l’esperienza è la forma originaria della mente ed è soltanto sulla base di questa forma che ci si può mettere in cammino per conoscere e agire e dunque per cercare e trovare l’origine della «mente». Chi pensa come Sagan è come se, in pieno giorno, alla luce del sole, tenesse in mano una lampada accesa e, convinto che l’unica luce sia il chiarore diffuso dalla lampada, sostenesse che esso è «conseguenza» dell’«anatomia» e della «fisiologia» della mano che regge la lampada, «e nulla più».
La «mente» di cui si occupa la scienza non è cioè l’esperienza, che include tutto ciò a cui il sapere e l’agire umano possono rivolgersi, ma è soltanto una parte dell’esperienza, ossia della mente originaria che sta alle spalle di ogni ricerca scientifica. E parlando della «scienza» mi riferisco sia gli scienziati «riduzionisti», per i quali la mente non è altro che l’attività del cervello (così come la digestione non è altro che l’attività dello stomaco), sia gli scienziati che invece intendono difendere l’autonomia (o addirittura la «spiritualità») della mente rispetto al cervello e alla materia. Non solo: mi riferisco, oltre che a molte posizioni filosofiche del passato, anche a quella filosofia che ormai si è lasciata convincere della necessità di avere alla propria base il sapere scientifico.
Certo, la parola «esperienza» può essere intesa in modi del tutto inadeguati rispetto a quanto stiamo dicendo. Qui importa ribadire che al fondo della conoscenza e dell’agire non sta semplicemente il mondo, ma la manifestazione del mondo, il suo esser noto; ed è innanzitutto a questa manifestazione e notizia che spetta di esser qualificata come «mente». La quale, peraltro, in qualche modo contiene tutti gli spazi e tutti i tempi - altrimenti come potrebbe la scienza parlare dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande e degli infiniti universi e del big bang e degli stati che avrebbero potuto precederlo? Questa mente è la luce che illumina uno spettacolo immenso, ma alla quale gli uomini non volgono quasi mai lo sguardo, e quando si rivolgono alla propria mente considerano soltanto la dimensione «psichica», che è soltanto una parte dello spettacolo che in quella luce si mostra.
Considerando tale limitata dimensione, lo scienziato «riduzionista» si serve del «principio di causalità»: il cervello è la «causa» e la «mente» è l’«effetto». Il neodarwinismo, che intende la «mente» come effetto di una evoluzione estremamente complessa, ha ridato vigore all’uso di quel principio. Ma la meccanica quantistica (si pensi al «principio di indeterminazione» di Heisenberg - in qualche modo anticipato dalla critica di Hume al preteso valore assoluto del «principio di causalità») mostra che nessuna legge scientifica, quindi nemmeno il «principio di causalità», può avere un valore assoluto: ha un carattere statistico-probabilistico, ossia è una regolarità empirica che si ha avuto modo di constatare, ma che è sempre smentibile.
Che a certe funzioni cerebrali corrispondano certi eventi psichici è pertanto una regolarità empirica che non autorizza ad affermare che il cervello sia la causa della mente. Per di più, in questo suo conferire valore assoluto al «principio di causalità», lo scienziato riduzionista smentisce la propria vocazione (o filosofia) di fondo, che consiste nella volontà di eliminare ogni illusione di sopravvivenza nell’uomo: il corpo umano e il cervello - sostiene - sono destinati alla corruzione e alla morte, e quindi anche la mente, che non è altro che l’attività del cervello. Tuttavia per lo scienziato riduzionista il «principio di causalità» presenta un valore assoluto, è cioè una verità eterna e non qualcosa di corruttibile e di mortale. Ma allora come può accadere che il corruttibile e mortale cervello dell’uomo sia legato alla mente da un vincolo incorruttibile e immortale? Le considerazioni qui sopra svolte non intendono sostenere che quindi la ragione stia dalla parte degli antiriduzionisti. Qui non si tratta di stabilire chi abbia «ragione», ma chi ha maggiore capacità di trasformare la mente e il comportamento dell’uomo conformemente a certi progetti.
L’ontologia è svizzera e vale milioni
Ricerca La scoperta di due studiosi italiani: il termine che indica la «scienza dell’essere in quanto essere» fu coniato non in Germania nel 1613 ma nella Confederazione sette anni prima. E oggi gli elvetici investono in programmi di indagine filosofica nove volte quello che stanzia il nostro Paese
di Giovanni Ventimiglia (Corriere della Sera, La Lettura, 15.05.2016)
L’italiano parlato in Canton Ticino sorprende non poco per la presenza di termini nuovi e del tutto incomprensibili per un italiano. Alcuni esempi: natel per dire «cellulare», tiptop per dire «impeccabile», piccadilly al posto di «autogrill», jacky boy invece di «decespugliatore», rüt (o rutto, sic) per indicare il secchio della spazzatura. Interessante è il caso di azione per dire «offerta speciale» (onde l’esilarante «patate in azione» che una volta mi indusse a immaginare strane patate svizzere semoventi). Il termine deriva dal tedesco Aktion ed è un esempio chiaro di «elvetismo» ossia di lingua tedesca così come essa è parlata in Svizzera.
Suggerisco, prima di abbandonarsi alla canzonatura dei vicini ticinesi, di ascoltare la storia della parola «ontologia», che designa una importante disciplina filosofica. Studi recenti, infatti, hanno dimostrato che si tratta, come le parole appena menzionate, di un «elvetismo», ossia in quel caso del latino parlato in Svizzera agli inizi del XVII secolo. Fino a qualche anno fa, infatti, tutti gli studi e i manuali erano soliti riportare l’informazione secondo cui la prima occorrenza del termine «ontologia» fosse da rinvenire in Germania nel 1613 (precisamente nel Lexicon philosophicum di Rudolph Goclenius pubblicato a Francoforte). Tuttavia, anche grazie ai suggerimenti di Joseph Freedman e Jean-François Courtine, che già avevano individuato una «pista svizzera», gli italiani Raul Corazzon (nel 2005) e Marco Lamanna (nel 2006) hanno fatto una scoperta importante: il termine «ontologia» è nato in Svizzera nel 1606 nel Ginnasio riformato di San Gallo a opera del riformato Jacob Lorhardus (precisamente nel manuale Ogdoas scholastica). Insomma «ontologia» (un grecismo composto da logos, discorso, e ontos, dell’essere) non è termine nato nella Grecia antica e nemmeno in Germania, ma in Svizzera, nel latino parlato da alcuni professori di filosofia.
Il lettore non specialista si chiederà a questo punto giustamente che cosa mai sia questa «ontologia». Si tratta del nome attribuito a una misteriosa «scienza dell’essere in quanto essere» di cui parlava Aristotele nella sua Metafisica: «C’è una scienza che considera l’essere in quanto essere e le proprietà che gli competono in quanto tale. Essa non si identifica con nessuna delle scienze particolari: infatti nessuna delle altre scienze considera l’essere in quanto essere in universale ma, dopo aver delimitato una parte di esso, ciascuna studia le caratteristiche di questa parte». La botanica studia gli esseri vegetali, la zoologia gli esseri animali, la biologia gli esseri viventi, mentre la «scienza dell’essere in quanto essere» studia gli esseri e basta, ossia tutti gli esseri in generale: una disciplina, diciamo, all inclusive.
Ora, che ne è oggi, al tempo del dominio delle scienze e della tecnica, di questa antica forma di sapere? Sarà scomparsa dalla scena della cultura? Nient’affatto. Data per morta nell’Europa «continentale» per diversi anni nel XX secolo, sorprendentemente essa conosce ai nostri giorni, soprattutto nei Paesi di lingua inglese, una rinascita che ha dell’incredibile. Su Amazon i libri che contengono la parola ontology sono a oggi 2.435 e la Oxford University Press ha in catalogo 617 titoli con questa parola. Insomma, piano con la presa in giro degli elvetismi: metti che tiptop diventa fra qualche anno famoso in tutto il mondo, mentre «impeccabile» cade nel dimenticatoio!
Perché mai, tuttavia, in Svizzera si sentì a un certo punto l’esigenza di coniare un termine nuovo, visto che per designare quella disciplina esisteva già da secoli la parola «metafisica»? Il fatto è che, fin dai tempi di Aristotele, e poi nei secoli appresso, il termine «metafisica» veniva utilizzato nello stesso tempo per indicare sia la scienza all inclusive che studia tutti gli esseri in universale sia quella che indaga la causa prima di tutti gli esseri, ossia Dio.
Ora, nell’ordinatissima Svizzera questa ambivalenza, suscettibile di generare una certa confusione, dovette sembrare fuori luogo, sicché si decise di designare con il neologismo «ontologia» la scienza che si occupa di tutti gli esseri (attuali o anche solo pensabili). Questa scelta a sua volta porterà in seguito a riservare il termine «metafisica» perlopiù a quella scienza, più teologica, che tratta della Causa prima degli esseri.
La domanda di fondo che tutti si pongono da allora, legittimamente, è però questa: ma se l’«ontologia» non si occupa più delle realtà che stanno al di là di quelle fisiche, come avviene anche ai nostri giorni, in che cosa si distingue dalla «fisica»? Non sarebbe l’ontologia, alla fin fine, una specie di fisica di serie B, meno affidabile e più aleatoria? A questa obiezione si deve rispondere in due modi. Anzitutto: è proprio vero che le uniche realtà non fisiche siano quelle divine? E le idee, gli ideali, i valori, i numeri, dove li mettiamo? E quale scienza si occupa di queste cose e, insieme, di quelle fisiche? In secondo luogo: quando non si limita a misurare e fare esperimenti, ma utilizza termini come «materia», «funzione», «causa», «esistenza», «elemento» e simili, la fisica non sta forse utilizzando di fatto termini filosofici senza essersi data la briga di definirli con precisione?
Insomma la fisica presuppone sempre un’ontologia (o «meta-fisica») e spesso lo fa in modo inconsapevole. Non è dunque l’ontologia a essere una scienza aleatoria, è la fisica a essere una filosofia un po’ incosciente. O forse si dovrebbe dire meglio: quando non dialoga con la fisica, l’ontologia rischia di essere una fisica aleatoria; e d’altra parte, quando non dialoga con l’ontologia, la fisica rischia di essere un’ontologia incosciente.
Sarà - obietterà l’immancabile uomo-con-i-piedi-per-terra - ma mentre la fisica conosce applicazioni utilissime nella vita concreta, questa osannata «ontologia» alla fin fine a che cosa serve? A niente, si deve rispondere. E meno male. Se «utile» è solo ciò che risponde ai bisogni primari, come mangiare, bere e accoppiarsi, allora l’ontologia rivendica orgogliosamente la sua inutilità. D’altra parte inutili sono anche le poesie d’amore dedicate a donne impossibili (o addirittura già morte) o la letteratura, che si abbandona a narrazioni inventate, o ancora la musica e la pittura.
Eppure, per distinguere i resti di una scimmia da quelli di un essere umano, gli scienziati vanno alla ricerca di disegni rupestri: se vi sono tracce di attività oziose e inutili, come la pittura, si può star certi che si tratta di esseri umani. Perché l’uomo si distingue dagli animali proprio perché fa cose inutili. Per questo, un Paese che investe in ricerca anche nell’ambito delle discipline umanistiche inutili è un Paese che investe in umanità. Lo ha fatto di recente il Fondo nazionale svizzero per la ricerca, finanziando due giovani eccellenti ricercatori, italiani, ennesimi cervelli in fuga, di cui uno è di nuovo l’ottimo Marco Lamanna, per un progetto di ricerca sulla nascita dell’ontologia in Svizzera nell’età della Riforma. Cifra stanziata dopo durissima selezione competitiva: mezzo milione di franchi (poco meno di mezzo milione di euro). D’altra parte la Svizzera finanzia ogni anno progetti di ricerca in filosofia di giovani ricercatori per circa 20 milioni di franchi (circa 18 milioni di euro) mentre in Italia siamo a circa un nono di questa cifra (senza contare che la Svizzera conta 8 milioni di abitanti mentre l’Italia 60).
Forse il Paese del cioccolato e degli orologi è più consapevole dell’Italia - che pure ha dato i natali al padre dell’ontologia, ossia a Parmenide! - di quello che Aristotele scriveva nella Metafisica: «Tutte le altre scienze saranno più necessarie di questa ma nessuna le sarà superiore». Forse, infine, quel piccolo Paese che molti italiani guardano dall’alto della loro immensa storia culturale non ha dimenticato, come ha fatto l’Italia, il valore di una scienza che è espressione della capacità, squisitamente umana, di pensare il tutto: «Con lo spazio - scriveva Pascal - l’universo mi contiene e m’inghiotte come un punto, con il pensiero lo contengo io».
Stranieri alla deriva senza voce né diritti l’ultima sfida dell’Occidente
I migranti sono la cicatrice più profonda della globalizzazione: non li trattiamo come cittadini e, alla fine, nemmeno come uomini
di Julia Kristeva (la Repubblica, 17.06.2015)
DIRITTI dell’uomo o diritti del cittadino? Questa discordanza, di cui Hannah Arendt ha tracciato la genealogia, ma anche la degenerazione (la degenerazione che ha dato luogo al totalitarismo), compare con evidenza quando le società moderne affrontano il “problema degli stranieri”. La difficoltà che genera questa questione sarebbe racchiusa interamente nel vicolo cieco della distinzione che separa uomo e cittadino: non è forse vero che per stabilire i diritti che spettano agli uomini di una civiltà o di una nazione, anche la più ragionevole e la più consapevolmente democratica, si è obbligati a escludere da tali diritti i non cittadini, ovvero altri uomini?
Questo modo di procedere significa - è la sua estrema conseguenza - che si può essere più o meno uomini a seconda che si sia più o meno cittadini, significa che chi non è cittadino non è interamente un uomo. Fra l’uomo e il cittadino, una cicatrice: lo straniero. È interamente un uomo se non è cittadino? Non godendo dei diritti di cittadinanza, possiede i suoi diritti d’uomo? Se, consapevolmente, accordiamo agli stranieri tutti i diritti degli uomini, che cosa ne resta in concreto quando togliamo loro i diritti del cittadino?
Nella situazione attuale di mescolanza senza precedenti di stranieri sul pianeta, due soluzioni estreme si profilano: o si andrà verso degli Stati Uniti mondiali di tutti i vecchi Stati- nazione (processo immaginabile nel lungo periodo e che lo sviluppo economico, scientifico, mediatico lascia presumere), oppure il cosmopolitismo umanista si rivelerà un’utopia, e le aspirazioni particolaristiche imporranno la convinzione che i piccoli insiemi politici sono le strutture ottimali per la sopravvivenza dell’umanità.
Nella prima ipotesi, la cittadinanza è chiamata a integrarsi il più possibile nei diritti dell’uomo e a dissolversi in essi, perché assimilando gli ex stranieri i cittadini nazionali perderebbero necessariamente molti dei caratteri e dei privilegi che li definiscono in quanto tali. Altre differenze si formerebbero, probabilmente, dando luogo al caleidoscopio multinazionale degli Stati Uniti mondiali: differenze sessuali, professionali, religiose ecc.
Al contrario, se gli Stati-nazione dovessero sopravvivere ancora a lungo, come la difesa accanita dei loro interessi in questo momento pare indicare, lo squilibrio fra diritti dell’uomo e diritti del cittadino creerebbe degli equilibri più o meno sottili o brutali. Diventerebbe allora necessario creare uno statuto degli stranieri che tuteli dai reciproci abusi, precisando i diritti e i doveri delle due parti. Questo statuto dovrebbe essere provvisorio, evolutivo e adattarsi ai cambiamenti dei bisogni sociali e delle mentalità.
Quali che siano le differenze tra un paese e l’altro, si può generalizzare dicendo che nelle democrazie moderne gli stranieri sono esclusi da un certo numero di diritti. Prendiamo lo spinoso problema dell’esclusione degli stranieri dal diritto di voto. Gli argomenti delle due parti sono ben noti: «Gli stranieri in definitiva restano fedeli al loro paese d’origine e possono nuocere alla nostra indipendenza nazionale», dicono gli uni. «Gli stranieri costruiscono insieme a noi la nostra indipendenza economica, e pertanto devono godere dei diritti politici che conferiscono il potere di decisione», replicano gli altri.
Quale che sia la tesi che finirà per prevalere, possiamo osservare, come ritengono alcuni giuristi, che «in questo modo lo straniero è ridotto a un oggetto passivo»: gli stranieri non votano e non partecipano, né allo Stato, né al parlamento, né al governo, sono «alienati rispetto all’ordine giuridico, così come all’ordine politico e all’insieme delle istituzioni della società in cui vivono». A questo si deve aggiungere il fatto che l’Amministrazione ha il potere di interpretare, vale a dire modificare attraverso regolamenti e decreti, la giurisdizione esistente, cosa che può portare a fare del diritto degli stranieri un «diritto al ribasso».
Dopodiché nuovi stranieri inquietano ormai la globalizzazione: le rivendicazioni dei diritti spesso degenerano in vandalismo, o addirittura in gangster- integralismo e fanatismo che seminano morte. “Nuovi” perché agiscono, nel contesto di un risveglio della spiritualità, in nome di una spinta verso l’assoluto trasformata in quella che bisogna definire non più un’”idealità” (divina o universalista secolarizzata), ma una “malattia di idealità”. “Nuovi” perché in risonanza con i conflitti in Medio Oriente. E perché mettono in discussione il modello della secolarizzazione e della laicità.
Gli ideali stessi scompaiono, spazzati via dalla più pulsionale delle pulsioni, la pulsione alla morte, colpendo in profondità il motore della civiltà, mettendo in evidenza la distruzione del “bisogno di credere” prereligioso. Scopriamo che fra questi nuovi stranieri, alcune persone - in particolare adolescenti - soccombono alla malattia dell’idealità. Esplodono letteralmente, incapaci di distinguere il dentro e il fuori, il sé e l’altro. La pulsione alla morte riassorbe la vita psichica: senza il sé e senza l’altro, né “io” né “tu”, “noi” sprofondiamo nella distruttività cieca e autodistruttrice.
Le democrazie si trovano davanti a una sfida storica: sono in grado di affrontare questa crisi del bisogno di credere e del desiderio di sapere che il coperchio della religione non tiene più a freno, e che va a toccare il fondamento del legame fra esseri umani stranieri? L’angoscia che ci inchioda in questi tempi di eccessi con crisi economica e sociale sullo sfondo esprime la nostra incertezza davanti a questa posta in gioco colossale.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Diventare adulti
Obbedire o ribellarsi?
di Francesca Rigotti (Il Sole-24 Ore - Domenica, 14.06.2015)
Nel 1784 Immanuel Kant pubblicò un opuscolo dal titolo Was ist Aufklärung? destinato a diventare il manifesto della ragione illuminata. È un’esortazione all’uso della propria intelligenza, un elogio del rischiaramento dei nuovi tempi, un inno al coraggio e all’azione. Tale «rischiaramento» coincide con l’uscita dalla autocolpevole minorità, che viene premiata col passaggio alla condizione di adulto caratterizzata da libertà, autonomia e indipendenza soprattutto economica.
Da questa particolare uscita prende le mosse Curi, nella sua personale e originale ricognizione del transito alla maggiorità quale processo mai concluso ma che si rinnova, si potrebbe dire, ogni giorno. Per assumere la nuova postura priva di sostegni e abbandonare il girello per bambini di cui parla Kant occorre «osare sapere», ovvero rapportarsi al padre. (Ben consapevole del carattere sessista del linguaggio, Curi lo demolisce subito chiarendo fin dalle primissime pagine che non terrà conto della distinzione di sesso).
Si esce dalla minorità disobbedendo al padre o uccidendolo, commettendo dunque parricidio, come farà Edipo, colui che risolve l’enigma dei piedi perché ha il piede nel nome. La nostra tradizione è ricca di eroi giovani che instaurano il nuovo ordine distruggendo il vecchio, e ricavano da questo atto la legittimità del pensare con la propria testa e agire di propria iniziativa. La faccenda sembra lineare, la soluzione univoca. Si uccide il padre e si eredita il regno, vedi, con le varianti del caso, Amleto, o il Prigaioniero de I Fratelli Karamazov.
Ma con Curi le cose non sono mai semplici e lineari e soprattutto non univoche, perché è proprio Curi che da tempo ci ripete che la condizione dell’essere umano è di essere uno e molti, di avere i tanti piedi di cui parla l’indovinello della Sfinge. E infatti, ecco che il passaggio alla maggiorità segue un altro modello, antitetico al primo: non la ribellione ma l’obbedienza al padre. L’obbedienza di Abramo, Gesù, Francesco d’Assisi, Giovanni della Croce. Obbedienze attive condotte in piedi guardando in faccia il padre con amore. Eppure nemmeno questa è la soluzione, dal momento che la porta di Curi rimane, per quanto stretta, sempre aperta. Anche davanti a chi a uscire dalla minorità non ci pensa nemmeno; è il caso di Bartleby, lo scrivano del racconto di Melville, che alla proposta di modificare la sua banale mansione, risponde pacatamente: «Preferirei di no», affermando la sua libertà di non obbedire né uccidere.
Tutti kantiani, anche a nostra insaputa
Il filosofo umiliò la ragione, ma solo per salvarla e liberarla: perché siamo noi a dar forma al mondo (senza crearlo)
di Donatella DI Cesare (Corriere della Sera - La Lettura, 14.06.2015)
Si apre in Germania la «decade kantiana». Durerà fino al 22 aprile 2024, data in cui ricorre l’anniversario della nascita del grande filosofo di Königsberg (1724-1804). Numerosissime sono le iniziative previste in tutto il mondo. È andato infatti crescendo ovunque l’interesse per il suo pensiero, anche nelle università cinesi. Grazie all’Accademia delle Scienze di Berlino dovrebbe, fra l’altro, essere portata a termine l’edizione critica di tutta l’opera postuma. Per la prima volta si è mobilitato anche il mondo della politica, che promuoverà dibattiti e convegni.
Ma che cosa resta di Immanuel Kant a quasi trecento anni dalla nascita? Occorrerebbe congedarsi una volta per tutte dalle sue idee? Perché la sua «rivoluzione copernicana» divide ancora i filosofi? E che cosa ne è oggi della riflessione sulla «pace perpetua»?
Fu durante la consueta passeggiata per le vie di Königsberg che un giorno, distratto dalle speculazioni metafisiche, gli venne in mente il progetto del suo capolavoro: la Critica della ragion pura. Per anni si dedicò alla scrittura con quella costanza ossessiva e quella dedizione quasi maniacale così rispondenti ai ritmi ferrei della sua vita quotidiana. Quando l’opera uscì - nel 1781 - fu una rivoluzione per la filosofia.
Il nome di Kant non indica solo un’epoca, segna uno spartiacque nella storia del pensiero. C’è un prima e un dopo Kant. Pur senza saperlo, siamo tutti kantiani. Anzitutto perché leggiamo la filosofia, o meglio, la metafisica precedente, da Aristotele a Cartesio, già avvertiti e messi in guardia dalla critica implacabile di Kant. È possibile discettare sull’esistenza di Dio, sull’immortalità dell’anima, insomma su tutto quel che va al di là della nostra esperienza? O non si tratta di vacue visioni, castelli in aria, contrabbandati per filosofia?
Kant comprese quel che stava accadendo nel suo secolo. Mentre i suoi colleghi si arrovellavano intorno a illusorie costruzioni, e si compiacevano di sterili analisi, le scienze sperimentali, saldamente ancorate all’esperienza, avevano raggiunto risultati epocali. Al punto che, non solo si erano emancipate dalla filosofia, ma l’avevano lasciata in una posizione di retroguardia. Cominciò, anzi, a diffondersi scetticismo, se non ostilità: a che cosa avrebbe mai dovuto servire la filosofia? Se non voleva trasformarsi in scienza sperimentale, era destinata a restare nella ridondanza analitica. Da un canto, dunque, il torpido sonno dei dogmatici, dall’altro il borioso trionfo del sapere sperimentale. L’avvenire della filosofia sembrava ormai pregiudicato.
Non sarà un caso che Heinrich Heine, forse esagerando, abbia chiamato Kant il Robespierre della filosofia. Ma il tribunale istituito dal mite professore di Königsberg era quello dove aveva deciso di chiamare in causa la ragione. Si trattò, certo, di una circostanza tragica. Kant parlò di un «malinteso» della ragione con se stessa: quando abbandonava l’esperienza, avventurandosi nella metafisica, la ragione si ingannava, finiva per credere che fossero realtà le proprie chimere. Il tribunale di Kant dichiarò illegittime, una volta per tutte, le pretese della ragione umana incapace di accettare i propri limiti. Il processo alla ragione non fu allora del tutto tragico, perché Kant riuscì, anzi, a rilanciare la filosofia. Ne ridisegnò, però, i confini; richiamò i filosofi alla modestia, li rinviò al senso comune. Solo su quel fondamento avrebbero potuto costruire un solido edificio.
Quell’ascesi del limite, a cui aveva improntato la sua esistenza, schiva e austera, diventò un modello filosofico. Se umiliò la ragione, fu solo per evitare che inseguisse ancora il sogno metafisico di un sapere totalizzante. La ragione umana doveva finalmente riconoscere di essere finita.
Questa grande lezione di Kant ebbe enormi ripercussioni. La più celebre è forse la rivoluzione copernicana nella conoscenza. Crediamo che sia il mondo a ruotare intorno a noi, che lo contempliamo immobili per scoprirne il segreto ordinamento; invece siamo noi, con il nostro moto ordinatore, a dar forma al mondo. Il che non vuol dire che il pensiero crei il mondo - come alcuni vogliono fraintendere. Kant non nega che il mondo abbia la sua realtà. Dice solo che noi non possiamo conoscerla in sé, nella sua interezza. Perché questa sarebbe di nuovo una presunzione metafisica. Conosciamo le cose solo attraverso i nostri schemi e solo nel modo in cui ci appaiono, in cui sono per noi.
Se la ragione deve ammettere i propri limiti, già nell’ambito della conoscenza, allora non è astratta, ma è situata nel tempo. Ecco che per la prima volta, nella sua storia, la ragione umana si accorge di avere una storia. È questa idea sovversiva di una ragione storica, cioè esposta all’errore, consegnata all’erranza, a inaugurare la modernità. Cartesio aveva preteso di dare inizio a una nuova epoca con il suo dubbio metodico; ma a ben guardare aspirava ancora a una filosofia perenne, definitiva, in grado di ergersi oltre il tempo e oltre la storia. Un abisso lo separa perciò da Kant che, con audacia senza precedenti, riconosce invece il carattere storico della propria riflessione. In tal senso Kant è il nome della nostra modernità.
« Sapere aude ! - abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza!». In questo motto Kant sintetizza la sua epoca. Ma il suo saggio Che cos’è l’Illuminismo? non è solo il tentativo di delineare filosoficamente il proprio secolo. Come ha sottolineato Michel Foucault, è la prima riflessione critica sul proprio presente, è quella che, nella filosofia contemporanea, si chiama una «ontologia dell’attualità». Che cosa accade oggi? E che cos’è questo oggi, in cui siamo immersi, rispetto alle altre epoche, passate e future? Sta qui la preoccupazione della modernità.
Mentre la filosofia si immerge nel vortice della storia, e nei suoi avvincenti interrogativi, la ragione umana, rinviata al proprio limite, scopre la sua destinazione morale, guarda alla sua vocazione cosmopolitica. L’agire assume un rilievo che prima non aveva. Sarà allora la ragione pratica a guidare ogni essere libero, chiamato a rispondere di sé e delle proprie azioni. Con la rivoluzione di Kant l’etica diventa filosofia prima.
Non ci sembra oggi irrealizzabile il suo imperativo categorico? L’obbligo di agire in modo che la propria azione sia d’esempio, divenga anzi legge universale, è incondizionato, irriducibile, non può essere piegato a nessun calcolo. Perché ne va dell’umanità. Agire moralmente significa trattare l’umanità propria e quella altrui sempre come fine, mai come mezzo. Servirsi dell’altro come strumento vuol dire asservire anche se stessi, mancare quell’attimo in cui, con il rispetto dell’umano, irrompe la libertà. Non è un caso che Kant sia stato il pioniere dei diritti umani, che abbia delineato un ordinamento cosmopolitico, imperniato sull’ospitalità, e con il celebre saggio Per la pace perpetua abbia lanciato un monito volutamente ambiguo: se una «società delle nazioni» non avesse amministrato la pace tra gli Stati, a prevalere sarebbe stata una pace ben diversa, quella eterna della morte.
In un mondo segnato da due guerre mondiali e dai genocidi di massa, dominato dalle armi nucleari, attraversato da conflitti diffusi e imponderabili, il limpido universo di Kant, retto da una ferma fiducia nel progresso, appare incommensurabilmente lontano. Non si può rievocare, senza una inquieta nostalgia, il cielo stellato a cui il filosofo guardava con ammirazione. D’altronde la sua Königsberg non esiste più. Fu cancellata in pochi giorni, nella primavera del 1945; oggi si chiama Kaliningrad e non fa parte della Germania. Eppure Königsberg resta un luogo irrinunciabile della filosofia.
Le riflessioni di Kant sono pietre miliari, le sue idee sono insieme richiami e promesse all’umanità, da cui è impossibile retrocedere. Dopo Kant nulla è più stato come prima. Il congedo dalla metafisica resta il grande tema della filosofia contemporanea. E se c’è chi si fa tentare dall’illusione di conoscere la realtà in sé, c’è invece chi ha radicalizzato la sua critica, mostrando che la ragione è sempre già impura, perché non può fare a meno del linguaggio, anzi delle lingue, e perciò è estranea a se stessa, segnata dall’alterità, consegnata all’altro. Da Hannah Arendt a Emmanuel Lévinas: non si comprenderebbe, nella filosofia degli ultimi decenni, il primato dell’agire etico senza Kant. La sua rivoluzione non è ancora compiuta.
Grecia
Il volto oscuro di un Paese in affanno
Bustarelle per il medico e record di suicidi
Theodoros Giannaros, direttore di ospedale: mi vergogno di essere europeo
di Giuseppe Sarcina (Corriere della Sera, 11.06.2015)
DAL NOSTRO INVIATO ATENE Theodoros Giannaros tiene gli occhi fissi sul computer e una sigaretta tra le dita. Guarda le immagini di alberi, di spiagge. È talmente assorto da non accorgersi che la cenere sta coprendo la tastiera. Compare l’immagine di un giovane. Bello, sorridente. «È mio figlio, si è tolto la vita pochi giorni fa. Aveva 26 anni. Quando l’ho saputo non sono riuscito a fare altro che questo video».
Atene, Ospedale Elpis: un complesso di palazzine bianche nel centro della città. È un giorno festivo, ma il dottor Giannaros si fa trovare nel suo ufficetto di direttore. Siede lì dal 2010. È un biologo molecolare, specializzato in genetica. Ha studiato a Karlsruhe, in Germania, a San Francisco e a Vienna. Da anni è un punto di riferimento assoluto per tutta la Grecia. Quando interviene sui giornali o in tv nessuno si permette di contraddirlo.
Fruga ancora nel pacchetto di nazionali, tira fuori l’ennesima sigaretta e un’altra sassata: «Mio figlio è solo l’ultimo di una lista interminabile. Da quando è iniziata la crisi in questo Paese si sono suicidate 10 mila persone. Sì ha capito bene: 10 mila. È come se una grande città fosse stata cancellata dalla carta geografica della Nazione».
Giannaros ha un passato nelle truppe speciali: mostra le foto delle sue ultime missioni, in mimetica, immerso in un fiume fino alle ginocchia. È come se avesse bisogno di una pausa, vuole raccontare ancora qualcosa della sua famiglia, degli altri due figli, 24 e 28 anni. «Anche il più piccolo è un soldato». Lo dice con un sottinteso chiaro: lui si è salvato. Ma quanti sono i giovani senza speranza? Le statistiche si afflosciano come svuotate di senso al cospetto della forza, della dignità di quest’uomo. «Appena arrivato qui incontravo pazienti che mi chiedevano: ma quanto devo pagare per operarmi qui? Quanto per una lastra? Nulla, rispondevo, questo è un ospedale pubblico. Poi mi sono fatto portare il registro delle prenotazioni e ho capito. La lista d’attesa risultava sempre infinita, ma con una buona “fakelaki” si poteva comodamente saltare la fila». “Fakelaki”, la bustarella. «In cortile ho fatto mettere dei cartelli con una busta sbarrata con una grande x rossa. Significa che qui non si accettano tangenti».
Le parole del più atipico dei manager conducono nell’antro della crisi. I ragionamenti sulla sostenibilità del debito lasciano il posto alla scarsità di siringhe, bisturi, persino guanti per la sala operatoria. «Abbiamo sviluppato un network di scambi tra le diverse cliniche. Andiamo avanti anche grazie a donazioni in arrivo dalla Svizzera, dall’Austria, dalla Germania». Theodoros accende un’altra sigaretta. Aspira profondamente, poi scarica fumo e una lunga invettiva. Contro le vecchie classi politiche, le dieci famiglie che hanno monopolizzato l’economia del Paese, le «idiote» prescrizioni della «troika», il Fondo monetario, la Bce, la Commissione europea, Angela Merkel. Spera che Alexis Tsipras possa raggiungere qualche risultato, «ma deve avere dietro tutti i partiti, tutta la Grecia. Questo è l’unico modo che abbiamo per sopravvivere». Già, «sopravvivere». «Penso continuamente a quei 10 mila morti che abbiamo seppellito nel silenzio. Penso a mio figlio. E penso che se in Germania un cane muore in malo modo, ecco che il caso finisce sui giornali, se ne dibatte in tv. Ma avete mai sentito parlare dei nostri giovani, dei nostri anziani che si sono suicidati? La guerra civile della Jugoslavia ha fatto 20 mila morti. Quella, però, era una guerra. Che cos’è, invece, questa nostra strage? È una domanda a cui non so rispondere, posso solo dire che in questo momento mi vergogno di essere un europeo».
Forse è arrivato il momento di andare. Ma Theodoros ha ancora qualcosa da dire: «In questi anni sono stato corteggiato da tutti i partiti, avrei potuto fare il ministro cento volte. Invece ho sempre voluto restare un uomo libero e mi sono fatto un mare di nemici. Continuo a stare qui, a lavorare per 1.400 euro al mese, cinque volte meno di qualche anno fa. Non posso permettermi la macchina, viaggio in scooter e giro con una pistola. Prima che mio figlio se ne andasse così, mi sentivo anche un privilegiato».
Da Socrate a Nash. La matematica della bontà
La teoria dei giochi fornisce una base scientifica all’intellettualismo etico del filosofo ateniese, dimostrando il primato della ragione cooperativa
di Franca D’Agostini (La Stampa, 01.06.2015)
La morte del grande matematico americano John Nash dovrebbe stimolare una riflessione più allargata sul significato filosofico del famoso «equilibrio di Nash». Gli sviluppi della teoria dei giochi sulla base della scoperta dell’equilibrio in questione hanno avuto una sempre più pronunciata accentuazione etica, anzitutto a partire da Amartya Sen, e hanno portato a trasformazioni profonde nella concezione della «razionalità collettiva», come spiega Paul Weirich in Collective Rationality (Oxford University Press).
Ma l’aspetto più interessante dal punto di vista filosofico è che le conseguenze della teoria costituiscono una dimostrazione inaspettata di quel che in filosofia è stato chiamato intellettualismo etico, o anche utilitarismo socratico. Si tratta, in breve, dell’implicazione da intelligenza a bontà, vale a dire: chi è intelligente è buono. Il che non vuol dire che chi è buono è intelligente, o, peggio, che solo gli intelligenti sono buoni, ma piuttosto che chi non è buono non è intelligente, non sa o non ha capito qualcosa. In altri termini: il malvagio intelligente non esiste, è un’assurdità logica e pratica.
Il dilemma del prigioniero
Il risultato sorprendente della teoria dei giochi è che la tesi socratica (di solito liquidata sbrigativamente come una insensatezza intellettualistica) viene confermata a livello matematico. Il dilemma del prigioniero, il grande paradigma della choice theory di cui Nash è stato maestro, prevede (in una delle moltissime versioni) che vi siano due prigionieri sottoposti alla scelta se confessare o non confessare: se entrambi confessano tradendo il proprio compagno, sconteranno entrambi tre anni di prigione; se confessa solo uno dei due, il traditore sconterà un anno e l’altro quattro; se entrambi non confessano, ne sconteranno solo due. Dal punto di vista dell’immediato interesse individuale, conviene tradire (nella peggiore delle ipotesi si scontano tre anni, nella migliore solo uno). Dunque entrambi i prigionieri confesseranno, realizzando così il celebre «equilibrio». Però in questo modo i due prigionieri saranno inchiodati alla soluzione mediocre tre-tre, mentre le opzioni migliori (solo un anno, solo due) verranno a priori scartate. Da un punto di vista più ampio e più raffinato, è chiaro che non confessare è la scelta migliore, e se i prigionieri se ne rendessero conto, dovrebbero adottarla.
L’interesse dell’altro come parte del proprio
Il dilemma ha dunque una semplice soluzione, che può essere così espressa: tutti, ragionando nei termini del proprio esclusivo interesse, ottengono un benessere mediocre, e inferiore a quello che otterrebbero se tenessero conto degli interessi degli altri e della collettività. La società che si forma a partire dall’interesse personale non è economicamente «ottima» (nel senso di Pareto). La società ottimale si modella invece sul «principio di cooperazione», che ci dice di prendere decisioni sulla base dell’intersezione dell’utile proprio e altrui. Amartya Sen ha mostrato che proprio questa era l’intuizione di Adam Smith. Assumendo l’interesse dell’altro come parte del proprio, l’ottimo è a portata di mano: la società e gli individui diventano economicamente felici.
Naturalmente il discorso non si ferma qui, e ci sono rischi e perdite nel primato della cooperazione. Ma l’idea di base è semplice: i fallimenti della cooperazione nei giochi sociali (siano o meno apertamente giochi «di coalizione») sono dovuti a un difetto di joint rationality, come dice Weirich. Chi è malvagio non può, matematicamente, essere intelligente.
È evidente allora il legame con il socratismo. Socrate (per quel che ne sappiamo) dimostrava la scarsa moralità dei sofisti, la loro scarsa considerazione del bene e della «cura della propria anima», ma dimostrava anche (e ciò viene di solito dimenticato) il loro scarso acume dialettico. Si dimostrava dunque l’idea del primato intellettuale del bene: un’idea intorno a cui gira tutta la tradizione filosofica (e che è tra l’altro l’idea di base delle imprese che chiamiamo scienza, giustizia, politica), ma che viene spesso dimenticata, o tradita.
Un calcolo che diventa benessere collettivo
Se ricordiamo quanto spesso figurano le espressioni «intelligenza diabolica», o «genio del male» nella nostra lingua, ci accorgiamo che non siamo affatto inclini ad accettare il principio socratico. Se ricordiamo che la nozione di razionalità è stata correlata sistematicamente alla nozione di pensiero strumentale - vale a dire: «è razionale chi agisce in funzione del proprio esclusivo interesse» -, siamo pronti a registrare la sfortuna del socratismo, il suo svilimento all’esortazione dell’anima bella, che dice «siate buoni» solo per essere giudicata buona essa stessa. Ma l’intellettualismo etico non è questo. È invece il fondato collegarsi degli interessi degli individui all’interesse della collettività. Non è l’altruismo narcisista di cui ci parla Nietzsche, ma un livello superiore di calcolo, un calcolo che diventa benessere collettivo.
L’analisi di Nash ha fornito lo sfondo matematico alla teoria, confermando che Socrate non aveva torto. Ma ha fatto anche un passo in più. Sappiamo infatti che Socrate dimostrava l’errore dei sofisti, ma solo per via negativa; confutava cioè la ragione strumentale, ma non dimostrava il primato della ragione cooperativa. Il principio di Nash dimostra l’argomento positivo: che la razionalità cooperativa ha un oggettivo primato, e la moralità non è per nulla un affare di emozioni, o di opinioni.
Come Elisabetta I d’Inghilterra inventò la rappresentazione della politica al femminile
di Nadia Fusini (la Repubblica, 28.05.2015)
NELLA storia e nel mito, nella realtà e nella leggenda, le donne sono state sovrane, hanno stretto nelle loro mani i simboli del potere. Ma hanno inventato un nuovo gesto? Una donna al comando si ispira a modelli diversi rispetto a un uomo? E oggi che alle donne sono aperti i luoghi del potere, le donne che vi giungono sanno di portare con sé una differenza, non singolare, ma di genere? Elisabetta I Tudor lo sa. Lo dimostra nel modo della costruzione del suo corpo simbolico, come ad esempio nel “ritratto dell’Armada”, in cui si celebra il trionfo sulla Spagna.
Quando dall’alto della costa dell’Essex, a Tilbury, Elisabetta vide la possente e magnifica flotta di Filippo II veleggiare in mare aperto, pronta a perpetrare quello che nella sua esaltazione della verginità, lei viveva come uno stupro, ebbe paura, forse. Però era lì, rivestita di una posticcia armatura guerresca, a cavallo di un bianco destriero.
Elisabetta era venuta tra il suo popolo in armi; senza esitazione s’era lanciata nel campo di battaglia, sito privilegiato della storia patriarcale. Come il padre Enrico VIII anni prima aveva assicurato al Parlamento che avrebbe in ogni cosa “messo in gioco” la sua persona, allo stesso modo Elisabetta ora è pronta a rischiare “il sangue regale”. Non nasconde la sua differenza, anzi, la denuncia: «so di avere un corpo di donna fragile e delicato», poi fa una pausa, di indubbia efficacia retorica, e aggiunge: «ma ho lo stomaco e il cuore di un re, e di un re d’Inghilterra ». Nomina due organi, il cuore, sede del coraggio, e lo stomaco, e cioè la pancia, come se lì si collocasse la capacità biologica, neutra - una potenza d’organo, capace di digerire e tenere fronte agli eventi. Non dice “grembo”, termine più femminile per indicare l’addome; dice appunto “stomaco”, che è assai virile.
Quand’ecco che un uragano arruffa le onde, e quelle tramutano in pareti d’acqua, che inghiottono i sontuosi vascelli. Si leva una tempesta - propizia per la sua causa e per il suo popolo, e l’Invincibile Armata sparisce tra i flutti. È la conferma del credo che nessuno mai potrà violare il corpo dell’isola, né quello della regina, che si fondono nella stessa iniziale, la Edi Elizabeth valendo come la E iniziale di England - lettera che la regina ha fatto miniare con lo stesso identico ricamo sulle sue vesti.
Come altrimenti interpretare la provvidenziale tempesta, se non come la prova provata dell’impenetrabilità dell’isola? È un fatto che se all’immagine dell’isola Elisabetta ha sempre associato un’idea di purezza, di non contaminazione, di perfetto e assoluto controllo dei confini, dopo Tilbury il motivo diventerà un tema profondo della sua regalità, una immagine sacra, quasi un ta- lismano magico.
Elisabetta diventa nell’immaginazione popolare la stessa cosa della terra su cui regna, l’isola impenetrabile che il mare difende, quasi fosse un vallo, dall’invidia delle nazioni meno felici, perché “non elette”. Così recita la propaganda, e la parola fa da spia all’orgoglio della fede riformata, che si rappresenta in Elisabetta Rex.
Se nei ritratti, nelle medaglie, nelle incisioni volte a diffondere all’epoca la fede nella efficacia del simbolo regale, la magnificenza del padre Enrico VIII è esaltata nella potenza muscolare del maschio; se, come nel celebre ritratto di Holbein, il diritto di Enrico a regnare è confermato dalla virilità della gonfia brachetta, il diritto di Elisabetta sempre più si confonde con la sua sessualità mistica, verginale. Al posto della gonfia brachetta, il ritratto dell’Armada esibisce una perla gigantesca. Alla base del triangolo che dal seno e dalla vita scende sul grembo, lo sguardo è condotto sulla perla della regina. Le perle sono dappertutto; chiudono la veste, stringono il corpetto, decorano la fronte. Ma sulla fronte e sul sesso spiccano le più grandi: enormi gemme che definiscono Elisabetta Rex come una creatura impermeabile, impenetrabile, potente perché inviolabile. Una donna al potere genera angoscia, una donna sul trono non fa parte delle idee condivise, che si sostengono alla tradizione. Secondo una immagine paolina, molto attestata nelle letture bibliche della religione riformata, e secondo una pratica intesa al sesso riproduttivo, l’unico giustificato sempre dallo stesso punto di vista, la donna deve stare sotto, non sopra.
Il miracolo di Elisabetta è che una volta sul trono, riuscirà in un paradosso: si creerà una “persona”, e cioè una maschera che incorpora il “corpo politico” idealizzato del padre, senza però nascondere i propri attributi femminili. Compone così un ibrido, è Re e regina insieme, è due in uno. Vede chiaramente il suo ruolo di governante come un ruolo maschile, che però, proprio perché un ruolo, anche lei, che è donna, può recitare - allo stesso modo delle eroine delle commedie shakespeariane, Porzia del Mercante, Viola nella Dodicesima notte . Non ha il principe un corpo doppio? un corpo sessuale e un corpo simbolico? un corpo fisico e un corpo metafisico? un corpo di carne e sangue e un corpo spirituale, come un arto fantasma? Non è forse il corpo del re questa meraviglia di un costrutto biosimbolico capace di trascendenza? di metamorfosi? o transustanziazione?
Se questo valeva per il corpo infantile di Edoardo, e prima ancora per il corpo gracile di Riccardo II, principe con il quale Elisabetta sente una strana consonanza, perché non può valere per il suo corpo naturale, che è quello fragile di una donna? Elisabetta è coraggiosa come un leone, scaltra come una volpe e soprattutto è una incomparabile teatrante. E sa sostenere lo sguardo sul mistero del potere: chiunque lo detenga, uomo o donna che sia, il potere sempre ha bisogno della mistificazione e dell’inganno. Diventa nell’immaginazione popolare la stessa cosa della terra su cui regna, l’isola impenetrabile che il mare difende.
Lo Spirito del mondo
di Vito Mancuso (la Repubblica, 25.05.2015)
VIENE da lontano l’esito del referendum irlandese con cui oltre il 62 per cento dei votanti ha detto sì alle nozze gay. Viene dalla lotta a favore dei diritti umani.
UNA lotta iniziata più di due secoli fa nel nome dell’uguaglianza e che ha portato a una serie di conquiste sociali tra cui il suffragio universale, la libertà di stampa, la libertà religiosa, l’istruzione per tutti, la parità uomo-donna nel diritto di famiglia, il superamento legale di ogni discriminazione razziale e altri traguardi di questo genere, tutti riconducibili al valore dell’uguaglianza di ogni essere umano. Sabato l’ha ribadito la maggioranza degli irlandesi: “Yes Equality”.
In queste trasformazioni dei costumi e del diritto si manifesta l’evoluzione della cultura e del pensiero prodotta da ciò che Hegel denominava “Spirito del mondo”, nel senso che noi non siamo i padroni delle nostre idee, ma sono le idee a entrare in noi.
C’è però una differenza rispetto al filosofo tedesco, e cioè che ora il primato non è più dello “Spirito oggettivo” rispetto allo “Spirito soggettivo”, ma al contrario. Assistiamo a una radicale riscrittura dei rapporti tra singolo e società: il primato non è più della società e delle sue istituzioni a cui il singolo si deve uniformare come nei secoli passati, ma è piuttosto del singolo a cui la società deve sapersi adattare servendone la felicità e la realizzazione. Prima erano i singoli a piegarsi alle istituzioni, ora sono le istituzioni a piegarsi ai singoli, modificando persino la Costituzione, come in Irlanda.
Il valore in gioco era il diritto di ogni essere umano all’amore integrale. Fino a poco tempo fa nei Paesi più avanzati del mondo (ma in Italia ancora oggi) se una persona nasceva con un orientamento sessuale di tipo omosessuale si vedeva negato il diritto all’amore integrale, che non si accontenta di esprimersi solo come passione privata ma desidera uno statuto pubblico, nel senso che esso entra a definire l’identità sociale di una persona, non più singolo, ma legato a un’altra persona in permanente comunità di vita. È questo desiderio dell’amore di acquisire una dimensione pubblica che porta le persone a sposarsi, e non semplicemente a convivere.
Chi desidera sposarsi non riesce più a pensare se stesso a prescindere dall’altro e chiede alla società di riconoscere pubblicamente il suo nuovo statuto, mutando per così dire la sua carta d’identità sociale e dicendo al mondo: “non sono più solo io, io sono unito con l’altro”. Questo è ciò che io chiamo “amore integrale” e che ritengo essere un diritto costitutivo di ogni essere umano. L’aspirazione all’amore integrale deve essere riconosciuto come diritto inalienabile che ogni essere umano acquisisce alla nascita, un diritto nativo, radicale, di cui nessuno può essere privato.
Ormai il tempo è compiuto anche da noi per sostenere nel modo più esplicito che tutti hanno il diritto di realizzarsi nell’amore integrale, senza distinzione. Il ritardo italiano non va colmato procedendo solo al riconoscimento delle unioni civili senza parlare di matrimonio, ma occorre procedere al matrimonio anche per le coppie gay, perché sono in gioco l’uguaglianza e il diritto nativo all’amore integrale.
Il senso complessivo di questo movimento è altamente evangelico, perché sempre, quando trionfa la singolarità della persona rispetto alla logica di Stato delle istituzioni e delle tradizioni, si afferma il punto di vista di Gesù, il quale sosteneva che il sabato era per l’uomo e non l’uomo per il sabato, e che per questo venne eliminato dal potere istituzionale.
La Chiesa gerarchica però non l’ha ancora capito. Non l’ha capito nel 1789 quando il movimento è iniziato, e non l’ha capito in questi giorni in Irlanda con i vescovi che hanno lanciato un appello per il «rispetto dei valori della famiglia tradizionale ». I singoli credenti invece sì. A meno infatti di non ritenere che essi in una nazione tra le più cattoliche al mondo siano solo il 37,9%, occorre riconoscere che per la maggioranza dei fedeli le posizioni della gerarchia cattolica non hanno rilevanza quando sono in gioco questioni etiche e diritti umani.
L’arcivescovo di Dublino ha detto che «la Chiesa ora deve fare i conti con la realtà». È vero, e spero che qualcosa avverrà. Ma ancora più importante è che i conti con la realtà li faccia la politica italiana, dando al nostro Paese una legge che consenta a ogni cittadino di vivere, nella pienezza del matrimonio, il diritto nativo all’amore integrale.
La Francia sfida il sessismo
“Diritti umani non dell’uomo”
La campagna di un gruppo femminista per cambiare nome alla Dichiarazione del 1789
di Anais Ginori (la Repubblica, 22.05.2015)
PARIGI DOVREBBE essere un testo universale e invece esclude metà dell’umanità. Nella famosa Dichiarazione dei Diritti d’Uomo e del Cittadino scritta del 1789 le donne non compaiono. E’ lo specchio fedele di una società che, nonostante la rivoluzione in corso, non accordava ancora i diritti civili al genere femminile. All’epoca la scrittrice Olympe de Gouges aveva anche pubblicato, in polemica, una Dichiarazione dei Diritti della Donna e della Cittadina: il testo è finito nel cestino e lei sulla ghigliottina.
Nel frattempo sono passati più di due secoli e la Dichiarazione che ha ispirato numerose carte costituzionali ed è considerato un fondamento delle democrazie moderne viene ancora citata in Francia con la formula originale, come se i diritti fossero solo riservati agli uomini. Un dettaglio simbolico che ora gruppi della società civile chiedono di correggere in nome della parità.
Un nuovo appello lanciato a François Hollande propone di eliminare l’espressione “ droits de l’homme” considerata sessista e discriminatoria, a vantaggio di un più politicamente corretto “ droits humains ”, diritti umani, la stessa usata in italiano e in tante altre lingue. Per l’occasione, i firmatari della proposta hanno anche lanciato una petizione on-line destinata al governo.
Tra le richieste, quella di abbandonare «immediatamente» la terminologia ufficiale non solo nei manuali scolastici, ma anche in tutti i testi delle istituzioni repubblicane che includono il termine “ droits de l’homme”. Secondo Noé le Blanc, del collettivo “ Droits humains” che promuove la petizione, la Francia è sempre più isolata in questa visione discriminante. Nei paesi anglosassoni la Dichiarazione del 1789 è già stata tradotta come “ human rights” anziché “ rights of man”, ma anche altri paesi hanno adottato “diritti umani” (Italia), “ derechos umanos” (Spagna) “ menschenrechte ” (Germania).
Nella patria dei “Diritti dell’Uomo”, pardon dei “diritti umani”, si fa invece fatica a cambiare. «E’ una definizione che rende invisibili le donne, i loro interessi e le loro lotte» spiega le Blanc. Secondo i promotori dell’appello a Hollande bisogna al più presto mettere quel testo fondativo della democrazia al passo con i tempi. La Francia ha ostinatamente mantenuto la dicitura iniziale per rispetto alla Storia. Alcuni storici sostengono che cambiare sarebbe un anacronismo e che i diritti sono “dell’Uomo”, con la maiuscola, con un riferimento dunque universale. Ma è anche vero che si tratta di una sfumatura invisibile nei discorsi pubblici e che stenta a essere colta dalle nuove generazioni.
L’aggiornamento è sempre stato rimandato. Anche nel 1948, quando bisognava tradurre la dichiarazione dell’Onu sugli “ human rights ”, si è scelto comunque di usare “ droits de l’homme”. Ancora oggi esiste una commissione parlamentare che si occupa dei “diritti dell’uomo”. La deputata Catherine Coutelle ha proposto il 30 marzo un emendamento per sostituire finalmente il termine, proposta respinta dall’Assemblée Nationale, anche in nome di una presunta “incostituzionalità” della modifica.
La battaglia si collega al movimento che chiede di usare il genere femminile per le alte cariche dello Stato, un’altra trasformazione linguistica che si fa fatica ad accettare. «Abbandonare l’espressione ‘diritti dell’uomo’ permetterebbe di cancellare una logica discriminatoria nella lingua francese» spiega Coutelle. Ora la parola passa al Presidente che la settimana prossima farà entrare nel Panthéon due donne e due uomini: Germaine Tillion, Geneviève De Gaulle-Anthonioz, Pierre Brossolette et Jean Zay. Sono simboli della Resistenza durante l’Occupazione, ma sono stati scelti in nome della parità.
Finora nel mausoleo repubblicano c’erano soltanto due donne, Marie Curie e Sophie Berthelot. Sulla facciata del Panthéon è scritto a lettere cubitali “ Aux grands hommes la patrie reconnaissante ”. Ristabilire una parità a posteriori su una Storia fatta essenzialmente di “grandi uomini” sembra davvero un’impresa difficile.
La lectio al Salone del libro di Torino
L’oscura forza della parola fra dogmi e dissenso
di Franco Cordero (la Repubblica, 15.05.2015)
I GRECI disponevano d’un magnifico strumentario lessicale, sintattico, stilistico. Dio sa quanta fatica vi abbiano speso, rileva Nietzsche: la semplicità satura e limpida, rara nello scambio linguistico, è eroicamente artificiale; in natura la parola esce confusa, sconnessa, ridondante, oscura (...). I verbi oráo, e idon, oida descrivono effetti visivi: e idos è la cosa vista; siamo nel mondo delle forme, ma alla visione intellettuale ostano barriere emotive, oblio, sonno amniotico.
E poi postulati rassicuranti, comodi automatismi, ogniqualvolta l’argomento sia insopportabile, cominciando dalla condanna biologica sotto cui ogni animale viene al mondo. Nel frammento d’Anassimandro (sesto secolo ante Christum) il mondo terrestre è flusso perpetuo: gl’individui escono dalla matrice e vi tornano; individuandosi commettevano adikía, un sopruso punito dal deperimento letale, sicché ogni esistente nasce bacato. Sotto, pulsa una materia viva smisurata, ápeiron, da cui emergono in strutture varianti gli scenari mondani per riaffondarvi: eravamo pesci; e niente assicura un futuro all’homo sapiens; forse ominidi microcefali serviranno sotto squali, corvi, topi. Non l’ha detto ma è arguibile.
Sappiamo come nasca la tragedia: Prometeo o Edipo impersonano Dioniso dilaniato dai Titani, allegoria d’una scissione nella materia primitiva. La sapienza dionisiaca cerca riflussi all’indistinto. Il coro danza, suona, canta, scatenando tempeste emotive: gli attori recitano trame, uno, poi due, infine tre (il quarto rimane muto); e l’arte apollinea fissa l’evento. Euripide addomestica la musica in melodramma: finissimo critico, psicologo, dialettico, narratore, porta gli spettatori sulla scena (un Flaubert più abile nel dipanare storie); istruisce il coro, regista ante litteram.
Nei prologhi un deus ex machina rievoca l’antefatto e talora interviene con effetti risolutivi (ad esempio, Atena nell’ Ifigenia in Tauride ). L’artista vela la realtà. Lo sguardo analitico opera disvelamenti senza venirne a capo, illuso d’averla afferrata e addirittura corretta. Desta sgomento l’Io profondo. Non esiste tormento più spietato dell’insonnia «tête-àtête avec soi-même», dove non valgono consolazioni diurne (Emile Cioran, gnostico disfattista: Exercises d’admiration, Oeuvres, « Pléiade», 2011, 1234s.); e qui fa testo Pascal. È impresa temeraria l’abisso introspettivo (...). La Morte e il Diavolo accompagnano gli uomini, la cui futile difesa consiste nel fingere che non esistano. Lo spirito dionisiaco soffia nell’impassibile Cavaliere inciso da Albrecht Dürer. Insomma, il pensiero ha motivi inibitori endogeni. Arte, conforto intellettuale, divertimenti forniscono un malinconico placebo al male d’esistere.
L’imposizione dogmatica è prassi diffusa in ambiente ecclesiastico, teista o ateo, qual era il Partito comunista (...). Richard Simon e Alfred Loisy, biblisti in chiave critica, escono quasi incolumi, ma dove l’ ecclesia sia abbastanza forte, l’affare diventa grave. L’aragonese Miguel Serveto a vent’anni confutava le sciarade teologali, De Trinitatis erroribus libri septem, e nel quinto descrive la circolazione del sangue precedendo d’un secolo William Harvey. In Francia professa l’arte medica. En passant sfida Calvino al contraddittorio pubblico: se viene, è uomo morto, sibila lo sfidato; esiste l’orribile lettera a Guillaume Farel, 13 febbraio 1546. Sette anni dopo, pubblica a spese sue, più 100 scudi, Christianismi restitutio in 800 copie, e l’avversario complotta un perfido intrigo epistolare presso l’inquisitore cattolico. Evaso dalla prigione, Serveto gli cade sotto le unghie. Aveva il rogo nei cromosomi. L’unico dubbio è se meriti una pena capitale addolcita (taglio della testa): a maggioranza, il consiglio ginevrino gliela nega; e venerdì 27 ottobre 1553 lo bruciano vivo.
È sanguinario l’ homo ecclesiasticus. Da Berna, Zurigo, Sciaffusa, autorità religiose chiedevano una condanna esemplare. Esulta Melantone, delicato umanista luterano: era iudicium Dei ; Gesù Cristo incorona il vincitore; grazie a nome della Chiesa presente e futura. Tre secoli dopo, Benedetto Croce narra che fosse in pericolo il futuro della libertà, insidiato dall’anarchia intellettuale, e Calvino l’abbia difeso ( Vite d’avventure, di fede e di passione , Laterza, 1953, terza ed., 217-20). Così declamano gli ecclesiarchi, siano Roberto Bellarmino S. J. o György Lukács, cardinali nelle rispettive chiese, come Andrey _ danov, Palmiro Togliatti, Alfredo Ottaviani et ceteri . Che i roghi calvinisti portino progresso, diversamente dagli spagnoli, è dialettica da Politburo. Cappellani stalinisti giustificano le purghe sostenendo che salvino l’Urss da Hitler. Gli avvocati del diavolo hanno l’argomento facile. Stavolta appare tale anche Benedetto Croce: dogmi, spie, polizie segrete, censure, anatemi, patiboli non allevano culture né industria o commerci, tanto meno «pensiero libero» o «etica moderna»; altrettanto indecorosa suona l’apologia dell’Inquisizione, «veramente santa» quale forma storica d’una salutare pressione sui «manipolatori d’errori» ( Filosofia della pratica, Laterza, 1963, ottava ed., 240s.).
Salvano l’onore umano i dissidenti. Mani anonime (Sebastiano Castellione, Celio Se- condo Curione, Lelio Sozzini) compilano una summa delle opinioni liberali in materia d’idee, dai Padri agli autori contemporanei ( De haereticis an sint persequendi , per Georgium Rausch, Magdeburgi, sotto lo pseudonimo Martinus Bellius, primavera 1554).
Meglio vivere nascosto in Italia che sotto la polizia calvinista, esclama Camillo Renato in un carme latino. È Matteo Gribaldi Mopha l’«Italus iurisconsultus celeber» evocato da Castellione nel Contra libellum Calvini: disputava in duro e rischioso dissenso dai persecutori nei giorni del processo; aveva cattedra a Padova. Due anni dopo se ne va, «ob monachorum insidias»: lo chiama Tubinga ma ormai è vita impossibile; subirà l’ultimo sfratto dal cattolico Francesco Guisa, Governatore del Delfinato nella cui Università insegnava ius civile, in guerra con i praticoni. Gli antitrinitari italiani lasciano un’eredità gloriosa. Spicca la componente piemontese: Gribaldi nasce a Chieri; Curione a Ciriè; Giorgio Biandrata, insigne medico, viene da Saluzzo. (...).
I dogmi inducono atrofia logica. La censura espelle idee confiscando le parole con cui pensarle, ma non impedisce i rumori vocali, anzi li moltiplica fornendo una lingua automatica, i cui utenti differiscono solo nel gesto, dal bisbiglio all’ululato: fosse autentica, la verità ufficiale s’imporrebbe da sola; invece le formule suonano tanto più perentorie quanto meno dicono. I programmi regolano un sonnambulismo diurno dove ogni cosa muta secondo decreti dall’alto; e magari tra le verità imposte c’è che il relativismo sia vizio imperdonabile.
Gli assuefatti bevono tutto, anche 2+2=5, né basta dirlo; devono esserne convinti (càpita a Winston Smith in Nineteen eightyfour). L’effetto selettivo tocca i cromosomi a livelli profondi, oltre le consuete categorie sociali, quali politica o religione. L’apparato teme lo sguardo intellettuale, quindi condanna arsenale analitico e parola chiara. Contese cannibalesche vagliano il personale: è concorrente idoneo chiunque abbia toupet, loquela, spiriti animali, intuito delle occasioni; vigono i canoni «amico»-«nemico», con larghi spazi aperti al dialogo diplomatico.
La filosofia tedesca è morta. Dopo 300 anni
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, la Lettura, 10.05.2015)
La filosofia tedesca contemporanea non è che una pallida controfigura di quella del Novecento. I motivi che hanno contribuito a questo declino sono molteplici. Negli ultimi vent’anni è cambiata anzitutto la politica culturale della Germania, che ha preferito puntare sulle materie scientifiche piuttosto che su quelle umanistiche. A farne le spese è stata la filosofia il cui pur forte prestigio non ha arginato il discredito in cui è caduta. Ma la vera novità è che la «filosofia continentale » è stata soppiantata dalla «filosofia analitica», importata dai Paesi anglosassoni. Interi dipartimenti, roccaforti dell’idealismo tedesco, della fenomenologia, dell’ermeneutica, sono caduti nelle mani degli analitici, in un conflitto senza esclusione di colpi. A Tubinga, patria di Hegel e Schelling, vengono oggi offerti anonimi corsi di teoria della scienza; a Heidelberg, sulla cattedra che è stata di Jaspers prima, di Gadamer poi, siede un analitico che insegna in inglese «filosofia della mente».
A nulla sono valsi gli appelli che i filosofi da tutto il mondo hanno inviato alle autorità tedesche. Come a nulla è servita la petizione, lanciata il 9 marzo scorso e firmata da oltre tremila filosofi - da Jean-Luc Nancy a Judith Butler - per evitare che, sull’onda del dibattito suscitato dai Quaderni neri, venisse soppressa la cattedra di Friburgo intitolata a Martin Heidegger; con la scusa di introdurre una Juniorprofessur, cioè un posto per un giovane studioso, che peraltro si occupi di filosofia analitica, la celebre cattedra di fatto è già stata eliminata.
La difficoltà in cui si dibatte oggi la filosofia tedesca, nella sua affannosa ricerca di una nuova identità, ha a che fare con Heidegger. Incapace di uscire dal cono d’ombra proiettato dal suo pensiero, prova a demolirne la figura. Così diventa molto più facile cancellare con un colpo di spugna non solo Heidegger, ma anche il passato recente che pesa sempre di più: la fine dell’ebraismo tedesco, le leggi di Norimberga, la Shoah.
Al contrario di quel che è avvenuto altrove, la filosofia ebraica non ha mai fatto davvero breccia, e questi temi non sono stati considerati filosofici. Che cosa c’era di meglio, dunque, che ricominciare tutto da zero, aprendo le porte dell’università a un pensiero angloamericano, refrattario alla storia e poco propenso a intervenire nel dibattito politico? L’oculata regia di accademici come Jürgen Mittelstraß non basterebbe altrimenti a spiegare il successo delle correnti analitiche.
Quando, nel 2002, è morto Gadamer, allievo di Heidegger, fondatore dell’ermeneutica, la situazione era già mutata. Oggi che, dopo la scomparsa recente di Otto Pöggeler, il 10 dicembre 2014, e di Michael Theunissen, il 18 aprile 2015, si può dire concluso il capitolo del Novecento, c’è da chiedersi se abbia giovato alla filosofia tedesca quell’atteggiamento autodistruttivo che ha finito per nuocere non solo all’ermeneutica - ne sono rimasti coinvolti anche personaggi come Hans Blumenberg - ma anche alla fenomenologia.
Se i ponti costruiti da Ernst Tugendhat tra ermeneutica e filosofia analitica restano solidi, più pericolanti sono quelli gettati da Bernhard Waldenfels che ha tentato di sganciare la fenomenologia dall’ermeneutica e di rileggerla alla luce della tradizione francese. Certo sono ben pochi i nomi dei filosofi tedeschi che superano i confini nazionali. Non mancano figure di rilievo, come Julian Nida-Rümelin o Volker Gerhardt, pressoché sconosciuti, però, al grande pubblico europeo.
Nel complesso il paesaggio appare molto frastagliato. È sopravvissuta la «Scuola di Francoforte» grazie a Jürgen Habermas e ai suoi allievi, come Axel Honneth. Ma è difficile rinvenire nei loro scritti quell’afflato che aveva ispirato Horkheimer e Adorno nella loro critica radicale alla ragione.
Le opere di politica hanno in genere un carattere molto normativo. Accanto alla filosofia pratica, sono molto diffuse la bioetica, l’etica applicata, l’etica dell’ambiente, nonché tutte quelle specializzazioni con cui il pensiero si sforza di essere un’utile prassi. La ricerca teoretica, per quanto rigorosa e accurata, sembra incapace di aprire nuove prospettive, mentre mantengono un alto profilo la storia della filosofia e lo studio dei classici, greci e tedeschi, spesso dettato tuttavia da un interesse antiquario.
Costretta a misurarsi con il modello vincente della scienza, la filosofia tedesca del XXI secolo, quando non ha vestito i panni dell’epistemologia, ha finito per rifugiarsi nell’estetica. Di qui la grande mole di pubblicazioni nell’ambito della riflessione sull’arte e sull’immagine. A questo proposito si parla di Neuromantik, un «nuovo romanticismo», in cui si inscrive anche Peter Sloterdijk, l’unico filosofo tedesco che abbia raggiunto fama internazionale. Dopo lo spettacolare successo del suo libro Critica della ragione cinica, uscito nel 1983, Sloterdijk ha mantenuto un ruolo di primo piano sulla scena filosofica tedesca grazie alle sue doti comunicative e a una brillante critica della globalizzazione, di stampo, però, fortemente conservativo.
Oltre al poliedrico racconto dell’umanità, affidato ai tre volumi di Sfere (i primi due sono stati tradotti da Cortina), Sloterdijk ha pubblicato numerosi saggi, libri, pamphlet, che hanno suscitato accese polemiche. Hanno fatto scalpore alcune sue tesi, come quella in cui sostiene che lo «Stato finanziario», basato sulla tassazione, è una sorta di «saccheggio». Erede di Nietzsche e Heidegger, ne accentua il risentimento in modo talvolta parossistico. Viviamo in un’epoca post umana, nella quale riemerge la «bestialità» dell’uomo e diviene tangibile il fallimento dell’umanismo. Paradigmatico è il titolo di una raccolta: Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger. Nostalgia del passato e una certa aspirazione all’ordine attraversano il suo ultimo libro Die schrecklichen Kinder der Neuzeit («I terribili figli della modernità») pubblicato da Suhrkamp nel 2014.
Se le pagine di Sloterdijk sono sempre coinvolgenti, non si può dire altrettanto per quelle di Markus Gabriel, anche lui ospite del Salone internazionale del Libro di Torino. Perché il mondo non esiste si intitola il suo bestseller, appena pubblicato in Italia da Bompiani. Il libro di Gabriel ruota intorno alla tesi che il mondo, inteso come un insieme di oggetti, non esiste. Ma non l’aveva già detto Heidegger? Il mondo è piuttosto un esistenziale, viene cioè tratto alla luce dall’essere umano che vi soggiorna. L’intento di Gabriel, che si serve di Heidegger leggendolo attraverso le lenti riduttive della filosofia analitica, è però ben diverso: si tratta di dimostrare che il mondo esiste al plurale e che gli oggetti possono essere colti in sé, nei molteplici «campi ontologici» in cui si rendono accessibili. Contro Kant, contro il postmodernismo, contro Derrida, sarebbe questa la via per salvare la «realtà». È difficile credere che - come auspica Gabriel - attraverso queste speculazioni, a dir vero molto antiche, la Germania possa tornare a essere di nuovo leader sul «mercato». L’impressione è, al contrario, che volge al termine un predominio di quasi trecento anni. I protagonisti del dibattito filosofico parlano ormai altre lingue.
di Chimamanda Ngozi Adichie (la Repubblica, 10.05.2015) *
OKOLOMA era uno dei miei più cari amici d’infanzia. Abitava nella mia stessa strada e si prendeva cura di me come un fratello maggiore. Se mi piaceva un ragazzo, gli chiedevo che ne pensava. Okoloma era spiritoso e intelligente e portava stivali da cowboy a punta. È morto nel dicembre del 2005 in un incidente aereo nel sud della Nigeria. Faccio ancora fatica a esprimere a parole cosa ho provato allora. Okoloma era uno con cui potevo discutere, ridere, parlare davvero. Era anche la prima persona ad avermi dato della femminista. Avrò avuto quattordici anni.
Eravamo a casa sua e discutevamo riempiendoci la bocca di idee traballanti ricavate dalle nostre letture. Non ricordo di cosa stessimo discutendo. Ma ricordo che, mentre snocciolavo i miei argomenti, Okoloma mi guardò e disse: «Sei proprio una femminista». Non era un complimento. Lo intuii dal tono, lo stesso con cui uno direbbe: «Quindi difendi il terrorismo ». Non sapevo l’esatto significato della parola “femminista”. E non volevo che Okoloma sapesse che non lo sapevo. Così ripresi la discussione facendo finta di niente, ripromettendomi di cercare la parola sul vocabolario non appena fossi tornata a casa.
Nel 2003 ho scritto un romanzo intitolato L’ibisco viola. Parla di un uomo che, tra le altre cose, picchia la moglie, e che non fa una bella fine. Mentre promuovevo il libro in Nigeria, un giornalista - un signore gentile e benintenzionato - mi ha voluto dare un consiglio (come forse saprete, i nigeriani sono sempre pronti a dare consigli non richiesti). Mi ha detto che secondo molte persone il mio era un romanzo femminista, e il suo consiglio - parlava scuotendo la testa con aria triste - era di non definirmi mai femminista, perché le femministe sono donne che non trovano marito e, dunque, infelici. Così ho deciso di definirmi una Femminista Felice.
Poi una professoressa universitaria nigeriana mi ha detto che il femminismo non faceva parte della nostra cultura, che il femminismo non era africano e che mi definivo femminista solo perché ero stata influenzata dai libri occidentali (cosa che mi ha fatto sorridere, perché molte delle mie prime letture sono state decisamente poco femministe: credo di aver letto ogni volume della serie di romanzi rosa Mills & Boon pubblicato prima che compissi sedici anni. E, ogni volta che provo a leggere i cosiddetti “classici del femminismo”, mi annoio e faccio fatica a finirli). A ogni modo, dato che il femminismo non era africano, ho deciso di definirmi una Femminista Felice Africana. Poi un caro amico mi ha detto che definirmi femminista voleva dire che odiavo gli uomini. Così ho deciso di definirmi una Femminista Felice Africana Che Non Odia Gli Uomini. A un certo punto ero diventata una Femminista Felice Africana Che Non Odia Gli Uomini e Che Ama Mettere il Rossetto e i Tacchi Alti Per Sé e Non Per Gli Uomini.
Naturalmente in questo c’era parecchia ironia, ma la vicenda dimostra che la parola «femminista» si porta dietro un bagaglio negativo notevole: odi gli uomini, odi i reggiseni, odi la cultura africana, pensi che le donne dovrebbero sempre essere ai posti di comando, non ti trucchi, non ti depili, sei perennemente arrabbiata, non hai senso dell’umorismo, non usi il deodorante.
Ora ecco un episodio della mia infanzia. Quando ero alle elementari a Nsukka, una città universitaria nel sudest della Nigeria, all’inizio dell’anno la mia insegnante ci fece fare un compito dicendo che la persona con il voto più alto sarebbe diventata capoclasse. Diventare capoclasse era una cosa importante. Il capoclasse scriveva ogni giorno i nomi degli alunni chiassosi, di per sé un esercizio di potere già abbastanza inebriante, e in più la maestra ti dava una bacchetta da tenere in mano mentre pattugliavi l’aula. Naturalmente non avevi il diritto di usarla. Ma ai miei occhi di bambina di nove anni era comunque una prospettiva eccitante. Volevo assolutamente diventare capoclasse. E presi il voto più alto. Poi, con mia grande sorpresa, la maestra disse che il capoclasse doveva essere un maschio. Si era dimenticata di precisarlo. Lo aveva dato per scontato. Il voto più alto dopo il mio lo aveva preso un bambino. E il nuovo capoclasse sarebbe stato lui. La cosa interessante è che il bambino in questione era un’anima mite e per nulla attratta dall’idea di pattugliare la classe con una bacchetta in mano. Mentre io non sognavo altro. Ma io ero una femmina e lui un maschio, e così fu lui a diventare capoclasse. Non ho mai dimenticato quell’episodio. Se facciamo di continuo una cosa, diventa normale. Se vediamo di continuo una cosa, diventa normale. Se solo i maschi diventano capoclasse, a un certo punto finiamo per pensare, anche se inconsciamente, che il capoclasse debba per forza essere un maschio.
Traduzione Francesca Spinelli (Testo tratto da Dovremmo essere tutti femministi , Einaudi)
Così le parole finirono al rogo come le streghe
Il 10 maggio del 1933 i nazisti bruciarono oltre 25mila libri in cima alla lista c’era Remarque
di Paco Ignacio Taibo II (la Repubblica, 007.05.2015)
BRUCIANO. Duecentotrentadue gradi Celsius, la temperatura alla quale la carta si incenerisce, si consuma nel fuoco, e la cenere si volatilizza nella notte. La data rimarrà fissata nella memoria: 10 maggio 1933. Originariamente progettate per essere celebrate simultaneamente in ventisei città, alcune delle cerimonie furono impedite dalla pioggia, ma a Berlino, a Monaco, ad Amburgo, a Francoforte, i libri bruciarono.
Alla fine di gennaio i nazisti avevano preso il potere e s’era conclusa l’esperienza della Repubblica di Weimar, un mese più tardi bruciava il Reichstag e iniziava la caccia ai socialisti e ai comunisti, agli anarchici e ai sindacalisti. Per le cerimonie dei roghi dei libri si mise in moto il rituale. Tutti i parafernali del nazismo: bande musicali, fiaccolate, carri di buoi pieni di volumi, convocati per il grande atto purificatore della giovinezza contro l’intellettualismo ebraico: un grande rogo pubblico di libri. Le foto mostreranno membri delle Sa, poliziotti, studenti sorridenti, felici, intenti a radunare libri da gettare nei falò. La festa della barbarie.
A Berlino, nella Opernplatz, non brucia la carta, bruciano le parole. Bruciano i libri con le poesie di Bertolt Brecht, ma soprattutto bruciano i versi, le magnifiche parole: Non lasciatevi sedurre, non esiste alcun ritorno. Il giorno è alle porte, c’è già il vento della notte. Non verrà un altro domani. Non lasciatevi convincere che la vita è poco.
Interviene il ministro della Propaganda del Reich, Joseph Goebbels, pura energia maligna, elegante, sottile, istrionico. La sua voce cresce negli altoparlanti, raschia un po’: «Uomini e donne di Germania, l’era dell’intellettualismo ebraico sta giungendo alla fine. Da queste ceneri rinascerà la fenice di una nuova era. Oh, secolo! Oh, scienza! È un piacere essere vivo! ». Di quale scienza parla? Della scienza primitiva di bruciare nei roghi?
Bruciano le meravigliose geometrie dorate e umane di Gustav Klimt. Bruciano i brillanti testi di Sigmund Freud sull’isteria e i sogni. Chi bruciava i suoi libri avrebbe finito per bruciare sei milioni di ebrei come lui. Bruciano nei falò i testi di Einstein, i racconti di Sholem Asch, i testi del ceco Max Brod, i romanzi dei fratelli Mann, persino la relativamente innocente Vicky Baum viene incenerita. Si bruciano i geniali romanzi sociali di Jack London, Theodore Dreiser, John Dos Passos, forse in quel momento il miglior scrittore del primo scorcio di ventesimo secolo.
In cima alla lista c’era il capolavoro di Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale. Bruciano i romanzi storici di León Feuchtwanger, bruciano i grandi romanzi antimilitaristi di Barbusse, Il fuoco, persino l’Hemingway di Al di là del fiume e tra gli alberi. Imperdonabile, il pacifismo, per i boia del fuoco. Bruciano le riproduzioni delle fantasmagorie di Marc Chagall e i quadri di Paul Klee. Bruciano, è chiaro, le riproduzioni del neorealismo terribile e drastico di George Grosz e Otto Dix.
Bruciano i libri del futuro premio Nobel Anna Seghers. Nel falò si immolano i libri di Heinrich Heine. Senza rendersene conto, Goebbels e i suoi ragazzi avevano creato la lista fondamentale della cultura della metà del ventesimo secolo, stavano costruendo le raccomandazioni che avremmo seguito da adolescenti ansiosi pochi decenni più tardi: i libri, i quadri, gli articoli di filosofi e scienziati, le poesie. I nazisti non si rendevano conto che la temperatura alla quale brucia un libro non è solo la temperatura del fuoco sulla carta, è anche quella del fuoco dello sguardo sulla parola. Racconto questa storia per ricordare. Per non dimenticare. E l’ultima cosa che voglio ricordare è che il primo libro pubblicato in Germania dopo la sconfitta del nazismo fu Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque.
(Traduzione di Giovanni Dozzini)
Questioni fondamentali
Il difficile viaggio nella natura umana
Tramontata la metafisica aristotelica e dissolta la ragione kantiana, si è alla ricerca di un concetto condiviso di “natura” antropologica
di Gianfranco Ravasi s.j. (Il Sole-24 Ore, Domenica. 26.04.2015)
Anche chi non ha una grande assuefazione alla filologia intuisce che il vocabolo «natura» sboccia dal verbo latino nascor: è, quindi, legato a quell’evento radicale che è la nascita. Ora, come osserva Jean-Michel Maldamé, un filosofo della scienza francese ma nato ad Algeri, «in una nascita ci sono due aspetti: il primo è l’inizio della vita, il secondo è che la nascita manifesta un’identità permanente. La nozione di «natura» passa, allora, dalla designazione di un momento della vita iscritto nel tempo [la data di nascita, lo stato anagrafico e civile] a ciò che caratterizza il vivente come tale nella sua identità che trascende il tempo». Questa duplicità si riflette anche nel greco physis che è, sì, la natura essenziale, strutturale, metafisica di un essere, ma che è anche il suo inizio nell’esistenza, dato che la base verbale del termine è phyein, «generare, metter fuori, produrre». Tra l’altro, nelle 14 volte in cui risuona nel Nuovo Testamento il termine physis, entrambi i significati sono attestati, ma a prevalere è la semantica filosofica, quindi, il concetto ontologico di «natura».
Siamo partiti ab ovo - curiosa e pertinente locuzione oraziana che rimanda alle radici storiche della vicenda omerica - perché in questi ultimi tempi attorno a una tale categoria antropologica basilare si è abbattuta una bufera che ne ha scosso le fondamenta: basti solo pensare al «politeismo dei valori» registrato da Weber o al soggettivismo applicato alla nozione di «verità», o anche al puro e semplice pluralismo culturale. Accade, perciò, spesso anche a un uomo di Chiesa come me, proteso al dialogo in quell’ideale «Cortile dei Gentili» ove si confrontano credenti e non credenti, di sentirmi interpellato sulla possibilità o meno di avere una piattaforma comune di incontro. Ritorna, così, il discorso sulla «natura» umana nel senso metafisico sopra accennato, per non rassegnarsi alla mera proceduralità sociale, spoglia però di implicazioni etiche.
La domanda, allora, è questa: è possibile recuperare un concetto condiviso di «natura» antropologica che impedisca di scivolare nelle sabbie mobili del relativismo (so che è sgradito tale termine, ma lo adotto come simbolo di una molteplicità sfaldata e babelica)? Dobbiamo rassegnarci al massimo alla convinzione di Montaigne che nei suoi Saggi considerava la natura come «una poesia enigmatica»? Nella riflessione occidentale su questa categoria possiamo individuare due grandi fiumi ermeneutici, dotati di tante anse, affluenti e ramificazioni ma ben identificabili nel loro percorso. Il primo ha come sorgente ideale il pensiero aristotelico che per formulare il concetto di natura umana ha attinto alla matrice metafisica dell’essere. La base è, perciò, oggettiva, iscritta nella realtà stessa della persona, e funge da stella polare necessaria per l’etica.
Questa concezione dominante per secoli nella filosofia e nella teologia è icasticamente incisa nel motto della Scolastica medievale Agere sequitur esse, il dover essere nasce dall’essere, l’ontologia precede la deontologia. Questa impostazione piuttosto granitica e fondata su un basamento solido ha subìto in epoca moderna una serie di picconate, soprattutto quando - a partire da Cartesio e dal riconoscimento del rilievo della soggettività (cogito, ergo sum) - si è posta al centro la libertà personale. Si è diramato, così, un altro fiume che ha come sorgente il pensiero kantiano: la matrice ora è la ragione pratica del soggetto col suo imperativo categorico, il «tu devi». Al monito della «ragione», della legge morale incisa nella coscienza, si unisce la «pratica», cioè la determinazione concreta dei contenuti etici, guidata da alcune norme generali, come la “regola d’oro” ebraica e cristiana («non fare all’altro ciò che non vuoi sia fatto a te» e «fa’ all’altro ciò che vuoi ti si faccia») o come il principio “laico” del non trattare ogni persona mai come mezzo bensì come fine.
Frantumata da tempo la metafisica aristotelica, si è però assistito nella contemporaneità anche alla dissoluzione della ragione universale kantiana che pure aveva una sua “solidità”. Ci si è trovati, così, su un terreno molle, ove ogni fondamento si è sgretolato, ove il “disincanto” ha fatto svanire ogni discorso sui valori, ove la secolarizzazione ha avviato le scelte morali solo sul consenso sociale e sull’utile per sé o per molti, ove il multiculturalismo ha prodotto non solo un politeismo religioso ma anche un pluralismo etico. Al dover essere che era stampato nell’essere o nel soggetto si è, così, sostituita solo una normativa procedurale o un’adesione ai mores dominanti, cioè ai modelli comuni esistenziali e comportamentali di loro natura mobili.
È possibile reagire a questa deriva che conduce all’attuale delta ramificato dell’etica così da ricomporre un nuovo fenotipo di «natura» che conservi un po’ delle acque dei due fiumi sopra evocati senza le rigidità delle loro mappe ideologiche? Molti ritengono che sia possibile creare un nuovo modello centrato su un altro assoluto, la dignità della persona, còlta nella sua qualità relazionale. Si unirebbero, così, le due componenti dell’oggettività (la dignità) e della soggettività (la persona) legandole tra loro attraverso la relazione all’altro, essendo la natura umana non monadica ma dialogica, non cellulare ma organica, non solipsistica ma comunionale. È questo il progetto della filosofia personalistica (pensiamo ai contributi di Lévinas, Mounier, Ricoeur, Buber).
La natura umana così concepita recupera una serie di categorie etiche classiche che potrebbero dare sostanza al suo realizzarsi. Proviamo a elencarne alcune. Innanzitutto la virtù della giustizia che è strutturalmente ad alterum e che il diritto romano aveva codificato nel principio Suum cuique tribuere (o Unicuique suum): a ogni persona dev’essere riconosciuta una dignità che affermi l’unicità ma anche l’universalità per la sua appartenenza all’umanità. Nella stessa linea procede la cultura ebraico-cristiana col Decalogo che evoca i diritti fondamentali della persona alla libertà religiosa, alla vita, all’amore, all’onore, alla libertà, alla proprietà. Nella stessa prospettiva si colloca la citata “regola d’oro”.
In sintesi, l’imperativo morale fondamentale si dovrebbe ricostruire partendo da un’ontologia personale relazionale, dalla figura universale e cristiana del «prossimo» e dalla logica dell’amore nella sua reciprocità ma anche nella sua gratuità ed eccedenza. Per spiegarci in termini biblici a tutti noti: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (reciprocità), ma anche «non c’è amore più grande di chi dà la vita per la persona che ama» (donazione). Inoltre, in senso più completo, nel dialogo «io-tu» è coinvolto - come suggeriva Ricoeur - anche il «terzo», cioè l’umanità intera, anche chi non incontro e non conosco ma che appartiene alla comune realtà umana. Da qui si giustifica anche la funzione della politica dedicata a costruire strutture giuste per l’intera società. La riflessione attorno a questi temi è naturalmente più ampia e complessa e dovrebbe essere declinata secondo molteplici applicazioni, ma potrebbe essere fondata su un dato semplice, ossia sulla nostra più radicale, universale e atemporale identità personale dialogica.
Hitler e i fisici della zona grigia
Nell’analisi di Philip Ball accanto ai Nobel antisemiti Lenard e Stark le posizioni ambigue di Planck, Debye e Heisenberg
di Vincenzo Barone (Il Sole-24 Ore, Domenica, 12.04.2015)
Il 7 aprile 1933, il governo nazista, insediatosi da poche settimane (Hitler era diventato Cancelliere del Reich alla fine di gennaio), emanò una legge sui funzionari pubblici, che rimuoveva dall’amministrazione dello Stato - e quindi anche dalle università - le persone di «discendenza non ariana». Fu una data cruciale e drammatica per la scienza tedesca, fino a quel momento la più avanzata al mondo. «Gli ebrei tedeschi - disse Goebbels - possono ringraziare i fuoriusciti come Einstein per il fatto che essi stessi oggi, in modo del tutto legittimo e legale, sono chiamati a renderne conto». Einstein si era allontanato dalla Germania alla fine del 1932, all’indomani della vittoria elettorale nazista, ma dal 1933 in poi fu la puntuale applicazione della nuova legge a svuotare gli istituti e i laboratori universitari dei migliori cervelli della nazione.
Nel volgere di un paio di anni, uno scienziato su cinque fu rimosso dall’incarico o costretto alle dimissioni (nella fisica la frazione fu di uno su quattro): molti premi Nobel persero il posto e lasciarono il paese. Ma che cosa successe a tutti gli altri - agli scienziati che non furono toccati dai provvedimenti antiebraici e rimasero a lavorare in Germania sotto il regime nazista? Con pochissime eccezioni, si verificò quello che Hitler aveva sprezzantemente previsto in un’intervista del 1931: «Credete forse che nel caso di una nostra vittoria la classe media tedesca rifiuterebbe di servirci e di mettere i suoi cervelli a nostra disposizione?».
Tra i fisici «al servizio del Reich» - cui è dedicato un interessante saggio di Philip Ball, appena tradotto da Einaudi - ve ne furono alcuni violentemente antisemiti e attivi sostenitori del nazismo, come Philipp Lenard e Johannes Stark, entrambi premi Nobel, che si distinsero per le loro campagne contro la «fisica giudaica» (rappresentata ai loro occhi soprattutto dalla teoria della relatività).
Ma la compagine più folta fu quella di coloro che, senza partecipare direttamente alla vita politica, trovarono forme di accomodamento con il regime, per un mal riposto senso di patriottismo e di fedeltà allo Stato. È su questa «zona grigia tra complicità e resistenza», in cui si mossero personaggi di prima grandezza, che Ball ha scelto di indagare. La sua attenzione si concentra su tre nomi: Max Planck, padre della teoria dei quanti, Werner Heisenberg, uno dei fondatori della meccanica quantistica, Peter Debye, pioniere della fisica molecolare.
Planck e Heisenberg sono figure ben note e ampiamente esplorate. Planck, che all’avvento di Hitler aveva già settantacinque anni, incarnava alla perfezione lo spirito prussiano: rigidamente fedele alle istituzioni, optò per il compromesso e l’inazione, convinto che gli aspetti più odiosi del nazismo si sarebbero attenuati col tempo. Heisenberg, proveniente da una famiglia di tendenze nazionaliste, era l’astro nascente della fisica tedesca, premiato con il Nobel a soli trentuno anni nel 1932.
Nonostante non fosse ebreo, fu oggetto nel 1936 di una campagna denigratoria da parte di Lenard, Stark e dei loro accoliti, che lo accusarono sui giornali del partito e delle SS di essere il «fantoccio dello spirito einsteiniano» e un «ebreo bianco». Per risolvere la situazione, Heisenberg mise in campo le proprie influenti relazioni. Sua madre conosceva bene la madre di Himmler, e si recò da lei pregandola di intervenire presso il figlio affinché mettesse a tacere le calunnie.
La mossa funzionò: dopo aver chiesto a Heisenberg una risposta scritta alle accuse rivoltegli, Himmler proibì ogni ulteriore attacco nei suoi confronti. Incassata la riabilitazione ufficiale dal capo delle SS, Heisenberg diventò negli anni successivi il più influente scienziato del Reich. Fu sua la responsabilità del progetto dell’uranio, che avrebbe dovuto portare alla realizzazione di un reattore e di un’arma nucleare.
L’obiettivo non fu raggiunto, e quando, alla fine della guerra, i fisici tedeschi, rinchiusi nella residenza di Farm Hall in Inghilterra, seppero di essere stati superati dagli americani, che avevano costruito e fatto esplodere la bomba, rimasero increduli, incapaci di riconoscere la propria inferiorità. Nacque allora il mito dell’auto-sabotaggio: gli scienziati avrebbero volontariamente rallentato il proprio lavoro per non mettere nelle mani di Hitler il terribile ordigno. In realtà, come si evince dalle conversazioni a Farm Hall, Heisenberg e colleghi non erano neanche riusciti a calcolare correttamente la massa critica necessaria per fare avvenire la reazione a catena.
Meno conosciuta, e più enigmatica, è la storia di Peter Debye, la cui accurata ricostruzione rappresenta la parte più originale del lavoro di Ball. Olandese di nascita, Debye fu per alcuni anni direttore del prestigioso Istituto Kaiser Wilhelm di Fisica di Berlino (finanziato anche dalla Fondazione Rockefeller), ma nel 1939 abbandonò la Germania e si trasferì negli Stati Uniti, fornendo alle autorità americane informazioni sulle ricerche nucleari tedesche. Questa parabola ha fatto credere a lungo che egli fosse una vittima del regime nazista.
Qualche anno fa, tuttavia, sono emersi documenti che attesterebbero la collusione di Debye col nazismo (in particolare, una lettera del 1938 con cui Debye invitava gli ebrei rimasti nella Società tedesca di Fisica a rassegnare le dimissioni). Ne è scoppiato un caso internazionale, e molte istituzioni intitolate a Debye hanno rimosso il suo nome. Ball in realtà ridimensiona la vicenda, mostrando come Debye non fosse un fiancheggiatore del regime, ma un uomo di scienza potente e spregiudicato, “apolitico” nel bene e nel male, interessato solo al successo dei propri progetti scientifici.
Il comportamento della maggior parte degli scienziati che lavorarono nella Germania hitleriana non è interpretabile, a giudizio di Ball, in termini della dicotomia “eroi-malfattori”. Uomini come Planck, Heisenberg e Debye non furono né pro né contro il nazismo: credettero colpevolmente di poter servire la Germania senza al tempo stesso servire Hitler, e di poter separare, in un regime totalitario e criminale, la scienza dalla politica, dimenticando che fare politica - come scrisse una volta Einstein a Max von Laue, l’unico vero antinazista tra i fisici tedeschi rimasti in patria - significa occuparsi delle «faccende umane nel senso più ampio».
La loro colpa principale fu l’indifferenza etica: l’incapacità o addirittura il rifiuto - che continuò anche negli anni del dopoguerra - di affrontare la dimensione morale delle proprie azioni. La lezione generale che se ne può trarre - è la conclusione di Ball - è che la “neutralità” della scienza non deve diventare un alibi per il disimpegno: la comunità scientifica «può e deve organizzarsi per massimizzare la sua capacità di agire collettivamente, eticamente e - quando è necessario - politicamente».
Responsabilità
Oggi nessuno vuole più rispondere di nulla ma chi scarica sugli altri ogni fardello nei fatti si dichiara sostituibile e superfluo
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 05.04.2015)
«Non ne rispondo io - mi spiace». «Che si assuma la responsabilità chi di dovere!». «Sarà il caso di passare la palla ad altri». Quante volte al giorno capita di ascoltare frasi del genere? O persino di pronunciarle? Sfuggire alla responsabilità è una prassi diffusa nella vita privata come nella sfera pubblica. Dai piccoli gesti della quotidianità ai rapporti affettivi, dai legami sociali all’agire politico: non c’è ambito che non sia pervaso da una rinuncia sistematica alle risposte che ciascuno è chiamato a dare. E la rinuncia finisce per volgersi in vera abdicazione là dove le responsabilità aumentano.
Gli esempi sono molteplici: l’insegnante acquiescente che chiude gli occhi sulla prepotente bullaggine dell’allievo; il giornalista che sceglie sbrigativamente la parola più comoda o passa sotto silenzio quel che dovrebbe dire a gran voce; il magistrato che strizza l’occhio agli imputati, proscioglie quando dovrebbe condannare, allunga i tempi del processo fino alla prescrizione; il medico che tratta il paziente come un corpo malato, tra disattenzione e volontà di lucro; il politico che, mentre dovrebbe sollevare lo sguardo verso il bene comune, è chino sul proprio tornaconto.
La rinuncia ad assumere le proprie responsabilità erode ogni relazione, corrode la comunità. La corruzione nasce da qui. È un fenomeno etico, prima ancora che politico. Questo non vuol dire né diluirne la portata né ampliarne pericolosamente i confini. Ma non sarà mai possibile vederne con chiarezza gli effetti devastanti, se non si risale a quel luogo in cui la corruzione affiora. Ed è là dove il legame con l’altro si deteriora, dove chi dovrebbe rispondere preferisce sottrarsi. L’io si deresponsabilizza. Chiamato in causa, non si assume l’onere della decisione, e aggira l’impegno, evade l’obbligo che lo lega agli altri.
Così apre una falla, una incrinatura. E mentre una crepa si aggiunge alla precedente, la comunità, inevitabilmente, si sgretola. La corruzione non sta solo nelle mazzette - simbolo del disfacimento che prevale, dell’integrità che viene meno. Una comunità corrotta è quella i cui membri non rispondono di sé e non rispondono agli altri.
La leggerezza inebriante di cui si compiace l’io deresponsabilizzato è a ben guardare una trappola. Chi ha eluso il fardello della responsabilità, crede di averla fatta franca. Si prepara a schivare così tutti i fardelli a cui andrà incontro. L’onore senza l’onere diventa il suo stile di vita. Ma ogni volta che l’io abdica, che lascia agli altri la responsabilità a cui era stato chiamato, crede, e fa credere, di essere sostituibile. «Perché mai dovrei risponderne proprio io? Che se la veda qualcun altro!». Può darsi che il «qualcun altro» che viene dopo si comporti in modo analogo - in un continuo rinvio, un incessante riversarsi a vicenda pesi e obblighi.
Eppure nessuno è sostituibile. La responsabilità che incombe su di me, in questo momento, non può essere ceduta. Se la cedo, non solo apro una falla, ma accetto l’idea che qualcuno potrebbe rimpiazzarmi. Mentre nessuno, mai, può farlo. L’io deresponsabilizzato ammette invece di essere sostituibile, avvalora la sconcertante ipotesi della propria superfluità. Si crede in genere che la responsabilità sia un gesto ulteriore di un soggetto autonomo e sovrano.
Nella sua superba priorità questo soggetto, privo di vincoli, detterebbe legge a se stesso. Ma che cosa sarebbe l’io senza l’altro che sempre lo precede? Il mondo non è cominciato con me. Prima di me c’è sempre l’altro che mi convoca, mi interroga, e a cui sono chiamato a rispondere. Non per un atto di adesione volontaria - valutando se dire sì o no. Ma semplicemente volgendomi verso chi mi chiama. Prima ancora di ogni possibilità di scelta, perché è nella torsione verso l’altro che l’io si costituisce. Rispondo, dunque sono.
Senza la responsabilità, l’io non esisterebbe neppure. La mia esistenza si coagula ogni volta nell’obbligo che mi vincola all’altro. Se eludo l’obbligo, gli effetti ricadono sul mio stesso esistere. La leggerezza inebriante si rivela inconsistenza angosciosa. E quel detestabile io, che pretendeva di essere soggetto assoluto, rischia di restare tragicamente intrappolato nella sua errata idea di libertà astratta, senza più via d’uscita.
I filosofi non hanno mai parlato tanto di «responsabilità» come in questi ultimi decenni. Con Emmanuel Lévinas e con Hans Jonas la responsabilità è diventata, anzi, uno dei temi più discussi nel dibattito contemporaneo. Il che non sorprende. Perché viviamo nell’epoca di una crescente deresponsabilizzazione.
La complessità del mondo globale, la rilevanza assunta dalla scienza che, malgrado i progressi compiuti, appare sempre più incapace di offrire un orientamento e dar conto delle sue stesse scelte, la specializzazione estrema e il connesso ruolo dell’«esperto», al quale viene spesso lasciata la parola ultima, la frantumazione della responsabilità, che impedisce di scorgere le ripercussioni dei propri gesti: tutto ciò ha contribuito a privare i più della possibilità di decidere e di agire. È la razionalizzazione tecnica della vita a influire, però, in modo determinante.
Dove trionfa la tecnica viene meno la responsabilità. Non solo perché l’essere umano è diventato «antiquato» rispetto ai suoi stessi prodotti, costretto - come ha sostenuto Günther Anders - a rincorrerli disperatamente, nel tentativo vano di sincronizzarsi alla loro disumana rapidità. Ma anche perché l’ingranaggio della tecnica stravolge il rapporto tra mezzi e fini, nel senso che potenzia i mezzi e fa perdere di vista i fini, sia quelli individuali, sia quelli comuni, che rendono coesa una comunità. Si è in grado di fare molte più cose, ma non si sa bene a che scopo.
Così, mentre si moltiplicano le etiche applicate, dalla bioetica all’«etica degli affari», volte non di rado a rassicurare l’opinione pubblica sulla moralità di un settore, ad esempio quello delle imprese, mentre dunque l’etica può diventare a sua volta fonte di profitto, la «responsabilità» resta la terra incognita di questa tarda modernità, la stessa che abita un pianeta devastato, dove nulla sembra ci sia ancora da scoprire.
La responsabilità è infatti rispetto sia per gli altri, sia per quell’altro che sono le cose del mondo. Da quando gli esseri umani sono diventati più pericolosi per la natura, di quanto la natura fosse per loro, si rende necessaria un’etica che risponda all’esigenza di lasciare alle generazioni future un pianeta ancora vivibile.
Sono responsabile non solo verso l’altro che sempre mi precede, ma anche verso l’altro che viene dopo di me. E guardando al suo futuro non dovrei allora mai mancare di chiedermi se anche il più piccolo dei miei gesti non avrà ricadute su di lui. Proprio quello che non mi riguarda richiede la mia attenzione. Solo io sono responsabile - sta qui la suprema dignità umana.
"LA NATURA IMPERAIALE DELLA GERMANIA" DI MARC BLOCH... IL "FEDERICO II, IMPERATORE" DI ERNST H. KANTOROWICZ E LA "MONARCHIA" DI DANTE ALIGHIERI. Due note in una:
Imperatori e Re: il Bivio di Bloch
di Dino Messina (Corriere La Lettura, 05.04.2015)
Perché, mentre in Inghilterra e Francia si affermava la monarchia, la Germania nel Medioevo, e anche nei secoli successivi, coltivò l’idea imperiale? Attorno a questa domanda ruotano le due lezioni che lo storico Marc Bloch tenne a Strasburgo nel biennio 1927-1928 per i docenti candidati a insegnare tedesco nelle scuole francesi. L’editore Castelvecchi, cui già dobbiamo la traduzione del pamphlet del fondatore delle Annales, Che cosa chiedere alla storia? (2014), propone ora, sotto il titolo La natura imperiale della Germania, quelle due preziose conferenze didattiche, a cura di Grado Giovanni Merlo e Francesco Mores.
Marc Bloch (1886-1944), autore de La società feudale e de I re taumaturghi , non era uno studioso avulso dalle passioni e dall’impegno: già volontario nella Prima guerra mondiale, sarebbe finito fucilato dai nazisti come militante della Resistenza.
La sua analisi, che parte dall’eredità dell’impero carolingio, si concentra sui due grandi Hohenstaufen, Federico Barbarossa e Federico II di Svevia. L’autore analizza il modello di nomina imperiale, in cui il fattore dinastico contava almeno quanto quello elettivo, ad opera dei principi, duchi, conti, vescovi. Ma per diventare imperatore era infine obbligatorio un passaggio a Roma. Di qui il dualismo con i Papi. «I Re di Francia o d’Inghilterra difendevano la propria autorità contro la Curia... non pensavano affatto di sottomettere il papato stesso. Tra l’Imperatore e il Papa, la posta in gioco era tutt’altra: l’Imperatore credeva di avere diritti sulla sede papale, il Papa sull’impero, e tutti e due su Roma».
La seconda conferenza di Bloch si conclude registrando una polemica che si svolse dal 1859 al 1862 tra due storici, il protestante Heinrich von Sybel, il quale sosteneva che l’ambizione imperiale aveva danneggiato la nazione tedesca, e il cattolico filoaustriaco Julius von Ficker, favorevole all’impero. Benché, nota Bloch, la visione di Sybel avesse vinto, nell’opinione pubblica era stata la Weltpolitik di Ficker a riscuotere un crescente successo.
KANTOROWICZ, UN GRANDE (E IGNORATO) LETTORE DI DANTE.
Una nota *
FEDERICO II, IMPERATORE (1927), "I DUE CORPI DEL RE" (1957). Senza la conoscenza delle opere di Dante, non solo la prima ma neppure la seconda grande opera di Kantorowicz sarebbe stata possibile. Questo è quanto emerso da una mia semplice e recente ricognizione dei suoi due eccezionali lavori. L’orizzonte storiografico di Dante non solo aiuta K. a capire la lezione di Federico II, ma - con l’aiuto di Federico II - a gettare le basi non solo di una straordinaria comprensione dell’opera di Dante, ma anche della sua stessa proposta politicoa e filosofica.
Un accenno in questa direzione è nella conclusione (qui di seguito ripresa) della spelndida e ricca "voce" "Kantorowicz" di Roberto Delle Donne (Federiciana del 2005, non - non dall’Enciclopedia Dantesca del 1970!!!):
"[...] Partendo dalla finzione giuridica del corpo doppio del re, enunciata nell’Inghilterra del XVI sec. allo scopo di porre al riparo i diritti della Corona e dello stato dalle pretese di poteri e istituzioni particolari, K. conduce il lettore attraverso i diversi strati ideologici che si erano coagulati in questa teoria. Affronta, attraverso l’archeologia del concetto di incarnazione monarchica, su un arco cronologico che dall’Alto Medioevo giunge al Rinascimento, il modo in cui il pensiero giuridico e politico tardomedievale giunse a concepire l’immortalità della monarchia di là dalla persona mortale in cui si incarna, fornendo così la genealogia della distinzione tra la funzione pubblica e la persona che l’esercita, cardine su cui avverrà il passaggio da una concezione dell’autorità incarnata nel suo titolare all’idea di un potere impersonale, a cui il titolare accede per temporanea delega collettiva.
Uno degli snodi di questo processo plurisecolare è costituito dall’imperiale "teologia di governo" di Federico II, che per quanto "pervasa dal pensiero ecclesiastico, contaminata dalla terminologia canonistica e infusa d’un linguaggio quasi cristologico per esprimere gli arcani del governo", non dipendeva più dall’idea altomedievale di una regalità "cristocentrica", basata cioè sulla credenza che il re, attraverso la consacrazione, divenisse vicario e "imitatore" del Cristo vivente. Il sovrano svevo e soprattutto i suoi consiglieri giuridici derivavano invece la funzione duale dell’imperatore quale "signore e ministro della giustizia" (Kantorowicz, 1957, pp. 97 ss.; trad. it. pp. 84 ss.) dal diritto romano, dalla tradizione della lex regia, aprendo la strada alla distinzione tra Impero e imperatore, già suggerita da Accursio e poi sostenuta più recisamente da Cino da Pistoia.
È proprio nell’acutezza delle analisi e nell’ampiezza euristica, nella straordinaria capacità di K. di restituire, ricorrendo a fonti straordinariamente disparate, la complessità concettuale del processo storico che segnò il passaggio da un’idea della sovranità secondo cui un individuo rappresenta un essere collettivo a quella secondo cui un essere collettivo rappresenta degli individui, che vanno ricercate le ragioni della sua recente fortuna tra un pubblico non di soli medievisti: nell’opera è possibile cogliere non solo le origini della moderna concezione dello stato occidentale, ma anche individuare a livello embrionale le diverse modalità di evoluzione che essa ha subito nei vari paesi d’Europa.
Il nucleo germinativo dell’opera, la sua ragion d’essere, non va tuttavia cercato nell’interesse per lo stato, ma per gli uomini mortali che elaborarono "la credenza politica nello Stato moderno e nel suo carattere perpetuo" (ibid., passim). K. ha fondato la sua inesausta ricerca della dignitas perpetua, che "non muore mai", in tutte le sue manifestazioni nell’universo mentale del Medioevo, muovendo da un ideale umanistico: il corpo mistico del re, che simboleggia la sovranità dello stato, è congiunto a un ideale di optimus homo, simboleggiante a sua volta la sovranità individuale, l’humanitas, la dignità stessa dell’essere uomo che accompagna, come un corpo mistico perenne, ogni singolo individuo, e che fa del principe, proprio perché appartenente all’humana universitas, un homo instrumentum humanitatis. Questa concezione della politica e della responsabilità di chi detiene un ufficio politico K. la ritrova, in un capitolo di straordinaria ispirazione, come categoria fondante dell’umanesimo medievale di Dante. Agli antipodi di quella "orribile esperienza del nostro tempo in cui intere nazioni, dalle più piccole alle più grandi, caddero preda dei dogmi più irrazionali e in cui i teologismi politici divennero autentiche ossessioni che sfidarono i più elementari principî della ragione umana e politica" (ibid., p. XVIII; trad. it. p. XXX), l’idea dantesca di humanitas potrebbe far risuonare la sua eco anche nel nostro presente. È questo un aspetto non secondario del lascito spirituale di K., ancora valido per tutti coloro che vogliono leggere e pensare, vivere e agire in accordo con il proprio pensiero".
Si tenga presente, per capire bene e meglio, che l’ultimo capitolo (l’ottavo) dei "Due corpi del re" è intitolato "La regalità antropocentrica: Dante"!!! Nel "Federico II, Imperatore" (un’opera che non solo getta luce sulla filosofia degli anni Venti del XX secolo in Europa, ma illumina meglio e tutto il percorso e l’orizzonte storiografico-filosofico dello stesso Kantorowicz, e sollecita a rileggere il suo lavoro del 1927 e del 1957 in modo unitario!), con grande chiarezza, così scrive:
"(...) Si tenga presente che Federico II visse alla fine del secolo che conosceva la giustizia come unico fine dello stato - fine, del quale, come si sa, gli statisti del rinascimento si occuparono ben poco. Federico era nato nel tempo della massima fioritura del «secolo giuridico», che chiudeva un millennio dedicato alla ricerca della giustizia, e che senza dubbio ebbe tanta influenza su Federico, quanta egli ne ebbe poi sulla giurisprudenza: si pensi soltanto alla visita dello Staufen a Bologna, al giurisperito Roffredo di Benevento, alla fondazíone dell’università di Napoli.
A buona ragione s’è definito «epoca del diritto» quel secolo (1150- 1250) che chiude il medioevo, perché dai giorni di un Graziano e di un Irnerio, da quelli che segnarono una notevole ripresa del diritto romano da parte del Barbarossa (simbolo dello spirito del tempo), a nessun’altra ricerca scientifica il mondo aveva mostrato effettivo interesse come allo studio del diritto - il che certo non impedì che l’interesse si tramutasse in pazzia: come dimostra l’aver cominciato, verso la fine del XIII secolo, a mettere in versi le Institutiones di Giustiniano, allo stesso modo che si è fatto ai giorni nostri con la Critica della ragion pura di Kant.
Tale degenerazione indica che nel campo in oggetto non resta più nulla da fare. Non che la scienza del diritto si esaurisse con quel secolo: solo, la materia era stata dai glossatori assiduamente e sempre più sterilmente perorata, e, d’alÍo canto, si schiudevano al rinascimento nascente tanti e infinitamente più importanti spazi scientifici, che la cultura profana non poté più, come al tempo di Federico II, essere identificata con quella giuridica. La scienza giuridica, però, che consiste nello studio delle leggi, conraddistingue la nascita d’uno spirito non teologico, anzi essenzialmente laico.
D’altra parte, la chiesa stessa aveva mantenuto, nel campo del diritto, una posizione di guida: tutti i papi più importanti di questo secolo - Alessandro III, Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX, Innocenzo IV - furono giuristi, anzi la conoscenza del diritto canonico diventò elemento essenziale della teologia, o meglio: teologia e scienza giuridica vennero a pericolosi conflitti nell’ambito della chiesa, e la seconda ne patì gravi danni. Sdegnato di ciò, Dante maledisse i Decretali perché papa e cardinali, a furia di studiarli sino a consumarne i «vivagni», dimenticavano Nazareth" (Ernst H. Kantorowicz, Federico II, Imperatore, [Kaiser Friedrich der Zweite, I-II, Berlin 1927-1931] Garzanti, Milano [1976] 1988, pp. 212-213).
*
Federico La Sala
8 marzo
Celebrare così un genere significa chiudere una gabbia
di Barbara Spinelli (il Fatto, 07.03.2015)
È LA PRIMA VOLTA che scrivo sulla festa delle donne, e probabilmente l’ultima. Non mi piacciono le feste “di genere”, come non mi piacerebbero giorni dedicati a una razza. Penso che ogni essere umano abbia più radici, più essenze e propensioni: naturali o non naturali. Non mi piace essere definita, e appena qualcuno lo fa cerco di dirgli che in quella definizione non mi riconosco, se non parzialmente. Ogni definizione la considero una gabbia, anche se distinguere è necessario sempre . Ogni festa in onore di tale definizione ha il potere, temibile, di confermare ed esaltare la gabbia, dunque una sorta di surrettizia intoccabilità e separatezza.
Non mi piacerebbe neppure una festa dell’essere umano, e non ho mai capito l’usanza di alzarsi un piedi, quando nella liturgia cristiana si ricorda la Creazione e si evoca il giorno in cui Dio creò l’uomo. Mi sembra un giorno infausto: bisognerebbe sprofondare, piuttosto che di ergersi trionfalmente.
Infine: m’infastidisce l’abitudine, apparsa in Germania negli anni 70 e oggi diffusa in Italia, di storpiare la scrittura con il ricorso al maschile-femminile: compagni(e), amici/amiche, cari/care. Aspetto con timore il momento in cui scriveremo, perché imposto dall’etichetta femminista: Dio/Dea.
Avrete capito che guardo al femminismo con un certo distacco prudenziale. Come Doris Lessing, sono convinta che il femminismo ha fatto molte nobili battaglie (e ancora molte avrà da farne), ma ha causato non pochi danni, e durevoli, nel rapporto fra uomini e donne.
Erasmo per la dignità umana. Sfida a Lutero e Machiavelli
Carlo Ossola parla del suo saggio edito da Vita e Pensiero sull’eredità dell’umanista olandese
di Paolo Di Stefano (Corriere della Sera, 27.02.2015)
È la biografia stessa di Erasmo da Rotterdam, prima ancora della sua visione intellettuale, a farne l’incarnazione dello spirito europeo. Nato in Olanda tra il 1466 e il 1469, studente a Parigi, precettore a Londra, laureatosi dottore a Torino, ospite di Manuzio a Venezia dove perfeziona il suo greco, viaggiatore a Roma e nel Sud Italia, prima di tornare in Inghilterra presso l’amico Thomas More, poi insegnante a Cambridge e ancora in viaggio, questa volta verso Lovanio e infine a Basilea, dove morirà nel 1536.
Erasmo non ispira mezze misure: chi lo ama senza riserve e chi lo respinge con nettezza. In Erasmo nel notturno d’Europa (Vita e Pensiero, pp. 136, e 13), Carlo Ossola, che insegna al Collège de France Letterature moderne dell’Europa neolatina, ha seguito le eredità e le ragioni degli opposti sentimenti nati, nei secoli, dalla lettura di un pensatore che si scopre straordinariamente «contemporaneo». Lo fa mettendo a fuoco nodi storici finora poco indagati.
Professor Ossola, lei vede una doppia opposizione: Erasmo contro Machiavelli ed Erasmo contro Lutero. In cosa si distingue il pensiero erasmiano da quello dei suoi contemporanei?
«Il punto di rottura più grave, che deciderà della coscienza europea moderna, è la polemica con Lutero: da una parte il “libero arbitrio” (Erasmo) dall’altra il “servo arbitrio” (Lutero). L’elogio della libertà umana, di un operare nutrito da retta volontà e non soltanto dall’imperscrutabile dono della Grazia divina, è il fulcro di ogni filosofia e visione storica che creda nella dignitas hominis. La distanza da Machiavelli è relativa, soprattutto, alla visione del principe: per Machiavelli necessitato a “tenere” ad ogni costo lo Stato, per Erasmo un “accrescitore” del bene comune (concetto classico che sarà ripreso da Rabelais). Machiavelli, nondimeno, trarrà dagli Adagia di Erasmo la celebre formula del “pigliare la golpe e il lione”: per Machiavelli è necessario “sapere bene usare la bestia”, per Erasmo - come per Cicerone - l’uno e l’altro strumento paiono alieni dalla dignità umana».
La «funzione Erasmo» nella cultura europea ha vissuto parecchi momenti di oblio: a cosa si deve?
«Erasmo è stato poco amato da una parte non piccola del cattolicesimo romano per la sua pungente riprovazione dei costumi mondani della Chiesa e ancor meno gradito alla tradizione riformata per la sua “fedeltà critica” alla confessione cattolica. Erasmo stesso illustra la propria posizione nella diatriba contro Lutero: “Sopporto questa Chiesa, in attesa che divenga migliore, dal momento che anch’essa è costretta a sopportare me, in attesa che io divenga migliore”. Rimane luminosa la chiosa dello storico francese della letteratura Marcel Bataillon, se più abbia giovato “un Lutero che ha modificato la mappa del cattolicesimo settentrionale, introducendovi macule di religione di Stato, o un Erasmo che ha seminato, un po’ dappertutto, nel seno della cattolicità, la sollecitudine di sapere che cosa significa essere cristiani”. I secoli delle certezze esibite (Seicento e Ottocento soprattutto) l’hanno messo da parte, i secoli che hanno avuto bisogno di testimoni di libertà (in specie il XX) hanno trovato in lui un saldo modello».
Pierre de Nolhac ne fece un paladino cosmopolita della pace in un momento in cui l’Europa era dilaniata dalla guerra, un saggio e un credente privo di fanatismo in un mondo governato dalla follia. Anche in questa chiave si può leggere l’attualità di Erasmo?
«Coloro che hanno creduto nella libertà, contro i totalitarismi che li hanno perseguitati (penso soprattutto a Johan Huizinga e, in Italia, a Benedetto Croce e Tommaso Fiore) sono stati attivi paladini di Erasmo. Ed oggi nulla ha più unito l’Europa che gli scambi di percorsi universitari Erasmus: coscienza plurale delle tradizioni, degli studi, l’Europa come patria comune, il sapere della memoria quale patrimonio da raccogliere e far crescere. E anche: gusto dell’ironia, critica e autocritica, illustrata nell’esemplare dialogo di Voltaire, Luciano, Erasmo e Rabelais nei Campi Elisi, ove vengono raggiunti infine da Swift, in un apologo sorridente, contro ogni fanatismo, e pieno di utopia. E infine: elogio della pace, primato della pace, che Erasmo ha tessuto in celebri saggi».
C’è un tratto comune che ci conduce da François Rabelais allo storico olandese Huizinga e allo scrittore Stefan Zweig, per citare alcuni dei grandi difensori dell’eredità di Erasmo?
«È comune a tutti il primato della interiorità e della libertà di coscienza: per Rabelais essa è rappresentata dalla figura dei Sileni di Alcibiade (tratta dagli Adagia di Erasmo): “Dipinti all’esterno con figure allegre e scherzose, quali arpie, satiri, paperi imbrigliati” e all’interno gelosamente depositari di “ingredienti rari, come balsamo, ambra grigia, zibetto, pietre preziose”. Nell’immagine insomma ciò che è veramente essenziale ha dimora all’interno di ciascuno di noi. Nel Novecento, Huizinga ha difeso tale principio non solo nella sua biografia di Erasmo, ma soprattutto nella sua testimonianza, serena e ferma, contro il nazismo, dapprima in Homo ludens, e poi nella sua stessa vita: morirà prigioniero in un campo di “contenimento” nazista. Lo storico Lucien Febvre lo ricorderà commosso nella sua prefazione all’edizione francese dell’ Erasmo di Huizinga. Zweig non solo nel suo Erasmo, ma anche nel suo profilo che oppone Calvino a Sebastiano Castellione, è difensore strenuo della libertà umana contro ogni Incipit Hitler. Morirà tragicamente in Brasile, Zweig, ma non senza aver ricordato per Erasmo e per sé un dovere e un lascito: “Conviene morire libero come ho vissuto! (...) Libero come tutti i solitari, solitario come tutti i liberi”».
Nella postfazione, lei si sofferma sulla sfortuna italiana di Erasmo nel Novecento, che ha il suo fulcro nell’ipoteca «politica» di Delio Cantimori. Una condanna che nasce sotto il segno dell’Einaudi. Come si spiega?
«Cantimori è il celebre autore di Eretici italiani del Cinquecento (1939), saggio sul quale si sono formate generazioni di studiosi del dissenso religioso in Italia lungo il XVI secolo. In questa sua prospettiva, egli scrive, “l’interesse per la personalità di Erasmo e per le sue opere rappresenta solo un episodio della storia culturale e spirituale italiana”. Più critico nei confronti degli interpreti “liberali” di Erasmo (in specie Huizinga), egli non mancherà di ribadire queste posizioni anche dopo la Seconda guerra mondiale. Nella mia Postfazione ripercorro le sue prese di posizione (contro Adorno, contro Braudel, e persino contro la traduzione di Musil) documentate ampiamente nei Verbali einaudiani; avversioni che, dal campo opposto e con pari e acritica adesione, già emergono dal volume, curato da Luisa Mangoni, che raccoglie gli scritti politici di Cantimori (1927-1942), nel periodo del suo attivo consenso al fascismo. L’opposizione a Minima moralia di Adorno è tale che il Consiglio Einaudi decide di affidare, in seconda lettura, il libro - difeso da Renato Solmi e da Massimo Mila - a Norberto Bobbio. I due libri saranno, naturalmente, entrambi pubblicati da Einaudi. Le posizioni politiche di Cantimori sono state molto dibattute e chiarite, con definitive ragioni storiche, dal lucido bilancio critico che Luciano Canfora ha pubblicato sul “Corriere della Sera” circa il carteggio tra Cantimori e Gastone Manacorda. Liberi da ipoteche, si può oggi riprendere un cammino erasmiano per l’Europa nei termini che Lucio Villari propone ripubblicando Lo scempio del mondo di Huizinga. Nel definirlo uno storico del futuro, egli conclude: “Così, mentre in Italia si combatteva, in mesi di angoscia e di disperazione, una guerra di armi e di ideologie, il libro di Huizinga riemergeva come un segno di pace e di civiltà”».
L’antisemitismo è insito nella sua opera. Sperava nel ritorno del dominio tedesco
di Emmanuel Faye (Corriere della Sera, 23.02.2015)
Le anticipazioni di alcuni passaggi del prossimo volume dei Quaderni neri in uscita a marzo, fornite da Donatella Di Cesare sulla «Lettura» del «Corriere» lo scorso 8 febbraio, spingono ad approfondire ulteriormente la ricerca su quanto radicati siano nel pensiero di Martin Heidegger i temi nazisti.
La proposta di leggere il suo antisemitismo in modo differente da quello propriamente nazista appare infatti problematica, poiché la progressiva pubblicazione di questi Quaderni, sempre più simile a un sinistro romanzo a puntate, viene via via confermando l’introduzione del nazismo nella filosofia da parte di Heidegger. Il mio lavoro, lungi dall’indagare l’adesione heideggeriana al nazionalsocialismo come una questione biografica o un errore politico, mira a dimostrare che questa si inscriveva nei fondamenti della sua opera.
Il primo documento che testimonia l’antisemitismo di Heidegger risale al 1916, nel pieno della Prima guerra mondiale. Si tratta di una lettera alla moglie Elfride in cui egli si rammarica della «giudaizzazione della nostra cultura e delle nostre università», affermando che «la razza tedesca dovrebbe trovare sufficienti forze interiori» per riuscire a emergere. Le modalità per raggiungere tale scopo si chiariscono in un’altra lettera segreta del 1929 al consigliere Schwoerer, in cui Heidegger mostra la violenza del suo risentimento antisemita prendendosela con la «crescente giudaizzazione», che secondo lui si era impossessata della «vita spirituale tedesca» e indica che il solo modo di «riprendere il cammino» consiste nel dotarla «di forze e di educatori autentici, provenienti dal territorio». Un cammino che egli si avvia a «riprendere» in modo esplicito nei suoi corsi universitari più virulenti degli anni 1933-34, poi pubblicati postumi secondo la sua volontà tra i volumi delle proprie Opere complete, da lui definiti appunto «cammini, non opere».
Nel volume 97 si leggerà che Heidegger vede lo sterminio nazista nei termini di un «autoannientamento» degli ebrei, che tuttavia non è andato completamente a buon fine per colpa degli Alleati. Questi, non avendo compreso il «destino del popolo tedesco», lo avrebbero represso nel suo «volere il mondo». Heidegger però non perde le speranze e pensa che ci sia ancora un futuro per il compimento di tale «destino».
A fronte di queste rivelazioni ci si domanda ora se egli pensasse a un IV Reich e a quale scopo abbia progettato la pubblicazione dei Quaderni neri. Io sostengo da anni, in base a un’analisi minuziosa dei suoi scritti, che sebbene Heidegger si sia sforzato di differenziare, dopo il crollo del III Reich, l’avvento dell’«altro inizio» evocato nei suoi Contributi alla filosofia da quanto si era compiuto tra il 1933 e il 1945, ciò non è stato altro che una strategia di sopravvivenza. Si trattava infatti di prendere la distanza adeguata da un’impresa il cui fallimento era stato totale. Non però per rinnegarla - visto che nell’intervista a «Der Spiegel» del 1966, pubblicata postuma dieci anni dopo, egli approverà ancora la direzione «sufficiente» della relazione tra uomo e «essenza della tecnica» intrapresa dal nazionalsocialismo - ma per prepararne il ritorno in forme nuove, anticipate attraverso la diffusione della sua opera intesa a tale scopo.
Nel suo corso invernale del 1933-34 intitolato Dell’essenza della verità, Heidegger parla di «condurre le possibilità fondamentali dell’essenza della stirpe originariamente germanica verso la dominazione» e ciò si lega strettamente allo scopo di «guadagnare la sovrana levatura della nostra essenza», che possiamo leggere nei Quaderni neri dello stesso inverno. La parola «essenza» (Wesen) giunge a raccogliere l’intera significazione razziale del suo progetto.
Heidegger non ha bisogno di impiegare costantemente il termine «razza», che per lui è una parola straniera, ma gli preferisce spesso termini tedeschi come Stamm, Geschlecht, Art (stirpe, genere, schiatta) oppure semplicemente «essenza». Questo è molto vicino alla terminologia di Hitler, che nel Mein Kampf impiega più volte il vocabolario dell’essenza a proposito della razza e nel 1933 equipara l’appartenenza a una determinata razza alla «propria essenza». Nel 1938 Heidegger precisa nei Quaderni neri, sottolineando lui stesso il termine essenza, che il «principio del tedesco è quello di combattere per la sua essenza più propria», dove tale combattimento non è un imperativo universale, ma il «principio» del solo popolo tedesco.
Il combattere per l’essenza più propria concederebbe al popolo tedesco il diritto di annientare tutto ciò che la minaccia. Nel corso invernale del 1933-34 Heidegger propone ai suoi studenti di porsi come obiettivo di lungo periodo l’«annientamento totale» (völligen Vernichtung) del nemico interno «incrostato nella radice più intima del popolo», cioè gli ebrei assimilati.
Nel 1941, mentre si va precisando la politica nazionalsocialista di costringere con ogni mezzo i dirigenti delle comunità ebraiche a coinvolgersi nell’organizzazione della loro propria distruzione, egli scrive nei Quaderni neri che «il genere più alto e l’atto più alto della politica consiste nel manovrare con il nemico per metterlo in una situazione in cui si trova costretto a procedere al proprio autoannientamento».
Ecco dunque l’intreccio dei due termini Vernichtung e Selbstvernichtung, annientamento e autoannientamento, che dovrà essere ben analizzato nei prossimi Quaderni neri. Ma certamente è possibile osservare da subito che la reversibilità tra carnefici e vittime, manifestata da Heidegger nei passaggi già noti del volume 97, è stata un luogo comune dei nazisti più incalliti all’indomani della sconfitta militare e dei negazionisti che sono loro succeduti.
Gli ebrei sono designati da Heidegger nei Quaderni neri come coloro che sono «senza suolo», «senza essenza», «senza mondo». Si scopre così che l’esistenziale dell’essere-nel-mondo può essere utilizzato dal suo autore come un termine discriminatorio a scopi antisemiti. Occorre ricordare che Heidegger utilizza l’espressione «senza mondo» per designare l’infraumano: benché l’animale non sia un «formatore di mondo», solo la pietra è detta «senza mondo» nel suo corso Concetti fondamentali della metafisica dell’inverno 1929-30.
Per Heidegger gli ebrei non hanno posto nel mondo o, meglio, non lo hanno mai avuto. Questa disumanizzazione totale è ciò che ho chiamato negazionismo ontologico di Heidegger nei confronti degli ebrei, che nelle Conferenze di Brema del 1949 giunge fino a escluderli, insieme a tutte le altre vittime dei campi di concentramento, dall’essere-per-la-morte. Tale negazionismo ontologico, di cui Livia Profeti ha saputo dimostrare la convergenza con la «pulsione di annullamento» scoperta dallo psichiatra italiano Massimo Fagioli, vuole significare che Heidegger non solo nega la realtà storica dei fatti, riducendo il numero delle vittime nonché ogni specificità del genocidio nazista, ma annulla l’«essere» stesso delle vittime dei campi.
L’antisemitismo di Heidegger è documentato a partire dal 1916, così come è documentato che dal 1934 egli prefigurava la totale Vernichtung, annientamento o sterminio che dir si voglia, degli ebrei. Argomentare filosoficamente il carattere di tale antisemitismo e di tale razzismo significa, per me, opporsi all’introduzione del nazismo nella filosofia da parte dell’autore dei sinistri enunciati dei Quaderni neri.
*
Shoah «autoannientamento» ebraico
La frase choc nei nuovi «Quaderni»
La Shoah come una forma di «autoannientamento» degli ebrei. Donatella Di Cesare, sulla «Lettura» dell’8 febbraio scorso, ha rivelato che nel 1942 Martin Heidegger esprimeva questa valutazione, contenuta nella parte dei suoi Quaderni neri che uscirà in Germania a marzo presso l’editore Klostermann. I Quaderni neri sono taccuini filosofici che Heidegger tenne dal 1931 al 1969, disponendo che fossero pubblicati a conclusione delle sue Opere complete. L’anno scorso sono usciti in edizione tedesca i Quaderni dal 1931 al 1941, che in Italia saranno tradotti da Bompiani a partire dal prossimo autunno. Già in quella parte emergeva l’antisemitismo metafisico dell’autore, su cui Donatella Di Cesare si sofferma nel libro Heidegger e gli ebrei (Bollati Boringhieri), ma nel volume imminente, relativo al periodo dal 1942 al 1948, si aggiungono nuovi elementi di grande importanza.
«Il testo pubblicato in questa pagina è un contributo di Emmanuel Faye, docente alla Normandie Université, al dibattito su Martin Heidegger suscitato dall’uscita dei Quaderni neri. Faye è autore del libro Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia (L’Asino d’Oro, 2012)
Martin Heidegger (1889-1976) è considerato uno dei più importanti filosofi del Novecento, un maestro del pensiero esistenzialista. La sua opera di maggior spicco è il saggio Essere e tempo del 1927, edito in Italia da Longanesi e Mondadori Heidegger divenne rettore dell’Università di Friburgo e aderì al nazismo nel 1933, anno dell’ascesa al potere di Hitler. Ma nel 1934 lasciò la carica e in seguito non partecipò più in modo attivo alla vita del partito».
* Corriere della Sera, 23.02.2015
Erasmo, un Sileno per l’Europa
Il ritratto di Carlo Ossola del grande uomo del Rinascimento, maestro di saggezza e di equilibio nel secolo dei conflitti religiosi
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22.02.2015)
Frutto di un corso tenuto al Collège de France nel 2012-13 e pubblicato nel 2014 in francese, il saggio di Carlo Ossola - illustre collaboratore di questo supplemento - offre una rivisitazione di alcuni nodi del pensiero erasmiano nel solco della riflessione che sul grande umanista fiammingo si svolse nel «notturno d’Europa», e cioè nel cupo entre-deux-guerre dominato dai totalitarismi nazi-fascisti.
Non una sintesi del pensiero erasmiano, e tantomeno una biografia, ma pensieri e suggestioni su Erasmo e i suoi rapporti con altri grandi protagonisti dell’età sua: Lutero, Rabelais, Machiavelli. Pochi anni, per esempio, separano il Principe (1513) dall’Institutio principis christiani (1516), ma un vero e proprio abisso separa la spregiudicata teorizzazione politica del primo dall’umanesimo cristiano del secondo, anche perché l’uno scriveva nell’Italia «più stiava che li Ebrei, più serva ch’e’ Persi, più dispersa che li Ateniensi, sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa», e l’altro per Carlo V d’Asburgo che si accingeva a cingere la corona imperiale e diventare signore di mezzo mondo.
Eppure molto probabilmente fu dagli Adagia del grande umanista fiammingo, la celebre antologia di detti e proverbi degli antichi, che Machiavelli desunse l’immagine della «golpe» e del «lione» quali metafora della forza e dell’astuzia che i detentori del potere devono imparare a usare e dosare, senza farsi troppi scrupoli sulla loro liceità. Ma anche riflessioni e suggestioni sulla eredità di Erasmo, sugli usi (e talora abusi) tra Cinquecento e Ottocento del suo immenso lascito intellettuale e, non senza vivaci spunti polemici, sulla storiografia novecentesca.
Scritte in punta di penna, attraversando con elegante disinvoltura secoli e frontiere della cultura europea, le pagine di Ossola sono tutt’altro che neutrali nel presentare un Erasmo non solo maestro inarrivabile di sapere, di erudizione, di moralità desunta da una tradizione classica profondamente introiettata, ma anche maestro di equilibrio, di saggezza, di moderazione, di «riservatezza, sobrietà, armonia» (p. 14) di fronte alle drammatiche fratture religiose che si stavano aprendo sotto i suoi occhi e che in un breve volgere di anni avrebbero diviso la res publica christiana (l’universo cosmopolita nel quale egli si muoveva a proprio agio) e innescato guerre, controversie, conflitti destinati a durare per secoli all’insegna del fanatismo e dell’odio teologico.
Invano nel 1533, tre anni prima di morire, egli avrebbe scritto il De amabili Ecclesiae concordia, un accorato appello all’unità dei cristiani, nonostante in passato egli fosse stato il critico più severo dei frati accidiosi e corrotti, dei prelati di curia insensibili a ogni istanza riformatrice, dei pontefici impegnati a combattere con le armi in pugno invece che a predicare il vangelo, di un cattolicesimo superstizioso fatto di gesti ripetitivi e pratiche simoniache.
Ma al tempo stesso non aveva mancato di rinfacciare a Martin Lutero gli sconquassi che stava causando e di attaccarlo sulla questione del libero arbitrio in cui a suo avviso si radicavano la dignità e responsabilità morale della natura umana. Fu lo stesso riformatore sassone, nelle sue rabbiose risposte, a dargli atto di aver affrontato una questione ben più significativa di quelle dei tanti controversisti cattolici che insistevano su temi secondari e a riconoscere che solo Erasmo era stato «il lupo capace di morderlo alla gola».
Erede di una tradizione che proprio al Collège de France ha avuto predecessori illustri come Augustin Renaudet, autore tra l’altro di un Erasme et l’Italie, e Marcel Bataillon, cui si deve quell’Erasme et l’Espagne ormai diventato un classico della storiografia, ma anche di Pierre de Nolhac, di Johan Huizinga, di Stephan Zweig, Ossola addita in Erasmo un grande maestro della cultura occidentale e della moderna identità europea proprio nella misura in cui nell’età sua egli fu sconfitto, aspramente attaccato e talora deriso dai protestanti come un traditore del vangelo e un infingardo opportunista, ma anche condannato senza appello e messo all’Indice dall’ortodossia romana. Per questo lo affianca spesso ad altre figure d’eccezione, come il suo amico Tommaso Moro (evocato anche nel titolo dell’Elogio della pazzia, in latino Moriae encomium) o Michel de Montaigne.
Ne scaturisce il profilo di «un Rinascimento critico che li pone al di sopra della querelle della Riforma» (p. 11), di «un Cinquecento che non si lasciò irretire dalle contese religiose, che tolse all’eredità classica i paludamenti aulici e alla tradizione patristica i tratti apologetici per andare a fondo nell’esame della condizione umana» (p. 13), nutrito della consapevolezza che la verità si manifesta «in progresso di tempo, vive nella e attraverso la storia» (p. 22) e si basa sulla filologia, la discussione libera e franca, il rispetto reciproco, il «rovesciamento costante della doxa nel paradosso» (p. 47), e non su incontrovertibili certezze dogmatiche e ottusa intolleranza. Per questo Erasmo piacerà a Voltaire, impegnato nella strenua battaglia contro l’infâme delle conversioni forzate e delle persecuzioni religiose.
È un’immagine classica di Erasmo, non a caso affermatasi soprattutto negli anni più cupi della storia dell’Europa novecentesca, quando all’autore del Lamento della pace e del Dolce è la guerra a chi non la conosce si poteva guardare come a un faro della civiltà che rischiava di essere travolta da brutali tirannie e aberranti ideologie destinate inevitabilmente a precipitare in guerre atroci e devastanti.
Ma ad essa occorre affiancare anche un’altra immagine, quella cui rinvia uno degli emblemi di Erasmo, i Sileni, le mitiche divinità silvestri che nascondevano sotto sembianze grottesche tesori di saggezza, riprodotte nell’antichità in piccole raffigurazioni scultoree che potevano essere aperte per scoprire al loro interno immagini divine. Una sorta di metafora della doppiezza, del segreto, dell’andare oltre la scorza delle cose per indagare verità più profonde, e perciò stesso più inquietanti ed eversive, da trasmettere e divulgare con cauta prudenza.
Lo stesso Cristo - scriveva Erasmo - era stato uno «straordinario Sileno» (p. 33). Sotto la silenica maschera erasmiana fatta di moderazione ed equilibrio, infatti, si cela anche un pensatore radicale, che nel condannare le astiose controversie teologiche insinuava il dubbio che le certezze religiose per cui si combatteva e si ammazzava alla fin fine fossero di scarsa rilevanza e poco avessero a che fare con il vangelo di Gesù Cristo. Lasciava intendere insomma che il fondamento della fede risiede solo e soltanto nella coscienza del credente e che la sua autenticità si misura sull’amore del prossimo e non sull’obbedienza a un codice immutabile di verità dottrinali e alle gerarchie ecclesiastiche che nei diversi contesti si attribuiscono il diritto di esserne gli unici e supremi custodi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
- Il depistaggio di Erasmo
Scrisse il libello su Papa Giulio II cacciato dal Paradiso poi finse di investigare per scoprire l’autore dell’opera
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 13.04.14)
Le responsabilità della filosofia
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 17.02.2015)
Caro Augias,
si vorrebbe che i grandi filosofi fossero anche uomini di grande livello, non sempre è così, dell’adesione al nazismo di Heidegger si sapeva, e tuttavia, passando per la fenomenologia di Husserl a cui Essere e tempo è dedicato, e agli sviluppi successivi dell’Esistenzialismo di cui Heidegger è un fabbricatore, non si può non prendere ciò che di nuovo e di spessore ci sia nella sua filosofia. Anche Furtwangler è stato nazista, ma resta un grande direttore d’orchestra. Forse bisogna separare, in alcuni (o molti?) casi, l’uomo dall’opera, Andrea Emo, grande metafisico, poco conosciuto è stato fascista, e tuttavia leggere (grazie a Cacciari) i suoi quaderni di metafisica, è necessario, per chi ami la filosofia, che se non aiuta a vivere a volte è sicuramente una consolazione (vedi Boezio). Gli uomini sono complessi, figuriamoci i filosofi, questo certo non giustifica certe scelte ma dobbiamo essere giusti, qualcuno lo ha detto che Heidegger è stato un grande filosofo e un piccolissimo uomo, quindi lasciamo perdere l’uomo...
Gianfranco Coci
Il signor Coci si riferisce alla recente scoperta di un quaderno nero del filosofo Heidegger da cui si ricava che egli era al corrente delle atrocità commesse nei campi di sterminio ma non per questo cambiò idea. La domanda se bisogna ancora una volta separare l’uomo dalla sua opera è più che legittima.
Ho chiesto un parere alla studiosa Donatella Di Cesare, autrice del recente saggio Heidegger e gli ebrei (Bollati Boringhieri). Mi ha cortesemente inviato la risposta che trascrivo:
“Il pensiero più elevato si è prestato all’orrore più abissale? L’antisemitismo metafisico, emerso nei Quaderni neri, muta profondamente la visione che abbiamo di Heidegger. E ora viene meno anche il suo silenzio sullo sterminio. Sarebbe comodo continuare a leggerlo, facendo finta di nulla, oppure gettare alle ortiche la sua opera. Il nazismo non è stato una ‘follia’, ma un progetto di rimodellamento biopolitico del pianeta. Gli ebrei non avrebbero più dovuto avere posto nel mondo.
Heidegger non è isolato; proviene da una lunga tradizione di odio verso il popolo ebraico.
Se Kant auspica una ‘eutanasia dell’ebraismo’, se Hegel esclude gli ebrei dalla storia della salvezza, non ci deve sorprendere che Heidegger definisca la Shoah l’autoannientamento degli ebrei. Certo, ben diverse sono le responsabilità che si assume così negli anni Trenta e Quaranta.
Prendere alla lettera le metafore dei filosofi è stato il lavoro dei boia. Ma l’accusa metafisica di tanti filosofi che hanno condannato gli ebrei al non-essere, al nulla, ha avuto esiti devastanti. Credo che sia venuto il momento - con Heidegger e oltre Heidegger - di interrogarsi sulle responsabilità della filosofia verso lo sterminio”.
FEDERICO II, DANTE, E LA DISTRUZIONE DELLA "CRITICA DELLA RAGION PURA"*
"(...) Si tenga presente che Federico II visse alla fine del secolo che conosceva la giustizia come unico fine dello stato - fine, del quale, come si sa, gli statisti del rinascimento si occuparono ben poco. Federico era nato nel tempo della massima fioritura del «secolo giuridico», che chiudeva un millennio dedicato alla ricerca della giustizia, e che senza dubbio ebbe tanta influenza su Federico, quanta egli ne ebbe poi sulla giurisprudenza: si pensi soltanto alla visita dello Staufen a Bologna, al giurisperito Roffredo di Benevento, alla fondazíone dell’università di Napoli.
A buona ragione s’è definito «epoca del diritto» quel secolo (1150- 1250) che chiude il medioevo, perché dai giorni di un Graziano e di un Irnerio, da quelli che segnarono una notevole ripresa del diritto romano da parte del Barbarossa (simbolo dello spirito del tempo), a nessun’altra ricerca scientifica il mondo aveva mostrato effettivo interesse come allo studio del diritto - il che certo non impedì che l’interesse si tramutasse in pazzia: come dimostra l’aver cominciato, verso la fine del XIII secolo, a mettere in versi le Institutiones di Giustiniano, allo stesso modo che si è fatto ai giorni nostri con la Critica della ragion pura di Kant.
Tale degenerazione indica che nel campo in oggetto non resta più nulla da fare. Non che la scienza del diritto si esaurisse con quel secolo: solo, la materia era stata dai glossatori assiduamente e sempre più sterilmente perorata, e, d’alÍo canto, si schiudevano al rinascimento nascente tanti e infinitamente più importanti spazi scientifici, che la cultura profana non poté più, come al tempo di Federico II, essere identificata con quella giuridica. La scienza giuridica, però, che consiste nello studio delle leggi, conraddistingue la nascita d’uno spirito non teologico, anzi essenzialmente laico.
D’altra parte, la chiesa stessa aveva mantenuto, nel campo del diritto, una posizione di guida: tutti i papi più importanti di questo secolo - Alessandro III, Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX, Innocenzo IV - furono giuristi, anzi la conoscenza del diritto canonico diventò elemento essenziale della teologia, o meglio: teologia e scienza giuridica vennero a pericolosi conflitti nell’ambito della chiesa, e la seconda ne patì gravi danni. Sdegnato di ciò, Dante maledisse i Decretali perché papa e cardinali, a furia di studiatli sino a consumarne i «vivagni», dimenticavano Nazareth.
Le raccolte di leggi cominciarono a farsi più frequenti: la piccola ma importante raccolta del normanno Ruggero II aveva segnato un inizio. Contemporanea quasi alla grande codificazione fridericiana del diritto pubblico e amministrativo, venne alla luce la raccolta dei Decretali, cominciata da Innocenzo III e pubblicata da Gregorio IX nel 1234 e "lasciando da parte il superfluo", "secondo l’esempio di Giustiniano".
È strano che in quel tempo che aspettava quasi da un momento all’altro giudizio universale e fine del mondo, sbocciasse ovunque lo studio del diritto, quasi che la conoscenza delle leggi potesse stornare appunto il giudizio universale; e che in quel secolo, che come nessun altro guardava alla pienenezza dei tempi, vedesse giungere a compimento l’aspirazione di un millennio: la iustitia. Ma di tutto il lavoro dei giuristi soltanto un’opera, come sempre accade, portò a una rottura decisiva: il Liber augustalis di Federico II. Nel quale confluirono e costituirono un tutto determinate premesse: al punto che nel codíce siculo la giustizia stessa celebrava la sua apoteosi. In forza della dignità imperiale e del suo ufficio di giudice supremo, Federico II si pose a capo, in veste dí realizzatore, del secolare movimento tendente alla giustizia, allo scopo di fondare, grazie ad esso, lo stato laico: il quale, pur senza la spiritualità ecclesiastica, sarebbe stato tuttavia una creazione permeata di forze spirituali" (Ernst H. Kantorowicz, Federico II, Imperatore, [Kaiser Friedrich der Zweite, I-II, Berlin 1927-1931] Garzanti, Milano [1976] 1988).
* Federico La Sala
La nostra società ha prodotto un’integrazione senza differenze
Solo il rispetto delle identità religiose e sociali può condurre a un mondo pacifico
di Wael Farouq (La Stampa, 10.02.2015)
Negli Anni Trenta del Novecento, i giapponesi consideravano l’imperatore Hirohito pari ad un dio che li aveva condotti alla rinascita economica e alla costruzione di una forza militare in grado di dominare vaste regioni del mondo. Dopo la disonorevole sconfitta del Giappone in guerra, l’imperatore mantenne la sua sacralità, ma quest’ultima perse tutto il suo significato, anche perché l’imperatore aveva guidato la sua gente verso la distruzione altrui, prima ancora che alla distruzione del proprio Paese. Fu così che i giapponesi presero a chiamarlo «il sacro nulla» (Patrick Smith, Japan: a Reinterpretation, Knopf Doubleday Publishing Group, 2011). Il «sacro nulla» è l’espressione che meglio descrive i valori della civiltà occidentale di oggi. Sia sul piano pratico che culturale, questi valori sono svuotati del loro significato, sebbene tutti quanti li sacralizzino, come nel caso del valore della libertà.
Tutto è effimero
Purtroppo, la faccenda non si limita alla fallita esportazione di questi valori all’esterno, ma si estende anche al loro svuotamento di significato all’interno, sul piano intellettuale e pratico. Nella cultura contemporanea l’effimero è diventato centrale. Nulla reca un segno di distinzione, un significato, perché tutto è fugace. L’attenzione della cultura contemporanea si è così spostata dall’essere nel mondo al divenire, o al transitare, nel mondo. Questo è il mondo del transitorio e dell’effimero. Le ideologie sono cadute, ma la paura dell’altro è aumentata. Il nichilismo ha fatto marcia indietro, ma il suo posto è stato occupato da una neutralità passiva verso ogni cosa. Il termine «post», anteposto a ogni parola che indica un aspetto della conoscenza umana (come in post-industriale, post-storico, post-moderno, eccetera), non implica altro che l’incapacità di attribuire un significato alla condizione umana presente.
Jürgen Habermas vede in questo una conseguenza dell’esclusione della religione dalla vita pubblica. Ed è vero che tutte le sfide sociali cui dobbiamo far fronte sono fondamentalmente riconducibili all’incapacità di dare alla vita un significato, una fonte del quale è rappresentata proprio dalla religione.
L’uniformità
I post-modernisti ritengono di aver liberato l’umanità dalla prigionia di binomi intellettuali quali bene-male, presenza-assenza, io-l’altro, ma in realtà sono solo passati dal contrapporre gli elementi di questi binomi al porli sullo stesso piano - e all’incapacità che ne deriva di formulare giudizi, che a sua volta porta all’interruzione di ogni interazione con la realtà e all’uniformizzazione dell’identità individuale e collettiva.
Il post-modernismo ha combattuto contro l’esclusione dell’altro, il «diverso», operata dal modernismo, ma non ha trovato altra via per farlo che escludere la «diversità», poiché è opinione diffusa che la convivenza pacifica non possa avere successo se non escludendo l’esperienza religiosa ed etica dalla sfera pubblica. Questo, tuttavia, implica l’esclusione della differenza e, quando l’esperienza religiosa è uno degli elementi più importanti dell’identità, l’esclusione della differenza, in realtà, diventa esclusione del sé.
Ma questa laicità estremista è riuscita a realizzare il proprio obiettivo?
Non c’è metropoli europea, oggi, che non ospiti una «società parallela», dove vivono gli immigrati musulmani. Tentativi affrettati d’integrare gli immigrati hanno finito solo per rendere i confini culturali e religiosi invisibili nello spazio pubblico. In Francia è stata promulgata una legge che proibisce l’esibizione dei simboli religiosi nello spazio pubblico. Di conseguenza, la Francia è diventata uno Stato la cui Costituzione protegge la differenza e il pluralismo religioso, ma le cui leggi ne criminalizzano l’espressione.
Gli immigrati
L’esclusione della diversità dallo spazio pubblico ha fatto sì che l’adattamento, e non l’interazione, diventasse il quadro entro il quale s’inscrive la relazione degli immigrati con la loro nuova società. Questo e altri fattori di natura soggettiva, cioè relativi alla cultura degli stessi immigrati, hanno dunque portato alla creazione di società parallele in conflitto con l’ambiente circostante che rimane, per loro, un ambiente alieno, straniero.
In questo contesto culturale, se qualcuno chiedesse «cos’è la libertà?», la risposta sarebbe: qualsiasi cosa. Ma una libertà che significa qualsiasi cosa non è niente. La libertà vera ha un volto, un nome, dei confini rappresentati dall’esperienza umana, che tuttavia non può essere tale se alla persona si strappano la sua identità, la sua storia, la sua esistenza e il suo scopo. Diverrebbe una forma svuotata di significato e contribuirebbe, assieme alla cultura islamica contemporanea, all’esclusione della persona, della sua esperienza e della sua identità. Nel qual caso, passeremmo dal «sacro nulla» al «nulla è sacro». Infatti, nulla è sacro finché la forma sta al centro e la persona al margine.
Nel Corano, come nella Bibbia, Adamo inizia a relazionarsi con il mondo attribuendo un nome alle cose. L’Adamo contemporaneo, invece, perde ogni giorno un pezzo del suo mondo, perché dimentica i nomi delle cose, perché non dà più loro alcun nome, e perché nemmeno gli importa di dar loro un nome. L’uomo, oggi, è diventato un post-Adamo. Mentre per affrontare la sfida dell’oggi abbiamo bisogno come non mai di tornare al senso religioso, all’esperienza personale. Al vero Adamo.
(Traduzione dall’arabo di Elisa Ferrero)
Riaccendiamo i Lumi
di Pankaj Mishra (la Repubblica, 08.02.2015)
L’ILLUMINISMO divenne possibile in Europa quando, secondo la definizione di Kant, gli individui cominciarono a «osare di sapere » - a impiegare la loro ragione, senza l’intercessione di una qualsiasi autorità. La Rivoluzione francese realizzò la grande svolta intellettuale dell’Illuminismo: la separazione tra il politico e il teocratico. La Rivoluzione contribuì anche a creare quella che Jacob Burckhardt ha chiamato la «volontà ottimista» - la fede nel progresso, nella ragione e nel cambiamento, che gli eserciti rivoluzionari francesi diffusero in tutta Europa e perfino in Asia. Con il progredire del XIX secolo, le innovazioni, le norme e le categorie dell’Europa raggiunsero un’egemonia universale.
Istituzioni politiche come lo stato-nazione, forme estetiche come il romanzo, ideologie come nazionalismo, liberalismo e socialismo, e processi come la scienza, la tecnologia, il capitalismo industriale divennero i punti di riferimento per la valutazione di ogni altra forma di vita umana, passata e presente.
La laicità è stata uno dei principi europei moderni più influenti nel suo considerare la religione tradizionale inferiore ai nuovi modi razionali di comprendere e migliorare la società umana. Di fronte a questa potenza europea senza precedenti, morale e intellettuale, ma anche militare, gli uomini nelle società asiatiche e africane si sono adattati oppure hanno opposto resistenza. In entrambi i casi, hanno finito col disporre antichi modi di vita, codici etici di condotta e culture, come il buddismo, l’induismo e l’islam, secondo le linee europee moderne.
C’è stata molta più secolarizzazione nel mondo dal XVIII secolo, quando alcuni filosofi europei e americani proposero un futuro nel quale gli individui, armati di ragione e diritti, avrebbero portato il progresso.
Non tutto è andato come previsto. La storia post-illuminista d’Europa ha reso inaccettabile gran parte dell’intemerata mancanza di rispetto di Voltaire per la religione - per esempio, la sua denuncia degli ebrei come fanatici nati che «meritano di essere puniti». Le politiche di assimilazione nell’Europa secolarizzata non sono riuscite a garantire i diritti degli ebrei, o a salvarli dalla discriminazione e dal disprezzo, inducendo un disperato Joseph Roth a esclamare che preferiva la vecchia «paura di Dio» europea al suo «cosiddetto umanesimo moderno». L’astratta nozione illuminista dell’uguaglianza di diritti si è rivelata debole rispetto agli imperativi della sovranità territoriale e nazionale.
Non c’è bisogno di essere cattolici o marxisti, per rendersi conto che l’Europa è circondata da problemi seri: disoccupazione alle stelle, crisi irrisolta dell’euro, crescente ostilità contro gli immigrati e una scioccante e diffusa perdita di speranza nel futuro dei giovani europei - eventi resi intollerabili per molti da invisibili detentori di titoli, da banchieri che godono di gratifiche esorbitanti e dal vizio della venalità che si diffonde in tutta l’oligarchia politica europea.
In queste circostanze, la supposizione non detta che, mentre tutto il resto cambia nel mondo moderno, le norme europee debbano rimanere autosufficienti e immutabili, meri- tandosi una sottomissione incondizionata da parte degli stranieri arretrati, ci costringe a fermarci un attimo.
Come ha dimostrato Tony Judt nel suo magistrale Dopoguerra, la nozione dell’Europa come l’incarnazione della democrazia, della razionalità, dei diritti umani, della libertà di parola, dell’uguaglianza di genere doveva sopprimere le memorie collettive di crimini brutali nei quali quasi tutti gli stati europei erano stati complici. Né non si può dire che abbiano dato nuovo vigore ai valori dell’Illuminismo negli ultimi anni.
Gli stati nazione europei, anche quelli che non hanno partecipato alle guerre e alle occupazioni anglo- americane, hanno permesso esecuzioni extragiudiziali, torture e estradizioni illegali, che in origine erano sanzionati in nome della ragione, della libertà e della democrazia.
La nostra epoca è caratterizzata da stati-nazione pesantemente armati, da potenti corporazioni e da ciò che sembra essere una disuguaglianza strutturale inestirpabile, insieme a una dilagante depoliticizzazione causata da una ampiamente avvertita perdita della sovranità individuale e collettiva.
I valori illuministici della libertà individuale si manifestano meglio in singoli atti di critica e di sfida. La maggior parte dell’arte e della letteratura moderne emerge da questo ethos critico dell’Illuminismo, dall’implacabile messa in discussione delle rivendicazioni del progresso e della civiltà.
Le élite egoiste, oggi ossessionate da premonizioni di declino, e intrappolate nello scontro tra la democrazia locale e il capitalismo globale, devono affrontare un’altra sfida, più esistenziale: è l’assenza, come disse lo storico Mark Mazower nel 1998, di «un avversario contro il quale i democratici possano definire ciò che rappresentano».
Gli attacchi terroristici dell’11 settembre hanno fornito un sostituto al nazismo e al comunismo: il «totalitarismo islamico». Questo grande concetto intellettuale è stato incautamente applicato a un gruppo sciolto di megalomani, fanatici, delinquenti e disadattati, la maggior parte dei quali ha prosperato nell’ecosistema dell’estremismo (scuole, moschee, giornali, canali satellitari) originariamente istituiti dai cittadini di un fedele sostenitore dell’alleanza con l’Occidente e della teocrazia, l’Arabia Saudita. Ha raggiunto un certo potere persuasivo solo dopo l’invasione e l’occupazione angloamericana dell’Iraq, che ha radicalizzato un numero significativo di musulmani, provocando attacchi di rappresaglia nelle città europee e la devastazione di gran parte dell’Asia e dell’Africa. Quella guerra disastrosa ora ha generato una culto nichilistico della morte, che ricorda gli Khmer Rossi, in Iraq e in Siria.
Il pericolo del totalitarismo islamico ha dimostrato, almeno in Europa, di essere un mediocre surrogato rispetto alla minaccia rappresentata dal comunismo dotato di armi nucleari. Putin, tornando ad assumere una posizione anti-occidentale, si è preso più territorio europeo e ha ucciso più persone; uno dei più grandi attacchi terroristici in Europa è stato messo in atto non da al-Qaeda, ma da un blogger norvegese islamofobo.
I musulmani, come gli indù e i buddisti, hanno intrapreso da tempo una transizione di tipo illuminista dal mondo sacralizzato dei simboli e dei segni significativi a un mondo disincantato di fatti neutrali, in cui la ragione e il giudizio individuali sono guide più affidabili dell’autorità trascendente. Tutti i popoli di quello che una volta era conosciuto come il Terzo Mondo sono «condannati alla modernità», come ha scritto una volta Octavio Paz.
I musulmani in Europa portano a compimento questo destino non come una borghesia commerciale che trionfa su un’élite religiosa e aristocratica, ma come una povera minoranza soggetta agli obblighi e ai pregiudizi di uno stato laico aggressivo con cui condividono una storia lunga e oscura.
La morale razionale dell’Illuminismo, come ammette anche Jürgen Habermas, il suo più eloquente difensore, «è finalizzata alla comprensione degli individui, e non favorisce alcun impulso ver- so la solidarietà, cioè verso l’azione collettiva guidata dalla morale». In un’epoca in cui il denaro è più che mai la misura di tutte le cose, la secolarizzazione può apparire troppo simile alla despiritualizzazione, se non alla disumanizzazione: una ricetta per l’inautenticità.
E il conflitto è sempre probabile se le minoranze asiatiche e africane sono costrette a rispettare le norme europee di secolarizzazione, che non solo comportano la retrocessione di simboli di identità religiosa, come il velo, allo «spazio privato», ma possono anche bruscamente stabilire che, come dice uno slogan molto citato dopo gli attentati di Parigi, «nessuno ha il diritto di non essere offeso».
Il problema per le persone condannate alla modernità «non è tanto sfuggire a questo destino», ha scritto Paz, «ma scoprire una forma meno disumana di conversione», che «non implichi, come adesso accade, la doppiezza e la scissione psichica».
Riconoscere che ci sono molti modi di passare alla modernità, ognuno con le proprie complesse tensioni, è muoversi verso una visione meno unilaterale dell’umanità, e, forse, verso una forma più accomodante di laicità e democrazia, sempre più necessaria in un’Europa irrevocabilmente multietnica.
I tentativi di definire l’identità francese o europea separandola violentemente dal suo presunto «altro» storico, e con la creazione di opposizioni - civili e arretrati, laici e religiosi - non può avere successo in un’epoca in cui questo «altro» possiede anch’egli il potere di scrivere e di fare la storia.
La globalizzazione economica, inducendo all’interdipendenza, sembrava in un primo momento minare il solipsismo nazionalista o di civiltà. In realtà, come rivela la recrudescenza del discorso sullo scontro di civiltà, siamo lontani dal superare nozioni obsolete e sempre più rigide di appartenenza e di identità.
La necessaria discussione di nozioni flessibili di cittadinanza e di sovranità o di identità fluide - imperative nell’era della globalizzazione - è rapidamente compromessa dal gettare la colpa sulla natura incorreggibilmente medievale delle persone religiose e sulla loro incapacità di apprezzare le virtù della modernità laica.
Come scrive il filosofo canadese Charles Taylor, «la nostra identità è in parte modellata dal riconoscimento o dalla sua assenza, spesso da un falso riconoscimento degli altri, e così una persona o un gruppo di persone può subire un danno reale, una vera distorsione, se la gente o la società che li circonda gli rimanda un’immagine limitata o un’immagine umiliante o spregevole di se stessi».
Non è necessaria un’ampia esplorazione della differenza tra la semiotica cristiana e quella islamica per capire che se molti musulmani si offendono personalmente per le immagini degradanti del profeta è perché egli è per loro un esempio di umanità nobile più che una figura distante autorevole e severa - uno il cui più piccolo atto è degno di emulazione.
Vivendo in un mondo diverso e instabile, e condividendo un presente comune pur venendo da retroterra diversi, tanto i non-musulmani che i musulmani sono chiamati a rinunciare, come ha scritto Hannah Arendt, non alla loro «tradizione e al loro passato nazionale», ma «all’autorità vincolante e alla validità universale che la tradizione e il passato hanno sempre preteso».
Senza questa rinuncia qualificata, il nostro stato di solidarietà negativa può diventare soltanto «un peso insopportabile», provocando «apatia politica, nazionalismo isolazionista, o una disperata ribellione contro tutti i poteri costituiti». La triste profezia della Arendt sembra realizzarsi oggi in molte rivolte e esplosioni di violenza in tutto il mondo.
Abbiamo sentito parlare molto dopo l’11 settembre di quella che Rushdie definisce la «mutazione letale nel cuore dell’Islam». Ma abbiamo sentito parlare relativamente poco dell’aumento dell’odio tribale verso le minoranze in tutto il mondo - la principale patologia del capro espiatorio suscitata dalle crisi politiche ed economiche - anche oggi che il mondo è molto più legato dalla globalizzazione.
La rinascita di questi fanatismi confessionali non implica tanto la vitalità della religione medievale quanto delle tristi mutazioni nel cuore della modernità laica. Michel Houellebecq è colpevole di un’esagerata autocommiserazione quando annuncia che «l’Illuminismo è morto, riposi in pace» e che l’Islam è una «immagine del futuro».
Ma la società laica contemporanea nei suoi cupi romanzi - caratterizzati da estrema disuguaglianza, perdita di comunità, egocentrismo narcisistico e indifferenza al dolore - sembra un vicolo cieco che molti di coloro che stanno attraversando il loro Illuminismo e elaborando la transizione verso il disincantato mondo moderno cercano di evitare.
La vecchia promessa di stati-nazione europei omogenei - dove se ti integri godrai del privilegio di una società basata sul concetto dei diritti individuali - non sembra più adeguata, anche se può essere interamente recuperata. Sembra indispensabile che queste diverse società ridefiniscano i loro principi in modo da ammettere esplicitamente visioni diverse, religiose e metafisiche, del mondo.
La pensatrice francese Simone Weil, che non ignorò mai le minoranze di Francia nelle sue riflessioni di ampio respiro, riconobbe presto che il vecchio modello standardizzato di progresso doveva essere sostituito, perché i valori dell’individualismo e dell’autonomia che in origine avevano dato vita all’uomo moderno erano giunti a minacciare la sua identità morale e spirituale.
In La prima radice, un libro scritto nel 1943 per chiarire le lezioni della capitolazione della Francia alla Germania nazista, Weil giunse al punto di abbandonare il linguaggio dei diritti. La difesa dei diritti individuali era stata fondamentale per l’espansione del commercio e di una società basata sul contratto nell’Europa occidentale. All’indomani della catastrofica sconfitta della Francia, Weil sosteneva che una società libera e radicata dovrebbe essere costituita da una rete di obblighi morali. Abbiamo il diritto di ignorare le persone che muoiono di fame, disse, ma dovremmo essere costretti a non lasciarle morire di fame.
Habermas è arrivato a credere che la «sostanza dell’umano» può essere salvata solo da società che «sono in grado di introdurre nel dominio secolare i contenuti essenziali delle loro tradizioni religiose». La profonda svolta di Habermas è un segno tra i tanti che l’identità dell’uomo laico moderno, che è stata costruita sulle nozioni esclusiviste della laicità, della libertà, della solidarietà e della democrazia in Stati nazionali sovrani, si è disfatta, e richiede una definizione più ampia.
Bisogna rinegoziare un nuovo spazio comune. Lo Stato militarmente e culturalmente interventista, favorevole alle imprese ma per il resto minimalista e che vuole spacciare una certa ideologia di crescita economica, non lo farà. Questa mancanza potrebbe anche giocare un ruolo nelle mani dei fanatici che vogliono distruggere il più prezioso lascito dell’Illuminismo: il distacco tra il teocratico e il politico.
Dovremmo recuperare l’Illuminismo, così come la religione, dai suoi fondamentalisti. Se l’Illuminismo è «l’emancipazione dell’uomo dalla sua immaturità auto-imposta», allora questo «compito» e «obbligo», come Kant lo definì, non è mai definitivamente compiuto; deve essere continuamente rinnovato da ogni generazione nel continuo cambiamento delle condizioni sociali e politiche. Sostenere la necessità di maggiore violenza e di altre guerre di fronte al fallimento ricorrente appartiene più al fanatismo che alla ragione.
Il compito per coloro che hanno a cuore la libertà è quello di ripensarlo - attraverso un ethos di critica unita alla compassione e a un’incessante consapevolezza di sé - nelle nostre società irreversibilmente miste e fortemente disuguali e nel più ampio e interdipendente mondo in cui viviamo. Solo allora saremo in grado di difendere la libertà dai suoi veri nemici.
Traduzione di Luis E. Moriones © Pankaj Mishra
Il discorso al Nonino
Rispetto e speranza
La mia sciarpa così simile a un chador
di Martha Nussbaum (la Repubblica, 30.01.2015)
VIVIAMO in un periodo che è una vera sfida per l’umanità come mai lo è stato in anni recenti, un periodo che mette alla prova i valori della comprensione umana, il reciproco rispetto, e la compassione. Voglio dire solo poche cose sul fatto di vivere in tempi che mettono alla prova, in particolare, i nostri valori del rispetto e della tolleranza, dato che una terribile politica di xenofobia e odio ha preso, sfortunatamente, una spinta enorme dagli orribili crimini commessi dai terroristi in Francia.
Dovrei dire che preferisco la parola “rispetto” alla parola “tolleranza”, perché “tolleranza” suggerisce una gerarchia, in cui una maggioranza accondiscende a vivere con persone che non è detto che le piacciano. Ora: ritengo che dobbiamo fronteggiare il nostro difficile futuro con cinque propositi, tutti molto ardui da mantenere in un periodo di paura. È il dovere più solenne del nostro sistema educativo, sia a livello di scuola che di università, promuovere questi valori, ed è anche il dovere dei giornalisti: Intelligenza; Coerenza di principi; Immaginazione; Lavoro di squadra; Speranza.
Intelligenza prima di tutto. Dobbiamo cercare i fatti, e giudicare in base ai fatti. Non dobbiamo farci trascinare spaventati da voci irresponsabili a trascurare le prove o a giudicare secondo rozzi stereotipi. Tutti dovremmo imparare molto dalle varietà dell’Islam nel nostro mondo, in modo da capire chiaramente quanto malata e anomala sia la versione fornita da questi terroristi, e da sapere come possiamo trattare i nostri concittadini musulmani con rispetto.
La maggioranza deve studiare anche la propria storia: per esempio, dovremmo essere consapevoli, quando parliamo di idolatria, che i divieti contro l’idolatria sono rilevanti sia nel Giudaismo che nella Cristianità Protestante, come pure nell’Islam, e sia nel Giudaismo che nella Cristianità questi divieti hanno portato a terribili atti di violenza - per esempio durante la guerra civile inglese, quando i Puritani distrussero l’arte rappresentativa nelle chiese e uccisero coloro che l’avevano prodotta. Dovremmo anche studiare le nazioni musulmane in cui l’Islam ha subito una trasformazione liberale illuminista: in particolare l’India e l’Indonesia, le due più grandi popolazioni musulmane del mondo.
Coerenza di principi. Dovremmo giudicare gli altri esattamente come giudichiamo noi stessi, e sottoporci alle stesse regole che imponiamo agli altri. Se mettiamo al bando un tipo di abito musulmano sulla base del fatto che è lungo e ingombrante e quindi un rischio per la sicurezza, allora ci dovremmo preoccupare allo stesso modo di Martha Nussbaum, che cammina lungo Michigan Avenue a Chicago nel suo solito abbigliamento invernale, che copre non solo tutto il suo corpo ma anche la sua faccia tranne gli occhi - e anche questi sono coperti da speciali occhiali da sole che proteggono dal vento. I terroristi di solito cercano di mescolarsi con la folla: gli attentatori della maratona di Boston indossavano berretti da baseball e portavano degli zaini. Quindi il pensiero che siamo più sicuri se demonizziamo quelli che sembrano diversi non è solo offensivo, è stupido.
Ma nella nostra ricerca della coerenza dovremmo andare oltre la protezione della nostra stessa sicurezza verso la dignità e il rispetto. Permettetemi un esempio un po’ frivolo - ma non tanto frivolo, dato che lo sport ha una profonda influenza sulle culture, ed è un luogo centrale in cui i valori morali vengono o non vengono rispettati.
La National Football League negli Stati Uniti ha recentemente annunciato che avrebbe imposto una multa a un giocatore musulmano perché pregava dopo una giocata particolarmente bella, inginocchiandosi a terra. C’è una regola che vieta di mettersi a terra dopo una giocata, non ho idea del perché, e hanno detto che aveva violato quella regola. Ma i giocatori e i tifosi hanno immediatamente puntualizzato che i pii giocatori cristiani erano sempre stati esentati da quella regola, essendo loro stato permesso di inginocchiarsi a terra in preghiera; e giustamente hanno chiesto che lo stesso trattamento fosse riservato al giocatore musulmano. Sono felice di dire che la lega ha fatto marcia indietro. Ecco quello che intendo con coerenza di principi, e il bisogno che ci sia si vede dovunque guardiamo nelle nostre società pluraliste, ma non sempre viene rispettato.
Immaginazione. Noi tutti nasciamo con la capacità di vedere il mondo da punti di vista diversi dal nostro, ma di solito questa capacità viene coltivata in modo molto ineguale e ristretto. Impariamo come appare il mondo dal punto di vista della nostra famiglia o gruppo locale, ma ignoriamo punti di vista più distanti. Per diventare buoni cittadini del nostro mondo complicato, dovremmo cercare di vedere il mondo da molte posizioni diverse. Informati dalla nostra conoscenza della storia, dobbiamo chiederci come le scelte che facciamo in quanto votanti e cittadini influenzino le vite di molti tipi diversi di gente, e non possiamo farlo bene senza vedere il mondo dal loro punto di vista. Coltivare l’immaginazione è uno dei compiti più importanti del sistema educativo, ecco perché dobbiamo rafforzare, e non tagliare, i programmi di storia, letteratura, e filosofia (perché spero mi permettiate di insistere che la filosofia è una disciplina immaginativa).
Lavoro di squadra. Viviamo con gli altri, ma spesso semplicemente esistiamo fianco a fianco, o, ancora peggio, vediamo gli altri come concorrenti da sconfiggere. I valori umani non possono prevalere nel nostro tempo pericoloso a meno che la gente non si unisca per trattare i problemi del genere umano. E devono unirsi in modi che implicano la non-gerarchia, il rispetto, e la reciprocità. Infatti, il lavoro di squadra implica tutti i miei tre primi valori: perché la vera reciprocità con gli altri richiede decisioni intelligenti; richiede che rispettiamo le norme della coerenza di principi; e richiede un’immaginazione in costante ricerca.
Speranza. Quest’ultimo valore sembrerà strano a molti. Da dove potrebbe venire la speranza in un periodo così desolato? E perché mai dovremmo sperare? Bene, Immanuel Kant ha detto che quando non vediamo margini per la speranza abbiamo il dovere morale di coltivare la speranza in noi stessi, in modo da massimizzare i nostri sforzi in nome dell’umanità, e cogliere ogni opportunità di far progredire i valori positivi che il mondo ci può offrire. Non ha detto molto, tuttavia, in merito a da dove la speranza dovrebbe e potrebbe venire, e ha fatto sembrare il dovere di sperare come un lavoro cupo. Tuttavia, vorrei suggerire che la speranza è sostenibile solo attraverso la gioia e il piacere della vita.
Primo Levi
«Se io fossi Dio» ad Auschwitz
Jean-Claude Milner analizza le tredici righe di «Se questo è un uomo» sulla preghiera di Kuhn, l’ebreo devoto: e le cartesiane ragioni per cui il chimico rigettò quella preghiera
di Sergio Luzzatto (Il Sole-24 Ore - Domenica, 25.1.15)
Tutti i lettori dell’opera di Primo Levi sanno quanto lo scrittore torinese fosse capace di cogliere la potenza del dettaglio. Quanto fosse abile nel riconoscere e nel soppesare anche la più piccola dose di umana o disumana materia dissolta nella massa molare del mondo. Era questa un’arte che il giovane chimico aveva applicato già negli inferi di Auschwitz, e di cui aveva fatto immediato tesoro di ritorno fra i vivi. L’esperienza restituita in Se questo è un uomo va considerata anche un «esperimento mentale» (come lo ha definito Massimo Bucciantini) volto all’identificazione e alla pesatura degli ingredienti costitutivi del campo di sterminio.
La narrazione di Se questo è un uomo potrebbe essere letta, al limite, come niente più che un’implacata e implacabile collezione di dettagli antropologici.
Così, giunge opportuna l’inclusione di Levi nel libro che un linguista e filosofo francese, Jean-Claude Milner, ha titolato La puissance du détail. Un intero capitolo del volume è dedicato a un singolo passo di Se questo è un uomo: la mezza pagina di chiusura del capitolo dove si racconta di una «selezione» ad Auschwitz-Monowitz. Le tredici righe di «Ottobre 1944» in cui Levi introduce e congeda - fra gli scampati della sua baracca alla selezione per le camere a gas - la figura di Kuhn.
Secondo Milner queste tredici righe contengono, nella forma breve tipica di Se questo è un uomo, l’alfa e l’omega del giudizio di Primo Levi sulla metafisica dopo Auschwitz. E li contengono a partire da una riflessione che risulta modellata sulle Meditazioni di Cartesio: una meditazione di fine giornata, nel silenzio propizio alla contemplazione di Dio, con il carattere di un ragionamento sillogistico, e con l’assunzione di responsabilità consistente nel ragionare di cose ultime dicendo «io». Senonché l’esito della meditazione di Levi è un Cogito rovesciato. Ha la forza (forza folle, tiene a precisare Milner) di uno sputo metafisico.
Occorrerà - prima o poi - rileggere tutto Primo Levi alla luce dei suoi pronomi personali: cercare un qualche sistema periodico nell’uso leviano dell’«io», del «tu», del «noi», del «voi»... E chi si metterà all’opera dovrà fare i conti, giocoforza, con la mezza pagina sul vecchio Kuhn e con quel periodo ipotetico, «Se io fossi Dio»: con l’impressionante occorrenza di un io che, da Dio consapevole della Soluzione finale, sputa a terra la preghiera dell’ebreo salvato. Per il momento, bisogna contentarsi di seguire Jean-Claude Milner, la sua lettura di tredici righe fra le più impegnative che Levi abbia mai scritto.
Il Dio verso il quale Kuhn eleva dondolante la sua preghiera, per averlo salvato dalla selezione e magari perché torni a salvarlo una prossima volta, corrisponde al prototipo stesso del genio maligno di Cartesio. Il campo di sterminio esclude infatti, ipso facto, un cartesiano «dubbio radicale». Al di qua di ogni possibile dubbio filosofico, Auschwitz esiste. E siccome Auschwitz esiste, il Dio d’Israele non può esistere altro che come grande ingannatore. Kuhn è pazzo a pregare un Dio simile. E Kuhn è cieco a non vedere Beppo il greco. Il quale, nell’interpretazione di Milner, non corrisponde soltanto al prototipo del «sommerso»: l’uomo in dissolvimento, il «mussulmano» che attende inerte di andare in gas. Beppo il greco vale almeno altrettanto da incarnazione stoica, ventenne figura della saggezza.
Nessuno più lontano di Beppo dagli altri greci deportati ad Auschwitz che l’autore di Se questo è un uomo ha evocato, in un capitolo precedente, con toni da epopea: «Ammirevoli e terribili ebrei Saloniki tenaci, ladri, saggi, feroci e solidali, così determinati a vivere e così spietati avversari nella lotta per la vita». Nella sua immobilità di morituro, Beppo ha la capacità di sopportazione e di astensione di Epitteto. E oltreché una figura stoica, Milner riconosce in lui una figura platonica. Coricato, muto, lo sguardo fisso, Beppo è il Socrate del Fedone. Ma con una differenza decisiva. Ad Atene, la morte di Socrate realizza il compimento della filosofia. Ad Auschwitz, la morte di Beppo nulla garantisce in materia di immortalità dell’anima. «Beppo figura la saggezza amputata del logos».
L’animata preghiera di Kuhn rimanda a una fede ormai possibile unicamente come fede cieca e ipocrita, farisaica: mentre la rassegnata inerzia di Beppo, la sua saggezza ormai priva di pensiero e di linguaggio, conserva almeno la dignità della ragione classica. E anche perciò Levi scrive Se questo è un uomo, non Se questo è un ebreo: perché «lo sterminio colpisce l’umanità attraverso gli ebrei; ma il punto d’umanità che lo sterminio raggiunge attraverso gli ebrei e negli ebrei prende immediatamente il nome di un greco». Insomma: il poco o nulla che resta della ragione di Atene rivela a Levi, nella baracca di Monowitz, tutta la follia di Gerusalemme. Kuhn è pazzo non perché prega, ma perché prega da ebreo. Beppo è saggio non perché attende la morte, ma perché la attende da greco.
Altrettante impressioni e conclusioni - queste di Jean-Claude Milner - che meriteranno di essere attentamente valutate, ed eventualmente criticate da lettori e cultori di Primo Levi. Qui resta da sottolineare l’interesse di una lettura “cartesiana” dell’episodio di Kuhn alla luce di un passo che Milner curiosamente rinuncia a citare, mentre dall’edizione del 1958 se ne sta lì, bene in vista se non ben chiaro, nella primissima pagina di testo di Se questo è un uomo: la descrizione che Levi ha proposto del suo mondo mentale di prima della deportazione, un mondo «popolato da civili fantasmi cartesiani».
Nel 1976, Levi avrebbe spiegato come i suoi fantasmi cartesiani d’ante-Auschwitz andassero intesi quali «sogni e propositi forse mal realizzabili, ma non confusi, bensì razionali e logici». È una definizione che perfettamente si attaglia - in fondo - anche al suo Cogito rovesciato di Monowitz. Al vertiginoso suo periodo ipotetico, «Se io fossi Dio», e al salivare suo rigetto della preghiera di Kuhn.
Società
La mamma, Dio e la nonviolenza
di Monica Lanfranco (Il Fatto, 18 gennaio 2015)
Avevamo bisogno, dopo il bagno di sangue e le puntualizzazioni su chi è o non è Charlie, dell’esternazione del Papa circa l’onore della mamma da difendere?
No, purtroppo. Pur sapendo che ogni evento, notizia ed emozione viene triturata nella turbina social che nulla sedimenta qualche pulviscolo resta impresso, e il pugno papale è memorabile, quindi doppiamente dannoso.
Usando l’ottimo stile comunicatore tanto caro a Berlusconi e a Renzi (la scanzonata mescolanza di pop e friendly, con selfie, corna, barzellette e frasi a effetto) il campione della fede Papa Francesco smentisce la sobrietà manifestata nella scelta del suo nome e mette ko qualche decennio di faticosa costruzione di pratiche politiche collettive nonviolente e antisessiste.
Proprio lui che, pochi mesi fa, sull’omosessualità affermava ‘chi sono io per giudicare’, oggi sostiene che chi insulta la mamma si deve aspettare un pugno. Seguono interpretazioni della sottile metafora da parte di autorevoli uomini: Eugenio Scalfari scrive che non si può chiedere al Papa di essere volterriano, visto che la ‘mamma’ di Bergoglio è la chiesa cattolica, e Moni Ovadia trova l’esternazione lungimirante, plaudendone l’iniziativa, perché manda un messaggio di forza della comunità dei credenti cattolici, pronti anche loro a difendere la chiesa così come gli islamici han dimostrato di difendere la loro fede. Si profila dunque l’annuncio di una simpatica nuova crociata che, date le premesse, sarà la fine della vita sulla terra nel nome di una entità (dio) che non ha ancora manifestato la sua esistenza. Non era meglio morire nel nome di qualcosa di più sostanzioso? Pubblicità
Qui e ora, in attesa di sviluppi io, modestamente donna, madre e attivista nonviolenza e femminista, trovo che la frase così lungimirante mi scaraventi in un angolo per tre volte: come attivista, come donna e come madre.
I pugni non sono simboli, sono carne e ossa contro altra carne e ossa, chi ne ha fatto esperienza lo sa, e con buona pace dell’epos letterario che racconta di amicizie virili cementate dai cazzotti essi restano un gesto d’aggressione e di violenza, che raramente non ha conseguenze.
Nelle scuole in cui vado a fare formazione sulla violenza di genere affronto ogni volta la semplificazione da parte dei ragazzi e delle ragazze verso lo schiaffo, la spinta, il pugno, gesti spesso vissuti come ‘inevitabili’, ‘naturali’, giustificati dalla gelosia e dalla necessità di far rispettare onore, gerarchia, proprietà: lei guardava un altro, lui guardava un’altra, lei è mia, lui è mio, che hai da guardare, che cosa hai detto di mia sorella, di mia madre, della mia ragazza?
Clima da rissa, da stadio, da caserma, (ma siamo a scuola) inarginabile facendo sottili distinguo: un pugno non è peggio di uno schiaffo, di una spinta.
Le mani o si alzano o si tengono abbassate: la bella campagna di Intervita lo dice con efficacia, ma evidentemente al Papa è sfuggita.
Dietro e prima del pugno c’è la visione delle donne come esseri da difendere, ma solo se e quando sono in una relazione di proprietà: non è forse vero che tutte le donne sono puttane, tranne mia madre e mia sorella? Eccolo il desolante riassunto dell’ancestrale, brutale logica (e pratica) del patriarcato globale, che spesso risuona nei nostri cortili con i proclami pro famiglia della subcultura leghista e fascista (donne e buoi dei paesi tuoi, un orrore senza fine).
Sono atea, e credo con passione che alla violenza di qualunque tipo si debba opporre altro, diametralmente lontano da ogni eco di aggressione.
Non possiamo smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone, scrive Audre Lorde. O s’insegna in famiglia, scuola, chiesa e dopolavoro una cultura del rispetto, del ripudio della violenza (dalle parole ai gesti), o presto si arriva a superare quella soglia, quel limite, che trasforma il faticoso ma fecondo terreno del conflitto nella rapida e mortale guerra.
Guerra tra le persone, le comunità, i popoli, il mondo. E’ una certezza, oggi: dal pugno alla guerra santa il passo non è lungo.
I pugni, Francesco e tutti gli altri, imparate a tenerli in tasca.
Diritto naturale.
I lemmi di Kant
È stata completata l’edizione critica dei corsi che il filosofo tenne nel semestre estivo del 1784 a Königsberg. Un’opera monumentale
di Riccardo Pozzo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 11.01.2015)
In tre volumi, è stata completata la nuova edizione critica lemmatizzata di un importante manoscritto di Kant sul diritto naturale, noto come Naturrecht Feyerabend dal nome dello studente che trascrisse le lezioni. Il testo riporta l’intero corso che Kant tenne nel semestre estivo del 1784 all’Università Albertina di Königsberg, commentando secondo l’usanza del l’epoca la quinta edizione del manuale in latino di Gottfried Achenwall, Ius naturae (Göttingen 1763). Nel Naturrecht Feyerabend gli studiosi trovano la prima esposizione completa della filosofia del diritto kantiana, ben tredici anni prima della prima parte della Metafisica dei Costumi, la Dottrina del diritto.
L’importanza di questa edizione è molteplice: si tratta infatti dell’unica trascrizione pervenutaci dei dodici corsi annunciati da Kant sul diritto naturale (a partire dal 1767). Era già stata pubblicata nell’edizione dell’Accademia delle opere di Kant, ma in appendice a un volume, senza apparato critico e soprattutto con una trascrizione dal manoscritto approntata in gran fretta dal curatore, Gerhard Lehmann, lasciando sul campo una quantità notevole di errori, anche gravi, che rendevano il testo poco utilizzabile (e finora poco esaminato, nonostante la sua importanza).
Frutto di una rilettura integrale del manoscritto, la nuova edizione ci restituisce il testo in una versione affidabile, con un ampio apparato critico di note, indici e concordanze, che consentono un inquadramento assai preciso del corso del semestre estivo del 1784, preparato in un anno decisivo per la genesi della Critica della ragion pratica, precisamente negli stessi mesi che Kant dedicava alla stesura finale di Che cos’è l’illuminismo? e della Fondazione della metafisica dei costumi, usciti rispettivamente nel 1784 e 1785.
I tre testi contemporanei s’illuminano a vicenda su temi decisivi come la libertà e la dignità dell’uomo. Tra pochi mesi uscirà presso Bompiani l’edizione italiana, bilingue, a cura di Hinske e Sadun Bordoni. Va segnalato che la traduzione in inglese prevista anni fa nel quadro della Cambridge Edition of the Works of Immanuel Kant è stata sospesa in attesa di questo nuovo testo critico, che sarà tradotto presto anche in francese, spagnolo, portoghese e altre lingue.
Leggiamo nell’introduzione del Naturrecht: «Nel mondo come sistema di scopi deve esserci uno scopo ultimo, e questo è l’essere razionale. Se non ci fosse alcuno scopo, anche i mezzi sarebbero inutili e non avrebbero alcun valore. - L’uomo è scopo, ed è pertanto contraddittorio che egli possa essere semplicemente mezzo. \ - L’uomo, cioè, è scopo in se stesso, e può pertanto avere solo un valore intrinseco, cioè avere dignità, nessun equivalente del quale può essere posto. Le altre cose hanno un valore estrinseco, ovvero un prezzo, onde ciascuna cosa, che è parimenti funzionale a un certo scopo, può essere posta come equivalente. Il valore intrinseco dell’uomo si fonda sulla sua libertà, sul fatto che egli possiede una propria volontà.
Dato che egli deve essere il fine ultimo, la sua volontà non deve dipendere da null’altro» (p. 5 - KgS 27/2/2:1319s.). In queste righe troviamo annunciato da Kant per la prima volta il grande tema della dignità dell’uomo, oggi più che mai da porre al centro del nostro orizzonte morale.
Il Naturrecht Feyerabend sarà presentato a Roma presso l’Aula Marconi del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Piazzale Aldo Moro 7, il 13 gennaio alle ore 16,00 con interventi di Agata Amato, Francesco D’Agostino, Tullio De Mauro, Tullio Gregory, Giacomo Marramao e Loris Sturlese. Saranno presenti gli autori.
Heinrich P. Delfosse, Norbert Hinske, Gianluca Sadun Bordoni, Stellenindex und Konkordanz zum "Naturrecht Feyerabend", Forschungen und Materialien zur deutschen Aufklärung, vol. III/30, Frommann-Holzboog, Stuttgart Bad Cannstatt 2010-2014, 3 voll., p. XLI-206; CXXXV-174; LXI-617; ISBN 9783772815607, 9783772825910, 9783772826580.
PAPA FRANCESCO NELLE SPIRE DELL’IMMAGINARIO COSTANTINIANO. Gesù, il "Bambino, nato a Betlemme dalla Vergine Maria". Sul tema, alcuni appunti:
Papa: "No allo splendore del potere. L’amore di Dio è umile"
Nell’omelia pronunciata durante la messa dell’Epifania in San Pietro Bergoglio rievoca le figure evangeliche di Erode, "uomo di potere che nell’altro riesce a vedere solo il rivale", e dei Magi, "entrati nel mistero"
di Redazione *
CITTA’ DEL VATICANO - "L’amore di Dio è umile, tanto umile". Nel giorno dell’Epifania Papa Francesco ha voluto sottolineare che bisogna credere "più nella bontà di Dio che non nell’apparente splendore del potere". Nell’omelia della messa solenne celebrata in San Pietro davanti a oltre cinquemila fedeli, vescovi e cardinali, Bergoglio ha evocato l’episodio evangelico dei tre re che giunsero a Betlemme per rendere onore al Salvatore e si ritorvarono in una povera stalla: la loro tentazione fu quella di "rifiutare questa piccolezza. E invece essi ’si prostrarono e lo adorarono’, offrendogli i loro doni preziosi e simbolici", divenendo così "modelli di conversione alla vera fede perché hanno creduto più nella bontà di Dio che non nell’apparente splendore del potere".
Nella riflessione del Pontefice il contraltare dei Magi è Erode, un "uomo di potere che nell’altro riesce a vedere soltanto il rivale". I tre re invece "sono passati dai calcoli umani al mistero". La ricerca di Dio "è una ricerca che non ha mai fine" e la compiono "uomini e donne nelle religioni e nel mondo intero".
"Quel Bambino, nato a Betlemme dalla Vergine Maria - ha detto Francesco nell’omelia - è venuto non soltanto per il popolo d’Israele, rappresentato dai pastori di Betlemme, ma anche per l’intera umanità, rappresentata oggi dai Magi, provenienti dall’Oriente". La ricerca di Dio da parte dell’umanità, ha osservato, è come la processione dei Magi, "una processione che da allora non si interrompe più, e che attraverso tutte le epoche riconosce il messaggio della stella e trova il Bambino che ci indica la tenerezza di Dio". Papa Bergoglio ha quindi ripercorso il racconto dei Magi analizzando i loro atteggiamenti, decisioni e comportamenti - e quelli di Erode e dei pastori - osservando in particolare il modo in cui i sapienti venuti dall’Oriente hanno cercato di capire il messaggio della stella, hanno superato le difficoltà, hanno commesso errori e sono caduti in tentazione. Ha analizzato ciò che ai Magi ha dato consolazione e cosa desolazione.
"L’amore di Dio è grande? - si è chiesto il Pontefice - Sì. L’amore di Dio è potente? Sì". "E allora - ha proseguito - ci possiamo chiedere: qual è il mistero in cui Dio si nasconde? Dove posso incontrarlo? Vediamo attorno a noi guerre, sfruttamento di bambini, torture, traffici di armi, tratta di persone? In tutte queste realtà, in tutti questi fratelli e sorelle più piccoli che soffrono per tali situazioni, c’è Gesù". E ancora: "Il presepe ci prospetta una strada diversa da quella vagheggiata dalla mentalità mondana: è la strada dell’abbassamento di Dio, la sua gloria nascosta nella mangiatoia di Betlemme, nella croce sul Calvario, nel fratello e nella sorella che soffre. Quell’amore di Dio che si abbassa, si annienta".
Il Papa ha quindi chiesto di pregare per "vivere lo stesso cammino di conversione vissuto dai Magi", "liberi dalle tentazioni che nascondono la stella". "Che abbiamo sempre - ha auspicato Francesco - l’inquietudine di domandarci: dov’è la stella?, quando - in mezzo agli inganni mondani - l’abbiamo persa di vista. Che impariamo a conoscere in modo sempre nuovo il mistero di Dio, che non ci scandalizziamo del ’segno’, dell’indicazione, quel segno detto dagli angeli: ’un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia’".
Papa Bergoglio ha concluso l’omelia pregando affinché "troviamo il coraggio di liberarci dalle nostre illusioni, dalle nostre presunzioni, dalle nostre ’luci’ e che cerchiamo questo coraggio nell’umiltà della fede e possiamo incontrare la Luce, ’Lumen’, come hanno fatto i Magi. Che possiamo entrare nel mistero, così sia". Parole alte, che hanno segnato una funzione durante la quale sono risuonate le tante lingue del mondo, dalle letture bibliche in inglese, italiano, spagnolo, alle preghiere in francese, cinese, swahili, filippino, russo e il vangelo è stato cantato in latino da un diacono dagli inconfondibili tratti orientali.
Anche Harry Potter fa bene agli scienziati
Il saggio epistemologico di Marco Ciardi (Carocci)
di Gillo Dorfles (Corriere della Sera, 15.12.2014)
Che un grande scienziato come Galileo e uno dei massimi filosofi tedeschi come Kant non fossero del tutto alieni da avere delle «illuminazioni» che trascendevano la loro consueta razionalità, non può non stupire, ma è fondamentale per comprendere, che non esiste una unicità della struttura mentale che sia completamente estranea dalle interferenze con materie diverse da quelle di solito impiegate. E allora non è sorprendente che un filosofo come Kant avesse, alle volte visto degli «spiriti»; anzi che avesse avuto addirittura dei rapporti - probabilmente medianici o iniziatici che gli permettessero di avere un comportamento del tutto diverso dal consueto; e ciò, oltretutto, significava che l’impostazione iper-razionale del suo pensiero poteva egualmente adeguarsi da quello basato su un genere completamente diverso tra conoscenza e coerenza.
Naturalmente questa ambiguità cui ho accennato si verifica in quasi tutti i rapporti tra l’uomo e la scienza, l’uomo e la conoscenza, perché non bisogna dimenticare che nel rapporto tra pensiero scientifico, pensiero imaginifico e pensiero artistico esistono dei legami indissolubili più spesso ambigui, mentre lo stesso può dirsi per quello che riguarda quello che potremmo definire come atteggiamento magico (sempre però tenendo presente che dicendo fattore magico non intendo accettare gli esempi di una banale azione come quella di una fattucchiera o di una falsa veggente, che predice il futuro). Col termine magia, infatti indichiamo quell’atteggiamento tra il misterico e l’onirico che costituisce un equivalente di quel territorio magico nel quale agiscono le forze più oscure - ma anche più fantastiche - che spesso guidano l’uomo nei suoi rapporti con il prossimo.
Quando nella copertina del suo recente testo Galileo & Harry Potter , Marco Ciardi premette: «La magia può aiutare la scienza», colpisce nel segno nel sintetizzare quello che sarà l’argomento principe della sua trattazione; ossia fin a che punto il pensiero scientifico possa coincidere o meno col pensiero letterario e col pensiero magico. È ovvio che, dicendo pensiero magico, intendo quella disposizione d’anima che consente anche una visione non materialistica della vita e addirittura una possibile situazione iniziatica o mediatica. Dicendo magia dunque non alludiamo alle così dette previsioni delle “veggenti”, ma per contro accettiamo il fatto che spesso le argomentazioni della ragione possano non andare disgiunte da premesse esoteriche, capaci di realizzare un tessuto onirico-magico, denso di ulteriori situazioni emergenti.
Troppo spesso non si tiene conto come quello che esula dal nostro «stato di coscienza» può albergare delle cognizioni «apparentemente nascoste» che trovano inaspettatamente la loro elucubrazione.
Lungi da me l’idea di favorire i principi dell’irrazionale, dell’onirico; ma per contro riconosco la mia volontà di ammettere l’esistenza coeva di un pensiero scientifico e di un pensiero immaginifico (e, perché no, di un pensiero magico).
Per concludere con le stesse parole dell’autore, possiamo affermare che tra scienza, magia e fantasia è possibile sempre uno scambio attivo e positivo, purché non avvenga una confusione di termini tra cultura scientifica e speculazione fantastica col volere attribuire a entrambe lo stesso significato e la stessa portata costruttiva della personalità umana, sia che ci si rivolga ai grandi maestri della scienza come Galileo, Kant, che alle - solo apparentemente - ingenue fantasticherie della J.K.Rowling nella sua fantasmagoria sul maghetto Harry Potter.
Sarà sempre evidente che una confluenza tra scienza e arte, tra coscienza e magia, saranno preziose per dare all’uomo una completa visione del mondo nel quale è stato proiettato dal suo destino. Ecco allora come dall’attività di uno scienziato come Galileo Galilei fino alle invenzioni romanzate della J.K. Rowling esiste tutto sommato un filo conduttore che possiamo definire magico e che ci aiuta a ragionare anche al di fuori delle consuete coordinate che regolano - o dovrebbero regolare - il nostro pensiero e la nostra esistenza.
Heidegger antisemita indispensabile
Un grande filosofo e un pensiero sotto accusa. Vattimo risponde all’intervista sui “Quaderni neri” pubblicata nel numero scorso
di Gianni Vattimo (l’Espresso, n.49, 11 dicembre 2014)
Dei “Quaderni neri” di Martin Heidegger è forse più interessante la storia esterna che il contenuto filosofico. Non intendo sminuire l’importanza dei testi ora pubblicati (che conosco solo attraverso la lettura di Donatella Di Cesare in “Heidegger e gli ebrei. I ‘Quaderni neri”, Bollati Boringhieri). Ma semmai sottolineare che per ora la loro importanza sembra legata non tanto a ciò che essi dicono, ma agli effetti a cui stanno dando luogo, come appunto il libro della Di Cesare. Il quale è la vera novità, il testo mai ancora scritto che, più che offrire strumenti per rileggere Heidcgger, lo illumina come un vero e proprio documento d’epoca, in cui si riassume una parte decisiva della cultura del Novecento.
Tutto si gioca intorno alla battaglia heideggeriana per il superamento della metafisica. Che egli, come si sa, concepiva come il peccato originale della civiltà occidentale, quella tendenza a identificare l’essere con l’ente, con l’oggetto, che culmina nella riduzione di tutto, compreso il soggetto umano, a «risorsa disponibile», manipolabile secondo criteri matematico scientifici, insomma nel trionfo della tecnica. Che c’entra questo con gli Ebrei? Per Heidegger, essi sono il popolo metafisico per eccellenza: sradicati da ogni rapporto con il territorio - non hanno patria, e dunque non rispondono a un destino storico - sono l’emblema della astrattezza matematica che caratterizza la razionalità moderna.
Si ricorderà qui che Di Cesare è autrice di un libro (“Israele. Terra, ritorno, anarchia”) in cui molti concetti heideggeriani sono messi a frutto in una intensa analisi dell’ebraismo, e che nessuno pensa di accostare ai “Quaderni neri” di Heidegger, «complici» di Auschwitz. Ciò che c’è di comune, però, è quello che Di Cesare illustra nel lungo excursus storico sull’antisemitismo nella filosofia europea. Molti dei terni che ricorrono in questa storia confluiscono nella visione heideggeriana. Che non risulta ovviamente legittimata da questi richiami, ma appare meno contingentemente legata al suo “nazismo”. Con l’excursus storico viene in luce la novità dello studio di Di Cesare, che produce una sorta di corto circuito: mentre si credeva che la questione fosse un modo di processare Heidegger e la sua teoria, qui siamo messi di fronte al fatto che questa teoria è solo la punta di un iceberg che galleggia da secoli nella nostra cultura.
Ma insomma, Heidegger risulterebbe così assolto dalla colpa di aver ” fiancheggiato”, per lo meno, il nazismo e Auschwitz? Ritorniamo così all’aspetto “biografico” del tema. I “Quaderni neri” sono un documento d’epoca ma anche un pezzo della biografia di un pensatore del quale la filosofia del Novecento non può fare a meno. Sul conto del documento d’epoca si deve mettere ancora il mito a cui Heidegger sembra aver ceduto: l’idea tardo settecentesca, già di Hölderlin, che la Germania, non ancora industrializzata e divisa in piccoli stati, potesse essere una nuova Grecia presocratica, quella sognata da Nietzsche, ancora immune dal razionalismo e perciò pre-metafisica.
L’errore anzitutto storico di Heidegger è stato di pensare che questa nuova Grecia potesse essere la Germania di Hitler, stretta fra il comunismo sovietico e il capitalismo anglo-americano, vista come ultimo baluardo dell’Europa umanistica. Ma più grave è stato qui l’errore filosofico di Heidegger, l’idea, contraddittoria con la sua filosofia della differenza ontologica, che potesse risorgere una civiltà pre-metafisica, come se la metafisica potesse essere davvero superata in una civiltà con la presenza dell’essere (che non può mai identificarsi con l’ente presente).
È possibile ritenere che questa auto-contraddizione sia solo una “caduta” del pensatore (che aveva vissuto gli anni drammatici di Weimar e che, anche con l’idea di Israele popolo metafisico, poteva illudersi di ridurre alla ragione filosofica l’antisemitismo hitleriano). Resta da vedere se invece proprio l’esito tragico del nazismo non costringa a rivedere persino la nozione heideggeriana di metafisica e di conseguenza tutta la sua visione della modernità.
Parla Padre d’Ors scrittore e consigliere di Papa Francesco
“Il Pontificio Consiglio ha chiesto una relazione sul ruolo femminile. Ormai i tempi sono maturi”
“Rousseau e Einstein erano capaci di esperienze spirituali profonde anche senza Dio”
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 5.11.2014)
MADRID «PERCHÉ mi ha scelto papa Francesco? Un mistero. Forse avrà chiesto: qual è il prete più marginale di Madrid?». Pablo d’Ors scoppia in una risata mentre s’inerpica nella sua casa del quartiere Tetuán, una specie di torre su quattro piani che sarebbe piaciuta a Montaigne. È qui, tra il piano della biblioteca dove d’Ors compone i suoi romanzi e la cappella su in alto dove recita messa, che sta maturando un’altra rivoluzione del pontificato di Bergoglio. Finora se n’è parlato poco, anzi per niente. E per scoprirla bisogna venire a trovare questo outsider delle lettere e del sacerdozio che emana una vitalità allegra.
Davvero inclassificabile, padre d’Ors. «Scrittore mistico, erotico e comico», così lui si presenta rivelando la sua vocazione al paradosso. I suoi primi bellissimi racconti del Debutto si prendevano beffa delle letteratura mondiale, narrando le gesta di una signora slovacca che fa l’amore con i più grandi scrittori del Novecento. Pagine sorprendenti in cui si possono leggere riflessioni del genere: «Pessoa è lo scrittore che ha dormito di meno in tutta la letteratura mondiale».
Cresciuto in una famiglia colta - il nonno era Eugenio d’Ors, un monumento della cultura spagnola - Pablo s’è sempre nutrito di parole, per poi approdare alla Biografia del silenzio , un manifesto della meditazione che è diventato un caso editoriale in Spagna (tradotto da Vita e Pensiero). Non più giovanissimo, a 27 anni, dopo una vita ricca di amori, letture, viaggi anche spericolati, ha scelto il sacerdozio: ora nell’ospedale Ramón y Cajal accompagna i malati a morire.
Quest’anno è stato chiamato dal Pontificio Consiglio della Cultura presieduto dal cardinal Ravasi, dove a febbraio porterà il suo mattone per la costruzione di un nuovo immenso edificio. Che incarico le è stato affidato?
«Sono uno dei trenta consiglieri nominati in tutto il mondo. Ci hanno chiesto di presentare una relazione sul ruolo della donna nella Chiesa. Ormai sono maturi i tempi per percorrere nuove strade».
Si parlerà dell’apertura del sacerdozio alle donne?
«Non posso dire apoditticamente di sì, ma penso che dietro la prossima riunione plenaria ci sia questa impostazione».
Lei è favorevole?
«Assolutamente sì, e non sono da solo. Che la donna non possa essere prete per il fatto che Gesù era un uomo e che avesse scelto solo uomini è un argomento molto debole. È una ragione culturale, non metafisica».
Cosa porterebbero le donne?
«La vita. E tanta ricchezza. Il cambiamento è necessario, anche perché si tratta di una discriminazione inaccettabile. Per preparare il mio lavoro ho parlato con moltissime donne di diversa estrazione sociale e culturale, cristiane e non cristiane: con una sola eccezione, tutte si sono mostrate favorevoli».
C’è ancora molta resistenza?
«Sì, non solo nella curia ma anche nella base. La novità fa sempre paura. Invece un criterio importante per misurare la vitalità spirituale di una persona è la sua disponibilità al cambiamento. Resistere alla vita è un peccato perché la vita è svolgimento continuo».
Questo vale anche per la Chiesa?
«Soprattutto per la Chiesa».
Lei che tipo di sacerdote è?
«Sono un prete felice. Ho sentito una voce interiore. E quando vivi la vita come risposta a una vocazione provi la felicità. Questo non significa che non ci siano stati momenti difficili ». Il fatto di aver molto vissuto prima di prendere i voti... «... anche ora vivo intensamente».
Sì, ma il fatto di aver avuto molte storie d’amore la rende un sacerdote migliore?
«Conoscere l’amore umano aiuta a conoscere meglio l’amore divino. Oggi posso dire che mi ha aiutato, mentre nel momento in cui lo vivevo avevo l’impressione che mi facesse male. Bisogna avere il tempo per elaborare l’esperienza».
I suoi rapporti con le gerarchie vaticane non sono stati sempre sereni.
«Si riferisce ad Antonio Maria Rouco Varela, ex vescovo di Madrid? Avevamo due modi molto diversi di intendere la presenza cristiana nel mondo. Potrei sintetizzarlo in due parole: alternativa oppure dialogo. L’alternativa ti porta a una visione chiusa del cristianesimo, separato da un mondo visto come sentinella di tutti i vizi. Il dialogo significa riconoscere nel mondo anche la bellezza e il bene. Dunque non ti impongo la mia verità assoluta, ma ti invito a metterti in dialogo con me per trovare insieme la verità. Francesco è un vero pontefice perché crea ponti intorno a sé».
Oggi lei lavora nell’ospedale di Ramón y Cajal. Come si accompagna una persona a morire?
«Ascoltando veramente ciò che dice, senza giudicare intellettualmente o caricare emotivamente. Ascoltare e basta, dimenticando se stessi, che è la cosa più difficile ».
Lei ha detto che morire da cristiani non comporta meno angosce che morire da laici.
«Un momento. Se sei davvero un credente ti aiuta. Non ti aiuta quando sei cristiano di nome ma non di cuore».
Ma si può vivere una buona vita senza Dio?
«Certo che si può vivere senza un Dio. Non si vive bene senza contatto con la fonte della pienezza, si chiami Dio, essere o vita. Persone come Einstein o Rousseau non erano credenti, ma capaci di esperienze spirituali profondissime».
Lei perché scrive romanzi? Pensava a sé quando fa dire a Pessoa: “Non scrivo ciò che penso, ma scrivo per pensare”?
«Uno ritiene ingenuamente che la scrittura serva per comunicare, ma questo vorrebbe dire che io so già cosa devo dire. In realtà la scrittura è rivelazione, nel senso che rivela a te stesso quello che devi scrivere. Non è un fatto solo intellettuale, ma più profondo, direi viscerale».
Ma perché poi lei è approdato all’elogio del silenzio? Non c’è un aspetto paradossale, ossimorico, nel biografare il silenzio?
«Solo in apparenza. Parola e silenzio sono le due facce di una stessa medaglia. Le parole vere, quelle che hanno la possibilità di toccare l’altro, nascono dal silenzio, ossia dall’intimità con se stessi. E approdano al silenzio perché la cosa più bella, quando leggi un libro, è il bisogno di ricreare tu stesso quello che hai letto. In fondo la letteratura è un invito a tacere».
Il silenzio come l’unica etica possibile. Lei lo fa dire a Thomas Bernhard.
«Sì, per me è stato fondamentale. È Bernhard a teorizzare che tutto è citazione. La letteratura nasce dalla letteratura. Anche i miei romanzi nascono ai margini dei libri altrui».
Lei si definisce scrittore erotico, mistico e comico. Ma cosa tiene unite cose così diverse?
«L’ironia è lo stile, misticismo ed erotismo sono i contenuti. Sia la mistica che l’eros cercano l’unità: ricompongono la separazione nell’unione dello spirito e dei corpi. Quanto alla leggerezza, è quella che genera l’allegria del lettore».
A proposito di leggerezza, ne Il debutto fa a pezzi Kundera e molti altri. Grandi scrittori, ma piccoli uomini.
«L’ironia ha anche una funzione liberatoria. Quasi una dichiarazione di principio: ecco i miei maestri, ma non voglio restare schiacciato sotto queste bestie della letteratura ».
Ma perché introdurre il tema corporale: l’organizzatrice slovacca che si lascia possedere da tutti i grandi intellettuali?
«Ho voluto mostrare un inganno. Noi ci illudiamo di possedere libri e persone. Ma, dal momento che non è possibile padroneggiare tutta la letteratura, la cosa più facile è accedere al corpo degli scrittori».
La sua critica ricorrente verso gli scrittori è di preferire la scrittura alla vita.
«Per molti la letteratura è un modo vicario di vivere la realtà. Credo invece che ciascuno dovrebbe fare un’opera d’arte non solo della scrittura, ma anche dalla propria vita. Thomas Mann l’ha capito benissimo. Proust e Kafka, al contrario, hanno sacrificato le loro esistenze alla letteratura».
Primum vivere. Ma i sacerdoti vivrebbero meglio con una donna al loro fianco?
«I tempi sono maturi anche per questa svolta, ma è solo una mia opinione personale. E nel Pontificio Consiglio, no, di questo non si parlerà».
Class enemy: Kant torna in cattedra
di Mattia Maistri (Nazione Indiana, 01.11.2014)
L’opera prima di Rok Bicek ha una trama piuttosto semplice: un professore di tedesco, Robert Zupan, sostituisce una collega in congedo di maternità in un liceo sloveno.
Da quel momento in poi, tutto il film ruota attorno al difficile rapporto tra l’uomo e la classe, esasperato dal tragico suicidio di una studentessa e dalla ribellione degli studenti che attribuiscono al docente la responsabilità dell’accaduto. Il conflitto acuisce la sua asprezza giorno dopo giorno, nella completa incapacità dell’istituzione scolastica di trovare il bandolo della matassa.
Matassa che si sbroglia da sola in un finale che non ha nulla di epico o eclatante, ma che pone i due soggetti (classe e docente) per la prima volta a confrontarsi su un orizzonte comune, benché conciliante nell’inevitabile separazione.
Se il film offrisse soltanto la narrazione di un’amara vicenda generazionale, potrebbe tranquillamente finire nel calderone dei film sulla scuola, senza infamia e senza lode. Ma è proprio la sua capacità meta-narrativa a renderlo un’opera apprezzabile e stimolante.
Lo scenario è così inquadrato: sullo sfondo gli studenti, divisi nelle loro peculiarità e bassezze adolescenziali, privi di riferimenti che non siano le etichette del “si dice” o del “si deve” - i trasgressivi e gli obbedienti - e, davanti a loro, la sfilata dei veri padroni della scena, gli adulti, che il regista è riuscito a trasformare in efficaci metafore dei portatori di senso, con i quali gli studenti si incrociano in una caotica e inconsapevole ricerca di risposte.
Le caratteristiche degli adulti sono costruite al fine di delineare dei “tòpoi”, alle prese con un reale al quale attribuire significato. Troviamo così l’utilitarismo cinico di una preside che si affanna per far tornare la calma apparente che accontenti tutti; il sentimentalismo ottuso della docente in maternità che, da perfetta anima bella, crede che basti un poco di zucchero per far ingoiare l’amara pillola dell’esistenza; la schizofrenia etica dell’insegnante di educazione fisica che alterna rigore e pettegolezzo, distacco e seduzione, in un’alternanza priva di coerenza e soggetta agli istinti del momento; l’egoismo autistico dei genitori, incapaci di affrontare i figli senza essere autoreferenziali.
Infine, l’illuminismo prussiano del professore di tedesco: perfetta immagine di un Kant redivivo, giunto in una classe del XXI secolo a gettare un sasso che non sia preda dei flutti della cosiddetta società liquida.
Al pari del romanticismo esistenziale del professor Keating ne “L’attimo fuggente” e del sociologismo tragico (figlio di Adorno e Marcuse) del professor Wenger ne “L’onda”, l’illuminismo kantiano del professor Zupan supera i confini del lungometraggio e diventa strumento per scardinare la realtà del senso comune.
Mentre tutti gli altri personaggi, studenti in primis, sono preda di condizionamenti, sia interni che esterni, che ne offuscano la capacità analitica, generando un crescendo incontrollabile di drammi e frustrazioni, il rigore razionale di Zupan, fedele alla lezione kantiana, non mostra segni di cedimento, anche quando è facilmente equivocabile, anche quando impedisce qualsiasi forma di empatia, anche quando, masticando uno “stronzo” che riemerge dal lontano vissuto scolastico, ti fa trasalire sulla sedia del cinema.
Zupan è il vessillo della ragione decarnificata, libera dagli orpelli individuali che producono alibi, moventi e paraventi alle nostre dipendenze.
La forza con cui prende forma l’imperativo categorico della ragione soffoca le emozioni che - in poche scene - il professore sembra provare.
Perché non c’è spazio per i condizionamenti ma solo per la riflessione pura, scevra da buonismi o isterismi e svincolata da odio o pietà.
E al pari del filosofo sbeffeggiato e, infine, ucciso nel platonico mito della caverna, il kantiano Zupan offre agli studenti una lezione di libertà, capace di tracciare una via d’uscita alla cultura del nozionismo (utile alla carriera) o del miope relativismo per cui “tutti la pensano come cazzo vogliono”.
Acquisire la consapevolezza che, nonostante gli avvenimenti che singolarmente ci colpiscono, sia possibile vivere da uomini tra uomini, è più di uno spiraglio di luce per coloro che ogni giorno entrano in classe. E’ il filo di Arianna grazie al quale scoprire che una comunicazione è sempre possibile. Senza dover invocare roghi o ghigliottine.
Attenti a rottamare Kant
La filosofia non è tecnica
di Umberto Curi (Corriere della Sera - La Lettura, 12.10.2014)
Che cos’hanno in comune Gianni Vattimo e Ligabue? E perché Massimo Cacciari compare spesso fra gli ospiti dei più svariati talk-show? Per capirlo, dobbiamo fare un lungo passo indietro, fino all’autunno del 1765. Un professore di fama ancora piuttosto oscura, libero docente di filosofia presso l’Università di Königsberg, con l’approssimarsi dell’inizio delle lezioni accademiche, aveva pubblicato una «comunicazione», con la quale dava notizia del programma e dell’orario delle lezioni del corso che si accingeva a tenere.
La qualifica di Privatdozent non gli consentiva di contare su quello che oggi chiameremmo un posto di ruolo, con relativo decoroso stipendio. Come precario, egli doveva confidare su un’ampia partecipazione di studenti, e su giudizi lusinghieri, allo scopo di ottenere una conferma dell’incarico. Di qui la scelta di allegare alla «comunicazione» una concisa dissertazione, in cui indicava le finalità del corso, illustrate in modo tale da rendere appetibile l’insegnamento per una vasta platea di allievi.
Quel docente si chiamava Immanuel Kant. Il testo da lui redatto in quella circostanza, noto col titolo di Nachricht («annuncio», «notizia», «comunicazione», appunto), conteneva una chiara esplicitazione di temi molto importanti, con un respiro culturale che eccedeva di gran lunga la contingenza. L’insegnamento universitario della filosofia - scrive Kant - deve far sì che l’allievo diventi un Selbstdenker , «uno che pensa con la propria testa». Se l’università non si attiene a questa direttiva, essa non solo tradisce i suoi compiti istituzionali, ma finisce per produrre seri danni. Il docente dovrà dunque adoperarsi affinché gli studenti non imparino «pensieri», ma imparino a «pensare»; che essi, insomma, non apprendano la filosofia, ma diventino invece capaci di filosofare; che essi non siano indotti a diventare «recipienti» di idee prodotte da altri, ma acquisiscano le procedure per produrre autonomamente idee.
Allo scopo di giustificare questa rivoluzione copernicana ante litteram , vale a dire precedente a quella che egli introdurrà 16 anni più tardi, con la pubblicazione della Critica della ragion pura , Kant adduce una serie di argomenti (non tutti persuasivi allo stesso modo), tra cui il richiamo alla differenza essenziale fra le scienze e la filosofia. Mentre nel caso delle scienze - che siano «storiche», vale a dire basate sull’osservazione, o matematiche, fondate sul calcolo - si può individuare un «dato di fatto», qualcosa che è «già provveduto», e che dunque deve semplicemente essere assimilato, nel caso della filosofia questa condizione è assente, e di conseguenza non vi è qualcosa da trasmettere mediante l’insegnamento.
Per quanto possa apparire convincente e perfino affascinante, la proposta di Kant non ha goduto di grande fortuna fra gli addetti ai lavori. Già bollata come disdicevole «smania», o come «infelice prurito», da Hegel, l’ipotesi di attribuire all’insegnamento della filosofia il compito di preparare gli allievi a «pensare con la propria testa» sarebbe stata addirittura ridicolizzata da alcuni esponenti della filosofia analitica contemporanea. Per pensare con la propria testa - hanno osservato - bisognerebbe averne una, cosa che spesso è tutt’altro che scontata. E poi: guai se non pensassimo anche con la testa degli altri. Ci priveremmo di un irrinunciabile patrimonio di idee e conoscenze, senza il quale non vi sarebbe possibilità di progresso.
Pur senza citare la Nachricht kantiana, ma richiamandosi spesso ad argomenti di ispirazione analitica, sul complesso delle questioni ora citate si sofferma Diego Marconi, nel suo Il mestiere di pensare (Einaudi). Scritto in maniera limpida e insieme rigorosa, assistito da una solida conoscenza dei principali filosofi contemporanei, in particolare di lingua inglese, il libro attraversa gran parte dei problemi soggiacenti al dibattito suscitato dalla proposta kantiana: il rapporto fra scienze e filosofia; la figura del filosofo, conteso fra l’artigiano e lo specialista; il conflitto fra storici e teorici sull’utilità (o la superfluità) della storia della filosofia per il concreto esercizio filosofico.
L’importanza dei temi affrontati induce a rimandare ad altra sede una più analitica discussione di merito. Qui è però possibile soffermarsi su un aspetto peraltro non marginale, rispetto all’orditura del libro, nel quale l’autore mette a confronto una accezione «professionale» con la variante «dilettantesca» del lavoro filosofico. Per essere più precisi, non è questo il solo dualismo, né il più importante, fra quelli evocati da Marconi. Al contrario, egli costruisce buona parte della sua argomentazione mediante la tecnica della distinzione-contrapposizione: fra filosofi divulgatori e filosofi mediatici, fra protagonisti di festival e specialisti, fra autori di testi dal significato oscuro e tecnici dell’argomentazione rigorosa.
Muovendo da una convinzione, non apertamente dichiarata, ma anche neppure tanto dissimulata, e cioè che nella controversia tra filosofi analitici (Willard Quine, Peter Strawson, Hilary Putnam, lo stesso Marconi) e filosofi continentali (Martin Heidegger, Jacques Derrida, Jürgen Habermas, Emanuele Severino) solo i primi meritino di essere considerati degli autentici «professionisti» del mestiere di pensare, mentre i secondi possano andare bene per soddisfare le ambizioni dell’assessore che voglia promuovere una kermesse culturale, o per accontentare il direttore di un quotidiano, o per partecipare a dibattiti televisivi, ma non possano aspirare alla serietà nell’esercizio della filosofia.
Insomma, secondo l’impostazione di Marconi, il problema non è stabilire con quale «testa» si debba pensare (con la propria, come vorrebbe Kant, o quella di altri, come suggeriscono gli analitici), ma quale forma logico-argomentativa debba assumere il discorso filosofico, per almeno assomigliare al rigore delle procedure in uso nelle scienze. Dove è allora evidente che la distinzione kantiana fra scienze e filosofia è destinata a saltare, e soprattutto che a decidere chi sia un filosofo degno di questo nome saranno i membri di una inevitabilmente ristretta comunità scientifica, e non le arene mediatiche, straripanti di pubblico e povere di competenze.
Quale rapporto vi sia poi fra questa accezione rigidamente tecnicizzata di filosofia, sostanzialmente indistinguibile dalle scienze, e il modo in cui essa è stata coltivata, lungo una secolare tradizione, da Eraclito e Platone, Aristotele e Cartesio, Spinoza e Hegel, Nietzsche e Heidegger - di tutto ciò il testo di Marconi non parla, se non per accenni. Ma forse è vero, ancora una volta, che ciò intorno a cui non si può parlare, si deve tacere.
Immanuel Kant (1724-1804)
Precondizioni per capirlo
Una introduzione di Renato Pettoello e la traduzione delle dissertazioni in latino rendono più chiara la genesi delle sue idee
di Maria Bettetini (Il Sole-24 Ore/Domenica, 12.10.2014)
«Il desiderio di vedermi abilitato in una di queste discipline filosofiche mi dà l’occasione di supplicare, nel modo più umile possibile, Vostra Maestà, affinché voglia accordarmi il posto di Professore Straordinario di Logica e Metafisica lasciato vacante presso la nostra università». Il postulante non venne ascoltato, e non ebbe la cattedra. D’altra parte, Immanuel Kant aveva solo ventidue anni, uno di insegnamento, nessuna esperienza all’estero e otto pubblicazioni, di cui tre dedicate alle origini dei terremoti, tema poco filosofico. Non fu dunque la durezza di Federico II di Prussia a respingere la richiesta di una cattedra, nemmeno oggi il giovane Kant sarebbe stato abilitato dai concorsi nazionali.
Divenne professore ordinario nella sua città (dopo aver rifiutato offerte da altre quattro) a quarantasei anni, con una ventina di pubblicazioni, quando poté lasciare il posto di sottobibliotecario che gli aveva nel frattempo consentito di sopravvivere. Anche in questo caso, nessun contatto con colleghi al di fuori del neonato Impero di Prussia (come avrebbero richiesto i concorsi odierni), Kant parlava tedesco, scriveva in tedesco e latino, secondo il costume accademico. In latino i testi accademici, in tedesco le opere per il pubblico, una scelta che diede un forte impulso all’uso della lingua volgare nei libri di scienza e filosofia. A proposito di libri: Kant non era benestante e conosceva i suoi diritti, scrisse dunque pagine durissime contro gli editori che ristampavano i suoi libri senza consultarlo e soprattutto senza dargli il corrispettivo dei diritti d’autore.
Si comprende meglio perché nel discutere la prova a priori dell’esistenza di Dio sottolineasse la differenza tra cento talleri pensati e cento talleri esistenti. Spesso Kant ci è stato presentato come un misantropo pignolo e avaro: usciva e rientrava a ore fisse, non si è mai allontanato dalla città natale Köningsberg (oggi Kaliningrad, Russia), non faceva vita mondana.
Gli rende giustizia una recente introduzione al suo pensiero scritta da Renato Pettoello, che racconta di un uomo ben deciso a non disperdersi e a non buttare via il tempo, perché teso al fine di completare il suo lavoro filosofico, una missione nata dalla "grande luce" che lo invase nel 1769. In quell’anno, comprese che non si doveva avere la pretesa di conoscere il mondo, ma di definire quali siano la struttura e i limiti del nostro conoscere.
Al liceo mi sarebbe piaciuto avere tra le mani il libretto di Pettoello, che con semplicità, segno di padronanza, conduce anche i non esperti a un incontro sereno con il filosofo che capovolse la filosofia (e a volte anche i voti degli studenti liceali). In particolare, Pettoello sottolinea come la apparente poca coerenza tra gli scritti kantiani sia in verità frutto di un atteggiamento di onesta ricerca: «egli cercava con mente aperta, senza dogmatismi, la soluzione dei problemi che gli si presentavano», «senza cristallizzarsi sulle proprie posizioni, che era sempre pronto a rimettere in discussione». Alcune prese di posizione mirano alla distruzione di stereotipi da manuale, per esempio la definizione della Critica della ragion pura come «teoria dell’esperienza, una teoria della costituzione oggettiva del mondo, oltre che un grande trattato sul metodo».
A dispetto di quanto si continua a ripetere, «la filosofia kantiana, tutta la filosofia kantiana, non è soggettivistica, non è psicologistica e non è dualistica». Come spesso accade, un filosofo pensa e scrive, altri poi interpretano e stravolgono. L’invito è quindi ad affrontare, con l’appoggio dei tanti ausili ormai disponibili, la lettura delle opere kantiane.
Per chi avesse già dimestichezza con le opere in volgare, tutte con plurime e spesso ottime traduzioni in italiano, è disponibile ora una nuova traduzione di quattro opere latine, quattro dissertazioni presentate per altrettanti "concorsi" universitari.
Le prime, Sul fuoco e Nuova delucidazione dei primi principi della conoscenza, furono discusse per diventare lettore (un po’ il nostro "ricercatore") nel 1855. La Monadologia fisica fu oggetto di una disputazione pubblica prima dell’inizio dell’insegnamento, sempre all’università di Köningsberg, mentre La forma e i principi del mondo sensibile e intelligibile è il titolo della dissertazione che nel 1770 gli permise di diventare professore ordinario di Logica e Metafisica.
Il curatore delle nuove traduzioni, Igor Agostini, nella dotta introduzione sottolinea il valore storiografico di questi testi: non solo per la ricostruzione della carriera accademica e della vita scientifica di Kant, ma anche e soprattutto per la corretta interpretazione del suo tedesco. Il latino si rivela «essenziale per colmare le lacune del tedesco».
Nelle quattro dissertazioni sarebbe operativo un lessico che percorre trasversalmente l’intero corpus kantiano, studiarle significa quindi comprendere meglio e ricostruire l’evoluzione del pensiero del filosofo prussiano. D’altra parte è Kant stesso che nella prima Critica inserisce tra parentesi, dopo il termine tedesco, il termine latino corrispondente.
In particolare, quando al termine del primo libro della Dialettica trascendentale sottolinea la necessità di «adottare il termine idea nel suo significato originario», il ricorso al latino gli è utile per classificare le diverse specie di rappresentazioni in un’ottica platonica.
Così rappresentazione è Vorstellung e repraesentatio, la sensazione è Empfindung e sensatio, il concetto è Begriff e conceptus e così via. Il latino di Kant, spesso e insensatamente criticato (è chiaro che un prussiano nato nel 1724 non poteva avere la prosa di Cicerone né la levità di Virgilio), risulta invece l’anello della catena che stringe fortemente la "rivoluzione copernicana" di Kant con il lavoro filosofico dei secoli precedenti. Superando con disprezzo le metafisiche a lui vicine nel tempo, attinse volentieri al lessico e ai contenuti di Platone e Aristotele. Tutto questo quando poté dedicarsi serenamente agli studi, con la tranquillità, anche economica, del cattedratico.
CARLO LEVI: UN ECCEZIONALE INTERPRETE DI G. B. VICO. Una nota
ALLA LUCE del nostro tempestoso presente storico (e della "barbarie ritornata"), non è male (mia opinione e mio invito) rileggere il ricco e complesso lavoro sociologico-politico (altro che "romanzo"!) di Carlo Levi, “Cristo si è fermato ad Eboli”, e soffermarsi - in particolare - sul passaggio relativo alla “Ditta Renzi - Torino”, alle tasse, e alle capre (pp. 40-42, Einaudi, Torino 2010 - in rete).
Il ’passaggio’ offre un ‘cortocircuito’ tra ieri (1935) e oggi (2014), una sintesi eccezionale della "cecità" di lunga durata delle classi "dirigenti" del nostro Paese, e ricorda a tutti e a tutte come e quanto, ieri come oggi, ” (...) quello che noi chiamiamo questione meridionale non è altro che il problema dello Stato (...) (p. 220, cit.). E non solo: "È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010)!
Il discorso è di lunga durata e investe le strutture stesse dellla cultura europea e planetaria: nel Cristo si è fermato a Eboli, c’è "la scoperta prima di un mondo nascente e delle sue dimensioni, e del rapporto di amore che solo rende possibile la conoscenza" (C. Levi, Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia, "Introduzione" [1955], Einaudi, Torino 1978). [...] Federico La Sala
«Ma nella mente ora avverrà dei popoli
Che mai più torni fertile La parola ispirata»
(Ungaretti, Il Dolore , 1946)
di Guido Ceronetti (la Repubblica, 10.09.2014)
LASCIO il mio lapsus (Ungaretti dice non più e io, memoria errante, mai più ) perché forse, oggi, il nostro poeta quel mai sarebbe incline a mettercelo. Quel che posso dire è che mi duole, il cristianesimo che muore. Si tratta di un’amputazione enorme, in anestesia totale, in modo che nessuno se ne accorga. Non ho idea però di quel che sarà quando ce ne accorgeremo, qui, nelle nazioni cristiane dell’emisfero. Quando ne scriveva o me ne parlava Sergio Quinzio, la cosa mi era del tutto indifferente. Non mi pare di essere cambiato, né mi sono riconvertito in vecchiaia ai miei lontani anni di devozioni: tuttavia adesso la cosa è talmente evidente dovunque, e così tanti i segni di morte, da poterla risentire come una personale ferita.
«ORA accadrà che cenere prevalga?», concludeva Ungaretti quella sua poesia. Cenere, cenere... Cenere è uguale a Nulla... È questo nulla a farmi paura? Se il cristianesimo è irresistibilmente attirato da un Buco Nero il vuoto che lascerà non sarà colmabile.
Un aforisma di Cioran, il filosofo romeno, è spesso infallibile. Uno di questi dice: «Il cristianesimo è morto quando ha cessato di essere mostruoso». Il quando è una data da andarne in cerca: ma non è molto lontana, le mostruosità hanno lunga vita e lunghissime agonie mortali; a volte sono immortali, come l’antisemitismo. Succederà anche all’Islam, da qui lo sforzo per sopravvivere all’onda che spazza la tolda aggrappandosi al controllo, all’oppressione e al terrore puro: la fase attuale si può vederla come struggle for life darwiniana. Tutte le fedi monoteiste sono risucchiate dal Buco Nero. Non ne scompare una senza che l’altra la segua.
Forse, la mostruosità cristiana specifica è in declino da quando sono cessati gli autodafé e i processi delle streghe? Nei tempi nostri, da quando il Papa è sceso dalla sedia gestatoria e si è messo a fare viaggi trionfali? Il Vaticano II andrà visto come una cessazione del carattere mostruoso della Chiesa che avrà impresso un’accelerazione al processo mortale del cristianesimo in ambito cattolico? Nell’ortodossia scismatica - la russa in specie - cessati il terrore e le persecuzioni comuniste, ha prevalso, mi pare, una continuità pacifica da zombi; non ci vedo più niente di vivo, ma fino a ieri non furono pochi i martiri. Memorabile resta la parabola del Grande Inquisitore dei Karamazov: Cristo ritorna, si rimette a predicare, fa seguaci, guarisce l’Aids, la Sla, Ebola, moltiplica pane e pesci per miliardi, squilibra la realtà a un tale punto che il Grande Inquisitore per il bene di tutti lo fa arrestare. Per non essere arrestato Cristo dovrebbe circondarsi di milizie fanatiche, risuscitare per risuscitarsi un cristianesimo mostruoso.
Léon Bloy - cristiano cattolico dei più grandi e dei più mostruosi - spettatore da un sobborgo di Parigi delle frenesie di distruzione della Grande Guerra, (al loro culmine nel 1916), profetizzava l’avvento dei Paracleto, lo Spirito Santo, previsto per la fine dei tempi storici. Come estrema speranza di credente invocava e aspettava che un misterioso Qualcuno venisse: ma dopo la sua morte nel 1917 e la ridicola pace del 1919, quale mai Consolatore-Redentore assoluto è venuto? Agnellini divini che abbiano portato i mali del mondo, tanti, per lo più anonimi, come adesso come domani, ma di Paracleti nessun segno.
L’Europa credente, inevitabilmente allora tutta cristiana (con minoranze teosofiche o di passati per Monte Verità, come Max Weber, Rilke), secondo Paul Fussell era in ripresa nelle trincee, ma non credo che in quelle condizioni la fede tradizionale andasse oltre le invocazioni mentali prima degli assalti, e ai gemiti dei rantolanti abbandonati nelle buche. Forse, nel corpo britannico, la Bibbia di Re Giacomo, nei versetti memorizzati nell’infanzia, confortava maggiormente, ma come voce vetero-testamentaria esclusivamente non cristiana. Preghiere per la pace e Natali di speranza non mancavano, nelle nazioni combattenti, sempre meno invogliate a farsi fare a pezzi; però di che vive una religione mistico-trascendente, se non di speranze che oltrepassano infinitamente qualsiasi tregua d’armi e ritorno a casa? E dopo la guerra, gli sterminati campi di croci segnano, nonostante il simbolo cristiano, l’apparizione di un culto nuovissimo, estraneo alla confessione cristiana: quello dei caduti. I caduti ignorano la vita futura.
Con più struggimento che nei libri, il tragico della Morte di Dio (del Dio cristiano) lo trovi nel cinema firmato da Carl Dreyer, Luis Buñuel, Ingmar Bergman, dove senti il fragore delle ondate tra cui il Titanic - Cristianesimo, protestante o cattolico, sta colando a picco. La stupefacente rinuncia del Papa Ratzinger è un dramma bergmaniano. Il Papa teologo vede lucidamente non poter più reggere o essere predicata la sua teologia da patrologia latina o greca, rigetta un cristianesimo che non ha la forza di rianimare, e si ritira in un monastero che gli sarà come un piccolo surrogato dello scoglio di Sant’Elena.
Ma rivediamo un capolavoro di Bergman come Luci d’inverno , dove alla pieve di un piccolo paese il pastore Ericsson dice messa nella chiesa perfettamente vuota di fedeli. Lo scenario, il rito luterano, l’officiante ci sono: le anime, no. Immaginiamo la magnificenza di San Pietro come l’orrida bruttezza di una piazza di Seul, gremite di folla, e un giorno il Papa che si affaccia per benedire piazze deserte. Avrà visto questo, il Papa invece delle piazze dei trionfi puntuali? Il deserto della chiesa di Frostnäs? La stessa visione non afferra anche il Papa Francesco? Da certi affioramenti in lui di dubbiosità e inquietudine in pause di stanchezza, direi di sì. Un mondo decristianizzato è un mondo vuoto, che non ha ubi consistam , orfano anche di nordiche Luci d’Inverno. Beati i perplessi.
GUERRA E PACE [1° e 2°]
di don Aldo Antonelli *
In data 30 settembre 1932 Freud scrive dichiarando la sua sorpresa e incompetenza nel rispondere al «che cosa si possa fare per tenere lontana dagli uomini la fatalità della guerra», confermando la tesi del suo interlocutore che nell’uomo «c’è una pulsione all’odio e all’autodistruzione» e condividendo l’impotenza e l’inadeguatezza sia delle istituzioni giuridiche e internazionali sia delle filosofie, delle teorie e delle utopie che, pur volendo contenere la violenza, la perpetuano e, pur affermando che di fronte alla guerra ci si deve comunque indignare, riconosceva con disincanto: «Da quanto precede ricaviamo la conclusione che non c’è speranza di poter sopprimere le inclinazioni aggressive degli uomini. Si dice che in contrade felici della terra, dove la natura offre a profusione tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno, ci siano popoli la cui vita scorre nella mitezza, presso i quali la coercizione e l’aggressione sono sconosciute. Ci credo poco; mi piacerebbe saperne di più su queste felici creature. Anche i bolscevichi sperano di riuscire a sopprimere l’aggressività umana garantendo il soddisfacimento dei bisogni materiali e stabilendo l’uguaglianza sotto tutti gli altri aspetti tra i membri della loro comunità. Io ritengo questa un’illusione. Intanto, si sono armati con il massimo scrupolo, e per tenere uniti i loro adepti ricorrono non da ultimo all’odio contro tutti gli stranieri. D’altronde non si tratta, come Lei stesso osserva, di abolire completamente l’aggressività umana; si può cercare di deviarla al punto che non debba trovare espressione nella guerra».
(Testo in S. Freud, Opere 1930-1938, vol. 11°, Bollati Boringhieri, Torino 1979, 300)
Mi permetto di aggiungere anche la risposta che una cara amica di Trieste, Ambra, psicanalista, mi ha inviato perché non solo corregge la mia citazione, ma allarga in maniera magistrale il discorso su altri campi.....
Buona giornata.
Aldo
Caro don Aldo mi fa piacere che citi il famosissimo carteggio Einste- Freud sulla guerra. Sono certa che più di un tuo lettore, particolarmente acculturato (io non faccio testo perché sono psicoanalista e le opere di Freud “dovrei” averle sulla punta delle dita come tu hai il Vangelo o la Bibbia...!) saprà anticipare la tua risposta. Comunque ti segnalo una svista: si tratta dell’11° volume e non del 2°che riguarda gli scritti dei primi del ‘900.
Freud conviene con Einstein sull’esistenza di una pulsione di odio, o distruttiva che dir si voglia (e su questa gli psicoanalisti si sono più volte interrogati nel dopo Freud sviluppando vie a volte contrapposte: la Klein, una delle prime psicoanaliste infantili, credeva molto nella pulsione distruttiva e ha teorizzato, osservando i bambini anche molto piccoli, la sua esistenza. Oggi il dibattito è ancora aperto tanto che esiste nella Società psicoanalitica un gruppo di studio sulla violenza sociale di cui faccio parte).
Il problema secondo Freud è che gli impulsi distruttivi sono impastati con quelli erotici (e non per una fissazione di Freud di vedere la sessualità ovunque: ricorda che per Freud la sessualità è strettamente legata anche alla vitalità e la esprime proprio nella generatività che non è solo concreta, della riproduzione, ma anche mentale) e questo impasto è un grosso problema. Del resto tutti sappiamo di essere più o meno abitati da aspetti sadici e masochistici, che non necessariamente arrivano alla patologia, ma possono esprimersi in svariate forme larvate. E che spesso sesso e morte sono i protagonisti di film e romanzi famosi...
Una possibilità dunque non è quella di abolire l’aggressività umana e la nostra tentazione di fare conflitti (guarda i bambini: sono i profeti di quegli stessi conflitti che nelle stesse maniere, anche se in modalità drammaticamente più gravi, si “giocano” tra stati, popolazioni e uomini e donne di potere!) In questo non dovrebbe “abbandonarci nella tentazione” in nostro buon Padre! Si può piuttosto cercare di deviare l’aggressività così che non trovi espressione nella guerra. E solo con l’Eros si può far fronte alla pulsione di morte, a Thanatos! E l’Eros per esempio lo puoi trovare nelle migliaia di giovani che marciano per la pace, mano nella mano, innamorandosi magari proprio quel giorno della compagna di strada, avvolti nelle bandiere arcobaleno, cantando a squarciagola e inneggiando a un mondo diverso. Non lo realizzeranno completamente, certo, è un’utopia, ma il loro innamorarsi toglierà ossigeno alla pulsione di morte!
Lo stesso Freud a pag. 300, nella risposta ad Einstein, dice:” La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: ‘Ama il prossimo tuo come te stesso’. Ora questa è un’esigenza facile da porre, ma difficile da realizzare” ( e Freud lo aveva discusso ne “Il disagio della civiltà” nel 1929!). E. aggiungo io “amare l’altro COME si ama se stessi”. Ma noi sappiamo amarci veramente oppure siamo in adorazione narcisistica di noi stessi? Non è la stessa cosa...
Per Freud si può solo puntare su un atteggiamento più civile e sul giustificato timore degli effetti della guerra. Quindi avere un pochino di paura della guerra è un vantaggio intelligente e non la manifestazione di poco coraggio! Ricordo di essere nata negli anni ’50, in un’epoca in cui quando si giocava alla casa con le bambine, il papà non veniva fatto da nessuno perché “era in guerra”... non al lavoro! E ricordo i discorsi della mia nonna che mi spaventava con le immagini di una guerra in cui si faceva la fame, si mangiava solo polenta ogni giorno. Una nonna, in una famiglia, che aveva vissuto le persecuzioni naziste perché di origini ebraiche.
Qualche anno dopo questo carteggio Freud, ormai molto anziano, morirà a Londra, lontano dalla sua Vienna, occupata dai nazisti, fuggito grazie all’aiuto di persone, tra cui soprattutto Marie Bonaparte principessa di Grecia e di Danimarca oltre che profonda conoscitrice di psicoanalisi, che lo amavano e temevano per lui, ebreo, che fino all’ultimo sembrava voler negare la gravità di quanto stava succedendo.
Sul tema della guerra molti psicoanalisti dunque hanno trattato, ma consiglio la lettura degli scritti di Franco Fornari che nel 1966 in Psicoanalisi della guerra spiega come la guerra rappresenti una elaborazione paranoica del lutto, difensiva, rispetto invece ad una più sana, ma più dolorosa e difficile, elaborazione depressiva.
Se non sbaglio Bonasia, sempre un famoso psicoanalista, dirà che la guerra è un infanticidio in cui i padri, quelli che comandano, mandano alla guerra - con la quale difendere i propri interessi di padri - i propri figli per farli morire e non essere da loro soppiantati!
Vedi... hai aperto un vaso di Pandora!
Un caro abbraccio Ambra
* Testo ricevuto via mail da don Aldo Antonelli
Se Israele vuole l’eredità di quell’ebraismo ridotto in cenere, deve assumerne la piena eredità morale
di Moni Ovadia (Peace Reporter, 08.09.2006) *
Yad Vashem è il museo dell’Olocausto di Gerusalemme, il sacrario della Shoà, ma per gli israeliani è ben altro che questo. Quel luogo è per molti aspetti, il topos del senso stesso dell’esistenza di Israele come stato ebraico.
Ogni cittadino, ogni fanciullo, ogni soldato, si reca in pellegrinaggio in quel luogo per assumere il pieno statuto identitario di ebreo israeliano. Ogni persona, dal semplice turista o viaggiatore, al più illustre politico in visita in Israele, quale che sia la ragione della sua presenza, sa che ha il dovere di rendere omaggio alle vittime dello sterminio nazista recandosi a Yad Vashem. Con quel solenne pellegrinaggio, il visitatore riconosce il suggello con cui lo stato d’Israele assume su di sé un’intera eredità. Per un grandissimo numero di ebrei che si riconoscono nelle istituzioni ufficiali, Israele diviene acriticamente e senza mediazioni, passato, presente e futuro. Per essi la diaspora perde significato in sé per divenire appendice di un ritorno in pectore anche se procrastinato sine die. Di fatto, essi si sentono israeliani in standby.
Le recenti drammatiche vicende mediorientali, richiedono una rimessa in questione di questi assetti israelo-ebraici e delle dinamiche psicologico-culturali che vi sottostanno. Il movimento sionista ha avuto fra i suoi obbiettivi primari quello di normalizzare gli ebrei, collocandoli in una terra con la quale avevano un’antico legame e facendone un popolo come gli altri. Quando il primo ebreo fu arrestato per furto e messo in prigione nella neonata entità statuale ebraica, il padre fondatore e primo capo del governo, David Ben Gurion, esultò: ”Siamo un paese normale!”.
Mai affermazione fu più rovinosamente scentrata. Israele è tutto fuorché un paese “normale”. La sua collocazione geografica è in Medio Oriente ma in questo momento la sua vocazione è occidentale. Per certi aspetti potrebbe essere uno stato degli Stati Uniti, anche se più di metà della sua popolazione viene da stati arabi e il 17% di essa è arabo-palestinese. La sua politica, in grande misura coincide con quella delle amministrazioni americane.
E’ stato fondato da scampati alle persecuzioni antisemite zariste e degli stati autoritari centro-orientali e da sopravvissuti alla Shoà, ha piena dunque titolarità a quella eredità, ma gli ebrei sterminati dai nazisti erano quanto c’è di più lontano da quello che è oggi l’ebreo israeliano. Quelli parlavano lo yiddish ed erano a proprio agio in molte altre lingue, vivevano a cavallo dei confini, erano cosmopoliti, ubiqui, inquieti, refrattari alle logiche militari, poco interessati, quando non ostili ai nazionalismi, erano smunti, fragili, dediti allo studio, alle professioni liberali, intellettuali, al piccolo o grande commercio, appartenevano alla categoria dei paria perseguitati emarginati, erano dalla parte degli sconfitti.
L’israeliano delle nuove generazioni si esprime in ebraico moderno, una lingua costruita desantificando l’ebraico biblico e piegandolo alle esigenze di una nazione e la sua seconda lingua è l’inglese. L’israeliano sta con i vincitori, è forte, determinato, orgogliosamente nazionale, militarmente molto preparato, capace di essere agricoltore e soldato quanto intellettuale e tecnico, ma anche taxista, ingegnere, negoziante o impiegato, operaio e persino occupante e poliziotto di un altro popolo, cosa inconcepibile per un ebreo della diaspora che subì lo sterminio.
Oggi, che nuovamente un leader fanatico di un paese islamico chiede la cancellazione dello stato sionista dalla carta geografica, in Israele e nella diaspora, si evoca il legame con la Shoà in modo univoco e schematico quasi a volere stabilire un parallelo inaccettabile con il ghetto di Varsavia.
Ma ancorché Israele viva in stato di grande difficoltà e subisca il terrorismo e l’aggressione di Hezbollah sulla carne della propria gente, pensare di rappresentare la tragica eredità dello sterminio solo con un modello rigido per giustificare l’uso indiscriminato della propria soverchia forza militare e radere al suolo intere città provocando quasi esclusivamente morti civili, è scambiare etica per propaganda.
Se Israele vuole assumere l’eredità di quell’ebraismo ridotto in cenere, deve assumerne la piena eredità morale, cessare di vessare ed imprigionare un altro popolo, diventare più piccolo, molto più democratico, abbandonare la mistica della potenza, diventare leader del processo di pace ed assumere la funzione di ponte fra occidente e medio oriente.
* Segnalato da don Aldo Antonelli
Così lo ius soli ha aiutato la Germania a vincere
di Maria Luisa Colledani (Il Sole-24 Ore, 16.07.2014)
Chissà che cosa avrà pensato Helmut Kohl domenica sera davanti alla tv quando Philipp Lahm ha alzato al cielo di Rio la quarta coppa del mondo nella storia della Germania. Il cancelliere della Germania unita, sulle macerie del Muro di Berlino, perentoriamente aveva affermato: «Il nostro Paese non è e non potrà più essere in futuro terra di immigrazione».
Mai sentenza fu più fuori luogo, dopo il successo della squadra di Joachim Löw, in cui il calcio è sinfonia di un’orchestra - i giocatori - con lingue e provenienze diverse. Ci sono turchi (Mesut Özil), tunisini (Sami Khedira), ghanesi (Jérôme Boateng), polacchi (Miroslav Klose e Lukas Podolski, e lo è anche il cancelliere Merkel alla lontana), albanesi (Shkodran Mustafi), tutti vestiti di giallo-rosso-nero e tutti nati in Germania intorno al 1990, così giovani da aprire un’era calcistica.
È vero, non tutti cantano l’inno, ma questa nazionale è come quei palazzi di Potsdamer Platz che, fasciati di vetri ovunque, sono specchio fedele delle strade della capitale. Un mondo, quello tedesco, che ha lasciato il patriottismo e ha elaborato una storia drammatica per farsi modernità, frontiera del vivere globalizzato: a Berlino, la Grande Mela d’Europa, si parlano decine di lingue, la Germania nel 2013 è diventata la seconda destinazione al mondo per immigrati permanenti (dati Ocse: 400mila i nuovi arrivi soprattutto dai Paesi periferici della Ue, una persona su cinque viene da un qualche altrove).
E il Paese, come da Dna, non si è fatto trovare impreparato. Conscio dell’invecchiamento della propria popolazione (entro il 2050 spariranno 12-14 milioni di persone) si è dotato, dopo decenni trascinati fra accordi bilaterali, di una legge sull’immigrazione d’avanguardia.
In vigore dal 2005, la norma prevede che per qualsiasi tipo di permesso si deve dimostrare di essere in regola con il passaporto, di possedere mezzi di sussistenza, una situazione abitativa adeguata, di avere contributi pensionistici per almeno 60 mesi e di non avere subito condanne.
Poche regole, ben chiare, che si affiancano alla possibilità per i bambini nati dopo il 1° gennaio 2000 su suolo tedesco da genitori non tedeschi di acquisire la nazionalità se almeno uno dei due genitori ha il permesso di soggiorno permanente da tre anni (è lo ius soli, grande sogno del presidente Napolitano).
Anche nelle pieghe delle norme volute dal Bundestag nasce la Germania multietnica e vincente di Löw. Certo, la Federcalcio tedesca ci ha messo del suo: esaurita la leva calcistica di Brehme, Klinsmann e Matthäus, si è ristrutturata dall’interno: prima ha cavalcato il Mondiale in casa per ammodernare gli stadi, poi ha costruito venti centri federali e investito 600 milioni di euro in dieci anni nei vivai. Il risultato, prima o dopo, doveva arrivare, d’altra parte la Germania, nel 2009, aveva vinto tre Europei: Under 21, Under 19 e Under 17. E in quelle squadre giocavano già i vari Özil, Boateng e Khedira. Dopo tanti tiri in porta, Rio è solo il gol vincente, il risultato di un progetto, giocato di sponda fra calcio e politica, cogliendo tutte le occasioni, compresa la fame di successo, di conquista sociale che possono avere occhi non proprio teutonici.
I tempi dei Gastarbeiter, i "lavoratori ospiti" che la Germania accolse a partire dagli anni 50, sono finiti, e pure quel tipo di immigrazione. Ora a Berlino, Monaco, Francoforte e Amburgo arrivano ingegneri, web designer, artisti, attratti dai posti di lavoro, da un’economia in movimento, dalla certezza delle regole e da un melting pot avviato al successo. Che in un Paese senza passato coloniale è un triplo salto carpiato riuscito di cui i calciatori sono la fotografia che la Germania ha mostrato al mondo nella notte di Rio.
Una Nazionale non si giudica da un calcio di rigore, non ne ha neppure avuto bisogno contro un’Argentina senza troppa fame. Una Nazionale si giudica dalla fantasia, che è anche scegliere come campo per l’ultimo allenamento prima della finale non il Maracanã ma il Sâo Januário, lo stadio del Vasco da Gama, primo club brasiliano a reclutare i giocatori senza distinzione di razza e di ceto sociale. Un piccolo particolare, solo un particolare; la grandezza e la storia si costruiscono anche così. E Löw lo sa meglio di chiunque altro.
NOTA INTRODUTTIVA.
La "buona" interpretazione dei sogni è quella che nasce dalla gratuità ("charitas"), non quella per profitto ("caritas").
di Luigino Bruni (Avvenire, 7 luglio 2014
Le carestie sono molte e diverse. Il nostro tempo sta attraversando la più grande carestia di sogni che la storia umana abbia conosciuto. La carestia di sogni prodotta da questo capitalismo individualistico e solitario è una forma molto grave di indigenza, perché mentre la mancanza di pane non estingue la fame, se ci priviamo dei sogni finiamo per non accorgerci più della loro assenza; ci abituiamo a un mondo impoverito di desideri sempre più soffocati dalle merci, e presto diventiamo talmente poveri da non riuscire ad accorgerci di questa povertà. Come è possibile sognare angeli, il paradiso, i grandi fiumi d’Egitto quando ci addormentiamo di fronte alla tv accesa? Per i sogni grandi occorre addormentarsi con una preghiera sulle labbra, o svegliarsi con un libro di poesie aperto sopra il petto, che ha vegliato sul nostro sonno.
Il giovane Giuseppe si ritrovò innocente in una prigione, rigettato di nuovo in fondo a un «pozzo» (Genesi 40,15). Quella prigione divenne, però, anche il luogo della piena fioritura della sua vocazione, quella annunciatagli dai sogni profetici di ragazzo. Quei primi sogni lo avevano fatto arrivare schiavo in Egitto; i sogni che interpreterà nella terra del Nilo saranno la strada che consentirà ai suoi grandi sogni giovanili di avverarsi, e di ritrovare i suoi fratelli-venditori e suo padre.
È in un carcere dove inizia una nuova fase della vita di Giuseppe, quella decisiva per sé e per il suo popolo (non è raro che un "carcere" diventi il luogo di inizio di una vita nuova). In quel «pozzo», da raccontatore dei suoi sogni Giuseppe diventa interprete dei sogni degli altri. Quand’era ragazzo narrava i suoi sogni, ma non li interpretava. Il dolore per essere stato odiato e venduto dai fratelli, la servitù e poi il carcere, lo avevano maturato e gli avevano rivelato se stesso. E nel crogiuolo delle sofferenze e delle ingiustizie scoprì la sua vocazione, divenne servitore dei sogni degli altri.
In quel carcere si trovavano con lui due alti officiali di corte: il coppiere e il panettiere del faraone (40,1). Questi «fecero entrambi un sogno, ciascuno il suo sogno» (40,5). Il mattino «Giuseppe venne da loro e li vide: erano turbati», e chiese loro: «Perché oggi avete una faccia così brutta?». Gli risposero: «Abbiamo fatto un sogno e non c’è chi ce lo interpreti» (40,7-8). I due funzionari raccontarono i loro sogni a Giuseppe, e lui glieli interpretò.
Solo chi ha sognato e ha avuto il coraggio di raccontare i suoi sogni può diventare ermeneuta dei sogni degli altri. Per una legge paradossale che è al cuore di molte cose alte della vita, i migliori interpreti dei sogni degli altri sono coloro che hanno più sofferto a causa dei propri sogni. Avere dei sogni e non trovare qualcuno che ce li interpreti è una grande causa di infelicità per chi, nonostante la carestia, continua a sognare - ce ne sono ancora molti, soprattutto nei paesi più poveri di Pil e più ricchi di sogni, sogni che presto produrranno anche ricchezza.
I sogni sono sempre cose serie, ma decisivi sono i "sogni a occhi aperti", quelli che chiamiamo progetti, aspirazioni, voglia di riscatto e di giustizia, desideri di futuro e di felicità, quelli che ci fanno intravvedere il nostro posto nel mondo. Ieri e oggi, però, i sogni hanno bisogno di interpreti, di qualcuno che ne sappia decifrare il contenuto, altrimenti quei sogni si spengono. Questi interpreti sono importanti sempre, ma sono fondamentali da giovani, nella stagione dei sogni grandi.
Giuseppe inizia a interpretare i sogni come dono a due compagni di carcere: «Giuseppe disse loro: le interpretazioni non appartengono forse a Dio? Raccontatemi, vi prego» (40,8). La "buona" interpretazione dei sogni è quella che nasce dalla gratuità, non quella per profitto («le interpretazioni non appartengono forse a Dio?»). Sta nel bisogno essenziale di questa gratuità la ragione della scarsità dei buoni ermeneuti dei nostri sogni. Sono un dono raro, ma non rarissimo.
Le "guide spirituali" appartengono a questa preziosa categoria umana, persone che ascoltano e interpretano i nostri sogni e i nostri segni. La buona interpretazione dei sogni è gratuità chiesta e donata. Non è un mestiere, e se diventa mestiere non è buona. Le interpretazioni che Giuseppe dà a quei due sogni sono molto diverse: al capo dei coppieri predice la liberazione, al capo dei panettieri annuncia la morte - come poi accadrà.
Il valore morale di un interprete di sogni si misura dalla sua onestà, cioè dalla capacità e dal coraggio di dirci anche le interpretazioni che non vorremmo sentire. Sono troppi, ieri e oggi, gli interpreti ruffiani che ci dicono soltanto le interpretazioni che ci piace sentire. A volta le interpretazioni sbagliate possono provenire anche da interpreti onesti, che però non hanno abbastanza coraggio e amore - anche se il carisma dell’interpretazione dei sogni si spegne se non lo si custodisce nella sofferenza delle interpretazioni difficili. Ho conosciuto giovani ai quali è stata resa la vita molto difficile, a volte guastata, da cattivi interpreti dei loro sogni, che di fronte ad evidenti segni di vocazione diversa da quella che quel giovane pensava di avere, non hanno avuto né l’onesta né il coraggio della interpretazione vera; e così invece di prendere su di loro il dolore per quella verità costosa, hanno manipolato i sogni e alimentato in quei giovani illusioni, delusioni, frustrazioni, infelicità. Fidarsi di un manipolatore di sogni è più dannoso della morte del sogno per mancanza di interpreti.
Dopo due anni, anche il faraone fece un sogno. «Egli stava presso il Nilo. Ed ecco salire dal Nilo sette vacche, belle di aspetto e grasse di carne, a pascolare tra i giunchi. Ed ecco, dopo quelle, altre sette vacche salire dal Nilo, brutte di aspetto e magre di carne ... Ma le vacche brutte di aspetto e magre di carne divorarono le sette vacche belle di aspetto e grasse» (41,1-4). Il faraone si svegliò turbato; si riaddormentò e fece subito un altro sogno: «Sette spighe da un unico fusto, grosse e belle. Ma ecco sette spighe minute e riarse dal vento d’oriente germogliare dopo di quelle. Le spighe minute inghiottirono le sette spighe grosse e piene» (41,5-7). Quei due sogni agitarono l’animo del faraone, che mandò «a chiamare tutti i divinatori e tutti i sapienti d’Egitto. Il faraone raccontò il suo sogno ma non ci fu nessuno che li sapesse interpretare» (41,8).
A questo punto del racconto arriva una svolta narrativa. Quel capo dei coppieri, al quale Giuseppe aveva interpretato il sogno due anni prima, si ricordò di lui. Ne parlò al faraone, che lo mandò a chiamare. Giuseppe gli rivela immediatamente la chiave per comprendere quanto sta per accadere, e la natura del suo operare: «Non io: Dio risponderà per il benessere [shalom] del Faraone» (41,16).
Siamo di fronte a un momento cruciale ed epocale: la fine dell’età dei divinatori, degli aruspici, dei maghi, e l’inizio del tempo della profezia. Qui Giuseppe diventa il primo profeta di Israele. In questa lettura del sogno del faraone vi ritroviamo, infatti, i tratti essenziali che distinguono l’autentica interpretazione profetica dai prodotti dei divinatori e dai falsi profeti di tutti i tempi. Questa interpretazione profetica è dono-gratuità, perché è esercizio di un carisma che il "profeta" riceve, non un suo manufatto né una tecnica appresa in qualche scuola. È un dono che per poter operare deve essere accolto dal suo destinatario, credendoci. E spinge sempre all’azione e al cambiamento.
La nostra società abbonda di consulenti for-profit, è sempre più inondata da maghi e da oroscopi, ma ci mancano troppo i buoni interpreti di sogni - e quei pochi che ci sono non vengono né cercati né ascoltati, e così rischiano di estinguersi per mancanza di domanda.
Quel Faraone, invece, credette all’interpretazione-profezia di Giuseppe, e agì. «Ecco, stanno per venire sette anni di grande abbondanza in tutta la terra di Egitto. Poi, dopo questi, si leveranno sette anni di carestia: si dimenticherà tutta quell’abbondanza nella terra d’Egitto e la carestia consumerà la terra [le vacche-spighe magre che divorano le grasse]» (41,29-30). E quindi Giuseppe continuò: «Il Faraone ravvisi un uomo intelligente e saggio e lo stabilisca sulla terra d’Egitto ... per prelevare il quinto dei prodotti della terra d’Egitto durante i sette anni di abbondanza» (41,33-34).
Le carestie da vacche magre passano. Queste carestie, prima o poi, finiscono naturalmente, anche se a volte con grandi costi. Le carestie di sogni, invece, non terminano da sole. Finiscono soltanto se, a un certo preciso punto, decidiamo di reimparare a sognare. Non è impossibile. Lo abbiamo saputo fare dopo miserie infinite e indicibili: dopo le guerre e le dittature, dopo i fratricidi, dopo le morti dei bambini. Abbiamo voluto, insieme, ricominciare a sognare. Abbiamo così ascoltato i poeti, i santi, gli artisti, che hanno saputo interpretare i nostri nuovi sogni. Abbiamo pregato e pianto insieme, recitato le loro-nostre poesie, cantato le loro-nostre canzoni. Le persone e i popoli rinascono e risorgono veramente soltanto così. «Il faraone si tolse di mano l’anello e lo pose sulla mano di Giuseppe; lo fece rivestire di abiti di lino finissimo e gli mise al collo un monile d’oro» (41,42).
Un inedito di Louis Althusser
Il pensatore francese critica l’idealismo a favore del materialismo e spiega come va insegnata la disciplina
“I filosofi escano dal loro mondo chiuso”
Quando Althusser si chiedeva “Ma la filosofia serve a qualcosa?”
di Louis Althusser (la Repubblica, 01.07.2014) POICHÉ apparentemente nella vita pratica la filosofia non serve a granché, dato che non produce né conoscenze né applicazioni, ci si può allora domandare: a che cosa serve la filosofia? E si può perfino porre quest’altra strana domanda: non è che per caso la filosofia serva solo al proprio insegnamento e a null’altro? E se serve solo al proprio insegnamento, ciò cosa significa? Cercheremo di rispondere a queste difficili domande. Con la filosofia le cose vanno così.
Basta riflettere su un aspetto piccolissimo (il fatto che i filosofi siano quasi tutti dei professori di filosofia), perché, senza neanche lasciarci il tempo di respirare, s’impongano alcune domande impreviste e sorprendenti. E queste domande sono tali che dobbiamo porle, senza avere i mezzi per rispondervi: per rispondere occorre fare un lungo periplo . E questo periplo non è altro che la filosofia stessa. Il lettore deve dunque armarsi di pazienza. La pazienza è una “virtù” filosofica. Senza di essa, non ci si può fare un’idea della filosofia.
Per procedere, diamo un’occhiata discreta a questi uomini: i professori di filosofia. Hanno mariti e mogli come voi e me, dei figli che hanno voluto. Mangiano e dormono, soffrono e muoiono, come tutti. Possono amare la musica e lo sport, fare politica o non farla. D’accordo, non è questo che fa di loro dei filosofi.
Ciò che fa di loro dei filosofi è che vivono in un mondo a parte, in un mondo chiuso: costituito dalle grandi opere della filosofia. Questo mondo apparentemente non ha un di fuori. Vivono con Platone, Cartesio, Kant, Hegel, Husserl, Heidegger, ecc. [...] La pratica della filosofia non è semplice lettura, né tanto meno dimostrazione. È interpretazione, interrogazione, meditazione : cerca di far dire alle grandi opere quello che vogliono dire, o possono voler dire , nella Verità insondabile che esse contengono, o meglio che indicano silenziosamente, “facendo segno” verso di essa.
Conseguenza: questo mondo senza un fuori è un mondo senza storia . Benché sia costituito dall’insieme delle grandi opere consacrate dalla storia, esso però non ha storia. La prova: per interpretare una passo di Kant, il filosofo farà ricorso sia a Platone che a Husserl, come se non ci fossero ventitré secoli tra i primi due e un secolo e mezzo tra il primo e l’ultimo, come se importasse poco il prima e il dopo.
Per i filosofi, tutte le filosofie sono per così dire contemporanee. Rispondono le une alle altre, facendosi eco, perché in fondo rispondono sempre a quelle stesse domande che costituiscono la filosofia. Da qui la celebre tesi: «la filosofia è eterna». Come si vede, affinché sia possibile la rilettura perpetua, il lavoro di meditazione ininterrotto, occorre che la filosofia sia al contempo infinita (ciò che “dice” è inesauribile) e eterna (tutta la filosofia è contenuta in nuce in ogni filosofo).
Questa è la base della pratica dei filosofi, o meglio dei professori di filosofia. Data questa situazione, fate attenzione se dite loro che insegnano la filosofia. Giacché è evidente che essi non insegnano come gli altri professori, i quali propongono ai loro allievi delle conoscenze da imparare, vale a dire dei risultati scientifici (provvisoriamente) definitivi.
Per il professore di filosofia che ha capito la lezione di Platone e Kant, la filosofia non si insegna. Ma allora cosa fa un professore di filosofia? Insegna ai suoi allievi a filosofare, interpretando davanti a loro i grandi testi o i grandi autori della filosofia, aiutandoli con il suo esempio a filosofare, inspirando loro il desiderio di filosofare. [...] Quello che ho appena descritto è, in forma relativamente pura, la tendenza idealistica, la pratica idealistica della filosofia.
Ma la filosofia può essere praticata anche in maniera completamente diversa. La prova è che nel corso della storia alcuni filosofi, diciamo i materialisti, hanno praticato la filosofia del tutto diversamente, e persino alcuni professori di filosofia tentano di seguire il loro esempio. Non vogliono più far parte di un mondo separato, di un mondo chiuso nella propria interiorità. Ne escono per abitare il mondo esterno : vogliono che tra il mondo della filosofia (che esiste) e il mondo reale si stabiliscano scambi fecondi. In linea di principio, ciò è per loro la funzione stessa della filosofia: mentre gli idealisti considerano che la filosofia è innanzitutto teorica, i materialisti considerano che la filosofia è innanzitutto pratica, viene dal mondo reale e produce, senza saperlo, degli effetti concreti nel mondo reale.
Notate che, nonostante la loro innata opposizione agli idealisti, i filosofi materialisti possono essere - per così dire - “d’accordo” con gli avversari su alcune questioni. Per esempio, a proposito della tesi “la filosofia non s’insegna” . Non le attribuiscono però lo stesso significato.
La tradizione idealistica difende questa tesi, innalzando la filosofia al di sopra delle conoscenze e invitando ciascuno a risvegliare dentro di sé l’ispirazione filosofica. La tradizione materialistica non innalza la filosofia al di sopra delle conoscenze, invita invece gli uomini a cercare al loro esterno, nelle pratiche, nelle conoscenze e nelle lotte sociali - ma senza tralasciare le opere filosofiche - di che imparare a filosofare. È una piccola differenza, ma carica di conseguenze.
Presses Universitaires de France, 2-014. Traduzione di Fabio Gambaro
Istruzioni per l’uso nella battaglia delle idee di Fabio Gambaro(la Repubblica, 01.07.2014)
PARIGI. «OGNI uomo è virtualmente un filosofo». È in questi termini che, ispirandosi a Gramsci, Louis Althusser concludeva nel 1975 un corposo volume intitolato Initiation à la philosophie pour les non philosophes (Presses Universitaires de France, pagg.386, euro 21). Rimasto inedito fino a oggi, il libro è stato ora pubblicato in Francia, dove il filosofo scomparso nel 1990 continua ad essere al centro di studi e ricerche.
Questa poco convenzionale «iniziazione alla filosofia per i non filosofi» fu scritta nella seconda metà degli anni Settanta, nel pieno della fase più intensamente politica di Althusser, e solo qualche anno prima della tragedia che avrebbe sconvolto la sua vita nel 1980, quando in un accesso di follia strangolò la moglie. Sono gli anni in cui l’autore di Pour Marx - per il quale un filosofo «è un uomo che si batte nella teoria» - rivisita criticamente il marxismo, convinto che la filosofia non sia altro che la continuazione della politica con altri mezzi, un campo di battaglia al cui interno lottano le idee, come nella realtà lottano le classi sociali.
Da qui la necessità di scrivere un «manuale» per fornire ai non specialisti gli strumenti per capire e affrontare questa guerra di teorie e concetti, utilizzando la filosofia contro ogni forma di rassegnazione politica e sociale. In queste pagine in cui denuncia i limiti dell’idealismo e difende la filosofia materialista, Althusser propone una stringente analisi dei concetti d’astrazione e d’ideologia, allontanandosi volontariamente dalla «filosofia dei filosofi per analizzare le pratiche concrete degli uomini».
La sua però non è semplicemente un’opera di divulgazione, dato che all’interno del suo ragionamento lo studioso sintetizza molte problematiche e categorie che costituiscono il nucleo della sua originale riflessione filosofica, a cominciare dal concetto di pratica. Non a caso, se Initiation à la philosophie pour les non philosophes all’epoca non fu pubblicato (probabilmente Althusser pensava di apportarvi ancora alcune correzioni, nonostante l’avesse già riscritto due volte), diversi passi del manoscritto verranno nondimeno riutilizzati in alcuni testi scritti successivamente.
Grazie a Kant, nonostante Kant
di Marcello Neri (Il Mulino, rivista, 12 giugno 2014)
"La fede nei miracoli deve essere resa ultimamente irrilevante attraverso la religione morale, perché si palesa un imperdonabile grado di miscredenza morale, se non si vuole accordare alle norme del dovere, che sono originariamente inscritte nel cuore dell’uomo attraverso la ragione, nessun’altra autorità se essa non viene ulteriormente convalidata dal miracolo" (I. Kant).
Eppure, nonostante se stesso, Kant può anche fare miracoli - almeno questa è la sensazione che mi trascino dietro da quando, ieri pomeriggio, ho terminato la mia lezione di Etica all’università. Perché, ammettiamolo, abbiamo finito per trasformare le nostre università, uno dei patrimoni più alti dello spirito europeo (dalla Bologna dell’XI secolo alla Berlino di Humboldt), in qualcosa che le ha snaturate alla radice. Se per un attimo smettessimo di mentire a noi stessi, e riemergessimo dalla convulsione della burocrazia e del reperimento di finanziamenti esterni che soffoca il nostro essere lì per insegnare, ci accorgeremmo che i ragazzi non vengono più all’università per imparare. Li abbiamo trasformati, cuccioli imberbi di un’Europa senza più gusto del sapere, in agenzie di frequentazione di moduli astrusi e produzione meccanica di esami: numeri anonimi delle nostre performance accademiche. Senza accorgerci che senza discepoli anche la figura del maestro diventa futile, sbiadita e, da ultimo, non ha più alcuna ragion d’essere.
Un po’ tutti affascinati e ammaliati dal gioco perverso del rating e del ranking, abbiamo ridotto la perla preziosa dello spirito europeo, il sapere, a quantità calcolabile in equazione; svendendolo, infine, alle logiche del mercato. Perché nella quantificazione del sapere, a scuola e all’università, si può lucrare un bel gruzzolo. Qualcuno inizia ad accorgersi delle conseguenze, non proprio auspicabili, insite nel piegare apprendimento e insegnamento alla classifica; perché, così facendo, "si distoglie l’attenzione da obiettivi formativi meno misurabili, o incommensurabili, come lo sviluppo fisico, morale, civico e artistico; restringendo pericolosamente la nostra immaginazione collettiva a riguardo di cosa sia e debba essere l’educazione" (Open Letter To Andreas Schleicher, Ocse, Paris). Ma anche quando raggiungiamo questo grado di consapevolezza, rimaniamo sostanzialmente inerti; la macchina sta sbranando i suoi stessi ingranaggi.
E chi mai avrebbe potuto immaginarsi che proprio il filosofo di Könisberg potesse offrirci una qualche miracolosa ancora di salvezza - per sfuggire, almeno per un attimo, al risucchio impietoso di questa deriva. Non riesco, infatti, a scrollarmi di dosso la sensazione lasciatami dalla lezione pomeridiana sulla Grundlegung zur Metaphysik der Sitten. Con la ciurma colorata dei miei studenti, così impastati della nostra spappolata contemporaneità, che fa loro sentire il ragionamento di Kant come qualcosa che proviene da un pianeta talmente lontano da non riuscire neanche a sembrare virtuale. Eppure, come d’incanto, eccoli lì a dismettere l’ossessione per l’esame, impegnati a cercare di capire come questo viaggio fantastico nelle eteree e asettiche regioni della ragion pratica (certo, ancora solo in nuce) potesse essere qualcosa che valesse la pena di un qualche apprendimento. Quasi teneri nelle loro domande, che cercavano di ricondurre l’imperativo categorico a un qualcosa che potesse dare dignità, ma sì diciamolo, morale alla loro impresa di vivere.
Per un attimo, l’emergere del desiderio di essere lì anche per imparare, capire, per apprendere i rudimenti di una vita che non vuole essere solo consumata. Abbandonare al suo destino questo desiderio di imparare in nome del sapere (e basta, per dirla con Kant), vorrebbe dire dichiarare chiusa una volta per tutte l’avventura dell’accademia europea dei saperi; e noi saremmo la generazione ricordata per averne, così freneticamente e stoltamente, preso definitivo congedo.
Il rabbino e il Papa, l’alleanza mancata contro il nazismo
Riemergono i diari di David Prato, che nel 1936 incontrò Pio XI per chiedergli di fare causa comune di fronte alla marea montante del “neopaganesimo”
di Maurizio Molinari (La Stampa, 13.06.2014)
L’incontro fra un esperto d’arte di Sotheby’s e l’allievo di Renzo De Felice attorno a un manoscritto inedito consente di ricostruire una pagina sorprendente della storia europea: negli Anni Trenta del Novecento i rabbini europei guardavano al Vaticano di Pio XI come possibile fonte di protezione e tutela dall’antisemitismo «pagano».
L’esperto d’arte è Angelo Piattelli, romano trapiantato a Gerusalemme, già al servizio di Sotheby’s per la Judaica in Israele ed Europa, che nel 2003, durante una visita in casa di Jonathan Prato per discutere dei diari del padre David che fu rabbino capo d’Alessandria dal 1927 al 1936 e di Roma nel 1937-38 (e dopo la guerra dal 1945 al 1951), trova casualmente una pagina manoscritta ingiallita dove in cima si legge «Capitolo XVI - La missione in Vaticano in favore degli ebrei polacchi».
Piattelli trascrive oltre mille pagine dei diari e si rivolge a Mario Toscano, docente di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma dove fu a lungo a fianco di Renzo De Felice, invitandolo a studiarne assieme le ricostruzioni degli incontri con Mussolini, Ciano e i rapporti con il Vaticano. È proprio Toscano a riassumere ora le novità contenute nell’inedito «Capitolo XVI» in un articolo su Mondo contemporaneo che esce quasi in contemporanea con uno studio di Piattelli sulla Rassegna mensile di Israel dedicato a David Prato.
Ciò che emerge è, anzitutto, la ricostruzione della missione di Prato a Roma in favore degli ebrei polacchi. Siamo nel 1936, Adolf Hitler è al potere da tre anni in Germania, e l’atmosfera di odio antiebraico spazza il Vecchio Continente. A Varsavia il Parlamento approva una legge che vieta la macellazione religiosa ebraica del bestiame e per oltre tre milioni di ebrei polacchi significa restare senza carne. Per Prato si tratta di un’«infamia» e il 25 febbraio 1936 riceve dal rabbino di Dublino, Isaac Herzog, la richiesta di chiedere aiuto a Pio XI.
«Sforzandomi di ragionare per trovare il modo di agire», scrive Herzog a Prato, «mi è venuto in mente che, in quanto nato in Italia e scelto per assumere la cattedra rabbinica romana, avrà conoscenze influenti ed altolocate che potrebbero raggiungere persino il Vaticano, quindi la prego di rivolgersi a loro affinché dal Vaticano provenga una direttiva riservata ai capi della Chiesa cattolica polacca».
Prato interpella i maggiori rabbini italiani dell’epoca - Gustavo Castelbolognesi, Adolfo Ottolenghi e Alfredo Sabato Toaff - esprimendo la convinzione che «il Vaticano ha un’enorme influenza sul governo polacco e potrebbe agire con speranza di risultato». Un’opinione sostenuta anche da Ottolenghi: «Il Vaticano ha una grande autorità religiosa internazionale». E il 17 marzo 1936 David Prato sbarca a Roma, ottenendo 48 ore dopo udienza in Vaticano, nel giorno del calendario che coincide con san Giuseppe. Varcata la soglia della Santa Sede, Prato manifesta stupore: «Una meraviglia, uno splendore, un incanto inverosimile. All’impressione provata che colpiva il mio animo si aggiungeva per aumentare il mio imbarazzo la completa ignoranza del protocollo e del cerimoniale».
Vede il cardinale Eugenio Pacelli, che nel 1939 diventerà Pio XII, e monsignor Domenico Tardini, sottosegretario di Stato di Pio XI. «Non mi sarei mai immaginato che mi ricevessero in un giorno di festa, è stato un colloquio interessantissimo» annota Prato nel diario, aggiungendo di aver ricevuto la «promessa di intervento immediato presso l’ambasciatore polacco presso la Santa Sede». «Non potevo trovare comprensione più rapida e completa» osserva.
Così quando l’8 gennaio 1937 torna a Roma, il rabbino Prato fa recapitare un «reverente saluto a Tardini» e il 15 maggio 1938 incontra di persona Pacelli «per perorare la causa degli ebrei ungheresi» anch’essi alle prese con discriminazioni e sofferenze. Anche in questo caso Prato agisce con il consenso dei rabbini europei e italiani e parla della proibizione della macellazione rituale, come anche della normativa antisemita introdotta in Ungheria proprio in quelle settimane che introduce criteri proporzionali nella presenza ebraica nella società.
«Certo è che noi dovremmo curare i rapporti col Vaticano perché siamo in questo momento compagni di sventura» appunta Prato nel diario, individuando un terreno di convergenza di interessi con il Vaticano: «Quanto avviene nel mondo rappresenta il fallimento del Cristianesimo» a causa del «neo paganesimo che rimonta con la sua marea», e l’ebraismo «deve lottare, come già lottò, contro il paganesimo che non è affatto scomparso e che si ripresenta oggi sia pure sotto un nuovo aspetto ma sempre temibile per l’umanità».
«Questa è la nostra missione» aggiunge Prato, sottolineando la convergenza tra ebrei e Vaticano. Il canale di comunicazione tra il rabbino di Roma e la Santa Sede funziona ancora nel maggio 1938 - a pochi mesi dalla promulgazione delle leggi razziali in Italia - grazie all’attenzione del Pontefice nei confronti dell’intolleranza religiosa e «della crescita del razzismo e della statolatria».
Per Toscano «Prato coglieva nel neopaganesimo avanzante un pericolo che minacciava insieme il mondo ebraico e quello cattolico», e il 18 maggio 1938 lo spiega all’esponente sionista Moshe Waldmann, formulando la convinzione che l’aggravarsi della spinta neopagana in Germania avrebbe provocato una maggiore attenzione del Vaticano nei confronti delle «richieste ebraiche».
Ma la situazione per gli ebrei in Europa precipita, Prato nel dicembre 1938 lascia l’Italia per rifugiarsi in Palestina e il pontificato di Pio XII, succeduto a Pio XI nel ’39, si sviluppa in un clima assai mutato. Ma «il nuovo rapporto, paritario, aperto e collaborativo del Vaticano con il mondo ebraico, vagheggiato da Prato in anni drammatici e terribili», conclude Toscano, «sarebbe sorto decenni più tardi, in un contesto drammaticamente e radicalmente mutato dalla Shoah e dalla nascita di Israele».
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?!
PAPA FRANCESCO, LA GRAZIA, E I CARISMATICI:
Ieri come oggi, sulle orme del Maestro
Ignazio di Loyola, esercizi d’immaginazione per tornare a vivere la realtà di Cristo
di Pietro Citati (Corriere della Sera, 12.06.2014)
Ignazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù, aveva un’immensa immaginazione, e la coltivava e la faceva coltivare dai padri gesuiti, quando essi eseguivano gli esercizi spirituali, il cuore dell’insegnamento praticato nella Compagnia.
Imponeva loro di fissare con la mente i grandi e minimi aspetti dell’immaginario cristiano: la nascita di Gesù, la sua infanzia, il battesimo, la tentazione, la passione, la crocifissione, la sepoltura, la resurrezione. I gesuiti dovevano rovistare con un’intensità implacabile ciò che portavano dentro il cuore: niente doveva sfuggire loro, nemmeno un sasso o una pianta o un filo d’erba dei sentieri che Gesù aveva percorso; nemmeno una parola che egli aveva pronunciato nelle sinagoghe o lungo il mare.
«Bisognava considerare da lontano la strada da Betania a Gerusalemme, se ampia o stretta, se piana o montuosa»: guardare la tavola a cui Gesù era seduto, i piatti, le bottiglie, i bicchieri. Così la mente dei gesuiti scendeva dentro se stessa; e apprendeva l’insegnamento che Gesù Cristo aveva depositato nel paesaggio che aveva percorso, o nella stanza dove era vissuto.
Quante volte Dio, o Gesù, o lo Spirito era apparso alla mente dei padri gesuiti! La natura di Dio era un dono: pronto a illuminare e perfezionare con i raggi della sua grazia il cuore dei padri. Era disposta a effondersi, sempre più generosa e più vasta; e a ricevere ciò che dagli uomini saliva verso di lui:
«Prendi, Signore, e ricevi/ tutta la mia libertà,/ la mia memoria,/ il mio intelletto,/ e tutta la mia volontà/ tutto ciò che ho e posseggo;/ tu me lo hai dato,/ a te, Signore, lo ridono;/ tutto è tuo».
Dio confortava, consolava, addolciva con una gioia inesauribile. «Ridete, figliolo, Ignazio disse a un novizio, e siate allegri nel Signore, poiché un religioso non ha nessun motivo per essere triste e ne ha mille per gioire».
Quando si voltavano indietro, i padri gesuiti cercavano di ritrovare la natura della propria anima: ciò che essa aveva di autentico, di originario, di puramente spirituale. L’emozione era grandiosa. Ma, al tempo stesso, essi trovavano in sé molte cose diverse: tumulti, peccati, passioni, disordini, sventure; gli effetti che la caduta aveva prodotto su ciascuno di loro. Così condannavano i disordini, le passioni e i capricci. Rafforzavano la volontà della ragione: certi che la ragione, sebbene nata dopo il peccato originale, sarebbe riuscita a salvarli dal peccato. Non temevano di appoggiarsi ad essa e alla sua sostanza umana: anzi cercavano di renderla più robusta e affinata, più solida e complicata.
Qualche volta i padri gesuiti si sentivano soffocare. La vita morale, sia pure virtuosa, costringeva la loro anima; gli altri esseri umani opponevano limiti e negazioni al loro slancio amoroso. Avevano bisogno di spazio. In alcuni testi cristiani trovarono l’invito a una severissima e strettissima condizione ascetica. Ma, proprio in Sant’Ignazio, scoprirono l’invito ad abolire ogni ascetismo e ogni strettezza. Come lui, i padri gesuiti amavano il cosmo: ammiravano tutte le creature, le stelle, le comete, le erbe e gli animali; visitavano le più lontane regioni del mondo; non rifiutavano i piaceri del corpo; e si ergevano sopra i cieli, ascoltando il palpito della creazione.
La Compagnia di Gesù esigeva dai padri attività estremamente complicate: essi dovevano, per esempio, lavorare come economi e amministratori. Sebbene ordini più spirituali condannassero queste attività pratiche, i padri gesuiti le difendevano con cautela e tenacia. Si rendevano conto che il rapporto quotidiano con la realtà allargava la loro mente, rendeva più sinuosa la loro intelligenza e la loro fantasia.
Come Sant’Ignazio, avevano altri timori: l’astrazione dello spirito puro, la follia della mente abbandonata a se stessa. Gli Esercizi spirituali erano strettamente legati al tempo del giorno, della settimana, del mese, dell’anno. La vita di ogni gesuita obbediva al tempo. Un certo esercizio doveva essere compiuto all’alba di ogni giorno: allora bisognava guardarsi con diligenza da un particolare peccato; dopo pranzo un altro esercizio ricordava loro quante volte erano caduti in quel peccato.
Tutti i padri gesuiti conoscevano il tempo proprio di ciascuno di loro: l’ordine temporale conteneva una grande e nascosta sapienza, che essi non avrebbero mai finito di apprendere. Solo coincidendo col tempo, solo facendolo battere regolarmente sugli orologi del cuore, essi tenevano aperta l’anima, e permettevano a Gesù Cristo e allo Spirito Santo di penetrare dentro di essa.
Chi compiva gli Esercizi spirituali correva un rischio: quello degli scrupoli; vale a dire i peccati immaginari, ricordi di peccati passati, dubbi, incertezze, insoddisfazioni, disgusti, torture dell’intelligenza. Da soli, i padri gesuiti non riuscivano a liberarsi dagli scrupoli; e rimanevano invischiati nei relitti della propria anima. Non restava loro che pregare a lungo Gesù e lo Spirito Santo, aprendo l’anima alla sovrabbondante grazia di Dio.
Già Marx e Nietzsche avevano capito che il processo di unificazione economica doveva essere intrapreso
Il Vecchio Continente fantasma politico in cerca di un’identità
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 22.05.2014)
PIÙ appare inarrestabile la decadenza del ruolo politico e del peso economico dell’Europa nel mondo fattosi Globo ( The Globe è il simbolo, consacrato all’esposizione universale di Parigi del 1889), più sembra crescere il desiderio di definirne la figura, di disegnarne l’identità, di stabilirne l’idea. Ma quanto esso si fonda su una reale conoscenza della storia europea? Quanto esso corrisponde al “dèmone” che ne presiede le continue metamorfosi? E di che natura sono i progetti e i programmi che da esso possono prendere vita?
Infermissima, insecura è l’idea di uno spazio culturale europeo fin dal suo primo manifestarsi. Europa non ha mai indicato un luogo in contrapposizione ad altri, tantomeno un “centro sacrale”, come molti un tempo hanno preteso, ma un’energia irradiante in ogni direzione, una radicale insofferenza per ogni confine che non significasse somica. glia da trasgredire. Qui mai il dio Termine ha trovato dimora.
Questa energia ha assunto due volti, che nella loro inseparabilità hanno costituito la tragica grandezza d’Europa: un’inquietudine interiore, da cui nasce la “invenzione” di un movimento storico, che tutto relativizza e, alla fine, travolge; l’impossibilità di “lasciare in pace”, il non poter fare a meno di trascinare nel vortice di quel movimento ogni altra cultura, magari soltanto con la volontà di “scoprirla”. Fame di conoscenza e fame di conquista sono categorie rigorosamente scisse solo nella fantasia delle anime belle.
La “detronizzazione” d’Europa, seguita inesorabilmente alle guerre mondiali che essa ha scatenato, ha posto fine a ogni sua possibile “missione”? Il suicidio delle sue volontà egemoniche deve comportare l’impotenza a deciderne qualsiasi “compito”? È chiaro che a queste domande non si risponde con i “programmi” per il rafforzamento (o il salvataggio) della sua unità economica.
Ben prima infatti che quel suicidio si compisse, i grandi “profeti” dell’età che viviamo, da Tocqueville a Marx a Nietzsche, avevano compreso la necessità che il processo di unificazione economica venisse intrapreso. Gli staterelli europei (diceva Nietzsche nel 1885!) saranno costretti sotto la spinta dei commerci mondiali a stringersi insieme in un’unica potenza. Il solo denaro li obbligherà a questo tentativo, per l’impossibilità evidente di competere nell’economia globale da parte di qualsiasi antico ”staterello sovrano”.
Riconoscere ciò che è necessario fare per sopravvivere è certo buon segno di volontà di vita, ma non indica di per sé alcuna “missione”, non può assumere alcun significato per il destino degli altri spazi dell’unico Globo.
Altrettanto evidente è, però, che nessun compito futuro può essere “inventato”, che qualsiasi “progetto” dovrà rivivere in sé fattori essenziali del passato e la sua lingua sapersi esprimere nei linguaggi in cui storicamente l’Europa si è rappresentata, non nell’universale esperanto tecnico-formale che appartiene al “solo denaro”, per trasformarli, magari, proprio parlandoli. Ora, l’Europa insecura, operante proprio sempre in forza di tale insecuritas, questa Europa, che mai è sembrata avere sede certa, attorno a un linguaggio si è tuttavia costruita o, meglio, a un suo “originario fenomeno”. Possiamo chiamarlo “filosofia”.
Non si tratta di contenuti determinati, tantomeno di astratti sistemi, ma di un atteggiamento complessivo che informa di sé tutta la nostra immagine del mondo, che determina una idea di vita: la possibilità che, al limite , essa possa essere condotta sulla base di norme razionali; che, proprio a tal fine, cultura e scienza debbano poter procedere autonomamente, ovverosia incondizionatamente, per potersi così esprimere in tutta la loro intrinseca potenza; che la libertà che in questa attività si incarna sia possesso del soggetto che opera, e che operando fa la propria storia, di noi, i Soggetti.
Si potrebbe dimostrare come questa prospettiva si sia intrecciata con tutte le dimensioni dell’esperienza europea, ma la questione che urge non è storiografica. Può l’Europa avere altro compito che quello che il suo dèmone filosofico gli ha dettato? Programmi, certo, ne potrà elaborare comunque, come qualsiasi grande spazio del Globo, per salvaguardare la propria “competitività”.
Ma una “identità” diversa da quella che nel linguaggio della filosofia si è tracciata, dove potrebbe mai immaginarla? Poiché questo appunto è il problema: che quel linguaggio è apparso compiuto (e, per tanti versi, vittoriosamente compiuto) nel corso del tragico “secolo breve”, che esso, proprio con la “occidentalizzazione” dell’intero pianeta, sembra giunto al suo estremo. Che rimane all’Europa da fare dopo aver compreso ogni alterità nella forma trascendentale del Cogito e svelato ogni “ideale” o “valore” come proprie creazioni, che di volta in volta storicamente si realizzano?
Forse nient’altro che la critica de-costruttiva, la messa in dubbio radicale della fondatezza di quell’eroica istanza. Può il compito attuale d’Europa consistere nell’esercizio ironico- scettico rispetto ad ogni pretesa di riduzione del mondo a “sistema”? Un gesto di rinuncia ne caratterizzerebbe, allora, l’idea. Rinuncia a ogni volontà di possesso e afferramento del reale sul metro della propria storia, rinuncia a ogni forma di teleologia.
Rinuncia che non significhi pessimistico abbandono, ma capacità di accogliere in sé, attenzione e ascolto rivolti all’infinita differenza che ci separa dal prossimo, e insieme a lui ci accorda. Il tramonto destinato della potenza europea può trasformarsi in una volontà operante, capace di indicare una destinazione: un mondo in cui l’esperienza della coscienza, per dirla con Hegel, giunga a comprendere che la presenza dell’altro è condizione necessaria della ricerca della propria stessa identità.
“Costituzionalizzare” l’Europa per impedirne il tramonto, per arrestare la decadenza della sua volontà di potenza, rappresenta la prospettiva opposta. E nessun “potere che frena” basterebbe alla bisogna. Che il tramonto divenga un tramontare , questo occorre, che sia conflitto verso ogni forma di idolatria identitaria, che sia apertura all’imprevedibile e all’inaudito che ogni incontro con l’altro, ogni nuova aurora, porta con sé.
I re dormienti dell’Europa
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 23 aprile 2014)
Raggruppati in un’Unione che non ha niente da dire in politica estera - né sulle proprie marche di confine a Est o nel Mediterraneo, né sull’alleanza con gli Stati Uniti, né sulla democrazia che intendono rappresentare - i governi europei s’aggirano sul palcoscenico del mondo come inebetiti, lo sguardo svogliato, le idee sparpagliate e soprattutto incostanti. Si atteggiano a sovrani, ma hanno dimenticato cosa sia una corona, e cosa uno scettro. Una svastica sul seno per la protesta delle Femen contro Marine Le Pen in Europa.
L’ossessione è fare affari, e dei mercati continuano a ignorare le incapacità, pur avendole toccate con mano. S’aggrappano a un’Alleanza atlantica per nulla paritaria, dominata da una superpotenza che è in declino e che proprio per questo tende a riprodurre in Europa il vecchio ordine bipolare, russo-americano, lascito della guerra fredda. Sono anni che gli Europei dormono, ignari di un mondo che attorno a loro muta. Non c’è evento, non c’è trattativa internazionale che li veda protagonisti, pronti a unirsi per dire quello che vogliono fare. A volte alzano la voce per difendere posizioni autonome, ma la voce presto scema, s’insabbia. Lo si vede in Ucraina: marca di confine incandescente sia per l’Unione, sia per la Russia. Lo si vede nel negoziato euro-americano che darà vita a un patto economico destinato ad affiancare quello militare: il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip). Lo si vede nella battaglia indolente, e infruttuosa, contro i piani di sorveglianza dell’Agenzia Usa per la sicurezza nazionale (Nsa), disvelati da Edward Snowden nel 2013. Sono tre prove essenziali, e l’Unione le sta fallendo tutte. Le sta fallendo in Ucraina, perché l’Europa non ha ancora ripensato i rapporti con la Russia. Non sa nulla di quel che si muove e bolle in quel mondo enorme e opaco. Non sa valutare le paure e gli interessi moscoviti, né i pericoli della riaccesa volontà di potenza che Putin incarna. Non capisce come mai Putin sia popolare in patria, e anche in tante regioni ex sovietiche che appartengono ormai a altri Stati e includono vaste e declassate comunità russe. Non sapendo parlare con Mosca, gli Europei lasciano che siano gli Stati Uniti, ancora una volta, a fronteggiare il caos inasprendolo. È Washington a promettere garanzie al governo ucraino, a diffidare Mosca da annessioni, ad allarmarla minacciando di spostare il perimetro Nato a est.
L’Europa sta a guardare, persuasa che bastino i piani di austerità proposti da Fondo Monetario e Commissione europea, se Kiev entrerà nella sua orbita. Questo è infatti lo scettro, l’unico che l’Unione sappia oggi impugnare: non una politica estera, ma un ricettario economico liberista misto a formule moraleggianti sul debito, scrive lo storico russo Dmitri Trenin che dirige a Mosca il Carnegie Endowment for International Peace. Quasi che il dramma degli Stati fallimentari, nel mondo, fosse soltanto finanziario. La risposta politica a tali fallimenti è affidata a Obama, e per forza gli sbagli commessi dagli Europei si ripetono (basti ricordare l’errore madornale di Kohl, quando disse negli anni ‘90 che la Slovenia «meritava l’indipendenza», essendo «etnicamente omogenea»). Depoliticizzata, l’Europa subisce il ritorno anacronistico del duopolio russo-americano. È Washington a decidere se Kiev debba essere il nuovo scudo orientale della Nato, nonostante il popolo ucraino preferisca evidentemente la neutralità. Per quasi mezzo secolo l’avamposto fu la Germania Ovest, poi sostituita dalla Polonia: ora Varsavia spera che al proprio posto s’erga un’Ucraina occidentalizzata d’imperio, frantumabile come lo fu la Jugoslavia. Mosca chiede che il paese diventi una Federazione, anziché un agglomerato babelico di risentimenti nazionalisti. Strano che non sia l’Europa, con le sue esperienze, a domandarlo.
La seconda prova è il patto commerciale con gli Usa: una trattativa colma di agguati, perché molte conquiste normative dell’Europa rischiano d’esser spazzate via. Non a caso le multinazionali negoziano in segreto, lontano da controlli democratici. Sono sotto attacco leggi sedimentate, diritti per cui l’Unione s’è battuta per decenni: tra questi il diritto alla salute, la cura dell’ambiente, le multe a imprese inquinanti. I sistemi sanitari saranno aperti al libero mercato, che sulle esigenze sociali farà prevalere il profitto. Emblematico: l’assalto delle grandi case farmaceutiche ai medicinali generici low cost. Sono in pericolo anche tasse cui l’Europa pare tenere, sia per aumentare il magro bilancio comune sia per frenare operazioni speculative e degrado climatico: la tassa sulle transazioni finanziarie, e sulle emissioni di anidride carbonica. Una controffensiva UE contro il trattato commerciale ancora non c’è. Nell’incontro a Roma con Obama, Renzi ha auspicato l’accelerazione del negoziato senza chiedere alcunché, né per noi né per l’Europa.
Numerose mezze verità circolano sul patto. Alcuni assicurano che quando sarà pienamente in funzione, nel 2027, il reddito degli europei crescerà sensibilmente (545 euro all’anno per una famiglia di quattro persone), con un beneficio di 120 miliardi annui per l’Unione e di 95 per gli Usa. Altri calcoli sono meno ottimisti. L’istituto Prometeia, pur favorevole all’accordo, sostiene che i guadagni non supererebbero lo 0,5% di Pil in caso di liberalizzazione totale.
L’istituto austriaco Öfse (Ricerca per lo sviluppo internazionale) prevede addirittura un aumento dei disoccupati nel periodo di transizione, a causa della riorganizzazione dei mercati di lavoro imposta dal Partenariato. Non meno grave: le controversie commerciali si risolverebbero non attraverso giudizi in tribunali ordinari, ma in speciali corti extraterritoriali. Saranno le multinazionali a trascinare in giudizio governi, aziende, servizi pubblici ritenuti non competitivi, e a esigere compensazioni per i mancati guadagni dovuti a diritti del lavoro troppo vincolanti, a leggi ambientali o costituzionali troppo severe. Tutto questo in nome della «semplificazione burocratica »: parola d’ordine che Renzi predilige, virtuosa e al tempo stesso insidiosa. Nel contesto del Partenariato transatlantico, semplificare vuol dire abbattere le cosiddette «barriere non tariffarie», un termine criptico che indica parametri europei faticosamente elaborati: regole sanitarie a tutela della salute, canoni di sicurezza delle automobili, procedure di approvazione dei farmaci, e molto altro ancora.
Non per ultimo, la terza prova: il caso Snowden, l’informatico dei servizi Usa che portò alla luce un sistema di sorveglianza tentacolare, predisposto dai servizi americani con la scusa di prevenire attentati terroristici. Grazie a Snowden si è saputo che erano intercettati perfino i cellulari di leader europei (tra cui Angela Merkel), non si sa per quali ragioni di sicurezza. I governi dell’Unione hanno protestato, ma ciascuno per conto suo e sempre più flebilmente. In un messaggio al Parlamento europeo, il 7 marzo, Snowden ha ironizzato sulle sovranità presunte dei singoli Stati, spiegando come sia assurdo il compiacimento di governi che immaginano di poter fermare il Datagate senza mobilitare l’Unione intera. La vicenda Snowden è anche questione di civiltà democratica.
L’esistenza di smascheratori di misfatti - non spie ma whistleblower, denunziatori di reati commessi dalla propria organizzazione - potenzia la democrazia. È un bruttissimo segno e paradossale che i giornalisti implicati nel Datagate a fianco di Snowden abbiano ricevuto il Premio Pulitzer (uno schiaffo per Obama), e che lui stesso, il soffiatore di fischietto , abbia trovato riparo non in un’Europa che promette nella sua Carta la «libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera», ma nella Russia di Putin.
Dante e Mozart, il futuro riparte da loro
di Ulrich Beck (la Repubblica, 10.04.2014) *
LA CRISI dell’Europa non è, essenzialmente, una crisi economica. La crisi dell’Europa è una crisi mentale; di più: una crisi di immaginazione della buona vita al di là del consumismo. Gran parte dei critici dell’Europa, degli anti-europei, che ora alzano la loro voce, è prigioniera di una impolverata nostalgia nazionale. In questo senso argomenta ad esempio l’intellettuale francese Alain Finkielkraut: l’Europa ha creduto di potersi costituire senza, o addirittura contro le nazioni.
VOLEVA punire le nazioni per gli orrori del XX secolo. Ma non c’è una democrazia post-nazionale. La democrazia parla una sola lingua. Non nasciamo cittadini del mondo. Le comunità umane hanno confini. L’Europa non ne tiene conto. Ma questa critica all’Europa si basa sull’illusione nazionale che in una società e in una politica europeizzate sia possibile un ritorno all’idillio nazional-statale. Essa presuppone l’orizzonte nazionale come quadro diagnostico per il presente e per il futuro dell’Europa. A queste critiche rispondo: aprite il vostro sguardo, e vedrete che non solo l’Europa, ma il mondo intero si trova in una transizione dove i confini entro i quali l’Europa si pensa politicamente non sono più reali.
Due esempi paradossali a questo riguardo: tutti i giornali, tutti i notiziari televisivi britannici sono pieni di accuse all’Ue - l’euroscettica Gran Bretagna è attraversata da un’ondata mai conosciuta di opinione pubblica europea. Oppure: la Cina, per effetto della sua politica degli investimenti e delle sue dipendenze economiche, è da tempo un membro informale dell’eurozona - se l’euro fallisse, per la Cina sarebbe un colpo durissimo. È chiaro, perciò, che la cosmopolitizzazione non crea cittadini del mondo, anzi: mentre la globalizzazione dissolve le frontiere, le persone ne cercano di nuove. Il bisogno di confini diventa tanto più forte, quanto più il mondo diviene cosmopolitico. Da un lato, lo dimostra il successo del Front National alle ultime elezioni locali in Francia, ottenuto con il motto «Fuori dall’euro, fuori dall’Ue!». Dall’altro, questo bisogno di confini ha contribuito al consenso raccolto da Vladimir Putin, con la sua massima «Dove abitano dei russi, lì c’è la Russia».
Tuttavia, proprio l’aggressivo nazionalismo interventista russo dimostra che non si può proiettare il passato delle nazioni sul futuro dell’Europa, senza distruggere il futuro dell’Europa. E se l’etno-nazionalismo imperiale di Putin fosse uno shock salutare per l’Europa afflitta dall’egoismo nazionale? Alain Finkielkraut controbatte: noi europei siamo traumatizzati da Hitler. Eppure Hitler disprezzava la nazione. Voleva sostituire la nazione con la razza. Oggi, però, facciamo espiare alle nazioni la follia hitleriana. Per il loro trauma da Olocausto i tedeschi vogliono forse eliminare l’intero nazionalismo? No, ma abbiamo un presupposto in comune: la catastrofe di Hitler, dell’Olocausto e della Germania nazionalsocialista. Proprio questa catastrofe, con i processi di Norimberga, ci ha fatto elaborare il concetto di crimini contro l’umanità. I soldati tedeschi o i guardiani dei campi di concentramento colpevoli di crimini nei confronti di ebrei erano soltanto criminali, anche se il diritto nazionale non puniva i loro misfatti. Così è nata una nuova dimensione, il diritto europeo, che relativizza il diritto nazionale - e, nello stesso tempo, una nuova visione mondiale dell’umanità: l’etica del “mai più”.
Noi, e il mondo, abbiamo più che mai bisogno (anch’io lo ho argomentato) di una visione europea, per venire a capo dei mali della globalizzazione - mutamento climatico, povertà, disuguaglianza estrema, guerra e violenza. L’idea è che la forza mobilitante della catastrofe anticipata fonda l’identità europea. La lotta contro i rischi globali è indubbiamente uno sforzo erculeo. Può perfino dar vita a una nuova morale mondiale della giustizia.
Il mutamento climatico è un rischio storicamente sconosciuto che minaccia tutti e costringe inevitabilmente ad agire. Chi dice “mutamento climatico” deve pensare al di là dei confini, cooperare con i nemici, tenere presenti le generazioni future, immedesimarsi nella situazione dei più poveri - non perché li ama, ma perché ne ha bisogno per creare assieme un futuro vivibile. Qui si delinea uno stile di vita purificato dal mutamento climatico, un “cosmopolitismo egoistico”, per così dire. Ma, siamo sinceri, lo spirito del mutamento climatico è la pozione magica che concilierà gli europei euroscettici con l’Unione Europea?
Un altro consiglio (tra gli altri, anche di Alain Finkielkraut) suggerisce che se l’Europa vuole superare la sua crisi della convivenza deve ritrovare la propria identità nelle grandi opere dell’Europa, nei monumenti, nei paesaggi della civiltà. Certo, rileggere l’opera di classici come Shakespeare, Cartesio, Dante o Goethe o farsi incantare dalla musica di Mozart e di Verdi non può che far bene.
A me, ad esempio, interessa politicamente il concetto di “letteratura mondiale” di Goethe. Con esso egli intende un processo di apertura al mondo, nel quale l’alterità dello straniero diventa componente anche della propria autocoscienza. Ciò implica l’apertura dell’orizzonte, del nazionale, della propria lingua. In questo senso Thomas Mann parla di “tedeschi del mondo”; ma si può parlare anche di “italiani del mondo”, “francesi del mondo”, “spagnoli del mondo”, “inglesi del mondo”, “polacchi del mondo”, ecc., cioè di un’Europa delle nazioni cosmopolitiche.
«Dalle coste dell’Africa», scrive Albert Camus, «dove sono nato, si vede meglio il volto dell’Europa. E si sa che non è bello». Per Camus, allievo di Nietzsche, la bellezza è un criterio della verità e della vita buona. La storia ha logorato tante cose - l’idea di nazione, l’astuzia della ragione, la speranza nella forza liberatrice della razionalità e del mercato; perfino l’idea di progresso è diventata l’origine dell’apocalisse. La poesia brilla, ma lo fa nel modo più intenso dove lotta con la disperazione, lo sdegno, la perversità, la mancanza di senso. Anzi, essa manifesta la sua massima efficacia quando fa dileguare il volto dell’uomo (europeo).
Il segreto dell’Europa, afferma un disilluso Camus, è «che non ama più la vita... ». E allora qual è l’antidoto, la visione alternativa di un’altra Unione Europea, nella quale si viva la gioia per il puro presente? L’Europa italiana! Ad esempio, il sogno di un «letto matrimoniale mediterraneo» (Michael Chevalier), nel quale l’Est e l’Ovest, il Nord e il Sud si amerebbero.
Nasce così l’immagine di un’Europa delle regioni dove valga la pena di vivere e che meriti di essere amata. Il nesso apparentemente necessario tra Stato, identità nazionale e lingua unitaria si è dissolto. L’Unione, gli Stati membri e le loro regioni si occupano a diversi livelli del bene dei cittadini. Da un lato, essi danno loro una voce nel mondo globalizzato; dall’altro, un senso di sicurezza e un’identità regionale. La democrazia diventa democrazia a più livelli, come già cominciamo a praticarla: il Mediterraneo - come savoir vivre, come gioia di vivere, indifferenza, disperazione, bellezza e speranza, cioè quella mescolanza contraddittoria che noi nord-europei veneriamo e romanticizziamo come i giardini del Sud, dove «fioriscono i limoni» (Goethe).
D’accordo, il senso di colpa ha imposto anche a questa estetica e a questa poetica dell’esistenza gioiosa, cosmopolitica, mediterranea un volto grigio, brutto. Ma non è forse vero che se i tedeschi fossero andati a scuola dai giocatori di bocce del Sud non avrebbero precipitato il mondo nella Seconda guerra mondiale? Oppure che se la cancelliera Merkel fosse stata un’appassionata giocatrice di bocce non avrebbe mai predicato con zelo missionario una politica protestante di risparmio ai Paesi mediterranei? O, ancora, che se Putin fosse nato giocatore di bocce mediterraneo non avrebbe mai concepito l’idea del tutto folle di annettere l’Ucraina?
Iris Radisch scrive che «il pensiero mediterraneo regionale e confederale è sopravvissuto alle grandi ideologie nazionali e politiche, e forse è la sola utopia sociale del XXI secolo che abbia ancora un futuro». E dunque, cosa potrebbe conciliare gli europei con l’Europa? Un anticentralismo. L’ibernazione della nostalgia etnico-nazionale in tutte le sue forme. Un riavvicinamento e un ritorno alla bellezza delle regioni. Il sentimento mediterraneo. La capacità di affrontare in modo non sgradevole il caos della vita. Di rispettare la natura interna ed esterna. La coesistenza con l’altro, lo straniero, per cercare il proprio arricchimento. Ovvero, come dice Gabriel Audisio, vivere bene e morire bene.
(Traduzione di Carlo Sandrelli)
“Manifesto
Per un’Europa di progresso”
Il mondo è in rapida trasformazione. Società ed economia della conoscenza hanno profondamente ridisegnato equilibri ritenuti consolidati. Aree geografiche depresse hanno conquistato, in tempi storicamente irrisori, potenziali enormi di sviluppo e crescita. Conoscenza, cultura e innovazione rappresentano più che mai il traino decisivo verso il futuro.
All’opposto l’Occidente, e alcuni aspetti del suo modello di sviluppo, sono entrati in una crisi profonda. L’Europa, in particolare, risulta investita da gravissimi e apparentemente irresolubili problemi: disoccupazione, crisi del tessuto produttivo, riduzione sostanziale del welfare. A pochi anni dalla sua formale consacrazione, con la nascita ufficiale della moneta comune, l’Europa rischia di deflagrare come sogno di una comunità di cittadine e cittadini che avevano ambito ad una nuova Nazione comune: più ampia non solo geograficamente, quanto nello spazio dei diritti, dei valori e delle opportunità. Lo storico americano Walter Laqueur ha parlato della “fine del sogno europeo”.
Le responsabilità sono diverse e distribuite e investono certamente l’eccessiva timidezza nel processo di costituzione politica del soggetto europeo: la responsabilità di presentare questo orizzonte politico, culturale e sociale con le sole fattezze della severità dei “conti in ordine”. L’Europa dei mercanti e dei banchieri, della restrizione e del rigore: una sorta di gendarme che impone limiti spesso insensati, piuttosto che sostegno nell’ampliare prospettive di visuale sugli sviluppi del futuro.
Proprio a causa di ciò, assistiamo, in corrispondenza della crisi, ad un’impressionante crescita di egoismi locali, di particolarismi e di veri e propri nazionalismi.
Fenomeni spesso intenzionalmente organizzati per sfruttare malesseri veri, e reali stati di sofferenza, ma che rischiano di produrre reazioni esattamente opposte a quanto oggi servirebbe alle popolazioni d’Europa.
Come scienziate e scienziati di questo continente - consapevoli che esiste un nesso inscindibile tra scienza e democrazia - sentiamo quindi la necessità di metterci in gioco. Di ribadire che il processo di costruzione degli Stati Uniti d’Europa è la più importante opportunità che ci è concessa dalla Storia. Che società ed economia della conoscenza - essenziali per il processo di reale evoluzione civile, pacifica, economica e culturale - si alimentano di comunità coese e collaborative, di comunicazioni intense e produttive e di uno spirito critico che permei strati sempre più vasti della società.
L’unica risposta possibile alla crisi incombente è allora la costruzione dell’Europa dei popoli, di un’Europa di Progresso! Realizzata sulla base dei principi di libertà, democrazia, conoscenza e solidarietà.
Nutriamo la stessa speranza con cui Albert Einstein e Georg Friedrich Nicolai nel “Manifesto agli Europei” del 1914 richiamarono alla ragione i popoli europei contro la sventura della guerra, e con cui Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi ispirarono l’idea d’Europa nel loro “Manifesto di Ventotene” del 1943. Le stesse idee che ebbero indipendentemente fautori illustri anche in tutti i Paesi d’Europa.
Vogliamo riprendere ed estendere all’Europa lo spirito che nel 1839 portò gli scienziati italiani a organizzare la loro prima riunione e a inaugurare il Risorgimento di una nazione divisa.
Promotori (*) e Primi firmatari
Ugo AMALDI (CERN, Ginevra)
Giovanni BACHELET (Università di Roma “La Sapienza”)
Giorgio BELLETTINI (Università di Pisa e INFN)
Carlo BERNARDINI (*) (Università di Roma “La Sapienza”)
Sergio BERTOLUCCI (Direttore di ricerca, CERN, Ginevra)
Vittorio BIDOLI (INFN, Roma)
Giovanni BIGNAMI (Presidente Istituto Nazionale di AstroFisica - INAF)
Marcello BUIATTI (Università di Firenze)
Cristiano CASTELFRANCHI (Università Luiss, Uninettuno e ISTC-CNR)
Vincenzo CAVASINNI (*) (Università di Pisa e INFN)
Remo CESERANI (Università di Bologna e Stanford University, CA)
Emilia CHIANCONE (Presidente Accademia dei Quaranta)
Paolo DARIO (Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa)
Tullio DE MAURO (Università di Roma “La Sapienza”)
Luigi DI LELLA (CERN, Ginevra)
Rino FALCONE (*) (CNR Roma, Direttore Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione)
Stefano FANTONI (Presidente Agenzia Nazionale Valutazione Università e Ricerca)
Sergio FERRARI (già vice direttore ENEA)
Ferdinando FERRONI (Presidente Istituto Nazionale di Fisica Nucleare - INFN)
Fabiola GIANOTTI (CERN, Ginevra)
Mariano GIAQUINTA (Scuola Normale Superiore, Pisa)
Pietro GRECO (*)(Giornalista e scrittore, Roma)
Angelo GUERRAGGIO (Università Bocconi)
Fiorella KOSTORIS (Agenzia Nazionale Valutazione Università e Ricerca)
Francesco LENCI (*) (CNR Pisa e Pugwash Conferences for Science and World Affairs)
Giorgio LETTA (Vice Presidente Accademia dei Quaranta)
Lucio LUZZATTO (Istituto Toscano Tumori)
Tommaso MACCACARO (INAF)
Lamberto MAFFEI (Presidente Accademia dei Lincei)
Italo MANNELLI (Scuola Normale Superiore, Pisa e accademico dei Lincei)
Giovanni MARCHESINI (Università degli studi di Padova)
Ignazio MARINO (Thomas Jefferson University, Sindaco di Roma)
Annibale MOTTANA (Università di Roma 3 e accademico dei Lincei)
Paolo NANNIPIERI (*) (Università di Firenze)
Pietro NASTASI (*) (Università di Palermo)
Luigi NICOLAIS (Presidente Consiglio Nazionale delle Ricerche - CNR)
Giorgio PARISI (Università di Roma “La Sapienza”, accademico dei Lincei)
Maurizio PERSICO (Università di Pisa)
Giulio PERUZZI(*) (Università degli studi di Padova)
Caterina PETRILLO (Università degli studi di Perugia)
Pascal PLAZA (CNRS e Ecole Normale Supérieure, Paris)
Claudio PUCCIANI (*) (Vice Presidente Associazione Caffè della Scienza - Livorno)
Michael PUTSCH (CNR Genova, Direttore Istituto di Biofisica)
Carlo Alberto REDI (Università di Pavia)
Giorgio SALVINI (Università di Roma “La Sapienza”, già Presidente dell’Accademia dei Lincei)
Vittorio SILVESTRINI (Presidente della Fondazione IDIS - Città della Scienza, Napoli)
Settimo TERMINI (*) (Università di Palermo)
Glauco TOCCHINI-VALENTINI (National Academy of Sciences, CNR-EMMA-Infrafrontier-IMPC, Monte Rotondo, Roma)
Guido TONELLI (CERN, Ginevra e Università di Pisa)
Enric TRILLAS (Emeritus Researcher European Centre for Soft Computing, già Presidente CSIC, Spagna)
Fiorenzo UGOLINI (Università di Firenze)
Nicla VASSALLO (Università di Genova)
Virginia VOLTERRA (Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione - CNR)
Elena VOLTERRANI (*) (Provincia di Pisa e INFN)
John WALSH (INFN)
Platone l’africano. E australiano, anche
Whitehead disse: «La filosofia è una serie di note vergate in margine a Platone»
Un saggio esamina figure e scuole di pensiero fuori dalla prospettiva europea
E va ben oltre le antiche tradizioni di India e Cina
di Armando Torno (Corriere della Sera,/La Lettura, 06.04.2014)
La filosofia fu la più bella invenzione dei Greci. Alfred North Whitehead, un pensatore che ha lasciato tracce anche in matematica, asserì che essa è una serie di note vergate in margine a Platone. Non aveva torto. Ma, detto questo, è lecito chiedersi: ci sono filosofie nazionali o sistemi nati oltre l’Occidente che hanno sviluppato qualcosa di simile al miracolo greco? In Africa? Nell’Asia, che ha nel suo seno le sapienze di Cina e India?
A questa e a simili domande risponde un libro curato da Virgilio Melchiorre: Filosofie nel mondo (Bompiani). Uno sguardo sulle avventure di pensiero delle «altre» culture che possono dipendere o no dalla nostra. Dalla scuola australiana alle correnti dell’islam contemporaneo, dai sistemi latinoamericani alle istanze ebraiche e giapponesi. Tredici capitoli con dodici profili, giacché il primo, di Ugo Perone, è intitolato Philosophia Occidentalis.
Lo stesso Melchiorre spiega come è stata realizzata l’opera: «Questo volume nasce dall’esigenza di risalire alle fonti delle diverse civiltà. Si è pensato di raccogliere a confronto alcune voci presenti nella recente Enciclopedia filosofica, curata per le edizioni Bompiani dal Centro studi filosofici di Gallarate... Le abbiamo aggiornate, ove occorreva, e le abbiamo integrate con voci nuove».
Il libro si riallaccia a una nobile tradizione. Già nel decimo volume della Storia della filosofia diretta da Mario Dal Pra (usciva da Vallardi nell’ottobre 1978; parte che verrà poi ripensata in tre tomi editi da Piccin) vi erano due capitoli di Gianni Paganini dedicati rispettivamente alla filosofia negli «altri Paesi europei» (con Russia sovietica e Jugoslavia) e ai «Paesi minori extraeuropei», tra cui non mancavano il Canada, il continente africano, l’Australia e così di seguito. All’India e alla Cina erano dedicati i primi due volumi della grande opera, che precedevano le trattazioni sulla Grecia.
Filosofie nel mondo, che offre utili bibliografie aggiornate, comincia con un essenziale profilo dell’Occidente: emergono i due pilastri su cui si regge ancora molta parte del nostro pensiero, ovvero Platone e Aristotele. Soprattutto vengono messe in evidenza alcune tematiche che percorrono epoche e correnti, quasi incuranti delle infinite discussioni causate. Tra esse il tempo, presente in Agostino e ancora motivo d’angoscia in pieno Novecento (Heidegger insegna). Si passa poi all’esame delle scuole: la prima è l’australiana, che ha elaborato una significativa filosofia analitica e una discreta logica, tanto che Franca D’Agostini, autrice della parte, parla di uno «stile australiano». Una figura di riferimento, tra le diverse possibili, indicata per la logica è Richard Routley.
Segue la filosofia russa. Sostanzialmente il vero esame è dal XVIII secolo, epoca in cui nell’immenso territorio degli zar ci si rivolse al pensiero europeo, a cominciare da figure quali Aleksandr N. Radišcev, autore del libro Viaggio da Pietroburgo a Mosca (1790) che costò all’autore la condanna a morte da parte di Caterina II. I periodi precedenti invece risentono, o si confondono, con l’eredità di Bisanzio; e l’inventario passa più per la teologia che per le costruzioni logico-concettuali. L’autrice Chiara Cantelli, oltre le correnti e le scuole ottocentesche e sovietiche, oltre slavofili e occidentalisti, evidenzia figure quali Florenskij o Dostoevskij; anzi, quest’ultimo con i suoi romanzi costituirà «un essenziale punto di riferimento nella discussione filosofica del Novecento europeo» e creerà le basi nel contesto russo «per accogliere Nietzsche».
Un breve profilo - i caratteri generali sono esposti da Alberto Ventura e Carmela Baffioni - della filosofia islamica (ricchissima nel Medioevo, giacché ha riportato molto di Aristotele in Occidente e ha avuto sommi maestri come Avicenna e Averroè) lascia spazio a una parte contemporanea, trattata da Massimo Campanini e Stefano Minetti.
Figure sorprendenti, anche di femministe: tra esse la conservatrice Zaynab al-Ghazali, la quale «pur rivendicando alle donne il diritto alla rappresentanza e all’attività politica attiva e passiva, ha voluto custodire il ruolo prevalente di moglie e di madre».
Della filosofia ebraica la figura centrale resta il medievale rabbino e medico Maimònide; tuttavia una questione posta da Giuseppe Laras, che ha scritto la parte, è quella di interrogarsi sul contributo dei pensatori ebrei a idee e tendenze occidentali. In tal caso protagonisti quali Spinoza o Bergson sono da evidenziare. C’è poi una filosofia ebraica dopo il 1945, in seguito alla Shoah: è un profilo firmato da Massimo Giuliani. Tra le figure portanti della neo-ortodossia contemporanea ricordiamo Joseph B. Soloveitchik.
La filosofia cinese, esplorata da Alfredo Cadonna, non può prescindere da Confucio, il Platone del Celeste Impero. Per giungere nell’ambito contemporaneo si potrebbe segnalare Fang Dongmei, che indica come le tradizionali categorie confuciane siano ancora utilizzate per distinguere il pensiero cinese da quello greco (o europeo).
Per l’America Latina, esaminata da Pio Colonnello, va notato il fatto che solo dopo il 1856 è possibile parlare in questi termini: prima non aveva un nome. Tra i numerosi pensatori che si sono distinti in quel continente, vale la pena ricordare il messicano (molto occidentale) Antonio Caso, scomparso nel 1946; né mancano spagnoli rifugiatisi là con l’avvento del franchismo. Eduardo Nicol elaborò una filosofia in contrasto con gli altri esiliati.
Per l’Africa - la parte è di Lidia Procesi - è posto in evidenza chi ha dato vita a una filosofia autoctona, come Alexis Kagame, morto nel 1981; c’è stato anche chi ha elaborato una sociologia e una teologia (Il Dio che libera ) come il camerunense Jean-Marc Ela, morto nel 2008.
L’India, di Gianluca Magi, è il ventre di una sapienza superiore: oltre le grandi correnti di induismo, buddhismo, jainismo, si potrebbe giungere al mondo contemporaneo per ricordare Ramana Maharshi, morto nel 1950, pensatore caratterizzato da «una rigorosa forma di astinenza interiore ed esteriore per giungere alla realizzazione della propria identità col divino». Un grande induista del nostro tempo.
C’è infine - ne scrive Giuseppe Jiso Forzani - la filosofia del Giappone, che rampolla da una spiritualità arcaica e che ha nel principe Shotoku Taishi (574-622) con la Costituzione di diciassette articoli un riferimento etico ed esistenziale. Del tempo moderno ricordiamo Nishi Amane, che nel 1862 preparò le prime conferenze sul pensiero occidentale; quindi la scuola di Kyoto (di Brian Shudo Schroeder), che trattò il nulla assoluto e la Grande Morte. Il punto di partenza è Nishida Kitaro, lo sviluppo vide Hajime Tanabe e Keiji Nishitani. Ma qui si torna al linguaggio dell’Occidente. Proprio Nishitani intende la Grande Morte come un progettarsi in cui si passa attraverso la nullità e si «rinasce» con il morire. O meglio è «il ritorno del sé a se stesso nel suo modo di essere originario». Heidegger insegna ancora.
Capiamo i numeri prima del linguaggio
Le magie del cervello a due giorni di vita
Quantità, tempo e spazio sono innati e non derivati dall’esperienza
Il test sui neonati dà ragione a Kant: «Prestano più attenzione a suoni e oggetti correlati»
di Massimo Piattelli Palmarini (Corriere, 05.04.2014)
Non capita tutti i giorni, anzi nemmeno tutte le settimane e nemmeno tutti i mesi, che una tesi filosofica fondamentale sia confermata sperimentalmente. Eppure questo è appena successo, grazie a un lavoro appena uscito sull’ultimo numero dei Proceedings of the National Academy of Sciences of the Usa (in breve PNAS) co-firmato da una delle piu’ note e autorevoli psicologhe cognitive: Elisabeth Spelke di Harvard. Insieme alle colleghe Véronque Izard, Coralle Sann e Atlette Streri del Laboratorio di Psicologia della Percezione del CNRS e dell’Università di Parigi Descartes, hanno confermato la tesi Kantiana che spazio, tempo e numero sono innati.
La Spelke ha indagato per anni e riportato in numerose pubblicazioni le radici cognitive dell’aritmetica e della nostra percezione dello spazio. Me lo conferma in un’intervista in esclusiva.
Mi dice, infatti: «Le mie collaboratrici ed io avevamo recentemente scoperto che i neonati sono sensibili ai numeri e che bimbi appena più grandi, a cinque mesi, notano la correlazione tra numeri crescenti o decrescenti e spazi, rispettivamente, più o meno grandi. Volevamo, quindi, meglio indagare l’origine di questa capacità. Ovviamente, nel mondo che ci circonda, numeri, lunghezze e durate vanno insieme. Serie più numerose di oggetti occupano maggior spazio e sequenze più numerose di suoni durano più a lungo. Ci siamo chieste se queste correlazioni sono apprese o invece innate. Ora lo abbiamo fatto studiando i neonati, che ancora non hanno potuto avere esperienze di queste correlazioni».
Effettuare esperimenti di natura cognitiva su bimbi molto piccoli, in particolare su neonati a solo due o tre giorni dopo la nascita, sembrerebbe presentare formidabili difficoltà. Chiedo alla Spelke come hanno fatto.
«Arlette Speri ha condotto questi esperimenti pionieristici a Parigi, in un reparto maternità, quando i bimbi sono svegli e attenti. Si pone loro di fronte un grande schermo e si fanno loro udire sequenze di suoni più o meno numerose, ciascuno di durata più o meno lunga, per uno o due minuti, prima che sullo schermo appaiano gruppi di oggetti più o meno numerosi, oppure linee di diverse lunghezze. La durata del loro sguardo viene rigorosamente misurata, mentre le serie di suoni continuano. Come noi, i neonati prestano maggior attenzione, cioè guardano più a lungo, eventi tra loro correlati, in questo caso, sequenze di suoni più numerosi, o che durano più a lungo, abbinate a un numero corrispondente di oggetti, oppure a linee più lunghe».
Vale la pena, per rendere questi esperimenti a noi palpabili, precisare che i numeri delle ripetizioni di sequenze acustiche (tipo tu-tu-tu... oppure ra-ra-ra-ra..., oppure tuuuu-tuuuuuu... oppure raaaaa-raaaa-raaaa...) variano tra quattro e diciotto e sullo schermo appaiono, in corrispondenza, o senza corrispondenza, quattro triangolini gialli, oppure sei o dieci cerchietti rosa e così via.
Faccio l’avvocato del diavolo e chiedo alla Spelke perché questi risultati mostrano che spazio, tempo e numeri sono innati.
Risponde: «I suoni sono udibili, seppur distorti, già in utero, quindi in astratto è possibile che l’abbinamento tra suoni e durate sia stato appreso prima della nascita. Ma certo non l’abbinamento tra durate e stimoli visivi. Dormire, guardare il soffitto e guardare mamma, papà e parenti occupano totalmente i primi tre giorni di vita. Non vengono loro, ovviamente, dati giocattoli, né hanno alcuna esperienza di linee che si allungano o si accorciano né di figure geometriche colorate. Quindi ci sentiamo autorizzate a concludere che non possono aver anticipato, sulla base della loro precedente esperienza, l’abbinamento tra linee più lunghe, oggetti più numerosi e sequenze uditive di maggior durata. Assai più plausibilmente, la mente e il cervello di un essere umano sono pre-organizzati alla nascita per fare tali abbinamenti fondamentali».
Le chiedo, infine, quali saranno i prossimi esperimenti del suo gruppo. «Vogliamo sapere se queste capacità, presenti alla nascita, aprono la strada al susseguente progresso di concetti e intuizioni in matematica. Stiamo studiando, nel mio dipartimento a Harvard, bimbi più grandi e adulti. Vedremo come questi primordi si innestano su ulteriori sviluppi cognitivi di tipo matematico».
Riaffioreranno in alcuni di noi, penso, ricordi di filosofia del liceo. Gli empiristi inglesi amavano il motto: niente nell’intelletto se prima non è passato attraverso i sensi. Emanuele Kant obiettò: tranne l’intelletto stesso. Appunto, ora lo abbiamo constatato. Peccato che Liz Spelke non possa averlo come collega, in una cattedra di psicologia a Harvard.
Come stranieri gli ebrei sotto Hitler
di Marco Roncalli (Avvenire, 25 marzo 2014
Un teologo ed esegeta protestante, noto professore di Nuovo Testamento, ideatore e curatore di un
importante dizionario (il
Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament
arrivato in edizione
tedesca a dieci volumi).
E un pensatore ebreo di origine viennese, fiero della propria identità, forse
il più famoso dopo la morte di Hermann Cohen anche grazie alle sue opere sul chassidismo. E cioè:
Gerhard Kittel e Martin Buber.
Sono loro i protagonisti della disputa svoltasi fra il luglio e il dicembre del 1933, a proposito degli ebrei in Germania e del loro futuro: un confronto ora ricostruito nella sua completezza da Gianfranco Bonola nel volume La questione ebraica. I testi integrali di una polemica pubblica (Edizioni Dehoniane Bologna, pagine 170, euro 13,50).
Tutto inizia quando Kittel manda a Buber il suo
Die Judenfrage
uscito nel luglio ’33 chiedendogli
un commento pubblico. Come ha sintetizzato Emil L. Fackenheim nel suo
Un epitaffio per
l’ebraismo tedesco
(Giuntina, 2007) «Kittel aveva scritto che se gli ebrei, ridefiniti dalla rivoluzione
nazista degli “ospiti”, si fossero comportati come persone “perbene”, sarebbe giunto il tempo in cui
sarebbero stati trattati come esseri “relativamente inferiori” e non più come “assolutamente
inferiori”. Per farla breve: Kittel era un nazista. Buber replicò pubblicamente, ma con toni
gelidi...». Andò proprio così? Ognuno trova la sua risposta leggendo oltre alla prima edizione del
libretto kitteliano, il primo commento buberiano, la seconda edizione di
Die Judenfrage
rielaborata e accresciuta di due appendici (“Risposta a Martin Buber” e “Chiesa ed ebreo-cristiani”)
uscita nel ’33 e ripubblicata senza variazioni nel ’34, come pure la seconda replica di Buber oltre
alle reazioni, documentate, di Rudolf Bultmann, Ernst Lohmeyer, Hans Philipp: testi tutti raccolti
nel volume curato da Bonola.
Al centro della querelle vi sono le condizioni di vita del ger, lo straniero che in epoca biblica viveva in mezzo al popolo d’Israele, ritenute paradigmatiche per stabilire l’atteggiamento cristiano nei confronti degli ebrei che in quel periodo avevano assunto il ruolo di “stranieri” nella società tedesca: una società cristiana, dunque, per Kittel, sottoposta all’autorità della parola biblica.
Una diatriba dotta, che scandagliava il Pentateuco per determinare i diritti del ger in seno al popolo ebraico ospitante, e che dopo essere stata capovolta, diventava questione di stretta attualità, cruciale dopo l’ascesa di Hitler. Nettamente diversa la prospettiva buberiana non ignara dei supporti presuntamente biblici al ruolo destinato agli ebrei dal Terzo Reich, al quale l’interlocutore iscritto dal 1° maggio al Partito nazionalsocialista (e lo rimarrà sino alla fine della guerra) e al blocco religioso fiancheggiatore (i “Cristiani Tedeschi”, dai quali invece dissentirà mesi dopo) è tutt’altro che estraneo.
Tuttavia, scrive Bonola, il giudizio degli studiosi su Kittel non è unanime, accogliendo alcuni autori, almeno in parte, le sue autogiustificazioni del ’46: secondo le quali il suo era un tentativo, nel 1933, di aprire una strada alla giustizia e all’umanità a partire dalla tradizione paleocristiana e veteroecclesiastica di fronte alla montante propaganda antisemita. Insomma, si sarebbe trattato del tentativo di influenzare l’impianto della politica nazionalsocialista verso gli ebrei per mitigarne i tratti violenti.
A parte il fallimento di questa eventuale strategia, l’esame di
Die
Judenfrage,
sorvolando sulla proposta circa un regime giuridico speciale, il “diritto del forestiero”,
colloca Kittel sul fronte ideologico del più bieco antisemitismo.
La convergenza fra le opinioni del
teologo e i più diffusi stereotipi antiebraici usati da Hitler al varo delle prime misure discriminatorie
è totale.
Balza poi agli occhi la sproporzione, nello scritto, tra l’intento inizialmente dichiarato di muoversi contro l’ebraismo «dal terreno di un cristianesimo consapevole» e la successiva trattazione del problema che solo nelle ultime pagine tocca la dimensione religiosa, dopo aver dedicato il pamphlet ad attaccare «l’ebraismo dell’assimilazione, depravato e divenuto infedele alla sua propria missione, scollegato ormai dalla storia dell’autentico ebraismo».
Più interessante accennare al cuore delle risposte buberiane, tese non solo a smontare le distorsioni insultanti con cui Kittel affronta l’ebraismo, o a impedire di utilizzare in senso antiebraico la frattura che l’ipotesi sionista aveva introdotto nelle comunità ebraiche, ma, restando sul versante religioso, ad accusare Kittel di volere considerare operato divino misure discriminatorie tutte umane. Con ironia Buber si chiede perché l’interlocutore si leghi a pochi passi concernenti unicamente il piano giuridico, prescindendo dai moltissimi altri in cui il cristianesimo richiama la sua legge: quella dell’amore.
il problema della demarcazione
Come si individua la pseudoscienza
di Alessandro Pagnini (Il Sole 24 Ore/Domenica, 12.01.2014)
Stamina è un caso di "pseudoscienza", di "cattiva scienza" o di "falsa scienza con frode"? Nel nostro modo comune di affrontare certi problemi di plausibilità scientifica o di efficacia terapeutica non ci preoccupiamo gran che delle differenze e delle definizioni. Tuttavia un conto è sostenere il Disegno Intelligente rappresentando disonestamente come fallace la teoria dell’evoluzione solo perché si vuole impedire che un’educazione scientifica possa progressivamente sostituire un’educazione religiosa (che fa di certe spiegazioni ultime e di certi "misteri" la sua ragione); un conto è difendere una cura omeopatica credendo davvero nella sua efficacia; un altro ancora è lucrare sulla dabbenaggine e la disperazione della gente contrabbandando per scienza un’illusione.
Eppure se dovessimo dire quale dei casi citati è socialmente meno dannoso, soprattutto dopo aver riflettuto sulla ricca e documentata rassegna di esempi storici di "falsa scienza" che Silvano Fuso ci racconta, forse dovremmo dire il primo. Perché il Disegno Intelligente lo si può trattare a tavolino, magari con in mano qualche libro di supporto alle nostre argomentazioni; mentre gli altri costano: costano risorse economiche (per controlli alla fine inutili), costano tempo (e il tempo può a sua volta costare salute e vite umane), e soprattutto costano perché insinuano in menti deboli e ignoranti il tarlo dello scetticismo e della sfiducia nella scienza.
Ecco perché, da Hume in poi, i filosofi moderni hanno considerato importante quello che Popper battezzò come "problema della demarcazione". Finché però, nell’83, un saggio del filosofo e storico della scienza Larry Laudan ne decretò la "demise", ritenendolo uno "pseudoproblema" che nulla aggiunge, se non per una sua valenza emotiva e retorica, al problema della distinzione «tra una conoscenza affidabile e una conoscenza non affidabile», o ai tradizionali problemi relativi al controllo empirico di una ipotesi.
Oggi, a distanza di trent’anni, a dispetto della sua fortuna (qualcuno, non a caso di vocazione religiosa, lo ha addirittura considerato «uno dei saggi più importanti nella filosofia della scienza del XX secolo»), i contenuti del saggio di Laudan appaiono poco convincenti, talvolta concettualmente confusi, e i suoi argomenti, come anche le sue sinossi storiche, tutt’altro che incontestabili. Meno ancora appare accettabile il verdetto con cui esso liquida come inutile o fuorviante un interesse epistemologico sulla demarcazione. Lo si evince dalla raccolta di saggi curata da Pigliucci e Boudry che si concentra sul problema particolare di una possibile definizione di "pseudoscienza".
Va detto subito che nessuno degli autori che intervengono nella discussione pretende di aver trovato, né ritiene si possano trovare, i criteri necessari e sufficienti affinché si possa dire in assoluto di una teoria o di un’ipotesi se è scientifica o pseudoscientifica. E i più sembrano concordi nel differenziare i criteri di demarcazione tra ambiti di conoscenza diversi (tra scienze mediche, scienze fisiche e scienze della vita, per esempio), nel rispetto della specificità delle loro teorie, delle loro leggi (quando ci sono) e dei loro metodi. I più sono anche concordi nel riconoscere che il problema riguarda meno la logica o la metafisica che non una ragion pratica.
Ma l’idea di tutti è che quella demarcazione si abbia da fare; e che, anzi, non solo sia resa urgente dalle policies nella sanità, dall’allocazione delle risorse in medicina e negli investimenti per la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, da scelte e priorità nell’educazione, da questioni legali riguardo alle frodi e da questioni etiche sul tipo di modelli cognitivi destinati a orientare i nostri comportamenti e le nostre decisioni, ma che di fatto sia (spesso tacitamente) presupposta in gran parte delle nostre considerazioni e dei nostri atteggiamenti normativi e valoriali, e non solo quando si parla del ruolo della scienza e dello scienziato nella società.
Questo significa che il problema della demarcazione ci sfida a trovare soluzioni orientative, certo fallibili e revedibili, ma che riguardano in astratto e in generale una definizione di scienza (sia pure in termini di "somiglianze di famiglia" tra le sue unità), del tipo di quelle utilmente adottate, per esempio, dalla National Academy of Sciences, che periodicamente si premura di render pubblici dei criteri in base a cui valutare la "buona" condotta degli scienziati.
Ciò non ammonta a riesumare il mito del Metodo con la M maiuscola, inteso come algoritmo per dedurre verità; quello che Joseph Agassi icasticamente definì una «science sausage machine» (una macchina per fare scienza simile a quella che fa uscire le salsicce da un impasto prescritto in una ricetta). Serve solo a ricordarci che negare il Metodo non appiattisce la scienza su altre forme di conoscenza o di attività umana. Le differenze ci sono, ed è nostro obbligo, anche morale, renderne conto.
Non sto a elencare i numerosi spunti di grande interesse e attualità che questi due libri ci forniscono sia per comprendere le pseudoscienze sia per comprendere la scienza, e intendo concentrarmi brevemente su una domanda: c’è, nell’evoluzione cognitiva umana, una tendenza "naturale" all’irrazionalità, alla pseudoscienza, come qualcuno sostiene? La mente umana è equipaggiata di euristiche semplici e veloci, le cui operazioni configurano una razionalità adattativa, ecologica.
Tuttavia quando queste euristiche operano per risolvere problemi cognitivi astratti e complessi che richiedono una più lenta riflessione, se non c’è il vaglio di una razionalità normativa basata sulla logica e la probabilità, allora l’esito irrazionale diventa quasi inevitabile. Spesso l’autorità epistemica riconosciuta a una pseudoscienza è una scorciatoia alla fine della quale il pensiero trova l’approdo pigro di una credenza.
I rimedi non possono che essere a livello normativo ed educativo, e non possono che consistere nel favorire, pervasivamente, una forma mentis in cui logica, ragionamento, argomentazione ed etica (molto convincente, nel volume sulla pseudoscienza, l’argomentazione del logico Van Bendegem ... per un’«etica dell’argomentazione») trovino una loro naturale consistenza.
1914-2014. Gli ultimi giorni dell’Europa
di Vittorio Zucconi (la Repubblica, 12.01.2014)
«Dall’alto della propria torre orgogliosa la Morte guardò il suicidio dell’isola nel mare ai suoi piedi». Fu questo verso di Poe che la storica Barbara Tuchman scelse per narrare il secolo del suicidio europeo cominciato nel 1914, l’anno fatale nel quale il continente più prospero, colto, sviluppato, civile, più egemone che il mondo avesse mai conosciuto, decise, per ragioni ancora inspiegabili, di autodistruggersi. L’Europa fu il Cavallo di Troia di se stessa. Implose - senza invasioni né attacchi, né orde di barbari - spalancando le porte della storia al Secolo Americano.
È difficile, per noi che abbiamo conosciuto soltanto l’Europa della miracolosa, e ora claudicante rinascita un secolo dopo quel 1914, comprendere quanto assoluta fosse la supremazia del nostro continente sul pianeta. E quanto improbabile apparisse in quell’anno la «marcia dei sonnambuli» - secondo la definizione di Christopher Clark a Cambridge - verso l’abisso. Chi lamenta la globalizzazione di oggi, non sa quanto già globale fosse il mondo della Belle Époque e profonda l’interdipendenza fra le nazioni del Vecchio Continente. Basteranno due cifre per dare la misura dello strapotere europeo: il 67 per cento della produzione industriale mondiale veniva da qui; l’80 per cento delle flotte militari e commerciali batteva bandiere europee.
Una guerra fra le corone, tutte posate sulla testa di parenti, cugini e cognati, e l’unica grande repubblica del tempo, la Francia, appariva anche più assurda di quanto possa sembrare oggi alle legioni di ragazzi che sciamano da un’università all’altra sotto il segno di Erasmo, ai turisti che salgono e scendono da voli low cost e treni superveloci, che passeggiano lungo le rive del Reno, della Mosa, della Vistola dopo avere attraversato frontiere di garitte vuote o bunker ormai coperti di edera.
In un best seller del tempo, il Nobel per la pace sir Norman Angell poteva scrivere nel 1910 che la devastazione del credito e della finanza avrebbero impedito lo scoppio di una guerra o ne avrebbe reso brevissima la durata, nella solita fiaba del “tutti a casa per Natale”. Ironicamente, il titolo del suo saggio, La grande illusione, sarebbe divenuto un indimenticabile film contro la guerra. Ma Angell non avrebbe potuto immaginare che la rivoltella di un allucinato nazionalista serbo-bosniaco, Gavrilo Princip, contro l’erede al trono degli Asburgo Francesco Ferdinando a Sarajevo avrebbe messo in moto «la marcia dei sonnambuli» destinata a durare per l’intero «secolo breve», come lo chiamò Eric Hobsbawm.
La stampa Usa, di fronte al clamore suscitato da quell’assassinio, si concesse addirittura qualche ironia. L’Heralddi New York scrisse che «con tutti i duchi e gli arciduchi che hanno in Europa, uno in meno non può fare grande differenza». Cento anni dopo, e ben più di cento milioni di morti direttamente o indirettamente attribuibili a quell’«arciduca in meno», storici della guerra come John Keegan si chiedono addirittura se non sia stata la farraginosità e la lentezza delle comunicazioni fra Cancellerie, non ancora adeguata alla velocità del telegrafo, dei telefoni già esistenti in cavi sottomarini, della neonata radio, a scatenare la reazione a catena.
Ma ciò su cui nessuno ha dubbi è il meccanismo di azioni e reazioni, catastrofi e vendette, conti di sangue lasciati in sospeso, che avrebbe prodotto la Guerra dei Trent’anni europea, chiusa soltanto nel maggio di trentun anni dopo per poi congelare il continente nella glaciazione del conflitto ideologico fra Est e Ovest. Tutto quello che sarebbe accaduto nella Seconda guerra, e nel lungo Dopoguerra che ancora tocca con le proprie dita gelide i rapporti fra Russia e Occidente, ha le proprie radici in quelle giornate di agosto 1914.
Le mostruose tecnologie di morte usate nella Seconda guerra hanno il Dna nella Prima, i bombardamenti aerei, i tentativi di estendere la sofferenza alle popolazioni civili colpendo Parigi con supercannoni dalla gittata di 130 chilometri, i panzer, i primi rudimentali missili usati per abbattere palloni aerostatici e dirigibili. E i gas letali che dalle trincee sarebbero passati direttamente alle camere dello sterminio nazista e, ancora oggi, sostanzialmente identici, ai massacri in Siria.
Molti, se non tutti, i protagonisti, della Seconda guerra, erano figli della Prima. Churchill, Lord dell’Ammiragliato fino al 1915; Gamelin, vincitore della prima battaglia della Marna nel 1914 e poi disastroso comandante supremo dell’Armée francese nel 1940; Hitler, reduce rancoroso e ferito nelle trincee del fronte occidentale; Zhukov, il conquistatore di Berlino, decorato sui campi del 1915 contro le armate del Kaiser; Badoglio, vincitore del Sabotino e poi Capo di Stato Maggiore per la sciagurata offensiva contro la Grecia del 1940. E naturalmente Mussolini, ferito sul Carso da una bomba durante un’esercitazione.
Insieme con il cumulo di macerie, cadaveri, di immensi danni economici che dimezzarono le capacità industriali di nazioni come la Germania e divorarono una generazione di giovani uomini che in Francia lasciarono, nel 1918, una proporzione di sei donne per quattro maschi e centinaia di migliaia diinvalides,l’eredità più sottilmente velenosa di quel 1914 fu quella che John Keegan definì «la militarizzazione della politica».
Nei totalitarismi prodotti dalla guerra, dove le ideologie e i partiti erano stati messi in divisa restò, e ancora sotto pelle sopravvive, «il morso dell’odio per il nemico e quel risentimento - scrive sempre Keegan - che è sempre veloce nell’azzannare e lentissimo nel lasciare la preda ». Dovette essere l’America, due volte strappata al sonno del suo isolazionismo, a impedire alla Terra Madre di precipitare in un abisso senza ritorno.
Oggi quel campo della morte che fu l’Europa è silenzioso. Ma la Signora di Edgar Allan Poe, alta sulla propria gigantesca torre, osserva l’isola nel mare ai suoi piedi e aspetta paziente.
La "scienza per tutti" in un saggio dello studioso
WILLIAM CLIFFORD
E IL SENSO COMUNE
DELLA MATEMATICA
di Paolo Zellini (la Repubblica, 07.01.2014)
Una teoria matematica non è perfetta finché non risulta comprensibile alla prima persona che si incontri per strada. Ne era convinto David Hilbert quando proponeva, in occasione del celebre Congresso a Parigi ne11900, 23 problemi ancora irrisolti alle future generazioni de1XX secolo. Ma Hilbert non era certo il solo a esigere che le astrazioni matematiche risultassero comprensibili a chiunque. Richard Dedekind, nel suo fondamentale trattato Sulla natura e sul significato dei numeri del 1888, spiegava che alla sua teoria poteva accostarsi qualsiasi persona dotata di buon senso. E ancora prima William Kingdon Clifford, matematico inglese della seconda metà dell’Ottocento, dichiarava che è cattiva algebra quella che, voltata nella nostra lingua, non soddisfi il senso comune.
La dichiarazione di Clifford merita ora attenzione anche per l’uscita di una raccolta di suoi interventi dal titolo Etica, scienza e fede, con un bel saggio introduttivo di Claudio Bartocci e Giulio Giorello. Clifford pubblicò il suo più celebre articolo scientifico sulle algebre geometriche nel 1878, un anno prima della sua morte a soli 34 anni. Per descrivere le proprietà delle particelle elementari scienziati come Pauli, Dirac e Majorana si sarebbero poi serviti di algebre che portano il loro nome senza accorgersi che stavano usando algebre di Clifford.
Una coincidenza singolare ma frequente: accade spesso che diversi matematici inventino teorie simili a loro insaputa e a poca distanza di tempo, come se le teorie si sviluppassero da sé, in modo fatale e univoco, in virtù di una loro necessità intrinseca. L’autorità e la forza logica con cui si impongono alla nostra attenzione potrebbe pure dipendere dalla continuità che sembra esistere tra pensiero scientifico e pensiero comune, o dalla connessione logica delle nuove scoperte con idee più antiche, consuete e incontestate. Come fece poco più tardi Ernst Mach con le sue celebri Lezioni divulgative, Clifford scrisse The common sense of the exact sciences, un libro che ripropone di ricondurre fondamentali concetti alle più elementari operazioni della nostra vita quotidiana.
Al senso comune, dimostrava Clifford, possono rapportarsi non solo teorie acquisite dal canone, come l’aritmetica dei numeri complessi o una computatio deducibile dai numeri pitagorici, ma anche idee innovative che poco sembrano condividere con la nostra esperienza del mondo reale. Tra queste l’idea, poi ripresa da Einstein, di interpretare come una curvatura dello spazio ciò che realmente succede in quel fenomeno che chiamiamo "moto della materia".
Come interferiva tutto ciò con la filosofia di Clifford? Clifford era convinto che gli scienziati non facessero ancora abbastanza per liberare l’uomo dal peso dei dogmi. Egli perseguiva l’idea di un Illuminismo radicale, di un rischiaramento incentrato sulla responsabilità e sulla libertà individuale, in polemica con il principio di autorità su cui si basava la società vittoriana del suo tempo.
Un secolo prima Kant aveva sostenuto che al «rischiaramento non occorre altro che la libertà; e precisamente quella di fare pubblico uso della ragione in tutti i campi», e che «regole e formule, strumenti meccanici di un uso razionale» possono diventare «ceppi di una eterna minorità».
Ora, cercare un nesso tra scienza e senso comune e ricollegare ciò che è astrattamente deducibile alla conoscenza più intuitiva e immediata, avrebbe allontanato il rischio che "regole e formule" matematiche diventino per i più una verità a cui si deve credere senza ragionare, come sarebbe stato per i numeri complessi del giovane Tórless di Robert Musil (1906): «Caro amico, devi semplicemente avere fiducia; quando conoscerai la matematica dieci volte tanto rispetto a ora sarai in grado di capire, ma intanto devi credere!».
Non a caso Clifford scrisse un breve saggio sull’Etica della religione. Quello era per Kant il punto culminante del rischiaramento: «La minorità in cose di religione è, fra tutte le forme di minorità, la più dannosa ed anche la più umiliante». E Clifford manifestava un aperto scetticismo nei confronti dei dogmi di qualsiasi religione, pur apprezzando la profonda religiosità del Buddha o di Spinoza.
Sembra paradossale ma, se la religione può essere un ostacolo al rischiaramento, non si può escludere che possa esserlo anche la scienza. Max Weber notava come l’uomo razionale ignora tranquillamente, di solito, come funziona il tram da cui si lascia trasportare; e Norbert Wiener avvertiva che lo studio delle scienze informatiche, a cui lui stesso aveva dato preziosi contributi, avrebbe potuto incoraggiare l’inclinazione diabolica a delegare la propria ragione e responsabilità a una "mente superiore". Questa, egli spiegava, si incarna volentieri in congegni elettronici il cui funzionamento è solo in parte compreso e che possiede tuttavia una presunta obiettività; e allora non ci deve stupire che l’uso di grandi sistemi di calcolo per un’infinità di scopi elementari possa diventare «l’esatto equivalente della Magia e della Simonia».
LA NUOVA "BANALITA’ DEL MALE"
di Bruno Forte (Il Sole-24 Ore, 05.01.2014) *
Esattamente cinquant’anni fa Hannah Arendt, la filosofa ebrea tedesca allieva di Martin Heidegger e di Karl Jaspers, pubblicava l’edizione definitiva del suo libro "La banalità del male", frutto del lavoro svolto a Gerusalemme come inviata del "New Yorker" per seguire lo storico processo ad Adolf Eichmann. Il criminale nazista responsabile dello sterminio di milioni di Ebrei era stato catturato l’anno prima a Buenos Aires dove aveva vissuto indisturbato per anni.
Il "reportage" della Arendt si sviluppava in una serie preziosa di considerazioni morali, che furono poi raccolte e ampliate nel libro. La tesi che emerge dalle straordinarie pagine di questo testo è per molti aspetti sconcertante: «Il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme» (282). Il messaggio che scaturiva dal caso Eichmann, quello «che il suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato», era per la Arendt «la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male» (259).
Su questa lezione mi sembra importante ritornare perché, fatte salve le ovvie differenze fra quello che fu "il male assoluto" e quelli che sono i mali del nostro presente, non c’è dubbio che molti di essi derivino dalla mentalità del "così fan tutti", giustificata dai cattivi maestri della scena pubblica, in particolare di quella politica. Provo ad articolare questa riflessione sull’insinuante presenza della "banalità del male" su tre fronti, che convergono nel male endemico e distruttivo della corruzione: la perdita diffusa del senso del dovere; il rimando alle altrui responsabilità per scaricare le proprie; la disaffezione nei confronti del bene comune, a favore di quello personale o della propria "lobby".
Il senso del dovere è a fondamento della coscienza morale e del comportamento che ad essa si ispira. Nella sua essenza esso consiste nella disposizione ferma a compiere il bene perché è bene e a fuggire il male per l’unica ragione che è male. Applicato all’etica del lavoro questo principio comporta la cura rigorosa da mantenere nell’assolvimento dei propri compiti, a prescindere dal riconoscimento altrui e dalla ricerca pur così naturale di gratificazioni.
Fare bene ciò di cui si è incaricati - purché ovviamente non contrasti con la legge morale inscritta in ciascuno di noi, com’è riassunta nei precetti del Decalogo - vuol dire contribuire alla qualità della vita di tutti, fino a poter avvertire il senso del giusto orgoglio di aver fatto la propria parte per migliorare l’esistenza collettiva. Essere paghi del bene compiuto non è egoismo: esattamente al contrario è uno dei volti dell’amore per gli altri, che è alla base della legge morale.
Un servitore dello Stato che rimandasse colpevolmente a domani ciò che può fare oggi nel dare risposte a chi richiede i suoi servizi, specialmente nell’ambito delle necessità dello stato sociale, cadrebbe in una mancanza etica, che dovrebbe pesargli a prescindere da qualsivoglia sanzione (peraltro spesso inesistente o ignorata).
Si pensi, per fare due esempi ben noti, ai tanti casi di esasperante lentezza della giustizia o ai continui rimandi della politica nell’affrontare questioni urgenti e necessarie, come la riforma dell’attuale, pessima legge elettorale. Se questa sensibilità morale è richiesta specialmente a chi deve assolvere a un servizio pubblico, essa mi sembra sia doverosa per tutti, perché indispensabile al bene di tutti.
La perdita del senso del dovere viene per lo più giustificata dal rimando alle responsabilità altrui: se sono i capi a dare il cattivo esempio, si comprende come il meccanismo di deresponsabilizzazione si diffonda a macchia d’olio.
I cattivi maestri si possono trovare tuttavia in molti ambiti della scena pubblica: si tenga conto dell’influenza che hanno specialmente sui giovani alcuni comportamenti o stili di vita immorali di protagonisti dello spettacolo e dello sport; o si pensi alle autogiustificazioni o addirittura alla semplice negazione della responsabilità giuridica o morale che figure di rilievo della politica danno di propri comportamenti scorretti, perfino quando essi siano stati accertati e condannati a più livelli di azione giudiziaria. Questo modo di fare corrompe le scelte e le motivazioni di tanti: i corrotti diventano a loro volta corruttori, e questi si giustificano con la logica perversa del "così fan tutti".
È un veleno che dilaga facilmente: «Si comincia con una piccola bustarella, ed è come una droga», afferma Papa Francesco, stigmatizzando una prassi che porta tanti a dar da mangiare ai loro figli "pane sporco". In tal senso, la corruzione è peggio del peccato, perché erode in profondità la coscienza morale e induce a sguazzare nella "banalità del male".
La diffusione di comportamenti corrotti va poi di pari passo con la crescita della disaffezione al bene comune, che è forse oggi la malattia dell’anima più insidiosa per la nostra società: la sola logica che sembra debba giustificare le scelte diventa quella del "che me ne viene?". La preoccupazione del benessere proprio e della propria lobby prevale su ogni considerazione che finalizzi l’agire al maggior bene di tutti. Si perde così il senso dell’impresa collettiva, del sogno e della speranza di una giustizia più grande; si spegne nei cuori la passione per ciò che è possibile, da fare al servizio degli altri per la costruzione di un domani migliore per tutti.
Non sorprende in questo clima avvelenato che i giovani provino disgusto per l’impegno sociale e politico e preferiscano rintanarsi nel privato della propria ricerca di vantaggi e di sicurezze per il futuro. A questa mentalità che riduce il male a banalità si può reagire in un solo modo, ritrovando il senso della serietà della vita, del suo spessore morale, della dignità unica e irripetibile dell’esistenza personale.
L’indignazione, su cui insiste il fortunato pamphlet di Stéphane Hessel, il grande vecchio della resistenza francese, recentemente scomparso ("Indignez-vous!", Paris 2010, in traduzione italiana: "Indignatevi!", Torino 2011), può essere il primo passo, l’appello a un risveglio. Ciò di cui, però, c’è assoluto bisogno è l’impegno serio e perseverante al servizio del bene comune, vissuto nella fedeltà rigorosa e continua alle esigenze morali. La domanda di Gesù riassume l’antidoto necessario alla banalità del male: «Quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?» (Luca 9,25).
Misurarsi sulle esigenze di un giudizio assoluto non è rifugio consolatorio, ma fondamento di un’esistenza che valga la pena di essere vissuta e di una tensione etica e spirituale in grado di dare dignità e bellezza alla fatica dei giorni, rendendo serio e grande ciò che appare o si vorrebbe ridurre a semplicemente banale. Tendere a questa serietà, amarla, custodirla ed essere pronti a pagare di persona per non rinunciarvi è l’augurio migliore che si possa fare a se stessi e agli altri in questo inizio di un anno nuovo.
* Bruno Forte è arcivescovo di Chieti-Vasto
I sonnambuli d’Europa
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 31.12.2013)
«VERRÀ il momento in cui sbanderemo, come i sonnambuli d’Europa nell’estate 1914»: lo ha detto Angela Merkel, nell’ultimo vertice europeo, citando un libro dello storico Christopher Clark sull’inizio della Grande Guerra,tradotto in Italia da Laterza. I sonnambuli descritti da Clark sono i governi che scivolarono nella guerra presentendo il cataclisma, simulando allarmi, ma senza far nulla per scongiurarla. Da allora sono passati quasi cent’anni, e molte cose sono cambiate. L’Europa ha istituzioni comuni, l’imperialismo territoriale è svanito (resta solo l’Ungheria di Orbàn, residuo perturbante del mondo di ieri, a proclamare compatrioti a tutti gli effetti gli ungheresi di Slovacchia, Romania, Serbia, Austria, Ucraina). Non si combatte più per spostare confini ma l’Unione non è in pace come si dice, e la crisi che traversa la sta squarciando come già nel 1913-14.
È simile lo stato d’animo dei governi: allo stesso tempo deboli e pieni di sé. Impotenti sempre, anche quando mostrano arroganza o risentimento. Gli anniversari sono un omaggio che si rende al passato per accantonarlo. Meglio sarebbe celebrarli con parsimonia. Ma sul significato di questa ricorrenza vale la pena soffermarsi, e chiedersi come mai Berlino evochi il 1914 per dire che l’euro può sfracellarsi, che se non faremo qualcosa saremo di nuovo sorpresi dal colpo di fucile che distrusse il continente. Come mai torni questo nome - i Sonnambuli - che Hermann Broch scelse come titolo per una trilogia che narra la pigrizia dei sentimenti, l’indolenza vegetativa, che pervasero il primo anteguerra.
Quel che il Cancelliere non dice, ma che Clark mette in risalto, è l’inanità di simili moniti catastrofisti, l’enorme discordanza fra l’eloquio sinistro dei governanti e il loro agire ignavo, incapace di trarre le conseguenze da quel che apparentemente presagiscono.
Si comportarono da sbandati gli Stati europei, quando il 28 giugno 1914 Gavrilo Princip tirò i suoi due colpi di pistola a Sarajevo: quasi camminassero dormendo. A parole sembrava sapessero quel che stava per succedere, e però erano come incoscienti. Il dire era completamente sconnesso dai fatti, dal fare.
Allo stesso modo gli Stati odierni davanti alla crisi, quando recitano la giaculatoria sul baratro che perennemente sta aprendosi, e non fanno il necessario per allontanare l’Unione da quell’orlo ma anzi l’inchiodano sul bordo, sbrindellata e tremante com’è, senza governo né comune scopo, come se questa fosse l’ideale terapia per tenere vigili gli Stati, per dilatare le angosce dei cittadini, per non provocare la rilassatezza (il «rischio morale», lo chiamano i custodi dell’Austerità) che affligge chi, troppo rassicurato, smette il rigore dei conti.
Proprio come fa la Merkel, quando vaticina l’»esplosione dell’euro» e incrimina l’indolenza dell’Europa dormiente. L’accenno ai baratri, sempre miracolosamente sventati, è divenuto un trucco di governanti impotenti, inetti, che usano il linguaggio apocalittico e le paure dei popoli immiseriti «al solo scopo di restare titolari della gestione della crisi». Lo dice l’ultimo rapporto del Censis: non è «con continue chiamate all’affanno», né con la «coazione alla stabilità», che si ricostruirà una classe dirigente. Impossibile ridivenire padroni del proprio destino se gli Stati fingono sovranità già perdute e si consolano facilmente, come in Cocteau: «Visto che questi misteri ci oltrepassano, fingiamo di esserne gli organizzatori».
Terribilmente simili all’oggi che viviamo furono i prodromi della Grande Guerra. Verso la fine del luglio ‘14, poco dopo Sarajevo, il premier inglese Asquith preannuncia l’»Armageddon»: il luogo dell’Apocalisse dove tre spiriti immondi radunano i re della terra. Gli fa eco Edward Grey, ministro degli Esteri: «La luce si sta spegnendo su tutta Europa: non la vedremo più riaccendersi nel corso della nostra vita». In realtà gli inglesi avevano altri tormenti in quelle ore - non l’Europa ma l’autonomia dell’Irlanda - e poco si curavano del disastro continentale che profetizzavano.
Anche Churchill utilizzerà più tardi la metafora millenaristica del buio che irrompe: «Una strana luce cominciò a cadere sulla carta d’Europa». Quanto ai generali russi e francesi, le parole ricorrenti quell’estate erano «guerra di sterminio», «estinzione della civiltà».
Sapevano dunque - conclude Clark - ma la sapienza scandalosamente girava a vuoto: «Questa la cultura politica comune a tutti i protagonisti». Il ‘14-18 non è un giallo di Agatha Christie, col colpevole scovato nell’ultimo capitolo: la primaria colpa tedesca, fissata nell’articolo 231 del Trattato di Versailles, è invenzione dei vincitori. Il ‘14-18 fu una tragedia «multipolare e autenticamente interattiva ».
All’origine di questo voluto e fatale divaricarsi tra parole e presa di coscienza: l’ignoranza che ogni Stato mostrava per i patemi storici dell’altro. Ignoranza inglese dell’ossessione russa, ostile con i serbi all’impero austroungarico e ottomano. Ignoranza della Germania in ascesa. E accanto all’ignoranza: la flemma, l’abissale disinteresse per quello che la Serbia significava agli occhi d’un impero asburgico dato anzitempo per morto. Infine il fatalismo: la guerra era forse invisa, ma ritenuta inevitabile. Così l’Europa sbandò verso l’inutile strage denunciata da Benedetto XV.
Ricordando la leggerezza disinvolta narrata da Clark, la Merkel commette gli stessi errori, quasi credesse e non credesse in quel che dice. Anche nel ‘14 mancò l’immaginazione: quella vera, non parolaia. Gli europei erano immersi in una prima globalizzazione. Come poteva sgorgare sangue dal dolce commercio? Poteva invece, perché il mito delle sovranità assolute scatenò i nazionalismi e produsse non uno ma due conflitti: una lunga guerra di trent’anni. Solo dopo il ‘45 capirono, creando la Comunità europea.
Ora siamo di nuovo in piena discrepanza tra parole e azioni, e tutti partecipano alla regressione: compresi gli sfiduciati, i delusi pronti a disfarsi di un’Europa che non è all’altezza della crisi. È diffuso l’anelito a sovranità comunque inesistenti, e il sonnambulismo riappare con il suo corteo di irresponsabilità, ignoranza, patriottismi chiamati difensivi. Come allora, a trascinarci in basso sono i governi ma anche una cultura politica comune. Ecco la modernità brutale del 1914, scrive Clark.
Anche i popoli - spogliati di diritti, disinformati - barcollano sperduti fantasticando recinti nazionali eretti contro l’economia-mondo. Credono di contestare i governi. Sono in realtà complici, quando non esigono un’altra Europa: forte e solidale anziché serva dei mercati. Il pericolo, tutti lo sentono per finta. Dice ancora Broch: «Solo chi ha uno scopo teme il pericolo, perché teme per lo scopo».
Da anni siamo abituati a dire che l’Europa federale ha perso senso, col finire delle guerre tra europei. Ne siamo sicuri? La povertà patita da tanti paesi dell’Unione sveglia risentimenti bellicosi. E la mondializzazione non garantisce pace, come ammoniva già nel 1910 Norman Angell, nel libro La grande illusione.L’internazionalizzazione dell’economia rendeva «futili le guerre territoriali», questo sì. Ma intanto ciascuno correva al riarmo.
Oggi la Grande Illusione è pensare che il ritorno dell’equilibrio fra potenze assicuri nell’Unione il dominio del più forte, più stabile. Ma Darwin è inservibile in politica, e mortifera per tutti è la lotta europea per la sopravvivenza. Nel rapporto tra Usa e Israele, o tra Cina e Nord Corea, sono decisivi i piccoli, i più dipendenti: esattamente come cent’anni fa fu decisiva la Serbia panslavista, rovinosamente sostenuta dalla Russia. La forza fisica che Angell giudicava futile, e però letale, è quella dello Stato-nazione che s’illude di fare da sé, piccolo o grande che sia. La lezione del ‘14 non è stata ancora imparata.
Il Rinascimento di Galileo
Da John Heilbron una nuova biografia dell’italiano che più di tutti ha influenzato la storia del mondo
Fu un grande umanista e fondò la scienza moderna
di Carlo Rovelli (Il Sole-24 Ore-Domenica, 22.12.2013)
L’ italiano che ha avuto più influenza sulla storia del mondo, sullo sviluppo della civiltà nella quale viviamo oggi, è con ogni probabilità Galileo Galilei. Il suo contributo alla cultura dell’umanità è impressionante. Galileo è stato il primo a comprendere che possiamo imparare interrogando la natura con degli esperimenti: i primi esperimenti scientifici della storia sono stati compiuti da lui. È stato il primo ascrivere una precisa legge matematica per descrivere i movimenti delle cose sulla Terra. Questo ha aperto la strada al mondo moderno, dove oggi calcoliamo tutto usando la matematica: dai ponti ai computer, dalle previsioni del tempo ai viaggi interplanetari Galileo è stato il primo a usare strumenti scientifici (il telescopio) per osservare il mondo. È stato il primo a osservare cose, fuori dalla Terra, che nessun umano aveva mai visto prima: dai satelliti di Giove, alle fasi di Venere, dagli anelli di Saturno alle macchie solari.
Il mondo con Galileo si è ingrandito immensamente: l’umanità si è resa conto di avere la possibilità di vedere lontano. Quasi nulla, né della nostra attuale visione del mondo, né del modo in cui viviamo oggi esisterebbe, senza questo passaggio essenziale che è stata la scoperta della metodologia scientifica di base. Il fatto che sia stata la stessa persona a essere il primo sperimentatore, il primo fisico matematico, e il primo a osservare il cielo, ha del prodigioso e lascia ancora esterrefatti.
Eppure l’uomo Galileo Galilei resta controverso, come è stato tutta la sua vita. La valutazione di ciò che ha fatto, perché lo ha fatto e come lo ha fatto, resta dibattuta. Chi era Galileo Galilei? Italianissimo nelle sue straordinarie doti di acume e inventiva, quanto nei suoi giganteschi difetti, è stato descritto come megalomane, attaccabrighe, inaffidabile, adulatore, venditore di fumo, vanitoso, isterico. Un ciarlatano, per il filosofo della scienza austriaco Paul Feyerabend. Un disonesto, per Arthur Koestler.
Anche il modo in cui è arrivato ai suoi risultati mirabolanti è oggetto di controversia. La sua prima legge ci dice che i corpi pesanti cadono con accelerazione costante. Oggi ci sembra naturale, ma per secoli nessuno lo sapeva. L’idea stessa di accelerazione, rivelatasi poi fondamentale per la fisica di Newton e la scienza moderna, è stata chiarita con precisione solo da Galileo. Galileo scrive che ha scoperto la sua legge misurando la velocità a cui rotolano palle lungo una discesa. Ma negli anni Trenta lo storico della scienza Alexandre Koyré ha messo in dubbio il suo resoconto, sostenendo che Galileo non aveva mai fatto gli esperimenti che dice di aver fatto.
Sennonché negli anni Sessanta lo storico inglese Stillman Drake ha mostrato che Koyré sbagliava, studiando i manoscritti sparpagliati che restano di Galileo, riuscendo a ricostruirne l’ordine cronologico grazie all’evoluzione della grafia (mettete la data sulle vostre note, se pensate di avere qualche chance che il futuro si interessi a voi) e trovando i numeri delle misure delle palle che rotolano, a conferma, almeno parziale, della versione di Galileo.
Ma la questione che più suscita conflitto è l’accanimento della Chiesa cattolica contro di lui. Aveva ragione Galileo a dire che la Terra gira attorno al Sole. Però aveva ragione il cardinale Bellarmino, poi santo, a dire che prove certe Galileo non le aveva, e quindi si trattava solo di ipotesi. Ma aveva ragione Galileo a dire che era alle «sensate osservazioni e ragionevoli deduzioni» che bisognava rivolgersi per sapere chi girasse intorno a cosa, e gli interpreti della Bibbia avrebbero dovuto adeguarsi. Ma aveva ragione Bellarmino a dire che chi interpretasse la Bibbia era affare della Chiesa e non di Galileo. D’altra parte aveva ragione Galileo a dire che lui voleva poter cercare la verità a modo suo. E ancora oggi di questo la Chiesa cattolica non è del tutto convinta.
Ma obbligare un vecchio di settantanni, malato, stanco, coraggioso, un immenso scienziato, a inginocchiarsi davanti ai Cardinali e chiedere perdono per le sue idee («Io, Galileo inginocchiato davanti a voi ... giuro che ho sempre creduto, credo adesso, e... sempre crederò, tutto quello che tiene e predica et insegna la Santa Chiesa... abiuro e maledico e detesto i miei errori ed heresie... giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa haver di me simil sospitione»), impedirgli di scrivere quello che pensava, imprigionarlo in casa per il resto della vita, tutto questo resterà un’onta sul cattolicesimo. Ma in fondo non era forse colpa di Galileo, che aveva dato importanza al Vaticano? Fosse restato a Padova, avesse parlato di scienza con gli scienziati del Nord Europa, come Keplero che non chiedeva che di comunicare di più con lui, invece di andare a Firenze e poi a Roma, probabilmente nessuno gli avrebbe dato fastidio.
Forse Galileo è stato troppo buon cattolico, cercando di smuovere quello che non si poteva smuovere. Da parte sua, quello che la Chiesa cattolica è riuscita a ottenere condannando Galileo è stato solo tagliare fuori l’Italia dalla crescita culturale dell’Europa dei secoli seguenti.
L’eredità del grande italiano sarà raccolta in Inghilterra, nei Paesi Bassi, in Germania, in Francia, dove le gerarchie cattoliche potevano poco. Da ogni parte lo si guardi, Galileo è personaggio che suscita controversie. Come potrebbe essere altrimenti, forse, per l’uomo che ha preteso di essere il paladino della ricerca libera della verità, ma ha abiurato per paura? L’uomo che poteva starsene a Padova, sotto la libera e liberale Venezia che lo lasciava pubblicare quello che voleva, ma è andato invece a cacciarsi sotto l’ala di un principe assolutista a Firenze, Cosimo dei Medici, e poi di sua volontà a Roma a disturbare gesuiti e cardinali per farsi dare ragione anche loro?
A cercare di mettere ordine in questo guazzabuglio storico, e fare un punto sulla vasta letteratura dedicata a Galileo, esce in Italia un corposo volume di un grande storico della scienza inglese, John Heilbron, ottimamente tradotto da, e a cura di, Stefano Gattei. Con una quantità di informazioni che lascia stupiti, e una acuta comprensione del mondo in cui si muove Galileo e della sua scienza in farsi, Heilbron ricostruisce puntigliosamente la sua vita tempestosa, i suoi scontri, l’evolvere delle sue idee, le cautele e le presunzioni.
Soprattutto, le sue molte relazioni intellettuali, dalle amicizie giovanili dalle quali nascono le prime idee sul moto, all’inizio dell’Accademia dei Lincei («una banda omoerotica incline al misticismo e al melodramma, organizzata come un ordine religioso e pericolosamente vicina all’eresia»; oggi è cambiata, l’Accademia dei Lincei).
Heilbron cerca di alleggerire il testo aggiungendo ironia e giochi di parole (Galileo, carattere ostinato, che va verso Roma a cavallo di una mula diventa: «La piccola mula e il grande mulo»...), giochi di parole continui, fortunatamente diradati nella traduzione italiana. La vita di Galileo scorre giorno dopo giorno davanti ai nostri occhi, con i suoi crucci e le sue debolezze. Il Galileo che ne emerge è un uomo profondamente parte della cultura tardo rinascimentale italiana, un prodotto di questo momento splendido del nostro passato.
Grandissimo scrittore, forse fra i più grandi prosatori che abbia avuto la nostra lingua, musicista, critico letterario, artigiano, cortigiano, intrallazzatore, capace di mettere tutto questo al servizio di una grande nuova idea. È bella questa immagine di Galileo umanista, appassionato di Dante e innamorato di Ariosto quanto di Euclide e Archimede, grande maestro nell’uso delle parole, che ci riporta all’unità e alla coerenza spesso dimenticata del nostro sapere.
Il segreto del genio di Galileo, per Heilbron, è nella combinazione delle sue doti di scrittore, musicista, artigiano, disegnatore, matematico e filosofo, nella capacità profondamente rinascimentale di fare funzionare tutto questo insieme. La scienza moderna è radicata in questa splendida alchimia italiana.
Ma il Galileo di Heilbron è anche un Galileo che sembra si occupi di più di politica che di scienza, un Galileo che sembra trovare per caso sue straordinarie intuizioni, e si occupa principalmente di divulgarle.
Tutt’altro Galileo era descritto in La figlia di Galileo di Dava Sobel, ripubblicato l’anno scorso da Rizzoli nella Biblioteca Universale. Costruito come un commento intorno alle lettere che Suor Maria Celeste, ovvero Virginia, figlia prediletta di Galileo, mandava regolarmente al padre adorato, il libro si legge con facilità e ci mostra un lato molto umano dello scienziato.
A Padova, dove aveva fatto le prime scoperte che lo renderanno famosissimo, il giovane scienziato aveva amato Marina, donna Veneziana del popolo, senza poterla sposare, e ne aveva avuto tre figli «nati da fornicazione» come si diceva, a cui era rimasto molto legato. Virginia muore a trentatré anni, poco dopo il processo di Roma e l’abiura che hanno devastato suo padre. «Una tristizia e melanconia immensa, inappetenza estrema, odioso a me stesso, et insomma mi sento continuamente chiamare dalla mia diletta figliola», scrive il vecchio leone.
Continuerà a lavorare scrivendo in vecchiaia pagine fondamentali per la nascita della meccanica, ma perderà la vista: «Quell’universo ch’io con mie meravigliose osservazioni e chiare dimostrazioni aveva ampliato per cento e mille volte più del comunemente creduto da’ sapienti di tutti i secoli passati, ora per me si è diminuito e ristretto, ch’è maggiore quello che occupa la persona mia». Il libro di Dava Sobel aggiunge poco a quello che di Galileo già si sapeva, ma ci fa sentire il suo dolore, la sua passione, ci fa meravigliare alla sua grandezza.
Forse non è ancora stata scritta la biografia di Galileo che sappia ricostruire il Galileo che stava dietro tutto questo. Quello che deve avere passato innumerevoli notti a guardare le stelle con il suo cannocchiale mal funzionante, prendendo appunti alla luce di una candela, provando e riprovando una lente dopo l’altra. Quello che deve avere passato innumerevoli ore a scrivere e riscrivere linee di matematica su taccuini sgualciti, a rileggere Aristotele per capire dove fosse il giusto e dove fosse l’errore, rileggere Archimede per trovare il teorema giusto. Quello che deve avere passato giorni e giorni a fare rotolare palle lungo discese di legno, senza all’inizio riuscire a capire come davvero cadessero.
È da questo Galileo segreto e forse irraccontabile, credo, che è nata la scienza moderna, non dall’attaccabrighe che voleva farsi dare ragione dai cardinali. Heilbron prova a permettersi solo un’occhiata verso tutto questo, in un bellissimo dialogo sulla scienza del moto fra Galileo e Alessandro, un suo alter ego immaginario, che è la pagina più bella del libro. Non di più. Qualcosa di questo genio universale, che ha cambiato la nostra relazione con la realtà, resta ancora misterioso.
Ma chiunque fosse stato davvero Galileo, ci resta il cuore del suo messaggio, un messaggio di scoperte, di idee e di metodo che hanno fondato il mondo moderno, un messaggio scritto in libri bellissimi, in un italiano incantevole, che indicano una strada che si è rivelata essere una strada meravigliosa: la possibilità di studiare e comprendere il mondo, di imparare cose infinitamente utili, di guardare più lontano. Grazie Galileo.
John Heilbron, Galileo, trad. e cura di Stefano Gattei, Einaudi, Torino, pagg. 544, € 32,00
Dava Sobel, La figlia di Galileo, Rizzoli, Milano, pagg. 426, € 10,90
Il ritorno strisciante della peste nera
di Moni Ovadia (l’Unitàm 21 dicembre 2013)
L’Italia intera, nei giorni scorsi, si è di colpo ritrovata sotto shock per alcune immagini riprese da un telefonino e ritrasmesse immediatamente sulla Rete che ormai ci mostra in tempo reale, accadimenti che rimarrebbero altrimenti nella regione dell’inavvertito. Il breve filmato, mostrava alcuni immigranti internati nel Cie di Lampedusa, denudati per essere cosparsi con una soluzione chimica atta a prevenire la scabbia.
Questo trattamento brutale e inumano, come ha spiegato con chiarezza il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione del Senato per la Tutela dei Diritti Umani, è diretta conseguenza delle modalità della reclusione che trasforma le persone in oggetti, in cose. I nazisti chiamavano gli internati del lager Stücke , pezzi. A sua volta, il processo di reificazione è figlio di una legge infame, la Bossi-Fini, la legge che istituisce il reato di clandestinità, ovvero una legge che trasforma un essere umano in criminale non per ciò che egli fa, ma per ciò che egli è, dunque una legge che si fonda sullo stesso impianto costitutivo delle Leggi di Norimberga.
Esponenti dell’Unione europea si sono scandalizzati, autorevoli rappresentanti del nostro governo si sono indignati, ma che anime belle! Davvero commoventi, e cosa dicono queste persone tanto sensibili delle diuturne vessazioni perpetrate contro i cittadini rom, perseguitati, segregati, deportati di campo in campo per esempio in Italia, per non parlare di quello che subiscono in Ungheria e in altri Paesi dell’ex blocco comunista dove vengono anche pestati e magari uccisi?
Cosa pensano della legge liberticida per reprimere le manifestazioni che prepara il governo Rajoy in Spagna? Cosa dicono dell’impetuosa ascesa di Marine Le Pen in Francia? Lo vogliono capire lorsignori che nella «civile» e imbelle Europa, è ancora attivo il virus della peste nera che si chiama fascismo che è pronto a riproporsi come prospettiva politica e che ci sono molti cittadini europei che, pur di vedere salvaguardato un loro status, reale o percepito che sia e di avere garantito un privilegio sia pur virtuale, sono pronti ancora a dar credito ai seminatori di razzismo, di odio e di xenofobia?
L’Europa cosa aspetta a dare senso alla sua stessa ragione d’essere: la convivenza pacifica fra i popoli e la loro unità politica e sociale, non solo economica? Non si possono accreditare illusioni di comodo magari parlando di pacificazione. Ci visioni del mondo inconciliabili. Pace, uguaglianza, libertà, giustizia sociale e fascismo, non possono convivere. Cosa si aspetta ancora per contrastare con inequivocabili leggi europee, il risorgere delle forze oscure dell’estrema destra che hanno partorito la peste nera che ha distrutto l’Europa e sterminato interi popoli?
L’idea stessa di un’Europa unita, libera e pacifica, si è forgiata e temprata nella lotta e nella cultura antifascista; chi lo dimentica, magari per quieto vivere, non è solo superficiale o opportunista, è colpevole. Gravemente colpevole!
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 20.12.2013)
La parte più rilevante dell’insegnamento di Jacques Lacan è orale. Essa si condensa nei suoi famosi Seminari che a partire dai primi anni Cinquanta egli tiene continuativamente sino alla sua morte avvenuta nel settembre del 1981. E tuttavia la celebrità pubblica di Lacan coinciderà con la pubblicazione dei suoi Scritti nel 1966. Questa raccolta volutamente al limite della leggibilità uscì in piena epoca strutturalista e il suo successo consacrò lo psicoanalista francese come uno dei più grandi pensatori del Novecento.
Emergeva lì il senso più autentico del suo “ritorno a Freud”: l’inconscio non è il sottosuolo, l’irrazionale romantico, l’animale imbizzarrito, il selvaggio caotico, l’istintuale. Lacan ci mostra come l’inconscio di Freud sia strutturato come un linguaggio, appaia cioè come una vera e propria ragione sebbene diversa da quella che regola i nostri comportamenti diurni. Si tratta della ragione che anima la trama complessa dei nostri sogni e il tessuto scabroso dei nostri sintomi, della ragione che sostiene l’istanza del desiderio inconscio.
Di qui il nuovo orientamento che egli imprime alla pratica analitica: contro le derive post-freudiane che tendevano a concepire il lavoro dell’analisi come una rieducazione emotiva e disciplinare del paziente, Lacan mostra che la “disalienazione” prodotta dall’esperienza dell’analisi non consiste nel raddrizzamento ortopedico dell’Io, ma nel fare emergere la verità del desiderio inconscio come ciò che spiazza l’Io costringendolo a ridimensionare il proprio narcisismo.
La pubblicazione per Einaudi degli Altri scritti di Lacan, apparsi originariamente in lingua francese nel 2001 a cura di Jacques-Alain Miller, è di straordinario interesse perché ci consente di dettagliare ancora meglio la visione lacaniana della psicoanalisi che senza negare il potere rivelatore della parola affronta con più decisione tutti i suoi limiti.
Questa raccolta riunisce testi che vanno dalla fine degli anni Trenta sino alla fine degli anni Settanta. In cinquant’anni si srotola una vita dedicata allo studio e alla pratica clinica della psicoanalisi. Il lettore potrà così trovare testi capitali per la ricostruzione genealogica del suo pensiero - come il celebreI complessi familiari del 1938 che anticipa un grande tema della contemporaneità come quello del tramonto dell’Imago paterna - o altri che lo sintetizzano con grande energia come Televisione o Radiofonia.
Ma non manca in questa raccolta il Lacan maestro che possiamo ritrovare nei brillanti e inediti resoconti del suo insegnamento. Il clinico curioso che offre un intenso e rispettoso ritratto di Wilfred Bion e della sua esperienza pionieristica nell’applicazione della psicoanalisi ai gruppi di soldati che nel corso della Seconda guerra abbandonavano traumatizzati il fronte. L’intellettuale appassionato che omaggia Merleau-Ponty o che resta affascinato dagli ideogrammi della lingua giapponese e dalla scrittura neologistica di James Joyce. Il capo scuola impegnato nella trasmissione della psicoanalisi e nel dare vita ad una comunità di psicoanalisti capace di non tradire il sapere di cui essa si vorrebbe destinataria.
Qui Lacan sbatte la testa contro il muro della contraddizione che separa la formazione dell’analista da ogni sua possibile regolamentazione. Per questo si congeda identificandosi con Tommaso D’Aquino nel momento finale della sua vita, mostrando come il destino dello psicoanalista sia quello dello scarto, null’altro che “Sicut palea”, povero letame di cui si è nutrito l’humus umano.
Martin Heidegger
Nei “Quaderni neri” gli appunti segreti contro gli ebrei
Le posizioni antisemite dell’autore di “Essere e tempo” svelate dai taccuini ancora inediti
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 18.12.2013)
Un migliaio di pagine. Vedranno la luce nel marzo del prossimo anno: tre quaderni, vergati da Martin Heidegger, di cui pochissimi conoscevano l’esistenza. Nel mondo degli studi filosofici, soprattutto tedesco, c’è molto sbalordimento. Il “Mago di Messkirch” (così era soprannominato dai suoi studenti) per circa quarant’anni (dall’inizio degli anni Trenta al 1975, l’anno precedente alla sua morte) tenne una sua navigazione segreta, quasi quotidiana. Immaginate quest’uomo, piccolo, taciturno, duro, sospettoso come un contadino dell’Alta Svevia che, la sera nella sua baita di Todtnauberg, dava libero sfogo ai pensieri più nascosti, e avrete una vaga idea di cosa siano questi quaderni (in tutto nove) che Klosterman (editore delle opere complete) ha deciso di pubblicare. Sono molti gli interrogativi che queste pagine suscitano.
Vado ad affrontarli con la persona giusta: Donatella Di Cesare, ordinario di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, autrice di libri sull’etica ebraica, Gadamer e contro il negazionismo. Il prossimo mese uscirà con un testo su Israele e la filosofia (per Bollati Boringhieri) e in primavera con Heidegger e la Shoah.
Di Cesare è una singolare figura di studiosa: è membro della comunità ebraica di Roma e al tempo stesso vice presidente dell’Heidegger Gesellshaft ,la società filosofica che nel mondo raccoglie diverse centinaia di studiosi. Del resto, non aveva avuto Heidegger stesso allievi ebrei? A cominciare da Hannah Arendt e poi Karl Löwith, Leo Strauss, Emmanuel Lévinas: pensatori che hanno beneficiato, anche se in maniera contrastata, delle riflessioni del maestro.
Ma in questi quaderni la materia che scotta non riguarda tanto, o solamente, la questione, ormai annosa, dell’adesione al nazismo, quanto quella più esplosiva del presunto antisemitismo di Heidegger.
«Dopo aver letto queste pagine sono rimasta sconvolta», dice la Di Cesare, mentre indica sul tavolo le bozze dei tre quaderni. «Non posso ovviamente rendere pubblico nessun estratto perché c’è l’embargo dell’editore tedesco fino alla data di pubblicazione dei tre quaderni, prevista per il 13 marzo. Ma le assicuro che il mio primo impulso è stato di dimettermi dalla carica di vice presidente».
Mentre la Di Cesare va a recuperare un suo libretto, sbircio tra quei fogli. Mi colpisce un’espressione: Weltjudentum, “ebraismo mondiale”. Richiama scenari cupi, complotti internazionali, l’anticamera del peggior antisemitismo. Davvero Heidegger se ne macchiò in modo indelebile?
«Per me quell’espressione è carica di minacce. Ed è inequivocabile sul piano del significato. È come se individuasse un nemico sugli altri: l’ebreo. Agli ebrei egli imputa la bastardizzazione del mondo e l’autoestraneazione dei popoli. Potremmo dire che, in negativo, è il primo esempio di globalizzazione. L’argomentazione heideggeriana non si sviluppa però solo su un piano politico, ma assume anche contorni filosofici».
I Quaderni neri - l’immaginazione ci spinge a vederne i risvolti più inquietanti, sebbene la dicitura sia dello stesso Heidegger che lavorava su dei taccuini dalla copertina di quel colore - sono in tutto trentatré. A quanto pare due di essi sono andati perduti. Se ne conoscono le date: uno risale al 1931-32, l’altro al 1945-46. Con ogni evidenza, appartengono a periodi cruciali della vita del filosofo e dei tedeschi. Da un lato, la Germania entra nel suo periodo nazista; dall’altro, sconfitta dalla guerra, ne esce con tutte le terribili conseguenze che sappiamo. Chi sono i responsabili?
Sarebbe stato interessante gettare un occhio sui materiali scomparsi. Vedere cosa Heidegger pensasse all’inizio e alla fine di quella storia micidiale: «Alla Klosterman sostengono che il filosofo prestò quei due quaderni e che non li riebbe mai più indietro. Hanno scritto perciò, nel loro sito, che se qualcuno ne fosse ancora in possesso è pregato di restituirli al figlio Hermann Heidegger. La cosa ha il sapore dello scherzo».
Hermann - oggi ultranovantenne, figlio sì di Heidegger, ma che la moglie Elfride ebbe con un altro - è sempre stato un custode ortodosso delle opere del padre. Si sospetta che quei due quaderni siano stati sfilati da qualche “manina santa”. Perché? «Non bisogna essere troppo svegli per intuire che lì dentro, con ogni probabilità, ci sono i pensieri più compromettenti del filosofo sulla questione ebraica».
Naturalmente qui si cammina sul ghiaccio. Ma c’è molto fermento nella Heidegger Gesellshaft che, non essendo la Spectre, si interroga oggi su quanto di male stia accadendo. Nel frattempo il ruolo che era di Hermann, in qualità di membro familiare presente nella società filosofica, è stato preso dal figlio Arnulf. Un uomo, dice la Di Cesare, generoso e di grande libertà mentale. «Grazie a lui, alcuni di noi si sono resi conto che l’edizione delle opere complete di Heidegger presenta qualche manomissione. Sono state ad esempio eliminate alcune parole. La domanda è: perché superflue o perché compromettenti? Per ora ci limitiamo a questo».
Mi chiedo chi potrebbe essere il “perverso filologo”, o meglio il censore. E il pensiero corre a Hermann Heidegger, ai suoi celebri diktat editoriali. «Non lo sappiamo », si cautela la Di Cesare.
Chiedo se dietro all’affaire non vi sia la longa manus di F. W. Von Herrmann, assistente di Heidegger, negli ultimi anni, e curatore di parecchie opere. Anche qui cautela. Ma sembra sia stato proprio Von Herrmann a impedire la pubblicazione di questi sorprendenti Quaderni neri.
C’è un dettaglio rilevante, aggiunge la Di Cesare: «Heidegger in persona ha lasciato, tra le sue volontà testamentarie, l’indicazione che i Quaderni fossero pubblicati a compimento dell’edizione delle sue opere. Hermann Heidegger non si è mai pronunciato circa l’esistenza di questo lascito. Nessuno, fino alla primavera di quest’anno, ne sapeva nulla. Sono convinta che la loro pubblicazione non sarà un danno per l’immagine del filosofo. Lì dentro ci sono moltissime cose che chiariscono il suo pensiero». Dunque non solo un polemico atto d’accusa, ma anche una vertiginosa discesa nella sua filosofia.
Spiega la Di Cesare: «Lo stile è diverso da quello che conosciamo. Di solito siamo abituati a leggere Heidegger attraverso i suoi saggi e le sue lezioni. Dentro una prosa oscura e meticolosa. Qui, in gran parte, si tratta di riflessioni che vengono svolte con un andamento aforistico, quasi di impronta nicciana. Sono considerazioni prevalentemente filosofiche ma con una continua presa di posizione su questioni attuali, anche politiche. Sono convinta che i Quaderni neri muteranno la visione che abbiamo di Heidegger».
In bene? In male? Vediamo. Tornando alla spinosissima questione dell’antisemitismo c’è da aggiungere un particolare. Heidegger, secondo la Di Cesare, non parla mai degli ebrei come razza. Riporta quell’esperienza alla sua concezione metafisica. Quindi ne fa un problema filosofico. Come va intesa questa affermazione? Si sa che Heidegger pose sullo stesso piano americanismo, bolscevismo e, da ultimo, lo stesso nazismo, come manifestazioni dell’epoca della tecnica. Anche l’ebraismo, chiedo, finisce nello stesso calderone?
Risponde la Di Cesare:«Proprio alla luce della rilettura che fa della storia dell’Essere, notiamo qui qualcosa di più radicale e diverso. In alcune pagine dei Quaderni parla di Entwurzelung, di sradicamento dell’Essere, e dice che questo “sradicamento” è imputabile agli ebrei. È un’accusa metafisica. Non c’entrano niente il sangue e la razza».
E allora? «L’idea che mi sono fatta è che accanto a una questione filosofica ci sia in Heidegger una questione teologico-politica che non va sottovalutata. In fondo, leggendo Jacob Taubes e Carl Schmitt ci si accorge che le posizioni di Heidegger non erano poi così distanti. La cosa che interessava a tutti e tre era il lato messianico dell’ebraismo».
Ma lo declinano in modi diversi, replico. «È vero, ma lo sfondo teologico-politico è il medesimo. Con questa precisazione. Quando Heidegger parla di sradicamento, in realtà sta alludendo alla forza messianica, planetaria, dell’ebraismo e reagisce come farebbe un conservatore della vecchia Europa. Ossia delineando uno scontro planetario (che del resto la guerra in qualche modo legittimava): da un lato lo sradicamento, dall’altro la Germania - che lui identificava con l’Europa - che deve rispondere con la forza del Boden ossia del radicamento al suolo, alla terra, alla dissoluzione planetaria. I passi contenuti nei Quaderni mostrano una profonda intuizione del messianismo. Heidegger capisce tutto. Stando dalla parte sbagliata».
Bisognerebbe, a questo punto, domandarsi cosa ha significato la lunga e perfino penosa reticenza da parte del filosofo nei riguardi di chi gli chiedeva una spiegazione delle mostruosità che erano accadute. Solo in un’occasione, per quel che ne so, Heidegger si pronunciò alludendo ai campi di sterminio. Parlò della «fabbricazione dei cadaveri». Poi più nulla. Salvo accorgersi che, in quelle sere passate nella sua “capanna”, i pensieri tornavano spesso su quel dramma. Quasi fosse un algido affresco dell’inferno. Dobbiamo essere indulgenti con un grande pensatore? Dobbiamo continuare a distinguere la sua filosofia dai suoi comportamenti? È su questo che i Quaderni neri oggi ci interpellano. E quel lungo silenzio - che Derrida interpretò come la scelta di un filosofo che non giudicava nessuna parola all’altezza di quella tragedia - andrebbe sciolto in una nuova consapevolezza. O quanto meno in una più evidente ragione sulle responsabilità della filosofia verso la politica.
2013, nov 27*
Della terra, il brillante colore
Il libro di Federico La Sala offre un punto di vista raro. Quello di un pensiero maschile che osserva e riflette e su alcuni pilastri del pensero filosofico occidentale in modo non neutro ma a partire dal riconoscimento della propria parzialità - di individuo e di genere.
Il libro si compone di più saggi che affondano nel profondo delle nostre radici culturali come “carotaggi” a campione. La sensazione all’inizio spaesante di saltare da un frammento all’altro in campi diversi del sapere e in momenti diversi della storia è ricomposta nel filo conduttore che pian piano si manifesta. Più che un filo conduttore teorico, la tensione etica, intellettuale, di cuore, di un essere umano in ricerca.
Nella prima parte del testo l’autore si spinge in regioni dove la religione cattolica si intreccia con la tradizione ermetica. Incontriamo Ermete Trismegisto e la grande stagione Rinascimentale poi affogata nel rigore censorio della Controriforma. Incontriamo diverse manifestazioni delle Sibille, qui visibili nella riproduzione di xilografie di Filippo Barberi (1481) - una versione inedita. Percorsi incrociati tra Kabbalah, carmelitani e profeti islamici.
Sembra di navigare su un fiume sotterraneo che congiunge Oriente e Occidente. Così arriviamo alle note su Parmenide, Freud, Kant, Rousseau - tra gli altri. L’autore offre spunti e visioni prendendoli da un bagaglio di conoscenze che spazia dalla storia della religione alla filosofia alla psicoanalisi. Si alternano luce solare e lunare. Tra le tante le citazioni, il ritmo conciso e il gesto schietto, senza pose accademiche, rendono la lettura scorrevole. Nella pennellata di Fulvio Papi nell’introduzione, sulla spinta della lettura di questo “testo in piena”:
La Sala, con una mossa certamente ad effetto e piena di provocazione, dice: “guardiamo il nostro ombelico”, riconosciamoci come figli di una maternità e di una paternità che siano la terra del nostro fiorire e non i luoghi delle nostre scissioni.
Della Terra, il brillante colore. Parmenide, una “Cappella Sistina” carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barbieri (1481) e la domanda antropologica
di Federico La Sala,
Edizioni Nuove Scritture, Milano, 2013
156 p., 15€
* E.C.
ESTETICA (E NON SOLO) E DEMOCRAZIA. PER LA CRITICA DELLA FACOLTA’ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITA’ DELL’ "UOMO SUPREMO" (KANT).
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Da Emilio Garroni, una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Cervelli diversi tra uomo e donna: la foto conferma
di Caterina Soffici (il Fatto, 04.12.2013)
L’annosa questione è stata infine risolta. Un gruppo di ricercatori ha svelato il mistero dei misteri: la differenza tra uomini e donne. Ci hanno versato sopra fiumi di inchiostro, sul perché le donne non sanno leggere le cartine geografiche e gli uomini non chiedono mai le indicazioni stradale. Lo psicologo John Gray ha fatto fortuna scrivendo Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, best-seller da 6 milioni di copie.
Ora l’arcano è svelato da un gruppo di ricercatori dell’Università della Pennsylvania che ha trovato la spiegazione scientifica del perché uomini e donne pensano e agiscono diversamente.
L’The Independent ci apre addirittura l’edizione di ieri. Ora sappiamo con certezza che a influenzare il comportamento e le scelte diverse di uomini e donne sono le connessioni dei neuroni nel cervello. Nell’uomo sotto attive quelle della parte frontale e posteriore nello stesso emisfero che regolano le percezioni e le azioni coordinate. Nella donna invece, sono più attivi i legami tra i due emisferi, perciò hanno più sviluppato il pensiero logico (emisfero destro) e l’intuizione (sinistro).
La ricerca ha coinvolto 949 volontari tra gli 8 e i 22 anni, 521 donne e 428 uomini e ha confermato che le differenze iniziano a emergere con l’adolescenza, tra i 14 e i 17 anni e aumentano sempre più dopo i 18. Storia di ormoni. Quando entrano in circolo anche il cervello inizia a lavorare in modo diverso.
I volontari si sono sottoposti a un esame con uno scanner che ha messo in evidenza il percorso delle connessioni: le immagini non lasciano dubbi. Secoli di luoghi comuni confermati da una semplice foto del cervello in azione. Se le donne si ricordano maggiormente un volto, hanno più facilità relazionale, chiacchierano di più e hanno il 6° senso, il motivo è scientifico. Con buona pace di una parte del pensiero femminista che ha sempre sostenuto l’uguaglianza biologica, non è solo un fatto di condizionamenti sociali. È il cervello che funziona diversamente.
Cervello. Quel ping pong tra i neuroni che rende diversi uomini e donne
Dotati di una maggiore percezione degli spazi e capacità sportive i primi, intuitive e multitasking le seconde
Usa fotografa per la prima volta le strade seguite dagli impulsi cerebrali di maschi e femmine
di Elena Dusi (la Repubblica, 04.12.2013)
Nel ping pong dei pensieri che ci corrono in testa, uomini e donne giocano su due tavoli diversi. I maschi ragionano in lungo, le donne in largo. Nei primi le idee rimbalzano avanti e indietro, nelle seconde a destra e sinistra. Per gli esperti di architettura cerebrale, questa asimmetria si traduce in una differenza fra i due sessi, ma anche in una complementarietà, con i pregi dell’uno che compensano i difetti dell’altro. Alla maggiore capacità maschile di percepire lo spazio e coordinare al suo interno i movimenti del corpo fa da contraltare l’innata dote femminile di intuire, collegare e svolgere più compiti insieme. Lo stereotipo dell’uomo specializzato nel parcheggiare l’auto o leggere una cartina e della donna abile nel multitasking viene oggi confermato da uno studio che osserva come sono strutturati i fasci di fibre nervose nell’intero cervello di maschi e femmine.
Gli impulsi cerebrali - spiega la ricerca su Pnas- seguono due autostrade diverse nei due sessi. Fra i maschi sono molto potenti i collegamenti fra parte anteriore e posteriore del cervello. Fra le donne invece è la comunicazione fra i due emisferi a essere privilegiata. Tradotto in termini di attitudini, i maschi hanno un collegamento diretto fra le percezioni (collocate nella zona frontale) e i movimenti che coinvolgono i muscoli (gestiti dalla parte anteriore della corteccia cerebrale) e sfruttano una rapidità maggiore nel processare le informazioni. Gli impulsi elettrici nel cervello maschile viaggiano soprattutto da una parte all’altra dello stesso emisfero, esattamente il contrario delle donne, specializzate nel “saltare i ponti” fra parte destra e sinistra del cervello. Questo vuol dire, aggiunge la ricerca di un team dell’università della Pennsylvania, capacità di unire le doti di analisi (emisfero sinistro) al ben noto, secondo alcuni addirittura diabolico, intuito femminile. O di ricordare volti e nomi di persone incontrate in situazioni inusuali: compito per cui serve integrare dati immagazzinati in zone diverse del cervello.
Le differenze fra ragazzi e ragazze, come gli altri tratti sessuali, emergono intorno ai 14 anni e si approfondiscono durante l’adolescenza. Queste informazioni già note all’aneddotica sono state per la prima volta tradotte in spettacolari immagini grazie al metodo della “connettomica”.
Una tecnica speciale di risonanza magnetica permette di visualizzare l’intero cervello e il percorso seguito dagli impulsi elettrici. Queste traiettorie dei pensieri sono tutt’altro che casuali: seguono autostrade ben precise, legate alle attitudini di ciascuno di noi e nitidamente visibili nelle immagini ottenute con la risonanza magnetica. «Oltre alle differenze, ciò che colpisce è la complementarietà fra doti femminili e maschili» commenta la coordinatrice dello studio Ragini Verma, che insegna radiologia all’università della Pennsylvania e ha guidato la navigazione all’interno del cervello di 949 giovani fra gli 8 e i 22 anni. «Possiamo finalmente dire di aver osservato le basi neurologiche delle diverse attitudini di uomini e donne». Per Ruben Gur, psichiatra dello stesso ateneo, «le differenze contribuiscono alla sopravvivenza della specie. La specializzazione contribuisce infatti all’adattabilità e aumenta il ventaglio dei comportamenti».
Federica Agosta, ricercatrice della Neuroimaging research unit del San Raffaele
“Ma per avere alcune qualità ci si può sempre allenare”
intervista di E. D. (la Repubblica, 04.12.2013)
Diversi fin nell’architettura. «Le differenze che notiamo nei comportamenti e nelle attitudini nascono proprio da una diversa organizzazione dei fasci nervosi all’interno del cervello» spiega Federica Agosta, ricercatrice della Neuroimaging researchunit del San Raffaele a Milano.
Anche il vostro gruppo ha studiato le differenze fra uomini e donne. Vi sorprendono i risultati di oggi?
«No, lo avevano già dimostrato vari test comportamentali: i maschi sono più bravi nei compiti procedurali e motori, nei processi visivi e spaziali, mentre il punto forte delle donne sono multitasking, attenzione e memoria».
Questa architettura del cervello è fissa o può essere alterata dedicandosi a determinate attività?
«Il cervello resta un organo plastico, specialmente in età giovane. Dedicarsi con assiduità a determinate attività, sia motorie che intellettive, può far aumentare il volume dell’area cerebrale dedicata e far crescere il numero dei neuroni».
Lo studio del connettoma che vediamo nella ricerca di oggi ci dà più informazioni rispetto ai metodi usati nel passato?
«Gli studi tradizionali osservavano singole aree del cervello. Lo studio del connettoma ci permette di guardare l’organo nel suo complesso, e di mettere in evidenza il percorso degli impulsi nervosi».
In società complesse come quelle attuali le qualità femminili appaiono forse leggermente più utili?
«In effetti. Gli uomini ci battono in procedura, ma nelle attività della vita quotidiana le donne hanno spesso maggiore controllo». (e.d.)
Il duce semidio e l’amnesia italiana
La storica assenza nel paese di anticorpi verso gli avventurieri
di Franco Cordero (la Repubblica, 28.11.2013)
Giovedì 10 aprile 1930, nella Casa del Fascio sulla milanese piazza Belgioioso, l’arcivescovo cardinale Ildefonso Schuster benedice l’ivi fondata Scuola di mistica fascista. L’insegna antirazionalistica è esplicita nell’aggettivo: i discenti s’immergono nel «pensiero del Duce»; al quale debbono una «fede intransigente», ribadita nel triplice imperativo «credere, ubbidire, combattere». Ormai ha uno status metaumano l’ex socialista anarcoide: dirigeva l’Avanti; improvvisamente bellicoso contro i reazionari Imperi centrali, s’era guadagnata l’espulsione dal partito antimilitarista.
Post vittoria mutilata (così la deplora D’Annunzio) scompare al primo vaglio elettorale: nemmeno un seggio, ma riapparso come mano armata delle classi padronali nel velleitario biennio rosso, non ancora quarantenne, dal 31 ottobre 1922 guida un lunghissimo governo (20 anni,8 mesi, 25 giorni) nella girandola dei ministri, finché i carabinieri l’arrestano a Villa Savoia, domenica 25 luglio.
Sapeva gestire l’anima collettiva e se avesse l’astuzia cautelosa dell’allievo dittatore spagnolo, Francisco Franco y Bahamonde, invecchierebbe tra Villa Torlonia e Sala del Mappamondo, magari entrando in guerra dalla parte vincente contro lo psicotico caporale austriaco. Ha tre doti utili nell’Italia ancora controriformista: parla e scrive in battute imperiose; fiuta gli umori della folla; intende la politica come teatro.
Tra i difetti è un macigno l’Io ipertrofico i cui rumori gli confondono la mente, sicché stravede, sordo ai fatti: crede d’avere forgiato una razza guerriera, munendola d’armi formidabili; l’applaudono generali, ammiragli, industriali. L’assurda avventura abissina incantava gl’italiani, inclusi eminenti antifascisti quali Benedetto Croce o Vittorio Emanuele Orlando.
Secondo lui, Francia e democrazie anglosassoni sono biologicamente condannate, quindi salta sul carro hitleriano, 10 giugno 1940 (illo tempore malediceva gli Unni): con mille o duemila morti vuol farsi un secondo impero mediterraneo; ha gran paura che Berlino e Londra transigano. Non gli dicono niente l’offensiva aerea fallita nel cielo inglese e il mancato «Leone marino». Churchill manda in Egitto parte dei pochi carri armati disponibili, avendo individuato nell’Italia il «ventre molle dell’Asse».
Metafora perfetta. Era una partita intellettuale: l’empirista britanno combina cervello freddo e fantasia strategica; l’oratore romagnolo declama ruotando gli occhi, mani sui fianchi, mascella in fuori. Siccome Hitler s’è preso il petrolio rumeno, lui vuol restituirgli il colpo invadendo la Grecia nell’anniversario della Marcia su Roma, 28 ottobre: atto allucinatorio, sul presupposto che l’assalita non resista; invece combatte; manca poco che perdiamo l’Albania, appendice sabauda, mentre gl’inglesi in Libia sbaragliano un piagnucoloso Rodolfo Graziani, già eroe sanguinario contro gl’inermi.
A parte qualche illusione presto spenta in Egitto e sul Don, il séguito porta sventure. Finché nella notte da sabato a domenica 25 luglio 1943 il Gran Consiglio restituisce i poteri a Sua Maestà: l’odg era «tradimento dell’idea»; conia questo singolare nomen delictiun Tribunale costituito ad hoccomminando condanne a morte; uno dei fucilati nella schiena è Galeazzo Ciano, vanesio ex ministro degli Esteri, genero-delfino, odiato dagli squadristi (non gli perdonano la carriera fulminea).
I cinque traditori muoiono nel poligono veronese l’11 gennaio 1944. Torniamo indietro d’un mese, e chiedo scusa se i verbi saltano alla prima persona. Siamo ricaduti in mano fascista. Domenica 12 settembre reparti della divisione SS Leibstandarte occupavano Cuneo: sette giorni dopo, Joachim Peiper massacra e incendia Boves; dispersi della IV Armata resistono. Sotto mano nazista nasce una Repubblica cosiddetta sociale.
Le scuole riaprono tardi, lunedì 15 novembre, mentre i revenants neri tengono congresso a Verona. Siamo in quinta ginnasio. L’indomani nevica. Lunedì 6 dicembre nel sobborgo sulla riva destra del Gesso qualcuno visita Edoardo Cumar, fattorino del Fascio, nonché pugile, ora adibito alle sevizie: vengono a prenderlo partigiani scesi dalla Bisalta, ma il nome non circola ancora; li chiamano ribelli o patrioti.
L’indomani sera, vigilia dell’Immacolata, tripodi accesi e guardia armata segnalano una camera ardente aperta al pubblico; vi metto piede, mosso da incauta curiosità. L’estinto giace in alta uniforme. Ai vecchi tempi passava pedalando, chino sul manubrio, e qualcuno gridava «ciao Cumar». Dev’essere forestiero un tale ben vestito in borghese, che racconta a due signore d’analoga figura come l’abbiano rinvenuto. La conclusione suona commiserante: «finiremo tutti così, l’hanno ucciso perché stava con noi»; le madame ascoltano compunte.
Ipocriti, penso: sanno benissimo perché sia morto; la fede fascista non c’entra; i padroni gli affidavano lavori sporchi e li riteneva importanti, orgoglioso della promozione; abitava fuori città sentendosi sicuro. L’epopea repubblichina dura 19 mesi, squallida: gli esteti guerrieri della bella morte spariscono; a Cuneo, domenica 29 aprile non ne resta uno. Viene comodo pensare che i vent’anni fossero un incubo svanito al mattino, e così, senza dolorose autoanalisi, chiude i conti Benedetto Croce.
NARCISIMO, PULSIONE DI MORTE, E LAVORO STORIOGRAFICO. Una notazione molto illuminante dal lavoro di H. A Rosenfeld ("Il narcisismo distruttivo e la pulsione di morte", in : "Comunicazione e interpretazione", Bollati-Boringhieri, Torino 1989) di Cristopher Bollas: *
"Herbert Rosenfeld è stato uno dei più eminenti teorici clinici d’Inghilterra. Nei suoi studi sui disturbi di personalità narcisistica egli si è imbattuto in una metafora che, molto tempo dopo la sua morte, ha influenzato generazioni di clinici in tutto il mondo.
Rosenfeld ha paragonato la mente del narcisista a una gang mafiosa, governata da un potente leader - un Don mafioso - che è il distillato di tutte le parti distruttive di una personalità. Manipolatorio, cinico, privo di sensi di colpa, feroce, costringe al silenzio tutte le parti buone della personalità con mere intimidazioni. Liquida le azioni distruttive attraverso un’imposizione di lealtà e fedeltà di gruppo alla parte dominante dfella personalità e crea un senso interiore di coesione basato sull’odio. Il lavoro di Rosenfeld è il culmine della visione crerativa offerta dalla "psicoanalisi delle relazioni oggettuali". Esso mostra come nel nostro mondo interno noi esistiamo come un insieme di sé diversi legati a oggetti (rappresentazioni mentali di altri e aspetti della realtà esterna) all’interno della mente. Se siamo equilibrati, allora le rappresentazioni distruttive verranno bilanciate da parte amorevoli, premurose, costruttive ed etiche della personalità.
Con gli analizzandi talvolta parlo della mente come di un "organo rappresentativo". Se lavoro con americani utilizzo il Congresso come metafora, con europei e altri utilizzo il Parlamento. L’idea è abbastanza semplice: la nostra mente può essere pensata come un’oggettivazione di molti diversi stati del sé, sentimenti e condizioni. Se siamo dei democratici psichici allora tutte le idee, comprese quelle distruttive, saranno rappresentate e verrà loro permesso di passare nella mente, sia che ci ripugnino e alienino, sia che ci ispirino o ci conferiscano potere [...]
E’ possibile che la visione di Rosenfeld della mente come come gruppo ci possa aiutare con il problema dell’integrazione tra l’individuo e la massa. Bion e altri teorici kleiniani sicuramente hanno lavorato sul presupposto che la psicologia individuale e quella di gruppo condividono gli stessi assiomi mentali. Ma è stato Rosenfeld che ha messo insieme questa visione in un oggetto trasformativo. Cioè, una volta che le parti e i pezzi della psicologia individuale e di gruppo che si trovano nel pensiero kleiniano sono stati integrati nella metafora di Rosenfeld, una nuova forma di psicoanalisi è divenuta possibile [...]
Sto suggerendo di ripensare il lavoro della storia (le narrazioni costruite del nostro passato), considerandola meno come un compito di ricapitolazione e più come uno sforzo di selezione.
Attraverso la selezione di storie del passato, il lavoro dello storico nella sua riflessione è inevitabilmente futuristico. Questa naturalmente è una verità lapalissiana. Detti come "la storia giudicherà" o "coloro che non possono ricordare il passato sono condannati a ripeterlo" (Santayana) si riferisconoalla storia come a una funzione del futuro. Il lavoro inconscio di trasferire i risultati da una generazione a quella successiva, con il suo sforzo di comprendere ed espandere la mente umana, mira a costruire una mente di gruppo che può pensare i pensieri richiesti dal futuro. In effetti la ricerca per comprendere la mente e lo sviluppo embricato della mente nel processo sono inseparabili. Pensare alla nostra mente significa sviluppare la vita psichica.
Ogni generazione lavora a un ritmo diverso e contribuirà in maggiore o minore misura allo sviluppo di una mente transgenerazionale. Questa è una progressione discontinua, controllata inevitabilmente dal narcisismo della giovinezza, dall’ansia depressiva dell’invecchiamento, e dalla regressione a stati mentali primitivi causati dall’odio collettivo che possono portare alla guerra o al genocidio e, interiormente, a una perdita di capacità mentale.
Quando una generazione "passa il testimone" a quella successiva, sostenendo che adesso "il futuro è a loro", questo processo è simile a un abbandono generazionale del compito collettivo. Una trasmissione generazionale ben riuscita consisterebbe nel trasmettere un’idea o un processo sociale di successo che potrebbero venire inclusi nella mente futura [...]
Stiamo quindi parlando di una "mentalità del mondo", una mente che può consentire al mondo di pensare se stesso? (p. 167)
* Cristopher Bollas, La mente orientale. Psicoanalisi e Cina, Raffaello Cortina Editore, Milano 2013, pp. 161-167, senza le note.
Psicologia della separazione
Se l’identità è un’ossessione
La salute mentale di un individuo, e lo stesso vale per i gruppi e le istituzioni
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 21.11.2013)
La salute mentale di un individuo, e lo stesso vale per i gruppi e le istituzioni, non consiste nel sopprimere le diverse istanze che contiene in sé ma nel saper dare a ciascuna un ruolo equilibrato
La grande sovversione psicoanalitica del soggetto consiste nel mostrare che l’Io, come affermava Freud, non è padrone in casa propria ma è una unità strutturalmente scissa. Il soggetto non coincide - come voleva tutta una tradizione che discendeva da Cartesio - con il cogito, ma è abitato da più istanze. Esso appare come un parlamento nel quale vi sono partiti rappresentanti di diversi interessi: morali, pulsionali, cognitivi, critici, erotici, vitali, aggressivi.
La salute mentale non consiste nella presenza della monarchia assoluta dell’Ego ma nel comporre una sintesi efficace delle istanze promosse nel proprio parlamento interno. In questo senso per Freud la psicoanalisi era un’autentica esperienza di democrazia. La scissione tra i diversi partiti che compongono il parlamento interno deve essere ricomposta dal soggetto in un equilibrio che non è mai assicurato una volta per tutte. Anzi, si potrebbe aggiungere, che la malattia mentale è legata all’impossibilità di trovare un punto di accordo tra le diverse istanze che compongono la personalità psichica perché una di queste si vuole imporre sulle altre costringendole a rimuovere la loro voce.
Ne deriva che la salute mentale di un individuo - ma si potrebbe benissimo allargare il concetto al funzionamento dei gruppi e delle istituzioni - non consiste nel sopprimere le diverse istanze di cui è costituito il soggetto ma nel saperle articolare tra loro in modo sufficientemente flessibile.
Quando invece questa flessibilità - “plasticità” per Freud - viene meno si produce malattia, irrigidimento paranoico, intossicazione, patologia identitaria. Al posto di una vita psichica positivamente democratica si produce un rigetto violento delle “istanze di minoranza” che vengono espulse, bandite, allontanate dal soggetto. Si tratta di una espulsione violenta che anziché nutrire il dibattito interno del soggetto (di un gruppo o di una istituzione), finisce per generare una sorta di identità separata, alienata nella quale si cristallizzano, in una modalità scissionista, quelle parti interne del soggetto che questi non è più disposto ad ascoltare e a riconoscere come parti proprie.
La paranoia costituisce da questo punto di vista il regime più puro della scissione. In essa l’annullamento della scissione interna genera la scissione come espulsione, separazione di parti psichiche da sé e una loro proiezione verso l’esterno. Per questo la clinica psicoanalitica ci insegna che il nemico ha assai frequentemente il volto del simile e che l’odio più feroce e rabbioso di divora i fratelli, poiché l’oggetto massimamente detestato e rifiutato esprime la parte di noi stessi alla quale abbiamo tolto il diritto di parola.
Nella vita dei gruppi tutto questo è massimamente evidente: quante volte la lotta contro un nemico esterno offre la ragione della propria stessa identità e garantisce il compattamento dei legami interni? È quello che accade in ogni forma di razzismo, compreso quello omofobico. La nostra identità deve essere preservata dalla contaminazione con l’altro. Ma questo altro in realtà non abita in un continente straniero ma in noi stessi.
Ne consegue una legge generale: più si è flessibili verso se stessi e più tolleranti si è verso l’altro e più la democrazia interna ed esterna si arricchisce di contributi. Più, al contrario, si espellono i traditori, gli indegni, i reietti, gli impuri, gli oppositori interni, più, insomma, si rifiutano le voci che animano il dibattito interno e più, inevitabilmente, si utilizzerà la scissione come manovra difensiva incoraggiando meccanismi fatali di irrigidimento paranoico dell’identità.
L’ambiguità del desiderio
di Giannino Piana (“Rocca”, n. 22, 15 novembre 2013)
Il termine «desiderio» ha una polivalenza di significati, dovuti non solo alla molteplicità degli ambiti disciplinari nei quali è implicato, che vanno dalle scienze biopsicologiche alla speculazione filosofica fino all’antropologia teologica, ma anche (e soprattutto) alla diversa definizione che di esso si è data (e tuttora si dà) nel contesto della cultura occidentale.
L’area alla quale l’idea di «desiderio» risulta, in ogni caso, più affine è quella psicologica. Contrariamente al «bisogno», che affonda le sue radici nel mondo degli istinti biofisici, o all’«aspirazione», che si riferisce ad istanze che fanno capo alla dimensione razionale e spirituale dell’esperienza umana, il «desiderio» si situa in una posizione intermedia, ed è anche per questa ragione meno facilmente circoscrivibile in quanto soggetto alla pressione degli altri due poli.
L’etica si è da sempre misurata con la categoria del «desiderio», assumendo tuttavia posizioni non univoche, talora persino antitetiche. Vi è chi ha fatto di esso il fondamento stesso dell’agire morale, lo stimolo all’azione ma anche l’obiettivo verso cui l’azione tende; e chi, invece, mettendone soprattutto in evidenza la strutturale ambiguità, lo ha considerato (e lo considera) un pericolo per il dispiegarsi della vita morale, un attentato alla sua libera espressione. A determinare queste oscillazioni è, da un lato, il significato che al desiderio si assegna e, dall’altro, la concezione che si ha dell’eticità e del suo rapporto con il mondo interiore dell’uomo in cui interagiscono istanze diverse che vanno tra loro integrate.
dall’esaltazione alla negazione
Le origini della riflessione etica sul desiderio risalgono ai primordi del pensiero occidentale, in particolare alla filosofia greca. Il primo ad assumerlo come criterio fondamentale di valutazione della condotta umana è stato Epicuro. La considerazione dell’uomo come soggetto guidato nel proprio agire da una serie di impulsi, che affondano le loro radici nel mondo biopsichico, fa del desiderio non solo il principio da cui l’azione scaturisce ma anche il fine che essa è chiamata a perseguire. L’uomo è dunque integralmente soggetto nella propria condotta alla logica del desiderio, che è all’inizio e al termine della vita morale, in quanto presupposto da cui prende avvio e insieme obiettivo a cui tende.
Epicuro non esita tuttavia a riconoscere l’esistenza nel mondo del desiderio di una gamma variegata di oggetti, che hanno una diversa valenza e che esercitano un grado diverso di attrazione. Egli distingue infatti i desideri naturali e necessari da quelli naturali non necessari e, infine, da quelli vani - tra i quali annovera la ricchezza, il potere e il successo - che vanno rifiutati perché alienanti.
Vi è dunque in Epicuro la consapevolezza che si dà una considerevole differenza tra desiderio e desiderio, che non ogni desiderio è buono e va soddisfatto, ma che è necessario un serio discernimento; in altre parole, che l’etica non si risolve in un assenso indiscriminato al desiderio qualunque esso sia, ma che essa è chiamata a giudicare gli oggetti del desiderio, differenziandoli secondo il criterio del bene e del male avendo come referente la ricerca della promozione umana.
Ad opporsi radicalmente a questa impostazione è stato soprattutto, agli inizi della modernità, Immanuel Kant, sostenitore di una morale rigidamente deontologica, per la quale tutto ciò che ha a che fare con le dinamiche sotterranee dell’esperienza umana - istinti, passioni, desideri - si oppone all’etica, che affonda invece le sue radici nella ragione dell’uomo.
La rivoluzione da lui inaugurata con l’assegnazione del primato alla soggettività è condizionata dalla persistenza di una visione dualista della realtà, che, separando la coscienza dal mondo della vita, finisce per fare appello a una forma di razionalità del tutto disancorata dalle radici biopsichiche dell’umano. L’imperativo categorico, il devi perché devi, è la naturale conseguenza di questa visione: l’etica dell’obbligazione (o del dovere) considera (e non può che considerare) il desiderio come una energia negativa che si oppone al corretto svolgimento della vita morale e che va pertanto controllata o repressa.
Gli sviluppi successivi della riflessione morale hanno sempre oscillato tra queste due opposte concezioni: tra un’etica che si appoggia al desiderio, o assumendolo come principio assoluto - si pensi in particolare a Nietzsche - o facendo con esso, sia pure criticamente, i conti, mediante l’esercizio del discernimento circa l’oggetto perseguito, e un’etica, che tende invece a rifiutare a priori qualsiasi riferimento al desiderio considerandolo un fattore pericoloso o deviante.
Questa dialettica non si è peraltro manifestata soltanto in ambito teorico; ha coinvolto anche le opzioni di movimenti e di gruppi presenti nella società: è sufficiente richiamare qui l’attenzione sulle posizioni assunte in passato dal mondo cattolico e da quello comunista - la figura del militante era caratterizzata, in ambedue i casi, dall’adozione di un’etica del dovere, dell’impegno e del sacrificio - e, in tempi più recenti, sulle istanze della cultura radicale, nel cui ambito alla rivendicazione del diritto soggettivo si associa il ricorso al principio del piacere (vale ciò che vale per me, vale per me ciò che mi piace), con l’assunzione del desiderio come paradigma indiscusso di valutazione del comportamento.
desiderio e obbligazione
Un contributo determinante al superamento di tale conflitto è fornito dalla fenomenologia. Partendo da una accurata riflessione sulla coscienza assiologica (la coscienza in quanto luogo di esperienza dei valori morali), l’analisi fenomenologica evidenzia con chiarezza come il valore morale emerga all’interno di essa quale espressione di un processo che coinvolge direttamente il soggetto e insieme lo supera. Il valore è anzitutto percepito come bene, in quanto soddisfa il bisogno di autorealizzazione della persona, e risulta dunque in questo senso desiderabile; ma è percepito anche come dovere , come qualcosa che dall’esterno si impone al soggetto, il quale lo avverte allora come obbligante.
In questa ottica l’eticità acquisisce i connotati di realtà insieme immanente e trascendente, o presenta i tratti di una istanza nella quale confluiscono soggettività ed oggettività: il valore morale è ciò che indica al soggetto la via da percorrere per rendere l’agire conforme alle esigenze inscritte nella propria natura, ma è, nel contempo, anche un dato al quale occorre adeguarsi, al punto che il suo rifiuto non suscita semplicemente - come avviene per altri valori (quelli estetici o noetici ad esempio) - la sensazione di avere mancato un’opportunità per il proprio arricchimento interiore, ma provoca l’insorgenza di sensi di colpa.
Lungi dal dover essere demonizzato, il desiderio è perciò un fattore fondamentale dello strutturarsi del fatto morale: da esso viene la spinta originaria alla ricerca del bene. L’eticità è anzitutto radicata nel mondo del soggetto, in cui si intrecciano (e interagiscono tra loro) diverse istanze che fanno capo alla complessa stratificazione dell’umano - dall’istinto all’inconscio fino alla ragione e alla volontà - e che vanno convogliate in unità nel rispetto dell’ordine gerarchico che sussiste tra loro.
Il desiderio, che costituisce l’ambito in cui confluisce l’insieme delle istanze ricordate, conserva aspetti di ambiguità, che esigono di essere registrati con cura. Gli interessi che ad esso fanno capo sono molteplici; di qui la necessità di un serio discernimento, ma soprattutto la capacità di integrare le energie rispondenti ai diversi livelli della struttura della persona ordinandole e facendole convergere verso la promozione umana globale.
Compito dell’etica è dunque quello di valutare i contenuti ai quali il desiderio fa appello, rilevando di volta in volta ciò che può essere perseguito e ciò che va respinto; e di fornire al desiderio un preciso orientamento nella direzione del vero bene umano.
nel cuore delle relazioni
Il desiderio acquisisce pertanto un valore indiscusso nella dinamica che conduce l’uomo verso la realizzazione di sé. La distinzione che oggi si fa, nell’ambito della riflessione antropologica, tra «bisogno» e «desiderio» conferma questa affermazione.
Se il «bisogno» è infatti qualcosa di ben definito e circoscritto, che trova la sua codificazione nel mondo dei diritti e risponde a un’istanza di giustizia, il «desiderio» non è invece mai del tutto circoscrivibile, poiché non ha come fine un semplice oggetto, ma lo stesso soggetto umano, l’altro, con il quale entrare in relazione. Esso rinvia dunque all’area della gratuità e sollecita l’adesione alla logica dell’amore. Per questa ragione il desiderio diviene «cifra» dell’inquietudine del cuore umano; un’inquietudine che non può mai essere del tutto colmata e che fa dell’esperienza dell’uomo nel mondo una inesausta ricerca di assoluto.
L’etica trova qui la radice da cui viene e il fine cui è destinata. La misura della giustizia, che ha nel rispetto dei diritti il paradigma, per quanto essenziale, è tuttavia insufficiente a giustificare da sola il senso della vita buona. Si richiede qualcosa di più grande, uno slancio vitale che non si limiti a un reciproco scambio di prestazioni, ma crei le condizioni per un incontro autenticamente umano. Un incontro che esige l’oltrepassamento del bisogno e del diritto per aprirsi a una forma di comunione che ha nell’economia del dono il paradigma cui ispirarsi.
Freud sperava in Mussolini contro Hitler
di Dino Messina (Corriere La Lettura 13.10.2013)
Alla fine di aprile 1933 Sigmund Freud ricevette nel suo studio viennese una visita dall’Italia. Era il suo allievo Edoardo Weiss, con il drammaturgo Giovacchino Forzano, noto per aver scritto con Benito Mussolini il dramma Campo di maggio, sui cento giorni di Napoleone, e la figlia dello scrittore, Concetta, per cui era stato chiesto un consulto. Un appuntamento di ordinaria amministrazione, se non fosse che tra Forzano e Freud avvenne uno scambio di libri. L’italiano regalò al grande medico una copia di Campo di maggio con la dedica «a Sigmund Freud che renderà migliore il mondo, con ammirazione e riconoscenza Benito Mussolini und G. Forzano».
Non si sa se il Duce sapesse di questa iniziativa del suo coautore, ma è certo che Freud ringraziò e inviò al capo del fascismo l’opuscolo che aveva scritto a quattro mani con Albert Einstein, Perché la guerra? Suona strana la scelta di donare un volume pacifista a un assertore della «violenza purificatrice», ma sembra stonata anche la dedica di Freud: «A Benito Mussolini coi rispettosi saluti di un vecchio che nel detentore del potere riconosce l’eroe della civiltà».
Attorno a questo episodio Roberto Zapperi ha costruito l’interessante saggio Freud e Mussolini. La psicoanalisi in Italia durante il regime fascista (Franco Angeli, pp. 140, € 18), che è la migliore risposta alle accuse contro Freud mosse da Michel Onfray nel suo Crepuscolo di un idolo (Ponte alle Grazie).
Freud, a differenza di quel che scrive il filosofo francese, non ebbe mai simpatie verso il fascismo. Allora perché una dedica così altisonante verso il capo di un regime che lo considerava alla stregua di un sovversivo, tanto che dal 1930 pendeva una sorta di mandato di cattura contro di lui? Freud aveva visitato molte volte Roma e amava l’archeologia. Ma il vero motivo dell’elogio sta nelle speranze che il grande viennese riponeva nella politica di Mussolini verso l’Austria. Considerava l’Italia fascista un baluardo contro l’annessione da parte della Germania, che poi avvenne nel 1938. Quel che temeva più di ogni altra cosa Freud era l’antisemitismo dei nazisti. E negli anni precedenti all’esilio prendeva in considerazione con realismo ogni pur debole alternativa.
E Dante immaginò il potere globale
Immaginava un impero universale come garanzia di pace
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 07.10.2013)
La Monarchia, che non è solo la più compiuta delle opere dottrinali di Dante, ma anche la più moderna, fu messa dalla Chiesa all’Indice dei libri proibiti, nel primo «indice» elaborato dal Sant’Uffizio nel 1559. La ragione di ciò è molto semplice: ad una lettura disincantata appare evidente che il grande poeta cristiano del Medioevo, che aveva messo la teologia in poesia allo stesso modo in cui Lucrezio aveva messo in poesia la fisica epicurea, si schierava - col suo trattato politico - contro l’ingerenza della Chiesa nei confronti del potere laico e proclamava la totale uguaglianza e parità delle due autorità.
Pur consapevoli del rischio di frettolosi cortocircuiti, possiamo ben collocare quel trattato al vertice di una nobile, ma non folta tradizione rappresentata emblematicamente dalla formula cavouriana «libera Chiesa in libero Stato». Quel celebre e davvero memorabile discorso parlamentare di Cavour, malvisto dal sanfedismo del tempo suo, era in realtà sommamente rispettoso della dignità e della libertà della Chiesa. È storia nota come la Chiesa abbia impiegato moltissimo tempo a comprendere questo e a prenderne atto e ad agire di conseguenza: agevolata in ciò dalla definitiva perdita del potere temporale, ma rallentata in tale processo dal diverso e spesso altalenante orientamento dei pontefici volta a volta regnanti. I quali - in quanto sovrani assoluti e depositari perciò di poteri vastissimi - possono imprimere rapide e radicali inversioni di rotta. Come vediamo ancora oggi.
Resta il fatto che il cuore di Dante batte per l’impero (si passi l’espressione metaforica).
Nel primo libro di questo trattato sulla monarchia, Dante dimostra che la monarchia universale è necessaria al benessere terreno in quanto permette, tramite la pace universale che ne è il portato, il fine supremo: l’attuazione e il pieno dispiegamento dell’intelletto in ambito speculativo e in ambito pratico.
Nel secondo libro rivendica, come già nel Convivio, al popolo romano il diritto all’impero.
Nel terzo affronta il tema più delicato: la monarchia universale trae il suo diritto e la sua legittimità direttamente da Dio, non attraverso la mediazione papale, non ha cioè bisogno del «Vicario».
E la nota ancora più audace, che dà il tono e il senso all’intero trattato, consiste nel proclamare che il fine naturale dell’uomo - cioè la perfetta moralità sorretta dalla filosofia - è autonomo rispetto al fine soprannaturale che a sua volta consiste nella felicità eterna, verso cui l’uomo è guidato dalla «rivelazione». Come l’impero è autonomo dalla Chiesa, così la ragione lo è rispetto alla fede.
Questo impianto teorico spiega bene perché a Giustiniano, cioè all’imperatore cesaropapista per eccellenza, venga riservato un posto di così grande spicco nel Paradiso di Dante e a lui tocchi di tessere l’esaltante elogio di Giulio Cesare. Elogio che stride con il privilegiato trattamento ammirativo riservato al nemico implacato di Cesare, cioè Catone Uticense, quale guardiano del Purgatorio.
Ma soprattutto non sfuggirà la forte carica utopica che è racchiusa in tutto il trattato: l’idea di una pace universale conseguente all’unico governo universale. Tale governo però viene concepito non già come sostitutivo dei molteplici poteri statali e comunali già esistenti, ma è sovraordinato ad essi. Non si tratta di «un governo di tutti i popoli fusi in un solo Stato, ma di una suprema giurisdizione, fatti salvi gli Stati particolari con proprie leggi e propri governi» (Luigi Russo). Non è chi non veda in tale concezione l’utopia anticipatrice di una istanza che sempre fu viva, e che al tempo nostro è antidoto indispensabile all’arroganza di singole potenze inclini ad attribuirsi unilateralmente il ruolo di gendarmi del mondo.
Liberali, laici e credenti
di Pawel Gaiewski
in “Riforma” - settimanale delle Chiese Evangeliche Battiste Metodiste e Valdesi - del 20 settembre 2013
Il carteggio Scalfari-Bergoglio è già entrato nella storia del pensiero contemporaneo e ho l’impressione che presto leggeremo un instant book contenente l’intera documentazione. Si tratta in ogni caso di un’operazione mediatica senza precedenti. È stato il fondatore del quotidiano La Repubblica con il suo editoriale del 7 luglio ad aprire il dibattito sull’enciclica Lumen Fidei . Dopo un mese esatto Eugenio Scalfari pubblicava nuovamente un testo particolarmente denso, ponendo «al papa gesuita» tre domande «da illuminista» circa la possibilità di salvezza di un non credente, l’assolutezza della verità e il concetto di Dio, inteso come proiezione della mente umana.
Le risposte del papa dovevano dunque arrivare e ovviamente i tempi sono stati calcolati perfettamente: la lettera è datata 4 settembre ed è stata pubblicata esattamente una settimana più tardi. Per dovere di cronaca è giusto segnalare che ad agosto c’è stato anche uno scambio epistolare tra il pastore Peter Ciaccio ed Eugenio Scalfari (si può leggere all’indirizzo Internet http://vociprotestanti . it/2013/08/11/la-risposta-di-eugenioscalfari- al-pastore-peter-ciaccio/).
La risposta di Francesco contiene elementi inediti per un papa ma ben elaborati da altre scuole del pensiero cristiano finora non molto apprezzate dal Vaticano: teologia femminista, teologia della liberazione, teologia del pluralismo religioso. Si tratta prima di tutto della problematizzazione dell’assolutezza della verità a favore della sua dimensione relazionale e del primato della coscienza individuale e di conseguenza della possibilità di salvarsi aperta a chi non crede o crede «diversamente». Entrambi gli argomenti nella teologia contemporanea sono oggetti di un dibattito che è ancora lontano da qualunque conclusione definitiva. La coscienza intesa nel senso della Critica della ragion pratica di Immanuel Kant è un tema caro anche a chi si professa agnostico o ateo.
Chi invece legge la lettera del papa attraverso la lente del pensiero protestante non può che apprezzare l’enfasi sull’amore salvifico e la chiara impostazione cristocentrica dell’intero ragionamento che rasentano i Sola Gratia e Solus Christus della Riforma.
La dimensione in cui bisogna collocare in ogni caso sia la lettera di Bergoglio a Scalfari sia l’enciclica Lumen fidei (redatta, di fatto, dalla coppia Ratzinger-Bergoglio) non è quella del confronto con il pensiero protestante. Il vero problema è l’illuminismo; l’enfasi sulla luce non è casuale.
Tra le pieghe di questo documento, precisamente nel paragrafo 14, il documento critica la celebre esclamazione contenuta nell’ Émile di Jean-Jacques Rousseau: «Quanti uomini tra Dio e me!». Ecco la frase con cui l’enciclica commenta il pensiero del filosofo illuminista: «A partire da una concezione individualista e limitata della conoscenza non si può capire il senso della mediazione».
Non mi sembra giusto attribuire a Rousseau «una concezione limitata della conoscenza» e ravviso in questo atteggiamento intellettuale una notevole distanza tra le posizioni protestanti e quelle di Ratzinger e Bergoglio. Qualunque forma di mediazione nel rapporto tra Dio e l’essere umano è stata respinta con forza dalla Riforma. Successivamente il motto ginevrino Post tenebras lux e il nostro valdese Lux lucet in tenebris sono stati elaborati in chiave illuminista, dando luogo a un cristianesimo dialogante e accogliente.
Grazie all’influsso del pensiero illuminista le nostre chiese si impegnano oggi per la totale neutralità confessionale dello Stato e delle sue istituzioni, invocando con convinzione gli stessi diritti e doveri per tutte le comunità di fede. In tutto questo siamo «orgogliosamente liberali», parafrasando il succo del discorso tenuto dal moderatore Eugenio Bernardini alla fine dell’ultimo Sinodo. Liberali e laici ma al tempo stesso credenti che annunciano con convinzione Gesù Cristo.
È una cosa che Scalfari e i cosiddetti laici italiani sembrano non comprendere. Scalfari nel suo articolo del 7 agosto (quello contestato dal pastore Peter Ciaccio) liquida il protestantesimo con la seguente definizione: «sette luterane che non hanno impedito la laicizzazione anzi ne hanno favorito l’espansione».
Nel suo commento alla lettera di Francesco, pubblicato il 12 settembre, pur citando l’inizio del Vangelo secondo Giovanni, il nestore del giornalismo italiano esprime una sorta di speranza quasi escatologica concentrata sulla persona di questo papa. Non metto in discussione che Francesco sia un ottimo pastore d’anime e un eccellente comunicatore. La sua empatia è profonda.
Mi preoccupa soltanto il Solus Franciscus che comincia a diffondersi dentro e fuori della Chiesa cattolica romana.
FILOSOFIA - Il saggio «La parola universitaria» di Pierre Macheray
La dialettica vivente del sapere
di Fabrizio Denunzio (il manifesto, 11 settembre 2013)
Il teorico francese analizza le conseguenze delle politiche neoliberiste negli atenei. Con altrettanto rigore propone un ripensamento nella trasmissione della conoscenza a partire dalle relazioni tra i diversi campi disciplinari
Cosa hanno in comune un film come Rope (Nodo alla gola, 1948) di Alfred Hitchcock e lo scandalo che coinvolse nel 1954 in America lo scienziato Robert Oppenheimer, direttore del Progetto Manhattan nonché padre della bomba A scagliata su Hiroshima e Nagasaki nel 1945? E soprattutto, questi due episodi, diversi per natura e funzione, come possono riguardare un’analisi sulle attuali condizioni del sistema universitario?
Ce lo spiega Pierre Macherey in La parola universitaria (traduzione e cura di Antonio Stefano Caridi, Orthotes, pp. 259, euro 17). Il libro, uscito in Francia nel 2011, fu segnalato da Roberto Ciccarelli sulle pagine de il manifesto il 29 ottobre dello stesso anno in un articolo pensato nella contingenza degli effetti, oggi più che mai disastrosi, prodotti dall’entrata in vigore della legge Gelmini alla fine del gennaio 2011.
Lo stesso testo di Macherey, d’altronde, è il frutto di una riflessione nata dalla sofferenza per lo stato di decadimento dell’università francese e per gli ancora più deleteri rimedi - di matrice neoliberista - usati per cercare di sanarla. Nell’introduzione al libro, L’Università in questioni, l’autore fa il punto della situazione rispetto al sistema universitario vigente in Francia caratterizzato dalla divisione tra Università e Grandi Scuole e constata che la visione ideale di una comunità di saperi democraticamente accessibile a tutti in realtà è contraddetta «nei fatti dal risorgere di una divisione diseguale, "aristocratica" che obbedisce ad una logica di verticalità, con differenti percorsi, gli uni consentiti alle "masse" cui sono offerte solo delle forme di competenze non sfruttabili direttamente, e gli altri riservati a delle "élites", accuratamente selezionate, che si vedono promettere delle funzioni dirigenti nella società».
Ora, Macherey conosce troppo bene la lezione di Pierre Bourdieu, per non sospettare che un modello di analisi ben definito, anche lì dove si riferisce ad un contesto locale come quello francese, presenta un grado di universalità tale da poter essere applicato anche in contesti differenti da quelli rispetto ai quali è stato formulato. La situazione universitaria italiana si presta, purtroppo, a questo esercizio epistemologico: realizzata fino in fondo, la riforma Gelmini configurerà sul piano nazionale una netta divisone tra atenei del Sud, i quali, poco meritevoli per non riuscire a collocare i propri studenti sul mercato del lavoro, quindi poco «premeabili» dal punto di vista dei finanziamenti pubblici e di conseguenza poveri, saranno ridotti a mega-licei di massa buoni, tutt’al più, a fornire una didattica non professionalizzante e gli atenei del Nord che, ricchi di fondi per la ricerca grazie alla loro ricettività nei confronti delle esigenze del libero mercato e della grande imprenditoria, diverranno la palestra di formazione per le nuove classi dirigenti della borghesia italiana. Seguendo lo schema di Macherey si ritrovano, nella divisione francese tra Università e Grandi Scuole, non solo la finalità geopolitica della riforma Gelmini, ma le condizioni per la riproposizione di una nuova «questione meridionale» giocata al livello della formazione culturale superiore.
Non tutto il libro di Macherey, però, ha questo andamento, solo nell’introduzione il rigore argomentativo si concentra sullo stato attuale dell’Università (attualità che in tutti i suoi nodi problematici, in particolare quello relativo all’«ideologia della valutazione», è analizzata da Caridi nella sua presentazione del testo). I tre capitoli che lo costituiscono seguono un percorso sempre coerente rispetto al problema dell’Università, ma vanno in una direzione differente. Se l’introduzione si fa carico di problematizzare il presente universitario, gli altri capitoli si assumono il compito di tracciarne il passato a partire da diversi campi del sapere: filosofia, psicanalisi, sociologia e letteratura.
In questo modo, al primo capitolo spetta di presentare la situazione dell’Università tedesca attraverso lo scritto di Kant Il conflitto delle Facoltà del 1798, i due discorsi inaugurali tenuti da Hegel il 28 ottobre 1816 e il 22 ottobre 1818 per i rispettivi insediamenti nelle cattedre di filosofia delle Università di Heidelberg e Berlino, e il famigerato Discorso di rettorato tenuto da Heidegger il 27 maggio 1933 per la guida dell’Università di Friburgo.
Nel secondo capitolo Macherey presenta l’Università francese degli anni Sessanta del Novecento facendo lavorare assieme le riflessioni che su di essa furono svolte da Jacques Lacan nel seminario Il rovescio della psicanalisi e da Bourdieu e Jean Claude Passeron in La riproduzione, e questo con buona pace di quella filosofia politica che, impunemente, crede di poter applicare le categorie psicoanalitiche alla comprensione del mondo sociale facendo a meno della mediazione della sociologia empirica. Infine, nel terzo capitolo, sono presentate le università immaginarie di scrittori come Rabelais (Gargantua), Hermann Hesse (Il gioco delle perle di vetro), Thomas Hardy (Jude l’oscuro) e Vladimir Nabokov (Pnin).
Ora, per quanto Macherey affermi, nelle conclusioni del libro, di essersi limitato a proporre una rilettura - «e niente di più» - di questi testi facendoli «dialogare fra di loro», in realtà, essi sono articolati da una logica stringente: se nel primo capitolo viene posta la tesi di un’università ideale (Kant, Hegel e Heidegger), nel secondo la si nega attraverso la verifica empirica di tutte le menzogne che si annidano nel discorso universitario reale (Lacan, Bourdieu e Passerron), nel terzo si riconfigurano, su di un piano simbolico, la dimensione utopica di un’università ideale (Babelais e Hesse) e quella fallimentare delle tante università reali (Hardy e Nabokov). Una ferrea logica dialettica.
Detto questo, al lettore rimane solo da scoprire quale legame potrà mai esserci tra un film, la bomba atomica e l’Università.
Il papa, i non credenti e la risposta di Agostino
di Vito Mancuso (la Repubblica, 13 settembre 2013)
Qual è la differenza essenziale tra credenti e non-credenti? Il cardinal Martini, ricordato da Cacciari quale precorritore dello stile dialogico espresso dalla straordinaria lettera di Papa Francesco a Scalfari, amava ripetere la frase di Bobbio: “La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa”.
Il che significa che ciò che più unisce gli esseri umani è il metodo, la modalità di disporsi di fronte alla vita e alle sue manifestazioni. Tale modalità può avvenire o con una certezza che sa a priori tutto e quindi non ha bisogno di pensare (è il dogmatismo, che si ritrova sia tra i credenti sia tra gli atei), oppure con un’apertura della mente e del cuore che vuole sempre custodire la peculiarità della situazione e quindi ha bisogno di pensare (è la laicità, che si ritrova sia tra gli atei sia tra i credenti).
Gli articoli di Scalfari e soprattutto la risposta di papa Francesco esemplare per apertura, coraggio e profondità, sono stati una lezione di laicità, una specie di “discorso sul metodo” su come incamminarsi veramente senza riserve mentali lungo i sentieri del dialogo alla ricerca del bene comune e della verità sempre più grande, cosa di cui l’Italia, e in particolare la Chiesa italiana hanno un enorme bisogno.
Rimane però che, per quanto si possa essere accomunati dalla volontà di dialogo e dallo stile rispettoso nel praticarlo, la differenza tra credenti e non-credenti non viene per questo cancellata, né deve esserlo. Un piatto irenismo conduce solo alla celebre “notte in cui tutte le vacche sono nere”, per citare l’espressione di Hegel che gli costò l’amicizia di Schelling, conduce cioè all’estinzione del pensiero, il quale per vivere ha bisogno delle differenze, delle distinzioni, talora anche dei contrasti.
È quindi particolarmente importante rispondere alla domanda sulla vera differenza tra credenti e non credenti, capire cioè quale sia la posta in gioco nella distinzione tra fede e ateismo. Pur consapevole che sono molti e diversi i modi di viverli, penso tuttavia che la loro differenza essenziale emerga dalle battute conclusive della replica di Scalfari al Papa: “Quelle che chiamiamo tenebre sono soltanto l’origine animale della nostra specie. Più volte ho scritto che noi siamo una scimmia pensante. Guai quando incliniamo troppo verso la bestia da cui proveniamo, ma non saremo mai angeli perché non è nostra la natura angelica, ove mai esista”.
“Scimmia pensante... bestia da cui proveniamo”: queste espressioni segnalano a mio avviso in modo chiaro la differenza decisiva tra fede e non-fede. Per Scalfari noi proveniamo da una “bestia” e quindi siamo sostanzialmente natura animale, per quanto dotata di pensiero; per i credenti, anche per quelli che come me accettano serenamente il dato scientifico dell’evoluzione, la nostra origine passa sì attraverso l’evolversi delle specie animali ma proviene da un Pensiero, e va verso un Pensiero, che è Bene, Armonia,Amore.
La differenza peculiare quindi non è tanto l’accettare o meno la divinità di Gesù, quanto piuttosto, più in profondità, la potenzialità divina dell’uomo. La confessione della divinità di Gesù è certo importante, ma non è la questione decisiva, prova ne sia che nei primi tempi del cristianesimo vi furono cristiani che guardavano a Gesù come a un semplice uomo in seguito “adottato” da Dio per la sua particolare santità, una prospettiva giudaico-cristiana che sempre ha percorso il cristianesimo e che anche ai nostri giorni è rappresentata tra biblisti, teologi e semplici fedeli, e di cui è possibile rintracciare qualche esempio persino nel Nuovo Testamento (si veda Romani 1,4).
Peraltro il dialogo con l’ebraismo, così elogiato da papa Francesco, passa proprio da questo nodo, dalla possibilità cioè di pensare l’umanità di Gesù quale luogo della rivelazione divina senza ledere con ciò l’unicità e la trascendenza di Dio. Naturalmente tanto meno la differenza essenziale tra credenti e non-credenti passa dall’accettare la Chiesa, efficacemente descritta dal Papa come “comunità di fede”: nessun dubbio che la Chiesa sia importante, ma quanti uomini di Chiesa del passato e del presente si potrebbero elencare che non hanno molto a che fare con la fede in Dio, e quanti uomini estranei alla Chiesa che invece hanno molto a che fare con Dio.
Il punto decisivo quindi non sono né Cristo né la Chiesa, ma è la natura dell’uomo: se orientata ontologicamente al bene oppure no, se creata a immagine del Sommo Bene oppure no, se proveniente dalla luce oppure no, ma solo dal fondo oscuro di una natura informe e ambigua, chiamata da Scalfari “bestia”.
Un passo di sant’Agostino aiuta bene a comprendere la posta in gioco nella fede in Dio. Dopo aver dichiarato di amare Dio, egli si chiede: “Quid autem amo, cum te amo?”, “Ma che cosa amo quando amo te?” (Confessioni X,6,8). Si tratta di una domanda quantomai necessaria, perché Dio nessuno lo ha mai visto e quindi nessuno può amarlo del consueto amore umano che, come tutto ciò che è umano, procede dall’esperienza dei sensi.
Nel rispondere Agostino pone dapprima una serie di negazioni per evitare ogni identificazione dell’amore per Dio con una realtà sensibile, e tra esse neppure nomina la Chiesa e la Bibbia, che appaiono così avere il loro giusto senso solo se prima si sa che cosa si ama quando si ama Dio, mentre in caso contrario diventano idolatria, idolatria della lettera (la Bibbia) o idolatria del sociale (la Chiesa), il pericolo protestante e il pericolo cattolico.
Poi Agostino espone il suo pensiero dicendo che il vero oggetto dell’amore per Dio è “la luce dell’uomo interiore che è in me, là dove splende alla mia anima ciò che non è costretto dallo spazio, e risuona ciò che non è incalzato dal tempo”. Dicendo di amare Dio, si ama la luce dell’uomo interiore che è in noi, quella dimensione che ci pone al di là dello spazio e del tempo, e che così ci permette di compiere e insieme di superare noi stessi, perché ci assegna un punto di prospettiva da cui ci possiamo vedere come dall’alto, e così distaccarci e liberarci dalle oscurità dell’ego, da quella bestia di cui parla Scalfari che certamente fa parte della condizione umana ma che, nella prospettiva di fede, non è né l’origine da cui veniamo né il fine verso cui andiamo.
Occorrerebbe chiedersi in conclusione quale pensiero sull’uomo sia più necessario al nostro tempo alle prese come mai prima d’ora con la questione antropologica. Ovviamente da credente io ritengo che la posizione della fede in Dio, che lega l’origine dell’uomo alla luce del Bene, sia complessivamente più capace di orientare la coscienza verso la giustizia e la solidarietà fattiva.
Se infatti, come scrive papa Francesco, la qualità morale di un essere umano “sta nell’obbedire alla propria coscienza”, un conto sarà ritenere che tale coscienza è orientata da sempre al bene perché da esso proviene, un altro conto sarà rintracciare nella coscienza una diversa origine da cui scaturiscono diversi orientamenti.
Se non veniamo da un’origine che in sé è bene e giustizia, se il bene e la giustizia cioè non sono da sempre la nostra più vera dimora, perché mai il bene e la giustizia dovrebbero costituire per la nostra condotta morale un imperativo categorico? In ogni caso sarà nell’assumere tale questione con spirito laico, ascoltando le ragioni altrui e argomentando le proprie, che può prendere corpo quell’invito a “fare un tratto di strada insieme” rivolto a Scalfari da papa Francesco nello spirito del più autentico umanesimo cristiano, e accolto con favore da Scalfari nello spirito del più autentico umanesimo laico.
La trappola della malinconia
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 05 Settembre 2013)
L’assoggettamento, suggerisce Foucault, appare come una forma di dipendenza originaria che non abbiamo la possibilità di stabilire in anticipo ma che ci fonda, certo paradossalmente ma - a quanto pare - inesorabilmente. Così quel potere che sentiamo schiacciante fuori di noi è certamente un’esperienza tra le più dolorose. Tuttavia è importante essere consapevoli che la costituzione stessa del soggetto conversa proprio con (e di) quel potere. Lungo questo crinale si inserisce The Psychic Life of Power: Theories in Subjection (1997, Stanford University Press), una delle riflessioni più dense e interessanti di Judith Butler intorno al potere. Tradotto per la prima volta in Italia nel 2005 da Meltemi, La vita psichica del potere. Teorie del soggetto (Mimesis, pp. 248, euro 20) esce ora in un’edizione completamente rinnovata a cura di Federico Zappino.
La tesi principale di Butler è piuttosto disturbante giacché rimanda ad una complicità ambigua che il soggetto intrattiene con il potere e che difficilmente si può estirpare. Una doppia traiettoria fa del soggetto un paradosso temporale: se da una parte il potere indica la qualità di sottomissione del soggetto, dall’altra ne connota lo stesso divenire. Benché Foucault abbia intrapreso la strada del riconoscimento della relazione tra soggetto e potere, è pur vero - secondo Butler - che non ne ha saputo scandagliare interamente le forme così come i domini psichici.
Torsioni e ripiegamenti
Per indagare una teoria del potere insieme ad una teoria psichica, Butler problematizza l’ortodossia filosofica e psicoanalitica, proponendo un interrogativo politico e sociale che ragioni intorno alla soggettivazione critica. Occorre però discutere di un punto centrale: nelle due posture che il potere assume in capo al soggetto (nel suo fondarlo, e dunque precederlo, e nel suo essere agito) non vi è alcuna necessità teleologica. Né ontologica. Ciò con cui ci si scontra è piuttosto un’ambiguità e una plasticità del soggetto stesso che - da subito competente del potere - è già in colloquio con esso.
Se infatti la soggettivazione è sottomissione e insieme costituzione del soggetto, esiste una possibilità attraverso cui il soggetto stesso può emergere. Spesso, ricorda Butler, si fa riferimento ad un attaccamento appassionato nei confronti della propria sottomissione ma l’argomento andrebbe indagato con cura perché viene invocato proprio da coloro che vorrebbero minimizzare e depotenziare la rivendicazione degli oppressi. Secondo la filosofa, l’attaccamento è prodotto dallo stesso potere, adducendo e figurando una torsione del soggetto stesso che si manifesta come ripiegamento.
In queste maglie fittissime, quell’attaccamento diventa una possibilità di emersione dello stesso soggetto se - da un piano puramente filosofico - ci si sposta a «socializzare» il piano psicanalitico. Riconoscere l’attaccamento determina infatti la consapevolezza che nell’alveo di quella soggettivazione esiste qualcosa che sfugge alla definizione netta e rassicurante che da Hegel arriva a Foucault passando per Nietzsche e Freud.
C’è infatti un amore smisurato che mostra la nostra stessa vulnerabilità e che si prostra e si rivolta conducendoci in una melanconia che è poi prodotta dalla perdita; nel domandarsi le responsabilità del soggetto che si lascia sottomettere non si tiene conto della forma psichica che quel potere assume. La coazione a ripetere dell’attaccamento si comporta come una nevrosi, il rifiuto (o forse sarebbe meglio dire: quel che ne resta) invece - dopo la consapevolezza - scompagina lo scenario repressivo del regime regolatore nell’impossibilità ad approfittarsi di noi.
L’esistenza di un soggetto anteriore allo sfacelo è paventabile? Cioè l’interruzione di questo circuito che soggioga è pensabile? Butler risponde così: «sono orientata a sostenere che il soggetto che si oppone alla violenza morale, anche a quella contro se stesso, sia il prodotto di una violenza già consumatasi, senza la quale egli non sarebbe potuto emergere». E in effetti, dalla dialettica servo-padrone passando per la coscienza infelice proposte da Hegel, si introduce il prodromo di ciò che inchioderà Foucault e il dibattito a lui coevo. Cioè quel soggetto non è analizzabile solo come produzione ma anche come forma di interiorizzazione.
L’Io in perdita
Nella torsione che segna l’illuminarsi della coscienza, si deve poter distinguere la volontà dal desiderio. È in fondo la prima che configura ciò che Nietzsche individua come «cattiva coscienza» e che va a puntellare l’auto-rimprovero della norma di cui discetta Althusser. Seppure nell’irrinunciabile dettato teorico, la filosofa - anche qui come in molto suoi libri - sembra andare in cerca della debolezza di ogni fonte da lei scandagliata per trovare, infine, un inedito punto di avvistamento.
All’altezza de La vita psichica del potere tuttavia non ve n’è uno che possa dirsi più saldo degli altri; sarebbe meglio parlare di crocicchio, apparentemente senza via di uscita, entro cui il soggetto affiora, nello sfondo di una violenza già consumata, insieme all’ambiguità di una perdita che non si sa nominare e che, proprio per questo, inchioda l’io in uno stato di perenne melanconia. È quest’ultima a possedere un nome prestabilito e una sua utilità nell’economia butleriana; serve infatti per indicare lo statuto frastagliato del soggetto che diventa Io nel suo ripiegarsi.
Escrescenze «logiche»
Nella prefazione, Zappino spiega bene in che termini la melanconia si possa ricondurre al genere in una prospettiva della critica queer. E spiega anche come l’intero testo conservi esso stesso una tonalità affettiva melanconica. Più che soluzioni alla morsa del potere, Butler ne fotografa l’esiziale e doppia dislocazione, permanente in una forma psichica che non solo viene interiorizzata ma che sembra guidare lo stesso desiderio e le stesse relazioni.
In questo dramma - catastrofe pervasiva già in atto - non c’è posto per nessuna forma parodica; piuttosto la domanda che ci si potrebbe porre è: davvero il soggetto è solo un prodotto, seppur complesso, del potere? E davvero la melanconia avverte unicamente del mancato attaccamento sessuale? In una prospettiva di plasticità del genere a cui Butler ci ha abituati sembra di poter rispondere di sì (su questo e sul futuro del soggetto queer si interrogano con competenza Federico Zappino e Lorenzo Bernini in appendice al volume).
Non c’è naturalità e non c’è determinismo, ciò è pur vero nel discorso della filosofa. Certo che però a pensare lucidamente che anche il dissenso critico, le strategie di liberazione e lo stesso desiderio, sono nient’altro che propaggini di quel soggetto, «escrescenza della logica», che decreta la propria nascita come una voragine della fine, viene quasi da chiedersi se non sia perfettamente inutile continuare a interrogarsi sulla vulnerabilità della condizione umana. Che se allo stringente orizzonte ontologico si sostituisce la relazionalità bisognerà pure sostanziarla affinché non sia una finzione anch’essa, come un atto narcisistico. Si potrà cioè concedere all’alterità tutta la sua incontenibile imprevedibilità nel luogo di quella relazione?
Ma Judith Butler questo lo insegna, profondamente. Altrimenti non si chiederebbe, in un suo recente e bellissimo librino, A chi spetta una buona vita? (Nottetempo, pp. 80, euro 7). Pubblicato in collaborazione con il blog «il lavoro culturale», viene curato da Nicola Perugini ed è il discorso della filosofa in occasione dell’attribuzione del Premio Adorno 2012. Si tratta di un piccolo gioiello di chiarezza e sintesi politica che prende avvio da un’affermazione del filosofo tedesco contenuta in Minima Moralia: «Non si dà vita vera nella falsa». Chiedersi cosa sia una vita buona e se la si possa condurre entro il perimetro di una vita cattiva, non ha una mera accezione morale, bensì consiste in un ragionamento più ampio che metta in relazione la moralità e la teoria sociale.
Secondo Butler, Adorno si domanda in che modo il dispositivo del potere possa condizionare, fino a sconvolgere, le nostre riflessioni sulla forma di vita migliore. Si potrebbe cominciare dalla propria di vita, ma la questione dirimente per Butler è anzitutto quali siano le vite da considerare tali. In ultima istanza, si gioca una partita più alta e scomoda: quali sono le vite alle quali l’amministrazione della biopolitica non riconosce il lutto? Forse quelle tantissime esistenze che, ancora prima di ulteriori costruzioni, sono già perdute o morte.
In questo passaggio umbratile sono numerose le esistenze indegne di lutto che, non trovando spazio nella scena politica, si stringono in «forme di insorgenza pubblica». C’è una noncuranza di fondo che attiene ad una mancata condizione di supporto. Chi non è degno di lutto non è neppure degno di considerazione, e viceversa; non potrà beneficiare di libertà di espressione politica, di alloggio, di sostegno economico né di forme di riconoscimento sociale. Ritornando alla domanda iniziale, come si fa a condurre una vita buona se quella stessa vita è già invisibile, intercambiabile e del tutto dispensabile?
Qui rientra la questione della riflessività dell’Io. Anche in un orizzonte neoliberista come quello presente, o in un sistema violento come quello dello Stato di Israele. Cioè, io ho la forza sufficiente per emergere nel campo del possibile? Se sì, devo poter dare seguito a qualunque risposta ne derivi, e poi - si potrebbe aggiungere - decidere come stare in quel campo. Devo soprattutto comprendere che la mia vita si staglia in un tessuto relazionale più vasto che è piagato dal dominio, sì, ma che al contempo può essere la scena di un riconoscimento. Per Butler «anche in condizioni di minaccia estrema, le persone compiono tutti i gesti possibili di supporto reciproco».
Anonimi nel mondo
Così, se l’invivibilità può essere ascritta alla categoria della precarietà, non sembrerà peregrino segnalare desideri che non si fermano alla sopravvivenza ma che tendono alla vita buona: «anche il solo pronunciare un nome può costituire la forma più straordinaria di riconoscimento, specialmente quando si è diventati dei senza-nome, quando il proprio nome è stato sostituito da un numero, o ancora quando non si è degni di essere chiamati in nessun modo». Allora la vita buona solleva le battaglie per la sopravvivenza in un senso più alto, che comprenda quantomeno la vita organica e che attenga ad una visione sociale e di interdipendenza ma soprattutto che consideri la relazione fra me e gli altri. Sempre e in una molteplicità di emersione.
La resistenza alla invivibilità non significa esclusivamente dire di no ad un sistema di vita che non corrisponde, deve essere invece incarnata nei corpi e plurale e poter implicare l’incontro con chi non è degno di lutto. La resistenza in tal senso aspira ad una più ampia narrazione rappresentata dal combattimento della precarietà e della diseguaglianza differenziale. Una forma di scontro in cui non si espunge la vulnerabilità ma anzi se ne fa risorsa perché diventi vivibile, in una condizione critica di democrazia radicale.
Ecco perché la democrazia liberale non è l’ultima parola dell’Europa
Il dopoguerra insegna che non esiste un modello unico
di Michele Salvati (Corriere della Sera, 06.09.2013) *
«Le idee politiche nell’Europa del Novecento», dice il sottotitolo del bellissimo libro di Jan-Werner Müller L’enigma democrazia (Einaudi). Sicuramente di questo si tratta, ma si tratta anche - seppure in modo sommario - di una storia dei fatti politici di quel «secolo breve»: l’analisi non obbedisce a ripartizioni accademiche. E poi di una storia dei protagonisti, soprattutto intellettuali ma anche politici: dal gigante che domina la prima parte del libro, Max Weber, a Sorel, Lenin e Stalin; da Lukács a Mussolini e Hitler; da Maritain a Gramsci; da Marcuse a Sartre; da Carl Schmitt ad Adenauer e De Gasperi; da Hayek a Oakeshott a Furet e tanti, tanti altri. A volte piccoli medaglioni, a volte biografie più approfondite, con giudizi personali forti.
Si tratta infine di una storia dell’Europa intera, dell’Ovest, del Centro e dell’Est, vista da un tedesco educato in Gran Bretagna e insegnante in una università americana: come Tony Judt, alla cui visione del compito dello storico, se non alle idee politiche, è molto vicino, Müller sa che non si può parlare di Europa se ci si limita all’Europa occidentale.
Questa miscela su tempi lunghi di idee, fatti, persone e Paesi - a partire dai due primi decenni del ’900, quando le grandi masse ottennero il diritto di voto e scardinarono la democrazia ristretta del secolo precedente - dà luogo a un tour de force intellettuale straordinario. A volte penetrante, analitico e originale, più spesso selettivo in una gran massa di materiali di seconda mano, ma sempre effettuato con maestria e sicurezza. Insomma, un decennio di lavoro ben speso, questo di Müller, trasfuso in un libro che consiglierei caldamente a chiunque voglia farsi un’idea della storia politica da cui proveniamo.
Un libro impossibile da riassumere. Ma il messaggio centrale è senz’altro quello colto da Shlomo Avineri («Foreign Affairs», Special Anniversary Issue, 2012, p. 69): «Il consolidamento democratico dell’Europa occidentale nel secondo dopoguerra non fu raggiunto facilmente né consistette in una semplice ripresa del precedente ordine politico. Emerse dalle lezioni apprese dalla fragilità delle concezioni e delle pratiche della democrazia europea tra le due guerre e dall’eredità dei movimenti non democratici di quel periodo. E fu molto favorito dall’urgenza e dalla coesione imposte dal contesto di guerra fredda».
Questo messaggio trae la sua forza dall’analisi della crisi della democrazia tra le due guerre contenuta nei primi tre capitoli del libro e dall’ampliamento della prospettiva ai Paesi dell’Est europeo. Si articola poi in altri tre lunghi capitoli, sul pensiero della ricostruzione e il ruolo delle democrazie cristiane e sulle sfide che questa concezione benevola ma controllata di democrazia dovette subire, prima dal movimento del ’68, e poi, a partire dagli anni 80, dal neoliberismo. Ma qual è la concezione di democrazia che emerse nel secondo dopoguerra e che condusse al suo «consolidamento»?
Lasciamo parlare Müller: è «storicamente ... impreciso sostenere che la seconda metà del XX secolo vide "il ritorno della democrazia" o "il ritorno del liberalismo", prima in buona parte dell’Europa occidentale e poi nei Paesi meridionali e orientali del continente. I cittadini europei crearono piuttosto qualcosa di nuovo, ovvero una democrazia fortemente limitata, per lo più da istituzioni non elettive, come le corti costituzionali...
Due innovazioni particolarmente importanti del dopoguerra - lo Stato democratico del welfare e la Comunità europea - devono essere considerate nella stessa luce: il primo era volto a scongiurare rigurgiti fascisti garantendo la sicurezza ai cittadini (la competizione con i Paesi dell’Est era una preoccupazione rilevante ma, in ultima analisi, secondaria)... e anche l’integrazione europea... puntava a creare ulteriori limitazioni all’idea di Stato-nazione democratico, grazie alla presenza di istituzioni non elettive» (p. XV).
Corti costituzionali, Welfare state, Comunità e poi Unione Europea: una concezione «socialdemocratica» di democrazia? Questo è vero solo in parte - il welfare state - e soprattutto nei piccoli Paesi nordici e nel Regno Unito, ma l’insieme delle limitazioni a una concezione puramente liberale della democrazia è il frutto della reazione alle tragiche esperienze tra le due guerre, al fascismo come risposta all’insufficienza delle istituzioni liberali. Nei tre grandi Paesi del continente, Germania, Francia, Italia, non fu la socialdemocrazia a disegnare la risposta postbellica, ma altre correnti politiche e soprattutto le democrazie cristiane.
Per la maggior vicinanza alla nostra esperienza politica, per l’ampiezza e l’approfondimento dell’analisi, ma soprattutto perché sfatano convinzioni ampiamente diffuse, i tre capitoli della seconda parte del libro sono quelli la cui lettura raccomanderei maggiormente.
La Chiesa cattolica, con grande fatica, aveva abbandonato le posizioni radicalmente antiliberali ancora molto forti tra le due guerre e l’attenzione per i ceti più deboli avvicinava i partiti cattolici alle posizioni socialiste moderate. Grandi intellettuali cattolici - Müller non ricorda soltanto Maritain - erano infaticabili nel cercare compromessi tra il pensiero della tradizione e le esigenze politiche e sociali della fase storica che si apriva con il dopoguerra. Politici coraggiosi e avveduti colsero l’occasione dell’anticomunismo e del tradizionalismo che ancora dominava le masse contadine di allora per creare grandi partiti e stringere compromessi con le forze del liberalismo e del socialismo moderato: le grandi costituzioni antifasciste dell’immediato dopoguerra nascono da questi compromessi. Da questi nasce anche il Welfare state del continente, non dall’iniziativa dei socialdemocratici.
Da questi nasce la Comunità Economica Europea. Da questi nasce, in sintesi, una democrazia limitata e difesa da istituzioni forti ma non elettive. Una democrazia che finora ha retto ad assalti ideologici e politici seri: per equilibrio, ampiezza e intelligenza è difficile trovare un’analisi dell’ondata antiautoritaria del ’68 migliore di quella di Müller. E sta reggendo allo tsunami neoliberale che il capitalismo della globalizzazione ha scagliato sulle sponde di tutte le economie avanzate.
Müller è storico delle idee e filosofo politico cauto e realista, e non si avventura a predire che cosa ci riserva un futuro in cui le vicende ideologiche e politiche europee probabilmente saranno sempre meno rilevanti. Del suo atteggiamento di studioso è esempio mirabile il modo in cui conclude l’Introduzione al suo libro. «Non vedo motivo di andare particolarmente fieri dell’ordinamento costituzionale assunto dall’Europa occidentale nel dopoguerra... e degli ideali che lo ispirarono. Se mai, la coscienza storica del modo in cui gli europei giunsero a tale assetto potrebbe contribuire almeno in piccola parte a spegnere la confortante illusione che la democrazia liberale sia necessariamente la condizione politica predefinita dell’Europa o, più generalmente, dell’Occidente». Prenda nota, Fukuyama!
*
Il libro di Jan-Werner Müller, «L’enigma democrazia. Le idee politiche nell’Europa del Novecento», Einaudi, pagine XX-356, 26
La zattera della religione nel naufragio delle ideologie
di Bruno Forte (Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2013)
È stato Hans Blumenberg a scegliere la metafora del naufragio come strumento interpretativo dell’epoca moderna e della sua crisi (Naufragio con spettatore, Il Mulino, 1985). Perdu te le certezze che il positivismo e le ideologie avevano offerto, siamo diven tati tutti dei naufraghi, spettatori al tem po stesso del nostro naufragio.
Sta qui la differenza fra la crisi del 1929 e l’attua le: allora il mondo delle certezze ideolo giche si presentava come la possibilità alternativa alla crisi, una terra ferma da cui guardare l’altrui naufragio.
Oggi, dopo la fine delle ideologie e il crollo del sistema dei blocchi contrapposti, non è più così. La sola possibilità di salvezza sta nel farsi una zattera con i resti della nave naufragata. Proprio così, l’imma gine del pensatore tedesco si schiude sull’orizzonte di un’attesa, che richia ma l’affacciarsi di un bisogno collettivo di senso, di etica e di spiritualità. La ri sposta a questo bisogno è, però, tutt’al tro che univoca nel "villaggio globale".
L’ immagine del mare mobile, incostan te, richiama anzi un’altra metafora, non meno importante per capire dove siamo, quella della liquidità. A servirsene con singolare flessibilità è il sociologo britannico, di origini ebraico-polacche, Zygmunt Bau man. Nel nostro tempo - egli afferma- «model li e configurazioni non sono più "dati", e tanto meno "assiomatici"; ce ne sono semplicemente troppi, in contrasto tra loro e in contraddi zione dei rispettivi comandamenti, cosicché ciascuno di essi è stato spogliato di buona parte dei propri poteri di coercizione... Sarebbe incauto negare, o finanche minimizzare, il pro fondo mutamento che l’avvento della moder nità fluida ha introdotto nella condizione uma na» (Modernità liquida, Laterza, 2002, XIII).
Mancando punti di riferimento certi, tutto ap pare giustificabile in rapporto all’onda del mom ento. Gli stessi parametri etici che il "gran de Codice" della Bibbia aveva affidato all’umanità , sembrano diluiti, poco reperibili ed evi denti. Si parla di "relativismo", di "nichili smo", di "pensiero debole", di "ontologia del declino".
Mancando un sogno che accomuni tutti, l’individuo annega nella folla delle solitu dini, incapaci di comunicare fra loro, e l’ambizione dell’emancipazione cede il posto alla ri nuncia al senso del vivere. Questo volto flui do della post-modernità si manifesta in parti colare nella volatilità delle sicurezze pro messe dall’economia virtuale" della finanza internazionale, sempre più separata dall’eco nomia reale.
Crollata la maschera del massi mo vantaggio al minimo rischio, restano le macerie di una situazione fluida su tutti i li velli. Trovare punti di riferimento, indicare linee-guida affidabili è la sfida titanica per go vernanti e amministratori. Anche l’econo mia rivela un bisogno urgente di etica.
Nei segnali d’attesa, che vanno profilandosi nella vasta crisi del senso, non mi sembra infon dato vedere una sfida e una promessa rivolte alle diverse credenze religiose. Anche le religioni vengono convocate al capezzale dell’"ho mo oeconomicus". A loro volta, sfidati dal con testo della globalizzazione, i mondi religiosi av vertono un bisogno nuovo di incontrarsi, di la vorare insieme.
Samuel P. Huntington indivi dua la sfida dell’immediato futuro nel volto conflittuale di questo incontro (Lo scontro del le civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 1997): dopo le guerre fra le nazioni tipiche del XIX secolo e quelle fra le ideologie proprie del XX secolo, il XXI secolo sarà caratterizzato a suo avviso dal conflitto delle civiltà, identifica te con i mondi religiosi che le ispirano.
Ciò che occorre verificare, allora, è se e in che misura le religioni potranno giocare un ruolo in vista del superamento del conflitto e per la costruzione di un nuovo ordine internazionale. Al centro di questa verifica si pongono in particolare il Cristianesimo e l’Islam, non solo per il loro rap porto rispettivamente alla cultura dell’Occi dente e a quella dei Paesi arabi, ma anche per la minaccia costituita dall’alleanza fra alcuni ambiti antioccidentali e alcune espressioni inte graliste che pretendono di fondarsi sulla fede islamica.
Non meno importante per la causa della pace è il ruolo che al suo servizio potran no svolgere l’Ebraismo e le grandi religioni dell’Asia. La sfida è fra due modelli: lo "scon tro" o l’alleanza" delle civiltà e delle religioni.
Certo, l’incontro non potrà avvenire per sem plice giustapposizione. Alternativa alla barba rie dello scontro totale appare la possibilità del "meticciato": la confluenza di identità moltepli ci, dovuta ai flussi migratori in atto, è non me no legata al ravvicinarsi delle lontananze gra zie ala comunicazione della rete. È l’esperienza, inedita per i più, dell’incontro fra identità diversissime, fino al configurarsi di identità plurali, nomadi, al tempo stesso assertive e fles sibili, meticce. Il succedersi degli eventi - dal fatidico 1989 all’11 Settembre 2001 e a quel che ne è seguito - mostra il volto drammatico di questa sfida. S’impone una scelta di fondo, a partire dalla consapevolezza che il meticciato è stato sempre presente nella storia dei popoli e delle culture.
L’illusione di una purezza dell’identità o della razza è pura follia. Se una cultura è viva e vitale, essa è anche in grado di avviare un processo di mutuo scambio e di reci proca comprensione con l’identità altrui, che venga ad abitarla. Anche a questo ci ha richia mato il viaggio-segno di Papa Francesco a Lam pedusa.
Certamente, quest’assemblaggio" non è facile né esente da rischi: ciò che risulta decisivo è che fra persone e culture si ricono sca un codice di valori comuni, capace di fonda re relazioni di reciproco rispetto, di riconosci mento dell’altro e di dialogo.
A quali fonti potrà attingere un simile codice? Su quale rotta potrà procedere la barca assemblata sui mari del grande villaggio?
Si profila l’urgenza di un orizzonte etico, che sia riconoscibile da tutti. Ed è qui che la ri velazione biblica mi sembra offra una possibili tà decisiva, una sorgente di senso per indicare la rotta. Nella prospettiva dell’alleanza d’amo re promossa dall’iniziativa divina agli abitatori del tempo, essa riconosce la centralità della persona umana davanti al mistero divino co me riferimento fondante.
Oltre il naufragio, sulle onde della modernità liquida, la barca va costruita insieme, consentendo tutti a regole comuni, certe e affidabili, radicate nella digni tà dell’essere personale, nelle esigenze dell’im perativo morale, per navigare insieme sul va sto mare da percorrere verso il porto - intravi sto nella speranza e mai pienamente possedu to nella realtà - della pace universale e della giu stizia per tutti.
L’idea dell’assoluta singolarità dell’essere personale di fronte al Dio persona le - contributo decisivo della rivelazione bibli ca alle culture dell’umanità - è il baluardo con tro ogni possibile manipolazione dell’essere umano, la sorgente di ogni riconoscimento del la sua dignità. Sta qui la riserva di senso e di spe ranza che la proposta della fede biblica ha da offrire alla storia, la ragione profonda della fe condità della presenza dell’identità cristiana nel pluralismo delle opzioni e nel meticciato delle identità.
ABBIAMO CREDUTO ALL’AMORE ( 1 Gv 4,16): MA AL DIO ("CHARITAS") DI GESU’ ("LUMEN GENTIUM") O AL DIO ("CARITAS") DI COSTANTINO E DI RATZINGER ("DOMINUS IESUS") E DI BENEDETTO XVI ("DEUS CARITAS EST")?! DI CHI SIAMO FIGLI E FIGLIE?!
Queste considerazioni sulla fede - in continuità con tutto quello che il Magistero della Chiesa ha pronunciato circa questa virtù teologale[7] - , intendono aggiungersi a quanto Benedetto XVI ha scritto nelle Lettere encicliche sulla carità e sulla speranza. Egli aveva già quasi completato una prima stesura di Lettera enciclica sulla fede.
Martin Bernal, una scossa al mito del «miracolo greco»
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 02.07.2013)
In una celebre scena del film The Train (1964) l’ufficiale nazista (Paul Scofield), proteso a portarsi via opere d’arte francesi, mentre la Wehrmacht è in rotta precipitosa, si rivolge al ferroviere francese Labiche (Burt Lancaster), abilissimo nel sabotaggio, e gli ingiunge: «Allarga i tuoi orizzonti, Labiche!». Allargare gli orizzonti molto spesso non piace: soprattutto quando sussiste una forte tradizione che è difesa da studiosi non inclini a modificare le loro categorie mentali, ed è sorretta dal «senso comune» e dalle conseguenti, robustissime, vulgate.
È il caso delle reazioni all’importante libro di Martin Bernal, Black Athena (Londra, 1987), tradotto opportunamente da Pratiche Editrice (Parma) nel 1991. Bernal ebbe il merito di dire con chiarezza e sorreggere con seria documentazione quello che alla cultura antica, da Erodoto a Diodoro Siculo, era ben noto: che cioè il cosiddetto «miracolo greco», lungi dall’essere un «miracolo», era in realtà un rilevante e originale tassello di un grande flusso di civiltà, sorto in Oriente e fervidamente operante sin dal III millennio in aree cruciali del mondo antico quali la Mesopotamia e l’Egitto.
Nel secondo libro delle Storie, Erodoto spiega distesamente la dipendenza del pantheon ellenico da quello egizio, e chiama in causa i semi-mitici Pelasgi come punto di partenza e intermediari di grandi fenomeni di trasmigrazione culturale. E ricorda anche l’imbarazzo del greco Ecateo di fronte all’antichissima realtà statale-religiosa dell’Egitto. Diodoro di Sicilia è molto più dettagliato e forse anche più divertente. Né si dimenticheranno il Crizia ed il Timeo di Platone. Attraverso la celebre metafora del «viaggio in Egitto» del legislatore ateniese Solone, Platone getta un ponte tra i Greci «fanciulli» ed il loro antefatto culturale: lì sono gli «antichissimi Egizi» ad aiutare i Greci a riscoprire un loro passato remoto e sepolto.
Come ogni «miracolo», anche il «miracolo» greco era una invenzione. Era una invenzione della cultura «ariana» sviluppatasi nell’Europa moderna del tardo XVIII secolo e affermatasi in modo sempre più fastidioso - e alla fine minaccioso - nei due secoli seguenti.
Quando apparve in italiano il bel libro di Bernal, un coltissimo outsider quale fu Beniamino Placido ne scrisse nella rivista «Quaderni di storia» (1992). E osservò efficacemente - andando al cuore del libro di Bernal - che il «modello ariano» è stato messo a punto nel momento in cui l’Europa bianca si preparava a colonizzare l’Africa nera. «E l’America anglosassone si preparava a dire "fatti più in là", con le buone o con le cattive, ai suoi indigeni dalla pelle rossa. Faceva comodo pensare che noi - noi bianchi, noi greci - siamo radicalmente diversi e definitivamente migliori».
Bernal (1937-2013), nato a Londra, aveva conseguito all’Università di Pechino nel 1960 un diploma di lingua cinese. A Cambridge, nel 1966, un PhD in «Oriental Studies». Poi era passato negli Stati Uniti alla Cornell University. Suo nonno era stato un notevole egittologo. Quando il suo libro fece scandalo e lo si tacciò di essere anti-europeo, replicò: «My enemy is not Europe, it’s purity»!
Kant? Un incapace per i nostri atenei
Giovanni Puglisi: perché alle nostre università serve un cambio di rotta
di Salvo Fallica (l’Unità, 29.6.13
«SE EMANUELE KANT TORNASSE A VIVERE E SI PRESENTASSE AD UN CONCORSO PUBBLICO avendo scritto “solo” un capolavoro quale La critica della Ragion Pura, con le attuali regole di valutazione del sistema universitario italiano, non potrebbe vincerlo. Non basta una sola pubblicazione. Se Einstein si presentasse con il celebre scritto sulla teoria della Relatività ristretta, non lo farebbero nemmeno partecipare. È un testo “troppo breve”. Sembra assurdo ma è la triste realtà di questo Paese».
Sorride con amarezza, Giovanni Puglisi, rettore dell’università Kore di Enna e dello Iulm, presidente dell’Unesco Italia, ed aggiunge: «Può sembrare solo un paradosso provocatorio, eppure è una questione reale. Se oggi Einstein si presentasse con quel testo, che ha cambiato la visione del mondo, non entrerebbe nella griglia delle valutazioni delle mediane, un sistema burocratico, quantitativo ed assurdo. Verrebbe superato da un ricercatore che ha scritto molti testi ed ha avuto parecchie citazioni. È un sistema talmente assurdo che lo stesso ministero della Pubblica istruzione, successivamente alla sua introduzione, ha sottolineato che non necessariamente bisogna tenerne conto in maniera rigorosa. Sa quale sarà il risultato? Un ginepraio di ricorsi giudiziari, alla fine saranno i giudici a doversi esprimere sulla selezione dei docenti».
Puglisi esprime con nettezza e chiarezza le sue critiche in questo dialogo con l’Unità, e mette in guardia sul rischio della deriva che incombe sul sistema del sapere italiano, scuola ed università. Ma una speranza la coglie nella visione culturale e nelle prime decisioni ed azioni del nuovo ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza. «Ha le idee chiare ed è partita bene. Condivido la sua impostazione culturale sulla valorizzazione del merito e sulla centralità degli studenti nel processo formativo. Ed ha anche la capacità del dialogo costruttivo. Vi è però un limite...»
Quale?
«È un limite che non dipende dal ministro Carrozza ma dal programma del governo Letta. In nessun passaggio di quel programma vi è un accenno alla riforma universitaria. Purtroppo Carrozza è costretta a muoversi all’interno di una griglia legislativa che è ancora quella della Gelmini. Potrà apportare modifiche innovative, fare riforme specifiche ma per cambiare profondamente occorre mutare quell’impianto strutturale».
Vi sono già atti concreti, come li giudica?
«L’annuncio delle assunzioni dei ricercatori è senz’altro positivo e in controtendenza rispetto ai governi precedenti, ma la vera novità è il fatto di ottenere l’innalzamento dal 20 al 50, in termini percentuali, del tetto necessario per poter dare corso al turnover quando i docenti vanno in pensione. È un risultato di estrema importanza. Le racconto un aneddoto. L’altro giorno, durante l’incontro dei rettori con il ministro dell’Istruzione, un collega ha detto: “Finalmente Saccomanni ha messo la firma sul decreto”. Il ministro ha chiosato ironicamente: “Prima la firma l’ha messa Carrozza”, rivendicando giustamente, in un quadro di armonico confronto, l’autonomia del suo ruolo, che invece è apparso subalterno nei governi precedenti. Non solo la Gelmini si è fatta dettare la linea da Tremonti, ma anche Profumo ha seguito la linea Monti-Grilli. Vorrei aggiungere che in quei casi vi è stato anche un prevalere del potere della burocrazia del ministero dell’Economia rispetto al potere politico. Ha fatto bene il ministro Saccomanni a cambiare i vertici, non ne metto in dubbio la loro bravura, ma in democrazia vanno fatte delle rotazioni, è fisiologico oltre che razionale. Chi arriva ha uno spirito nuovo, guarda le cose in maniera diversa».
Quali sono i limiti dell’università italiana?
«Purtroppo negli ultimi 20 anni vi è stato un progressivo peggioramento, una moltiplicazione di ruoli che ha avuto un effetto finanziario disastroso. In nome dell’autonomia sono avvenuti fenomeni di dequalificazione, rettori e presidi per ingraziarsi l’elettorato hanno aggregato, a volte, persone diciamo di non alto profilo. Spesso i concorsi sono avvenuti in coincidenza di elezioni di rettori e presidi. Questo è accaduto finché la vacca, munta eccessivamente, non si è spenta. In questo sistema impazzito, si è andata ad incardinare la riforma Gelmini con le sue forme di reclutamento, che oggettivamente le debbo dire, qualche novità l’hanno apportata, ma le novità si stanno dimostrando delle negatività. Abbiamo già citato il paradosso di Einstein».
Quali sono gli altri punti deboli?
«Parliamo delle abilitazioni. Ebbene qui la pseudo novità consiste nel fatto che occorrono 4 voti su cinque, invece di tre su cinque. Sa cosa vuol dire? Basta che uno dei membri della commissione ne convince un altro e la minoranza può ricattare la maggioranza. E per evitare la paralisi, si potranno verificare molti casi di abilitazioni dei docenti con l’unanimità dei voti. Ciò vuol dire che i commissari dovranno spesso trovare una mediazione per evitare l’impasse. Per non parlare delle abilitazioni prima delle sedi, che potranno portare ad abilitati di serie A con le sedi, altri senza. Conoscendo l’Italia non è difficile immaginare che resteranno fuori i migliori».
Rettore, il metodo quantitativo dall’università è giunto anche alle scuole medie inferiori e superiori. Che ne pensa della cultura dei quiz?
«Il metodo quantitativo è semplicemente una boiata. La cultura dei quiz è ancora peggio, è una sottocultura. La dobbiamo smettere di valutare la storia, la letteratura, la filosofia con gli stessi metodi dell’ingegneria, della clinica e della matematica. Così si finisce per uccidere l’area umanistica. Alcuni insistono sulla necessità di regole. Ma la regola non vuol dire omologazione. È servilismo culturale ed esterofilo attingere a modelli di quiz pensati per altre realtà e calarle in contesti diversi. Senza neanche delle opportune modifiche».
Sui media sono state pubblicate notizie sulle domande dei quiz del concorsone per i docenti della scuola. Vi erano anche domande sulla cucina e sulla moda. Dunque un insegnante che non sa queste nozioni non può insegnare?
«Vede, la moda e la cucina sono cose che hanno una loro valenza culturale, ma non necessariamente debbono far parte del bagaglio di conoscenze di un insegnante di lettere. Ma ancor più grave è la medesima concezione dei quiz, oppure i testi brevi di risposta agli scritti, magari ispirati da una visione didattico-scolastica contraria all’originalità interpretativa, all’approfondimento intelligente. In questo modo non si selezionano i migliori, ma quelli che hanno alcune nozioni in più, oppure sono semplicemente più fortunati. Siamo dinanzi a una crisi storica del modello di valutazione, ormai simile ad una forma di sorteggio. Con questi metodi non si coglie la qualità, la preparazione autentica, la capacità di scrittura e di analisi critica. Il metodo quantitativo porta la scuola italiana ad essere più debole rispetto agli altri grandi Paesi. Si uccide la peculiarità della nostra storia».
Professore, in Germania dove convivono armonicamente cultura umanistica e scientifica, in parecchie scuole elementari studiano anche la filosofia...
«In Italia invece ai professori nei concorsi pubblici chiedono qualcosa sul taglio e cucito. Magari alcuni burocrati hanno sbagliato la taglia dei vestiti, dimenticando le taglie grosse. Fuor di metafora, parlo di burocrati, perché non penso che questa cultura dei quiz sia il frutto della Minerva dell’ex ministro Profumo. Ho troppo rispetto per la sua intelligenza, credo che sia stato mal consigliato da qualche burocrate o esperto».
Vi è qualche possibilità di uscire da questo impasse?
«Come dicevo prima ho fiducia intellettuale nelle qualità del nuovo ministro Carrozza, però avrà molte difficoltà ad intervenire in maniera efficace su questi aspetti. L’omologazione verso la cultura dei quiz, il metodo quantitativo applicato a tutto ed in maniera indistinta è ormai una moda. Vi è una deriva pericolosa, se non la si ferma ed inverte avremo un ulteriore decadimento del sistema del sapere ed anche una opinione pubblica peggiore. Serve un nuovo metodo formativo e valutativo che recuperi i valori della cultura e li coniughi con le innovazioni, lo spirito scientifico e tecnologico. Ma il tutto deve avvenire in maniera critica, sì alla multidisciplinarità, non alla distruzione delle specificità e delle differenze». Il dibattito è aperto...
Le neo armate del papa
di Paolo Rodari (la Repubblica, 17 giugno 2013)
Dai teo-con ai teo-pro. Le “armate” del Papa cambiano casacca. A sancire il passaggio di testimone tanti segni. Non ultimo, una pagina appositamente dedicata al tema da Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani che per anni ha dato voce a quegli intellettuali disposti a tutto pur di riconoscere un ruolo alla religione cristiana non separata dalla sfera pubblica, i teo-con appunto. “Atei devoti”, li ha chiamati qualcuno. «Importanti uomini di cultura non credenti, ma che avvertono il rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà», li definì, invece, Benedetto XVI al convengo della Cei di Verona del 2006. Fu come un’investitura ufficiale, quella di Ratzinger, una chiamata alle armi per un esercito disposto a tutto pur di seguirlo.
Ma i Papi cambiano. E chi non vuole soccombere deve allinearsi. Lo scorso 9 giugno Avvenire segnala un cambio di rotta, una virata in perfetto tempismo con l’avvento del primo Papa che ha scelto di chiamarsi Francesco, in onore di una Chiesa diversa, umile, povera, degli ultimi. «C’erano una volta i teo-con, versione italiana dei neo-con americani molto attivi nell’era Bush», scrive Avvenire.
C’erano una volta e ora non ci sono più: «Il dizionario è da aggiornare. Perché si sta affermando a livello internazionale una corrente filosofica teo-pro: intellettuali rigorosamente non credenti e decisamente “progressisti”, i quali prendono il pensiero teologico cristiano (soprattutto quello di san Paolo) e lo trasformano in un dibattito filosofico nuovo e propositivo per l’Occidente».
Come a dire: se fino a pochi mesi fa la difesa dei princìpi non negoziabili andava di pari passo con il kerigma, l’annuncio del Vangelo, ora con Francesco le gerarchie sono ribaltate. I princìpi restano, certo, ma l’accento è anzitutto sull’annuncio della misericordia.
E così non sono più i conservatori americani alla Michael Novak, Richard John Neuhaus, George Weigel, o gli atei devoti italiani alla Marcello Pera e Giuliano Ferrara - ma il direttore del Foglio, a onor del vero, non si è mai considerato tale - a essere tenuti in auge, quanto i nomi, eterogenei fra loro, che Kurt Appel, docente di teologia alla Facoltà teologica di Milano, ha percorso in un volume a più voci dedicato a Cristianesimo e Occidente. Quale futuro Immaginare? (edizioni Glossa).
Dal francese Alain Badiou all’italiano Giorgio Agamben, fino allo sloveno Slavoj Zizek, sono diversi gli intellettuali che, riscoprendo san Paolo come alternativa al relativismo assoluto e mettendo al centro del proprio pensare uno sguardo verso l’altro anzitutto di misericordia, entrano di diritto nelle file dell’“esercito” bergogliano.
Del resto il filosofo francese Rémi Brague l’aveva predetto. Nel volume del 1992 Il futuro dell’Occidente (Bompiani), introdusse la distinzione che tra cristiani e “cristianisti”, prevendendo i pericoli per la Chiesa della corrente che successivamente si sarebbe chiamata teo-con, ma non solo di quella: «Cristianista - scrive Brague -, è chi s’interessa, del (proprio) cristianesimo e non di Cristo. Vede il cristianesimo, astraendolo, come una “tavola di valori”.
E ci sono i cristianisti identitari e i cristianisti del e nel “cattolicesimo democratico”. Il cristianista identitario insiste sul tema dell’Occidente e del suo valore. Richiamando il cristianesimo come uno strumento per il persistere di una “purezza”!». Mentre «il cristianista cattolicodemocratico pratica e impone un cristianesimo come faccenda individuale e socialmente irrilevante e/o arrendevole. Irreprensibile sul piano della vita privata finisce per asservirsi al “volontarismo politico” delle sinistre riconoscendogli, con la sconfessione pratica dell’antropologia cristiana, una presunta superiorità etica».
Esiste una sintesi? Difficile rispondere. Di certo, i cosiddetti teo-pro, nonostante l’endorsement di Avvenire, non sembrano riuscire a stare nel mezzo. Anche loro rivalutano il cristianesimo, però soltanto in chiave culturale. Non c’è conversione in loro, c’è soltanto un riscatto culturale, da sinistra, del cristianesimo. La differenza fra loro e i nuovi atei, insomma, (da Richard Dawkins a Sam Harris fino a Christopher Hitchens) risiede soltanto nel fatto che per questi ultimi il cristianesimo è falso e insano. Mentre per i teo pro è un qualcosa da valorizzare ma non a cui aderire. Avvenire li prende, invece, a modello. Ma cosa diranno i settori più conservatori del cattolicesimo in merito? E cosa i teologi più illuminati del cattolicesimo oggi?
Pierangelo Sequeri, preside della facoltà teologica dell’Italia settentrionale, vede note positive. Dice, infatti, che «la corrente teo-pro è interessante perché marca una distanza netta dal pensiero debole e rappresenta una via per ridare vita all’autentico umanesimo».
Di autentico umanesimo, in effetti, parla Zizek quando in La mostruosità di Cristo (Transeuropa) spiega con San Paolo che è questo il tempo di «una vita vera nell’amore, accessibile a tutti noi attraverso la grazia». È il tempo, dice, di «un cristianesimo focalizzato sull’agape».
Eppure i rischi ci sono, come Brague insegna. Dice in proposito il sociologo Luca Diotallevi, fresco autore di La pretesa. Quale rapporto tra Vangelo e ordine sociale ( Rubbettino). «Da una parte esistono nostalgie di cristianesimo giocate come avversione alla modernità avanzata. In un certo senso la versione originale dei teo-con è la declinazione di destra di questo fenomeno. Ma ne esiste anche una di sinistra, speculare, affine alla prima.
Nella direzione opposta, è invece presente, e robusta, nel mondo anglosassone ma anche in quello francese, l’idea di un cristianesimo come vettore di un cammino che accetta e sfida la modernità avanzata per una società in cui il primato dell’amore non contrasti con una prospettiva sociale ancora più libera e aperta.
L’alternativa principale è quella tra un cristianesimo che rifiuta e uno che affronta e attraversa la modernità avanzata. Quando Tony Blair si converte al cattolicesimo dice proprio che una civitas aperta ha bisogno del cristianesimo. Nel mondo francofono è il filosofo Jean-Luc Nancy, erede di Jacques Derrida, a dire che la decostruzione, e dunque il principio dell’apertura, sono un prodotto del cristianesimo e che vive di cristianesimo.
In questo prevalere della speranza sulla nostalgia, che è anche lo spirito del Vaticano II, si può cogliere l’eco della patristica e di una lettura liberante di Agostino. Per lui, nel secolo della civitas terrena permixta alla civitas celeste l’amore alimenta la libertà e conosce e non teme il conflitto. Il filone che è stato chiamato teo-pro è esso stesso attraversato da un alternativa più profonda, intorno alla conciliabilità o meno di libertà e amore».
C’era un lord in Lucania.... *
Se pochi filosofi e letterati sanno dell’omaggio di Ugo Foscolo al filosofo delle “nozze e tribunali ed are” (“Dei sepolcri”, v. 91), moltissimi “addottrinati” ignorano ancora e del tutto che Vico per circa nove anni decisivi per la sua vita ha abitato a Vatolla, nell’antica Lucania (in particolare, nell’attuale Cilento, a poca distanza dall’antica Elea-Velia, Ascea, Paestum, Palinuro, Agropoli) e, al contempo, e che James Joyce a Giambattista Vico ha reso l’omaggio più grande che mai poeta potesse fare a un filosofo: "La strada di Vico gira e rigira per congiungersi là dove i termini hanno inizio. Tuttora inappellati dai cicli e indisturbati dai ricorsi, sentiamo tutti sereni, mai preoccupati al nostro doveroso compito... Prima che vi fosse un uomo in Irlanda c’era un lord in Lucania".
C’era un lord in Lucania (Italia): "The Vico road goes round and round to meet where terms begin. Still anappealed to by the cycles and onappaled by the recourses, we fill all serene, never you fret, as regards our dutyful cask... before there was a man in Ireland there was a lord in Lucan" (Cfr.: AA. VV., Introduzione a Finnegans Wake, trad. di Francesco Saba Sardi, Sugar Editore, Milano 1964. La citazione è ripresa dal saggio di Samuel Beckett, "Da Dante a Bruno, da Vico a Joyce", pp.9-26. La precisazione sulla Lucania e Vatolla è mia). E, ancora: nessuno sa che Giambattista Vico, stampata la sua prima “Scienza Nuova”, inviò a Londra, a Isaac Newton una copia del suo lavoro.
Dopo quasi due secoli, nei confronti di colui che ha osato disubbidire alle Leggi della Repubblica di Platone e riammettere a pieno titolo nello Stato, Omero, i “poeti”, e restituire alle donne tutta loro dignità, la rimozione continua: la cecità dei nipotini di Platone (come di Cartesio, Hegel, e Heidegger), i sacerdoti della casta atea e devota, è totale! Di fronte all’impresa e alla dipintura della Scienza Nuova perdono subito (e ancora) la loro ‘magistrale’ lucidità e ripiombano nella notte della loro “barbarie della riflessione”!
Quanto segue vuol essere solo una sollecitazione e un invito a rileggere tutta l’opera di Vico e, possibilmente, a valutare al meglio il suo grande contributo, a gloria dell’Italia, per la dignità dell’intero genere umano. Non altro.
Federico La Sala
INDICE (Testo in pdf - vedi in fondo)*:
PREMESSA
C’era un lord in Lucania....
1. VICO CONTRO CARTESIO.
2. UNA METAFISICA PER LA FISICA DI GALILEI E NEWTON. Note per una (ri)lettura del "De antiquissima italorum sapientia" (I parte)
3. IL DESIDERIO, LA RAGIONE, E DIO. Note per la (ri)lettura del “De antiquissima italorum sapientia” (II parte)
4. ESSERE GIUSTI CON VICO. Riprendere l’indicazione di Eugenio Garin.
5. LE TRE EDIZIONI DELLA “SCIENZA NUOVA”: QUESTIONI DI METODO.
6. PER LA CRITICA DELLE VERITA’ DOGMATICHE E DELLE CERTEZZE OPINABILI.
7. VICO CON NEWTON: "NON INVENTO IPOTESI"!
8. LA "BIBBIA CIVILE" RAGIONATA E GLI INTELLETTUALI ITALIANI: IL CASO COLLETTI.
9. IL DESIDERIO DI IMMORTALITA’, LA STORIA, E LA PROVVIDENZA.
10. FILIAZIONE DIVINA E PRATICA DELLA SCIENZA NUOVA: "LA MENTE EROICA". Il testo dell’orazione inaugurale del 1732
11. LA CARITA’ “POMPOSA” DI LUDOVICO A. MURATORI E IL GIUDIZIO DI VICO. Un breve estratto dalla “Prefazione ai lettori” del “Trattato sulla carità cristiana” di Ludovico A. Muratori
12. PRINCIPI DI SCIENZA NUOVA [1730, 1744]: SPIEGAZIONE DELLA DIPINTURA PROPOSTA AL FRONTISPIZIO CHE SERVE PER L’INTRODUZIONE DELL’OPERA
13. “LEMURUM FABULA”: IL PUTTANESIMO. LA BRUTTEZZA DELLA DIPINTURA TUTTA CONTRARIA [La Scienza Nuova 1730]
14. MATERIALI SUL TEMA.
* TESTO IN PDF: VICO E LA BARBARIE DELLA RIFLESSIONE (Federico La Sala, maggio 2013).
Quando la democrazia ha bisogno di un padre
Da Freud a Recalcati passando per Kelsen. Una serie di saggi fra politologia e psicanalisi
Sulla figura paterna identificata nel leader è ora riedito Psicologia delle masse e analisi dell’io (Einaudi)
di Roberto Esposito (la Repubblica, 01.05.2013)
Nulla come questa fase convulsa della vita politica italiana sembra attestare la necessità, simbolica e istituzionale, del Padre. Non per caso Eugenio Scalfari, in occasione della elezione del Presidente della Repubblica, ha potuto ripubblicare su queste pagine lo stralcio di un editoriale scritto quindici anni prima. In esso era richiamata l’esigenza, per una comunità nazionale, di riconoscersi in un’autorità al di sopra delle parti, capace di rappresentare l’interesse comune come solo un padre simbolico può fare. In assenza del quale si corre il rischio che l’insieme dei cittadini regredisca al livello primitivo di un branco mosso soltanto da spinte acquisitive non riconducibili ad un progetto condiviso. È difficile non ritrovarsi in tali parole, che oggi, alla luce di quanto successo, acquistano, oltre la forza della ragione, l’evidenza dei fatti.
Eppure si può dire che la questione sia definitivamente risolta? Che non esistano alternative possibili al regime paterno? A queste domande rispondeva, nel 1919, Paul Federn, in un testo, intitolato appunto La società senza padre, tradotto, con una pregevole introduzione di Luisella Brusa, da Artstudiopaparo. Federn era allievo di Freud, ma capace di allontanarsi da lui su un tema decisivo non solo sul piano analitico, ma anche sociopolitico. Alla fine della prima guerra mondiale, l’Europa è battuta dal vento della rivoluzione. In tale situazione, Federn immagina un passaggio epocale da una società sottoposta all’autorità verticale del padre a un’altra organizzata orizzontalmente nella relazione tra fratelli. Anche i fratelli sono stati figli. Ma possono essere governati, più che dal dominio paterno, da una sorta di diritto materno, meno repressivo e più aperto al mutamento.
L’elemento dirompente dell’analisi di Federn sta nel fatto che, pur al cospetto della rivoluzione sovietica, egli individua una potenziale società dei fratelli in quella repubblica americana costruita da una massa di emigranti giunti «oltre oceano senza padre, con la speranza che la libertà, la cui statua li accoglie e saluta nel porto, li possa trasformare in fratelli con uguali diritti».
Già qui è possibile misurare sintonie e distonie con l’impostazione di Freud, come si va configurando nel suo testo, pubblicato a due anni di distanza, Psicologia delle masse e analisi dell’io (adesso riedito da Einaudi, a cura di Davide Tarizzo). Certo, anche Freud auspica una eliminazione del senso di colpa che accompagna la subordinazione al padre. Per non dire di quella coazione alla servitù volontaria, già rilevata da Étienne de la Boétie, su cui si veda adesso Il fascino dell’obbedienza. Servitù volontaria e società depressa di Fabio Ciaramelli e Ugo Olivieri (Mimesis).
Ma, ecco la differenza, per Freud la liberazione dal padre tiranno non può che passare per la sua immagine, che non è possibile cancellare. Gli stessi fratelli che, in Totem e tabu, lo uccidono e ne mangiano le carni. Una società che volesse disfarsi del Padre, o del totem che ne prende il posto, non potrebbe resistere al conflitto che si genera tra fratelli. Non è appunto questo che ci dicono i miti di Caino e Abele e di Romolo e Remo, insieme a tutte le guerre fratricide che hanno insanguinato la storia? È inutile illudersi - del padre non si può fare a meno. Ma come va intesa la sua figura? E che forma essa può assumere nelle moderne democrazie? Una risposta radicale viene da uno dei più grandi giuristi novecenteschi, Hans Kelsen, chiamato a redigere la Costituzione austriaca del 1920 e anch’egli membro della Società psicoanalitica di Vienna. Appunto in quella sede, nel 1921, egli tenne una conferenze su La nozione di Stato e la psicologia sociale.
Con particolare riguardo alla teoria delle masse di Freud, seguita, l’anno successivo, dalla pubblicazione di un saggio dal titolo Dio e Stato. Al contrario di Carl Schmitt - che finirà per scambiare il Custode della Costituzione con il capo del nazismo - anch’egli identifica nella democrazia una “società di fratelli”, in cui il comando personale del padre si scioglie nell’impersonalità della legge. L’immagine di Dio, dell’Imperatore, e anche di un Presidente- monarca deve essere sostituita da un insieme di norme, sempre rinnovabili, espressive del patto di fratellanza.
Si tratta di un tema decisivo, questo della fonte del potere, che non è possibile affidare alla sola competenza dei politologi, perché investe aspetti psicologici e simbolici cui essi spesso non hanno accesso. Che ne è del padre nella stagione della sua “evaporazione”, come si espresse Jacques Lacan? In più di un saggio di rara intensità, l’ultimo dei quale è Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre (Feltrinelli), Massimo Recalcati avanza una tesi di estremo interesse: il padre di cui abbiamo bisogno è un padre assente, la cui funzione non è quella del comando, ma della testimonianza di ciò che non sta nella nostra disponibilità, del limite che taglia come un’alterità ineludibile la nostra esperienza.
Ma il problema che resta aperto è appunto questo: è possibile tradurre il puro nome del padre assente in una forma istituzionale che ne trasformi l’autorità in potere effettivo? E che ne sarebbe, in questo caso, di quella società dei fratelli che il pensiero democratico, nonostante le tante smentite storiche, non può esimersi dal pensare? È possibile, insomma, sfuggire alla macchina della teologia politica che da duemila anni ci tiene prigionieri?
Siamo fratelli, quindi nemici
Valeria Egidi Morpurgo (Il Sole-24ore, 4 aprile 2013)
“Noi proveniamo dal Cyberspace, la nuova casa della Mente. Nell’interesse del Futuro, noi vi chiediamo, uomini del passato, di lasciarci da soli. Voi non siete benvenuti tra noi. Voi non avete alcuna sovranità dove noi ci incontriamo”.
“Noi stiamo creando un mondo dove tutti possono accedere senza privilegi o pregiudizi indotti dalla razza, dal potere economico e militare o dal luogo di nascita”.
(Dichiarazione di indipendenza del Cyberspace di John Perry Barlow, 1996) .
Compare, (o ricompare) nel manifesto di Barlow, che ricalca la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti (1776) il sogno di un mondo nuovo, contrario all’autorità e a qualsiasi forma di gerarchia a partire da quella generazionale. Qui e altrove la “filosofia della Rete” si esprime in una sorta di utopia egualitaria: che favorisce, nelle iniziative volte a condividere la conoscenza, e nella parificazione dei contributi di ognuno, una democrazia costituita dal basso, una “società dei fratelli”. Ma sogni e progetti di fratellanza a che prezzo si pagano?
Freud, proprio un secolo fa, con Totem e tabù (1912-14), raccontava il cupo “mito scientifico” fondativo della civiltà umana: il parricidio primitivo del padre dell’Orda.
Eccone la trama. All’origine della civiltà, modellata sul calco di un’osservazione di Darwin sui primati superiori, un violento Padre primordiale è il possessore esclusivo dei beni e delle femmine del gruppo, e ne vieta con violenza l’accesso ai figli. Finché un giorno (in un tempo metastorico) i figli si aggregano, cospirano contro il genitore tiranno e lo uccidono. Successivamente, angosciati dalle lotte fratricide, i fratelli si pentono del parricidio, e dopo una elaborazione durata per generazioni si uniscono in una sorta di contratto sociale che dà vita alle leggi e alle istituzioni sociali, a cominciare dall’esogamia (tramite il divieto dell’incesto) e dal divieto di omicidio. Infine trasformano la figura del padre morto in una figura divina e danno origine al Dio delle religioni monoteistiche.
Dei legami tra una sorta di fratelli e un capo Freud tratta poi in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) testo che continua a disturbare la nostra tranquillità intellettuale in cui studia due “masse” artificiali, organizzate e stabili: l’Esercito e la Chiesa. Freud scava nei legami di idealizzazione per così dire “verticali” dei “figli” con i capi, che nel suo esempio sono Cristo e il capo dell’esercito. Al tempo stesso descrive i legami “orizzontali”, reciproci, tra i “figli”/sudditi, che si legano tra loro in quanto fratelli nella fede, o come fratelli d’arme, in virtù del legame di ognuno con il capo supremo. Il legame tra i fratelli è basato sull’identificazione reciproca di ogni io individuale con l’altro io ed è perciò un legame di tipo narcisistico, ben diverso dai legami, detti “libidici” in cui vi è la scoperta e il riconoscimento dell’altro da sé come autonomo.
L’ipotesi ha conseguenze inquietanti, perché in questa ottica il capo, in quanto ideale (dell’Io) di ogni individuo, condiviso dal gruppo, “diventa” letteralmente la coscienza di ogni soggetto, sostituendosi ad essa. Basti pensare al fanatismo di massa, e poco importa se sia politico, religioso o di altro genere, per accorgersi della portata di queste idee freudiane.
René Kaës, geniale studioso dei fenomeni di gruppo nel Complesso fraterno (2009) nota invece che i fratelli dell’Orda si ribellano ad un padre che nega il mandato transgenerazionale, tradendo la generazione dei figli, e sottolinea, scostandosi da Freud, che l’alleanza dei fratelli dopo la rielaborazione del parricidio “fonda” l’autorità, non la riscopre. La fonda perché basa il patto sociale sulla rinuncia di ogni singolo membro del gruppo ad appropriarsi del potere dispotico del Padre Primitivo. Di qui Kaës sviluppa lo studio di quell’intreccio di aspetti emotivi tipici dei gruppi paritari, degli aggregati di fratelli e sorelle uniti in fratrie reali o simboliche, che definisce “complesso fraterno”
In ogni gruppo di “fratelli” Kaës individua la presenza di forze coesive di tipo narcisistico da un lato e di aspetti di differenziazione, che arrivano all’aggressività fratricida, dall’altro. Le istanze narcisistiche, e anche qui Kaës innova il pensiero freudiano, spiegano come i “fratelli” possano costituire gruppi che ammettono solo individui omologati, conformisti. Al contrario un gruppo può favorire lo sviluppo delle specificità individuali se ammette il principio di specializzazione delle generazioni e la conflittualità “fraterna”.
Insiste sul disoccultamento e l’accettazione della conflittualità anche un autore di scuola psicoanalitica argentina, Luis Kancyper, che usa l’espressione di “complesso fraterno” per indicare l’aspetto narcisistico del conflitto fraterno, e il suo intreccio con il conflitto generazionale. Con un mito, la storia biblica di Giacobbe, autore di un doppio inganno (inganna il padre e così carpisce la primogenitura al fratello Esaù) che deve cambiare il suo nome e il suo omen, per ordine divino, l’autore mostra che se si accetta l’esistenza dell’ostilità e della conflittualità tra pari si può anche riparane i danni.
Si potrebbe allora pensare che una società egualitaria (o un gruppo)che si costituisce sull’evitamento del confronto con gli aspetti conflittuali nel rapporto con i fratelli (“reali” o simbolici o virtuali che siano)si espone a gravi rischi. Si può finire in una ricerca di omologazione che paralizza ogni movimento e impedisce il riconoscimento dell’individualità e nella ricerca del “controllo totale”. Azione che viene esercitata dal gruppo dei “fratelli” nei confronti di altri gruppi (o di un sottogruppo interno) in modo altrettanto dispotico di come la esercitava il Padre primitivo o i suoi successori. Si rischia di destarsi dal sogno egualitario per trovarsi (Kaës, Op. cit., p. 265)in un incubo: il Big Brother orwelliano.
Luis Kancyper, Il complesso fraterno. Studio psicoanalitico, Borla, 2008
René René Kaës Il complesso fraterno, Borla, 2009
Elogio della filosofia
Michel Serres: “Altro che economia, l’Europa è una questione di Logos”
L’epistemologo francese si confronta con Kurt Hilgenberg “Dobbiamo trovare noi le giuste risposte alla crisi”
Qual è il contributo della filosofia alla formazione del pensiero europeo?
«Credo i contributi siano tre: la filosofia della storia, la filosofia del diritto e la filosofia della conoscenza o della scienza. E, in primo luogo, dal punto di vista della filosofia della storia mi pare che l’Europa sia il luogo in cui è più viva la consapevolezza di possedere un’antichità. Nelle altre culture non c’è antichità, cioè una rottura netta tra una civiltà morta e una civiltà che ricomincia. E, quindi, in Europa, c’è una duplice fonte: quella dell’antichità greco-latina da un lato e, dall’altro, della tradizione giudeo-cristiana che le succede. E nell’idea che ha formato l’intelletto europeo, mi pare che ci sia quest’idea di biforcazione: un’antichità da un lato e poi, dall’altro, un cambiamento di direzione; non è più l’antichità greco-latina, diventerà quella giudeo-cristiana, pur conservando l’apporto greco e latino. Cioè, appunto, una biforcazione ma, al contempo, la conservazione di ciò che vi è stato in precedenza. Questo, per quanto riguarda la filosofia della storia. Poi, relativamente alla filosofia della conoscenza, nella tradizione greco-latina c’è l’idea del logos greco, dell’astrazione greca. E quest’idea di astrazione proseguirà a lungo nella filosofia. Ma d’altra parte, però, con il Rinascimento, in Europa assistiamo all’invenzione della fisica sperimentale. Quindi, quest’astrazione si proietterà nella concretezza, con una sorta di nuovo concetto che associa al contempo astratto e concreto. E anche questa è una caratteristica tipicamente europea. Infine, nella filosofia del diritto, la cosa più importante è vedere che in Europa c’è una dualità tra i paesi di diritto romano e i paesi che potremmo definire come di diritto anglosassone, cioè di diritto consuetudinario. E anche in questo caso troviamo da un lato l’idea di un logos astratto, di un’astrazione e dall’altro un’applicazione alla realtà».
Questo per il passato. Ma oggi, la filosofia può ancora al pensiero sull’Europa?
«Credo che la particolarità dell’Europa sia di aver inventato qualcosa che ci riguarda in modo molto concreto, nel senso che credo che sia stata l’Europa a inventare la nozione di “individuo”. Questa nozione è già in parte presente nei Greci, in parte nel diritto romano di cui ho parlato prima, ma è distintamente presente nel pensiero a partire dal Rinascimento. Il Rinascimento costituisce nuovamente una biforcazione rispetto al Medioevo, in cui si manifesta un tratto tipicamente europeo, l’idea d’inventività e insieme la capacità di inventare l’individuo. Il processo avviato con il Rinascimento dura ancora oggi, cioè in un periodo in cui l’individuo è veramente nato: con le nuove tecnologie, ad esempio, si vede benissimo che c’è una sorta di creazione di un nuovo individuo, in un quadro di trasformazioni radicali. Oggi parliamo molto della crisi economica senza accorgerci che la crisi economica forse è solo un fenomeno prodotto da crisi molto più profonde. Per esempio, in paesi come l’Italia, la Francia, la Germania o l’Inghilterra, all’inizio del Novecento, la metà degli abitanti erano contadini. Oggi abbiamo solo lo 0,8% di contadini. Quindi, nel ventesimo secolo, assistiamo a una crisi enorme a livello di rapporto con il mondo, di rapporto con la natura. In secondo luogo, quando sono nato io, il mondo aveva un miliardo e mezzo di abitanti. Oggi siamo sette miliardi e mezzo di persone. Di conseguenza, per i contadini non è più lo stesso mondo, per la democrazia mondiale non sono più le stesse persone. E oggi la speranza di vita è di 84 anni per le nostre compagne e, di 77 anni, credo, per gli uomini. Ma, solo cent’anni fa, la speranza di vita era di 50 anni e duecento anni fa era di 40 anni. Quindi, non è più lo stesso pianeta. Ne consegue, che la filosofia oggi deve individuare dei concetti nuovi, relativi non solo all’economia ma al posto dell’uomo nel mondo. In particolare, la filosofia può aiutare una futura Europa interrogandosi sul modo in cui gli individui si costituiranno in nuove comunità, e chiedendosi se ci sono nuove comunità da inventare. Questa è filosofia politica, un ambito in cui l’Europa è stata estremamente fertile nell’Ottocento, mentre lo è stata molto meno nel Novecento. Credo che bisognerebbe rilanciare l’idea di filosofia politica inventando nuove appartenenze ed è questo che, un po’ alla cieca, sta cercando l’individuo moderno».
Quindi, biforcazione, individuo, comunità sono i concetti centrali di un’Europa filosofica. Oltre ai concetti, le chiedo se esistono degli oggetti che esprimono l’Europa nel modo più completo.
«Il suo è un indovinello... A prima vista, direi che è un oggetto enorme, la cattedrale. Perché le cattedrali sono presenti in Inghilterra, in Francia, naturalmente, a Colonia, in Germania, a Milano, ovunque in Europa. La prima è forse Santa Sofia, a Costantinopoli. Dunque la cattedrale simbolizza bene l’Europa, ma è un oggetto di un’altra epoca. Ma sono state inventate nuove cattedrali, come il Cern, a Ginevra: ecco un’istituzione europea, una comunità europea, la costruzione di una cattedrale straordinaria e qualcosa, dal punto di vista scientifico, di prettamente europeo. Non contempla minimamente di applicare la scienza e di applicarla a interessi economici. Si tratta solo di ricerca pura, di ricerca disinteressata e questo è tipicamente tedesco, tipicamente francese, tipicamente italiano. Sì, il Cern è una buona idea, è una nuova cattedrale».
Qual è la via che i giovani devono o dovrebbero percorrere per arrivare a un nuovo pensiero europeo?
«La mia prima risposta è consistita nel dire: ciò che c’è di originale nel pensiero europeo è la biforcazione rispetto all’antichità, la biforcazione rinascimentale rispetto al Medioevo, cioè l’idea che l’avvenire è imprevisto, che è inventivo, che è inatteso. Anche oggi ha luogo una biforcazione. Come dicevo, oggi siamo degli individui, siamo meno tedeschi di una volta, meno italiani di una volta, meno francesi di una volta perché sappiamo che la nazione ci è costata milioni di morti e, dunque, non ne abbiamo più bisogno. E stiamo pensando che le comunità antiche sono un po’ desuete, un po’ obsolete. Ora, l’idea su cui, credo, bisognerebbe un lavorare sarebbe quella di chiedersi in che modo degli individui, siano essi di Cosenza, di Berlino o di Parigi, potrebbero riuscire a inventare una nuova comunità politica che non sia dominata da istituzioni antiche, concepite in un’epoca in cui il mondo non era ciò che è diventato. Ci sono dei matematici che, una decina di anni fa, si sono posti la seguente domanda: con quante telefonate un abitante di Cosenza può raggiungere un abitante di Berlino o di Parigi? Una persona qualsiasi che chiama un’altra persona qualsiasi. Hanno fatto dei calcoli e si sono accorti che con sette telefonate chiunque sul pianeta può chiamare chiunque altro. Ma alcuni mesi fa il calcolo è stato rettificato perché ci si è accorti che con le grandi reti presenti sul web si poteva scendere a quattro. E quindi, chiunque nel mondo, tenendo in mano il cellulare, può chiamare chiunque altro con quattro telefonate. I matematici hanno chiamato questo teorema, “teorema del mondo piccolo”, un mondo in cui posso chiamare chiunque altro, virtualmente, con quattro telefonate. Il che dimostra che abbiamo cambiato completamente spazio. Nel corso della storia, chi avrebbe potuto dire “ora, tenendo in mano il mondo...”? Forse Augusto, l’imperatore romano. Possiamo immaginare un’epoca della storia in cui avrebbero potuto esserci miliardi di Augusto?».
E quasi settant’anni di pace, almeno in buona parte dell’Europa.
«Sono abbastanza vecchio per sapere che l’Europa è un miracolo, perché ho conosciuto le guerre e il fatto che non ci siano più frontiere mi pare una cosa miracolosa. E quali che siano le critiche che si possono muovere all’Europa, non bisogna dimenticare che tutti i libri di storia ci dicono che le guerre sono sempre causate da una crisi economica. Ora, ormai da vent’anni siamo in una crisi economica e, che io sappia, non ci sono state guerre. Quindi, l’Europa è perfettamente efficace a livello di istituzioni visto che è in corso una crisi, una crisi comune che, però, non ha scatenato carneficine come nel caso delle crisi precedenti».
* la Repubblica, 08.04.2013
La prima Giornata dei giusti che ricorda tutti i genocidi
di Gabriele Nissim (Corriere della Sera, 4 marzo 2013)
Le celebrazioni per la Giornata dei giusti in Europa hanno un risultato sorprendente: per la prima volta si è aperto un processo di condivisione delle memorie. Da Milano, a Praga, a Varsavia, a Bruxelles, a Sarajevo si ricorderanno gli uomini che si sono assunti una responsabilità personale di fronte ai genocidi e ai totalitarismi.
Finora era impensabile che in un’unica giornata gli armeni ricordassero la Shoah assieme alla tragedia che ha colpito il loro popolo, che gli ebrei ricordassero assieme al più terribile genocidio della Storia le vittime di altri massacri in Ruanda o in Cambogia, che nei Paesi dell’Est assieme ai perseguitati del comunismo si ripensasse alla sorte degli ebrei durante il nazismo, dopo tanti anni di rimozione storica.
Questa difficoltà di condivisione non era campata in aria ma aveva ragioni molto serie. Il mondo ebraico, con in testa il memoriale di Yad Vashem, aveva giustamente timore che un processo di comparazione potesse annacquare le responsabilità del mondo nei confronti dello sterminio ebraico.
Ci sono voluti anni perché la riflessione sulla Shoah diventasse patrimonio di tutta la comunità europea e solo in questi ultimi anni in Francia, in Polonia, in Ungheria, in Ucraina si è aperto un dibattito sulle complicità dei loro Paesi e delle loro popolazioni durante lo sterminio nazista.
D’altronde gli armeni consideravano del tutto secondario occuparsi dei genocidi degli altri, quando il loro genocidio continuava a essere rimosso e dimenticato e la Turchia minacciava tutti coloro che se ne interessavano. E oggi le organizzazioni che si battono in Russia per la memoria dei gulag, come Memorial e Nomi restituiti, si trovano in grande difficoltà per il vento nazionalista di Putin che è riuscito a creare una cortina fumogena nei confronti del passato totalitario in nome della difesa della purezza della nazione.
Così per tanti anni il mancato riconoscimento delle responsabilità ha non solo impedito un dialogo fecondo tra le memorie, ma ha rallentato un processo di condivisione di un destino comune, pur all’interno di situazioni differenti.
Ognuno ha pensato esclusivamente alla propria storia e così spesso in Europa si è assistito a una sorta di concorrenza sul valore delle rispettive memorie, come se si dovesse stilare una gerarchia delle sofferenze e ci fossero vittime più significative delle altre.
Il risultato è dunque che un giovane, che vive a Praga, a Varsavia o a Bucarest, non ha la stessa percezione del passato di un giovane italiano, inglese o francese, quando invece una memoria condivisa dovrebbe unire tutti i cittadini europei. A Budapest si è arrivati al paradosso che per ricordare le vittime del comunismo si coprivano le responsabilità di quanti, come l’ammiraglio Horty, sono stati responsabili delle leggi antisemite.
Con la valorizzazione della memoria dei Giusti, ottenuta dall’approvazione della dichiarazione del Parlamento europeo del 10 maggio del 2012, si sono finalmente incrinati degli steccati che sembravano difficilmente ricomponibili.
Il motivo di questo inizio di metamorfosi è di tipo etico. Il richiamo al tema della responsabilità personale, incarnato da tutti gli uomini, che pur con tutte le loro imperfezioni si sono battuti per la dignità dell’altro uomo, permette di creare un inaspettato movimento di empatia.
L’uomo giusto è infatti colui che è stato capace di mettersi nei panni degli altri e di ergersi come un piccolo argine nei confronti del male. Questo tipo di esperienza, da parte di chi ha rischiato la propria vita per gli altri, è stata per certi versi simile nella Shoah, come in Ruanda o nel genocidio armeno.
Quando si riconosce questa similitudine nei comportamenti umani, da parte di chi ha avuto il coraggio di assumersi una responsabilità, diventa più facile comprendere come, al di là di tutte le differenze che hanno segnato i diversi totalitarismi, diventi fondamentale intraprendere un percorso comune e condiviso di tutte le memorie del male. È infatti l’universalizzazione della Shoah, come quella degli altri genocidi, che rende più forte le loro memorie e non la loro contrapposizione.
In tutte queste circostanze gli uomini sono stati chiamati a fare delle scelte sul valore della sacralità della vita e purtroppo solo pochi ne sono stati capaci. È attorno a questo enigma, che - come ha osservato Jan Karski - ha portato alla degenerazione morale di società intere, che diventa importante riflettere sulle storie degli uomini giusti.
Essi insegnano agli europei che la sfida in ogni tempo è sempre la stessa: ogni uomo ha sempre la possibilità di salvare il mondo nel suo piccolo, non aspettandosi che altri lo possano fare per lui.
Emmanuel Lévinas, come ricorda il filosofo Bernhard Casper, che con lui aveva avuto modo di discutere sulla sua esperienza durante la sua prigionia nello Stalag 1492, un campo per prigionieri vicino ad Hannover, gli aveva confidato come di fronte a una violenza gratuita priva di senso che sfuggiva a ogni comprensione, l’unica cosa che gli aveva permesso di resistere era quella voce interiore che gli diceva: «Tu, però, ama. Tu non uccidere e non lasciare l’Altro nel suo essere mortale». Ecco il segreto dei giusti: la responsabilità come l’ultimo baluardo della propria dignità quando l’umanità ha perso la bussola e ogni riferimento morale.
Kant
La città del filosofo rivuole il suo nome
La località russa di Kaliningrad chiede un referendum per tornare alla denominazione originaria di Koenigsberg
In questo modo potrebbe sfruttare per turismo la fama legata all’intellettuale: ma le polemiche non mancano
I nazionalisti legati a Mosca dicono no: "È solo una manovra politica contro Putin"
di Nicola Lombardozzi (la Repubblica, 21.02.2013)
MOSCA Qualcuno si chiede già come l’avrebbe presa lui, il grande filosofo Immanuel Kant che riposa nel suo mausoleo a due passi dalle acque del Baltico. Di certo avrebbe partecipato al dibattito che sta animando tensioni e polemiche tra i suoi concittadini.
Tutto nasce da una questione antica: restituire o meno alla città russa di Kaliningrad il nome originario di Koenigsberg perduto alla fine della Seconda Guerra mondiale, quando l’Armata Rossa sovietica strappò alla Germania nazista quel lembo di Prussia Orientale. Kaliningrad adesso è un territorio ex clave della Russia, incastonato tra Polonia e Lituania.
I suoi cittadini, quasi tutti di origine russa dopo il lento esodo della popolazione tedesca, vivono un rapporto conflittuale con la madre Patria. Chiedono maggiore autonomia e soprattutto sognano di aprirsi sempre di più verso l’Europa Occidentale.
Non per niente a Kaliningrad tutte le componenti, anche clandestine, di opposizione al Cremlino trovano un terreno molto fertile: dagli attivisti anti- corruzione, ai difensori dei diritti umani fino agli ecologisti. Per questo la proposta viene vista con sospetto dai politici della capitale.
Il movimento promotore, guidato dal deputato liberale Solomon Ginzburg ha già raccolto 5mila firme in pochi giorni e conta di arrivare al tetto di 25mila necessario per convocare un referendum. Le motivazioni sono due. La prima è quella di destalinizzare la città intitolata a uno dei padri dell’Urss, Mikhail Kalinin, protagonista delle sanguinose epurazioni degli anni Trenta. L’altra è quella di puntare sul turismo usando come testimonial il filosofo.
Difficile da far digerire a parte della popolazione che è parente diretta degli eroi sovietici che combatterono l’invasione nazista. Per questo, cautamente Solomon promette di far indire il referendum dopo il 2015 quando sarò celebrato il settantesimo della Vittoria e propone di ritornare a nome di Koenigsberg solo poco prima del 2024, trecentesimo anniversario della nascita del filosofo.
Ma le polemiche sono durissime. Qualcuno ci vede la tentazione di "ri-germanizzare" il territorio «vanificando il sacrificio delle vittime della Guerra Patriottica». Altri una semplice azione di disturbo alla presidenza Putin. Capita così che molti compagni di partito di Ginzburg si dissocino: «Vogliamo onorare e sfruttare la memoria di Kant? Facciamolo alla russa. Chiamiamo la città Kantograd, o Kantsk, oppure Kantejevka».
di Franca D’Agostini (la Repubblica, 13.02.2013)
Perché Machiavelli piace ai filosofi tardo-moderni o postmoderni (se è lecito ancora usare questa espressione, estremamente equivoca)? Semplice: perché è il filosofo che emancipa la politica dalla filosofia, e la lascia viaggiare da sola, sulle ali del potere. L’ha ricordato Giancarlo Bosetti su Repubblica del 22 gennaio, citando Gramsci (la grande “rivoluzione intellettuale” dell’autonomia della politica), e Isaiah Berlin (crollo definitivo della philosophia perennis, e ingresso nell’era del pluralismo postfilosofico).
Ma forse è proprio il duplice mito dell’autonomia della politica, e della fine della philosophia perennis, ciò a cui dobbiamo rinunciare. In fin dei conti Machiavelli (come Carl Schmitt) fu un grande analista del potere come coercizione, ma ciò di cui parlava era il potere oligarchico, o monocratico. Mentre sappiamo che in democrazia (che è “government by discussion”) il potere è anzitutto pensiero (e ragionamento, e discorso).
Due libri appena usciti rovesciano il paradigma machiavelliano, e rilanciano l’idea del legame strettissimo, anzi quasi inestricabile, tra filosofia (proprio quella philosophia perennis che a Berlin non piaceva) e politica democratica. Il primo è Resisting Reality, di Sally Haslanger, epistemologa sociale dell’Mit (Oxford University Press), e il secondo è Disputandum est. La passione per la verità nel discorso pubblico di Antonella Besussi, filosofa della politica alla Statale di Milano (Bollati Boringhieri).
Haslanger applica i risultati della metafisica analitica alle questioni di giustizia. Il punto di partenza è la denuncia del clamoroso e in certo modo ingenuo fraintendimento che ha portato a pensare alle teorie costruttiviste della conoscenza come teorie che annientavano la realtà, sottoponendola a qualche oscura forza modellante (il potere, la soggettività, il linguaggio, gli schemi concettuali).
Questo fraintendimento è stato caratteristico tanto dei critici del costruzionismo quanto di alcuni suoi sostenitori. Si veda per esempio la professione di antirealismo da parte di alcuni settori del femminismo (il concetto di realtà come residuo di una metafisica “logocentrica”), a cui giustamente rispondeva nel 1987 Catharine MacKinnon, ricordando che sbarazzarsi del riferimento alla realtà per i soggetti politici che ne subiscono gli urti è suicida oltre che assurdo.
Dice Haslanger, la nozione di costruzione sociale (o epistemica) ha da Kant in avanti una funzione critica molto precisa: serve a discutere quelle metafisiche perverse che danno per scontato che essere un afroamericano, un omosessuale, una donna, comporti alcune conseguenze date e non negoziabili, e vincoli perciò i portatori di tali determinazioni a subire una serie di condizioni socialmente inique. Ma certo, se ci si sbarazza della metafisica, ovvero della riflessione su che cosa è un omosessuale, una donna, o in generale che cosa è un essere umano, la revisione delle idee condivise su queste “costruzioni” diventa impossibile.
Per esempio, l’aggancio della decisione politica alla discussione sulle “credenze prime e ultime”, come dice Besussi, potrebbe servirci per capire bene che la tesi secondo cui la famiglia richiede l’alleanza uomo-donna non ha più reali fondamenti in quel che sappiamo degli uomini, delle donne, e delle relazioni tra gli uni e le altre. Certo, si può continuare a sostenerla, ma allora deve essere chiaro che lo si fa per pure questioni di potere (per esempio, per favorire una parte politica che figura come espressione di una metafisica dogmatica), e non perché la tesi in questione sia (creduta) vera.
La proposta di Besussi, detto in breve (perché il libro è ricco di argomenti ed esemplificazioni) va in direzione di una “normatività non autosufficiente”. Nota Besussi che la nostra cultura politica si è come inchiodata a ciò che si chiamerebbe la strategia della separazione (estensione del famoso principio di Bökenförde, per cui lo Stato laico non ha fondamenti e non vuole averne).
«Il caso esemplare è rappresentato dalle guerre civili europee tra cattolici e protestanti. Chiuderle è stato possibile a condizione di riconoscere che se ci si uccide per stabilire qual è la religione vera, smettere di farlo richiede che la questione sia privata di rilevanza politica». Questa procedura «sposta credenze metafisiche nel territorio extrapolitico delle convinzioni assolute, apprezzabili purché politicamente mute».
Ma qui è precisamente il punto: che convinzioni false o discutibili non sono affatto apprezzabili, e l’errore per di più è considerarle “assolute”, pertanto non sottoponibili alla discussione circa la loro discutibilissima verità.
Europa e Shoah, la legge del silenzio
di Furio Colombo (il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2013)
Come entra il parlare di Israele, qui, oggi, come voi mi avete chiesto, del mio libro dal titolo disperato La fine di Israele, che Il Saggiatore ha pubblicato nel 2007? Intanto vi sono grato di questo invito, e sono grato di questa vostra scelta. Di dichiarare il 27 gennaio il vostro giorno della memoria. Perché mi consente di ritrovare e collegare alcuni momenti della mia vita anche lontani tra loro, ma tutti legati da un filo che non si può rompere.
Uno avviene nella mia classe al liceo D’Azeglio, subito dopo la fine della guerra e il ritorno a Torino. In quel liceo, in quella classe, dove tutti i miei insegnanti avevano partecipato alla Resistenza o erano stati comandanti partigiani, noi studenti chiediamo, con inutile insistenza, ai professori: “Perché non si parla delle leggi razziali? Perché ci comportiamo come se non fossero mai esistite o fossero un episodio fra tanti di una guerra terribile?”. La risposta, detta o non detta, è sempre stata la persuasione che la Resistenza ci aveva liberato non solo dal fascismo ma da tutti gli orrori del passato.
Quando, molti anni più tardi mi trovo a narrare, come giornalista, la guerra dei Sei giorni, spostandomi tutto il tempo dalle alture del Golan al Sinai, dalla Giordania al Negev, da Gerusalemme a Suez, mi rendo conto, dall’immensità dell’attacco (tutto il mondo arabo in armi finanziato da tutto il petrolio in quel momento disponibile nel mondo) scende sul piccolo Stato con l’impegno di eliminarlo, e capisco due cose. La prima è che la vera colpa di Israele è di esistere. A quel tempo non c’era alcuna politica di Israele che potesse essergli imputata come espansionistica o aggressiva (dalle alture del Golan, se mai, addestrati cecchini siriani sparavano e uccidevano nelle finestre delle più vicine case israeliane, situate molto più in basso). La seconda è che non c’è un dopo Shoah, come c’è un dopoguerra, perché la spaventosa vicenda viene usata come una colpa (“le vittime sono diventate i carnefici”), come una conferma (“di chi è la colpa se gli ebrei sono tanto odiati?”) o come un inganno (l’intero movimento negazionista, dall’Europa agli Stati Uniti, fino alla continua invocazione del presidente iraniano Ahmadinejad persino di fronte all’Assemblea generale dell’Onu).
Ma nel “dopo Shoah” che non può venire si apre ben presto la questione del Sionismo. Fino al punto da equiparare il sionismo al razzismo in una risoluzione formale delle Nazioni Unite che resterà in vigore per un decennio senza particolari reazioni di tutti gli Stati membri, con l’eccezione degli Stati Uniti. L’Europa, Stati, governi, Unione, università e mondo della cultura, non ha mai dato segno di esistere a garanzia dello Stato di Israele o almeno della volontà e capacità di fermare e mediare il conflitto.
In Italia la questione del Sionismo (ovvero della ostilità e condanna del sionismo) è diventata subito politica, una bandiera sollevata, purtroppo, non solo dalla Destra ma anche dalla Sinistra. Infatti una parte della sinistra italiana ha preteso di ignorare che il mondo e la visione di Theodor Herzl (vedi il suo unico romanzo, Altneuland - Nuova Terra) era un sogno socialista del tutto simile, per il Medio Oriente, a ciò che il Manifesto di Ventotene è stato per l’Europa.
Quando, nel 1987, mi è stato chiesto di scrivere l’introduzione al primo studio universitario americano sulle leggi razziali in Italia (The Italians and the Holocaust di Susan Zuccotti, Nebraska University Press) ho ripreso l’argomento che ha sempre orientato la mia vita pubblica e che mi avrebbe portato a scrivere, presentare, sostenere fino alla approvazione della Camera e del Senato italiani, la Legge che istituisce questo giorno, “il Giorno della Memoria”.
In Italia non può esserci un dopo Shoah perché la cultura del Paese non ha mai riconosciuto la sua parte di colpa. In Italia quel tremendo delitto è stato trasferito, come in un evento psicanalitico, alla responsabilità di altri, nazisti e tedeschi. L’Italia ha voluto vedere se stessa come un Paese vittima, dunque, non un Paese che, con il suo governo di allora, molti attivissimi partecipanti italiani, le sue leggi dettagliate e ignobili approvate all’unanimità e l’immenso aiuto del silenzio, è stata complice del delitto.
In quella introduzione ho scritto ciò che - alcuni anni dopo - avrei ripetuto nelle “considerazioni preliminari” che precedono i due articoli della Legge sul Giorno della Memoria: La Shoah è un delitto a cui l’Italia ha partecipato, e soltanto sapendolo e riconoscendolo può tentare di diminuire il senso della vergogna. L’Europa, pacificata al punto di diventare Unione Europea invece che teatro di ricorrenti massacri, è nata dai campi di sterminio, con i sentimenti, le immagini, le parole, l’indicibile esperienza che ci hanno lasciato cittadini fondatori di un mondo salvato, come Primo Levi ed Elie Wiesel. E uomini che hanno tentato la salvezza dei sommersi, come Raul Wallenberg e Giorgio Perlasca. Ma proprio per questo l’Europa, dove tutto è avvenuto con la immensa complicità del silenzio, non può fingere di non avere responsabilità per la sopravvivenza di Israele. Proprio questo ho voluto dire nel mio libro, La fine di Israele, con il suo titolo estremo. Ho voluto dire ciò che non può accadere. È l’unico passaggio - per l’Europa che della Shoah è stata protagonista e responsabile - di entrare nell’era sconosciuta del dopo-Shoah.
Non si può insegnare la Shoah ai bambini
Nell’anniversario della liberazione di Auschwitz, domenica 27 gennaio si commemorano le vittime dell’Olocausto. Parla lo storico Bensoussan
Di questa tragedia si parla troppo perché se ne parla male, in maniera compassionevole per le vittime
Invece si tratta di una grande questione politica e antropologica che rappresenta una cesura, una rottura nella civiltà occidentale
di Alberto Mattioli (La Stampa, 22.01.2013)
Professore, il 27 è la Giornata della Memoria.
«È importante celebrarla. Ma bisogna avere ben chiaro che in realtà l’Unione Europea l’ha istituita per celebrare la rifondazione dell’Europa. L’unità europea è stata costruita sull’antinazismo e il simbolo del nazismo, ciò che lo differenzia dall’altro grande totalitarismo, il comunismo, è appunto la Shoah. È la Giornata della Memoria europea, non ebrea. È l’Europa dei lumi contro la notte della ragione».
Sulla memoria, la Francia ha ancora del lavoro da fare?
«L’idea della complicità di Vichy, dunque dello Stato francese, è recente. Nel ’73 fu uno storico americano, Robert Paxton, a pubblicare i primi studi sull’argomento. Ormai la tradizionale visione binaria Resistenza-collaborazionismo non regge più. In mezzo c’è una vasta zona grigia. All’inizio della persecuzione, la maggioranza dei francesi, e le élite in particolare, non protestarono affatto. Anche se è difficile valutare l’evoluzione dell’opinione pubblica in un regime dittatoriale, la svolta avvenne nel 1942 quando iniziarono le rafles, le retate. La caccia all’ebreo indignò molti francesi. Ma, in generale, è sbagliato avere una visione monocolore. La Francia non è stata solo Vichy e non è stata solo la Resistenza. E per fortuna circa tre quarti degli ebrei francesi si sono salvati».
Perché?
«Intanto perché la Francia è grande e fatta anche di foreste e di montagne. E poi non dimentichiamoci che la Francia del Sud, la cosiddetta zona libera, fu occupata solo per venti mesi. Infine, parte di questa zona fu occupata dagli italiani. I documenti tedeschi sono pieni di lamentele contro gli italiani che proteggono gli ebrei e addirittura li sottraggono alle retate della polizia francese».
Lei ha polemizzato con Nicolas Sarkozy che aveva proposto che ogni bimbo francese ricostruisse la storia di un bimbo ebreo deportato.
«Semplicemente, da storico ho fatto presente che l’idea era benintenzionata ma assurda. Non si può insegnare la Shoah ai bambini, non si può mostrare loro Treblinka. Perché è una memoria troppo pesante, troppo dura da portare e finisce per colpevolizzarli. Si può, anzi si deve, insegnare loro cosa c’è intorno alla Shoah, cosa sono il razzismo o l’intolleranza. Alle elementari puoi parlare di Anna Frank. Delle camere a gas, no».
Sulla memoria, c’è qualcosa che si potrebbe fare e non si fa?
«Forse avere ben presente che, dal punto di vista storico, la memoria è una trappola. La memoria non è la storia, è una religione. E non serve a ricordare, ma a dimenticare, perché è fatalmente selettiva. Per questo lo storico è disincantato e deve esserlo. Mi spiego con un esempio che non c’entra con la Shoah. Nel 1985 furono ricordati con grande riprovazione i 300 anni della revoca dell’editto di Nantes, quello che aveva concesso agli ugonotti la libertà di culto. Tre anni dopo, lessi il Code noir, cioè l’insieme delle leggi che regolavano la schiavitù nelle colonie francesi. Bene. Sa in che anno Luigi XIV l’aveva promulgato? Nel 1685. Solo che il suo terzo centenario non l’aveva ricordato nessuno».
Insomma, della Shoah si parla troppo?
«Se ne parla troppo perché se ne parla male. Cioè se ne parla in maniera compassionevole per le vittime, mentre la Shoah è un’enorme questione politica e antropologica. Politica, perché pone il problema di come un popolo civilizzato abbia scientemente deciso di eliminarne un altro. Antropologica, perché rappresenta una cesura, una rottura nella civiltà occidentale. Lo capirono per primi certi intellettuali cattolici del dopoguerra, come Maritain, Claudel o Julien Green. Poi il tema è stato ripreso dagli Anni 70 con uno studio della Shoah che si è giovato di nuovi strumenti, per esempio la psicanalisi».
Ma a livello mediatico, lei dice, è troppo presente.
«C’è una saturazione della memoria. Il discorso sulla Shoah, sui giornali, nei film, in televisione, è talmente invadente e basato soltanto sul pathos da diventare banalizzante. La nostra è una società compassionevole, dove lo status di vittima è quello più ambito. Dunque ognuno vuole avere la sua Shoah. E Auschwitz viene continuamente evocato per situazioni completamente diverse. Fino al paradosso di paragonare sulla questione palestinese i nazisti di ieri agli israeliani di oggi, che è una bestialità».
Ultima domanda e anche personale. La Shoah non è un soggetto troppo duro per dedicarle la vita intera?
«È sicuramente un soggetto sconvolgente. Ci si salva con un humour nero che per i non addetti ai lavori potrebbe risultare scandaloso, politicamente molto poco corretto. È lo stesso che hanno i medici o chi è tutto il giorno e tutti i giorni alle prese con la sofferenza. Però vivere quotidianamente a contatto con la Shoah ti rende anche molto acuto sulla realtà di oggi. Ti si drizzano le antenne, stai più attento a quel che senti. E capisci che le parole sono sempre la prima tappa della tragedia».
*
In libreria
Molti, come sempre, i titoli che gli editori mandano in libreria in occasione del Giorno della Memoria. Tra gli altri segnaliamo:
Hans Keilson, Commedia in minore , Mondadori (p.136, € 10); Bruno Apitz, Nudo tra i lupi , Longanesi (pp. 461, € 18,60); Sam Pivnik, L’ultimo sopravvissuto. Una storia vera (Newton Compton, pp.326, € 9,90); Janusz Korczak, Diario del ghetto (Castelvecchi, pp. 118, € 14); Francesco Roat, I giocattoli di Auschwitz (Lindau, pp. 294, € 19,50); Lia Levi, Lungo il cammino delle stelle e Maria Konopnicha, Mendel di Danzica (entrambi Sipintegrazioni); Lena Muchina, Il diario di Lena (pp. 372, € 16,50); Léon Poliakov, Storia dell’antisemitismo (Bur, pp. 350, € 14,50); Fabio Amodeo e Mario José Cereghino, La lista di Eichmann (Feltrinelli, pp. 201, € 16); Göran Rosenberg, Una breve sosta nel viaggio da Auschwitz (Ponte alle Grazie, pp. 354, € 15,80); Sami Modiano, Per questo ho vissuto. La mia vita ad Auschwitz-Birkenau e altri esili (Rizzoli, pp. 280, € 18). Infine torna in versione fumetto, realizzato da Vincent Bailly e Kris e con prefazione di Walter Veltroni, il romanzo di Joseph Joffo Un sacchetto di biglie ( Rizzoli Lizard, pp. 128, € 15).
SAGGI
Le lezioni di Ernst Bloch dedicate all’opera di Kant per Mimesis
Una rimozione che riempie la scena
Nuova edizione di un libro dimenticato che mostra la sua attualità nel capitalismo del lavoro cognitivo
di Fabrizio Denunzio (il manifesto, 16.01.2013)
Francia. Maggio 1974. In linea con una grande tradizione di giornalismo culturale, José Marchand porta davanti agli schermi televisivi del suo paese uno dei più importanti filosofi marxisti del Novecento: Ernst Bloch. Nella lunga intervista rilasciata al giornalista, il filosofo tedesco ripercorre tutte le tappe di una vita scandita da amicizie, opere ed eventi che hanno segnato profondamente il secolo passato. Gli eventi. Le due guerre mondiali; la fuga in Svizzera per sfuggire alla prima poiché pacifista radicale, quella in America per sottrarsi al totalitarismo tedesco perché ebreo e comunista; il trasferimento, alla fine del Secondo conflitto, nella Rdt (l’ex Repubblica Democratica Tedesca); il mancato rientro in questi stessi territori dopo la costruzione del muro di Berlino (si trovava in Baviera quando la divisione venne alzata); l’ultimo periodo a Tubinga.
Le opere. In questo vortice di eventi Bloch scrive opere decisive come Spirito dell’utopia (1918) e Il Principio Speranza (1959), attraverso cui cerca di arricchire il marxismo con categorie inconsuete poiché per nulla economicistiche quali, per l’appunto, la speranza e l’utopia. Queste, nelle loro definizioni più forti e suggestive rappresentano, la prima non un «affetto, in opposizione alla paura, bensì speranza come atto cognitivo, come atto di conoscenza»; la seconda «una realtà oggettiva e reale. Rappresenta un principio di lotta (...) Nell’utopia ritroviamo la rivoluzione, l’apocalisse e la morte».
Le amicizie. Decisivi, nella formazione di questo dispositivo di pensiero, l’ambiente culturale berlinese degli anni Venti del Novecento in cui Bloch si muove. In primo luogo, il sodalizio con l’altro grande marxista del secolo, György Lukács. Poi, gli incontri con quei filosofi che fonderanno e gireranno attorno all’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte (o, come amava ripetere, per la «falsificazione» sociale, trasformando l’originale Sozialforschung in Sozialfälschung): Theodor W. Adorno, Siegfried Kracauer e Walter Benjamin. Infine, la figura di notevole prestigio intellettuale pubblico della Berlino di quegli anni con cui Bloch si incontra e scontra: Georg Simmel, fondatore della sociologia. Nel corso dell’intervista televisiva rilasciata a Marchand, il filosofo marxista parla di tutto ciò e di molto altro. Eppure, qualcosa non dice. Cosa e perché?
L’editore Mimesis, con il titolo La filosofia di Kant (traduzione e cura di Vincenzo Scaloni), ha da poco mandato in libreria le lezioni tenute da Bloch sull’argomento negli anni compresi dal 1951 al 1956. Risalgono al periodo in cui insegnava all’Università di Lipsia, nella Germania dell’Est dove dirigeva, presso l’Università Karl Marx, l’Istituto di filosofia. Dal testo, e dai risultati delle ricerche degli specialisti, si deduce il ruolo centrale svolto da Kant nell’intero dispositivo di pensiero blochiano.
Stando così le cose, c’è da chiedersi perché, nel momento di massima esposizione mediale - una lunga intervista per la televisione francese - Bloch, ricordando quasi tutti i suoi referenti filosofici, non menzioni proprio Kant. Mentre non lesina continui riconoscimenti all’amatissimo Hegel, al quale aveva dedicato la monografia Soggetto-Oggetto, all’autore della Critica della ragion pura non dedica neanche un pallido ricordo. In più, parlando degli gli anni di insegnamento a Lipsia dice di aver tenuto «tre corsi di storia della filosofia da Talete fino a Heidegger», non quello egualmente importante e impegnativo su Kant.
Questa mancanza sembra tanto più significativa quanto più si pensa al tono «intimo» che Bloch ha voluto dare all’intervista: «Vorrei parlare come se fossi tra amici e raccontassi loro qualcosa della mia vita e del mio lavoro». Da questa vita e da questo lavoro, però, davanti alle telecamere, Kant è escluso.
L’uscita di queste lezioni kantiane, allora, sembra riportare in primo piano tale mancanza. Volendo usare metaforicamente il linguaggio freudiano, si potrebbe dire che La filosofia di Kant faccia riemergere ciò che Bloch ha rimosso nel corso dell’intervista televisiva, rimozione che solo ora, nell’attuale fase di trasformazione strutturale del lavoro da materiale a immateriale, diventa pienamente comprensibile smettendo, così, di essere rimossa. Sì perché l’indubbia importanza di questo libro sta tutta qui, nel modo in cui Bloch, inaspettatamente, pone il lavoro, o meglio, un certo tipo di lavoro, quello cognitivo, al centro di uno dei passaggi più difficili della Critica della ragion pura. Solo insistendo su questa dimensione di teoria sociale il testo si collega alla nostra attualità, diversamente rimane uno strumento, prezioso sì, ma confinato all’interesse specialistico e di quanti vogliano introdursi agevolmente nella filosofia kantiana (da questo punto di vista le lezioni di Bloch sono insuperabili poiché si sviluppano a ridosso dell’intera opera di Kant, tenendo assieme chiarezza e complessità).
Il passaggio in questione è di ordine epistemologico, riguarda, come gran parte della Critica della ragion pura, problemi di teoria della conoscenza. Lì dove Kant designa come «operazione dell’intelletto» quella compiuta dal soggetto di congiungere nella sua coscienza la molteplicità della rappresentazioni dategli dall’intuizione, Bloch, da marxista, vi vede «tematizzato il fattore lavoro, il fattore soggettivo nella conoscenza». In questa sintetizzazione del molteplice nel concettuale, l’unico modo che per Kant abbiamo di conoscere l’esperienza e di porre così il mondo Bloch riconosce un’attività strettamente produttiva e costruttiva del soggetto, un vero e proprio lavoro. Questo lavoro, però, riguarda la conoscenza, è «solo» cognitivo.
Molto probabilmente sta qui la ragione della rimozione di Kant nel corso dell’intervista televisiva. Dovendo «esporsi» su di un filosofo, Hegel assicurava maggiori sicurezze. Bloch, infatti, nella monografia Soggetto-Oggetto, di cui parla appassionatamente a Marchand, aveva spostato il centro di gravità della suddetta coppia di categorie, verso il soggetto. Alla fine degli anni Quaranta del Novecento, il libro esce nel 1948 in Messico tradotto in spagnolo, per un filosofo marxista questo soggetto non poteva essere altro che la classe operaia sovietica, il cui modello di lavoro era ancora la grande fabbrica che produceva a livello planetario. Va da sé che di fronte alla triade Classe-Fabbrica-Stato e al relativo modello di lavoro che la sostiene, quello cognitivo kantiano è destinato, e anche giustamente visto il momento storico in cui Bloch lo definisce, alla rimozione.
Eppure, oggi ritorna. Solo ora possiamo vedere il «fattore soggettivo nella conoscenza» di cui ci parla Bloch pensando alle operazioni intellettive di connessione e sintesi svolte dal soggetto kantiano, per quello che è: un modello di lavoro immateriale, uno di quelli che quotidianamente si «eseguono» negli apparati di comunicazione. Lo stesso a cui si è attenuto Bloch quando, in televisione, nel corso dell’intervista rilasciata a Marchand, non ha fatto altro che connettere i vari momenti della sua vita e sintetizzare il senso complessivo della sua opera. Così facendo le ha trasformate in un bene immateriale destinato ad un grande pubblico.
Questa correlazione tra teoria della conoscenza, nuovi modelli di lavoro e scienza sociale ci è chiara solamente oggi che i media hanno dispiegato tutta la loro potenza, non da ultima la rete, e che la comunicazione è diventata uno dei momenti propulsivi dello sviluppo capitalistico contemporaneo.
Siamo realisti, riconosciamo che l’etica è soggettiva
Nel dibattito sul “New realism” interviene Flores d’Arcais: Putnam ha torto, la divisione tra giudizi di fatto e di valore è invalicabile
Non ci sono valori veri (o falsi) ma solo valori creati. Siamo noi i signori del bene e del male
di Paolo Flores d’Arcais (La Stampa, 11.12.2012)
Se il New realism si limitasse a rivendicare semplicemente - contro la tesi ermeneutica che «non ci sono fatti, solo interpretazioni» - l’esistenza «là fuori» di una realtà che prescinde da noi, saremmo alla banalità, al«pensiero debole» sostituito dal «pensiero futile». Che ci saranno lombrichi e galassie, anche quando non ci saremo noi, lo ammette per primo Vattimo, immagino. Ma il New realism, ci dice Putnam, afferma molto di più, non riguarda solo la verità (meglio: l’accertabilità) degli asserti scientifici, bensì il rifiuto di riconoscere una divisione di principio tra giudizi di fatto (scienza) e giudizi di valore (etica). Perché entrambi riscontrabili nella realtà. E invece no. Il New realism di Putnam ha torto (ma il New realism di Eco o di Ferraris è già differente), quel confine è intransitabile.
In primo luogo è semplicemente falsa l’affermazione di Putnam secondo cui «la scienza presuppone sempre valori epistemici come la coerenza o la semplicità». Quei valori possono influenzare, motivare o addirittura guidare il ricercatore nello «scremare» fra le ipotesi, ma alla fine contano solo gli esperimenti cruciali, che corroboreranno come scientifica una teoria anche se meno elegante delle ipotesi concorrenti(il bosone di Higgs, per dire, è sommamente inelegante e complicato).
In secondo luogo «valori epistemici» e «valori morali» non hanno nulla in comune, poiché è l’aggettivo a fare la differenza essenziale. E la questione fondamentale è proprio se i valori morali abbiano una realtà oggettiva come i fatti empiricamente accertabili, o siano invece creati dai diversi gruppi umani (e infine dai singoli individui) e dunque ineludibilmente relativi a ciascuno di essi.
Per il New realism di Putnam sono legati all’oggettività, sostenere il contrario è un errore (p. 37 di Fatto/valore, fine di una dicotomia, ed. Fazi). Quando usiamo aggettivi come crudele e malvagio o sostantivi come crimine intrecciamo inestricabilmente scopi normativi e accertamento descrittivo (p. 40). Dire perciò che «il signor X è crudele» sarebbe riscontrabile nel fatto stesso del suo comportamento. La cui valutazione sarebbe «intersoggettivamente cogente» (se la parola «oggettivo» disturba i puristi) quanto l’affermazione «la composizione chimica dell’acqua è H2O» (più «impurità residue», altrimenti qualche sofista obietta).
Ma, purtroppo per Putnam, mentre questa seconda affermazione è vera (intersoggettivamente accertabile in modo cogente), la prima è strutturalmente soggettiva, relativa ai valori morali (che possono essere agli antipodi) di chi la pronuncia. Diamo un nome al «signor X»: l’indimenticabile top model Verusckha racconta come a scuola (siamo già nel dopoguerra) venisse isolata e ingiuriata sottovoce come figlia del traditore, poiché suo padre, il conte Henrich von Lehndorff, aveva preso parte al fallito attentato a Hitler del 20 luglio 1944. Quell’attentato, che per Putnam e per me è stato «eroico», è invece «crimine»per due o tre generazioni di tedeschi (che probabilmente leggono Goethe e ascoltano Beethoven), milioni dei quali approvavano i Lager per i «malvagi» ebrei, zingari e comunisti.
Insomma, da un insieme di fatti accertabili non si potrà mai dedurre un giudizio di valore univoco, poiché i valori fondamentali che guidano i nostri giudizi morali non sono dati in natura, non sono conoscibili come i fatti, e meno che mai sono scolpiti eguali e indelebili in tutti i cuoriumani. Della specie Homo sapiens fanno parte allo stesso titolo (ahimè) tanto Francesco d’Assisi quanto Adolf Hitler, tanto la «volontà di eguaglianza» quanto la «volontà di potenza», tanto i fautori della democrazia quanto quelli della teocrazia o del Führerprinzip.
Perciò non esistono valori veri (o falsi), ma solo valori creati. Di cui ciascuno di noi è esistenzialmente responsabile, proprio perché la nostra responsabilità non si limita (come vorrebbe Ratzinger e ogni altro cognitivista etico, religioso o meno che sia) a riconoscere valori «oggettivamente» dati (dove?): siamo i creatori e signori «del bene e del male» secondo scelte incompatibili ( aut la democrazia aut la teocrazia o il Führerprinzip: non è questione di conoscenza, ma di lotta). Questa responsabilità abissale ci terrorizza, ma è ineludibile.
Leggendo il filosofo tedesco e Platone si capisce meglio
La società dei minorenni
Ne bamboccioni né “choosy”
I giovani d’oggi ce li spiega Kant
di Umberto Curi (Corriere La Lettura, 02.12.2012)
Il copyright è saldamente nelle mani di Tommaso Padoa-Schioppa. Nell’ottobre del 2007, l’allora titolare del ministero dell’Economia nel secondo governo Prodi aveva infatti definito «bamboccioni» quei giovani che, sulla soglia dei trent’anni, continuavano a vivere in casa con i genitori. Benché duramente contestata, quella espressione era destinata ad aprire la strada a un vero florilegio di definizioni, analoghe nel contenuto, anche se differenti nella forma.
Nel giro di pochi anni, malgrado l’avvicendarsi dei governi, i giovani sarebbero stati chiamati «mammoni» (Brunetta, ministro del governo Berlusconi), «sfigati» (Martone, viceministro del governo Monti), «monotoni» (Monti, presidente del Consiglio), «choosy», più o meno: schizzinosi (Fornero, ministro del governo Monti), solo perché non avevano ancora conseguito la laurea, o perché aspiravano a un posto fisso, in un mercato del lavoro in cui la flessibilità è in realtà un eufemismo per indicare la precarietà.
Non si può dire che le polemiche divampate dopo queste esternazioni siano state un modello di eleganza o di rigore concettuale. Eppure, al fondo di un dibattito culturalmente desolante vi sarebbe in realtà una questione tutt’altro che banale o trascurabile. La si potrebbe riassumere nei termini seguenti: come si diventa maggiorenni? Assodata l’insufficienza del criterio puramente anagrafico, in base al quale la maggiore età coinciderebbe con il raggiungimento dei 18 anni, a quali parametri razionalmente definibili ci si può riferire per valutare la fuoriuscita dalla minorità? E poi: davvero basta abitare da soli, o essere disponibili a cambiare lavoro, per allontanare da sé l’infamante epiteto di choosy?
Una risposta appena un po’ meno occasionale a questi interrogativi può essere rintracciata in due testi filosofici, la cui importanza - anche per la comprensione di alcuni temi legati alla diatriba di cui parliamo - è abitualmente ignorata, o almeno non adeguatamente valorizzata. Da una secca definizione della minorità prende le mosse anzitutto un saggio di Immanuel Kant, tanto rilevante quanto per lo più negletto, anche perché offuscato dalla risonanza suscitata dalle tre Critiche. Essa non dipende affatto, secondo il filosofo, dall’età, ma consiste piuttosto in una carenza decisiva, quale è «l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro».
È opportuno sottolineare che lo scritto kantiano compare originariamente non in una rivista filosofica specializzata, ma in quello che si potrebbe definire un periodico di «varia umanità», quale era la «Berlinische Monatsschrift», in risposta a un interrogativo proposto nel fascicolo precedente da un religioso, il quale chiedeva che qualcuno si prendesse la briga di spiegare «che cos’è l’Aufklärung».
Conservare, almeno provvisoriamente, il termine tedesco non è una inutile civetteria, ma corrisponde all’esigenza di evitare i fraintendimenti ai quali ha dato luogo la traduzione italiana corrente, e gravemente negligente. Mentre, infatti, nel testo originale Aufklärung indica insieme quel movimento culturale che è stato chiamato «Illuminismo» e il «rischiaramento», inteso come processo mediante il quale è possibile «fare chiarezza», la traduzione italiana appiattisce l’ambivalenza del termine tedesco, rendendolo univocamente con «Illuminismo».
Mentre è del tutto evidente che l’iniziativa assunta da Kant con la sua Risposta, pubblicata nel gennaio del 1784, non è motivata dalla volontà (che sarebbe poco comprensibile) di offrire una definizione tecnica di un movimento filosofico, quanto piuttosto dalla ben più significativa esigenza di spiegare in che modo si possa realizzare il «rischiaramento» intellettuale.
Ne è prova il testo del saggio, scritto in maniera limpida e particolarmente incisiva, senza alcuna concessione a «tecnicalità» filosofiche, presumibilmente inadatte al pubblico eterogeneo a cui si rivolgeva la rivista. Aufklärung - scrive Kant - è uscire dallo stato di minorità, è avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza, senza soggiacere alla guida di altri. Più esattamente, essa si identifica con una decisione - quella di diventare Selbstdenker, vale a dire letteralmente «uno che pensa con la propria testa». Né questo monito deve apparire scontato o pleonastico.
Al contrario, secondo il filosofo, «la stragrande maggioranza degli uomini ritiene il passaggio allo stato di maggiorità, oltre che difficile, anche pericoloso», e dunque preferisce sottrarsi a quella «fastidiosa occupazione» che richiede l’uso libero delle proprie capacità intellettuali. «È così comodo - sottolinea ancora l’autore delle Critiche - essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che valuta la dieta per me eccetera, non ho certo bisogno di sforzarmi da me».
Di qui una conclusione linearmente deducibile dalle premesse poste: se si vuole diventare maggiorenni, è necessario sottrarsi alla custodia di quei tutori che costantemente invitano a non ragionare («L’ufficiale dice: non ragionate, fate esercitazioni militari! L’intendente di finanza: non ragionate, pagate! L’ecclesiastico: non ragionate, credete!»), usando invece sistematicamente la propria intelligenza, senza soggiacere alla presunta autorità altrui. Insomma, minorenni - o se si preferisce «bamboccioni» - si può essere a qualunque età. Lo è anzi chiunque fra noi eviti di pensare con la propria testa, delegando di conseguenza ad altri questa «fastidiosa occupazione».
Un ragionamento convergente con quello contenuto nel saggio kantiano si ritrova già in uno dei Dialoghi platonici più noti, anche se spesso misinterpretato. Al centro del Sofista, infatti, vi è la ricerca, condotta da due personaggi presumibilmente «giovani» (tale è se non altro con certezza Teeteto, mentre il suo interlocutore, presentato come lo Straniero, proveniente da Elea, è giovane se non altro nel senso della sua condizione di discepolo rispetto al «grande» Parmenide), impegnati a fornire una definizione della figura del sofista.
L’indagine a due voci prosegue a ritmo serrato, e con esiti apparentemente soddisfacenti, fino a che i protagonisti si imbattono in una difficoltà che minaccia di compromettere radicalmente l’impresa nella quale si stanno cimentando.
Per poter sostenere la conclusione alla quale sono pervenuti, e cioè che il sofista è colui che esercita l’arte di far apparire ciò che non è, essi dovrebbero implicitamente riconoscere che anche il non essere, da un certo punto di vista è, mentre l’essere, sia pure da un certo punto di vista, non è. Ma questa affermazione contraddice frontalmente un divieto, quello proveniente dal «padre» Parmenide, secondo il quale il non essere è «inesprimibile», «impronunciabile», «illogico».
La situazione nella quale si vengono a trovare Teeteto e lo Straniero appare dunque inchiodata a un’alternativa drammatica: piegarsi all’osservanza della proibizione parmenidea, con ciò tuttavia privandosi del logos, e dunque perdendo la possibilità di dire alcunché, ovvero avere il coraggio di epitíthesthai tó patrikó lógo - «dare l’attacco al discorso paterno».
L’impiego di una metafora bellica non è casuale nel contesto di un dialogo in cui ritornano insistentemente termini desunti dal lessico polemologico. Serve a sottolineare quanto delicata sia la scelta che si è chiamati a compiere, quanto sia letteralmente vitale - «questione di vita o di morte», si legge nel testo platonico - la posta in gioco.
È noto il compimento di questo percorso. Onde riprendere la possibilità di parlare e di pensare, i due interlocutori saranno indotti a «torturare» il padre e a «usare violenza» su di lui, giungendo al punto da sfiorare il parricidio.
Per quanto temerario possa apparire questo esito, esso resta l’unica possibile via da percorrere, l’unico modo per riguadagnare il cammino, uscendo dalla mancanza di strada, dall’a-poria, dunque, in cui ci si era imbattuti. Mentre, infatti, Parmenide vorrebbe «trattarci da bambini», «raccontandoci delle favole» e «dialogando con noi con atteggiamento di sufficienza», è imperativo per noi riprenderci il logos, e assoggettare a un vaglio rigoroso le affermazioni «paterne».
Dopo questa autentica svolta, improntata alla rinuncia a ogni filiale subordinazione, la ricerca che si era incagliata può riprendere, giungendo speditamente alla sua conclusione. Teeteto e lo Straniero sono diventati maggiorenni. Non subiranno più i divieti del padre «venerando e terribile». Non accetteranno di farsi trattare da bambini, né si accontenteranno di ascoltare delle favole.
Il compimento dell’intenso drama descritto da Platone ci riporta alla Risposta kantiana. Essere maggiorenni non è un dato di carattere anagrafico, né una condizione statica, nella quale si possa dire di risiedere stabilmente. È una conquista, che impegna energie morali, come il coraggio e la decisione, e risorse intellettuali. Ed è la meta, mai definitivamente raggiunta, di una lotta anzitutto con se stessi, con la viltà di chi preferisca affidarsi alla tutela altrui.
E forse allora si può comprendere fino in fondo il senso dell’affermazione kantiana quando rileva, con un realismo spinto fino al disincanto, che minorenne è ancora la stragrande maggioranza degli uomini. Insomma, per quanto possa apparire paradossale, i giovani che al giorno d’oggi stanno lottando per guadagnarsi la loro autonomia sono meno bamboccioni di coloro che ripetono acriticamente le formule imposte da altri. Manca un mediatore tra le generazioni
Teeteto e lo Straniero sono diventati maggiorenni. Non subiranno più i divieti del padre "venerando e terribile". Non accetteranno di farsi trattare da bambini, né si accontenteranno di ascoltare delle favole.
di Corrado Ocone (Corriere della Sera La Lettura, 02.12.2012)
Non c’è dubbio che il dibattito pubblico italiano degli ultimi tempi sia come attraversato da una retorica giovanilista, spesso fatta propria da quelle persone anziane e ben collocate che a tutto pensano fuorché a farsi da parte. È una retorica che riproduce, col segno cambiato, il modo di ragionare di certe stucchevoli apologie della vecchiaia come età della saggezza, di cui parla Bobbio nel suo De Senectute.
Il filosofo torinese, a ben vedere, ci dà anche la chiave per ragionare sulla dicotomia giovani-vecchi, invitandoci a considerare la questione almeno sotto tre aspetti: l’età anagrafica, quella biologica e quella psicologica o soggettiva. Non dimenticando che oggi essere o sembrare giovani è diventato quasi un obbligo, sicuramente una moda, e comunque una tendenza che l’industria dei consumi asseconda promuovendo diete, lifting, modi di vivere che ci facciano sembrare sempre giovani.
Però l’aspetto più rilevante della questione è che, nel giovanilismo diffuso e praticato, si sia come persa l’importante funzione di elaborazione e trasmissione del sapere che un tempo regolava il rapporto fra le generazioni. E che quasi accompagnava per mano i giovani nel crescere. Una funzione che si esplicava in istituzioni appositamente create per adempiere a questo scopo. Le quali oggi, anche se continuano ad esistere formalmente, si sono di fatto, tranne pochissime eccezioni, svuotate dell’aura che la funzione esercitata finiva per conferire loro.
Era inimmaginabile ad esempio che chi facesse politica non si fosse formato nelle scuole di partito, o lavorando a fianco di un politico navigato. Le carriere nella pubblica amministrazione, ma anche nel privato, seguivano percorsi ben definiti, che potevano certamente essere accelerati da coloro che erano dotati di un particolare ingegno, ma che comunque non potevano essere ignorati come accade oggi nelle assunzioni per «chiamata diretta».
Per non parlare dell’Università, ove era sempre il docente che cooptava, ma allora lo faceva avendo cura di scegliere i più bravi: sia perché teneva al prestigio derivante dall’autorevolezza morale, sia per continuare la tradizione di pensiero con cui si identificava e a cui spesso aveva dedicato la sua vita di studioso. Il Maestro, come veniva chiamato (nessuno avrebbe osato chiamarlo barone), non aveva certo bisogno, per individuare i continuatori del suo impegno, degli astratti metodi quantitativi oggi in voga, fatti apposta, sembrerebbe, per avvalorare nuovi imbrogli. Persino le parrocchie e le scuole religiose svolgevano una funzione di «educazione alla vita».
Ora, con tutto questo non si vuole certo esaltare il buon tempo antico, che aveva anch’esso i suoi limiti e i suoi difetti. Anche perché di acqua ne è passata tanta sotto i ponti e non si può pensare di fermare il mondo, il che, oltre che stupido, sarebbe anche ingiusto: oggi già un adolescente si trova immerso in una rete di dati ed è sottoposto all’azione di una quantità di «agenzie formative» (diciamo così con un eufemismo).
Quel che si vuole constatare è semplicemente un fatto, che tocca a noi capire e regolare, o (se lo riteniamo) contrastare: il problema del rapporto fra giovani e vecchi riguarda anche la generale scomparsa del «terzo», nella fattispecie dei luoghi di mediazione e di formazione in cui giovani e meno giovani, interagendo, potevano reciprocamente arricchirsi e completarsi, perché anche chi non è più giovane ha bisogno di rinfrescare il suo sapere, di sottoporlo alle naturali e irriverenti forze vitali che rompono le incrostazioni o le abitudini consolidate.
Scomparsa del «terzo» è anche il rinchiudersi delle generazioni in loro stesse: i leader non vogliono mollare il potere perché non danno per garantito che i nuovi continuino la loro opera; i giovani vogliono semplicemente quel potere, dimentichi che il vero nuovo deve porsi in rapporto dialettico con il vecchio, «superandolo» e non semplicemente «rottamandolo». «Il Partito democratico invece di rinnovarsi si limita a cambiare di nome, laddove i nomi dei suoi dirigenti restano invariabilmente gli stessi», osserva Antonio Funiciello nel libro A vita (Donzelli).
Ma il discorso non riguarda solo la politica. Può una società funzionare a lungo con il «principio del terzo escluso»? Il rapporto fra le generazioni, senza un luogo di mediazione, non rischia di porsi su un terreno aspramente conflittuale? E a chi giova un antagonismo fra vecchi e giovani non sulle idee, come in passato, ma solo sulle posizioni di potere da occupare? Più in generale: è possibile sottrarre il rapporto fra generazioni a una logica dicotomica che trascura il carattere chiaroscurale del mondo? Introdurre qualche elemento di consapevolezza è già un primo tentativo di risposta a queste domande.
Sospensione della democrazia grazie alla crisi
Verso un cesarismo europeo *
«Un oggetto di cristallo, se lo gettiamo a terra, si rompe, ma non in un modo qualsiasi: si rompe seguendo le sue direzioni di sfaldatura, in pezzi la cui delimitazione, benché invisibile, era tuttavia predeterminata dalla struttura del cristallo stesso». Questa constatazione, stabilita da Sigmund Freud negli anni ’30 (1) a proposito dei malati mentali, si applica anche ai malati politici, al primo posto dei quali vi è l’Unione Europea, struttura incrinata e fessurata come non mai.
La crisi economica apertasi nel 2007 ha rivelato le contraddizioni inerenti alla costruzione europea. In particolare, ha dimostrato che l’Unione si appoggia a un regime politico autoritario, intrinsecamente in grado di sospendere le procedure democratiche invocando l’urgenza economica o finanziaria. Nel corso degli ultimi quattro anni istituzioni sfuggenti a ogni controllo popolare, quali la Banca centrale europea (BCE) e la Commissione europea, hanno così imposto - con la collaborazione attiva delle classi dominanti di questi Paesi - il loro foglio di via obbligatorio ai popoli irlandese, ungherese, romeno, greco, italiano, spagnolo, portoghese, francese, ecc. Il Patto di Bilancio europeo (Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance TSCG), il controllo di bilancio degli Stati membri e la sorveglianza delle banche da parte dell’Unione ampliano questo movimento (2). Come definire questa forma di governo dei popoli senza i popoli?
Per comprendere la natura del nuovo regime politico europeo conviene ritornare sulle quattro fasi della crisi. Tutto ha inizio nell’agosto 2007. Quando la più grande banca francese, BNP Paribas, annuncia il blocco degli attivi di tre dei suoi fondi d’investimento, giustificandolo con la propria incapacità di dare loro una valutazione, l’Unione Europea non dispone di alcuna risorsa finanziaria propria che le permetta d’intervenire: anche se la moneta unica ha suscitato l’emergenza in banche che operano a livello del continente, la supervisione della loro attività resta prerogativa degli Stati. La BCE inietta importanti volumi di liquidità, senza che sia ancora progettata un riforma in profondità del sistema finanziario.
Il fallimento della quarta banca d’investimenti del mondo, Lehman Brothers, nel settembre 2008, dà il segnale d’inizio alla seconda fase della crisi. Esso porta il sistema finanziario internazionale sull’orlo del fallimento e provoca una contrazione del credito (credit crunch) di grande ampiezza. Per la prima volta nel dopoguerra l’economia mondiale affonda nella recessione.
La risposta viene dapprima dal G20 e dalle banche centrali delle principali economie del pianeta: tutti riconoscono la necessità di misure anticicliche provvisorie. Al Consiglio europeo del 15 e 16 ottobre 2008 i governi annunciano la ricapitalizzazione degli istituti di credito in difficoltà e promettono di garantire i prestiti bancari. A livello dell’Unione Europea, due istituti aumentano il loro potere: la BCE e la Direzione generale della concorrenza (DGC), che costituiscono i veri e propri centri di pilotaggio nella tempesta. Poiché sono prive di legittimazione elettorale, il loro rafforzamento si intensifica in misura inversamente proporzionale a quello della democrazia dell’Unione.
Terza fase: alla fine del 2009 l’Europa diventa l’epicentro della crisi globale. S’innesca allora una spirale infernale: decollo dei tassi d’interesse del debito pubblico dei Paesi periferici, generalizzazione delle misure d’austerità, crescita a mezz’asta o in caduta libera. Nella tormenta Paesi sovrani incastrati in una moneta unica si trovano alla mercé di attacchi speculativi dal momento in cui la BCE rifiuta di fornire la sua garanzia.
Da Bonaparte a Mario Draghi
Maggio 2010. Il primo piano di salvataggio della Grecia pone Atene sotto la tutela della «troika»: Fondo monetario internazionale (FMI), BCE e Commissione europea. Nella sua scia i tassi d’interesse dell’Irlanda e del Portogallo, seguiti da quelli della Spagna e dell’Italia, impazziscono, annullando l’ipotesi secondo la quale la Grecia sarebbe un caso particolare. Allo stesso tempo viene alla luce un Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF). Malgrado l’opposizione di una parte delle elite continentali, la BCE amplia il campo delle sue prerogative e si mette ad acquistare buoni del Tesoro sul mercato secondario.
Questi cambiamenti si uniformano agli interessi della finanza. Klaus Regling prende il comando del FESF. Ex dirigente del FMI, del ministero delle Finanze tedesco e della Commissione europea, ha realizzato una parte della sua carriera nella finanza privata, lavorato nel corso degli anni ’80 per l’Associazione federale delle banche tedesche, diretto un fondo speculativo (hedge fund) a Londra fra il 1999 e il 2001 e svolto attività di consulente privato a Bruxelles.
Caso simile: Jacques de Larosière. Ex direttore generale del FMI, alto funzionario del Tesoro francese, poi consigliere di Michel Pébereau, presidente-direttore generale di BNP Paribas, nel febbraio 2009 ha diretto un gruppo di esperti che ha fornito alla Commissione europea un rapporto sulla riforma dell’architettura finanziaria europea. Quattro degli otto membri di questo gruppo sono o sono stati legati agli istituti finanziari Goldman Sachs, BNP Paribas, Lehman Brothers e Citigroup.
Nel corso della quarta fase, che inizia in luglio 2011, la crisi dei debiti sovrani della periferia dell’Europa si estende ad alcuni Paesi del cuore storico dell’Unione, come l’Italia, che vede i tassi d’interesse del suo debito balzare in alto rispetto a quelli pagati dalla Germania. L’insieme del continente precipita nuovamente nella recessione, mentre i Paesi del sud affondano nella depressione. Contemporaneamente la crisi si politicizza sempre più. Le tensioni si ravvivano a livello internazionale fra Paesi europei, soprattutto in seno alle società più malmenate dalle turbolenze economiche: Spagna, Italia, Portogallo e Grecia.
Il ruolo svolto dall’Istituto della finanza internazionale (IIF) si rivela cruciale. Sorta di lobby dei grandi istituti finanziari mondiali, questo organismo ha fatto gravare tutto il suo peso sui rappresentanti dei governi nazionali e dell’Unione. È stato direttamente coinvolto nei negoziati sulla riforma dell’architettura finanziaria europea, arrivando per esempio a fare fallire la proposta di una nuova tassa per il settore bancario (3).
Quando in ottobre 2011 il primo ministro greco Georges Papandreu ha annunciato la sua intenzione di indire un referendum sul nuovo piano di aiuti, i governi europei si fanno minacciosi. Nicolas Sarkozy evoca per la prima volta l’eventualità per la Grecia di un’uscita dall’euro. Papandreu dimissiona; è sostituito, alla testa di un «governo di unità nazionale», da Lucas Papademos, ex banchiere centrale ad Atene e a Francoforte.
In Italia Silvio Berlusconi subisce la medesima sorte. Dopo che il commissario agli Affari economici e monetari Olli Rehn aveva indirizzato all’Italia, in novembre 2011, una lettera che esigeva drastiche riforme economiche e fiscali, è costretto a rassegnare le dimissioni. È sostituito da Mario Monti, clone transalpino di Papademos, Larosière e Regling. Ex commissario europeo incaricato della concorrenza, Monti ha presieduto l’European Money and Finance Forum, un think tank che riunisce finanzieri, politici e docenti universitari, ed è stato consulente di Goldman Sachs e Coca-Cola.
L’incapacità dei governi nazionali di affrontare la situazione porta a un’accelerazione dell’integrazione europea. Il nuovo trattato in corso di ratifica inquadra rigidamente le politiche nazionali di bilancio, sottoponendole allo stretto controllo da parte della Commissione e degli altri governi. Il principio che «la sovranità si ferma quando cessa la solvibilità» riduce a quasi-protettorati i Paesi che fruiscono dei programmi d’assistenza. Ad Atene, Lisbona e Dublino gli uomini della «troika», nei loro abiti scuri, dettano i pacchetti delle misure da adottare, facendo uscire allo scoperto i rapporti neocoloniali ai quali vengono sottoposti i Paesi della periferia. Sostenuti dal nuovo assetto di potere in Francia, Spagna e Italia hanno strappato al vertice europeo del giugno 2012 una vaga promessa, secondo la quale la messa sotto tutela potrebbe in avvenire essere meno stringente. Queste illusioni sono volate in frammenti con le recenti dichiarazioni di Mario Draghi, che progetta di offrire la garanzia completa della BCE - della quale è diventato governatore in novembre 2011 - soltanto in cambio di un’obbedienza completa delle autorità nazionali alle ingiunzioni della «troika» (4).
Così, dopo l’inizio della crisi, l’Unione Europea non ha mai smesso di manifestare le caratteristiche di un regime autoritario. Governi eletti costretti alle dimissioni e rimpiazzati da tecnocrati senza legittimità democratica; preminenza d’istituzioni presunte «neutrali», come la BCE; cancellazione del ruolo del Parlamento europeo, il cui presidente socialdemocratico, Martin Schulz, tenta invano di fare riconoscere il peso politico (5); annullamento dei referendum; intrusione del settore privato nel processo decisionale politico... Per comprendere questa dinamica antidemocratica, che soltanto un movimento sociale di ampiezza continentale potrebbe rovesciare, non è inutile rivolgersi a un contemporaneo di Freud, anch’egli perspicace osservatore della crisi di civiltà degli anni ’30: Antonio Gramsci.
Secondo l’intellettuale italiano, nel corso delle grandi crisi del capitalismo, le istituzioni che dipendono dal suffragio universale, come i Parlamenti, passano in secondo piano. Al contrario, le circostanze consolidano «la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e militare), dell’alta finanza, della Chiesa, e in generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell’opinione pubblica (6)». In tempi normali tutte queste istanze non recalcitrano nel lasciare al comando le istituzioni democratiche. Non è più il caso in situazione di crisi: da una parte, le contraddizioni inerenti alle istituzioni legittimate sul piano elettorale si approfondiscono, indebolendo la loro capacità di prendere le decisioni che l’accelerazione del ritmo della politica esige, dall’altra, l’opinione pubblica fluttua considerevolmente, minacciando di rivolgersi verso le soluzioni più radicali.
Gramsci chiama «cesarismo» questa propensione dei regimi democratici a manifestare inclinazioni autoritarie in tempo di crisi. Nel XIX secolo e nella prima metà del XX spesso è all’interno delle forze armate che emergono gli elementi cesaristi - così è per Napoleone Bonaparte, Otto von Bismarck e Benito Mussolini, tre figure emblematiche del fenomeno. Il cesarismo d’altra parte ispira il suo nome a un carismatico generale romano che, oltrepassando il Rubicone, ha cancellato il confine fra il militare e il politico. Gramsci tuttavia aveva previsto che attori non militari potessero anch’essi esercitare la funzione di cesare: è il caso della Chiesa, della finanza e della burocrazia statale. L’autore dei Quaderni dal carcere constata per esempio la natura frammentata della Nazione nata dal Risorgimento italiano, nel XIX secolo: la sua formazione mediante aggregazione di territori successivamente annessi si opera senza vera implicazione delle masse popolari. Solamente la burocrazia di Stato garantisce l’unità, svolgendo il ruolo di cesare senza il quale le forze centrifughe farebbero esplodere l’insieme.
Le dinamiche attualmente all’opera all’interno dell’Unione Europea evocano una forma di cesarismo non militare, ma finanziario e burocratico. Entità politica dalla sovranità frammentata, l’Europa vede la sua unità garantita soltanto dalla burocrazia di Bruxelles e l’inserimento strutturale della finanza internazionale nel suo funzionamento. E i supposti «progressi» compiuti sulla via dell’integrazione nel corso degli ultimi tre anni accentuano questa caratteristica.
Questo cesarismo non è un’invenzione recente. Dopo la Seconda guerra mondiale, certe istituzioni non democratiche, fra le quali le Corti costituzionali o le banche centrali indipendenti, sono diventate sempre più potenti nell’Europa dell’ovest. L’idea che anima le elite continentali dell’epoca è che i totalitarismi «gemelli» - nazismo e stalinismo - siano il prodotto degli «eccessi» della democrazia, ragione per la quale occorre proteggere quest’ultima contro la sua propria irragionevolezza (7). Fin dalla sua origine il progetto europeo s’inserisce in questa logica mirata a tenere a distanza i popoli. Ma la brutale accelerazione operata dal 2009 in poi ha radicalizzato il processo: l’unione economica e monetaria è diventata uno strumento autoritario di gestione delle contraddizioni economiche e sociali prodotte dalla crisi.
Di conseguenza la scelta che ormai si offre non oppone più la continuazione della costruzione europea al ritorno al livello nazionale, come vorrebbero farci credere i mezzi di comunicazione dominanti e gli intellettuali euro-liberali, bensì due opzioni antagoniste: il cesarismo o la democrazia.
(1) Sigmund Freud, Nouvelles Conférences d’introduction à la psychanalyse, Gallimard, Paris, 1984 (1" éd. : 1933).
(2) Lire Raoul Marc Jennar, «Deux traités pour un coup d’Etat européen» et «Traité flou, conséquences limpides », Le Monde diplomatique, respectivement juin et octobre 2012.
(3) Financial Times, Londres, 20 juillet 2011.
(4) Financial Times, 7 septembre 2012.
(5) Le Monde, 19 janvier 2012.
(6) Antonio Gramsci, Guerre de mouvement et guerre de position, textes des Cahiers de prison choisis et commentés par Razmig Keucheyan, La Fabrique, Paris, 2012. Lire «Gramsci, une pensée devenue monde», Le Monde diplomatique, juillet 2012.
(7) Cf. Jan-Werner Müller, Contesting Democracy. Political Ideas in Twentieth-Century Europe, Yale University Press, New Haven, 2011.
* Le Monde Diplomatique, novembre 2012, pag 3
FILOSOFIA E POLITICA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
SENZA UNA TEORIA DELLO STATO, LA "NOSTRA" FILOSOFIA DEL CONFLITTO CONTINUA IL SUO VIAGGIO: "DALL’OPERAISMO ALLA BIOPOLITICA". Sul lavoro di Dario Gentili ("Italian Theory"), una riflessione di Roberto Esposito - con alcune note
di Pietro Barcellona (l’Unità, 02.11.2012)
SEBBENE I DIBATTITI FILOSOFICI SEMBRINO SITUARSI SU UN TERRENO LONTANO DALLA VITA QUOTIDIANA, i concetti che ne vengono fuori interferiscono notevolmente con la formazione del senso comune: la rilevanza politica delle teorie filosofiche è sempre più evidente, innanzitutto nella formazione del lessico della contemporaneità.
Ad esempio, l’attacco che Maurizio Ferraris da molti anni conduce contro il soggettivismo delle interpretazioni è diventato persino strumento politico per contrastare il populismo: alcuni opinionisti sostengono che l’oggettività impedisca la proliferazione di linguaggi falsi e demagogici, che dimostrerebbero la propria fallacia appena messi a confronto con la nudità dei fatti.
Per capire il significato del tentativo di affermare l’oggettività del mondo reale delle cose sulla soggettività ondivaga e ambigua degli interpreti, bisognerebbe per prima cosa metterne in rilievo la sostanziale infondatezza epistemologica.
Recentemente, in uno scritto polemico verso le tesi di Severino, Ferraris ha affermato che una «multa» è un fatto assolutamente indipendente da ogni interpretazione soggettiva; ma se si riflette su cosa rappresenti la parola multa nel linguaggio corrente, ci si accorge che non si tratta di un fatto che dispiega da se stesso le proprie conseguenze, ma, al contrario, di un fatto che assume un significato pratico soltanto se inscritto nelle fattispecie giuridicamente rilevanti. Il fatto puro della multa non esiste se non all’interno del discorso giuridico.
Basterebbe considerare con più attenzione gli studi di antropologia culturale per rendersi conto che non esistono fatti puri; anche eventi naturali come un’eruzione vulcanica o un terremoto diventano oggetti di comprensione umana e di comunicazione verbale soltanto attraverso il loro inserimento in universi simbolici che esprimono il livello della coscienza collettiva del gruppo rispetto alla natura e al mondo esterno. Il fulmine, che allo stato attuale del nostro sapere possiamo definire come una scarica elettrica che va dalle nuvole verso la terra, è stato per molti secoli vissuto come un segno dell’ira divina. Dal punto di vista epistemologico questa credenza non contraddice per nulla le attuali conclusioni del sapere scientifico che descrive il fenomeno in termini di scarica elettrica; in entrambi i casi, però, le parole adoperate per rappresentare il fatto sono espressive della configurazione del rapporto fra soggettività interpretante e realtà fenomenica.
Tutto ciò che rappresentiamo mentalmente con parole associate ad immagini ha un sostegno nella realtà materiale, biologica e fisica del mondo che ci circonda: indagare il rapporto tra questo sostegno materiale e lo sviluppo di rappresentazioni mentali, che attraverso le parole assegnano un significato alle cose, è un problema che interroga la nostra capacità di riflessione sui processi di pensiero e sul rapporto col mondo.
Al punto in cui siamo, nella vicenda millenaria dell’autorappresentazione degli esseri umani, dovremmo riconoscere che non esiste alcuna via diretta e immediata per avere accesso alle cose se non attraverso la mediazione del pensiero e del linguaggio, che non sono arbitrarie costruzioni determinate dalla capricciosità del parlante ma appartengono ad un contesto di uomini e donne, di soggetti e di oggetti che interagiscono in un rapporto di comunicazione oggettivata attraverso il discorso.
Ciascuno produce un mondo di significazioni e allo stesso tempo abita uno spazio di significati già istituiti che gli consentono di orientarsi praticamente nell’ambiente che lo circonda, motivandolo sia alle cosiddette azioni inconsapevoli e abituali sia alla ricerca di nuove parole e nuove significazioni; tale scarto tra oggettività e soggettività rende possibile configurare la libertà e la responsabilità di ciascuno rispetto al mondo a cui appartiene.
Alla luce di queste considerazioni si capisce il significato politico di tutti i tentativi di affermare il primato dell’oggettività dei fatti e delle cose del mondo sulla soggettività interpretante: solo un’assoluta oggettività dei processi che connettono i movimenti pratici e le operazioni mentali consentirebbe di affermare l’esistenza di una Verità che impedisce ogni arbitrarietà delle scelte e ogni significativo mutamento della visione del mondo.
L’oggettività della Verità, consegnata interamente al processo «naturale» di connessione fra le molecole che compongono il vivente, impedisce di ipotizzare uno spazio di libertà che produca una trasformazione dell’accadere non spiegabile meccanicisticamente. Ma se si abbandona il terreno di questa ideologia dell’oggettività, bisogna riconoscere che la conversazione umana non esprime certezza assoluta ma opinioni confrontabili; il regime della doxa è alla base della costruzione della polis e della forma democratica della convivenza. Al contrario il regime della Verità oggettiva non consente di dare alcun peso alle opinioni che, in quanto tali, sono fragili ed estemporanee.
Il tentativo di Ferraris di riformulare una teoria della Verità incontrovertibile risponde, dunque, all’esigenza politica di ridurre ogni spazio di discrezionalità e sottrae la decisione politica alla contestazione popolare. Viceversa, riconoscere l’inaccessibilità immediata alla Verità non esclude il riconoscimento di una trascendenza che si manifesta attraverso i limiti che incontriamo nella nostra esperienza quotidiana. Ci scontriamo continuamente con la dura realtà del mondo e con la fatica di vivere, per questo siamo spinti a cercare un senso che dia conto della nostra finitezza e mortalità. Il limite della soggettività e dell’ermeneutica impedisce, nel contesto storico in cui si vive, di cadere nell’onnipotenza nichilistica.
Come sosteneva Castoriadis, la democrazia deve essere un regime dell’autolimitazione, in cui l’interesse alla continuazione della specie umana impedisce di disporre del mondo in modo da pregiudicarne la disponibilità per le future generazioni. La democrazia delle opinioni non implica la babele delle lingue, ma il riconoscimento di un patrimonio comune che riguarda la memoria del passato e le speranze del futuro.
Già dal principio dell’autolimitazione della democrazia si possono ricavare regole che impediscono il dispiegarsi della selvatichezza egoistica che abita dentro ciascun essere umano. Per questo, come ha osservato Massimo Recalcati, il riconoscimento dell’inconscio come opacità del sapere di se stessi e del mondo è la garanzia che la democrazia non diventi delirio di onnipotenza.
Ecco perché Costantino non fu tollerante
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 9.11.2012)
Caro Augias,
vari quotidiani, dando notizia della mostra milanese su Costantino, hanno titolato sulla sua “tolleranza”. -Vorrei ricordare che fu proprio Costantino il padre dell’antisemitismo. Egli emanò, l’11 dicembre 321, l’editto Codex Judaeis, prima legge penale antiebraica, segnando così l’inizio di una persecuzione e del tentativo di genocidio degli ebrei.
L’editto definiva l’ebraismo: “secta nefaria, abominevole, feralis, mortale” e formalizzava l’accusa di deicidio. Da allora, il processo antisemitico non s’è più interrotto, ad eccezione del breve periodo di reggenza dell’imperatore Giuliano detto (a torto) l’Apostata.
I successivi imperatori introdussero le Norme Canoniche dei Concili nel Codice Civile e Penale.
Con Costantino II, Valentiniano e Graziano, dal 321 al 399 d.C., una serie spietata di leggi ha progressivamente e drasticamente ridotto i diritti degli ebrei.
Si condannava ogni ebreo ad autoaccusarsi di esserlo: in caso contrario c’erano l’infamia e l’esilio. -Proibito costruire sinagoghe. Leggi contro la circoncisione. Obbligo di sepoltura in luoghi lontani e separati da quelli cristiani. Altro che tolleranza, c’è un limite anche alla falsificazione della storia.
Arturo Schwarz
La mostra milanese celebra i 17 secoli che ci separano dalla promulgazione di quell’editto di Milano (313 e.v.) con il quale il grande imperatore rendeva il cristianesimo “religio licita”, dopo che per secoli i suoi seguaci erano stati perseguitati. Le ragioni del provvedimento, al di là delle letture agiografiche, furono ovviamente politiche: l’impero tendeva a spaccarsi, la nuova religione parve un “collante” più efficace dei vecchi culti. Costantino peraltro conservò per tutta la vita il titolo “pagano” di pontifex maximus e si convertì al cristianesimo solo in punto di morte.
Né il suo comportamento personale ebbe nulla di veramente cristiano (fece uccidere moglie e figlio) anche se gli ortodossi lo hanno santificato. Quel che più conta, considerata la lettera del signor Schwarz, fu il suo fiero antigiudaismo. Arrivò a definire quella religione “superstitio hebraica” contrapponendola alla “venerabilis religio” dei cristiani. Presiedette, da imperatore, e diremmo da “papa”, il fondamentale Concilio di Nicea (325).
Soprattutto aprì la strada all’unificazione dei due poteri, temporale e religioso, in uniche mani. All’inizio furono quelle dell’imperatore, cioè le sue, col passare degli anni diventarono quelle del pontefice romano. Alla fine di quello stesso IV secolo il percorso si concluse quando un altro imperatore, Teodosio I, proclamò il cristianesimo religione di Stato, unica ammessa, facendo così passare i cristiani dal ruolo di perseguitati a quello di persecutori di ogni altro culto, ebrei compresi.
Tre donne «forti» dietro tre padri della fede
di Marco Garzonio (Corriere della Sera, 25 ottobre 2012)
Il IV secolo è fine di un’epoca e nascita di tempi nuovi anche per i modelli femminili nella cultura cristiana e nella società. Mentre le istituzioni dell’Impero si sfaldano, popoli premono ai confini, corruzione e violenze dilagano e le casse sono vuote, causa guerre ed evasione fiscale, alcune donne sono protagoniste delle trasformazioni almeno tanto quanto gli uomini accanto ai quali la storia le ha accolte. Elena, madre di Costantino, Monica madre di Agostino, Marcellina sorella di Ambrogio.
Ma ci son pure Fausta, moglie di Costantino, da lui fatta assassinare per sospetto tradimento (violenza in famiglia anzi tempo) e la compagna di Agostino, giovane cartaginese vissuta anni more uxorio («coppia di fatto» si direbbe oggi) col futuro santo vescovo d’Ippona. Gli diede pure un figlio, Adeodato, di lei però non è rimasto nemmeno il nome: una rimozione del femminile, nonostante la straordinaria autoanalisi ante litteram compiuta da Agostino nelle Confessioni; un archetipo delle rimozioni collettive della donna praticate dalla cattolicità e di tanta misoginia e sessuofobia che affliggeranno la Chiesa per secoli e ancora la affliggono. Ma andiamo con ordine nel considerare i tipi.
La madre solerte, forte, premurosa, ambiziosa, molto attaccata al figlio maschio, possessiva: è il modello di madre che emerge dalle testimonianze. In parte è un’icona ritagliata sul prototipo della matrona romana, su cui s’innesta la novità del cristianesimo. Questo dalle origini si dibatte in una contraddizione. C’è l’esempio di Gesù che «libera» la donna dalle sudditanze; per lui non è alla stregua di una «cosa» (come negli usi romani); negli incontri rivela l’alta considerazione verso una persona non certo inferiore all’uomo e contraddice così la cultura del tempo. Narrano i vangeli che Gesù si mostra a Maria di Magdala e alle altre donne come il Risorto davanti al sepolcro vuoto: loro sono le protagoniste, a esse affida l’annuncio pasquale. Dall’altra parte c’è San Paolo che invita le mogli a stare sottomesse ai mariti e ispira la visione di un ruolo ancillare, silenzioso, subordinato.
Ecco, allora: Elena anticipa quella che in epoche successive sarà la Regina Madre. Locandiera, legata a Costanzo Cloro cui darà un figlio, Costantino, fa di tutto perché questi diventi padrone dell’Impero: tesse rapporti, guida, consiglia. Verrà ricambiata: Costantino cingerà lei del diadema imperiale (invece della «traditrice» Fausta) introducendo nell’iconografia una coppia un po’ incestuosa: madre e figlio.
Psicologicamente Costantino sarà in un certo modo sottomesso a Elena. A Gerusalemme lei troverà le reliquie del Santo Sepolcro. Dei chiodi della Croce ornerà la corona imperiale (posta sul capo dei padroni del mondo sino a Napoleone) per dire che chi governa è sottomesso a Dio, e farà il morso del cavallo del figlio: anche i sovrani devono frenare le pulsioni. Madre altrettanto ingombrante, sul piano degli affetti in questo caso, fu Monica per Agostino.
Questi aveva cercato di liberarsene partendo per Roma senza dir nulla ma Monica non si scoraggiò, lo inseguì e raggiunse sino a Milano, capitale ai tempi. Qui convinse il figlio, all’apice del successo come retore, a rispedire in Africa la compagna e si diede da fare perché trovasse a corte una moglie. Intanto s’era pure spesa affinché Agostino conoscesse Ambrogio, che a Milano contava più delle insegne imperiali. Così l’amore di madre si trasformò: cadde il progetto di ascesa sociale, venne la conversione e il futuro padre della Chiesa riprese la via dell’Africa, senza più Monica però, che morirà sulla via del ritorno.
Un altro genere di donna, che ebbe e ha importanza nella Chiesa, nei costumi, nella cultura è incarnato da Marcellina. La sorella di Ambrogio, dopo aver contribuito a crescere i fratelli, prese il velo con papa Liberio. Grazie a lei si prospettò una scelta di vita ricalcata sul modello del monachesimo orientale, di cui Ambrogio era estimatore: la verginità (su questa il Patrono di Milano compose una delle sue opere principali), la consacrazione, il chiostro in cui ritirarsi, pregare e, in taluni sviluppi, lavorare, garantire il prosieguo delle tradizioni e aprirsi al mondo attraverso opere di carità. Costantino, Ambrogio, Agostino e lo loro donne: esempi d’una storia plurale che continua, viene costruita giorno dopo giorno ancora, si evolve.
Quale Europa per sentirsi a casa
di David Bidussa (Il Sole - 24 Ore, 14.10.2012)
La crisi attuale dell’Europa si riassume nella sfiducia verso un progetto costruito venti anni fa intorno a una moneta. Cresce l’area degli euroscettici e si diffonde l’opinione che l’Europa sia un danno, piuttosto che un’opportunità.
Jorge Semprun (Madrid 1923 - Parigi 2011) una figura intellettuale e politica che ha attraversato tutte le esperienze significative del Novecento (la guerra civile di Spagna, la resistenza in Francia, l’internamento a Buchenwald, la militanza comunista e poi l’espulsione nel 1964, l’impegno culturale per una nuova Europa a partire dagli anni 70) tra il 1986 e il primo decennio di questo nuovo secolo in molte conferenze pubbliche e ora raccolte in volume, ha insistito sui fattori culturali e politici, prima ancora che economici, che potevano consentire la nascita di una nuova Europa.
Il corpo di quelle conferenze vale la pena leggerlo. Tre i punti qualificanti della sua riflessione. Il primo ha come ispiratore il filosofo tedesco Edmund Husserl. Semprun ricorda in molte occasioni i temi di una conferenza che Husserl tiene a Vienna nel maggio 1935 dal titolo La crisi dell’umanità europea e la filosofia. In quel testo Husserl metteva in guardia la cultura europea più aperta dal pericolo della stanchezza, di una visione naturalistica della politica. Superare la visione naturalistica, per Semprun, significa avere una dimensione universale, dimensione che l’Europa ha perduto nel corso del Novecento.
Quello spirito, ricorda Semprun, nell’epoca in cui in Europa sono imperversati i totalitarismi, ha avuto vita lontano dall’Europa: negli Stati Uniti oppure nelle colonie europee che hanno assimilato lo spirito dell’Europa e che vivono in quegli anni un risveglio di libertà. In breve: il futuro del l’Europa a lungo è stato «fuori dall’Europa». Realizzare l’Europa della Ue implica riportarlo «a casa».
Il secondo motivo riguarda la storia dei totalitarismi in Europa: sia quello fascista e nazista, sia quello comunista. È un’omologia che Semprun legge soprattutto nelle pratiche concrete che si strutturano nel corso del corso degli anni 30: l’eliminazione delle proprie ali interne di sinistra; i grandi processi epurativi interni; l’antisemitismo; la lotta alla libera espressione artistica e letteraria.
Sostiene Semprun nel 1986 in un discorso pubblico a Weimar - negli stessi mesi del confronto tra Habermas e Nolte a proposito del nazismo e del «passato che non passa» - che sia la costruzione dello stalinismo tra gli anni 20 e gli anni 30 fino alle grandi purghe del 1937-1938 sia il consolidamento del potere del nazismo in Germania tra 1933 e 1938 fino alla "Notte dei Cristalli" (9 novembre 1938) si strutturano sulle stesse dinamiche, scatenano gli stessi odi, hanno come fine l’eliminazione degli stessi tipi di avversari, si attuano attraverso l’assunzione dello stesso gergo culturale. Un processo che sfocia nel patto Hitler-Stalin del 1939-1941 che non rappresenta né una scelta tattica né un voltafaccia, ma un incontro tra simili, che hanno più punti in comune che non divergenze.
È una dinamica che Semprun legge anche nelle forme di persecuzione attuate dopo il 1945 nei "socialismi reali". È un passaggio in cui Semprun mette consapevolmente in gioco e in discussione anche la sua autobiografia facendo in pubblico un’analisi del proprio processo di revisione e di distacco.
La sua espulsione dal movimento comunista a metà degli anni 60, infatti, non nasce da una divergenza tattica, bensì da una culturale. Una insensibilità che Semprun rimprovera a gran parte delle sinistre europee del "dopo Muro": sia alle socialdemocrazie europee (pagg. 175-183), sia alle altre aree della sinistra che a lungo avevano avuto un rapporto «ambiguo», più che doppio, con il mondo sovietico (il riferimento è al Pci e a tutto ciò che a quel partito è seguito dopo il 1989) convinte che fosse arrivato il loro momento. La realtà politica dell’Europa è stata diversa.
Infatti, la realtà attuale dell’Europa politica, la forza magnetica, con il supporto della spiegazione complottista e vittimista della storia e della politica, che riprendono ad avere i movimenti neoetnicisti, e neonazionalismi, negli anni 90 del Novecento nonché il loro radicamento in questo inizio secolo, fanno dire a Semprun che la retorica che è stata la forza di quei totalitarismi nei momenti della loro massima espansione e della loro diffusione di massa, è tornata a battere alle porte dell’Europa e che soprattutto, nessuno ha la proposta per contrastarli efficacemente.
Il terzo motivo riguarda a chi riconoscere il ruolo di rappresentare un progetto culturale di tipo universalistico.
Semprun è stato un intellettuale cosmopolita. A lungo ha scritto e pensato "spagnolo", poi a partire dagli anni 70 ha pensato e scritto prevalentemente in francese. In una dimensione in cui si è "a casa" in molti posti ma non si ha una sola casa, Semprun pensa che sia la Germania il perno del possibile progetto europeo.
Lo dice in molte occasioni, soprattutto lo dice al Parlamento federale tedesco il 27 gennaio 2003, lo dice a Francoforte nel 1994, lo ripete e forse è l’occasione simbolicamente più significativa al Teatro Nazionale di Weimar il 9 aprile 1995 nel cinquantenario della liberazione del campo Buchenwald - il suo campo di concentramento - da parte delle truppe anglo-americane.
In quei discorsi pubblici, Semprun sottolinea come nel secondo dopoguerra solo la Germania di Bonn abbia avuto la forza e la volontà di affrontare criticamente il proprio passato e come solo il crollo del Muro abbia aperto un processo di analisi collettiva coinvolgendo anche l’altra Germania.
La Germania riunificata diviene così quel soggetto capace di pensare l’Europa non in virtù della sua forza economica, bensì per la consistenza della sua riflessione pubblica e ciò è possibile perché la scelta per l’Europa da parte sua significa sfidare la sua stessa storia: superare quei due totalitarismi che ha sperimentato dentro di sé.
La riunificazione tedesca così per Semprun non è una costruzione nazionalistica, bensì la definizione di un’autocoscienza dell’Europa che altri non possono candidarsi a rappresentare o che comunque si sono rifiutati di rappresentare perché non hanno fatto in conti radicalmente con la propria storia.
È forse il più "spudorato" riconoscimento di missione della Germania che sia stato dichiarato da un "non tedesco" e anche il più significativo, perché espresso da uno che è stato anche vittima del totalitarismo tedesco. Ma è anche l’opportunità per pensare una ipotesi europea che finora in molti hanno messo da parte. E che la crisi invita a considerare, oltre la dimensione economica, in funzione di una fondazione politica, questa volta. Ammesso che la si voglia per davvero.
* Jorge Semprun, Une tombe au creux des nuages. Essais sur l’Europe d’hier et d’aujourd’hui, Climats, pagg. 330, € 19,00
Dietro il Nobel. Terra di pace e di scienza
Da Einstein in poi la sfida per l’unità dell’Europa
Il ruolo degli scienziati per costruire un continente finalmente senza guerre. Dall’appello del fisico di Ulma alla proposta visionaria di Edoardo Amaldi fino al Cern
di Pietro Greco (l’Unità, 18.10.2012)
«NOI DICHIARIAMO QUI PUBBLICAMENTE LA NOSTRA FEDE NELL’UNITÀ EUROPEA: UNA FEDE CHE NOI CREDIAMO CONDIVISA DA MOLTI». PRIMAVERA 1915. L’EUROPA È IN FIAMME. DA SEI MESI È INIZIATA LA PRIMA GUERRA MONDIALE. Da qualche mese la Germania ha invaso il neutrale Belgio e l’esercito tedesco è giunto a 40 chilometri da Parigi. Sui fronti di un intero continente infuria una battaglia che è, letteralmente, senza esclusione di colpi. A Berlino due scienziati, un fisico e un fisiologo, fanno circolare un pericolo appello: è l’Aufruf an die Europäer. Il Manifesto agli Europei, in cui si chiede di smetterla di combattersi come nemici e iniziare a vivere come fratelli.
Il fisico è Albert Einstein. E il suo appello, redatto con il fisiologo di origine russa Georg Friedrich Nicolai, sostiene che se i popoli del Vecchio Continente vogliono salvare la loro civiltà, il loro livello di benessere e vivere in pace, devono unirsi. Devono creare un’Unione Europea.
L’appello non ha grande fortuna. Raccoglie solo altre due firme, oltre quella dei proponenti. Tutti rischiano la prigione. Ma l’Aufruf an die Europäer (ri)conferma due cose. Che Einstein non è solo un grande fisico, ma anche un fine politico: il suo appello arriva trent’anni prima di quello, redatto in condizioni non meno drammatiche, a Ventotene da Altiero Spinelli. E dimostra, anche, che nell’assegnazione del Premio Nobel per la Pace 2012 all’Unione Europea, che ha assicurato oltre 60 anni di (quasi) assenza di conflitti per la prima volta nella storia del Vecchio Contenente, la scienza o meglio, gli scienziati hanno avuto un ruolo notevole: sia perché la scienza è stata ed è tuttora uno dei grandi collanti nella costruzione dell’identità europea, sia perché la scienza ha sempre preceduto la politica nel realizzare concretamente le istituzioni dell’Europa unitarie.
È possibile individuare un secolo in cui è nata la scienza moderna, il Seicento. Ma, sosteneva Paolo Rossi, il grande storico delle idee scientifiche scomparso nei mesi scorsi, non è possibile individuare un luogo, perché quel luogo è semplicemente l’Europa. Nel Seicento nasce una comunità la Repubblica della Scienza formata da italiani, francesi, inglesi, tedeschi, polacchi, belgi, olandesi che hanno che hanno i medesimi interessi e i medesimi valori. Uniti nel tener fuori dalla porta della loro peculiare dimensione la politica e la religione. Gli interessi dei membri di questa Repubblica virtuale, riguardano la conoscenza intorno alla natura. I valori sono certo quelli indicati da Robert Merton: il comunitarismo, l’universalismo, il disinteresse, l’originalità e lo scetticismo sistematico. Ma anche il «pensare europeo» il sentirsi membri di un’unica cultura e il pensare «per la pace», perché, come diceva Francis Bacon, la scienza non deve essere a beneficio di questo o di quello, ma dell’intera umanità.
All’origine della scienza c’è dunque un’idea di Europa, unita e in pace. Un’idea tanto più singolare, perché nata mentre l’Europa, proprio come nel 1915, si trova divisa e in fiamme. Mentre sono in corso guerre, come quella dei trent’anni, che mietono vittime a milioni. La scienza offre agli Europei del Seicento una visione alternativa a quella del continuare a combattersi.
La stessa cosa accade con l’appello di Einstein. E poi ancora, alla fine della seconda guerra mondiale, con la proposta, visionaria, di uno scienziato italiano: Edoardo Amaldi. Dobbiamo uscire dalla logica della divisione e del conflitto, pensa il «fanciulletto» di via Panisperna, dobbiamo costruire ponti di pace. E non c’è nulla di meglio per realizzare il primo ponte di pace nell’Europa uscita distrutta dalla guerra che unire tutti i fisici del continente in un unico, grande laboratorio. In un laboratorio europeo. Anzi, in un laboratorio che esprime l’unità europea. Le idee maturate da Amaldi alla fine degli anni ’40 incontrano fiere opposizioni, anche tra i fisici. Sia americani che europei. Ma alla fine la sua tenacia, unita a quella di pochi altri colleghi ma anche politici, si realizzano. Nel 1952 il grande laboratorio viene realizzato a Ginevra, frutto dello sforzo comune di 12 paesi europei che sette anni prima erano ancora in guerra tra loro. Amaldi è il primo direttore generale del laboratorio.
Infine, il 29 settembre 1954, nasce ufficialmente il Cern, il Centro europeo di ricerche nucleari. È la prima istituzione dell’Europa unita. È la prima prova provata che Einstein aveva ragione: l’Europa può costruirsi in pace e costruire la pace. Il premio Nobel per la pace all’Unione Europea giunge nel 2012. Un anno in cui l’idea di unione europea ha subito, forse, la massima erosione da sessant’anni a questa parte. Ma anche l’anno in cui a Ginevra il Cern il più grande laboratorio di fisica al mondo ha raggiunto quello che potrebbe rivelarsi il suo massimo risultato: aver dimostrato l’esistenza del bosone di Higgs. Ancora una volta la scienza sembra indicare la strada all’Europa.
Ritornare al sogno
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 13.10.2012)
FU UNA di quelle opere - l’unità fra europei edificata nel dopoguerra - che gli uomini compiono quando sull’orlo dei baratri decidono di conoscere se stessi: quando vedono i disastri di cui sono stati capaci, esplorano le ragioni d’una fallibilità troppo incallita per esser feconda E tuttavia non si fanno sopraffare dall’indolenza smagata che secondo Paul Valéry fu la malattia dello spirito europeo all’indomani del ’14-18: la «noia di ricominciare il passato», l’inattitudine a riprendersi e ri-apprendere.
Il Nobel della pace è stato dato ieri a quel ricominciamento della storia, e alla svolta che fu la riconciliazione tra Francia e Germania, che in soli 70 anni avevano combattuto tre guerre. Dalla messa in comune di risorse vitali per i due paesi - il carbone e l’acciaio, fonti di ricchezza e morte - nacque l’Unione che abbiamo oggi.
Mai era apparso così chiaro, nell’attribuzione dei Nobel, il nesso fra pace, democrazia, diritto. Come se l’invenzione d’Europa fosse la conferma vivente che firmare le tregue non è fare la pace. Che per tenere insieme su scala continentale i tre obiettivi - pace, democrazia, diritto - occorre andare oltre i trattati fra Stati, oltre la non belligeranza fra sovrani che non riconoscono potere alcuno, né legge, sopra di sé.
Quando propose e creò la Comunità del carbone e dell’acciaio, Jean Monnet spiegò il ragionamento che lo aveva ispirato: «Quando si guarda al passato e si prende coscienza dell’enorme disastro che gli europei hanno provocato a se stessi negli ultimi due secoli, si rimane letteralmente annichiliti. Il motivo è molto semplice: ciascuno ha cercato di realizzare il suo destino,o quello che credeva essere il suo destino, applicandole proprie regole».
Fu grazie a questa consapevolezza che l’unità degli europei divenne un modello, e per gran parte del mondo ancora lo è: dalle stragi etniche o razziali, dagli scontri fra culture o religioni, si esce solo se gli Stati nazione smettono l’illusione di bastare a se stessi - la regola della sovranità assoluta - e creano comuni istituzioni politiche che realizzino il destino di più paesi associati, non di uno soltanto.
In Asia, in Medio Oriente, il metodo comunitario resta la via aurea per superare i nazionalismi: molto più della solitaria potenza americana. Fu una sorta di conversione, quella sperimentata dagli Europei. Al posto dello sguardo nazionale, lo sguardo cosmopolita; al posto dei trattati fra Stati, un’unione sin da principio parzialmente federale, cui le vecchie sovranità assolute venivano delegate.
L’Europa è un sogno antico, ma è nel ’900 che diventa progetto pratico, necessità, dando vita a un’istituzione statuale. Un’istituzione che affianca Stati che si riconoscono non solo fallibili ma pericolosi per se stessi, se consegnati alle dismisure nazionaliste.
Solo dopo la propria guerra dei trent’anni (quella che dal 1914 va al 1945) il continente scopre che non basta deporre le armi ma che urge capire perché insorgono i conflitti di sangue. «Insorgono a causa della facilità con cui gli Stati rimettono in causa il funzionamento delle loro istituzioni», disse ancora Monnet. Bene saperlo fin d’ora: le guerre divorano le democrazie, ma è il degradare delle democrazie e delle loro istituzioni che getta popoli senza più nocchieri nelle guerre. Si trattava dunque di cessare i conflitti bellici e al tempo stesso di ridar forza alle istituzioni, di renderle meno discontinue.
L’unità nasce dicendo no ai nazionalismi ma anche a quel che li fa impazzire: la povertà, la democrazia corrosa, il rarefarsi dello Stato di diritto prima ancora che dei diritti umani. Conferito in questi giorni, il premio è singolare. Quasi sembra che faccia dell’ironia, anche se difficilmente immaginiamo una giuria ironica. È come se non suggellasse un progresso, ma indicasse come rischiamo di perderlo. Mostra quel che l’Europa ha voluto essere, e non è ancora o non è più. Gli scontri sull’euro, la Grecia trasformata in capro espiatorio, il peso abnorme di un solo Stato (Germania): non è l’unione cui si è aspirato per decenni, ma una costruzione che si decostruisce e arretra invece di completarsi.
È come se la giuria ci dicesse, fra le righe: «Voi europei avete inventato qualcosa di grande, ma non siete all’altezza di quel che oggi premiamo. Siete una terra promessa, ma voi abitate ancora il deserto come gli ebrei fuggiti dall’Egitto».
Se l’Europa si compiacerà del premio vorrà dire che dell’evento avrà visto solo la superficie celebrativa, non il caos che ribolle sotto la superficie. Un premio così non si riceve soltanto. Lo si medita, lo si interroga, come nella Grecia antica s’interpellava l’oracolo di Delfi. Anche perché il responso non muta, nei millenni: conosci te stesso, ripeterà. Conosci il tradimento delle promesse iniziali e il ridicolo delle tue apoteosi. Prova a capire come mai l’Unione non sveglia più speranze ma diffidenza, paura, a volte ribrezzo. Rimasta a metà cammino, l’Europa non è ancora l’istituzione sovranazionale che preserva la democrazia e lo Stato sociale. Viene identificata con uno dei suoi mezzi - l’euro - come se la moneta e le misure fin qui congegnate fossero la sua
finalità, salvataggio finanziario e il rifiuto di ogni via alternativa hanno fatto perdere di vista la democrazia, e la solidarietà, e l’idea di un’Europa che, unita, diventa potenza nel mondo. L’ideale sarebbe se l’Europa non andasse a prendere il premio, e comunicasse al Comitato Nobel che i propri cittadini (non gli Stati, ben poco meritevoli) verranno a ritirarlo quando l’opera sarà davvero voluta, e di conseguenza compiuta. Quando avremo finalmente una Costituzione che - come nella Federazione americana - cominci con le parole «Noi, cittadini....». Quando ci si rimetterà all’opera, e ci si spoglierà della noia di ricominciare la storia. I sotterfugi tecnici non durano: durano solo le istituzioni. La svolta è politica, mentale, e proprio come nel 1945, è la massima di sant’Agostino che toccherà adottare: Factus eram ipse mihi magna quaestio - Io stesso ero divenuto per me un grosso problema, e un grosso enigma.
IL PAPA ATEO: COME E’ STATO ED E’ ANCORA POSSIBILE - OGGI?!
-Due note storiche: una di Leonard Boff e una Luciano Canfora
IL SOGNO DI UNA "COSA" DI BENEDETTO XVI: UNA CHIESA "PER MOLTI", NON "PER TUTTI".
Quando i filosofi si confrontano con lo scetticismo
di Gianni Vattimo (Corriere della Sera, 21.09.2012)
Caro direttore,
i «nuovi» realisti, a cui Emanuele Severino («la Lettura», 16 settembre) fa l’immeritata gentilezza di prenderli sul serio, saranno «in sé» o «fuori di sé»? Essi (Maurizio Ferraris, «Repubblica», 17 settembre) lo ricambiano facendo dire al povero Kant che i fenomeni, per essere tali, devono avere dietro delle «cose in sé» (ogni fenomeno la sua cosa; multe, colapasta, sciacquoni, ecc); e siccome questo è impossibile (lo era soprattutto per Kant, che non avrebbe mai parlato di cose in sé al plurale), multe, colapasta e sciacquoni non sono fenomeni, ma essi stessi cose in sé. Ma a parte l’imprudenza di dialogare con simili interlocutori, Severino argomenta anche in modo serio; serio e anzi eterno, perché le sue ragioni sono sempre le stesse (del resto lui non se ne preoccupa: «Ogni cosa è un essere eterno», dunque anche il suo discorso sull’incontrovertibile). Due i punti essenziali dell’articolo.
a) Gentile. Come i suoi maestri neoscolastici dell’Università Cattolica, Severino riconduce tutto a Gentile e al suo idealismo estremo e soggettivistico. Sono loro che gli hanno insegnato a preferire Gentile a Croce: più facilmente riducibile ad absurdum: tutto sarebbe nelle mani dell’uomo empirico, io lui loro; soggettivismo, nichilismo, ecc. Se questo è l’esito del pensiero moderno, è chiaro che bisogna tornare agli antichi e agli eterni: Parmenide, alla faccia di ogni esperienza vissuta di storicità, libertà, cambiamento.
b) L’incontrovertibile. Se io, con Nietzsche (e Gadamer e Heidegger; ma anche Marx critico dell’ideologia), dico che non ci sono fatti ma solo interpretazioni, e anche questo è un’interpretazione, Severino sostiene che anch’io (e i sunnominati) pretendo di fare una affermazione metafisica e incontrovertibile. E perché? Lo dico, qui, ora, leggendo così la mia condizione ed eredità storica. La leggo così e non altrimenti. Ah, ecco, il principio di non contraddizione da cui dovrebbe discendere la verità incontrovertibile dell’eternismo severiniano.
Che poi questo vada a braccetto con il «realismo» dei banalizzatori di Kant con cui egli dialoga può solo far da tema a un racconto patafisico. Oltre alla confutazione del pensiero moderno identificato con Gentile, il discorso di Severino (qui e sempre) si riduce tutto al vecchio argomento antiscettico: se dici che tutto è falso, pretendi che la tua tesi sia vera. Dunque... Ma c’è mai stato uno scettico che si sia «convertito» sulla base di questo giochetto logico-metafisico?
CHIESA "PER MOLTI", NON "PER TUTTI"!!!
AL DI LA’ DEL VATICANO II: IL "SACRO IMPERO ROMANO" DEL ’CATTOLICO’ OCCIDENTE.
Per il Convegno "Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri", cinque note a margine
di Federico La Sala *
1. LA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA HA ROTTO I PONTI CON IL MESSAGGIO EVANGELICO. A 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, bisogna prendere atto che il terribile è già accaduto: il "Lumen Gentium" è stato spento e, sulla cattedra di Pietro, siede il Vicario del Signore e Padrone Gesù ("Dominus Iesus": J. Ratzinger, 2000). Egli regna e governa in nome del suo Dio, Mammona ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006).
2. DIO E’ VALORE! Sul Vaticano, DAL 2006, sventola il "Logo" del Grande Mercante: "Deus caritas est" (Benedetto XVI, 2006)!!! Il papa teologo, ha gettato via la "pietra" su cui posava - in equilibrio instabile - l’intera Costruzione dela Chiesa cattolico-romana ("Deus charitas est": 1 Gv. 4.8).
3. TUTTO A "CARO-PREZZO" ("CARITAS"): QUESTO "IL VANGELO CHE ABBIAMO RICEVUTO". QUESTO E’ IL NOSTRO VANGELO: PAROLA DI RATZINGER -BENEDETTO XVI, CARDINALI E VESCOVI TUTTI. IL "PANE QUOTIDIANO" DEL "PADRE NOSTRO", SI VENDE A "CARO PREZZO", MOLTO CARO (= "CARITAS")!!!
4. ULTIMA CENA ED ECONOMIA VATICANA. Benedetto XVI cambia la formula: «Il calice fu versato per molti», non «per tutti»!!!
5. IN PRINCIPIO ERA IL "LOGO"!!! SE UN PAPA TEOLOGO LANCIA IL "LOGO" DEL SUO DIO ("DEUS CARITAS EST") E TUTTI OBBEDISCONO, E NON VIENE RISPEDITO SUBITO A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO, DI COSA VOGLIAMO PARLARE DI AFFARI E DI MERCATO?! EBBENE PARLIAMO DI AFFARI, DI MERCATO, DI "MAMMONA", "MAMMASANTISSIMA", E DI COME I PASTORI ... IMPARANO A MANGIARE LE PECORE E GLI AGNELLI, E CONTINUANO A GOZZOVIGLIARE ALLA TAVOLA DEL LORO "DIO"!!! Avanti tutta, verso il III millennio avanti Cristo!!!
Federico La Sala
Gli egoisti solidali.
Se all’Europa conviene aiutare i paesi più deboli
di Tzvetan Todorov (la Repubblica, 1 agosto 2012)
La popolazione degli stati europei è costantemente sollecitata a venire in aiuto di coloro che stanno peggio, vittime di catastrofi naturali, o di guerre civili e internazionali, o dell’incuria dei loro dirigenti. Ma dove trovare delle ragioni per andare a soccorrere gli altri, e dunque accettare dei sacrifici?
Prima risposta suggerita: nella morale. La grande tesi delle religioni monoteiste, ripresa dalla maggioranza delle correnti filosofiche, è che la natura umana è cattiva: se l’uomo fosse subito virtuoso, a che pro caricarsi un dio? In quest’ottica, la morale è un’acquisizione tardiva e artificiale; il comportamento delle bestie è inevitabilmente bestiale, il progresso dell’umanità consiste nel distaccarci dalla nostra condizione animale. Senza costrizione, controllo, educazione, gli esseri umani si comportano da puri egoisti, come aggressori senza scrupoli, impegnati a lottare, nel corso della loro intera esistenza, per la conquista di un posto migliore.
Questa opposizione tra natura e morale, realtà e volontà, comporta un rischio: che rinunciamo a costruire una diga per frenare i nostri desideri e scegliamo invece di conformarci a ciò che la scienza ci insegna sulla natura del mondo. I difensori di questa opinione hanno creduto di trovare un solido appoggio nelle teorie di Darwin e dei suoi discepoli sull’evoluzione delle specie. Dato che, per migliorare la specie, i deboli e i “difettosi” vengono eliminati presso le altre specie animali, non dovremmo procedere allo stesso modo anche nel caso degli umani? Nei primi decenni del secolo XX, numerosi paesi occidentali (Stati Uniti, Canada, paesi scandinavi) hanno già votato delle leggi eugeniste e proceduto a delle sterilizzazioni forzate. La Germania nazista ha adottato una politica di sterminio di individui e di razze ritenuti inferiori. Ai nostri giorni, trasferiamo gli stessi principi in altri campi: dato che la competizione dice la verità della vita, affermano i teorici del neoliberalismo, la società migliore è quella che lascia libero corso alla concorrenza e al mercato libero da ogni costrizione.
In realtà, la posizione di Darwin è molto più complessa. Rinunciando decisamente a qualsiasi idea di progetto divino e quindi anche di progresso, sia esso dovuto alla provvidenza o alla storia, egli insiste sul fatto che la differenza tra gli animali e gli uomini è di grado, non di natura. Anche le basi della morale si ritrovano già presso le altre specie. E, da qualche decennio, dei lavori pionieristici condotti dai primatologi, da specialisti della preistoria o da antropologi che lavorano su popolazioni di cacciatori-raccoglitori hanno constatato la presenza, dalle origini della specie umana, di atteggiamenti di compassione e di cooperazione, senza i quali i nostri antenati non sarebbero riusciti a sopravvivere.
Allo stesso tempo, basta guardarsi intorno per constatare che i rapporti umani non si reggono solo sulla cooperazione generosa. La natura non ci impone la guerra di tutti contro tutti, ma nemmeno la benevolenza sistematica. Il buon selvaggio è tanto immaginario quanto il cattivo selvaggio. Bisogna ammettere che questi due tipi di comportamento trovano origine nella nostra natura animale, ma che il predominio dell’uno o dell’altro dipende dalle circostanze. L’errore consiste, innanzi tutto, nell’ignorarne uno a detrimento dell’altro. È come nell’eterna disputa tra innato e acquisito, donato e voluto: attenersi a uno dei termini escludendo l’altro può comportare delle conseguenze disastrose. Alla riduzione degli individui alla loro eredità biologica presso i nazisti, corrisponde presso i bolscevichi la convinzione che la volontà non trovi alcun limite e che, sia con le piante che con gli uomini, possiamo sempre ottenere il risultato voluto. È così che la Russia si è coperta di una rete di campi che avrebbero dovuto assicurare la rieducazione del popolo.
Le reazioni morali di compassione e di cooperazione dipendono in particolare da tre variabili: il grado di prossimità tra il benefattore e il beneficiario; il posto che occupa la vittima nella scala del potere; la gravità del disastro. L’aiuto reciproco va da sé tra membri intimi di una famiglia, è scritto nella legge tra concittadini (solidarietà nei confronti degli anziani e dei malati), è presente ma problematico tra le nazioni dell’Unione Europea; e, per quanto riguarda il resto dell’umanità, è presente solo nel caso di un’immensa sventura, tsunami o genocidio, o di vittime impotenti, come i bambini. D’altro canto, la caduta di chi era potente, lungi dal provocare la compassione, suscita nella maggior parte di noi una sorta di godimento, come se l’ordine del mondo fosse stato ristabilito. Gli uomini-formica non hanno compassione per le disgrazie degli uomini-cicala, ritenuti responsabili del loro destino.
L’appello alla morale naturale non sempre è sufficiente per superare il nostro egoismo. La ragione può intervenire a sua volta, dimostrandoci che seguire solo i nostri interessi immediati ci impedisce di favorire i nostri interessi a lungo termine. Il puro egoismo distrugge gli altri intorno a noi, ma la nostra felicità dipende da loro: abbiamo bisogno di essere amati e di amare a nostra volta. (Traduzione di Luis E. Moriones)
Un’altra economia per una nuova Europa
di Guido Viale (il manifesto, 25.07.2012
Una classe dirigente inetta, incolta, arrogante, asservita sta portando alla rovina l’Europa e con essa le principali conquiste che il movimento operaio e la cultura democratica avevano realizzato nel corso di un secolo. Contrattazione collettiva, pieno impiego, diritti sindacali, sanità, pensione, istruzione, ricerca e cultura come diritti universali: promossi per il bene di tutti e non nel solo interesse di chi li paga o ne beneficia. La combinazione di tante manchevolezze nelle nostre classi dirigenti è riconducibile all’adesione, per molti esplicita e per gli altri sottintesa alla teoria liberista che affida il governo della società al mercato. Anzi, ai mercati.
Quei mercati sempre meno identificati come un sistema di relazioni tra soggetti indipendenti e sempre più come un insieme di potenze imperscrutabili nelle cui mani è riposto il destino del mondo. Sotto la copertura di questa pseudoteoria che ha impregnato di sé i vertici di imprese, istituzioni finanziarie, governi, partiti e mondo accademico si sono andati realizzando, nel corso dell’ultimo trentennio, l’asservimento totale della vita di intere popolazioni e dei loro governi, da un lato, al potere della finanza (e un gigantesco trasferimento di risorse dal lavoro al capitale) e, dall’altro, a uno spirito proprietario (condito di nazionalismo e razzismo: «padroni in casa nostra») che quelle stesse classi dirigenti sono andate diffondendo per fidelizzare il loro elettorato.
La politica è stata così ridotta a mera contabilità: dapprima sostenendo che solo il mercato promuove il benessere; da quando è scoppiata la crisi, terrorizzando la gente con la prospettiva di disastri crescenti se non si obbedisce ai mercati, sacrificando loro ogni volta qualcosa.
Sacrifici che non bastano mai: ogni nuova misura viene prospettata come risolutiva per poi scoprire che non basta ancora e che ce ne vogliono altre. In questa rincorsa alle richieste dei mercati anche l’unione politica dell’Europa è stata declassata al rango di mera misura per far fronte agli spread: una misura contabile da affiancare all’unione bancaria, agli eurobond, al fondo salva-stati, alla mutualizzazione dei debiti, alla trasformazione della Bce in prestatore di ultima istanza, ecc. Non c’è progetto, non ci sono valori condivisi, non c’è road-map, non c’è alcuna idea né considerazione per la democrazia. Confrontate questo non-pensiero con gli ideali dei "padri spirituali" o con la cultura dei fondatori della Comunità Europea: avrete una misura della caduta dello Zeitgeist di tutto l’Occidente.
Di questa cultura da contabili Monti e Draghi sono oggi gli esponenti di punta, per molti versi intercambiabili. Solo mere contingenze temporali hanno assegnato all’uno il governo dell’Italia e all’altro quello della Bce. Qualche mese in più o in meno avrebbe potuto invertire le loro carriere e i loro ruoli: sono entrambi espressione dello spirito predatorio della banca Goldman Sachs che li ha allevati. Formula, missione e filosofia del governo tecnico di Monti sono la traduzione in lingua odierna di un cartello che ornava gli uffici pubblici del ventennio fascista: «Qui si lavora e non si fa politica». La politica, cioè il governo e l’autogoverno della società, erano stati da tempo aboliti dai partiti che hanno preparato l’avvento di Monti e che oggi ne sostengono il governo. Sappiamo dove ci ha portato quel cartello: cultura soffocata, libertà distrutta, leggi razziali, guerra, milioni di morti, distruzione del paese. Non sappiamo ancora - ma possiamo immaginarlo guardando la Grecia, che ci precede di qualche mese lungo un cammino segnato - dove ci porterà un governo che si adegua ai diktat della finanza internazionale.
E’ evidente che lungo questo tragitto non solo la Grecia o la Spagna, ma l’Europa intera, Germania e satelliti compresi, sono votati al disastro. In tempi di globalizzazione non esiste una via di ritorno alle sovranità dei singoli paesi, come non esiste via di ritorno alle valute nazionali che non siano un disastro ancora peggiore. Il mondo è cambiato e ripercorrere le vie battute nei cosiddetti "trent’anni gloriosi" (1945-1975) non è più un’alternativa praticabile. Bisogna convertire il sistema a nuove produzioni compatibili con i limiti ambientali del nostro pianeta; ma anche questo non basta. Perché per poterlo fare ci vogliono una nuova cultura e una nuova classe dirigente che se ne faccia interprete (quelle attuali sono quasi interamente da rottamare); e la corresponsabilizzazione di una vasta cittadinanza attiva a loro supporto. Una svolta epocale. Saremo mai in grado di farcene promotori? Sì, e per molti motivi:
Innanzitutto, gli attuali esponenti dell’establishment europeo e occidentale - come l’apprendista stregone che non riesce a controllare le potenze occulte che lui stesso ha evocato - sono incapaci di trovare una soluzione alla strapotenza della finanza a cui hanno sciolto le briglie. L’impotenza della Bce non è il frutto di un errore di progettazione, ma della scelta di sottrarre ai governi il controllo di uno strumento fondamentale della sovranità - la creazione di moneta - per contenere le rivendicazioni salariali e l’espansione del welfare finanziato con la spesa pubblica.
In secondo luogo non bisogna sopravvalutare nemmeno le loro competenze: creare un Gas (Gruppo di acquisto solidale) o dirigere un cooperativa sociale o un quotidiano come il manifesto è spesso più difficile che diventare amministratore delegato di una grande banca grazie agli appoggi politici di persone altrettanto incompetenti. E i risultati si vedono!
Poi possiamo e dobbiamo ricostituire delle scuole di auto formazione - quel ruolo una volta svolto dai partiti, e da tempo abbandonato - contando su una molteplicità di competenze e di buone pratiche oggi completamente ignorate, se non derise, dalla cultura ufficiale.
Ma soprattutto dobbiamo fare nostra l’idea che non esiste democrazia politica senza democrazia economica, cioè autogoverno nei e sui luoghi della produzione e del lavoro. È questo il grande buco nero del pensiero politico del secolo scorso: l’idea che si possa contare nella società anche se le decisioni su cosa, come, dove e per chi produrre vengono sottratte alla comunità che ne dipende. La storia del ventesimo secolo è stata di fatto un percorso di progressiva espropriazione delle classi popolari e lavoratrici dalle componenti più significative della loro esistenza.
Da un lato, il fordismo, che dalla fabbrica ha progressivamente investito tutta la società, ha svuotato il lavoro del suo contenuto, della possibilità di far valere i propri saperi e il proprio saper fare nella determinazione dei rapporti con le altre componenti della società e, in particolare, nei rapporti di forza con il capitale. Dall’altro il consumismo ha svuotato la vita quotidiana, la riproduzione della vita sociale, l’insieme del lavoro di cura, riducendole all’acquisto di merci e al consumo di servizi sempre più mercificati: quelli che il mercato offre, che la pubblicità impone e che il nostro reddito consente. Ma da tempo questi processi sono arrivati al capolinea: e milioni di persone si sono già messi alla ricerca di soluzioni alternative, di un mondo diverso.
Un recupero di democrazia, di possibilità e capacità di autogoverno, non può basarsi solo su aspetti formali, sulla possibilità di concorrere a decidere sulle leggi e sul loro rispetto, che pure sono aspetti essenziali. Una vera democrazia ha bisogno di affiancare alla rappresentanza formale sedi e strutture di partecipazione sostanziale in tutti gli ambiti: e innanzitutto in quelli della produzione, del lavoro e della cura. Partecipare non vuol dire solo "scegliere", delegando alle proprie rappresentanze o al mercato il compito di rendere operative le nostre scelte. Vuol dire contribuire, con l’interezza delle nostre persone, dei nostri corpi, dei nostri affetti, dei nostri saperi, della nostra esperienza, alla realizzazione delle nostre scelte.
Se l’"uomo artigiano", che riunisce nella stessa figura competenza tecnica, manualità e affettività - o per lo meno, grande attenzione - nei confronti dell’oggetto del suo lavoro (pensiamo al lavoro di chi ripara o mantiene oggetti o impianti non più funzionanti) è l’emblema di una figura professionale che va oltre - in positivo - al fordismo; e se il consumo critico, nella sua accezione più ampia, a partire dalle forme di condivisione promosse nei gruppi di acquisto solidale, adombra la strada di un modello di cura della vita quotidiana che va oltre la ripartizione tradizionale dei ruoli tra i generi, il cuore di una riconversione ecologica del sistema sarà il processo attraverso cui una intera comunità, coinvolgendo in esso i governi locali, l’associazionismo e l’imprenditoria disponibile, prende in carico le sorti delle produzioni che insistono sul proprio territorio di riferimento, a partire dai servizi pubblici locali, delle aziende in crisi e votate alla scomparsa, dall’agricoltura di prossimità.
Certamente una nuova idea di Europa non può prescindere da un confronto a tutto campo con il potere della finanza, imponendo una radicale ristrutturazione dei debiti (una soluzione che ormai cominciano a prendere in considerazione diversi economisti mainstream), prima che sia la finanza a portare allo stremo, una dopo l’altra, le economie di tutti i paesi.
Creare un’Europa dei cittadini
di Ulrich Beck (la Repubblica, 13.07.2012)
Poco tempo dopo essere diventato cancelliere federale tedesco, Gerhard Schröder radunò un piccolo circolo di intellettuali ed esperti, con lo scopo di discutere se il concetto di “società civile” potesse diventare un’idea-guida applicabile ad ambiti politici diversi, per coniugare la libertà politica e la coesione sociale in tempi di globalizzazione.
I colloqui furono molto vivaci e furono seguiti da Schröder con grande attenzione. Ad esempio, essi ruotarono attorno alla questione di come poteva essere contrastata la nascita di una nuova sotto-classe di esclusi, cioè di persone che non trovano accesso né al mercato del lavoro, né alla società civile e alle sue istituzioni politiche.
Questo tentativo di tracciare un orizzonte programmatico per il governo rosso-verde di Schröder morì nel giorno in cui un sondaggio commissionato dallo stesso Schröder dimostrò che i tedeschi non erano in grado di distinguere tra società civile e servizio civile. Che le cose stiano ancora così, e non solo per la Germania, risulta evidente dal dibattito attuale suscitato dal manifesto “L’Europa siamo noi”. Il progetto Europa - trasformare i nemici in vicini - rischia di fallire. Molti europei la pensano come l’ex cancelliere Helmut Kohl, che riferendosi all’attuale cancelliera ha detto: “La ragazza mi rompe l’Europa!”. Essi non sopportano più l’egemonia culturale degli euroscettici e chiedono di smetterla con le lamentele.
In questa situazione decisiva, Helmut Schmidt, Jürgen Habermas, Herta Mül-ler, Senta Berger, Martin Schulz, Jacques Delors, Richard von Weizsäcker, Zygmunt Bauman, Adam Krzemiñski, Javier Solana, Constanza Macras, Mircea Cãrtãrescu, Iván Fischer, Dunja Hayali, Petr Pithart, Imre Kertész e molti altri esortano a superare l’Europa della domenica, l’Europa senza europei, e a fondare un’Europa di tutti i giorni, un’Europa dei cittadini, un’Europa dal basso; e non a parole, ma con i fatti, con il “doing Europe”.
Un anno di volontariato europeo consentirebbe non solo alle generazioni più giovani e alle élite intellettuali, ma a tutti, anche ai pensionati, a chi ha un lavoro, ai disoccupati, di realizzare in un altro Paese, in un’altra area linguistica, un pezzo di società civile europea, come l’aveva intesa programmaticamente Hannah Arendt nella sua concezione della “vita activa”. La società civile non è creata dal lavoro, immediatamente rivolto ad assicurare l’esistenza, ma da un agire che mira alla partecipazione e alla progettualità politica.
Edo Reents nota l’assenza “del ‘sociale’ nell’anno di volontariato” e ritiene che “i promotori lo abbiano deliberatamente omesso, poiché altrimenti avrebbe fatto pensare troppo facilmente a quei lavoracci come pulire il sedere o qualcosa del genere”. E Günther Lottes cade nella stessa trappola, di scambiare la società civile con il sevizio civile: “Vogliamo ospitarci a vicenda nelle nostre case di riposo per anziani? O i disoccupati tedeschi devono trasferirsi dai loro casermoni di periferia nei quartieri-dormitorio francesi?”
Chi incorre in questi fraintendimenti, è cieco di fronte alla proposta del manifesto “L’Europa siamo noi”: il nucleo della crisi europea non sta nelle banche o nei greci e nei deficit dell’Unione fiscale - ciò che manca è una società civile europea intesa nel senso di Hannah Arendt, una società civile che può essere costruita a partire da progetti come quello di un anno di volontariato europeo. Qualche esempio al riguardo. Immaginiamo che l’anno di volontariato europeo sia già realtà.
Frank Schuster, 44 anni, impiegato di banca a Lüneburg, ha collaborato per un anno a un progetto ambientale ad Atene e in questo tempo ha fatto conoscenze e stretto amicizie. Ha visto che alla madre di un suo amico greco era stata più volte ridotta la pensione, ha visto i suoi vicini traslocare perché non potevano più pagare l’affitto, ha visto i negozi della sua via costretti a chiudere e ha visto come le persone si sentissero profondamente ferite nella loro dignità dal diktat del risparmio. Tornato in Germania, non riesce a capacitarsi di come nei media, nella politica e nella vita quotidiana si continui a dare addosso a “quei falliti dei greci”. Mentre qui da noi è diventato popolare il rimprovero secondo cui i greci vivrebbero al di sopra dei propri mezzi, egli ha visto proprio il contrario: che sempre più persone sprofondano nella povertà.
Brigitte Reimann di Passau, 28 anni, insegnante disoccupata, collabora a Varsavia a un progetto per la pubblicazione di un manuale di storia tedesco-polacco. È accolta molto cordialmente. Tuttavia, di quando in quando si accorge che il diktat del risparmio suscita ricordi dell’imperialismo militante tedesco. Un bel giorno un vicino pensionato non si trattiene dal domandarle: “Cos’ha fatto tuo nonno a quei tempi?” Lei lo guarda e risponde: “Mio nonno aveva quattordici anni quando la guerra è finita.” Allora il vicino si blocca un attimo, sorpreso, e dice sottovoce: “Scusa”.
Questi esempi mostrano chiaramente a quale genere di “sociale” miri l’anno di volontariato europeo per tutti. Non si tratta né di servizio sociale, né di assistenza sociale nel senso corrente del termine, ma dell’immedesimarsi nella situazione degli altri - nelle loro paure, speranze, delusioni, nei loro sentimenti di umiliazione, nella loro rabbia - attraverso la convivenza, l’incontro, l’agire in comune, il dialogo, l’osservazione, la condivisione di esperienze. Nel momento in cui la prospettiva degli altri diventa componente della propria immagine di sé e del mondo nascono un dialogo quotidiano, un agire quotidiano al di là delle frontiere. In altri termini, si forma uno “sguardo cosmopolitico”, una “immaginazione dialogica” come forma mentis di una società civile europea.
La crisi dell’euro non è soltanto una crisi economica, ma anche una crisi sociale. Essa minaccia la coesione dell’Europa. Il fatto che i contribuenti dell’eurozona siano chiamati a sostenere in comune i costi della crisi di bilancio degli stati membri sottopone il legame allentato della solidarietà europea a un test di trazione.
A ciò si aggiungono le tensioni e le spaccature provocate dai flussi di migranti e di esuli - oggi provenienti soprattutto dai paesi della “primavera araba” - . Essi gravano in particolare sugli stati meridionali dell’Unione Europea, già minacciati dalla bancarotta. Entrambi questi drammi - quello monetario e quello umanitario, risultato di doveri disuguali per i richiedenti asilo - approfondiscono la frattura tra Nord e Sud, che attraversa l’Europa. Il declino di interi paesi offre un alibi per la discriminazione e per la xenofobia spinta fino alla violenza aperta. Dunque, si tratta di impedire non soltanto il crollo dell’euro, ma anche quello della società civile europea - dei valori europei, dell’apertura al mondo, della libertà politica e della tolleranza. Corrispondentemente, occorre rafforzare e moltiplicare, contro la xenofobia e per l’integrazione dei migranti, le reti comunali e le iniziative civiche già esistenti.
Per superare la crisi dell’Europa non è sufficiente una ristrutturazione delle istituzioni europee (governo dell’economia, Unione fiscale, muro spartifuoco, eurobond). L’Europa non si può salvare soltanto con “ombrelli protettivi”. Il malessere ha le sue radici nel fatto che abbiamo un’Europa senza europei. Ciò che manca, un’Europa di cittadini, può crescere solo dal basso, dalla società civile stessa. Per questo c’è bisogno di un anno di volontariato europeo per tutti. (Traduzione di Carlo Sandrelli)
L’Occidente deve imparare a dialogare con il nemico
È l’unica via di salvezza di Stati Uniti ed Europa
di Charles A Kupchan (Corriere della Sera, 05.07.2012)
La dimensione della politica interna è tornata al centro della scena, per almeno due ragioni. La prima è che negli Stati Uniti e in altri Paesi sono in calendario, nel 2012, elezioni cruciali. La seconda, di gran lunga più importante, è che la globalizzazione sta causando in tutto il mondo sconvolgimenti economici e grande malcontento sociale, ponendo i governi di fronte a problemi nuovi. A livello nazionale, queste dinamiche interne si ripercuotono in modo particolarmente accentuato sulla sfera della politica estera e sulle capacità di governance. Dalla difesa della solidarietà transatlantica alla gestione delle relazioni Usa-Cina, passando per le conseguenze strategiche della Primavera araba, a politici e diplomatici non mancano certo le sfide; ma ancora più difficile sarà governare la dimensione politica interna della diplomazia internazionale, in un mondo nel pieno di un tumultuoso risveglio.
(...) Non è una coincidenza che Stati Uniti ed Europa, insieme al Giappone, si trovino simultaneamente in questa condizione di disfunzionalità politica. Comune è il male perché comune ne è la causa: la globalizzazione. Questa sta producendo, nelle società aperte dell’Occidente, un crescente divario tra ciò che gli elettorati chiedono ai governanti e ciò che questi sono in grado di offrire. Il contrasto tra la crescente domanda di buongoverno e il progressivo ridursi dello stesso sta compromettendo pericolosamente il potere e la funzionalità del mondo occidentale.
Nelle democrazie industrializzate, gli elettori chiedono ai governi di trovare soluzioni al declino degli standard di vita e alle sempre più ampie disuguaglianze generate da un flusso di beni, servizi e capitali senza precedenti. Negli Stati Uniti, la causa di fondo del malessere politico è lo stato catatonico dell’economia nazionale. Dal 2008 in poi, molti americani hanno perso casa, lavoro e risparmi, dopo decenni di sostanziale stasi dei salari della classe media. Negli ultimi dieci anni, il reddito familiare medio in America è diminuito di oltre il 10%, e parallelamente le disuguaglianze economiche sono costantemente cresciute, facendo degli Stati Uniti il paese industrializzato a maggiore tasso di disuguaglianza: nel 2010, l’1% più ricco della popolazione possedeva quasi il 25% del reddito complessivo, contro un 10% scarso di metà anni Settanta. La competizione globale è stata la causa principale della tempesta abbattutasi sui lavoratori americani, che hanno visto i propri posti prendere il largo sull’onda delle delocalizzazioni produttive.
(...) Se gli Stati Uniti piangono, l’Europa certo non ride. Le opinioni pubbliche sono in rivolta contro gli effetti congiunti dell’integrazione europea e della globalizzazione. La vita politica del Vecchio continente sta subendo una progressiva rinazionalizzazione: gli Stati membri dell’Ue puntano a riappropriarsi delle loro prerogative sovrane, minacciando così il progetto d’integrazione politico-economica avviato dopo la Seconda guerra mondiale. Populismo e nazionalismo stanno erodendo il senso di destino condiviso su cui poggia il progetto europeo. Come negli Usa, alla radice del problema vi sono le condizioni dell’economia: negli ultimi vent’anni, il reddito della classe media è precipitato e le disuguaglianze sono aumentate.
Il progetto europeo è a un bivio: con i governi nazionali messi alle corde da cittadini esasperati, l’Ue ha tortuosamente e faticosamente messo a punto un piano di salvataggio dell’euro, ma questa risposta lenta e timida si scontra con l’impazienza dei mercati, esacerbando e prolungando la crisi finanziaria. La governance collettiva, di cui l’Ue ha disperato bisogno per prosperare in un mondo globalizzato, risulta scarsamente compatibile con la crescente ostilità della piazza al progetto di unificazione. Così l’Ue diventa sempre più introversa, frammentata e incapace di rappresentare quel partner valido e affidabile cui l’America anela.
Se la politica interna condizionerà le relazioni fra amici, essa giocherà un ruolo ancora più importante nei tentativi di costruire rapporti più distesi con regimi «nemici». Un tratto distintivo della politica estera di Obama è stata la prontezza nell’intavolare un dialogo con gli avversari dell’America: il presidente ha perseguito il «reset» dei rapporti con la Russia, ha puntato a stemperare la rivalità con la Cina, ha stabilito relazioni più strette con il Myanmar e ha teso la mano a Iran, Corea del Nord e Cuba. In tutti questi casi, il fronte interno si è rivelato non meno ostico dello sforzo diplomatico: parlare col nemico comporta infatti un rischio politico elevato, se gli avversari in patria sono sempre pronti a dipingere i tentativi di dialogo come una resa.
(...) Nel dialogo con gli avversari, gli ostacoli che Obama si trova a fronteggiare in patria non sono minori di quelli che lo attendono nei Paesi con cui sta tentando di costruire un rapporto più costruttivo. I Repubblicani non gli risparmiano critiche taglienti: l’opinionista conservatrice Michelle Malkin ha rinfacciato al presidente di «essersi fatto la fama mondiale di grande rabbonitore e leccapiedi numero uno»; Mitt Romney, candidato repubblicano alla Casa Bianca, lo ha accusato di perseguire una politica estera «irresponsabile», che configura una «vera e propria rinuncia alla leadership mondiale».
Se parare questi colpi è difficile, ancora più complicato sarà far sì che gli accordi internazionali siglati in nome del riavvicinamento passino indenni per le forche caudine del Congresso, che molto difficilmente si limiterà a un ruolo passivo. Obama ha faticato non poco per convincere il Senato ad approvare il nuovo trattato «start» sulla riduzione degli arsenali nucleari, e la sua politica di «reset» con la Russia si scontra con la costante resistenza del Congresso. (...) Come se non bastasse, Obama deve preoccuparsi della politica interna non solo a casa, ma anche all’estero: i suoi interlocutori - da Mahmoud Ahmadinejad a Vladimir Putin, passando per Raul Castro - giocano infatti costantemente in patria la carta dell’antiamericanismo per rafforzare il proprio potere. Di conseguenza, anche quando vogliono venire a patti con l’America si ritrovano ostaggio delle passioni popolari da essi stessi suscitate.
(...) Osservatori e politici occidentali dovrebbero deporre l’illusione che la diffusione della democrazia in Medio Oriente implichi automaticamente l’affermazione dei valori occidentali. È anche probabile che la voglia di riscatto e dignità che è stata alla base della richiesta di democrazia si traduca in uno spirito di rivalsa nei confronti degli Stati Uniti, dell’Europa e di Israele: in un sondaggio effettuato nella primavera 2011 (dopo la caduta di Mubarak), ad esempio, oltre il 50% degli egiziani si diceva favorevole ad annullare il trattato di pace stipulato con Israele nel 1979. In una regione come il Medio Oriente, a lungo dominata da potenze straniere, più democrazia può benissimo comportare una drastica riduzione della cooperazione strategica con l’Occidente.
In gran parte del pianeta, dunque, le dinamiche politiche interne tornano al centro della scena. Forse è giusto così, ma questo renderà molto più difficile governare gli affari di Stato. Allacciamo le cinture.
Grecia. Noi e loro
Dall’ideale democratico alla tirannide dei molti
Il moderno lessico politico forgiato sull’Acropoli
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 17.06.2012)
Un bell’insegnamento del pensiero politico ateniese è che non si deve rischiare di cadere in schiavitù per debiti. Fu Solone (arconte nel 594/3 a. C.) a far sì che si affermasse questo principio. Egli cancellò i debiti per i quali il pegno era il terreno del debitore o addirittura la sua libertà personale. Il debito non può essere un’ipoteca su esseri umani e perciò, in nome della libertà, va cancellato. Questo principio coraggioso imbarazzerebbe molti «finanzieri» del tempo nostro nonché i responsabili delle strutture bancarie, che sull’altrui indebitarsi prosperano. Del resto una forte corrente di pensiero politico moderno, nella seconda metà del secolo XX, su impulso di una figura notevole come François Mitterrand, pose il problema della cancellazione del debito di alcuni Paesi del Terzo e Quarto Mondo. Fu una scelta schiettamente «soloniana» che, nel tempo, ha dato frutti positivi.
Solone seppe anche andare ad imparare dagli altri, da popoli di antichissima civiltà come gli Egizi. Una scelta - questa - che si pone agli antipodi rispetto all’autosufficienza miope. Solone fu anche allarmato preconizzatore dei rischi del potere personale, della «tirannide». «Tirannide» - termine che vive in tutte le civiltà politiche - è parola greca dal significato, in origine, non negativo. Indicò dapprima un ruolo di mediatore piuttosto che di despota.
Caratteristica del «tiranno» era, in ogni caso, l’assunzione di un ampio potere, fondato su di un iniziale consenso ma ben presto protratto senza limiti di tempo e sorretto con strumenti quali la guardia del corpo armata e la violenza contro gli oppositori non remissivi. Solone previde questo sviluppo della «tirannide» che un abile demagogo, Pisistrato, era riuscito ad assumere in Atene (561-527 a. C. con un intervallo ed un plateale «rientro»). Inizialmente era stato lo stesso demo di Atene (il popolo sovrano) ad attribuirgli una guardia del corpo armata come strumento e garanzia di potere. Per noi «tirannide» è nozione totalmente priva di sfumature positive. Ed anzi, come afferma il nipote di Pericle, Alcibiade, parlando, da fuggiasco, al cospetto degli Spartani (415 a.C.), «la democrazia si è costituita e ha preso forma e nome, in Atene, come antitesi della tirannide» (Tucidide, VI, 89, 4).
Nel lessico ateniese «popolo» (demo) e «democrazia» sono sinonimi: anzi «popolo» è parola che indica al tempo stesso sia il soggetto sociale della democrazia (il popolo) che il regime politico fondato sul potere popolare (democrazia). Spesso si dimentica questa peculiarità lessicale, che è anche sostanza. La legittimità della democrazia ad Atene è fuori discussione nel momento in cui essa è la forma politica che si identifica con la comunità stessa.
Che la tirannide nascesse da un significativo consenso popolare era però fenomeno imbarazzante. I critici della democrazia ponevano perciò l’accento proprio sull’elemento tirannico insito, a loro giudizio, nella democrazia. Elemento tirannico che si presenta sotto due aspetti: la incontrollata imposizione di una volontà popolare (la «dittatura di maggioranza» che si pone al di sopra della legge) e la nascita dall’interno stesso del meccanismo assembleare-democratico di figure demagogiche particolarmente influenti e carismatiche, che realizzano di fatto una forma di «tirannide», o meglio di potere che gli avversari ritengono di poter definire tirannide.
Naturalmente tutto ciò appare a noi oggi come esperienza tutt’altro che remota, anzi senz’altro vivente e attuale. Oltre tutto le parole con cui tutto questo genere di fenomeni si esprime sono le medesime che adoperiamo noi oggi, e nelle più diverse lingue (democrazia in particolare è diventata sic et simpliciter anche parola turca). Ma una avvertenza è necessaria: la diretta gestione del potere da parte di una «assemblea popolare» (assemblea dei detentori della piena cittadinanza) è tutt’altra cosa rispetto alla procedura elettiva che produce una rappresentanza (cui, quando esisteva la piena sovranità nazionale, gli elettori delegavano il potere esecutivo). Resta il fatto che anche la viva percezione dei modi, talvolta sottili e graduali, onde un regime politico trapassa in un altro era ben viva nella teoria politica greca.
Ciò si coglie non solo nella creazione di «doppi» negativi di forme politiche positive (monarchia/tirannide; aristocrazia/oligarchia; democrazia/oclocrazia) ma soprattutto nella descrizione del «ciclo», che è implicito già nel dialogo costituzionale erodoteo e culmina nella formulazione esplicita e quasi pedantesca di Polibio (nel VI libro delle Storie). Una formulazione talmente chiara e completa da apparire illuminante al Machiavelli che la immise di peso nel primo libro dei Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio. Ma proprio questo arrovellarsi intorno al modo in cui la «volontà popolare» può lasciarsi deviare fino ad autodistruggersi è problematica nostra e sommamente moderna. Anche noi oggi sappiamo bene che il trapasso da un modello politico in un altro di segno ben diverso può avvenire per progressivi slittamenti, non necessariamente per bruschi salti.
Il pensiero politico greco si è anche posto il problema del valore di una nozione a prima vista solo numerica quale «maggioranza». I critici (ed erano numerosi) della procedura decisionale a maggioranza (cioè democratica) ponevano, in toni talora accesi talora pacati, la questione della competenza come pietra miliare da opporre alla mera legge del numero. Né si può dire che siano stati escogitati argomenti particolarmente convincenti in antitesi a tale obiezione. (Semmai si può osservare che Aristotele, nella Politica, approda alla svalutazione della «legge del numero» per altra via, quando osserva che democrazia non è il governo della maggioranza ma il governo dei poveri, i quali peraltro - soggiunge - spesso sono anche maggioranza).
L’istanza ricorrente del necessario predominio della competenza era tipica della critica oligarchica alla democrazia (Platone, Crizia etc.). Di fatto però competenza era un modo eufemistico per dire ricchezza. In tempi a noi più vicini quella istanza divenne l’architrave della critica di parte liberale alla democrazia (per tutto il secolo XIX questa fu la contrapposizione dominante, specie in Europa). In tempi a noi ancor più vicini la prevalenza del principio democratico su quello liberale, affermatasi ad es. nelle codificazioni «costituzionali» del secondo dopoguerra, è venuta declinando, e ha ceduto il passo al ritorno in grande stile del predominio dei «competenti»: o di coloro che, intrinseci al mondo arduo della finanza, si pretendono tali.
La democrazia totalitaria di Rousseau
Il modello dell’assemblea continua consegna il potere all’uomo forte
di Giuseppe Bedeschi (Corriere della Sera, 11.06.2012)
In Italia l’interesse per il pensiero politico di Rousseau è sorto abbastanza tardi. Chi consulti un repertorio bibliografico troverà ben poco sul grande ginevrino, in lingua italiana, nella prima metà del Novecento: un libro di Solazzi sulle Dottrine politiche del Montesquieu e del Rousseau, del 1907; un saggio di Del Vecchio Sui caratteri fondamentali della teoria politica del Rousseau, apparso su una rivista nel 1912; una monografia di Sciacky (Il problema dello Stato nel pensiero di Rousseau) del 1948 e una di Saloni (Rousseau) del 1949. A ciò si possono aggiungere il breve profilo che Gaetano Salvemini dedicò a Rousseau nel suo libro su La Rivoluzione francese (1905) e le poche pagine di Benedetto Croce sul ginevrino negli Elementi di politica (1924). Veramente poco, dunque, rispetto agli studi apparsi in quel periodo non solo in Francia, come è ovvio, ma anche in Inghilterra (con opere come quella di Cobban) e in Germania (è del 1932 il fondamentale saggio di Cassirer, Das Problem J.-J. Rousseau).
In realtà, un interesse profondo per Rousseau è sorto in Italia solo nella seconda metà del Novecento, con il diffondersi impetuoso del marxismo. Il filosofo che avviò la rivalutazione marxista del ginevrino fu Galvano Della Volpe, seguito dai suoi allievi (Umberto Cerroni e Lucio Colletti). Nel 1957 Della Volpe pubblicò un libro che ebbe un buon successo (ne uscirono varie edizioni): Rousseau e Marx. In quest’opera Della Volpe vedeva in Rousseau il pensatore che aveva distrutto il quadro teorico del liberalismo (in quanto aveva rifiutato la democrazia rappresentativa o delegata e aveva rivendicato una democrazia diretta) e che aveva posto l’esigenza di una società nuova, incardinata non più sull’«astratto diritto borghese», bensì sul riconoscimento sia dei bisogni sia dei talenti degli individui.
Portando avanti questo filone interpretativo, Umberto Cerroni (nel suo Marx e il diritto moderno, 1962) attribuiva a Rousseau il merito di avere avviato la crisi della dottrina dei diritti naturali, potenziandone la componente più strettamente politica e risolvendo il Giusnaturalismo non già nel «garantismo» dei diritti individuali, bensì nella creazione di una comunità politica tendenzialmente egualitaria, coesa e organica.
Ma il saggio che doveva dare la più vigorosa interpretazione marxista di Rousseau fu quello che Colletti pubblicò nel 1968 (e che ebbe larghissima diffusione): Rousseau critico della «società civile». Qui Colletti sosteneva che i concetti centrali della concezione politica di Marx erano già stati svolti dal ginevrino. Infatti Rousseau non solo aveva invalidato l’idea cristiana della «caduta», del peccato originale, ma aveva mostrato che l’uomo, originariamente buono, era stato guastato dall’iniqua organizzazione della società e che quindi il problema della rigenerazione dell’uomo veniva a coincidere con il problema della rigenerazione della società.
Secondo Colletti, il ginevrino aveva dato un formidabile contributo alla teoria politica socialista, con la sua percezione precisa del fatto che la società borghese moderna è fondata sulla concorrenza, sulla opposizione e sul contrasto degli interessi e che dunque in essa i rapporti sociali sono in fondo rapporti a-sociali; con la sua concezione dello Stato come di uno strumento costruito dai ricchi a difesa dei loro privilegi; con il suo rifiuto dei cardini dello Stato liberale borghese: la divisione dei poteri, la rappresentanza (poiché la «volontà generale» è inalienabile, dunque non è delegabile, e il popolo deve esercitare direttamente la propria sovranità).
Perciò nel quadro tracciato da Rousseau (sottolineava Colletti), il vecchio Stato doveva essere distrutto e si doveva costruire una società nuova, o piuttosto una comunità, profondamente solidale, coesa e organica, la quale doveva autogovernarsi attraverso l’esercizio della democrazia diretta o assembleare, come nelle antiche poleis greche a reggimento democratico. (È certo singolare che Colletti non ricordasse una significativa ammissione di Rousseau: che la democrazia diretta poteva essere realizzata solo nei piccoli Stati, non nei grandi: una ammissione che riduceva di molto l’applicabilità della sua teoria, come sottolineò Paolo Rossi in un suo saggio introduttivo agli scritti roussoviani pubblicati da Sansoni nel 1972).
Naturalmente, restavano fuori dal quadro tracciato da questi studiosi marxisti le considerazioni che, a proposito di Rousseau, erano state formulate dal pensiero democratico-liberale italiano. Nel suo libro La Rivoluzione francese 1788-1792 Salvemini, tracciando un ritratto del ginevrino, aveva parlato di «infiltrazioni totalitarie» e aveva criticato la sua idea di una «società perfetta» e di una «unanimità infallibile». Alla teoria roussoviana Salvemini contrapponeva l’idea di una democrazia in cui «la maggioranza abbia il diritto di governare ma abbia il dovere di rispettare nella minoranza il diritto di critica e quello di diventare alla sua volta maggioranza».
Era un punto, questo, sul quale insisté molto Luigi Einaudi. In un discorso su Rousseau pronunciato all’Università di Basilea nel 1956 (poi raccolto nelle Prediche inutili), egli sottolineò diversi aspetti inquietanti dell’idea roussoviana di «volontà generale». Einaudi ricordava che nel Contratto sociale si legge che il popolo è «una moltitudine cieca, la quale spesso non sa ciò che vuole, perché raramente conosce quel che è bene per lei». E affinché la «volontà generale» possa affermarsi occorrono, secondo il ginevrino, due condizioni: che non ci siano partiti ad alterare il giudizio dei singoli (poiché i partiti sono veicoli di interessi particolari e non generali) e che ci sia una guida (il famoso «legislatore», sul tipo di Licurgo) che educhi profondamente gli uomini, che trasformi la loro natura, che adegui la loro volontà alla ragione. Solo in questo modo i cittadini riuniti sono in grado di esprimere la «volontà generale». E chi dissente da essa deve piegarvisi, deve ammettere di essersi sbagliato, deve riconoscere la Verità.
Dunque, osservò Einaudi, in questa concezione il cittadino che dissenta dalla maggioranza non ha il diritto di propugnare le proprie opinioni e quindi non ha il diritto, ove riesca a persuadere altri, di volgere la minoranza in maggioranza e di modificare le leggi. In questo modo però, diceva Einaudi, Rousseau ha teorizzato uno Stato totalitario, con conseguenze esiziali: «Da Robespierre a Babeuf, da Buonarroti a Saint-Simon, da Fourier a Marx, da Mussolini a Hitler, da Lenin a Stalin, si sono succedute le guide a insegnare ai popoli inconsapevoli quale era la verità, quale era la volontà generale, che essi ignoravano: ma che una volta insegnata e riconosciuta, i popoli non potevano rifiutarsi di attuare».
Questo appassionato dibattito su Rousseau è vivo ancora oggi. A trecento anni dalla nascita del grande ginevrino, il suo pensiero continua a dividere le menti nella perenne discussione sui principi e sulle regole della democrazia.
C’era una volta l’Europa
La distruzione dell’ordine europeo non sarebbe solo una rovina finanziaria ma politica, culturale Manca la coscienza che il problema non è greco ma dell’intera Unione e per questo il panico regna sinistro
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 31.05.2012)
È colmo di insidie e doppiezze, il modo in cui un gran numero di politici europei, e di economisti, e di esperti, sta prospettando l’uscita della Grecia dalla moneta unica.
Sembra una preparazione razionale al peggio, ma i presupposti di una vera preparazione sono assenti: è del tutto inaudibile una critica autentica degli errori commessi, che corregga alle radici i vizi dell’euro e dell’Unione. Non vediamo che un vacuo oscillare tra falsi allarmi e false sicumere. A volte la secessione di Atene è temuta, per gli effetti finanziari che avrebbe; altre volte sembra in segreto propiziata, accelerata. Non è interpretabile diversamente, ad esempio, la decisione che il Fondo salva-Stati ha preso all’inizio di maggio, quando gli aiuti a Atene sono passati dai concordati 5,2 miliardi di euro a 4,2 miliardi: «un miliardo di olio bollente su una ferita aperta», scrisse Giuliano Amato sul Sole 24 ore del 13 maggio. Stessa apatica indolenza di fronte a un possibile no irlandese al Patto di bilancio (fiscal compact), nel referendum di oggi. Come sempre si correrà dietro la storia, senza farla.
Chi ha gettato la Grecia nel marasma ha volutamente giocato col fuoco, oltre che con un popolo, e ancora sorprende lo stupore causato dal voto del 6 maggio: una maggioranza parlamentare introvabile, il tracollo dei vecchi partiti, la necessità di indire - il 17 giugno - nuove elezioni. Viste le cose come stanno, si comincia a considerare fatale lo sfascio della moneta, e neanche così nefasto. Senza Atene si potrà forse salvare l’Euro, anche se rattrappendolo un po’. Meglio pochi felici - in un’eurozona ripulita - ben sorretti dal muro antincendio (il famoso firewall) che fermerà l’espandersi del male. Si può fare, dicono a Berlino e a Bruxelles: «È governabile».
Quel che inquieta, nei piani d’emergenza allo studio, non è la volontà di erigere muri. Prepararsi a neri scenari è saggezza, in politica, a condizione però che il male sia riconosciuto, detto, e non circoscritto ma proscritto. Altrimenti avremo barriere di carta, come l’esiziale linea Maginot che doveva immunizzare i francesi da assalti nazisti.
Tale è l’odierno muro antincendio, e il motivo è chiaro: manca la coscienza che la crisi non è greca ma dell’intera Unione, e per questo il panico che regna ha qualcosa di sinistro. È un panico fatto di leggerezza, di ignoranza storica, di vuoti di memoria colossali. In cuor loro i capi europei sanno di mentire, quando dicono che non ci sarà contagio. Quando esibiscono tranquillità, come se tutto potesse continuare come prima, dopo il crollo greco o il no irlandese. La leggerezza è funesta, perché non è così che l’Europa ritroverà le forze e i cittadini la fiducia.
Chi prospetta un’uscita sopportabile di Atene sta occultandone il prezzo, e non valuta quel che significherebbe la disgregazione dell’euro. Troppo facilmente ci si consola, credendo nella favola che ci si racconta: l’eurozona che sopravviverebbe, l’Unione che resterebbe quella che conosciamo. Nella migliore delle ipotesi vengono enumerate le perdite finanziarie, alcuni evocano perfino una Banca centrale non più solvibile, ma a quel che sta nel fondo del pozzo non si guarda.
Anche economisti illustri giocano con l’Unione come fosse un algoritmo. Paul Krugman dice giustamente che l’euro s’infrangerà, vista la volontà d’impotenza degli Stati, ma subito aggiunge che non sarà il dramma paventato. L’Argentina nel 2001-2002 si sganciò dal dollaro, svalutò il peso, poi formidabilmente si riprese: perché non potrebbe accadere a Atene, e magari a Madrid, Lisbona, Roma? Dov’è scritto che l’Unione crollerebbe, se finisse un euro fatto così male, non sostenuto dalla fusione dei suoi Stati? Si può tornare allo status quo ante. Lo stesso Joschka Fischer, ex ministro degli Esteri, spiega che l’euro non era una necessità economica, ma politica: strategicamente non se ne può fare a meno, ma tecnicamente sì.
Affermazioni simili sono un inganno: non dicono le cose come stanno. Proviamo allora a immaginare quel che succederebbe non solo nel medio periodo ma nel breve, se Atene tornasse alla dracma per poi svalutarla massicciamente. Non avremmo uno scenario argentino, perché Atene non dispone più di una moneta nazionale, e perché il mondo industrializzato è oggi in recessione. Un lungo periodo di transizione sarebbe necessario, per passare alla dracma, durante il quale occorrerebbe bloccare le frontiere, la libera circolazione dei capitali e anche delle persone.
Il trattato di Schengen, che abolisce i confini interni sostituendoli con un’unica frontiera esterna, verrebbe sospeso durevolmente. La svalutazione della dracma - domani della moneta spagnola, portoghese - scatenerebbe guerre commerciali. Anche per la Germania sarebbe una calamità: economica, politica, psicologica. Berlino è oggi una potenza perché leader di una moneta con peso mondiale. Ridotta a custodire il marco diverrebbe ininfluente. «Temo molto meno la potenza della Germania che la sua presente inerzia. Dovete diventare la nazione indispensabile d’Europa e non fallire nella leadership», ha detto il ministro degli Esteri polacco Sikorski in un discorso nella capitale tedesca il 28 novembre scorso. Berlino tornerebbe a esser guardata con rancore. Fischer mette in guardia la Merkel, nell’intervista al Corriere del 26 maggio: «Sarebbe una tragica ironia se la Germania unita, con mezzi pacifici e le migliori intenzioni, causasse la distruzione dell’ordine europeo una terza volta. Eppure il rischio è proprio questo». La stessa cosa hanno detto negli ultimi anni due ex cancellieri: Schmidt e Kohl.
La rovina non sarebbe solo finanziaria. Sarebbe politica, culturale. È inutile evocare sessant’anni di storia europea a rischio, se non si specifica in cosa consista precisamente tale storia. Se non si dice la verità ai cittadini, su quel che perderemmo. Non saranno protetti da Stati nazione che recupereranno la sovranità, perché la sovranità è persa dal dopoguerra. L’euro fu necessario economicamente: non fu creato perché urgeva una penitenza politica dei tedeschi. La chiusura delle frontiere ci cambierebbe antropologicamente: ogni nazione rientrerebbe nel suo misero recinto, gli spiriti si rinazionalizzerebbero, la xenofobia diverrebbe un male banale.
La lunga educazione europea alla mescolanza di culture, alla tolleranza, all’apertura al diverso, si prosciugherebbe per decenni. Già sta accadendo, in un’Europa che ritiene patologico il debito greco e perfettamente sana la tirannide di Orban in Ungheria. Già in Francia Sarkozy ha sbandierato la xenofobia in campagna elettorale. In Grecia già cresce un partito nazista che saluta col braccio teso e promette di installare mine anti-uomo lungo i confini. L’Unione fu inventata contro i nazionalismi razzisti: l’invenzione franerebbe. Così come vacillerebbero le nostre costituzioni, figlie del clima che generò anche l’unità europea. A nulla servirebbe la Carta dei diritti che affianca il Trattato di Lisbona. Né i giudici né gli economisti salveranno, al posto dei politici e di ogni cittadino, la civiltà dell’Unione.
È il motivo per cui non credo che Atene uscirà dall’euro, e non solo perché i vecchi partiti greci risalgono nei sondaggi. Anche se vincesse la sinistra radicale, l’Europa non può permettersi disastri che cambierebbero la fisionomia dei suoi popoli. Molti responsabili lo sanno. Perché non parlano? La Germania si dice pronta a una Federazione. Il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, ha scelto la tribuna di Le Monde, il 26 maggio, per dire che se Parigi scegliesse la via federale e nuove deleghe di sovranità molte cose diverrebbero possibili, compresa la messa in comune dei debiti. Il silenzio di Parigi è rovinoso. Le due rigidità, francese e tedesca, congiurano contro la rinascita dell’Europa.
Siamo tutti ebrei greci"
Iniziativa antirazzista in Europa
_***Un gruppo di intellettuali, politici, attivisti per la difesa dei diritti umani lancia con questo editoriale, pubblicato in contemporanea su varie testate europee, un appello alla mobilitazione contro le spinte razziste, antisemite, xenofobe che stanno emergendo in vari Paesi dell’Unione. A partire dal successo elettorale di Alba dorata in Grecia. Ecco il testo, cui seguirà la pubblicazione online di un appello aperto alle firme del pubblico *
Uno scossone: il 6 maggio il partito neo nazista Alba dorata ha fatto il suo ingresso nel Parlamento greco. Il partito "Alba Dorata"- con il suo emblema ispirato alla svastica, il saluto hitleriano Mein Kampf come riferimento, l’ideologia razzista e anti semita, il negazionismo, la sua violenza nei confronti di immigrati, la sua lotta contro il giornalismo, il suo culto della personalità - è l’erede diretto del partito nazionalsocialista che ha portato l’Europa e il mondo intero verso il caos e l’eccidio.
La Grecia, purtroppo non è l’unico paese con questa tendenza al ritorno all’ideologia nazista. In Lituania, quest’anno, per la prima volta, il Presidente della Repubblica ha sostenuto la marcia annuale delle Waffen SS nonostante le forti critiche sollevate.
In Austria il Partito delle Libertà Austriaco - FPÖ - Freiheitliche Partei Österreichs; un’organizzazione estrema di destra - che nutre nostalgia per il Terzo Reich è tra i favoriti nei sondaggi per le prossime elezioni parlamentari. In Ungheria il "Movimento della Guardia ungherese" discendente del Partito delle Croci Frecciate - la precedente milizia responsabile dello sterminio di ebrei e nomadi - ha avuto la responsabilità diretta di attacchi e omicidi contro nomadi e terrore nei confronti delle popolazioni ebraiche.
Questa rinascita è stata possibile grazie all’attacco sistematico da parte di partiti di estrema destra all’aspirazione di "unione", l’ideale repubblicano secondo cui tutti appartengono alla comunità nazionale. Questa campagna contro "l’unione" è modellata sulla strategia di Geer Wilder per il suo partito per la libertà agli inizi del 2000. Il nucleo di questa strategia è di nascondere il discorso della disuguaglianza delle razze dietro la maschera culturale della lotta contro la cosiddetta "islamizzazione dell’Europa".
Nel contesto di crisi economica e sociale in cui viviamo, un contesto che favorisce la ricerca frenetica di capri espiatori, e che rafforza il timore del declino del Vecchio Continente, questa strategia si è dimostrata, purtroppo efficiente a livelli preoccupanti.
Inoltre ha consentito presumibilmente il processo di legittimazione dei partiti di estrema destra nel sostenere o addirittura diventare membri di coalizioni governative e ha favorito la "normalizzazione" di discorsi razzisti e antisemiti in Europa.
Infine, il presunto Diritto Estremo "nuovamente nobilitato" ha aperto la strada alle organizzazioni con cui condivide il razzismo e l’ideologia antisemita. E proprio come nel caso del partito "Alba Dorata" può, oggi, ottenere voti mentre promuove apertamente l’incitamento all’odio.
Davanti a questa terrificante situazione - esemplificata con i deputati neo nazisti nel Parlamento greco - noi esprimiamo la nostra solidarietà : "Siamo tutti ebrei greci!"
Rifiutiamo che in Grecia - come in qualsiasi altra parte d’Europa - ebrei, immigrati, musulmani, nomadi o persone di colore possano temere per le proprie vite a causa di ciò che sono. Invitiamo tutti i cittadini, partiti politici, sindacati, attori della società civile, intellettuali e artisti a combattere il diritto estremo promuovendo e facendo vivere il Sogno europeo.
Dobbiamo sempre ricordare che il Sogno europeo, per il quale ci stiamo battendo, è nato sulle rovine del nazismo. Non dobbiamo mai dimenticare la Shoah. Il nostro sogno è un continente libero dal razzismo e da ogni forma di antisemitismo. E’ il progetto di una società basata sulla "unione". Oltre i confini.
Per vedere di nuovo questo sogno realizzarsi, è necessario porre fine a due dogmi.
Primo: dobbiamo rifiutare il dogma secondo il quale l’austerità è responsabile di terribili danni, creando le condizioni che spiegano il successo dei partiti populisti e che limita il futuro dei giovani in Europa al pagamento dei debiti -come se intere generazioni debbano sacrificarsi sull’altare dell’austerità perpetua.
Secondo: dobbiamo rifiutare il dogma della "Fortezza Europea": questo concetto favorisce la diffusione di discorsi contro gli immigrati e il blocco verso il basso delle frontiere europee, minando l’elemento portante dell’identità europea del dopo guerra: il sistema sociale del welfare - che considera l’immigrazione un elemento sostenibile.
E’ di estrema importanza per le istituzioni europee rinnovarsi con la ricerca della democrazia, del progresso sociale e della promozione dell’uguaglianza; con la tutela di quei cittadini che - ancor più in tempo di crisi- sono l’obiettivo di violenza razziale e sociale.
Il concetto di Europa è spesso criticato. Lungi dal rinunciare all’Europa, crediamo fermamente che sia necessario lavorare per un’Europa più forte, dando cosi nuovo slancio e una nuova portata al Sogno Europeo.
Se non saremo in grado di realizzare il Sogno Europeo, saremo condannati allo stesso incubo in Grecia e nel resto d’Europa.
Benjamin Abtan, President of the European Grassroots Antiracist Movement - EGAM, Dario Fo, Literature Nobel Prize, Svetlana Gannushkina, Leader of Memorial in Russia, Anthoy Giddens, Sociologist, Amos Gitaï, Director, Béate et Serge Klarsfeld, President of the " Fils et filles de déportés juifs de France", Bernard Kouchner, Former French Minister of Foreign Affairs, Bernard-Henri Lévy, Philosopher, writer, Adam Michnik, Historian, essayist, journalist, former member of Solidarnosc, Dominique Sopo, President of SOS Racisme, Oliviero Toscani, Photographer, Elie Wiesel, Peace Nobel Prize, writer, A. B. Yehoshua, Writer, essayist
* la Repubblica, 28 maggio 2012
LA GRECIA IN EUROPA O FUORI NON È SOLO UN PROBLEMA ECONOMICO-FINANZIARIO.
Europa attenta, con la crisi rischi per la democrazia
La crisi accresce il senso di fragilità, e quindi la ricerca di risposte certe e a effetti rapidi. E i rischi per la democrazia si innalzano come lo spread.
di Augusto D’Angelo (l’Unità, 28.05.2012)
Qualche giorno fa il «Camilleri greco», Petros Markaris, ha raccontato di un suo amico che aveva una casa vuota ad Atene, e che ha trovato occupata da un trentina di immigrati. Questi, rivoltosi alla polizia locale, ha registrato l’impossibilità di intervenire. L’amico del padre letterario del celebre commissario Charitos si è rivolto a Crisi Avgi (Alba Dorata), il movimento di estrema destra che nelle elezioni di 6 maggio ha ottenuto il 6,97% delle preferenze e 21 parlamentari: i militanti neo-nazisti gli hanno sgombrato la casa in tre giorni. Giungono le notizie degli scontri nella città portuale di Patrasso degli scontri tra polizia e manifestanti che chiedono l’allontanamento degli stranieri da stabilimenti abbandonati che avevano occupato. Aggressori col viso coperto hanno assalito le forze dell’ordine con lancio di oggetti e bombe molotov. Le autorità sostengono che agli incidenti hanno partecipato oltre 350 militanti di Alba Dorata. Questi segnali sono estremamente preoccupanti e devono ricordarci che l’Europa negli anni ’80 ha aperto le porte alla Grecia, alla Spagna e al Portogallo perché erano Paesi usciti dalle ultime dittature fasciste del continente, e che andavano ancorate alla democrazia.
La Grecia si era liberata nel 1974 del regime dei colonnelli, la Spagna, dopo la morte di Franco si era incamminata sul sentiero della democratizzazione guidata da Juan Carlos, il Portogallo, con la «Rivoluzione dei garofani» abbandonava l’eredità del regime di Salazar e dava l’indipendenza alle sue ultime colonie africane. L’Europa era l’approdo che garantiva il radicamento della dialettica democratica contro i rischi delle svolte autoritarie. E in quel processo l’Italia fu generosa: favorì l’ingresso di partner che avevano produzioni agricole e ittiche che facevano concorrenza a quelle di casa nostra. Ma la difesa della democrazia, per le classi dirigenti dell’epoca, italiane ed europee, era la priorità.
L’integrazione europea è nata per superare le rivalità franco-tedesche, che dalla metà del XIX secolo avevano a più riprese insanguinato il continente e provocato due conflitti mondiali. Il sogno europeo si è allargato perché rappresentava un approdo democratico capace di sostenere i Paesi che aderivano, e di contribuire a risolverne i problemi. Se l’Europa smarrisce quello spirito si trasforma in altro, e mette a repentaglio la sua ragione sociale, che fu, per l’appunto, la difesa della pace e della democrazia. Se i greci non troveranno in Europa le soluzioni ai loro problemi ne cercheranno altre: come Alba Dorata. E la crisi economico finanziaria diventerà una crisi della democrazia europea.
Denaro, potere e narcisismo: è tempo di rifondare le regole
La psicoanalisi al tempo della «speculazione sfrenata»
di Silvia Vegetti Finzi (Corriere della Sera, 24.05.2012)
«Uscire dalla galera terapeutica» e «prendere la via del largo» sono le colorite espressioni con le quali Freud, pur privilegiando il rapporto di cura, apre la psicoanalisi al confronto con altri ambiti disciplinari e a un più vasto contesto sociale. Un compito ineludibile negli anni 20-30 quando l’Europa si sta avviando, senza esserne pienamente consapevole, verso la catastrofe della Seconda guerra mondiale. Saggi quali Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), Il disagio della civiltà (1929), Perché la guerra? Carteggio con Einstein (1932) rappresentano contributi fondamentali per comprendere l’interazione che intercorre tra individuo e società, mondo interno e mondo esterno, economia psichica e regole sociali.
Se ora quel compito si ripropone con forza è perché la crisi epocale che stiamo attraversando pone domande nuove e chiede più vaste assunzioni di responsabilità. Ne ha preso atto la freudiana Società psicoanalitica italiana decidendo, nel suo Congresso nazionale, non solo di affrontare temi inconsueti alla sua riflessione quali «Denaro, potere e lavoro tra etica e narcisismo», ma anche di sottoporli al dialogo e al confronto con istituzioni e protagonisti della scena sociale.
Benché eterogenei gli ambiti prescelti rivelano, alla luce dello scandaglio analitico, di condividere le dinamiche inconsce latenti in ogni esperienza umana. Sfuggendo al controllo della coscienza, l’inconscio introduce infatti, nei comportamenti individuali e collettivi, un fattore di onnipotenza che compromette, se non viene prontamente riconosciuto e governato, la razionalità dell’agire umano. Lo vediamo in atto nella speculazione finanziaria che produce a dismisura denaro dal denaro, lo riconosciamo nel potere che persegue forme di dominio assoluto, nel lavoro che cede alle esigenze del profitto, nel narcisismo patologico ove l’Io, oltrepassando l’amor proprio, si impone incondizionatamente, incurante delle esigenze altrui.
Lasciata a se stessa, l’onnipotenza, incapace di scegliere - in quanto scegliere significa limitare le pretese e rinunciare alle altre alternative - finisce per tradurre il tutto in niente, trasformandosi alla fine in impotenza, inerzia, stagnazione. Se ne colgono gli effetti psichici più gravi in situazioni di eccitazione incontrollabile oppure di blocco e di vuoto dove la vita sembra girare su se stessa, incapace di ammettere la propria insufficienza e di procedere verso obiettivi parziali. Per evitare i danni provocati all’individuo e alla società dalla dismisura e dalla cancellazione dei limiti, appare necessario approntare nuove regole, valide per gli individui e per la collettività. Ma prima di affrontare i processi di decostruzione e ricostruzione dei sistemi normativi, il programma del Congresso affida alla filosofia il compito di fondare la necessità e il fine delle regole.
Silvana Borutti, docente di Filosofia teoretica all’Università di Pavia, le radica nell’incompiutezza del soggetto umano, sempre esposto al riconoscimento degli altri per costituirsi e realizzarsi. Di qui la necessità e la funzione di norme, non solo proibitive, ma anche capaci, proiettandosi al di là dell’esistente, di aprire nuovi orizzonti di valore e di senso. Non sarà certo possibile rispondere ai tanti interrogativi suscitati dal tema prescelto, ma confronto e dialogo con studiosi e rappresentanti della realtà sociale potrà essere sorprendente. La psicoanalisi, dopo più di un secolo di ascolto, ha maturato un patrimonio di conoscenza e sapienza che può costituire un «sistema di riferimento» sul quale riflettere. Senza dimenticare che, come sosteneva Elvio Fachinelli, si tratta di un «sapere della domanda» più che della risposta.
Dopo lo slogan antiautoritario del ’68 «proibito proibire», di fronte a tante forme di deregulation, gli psicoanalisti freudiani valorizzano ora la funzione protettiva, contenitiva, strutturante delle regole. Anche nel momento più creativo l’artista riconosce le regole dell’arte, se non altro per infrangerle. L’ «elogio delle regole» rischia però di risultare regressivo e reazionario se non viene sottoposto a una analisi critica, se non si confronta con le esigenze di liberazione insite nel pensiero di Freud e dei suoi successori.
Di fronte all’eterna contesa tra Es e Super-io, tra istanze pulsionali e antipulsionali, l’analista, dice Stefano Bolognini, si propone, restando neutrale, di far raggiungere al paziente nuove forme d’equilibrio. Operando in un setting accuratamente regolato, la terapia psicoanalitica si propone come laboratorio sperimentale per un buon uso delle norme. Analista e analizzato si accordano infatti su spazio, tempo, denaro e la regola fondamentale delle libere associazioni.
Ma non tutto è negoziabile. Anche nell’analisi più democratica le posizioni restano asimmetriche: l’analista si colloca in una posizione più alta rispetto all’analizzante. Non per autoritarismo ma per senso di responsabilità verso il più debole, per tutelarlo e aiutarlo ad esprimere tutte le sue potenzialità.
Il paradigma di riferimento è quello parentale, riportato però alla forma edipica tradizionale contro le modalità paritetiche della famiglia tardo moderna, dove tutte le relazioni, come tra coetanei, si pongono come simmetriche. Ma in realtà non sono reciproche. Ho udito spesso un padre dire: «sono il miglior amico di mio figlio», mai il contrario.
Se l’Europa ricordasse Keynes
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 23.05.2012)
Si dice spesso che l’Europa unita ha perso potere di attrazione, adesso che gli europei non si fanno più guerre. Ma è difficile chiamar pace, quello che stiamo vivendo.
Guerresco è il modo in cui da due anni Greci e Tedeschi si parlano. Guerresco il clima di depressione, di paura. Guerresco, soprattutto, il trattamento riservato ai paesi indebitati, non a caso chiamati con l’acronimo Pigs, maiali: considerati alla stregua di popoli vinti con le armi, da ostracizzare, punire. I piani di austerità, come la guerra di Clausewitz, stanno diventando la continuazione della politica con altri mezzi, e l’Europa, associata a tali piani, subisce lo stesso destino. Il che vuol dire: austerità e bellicosità soppiantano la politica, la sopprimono. C’è dominio tedesco, ma l’egemone non ha progetti di rifondazione della civiltà europea. È tragicamente assente un potere europeo che rappresenti tutti, democraticamente legittimato, che sia pronto a fronteggiare la buona sorte e la cattiva. Latitano istituzioni sovranazionali forti, che nella sciagura di uno Stato riconoscano la sciagura dell’intero sistema. Ci sono innocenti e colpevoli, vincitori e vinti: l’idea stessa di solidarietà, più morale che politica, oscura pericolosamente l’interesse, le responsabilità, gli obblighi condivisi.
Fu trattata così la Germania, nel trattato di Versailles del 1919, e sappiamo quel che seguì, il rancore nazionalista che il castigo suscitò. Hitler sfruttò tale risentimento, dando al popolo non solo una crescita trainata dalle spese militari ma dignità e senso di appartenenza perduti. Manca oggi il Keynes della situazione, che denunci le calamità ineluttabilmente provocate da penitenziali terapie deflazionistiche. Conseguenze economiche della pace s’intitolava il libro pubblicato nel ’19, e oggi potrebbe esser scritto tale e quale, con le periferie sud-europee al posto della Germania.
Keynes aveva partecipato alla conferenza di Versailles come rappresentante del Tesoro britannico, ma il 7 giugno 1919 si dimise, e scrisse il suo libro denuncia. Le sue idee, respinte dai vincitori, furono straordinariamente veggenti: non si può chiedere l’impossibile a un popolo vinto, demoralizzato, devastato, e dare al diktat il nobile nome di trattato. Non è pace, se la crisi non è vissuta come dramma comune a debitori e creditori. In queste condizioni era una beffa, il proclama del Presidente Usa Wilson: il ’14-18 avrebbe «messo fine a tutte le guerre». Altre conflagrazioni sarebbero venute, precipitando l’Europa in una guerra di trent’anni.
I ricordi giocano brutti scherzi, proprio alla Germania che dopo il ’45 ricostruì una democrazia modello, forgiata dalle introspezioni della politica della memoria. Ma col tempo la memoria si è fatta come emiplegica: come se solo una parte della storia venisse trattenuta. Resta l’assillo dell’iperinflazione fra il 1914 e il 1923, ma svapora la deflazione cominciata nel ’29 e finita con l’avvento di Hitler. Lo stesso vale per le riparazioni che frantumarono la democrazia di Weimar, e per la sconfitta di Keynes a Versailles: si dimentica la vittoria tardiva, ma pur sempre vittoria, che questi conobbe dopo la seconda guerra mondiale. Stavolta Europa e America cambiarono rotta: nacquero il Piano Marshall, il Fondo monetario internazionale, l’unità europea. Vinse il New Deal di Roosevelt, non l’ottimismo cieco di Wilson. Di nessuna guerra si poteva dire che sarebbe stata l’ultima, tantomeno in Europa, se tra ex belligeranti non si concordavano una comune crescita e comuni istituzioni, nella consapevolezza che sempre può arrivare qualcuno che alla politica preferisce altri mezzi.
Il Cancelliere sembra indifferente alle lezioni di ieri, se non ignaro. La stanchezza europea del suo popolo è anche opera sua. In parte, forse, pesa il suo apprendistato nella Germania comunista. Se si esclude l’attuale governo polacco, i governi dell’Est tendono a diffidare di un’Unione sovranazionale. Sono i più puntigliosi difensori delle decisioni unanimi, dei veti nazionali, dell’Europa impolitica. Coltivano sovranità illusorie, e non vedono che il presente crollo è crollo ormai palese degli Stati nazione.
Tanto più succube è la Merkel verso la Germania della Banca centrale tedesca e della vecchia dottrina che la pervade: prima viene la casa in ordine, poi la comunanza transnazionale. La Bundesbank sta prendendo la sua rivincita sull’internazionalismo di Brandt, Schmidt, poi di Kohl che volle la moneta unica contro l’istituto di emissione. La storia contava ancora, a quell’epoca: Kohl disse che bisognava «liberare l’Europa dal problema tedesco» e creare gli Stati Uniti d’Europa, di cui la moneta unica sarebbe stata la molla inaugurale. Il trattato di Maastricht doveva preparare ben più radicali trasformazioni istituzionali, e se il disegno naufragò fu perché - per colpa del nazionalismo francese - rimase a metà strada. Lo stesso Patto di stabilità e di governo della crisi (fiscal compact), approvato a marzo da 25 Stati, disciplina le singole economie con nuovi trasferimenti di sovranità ma non crea né le istituzioni comuni (Commissione che risponda ai deputati europei più che ai governi, Parlamento con partiti europei, vera Costituzione) né gli strumenti finanziari (eurobond, project bond) che permettano all’Unione di far politica e unire quel che è sfaldato. È così che la Grecia è divenuta capro espiatorio, che il male interno s’è fatto esterno, che sono state innalzate fallaci linee Maginot (il cosiddetto firewall) per impedire contaminazioni già in atto.
Naturalmente è molto rischioso prendersela solo con l’Europa, non fosse altro perché sono ancora gli Stati o i direttorii di Stati a determinarla. Anche l’Unione, come Atene, rischia di divenire capro espiatorio, nemico esterno. La crescita invocata da Hollande e dai socialdemocratici tedeschi, dai Democratici italiani e dal Syriza di Tsipras a Atene, dovrà scaturire da iniziative europee ma anche da mutazioni nazionali, necessarie in un’economia-mondo dove l’Occidente non è più centro. Fatto sta che le due cose - l’ordine in casa e l’iniziativa europea - dovranno andare insieme: non domani, ma subito. Che le riforme strutturali fatte in Germania nel 2002, presentate come esemplari, sono impraticabili in tempi di recessione (da ben 5 anni la Grecia è in recessione). Non c’è tempo. Dietro l’angolo c’è la bancarotta non solo ellenica ma europea, e cittadini impauriti già fuggono dalle banche greche e spagnole.
Quello di cui c’è bisogno sono istituzioni europee che rilancino in proprio l’economia: con eurobond, con comuni tasse sulle transazioni finanziarie e sulle emissioni di biossido di carbonio. O in assenza di eurobond, con un patto significativamente detto «di redenzione», suggerito dal Consiglio tedesco degli esperti economici: la parte dei debiti eccedente il 60 per cento del prodotto interno diverrebbe debito dell’Unione, gestito da un Fondo comune di 2.300 miliardi di euro, per la durata di almeno 25 anni. Comunitarizzazione di una parte del debito, rilancio dell’Unione: lo propongono oggi Hollande, Monti, i socialdemocratici e Verdi tedeschi. Lo chiede anche Obama, che da anni propugna un New Deal alla Roosevelt: per non naufragare nella crisi e perdere le elezioni, implora una rapida ripresa europea. La Merkel è isolata, in casa e fuori. Oggi al vertice informale di Bruxelles vedremo se qualcosa si muove.
Una nuova politica della memoria urge in Germania. Non per ultima, la memoria dei debiti bellici tedeschi, estinti a Londra nell’accordo del 1953, anche grazie alla Grecia che rinunciò alle riparazioni. Non per ultimo, il ricordo del monito di Keynes contro gli assolutisti del contratto, portati a trasformare i patti (il fiscal compact, oggi) in «usura ininterrotta».
L’Europa ritroverà la sua forza se tornerà allo spirito dei Lumi
di André Glucksmann (Corriere, 22.05.2012)
Quattro anni di crisi successive hanno innalzato gli esperti economisti al trono di profeti tuttofare e di consiglieri per eccellenza dei prìncipi che ci governano, a sinistra come a destra. Tuttavia, continuiamo ad essere alla mercé di una prossima sorpresa, imprevista quanto le precedenti. Rendiamo quindi omaggio alla originalità delle parole di Gian Arturo Ferrari che, sulla prima pagina di questo giornale (17 maggio, «L’orchestra senza musica»), ricusa il monopolio delle considerazioni di carattere puramente economico per scovare, alle radici delle difficoltà dell’Eurozona, una paralizzante «povertà culturale». Invitando a saltar fuori dal cerchio incantato delle valutazioni finanziarie e di bilancio, egli incrimina una subcultura che accumula pregiudizi e stereotipi: la Francia arrogante, la Germania intrinsecamente imperialista e i cosiddetti Paesi del «Club Méditerranée» irresistibilmente votati a vivere alle spalle di un Nord austero, virtuoso e protestante. Sì, all’origine del blocco economico c’è un blocco culturale. Come e perché mettersi d’accordo per salvare l’Unione europea, quando regna la diffidenza del ciascun per sé, caratteristica dei corsi di ricreazione infantili?
Secondo gli altri continenti, la nostra Europa costituisce davvero un caso così disperato, come suggerisce Gian Arturo Ferrari? Egli presenta un ritratto lusinghiero della Cina ritenuta culturalmente magnetizzata dalla propria ideologia comunista-confuciana. Allo stesso modo, i Paesi musulmani gli sembrano saldati insieme dall’Islam. E gli Stati Uniti dallo stendardo stellato, garanzia di libertà e sicurezza. Così, la nostra triste Europa frammentata sarebbe la sola a essere priva di tutta la coerenza culturale, religiosa o ideologica che assicura il dinamismo delle grandi potenze nel XXI secolo. Perdonatemi, ma non lo credo affatto. Liberiamoci dai nostri complessi! Più del famoso «scontro di civiltà» profetizzato vent’anni fa, scorgiamo scontri all’interno di ogni cosiddetta «civiltà».
Le primavere arabe, le proteste di massa in Russia, la dissidenza crescente in Cina, ne sono la prova. Piaccia o meno alle teologie politiche ufficiali, gli autocrati postcomunisti - come i dispotismi etnico-religiosi - sguazzano in una corruzione inaudita, in conflitti al vertice dei clan, in contestazioni delle classi medie e in insurrezioni sporadiche della gente dei piani bassi. Da nessuna parte la mondializzazione è un lungo fiume tranquillo.
Vero è che mezzo secolo di cooperazione economica in seno all’Unione europea fu possibile solo nella prospettiva, oggi quasi dimenticata, di un progetto politico-culturale. All’inizio, dopo il 1945, avevamo: 1) il rifiuto di rivivere l’isteria xenofoba e razzista che generò Hitler; 2) l’opposizione ai regimi comunisti dall’altro lato della cortina di ferro; 3) la fine delle tentazioni imperialistiche (fu necessario che la Francia perdesse e la guerra d’Indocina e la guerra d’Algeria perché si decidesse a puntare sull’Europa). Oggi questo patto inaugurale non seduce più, la guerra fredda è finita, ma la democrazia è lungi dall’aver trionfato. Gli europei devono ridefinire l’esperienza comune che fonda la loro comunità di destino. Altrimenti, una «povertà culturale» ben condivisa li condanna a dilaniarsi l’un l’altro.
Gli europei contemporanei sono socialmente atei. Non cercano di imporre un modo di vivere monolitico, la loro insormontabile diversità non è un fattore di divisione: a ciascuno i propri gusti, a ciascuno il proprio modo di alimentarsi, di vestirsi, di educare i figli, di pregare o non pregare, di ridere o piangere. Da più di mezzo secolo, nessuna nazione impone ai vicini i propri dogmi e il proprio folclore. Il consenso continentale non si costruisce sulla domanda: come vivere? Ma sulla domanda: come sopravvivere? Quale sfida, quali rischi dobbiamo raccogliere e affrontare in comune? Davanti a quali pericoli mortali dobbiamo darci manforte?
Di fronte all’ignoto, cerchiamo spesso rifugio nel déjà vu, nel déjà connu, in quello che già abbiamo visto e conosciuto. Occorre però non sbagliare riferimento. La subcultura dei pregiudizi aggressivi e degli stereotipi che dividono rientra nel campo delle cattive inclinazioni del XIX secolo: «Right or wrong, my country». A costo di relativizzare, rivisiterei piuttosto il Settecento, ultimo secolo di una cultura transnazionale che si imponeva da Porto a Mosca e da Palermo a Stoccolma, senza curarsi delle frontiere tradizionali. Imperfetti, impigliati in molteplici contraddizioni, i Lumi restano il punto di partenza obbligato del progetto europeo di osar pensare con la propria testa (Kant) e di imporre rispetto reciproco e tolleranza collettiva (Locke e Voltaire). Non è sicuro che ci si arriverà: chiedete al signor Putin e ai suoi omologhi cinesi, e scoprirete quanto questa cultura democratica sia fragile e quanto meriti d’essere difesa.
Gian Arturo Ferrari ha ragione - e quanto ha ragione! - a sottolineare che la prosperità economica è una conseguenza, in nessun modo una causa, della nostra intesa intellettuale per quanto riguarda l’essenziale. Già indicata da Voltaire, la malattia che ci minaccia è quella di Pangloss, che immagina di esistere nel migliore dei mondi, come se una miracolosa provvidenza vegliasse sul suo benessere. Tale fu l’illusione generale quando cadde il Muro di Berlino. Credendo che il nostro vecchio continente fosse fuori pericolo, abbiamo vissuto senza preoccupazioni e senza precauzioni. Ed ecco che poi abbiamo ricevuto un colpo che ci ha tramortiti e abbiamo dovuto abbassare la cresta passando da un ottimismo eccessivo a un pessimismo non meno eccessivo. Immancabilmente immersa nel caos di una mondializzazione planetaria, l’Europa può tuttavia trovare nella cultura dei Lumi il principio della propria coesione.
(traduzione di Daniela Maggioni)
Quando la politica è impotente con i potenti
di Moni Ovadia (l’Unità, 19 maggio 2012)
Il presidente di consob Giuseppe Vegas in occasione della sua relazione annuale tenuta in Piazza Affari a Milano, alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, in alcuni dei passaggi più forti del suo discorso, ha usato parole che non avrei pensato di ascoltare da un uomo importante della finanza.
Vegas ha parlato del pericolo rappresentato dalla «dittatura dello spread» per la salute dell’economia e ha ammonito sul pericolo costituito dalla crescente percezione da parte dei cittadini delle democrazie occidentali di non essere governati dai governi che eleggono col loro voto, bensì da una potente forza invisibile, ovvero l’ubiquo e onnipotente mercato.
Vegas ha esplicitamente parlato di vanificazione del suffragio universale.
Cosa ha spinto un uomo della finanza, un economista e politico che ha militato nel centro destra e segnatamente nel Pdl ad usare parole così irrituali e allarmate in una occasione ufficiale?
Provo ad intuire: la percezione nitida dell’estrema gravità della situazione. Se un moderato si esprime con questi accenti, «confortati », noi estremisti, possiamo azzardare una diagnosi più ardita.
La democrazia, quella vera, quella sostanziale è morta da un pezzo. Quella che continuiamo a dichiarare tale per routine, per paura di riconoscerne il decesso e per paura di quello che viene dopo, è una realtà virtuale.
Siamo come Paperino, quando corre nell’aria e riesce a correre finché non guarda giù per non vedere sotto il vuoto. Laddove un governo non solo non è in grado di dettare l’agenda della politica economica ai centri bancari e finanziari,ma non è neppure in grado di stabilire delle regole a cui debbano attenersi, è difficile dire che siamo in presenza di una democrazia. Quando poi, in un mondo globalizzato, la sovranità politica continua ad essere ridicolmente nazionale mentre i veri centri del potere sono sovranazionali, la farsa è completa.
La politica impotente con i potenti riesce solo ad esercitare la propria autorità nei confronti dei ceti più deboli con leggi durissime come quella sulle pensioni, con quelle ingiuste ed insensate come la legge contro il lavoro per l’abolizione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, con balzelli e aumenti dei prezzi di servizi primari.
Con questa logica stantia e depressiva si va verso il marasma della pseudo democrazia, bacino di coltura delle peggiori demagogie reazionarie.
Per uscirne sarebbe urgente una visione progettuale di ampio respiro come fu il New Deal di Roosevelt nel contesto sovranazionale di un’Europa che procede a grandi passi verso l’unità politica. Ma è possibile con questi governanti italiani ed europei?
Una fanciulla rapita da Zeus
L’Europa inventata dai greci
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 19.05.2012)
L’Europa senza la Grecia: se ne parla come se fosse una possibilità, spiegando le tragiche conseguenze economiche che questo porterebbe con sé. Ma non solo di economia si tratta, quando si parla della Grecia. Si tratta anche del nostro presente e di quello che esso è grazie ai greci e alla loro storia: grazie a quella Grecia, vale a dire, la cui presenza è ancora parte essenziale della nostra vita, a cominciare come ben noto dal nostro vocabolario. Da dove vengono, se non da quella Grecia, parole come mito, teatro, diavolo, politica, democrazia, demografia, apoteosi, antropologia, geografia, psichiatria, telefono, diagnosi, terapia (solo alcuni tra gli innumerevoli esempi, pochi nomi a caso, tra i primi che vengono alla mente). Ma il lascito linguistico non è che una delle tante loro eredità che (anche se non lo sappiamo o non ci pensiamo) ci accompagnano nella vita quotidiana. Per ricordare le quali, o almeno parte delle quali, proviamo, in modo semiserio, a immaginare l’inimmaginabile: come sarebbe la nostra vita oggi, come e cosa sarebbe l’Europa se non fosse mai esistita «quella» Grecia? Quella di Omero e di Eschilo, della battaglia di Maratona e di Pericle, di Zeus, degli dèi dell’Olimpo e dei miti...
Per prima cosa, il nostro continente non si chiamerebbe Europa. A farci sapere perché ci chiamiamo europei, infatti, è un mito (ovviamente greco): quello della ragazza Europa, figlia di Antenore, re della città fenicia di Tiro, sulle coste dell’Asia minore. Un giorno, mentre giocava con le compagne sulla spiaggia, Europa venne rapita dal solito Zeus che, colpito dalla sua bellezza, assunse le sembianze di un bellissimo toro bianco, dalle corna così lucenti che sembravano spicchi di luna. Bello e apparentemente mansueto l’animale andò a sdraiarsi ai piedi di Europa che, fiduciosa, sedette sulla sua groppa. E subito Zeus-toro, rizzatosi sulle zampe, si gettò in mare, raggiungendo a nuoto le coste di Creta, ove si unì a Europa sotto dei platani cui, da quel giorno, fu concesso di non perdere mai le foglie. Potenza del mito: vicino alla città cretese di Gortina esiste un platano, ove tuttora i giovani sposi si recano in pellegrinaggio, la sera del matrimonio...
Ma prescindiamo pure dal nome. Difficile ricordare le infinite cose che mancherebbero alle nostre vite in una immaginaria Europa della quale Grecia non avesse contribuito a fare la storia: non potremmo leggere Omero, Saffo, la lirica, i grandi tragici, Erodoto e Tucidide, e non mi pare cosa da poco.
Non avremmo i templi di Paestum e di Selinunte. I musei (tutti, non solo quelli europei) sarebbero infinitamente più poveri: niente frontone del Partenone al British Museum, niente arte greca al Louvre e al Metropolitan, niente altare di Pergamo al Pergamon Museum di Berlino... Chissà se Frau Merkel lo ha mai visto. Non c’è momento e aspetto della nostra vita che non ci riconduca all’esistenza dei greci. Un solo esempio, la psicoanalisi (che ovviamente avrebbe un altro nome): come avrebbe fatto Freud a spiegare i misteri della nostra psiche senza Edipo? E per finire, ma solo per ragioni di spazio, e tralasciando, sempre per motivi di spazio, i loro lasciti in campo scientifico, come sarebbe l’Europa se nel 490 a.C. l’immane esercito persiano non fosse stato sconfitto nella piana di Maratona da Milziade a capo di 10.000 opliti ateniesi?
La storia non si fa con i se, lo sappiamo bene, ma una cosa è certa: i greci combatterono e vinsero per difendere la loro libertà di cittadini, per non essere sottomessi a un impero dove esistevano solo dei sudditi. E nel farlo consentirono a noi di conoscere e di ereditare la democrazia. Come sarebbe stata la nostra storia, se essi non l’avessero sperimentata e non ce ne avessero insegnato il valore? Come saremmo, oggi, se non ci avessero trasmesso l’orgoglio di essere noi, i cittadini, i titolari della sovranità?
Che mondo povero sarebbe il nostro, senza quella Grecia. Eppure, nel discutere la possibilità (pur cercando di scongiurarla) di escludere la Grecia di oggi dall’Eurozona, tutto quello cui si pensa è l’aspetto economico del problema. Che è, ovviamente, assolutamente fondamentale. Ma, accanto a esso, la Grecia non meriterebbe che venisse preso in qualche considerazione anche tutto quello che le dobbiamo? Quanta ingratitudine, oggi, per la ragazza Europa.
La nuova stagione dei diritti
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 12.05.2012)
Il fronte dei diritti si è appena rimesso in movimento. Obama ha affrontato senza reticenze il tema difficile dei matrimoni omosessuali, e lo stesso ha fatto François Hollande inserendolo nel suo programma e mettendo all’ordine del giorno quello ancor più impegnativo del fine vita. Di questa rinnovata centralità dei diritti dobbiamo tenere conto anche in Italia.
In che modo, però, e con quali contenuti? Qualche esempio. La recente sentenza della Corte di Cassazione sui matrimoni gay è un dono dell’Europa. Così come lo è l’avvio dell’estensione alla Chiesa dell’obbligo di pagare l’imposta sugli immobili. Così come può diventarlo l’utilizzazione degli articoli 10 e 11 del Trattato di Lisbona.
Mi spiego. La Cassazione ha potuto legittimamente mettere in evidenza il venir meno della "rilevanza giuridica" della diversità di sesso nel matrimonio, e il conseguente diritto delle coppie dello stesso sesso ad una "vita familiare", proprio perché queste sono le indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo e soprattutto dell’innovativo articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Sappiamo, poi, che la norma sul pagamento dell’Ici da parte della Chiesa è andata in porto solo perché erano ormai imminenti sanzioni da parte della Commissione europea. E la discussione sui rapporti tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, tornata con prepotenza in Italia anche per effetto degli ultimi risultati elettorali, trova nel Trattato chiarimenti importanti, a cominciare dal nuovo potere che almeno un milione di cittadini può esercitare chiedendo alla Commissione di intervenire in determinate materie. Lo ha appena fatto il Sindacato europeo dei servizi pubblici che si accinge a raccogliere le firme perché l’Unione europea metta a punto norme che riconoscano come diritto fondamentale quello di accesso all’acqua potabile.
Scopriamo così un’altra Europa, assai diversa dalla prepotente Europa economica e dall’evanescente Europa politica. È quella dei diritti, troppo spesso negletta e ricacciata nell’ombra. Un’Europa fastidiosa per chi vuole ridurre tutto alla dimensione del mercato e che, invece, dovrebbe essere valorizzata in questo momento di rigurgiti antieuropeisti, mostrando ai cittadini come proprio sul terreno dei diritti l’Unione europea offra loro un "valore aggiunto", dunque un volto assai diverso da quello, sgradito, che la identifica con la continua imposizione di sacrifici.
Questa è, o dovrebbe essere, una via obbligata. Dal 2010, infatti, la Carta ha lo stesso valore giuridico dei trattati, ed è quindi vincolante per gli Stati membri. Bisogna ricordare perché si volle questa Carta. Il Consiglio europeo di Colonia, nel giugno del 1999, lo disse chiaramente: «La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità. Allo stato attuale dello sviluppo dell’Unione, è necessario elaborare una Carta di tali diritti al fine di sancirne in modo visibile l’importanza capitale e la portata per i cittadini dell’Unione». Sono parole impegnative. All’integrazione economica e monetaria si affiancava, come passaggio ineludibile, l’integrazione attraverso i diritti. Fino a che questa non fosse stata pienamente realizzata, al già mille volte rilevato deficit di democrazia dell’Unione europea si sarebbe accompagnato addirittura un deficit di legittimità. Si avvertiva così che la costruzione europea non avrebbe potuto trovare né nuovo slancio, né compimento, né avrebbe potuto far nascere un suo "popolo" fino a quando l’Europa dei diritti non avesse colmato i molti vuoti aperti da quella dei mercati.
Negli ultimi tempi questo doppio deficit si è ulteriormente aggravato. L’approvazione del "fiscal compact", con la forte crescita dei poteri della Commissione europea e della Corte di Giustizia, rende ancor più evidente il ruolo marginale dell’unica istituzione europea democraticamente legittimata - il Parlamento. Oggi si levano molte voci per trasformare la crisi in opportunità, riprendendo il tema della costruzione europea attraverso una revisione del Trattato di Lisbona. In questa nuova agenda costituzionale europea dovrebbe avere il primo posto proprio il rafforzamento del Parlamento, proiettato così in una dimensione dove potrebbe finalmente esercitare una funzione di controllo degli altri poteri e un ruolo significativo anche per il riconoscimento e la garanzia dei diritti.
Non è vero, infatti, che l’orizzonte europeo sia solo quello del mercato e della concorrenza. Lo dimostra proprio la struttura della Carta dei diritti. Nel Preambolo si afferma che l’Unione "pone la persona al centro della sua azione". La Carta si apre affermando che "la dignità umana è inviolabile". I principi fondativi, che danno il titolo ai suoi capitoli, sono quelli di dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia, considerati come "valori indivisibili". Lo sviluppo, al quale la Carta si riferisce, è solo quello "sostenibile", sì che da questo principio scaturisce un limite all’esercizio dello stesso diritto di proprietà. In particolare, la Carta, considerando "indivisibili" i diritti, rende illegittima ogni operazione riduttiva dei diritti sociali, che li subordini ad un esclusivo interesse superiore dell’economia. E oggi vale la pena di ricordare le norme dove si afferma che il lavoratore ha il diritto "alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato", "a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose", alla protezione "in caso di perdita del posto di lavoro". Più in generale, e con parole assai significative, si sottolinea la necessità di "garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti". Un riferimento, questo, che apre la via all’istituzione di un reddito di cittadinanza, e ribadisce il legame stretto tra le diverse politiche e il pieno rispetto della dignità delle persone.
Tutte queste indicazioni sono "giuridicamente vincolanti", ma sembrano scomparse dalla discussione pubblica. Si apre così una questione che non è tanto giuridica, quanto politica al più alto grado. Il riduzionismo economico non sta solo mettendo l’Unione europea contro diritti fondamentali delle persone, ma contro se stessa, contro i principi che dovrebbero fondarla e darle un futuro democratico, legittimato dall’adesione dei cittadini. Da qui dovrebbe muovere un nuovo cammino costituzionale. Se l’Europa deve essere "ridemocratizzata", come sostiene Jurgen Habermas, non basta un ulteriore trasferimento di sovranità finalizzato alla realizzazione di un governo economico comune, perché un’Unione europea dimezzata, svuotata di diritti, inevitabilmente assumerebbe la forma di una "democrazia senza popolo". Da qui dovrebbero ripartire la discussione pubblica, e una diversa elaborazione delle politiche europee.
Conosciamo le difficoltà. L’emergenza economica vuole chiudere ogni varco. Dalla Corte di Giustizia non sempre vengono segnali rassicuranti. Lo stesso Parlamento europeo ha mostrato inadeguatezze sul terreno dei diritti, come dimostrano le tardive e modeste reazioni alla deriva autoritaria dell’Ungheria. Ma l’esito delle elezioni francesi, e non solo, ci dice che un’altra stagione politica può aprirsi, nella quale proprio la lotta per i diritti torna ad essere fondamentale. Di essa oggi abbiamo massimamente bisogno, perché da qui passa l’azione dei cittadini, protagonisti indispensabili di un possibile tempo nuovo.
Voto italiano, vento europeo. Fine di un’egemonia
di Ida Dominijanni (il manifesto, 9 maggio 2012)
Non archiviano solo il Pdl, le prime elezioni del dopo-Berlusconi, ma l’intero polo dell’allora "nuova" destra che Berlusconi mise al mondo nel ’94 e che ha tenuto il campo della politica italiana per quasi un ventennio. Già lesionato dalla separazione di Fini di due anni fa, quel polo è oggi palesemente in frantumi, colpito al cuore dell’asse Berlusconi-Bossi che ne è stato il nerbo. Non aiuta la comprensione di quello che sta accadendo riportare questo crollo solo alle cause scatenanti più recenti: come sempre, nel momento della fine conviene piuttosto allungare lo sguardo sull’inizio.
Sul crollo della destra incidono infatti di sicuro la fine della leadership di Berlusconi - certificata ormai da un lungo declino, iniziato alle Europee del 2009 e mai più arrestatosi - e la devastante sequenza dei cosiddetti "scandali" - dal sexgate al Belsito-gate -, potenti rivelatori del funzionamento di un sistema di potere ancor più che eloquenti spie di una "questione morale" delegittimante. Giova però ricordare, per spiegarne la tenuta prima e adesso il disfarsi, di quali ingredienti fosse fatta la creatura berlusconiana del ’94, una creatura tricipite che teneva insieme tre destre diverse fra loro: quella neoliberista di Forza Italia, quella comunitarista-xenofoba della Lega e quella statalista-sociale di An. Il "miracolo" del Cavaliere consistette precisamente nella capacità di unificare e cementificare sotto il proprio "carisma" queste tre anime diverse, talvolta perfino incompatibili, dando vita a un campo neolib-neocon più simile al suo omologo americano marcato Bush che alle destre europee. E consistette altresì nella capacità di incardinare su questa destra tricipite il bipolarismo della cosiddetta seconda repubblica, ridefinendo al contempo un’agenda di lotta e di governo tagliata sul blocco sociale e sugli interessi del Nord postfordista e "autoimprenditoriale", con il Sud "assistenzialista" in posizione periferica e ancillare.
Quel miracolo non è più ripetibile, e non solo perché è finita, o comunque sfinita, la leadership di Berlusconi senza la quale esso non si dà, ma perché la ricetta neolib-neocon che esso predicava non funziona (ammesso che abbia mai funzionato) e non seduce più. Il crollo, prima che politico, è di blocco sociale, nonché ideologico (al di là delle sue sopravvivenze residuali, paradossalmente più tenaci, a giudicare dal voto di domenica, al Sud che al Nord). Si tratta, in altri termini, della fine di una egemonia. Se e come una destra, e quale destra, riemergerà dalle macerie di questo blocco egemonico, ha probabilmente a che fare con la forma che prenderanno le sue tre componenti originarie. Ed è facile ipotizzare fin d’ora, dalle divisioni che le separano, che non si profila una loro ricomposizione bensì una loro scomposizione, dominata, più che dallo scenario nazionale, dall’evoluzione di quello europeo.
Qui entra in campo il secondo fattore decisivo del terremoto elettorale. Che non serve a nulla interpretare esclusivamente, o prevalentemente, nei termini triti dell’opposizione politica-antipolitica, rimuovendo il dato eclatante della contestazione antirigorista che dal voto (e dal non voto) emerge nettamente, in perfetta consonanza con i segnali che vengono dalla Francia e dalla Grecia. E qui si vedono anche gli enormi limiti di una transizione al dopo-Berlusconi tutta affidata alla sostituzione del neoliberismo più americano che europeo del Cavaliere con il neoliberismo più tedesco che americano di Monti.
Alla prima verifica elettorale, il risultato di questa transizione dall’alto è che alla sepoltura del ventennio del Cavaliere si somma la contestazione del governo dei tecnici e dell’Europa ostile e vessatoria che esso rappresenta. E questo mentre, crollato con la destra di Berlusconi il bipolarismo sperimentato fin qui, l’intero sistema politico deve ridefinirsi, e si sta già ridefinendo, in relazione al quadro europeo, alla crisi europea e alle politiche sociali europee. Non ne dipende infatti solo la configurazione che prenderà la destra, o le destre, orfana del Cavaliere, e allo stato prive di possibilità di riparo in un "terzo polo" che il voto di domenica ha dichiarato inesistente. Ne dipende altrettanto la configurazione che prenderà la sinistra, o le sinistre, nonché la curvatura che assumeranno i movimenti antisistema fin qui troppo genericamente etichettati come "antipolitici", e fin qui nella loro stessa autorappresentazione né di destra né di sinistra.
A proposito di questi ultimi, lo spettro europeo è assai vasto, va dalla sperimentazione delle pratiche di democrazia telematica dei "Pirati" tedeschi alla inquietante riesumazione del binomio socialnazista dell’"Alba dorata" greca, e oscilla dalla critica dell’Unione europea fin qui conosciuta al rifiuto tout court della costruzione europea. Sono movimenti che non garantiscono di per sé niente di buono, ma niente può piegarli al peggio quanto una pregiuziale sordità al disagio sociale di cui sono portatori.
Quanto ai destini della sinistra italiana, il voto francese, peraltro insistemente invocato dai suoi leader come condizione necessaria di un cambio di stagione su scala continentale, le indica limpidamente la strada. Non è affatto detto però che su quella strada essa possa portarsi l’appoggio al governo tecnico, né che basti mettere Monti nella posizione del mediatore fra Merkel e Hollande per far quadrare i conti dell’Euro e delle prossime elezioni politiche. Il Pd non è stato punito per le sue oscillazioni dal voto amministrativo, ma non è stato nemmeno granché premiato; e queste non sono circostanze in cui la rendita dell’ "unico partito che tiene" possa durare a lungo. Ci sono situazioni in cui i tempi stringono, e le oscillazioni non pagano. La nettezza, manda a dire il caso Hollande, paga di più.
La fine dell’egemonia neoliberista berlusconiana e il cambiamento del vento europeo domandano e comandano una manovra controegemonica in grande stile, di segno opposto all’introiezione temperata del rigore montiano. E la stessa contabilità del voto obbliga a distogliere finalmente lo sguardo da un centro desaparecido e a volgerlo con più convinzione verso sinistra. Diversamente, ci saranno nell’immediato una sinistra senza popolo e un populismo senza sinistra, e all’orizzonte più la disgregazione greca che l’alternativa francese.
Ecco allora ciò che deve essere chiaro: gli eredi perversi di Rousseau sono all’oggi i fanatici del «partito personale». Tra presidenzialismo, antipolitica e dintorni (...)
L’Europa siamo noi è il momento di ricostruirla
di Ulrich Beck e Daniel Cohn-Bendit
Un Anno europeo di volontariato per tutti - per tassisti e teologi, per lavoratori e disoccupati, per manager e musicisti, per insegnanti e allievi, per scultori e sottocuochi, per giudici della corte suprema e cittadini anziani, per uomini e donne - come risposta alla crisi dell’euro! I giovani d’Europa non sono mai stati così istruiti, eppure si sentono impotenti di fronte all’incombente bancarotta degli Stati-nazione e al declino terminale del mercato del lavoro.
Tra gli europei con meno di venticinque anni, uno su quattro è disoccupato. Nei tanti luoghi in cui hanno allestito campeggi e lanciato proteste pubbliche, i giovani defraudati dei loro diritti rivendicano giustizia sociale. Ovunque - la Spagna, il Portogallo, i paesi del Nordafrica, le città americane o Mosca - questa domanda sale con grande forza e grande fervore. Sta montando la rabbia per un sistema politico che salva banche mostruosamente indebitate, ma dilapida il futuro dei giovani. Ma quanta speranza può esserci per un’Europa che invecchia costantemente? Il presidente americano John F. Kennedy sbalordì il mondo con la sua idea di fondare un Corpo della pace. «Non chiedetevi che cosa può fare per voi il vostro Paese, chiedetevi che cosa potete fare voi per il vostro Paese».
Noi che firmiamo questo manifesto vogliamo farci portavoce della società civile europea. Per questa ragione chiediamo alla Commissione europea e ai governi nazionali, al Parlamento europeo e ai Parlamenti nazionali, di creare un’Europa di cittadini con un impiego attivo e di fornire i requisiti finanziari e legali per l’Anno europeo di volontariato per tutti, come contro-modello all’Europa dall’alto, l’Europa delle élite e dei tecnocrati che ha prevalso finora e che si sente investita della responsabilità di forgiare il destino dei cittadini europei, contro la loro volontà se necessario. Perché è questa massima non dichiarata della politica comunitaria che sta minacciando di distruggere l’intero progetto europeo.
Lo scopo è quello di democratizzare le democrazie nazionali per ricostruire l’Europa nello spirito dello slogan kennediano: non chiedetevi che può fare per voi l’Europa, ma che cosa potete fare voi per l’Europa, facendo l’Europa!
Nessun pensatore progressista, da Jean-Jacques Rousseau a Jürgen Habermas, ha mai voluto una democrazia che consiste unicamente nel poter andare a votare a scadenze regolari. La crisi del debito che sta mandando in pezzi l’Europa non è semplicemente un problema economico, ma anche un problema politico. Abbiamo bisogno di una società civile europea e della visione delle giovani generazioni se vogliamo risolvere le scottanti questioni d’attualità. Non possiamo lasciare che l’Europa venga trasformata nel bersaglio di un «movimento arrabbiato» di cittadini che protestano contro un’Europa senza gli europei. L’Europa non può funzionare senza l’apporto di europei impegnati per la sua causa, e gli europei non possono fare l’Europa se non possono respirare l’aria della libertà.
L’azione pratica, che trascende i confini ristretti dello Stato-nazione, dell’etnia e della religione, che l’Anno europeo di volontariato per tutti vuole promuovere non dev’essere intesa come una foglia di fico istituzionalizzata per coprire i fallimenti europei. È una visione che vuole aprire spazio per la creatività. Non si tratta di un mezzo per distribuire elemosine ai giovani disoccupati, è un atto di auto-affermazione della società civile europea, un atto che può essere usato per costruire una nuova Costituzione propositiva, dal basso, per ripristinare la creatività politica e la legittimazione dell’Europa.
La libertà politica non può sopravvivere in un’atmosfera di paura. Può prosperare e radicarsi solo se le persone hanno un tetto sulla testa e sanno come fare per vivere, domani e quando saranno vecchie. Ecco perché l’Anno europeo di volontariato per tutti ha bisogno di solide fondamenta finanziarie. Noi chiediamo alle imprese europee di dare il loro giusto contributo.
Se vuole costruire una cultura dal basso, l’Europa non può permettersi di ricadere in linee d’azione predefinite. I cittadini di questa Europa andranno in altri Paesi e si impegneranno su problemi transnazionali su cui gli Stati nazionali non sono più in grado di offrire soluzioni appropriate (il degrado ambientale, i cambiamenti climatici, i movimenti di massa di profughi e migranti e il radicalismo di destra). Sfrutteranno le reti europee di arte, letteratura e teatro come palcoscenici per promuovere la causa europea. Bisogna stipulare un nuovo contratto fra lo Stato, l’Unione Europea, le strutture politiche della società civile, il mercato, la previdenza sociale e la sostenibilità ambientale.
Che cosa c’è di buono nell’Europa? Qual è il valore dell’Europa per noi? Quale modello potrebbe e dovrebbe essere la base dell’Europa nel XXI secolo? Sono questioni aperte, che devono essere affrontate urgentemente. Per noi di We Are Europe la risposta è questa: l’Europa è un laboratorio di idee politiche e sociali senza equivalenti in nessun’altra parte del mondo. Ma che cos’è che costituisce l’identità europea? Potreste rispondere che l’europeità nasce dal dialogo e dal dissenso fra molte culture politiche diverse, quella del citoyen, quella del citizen, quella dello Staatsbürger, quella del burgermatschappij, quella del ciudadano, quella dell’obywatel. Ma l’Europa è anche l’ironia, è la capacità di ridere di se stessi. E il modo migliore per riempire l’Europa di vita e di risate è che i cittadini comuni europei agiscano insieme, spontaneamente.
* la Repubblica, 3 maggio 2012 (ri presa parziale - senza le firme di adesione)
Soldaten, i ciarlieri carnefici di Hitler
Dalle tecniche di sterminio degli ebrei alle stragi di civili, agli stupri di massa In un libro le conversazioni dei soldati tedeschi prigionieri degli Alleati: si raccontano gli orrori della guerra, con pochi dubbi e qualche ironia
di Giorgio Boatti (La Stampa, 01.05.2012)
Un catalogo degli orrori. Un repertorio di crudeltà che va ben al di là della ferocia insita in ogni guerra. Soldaten, il libro in uscita da Garzanti, con cui lo storico Sonke Neitzel e lo psicologo sociale Harald Welzer ricostruiscono il mondo interiore dei soldati di Hitler, non è lettura per palati fini. O per sensibilità delicate.
Per oltre quattrocento pagine i due studiosi attingono alla montagna di verbali - desecretati dagli archivi inglesi e americani - che riportano le intercettazioni delle conversazioni tra combattenti tedeschi, detenuti nei campi di prigionia di Trent Park e Wilton Park nel Regno Unito e di Fort Hunt negli Usa.
I verbali sono il frutto del lavoro della rete dei Secret Interrogation Center allestiti da Londra già all’inizio della guerra e dei Joint Interrogation Centre resi operanti dagli americani a partire dall’estate del 1941. Sul milione di prigionieri caduti in mano alleata sono circa 10.000 i militari tedeschi e 563 gli italiani (su questi ultimi, in Soldaten, emerge piuttosto poco) trasferiti, dopo opportuna selezione, in questi luoghi di detenzione speciale. L’obiettivo non è raccogliere prove per punire azioni criminali, ma fornire all’intelligence alleata materiale prezioso sull’avversario che si sta ancora fronteggiando. Quella che si effettua è una sorta di vivisezione operata su una significativa campionatura del grande corpo delle armate di Berlino. Ne emergono schegge taglienti, impietosi reperti di una guerra senza regole che viene esposta con una schiettezza che nessun interrogatorio potrebbe mai afferrare.
I kamaraden, ignari - o, forse, in alcuni casi, incuranti - di essere intercettati dalle «cimici» installate nelle baracche di questi campi speciali, si raccontano l’un l’altro quella che per loro, alla fine, è stata solo la pratica quotidiana del mestiere di soldati di Hitler. Nelle oltre 150.000 pagine dei documenti vagliati dai due studiosi prendono corpo, attraverso le voci dei diretti protagonisti, i dettagli più raccapriccianti del secondo conflitto mondiale: dalle modalità operative dello sterminio degli ebrei alle esecuzioni dei prigionieri, dalle stragi di ostaggi civili alla pratica dello stupro di massa nelle terre occupate. Sino alle «battute di caccia» con cui carnefici volontari, in un caso persino gli appartenenti a una banda musicale inviata ad allietare le truppe al fronte, chiedono di «sparare assieme» ai reparti «specializzati» nell’eliminazione di ebrei e partigiani.
Tutto accade come fosse la cosa più scontata e normale. In Soldaten si spiega come questi siano i frutti maturati in Germania in poco più di sei anni, dall’avvento di Hitler nel 1933 allo scoppio della guerra - della convinta adesione della maggioranza della società tedesca al mito della «razza eletta». Le riserve e gli interrogativi, quando ci sono, si rifugiano in privatissimi ambiti. Nella vita pubblica la comunità dei prescelti esige degli esclusi: gli ebrei, i matti, gli zingari, gli oppositori. Nei confronti di questi, già in tempo di pace, una condotta collettiva e individuale sempre più disumana diventa la norma. Questo indurrà l’uomo della strada, il padre di famiglia esemplare - una volta rivestito nell’uniforme - a convivere con ogni efferatezza.
Ancora una volta la Storia dimostra che non conta l’irrealtà di una situazione quanto il fatto che chi vi è immerso la possa percepire come reale.
Come dice il sociologo americano William I. Thomas, anche i fatti immaginari - ad esempio il «complotto ebraico» da estirpare per salvare la Germania - finiscono con l’avere conseguenze reali: l’infinito sgranarsi di brutalità e crimini rievocato, senza rimorsi né dubbi, nelle intercettazioni di Soldaten, ne è la prova. Secondo lo storico Wolfram Setter furono poco più di un centinaio i casi di «Rettungswiderstand», ovvero di resistenza agli ordini finalizzata a salvare vittime. Cento su oltre 17 milioni di soldati inquadrati nella Wehrmacht nel corso dei sei anni di guerra. Tutti gli altri si adeguarono. Da volonterosi carnefici, da zelanti complici o da obbedienti comparse marciarono compatti sino in fondo al baratro. Facendo tacere ogni compassione e umanità.
(Nella vita pubblica la comunità dei prescelti esige degli esclusi: gli ebrei, i matti, gli zingari, gli oppositori.)...!
*** jv cap. 29 pp. 663-664 “Odiati da tutte le nazioni” *** Imprigionati per la loro fede I testimoni di Geova non si trovavano nei campi di concentramento perché fossero dei criminali. Quando gli ufficiali volevano farsi radere, affidavano il rasoio a un Testimone, perché sapevano che nessuno di loro l’avrebbe usato per fare del male a un altro essere umano. Quando gli ufficiali delle SS del campo di sterminio di Auschwitz avevano bisogno di qualcuno per pulire la casa o badare ai bambini, sceglievano delle Testimoni, perché sapevano che non avrebbero cercato di avvelenarli o di scappare. Alla fine della guerra, durante l’evacuazione del campo di Sachsenhausen, le guardie misero un furgone su cui avevano caricato il loro bottino in mezzo a una colonna di Testimoni. Perché? Perché sapevano che i Testimoni non li avrebbero derubati.
Più volte fu promessa loro la liberazione se solo avessero firmato una dichiarazione in cui rinnegavano le proprie convinzioni. Le SS fecero tutto ciò che era in loro potere per indurli o costringerli a firmare una dichiarazione del genere. Questo era quello che volevano sopra ogni altra cosa.
Tranne qualcuno, furono irremovibili nella loro integrità. Ma non solo soffrirono a motivo della loro lealtà a Geova e della loro devozione al nome di Cristo, non solo sopportarono le torture da inquisizione inflitte loro: mantennero anche forti legami di unità spirituale.
Non cercavano di sopravvivere ad ogni costo. Si mostravano l’un l’altro amore altruistico. Quando uno di loro si indeboliva, altri dividevano con lui la misera razione di cibo. Quando veniva negata ogni assistenza medica, si prendevano amorevolmente cura l’uno dell’altro.
( Informazioni storiche che pochi sanno e la stragante maggioranza le evita)
Distinti saluti ed apprezzamento a tutto lo STAFF della VOCE DI FIORE essendo anchio "uno dei fiori".
La pace igiene del mondo
intervista a John Gittings
a cura di Ennio Carretto (Corriere della Sera/ La Lettura, 29 aprile 2012)
Non è la guerra, ma la pace, l’autentica molla del progresso tecnologico umano. Lo sostiene lo storico inglese John Gittings, già autore di importanti lavori sulla Cina, in un libro che sta facendo parecchio rumore in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Editorialista di politica estera del quotidiano britannico «The Guardian» dal 1983 al 2003, oggi alla Oxford International Encydopedia of Peace, Gittings è fautore di un diverso revisionismo storico, propedeutico a un nuovo, pacifico ordine globale.
Nel saggio The Glorious Art of Peace. From the Iliad to Iraq («La gloriosa arte della pace. Dall’Iliade all’Iraq», Oxford University Press), Gittings non contesta solo che la matrice della scienza e della tecnologia sia soprattutto bellica. Afferma anche che, rivisitando i millenni della storia, vi si trovano le direttive, più che mai valide ai nostri giorni, per un mondo in pace, prospero e giusto.
Come è giunto a queste conclusioni?
«Ho sempre creduto che la pace sia la condizione umana ultima e la più favorevole al progresso. Da giovane, feci parte del movimento antinucleare e pacifista di Bertrand Russell. Ma con il passare del tempo mi resi conto che in prevalenza gli storici scrivono di guerre. Se visitiamo Foyles a Londra, la più grande libreria al mondo, troviamo 280 scaffali di libri sulle guerre, ma meno di uno sulla pace, sebbene alcuni libri dove si parla anche di pace siano sparsi in altri 40 scaffali».
E in questi libri sulle guerre si sostiene che esse sono all’origine delle maggiori scoperte scientifiche e tecnologiche?
«Di solito sì. È la "teoria del carro", secondo cui l’invenzione del carro da guerra trasformò l’età del bronzo, come la scoperta dell’energia nucleare ha trasformato la nostra. Ma se è vero che le guerre promuovono scoperte, è ancora più vero che la pace ne promuove di più, e sovente di più importanti. E la "teoria del palo", alla quale aderisco, secondo cui la pace è il requisito per la crescita culturale della società».
Perché è chiamata così?
«La dottrina prende il nome dal palo imperniato con contrappeso e secchio, inventato in Mesopotamia per estrarre acqua dai pozzi, più o meno contemporaneamente al carro da guerra. Una scoperta che fu decisiva per l’irrigazione dei campi e lo sviluppo agricolo. Non dimentichiamo che nei millenni la maggior parte dell’umanità non ha conosciuto guerre. Purtroppo in prevalenza gli storici tralasciano di raccontarlo».
Per quali ragioni?
«Sostanzialmente per due motivi. Le guerre appaiono più affascinanti della pace alla maggioranza degli storici: per alcuni di loro anzi, la pace è soltanto una parentesi tra le guerre. Inoltre la lettura che essi danno di eventi o movimenti cruciali è almeno in parte errata, rispecchia una sorte di pregiudizio. Si prenda Charles Darwin. Lo si considera il teorico della sopravvivenza dei più forti, il cosiddetto darvinismo sociale. Ma Darwin disse che, progredendo, l’umanità passerà dalla competizione alla cooperazione».
Lei ritiene errata anche la lettura di Omero, Shakespeare e Tolstoj come cantori della guerra, per citare qualcuno dei grandi su cui si è soffermato?
«È una lettura unilaterale. Prendiamo lo storico greco Tucidide. È giudicato favorevole alla guerra. Ma in lui non mancano gli auspici di pace. Anche Omero lascia intravedere alternative alla guerra. A un certo punto i soldati greci abbandonano l’assedio di Troia, equivocando sul discorso di Agamennone, e soltanto gli dei riescono a fermarli. Sullo scudo di Achille sono raffigurate scene agresti e di danza. Lo stesso si può dire di Shakespeare. In Russia la censura vietò la pubblicazione dei racconti di guerra di Tolstoj in quanto il romanziere si chiedeva perché i soldati si uccidano l’un l’altro».
Il pacifismo non è un fenomeno recente?
«No. All’epoca delle guerre in Cina, Confucio sedeva nella casa del tè, vicino all’ingresso nella città, dando consigli ai governanti su come ottenere o preservare la pace. Sono molte e autorevoli le voci levatesi contro la guerra nel corso dei millenni, ma vennero spesso soffocate. Si dice che la storia sia scritta dai vincitori. Io penso che sia scritta anche dai belligeranti».
Lei dà particolare rilievo all’insegnamento di Erasmo da Rotterdam, l’apostolo dell’umanesimo cristiano.
«Nel libro contrappongo Erasmo a Machiavelli. Tutti conoscono Il Principe e Dell’arte della guerra di Machiavelli: per generali e governanti furono quasi dei manuali, per qualcuno lo sono ancora. Ma pochi conoscono L’educazione del principe cristiano di Erasmo, che è quasi un trattato pacifista. Tornando a Foyles: espone più edizioni di Machiavelli e nessuna copia del libro di Erasmo, che denuncia i costi delle guerre, proponendo negoziati e mediazioni di pace. Per fortuna Erasmo influì sull’Illuminismo e sui filosofi a lui successivi».
Lei è convinto che il passato ci fornisca direttive di pace?
«Sì. L’insegnamento di Erasmo è utile. Se approfondissimo i pro e i contro a lungo termine delle guerre, ne eviteremmo molte. Tipico è il caso della guerra in Iraq: chi l’avrebbe cominciata, se ne avesse saputo in anticipo il costo? Idem per i negoziati di pace: va accettato il principio che per raggiungerla bisogna rinunciare a qualcosa. Un fattore importante è anche la pubblica opinione, che un tempo non aveva il peso di oggi. In retrospettiva, il merito della riduzione degli armamenti nucleari è anche suo».
Questo insegnamento non ci ha però risparmiato due guerre mondiali né la Guerra Fredda.
«Abbiamo perso grandi occasioni di pace perché siamo stati incapaci di assorbire la lezione della storia. Ci chiediamo ancora perché scoppiò la Prima guerra mondiale, di cui ricorrerà presto il centenario. Equivochiamo sugli anni Trenta, che inizialmente furono costruttivi, non distruttivi. Non ammettiamo che la Guerra Fredda fosse prevenibile. Ci chiediamo perché non siamo riusciti a creare un nuovo ordine mondiale negli anni Novanta, dopo il crollo del Muro di Berlino e dell’Urss. Dobbiamo cambiare».
Non pecca di ottimismo suggerendo nel suo libro che il secolo attuale può essere contraddistinto dalla pace?
«Il XX secolo è stato un secolo di sangue, circa 8o anni di guerre su 100. Abbiamo i mezzi per evitare che lo sia anche il XXI. Non m’illudo che si risolvano tutti i problemi. Siamo nell’età della globalizzazione e la situazione è complessa. Le soluzioni devono essere globali. Non si tratta soltanto di impedire che scoppino guerre, ma anche di ridurre la povertà e le disuguaglianze, di proteggere l’ambiente. Scienza e tecnologia non bastano».
Ci vuole una rivoluzione culturale?
«In un certo senso sì, anche se non uso questa espressione. Ci vogliono meno strumentalizzazioni da parte del potere, meno machismo intellettuale da parte degli storici, più collaborazione internazionale, più enfasi nelle scuole e sui media sui dividendi della pace, che ultimamente ci siamo lasciati sfuggire. Alle tv, quando si discute di Afghanistan, si invitano solo esperti di guerre, non esperti di pace. È un errore».
Breivik l’europeo
risponde Furio Colombo (il Fatto, 18.04.2012)
Caro Colombo, in che mondo stiamo vivendo? In Francia la signora Le Pen è candidata presidenziale senza scandalo di nessuno e Storace va a renderle omaggio, come a dire: siamo in tanti. Lo sono. L’Ungheria è completamente nelle mani di un governo apertamente razzista e di estrema destra. E al processo in Norvegia o stragista Breivik fa il saluto nazista e rivendica il suo delitto.
Alessia
IL SALUTO nazista di Breivik, l’uomo che ha ucciso da solo, per onorare un comandamento fascista (la lotta al multiculturalismo) 77 giovani connazionali, colpevoli di essere “di sinistra”, il saluto nell’aula del tribunale norvegese in cui riconosce e rivendica, come un patriota, il proprio delitto, quella scena ha fatto il giro del mondo.
Il fatto evidente, che conta e che si verifica facilmente ascoltando le sue dichiarazioni, è che Breivik non è incapace di intendere e di volere. È un uomo intelligente, come lo era Goebbels, e criminale, come lo era Hitler. Si direbbe che solo per un disguido Breivik ha agito sulla scena sbagliata. Infatti quella parte di destra americana che si batte seriamente, con normali e potenti strumenti politici, per la espulsione di tutti gli stranieri, senza tener conto del crollo immediato che subirebbe l’economia americana, non è molto lontana, dal sentire dell’assassino norvegese, come non lo sono gli squadroni di volontari che percorrono il deserto tra Stati Uniti e Messico in cerca di migranti da eliminare.
È terribile dirlo, ma i pattugliamenti congiunti (sgherri libici e militari italiani) nel Mediterraneo, che erano uno degli scopi principali del trattato tra Italia e Libia, hanno fatto la loro parte di morti, compresi bambini e donne incinte, abbandonando o respingendo le barche di naufraghi al loro destino, come testimoniano le Nazioni Unite, molte indipendenti fonti internazionali e l’Alta Corte per i diritti umani di Strasburgo. Sì, occorre riconoscere che quel saluto di Breivik all’inizio del suo processo non è di un pazzo e non è l’ossessione di un solitario. Nel dibattito senza fine sulla politica italiana, di questo bisognerà tenere conto: una destra oscura e potente è in movimento e si sta di nuovo avvicinando al potere. Breivik sembra saperlo.
IN MEMORIA DEL CARDINALE CLEMENS AUGUST VON GALEN (1878-1946):
«Sotto il nazismo dissi pubblicamente, e lo dissi anche riguardo a Hitler nel ’39, quando nessuna potenza intervenne allora per ostacolare le sue mire espansionistiche: la giustizia è il fondamento dello stato.
Se la giustizia non viene ristabilita, allora il nostro popolo morirà per putrefazione interna.
Oggi devo dire: se tra i popoli non viene rispettato il diritto, allora non verrà mai la pace e la concordia »(Clemens August von Galen)
È ora di liberare la Chiesa dal viscido dominio del clericalismo
di Kevin Hegarty*
in “www.irishtimes.com” del 10 aprile 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
I cattolici liberal sono giunti alle loro opinioni circa l’insegnamento della chiesa sulla contraccezione, sui preti sposati, sulle donne prete, e sull’omosessualità come risultato di una onesta e seria riflessione.
Il pittore Tony O’Malley era solito creare un’opera d’arte ogni Venerdì santo. Quando è giunta la notizia, durante la Settimana santa, della censura del Vaticano nei confronti di Fr. Tony Flannery e della rivista dei Redentoristi “Reality”, ho desiderato poter dipingere un quadro che esprimesse la mia tristezza.
Il discorso di papa Benedetto nella messa del Giovedì santo a Roma hanno portato al massimo la mia depressione. In risposta ad un appello alla disobbedienza di preti e laici austriaci sul celibato e sulle donne prete, ha asserito che essi sfidavano “precise decisioni del magistero della chiesa”.
I capi della Chiesa spesso parlano del diritto di libertà di espressione, molto recentemente lo ha fatto lo stesso papa nella sua visita a Cuba. Le recenti mosse vaticane hanno l’intento di creare un clima di paura tra il clero più aperto. Per riprendere un commento espresso alcuni anni fa dallo scrittore inglese AN Wilson, la Congregazione per la dottrina della fede ha “i mezzi per obbligarti a non parlare”.
Conosco molto bene Tony Flannery. Ha donato 40 anni di sincero servizio come prete, soprattutto come predicatore di missioni in tutta l’Irlanda. È un oratore che trascina e suscita empatia e un liturgista innovatore. I suoi articoli su “Reality”, basati sul suo impegno per gli ideali del Concilio Vaticano II e la sua vasta conoscenza della Chiesa irlandese erano spesso scritti per far pensare. È uno dei fondatori della “Association of Catholic Priests”, istituita nel settembre 2010, e fa parte del gruppo dirigente. L’associazione si è dotata di un forum per il dibattito ed una voce indipendente per i preti irlandesi.
Tra le sue conquiste c’è il suo intervento nel caso di Fr. Kevin Reynolds, che fu gravemente diffamato nel maggio scorso nel programma Prime Time Investigates.
Mi aspetto che Fr. Reynolds ammetta che senza questo aiuto starebbe ancora languendo in un limbo dal quale non avrebbe mai potuto emergere.
Forse non sorprende che il Vaticano abbia fatto la mossa di censurare Fr. Flannery. Il Concilio Vaticano II prometteva una Chiesa aperta e dialogica, desiderosa di impegnarsi con il mondo secolare. Dal 1980 a Roma c’è stato un ritiro dalle sue riforme.
Papa Benedetto ha un’opinione negativa dello spirito del Concilio. L’anno scorso ha mandato un gruppo di visitatori apostolici per esaminare la Chiesa irlandese sulla scia dello scandalo degli abusi sessuali. Nel riassunto del loro rapporto pubblicato recentemente, i visitatori danno una sferzata ai cattolici aperti. Hanno scritto che un numero significativo di cattolici irlandesi aveva opinioni in contrasto con “l’insegnamento del magistero”.
Dovrebbero essere loro assegnati pieni voti per il loro potere di osservazione. I molti cattolici liberal in Irlanda sperano in una Chiesa che sia aperta a preti sposati e donne, ad un ripensamento sul problema della contraccezione rispetto a quanto si esorta nella Humanae Vitae, e ad un capovolgimento dell’assoluta mancanza di sensibilità dell’insegnamento sull’omosessualità.
Siamo giunti a queste posizioni come risultato di una onesta e seria riflessione. Non cerchiamo il cambiamento per il gusto del cambiamento. Crediamo che queste riforme aiuterebbero a far emergere una Chiesa più umana, attenta e stimolante, una Chiesa liberata dal viscido dominio del clericalismo.
E queste opinioni sostenute sinceramente non sono affatto in contrasto con la dottrina fondamentale della Chiesa, come hanno sostenuto i visitatori nel loro rapporto. Questa dottrina parla, ad esempio, dell’umanità e della divinità di Cristo, della resurrezione e dei sacramenti.
Non conosco alcun prete in Irlanda che pubblicamente dissenta da questi elementi di fede.C’è la tendenza di commentatori conservatori ad affermare che i preti più aperti siano una minoranza di vecchi scontenti che hanno trasformato le loro interpretazioni errate del Concilio Vaticano II in una specie di santo decreto.
Per loro noi siamo dei naufraghi che tengono sfrontatamente in alto le sbrindellate bandiere degli anni 60. Non ne saranno contenti, ma devo disilluderli.
L’evidenza aneddotica, unita ai risultati di un gran numero di indagini fatte da professionisti, indicano che la maggioranza dei cattolici irlandesi sostiene cambiamenti radicali nel ministero e nell’insegnamento morale della Chiesa.
Per parafrasare Gerry Adams in un contesto differente, non stiamo andando via. Il Vaticano è stato una “casa fredda” per i cattolici aperti negli anni recenti. Il minimo che ci aspettiamo è il rispetto per la nostra libertà di parola e di coscienza.
Una riforma della Chiesa che escluda questi diritti è una forma di repressione. Sembra che Papa Benedetto pensi che “una minoranza creativa” di cattolici conservatori trasformi la Chiesa in Europa. A me questo sembra un garbato eufemismo per un’assemblea di sosia di Rick Santorum.
*Fr. Kevin Hegarty è un prete della parrocchia di Kilmore-Erris a Co Mayo, e giornalista di Mayo News.
Così noi ebrei riscriviamo quel racconto della bibbia
di Safran Foer (la Repubblica, 7 aprile 2012)
Ho trascorso buona parte degli ultimi anni a riscrivere l’Haggadah - la guida per le preghiere, i riti e i salmi del Seder (incontri che si celebrano in una delle due sere della Pasqua ebraica, NdT) - e di frequente mi chiedono per quale motivo ho voluto sottrarre tempo alla scrittura per investirlo in un simile progetto.
Per tutta la mia vita i miei genitori hanno ospitato il Seder della prima notte della Pasqua ebraica. A mano a mano che la nostra famiglia si allargava - e con essa di pari passo anche la nostra definizione di famiglia - per la cena rituale ci siamo spostati dalla sala da pranzo al nostro scantinato, più spazioso, che puzzava di muffa. Da un tavolo siamo passati a più superfici goffamente accostate le une alle altre per formarne uno più grande. La richiesta di mio padre di togliere la rete dal tavolo da ping-pong mi ha sempre reso consapevole dell’approssimarsi della Pasqua. Poi, tutti i tavoli erano ricoperti da grandi tovaglie sbiadite e assortite.
Ogni volta c’era un’Haggadah che i miei genitori avevano messo insieme fotocopiando i brani preferiti presi da altre Haggadah, e quando finalmente i Foer ottennero la connessione a Internet la prepararono stampando ciò che trovavano online. Perché la sera di Pasqua è diversa da qualsiasi altra? Perché quella sera non si applica il copyright.
In mancanza di una terra loro e stabile, gli ebrei misero su casa nei loro libri e l’Haggadah - il cui nucleo centrale è il racconto dell’Esodo dall’Egitto - è stata tradotta innumerevoli volte, più di qualsiasi altro libro ebraico, ed è stata rivista più frequentemente di qualsiasi altro libro ebraico. Ovunque si siano recati gli ebrei ci sono sempre state Haggadah: dall’Haggadah di Sarajevo risalente al XIV secolo (che si dice sia sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale sotto le assi del pavimento di una moschea, e all’assedio di Sarajevo nel caveau di una banca) a quelle preparate dagli ebrei etiopi e fatte pervenire per via aerea in Israele durante l’Operazione Mosé.
Tuttavia, delle settemila versioni note - per non parlare delle incalcolabili edizioni fatte in casa - una sola è usata più di tutte le altre messe insieme: dal 1932 l’Haggadah della Maxwell House predomina nei rituali degli ebrei americani. Sì, proprio quella della marca di caffè Maxwell House. Avendo assodato negli anni Venti che il chicco di caffè non è un legume bensì una bacca, e di conseguenza è kosher per Pasqua, la Maxwell House diede all’agenzia pubblicitaria Joseph Jacobs l’incarico di fare del caffè e non del tè la bevanda eletta da bere dopo i Seder. Se tutto ciò vi sembra folle, tenete presente che il caffè Maxwell House è sempre stato particolarmente popolare nelle case ebraiche.
L’Haggadah che ne nacque costituisce una delle promozioni-vendita speciale che dura da più tempo in assoluto nella storia della pubblicità. Nei supermercati ne sono state distribuite gratuitamente almeno 50 milioni di copie, ispiranti quanto si può immaginare che siano i gadget di una marca di caffè. Nondimeno, molte persone provano un senso di attaccamento nei confronti dell’Haggadah della Maxwell House, per la gioiosa rassicurazione che essa evoca. Ci piace come ci piacciono le battute sugli ebrei. La versione della Maxwell House è di per sé una sorta di battuta ebraica - per averne la conferma provate un po’ a farne parola a un gruppo di ebrei senza provocare risate. Oltretutto, è gratis e - al pari della bevanda a base di caffeina e senza tanti fronzoli che reclamizza - appaga un bisogno molto primario.
Il più leggendario Seder di tutti - che, per un caso postmoderno, è raccontato nell’Haggadah stessa - si svolse intorno all’inizio del secondo secolo a Bene Beraq tra gli studiosi più importanti dell’antichità ebraica. Si concluse anticipatamente, quando gli studenti irruppero per annunciare cheera giunta l’ora della preghiera del mattino. Anche se lessero l’Haggadah dall’inizio alla fine, espletando ogni rito e cantando ogni verso di ogni singolo salmo, probabilmente trascorsero la maggior parte del loro tempo a fare altro. A estrapolare, sviscerare, discutere.
La storia dell’Esodo, infatti, non deve essere soltanto recitata, ma affrontata. Se l’Haggadah della Maxwell House non è mai riuscita a soddisfare appieno le esigenze intellettuali e spirituali, in ogni caso è servita in modo egregio e appropriato agli ebrei esperti conoscitori dei riti di una o due generazioni fa.
Gli attori però non conoscono più il copione. Gli ebrei americani, con una sorta di esodo ulteriore, sono passati dalla povertà all’agiatezza, dalla tradizione alla modernità, dalla familiarità nei confronti di una storia comune alla perdita della memoria collettiva. I nostri nonni erano immigrati in America, ma erano originari dell’ebraismo. Noi siamo l’esatto contrario: sappiamo tutto di American Idol, ma non conosciamo i grandi protagonisti dell’ebraismo. Di conseguenza, nei confronti dell’ebraismo ci comportiamo come immigrati: ci andiamo cauti, lo respingiamo, ne diventiamo consapevoli, e fingiamo (o raggiungiamo) indifferenza. In quel paese straniero che è la nostra fede, abbiamo urgentemente bisogno di una buona guida.
Anche se significa "il racconto", l’Haggadah non racconta semplicemente una storia: è il libro della nostra memoria vivente. Non basta ri-raccontare la storia: dobbiamo spiccare un salto più estremo ed empatico ed entrare dentro di esso. «A ogni generazione ogni individuo è tenuto a considerarsi come se fosse colui che andò via dall’Egitto» ci dice l’Haggadah. Questo salto è sempre stato una sfida in grado di intimorire, seppur carico di significato per la mia generazione in modo diverso rispetto ai disperati delle prime generazioni che si volevano assimilare - perché adesso, oltre alla mancanza di cultura e di conoscenza del sapere ebraico, c’è anche il vizio strutturale di un compiacimento collettivo.
L’integrazione degli ebrei e delle tematiche ebraiche nella nostra cultura pop è così preponderante che ormai siamo intossicati dalle immagini surrogate di noi stessi. Anche io adoro Seinfeld (sit-com americana, NdT), ma non credete che ci sia un problema nel momento in cui questa trasmissione è indicata quale riferimento dell’identità ebraica del singolo? Per molti di noi, essere ebrei è diventato, più di ogni altra cosa, strano. Tutto ciò che resta, nel vuoto della scioltezza e della profondità, sono le risate.
Circa cinque anni fa ho avvertito in me una certa malinconia. Forse era dovuta al fatto di essere diventato padre, o semplicemente al fatto di invecchiare. Malgrado io sia cresciuto in una famiglia ebraica intellettuale e consapevole, non sapevo pressoché nulla di ciò che si suppone che sia il mio sistema di pensiero. C’era anche di peggio: mi sentivo soddisfatto del poco che sapevo. Talvolta pensavo al mio modo di essere in termini di rifiuto, ma è impossibile respingere ciò che non si comprende e che non è mai stato davvero tuo. Talvolta ritenevo fosse un successo, ma non c’è successo alcuno nella perdita passiva.
Perché ho sottratto tempo alla mia attività di scrittore per pubblicare una nuova Haggadah? Perché volevo fare un passo avanti in direzione di quella conversazione che potevo udire soltanto a stento attraverso le porte chiuse della mia ignoranza; un passo avanti in direzione di un ebraismo fatto di punti di domanda, più che di citazioni; verso la storia del mio popolo, della mia famiglia e di me stesso.
Come ogni bambino, anche mio figlio di sei anni adora ascoltare storie - miti e saghe nordiche, Roald Dahl, racconti della mia infanzia - ma più di ogni altra cosa gli piacciono le storie della Bibbia. Così, tra quando ha terminato di fare il bagno e il momento in cui va a letto, mia moglie ed io gli leggiamo spesso alcune versioni per bambini delle storie del Vecchio Testamento. Lui adora ascoltarle, perché sono le storie più belle mai raccontate. E noi adoriamo raccontargliele per un motivo diverso. Lo abbiamo aiutato a imparare a dormire tutta la notte, a servirsi della forchetta, a leggere, ad andare in bicicletta, a salutarci. Ma non esiste insegnamento più importante di quello che non si apprende mai ma si studia sempre, il progetto collettivo più nobile di tutti, preso in prestito da una generazione e tramandato alla successiva: come trovare sé stessi.
Alcune sere, fa, dopo aver sentito raccontare la morte di Mosé per l’ennesima volta - e come esalò l’ultimo respiro avvistando una terra promessa nella quale non avrebbe mai messo piede - mio figlio ha appoggiato la testa dai capelli ancora umidi sulla mia spalla.
«C’è qualcosa che non va?» gli ho chiesto, chiudendo il libro.
Lui ha scosso la testa.
«Sei sicuro?».
Senza alzare il viso, ha domandato se Mosé è esistito davvero.
«Non lo so» gli ho risposto, « ma siamo imparentati con lui».
(Traduzione di Anna Bissanti)
Jonathan Safran Foer ha appena pubblicato la "New American Haggadah"
Lo scrittore in una poesia contesta i piani d’attacco contro l’Iran e «l’ipocrisia dell’Occidente»
Bufera Durissime reazioni: «Antisemitismo», «Un aggressivo pamphlet da agit-prop»
«Lo Stato di Israele minaccia la pace»
Tutti contro Grass
Ancora una volta il premio Nobel scatena il putiferio. Questa volta puntando il dito contro il potenziale «first strike» nucleare contro Teheran. Ed è lui stesso ad anticipare per lui l’accusa di antisemitismo.
di Paolo Soldini (l’Unità, 05.04.2012)
Si può criticare lo stato di Israele senza cadere nell’antisemitismo? Vecchia questione, particolarmente controversa in Germania, ma certo non solo «tedesca». Qualsiasi persona equilibrata e ragionevole risponde che sì, certo che è possibile. Tant’è che non sono pochi gli ebrei che, anche in Israele, verso la politica di Israele hanno un atteggiamento critico. Al di là del grande bailamme di polemiche e di reazioni sdegnate suscitato nel suo Paese, è questa la Gretchenfrage (la questione fondamentale dalla risposta alla quale tutto dipende, come quella che Faust pone a Margarethe: credi in Dio?) che Günter Grass, con un pizzico di vis provocatoria di troppo, ha buttato sul tappeto scrivendo per la Süddeutsche Zeitung la poesia Was gesagt werden muss: «Che cosa deve essere detto». Di fronte al governo attuale di Israele che apertamente prospetta l’ipotesi di utilizzare in un attacco preventivo contro l’Iran di Ahmadinejad le armi nucleari che possiede e che l’ipocrisia dell’occidente passa sotto silenzio, anche gli amici di Israele in Germania debbono parlare e, vincendo tutte le remore, anche quelle che derivano dalle speciali responsabilità che la Storia ha gettato sulle spalle di ogni tedesco, condannare l’atteggiamento di chi minaccia. E, en passant, anche l’ipocrisia dei governi di Berlino che hanno fornito a Israele i sommergibili da cui potrebbe partire il micidiale first strike.
Le reazioni sono state violente. Una, in particolare, ha suscitato polemiche all’interno della polemica: quella dell’ambasciatore israeliano a Berlino Emmanuel Nahshon, il quale ha accomunato lo scrittore ottantacinquenne ai seminatori di odio antisemita che la storia ha disseminato per l’Europa dal Medio Evo in poi. «È una tradizione europea - ha detto quella di accusare gli ebrei, prima della festa di Pessach, di omicidi rituali. Un tempo erano i bambini cristiani che, così si diceva, venivano uccisi per mischiare il loro sangue nel pane azzimo. Oggi è il popolo iraniano, che, così si dice, lo stato ebreo vorrebbe annientare».
Il curioso rovesciamento di una teoria del complotto che ha prodotto, per secoli, pogrom e tragiche persecuzioni non rende onore né a quanto Grass ha effettivamente scritto né alla manifesta realtà dei fatti: è l’attuale governo israeliano che evoca oggi il colpo preventivo, pur se lo fa in risposta alle sinistre, inaccettabili (e non accettate da tutto il resto del mondo) minacce di Ahmadinejad e con la consapevolezza, richiamata da Nahshon, di essere l’unico stato al mondo di cui è messo in discussione il diritto di esistere.
Anche il presidente della comunità ebraica Dieter Graumann non è stato leggero contro l’«aggressivo pamphlet da agit-prop» con cui Grass avrebbe «demonizzato» Israele: «Un grande scrittore non è necessariamente un grande analista della questione medio-orientale». Ancor più pesante il giudizio di Amos Luzzatto, ex presidente delle comunità italiane: «Un proclama, quello di Grass, da condannare e che può essere archiviato solo da una autosmentita».
Scontate, e spesso ipocrite, le reazioni dei politici più conservatori che non hanno mai amato Grass fin da quando, alla fine degli anni ’50 pubblicò il suo «eversivo e diseducativo» Il tamburo di latta e poi si schierò con Willy Brandt. I vertici della Cdu e il governo, comunque, sono stati molto equilibrati. Il portavoce della cancelleria ha ricordato che in Germania c’è libertà di espressione artistica mentre il ministero degli Esteri ha tenuto a precisare che da Israele non è venuta finora alcuna reazione ufficiale che richiedesse una presa di posizione. D’altronde era stato proprio il più illustre predecessore di Graumann, Ignatz Bubis, a battersi, negli anni ’90, per stabilire la giusta distinzione tra i tedeschi ebrei e lo Stato di Israele.
Una tempesta in un bicchier d’acqua, allora? Non proprio. Grass ha toccato non solo un punto ancora delicatissimo della consapevolezza di sé e del proprio passato dell’opinione tedesca, ma anche - e questo spiega forse l’asprezza delle reazioni - un nodo che riguarda proprio lui, le sue convinzioni e la sua biografia. Non solo il passaggio, giovanissimo, nelle SS, reso pubblico con un ritardo di decenni, ma anche una certa, mai celata, prevenzione contro le «durezze bibliche» che, a suo parere, caratterizzerebbero la dottrina della religione di Abramo. Ma è antisemitismo?
Israele sbarrata per Grass
Israele sbarra le porte a Guenter Grass e lo dichiara «persona non grata». Dopo le polemiche e le accuse di filo-nazismo mascherato, scatta la punizione contro lo scrittore premio Nobel tedesco per la pubblicazione di un contestato poema fresco di stampa, dal titolo “Le cose che vanno dette”, sferzante sulla politica israeliana verso l’Iran. *
La frontiera sbarrata dal governo Netnayahu lascia perplessi molti: può uno Stato democratico bandire un’opinione, per quanto insostenibile? Reazione «profondamente esagerata», la definisce un ministro tedesco, Daniel Bahr. «Basso livello di tolleranza», dice lo storico israeliano della Shoah, Tom Segev: «Delegittimare chi critica è una tendenza molto pericolosa, autocratica e demagogica. Netanyahu e Lieberman sono bravissimi, in questo. Ogni voce contraria è subito indicata come un segnale d’antisemitismo. Ma se davvero ci mettiamo a distribuire i permessi d’ingresso secondo le opinioni politiche delle persone, finiamo in compagnia di Siria e dello stesso Iran».
Dalla sinistra israeliana, si schierano contro il boicottaggio altri intellettuali: gli scrittori Ronit Matalon e Yoram Kaniuk («il prossimo passo è bruciare i libri»), il pittore Yair Garbuz («e allora che dovremmo fare coi libri di quel rabbino che propone d’uccidere i non ebrei?»), il Nobel per la chimica Aaron Ciechanover («non si risponde alla follia con una follia»)... Il dibattito, c’è da giurare, continuerà. E sbucciando le cipolle, per dirla con un titolo di Gunni, alla fine s’arriverà al cuore della questione. Riassunta dalla cancelliera Angela Merkel: «C’è la libertà d’espressione artistica. E per fortuna c’è la libertà d’un governo, il mio, di non doversi per forza esprimere su ogni manifestazione dell’arte».
* l’Unità, 10.04.2012
Quello che deve essere detto
di Günter Grass (la Repubblica, 04.04.2012)
Perché taccio, passo sotto silenzio troppo a lungo
quanto è palese e si è praticato
in giochi di guerra alla fine dei quali, da sopravvissuti,
noi siamo tutt’al più le note a margine.
E’ l’affermato diritto al decisivo attacco preventivo
che potrebbe cancellare il popolo iraniano
soggiogato da un fanfarone e spinto al giubilo organizzato,
perché nella sfera di sua competenza si presume
la costruzione di un’atomica.
E allora perché mi proibisco
di chiamare per nome l’altro paese,
in cui da anni - anche se coperto da segreto -
si dispone di un crescente potenziale nucleare,
però fuori controllo, perché inaccessibile
a qualsiasi ispezione?
Il silenzio di tutti su questo stato di cose,
a cui si è assoggettato il mio silenzio,
lo sento come opprimente menzogna
e inibizione che prospetta punizioni
appena non se ne tenga conto;
il verdetto «antisemitismo» è d’uso corrente.
Ora però, poiché dal mio paese,
di volta in volta toccato da crimini esclusivi
che non hanno paragone e costretto a giustificarsi,
di nuovo e per puri scopi commerciali, anche se
con lingua svelta la si dichiara «riparazione»,
dovrebbe essere consegnato a Israele
un altro sommergibile, la cui specialità
consiste nel poter dirigere annientanti testate là dove
l’esistenza di un’unica bomba atomica non è provata
ma vuol essere di forza probatoria come spauracchio,
dico quello che deve essere detto.
Perché ho taciuto finora?
Perché pensavo che la mia origine,
gravata da una macchia incancellabile,
impedisse di aspettarsi questo dato di fatto
come verità dichiarata dallo Stato d’Israele
al quale sono e voglio restare legato
Perché dico solo adesso,
da vecchio e con l’ultimo inchiostro:
La potenza nucleare di Israele minaccia
la così fragile pace mondiale?
Perché deve essere detto
quello che già domani potrebbe essere troppo tardi;
anche perché noi - come tedeschi con sufficienti colpe a carico -
potremmo diventare fornitori di un crimine
prevedibile, e nessuna delle solite scuse
cancellerebbe la nostra complicità.
E lo ammetto: non taccio più
perché dell’ipocrisia dell’Occidente
ne ho fin sopra i capelli; perché è auspicabile
che molti vogliano affrancarsi dal silenzio,
esortino alla rinuncia il promotore
del pericolo riconoscibile e
altrettanto insistano perché
un controllo libero e permanente
del potenziale atomico israeliano
e delle installazioni nucleari iraniane
sia consentito dai governi di entrambi i paesi
tramite un’istanza internazionale.
Solo così per tutti, israeliani e palestinesi,
e più ancora, per tutti gli uomini che vivono
ostilmente fianco a fianco in quella
regione occupata dalla follia ci sarà una via d’uscita,
e in fin dei conti anche per noi.
(Traduzione di Claudio Groff)
Il Nobel tedesco sotto accusa
Günter Grass, Israele e il giovane Ratzinger
di Marco Dolcetta (il Fatto, 11.04.2012)
In queste ore si è scatenata una campagna internazionale contro lo scrittore Nobel Günter Grass che ha di recente, in una poesia, criticato Israele e difeso l’Iran per le sue scelte nucleari. Israele lo ha definito persona non grata e il “suo” partito l’Spd lo ha severamente criticato. In tale circostanza vengono riproposte le accuse alla sua partecipazione giovanile alle SS.
Vogliamo ricordare alcune sue righe tratte dal romanzo autobiografico “Sbucciando le cipolle” pubblicato nel-l’anno in cui lui stesso rivelò di aver militato durante la guerra nelle SS. Bisogna ricordare a proposito della sua partecipazione alle SS che a partire dal 1° dicembre 1936, sotto lo Jugenddienstpflicht tutti gli altri gruppi giovanili vennero banditi e i loro membri vennero assorbiti nella Gioventù hitleriana. L’appartenenza all’HJ venne resa obbligatoria per i giovani di età superiore a 14 anni nel 1939. La coscrizione diventerà poi obbligatoria per tutti quelli di età superiore ai 10 anni nel 1941.
Con il procedere della guerra, il gruppo assunse funzioni militari, gestendo le difese antiaeree e fornendo all’esercito molti soldati, specialmente per le Waffen-SS. Vennero arruolati nell’esercito membri della Gioventù hitleriana sempre più giovani che, durante la battaglia di Berlino nel 1945, costituivano grossa parte delle difese tedesche. Tra i giovanissimi iscritti per legge alla Hitlerjugend figurarono l’artista Joseph Beuys, l’attivista antinazista Sophie Scholl e Joseph Alois Ratzinger, allora 14enne, divenuto in seguito papa col nome di Benedetto XVI.
COSÌ RACCONTA GRASS e scrive:
“Una volta - ancora nel campo di Bad Aibling - 3 sigarette Camel mi fruttarono un cartoccetto di cumino, che masticai in ricordo del maiale con cavoli al cumino: una ricetta del maestro perso di vista. E un po’ di cumino barattato lo passai al mio compagno, insieme al quale stavo accovacciato al riparo di un telone sotto la pioggia insistente e lanciavo 3 dadi forse giocandoci il nostro futuro. Eccolo li, si chiama Joseph, mi sommerge di parole - a voce bassa, anzi sommessa - e non riesce a uscirmi di mente.
Io volevo diventare questo, lui quello. Io dicevo che esistono più verità. Lui diceva che ne esiste una sola. Io dicevo di non credere più a niente. Lui insellava un dogma dopo l’altro. Io esclamavo: ma Joseph, non avrai in mente di fare il grande inquisitore o magari qualcosa di più? Lui faceva sempre qualche punto in più e giocando citava Sant’Agostino, comeseavesse davanti le sue confessioni nella versione latina.
Così passavamo il tempo parlando, e giocando a dadi, finché un giorno lui venne rilasciato, visto che nella regione bavarese era di casa, mentre io, privo di indirizzo e quindi apolide, finii prima alla disinfestazione e poi in un campo di lavoro”. Grass cosi racconta del suo incontro con Joseph Ratzinger, che diventerà Papa. “Sostanzialmente, mia sorella non crede ai miei racconti. Inclinò la testa con aria diffidente quando dissi che quel compagno si chiamava Joseph, aveva parlato con accento piuttosto bavarese ed era un cattolico di ferro. Nessuno come il mio compagno Joseph era riuscito a parlare a favore dell’unica verità rivelata con tanta fanatica profondità e tanta amabile delicatezza al tempo stesso.
Se non ricordo male, veniva dalla zona di Altotting. La diffidenza di mia sorella aumentò: ‘Puzza di esagerazione, proprio come una delle tue storie! ’... Per rendermi più credibile ammisi una certa insicurezza: con lui avevo masticato cumino da un cartoccio, e la sua fede era così saldamente fortificata come un tempo il vallo atlantico; potrebbe essersi trattato davvero di tal Ratzinger che oggi in vesti papali vuol essere infallibile, anche se in quella maniera timida a me già nota che, in quanto fatta di affermazioni pacate, era particolarmente efficace. Qui mia sorella rise come sanno ridere solo le levatrici a riposo: ‘Ecco un’altra delle tue storie di fantasia con cui da bambino incantavi nostra madre’. E va bene, - ammisi, - che il tipo magrolino con il quale ai primi di giugno del ‘45 stavo seduto sotto un telone nel campo di Bad Aibling si chiamasse davvero Ratzinger non posso giurarlo, ma che pensasse di diventare prete, di ragazze non volesse saperne e subito dopo la liberazione della prigionia intendesse studiare il dannato ciarpame dogmatico, è sicuro. Così come che questo Ratzinger, che prima era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e adesso dice la sua da pontefice, fosse realmente uno dei 10mila nel campo”.
Scrive Grass: “Per provocare, avevo apertamente affermato che, come dimostrava la storia della chiesa, persino un miscredente poteva senz’altro diventare papa”.
Sarebbe bello che i due vecchi amici, già SS, già denazificati, e poi chi Papa chi premio Nobel, si incontrassero a prescindere da rimozioni o smemoratezze.
Note di premessa sul tema:
Esiste il sesso delle parole
di Luisa Muraro (Metro, 28 marzo 2012) *
Non m’interessa che si faccia una politica in favore delle donne. Quello che invece m’interessa, è che le donne che entrano in politica, sappiano farsi valere con tutta la loro esperienza e competenza. Perché lo dico? Perché troppe di loro, man mano che fanno carriera, rinunciano invece al nome di donna e si presentano come dei neutri. Mi riferisco a quelle che, parlando ai giornalisti, dicono: chiamatemi ministro, sindaco, segretario, professore... La trovo una cosa scandalosa e incomprensibile, tanto più che negli altri paesi europei non lo fanno. Angela Merkel era deputata ed è diventata cancelliera della Germania. Ma guardiamo anche da noi: la donna che lavora in fabbrica si chiama operaia; quella che lavora in campagna, contadina; quella che vende, commessa. È giusto, lo vuole la lingua che parliamo, lo insegnano i vocabolari. Nei vecchi vocabolari non troviamo il femminile di sindaco, di ministro, di deputato, ma solo perché erano vocabolari di una civiltà patriarcale che escludeva le donne dalla vita pubblica. Questo non succede più. Da qui viene per me lo scandalo: se quelle che entrano nei posti di comando vogliono chiamarsi al maschile, che messaggio danno? Che il femminile è buono per sgobbare ma non per dirigere? Buono per la scuola elementare ma non per l’università?
Che una donna ammiri un uomo, ammesso che abbia qualche merito, non ci sono obiezioni, l’ammirazione è un sentimento libero. Ma che lo prenda come una misura per sé, in generale, questa o è soggezione o trasformismo. E ha degli effetti deteriori, perché in un posto di responsabilità, grande o piccola, bisogna portare non solo le conoscenze ma anche le esperienze, non solo un titolo di studio ma anche il proprio essere.
Recitare o essere? Pensieri tra Quaresima e Pasqua
di don Angelo Casati
Viandanti (www.viandanti.org, 30 marzo 2012
Mi succede - qualcuno la ritiene una mia ossessione - di avere in sospetto ogni parola che, poco o tanto, sembra recitata, ogni atteggiamento che, poco o tanto, sembra studiato. Si recita una parte. A volte mi sorprendo a guardarmi. E mi chiedo: "Stai recitando? Stai celebrando o recitando? Stai pregando o recitando? Stai predicando o recitando? Stai parlando o recitando?". Nella recita non ci sei. C’è una parte che indossi. Che non è la tua.
Gesù incantava
Gesù non recitava. Forse per questo o anche per questo, incantava. Era autentico, aderente la vita, non a una parte da recitare. E la gente lo sentiva vero. A differenza di altri. A differenza, per esempio, di una certa frangia - non tutti! - di farisei che "recitavano": "Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini. Allargano i loro filatteri, allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare rabbì dalla gente"(Mt.23,5-7).
Qualcuno, anche nel mondo ecclesiastico, sconcertato dalla calda umanità di Gesù, tende a presentarla come se il Signore stesse recitando, quasi non gli fosse consentito, in quanto Dio, di crescere, di essere stanco, di non sapere, di amare i banchetti, di desiderare la tenerezza di un bacio o il profumo dell’unguento, di provare paura e solitudine. Quasi recitasse, in tutto ciò una parte non sua. Gesù non ha mai recitato. Era.
Dominante è il ruolo
C’è il pericolo - lo avverto sempre più acutamente e il racconto delle tentazioni di Gesù, all’inizio della Quaresima, lo segnalava - che anche la religione diventi spettacolo, luogo in cui si recita. Strano verbo, questo "recitare", che abbiamo nel nostro linguaggio religioso legato al pregare! Si "recita" una Ave Maria o un Padre Nostro, si "recita" il rosario. È in agguato la recita. La avverti. A volte è nell’aria. A tradirla è un tono affettato, artefatto, poco naturale, studiato.
Aria strana. L’aria di certi raduni ecclesiastici. Volti impassibili, non tradiscono la benché minima emozione. Ci si parla di errori, di cedimenti o di smarrimenti, sono sempre quelli degli altri. L’inquietudine non esiste. Esiste la sicurezza. Si recita la parte di Dio. Mai uno che dica: "Ho peccato". Lo si dice nella Messa, ma per modo di dire. Nessuno che abbia mai fatto un errore. E che lo riconosca. Domina il ruolo. L’impassibilità del ruolo. Impenetrabili, drappeggiati, diplomatici. E senti la distanza. E come se mancasse gente vera. Non sono i volti che cerchi, quelli che ti incantano fuori le mura, volti che non mascherano le stanchezze e le emozioni, volti che confessano l’inquietudine e la lontananza.
Scrive Carlo Maria Martini: "Non di rado mi spavento sentendo o leggendo tante frasi che hanno come soggetto "Dio" e danno l’impressione che noi sappiamo perfettamente ciò che Dio è e ciò che egli opera nella storia, come e perché agisce o in un modo e non in un altro. La Scrittura è assai più reticente e piena di mistero di tanti nostri discorsi pastorali".
Come figli di Dio
Comunità alternativa si diventa vivendo il Vangelo, non recitando la parte del "perfetto". Alternativi diventiamo non mascherandoci dietro il ruolo o dietro il titolo, ma dando trasparenza ai rapporti. Incontrandoci come persone. Come figli di Dio. Questa la più grande dignità che ci è toccata. Non esiste, per un vero credente, altra tanto grande.
Essere Papa, essere Vescovo, essere prete, non vale l’essere figli di Dio. E, se figli, liberi, e quindi non soffocati, non mascherati, non misurati da titoli e da ruoli.Quando Papa Giovanni, poco dopo la sua elezione, si accorse che l’ Osservatore Romano introduceva le sue parole con questa formula di rito: "Come abbiamo potuto raccoglierle dalle auguste labbra di Sua Santità", chiamò il capo redattore e gli disse: "Lasciate perdere queste sciocchezze e scrivete semplicemente: Il Papa ha detto".
La grande sfida
Quale perdita per la società, se la Chiesa, che nel mondo dovrebbe apparire come lo spazio dove risplende la libertà e l’umanità dei rapporti, diventasse luogo di relazioni puramente formali, deboli e fiacche, non sincere e intense.
Rischierebbe l’insignificanza. Verrebbe meno alla grande sfida, all’opportunità che oggi le si offre di tessere in una società ampiamente burocratizzata rapporti autentici e profondi.
E non sarà che alla Chiesa di oggi, e quindi a ciascuno di noi, Dio chieda meno protagonismo, meno organizzazione, meno recite e più vicinanza, più sincerità?
Alla mente ritorna una pagina folgorante dello scrittore Ennio Flaiano, là dove abbozzava un ipotetico ritorno di Gesù sulla terra, un Gesù, infastidito da giornalisti e fotoreporter, come sempre invece vicino ai drammi e alle fatiche dell’esistenza quotidiana: "Un uomo" - scrive - "condusse a Gesù la figlia ammalata e gli disse: "Io non voglio che tu la guarisca, ma che tu la ami". Gesù baciò quella ragazza e disse: "In verità questo uomo ha chiesto ciò che io posso dare". Così detto, sparì in una gloria di luce, lasciando le folle a commentare quei miracoli e i giornalisti a descriverli".
Si può calcolare lo spessore della realtà?
A proposito della «querelle» tra pensiero debole e nuovo realismo in cui è stato coinvolto Umberto Eco: per risolvere la questione una via eccellente sarebbe rilanciare il vecchio Kant con il «volano» di McLuhan
di Renato Barilli (l’Unità, 29.03.2012)
È in atto da qualche tempo nel settore filosofico del nostro Paese una tenzone che vede l’un contro l’altro armato due «opposti estremismi», destinati, come succede in questi casi, ad elidersi reciprocamente e a far auspicare una soluzione intermedia che apparirebbe come la più saggia, e si legherebbe oltretutto a prestigiosi contesti storici che entrambi gli schieramenti sembrano aver dimenticato.
La querelle nasce in seno alla scuola del «pensiero debole» di Gianni Vattimo, da cui un suo allievo di ieri, Maurizio Ferraris, a un tratto si è chiamato fuori aderendo a un preteso «nuovo realismo» cui sarebbe approdato l’Umberto Eco nazionale, il quale accetta quel neofita, ma con qualche imbarazzo e replica avanzando molti «distinguo» e concludendo, come avviene nell’ultimo Alfabeta 2, con la formula di un realismo negativo.
VECCHIE SOLUZIONI IDEALISTE
Il capo d’accusa mosso dall’ex-allievo Ferraris a Vattimo è che nelle sue riflessioni resterebbero solo in campo delle «interpretazioni» da cui la realtà risulta intaccata, logorata, ridotta alla condizione di un gruviera pieno di buchi. In definitiva Vattimo non nega una versione del genere, anzi, in sostanza la conferma in un saggio recente, Della realtà (Garzanti), confermando anche la sua adesione a una linea di pensiero negativo, da Nietzsche a Heidegger. Ma questa è una strada che rassomiglia molto a vecchie e scontate soluzioni idealiste, il mondo non esiste in sé, siamo noi a farlo esistere con i nostri atti di coscienza. Contro questa soluzione già tante volte apparsa sul filo dei secoli, e altrettante volte contestata, ci sta bene l’ennesima protesta inalberata da Ferraris, che ora la affida a un Manifesto del nuovo realismo (Laterza), però a sua volta ha il torto di cadere nel cosiddetto realismo ingenuo, di chi dimentica che comunque siamo noi a vedere, a toccare, a fare congetture su questa ipotetica realtà. In definitiva, l’uno e l’altro sembrano dimenticare il grande padre Kant, usualmente posto all’inizio della nostra età contemporanea (attenzione, non la si chiami moderna, visto che questa etichetta deve restare assegnata al precedente pensiero razionalista-empirista).
Kant aveva posto in campo la perfetta e non superabile formula del giudizio sintetico a priori, un match alla pari, dove noi essere umani mettiamo in gioco la nostra sensibilità e le nostre categorie mentali con cui andiamo a plasmare l’altrimenti amorfa materia d’esperienza, la quale però deve esserci, fornire un ineliminabile supporto ai nostri interventi. Naturalmente molta acqua è passata sotto i ponti, e del resto la geniale soluzione kantiana soffriva di tanti limiti storici. Infatti egli conferiva al soggetto umano il vecchio apparato di forme e categorie risalenti alla geometria euclidea, al pensiero classico, e non teneva in alcun conto l’asse del mutare dei tempi e delle situazioni materiali e sociali.
Da qui l’ampia produzione dei «filosofi della crisi» di fine Ottocento, i pragmatisti, con Peirce e Dewey in testa, Bergson e Husserl e tanti altri, a loro volta in piena sintonia con le rivoluzioni di Freud e di Einstein. Di tutto questo, in reazione agli anni cupi della dittatura fascista, era stato buon erede presso di noi Antonio Banfi, pronto in definitiva a formulare una sorta di «pensiero debole» dell’epoca, cioè a mettere in moto le categorie, troppo rigide in Kant, proclamando che ogni tempo deve allontanare le ipotesi ormai invecchiate e rifarsi un guardaroba ben commisurato sui fatti da valutare. Da lui è venuto il fronte che nel dopoguerra ha provveduto a reintegrare l’Italia in un quadro di pensiero internazionale, partecipando alla nostra ricostruzione e aprendo anche il dialogo col marxismo. Mi riferisco a Enzo Paci, Giulio Preti, Luciano Anceschi...
Bei tempi, quelli, in cui lo stesso Eco, allora funzionario della Bompiani e in procinto di varare una enciclopedia della filosofia, poi non realizzata, mi scriveva che ci saremmo ispirati a Husserl e non a Heidegger, allora sospetto di un forse ingiusto fiancheggiamento del nazismo. Poi, Vattimo ha promosso un suo eccessivo sdoganamento, ereditando anche gli eccessi di nichilismo e terrorismo concettuale che ora gli vengono imputati dall’allievo ribelle.
Eco allora si collocava assai bene in quel quadro, ponendosi anche alla testa della neoavanguardia sul fronte letterario, e producendo quello che forse resta il suo miglior apporto saggistico, l’Opera aperta.
Dopo, ha provveduto anche lui ad assottigliare lo spessore della realtà attraverso l’impresa semiotica, in cui i segni, anzi, le loro due facce, significanti e significati, giocano di specchi e rimandi tra loro, mancando di andare ad ancorarsi, al termine della trafila, sulla realtà.
Nel suo articolo sopra menzionato Eco dimentica del tutto il grande sfondo del miglior pensiero del primo Novecento, come se fossimo nati solo ieri, o ieri altro, e nel tentativo di salvare capra e cavoli si rifugia in una formula compromissoria, proponendo un «realismo negativo», che in definitiva è un modo di avvicinarsi o rendere omaggio al compagno dei vecchi tempi, Vattimo, in fondo entrambi sono venuti fuori dal pensiero di uno spiritualista come Luigi Pareyson.
E dire che oggi ci sarebbe una via eccellente per rilanciare il vecchio Kant, si pensi alla formula centrale del McLuhan-pensiero, ricordata tante volte l’anno scorso per celebrarne il centenario dalla nascita, «il medium è il messaggio», al centro di tutto c’è il nesso, la connessione, che stringe in un nodo stretto, inscindibile, il soggetto e l’oggetto, senza che l’uno possa pretendere di cancellare l’altro.
Il «pensiero femminile» è socialmente discriminato: un condizionamento negativo
La “rabbia” di una filosofa americana del Mit: in questo campo siamo discriminate, molte di noi costrette a lasciare
di Franca D’Agostini (La Stampa, 25.03.2012)
Sally Haslanger è una delle più brillanti filosofe americane: in un articolo su Hypathia confessa che da quanto è arrivata al Mit, nel ’98, si è più volte domandata se non fosse il caso di lasciare la filosofia “C’ è in me una rabbia profonda. Rabbia per come io sono stata trattata in filosofia. Rabbia per le condizioni ingiuste in cui molte altre donne e altre minoranze si sono trovate, e hanno spinto molti a lasciare. Da quando sono arrivata al Mit, nel 1998, sono stata in costante dialogo con me stessa sull’eventualità di lasciare la filosofia. E io sono stata molto fortunata. Sono una che ha avuto successo, in base agli standard professionali dominanti». S’inizia così «Changing the Ideology and Culture of Philosophy», un articolo di Sally Haslanger, una delle più brillanti filosofe americane, apparso su Hypathia .
C’è un problema, che riguarda le donne e la filosofia: inutile negarlo. «Nella mia esperienza è veramente difficile trovare un luogo in filosofia che non sia ostile verso le donne e altre minoranze», scrive Haslanger. E se capita così al Mit, potete immaginare quel che succede in Italia. È facile vedere che, mentre in tutte le facoltà le donne iniziano a essere presenti (anche se rimane il cosiddetto «tetto di cristallo», vale a dire: ai gradi accademici più alti ci sono quasi esclusivamente uomini), in filosofia la presenza femminile scarseggia.
Non sarà forse che le donne sono refrattarie alla filosofia, non la capiscono, non la apprezzano? Stephen Stich e Wesley Buchwalter, in «Gender and Philosophical Intuition» (in Experimental Philosophy, vol. 2), hanno riproposto il problema, esaminandolo nella prospettiva della filosofia sperimentale: una tendenza filosofica emergente, che mette in collegamento le tesi e i concetti filosofici con ricerche di tipo empirico (statistico, neurologico, sociologico, ecc). La prima conclusione di Stich e Buchwalter è che effettivamente sembra esserci una «resistenza» del «pensiero femminile» di fronte ad almeno alcuni importanti problemi filosofici. Stich e Buchwalter si chiedono perché, e avanzano alcune ipotesi, ma non giungono a una conclusione definitiva.
Le femministe italiane di Diotima avrebbero pronta la risposta: la filosofia praticata nel modo previsto da Stich e compagni è espressione estrema del «logocentrismo» maschile, dunque è chiaro che le donne non la praticano: sono interessate a qualcosa di meglio, coltivano un «altro pensiero». Ma qui si presenta un classico problema: in che cosa consisterebbe «l’altro pensiero» di cui le donne sarebbero portatrici? Se si tratta per esempio di «pensiero vivente», attento alle emozioni e alla vita, come a volte è stato detto, resta sempre da chiedersi: perché mai questo pensiero sarebbe proprio delle donne? Kierkegaard, che praticava e difendeva una filosofia di questo tipo, era forse una donna?
Forse si può adottare un’altra ipotesi. Come spiega Miranda Fricker in Epistemic Injustice (Oxford University Press, 2007) le donne subiscono spesso ciò che Ficker chiama ingiustizia testimoniale, vale a dire: ciò che pensano e dicono viene sistematicamente sottovalutato e frainteso. Un’osservazione fatta da una donna che gli uomini non capiscono, per ignoranza o per altri limiti, viene all’istante rubricata come errore, o come vaga intuizione. Fricker cita Il talento di Mr. Ripley: «Un conto sono i fatti, Marge, e un conto le intuizioni femminili», dice il signor Greenleaf. Ma Marge aveva ottime ragioni nel sostenere che Ripley aveva ucciso il figlio di Greeenleaf.
In questa prospettiva il quadro muta. Consideriamo la rilevazione dell’attività cerebrale di un ragazzo e una ragazza che svolgono una prestazione intellettuale «di livello superiore», ossia risolvono per esempio un’equazione difficile. A quanto pare, mentre il cervello del ragazzo si illumina in una sezione molto circoscritta dell’emisfero frontale, il cervello della ragazza si illumina in modo diffuso, diverse zone dell’encefalo sono coinvolte. Ecco dunque la differenza emergere dai fatti cerebrali: le donne - così si dice - avrebbero un’intelligenza aperta e «diffusa». Naturalmente, questa diffusività è un limite: è appunto la ragione per cui le prestazioni intellettuali femminili sarebbero meno rapide ed efficaci. L’ipotesi differenzialista a questo punto ribatte: attenzione, l’intelligenza diffusa è un pregio, ed è il mondo che privilegia rapidità ed efficacia a essere sbagliato.
Ma l’altra ipotesi - che tanto Haslanger quanto Fricker indirettamente sostengono - sembra più ragionevole: se c’è un «pensiero femminile», la sua prima caratteristica consiste nell’essere un pensiero socialmente discriminato, che subisce sistematicamente ingiustizie testimoniali. Il cervello discriminato è coinvolto sul piano emotivo, a causa del grande quantitativo di ingiustizia che ha dovuto subire. E a questo punto il mistero è risolto: provate voi a risolvere un difficile problema filosofico in un ambiente in cui tutto vi dice che non sapete risolverlo. Provate, in più, avendo dentro di voi la rabbia descritta da Haslanger: quella che vi viene dal conoscere questa ingiustizia, che riguarda voi ma anche altre persone, e altre minoranze discriminate (anche tra i neri non ci sono molti filosofi). Poi vedete un po’ se non vi si illumina tutto il cervello.
FILOSOFARE AL FEMMINILE
di Umberto Eco *
La vecchia affermazione filosofica per cui l’uomo è capace di pensare l’infinito mentre la donna dà senso al finito, può essere letta in tanti modi: per esempio che siccome l’uomo non sa fare i bambini, si consola coi paradossi di Zenone. Ma sulla base di affermazioni del genere si è diffusa l’idea che la storia (almeno sino al Ventesimo secolo) ci abbia fatto conoscere grandi poetesse e narratrici grandissime, e scienziate in varie discipline, ma non donne filosofe e donne matematiche.
Su distorsioni del genere si è fondata a lungo la persuasione che le donne non fossero portate alla pittura, tranne le solite Rosalba Carriera o Artemisia Gentileschi. È naturale che, sino a che la pittura era affresco di chiese, montare su un’impalcatura con la gonna non era cosa decente, né era mestiere da donna dirigere una bottega con 30 apprendisti, ma appena si è potuta fare pittura da cavalletto le donne pittrici sono spuntate fuori. Un poco come dire che gli ebrei sono stati grandi in tante arti ma non nella pittura, sino a che non si è fatto vivo Chagall.
È vero che la loro cultura era eminentemente auditiva e non visiva, e che la divinità non doveva essere rappresentata per immagini, ma c’è una produzione visiva di indubbio interesse in molti manoscritti ebraici. Il problema è che era difficile, nei secoli in cui le arti figurative erano nelle mani della Chiesa, che un ebreo fosse incoraggiato a dipingere madonne e crocifissioni, e sarebbe come stupirsi che nessun ebreo sia diventato papa.
Le cronache dell’Università di Bologna citano professoresse come Bettisia Gozzadini e Novella d’Andrea, così bella che doveva tenere lezione dietro un velo per non turbare gli studenti, ma non insegnavano filosofia. Nei manuali di filosofia non incontriamo donne che insegnassero dialettica o teologia. Eloisa, brillantissima e infelice studente di Abelardo, aveva dovuto accontentarsi di divenire badessa.
Ma il problema delle badesse non è da prendere sottogamba, e vi ha dedicato molte pagine una donna-filosofo dei nostri tempi come Maria Teresa Fumagalli. Una badessa era un’autorità spirituale, organizzativa e politica e svolgeva funzioni intellettuali importanti nella società medievale. Un buon manuale di filosofia deve annoverare tra i protagonisti della storia del pensiero grandi mistiche come Caterina da Siena, per non dire di Ildegarda di Bingen che, quanto a visioni metafisiche e a prospettive sull’infinito, ci dà del filo da torcere ancora oggi.
L’obiezione che la mistica non sia filosofia non tiene, perché le storie della filosofia riservano spazio a grandi mistici come Suso, Tauler o Eckhart. E dire che in gran parte la mistica femminile dava maggior risalto al corpo che non alle idee astratte sarebbe come dire che dai manuali di filosofia deve scomparire, che so, Merleau-Ponty.
Le femministe hanno da tempo eletto a loro eroina Ipazia che, ad Alessandria, nel quinto secolo, era maestra di filosofia platonica e di alta matematica. Ipazia è diventata un simbolo, ma purtroppo delle sue opere è rimasta solo la leggenda, perché sono andate perdute, e perduta è andata lei, fatta letteralmente a pezzi da una turba di cristiani inferociti, secondo alcuni storici sobillati dal quel Cirillo di Alessandria che, anche se non per questo, è stato poi fatto santo.
Ma c’era solo Ipazia?
Meno di un mese fa è stato pubblicato in Francia (da Arléa) un librettino, ’Histoire des femmes philosophes’. Se ci si chiede chi sia l’autore, Gilles Ménage, si scopre che viveva nel diciassettesimo secolo, era un latinista precettore di Madame de Sévigné e di Madame de Lafayette e il suo libro, apparso nel 1690, s’intitolava ’Mulierum philosopharum historia’.
Altro che la sola Ipazia: anche se dedicato principalmente all’età classica, il libro di Ménage ci presenta una serie di figure appassionanti, Diotima la socratica, Arete la cirenaica, Nicarete la megarica, Iparchia la cinica, Teodora la peripatetica (nel senso filosofico del termine), Leonzia l’epicurea, Temistoclea la pitagorica, e Ménage, sfogliando i testi antichi e le opere dei padri della chiesa, ne aveva trovate citate ben sessantacinque, anche se aveva inteso l’idea di filosofia in senso abbastanza lato. Se si calcola che nella società greca la donna era confinata tra le mura domestiche, che i filosofi piuttosto che con fanciulle preferivano intrattenersi coi giovinetti, e che per godere di pubblica notorietà la donna doveva essere una cortigiana, si capisce lo sforzo che debbono avere fatto queste pensatrici per potersi affermare. D’altra parte, come cortigiana, per quanto di qualità, viene ancora ricordata Aspasia, dimenticando che era versata in retorica e filosofia, e che (teste Plutarco) Socrate la frequentava con interesse.
Sono andato a sfogliare almeno tre enciclopedie filosofiche odierne e di questi nomi (tranne Ipazia) non ho trovato traccia. Non è che non siano esistite donne che filosofassero. È che i filosofi hanno preferito dimenticarle, magari dopo essersi appropriati delle loro idee.
* "Bustina di Minerva" - L’espresso, 2004
La peste nera
di Moni Ovadia (l’Unità, 20.03.2012)
A Tolosa, un “folle” cavalcando uno scooter, armato di una pistola, ha assassinato esseri umani innocenti, grandi e piccoli con feroce determinazione animata da un odio nutrito con ossessione fanatica. Questa volta sono ebrei, colpiti proditoriamente nella loro istituzione educativa.
Le vittime sono un insegnante, due suoi figli piccini e un adolescente anche se l’intento del carnefice era quello di fare una strage di maggiori proporzioni, la logica quella dello sterminio indifferenziato purché l’obiettivo fosse quello odiato, il “perfido giudeo”. La stessa mano probabilmente ha colpito già tre “maledetti mussulmani”, tre paracadutisti francesi di origine magrebina.
In questi casi, di primo acchito, si cerca una spiegazione rassicurante: è un folle. Forse sarà anche un folle e se verrà catturato ce lo dirà la perizia psichiatrica ma, verosimilmente, è prima di tutto un antisemita, un islamofobo, un razzista, un sostenitore della supremazia della razza bianca ariana. Il suo delirio si è abbeverato a quella cloaca pestilenziale dell’armamentario ideologico del nazifascismo che circola incontrastato sulla rete e non solo.
Ne abbiamo già sperimentato i micidiali effetti nella civile Norvegia, dove il neonazista Breivik ha assassinato con la freddezza di un perito cacciatore, i nemici socialdemocratici, rei di volere l’integrazione, l’accoglienza, la civiltà del diritto universale.
In Italia, a Firenze, sono stati abbattuti come vitelli al macello, dei commercianti senegalesi, degli “sporchi negri” che pretendevano di vivere come noi. Anche in questo caso l’assassino nazifascista frequentava ambienti che, dietro la pretesa di fare cultura, fanno coltura dei virus delle pseudo-ideologie nazifasciste.
Ancora abbiamo visto nelle nostre strade, pestaggi di omosessuali, roghi di campi rom solo sulla base delle parole di una ragazzina terrorizzata dai genitori. Abbiamo ascoltato la violenta propaganda xenofoba di esponenti di un partito di governo, la Lega Nord. E cosa fa l’establishement delle caste che ci governano per contrastare i germi della peste nera? Chiacchiere, chiacchiere, retorica molta falsa coscienza nel Giorno della Memoria.
Che cosa fa la vile Europa con Paesi membri i cui governi sono coalizzati con forze di stampo neonazista? Indignazione soft per non scomporre le ordinate capigliature degli eurocrati.
Che cosa fanno i politici della nostra destra? Si sono lasciati andare per tre lustri a dei veri sabba revisionisti con il solo scopo di calunniare i partigiani e la Resistenza antifascista, spesso davanti ad imbarazzati e balbettanti esponenti dello schieramento di centrosinistra. Risultato: se gli antifascisti sono così cattivi, i fascisti e i nazisti non sono così male. Per gli ebrei oggi è giorno di dolore ma passato il periodo di lutto, torniamo a ricordare bene cosa sono il Nazismo e il Fascismo e chi sono i loro complici dall’aria per bene.
Il documento alla base dell’incontro di Parigi: «L’Europa è il nostro patrimonio»
Lavoro, solidarietà giustizia fiscale: così l’Europa può rinascere
A settembre 2011, i socialdemocratici danesi sono tornati al governo. Nel novembre 2011 il governo conservatore italiano ha rassegnato le dimissioni. A dicembre 2011 un primo ministro socialista è stato designato in Belgio. Nel 2012 e 2013 le elezioni in Francia, in Italia e in Germania possono rivelarsi decisive per intraprendere un nuovo percorso per l’Europa, sostenuto da una vasta alleanza dell’insieme delle forze socialiste, progressiste e democratiche.
L’Europa è il nostro patrimonio
comune. Il nostro compito è di perseguire la costruzione di un’Europa più unita e democratica. Prendiamo atto che l’assenza di una governance economica europea democratica ed efficace minaccia di trascinare l’Europa in recessione. Privilegiando la deflazione salariale, omettendo di condurre politiche per la crescita e l’occupazione, trascurando la solidarietà e la lotta contro le disparità, riducendo l’Europa a uno spazio di vigilanza e di sanzioni, trascurando il dialogo sociale e la democrazia, si voltano le spalle sia alla necessità di lottare contro la crisi che allo stesso progetto europeo.
Adesso spetta all’Unione europea fornire risposte appropriate. La responsabilità di bilancio e la disciplina fiscale sono degli imperativi per la stabilità nella zona euro e per rilanciare il modello sociale europeo. In ogni Stato dovrebbe essere istituito un percorso che garantisca la riduzione del deficit e dell’indebitamento. È indispensabile ridurre l’indebitamento sovrano in Europa. Ciò andrebbe fatto in modo responsabile, nel rispetto delle regole democratiche di una nuova sovranità europea condivisa e in accordo con i principi di uguaglianza e giustizia sociale. Dovrebbero essere adottate quanto prima iniziative, a livello di Unione europea, per stimolare una crescita sostenuta e sostenibile. Andrebbero rafforzati in questa direzione gli interventi della Banca Europea per gli Investimenti (Bei). Nella fattispecie, le priorità dovrebbero essere la creazione di posti di lavoro e la lotta contro la segmentazione del mercato del lavoro, in particolare nei confronti dei giovani e delle donne.
La politica industriale deve essere reinventata. Essa deve essere messa al servizio dello sviluppo dei grandi progetti industriali, tecnologici, infrastrutturali, di ricerca di innovazione, che favoriscano la conversione ecologica dell’Europa. La politica industriale dovrà favorire un’industria sostenibile («sobria in carbone») basata sulle tecnologie verdi, che assicuri impieghi duraturi e qualificati . Ci sembra inoltre fondamentale appoggiare la diffusione generale e l’armonizzazione dei «certificati verdi» già esistenti in alcuni Paesi dell’Unione europea, per contribuire alla lotta contro il riscaldamento climatico. Devono essere create nuove risorse. Dovrebbe essere subito adottata dal Consiglio la proposta difesa da tempo dai progressisti europei e presentata recentemente dal gruppo dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici al Parlamento europeo che punta a istituire una tassa sulle transazioni finanziarie.
Questa consentirà un rincaro del costo delle operazioni speculative, il riequilibrio della tassazione del capitale e del lavoro e faciliterà la lotta contro l’ingiustizia fiscale. Questa tassa assicurerà inoltre che al rilancio dell’economia contribuiscano gli stessi soggetti che hanno provocato la crisi finanziaria. L’Unione Europea dovrebbe assumere iniziative sulle relazioni con i «paradisi fiscali», con l’obiettivo di lottare contro l’evasione fiscale e contribuire a sanare le finanze pubbliche. Al tempo stesso, sarebbe opportuno affrontare seriamente i profondi squilibri macroeconomici e sociali all’origine della crisi nella zona euro.
Il miglioramento della competitività dei Paesi in situazione di deficit commerciale dovrebbe essere accompagnato da sforzi reciproci da parte dei Paesi che invece hanno eccedenze, stimolando la loro domanda interna. Ciò contribuirebbe ad invertire la tendenza alla distribuzione impari della ricchezza di questi ultimi decenni. Sarebbe necessario inoltre distinguere le spese per gli investimenti dalle spese di funzionamento.
La solidarietà deve essere posta al centro delle politiche europee. In questo modo sarà garantita la stabilità della nostra moneta. Proponiamo di prendere in considerazione il rafforzamento di una responsabilità comune europea per una parte del debito sovrano. Le euro-obbligazioni contribuirebbero a un nuovo fondo per il riassorbimento del debito e permetterebbero un riequilibrio delle finanze pubbliche. Il fallimento dei tentativi di rispondere alla crisi nella zona euro da parte dei governi conservatori in Europa, ha portato la Banca centrale europea a svolgere un ruolo attivo nei mercati finanziari. Se questo deficit di leadership politica persistesse, la Bce sarebbe, alla fine, obbligata a svolgere un ruolo ancora più forte per combattere la crisi finanziaria. Questo riorientamento delle politiche economiche in Europa non può comunque essere concepito senza un vero regolamento finanziario, che rimetta i mercati finanziari al servizio dell’economia reale e ristabilisca gli opportuni legami tra finanza ed economia.
Tutto ciò richiede il rafforzamento di una vera democrazia su scala europea. Per questo motivo, l’Unione europea dovrebbe rafforzare le proprie competenze e dotarsi di una vera governance. I cittadini europei dovrebbe essere messi nelle condizioni di poter decidere chiaramente gli orientamenti politici dell’Unione. Il metodo intergovernativo perseguito dai governi conservatori non aiuta. Converrebbe invece estendere la codecisione alle scelte fondamentali di politica economica e sociale. Ciò implica una democrazia europea basata sul metodo comunitario e su un ruolo più decisivo del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali fondata sulla sussidiarietà e la partecipazione dei cittadini e accompagnata dal rafforzamento dell’influenza di veri partiti politici europei. A questo proposito, i partiti progressisti europei dovrebbero proporre un candidato comune alla presidenza della Commissione europea. In questo modo, nel rispetto della Carta dei diritti fondamentali, un’altro cammino per l’Europa diventa possibile.
* l’Unità, 17.03.2012
Dio è morto torniamo a Dio
L’Ana-teismo di Richard Kearney: così l’esperienza del vuoto ci riapre al problema della trascendenza
di Gianni Vattimo (La Stampa, 16.03.2012)
Anateismo è l’atteggiamento religioso che Kearney sostiene e raccomanda per la spiritualità del nostro tempo. [... ] Il prefisso greco ana-, che a prima vista potrebbe essere inteso in senso negativo (come se si trattasse di negare l’a-teismo, pensate al termine an-alcolico...), significa invece, oltre che «salita», anche «ritorno». Due sensi che Kearney non sottolinea insieme, preferendo il secondo senso, il ritorno; non direi però che il primo senso, la salita, sia del tutto scomparso, giacché il ritorno implica sempre per Kearney un qualche momento di illuminazione piena, diremmo di arrivo alla cima, che coincide bensì, nella mistica, con la notte oscura di cui tanti mistici ci parlano, ma che ha comunque il carattere di un momento decisivo - una sorta di evidenza che Kearney pensa sempre in base all’eredità della fenomenologia assimilata attraverso il suo maestro Ricœur. Il senso del prefisso, dunque, non è solo una questione di filologia, segna anche, pare a me, la differenza - leggera ma non insignificante - attraverso cui io mi introduco nel discorso di Kearney, e perciò la via che, solo, posso indicare ai lettori.
Dunque: la cultura dentro la quale ci capita di vivere è orientata a considerarsi il punto di arrivo di uno svolgimento che, negli schemi filosofici dominanti, di origine hegeliana, ma anche genericamente illuministici e positivistici, si pensa come proveniente da fasi primitive teistiche, caratterizzate da una religiosità non di rado superstiziosa, che poi, attraverso scienza e tecnica, si evolve progressivamente verso quella che Nietzsche chiamerà la «morte di Dio» (il quale per lui si rivela una menzogna non più necessaria all’uomo tecno-scientificamente evoluto), e cioè verso un ateismo teorico-pratico sempre più generalizzato. Questo schema illuministico-storicistico è quello da cui Kearney parte per negarne la validità, alla luce non solo della propria esperienza personale, ma di quella che gli sembra, giustamente, una diffusa ripresa, o sopravvivenza, del problema di Dio al di là di ogni approdo ateistico. Non solo a causa di quelle che si potrebbero chiamare le autocontraddizioni performative del «progresso» (dalla bomba atomica all’Olocausto), ma per l’incertezza e l’esperienza di finitezza che il nostro mondoconosce e che lo richiamano, appunto, a quel senso di vuoto e di sospensione di ogni certezza che l’autore chiama anateismo.
Ancora in armonia con la propria formazione fenomenologica, Kearney pensa a questo stato d’animo come all’ epoché husserliana, quella sospensione dell’atteggiamento «naturale» nei confronti delle cose che permette di elevarsi alla visione delle essenze. Si va oltre l’ateismo «naturale» del nostro mondo quando facciamo esperienza di questo vuoto che è anche l’apertura a una epifania, a una illuminazione, che ci riapre all’esperienza di Dio. Qualunque Dio esso sia. Nel vuoto e nell’incertezza che ci apre all’anateismo e a un nuovo possibile incontro con Dio entra anche la consapevolezza moderna e tardo-moderna della pluralità delle religioni, dunque il problema del dialogo interreligioso e delle molteplici vie che in esso si confrontano e spesso si scontrano. L’anateista di Kearney è inoltre un uomo del dialogo con gli dèi stranieri. La religiosità ritrovata nella sospensione degli assoluti sia teistici sia ateistici è anche caratterizzata da una apertura all’altro che è sempre stata preclusa alle fedi non passate attraverso la notte oscura - non solo mistica, ma culturale di cui noi moderni siamo figli e prodotti.
Kearney, nelle non rare digressioni autobiografiche del libro, ricorda anche di aver a lungo lottato contro l’autoritarismo della sua Chiesa e poi delle Chiese e sette che ha incrociato. Di modo che l’anateismo non è solo, in definitiva, il momento di sospensione e di vuoto destinato a trovare «di nuovo» una fede «piena» più o meno affine alle fedi tradizionali, ma un atteggiamento che deve accompagnare (sembra di parlare dell’« io penso» kantiano!) ogni fede ritrovata. Di ogni fede comunque ritrovata deve far parte la preghiera che domanda di essere aiutati a credere: Signore, credo, aiuta la mia incredulità. Che era anche la preghiera persino di Madre Teresa, come ricorda Kearney. Ma potremmo pensare a Pascal, che consigliava ai non credenti di pregare per ottenere la fede.
o Uno scienziato cambia idea Durante una conferenza a cui assistei nel 1970 uno scienziato di nome Frantis̆ek Vyskočil spiegò il complicato soggetto della trasmissione degli impulsi nervosi. Disse che ogni volta che in un organismo si presenta una necessità, viene provveduta una soluzione straordinaria. “La Natura, questa Incantatrice, sa come fare”, concluse. Dopo la conferenza lo avvicinai. “Non crede”, chiesi, “che il merito per l’eccellente progetto delle cose viventi dovrebbe essere attribuito a Dio?” La mia domanda lo colse di sorpresa, dato che era ateo. Rispose con domande di altro genere. Chiese: “Da dove è venuto il male?” e “Di chi è la colpa se tanti bambini sono orfani?”Le mie risposte ragionevoli, basate sulla Bibbia, destarono il suo interesse. Ma chiese perché la Bibbia non forniva precise informazioni scientifiche, come la descrizione della struttura di una cellula, affinché si potesse riconoscere facilmente che il suo autore è il Creatore. “Cosa è più difficile”, risposi, “descrivere o creare?” Gli prestai il libro L’uomo è venuto per mezzo dell’evoluzione o per mezzo della creazione? Dopo una lettura superficiale Frantis̆ek lo definì semplicistico e inesatto. Inoltre criticò ciò che la Bibbia dice della poligamia, dell’adulterio di Davide e di come questi fece uccidere un innocente. (Genesi 29:23-29; 2 Samuele 11:1-25) Confutai le sue obiezioni, facendogli notare che la Bibbia riferisce onestamente anche le mancanze dei servitori di Dio, come pure le loro vere e proprie trasgressioni. Infine, in una delle nostre conversazioni, dissi a Frantis̆ek che se uno non ha un buon motivo, se non ama la verità, nessun argomento o ragione lo convincerà dell’esistenza di Dio. Quando stavo per andarmene, mi fermò e mi chiese uno studio biblico. Disse che avrebbe riletto il libro L’uomo è venuto per mezzo dell’evoluzione o per mezzo della creazione?, questa volta senza pregiudizi. Poi il suo atteggiamento cambiò completamente, come si vede da questa frase che citò in una delle sue lettere: “La superbia dell’uomo terreno si deve inchinare, e l’alterigia degli uomini si deve abbassare; e Geova solo dev’essere innalzato in quel giorno”. - Isaia 2:17. Nell’estate del 1973 Frantis̆ek e sua moglie si battezzarono come testimoni di Geova. Attualmente egli serve come anziano in una delle congregazioni di Praga. La scienza non ha rapporti con la verità, perché ciò che essa produce sono solo proposizioni "esatte", cioè "ottenute da (ex actu)" le premesse che sono state anticipate in via ipotetica. Che poi l’ipotesi sia confermata dall’esperimento dice solo che noi conosciamo la validità operativa di quell’ipotesi, non la natura della cosa indagata con quell’ipotesi, perché, interrogata, la cosa non mostra il suo volto, ma semplicemente risponde all’ipotesi anticipata.
La fede infatti, ce lo ricorda Pascal, non saprebbe cosa farsene di un Dio raggiungibile con gli strumenti della sola ragione.
Distinti saluti a tutto lo staff (La voce di Fiore)...Sull’ATTENTI e poi un leggero inchino della testa (alla Giapponese). PS Tramite voi negl’ultimi anni mi sono raffinato, ho’ studiato, indagato e letto e questo ha’ contribuito a rafforzare le idee e (Credenze che ho’ sempre avute negli ultimi piu’ di quattro decenni come T. di Geova). L’Emigrato Integrato, L’Orfano letterato e colui che e’ stato starato (come un pallino di cartuccia) per sparire e difatti si e’ avverato e ne sono grato.
DON GIUSEPPE DE LUCA
Il ricordo del Migliore
«Lui sacerdote io non credente»
Palmiro Togliatti stimava il prelato, tanto che scrisse un testo su don Giuseppe in occasione del primo anniversario della sua morte. In questa pagina dedicata a don De Luca ripubblichiamo quel testo, che apparve su «Rinascita» il 15 giugno 1963. Gli incontri. «Qualcosa di comune negli orientamenti della nostra cultura»
di Palmiro Togliatti, da Rinascita (l’Unità, 15.03.2012)
Con don Giuseppe De Luca io ebbi soltanto un certo numero di incontri. Non molti. Eppure bastarono a stabilire tra di noi una corrente che non era soltanto di comprensione e simpatia, ma di amicizia. Vi era qualcosa di comune, mi pare, negli orientamenti della nostra cultura. In questo senso, che entrambi avevamo vissuto, anche se partendo da posizioni diverse e con diverso punto di arrivo, la grande crisi e svolta del Novecento. Mi era sembrato strano, quando lo venni a conoscere, che la mente di quel sacerdote si fosse travagliata attorno alle stesse opere, agli stessi contrasti di idee e di costume, attorno al contenuto delle stesse riviste e rivistine, persino, che erano state l’oggetto del travaglio nostro, di Antonio Gramsci, mio, di altri giovani ora scomparsi, in anni da oggi tanto lontani. Mi è parso perciò di avere acquistato più precisa coscienza, nel contatto con lui, del fatto che una generazione è qualcosa di reale, che porta con sè certi problemi e ne cerca la soluzione, soffre di non averla ancor trovata e si adopra per affidare il compito di trovarla a coloro che sopravvengono. E in questo modo si va avanti.
Ma eravamo approdati a diverse rive. Lui sacerdote, io non credente. Ed ora mi chiedo, ciò che conversando e discutendo con lui non mi ero chiesto mai, perché noi potessimo così ampiamente e liberamente comunicare e trovare contatto. È vero, questioni di religione non ne affrontavamo. L’ultima volta che ci vedemmo ci fu una certa malizia, da parte mia (avevo da poco letto i Trattati antimanichei, nella recente edizione che ne è stata fatta in Francia), nel citargli una espressione di Sant’Agostino, nella quale coglieva il germe e un germe ben dispiegato di dottrine hegeliane. Lasciò cadere. Non era quello il terreno su cui dovevamo confrontarci. E non era neanche quello della politica, nel senso ristretto, tradizionalmente chiuso, di questa espressione.
La sua mente e la sua ricerca mi pare fossero volte, nel contatto con me, a scoprire qualcosa che fosse più profondo delle ideologie, più valido dei sistemi di dottrina, in cui potessimo essere, anzi, già fossimo uniti. Cercava e metteva in luce la sostanza della nostra comune umanità; lo interessava che vi fosse in noi una comune coscienza dei problemi che alla umanità si presentavano, oggi, in un momento così grave, così terribile della sua storia, come è il momento presente. Nel momento in cui ci attende o un nuovo inesauribile slancio di creazione, oppure la distruzione ad opera delle nostre stesse mani.
Ho sempre avuto la visione precisa ch’egli considerasse cosa certa che le fratture, gli abissi che oggi lacerano e contrappongono gli uni e gli altri, i gruppi sociali e le società umane saranno colmati. Penso sia normale, in un credente, questa aspirazione. Ciò che trovavo nelle sue parole era però anche la convinzione che per colmare questi abissi si può e si deve agire subito, e per agire subito, non basta essere vicini e conoscersi, ma bisogna comprendersi. E questo non è sempre facile. Richiede uno sforzo, uno scontro, talora, ma uno scontro che sia insieme ricerca comune di cose nuove. In questo modo io capisco, ora, e credo di collocare giustamente, nell’immagine che mi è rimasta di lui, quel suo acuto senso della realtà e quei suoi giudizi diretti, crudi, a volte persino violenti, e che colpivano in tutte le direzioni. Che non creavano una barriera, però, anzi, portavano a comprendersi meglio, creavano una condizione e un animo tali che consentivano di guardare assieme, lontano a mète comuni.
Conserverò in me sempre, profonda, circondata d’affetto e di venerazione, l’immagine di quest’uomo, la cui fiducia ferma nell’avvenire e nella salvezza dell’umanità ha dato maggior forza e tranqullità alla stessa fiducia che anch’io nutro.
Le parole o le cose
Tra postmoderno e realismo la filosofia non è più in crisi
Dal dibattito di questi mesi, che ha mostrato la vitalità di una disciplina, è nato il saggio di Maurizio Ferraris
È un "Manifesto" che cerca di superare le tesi della "svolta linguistica"
Restano alcune zone critiche nel testo, come il rapporto con il desiderio
di Roberto Esposito (Repubblica, 15.03.2012)
Sul presupposto di partenza del Manifesto del nuovo realismo di Maurizio Ferraris (Laterza, pagg. 113, euro 15) - il cui contenuto è già ben noto ai lettori di queste pagine - si può senz’altro convenire. Si tratta della convinzione che alla fine del ventesimo secolo la filosofia contemporanea abbia ruotato intorno al proprio asse, assumendo una diversa inclinazione. Quella che ha mostrato la corda è l’eredità filosofica della cosiddetta "svolta linguistica" dei primi decenni del Novecento, incentrata intorno al primato trascendentale del linguaggio. Che a tale primato si attribuisse una connotazione analitica come in area anglosassone, ermeneutica in Germania o decostruttiva in Francia, l’idea che sottintendeva tale concezione era il carattere linguistico dell’intera realtà.
Da qui una conseguenza di tipo dissolutivo, che investiva non solo il reale, risolto in una serie di narrazioni prive di riscontro oggettivo, ma anche la filosofia stessa, dichiarata dai suoi stessi esponenti finita o quantomeno in perenne crisi. Sfuggendole in linea di principio la presa sull’oggetto, essa non poteva rivolgere la propria attitudine critica che a se stessa in una sorta di perenne autoconfutazione. In queste condizioni, si può dire, essa riusciva ad affermarsi solo negandosi. Piuttosto che elaborare - come suo compito - nuovi concetti, si limitava a smontarli, in una proliferazione di domande senza risposta. È a questa situazione, per così dire bloccata, che il Manifesto intende reagire.
Ma la tesi più suggestiva di Ferraris è che la necessità di muovere in una direzione diametralmente opposta - quella appunto di un "nuovo realismo" - si origini non dal fallimento, quanto dal successo della prospettiva postmoderna del primato dell’interpretazione sui fatti. Il superamento dell’oggettività - già proclamato da Nietzsche, fatto proprio da Heidegger e riproposto diversamente da Foucault - non avrebbe portato ad un’emancipazione dai vincoli oppressivi di una verità totale, ma alla configurazione di quella società dello spettacolo il cui frutto avvelenato è il populismo mediatico diffuso nelle nostre democrazie. Da qui l’esigenza che, dall’inizio degli anni Novanta, ha condotto l’autore ad abbandonare il paradigma ermeneutico a favore di un confronto diretto con il reale sul triplice terreno dell’estetica, della teoria della conoscenza e dell’ontologia sociale.
Questa la prospettiva del libro, proposta con l’intelligenza brillante e caustica cui Ferraris ci ha da tempo abituati. Molte le pagine che risultano convincenti, e anche equilibrate, a favore di quello che egli stesso definisce un "realismo modesto", ancorato alla distinzione tra epistemologia ed ontologia. Realismo, egli sostiene, non equivale né a scientismo, né, tantomeno, al vecchio positivismo. Esso non nega che vi siano oggetti socialmente costruiti, ma solo che tutti lo siano. Così come non contiene alcuna apologia dello stato di cose esistente. Solamente che, per poterlo criticare, è necessario prima conoscerlo "oggettivamente". Accertare qualcosa nella sua radice ontologica non vuol dire, per questo, accettarla supinamente. Anzi è la condizione preliminare per poterla, eventualmente, trasformare. I controeffetti di slogan apparentemente liberatori come quello dell’immaginazione al potere sono del resto sotto gli occhi di tutti: spesso sono stati proprio essi ad impedire, nel loro entusiasmo utopistico, un intervento critico nei confronti della realtà.
Detto questo, la tesi profilata dall’autore si presta ad una serie di critiche e di domande che aspettano una risposta. Innanzitutto l’idea che oggi sarebbe venuto meno ogni effetto impositivo da parte dei dispositivi di verità è tutta da provare.
La battaglia, dagli esiti tuttora incerti, contro il fondamentalismo cattolico, per esempio sul piano della bioetica, lascia pensare piuttosto il contrario. Così come l’ascrizione, operata da Ferraris, della rozza ideologia di Bush, e dei suoi consiglieri neo-con, al pensiero postmoderno può lasciare interdetto il lettore. Ed è, poi, vero che la semantica del desiderio, connessa alle ragioni del corpo, riconduce all’arcaico, alla infanzia, alle Madri? Come osserverebbe l’intera scuola lacaniana, Ferraris sta confondendo il desiderio - sempre connesso alla legge e al limite che questa impone - con il godimento. Non a caso le nostra società soffrono di una mancanza crescente di desiderio, quanto più sono sottoposte all’imperativo di godere senza limiti.
Ma la questione di fondo che la prospettiva di Ferraris apre è per me ancora un’altra. Ed è relativa al superamento della svolta linguistica di cui si diceva. Il realismo, per quanto nuovo, ne è davvero fuori o non è che lo spostamento dall’una all’altra della sue polarità interne? Non riprende, con altri argomenti, la polemica che Carnap aveva, da un punto di vista logico-realistico, rivolto al decostruzionismo di Heidegger? Non resta dentro il perimetro definito dall’avversario che combatte?
Detto in altre parole, la rivendicazione dell’autonomia dell’oggetto presuppone necessariamente, come contraltare logico, quella del soggetto che pure intende contestare. Io credo si tratti di capire qual è il trascendentale, vale a dire la categoria costitutiva, che, nel pensiero e nella realtà - difficilmente separabili, visto che il pensiero non soltanto nasce sempre dentro una data realtà, ma a sua volta produce realtà - ha sostituito il linguaggio negli ultimi decenni, se non ancora prima. La risposta che una parte significativa della cultura filosofica internazionale ha dato a questa domanda è che si tratta della categoria di vita, nella sua relazione complessa con la politica e la storia.
Cosa deve intendersi qui per "vita"? Non certo un impulso irrazionale o, tantomeno, una forma mascherata di volontà di potenza, ma esattamente il superamento di quella contrapposizione tra soggetto e oggetto che ha condizionato la filosofia postkantiana trattenendola al di qua di una certa soglia epistemica. Da questo punto di vista autori come Nietzsche, e tanto più Foucault, indicano una direzione in singolare risonanza con quella linea di pensiero che è stata definita Italian Theory. Si tratta della rottura delle classiche bipolarità tra soggetto e oggetto, natura e storia, prassi e tecnica.
Oggi, sia nel campo della filosofia continentale che in quello della filosofia analitica, i programmi di ricerca più promettenti sono proprio quelli situati nella zona di indistinzione, o di oscillazione, tra poli che un tempo apparivano reciprocamente incompatibili. Mai come in questa stagione quelle che sembrano, e di fatto sono, invariabili della natura umana vengono sussunte e, per così dire, mese al lavoro, storicizzate, modificate, dalla tecnica in una forma difficilmente riducibile al contrasto tra interno ed esterno o soggetto e oggetto.
L’individuazione del rapporto tra potere e sapere - implicita, ad esempio, nel concetto foucaultiano di "dispositivo", ma anche in quello, gramsciano, di "egemonia" - non ha nulla a che vedere con l’idea che "il potere ha sempre ragione", o con la proclamazione retorica di un contropotere, se non altro perché ogni forma di potere implica di per sé una resistenza. Ciò non solo non è estraneo ad un atteggiamento realistico - è anzi al centro del grande realismo politico da Machiavelli in poi - ma consente di ripensare la soggettività in chiave conflittuale. Non esiste un soggetto unico, contrapposto al proprio oggetto. Il confronto - ed anche lo scontro - che insieme unisce e divide gli uomini verte sulla relazione insolubile di realtà e pensiero, natura e storia, tecnica e vita. Rispetto a tutti questi problemi, ovviamente aperti, il Manifesto di Ferraris permette di aprire una discussione franca e vivace.
Il filosofo tedesco contro le politiche di Angela Merkel. Tiepide verso una maggiore integrazione. Arroganti con i popoli. Succubi degli speculatori
L’Europa dei cittadini. Più democrazia meno mercati finanziari
di Jürgen Habermas (la Repubblica, 12.03.2012)
Nel processo dell’integrazione europea vanno distinti due piani. L’integrazione degli stati affronta il problema di come ripartire competenze tra l’Unione da un lato e gli stati membri dall’altra. Questa integrazione riguarda dunque l’ampliamento di potere delle istituzioni europee. Invece l’integrazione dei cittadini riguarda la qualità democratica di questo crescente potere, ossia la misura in cui i cittadini possono partecipare a decidere i problemi dell’Europa. Per la prima volta dall’istituzione del Parlamento europeo, il cosidetto «fiscal compact» che si sta varando in queste settimane (per una parte dell’Unione) serve a far crescere l’integrazione statale senza una corrispondente crescita dell’integrazione civica dei cittadini. (...)
La tesi che vorrei difendere in questa sede è presto detta. Solo una discussione democratica che affronti a trecentosessanta gradi il futuro comune della nostra cittadinanza europea potrebbe produrre decisioni politicamente credibili, capaci cioè di imporsi ai mercati finanziari e agli speculatori che puntano sulla bancarotta degli stati. (...) Finora, pur cercando di armonizzare accortamente (quanto meno nell’eurozona) le loro politiche fiscali ed economiche, gli stati membri non sono andati al di là di retoriche proclamazioni. L’integrazione degli stati diventerà credibile solo quando potrà appoggiarsi a una integrazione dei cittadini in cui si manifestino maggioranze dichiaratamente pro-europee. In caso contrario, la politica non riguadagnerà più la sua autonomia di contro alle agenzie di rating, grandi banche ed hedgefounds. (...)
Dal mio punto di vista, sul piano della politica europea, il governo tedesco sta facendo poche cose giuste e molte cose sbagliate. Lo slogan Più Europa è la risposta giusta a una crisi dovuta a un difetto di costruzione della comunità monetaria. La politica non riesce più a compensare gli squilibri economici che ne sono nati. Sul lungo periodo, il riassetto dei divergenti sviluppi economico-nazionali è realizzabile solo in termini di collaborazione, nel quadro di una responsabilità democraticamente organizzata e condivisa, capace di legittimare anche un certo grado di redistribuzione che oltrepassi le frontiere nazionali.
Da questo punto di vista, il «fiscal compact» è certamente un passo nella direzione giusta. Fin dalla sua definizione ufficiale - trattato «per la stabilità, l’armonizzazione e la governance» - si vede come questo patto sia costituito da due diversi elementi. Esso obbliga i governi per un verso a rispettare le discipline di bilancio nazionali, per l’altro verso a istituzionalizzare una governance di politica economica avente per obbiettivo di eliminare gli scompensi economici (quanto meno nell’eurozona). Come mai però Angela Merkel festeggia solo la prima parte del patto, quella mirante a penalizzare le infrazioni di bilancio, mentre non spende una parola sulla seconda parte, mirante a una concertazione politica della governance economica? (...) Il governo tedesco, pur riconoscendo a parole il bisogno di una integrazione ulteriore, di fatto contribuisce a lasciar marcire la crisi. A questo riguardo mi limito a quattro brevi considerazioni.
In primo luogo non occorre farla lunga, in termini di politica economica, per capire che una unilaterale politica restrittiva, come quella caldeggiata nella Ue dal governo tedesco, spinge nella deflazione i paesi più sofferenti. Ove non si integrino le politiche restrittive con politiche di sviluppo, la pace sociale delle nazioni poste sotto tutela finirà per essere disturbata non soltanto dai pacifici e ordinati cortei dei sindacati.
In secondo luogo, la politica restrittiva risponde all’idea sbagliata secondo cui tutto si risolverà nel momento in cui gli stati membri sapranno accettare questo nuovo patto di stabilità e crescita. Di qui la fissazione di Angela Merkel nel voler imporre sanzioni: una postura minacciosa assolutamente superflua nel momento in cui si riuscissea inserire nella legislazione ordinaria della Ue una governance economica condivisa. Continua invece a imperversare l’idea per cui basterebbe istituire una «giusta» costituzione economica - dunque «regole» sovratemporali - per risparmiarci le fatiche di una concertazione politico-economica nonché i costi derivanti da una legittimazione democratica dei programmi di redistribuzione.
In terzo luogo, Merkel e Sarkozy operano sostanzialmente sul piano di una politica intergovernativa, mirando a spingere avanti, senza troppo rumore, l’integrazione degli stati e non quella dei cittadini. I capi di governo dei 17 paesi rappresentati nel Consiglio dei ministri dovrebbero tenere in pugno il bastone di comando. Sennonché, una volta dotati delle competenze di governance economica, essi svuoterebbero la sovranità economica dei parlamenti nazionali.
La conseguenza sarebbe un rafforzamento postdemocratico degli esecutivi dalle conseguenze imprevedibili. Allora, l’inevitabile protesta dei parlamenti spodestati avrebbe almeno il vantaggio di portare in luce quel deficit di legittimazione che solo una riforma democratica degli organi di governo comunitari potrà colmare. In quarto luogo, le parole d’ordine del governo tedesco in fatto di bilancio suscitano all’estero il sospetto che la Germania federale persegua mire nazionalistiche. «Nessuna solidarietà, se prima non si garantisce stabilità».
La proposta lanciata da Berlino di mandare un commissario plenipotenziario ad Atene - dove già ci sono, con analoghe funzioni di controllo, tre commissari appena giunti dalla Germania- dimostra un’incredibile insensibilità nei confronti di un paese in cui non si è ancora spento il ricordo delle efferatezze compiute dalle Ss e dalla Wehrmacht. Helmut Schmidt, in un appassionato discorso, ha deplorato che il governo attuale stia dilapidando il prezioso capitale di fiducia che la Germania si era guadagnata presso i vicini nel corso degli ultimi cinquant’anni.
L’impressione generale - che si ricava da questa sciocca arroganza, per un verso, e dalla troppo timida risposta al ricatto dei mercati finanziari, per l’altro - è che la politica europea non abbia ancora raggiunto il livello di una vera «politica interna». (...)
Queste prudenze non sono neppure giustificabili dal vecchio argomento secondo cui l’integrazione è destinata a fallire per mancanza di un popolo europeo e di una sfera pubblica europea. Nelle idee di «nazione»e di «popolo» avevamo a che fare con fantastici soggetti omogenei: ideali che solo nel corso dell’Ottocento, canalizzati dalle scuole pubbliche e dai mass media, si erano impadroniti dell’immaginario popolare. Sennonché le catastrofi del ventesimo secolo non hanno lasciato indenni le ideologie storiografiche dei vari nazionalismi. Oggi l’Europa deve fare i conti non tanto con popoli illusoriamente omogenei, quanto piuttosto con stati-nazione concreti, con una pluralità di lingue e di sfere pubbliche.
Pur associandosi sempre più strettamente sul piano europeo, gli stati nazionali conservano funzioni specifiche. Essi non devono affatto dissolversi in uno stato federale d’Europa, ma conservare un ruolo di garanzia per i livelli di democrazia e di libertà fortunatamente già raggiunti. Ciascuno di noi unisce in petto due ruoli: quello di cittadino del proprio stato e quello di cittadino dell’Unione. E nella misura in cui i cittadini dell’Unione capiranno quanto profondamente le decisioni europee modificano la loro vita, tanto più si sentiranno coinvolti in una politica europea che può anche chiedere di spartire sacrifici. (...) Si dice che la repubblica di Weimar sia fallita perché i suoi difensori democratici erano troppo pochi. Fallirà l’Unione europea per i troppi sostenitori troppo tiepidi?
Traduzione di Leonardo Ceppa e Walter Privitera
La cecità dell’Europa
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 7 marzo 2012)
Se è vero quello che disse una volta Jean Monnet -«l’Europa si fa nelle crisi» -siamo davanti a un ’occasione unica per diventare un’Unione autentica, capace di pensare e agire con la propria testa. Unione non determinata all’esterno da Stati-tutori, non corrosa all’interno dai vecchi imperativi dell ’equilibrio fra potenze. È in crisi la sua economia, lo sappiamo. Ma è in crisi anche la sua democrazia, perché pluralismo e alternanza sono sempre più visti come ostacoli alle decisioni rapide, prese da pochi competenti: lo comprova il disastro greco, e anche i timori che alcuni governi (Berlino in testa) sembrano nutrire verso la possibile sconfitta di Sarkozy in Francia.
È poi in crisi la laicità, che della democrazia è condizione, perché le chiese quando scorgono Stati fragili «si organizzano per vincere» (sono parole recenti del cardinale Martini), non per affinare la capacità profetica, guardando lontano e profondo. Il primato dato a non-negoziabili valori bioetici, il disinteresse manifestato soprattutto in America per l’equità sociale, sono elementi di una lotta solo di potere.
Infine è in crisi la politica estera, legata in Europa agli schemi del dopoguerra e della guerra fredda. Ignari delle mutazioni mondiali, gli europei faticano a prender atto che i centri di potere si sono moltiplicati, che l’Occidente non è più ombelico dell’universo. Sono abituati a seguire Washington, ma Washington non è più né l’autorità che ci garantisce come nella guerra fredda, né il solo potere globale come supponevano Bush padre, Clinton, Bush figlio.
Che posizione hanno gli europei sul Mediterraneo, e su Israele, sull’Iran, sullo scontro fra Stati sciiti e sunniti? Per ora non ne hanno alcuna: anche in politica estera esiste la tentazione del laissez-faire (il mondo tolemaico che ruota attorno alla terra americana pensa per tutti noi). Ma la svolta è vicina, anzi è già presente. Tocca prendere in mano il nostro destino, se non si vuol ripetere l’inerzia e il non-pensiero che ci contraddistingue da vent’anni e più.
Se guardassero oltre il proprio naso, gli europei vedrebbero quel che sta succedendo nelle
presidenziali Usa. Vedrebbero che l’America è uno Stato debole, esposto a ogni sorta di pressioni, e
ansioso di liberarsene. Vedrebbero, sulla vicenda Iran, un’amministrazione che ha proprie idee ma
stenta ad attuarle perché incapace di imporre la condotta che ritiene razionale a un minuscolo Stato
Israele - che ha il potere di condizionarla. Un potere abnorme, alla lunga non sostenibile, dunque
pericoloso per Israele stesso. Secondo Gideon Levy, commentatore del giornale Haaretz, il peso è
senza precedenti storici e finirà col ritorcersi contro lo Stato ebraico. Non fosse altro perché chi
difende Israele negli Usa (l’AIPAC, Comitato Israele-America per gli Affari pubblici) rappresenta
solo una parte del paese: i conservatori, avvinti all’occupazione dei Territori da 45 anni.
In tre anni, Obama ha ceduto a tali pressioni, fino a seppellire i piani sullo Stato palestinese. Ora Netanyahu lo spinge a posizioni bellicose sull’Iran, nel preciso momento in cui l’America, spezzata da guerre perdute e inferma economicamente, non è pronta a nuovi atti militari. La visita di Netanyahu a Washington, lunedì, ha confermato questo divario di esperienze e intenti, dando l ’impressione - falsa - di due potenze simmetriche. Domenica, all’AIPAC, Il Presidente ha detto che «tutte le opzioni sono sul tavolo» (guerra inclusa), ma ha avversato «incontrollati discorsi bellici»: «Per il bene della sicurezza di Israele, della sicurezza Usa, della pace e della sicurezza del mondo, questo non è il momento di fare i gradassi». Netanyahu è avvisato: l’America non si farà trascinare in conflitti incontrollati, e senza lei Netanyahu penerà a gettarsi in azioni militari. Resta il fatto che il suo governo entra nelle elezioni Usa come primo attore, puntando su Obama disfatto.
Non è l’unico gruppo di pressione a operare in tal modo, profittando dell’indebolita democrazia americana. Altre lobby (etniche, confessionali, finanziarie) la comprimono: ricordiamo gli evangelicali o i cattolici. A proposito di questi ultimi sono preziose le analisi di Massimo Faggioli, professore di teologia in Minnesota, sui giornali L’Europa o L’Unità. In maniera abnorme, anche qui, la Chiesa influenza il voto Usa: con i cattolici bianchi attratti dai valori bioetici (lacontraccezione, oggi) e i cattolici non bianchi (neri, ispanici) «più attenti alle esigenze di giustizia sociale che alla morale sessuale».
L’affievolirsi della sovranità politica americana, la sua dipendenza da poteri esterni e lobby interne: sono deperimenti che dovrebbero indurre l’Europa a divenire potenza sovrannazionale non solo economicamente, non solo per fare dei singoli debiti sovrani un comune debito dell’Unione, ma anche in politica estera, di difesa. Così come non potremo in futuro affidare il mondo multipolare a una moneta di riserva internazionale, il dollaro, che riflette i bisogni di una sola nazione, così non possiamo affidare la nostra politica estera a una potenza fattasi più influenzabile da paesi, chiese, interessi economici coi quali dobbiamo imparare a costruire un nostro rapporto, fondato sulla lealtà e la storia d’Europa - compresa la storia degli ebrei d’Europa - ma anche sulla laicità (esiste un imperativo di deconfessionalizzazione del mercato e delle diplomazie, oltre che delle chiese). Il caso della Chiesa cattolica è significativo; nonostante gli irrigidimenti anti-conciliari, in Europa è più difficile che i cattolici trascurino l’equità sociale come in America.
L’America stessa non potrà farsi guidare da lobby sino a divenire loro ombrello e collettore. Dovrà trovare se stessa, e - l’abbiamo visto - questo potrebbe sfociare in uno scontro con Israele. Tornando a Teheran: la politica che s’impernia sul ricorso ineluttabile alle armi potrebbe esser sostituita in un secondo tempo da altre visioni, fondate sull’arbitrato anziché la guerra. La nuclearizzata Corea del Nord non minaccia il Giappone meno esistenzialmente di quanto l’atomica iraniana insidi Israele - eppure Tokyo non ha lo stesso peso sulla politica statunitense. Il 29 febbraio si è aperta una fase negoziale, giudicata con interesse dall’Economist, ma Pyongyang non rinuncia alle testate che ha. Promette di congelare l’arricchimento dell’uranio - in una sola centrale - in cambio di copiosi aiuti alimentari. Perché lo stesso non potrebbe avvenire con l’Iran, un giorno? Perverso, nella storia nordcoreana, è che dotarsi di bombe è stato propedeutico ai negoziati odierni. Questo conferma che nessuno Stato può sopportare la spada di Damocle di una guerra preventiva continuamente minacciata. Prima o poi, fatalmente, desidererà dotarsi dell’atomica e santuarizzarsi, proprio per poter meglio trattare e aprirsi. È quel che ha fatto il Nord Corea. È quel che forse medita il governo iraniano.
Dipendere dall’America significa oggi, per l’Europa, dipendere da una democrazia scossa, da un ’economia fragile, da una difesa non più prodiga di garanzie. Vale la pena, per l’Europa come per Israele, uscire dai ghetti e cominciare a costruire il proprio destino etsi deus non daretur, come se non esistesse un Dio-custode oltre Atlantico. Quale amministrazione scegliere, migliore di quella di Obama?
Nel 2014, cioè domani, si voterà per il nuovo Parlamento europeo. È sperabile che fra tanti partiti ce ne sia uno che abbandoni gli occhiali nazionali (non fanno vedere più nulla) e inforchi gli occhiali cosmopolitici che vedano e progettino gli Stati Uniti d’Europa. La non - Europa già ci è costata tanto, troppo. Il federalismo non è un’opzione tra le altre: è una via obbligata. Gli Stati-nazione sono più gracili di un’unione. La storia americana, e i suoi regressi, ce lo mostrano con evidenza.
Donne e violenza problema politico
di Sergio Givone (Il Messaggero, 6 marzo 2012)
Come ci ricordano i più recenti fatti di cronaca, non solo il mondo dell’economia, ma anche il mondo dell’etica, il mondo dove leggi non scritte regolano i rapporti tra gli uomini, ha il suo sommerso. La violenza sulle donne serpeggia tra di noi, nelle famiglie, nella società civile, ma viene tenuta nascosta, taciuta, come cosa di cui non si vorrebbe né parlare né sentire. Eppure è sempre lì, non meno presente che in epoche in cui il diritto ben poco diceva in proposito. Nel frattempo la famiglia si è profondamente trasformata. La sua legislazione si è uniformata a costumi più civili e più consoni alla dignità di questa fondamentale istituzione. Vedi ad esempio la legge sullo stalking: che è una buona legge, a protezione di chi prima neppure si immaginava dovesse essere difeso dall’ira o dalla furia del proprio coniuge o dei propri familiari.
Ma è rimasta come una zona d’ombra, un lato oscuro, dove si susseguono gli episodi di una saga dell’orrore. L’altro ieri a Brescia, ieri a Verona. I comportamenti di tanta brava gente «normale» sembrano governati da una sorda e cupa irrazionalità, da un folle impulso distruttivo, da una sete di vendetta e di sangue. Di fronte alla separazione, c’è chi letteralmente impazzisce. E anziché trovare un compromesso e costruire un nuovo ponte verso la vita che continua (quando un legame si spezza, resta sempre qualcosa, a volte qualcosa di molto importante e prezioso), preferisce annientare la vita altrui e la propria.
Che dire? Evidentemente quel rapporto non era un rapporto tra due persone, ma una forma di possesso e di dominio dell’una sull’altra. Da una parte il padrone, dall’altra una sua proprietà inalienabile, un oggetto, una cosa, che non appena rivendica la sua autonomia, viene ridotta a nulla, poiché agli occhi del padrone non è più nulla. Lui stesso a quel punto non sa più chi è. E si ammazza o tenta di farlo. Accecato dalla gelosia, si dice. Spinto a un gesto insano dal proprio demone e cioè dal bisogno di affermazione, dalla prepotenza, dall’egotismo. Tutto ciò - si aggiunge - sarebbe in fondo una caratteristica di un popolo come il nostro, popolo passionale, votato al melodramma, e comunque poco propenso all’autocontrollo e all’esercizio delle virtù civili.
Spiegazione, questa, che in realtà non spiega niente. Perché qui non si tratta di melodramma o non melodramma. Si tratta di sapere o non saper gestire una situazione autenticamente drammatica come per l’appunto una separazione (che è sempre tale, anche quando si vorrebbe bastasse il buon senso e una stretta di mano), dal momento che niente è così difficile come essere all’altezza del dramma che la vita prima o poi ci costringe a recitare.
E chissà se anche oggi gli uomini politici si fanno domande di questo genere. In agenda le questioni economiche e finanziarie prevalgono sulle altre, ma sempre lì si va a parare. Prendiamo l’evasione fiscale. Sarà pure una tendenza incoercibile degli italiani. Ciò non toglie che il sommerso possa essere portato alla luce e sanzionato di conseguenza. Magari nella prospettiva di una educazione al bene comune.
Lo stesso vale per la violenza sulle donne. È anch’esso un mondo del sommerso, mondo dove ciò che non si vede e non si sa prevale di gran lunga su ciò che è noto. Ma perché non esplorare questo mondo sciagurato e maledetto con tutti i mezzi di cui si dispone? Perché non approntare una legislazione che faccia giustizia, per quanto è possibile, di un crimine tanto odioso?
Caterina Resta, L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida. Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 138, Euro 14,00
Recensione di Rita Fulco - 19/12/2003 (da: www.swif.uniba.it)
Ascoltare e cor-rispondere nella scrittura. Questo originario mettersi a disposizione della parola e del pensiero ha da sempre consentito a Caterina Resta di confrontarsi con le maggiori questioni filosofiche del nostro tempo e di tradurle in parola con un certo anticipo rispetto alla loro ribalta nel dibattito filosofico.
Questa "preveggenza" aveva caratterizzato anche il suo primo testo su Jacques Derrida (Pensare al limite. Tracciati di Derrida, Milano 1990), una delle pionieristiche monografie italiane - che tutt’oggi resta un punto di riferimento ineludibile per chi intenda occuparsi seriamente di Derrida - sul grande pensatore francese: indubbiamente ha il merito di avere aperto, per prima, alcune piste divenute fondamentali nel dibattito intorno al filosofo. In particolare, gli ultimi due capitoli di quel volume mostravano come il pensiero di Derrida, lungi dal potersi ridurre a un "pensiero della scrittura" come puro esercizio ludico di stile (questo è semmai il limite di tanti suoi mimetici esegeti), fosse aperto a molte altre questioni, altrettanto decisive, la cui portata filosofica è possibile cogliere solo sullo sfondo di alcuni dei suoi più diretti interlocutori. Heidegger, in primo luogo, per quanto riguarda un pensiero dell’evento, inteso anche come cor-rispondere all’ascolto di una parola data, accettazione e accoglimento di una promessa, di un patto che, fin dall’inizio, determina la nostra appartenenza al linguaggio. E Lévinas, per quanto concerne la sempre maggiore attenzione dedicata dall’ultimo Derrida ai risvolti etico-politici e al tema dell’altro in quanto autrui, alla ricerca di un diverso modo di pensare l’entre nous.
Questo nuovo lavoro coglie il frutto più recente e maturo del pensiero del filosofo francese, il cui seme Caterina Resta aveva intravisto nel volume del 1990: in un confronto divenuto ormai esplicito e serrato con il pensiero di Lévinas e con la comune radice ebraica - a cui l’autrice dedica un illuminante e importante capitolo, che offre una ricostruzione esaustiva e affascinante del dialogo tra i due grandi filosofi francesi - Derrida intravede nella figura dello straniero e dell’ospite la possibilità di quell’evento dell’altro che, inatteso e inaspettato come il Messia, scardina e interrompe il continuum del tempo cronologico, introducendovi le possibilità inaudite di un tempo kairologico, mettendo radicalmente in discussione lo stesso statuto del soggetto. Un radicale rovesciamento, dunque, dell’ermeneutica della decostruzione derridiana, considerata da molti come esempio di assoluta irresponsabilità del pensiero, occupato unicamente in un estetizzante quanto cinico gioco basato su una pratica nichilistica e distruttiva, volta a smantellare il "logofonocentrismo", nome dato da Derrida alla tradizione del pensiero occidentale. L’originale e acuta interpretazione di Resta mostra come la responsabilità e la giustizia siano, in realtà, gli snodi fondamentali su cui la decostruzione, negli ultimi lavori del filosofo francese, si de-cide - o fosse sin dall’inizio decisa - radicalmente per altri, richiamando in ogni istante a rispondere dell’altro e per l’altro, proseguendo su quei tracciati che già da sempre conducevano a quello che oggi ci sorprende come un rinnovato e dirompente pensiero dell’ospitalità e dell’accoglienza dell’altro, di altri.
Già l’incipit - un breve quanto denso commento, posto quasi ai bordi dell’immagine scelta per la copertina (un particolare della Cena in Emmaus di Caravaggio) - lascia affiorare il tema chiave dell’intero volume: l’evento dell’altro non è rivestito di gloria e onore ma, come il Messia dell’episodio evangelico, "ebraicamente, è lo Straniero che incontriamo per strada, lo Sconosciuto dal quale si ricevono insospettabili ammaestramenti; è il Clandestino senza nome, forse addirittura il Perseguitato, la cui identità di altro uomo è celata per la cecità dei nostri occhi che non ne sanno riconoscere il Volto; è l’Ospite cui dobbiamo accoglienza alla nostra tavola e con il quale siamo chiamati a condividere i pasti alla mensa comune" (p.10).
A quest’ospite non ci si può che rivolgere dandogli del tu, e la scrittura di Derrida si piega al soffio, o al vento impetuoso, dell’altro assumendo la forma dell’apostrofe, quel tono diretto, quasi timbro di voce, che sul foglio bianco si traduce nella signature, la firma, singolare impronta d’esistenza individuale, incrocio di nome e tempo nello spazio dell’incontro che ogni carte postale, ogni lettera, ogni invio dischiude. L’unicità dell’adresse e della signature non delimita uno spazio identitario, ma i bordi di un appello, di uno spazio gravido d’evento, in cui si possano dare cor-rispondenze: "Poco importa, infatti, la presunta identità - miraggio di ogni comunicazione trasparente - del destinatore e del destinatario: quel che davvero interessa, ciò di cui "ne va", è che la destinazione sia ogni volta unica nel suo indirizzo, che ogni volta si indirizzi a te e a nessun altro e che tu [...] semplicemente l’accolga dicendole di sì [...]. Per questo essa, nonostante ogni ’buona volontà’ e intenzione, può non raggiungerti mai, cadere in altre mani, anche quando fossero proprio le tue" (p. 22). L’importanza di questo Ent-sprechen (cor-rispondere) sarebbe impossibile da comprendere senza tenere in giusta considerazione il corpo a corpo che Derrida sostiene con tutto il pensiero di Heidegger, a partire da Sein und Zeit fino a Zeit und Sein, concentrandosi sui temi dell’ascolto e dell’evento, come impegno alla e nella parola.
L’evento non s’inserisce affatto in un orizzonte di prevedibilità e calcolabilità, anzi scardina ogni programma, porta il tempo out of joint, poiché se davvero si sapesse cosa si attende e il momento preciso in cui tale attesa verrà soddisfatta, non ci sarebbe, non si darebbe, alcun evento, ma tutt’al più l’esecuzione di un programma. L’evento arresta il tempo cronologico, interrompe la scansione ripetitiva delle lancette d’orologio e, in una sorta di escatologia messianica, irrompe sulle ali del giovane Kairos dal lungo ciuffo che dobbiamo saper ’acciuffare’: "Non tutto ciò che accade ha dunque il carattere di evento, ma solo quel che e-viene nella sua assoluta e irriducibile singolarità, quell’unico che, nell’attesa, non mi potevo aspettare e che perciò mi sorprende, fino a mozzarmi il fiato" (p. 31).
Ciò non significa che occorra predisporsi al futuro, dimentichi di ogni passato. Anzi, Derrida stesso avverte che non c’è a-venire senza eredità e possibilità di ripetere. Si tratta di intrattenere un rapporto differente con il passato, che non viene conservato sotto forma di archivio onnifagocitante, ma riattivato mediante una decisione, una responsabilità, a cui l’eredità stessa chiama: quella di esserne testimoni, prestando fede all’impegno preso e alla parola data, liberamente. Testimoniare di un’eredità ricevuta in dono non vuol dire trasmetterne esattamente i contenuti: questo è un gesto impossibile alla radice, visto che si eredita sempre a partire da un segreto che l’eredità stessa serba nell’offrirsi a noi, un inattingibile che non si può confidare e che rivela una condizione di radicale finitezza.
Questo pensiero, allora, deve misurarsi costantemente con il limite, ripensare soglie e frontiere, nello spazio, nel tempo, nel linguaggio, nell’infinita differenza di ogni soggetto con sé stesso e nel suo essere assoggettato all’infinita differenza dell’altro, che arriva e, sorprendendomi, mi reinventa: ospite io stesso di me stesso e di colui che arriva, a sua volta ospitante e ospitato. Questo è il cuore dell’ospitalità all’evento, in cui un arrivante assoluto espropria, disidentifica, mette in questione ogni chez soi, in un imprevedibile rovesciarsi di estraneo e familiare, fino a trasformare - come ha ben visto Lévinas - colui che ospita in ostaggio di colui che è ospitato, spingendo la legge dell’ospitalità verso l’impossibile di una giustizia che impone di accogliere l’arrivante senza chiedergli nulla, neanche il nome: "Muta accoglienza, a braccia aperte, nel più perfetto silenzio in cui si apre una porta, quasi che solo esso sia in grado di custodire quel segreto che l’arrivante ci offre in dono e che consente un’ospitalità incondizionata nei confronti dell’altro: lasciarlo straniero nel gesto che lo accoglie, inappropriabile" (p. 49).
Qui si incrocia uno dei temi più scottanti che attraversa, come una ferita originaria, le politiche dell’ospitalità: come tenere insieme l’esigenza urgente e imprescindibile della legge dell’ospitalità, che impone un’apertura incondizionata, con le leggi dell’ospitalità, chepretendono di regolamentare giuridicamente un’istanza ontologica, prima che etica, e cioè il fatto che l’altro viene prima di me? In realtà La legge dell’ospitalità ha bisogno delle leggi dell’ospitalità, se non altro come frontiera da superare, limite da trasgredire, per avvicinarsi sempre più a quell’imperativo di assoluta apertura di cui essa è portatrice.
Mentre la giustizia appartiene al registro del dono, con l’incommensurabile responsabilità nei confronti dell’altro, al diritto spetta "comparare l’incomparabile", calcolare, equiparare. Derrida si appella dunque a una dimensione escatologica e messianica della giustizia, senza che ciò rinvii a un particolare orizzonte religioso: si tratta di un "messianico senza Messia", di un "riconoscimento della Torah prima del Sinai", come ha sostenuto Lévinas, da inscrivere nell’ordine di una promessa incondizionata che non può essere garantita a priori da nessun programma politico, speranza di una democrazia a-venire: "Il dio che ama lo straniero avrebbe annunciato non a tutti, ma singolarmente a ciascuno, la legge dell’ospitalità come un umanesimo dell’altro uomo, speranza di ogni umanità a venire" (p. 89).
Come riuscire a essere giusti nello iato tra diritto e giustizia? Che cosa garantisce che una decisione non sia semplicemente legale ma giusta? La decisione di Abramo rispetto al sacrificio del figlio Isacco è da Derrida considerata emblematica, poiché rende impossibile la decisione stessa, assoggettata a due imperativi ugualmente esigenti e, proprio per questo, l’unica davvero responsabile. In questo suo proporsi come esperienza dell’impossibile, la giustizia rivela il suo legame con l’evento, sorprendendo la stessa soggettività del soggetto e rivelandolo esposto ontologicamente all’altro, responsabile prima che libero.
Si annuncia così l’urgenza di una politica che decostruisca ogni orizzonte genealogico, che attribuisce diritti a partire dalla nascita e dalla discendenza, come anche ogni schema basato sulla fratellanza, volto a garantire valore solo alla comunità di sangue, spettri sempre pronti a seminare terrore e morte, anche nella nostra epoca in cui la globalizzazione teletecnica e la conseguente deterritorializzazione, lungi dall’offrire un mondo armoniosamente pacificato, hanno visto la risorgenza di localismi e nazionalismi esasperati, contraccolpo allo sradicamento totale e omologante, che ha privato di ogni possibilità di avere una propria dimora e di poter offrire, quindi, un’ospitalità: "Una politica dell’ospitalità non può non riconoscere lo struggente desiderio della singolarità, dell’idioma, di ciò che è proprio: che altro si avrebbe da offrire all’ospite che ci visita se non il dono della nostra differenza? Perfettamente uguali non saremmo anche necessariamente indifferenti?" (p. 72).
Ogni politica dell’ospitalità, ogni politica a-venire, deve rispondere di un difficile compito: quello di essere fedele alla doppia ingiunzione che impone da un lato il rispetto della singolarità e dall’altro la totale ospitalità offerta a ogni altro in quanto altro, nella costante vigilanza che l’esigenza del sangue e del suolo non rinasca dall’interno del desiderio della dimora e dell’idioma. Rischio sempre presente che apre alla possibilità ineludibile che ogni hospes si trasformi in un hostes, anzi nel più acerrimo inimicus.
La scommessa e la promessa di questa politica a-venire, o meglio di un possibile avvenire della politica, è quella di un "legame che sleghi", di una "comunità di coloro che non hanno comunità", come l’ha chiamata Bataille, amicizia del dis-astro, per usare un’espressione di Blanchot, o amicizia stellare degli astri, secondo le parole di Nietzsche, che sappia rinunciare a ogni comune, a ogni come-uno, in vista di un essere-insieme-altrimenti, fondato sulla con-divisione del segreto. Amicizia nella condivisione del silenzio e della solitudine.
L’intraducibilità e l’intrasparenza, proprie di ogni singolarità, alludono a un resto inappropriabile che rende la separazione insormontabile: "Ma come testimoniare di questo ’tacere tra amici’, del tacere l’uno all’altro, l’uno davanti all’altro, ’come si può stare assieme per testimoniare il segreto, la separazione, la singolarità?’ E, domanda ancora più incalzante, può esservi una politica di o per questa comunità di coloro che non hanno comunità, è possibile ’fondare una politica della separazione?’ Una politica, una democrazia che dovrebbero farsi carico, che dovrebbero cor-rispondere all’intrattabilità di questo tratto, di questo ’tra’ che è la condizione di tutt’altra comunità" (p. 86).
Dunque, la questione urgente è se davvero si possa amare lo straniero in quanto tale, se possa esistere un’aimance indirizzata all’unico, all’amico nella sua totale differenza e inappropriabilità, che non scada in un bene come-unitario distribuito indistintamente ai tutti senza volto: "Al di là del comune e della comunità, non sarà forse ’ospitalità’ il nome di questa aimance, l’altro nome di una politica a-venire?" (p. 88). L’ospitalità, al di là del bene e del male di ogni comunità, dice infatti un altro tempo, dona un altro tempo, nell’attesa di quel Messia che è già da sempre qui e che pure deve ogni volta arrivare, clandestino e straniero: lui che, al di là di ogni nome proprio, nomina proprio il dono del tempo. L’evento dell’altro.
Indice---Introduzione: L’a-venire della decostruzione 1. L’evento dell’altro (I. Gli effetti della scrittura; II. L’apostrofe; III. L’invenzione dell’altro; IV. La responsabilità della risposta) 2. L’evento e (è) l’impossibile (I. L’inatteso; II. Ereditare; III. L’a-venire) 3. Politiche dell’ospitalità (I. Ospitalità; II. Diritto e giustizia; III. Decisione e responsabilità. IV. Una politica a-venire V. Con-dividere il segreto; VI. Messianico senza Messia) 4. Un contatto nel cuore di un chiasmo: Derrida e Lévinas (I. Incroci; II. Il passo al di là; III. Alterità e scrittura; IV. Un’etica prima dell’ontologia. V. Addio; VI. L’accoglienza)
Caterina Resta è ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università di Messina, dove insegna anche Filosofie del Novecento. Si è occupata di Martin Heidegger, Friedrich Nietzsche, Ernst Jünger e Carl Schmitt. È interessata, inoltre, al tema della differenza e dell’alterità, avendo approfondito, nell’ambito della filosofia francese, il pensiero di Jacques Derrida, Jean-Luc Nancy e Emmanuel Lévinas. È anche fra i maggiori studiosi di Geofilosofia. Tra i suoi volumi più recenti: La Terra del mattino. Ethos, Logos e Physis nel pensiero di Martin Heidegger (Milano 1998), Stato mondiale o Nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso (Roma 1999), Passaggi al bosco. Ernst Jünger nell’era dei Titani (Milano 2000, con Luisa Bonesio).
Un appello all’Europa della cultura
di Pier Luigi Sacco (Il Sole-24 Ore, 4 marzo 2012)
L’Italia, e in grande misura l’intera Europa, deve oggi fronteggiare una sfida non semplice: quella di ritrovare la via della crescita. È una sfida che non può esaurirsi nella messa a punto di vecchi modelli, e che richiede invece in larga misura un atto di coraggio e di visione; due ingredienti che mancano ormai da troppo tempo nelle pentole in cui si cucinano le ricette della politica economica nazionale e continentale. Che la cultura debba far parte in modo importante del nuovo scenario è una opinione ancora minoritaria ma sempre più diffusa; e prova ne è la sorprendente risposta suscitata dal Manifesto pubblicato da questo giornale due settimane orsono, e che è stato sottoscritto entusiasticamente non soltanto da gran parte del mondo culturale italiano, ma anche da esponenti di primo piano della scena europea come il commissario all’Istruzione e alla cultura Vassiliou e il ministro danese della Cultura Elbaek: una eventualità difficile da pronosticare anche per i più inguaribili ottimisti.
Nell’opinione di molti la cultura è tutt’altro che una leva di crescita, è piuttosto un buco che risucchia risorse invece di produrne e che non a caso è quindi destinata a subire tagli selvaggi in tempi di crisi. Ma questo punto di vista, che peraltro fa riferimento a una concezione decisamente obsoleta del ruolo economico e sociale della cultura, è decisamente smentito dai fatti. Come dimostrano gli studi prodotti in questi ultimi anni su iniziativa della Commissione europea, e replicati in modo sempre più articolato e particolareggiato a livello nazionale e regionale, il sistema della produzione culturale e creativa è non soltanto un meta-settore industriale a tutti gli effetti, ma anche uno dei più grandi, superiore per fatturato ai principali comparti del manifatturiero e alla maggior parte dei comparti del terziario avanzato; non a caso, già nel 2005 esso si attestava in Europa a un livello doppio di quello dell’industria automobilistica, un divario che col tempo è andato peraltro ampliandosi piuttosto che ridursi. Non soltanto: questi stessi studi dimostrano chiaramente che la produzione culturale e creativa è uno dei maggiori e più promettenti terreni di coltura della nuova ondata imprenditoriale di prima generazione non soltanto in Europa ma anche in molte economie emerse ed emergenti dell’Asia, e persino in contesti in via di sviluppo come quello africano.
Ciò malgrado, sia in Italia sia in Europa si fa fatica a cogliere il senso di questo scenario e delle opportunità che porta con sé. In Italia, la cultura subisce tagli che rischiano di comprometterne la sostenibilità, mentre nel nostro continente essa stenta a trovare uno spazio e un ruolo all’altezza del suo potenziale nella strategia di Europa 2020, come conferma purtroppo anche l’esclusione del patrimonio culturale dal prossimo Ottavo Programma Quadro della Ricerca e Innovazione; a differenza di quanto accade per settori di attività più legittimati e più strettamente legati nell’opinione corrente ai temi dello sviluppo e della crescita.
È particolarmente singolare che ciò avvenga in un Paese come il nostro, che ha una dotazione di capitale culturale tangibile e intangibile del tutto formidabile e una identità nazionale legata come poche altre alle tematiche della cultura nell’immaginario globale. Le opportunità connesse alla valorizzazione di questo patrimonio nell’ottica di un nuovo modello di crescita sono enormi, e non passano soltanto dal turismo culturale, ma anche e, in prospettiva, soprattutto dalla produzione di cultura: in una fase in cui la ricchezza si genera appunto soprattutto attraverso la capacità di dar vita a piattaforme digitali di contenuti che si inseriscono in modo sempre più immersivo nella esperienza quotidiana di tutti noi - dalla progettazione allo shopping, dall’informazione allo svago, dallo studio all’organizzazione e alla gestione dei processi produttivi -, la ’materia prima’ che alimenta queste nuove catene del valore in rapidissima crescita dimensionale ed economica è appunto la cultura in tutte le sue molteplici forme, per cui i Paesi che sono ricchi di patrimonio storico-artistico e sono disposti a mettersi in gioco sulla frontiera dell’innovazione coniugando creatività tecnologica e culturale possono costruire su tali premesse una leadership competitiva che può davvero avviare un nuovo e robusto ciclo di crescita. Non è un caso se economie emergenti quali la Cina o il Brasile stanno investendo sullo sviluppo della propria industria culturale e creativa risorse ingentissime, e se alcune delle economie avanzate di maggior successo e in grande crescita quali ad esempio la Corea del Sud o l’Australia si stanno profilando in modo molto efficace e aggressivo proprio nei settori della cultura e della creatività, attraendo investimenti e talento.
Non è troppo tardi per l’Italia e per l’Europa: ci sono ancora margini per recuperare il terreno perduto, ma c’è davvero poco tempo da perdere. E per vincere questa sfida è necessario in primo luogo superare gli sterili dibattiti circa il ruolo e la responsabilità del pubblico piuttosto che del privato nell’investire in cultura. Tutti e due possono e debbono avere un ruolo ben preciso. Quello dello Stato è investire nei settori che non possono assicurare margini di profittabilità tali da rendere sostenibile un investimento esclusivamente privato, ma che nondimeno sono fondamentali per alimentare le ricerche più innovative e sperimentali dalle quali si approvvigionano le forme di produzione più profittevoli e orientate al mercato. Quello del privato è, da un lato, il sostegno a quelle forme di produzione culturale che si legano in maniera più strategica ai propri settori di attività e ai propri territori di riferimento e, dall’altro, quello di sviluppare il più possibile il macro-settore dell’industria culturale e creativa, fornendo energie imprenditoriali, capitali e talento nella consapevolezza che nell’economia globale dei prossimi vent’anni questo è uno degli ambiti nei quali potremo ancora essere protagonisti, rimanendo sulla frontiera dell’innovazione e competendo su un mercato enorme e in rapida crescita, ricco di nicchie molto diversificate e in alcuni casi decisamente profittevoli. Tanto per il pubblico che per il privato, c’è una responsabilità congiunta nella salvaguardia del nostro patrimonio culturale, che non è soltanto un archivio straordinario e insostituibile di creatività, valori estetici, idee senza tempo, ma anche una materia viva, che continua a costruirsi e a evolvere ogni giorno, sotto i nostri occhi, tanto più quanto più la nostra creatività è all’altezza del passato da cui si alimenta.
Egonomia
Così l’individuo senza società ha cancellato la politica
di Franco Cassano (la Repubblica, 01.03.2012)
Tutto è iniziato quando le conquiste degli anni Sessanta (diritti del lavoro, consumi di massa ed espansione dello stato sociale) hanno incrinato il compromesso tra capitalismo e democrazia nato in Occidente dopo la Seconda guerra mondiale. Lo stato nazionale, divenuto democratico, si rivela pericolosamente esposto alle pressioni provenienti dal basso: la massima "un uomo - un voto" ha una grammatica ugualitaria difficilmente compatibile con gli imperativi della redditività e del profitto. La controffensiva capitalistica che parte negli anni Settanta segue quindi una strategia nuova: essa non cerca lo scontro frontale, ma svuota la politica, ne ridimensiona drasticamente la sfera.
I flussi del capitale finanziario si sottraggono sempre più al controllo degli stati nazionali e, liberi da ogni vincolo, moltiplicano a dismisura la propria forza. La politica invece rimane ancorata alla vecchia casa dello stato nazionale, costretta a fronteggiare, con budget sempre più ridotti e contestati, le pressioni che vengono dai cittadini. Nel nuovo quadro dell’economia globalizzata il suo compito principale non è più quello di dirigere, ma di garantire un certo grado di coesione sociale; essa non può più coltivare disegni ambiziosi, ma solo rattoppare e tamponare. E’ allora che la politica e i suoi interpreti iniziano a perdere autorità e qualità: le loro "disinvolture" etiche, che le ideologie avevano permesso di riscattare e trasfigurare, non possono più nascondersi sotto la gonna di una grande giustificazione.
E questa politica degradata e improduttiva appare al senso comune sempre più solo come lo strumento attraverso cui una "casta" custodisce la propria auto-riproduzione. E’ una sorta di delitto perfetto: la decadenza della politica, che nasce soprattutto dal fatto che il grande capitale l’ha abbandonata al suo destino, viene tranquillamente imputata all’insaziabile appetito dei suoi protagonisti, mentre il potere vero gode della massima libertà di movimento e di tutte le franchigie.
Ma sarebbe profondamente sbagliato limitarsi ad osservare solo ciò che avviene nei piani alti della società, il conflitto tra le élites. Se la controffensiva liberista fosse rimasta nelle stanze del nuovo potere non sarebbe riuscita ad affermarsi, come poi è successo, e si sarebbe trovata di fronte ad una massa immensa di nemici. Invece essa ha sbaragliato l’avversario perché si è rivelata capace di produrre una forte e capillare egemonia. La grande narrazione che essa propone sa parlare anche al popolo, perché ha messo al centro dell’immaginario il tema dell’affermazione individuale, del successo: per realizzare i nostri sogni non abbiamo bisogno degli altri, ma solo di una grande fiducia in noi stessi. Il legame con gli altri può solo bloccarci, mentre, se saremo compiutamente individui, un intero mondo è a disposizione. Non è un caso che proprio negli anni Settanta questo mito conquisti il centro della scena: Rocky Balboa e Tony Manero sono i protagonisti di due film famosi, due favole popolari sul tema del successo e della redenzione individuale. Stallone e Travolta (testimonial perfetti in quanto figli di immigrati) diventano delle star perché i loro film parlano di eroi che provengono dai piani bassi della società. E anche se è vero che solo "uno su mille ce la fa", sono in mille a sognare di farcela specialmente quando le altre vie non sembrano praticabili.
E’ questa irruzione dell’individuo a completare dal basso quel ridimensionamento della politica a cui il grande capitale aveva dato inizio dall’alto. "La società non esiste, esistono solo gli individui", diceva la Thatcher, e l’unica mediazione possibile tra individui soli di fronte al proprio destino, è quella del mercato. Il primato del mercato tiene insieme i capitali senza confini e i sogni degli individui. E una società siffatta, che non vede più contraddizioni sociali, ma solo successi o sconfitte individuali, non sembra aver più bisogno della politica.
Dal Quarto Stato di Pellizza da Volpedo siamo passati alle solitudini di Hopper. I progetti e il cuore degli uomini sono trasmigrati fuori della politica. A quest’ultima spetta solo il compito di garantire la libertà di movimento degli individui e delle merci, e un grado minimo di ordine pubblico. La società civile non è più il luogo di formazione delle domande collettive, ma la trama degli interessi privati, non è l’agorà, ma il mercato.
Ma dopo tre decenni di egemonia incontrastata questa cura fondata sulla libertà dei capitali e dell’individuo inizia a mostrare la corda. La nostra società è attraversata da lacerazioni e disuguaglianze crescenti prodotte in gran parte dai giochi spericolati del capitale finanziario. Ma l’egemonia liberista inizia a logorarsi anche ai piani bassi, perché la carta dell’individualismo non riesce più a reggere il peso che le è stato scaricato addosso, a risalire il piano inclinato delle disuguaglianze crescenti. Certo, essa riesce ancora a tenere gli uomini lontani gli uni dagli altri, a impedire che riconoscano ciò che hanno in comune, ma remunera sempre di meno. Né sarà l’ideologia debole e ambigua della meritocrazia a riassestare l’edificio. Certo, essa può lubrificare i canali della mobilità sociale, ma si tratta di ben poca cosa se tanto commosso rigore serve solo a cooptare i migliori nelle aree più forti, mentre lascia cadere via con l’altra mano tutto il resto, le Grecie del mondo. Ma sono proprio le Grecie a smascherare il gioco, che si gioca solo fino a quando giova ai più forti. Se si avrà la forza di non lasciarle sole, potrebbero diventare l’inizio di un’altra storia.
Dal canto suo l’individuo, costretto a vivere in una costante precarietà ed incertezza, ha iniziato a sospettare di non essere più quello che ce la fa, ma uno dei novecentonovantanove. Anche per questo ogni tanto una politica diffusa sembra riaffacciarsi nella società: per macchie, per ondate che, pur disperdendosi, mostrano che le crepe dell’edificio in cui abitiamo si stanno allargando, anche se l’orchestra ha l’ordine di continuare a suonare. Eppure queste tensioni rifluiscono troppo spesso su se stesse, non riescono a decollare ed espandersi, a costruire una cornice teorica e pratica stabile per la politica, un nuovo paradigma di riferimento. E qui si torna a quanto si è detto all’inizio: fino a quando la politica si confronterà con le tensioni sociali rimanendo priva di ogni peso sulle grandi decisioni, non riuscirà a produrre soluzioni e finirà per avvitarsi nella spirale dello screditamento.
Se vuole ripartire la politica democratica deve far capire a tutti qual è il punto decisivo: essa deve tornare ad avere potere, costruire meccanismi di controllo sui movimenti del capitale finanziario, porre fine alla latitanza di quest’ultimo rispetto alle sofferenze di quel pianeta in cui si aggira come un uccello predatore. Essa deve mutare il proprio rapporto di forza con l’economia, ri-costruire un rapporto equilibrato tra capitalismo e democrazia, tra consumatori e cittadini, tra libertà ed uguaglianza, tra il presente e il futuro.
Si tratta di un passo tutt’altro che semplice: un paradigma in declino, si sa, continua ad avere influenza e ad essere popolare mentre quello in gestazione è visibile solo a pochi, che è facile scambiare per visionari. Ma la direzione di marcia è tracciata perché l’irresponsabilità del capitale finanziario è diventata indecente e la timidezza con cui essa viene affrontata dai governi del mondo è sempre meno accettabile. Ciò che appare innegabile è che confidare nella politica senza porre il problema del suo ricongiungimento con il potere è tempo gettato via. Chi esita e ha paura ricorda quella poesia di Brecht in cui gli abitanti di una casa in fiamme, invece di uscire si attardano a chiedere a Buddha che tempo fa fuori, se piove o tira vento. A costoro, risponde Buddha, non abbiamo niente da dire.
L’Europa uccide la madre Grecia
di Angelo d’Orsi (il Fatto, 29.02.2012)
Si susseguono appelli per la Grecia: gli ultimi due, in ordine di tempo, assai accorati, sono di una dozzina di intellettuali francesi e di un gruppo di cittadini greci. L’uno e l’altro chiedono adesioni a livello internazionale, sottolineando la gravità della situazione, ossia individuando nella Grecia una sorta di capro espiatorio su cui i corvi della grande finanza internazionale si aggirano sperando muoia, o si sottometta a un regime iugulatorio, che espropria non solo lo Stato greco, ma l’intera popolazione di qualsivoglia diritto a una esistenza dignitosa, e indipendente. La Grecia come modello della “nuova Europa”, davvero delle Banche, sia che Atene resti dentro il recinto dell’Unione, sia, preferibilmente, che ne esca: a quel punto si potrà persino accelerare il processo di unificazione, nel quale sta emergendo l’inedito accoppiamento tra tecnocrati e poliziotti: il potere gelido, apparentemente imparziale, dell’eurodollaro, gestito da asettici e quasi invisibili personaggi, sorretto dal visibilissimo potere del manganello: si sta facendo ricorso, dappertutto, a un impiego forsennato di forza pubblica (al servizio di interessi privati, della voce di chi è più forte), in azioni di “contenimento” sempre più dure, che vogliono sottolineare come il potere del dio denaro è intoccabile e non può essere sfiorato dal dubbio, dalla contestazione, dalla messa in discussione.
LA GRECIA come cavia di un esperimento che mira a costruire una società di spaventose disuguaglianze, di dominio dei ricchi sui meno ricchi, e subordinazione ed emarginazione totale dei poveri, di cancellazione del welfare, di erosione dei diritti politici e civili e, infine, di “superamento” della forma democratica, nonché di messa in mora della sua sostanza. Sì, la Grecia rappresenta un momento devastante della nostra storia, come si legge in uno di questi appelli. Come difenderla? Come difenderci? Probabilmente, in questa situazione, gli appelli, nobili e certo importanti, forse anche necessari, suonano forse già fuori tempo massimo. Mi chiedo, mentre li sottoscrivo, a che cosa possano servire. Forse più che a salvare quel paese (ma da cosa? Da se stesso? O piuttosto dalle rapaci mani della “Troika”?), mirano a salvare la nostra anima: quasi che pregassimo un qualche iddio dopo aver consumato il crimine.
PERCHÉ di questo si tratta; e del più efferato tra i crimini: l’uccisione della madre. E v’è, in quello che sta accadendo, una sorta di paradossale, involontario richiamo alla tragedia greca: è un dramma degno di Sofocle o di Euripide questa Europa che fa a pezzi, e si accinge a sbranare la madre Europa, in nome di se stessa, della sua unità, della moneta unica, della pretesa sua identità “giudaico-cristiana” (una delle tante sciocchezze che ci hanno ammannito in questi anni: e le culture pagane, a cui erano informate tanto la Grecia quanto Roma? E la cultura islamica, che ha colonizzato ampiamente il Continente? E le culture dei tanti popoli “barbari” del Nord?). L’Europa, insomma, cancella la sua propria scaturigine, elide la matrice da cui è sorta, uccide simbolicamente la madre Grecia, quella che addirittura ha partorito il suo nome, e il mito fondativo: la giovinetta Europa, la bellissima fanciulla rapita da Zeus sulla spiaggia di Tiro (o di Sidone, le due note città libanesi), sotto le spoglie di un bianco toro, che la portò, seduta sulla sua groppa, nel mare Egeo, giungendo fino all’isola di Creta, dove si accoppiò con lei sotto le fronde di un platano. Da loro nacquero tre figli, tra cui Minosse, che di Creta divenne re, e in suo onore, e di sua madre dai grandi occhi (tale il significato del termine, secondo un’etimologia peraltro incerta), fu dato il nome di Europa alle terre a nord del Mediterraneo.
Ebbene, ora quelle terre, guidate in modo dittatoriale da una leadership algida e feroce, sulla madre Europa gettano il peso della loro spada pesantissima, chiedendo in cambio non soltanto oro - come fece Brenno, il capo dei Galli, nella Roma conquistata e saccheggiata -, bensì il sangue e la dignità di un popolo. Che per ora è quello greco, domani sarà il nostro.
La vera malattia che piega l’Europa
di Paul Krugman (la Repubblica, 28 febbraio 2012)
La situazione in Portogallo è terribile, ora che la disoccupazione vola addirittura oltre il 13 per cento. Ma va anche peggio in Grecia, Irlanda e probabilmente Spagna. Nel suo complesso tutta l ’Europa pare scivolare nuovamente nella recessione. Perché l’Europa è diventata il malato dell ’economia mondiale? La risposta è nota a tutti.
Purtroppo, però, buona parte di ciò che si sa non è attendibile, e le false voci sui guai europei stanno snaturando il nostro dibattito economico. È assai probabile che chi legge un articolo d’opinione riguardante l’Europa - oppure, troppo spesso, una presunta cronaca giornalistica degli avvenimenti - possa imbattersi in una di due possibili interpretazioni, alle quali penso in termini di variante repubblicana e variante tedesca. In verità, nessuna delle due rispecchia la realtà.
Secondo la versione repubblicana di come stanno le cose - uno dei temi centrali sui quali batte la campagna elettorale di Mitt Romney -, l’Europa si trova nei guai perché ha esagerato nell’aiutare i meno abbienti e i disgraziati, e staremmo quindi assistendo all’agonia del welfare state. Questa versione dei fatti, a proposito, è una delle costanti preferite della destra: già nel 1991, quando la Svezia si angosciò per una crisi delle banche innescata dalla deregulation (vi suona familiare?), il Cato Institute pubblicò un trionfante articolo su come ciò che stava accadendo di fatto confermasse il fallimento dell’intero modello del welfare state.
Vi ho già detto che la Svezia - che ha ancora oggi un generoso welfare - è al momento una delle migliori performer e ha una crescita economica più dinamica di qualsiasi altra ricca nazione? Ma procediamo con sistematicità: pensiamo alle 15 nazioni europee che usano l’euro (lasciando in disparte Malta e Cipro) e proviamo a classificarle in rapporto alla percentuale di Pil che hanno speso in programmi di assistenza sociale prima della crisi. Le nazioni Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna) che oggi sono nei guai spiccano davvero in tale classifica per il fatto di avere uno stato assistenziale insolitamente generoso? Niente affatto. Soltanto l’Italia rientra nelle prime cinque posizioni della classifica, ma anche così il suo welfare state è inferiore a quello della Germania. Ne consegue che i problemi non sono stati causati da grandi welfare.
Passiamo ora alla versione tedesca, secondo la quale tutto dipende dall’irresponsabilità fiscale. Questa opinione pare adattarsi alla Grecia, ma a nessun altro Paese. L’Italia ha avuto deficit negli anni antecedenti alla crisi, ma erano di poco superiori a quelli tedeschi (l’enorme indebitamento dell ’Italia è un’eredità delle irresponsabili politiche di molti anni fa). I deficit del Portogallo erano significativamente inferiori, mentre Spagna e Irlanda in realtà avevano plusvalenze.
Ah: non dimentichiamo che Paesi non appartenenti alla zona euro sembrano proprio in grado di avere grandi deficit e sostenere un forte indebitamento senza affrontare alcuna crisi. Gran Bretagna e Stati Uniti possono prendere in prestito capitali a un tasso di interesse che si aggira intorno al 2 per cento. Il Giappone - di gran lunga più indebitato di qualsiasi Paese europeo, Grecia inclusa - paga soltanto l’1 per cento. In altre parole, il processo di ellenizzazione del nostro dibattito economico - secondo il quale tra uno o due anni soltanto ci troveremo nella stessa situazione della Grecia - è del tutto sbagliato.
Che cosa affligge, dunque, l’Europa? La verità è che la questione è in buona parte legata alla moneta. Introducendo una valuta unica senza aver preventivamente creato le istituzioni necessarie a farla funzionare a dovere, l’Europa in realtà ha ricreato i difetti del gold standard, inadeguatezze che rivestirono un ruolo di primo piano nel provocare e far perdurare la Grande Depressione. Andando più nello specifico, la creazione dell’euro ha alimentato un falso senso di sicurezza tra gli investitori privati che ha dato briglia sciolta a enormi e insostenibili flussi di capitali nelle nazioni di tutta la periferia europea. In conseguenza di questi flussi, le spese e i prezzi sono aumentati, la produzione ha perso in competitività e le nazioni che nel 1999 avevano a stento raggiunto un equilibrio tra importazioni ed esportazioni hanno iniziato invece a incorrere in ingenti deficit commerciali. Poi la musica si è interrotta.
Se le nazioni della periferia europea avessero ancora le loro valute potrebbero ricorrere alla svalutazione - e sicuramente lo farebbero - per ripristinare quanto prima la propria competitività. Ma non le hanno più, e ciò significa che sono destinate a un lungo periodo di disoccupazione di massa e a una lenta e faticosa deflazione. Le loro crisi debitorie sono per lo più un effetto collaterale di questa triste prospettiva, perché le economie depresse portano a deficit di budget e la deflazione aumenta l’incidenza del debito.
Diciamo pure che comprendere la natura dei guai europei offre agli europei stessi benefici soltanto assai limitati. Alle nazioni colpite, in particolare, non resta granché al di là di scelte difficili: o soffrono le pene della deflazione oppure prendono la drastica decisione di abbandonare l’euro, il che non sarà praticabile da un punto di vista politico fino a quando - o a meno che - ogni altra cosa non avrà fallito (punto verso il quale pare che si stia avvicinando la Grecia). La Germania potrebbe dare una mano facendo dietrofront rispetto alle sue stesse politiche di austerità e accettando un ’inflazione più alta, ma non lo farà.
Per il resto di noi, tuttavia, capire bene come stanno le cose in Europa fa una bella differenza, in quanto circolano su di essa false teorie utilizzate per spingere avanti politiche che potrebbero rivelarsi aggressive, distruttive o entrambe le cose. La prossima volta che sentirete qualcuno invocare l’esempio dell’Europa per chiedere di far piazza pulita delle nostre reti di sicurezza sociale o per tagliare la spesa a fronte di un’economia gravemente depressa, ricordate di tenere bene a mente che non ha idea alcuna di ciò di cui sta parlando.
Il DNA della morale
di Roger Scruton (la Repubblica, 26 febbraio 2012)
Gli esseri umani sono differenti tra loro e vivono in modi differenti. Dovremmo accettare che siamo diversi per natura perché abbiamo seguito tanti percorsi dell’evoluzione? O dovremmo supporre che condividiamo con gli altri l’eredità biologica, ma che lo sviluppo si diversifica per l’ambiente e la cultura? Negli ultimi anni, la ricerca scientifica ha rivisitato il noto dibattito "natura-cultura", che resta un elemento centrale della nostra comprensione della natura umana e dell’etica. Per buona parte del XX secolo, gli studiosi delle scienze sociali hanno sostenuto che la vita umana è un fenomeno biologico a sé stante che procede lungo i canali tracciati della cultura, acquisendo in questo modo forme distinte e spesso reciprocamente inaccessibili. Ogni società tramanda la cultura che la definisce, analogamente a come trasmette la propria lingua. I più importanti aspetti della cultura - la religione, i riti di passaggio e le leggi - hanno sia la funzione di unificare le persone che vi aderiscono sia quella di dividere costoro da tutti gli altri.
Recentemente, gli psicologi dell’evoluzione hanno iniziato a mettere in discussione questo approccio. Anche se la cultura di una tribù può essere considerata un patrimonio ereditato - argomentano - resta da spiegare come questa nasce. Che cos’è che fornisce alla cultura la sua stabilità e la sua funzione? Nel tentativo di rispondere alla domanda si è cominciato a rafforzare il punto di vista secondo cui la cultura non fornisce la spiegazione definitiva di alcuna caratteristica umana importante e nemmeno quella della diversità culturale.
E non si tratta semplicemente delle costanti straordinarie che si riscontrano nelle diverse culture - i ruoli di genere, il tabù dell’incesto, le celebrazioni, la conduzione di guerre, le religioni, gli scrupoli morali o gli interessi estetici - ma del fatto che la cultura è anche parte della natura umana: è il nostro modo di essere. Le nostre gerarchie prevedono incarichi, responsabilità, lo scambio di doni e il riconoscimento cerimoniale. Tutti questi elementi sono compresi nel concetto di cultura, che così intesa è osservabile in tutte le comunità di esseri umani e solo in queste. Perché?
La spiegazione degli psicologi dell’evoluzione è che la cultura è un adattamento. Esiste perché forniva un vantaggio nella riproduzione ai nostri antenati cacciatori-raccoglitori. Secondo questo punto di vista, molte delle abitudini che il modello standard delle scienze sociali imputa alla cultura sarebbero variazioni locali di attributi acquisiti settanta o più millenni fa, nel Pleistocene, e che sono ormai profondamente "cesellati nel cervello" come altri adattamenti dell’evoluzione. In tal caso, le caratteristiche culturali potrebbero non essere tanto plastiche quanto sostengono gli studiosi delle scienze sociali.
Ci sono delle caratteristiche della condizione umana, come i ruoli di genere, che le persone ritengono essere di ordine culturale e pertanto modificabili. Se però si considera la cultura un aspetto della natura, allora non equivale più a qualcosa di "modificabile". Queste caratteristiche controverse della cultura potrebbero essere parte del patrimonio genetico del genere umano. La teoria evoluzionistica della moralità ha rafforzato questo nuovo pensiero. I fautori della cultura considerano l’etica una caratteristica acquisita, trasmessa dagli usi, dalle leggi e dalle punizioni con le quali una società riafferma i propri diritti nei confronti dei suoi membri. Lo sviluppo della genetica, però, apre nuove prospettive.
L’"altruismo" comincia ad apparire come una "strategia" genetica, che conferisce un vantaggio per la riproduzioni ai geni che lo praticano. In questo caso, si sostiene, il comportamento morale non sarebbe una caratteristica acquisita, ma ereditata. Le specie concorrenti che non sono riuscite a sviluppare sentimenti a questo punto sarebbero sparite. E ciò che vale per l’etica potrebbe valere anche per altre caratteristiche umane attribuite finora alla cultura: il linguaggio, l’arte, la musica, la religione, la belligeranza, tutte caratteristiche le cui varianti locali sono molto meno significative della loro struttura comune.
Nel suo saggio Tabula rasa, Steven Pinker riunisce le prove che lo portano a concludere che le nostre capacità fondamentali siano un risultato dell’evoluzione e quindi modificabili solo negli aspetti in cui la malleabilità conferisce un vantaggio nella riproduzione. Questo argomento è stato sviluppato meticolosamente ed è impossibile negare la consistenza delle prove scientifiche portate a sostegno. Si consideri, per esempio, la divisione dei ruoli osservabile dovunque tra uomini e donne. Le ragioni per concludere che si tratti del frutto di una selezione avvenuta nelle condizioni che minacciavano i nostri antenati di estinzione sono potenti. Tanto più se si considera l’evidente neotenia degli esseri umani, ossia la caratteristica di generare una prole dotata di un cervello grande, ma che non è in grado di prendersi cura di sé prima dei dieci anni (oggi nemmeno a questa età). La neotenia costituisce un enorme vantaggio nell’evoluzione, ma ha un costo biologico alto. Le specie i cui figli sono vulnerabili come la prole del genere umano hanno bisogno per potersi riprodurre di contare su una difesa organizzata e su una avanzata capacità di costruire rifugi. Su queste fondamenta è stato costruito il castello romantico della differenza sessuale.
I progressi delle neuroscienze cominciano a suggerire che, se da una parte il cervello è malleabile e adattabile, dall’altra esso presenta limiti e connessioni impressi senza la nostra consapevolezza. Di conseguenza alcuni meccanismi possono condizionare il nostro processo decisionale senza che noi riusciamo a contrastarli. Charles Whitman, che nel 1966 uccise 13 persone e ne ferì altre 32 sparando dall’alto della torre dell’Università ad Austin, Texas, ma che fino a quel momento era stato una persona dal carattere mite, spiegò di aver sentito che qualcosa non andava nella sua testa. Fu ucciso da un tiratore scelto della polizia e la sua autopsia rivelò un piccolo tumore che premeva sull’amigdala, una zona del cervello che le neuroscienze considerano la sede delle reazioni viscerali grazie alle quali proteggiamo il nostro spazio.
Si poteva quindi accusare Whitman per quello che aveva fatto? Partendo dal caso Whitman, David Eagleman (neuroscienziato americano della Rice University, ndr) sostiene che dovremmo rivedere la nostra concezione della responsabilità legale e morale, per arrivare ad accettare che la maggior parte di ciò che facciamo e sentiamo poggia su processi che non possiamo controllare. Il cervello si muove in incognito dietro le nostre decisioni consapevoli così come, passeggiando sulla coperta di un grande transatlantico, abbiamo la sensazione di spostarla con i nostri passi. Eagleman sostiene che la maggior parte delle cose che facciamo è più influenzata da processi inconsci che consci e che concetti quali responsabilità e libertà non sopravviveranno intatti ai progressi delle neuroscienze. Che sia stata la natura o la cultura a conformare il nostro cervello, questa conformazione non è per la maggior parte opera nostra e non è niente che vada a nostro merito o demerito.
Credo però che Eagleman non abbia descritto il problema correttamente. L’idea che lui propone di un "io" fragile che cavalca l’elefante della materia grigia pretendendo di averlo sotto controllo, non rappresenta in maniera giusta la natura dell’atto autoreferenziale. La parola "io" non si riferisce a una qualche "parte" conscia della persona, il resto della quale è un "esso" passivo e nascosto. L’"io" è uno dei termini della relazione io-tu, che è a sua volta un rapporto di responsabilità nel quale l’intera persona è coinvolta. L’uso del pronome corrispondente alla prima persona serve a sottoporre me stesso al giudizio dell’altro; serve ad assumersi la responsabilità per un gran numero di cambiamenti che avvengono nel mondo e in particolare per quelli di cui l’altro ragionevolmente mi può chiedere conto chiedendomi semplicemente "perché?". Questa domanda costituisce le fondamenta di una impresa cooperativa nella quale noi deriviamo dagli altri le ragioni, i significati e le scelte che ci rendono intelligibili.
Siamo certamente degli esseri umani, ma siamo anche persone. Gli esseri umani costituiscono un genere biologico e sta alla scienza descriverlo. Probabilmente lo farà così come suggerito dai biologi dell’evoluzione. Le persone invece non costituiscono un genere biologico né un qualsiasi altro genere naturale. Il concetto di persona prende forma in un altro modo. Il "perché?" che mira a comprendere la persona non è il "perché?" della deduzione scientifica. E la risposta prevede una concettualizzazione del mondo dal punto di vista della libertà e della scelta. Le persone fanno quello che fanno secondo quello che succede nel loro cervello. Tuttavia, quando il cervello è normale, il loro agire risponde anche ad altre ragioni, delle quali sono consapevoli e responsabili.
Possiamo educare i bambini con intrattenimenti che assopiscano il loro rapporto con il mondo reale e riconformare le reti neuronali dalle quali dipende il loro sviluppo morale. La ricerca della gratificazione immediata può togliere lo spazio al senso di agire responsabile che ha un respiro a lungo termine. Se i bambini imparano a salvare la loro memoria nei computer e la loro vita sociale in gadget portatili, allora gradualmente la memoria e l’amicizia appassiranno per ricomparire solo fugacemente come fantasmi degli archivi digitali. Se, al contrario, si permette ai bambini di interagire con figure reali, la grammatica della responsabilità della prima persona emergerà seguendo un proprio ritmo.
Descrivere le caratteristiche degli esseri umani come adattamenti non vuol dire affermare che le
comprendiamo. Di conseguenza anche se accettiamo gli argomenti della psicologia dell’evoluzione,
il mistero della condizione umana rimane. Questo mistero è contenuto in una singola domanda:
come si può spiegare in quanto animale e comprendere in quanto persona la stessa identica cosa?
(Traduzione di Guiomar Parada)
La metafisica è finita filosofiamo in pace
di Gianni Vattimo (La Stampa, 23.02.2012)
Un problema preliminare, con cui la filosofia contemporanea non può non fare i conti se vuole esercitarsi ancora come filosofia, e non solo come saggistica o come industriosità storiografica sul pensiero del passato, né ridursi a pura disciplina ausiliaria delle scienze positive (come epistemologia, metodologia, logica), è quello posto dalla critica radicale della metafisica. Bisogna sottolineare qui l’aggettivo «radicale», perché solo questo tipo di critica della metafisica costituisce davvero un problema preliminare ineludibile per ogni discorso filosofico consapevole della propria responsabilità. Non sono radicali quelle forme di critica della metafisica che, più o meno esplicitamente, si limitano a considerarla come un punto di vista filosofico fra altri, una scuola o corrente, che per qualche ragione filosoficamente argomentata bisognerebbe oggi abbandonare. [...]
La critica della metafisica è radicale, e si presenta come un problema preliminare ineludibile, una vera e propria «questione di metodo», là dove si formula in modo da non colpire solo determinati modi di far filosofia o determinati contenuti, ma la stessa possibilità della filosofia come tale, come discorso caratterizzato da un suo statuto logico e anche, inseparabilmente, sociale. Il maestro di questa critica radicale della metafisica è Nietzsche. Secondo lui, la filosofia si è formata e sviluppata come ricerca di un «mondo vero» che potesse fare da fondamento rassicurante alla incerta mutevolezza del mondo apparente. Questo mondo vero è stato di volta in volta identificato con le idee platoniche, con l’aldilà cristiano, con l’ a priori kantiano, con l’inconoscibile dei positivisti, finché la stessa logica che aveva mosso tutte queste trasformazioni - il bisogno di cercare un mondo vero autenticamente tale, capace di resistere alle critiche, di «fondare» - ha condotto a riconoscere la stessa idea di verità come una favola, una finzione utile in determinate condizioni di esistenza; tali condizioni sono venute meno, e questo fatto si esprime nella scoperta della verità come finzione.
Il problema che Nietzsche vede aprirsi a questo punto, in un mondo dove anche l’atteggiamento smascherante è stato smascherato, è quello del nichilismo: dobbiamo davvero pensare che il destino del pensiero, una volta scoperto il carattere non originario, ma divenuto e «funzionale», della stessa credenza nel valore della verità, o della credenza nel fondamento, sia quello di installarsi senza illusioni, come un «esprit fort», nel mondo della lotta di tutti contro tutti, nel quale i «deboli periscono» e si afferma solo la forza? O non accadrà piuttosto, come Nietzsche ipotizza alla fine del lungo frammento sul Nichilismo europeo (estate 1887), che in questo ambito siano destinati a trionfare piuttosto «i più moderati, quelli che non hanno bisogno di principi di fede estremi, quelli che non solo ammettono, ma anche amano una buona parte di caso e di assurdità»?
Nietzsche non sviluppa molto di più questa allusione ai «più moderati», ma è probabile che, come appare dai suoi appunti degli ultimi anni (gli stessi da cui proviene questo frammento sul nichilismo), l’uomo più moderato sia per lui l’artista, colui che sa sperimentare con una libertà che gli deriva, in definitiva, dall’aver superato anche l’interesse alla sopravvivenza. [...]
La questione circa la fine della metafisica, la sua improseguibilità, non è ineludibile solo o principalmente in quanto si riesca a dimostrare che essa costituisce il movente, esplicito o implicito, delle correnti principali della filosofia novecentesca; ma soprattutto perché pone in discussione la stessa possibilità di continuare a filosofare. Ora, questa possibilità non è minacciata tanto dalla scoperta teoretica di altri metodi, altri tipi di discorso, altre fonti di verità ricorrendo alle quali si potrebbe fare a meno di filosofare e di argomentare metafisicamente. Ciò che getta una luce di sospetto sulla filosofia come tale e su ogni discorso che voglia riprenderne su piani e con metodi diversi le procedure di «fondazione», di afferramento di strutture originarie, principi, evidenze prime e cogenti, è la smascherata connessione che queste procedure di fondazione intrattengono con il dominio e la violenza.
Il riferimento a questa connessione, sebbene possa apparire accidentale, è invece quello che, preso sul serio, rende davvero radicale la critica della metafisica; senza di esso, tutto si riduce a sostituire semplicemente alle pretese verità metafisiche altre «verità» che, in mancanza di una dissoluzione critica radicale della stessa nozione di verità, finiscono per riproporsi come istanze di fondazione. È difficile, come pure si sarebbe tentati di fare richiamandosi a Hegel, opporre a una tale «questione di metodo» l’invito a provare a nuotare gettandosi in acqua, cioè a cominciare di fatto a costruire argomentazioni filosofiche cercando se non sia possibile, contro ogni eccesso di sospettosità, individuare alcune certezze sia pure relativamente «ultime» e generalmente condivise. Tuttavia l’invito a gettarsi in acqua, l’invito a filosofare, non può provenire dal nulla; esso si richiama necessariamente all’esistenza di una tradizione, di un linguaggio, di un metodo. Ma le eredità che riceviamo da questa tradizione non sono tutte equivalenti: tra di esse c’è l’annuncio nietzschiano della morte di Dio, la sua «esperienza» più che teoria, della fine della metafisica e, con essa, della filosofia.
Proprio se si vuole accettare la responsabilità che l’eredità della filosofia del passato ci impone, non si può non prendere sul serio anzitutto la questione preliminare di questa «esperienza». Proprio la fedeltà alla filosofia è ciò che impone di non eludere, anzitutto, la questione della sua negazione radicale; questione che, come si è visto, è indistricabilmente connessa a quella della violenza.
La tentazione del muro
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 22.02.2012)
Con molta, troppa facilità ci stiamo abituando a dire che la bancarotta greca non sarebbe poi la catastrofe paventata da anni. Il male, incurabile, basterebbe allontanarlo, asportando Atene dall’Eurozona come si fa con un’appendicectomia. Quel che conta è evitare il contagio, e non a caso il Fondo salva Stati si chiama d’un tratto Firewall, muro parafuoco che serve a proteggere i sistemi informatici dalle intrusioni: che salverà chi è ancora dentro (l’Italia, per esempio) da chi, nell’ignominia, sta cadendo fuori.
Come la linea Maginot che i francesi eressero per proteggersi dagli assalti tedeschi negli anni ‘20-’30, Firewall evoca gli universi chiusi della clinica e della guerra: il miraggio d’un muro inviolabile rassicura, anche se sappiamo bene come finì il fortilizio francese. Cadde d’un colpo. Lo storico Marc Bloch parlò di strana disfatta perché il tracollo era avvenuto negli animi, prima che lungo la Maginot: «nelle retroguardie della società civile e politica», prima che al fronte.
In realtà nessuno ci crede, al chimerico Firewall che abita le fantasie e fiacca la ragione. Altrimenti l’Unione non avrebbe deciso, ieri, un ennesimo importante prestito alla Grecia. Altrimenti non ci sarebbe chi pensa, allarmato, a una nuova architettura dell’Unione: più federale, dotata di un governo europeo cui gli Stati delegheranno sovranità crescenti. Ci stanno pensando Berlino e forse Roma, anche se Monti ha appena firmato una lettera con Cameron e altri europei in cui non si parla affatto di nuova Unione, ma di completare il mercato unico. Così le cose procedono lente, e il problema cruciale (le risorse di cui disporrà l’Unione, per un possente piano di investimenti) nessuno l’affronta. In parte la lentezza è dovuta a corti calcoli prudenziali: ogni leader ha le sue elezioni. In parte si vuol vedere l’esito del dramma ellenico, e qui comincia la parte più torbida della storia europea che si sta facendo.
Ci sono momenti in cui sembra che i governi forti aspettino la bancarotta greca, per costruire l’Unione che dicono di volere. È la tesi dell’economista Usa Kenneth Rogoff, intervistato da Spiegel: una volta espulsa Atene, gli Stati Uniti d’Europa si faranno prima del previsto, grazie alla crisi. C’è, nell’aria, odore di capri espiatori. Ma è proprio vero che l’autodafé della Grecia genererebbe la nuova Unione? E quale Europa nascerebbe, se svanirà la pressione della crisi greca? Per ora, una cosa pare certa: Atene è in tumulto, e a forza di piani a breve termine mina l’eurozona e l’idea stessa di un’Europa solidale nelle sciagure. Difficile che quest’ultima si costituisca in federazione, se il primo atto consisterà nel gettare a mare i Paesi che non ce la fanno. L’operazione Firewall non è indolore per la Grecia, ma neppure per l’Europa.
È quello che hanno scritto sull’Economist Mario Blejer e Guillermo Ortiz, ex banchieri centrali dell’Argentina e del Messico, in un appello in cui si ricorda agli europei il costo della bancarotta di Buenos Aires nel 2002, e la diversità tra quel fallimento e quello temuto in Grecia. L’Argentina conobbe in effetti sei anni di crescita dopo la svalutazione del peso e lo sganciamento dal dollaro, ma nel mondo non c’era la recessione odierna, il risanamento fu distribuito lungo una decina d’anni, e il peso esisteva ancora. Invece la dracma non c’è più, e ricrearla sarebbe un salasso terribile (i debiti greci sono in euro: come ripagarli con dracme svalutate?). Infine, aggiungono i banchieri centrali, s’è persa memoria della veduta breve del Fondo Monetario, e di un tracollo che fu «straziante» per gli argentini. La loro bancarotta era obbligata mentre non lo è per la Grecia, che è pur sempre nell’Unione: «Chi propone l’uscita di Atene dall’eurozona sottovaluta le conseguenze devastanti che avrebbe. L’esperienza argentina dovrebbe servire non come esempio, ma come deterrente contro ogni idea di fuoriuscita».
Un avvertimento simile viene in questi giorni da Lorenzo Bini Smaghi. Sul sito del Financial Times, il 16 febbraio, l’ex membro dell’esecutivo Bce fa capire, senza dirlo chiaramente, che così come l’Europa oggi è fatta, così come fa sgocciolare le sue imperfette misure, il male non sarà curato. Esiziale, comunque, è la falsa sicurezza che si ostenta di fronte a un possibile fallimento, simile a quella esibita ottusamente nel 2008 quando fallì la società Lehman Brothers: «Il contagio finanziario opera in modi inaspettati, specie dopo gravi traumi come il fallimento d’una grande istituzione finanziaria o d’un Paese».
Il trauma colpirebbe la Grecia, ma anche le istituzioni europee: esse dimostrerebbero infatti una strutturale «incapacità di risolvere i problemi». Di qui la convinzione che il modello Fondo Monetario sia migliore: la sua assistenza è egualmente condizionale, ma almeno è prevedibile e prolungata. Non così l’Europa, che tiene Atene sotto la minaccia di continuo fallimento: una minaccia che «sfinisce il sostegno politico di cui (la disciplina richiesta) ha bisogno, e alimenta l’instabilità sui mercati finanziari». Forse è tardi per cambiar metodo, ma «se si vuol evitare un disastro non è mai troppo tardi».
Il piano europeo non può essere solo tecnico, mi dice Bini Smaghi: «Cosa succederà della Grecia se c’è un default? Una crisi sociale e politica nel cuore dell’Europa, con la democrazia di quel Paese a rischio. Il fallimento non sarebbe solo tecnico ma anche politico, perché se c’è la povertà e un regime autoritario il fallimento dell’Europa diventerebbe ovvio. Quale modello potrebbe rappresentare l’Europa agli occhi del mondo se uno dei suoi membri torna indietro nella storia?».
Ma com’è fatta esattamente l’Europa, per stare così male? È l’economia che vacilla, o sono malate le sue classi politiche, la sua cultura? Tutte e tre le cose in realtà barcollano, e l’Europa che uscirà da questa prova sarà forte o degenererà a seconda del modo in cui i tre mali insieme - economia, cultura, politica - saranno curati.
Culturalmente, stiamo ricadendo indietro di novant’anni, nei rapporti fra europei. Ad ascoltare i cittadini, tornano in mente le chiusure nazionali degli anni ’20-’30, più che la ripresa cosmopolitica del ’45. Sta mettendo radici un risentimento, tra Stati europei, colmo di aggressività. Le prime pagine dei giornali greci, da mesi, dipingono i governanti tedeschi come nazisti. Intanto Atene riesuma le riparazioni belliche che Berlino deve ancora pagare all’Europa occupata da Hitler. Dimenticata è la tappa del ’45, quando si ridiede fiducia alla nazione tedesca e ci si accinse a unire l’Europa. Quella fiducia aveva un preciso significato, anche finanziario: la Germania non doveva più risarcire nella sua totalità le distruzioni naziste. La politica delle riparazioni, che era stata la sua maledizione nel primo dopoguerra e l’aveva gettata nella dittatura, non doveva più esistere (Israele costituì un caso a parte).
Proprio questo si rimette in discussione, ed è la ragione per cui assistiamo a un formidabile arretramento. Quel che si fece nel ’45 verso la Germania, per motivi strategici e perché era mutata la cultura politica, non si è in grado di farlo con la Grecia. Gli errori commessi da Atene non sono crimini, e tuttavia urge espiare oltre che pagare. Son guardate con fastidio perfino le sue elezioni. La politica di riparazioni che le si infligge è feroce, crea ira, risentimento. E questo perché? Evidentemente non si vedono motivi strategici perché la Grecia resti in Europa: manca ogni visione del mondo, e la cultura non è più quella del ’45-’50.
La regressione ha effetti rovinosi sulla politica. Come può nascere l’Europa federale, se vince una cultura che ha poco a vedere con quello che gli europei appresero da due guerre? La scelta di un Presidente come Joachim Gauck, in Germania, è una buona notizia, perché la popolazione tedesca ha contribuito a questo clima di sospetti, anche se non sempre immotivati (perché assistere Paesi del Sud prigionieri volontari di una corruzione che a Nord si combatte?). L’Europa ha bisogno di popolazioni illuminate, non di capri espiatori, e Gauck che usa parlar-vero potrà aiutare. L’Europa ha bisogno di una crescita diversa, comune, non di anni e anni di recessione, di odi interni, di sospensioni della democrazia. Altrimenti la sua disfatta sarà di nuovo strana: nata nelle retroguardie civili, prima che nell’armata schierata lungo i muri anti-contagio
La lezione di Jules Isaac, un inno alla libertà oggi sempre più attuale
Da Atene a Auschwitz, chi ha tradito la democrazia
Parla delle vicende narrate da Tucidide ma ha negli occhi i collaborazionisti
Sua moglie e sua figlia moriranno ad Auschwitz, lui si salverà per un caso
di Ezio Mauro (la Repubblica, 21.04.2016)
LO splendore eterno della democrazia, tutta la fragilità della sua miseria sono rinchiusi nella vecchia borsa da professore che Jules Isaac si trascina dietro tra i campi e i boschi, i piccoli alberghi e i fienili della Francia meridionale, tra Aix-en-Provence, Chambon-sur-Lignon, Riom e Royat, scappando per nascondersi. Tutt’attorno, il governo di Vichy, l’umiliazione francese del collaborazionismo di Pétain con l’occupante nazista, la deportazione degli ebrei con tre convogli di mille persone che partono ogni settimana per i campi di sterminio. Isaac ha appena subito un rovesciamento totale della sua vita e non ha ancora visto il peggio. Ebreo laico di famiglia alsaziana, padre e nonno decorati con la Legion d’Onore per meriti militari, lui stesso ferito nella Prima guerra mondiale dopo 30 mesi di trincea.
Allievo di Bergson e compagno di Charles Péguy, scrive il manuale di storia su cui studieranno quattro generazioni di francesi e diventa Ispettore generale del ministero dell’Educazione Nazionale. Dal 1940, per le leggi razziali, il maresciallo Pétain che gli aveva chiesto di diventare il suo storiografo lo destituisce da ogni incarico, lo caccia dall’università, lo radia dall’Ordine della Legione. Il professore è bandito, deve lasciare Parigi, non sa dove andare. Ha un amico letterato che insegna ad Aix, lo raggiunge chiedendo rifugio. Mentre attraversa la linea di demarcazione, con la moglie Laure e i tre figli, legge il cartello del bando di regime: «Passaggio vietato ai negri e agli ebrei».
Cravatta, baffetti grigi, camicia bianca dal colletto floscio, Jules si salva quasi inconsapevolmente passando di mano in mano tra un intellettuale che lo protegge e un professore che lo nasconde, mentre a Parigi l’accademico Abel Bonnard denuncia lo scandalo di vedere «la storia di Francia insegnata ai giovani dai libri di un Isaac».
Nella semiclandestinità di Vichy la famiglia cambia nome, si chiama Marc. Ma la Gestapo si avvicina. Daniel, il figlio più grande, collabora con la Resistenza, i Marc finiscono sotto osservazione. All’inizio di ottobre del ’43 la polizia arresta il figlio minore, Jean-Claude, con la sorella Juliette e il marito. La madre parte subito per Vichy chiedendo notizie dei suoi: il giorno dopo la Gestapo verrà a Riom per arrestarla insieme col marito. Jules Isaac è fuori, sfugge per una casuale combinazione del destino al campo di Auschwitz dove moriranno la moglie, la figlia e il genero, mentre il figlio riesce a fuggire.
Solo, senza più libri né famiglia, il professore sopravvive scrivendo. Anzi, scrivendo trova la forza per resistere, il suo modo per testimoniare. A Aix-en-Provence aveva iniziato un lavoro sulla caduta della democrazia di Atene per mano degli oligarchi. Tra gli spettri di Vichy il saggio entra e esce dalla cartella, trova tavoli di fortuna, luci notturne, angoli rubati alla disperazione. Si dilata nel suo spazio morale, i piani della tragedia contemporanea e del dramma dell’antichità si confondono e si sovrappongono, mentre la lezione di civismo si unifica in un atto di fede disperato nella democrazia che testimonia se stessa, morendo.
Si può fare storia, nell’abisso di Vichy? Si deve, dice a se stesso Isaac, perché è l’unico modo che lui ha per restare se stesso mentre è privato di tutto, e soprattutto è il modo più giusto per interpretare il presente. «Voglio mostrare quale fu il ruolo del partito oligarchico di Atene, nemico mortale della democrazia - spiega nella prima pagina degli Oligarchi, ora pubblicato da Sellerio - Nel 404 avanti Cristo Atene dovette piegare le ginocchia davanti a Sparta. È nel 1942 dopo Cristo, nella Francia soggiogata dalla Germania hitleriana, che queste pagine sono state scritte. Duemilatrecentoquarantasei anni - la metà dei tempi storici - separano l’autore dal suo soggetto. Piuttosto che nello spazio ha scelto di fuggirsene nel tempo. Ed ecco quel che vi ha trovato».
La libertà, vista dal fondo del vortice nazista, è il cuore di ciò che Atene ha perduto e di ciò che aveva costruito negli anni della sua felicità insolente, con l’avorio, il marmo e l’oro dell’Acropoli che riflettevano la maestà imperiale di una democrazia sfavillante nella trinità senza mistero del potere, della ricchezza, delle belle arti riunite davanti al Pireo sui cui banconi si raccoglievano tutti i prodotti dell’universo. Se Sparta è quasi una creatura ideologica, incarnando nella sua durezza l’idealtipo oligarchico, Atene resta l’archetipo dell’ideale democratico, ingigantito nel suo fascino dallo splendore della città. Ma la bellezza non salva da sola la democrazia. Anzi, la bellezza si espone agli dei vendicatori che «per realizzare i loro disegni trovano sempre gli uomini adatti, all’ora adatta, quella del disastro».
Gli uomini sono gli oligarchi. La descrizione di questa classe-setta di Atene nel 404 a.C. vale per il potere collaborazionista del 1942, ma vale anche oggi, settant’anni dopo. Non sono la maggioranza moderata dell’aristocrazia ateniese (fatta di uomini d’ordine conservatori e moderati, nemici della violenza) ma il suo cuore radicale e ideologico, settario, nemico del popolo e della democrazia, trascinato da una capacità d’odio talmente assoluta da spingerli a puntare ogni volta sul peggio, a sognare il disastro da cui trarre profitto, invocando persino la guerra sperando che finisca male.
Le parole d’ordine sono quelle eterne dell’ideologia conservatrice d’ogni tempo, Natura e Forza, con Callicle che nel Gorgia di Platone spiega come «la legge sia fatta dai deboli e per loro. Ma la natura stessa dimostra che per essere giusti colui che vale di più deve prevalere su colui che vale di meno, il capace sull’incapace». Se dunque la democrazia è questa istituzione contronatura da abbattere a tutti i costi e senza rimorsi, occorre ancora l’occasione, quel “vento cattivo” capace di gonfiare le vele dell’oligarchia. Insieme, come nota oggi Luciano Canfora in una bellissima prefazione, a due cedimenti nella democrazia ateniese che si riprodurranno anche negli anni di Vichy: una forte corrente politica interna al Paese stremato pronta ad accogliere il “nuovo ordine”, il trasformismo opportunistico dei capi popolari pronti sia in Francia che ad Atene a passare con gli estremisti del nuovo potere.
Quando la flotta ateniese della spedizione di Sicilia è annientata, con la città in lutto, ecco per gli oligarchi l’occasione, anzi “la divina sorpresa”, come Charles Maurras nel 1942 saluterà l’arrivo al potere a Vichy del maresciallo Pétain: «Nel disastro e nella rotta le nostre idee si trovavano molto vicine a giungere al potere». Ad Atene “la divina sorpresa” è un’opinione pubblica sconcertata e provata dalla guerra, pronta a tutto.
Guardandosi attorno nelle campagne di Vichy, Isaac annota il clima del terrore ateniese: «Conversioni, servilismi verso i nuovi padroni, una splendida fioritura di vigliaccheria », mentre i Trenta oligarchi divideranno i pieni poteri, la violenza, la sopraffazione, perché è fatale che l’usurpazione finisca in repressione, finché i cittadini si ribellano e Atene intera giura nuovamente fedeltà alla democrazia. Ma ecco nel 406 il processo agli strateghi, con i membri delle famiglie degli equipaggi delle triremi morti senza sepoltura che prendono posto in Assemblea vestiti di nero e con la testa rasata a zero, insieme testimoni, vittime e accusatori dei sei strateghi schiacciati dalla forza simbolica della loro presenza. Così quando Callisseno chiede un verdetto collettivo, una sola sentenza che vincoli tutti gli accusati nella colpa mandandoli insieme al supplizio, a nulla vale il richiamo alla legge, al giuramento democratico, agli dei.
«Come presa da follia la democrazia era caduta nella trappola in cui i suoi nemici l’avevano attirata», scrive Isaac. Meno di un anno dopo Lisandro annienta la flotta di Atene che dopo l’assedio e la fame capitola accettando di subordinarsi a Sparta su terra e in mare: «Era la libertà nella schiavitù».
La Francia collaborazionista con Hitler che la occupa spiega a Jules Isaac quel che è potuto accadere alla democrazia ateniese: come quando un uomo perde conoscenza per uno choc violento, scrive, così capita che un popolo precipitato dalla sua grandezza resti come inerte, privo di coscienza, alla mercé delle canaglie o dei fanatici.
Così ad Atene il colpo di Stato va in scena «con il demos incatenato e il nemico all’Acropoli», come vogliono gli oligarchi. A loro infine si rivolgerà Trasibulo dopo aver sacrificato alla dea gratitudine per la città ritrovata dopo il terrore e l’arbitrio: «Ditemi, dunque, su che cosa voi fondate la vostra superiorità? Il popolo vale molto più di voi, dimentico del male che avete fatto saprà mantenere il suo giuramento».
La malvagità dei cosiddetti “buoni”, nota Isaac, sarà stata superata solo dalla clemenza dei “cattivi”. Da allora, aggiunge, «sono trascorsi 2344 anni, e mentre sto scrivendo queste ultime righe da qualche parte in Francia - quella che fu la Francia - il sabato 17 ottobre 1942, i “buoni” sono sempre così malvagi, resta da sapere se i “cattivi” saranno così magnanimi».
Nelle stesse ore i giornali fascisti di Vichy spiegavano le ragioni dei “buoni”. Basta scorrere gli articoli di Robert Brasillach su Je suis partout scritti proprio in quei giorni e appena ripubblicati in Italia da Settimo Sigillo: «Il dottor Goebbels ha pronunciato parole che sarebbe uno sbaglio non meditare sui popoli che si ripiegano su se stessi, sui popoli che sognano solo della passata opulenza e non si rendono conto dello sforzo che fa la Germania ». Ma «il cancelliere Hitler ha agito in fretta. In mezzo agli innumerevoli impegni che l’ultimo cavaliere dell’ordine teutonico ha nel suo territorio orientale, egli ha avuto per la Francia questo pensiero simbolico, significativo e pratico. Non siamo spariti dal campo d’azione del mondo nuovo». Tuttavia «l’attendismo non paga». «Per andare d’accordo con il nuovo mondo ci vuole una Francia nuova. Per andare d’accordo con l’Europa fascista ci vuole una Francia fascista».
Era l’11 settembre 1942 quando Brasilach scriveva questa esortazione. Da qualche parte nella campagna, probabilmente di notte, Jules Isaac tirava fuori dalla sua borsa per un’ultima volta il manoscritto degli Oligarchi per la correzione finale. Da poco aveva cominciato a rileggere i Vangeli in greco, grazie al prestito di un curato di paese, e a ragionare sullo scarto tra gli scritti evangelici e l’insegnamento della Chiesa sugli ebrei. Incomincia a lavorare sul testo di Gesù e Israele, il libro in base al quale chiederà nel ’49 a Pio XII di rivedere la preghiera del Venerdì Santo, offensiva per gli ebrei, finché nel ’60 sarà ricevuto in udienza privata da Giovanni XXIII, ispirandogli la revisione fondamentale della Nostra Aetate.
In quei giorni un secondo manoscritto cresce dunque nella cartella del professore che si muove alla macchia, sulla strada tra Riom e Clermond Ferrand con indosso l’ultimo vestito che gli è rimasto, nascondendosi di giorno per scrivere di notte, fedele a quel messaggio che la moglie gli ha lasciato sull’ultimo biglietto prima dell’arresto, e che lui tiene nel portafoglio: «Mio caro, prenditi cura di te, abbi fiducia e finisci il tuo lavoro. Il mondo lo aspetta».
Non sapevamo chi siamo, e adesso?
La scomparsa del «capo» e l’«italianità» perduta. In un libro ebook sette studiosi si confrontano sul tema urgente dell’identità nazionale
e sui cambiamenti profondi del nostro Paese, la crisi e la forza dell’Italia
Orfani di un «patriarca» che ha dato mille facce al Sistema Paese
La sfida. Uscire dall’eternità magica e entrare nella storia, collettivamente
-***Viaggio in Italia. Alla ricerca dell’identità perduta, Aa.Vv. , A cura di Giulia Cogoli e Vittorio Meloni pagine 144
di Enrico Pozzi, psicologo (l’Unità, 20.02.2012)
Esistono due problemi diversi collegati all’identità. Il primo è il paradosso costitutivo dell’identità quando essa si applica ad attori dinamici, e soprattutto a soggetti viventi. Il secondo è: cosa sta avvenendo alla identità italiana in questo momento e quale rapporto intercorre tra le difficoltà identitarie percepite dai soggetti collettivi e individuali nel nostro paese e la crisi della leadership carismatica che stiamo vivendo? (...)
Dalla fine degli anni Ottanta, per una serie di motivi, la società italiana è entrata in una crisi anomica accentuata, in una perdita crescente di elementi vitali della sua coesione sociale che hanno prodotto un’angoscia talvolta evidente in alcuni segnali statistici, talvolta più incerta e sfuggente. Il nostro sistema sociale è entrato in un panico anomico, prima strisciante poi esplosivo, che si è tradotto in una domanda altrettanto panica di coesione magica del Sistema Paese.
Qui il richiamo è a Max Weber: l’anelito al ripristino della coesione si è espresso in una domanda diffusa di leadership carismatica. Le pagine straordinarie di Weber sul carisma e sul potere carismatico stanno in parti diverse del postumo Economia e società. Occorre leggerle tutte per capire la ricchezza multidimensionale del tipo ideale che propone. Un aspetto le accomuna: la indifferenza di Weber per la dimensione psicologica. Salvo che in un punto: caratteristica del capo carismatico è il possedere qualità straordinarie, ma come mai la gente pensa che un determinato individuo abbia effettivamente delle qualità straordinarie?
Questa frasetta pone il problema cruciale del consenso al carisma. La principale risposta è da ricercare, secondo me, nel panico anomico, e nella sofferenza psichica che l’anomia grave genera nell’io e nella identità dei membri di un gruppo sociale (nazione, organizzazione, famiglia ecc.).
Ma cosa c’entra il carisma con la coesione sociale? In che senso può agire come una «cura» per l’anomia? Osserviamo il frontespizio della prima edizione del Leviatano di Hobbes. Si tratta di una straordinaria visualizzazione della funzione coesiva della leadership carismatica o del corpo del sovrano.
Riportando questa immagine al momento in cui è stato scritto il testo una guerra civie, il massimo dell’anomia e dell’homo homini lupus -, abbiamo il Re a mezzobusto nella pienezza dei suoi regalia (spada, globo ecc.) collocato sullo sfondo di un paesaggio che condensa il suo regno fisico. Ma il corpo de Re è fatto dalle teste dei suoi sudditi. Corpo metonimico, al tempo stesso individuale e collettivo, che contiene nel suo Body Natural il suo Body Politic, secondo il modello classico di Ernst Kantorowicz.
Nel corpo fisico/ politico del Re, necessariamente tutt’uno come ogni corpo vivente, si ricompone magicamente il corpo lacerato del sociale. Nella persona mixta del sovrano si ripristina la coesione sociale perduta o minacciata, si placa l’angoscia anomica e trova risposta la domanda sociale di coesione del Noi, che è anche domanda di coesione dell’io e della identità individuale. In Hobbes sta la risposta alla domandina di Weber, cioè il modello di base del consenso al potere carismatico.
L’analisi freudiana del rapporto capo-folla traduce tutto questo in una dinamica direttamente psicologica. Nella sua ipotesi, il capo diventa il modello interiorizzato comune a ciascuno dei membri del gruppo: nella folla, ognuno si mette dentro, come parte della propria identità, il pezzetto di immagine di capo che è conforme ai suoi bisogni, aspettative o terrori. Lo stesso individuo il Capo è uno, nessuno e centomila, e raccoglie in sé quei seguaci che, ciascuno a proprio modo, si rispecchiano in lui. Il Capo come collante coesivo psichico del Noi, denominatore comune condiviso dagli individui del gruppo che lo riconosce come capo.
Il Berlusconi trionfante l’imprenditore, il presidente operaio, lo sportivo, il cabarettista, il ricco, Priapo, il presunto vincitore del Certamen capitolinum, il guaritore ecc. tra il ’94 e il ’96 si è presentato come le mille facce del Sistema Paese in cui ognuno poteva riconoscersi, identificarsi e sentirsi compreso, ma nel senso fisico: compreso nel corpo del sovrano, nel corpo metaforico di Berlusconi. Quel Berlusconi ha rappresentato la risposta transitoriamente adeguata, da un lato a un panico sociale duraturo, alla domanda angosciata di una coesione sociale antianomica; dall’altro, a una domanda di semplificazione cognitiva di una realtà percepita come eccessivamente complessa.
Il capo carismatico come un riduttore di complessità: invece del caos locale e globale, il riordinamento del mondo nella semplicità cognitivamente accessibile di un individuo. Una persona come mediatore e traduttore delle troppe cose che accadono intorno a me, la complessità riassunta e sussunta in lui, in una dimensione personale che io pover’uomo sento di poter ancora capire. Ma da anni ormai il Body Natural del leader carismatico sta chiedendo il conto al suo Body Politic. Le virtù straordinarie del carisma non trovano più nelle cose e nella sua persona quella continua prova di verità e verifica alla quale il capo carismatico è tenuto.
La funzione coesiva si è progressivamente indebolita, la terapia antinomica di tipo magico che il capo carismatico incarnava perde efficacia, il panico anomico collettivo e individuale riprende lentamente, poi sempre più in fretta, il sopravvento.
Non senza contraccolpi, il consenso si sfalda, e l’angoscia sociale cerca nuove risposte: talvolta, poveramente, nuovi capi; talaltra, in modo più maturo ma pur sempre incerto, nuove procedure e modalità di esercizio della sovranità.
Gabriel García Márquez ha scritto, con L’autunno del patriarca, una delle più potenti rappresentazioni narrative delle logiche, delle grandezze e delle molte miserie del potere carismatico in salsa sudamericana. Poi un giorno il dittatore muore, e c’è la chiusa bellissima del libro: ... perché noi sapevamo chi eravamo mentre lui restò senza saperlo per sempre col dolce sibilo della sua ernia di morto vecchio, troncato di netto dalla stangata della morte, (...) estraneo ai clamori delle folle frenetiche che scendevano nelle strade cantando gli inni di gaudio della notizia gaudiosa della sua morte ed estraneo per sempre alle musiche di liberazione e ai razzi di gioia e alle campane di giubilo che annunciarono al mondo la buona novella che il tempo incalcolabile dell’eternità era finalmente terminato.
La società italiana, in tutte le sue articolazioni, trova adesso davanti a sé l’opportunità di uscire dalla eternità magica del sole carismatico e di entrare di nuovo nella storia, nella collaborazione, nel compromesso, nel difficile negoziato tra le diversità: in altri termini, nella realtà e nel progetto di una identità collettiva tornata a essere dinamica, forse. La stessa opportunità si offre parallelamente alle identità individuali, sottratte allo «io sono come sono» della paura di vivere. Nessuno può dirsi certo che questa doppia opportunità venga colta, e che non si preferisca invece tornare nei porti tranquilli e mortiferi della regressione, del pensiero paranoico e delle aspettative magiche.
Non ci restano che le tribù
di Marco Aime (La Stampa, 13 febbraio 2012)
Uno spettro si aggira per l’Europa e soprattutto per l’Italia: quello del tribalismo. Negli ultimi tre decenni si è assistito al progressivo emergere di gruppi e movimenti politici che alle grandi narrazioni dei secoli precedenti, su cui si fondavano le ideologie classiche, tanto liberale quanto socialista, hanno sostituito una nuova proposta: quella etnica. Nuova e in realtà vecchia: ma una proposta politica che si affaccia sul mercato deve presentarsi con una buona dose di consolidamento storico e con un’altrettanto buona dose di potenzialità innovative. Ecco che, se da un lato si strizza l’occhio alla storia, dall’altro si lanciano idee nuove, o in grado di apparire tali.
Puntando su valori come identità, radici, autoctonia e proponendo l’immagine di popoli nuovi, fasulli per la storia ma antichi e reali nelle retoriche adottate, tali movimenti, come la Lega in Italia, hanno arricchito il panorama politico con categorie inedite, che spesso sfuggono all’analisi tradizionale.
Per questo può risultare utile impiegare gli strumenti dell’antropologia culturale per tentare di leggere il fenomeno leghista, che evoca, a volte volutamente, inconsciamente in altre occasioni, richiami a forme di fondamentalismo culturale e identitario. Quella che Francesco Remotti ha chiamato «ossessione identitaria» sta alla base delle politiche localistiche che non di rado si traducono in forme di esclusione, di xenofobia, e talvolta sfociano in un vero e proprio razzismo, sfruttando il fertile terreno del debole senso di appartenenza nazionale di gran parte degli italiani e le paure nei confronti degli stranieri, per lo più indotte da campagne mediatiche strumentali.
Se si ripercorre il cammino di costruzione dell’immaginario leghista, delle retoriche che lo accompagnano, ci si trova a fare i conti con un continuo oscillare tra concezioni vecchie presentate come novità e, viceversa, elementi nuovi presentati come tradizionali. L’attacco alla nazione, creatura e vanto dell’Occidente «civilizzato», forse non è un ritorno al passato, ma una cifra della nostra modernità. Una situazione di progressiva etnicizzazione delle società, che per certi versi produce un ritorno a forme di tribalismo.
Nonostante abbia subito alcune critiche, il termine tribalismo si è rivelato adatto anche a definire forme moderne di relazione, in cui vengono privilegiati i parenti o i membri dello stesso gruppo. Tale definizione può essere inoltre impiegata per riferirsi all’idea di forte identità culturale o etnica, e di contrapposizione dei «simili» ai «diversi». Se lo si intende in senso sufficientemente ampio, si può sostenere che forme di tribalismo esistano e stiano emergendo in modo vistoso in tutta l’Europa.
Le vittorie di partiti xenofobi, dal movimento di Geert Wilders in Olanda, al Perussuomolaisset (i «veri finlandesi») in Finlandia, ai gruppi politici affini in Ungheria, Austria, Danimarca o Svizzera, che hanno fatto dell’etnicità la loro chiave retorica principale, dimostrano come il concetto di Statonazione democratico e pluralista non sia più la cifra caratteristica dell’Europa contemporanea.
L’emergere di localismi sempre più estremi e di istanze di tipo etnico, che spesso sfociano, come si diceva, nel razzismo, coincide con il declino del sociale. Le aggregazioni orizzontali classiche, su base sociale, ideologica, di classe, vengono sostituite da tagli verticali, che classificano sulla base del legame tra terra e sangue, sul principio dell’autoctonia o della cultura. Il venir meno delle grandi narrazioni e la frammentazione dell’economia hanno reso apparentemente obsolete le rivendicazioni tradizionali.
Le identità frammentarie, liberate dagli ideali universalisti, sono divenute nicchie di difesa. L’identità individuale, icona della nostra postmodernità, necessita a sua volta dell’installazione di un apparato logistico, di una serie di punti di riferimento teorici e pratici, che ne supportino la costruzione e il mantenimento in vita. Nascono così nuovi attori, incaricati di sostenere individui resi fragili dalla scomparsa delle strutture collettive di aggregazione.
Individuo, cultura e ritorno all’origine sono le parole d’ordine nella postmodernità globalizzata. Poiché la sorte degli abitanti del pianeta non può più essere migliorata con la ridistribuzione dei proventi della crescita, occorre trovare nuove ideologie che facciano leva sulle risorse identitarie, culturali, psichiche dell’individuo, il modo di sostituire la defunta narrazione della società dell’abbondanza. Sono queste le caratteristiche della «new age» tribalizzata e primitivizzata che ci viene offerta.
Ma le tribù di cui stiamo parlando sono raccolte di individui che hanno ben poco a che vedere con quelle descritte dall’antropologia tradizionale. La cultura di questi gruppi non si fonda, infatti, su una vera tradizione condivisa, ma è il prodotto di scelte individuali di identificazione, radunate in insiemi collettivi temporanei e costruiti allo scopo di soddisfare interessi specifici.
Nelle retoriche politiche dei movimenti, che fanno dell’identità il loro fulcro, possiamo facilmente notare come quell’identità sia spesso contornata di termini tra il romantico e il nostalgico, ad esempio popolo, tradizione, e il possessivo «nostro» la faccia da padrone in ogni frase. Basti pensare a certe richieste della Lega Nord sul diritto ad avere maestri, magistrati, funzionari autoctoni. Queste retoriche sono il segno dell’ostentazione di un diritto di primato, che induce a pensare che le caratteristiche di un presunto popolo derivino dalla sua geografia e non dalla storia. È una tendenza propria dei gruppi ristretti, i quali privilegiano la prossimità simbolica e spaziale piuttosto che la memoria storica. E il legame fra terra e gentes viene sbandierato senza nemmeno il bisogno di una narrazione epica che lo sostenga.
La tendenza a «naturalizzare» è sempre più forte e sempre più spesso si mette in atto quella finzione che trasforma la nascita in nazione o in comunità. Da elemento socialmente e storicamente costruito, la cultura finisce per essere invece concepita come un dato «biologico». Si dice cultura, ma si pensa razza, e una concezione razziale della cultura può portare anche a una sorta di razzismo senza razza.
Il nostro è un paese che ha sempre avuto difficoltà a fare i conti con il proprio passato, con l’esperienza coloniale, con il fascismo e di conseguenza anche con il razzismo. Ci siamo crogiolati per decenni nell’immagine, appunto, della «brava gente», non razzista come lo erano invece inglesi, francesi, tedeschi. Il razzismo sembra non appartenerci, sebbene nel 1938 un italianissimo governo approvasse delle ignobili leggi razziali. Dimenticato. Ha forse ragione Marcel Detienne a dire che: «L’Italia è una comunità nazionale che prova, di fronte al suo recente passato, un sentimento di estraneità».
Viva la simbiosi delle culture
di Edgar Morin, sociologo e filosofo
in “Le Monde” dell’8 febbraio 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Ogni cultura ha le sue virtù, i suoi vizi, i suoi saperi, le sue “arts de vivre”, i suoi errori, le sue illusioni. È più importante, nell’era planetaria che è la nostra, aspirare, in ogni nazione, ad integrare ciò che gli altri hanno di meglio, e cercare la simbiosi del meglio di tutte le culture.
La Francia deve essere considerata nella sua storia non solo secondo gli ideali di Libertà- Uguaglianza-Fraternità promulgati dalla Rivoluzione, ma anche secondo il comportamento di una potenza che, come i suoi vicini europei, ha praticato per secoli la schiavitù di massa, una potenza che nella sua colonizzazione ha oppresso popoli e negato le loro aspirazioni all’emancipazione. C’è una barbarie europea la cui cultura ha prodotto il colonialismo e i totalitarismi fascisti, nazisti, comunisti. Una cultura deve essere considerata non solo secondo i suoi nobili ideali, ma anche secondo il suo modo di mascherare la barbarie sotto questi ideali.
Possiamo essere orgogliosi della corrente autocritica minoritaria della nostra cultura, da Montaigne a Lévi-Strauss passando per Montesquieu, che non solo ha denunciato la barbarie della conquista delle Americhe, ma anche la barbarie di un pensiero che “chiama barbari i popoli di altre civiltà” (Montaigne).
Come il cristianesimo non può essere considerato solo secondo i precetti d’amore evangelico, ma anche secondo una intolleranza storica verso le altre religioni, il suo millenario antisemitismo, lo sradicamento dei musulmani dai territori cristiani, mentre storicamente cristiani ed ebrei sono stati tollerati nei paesi islamici, in particolare nell’Impero ottomano.
Più ampiamente la civiltà moderna nata dall’Occidente europeo ha diffuso nel mondo innumerevoli progressi materiali ma anche innumerevoli carenze morali a cominciare dall’arroganza e dal complesso di superiorità, che hanno sempre suscitato il massimo del disprezzo e dell’umiliazione degli altri.
Saggezza e “art de vivre”
Non si tratta di un relativismo culturale, ma di un universalismo umanista. Occorre superare un occidentalocentrismo e riconoscere le ricchezze della varietà delle culture umane. Riconoscere non solo le virtù della nostra cultura e le sue potenzialità emancipatrici, ma anche le sue carenze e i suoi vizi, in particolare lo scatenamento della volontà di potenza e di dominio sul mondo, il mito della conquista della natura, la credenza nel progresso come premio della storia.
Dobbiamo riconoscere i vizi autoritari delle culture tradizionali, ma anche l’esistenza di solidarietà che la nostra modernità ha fatto sparire, un rapporto migliore con la natura e, nelle piccole culture indigene, saggezze e “arts de vivre”.
Il falso universalismo consiste nel crederci proprietari dell’universale - il che ha permesso di mascherare la nostra mancanza di rispetto degli umani di altre culture e i vizi della nostra dominazione. Il vero universalismo cerca di situarci in un meta-punto di vista umano che ci ingloba e ci supera, per il quale il tesoro dell’unità umana sta nella diversità delle culture. E il tesoro delle diversità culturale nell’unità umana.
Eichmann, l’aguzzino che cercò di passare da innocente pedina
Una mostra a Firenze ricostruisce la vicenda del criminale nazista che fu processato e giustiziato a Gerusalemme di Sonia Renzini (l’Unità, 08.02.2012)
Imperturbabile, nella gabbia di vetro stretto tra due guardie, con gli occhiali e le cuffie, rasato e ben vestito. No, a vederlo così Eichmann non sembra quel criminale efferato che le cronache e la storia hanno rivelato, ma ora è un uomo senza potere, sconfitto dalla storia e dalla civiltà, che cerca di difendersi di fronte a quell’umanità che ha calpestato senza né scrupoli né pudore. Per conoscerlo davvero bisogna vederlo prima, quando giovanissimo simpatizza per l’estrema destra e si iscrive al partito nazista, diventa spedizioniere della morte e nel ’42, all’apice della sua carriera, mette a punto a Wannsee la soluzione finale. Istantanee sparse, ma tasselli fondamentali per ricostruire il mosaico di una figura complessa e sondare le ragioni di quella follia.
È il momento del processo, quello in cui il mondo si interroga, portato ancora una volta, oggi come nel ’61 all’attenzione dell’opinione pubblica. Attraverso le immagini che corrono sui monitor, le foto d’archivio, articoli di giornale dell’epoca, documenti e ricostruzioni storiche, testimonianze. Una traccia indelebile della nostra memoria ripercorsa nella mostra già approdata a Berlino e a Vienna e ora, per volontà della Regione Toscana e della fondazione Museo e centro di documentazione della deportazione e Resistenza di Prato diretta da Camilla Brunelli, a Firenze, alle Murate, neanche a farlo apposta tra le mura delle ex prigioni della città (fino al 18 febbraio). Di nuovo a catalizzare l’attenzione è il tentativo di difesa del gerarca nazista di uomo qualunque che eseguiva gli ordini, e ora insinua il dubbio, fastidioso e penetrante, che tutto quello orrore fosse solo un’emanazione della normalità, semplice banalità del male, come scrisse Hannah Arendt, inviata del New Yorker. Fu veramente così?
«PICCOLO INGRANAGGIO»
Eichmann si definì un piccolo ingranaggio di una macchina, la Arendt trovò inquietante che in effetti fosse uno come tanti, ma quante volte abbiamo saputo di mostri fin troppo «perbene». Eichmann è padre di 4 figli e marito di Vera Liebl e, soprattutto, è un grande servitore dello Stato, troppo. Una mappa geografica dell’Europa mostra i suoi spostamenti per lavoro, un’agenda fittissima di viaggi compiuti per essere certo di adempiere bene il suo dovere, nel suo caso si tratta di vigilare sull’effettivo sterminio degli ebrei. Come un manager moderno non esita a precipitarsi da Vienna, dove vive, a Berlino, a Praga. Non si accontenta di starsene dietro una scrivania, lui parte, arriva, si accerta. «Ero qui e dappertutto, nessuno poteva sapere quando sarei comparso», dirà Eichmann orgoglioso nel ’57 al giornalista ex Ss Willem Sassen. Una missione più che un compito. Sempre a Sassen confiderà: «Burocrate lo fui davvero, ma a questo attento burocrate si unì un combattente fanatico per la libertà del mio sangue, al quale appartengo».
Eccoli i risultati di tanta devozione, poco più in là una serie di foto mostra i volti in bianco e nero di vecchi e bambini, in mano una valigia, a volte niente, prima e dopo essere saliti sul treno diretto ad Auschwitz, in fila o ammucchiati. A Skopie in Macedonia nel ’43, a Ioannina in Grecia nel ’44, a Hanau in Assia nel ’42, a Westerbork nei Paesi Bassi e a Ž-linain Slovacchia, a Budapest in Ungheria, ad Auschwitz. È una lista lunghissima ed Eichmann la mette a punto fin nel minimo dettaglio, attento che tutto fili come deve, senza intoppi o rallentamenti, salvo darsi alla macchia quando non c’è più niente da fare. Allora cambia nome, lavora come operaio forestale, gestisce una fattoria avicola e fugge a Buenos Aires, nel ’50, dove condurrà una vita ritirata con il nome di Ricardo Klement e sarà catturato dal servizio segreto israeliano che lo confinerà in un’aula di tribunale di Gerusalemme da cui uscirà impiccato nel ’62.
È la parte più suggestiva della mostra, la Shoah diventa una realtà, ingombrante e irremovibile, il procuratore Hausner fa sfilare i sopravvissuti uno dietro l’altro, per ricordare che tutto quanto è stato vero, anche se non sembra possibile. Hanno la voce rotta, a tratti interrotta, qualcuno sviene. Inizia il compito della storia e della memoria, si tratta di capire come tutto ciò sia potuto accadere.
In 32 fogli il dramma del lager
È l’opera di un internato di Auschwitz che nascose il suo fumetto in una bottiglia perché arrivasse a noi
di Andrea Tarquini Repubblica 24.1.12
Restarono per oltre sessant’anni nascosti in una bottiglia, come l’ultimo appello d’aiuto d’un naufrago, quei disegni che oggi tornano alla luce e ci documentano l’Olocausto in modo drammatico e straordinario. Trentadue schizzi, Auschwitz tramandato come in un reportage, quasi col genio giornalistico che ebbe al fronte in Spagna, e poi con gli Alleati, Robert Capa, l’ebreo ungherese, esule, inventore del fotogiornalismo, ma tutto tramandato solo con una matita, senza fotocamere Leica o Zeiss con cui scattare istantanee. Trentadue disegni, eccoli qui davanti ai nostri occhi di pronipoti smemorati dell’orrore. Sono stati trovati dai curatori del Museo di Auschwitz, l’istituzione internazionale che cura la memoria là a Auschwitz-Birkenau.
Era la fabbrica della morte costruita dalla Germania per ordine di Hitler nella Polonia che il Reich occupò e sognò di cancellare dal mondo. Un documento eccezionale, narra della Shoah fin nei minimi dettagli. Ci tacciono un solo particolare: chi fu mai il coraggioso che al rischio di essere eliminato nei modi più dolorosi e orrendi prese carta e matita per schizzare quelle immagini e lasciarle a noi posteri, sui semplici fogli d’un quaderno da disegno tenuti insieme da una spirale da cui uno a uno i disegni venivano strappati.
The sketchbook from Auschwitz, il libro degli schizzi di Auschwitz, si chiama questo documento eccezionale che ora il museo ha editato. Lo puoi comprare online oppure ordinandolo per telefono o per posta, basta rivolgerti al Memorial Museum Auschwitz-Birkenau (www. en. auschwitz. org). Riaprire gli occhi costa anche poco: 32 zloty, cioè circa 8 euro, è il prezzo del pamphlet curato da Agnieszka Sieradzka. Vale la pena, e ieri Spiegel online (www. spiegel. de) ha diffuso dieci delle trentadue immagini. Scorriamo i disegni dell’ignoto reporter-artista di Auschwitz, e il loro racconto. Affermare che facciano rabbrividire è poco. Nella prima vedi una folla enorme scendere dal treno merci piombato alla "Judenrampe", la rampa di scarico degli ebrei, quella dove finiva il binario davanti all’ingresso di Auschwitz 2-Birkenau. Quasi senti la locomotiva nazista "tipo 52" sbuffare dopo l’arrivo. Vedevano già la sinistra scritta "Arbeit macht frei", il lavoro rende liberi. Soldati delle SS, il fucile Mauser 9 o il mitra MP 38 in pugno, li spingono nella fabbrica della morte.
Sono ancora ben vestiti, dignitosi da crema della borghesia europea, gli ebrei portati là a morire nei modi più orrendi. Vedi donne in cappotti o vestiti decorosi. Un signore anziano sfoggia baffi ben curati, cappello e giacca da sartorie di qualità. Ancor più elegante è un uomo sulla quarantina, abito impeccabile, fazzolettino elegante sulla tasca della giacca, cappello da passeggio e trenchcoat al braccio. Suo figlio, un bel bimbo sui quattro o sei anni vestito alla marinara, lo tiene per mano. In un disegno successivo, il numero due ben numerato come tutti prima di venir nascosto nella bottiglia della memoria dal disegnatore-cronista sconosciuto, l’idillio apparente finisce.
Arrivano le SS, strappano a forza il bimbo dalle braccia del padre. Invano il bimbo urla e piange, il disegno lo rende a perfezione. Le SS lo portano via, insieme a quel signore anziano dai baffi ben curati. È la prima selezione: vecchi, malati e bambini, inutili, perché incapaci di lavorare come forzati in condizioni disumane per la macchina bellica del Reich, vengono portati subito alle "docce", i locali sigillati dai cui sfoghi sul tetto non si diffondeva acqua, bensì il Zyklone-B, il gas letale prodotto dalla modernissima azienda modello IG Farben gloria della Germania. Nel disegno, il camion per portarli via verso l’ultimo destino è già pronto, l’autocarro d’ordinanza Opel Blitz della Wehrmacht (copia nazista del Dodge americano), sembra avere anche il motore già acceso.
Il racconto dell’orrore prosegue, una pagina schizzata dopo l’altra. Ma chi fu mai il deportato che ricordò il talento ed ebbe il coraggio di narrare tutto con i suoi disegni? Non lo sappiamo, forse non lo sapremo mai, dice Jarek Mensfelt, portavoce del Museo di Auschwitz. Il disegnatore misterioso lasciò solo una fragile traccia, un abbozzo di firma: "MM", scritto su ognuno dei disegni. Le iniziali, forse, ma vai a cercare tra i sei milioni e passa di vittime della Shoah. Il deportato "MM" non dedicò mai disegni a se stesso. Si preoccupò soltanto di nasconderli tutti insieme ben ordinati in una bottiglia, e di sotterrarla tra le fondamenta di una baracca del Lager. Forse nella sua genialità vitale e disperata ebbe un attimo di tempo per scegliere con cura il luogo del nascondiglio: la bottiglia era sotterrata proprio presso una baracca che sorgeva tra le camere a gas e i forni crematori numero 4 e numero 5. Fu scoperta per caso, nel 1947, da un altro ex deportato, Jozef Odi, che dopo la liberazione la consegnò ai custodi del museo. Odi continuò a lavorare per loro fino alla morte, adesso - tra i milioni di oggetti trovati nel territorio dell’orrore, là ad Auschwitz, o tra tutto quanto i nazisti sequestravano a chi scendeva dai treni - la bottiglia della memoria è stata riscoperta.
Il racconto continua, un disegno dopo l’altro. Vedi le SS caricare i più deboli, già magri oltre lo scheletrico, sui camion speciali dello "Haeftlingskrankenbau", il servizio medico per i deportati: chi non serviva più per produrre veniva finito con un’iniezione letale al cuore. Scorriamo ancora l’almanacco di Auschwitz: ecco chi ha tentato la fuga, e viene impiccato alla meglio con una corda appesa al tetto d’una baracca: efficienza, produttività, taglio ai costi erano il credo della fabbrica della morte. Oppure ecco immortalati i sadici e ben nutriti Kapò che con lo stivale spaccano l’osso del collo ai detenuti. O ancora il crematorio e le camere a gas, con fuori ufficiali SS che si godono la pausa d’una sigaretta mentre i loro sottoposti gettano salme sul pianale di carico di un camion, come fossero sacchi di patate. Fino a dettagli orridi del quotidiano: il timbro a fuoco del numero e del triangolo o di altri simboli sull’avambraccio.
Il documento è adesso online in tutto il mondo, perché ricordi. Mentre in una triste coincidenza uno studio ufficiale reso pubblico ieri dal vicepresidente del Bundestag (il Parlamento tedesco) informa che anche in Germania, tanti decenni dopo, l’antisemitismo «è enormemente diffuso in vasti strati della società, attraverso i ceti e nel cuore della società», non solo nelle violente, marginali frange neonaziste.
L’albo dei disegni di Auschwitz chiama a ricordare vigili, come un altro reperto del museo dell’ex Lager, quelle poche righe scritte e sotterrate vicino alla baracca della bottiglia dal deportato ebreo polacco Salmen Gradowski: «Caro scopritore futuro di queste righe, ti prego, cerca dappertutto, in ogni centimetro di terreno qui dove noi fummo. Qui troverai tanti documenti, ti diranno quanto è accaduto qui, tramanda tracce di noi milioni di morti al mondo che verrà dopo».
Quello spazio di libertà nell’orrore quotidiano
di Miguel Gotor (la Repubblica 24.1.12)
L’autore è ignoto, sappiamo solo che si firmava «MM». La mano è ferma e il tratto sicuro, attento a cogliere ogni dettaglio e a registrarlo sulla carta ruvida di un taccuino. Lo immaginiamo intento a disegnare nella penombra, nelle ore di riposo tra un turno e l’altro, con il capo chino e la schiena curva, il blocchetto di fogli poggiato sulle ginocchia irrigidite, il mozzicone di matita stretto tra le mani nere e incallite dalla fatica. I suoi schizzi furono ritrovati nel 1947 dentro una bottiglia, occultati nelle fondamenta di una baracca del campo di sterminio polacco di Birkenau, non lontano dai forni crematori IV e V. Il fatto che l’ultimo disegno sia incompleto lascia pensare che quello poteva essere un nascondiglio quotidiano, un anfratto tra i tavolacci di legno, per sfuggire alla sorveglianza dei Kapò.
E riprendere di volta in volta il lavoro, a ogni occasione possibile. Fino all’ultima volta, subito prima di un improvviso trasferimento o, assai più probabilmente, della morte.
Si tratta di un documento eccezionale in cui ogni segno rivela l’ardimento del disegnatore, in grado di infrangere, a rischio della propria vita, il divieto dei suoi custodi. Si scrive per ricordare, si scrive per resistere, si scrive per lasciare una traccia. E si disegna per le stesse ragioni, per sfidare la morte che ti bracca e riempire il tempo che separa da lei, per conservare uno spazio di intangibile libertà anche dentro il terrore, per aggirare il progetto totalitario dei nazisti, quello che angosciò e motivò Primo Levi al racconto: «tanto non vi crederanno». Per vincere l’oblio, la condanna peggiore, quella che rende la tua creaturale sofferenza senza comunicazione e senza testimonianza.
Non è la prima volta che dei disegni sopravvivono all’universo concentrazionario nazista e ce ne raccontano il raccapriccio. Sono celebri, ad esempio, quelli dei bambini rinchiusi nel campo di concentramento cecoslovacco di Terezin, i quali, sotto la direzione di un adulto, ingannavano il tempo che li separava dai forni crematori raffigurando scene della loro infanzia perduta o immagini della prigionia.
La peculiarità dei disegni di Birkenau è che sono certamente l’opera clandestina di un adulto. Sembrano fotografie in bianco e nero con un chiarissimo intento documentario: non c’è il lusso dell’astrazione, ma la necessità di un realismo estremo e angoscioso che raffiguri e informi. L’autore usa una matita e soltanto in alcuni casi aggiunge dei tocchi di colore: per evidenziare di rosso i tetti delle baracche e i mattoni delle costruzioni, per distinguere le fiamme dei forni crematori, per far risaltare la divisa scura di una SS o quella a righe blu di un Kapò.
In alcuni casi un unico foglio è diviso in due riquadri dallo stesso autore per distinguere scene diverse come se fosse un cartone animato dell’orrore. Evidentemente, la carta a disposizione non era molta, ma la voglia di raccontare tanta: l’esperienza della «rampa degli ebrei», ossia il capolinea dove i deportati arrivano in massa per essere subito divisi in sommersi e salvati, i vecchi e i bambini da una parte, gli uomini e le donne abili al lavoro dall’altra; la «casa della morte», ove si raffigurano i cadaveri trasferiti al forno crematorio, mentre una SS, in primo piano, inganna il tempo fumando una sigaretta; la condanna reiterata del comportamento dei Kapò e la brutale dimostrazione del loro dominio. Uno di questi è colto nell’atto di gettare in una pozzanghera un prigioniero e, in un altro riquadro, si vede ricompensato con del cibo speciale, mentre sullo sfondo i detenuti sono in fila per ritirare la zuppa di sempre. E ancora: il momento della selezione che separava i sani dai malati, una scena di tortura in cui un ebreo è legato attorno un palo e frustato sotto lo sguardo vigile delle SS; il vagone piombato, i prigionieri scheletrici avviati ai forni.
Non è solo la coincidenza topografica, ossia la contiguità del campo di Birkenau a quello di Auschwitz che fa pensare a Se questo è un uomo di Primo Levi. Le immagini sembrano le ideali quanto pertinenti illustrazioni di quel libro, e in una prossima edizione andrebbero pubblicate insieme perché riproducono una serie di scene e di momenti della vita quotidiana nei campi di sterminio che abbiamo già potuto leggere nelle pagine dello scrittore torinese.
Questi disegni sono riusciti a oltrepassare il filo spinato da cui hanno avuto origine per giungere misteriosamente sino a noi e sono la testimonianza di una vittoria della vita sulla morte, dell’ingegno umano sull’abisso delle coscienze, pezzi di carta, fragili e ingialliti dal tempo, che hanno saputo sopravvivere alle fiamme dell’inferno dei viventi.
Un male senza banalità
di Gianpasquale Santomassimo (il manifesto, 27 gennaio 2012)
Per quanto strano possa sembrarci oggi, è relativamente recente la centralità della memoria dello sterminio del popolo ebraico nella coscienza occidentale. Non che non si sapesse cosa era accaduto: ne parlavano i nostri libri di scuola, ma era presentata solo come una grande tragedia fra gli innumerevoli lutti della seconda guerra mondiale. È stato necessario molto tempo perché si elaborassero in tutte le loro implicazioni l’enormità, la specificità e l’unicità del fenomeno: e anche da parte delle vittime è spesso dovuto passare il tempo necessario perché si potesse trovare la forza di raccontare ciò che appariva indicibile.
Commemorazione da un lato, istituzionalizzata nella giornata della memoria del 27 gennaio, e ricerca e riflessione dall’altro sembrano procedere spesso su binari paralleli che raramente si incontrano. Una felice eccezione è stata rappresentata quest’anno in Italia dal convegno fiorentino su Shoah, modernità e male politico che ha teso a fare il punto su acquisizioni e dibattiti più recenti della storiografia internazionale come della riflessione filosofica e sociologica sulla Shoah.
Le prime caratteristiche che emergono dal complesso dei lavori sono senza dubbio quelle dell’ampliamento e dell’approfondimento della tematica. Ampliamento geografico, in primo luogo: l’apertura degli archivi sovietici consente di includere in maniera documentata territori come quelli della Bielorussia e in parte dell’Ucraina, a pieno titolo inseriti nella fabbrica dello sterminio, come anche del collaborazionismo e delle complicità che ovunque accompagnarono il fenomeno. Viene confermata la partecipazione diretta allo sterminio della Wehrmacht e della polizia, a lungo negata o sottaciuta nell’autorappresentazione tedesca (Browning).
Cadono molti luoghi comuni, fortunati e tenaci, come quelli formulati da Hanna Arendt su Eichmann ne La banalità del male: il vertice dello sterminio non era costituito da grigi burocrati, che si limitavano ad eseguire ordini, ma era formato da personale molto qualificato e competente.
Non era la feccia della società, come ci piacerebbe credere, ma una élite di rango anche accademico: antropologi, giuristi, studiosi di scienze sociali, architetti, persone in ogni caso convinte di perseguire una missione che volevano portare fino in fondo (Collotti). Più che opportunismo, era adesione ideologica, che trovava il suo fondamento in un antisemitismo di massa che nel corso della guerra si poneva l’obiettivo di effettuare una trasfusione di sangue nel corpo dell’Europa, cambiando radicalmente la natura del continente.
Antigiudaismo di massa
Contestualizzare la Shoah è tema arduo ma inevitabile, per non farne celebrazione dai toni quasi religiosi e catartici, e include anche inevitabilmente un elemento di comparazione, largamente usata e forse anche abusata in maniera cervellotica negli ultimi vent’anni. Anche chi, fondatamente, teorizza l’unicità e al tempo stesso l’incomparabilità del fenomeno deve aver preliminarmente compiuto una comparazione che giustifichi il suo convincimento.
Le domande di fondo di una contestualizzazione sono quelle riassunte da Browning in questi termini: «Perché gli ebrei? Perché i tedeschi? Perché nel XX secolo?». Alla prima domanda forse è più facile rispondere oggi, perché sono stati ampiamente ripercorsi i sentieri di un antisemitismo e di un antigiudaismo profondamente radicati nell’Europa cristiana (Battini), di intensità diversa nelle singole fasi di questo percorso, e in grado di riaccendersi nei momenti di crisi, in cui la ricerca di un capro espiatorio dei mali della società ritrovava il suo archetipo ideale.
Meno banale e ricca di implicazioni nuove è la domanda: perché i tedeschi? Oggi può sembrarci una domanda scontata, avendo alle spalle una lunga elaborazione, che è stata anche in parte riflessione autocritica della parte migliore della società tedesca, sulla formazione storica del «carattere tedesco» (Burgio, anticipato in sintesi su questo giornale il 19 gennaio). Ma probabilmente un osservatore della fine dell’Ottocento, chiamato a pronosticare il paese che avrebbe avuto più problemi con la questione ebraica nel secolo successivo, avrebbe indicato nella Francia dell’affaire Dreyfus il luogo più critico, mentre in Germania l’integrazione ebraica appariva in via di definitivo compimento. L’intensità e la rapidità dell’affermazione di un antisemitismo di massa tra le due guerre sono tra i fenomeni più sconvolgenti dell’Europa fra le due guerre, premessa necessaria in Germania della costruzione sociale dello sterminio.
Quello che oggi appare indubbio è il coinvolgimento amplissimo e rapido della «società civile» tedesca e delle sue istituzioni portanti. Già nel 1935 sulle toghe nere dei giudici viene applicata un’aquila che regge fra gli artigli una svastica e una spada, e il ritratto di Hitler incombe nelle aule dei tribunali (Schminck-Gustavus). Una adesione così vasta da rendere problematica e sterile la «denazificazione» del secondo dopoguerra. Per la penuria dei giudici, fu istituito il principio per cui ogni giudice non iscritto al partito nazista doveva farsi affiancare da un magistrato compromesso. I risultati furono generalmente assolutori, e anche le condanne vennero in breve annullate da provvedimenti di grazia.
«Non possiamo buttare via l’acqua sporca, finché non abbiamo acqua pulita», è la frase molto significativa attribuita al cancelliere Adenauer: un problema che era indubbiamente serio (e non ignoto, peraltro, anche a noi italiani, ove si pensi che il primo presidente effettivo della Corte Costituzionale - dopo la presidenza onorifica e inaugurale di Enrico De Nicola - fu Gaetano Azzariti, che era stato anche l’ultimo presidente del Tribunale della Razza). Né le cose sembrano essere andate molto meglio nella Rdt, al di là della propaganda ufficiale, dove una rapida conversione al nuovo partito unico garantiva spesso assoluzione e continuità di carriera.
Il secolo della razza
Ma il problema tedesco ha molte altre dimensioni, e contribuisce a porre nuovi interrogativi proprio l’ultima domanda, quella relativa alla periodizzazione. Non mancano certamente i residui di una retorica sul «secolo assassino» e l’agitarsi del fantasma indistinto del «totalitarismo» onnicomprensivo, la più fortunata tra le molte approssimazioni banalizzanti di Hanna Arendt. È molto stimolante l’emergere di una periodizzazione che pone a cavallo tra Otto e Novecento il processo unificato di un racial century (1850-1945). Quel «secolo della razza» che si dipanò in strettissimo collegamento con imperialismo e colonialismo e che produsse rituali e abituali atrocità, e nel quale per la prima volta l’elemento razziale divenne non accessorio ma fondante di espansione e dominio. Da questo punto di vista, assumono un valore prima ignorato gli stermini coloniali a sfondo razziale compiuti nell’Africa Sud-occidentale tedesca, pratica nella quale, come sappiamo, i tedeschi non furono isolati nel novero delle potenze coloniali.
La logica coloniale, come quella imperialistica, è uno dei termini di inquadramento possibili, ma quello che emerge come il vero tratto comune e indispensabile di tutti gli stermini rimasti nella memoria di quello che potremmo definire «secolo lungo», è soprattutto l’elemento della guerra, incubatrice indispensabile per la costruzione sociale e culturale dei genocidi. Vale per turchi e armeni, come per giapponesi e cinesi, e per tutte le popolazioni decimate nelle guerre coloniali.
E da questo punto di vista, va ricordato che tutta l’espansione ad Est fu concepita dalla Germania come guerra di sterminio (Bartov), che i venti milioni di russi uccisi furono dal punto di vista quantitativo l’apice di questa pratica, e che l’estirpazione del popolo ebraico era parte di un progetto di ristrutturazione razziale dell’Europa, e soprattutto di quella orientale, sbocco prestabilito dello spazio vitale che la Germania riservava a sé.
Theodor Adorno, a caldo, paragonò il trauma di Auschwitz per l’umanità del XX secolo a quello che era stato il terremoto di Lisbona del 1755 per Voltaire e gli illuministi. Ma in realtà la portata dell’interrogazione prodotta dallo sterminio era molto più ampia di quella che aveva potuto coinvolgere credenti o deisti come i philosophes, perché andava oltre i termini della fede e investiva l’umanità nel suo complesso (Neuman). Da allora la coscienza occidentale non ha smesso di chiedersi come è stato possibile, e, anche, se può essere ancora possibile (Seppilli).
Colpisce che in molte relazioni, e soprattutto in quella di Zygmunt Bauman, venga richiamato l’episodio recente di Abu Ghraib nella guerra irachena degli Stati Uniti. Non certo per effettuare una comparazione impossibile o istituire un parallelismo privo di senso. Ma per osservare, come in un esperimento di laboratorio, che in clima di guerra dei tipici ordinary men, ragazze e ragazzi della porta accanto, possano trasformarsi - se dotati di potere illimitato e convinti di portare a termine una missione - in qualcosa che loro stessi avrebbero ritenuto impensabile nella loro vita normale.
Schmitt, l’elogio dell’applauso
La «teoria dell’acclamazione» nazista contro la democrazia borghese
di Giuseppe Bedeschi (Corriere della Sera, 14.01.2012)
A Norimberga Carl Schmitt venne processato per il suo passato nazista: infatti, benché fosse caduto in disgrazia nel 1936 (a causa di un duro attacco sferratogli dalla rivista delle SS che gli rinfacciava la sua collaborazione con von Papen nel 1932), egli era stato una delle personalità culturali più prestigiose che avevano aderito al regime hitleriano. Era stato presidente dell’associazione dei giuristi nazionalsocialisti; aveva avallato con la sua autorità imprese efferate, come la «notte dei lunghi coltelli» del 30 giugno 1934 («l’azione del Führer - affermò allora - è stata un atto di autentica giurisdizione. Essa non sottostà alla giustizia, ma è essa stessa giustizia suprema»). Dal tribunale di Norimberga Schmitt venne prosciolto, ma fu dichiarato «persona non grata» nell’ambito delle istituzioni accademiche.
E tuttavia, benché messo al bando per il suo passato nazista, Schmitt continuò a esercitare un fascino notevole su personalità eminenti della cultura europea. Basti pensare a Raymond Aron - che stava certo agli antipodi, sia sul piano dottrinale sia su quello politico, del pensatore tedesco - il quale in una pagina delle sue Memorie (1983) ricordò di averlo conosciuto personalmente, di avere intrattenuto con lui rapporti epistolari, e poi ne diede questa ammirata caratterizzazione: «All’epoca della repubblica di Weimar Carl Schmitt era stato un giurista di eccezionale talento, riconosciuto da tutti.
Appartiene tuttora alla grande scuola dei sapienti tedeschi, che vanno oltre la propria specializzazione, abbracciano tutti i problemi della società e della politica e possono definirsi filosofi, come, a suo modo, lo fu Max Weber». Aron aggiunse che «uomo di alta cultura, Schmitt non poteva essere un hitleriano e non lo fu mai». Affermazione certo azzardata, questa di Aron, eppure in un certo senso vera, in quanto il filosofo tedesco aveva maturato il proprio pensiero molto prima che il nazionalsocialismo conquistasse il potere in Germania. Ma è altrettanto vero che la sua adesione al partito di Hitler, lungi dall’essere opportunistica (come alcuni hanno sostenuto), era pienamente coerente coi motivi più profondi della sua riflessione.
Tale riflessione era maturata nella repubblica di Weimar, travagliata dalle discordie dei partiti, dall’aspro contrasto degli interessi, dalle spinte centrifughe, dalle minacce rivoluzionarie e «golpiste» (nel 1919 ci fu un tentativo di rivoluzione comunista, represso nel sangue; nel 1920 il Putsch di destra di Kapp, nel 1923 il fallito tentativo di colpo di Stato di Hitler).
A questa situazione di sfacelo, tremendamente aggravata dalla crisi economica, che minacciava l’esistenza della nazione tedesca, Schmitt opponeva il suo concetto di popolo inteso come comunità coesa e organica (Gemeinschaft), che deve unificare completamente gli individui, e che è la base della «vera» democrazia. La quale non può essere confusa con la democrazia liberale, e con quella sua espressione caratteristica che è il parlamentarismo. Il liberalismo infatti si fonda, secondo Schmitt, sull’individuo isolato, sul privato egoista, dedito solo ai propri interessi. Ciò si vede anche, egli dice, nella procedura elettorale introdotta dal liberalismo, in cui il singolo esprime il proprio voto in una cabina, in una situazione di segretezza e di completo isolamento: sicché, proprio nel momento in cui si chiede al privato di diventare cittadino e di esercitare, col voto, una funzione pubblica, lo si relega nel suo ruolo di privato, di «borghese». (Questa critica ha avuto molta fortuna a sinistra: essa ritorna, nella sostanza, nella Critique de la raison dialectique di Sartre). Il risultato di tutto ciò è una maggioranza «puramente aritmetica», cioè nulla di coerente e nulla di stabile.
La vera democrazia, per Schmitt, è tutt’altro. Essa deve essere espressione autentica della volontà del popolo, la quale si manifesta nel modo più alto attraverso l’«acclamazione». «La forma naturale dell’immediata espressione del volere di un popolo - egli dice - è la voce che consente o che rifiuta della folla riunita, l’acclamazione». Attraverso il proprio «grido» (Zuruf) il popolo approva o disapprova, acclama un Führer, si identifica con lui. Grazie a questa investitura popolare del Führer, il regime nazionalsocialista era una vera democrazia, in quanto poggiava sulla sostanza del popolo tedesco, sulla unità della sua stirpe.
Un altro importante filone della riflessione filosofica di Schmitt è stato quello della «teologia politica»: un’espressione con la quale il filosofo tedesco intendeva dire che per un verso i concetti politici derivano da quelli teologici, e per un altro verso presentano una analogia strutturale con essi. «Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. Non solo in base al loro sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia, come ad esempio il Dio onnipotente che è divenuto l’onnipotente legislatore, ma anche nella loro struttura sistematica, la cui conoscenza è necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti.
Lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia. Solo con la consapevolezza di questa situazione di analogia si può comprendere lo sviluppo subito dalle idee della filosofia dello Stato negli ultimi secoli». A questa idea schmittiana di «secolarizzazione» sono state mosse molte critiche. Hans Blumenberg ha obiettato che essa delegittima la modernità, e quindi non è in grado di capire lo sforzo di autofondazione che è proprio della politica moderna.
Esce ora in edizione italiana, presso Laterza, un libro che raccoglie tutta la discussione fra Blumenberg e Schmitt (L’enigma della modernità. Epistolario 1971-1978 e altri materiali, pagine 227, 20): una discussione profonda, in cui due grandi personalità, con una storia filosofica e politica completamente diversa l’una dall’altra, si misurano, con tolleranza e al tempo stesso con tormentata passione, sul futuro spirituale dell’Europa e, più in generale, del mondo moderno.
Berlusconi, il volto e il vuoto
di GIANNI BAGET BOZZO (La Stampa, 26/7/2008).
Dal ‘94 ad oggi le elezioni politiche, e persino quelle regionali e locali, sono state vissute come un referendum pro o contro Berlusconi. Il volto di una persona è diventato il messaggio: un fatto singolare nella democrazia, che ha indotto a spiegare Berlusconi come il frutto di un potere personale, delle sue proprietà televisive, del suo carattere di comunicatore e imbonitore. Il voto sulla persona è stato vissuto dai partiti come un sequestro della democrazia storicamente legata ai partiti e quindi, per questo, illegittimo.
Nel 2008 le cose sono andate diversamente. Il partito democratico ha posto fine all’esperienza Prodi e ha proposto il suo messaggio in termini di cooperazione politica con il centrodestra. Le elezioni hanno determinato la sconfitta del Pd e la scomparsa della sinistra antagonista. E’ caduta la forza politica alternativa a Berlusconi ed egli è diventato, come persona, il titolare della legittimità politica senza alternative: una situazione che ricorda quella della Dc dopo le elezioni del ‘48. Perché tanto consenso attorno a un volto, un consenso che non ha mai investito l’insieme dei partiti di centrodestra in quanto tale, ma è rimasto legato alla persona, inscindibile da essa?
Questo crea un problema politico obiettivo perché non può essere una soluzione ma chiede una spiegazione: perché Berlusconi è diventato il volto della politica italiana.
Ciò indica che alla base di questo vi è un problema di Stato e non di governo. Un uomo solo riguarda il caso di emergenza, non una soluzione stabile. L’elettorato del centrodestra è nato da una crisi di Stato e non da questione di scelta politica, è nato da una crisi del consenso attorno alla Costituzione del ‘48 e allo Stato che su di essa si fondava. La crisi del consenso costituzionale si manifesta nel ‘92-‘93 con due eventi: l’autoscioglimento dei partiti democratici occidentali che avevano guidato la democrazia italiana di fronte al comunismo e il sorgere di un problema indipendentista del nord espresso da Bossi.
Ciò ha alterato il consenso attorno allo Stato, perché era impossibile far decadere il partito cattolico, il partito socialista e il partito liberale, che avevano retto la storia della democrazia italiana del Novecento e porre il Pds come chiave della legittimità politica.
La Costituzione del ‘48 supponeva il consenso dei partiti antifascisti che ne erano mallevadori, la sua costituzione materiale. La loro pluralità e differenza era la base della legittimità politica della Costituzione. Il documento stesso era un compromesso politico: e supponeva che i partiti fondatori, nella loro diversità, rimanessero la base politica dello Stato. La riduzione al solo Pds dei partiti antifascisti creava un vuoto politico, non sul piano del governo, ma sul piano dello Stato, cioè sul piano dell’accettazione della Costituzione come base politica della Repubblica.
A ciò si aggiunge il fatto che l’indipendentismo padano (che aveva allora figura etnica e si richiamava alla tradizione celtica del nord Italia come base di una differenza radicale) metteva in crisi l’impianto del sistema politico italiano fondato sulla centralità della questione meridionale. Poteva un partito rispondere a un tale stato di eccezione politica, quando tutte le tradizioni politiche diverse da quella comunista erano dissolte e vi era un vuoto obbiettivo, un vuoto che corrispondeva alla sfida indipendentista del Nord?
Ci voleva un volto, perché non c’erano più i partiti. Perché questo sia stato quello di Berlusconi non si può spiegare, esso è un fatto e non vi è dubbio che ciò corrisponde a un carisma politico, a una capacità di interpretare il popolo oltre i partiti. Berlusconi fu un evento straordinario, non prevedibile e quindi non facilmente giustificabile. Non entrava nella logica della politica e si pensava che non entrasse nelle regole della democrazia. Invece la tesi di Berlusconi fu quella di rappresentare la sovranità popolare e il suo potere costituente di un ordine politico diverso da quello dei partiti antifascisti ormai distrutto.
Solo il volto di un uomo poteva coprire il vuoto politico delle istituzioni. E ciò avvenne mediante l’alleanza con la Lega Nord e con l’Msi si creando così un’alternativa alla sinistra che non era mai esistita prima e che era assai diversa dalla Democrazia cristiana e dal Partito socialista.
Berlusconi ha rappresentato questo ruolo evitando ogni carattere salvifico persino autorevole, ha messo in luce la sua persona, non il suo carisma, lo ha fatto nelle sue debolezze, persino femminili, presentandosi come l’italiano medio, come rappresentante e non come salvatore. Il fatto di difendere la sua proprietà televisiva non gli ha nuociuto: anzi ha mostrato che egli era un potere della società e che poteva quindi bilanciare poteri istituzionali proprio perché aveva roba. Ciò che venne sentito come un difetto dai suoi oppositori, venne sentito come un vantaggio da parte del suo popolo.
Don Giuseppe Dossetti disse che, con la Costituzione del ‘48, il popolo italiano aveva abbandonato il suo potere costituente, Berlusconi mostrò che non era così e si pose come alternativa alla Costituzione del ‘48, entrando in conflitto con tutti i poteri di garanzia dal Quirinale, alla Corte Costituzionale, al Csm. Toccò così un difetto essenziale della Costituzione del ‘48: quello di fondare i poteri di garanzia e non quelli di governo.
Sovranità popolare contro Costituzione rigida: questa è l’essenza del dilemma berlusconiano che otterrebbe la sua perfezione se si rivedesse l’art. 138 e si riconoscesse che il popolo ha un potere costituente che né i partiti e né gli organi di garanzia istituzionale possono espropriare.
«Amore, nome moderno dei diritti umani»
di Abbé Pierre (www.missionline.org, 20 gennaio 2012)
Quale «parola» è più spesso evocata, nei nostri temi - che si ama molto nominare (ma per dire cosa? «moderni», sebbene non vi sia niente di più futile e vano che le «mode» - insomma, quale termine viene più spesso richiamato della parola «diritto», e più ancora «diritti dell’uomo»? E senza dubbio chiunque, se è sincero, quando ne parla e lotta per il rispetto di questi «diritti», percepisce che egli sta evocando un valore che ha un carattere molto raro, tanto che definiamo «assoluto».
Ma chiunque lotta (fino a arrivare a rischiare di soffrire la persecuzione per questo motivo) per il rispetto di questo valore assoluto, non percepisce molto in fretta che il vero problema non è definire, numerare, migliorare l’elenco e la dichiarazione di questi «diritti», bensì trovare e riuscire a fare in modo che questi diritti poggino veramente su qualcosa per cui vi sia la reale possibilità che essi vengano rispettati?
Tutti i nostri sforzi non possono ottenere altro se non - vedi la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, redatta da una commissione di cui facevo parte - la vaga allusione alla «comunità» di cui il servizio può rendere «possibile» il «libero e pieno sviluppo della personalità» di ciascuno.
Come stupirsi che, non osando parlare dell’amore, gli uomini non vedano i loro «diritti» restare frasi campate in aria, portate dal vento qui e là?
In realtà non ci sarà mai vero rispetto di nessuna Dichiarazione dei diritti dell’uomo fino a che, in qualche maniera, non sia riconosciuto, insegnato, messo in risalto il «perché l’uomo c’è», ovvero la sua finalità, posta sulle sue spalle (e in questo egli è unico, totalmente, tra tutti gli esseri che possiamo vedere), qualcosa che viene caricato su di lui per il fatto che egli possiede la libertà, ovvero la libera responsabilità d’essere capace e idoneo a usare questa corta durata che gli viene offerta nel tempo per imparare a Amare per sempre al di là del tempo.
L’Amore significa: «Quando tu soffri, tu, l’altro, chiunque tu sia, dove tu sia, io soffro e tutte le mie energie si sollevano per guarirci insieme del tuo male diventato il mio, per mettere la mia gioia nella tua e la tua nella mia».
Non esiste una sorgente di pace, ovvero di salvaguardia dei «diritti», se non qui. E qui, ne sono certo, si trova l’Incontro con l’Infinito della Tenerezza divina, verso la quale il cuore dell’uomo ha una fame e sete fortissima.
*** w90 1/11 pp. 25-26 La nostra sottomissione relativa alle autorità superiori *** Sottomissione relativa
Se l’autorità pretende qualcosa che va contro la coscienza cristiana addestrata, oltrepassa il limite che Dio le ha imposto. Gesù indicò questo fatto quando disse: “Rendete . . . a Cesare le cose di Cesare, ma a Dio le cose di Dio”. (Matteo 22:21) Quando Cesare pretende ciò che appartiene a Dio, dobbiamo riconoscere che Dio ha la precedenza.
Questa posizione è forse sovversiva o sleale? Niente affatto. In effetti è l’estensione di un principio riconosciuto dalla maggior parte delle nazioni civili. Nel XV secolo, un certo Peter von Hagenbach fu processato per aver instaurato un regime di terrore nella zona europea sotto la sua giurisdizione. Si difese dicendo che egli si era limitato a eseguire gli ordini del suo signore, il duca di Borgogna, ma tale giustificazione non fu accettata. Da allora, la tesi secondo cui chi commette delle atrocità non debba esserne considerato responsabile se sta eseguendo gli ordini di un’autorità superiore è stata avanzata varie volte; il caso più notevole è quello dei criminali di guerra nazisti giudicati dal tribunale internazionale di Norimberga. In genere questa tesi è stata respinta. Nella sentenza, il tribunale internazionale decretò: “Gli individui hanno doveri internazionali che trascendono gli obblighi nazionali di ubbidienza imposti dal singolo stato”.
I servitori di Dio hanno sempre riconosciuto che ci sono limiti alla coscienziosa sottomissione che rendono alle autorità superiori. In Egitto, nel periodo in cui nacque Mosè, il faraone comandò a due levatrici ebree di uccidere tutti i neonati maschi degli ebrei. Le levatrici, però, conservarono in vita i neonati. Fecero male a disubbidire al faraone? No. Seguirono la coscienza che Dio aveva dato loro, e Dio le benedisse per questo. (Esodo 1:15-20) Quando Israele era in esilio a Babilonia, Nabucodonosor ordinò che i suoi funzionari, compresi gli ebrei Sadrac, Mesac e Abednego, si prostrassero davanti a un’immagine che aveva eretto nella pianura di Dura. I tre ebrei si rifiutarono di farlo. Fecero male? No, poiché per ubbidire al re avrebbero dovuto disubbidire alla legge di Dio. - Esodo 20:4, 5; Daniele 3:1-18.
Una ponderata riflessione su certi casi che sono successi negli solo ultimi anni...potrebbero!( Se ne fate tesoro sforzandovi di comprendere, afferrare e discernere i vari motivi e motivazioni) potrebbero aiutarvi a comprendere la serieta’ dalla "LEALTA’" lealta’ verso Dio prima e l’attenersi coerentementel anche alle leggi mondane dei nostri giorni. L’eutenasia, Caso...Eluana... Politica, ultimi 2 mesi, 4 mesi!!! i7 anni!!! Religione, come praticarla.... Sacerdati, Vescovi, Cardinali...Papa stesso!!! Corte GIUDIZIARIA, Chi, Quando, Dove. perche’ non sanno mai le risposte!!! Perche’ nessuno ha ammazzato nessuno!!! Perche’ Un Comandante di una grande nave crociera abbandona la nave stessa se sta’ affondando? Perche’ si doveva ritornare nelle gabbine!!! Se! stiamo in uno stato di recessione finanziaria perche’ la benzina e’ cara! Se lavori hai i soldi; se non lavori non usarla.
Calcio! ix2...Chi vincera’!!! Vincera’ chi gioca ad occhi chiusi!!!
Allora questo vuol dire che anche in tutte le altre cose citate (Bisogna chiudere gli occhi)
Chi si ferma e’ perduto!
Chi segue un cieco, finira’ nel burrone.
SOLUZIONE...Non Bussate, Non Cercate... Non Chiedete e di sicuro NON VI SARA" APERTO, TROVATO, DATO. Senza alcuna ombra del dubbio questo si avverera’.
Il processo
Quella mostra su Eichmann che ribalta le tesi della Arendt
Alla vigilia del Giorno della Memoria, la storia del criminale nazista in un’esposizione a Firenze
di Susanna Nierenstein (la Repubblica, 19.01.2012)
Si intitola Il processo. Eichmann a giudizio, ma potrebbe quasi chiamarsi "Processo ad Hannah Arendt" la mostra che arriva da Berlino ed è pronta ad aprirsi negli spazi delle Murate, le ex-prigioni di Firenze, il 23 gennaio (fino al 18 febbraio), quattro giorni prima del Giorno della Memoria. La visione e la lettura dei numerosi video e documenti del procedimento che iniziò l’11 aprile 1961 a Gerusalemme dopo il clamoroso rapimento da parte del Mossad, l’11 maggio 1960, del direttore del Dipartimento Affari Ebraici IV B 4 delle SS rifugiato in Argentina - dell’organizzatore prima dell’espulsione degli ebrei dalla Germania, del loro trasferimento ad Est e poi dei trasporti verso i campi di sterminio da tutta l’Europa occupata -, la lettura proposta dai curatori tedeschi, dicevamo, si differenzia infatti dalla diffusa interpretazione della filosofa tedesca che seguì (ma solo in parte!) l’avvenimento epocale nella capitale israeliana per il New Yorker e vide in Eichmann "la banalità del male". Il Male che Eichmann incarna non ha niente di "banale", come mette in luce il percorso creato dalle fondazioni berlinesi Topografia del Terrore e Memoriale degli Ebrei Assassinati in Europa, la statura di Eichmann non è affatto quella di un grigio burocrate incastrato nel motore della tirannia come una qualsiasi rotella inconsapevole e necessaria al meccanismo.
La visione della filosofa tedesca era senz’altro legata alla sua tesi sulla cappa psicologica invincibile del totalitarismo, e serviva forse a salvare dalla colpa collettiva il popolo tedesco in mezzo a cui si era formata e forse persino Heidegger, il suo maestro, che al nazismo aveva aderito. La Arendt alla fin fine così si dimostrava aperta alla tesi della difesa di Eichmann: «ho solo obbedito agli ordini, sono stato solo un dente di un ingranaggio, non sono mai stato antisemita», senza attribuire la giusta importanza né allo svelamento inedito dei testimoni, né alla personale convinzione ideologica nazista che aveva spinto lui come milioni d’altri "volenterosi carnefici" al genocidio.
Ecco invece subito nell’esposizione portata in Italia dalla Regione Toscana e, attraverso la cura di Camilla Brunelli, dalla Fondazione Museo e Centro di documentazione della Deportazione e Resistenza di Prato, le tappe della sua biografia: legato fin da giovanissimo alla destra austriaca che chiedeva l’annessione alla Germania e si nutriva di antisemitismo, presente nell’estremismo militante, lettore attento fin dalla fine degli anni Venti di giornali nazional-socialisti, parte di quel misero 3% che nel ’30 in Austria votò per il partito nazista a cui aderisce definitivamente nel ’32. Nel Reich dal ’33, all’indomani della vittoria di Hitler, Eichmann riceve una formazione paramilitare nelle SS e nel ’34 entra nel Servizio di Sicurezza del Reichfuehrer Himmler, e ben presto con gradi sempre più alti nell’unità "Affari ebraici", dedita a forzare gli ebrei a lasciare la Germania.
Alla conferenza di Wansee del ’42 che mise a punto il piano della "soluzione finale" fu uno degli organizzatori (e lì, lo vediamo dire in tribunale, si sentì sollevato come Ponzio Pilato perché erano stati "i protagonisti, i papi del Reich" a decidere, anche se era lui stesso a prospettare le soluzioni possibili). Himmler lo definì "lo specialista" quando nel ’44 lo chiamò come sempre a deportare velocemente mezzo milione di ebrei ungheresi ad Auschwitz, un "maestro" della spoliazione, dell’emigrazione forzata, e ben presto del trasferimento nei lager. Persino nella sua deposizione nel ’61 in Israele Eichmann chiama gli ebrei "parassiti".
Cosa ci vide di "banale" Hannah Arendt? La sua intuizione, o la sua forzatura, che tanto ha condizionato la riflessione sulla Shoah come di un evento fatale perpetrato da uomini senza volto, non funziona (fu l’autorevole Raul Hilberg a dirlo per primo, seguito ben presto tanti altri storici): una mappa mostra gli infiniti spostamenti di Eichmann in tutti i luoghi caldi dello sterminio, la storiografia più recente riportata in catalogo in bel saggio di Gerhard Paul ne certifica le continue iniziative, la partecipazione attiva alla macchina della morte, la conoscenza esatta di quel che stava avvenendo, l’antisemitismo convinto (il comandante di Auschwitz Rudolf Hoess l’aveva definito "ossessionato dalla questione ebraica"). Un quadro confermato anche dall’intervista data nel 1957 da Eichmann a Willem Sassen, un giornalista ex SS (in Italia nel ’61 la pubblicò Epoca).
Ma la mostra, che dedica una parte curata da Valerie Galimi alla ricezione del processo in Italia e alla Shoah italiana anche con la registrazione inedita della deposizione in aula di Hulda Campagnano, unica testimone nata nella penisola, non si occupa solo della colpevolezza di Eichmann. Nell’esposizione si affrontano tutte le tappe e gli uomini del processo, le battaglie legali, i capi d’imputazione, la volontà del procuratore generale Hausner di farne un evento che documentasse ogni fase e aspetto della persecuzione dal ’33 al ’45 (come ricorda David Cesarani in catalogo), attraverso gli uomini e le donne che l’avevano vissuta, per dare ai fatti, a differenza di Norimberga che aveva usato soprattutto documenti scritti, una dimensione umana e un impatto drammatico.
Il processo fu trasmesso da tutte le radio e le televisioni del mondo. La Shoah uscì dalla sua aura fantasmica e divenne volti, lacrime, svenimenti, racconti puntuali. Per la costruzione della memoria nacque una nuova era, quella del testimone, delle voci che non si possono più cancellare, un rapporto vivente che parlava anche agli stessi giovani di Israele ponendo fine al silenzio che aveva circondato i sopravvissuti, ridandogli un’identità fondamentale, come spiega assai bene il saggio di Annette Wieviorka in catalogo. Sono parole e sguardi che potremmo ascoltare e vedere in parte nella mostra. Ed è importante ora che i testimoni se ne stanno andando. Deborah Lipstadt, vinta la causa contro lo storico negazionista Irving, ha scritto un libro proprio sul processo ad Eichmann. Perché? le è stato chiesto. Perché il negazionismo non è affatto scomparso e nel mondo arabo va per la maggiore, ha risposto, perché i testimoni sono fondamentali, perché bisogna ascoltare chi minaccia un popolo di sterminio: le parole deliranti del ’33 divennero fatti.
Eichmann fu condannato il 15 dicembre 1961, giustiziato a mezzanotte del 31 maggio 1962, cinquanta anni fa esatti. Il suo corpo fu cremato in un luogo segreto e le sue ceneri disperse nel Mediterraneo.
Due bicchieri di cognac per brindare alla soluzione finale
Settanta anni fa a Wannsee la Conferenza dei capi nazisti che decise lo sterminio della popolazione ebraica
VOLONTEROSI CARNEFICI. S’erano resi conto che il lavoro non poteva essere condotto con mezzi convenzionali
I PRIMI TENTATIVI A bordo di camion, per verificare se si potevano ottimizzare le procedure con l’uso dei gas
di Walter Barberis (La Stampa, 18.01.2012)
I volti scarni e i corpi macilenti delle poche migliaia di superstiti che si presentarono allo sguardo sbalordito dei soldati dell’Armata rossa il 27 gennaio 1945, ai cancelli del campo di Auschwitz finalmente liberato, erano ciò che restava dei milioni di vittime passate dalle camere a gas e incenerite nei forni crematori. L’incredibile piano di sterminio di tutti gli ebrei d’Europa aveva avuto inizio esattamente tre anni prima, il 20 gennaio 1942, a Wannsee, un ameno sobborgo di Berlino. Lì, in una casa patrizia requisita a una ricca famiglia ebrea, il principale collaboratore di Himmler, Reinhard Heydrich, aveva convocato i responsabili di tutti i dicasteri e gli uffici ritenuti utili per deliberare la cosiddetta «soluzione finale».
Era risultato chiaro fin dall’autunno del 1941 che l’eliminazione fisica degli ebrei non avrebbe potuto essere portata a termine con mezzi convenzionali. Gli Einsatzgruppen, le unità speciali affiancate all’armata tedesca che avanzava sul fronte orientale, avevano operato con solerzia, ma i massacri di intere comunità ebraiche parevano dire che ben difficilmente i nazisti avrebbero potuto raggiungere il loro fanatico obiettivo di eliminare dalla faccia della terra l’intera popolazione ebraica nei tempi ragionevoli di una guerra.
Fucilati e gettati in fosse comuni, gli ebrei sterminati si contavano a decine di migliaia; ciò voleva dire che per quanto si adoperassero con zelo feroce, le mani di quegli uomini non riuscivano a realizzare risultati numericamente soddisfacenti. E non solo: per quanto risucchiate in una dimensione di pura follia e addestrate a uccidere senza ombra di pietà donne, vecchi e bambini, quelle SS imbrattate di sangue da capo a piedi, giorno dopo giorno, non avrebbero potuto reggere i ritmi che imponevano la ricerca, il rastrellamento e l’eliminazione fisica degli ebrei insediati nelle campagne e nei centri urbani di gran parte dell’Europa. E anche se storditi dall’alcol e non di rado dalle droghe, la loro tenuta nervosa aveva pur sempre dei limiti. Era già stato accertato che dopo un paio di mesi di quella vita gli uomini perdevano il controllo, davano segni di squilibrio mentale, diventavano inefficienti, inservibili. Dunque si imponeva un’altra soluzione.
Nell’autunno del 1941, in alcune zone del governatorato polacco e nelle terre di confine dell’Unione Sovietica attaccata dai nazisti, si fecero le prime prove. Erano tentativi rudimentali, con i camion, che tendevano a capire se si potevano accelerare i tempi e ottimizzare le procedure di eliminazione con i gas. Prima con i semplici gas di scarico ricondotti nei cassoni degli automezzi stipati di ebrei, poi con l’ausilio dell’acido cianidrico, da subito valutato efficace. Quegli esperimenti suggerirono l’idea di trasformare i campi di concentramento e di lavoro allestiti per gli ebrei negli anni precedenti in campi di sterminio. Usando il gas in ambienti chiusi, capaci di contenere svariate centinaia di persone, con turni adeguatamente veloci, si sarebbero potute eliminare migliaia di persone in un solo giorno in ciascuno dei campi.
I vertici del Reich presero segretamente la decisione. Alle SS il compito di coordinare il grande sterminio con procedure industriali. Occorreva la complicità e il concorso di molte organizzazioni e di centinaia di migliaia di persone: una immensa burocrazia doveva individuare gli ebrei, catturarli, trasportarli nei campi; le industrie chimiche dovevano produrre le quantità richieste di acido cianidrico, quelle metallurgiche costruire gli inceneritori, le banche provvedere a incamerare i beni degli ebrei, le ferrovie riorganizzare i loro orari. E molto altro ancora.
Scelti accuratamente, i rappresentanti dei vari dipartimenti dello Stato tedesco vennero convocati a Wannsee. La ferrea regia di Heydrich li avrebbe dovuti informare delle decisioni e convincere della loro necessità. Ignari e sorpresi dall’annuncio, anche i più incalliti antisemiti, uomini come il generale delle SS Hofmann, o il dottor Kritzinger, rappresentante della cancelleria del Reich, e ancora il dottor Stuckart, il giurista che aveva di fatto redatto le leggi razziali del 1935, rimasero perplessi di fronte all’enormità della decisione. Abbozzarono obiezioni e soluzioni alternative. Ma la decisione era già stata presa: loro erano lì solo per ratificarla.
Heydrich, coadiuvato dal capo della Gestapo Müller e dal segretario della riunione, Adolf Eichmann, nel volgere di un’ora o poco più ridusse tutti alla più cieca obbedienza. Ora era soltanto questione di dettagli organizzativi. Sciolta la riunione fra abbondanti libagioni, Heydrich e Müller invitarono il tenente colonnello Eichmann a unirsi a loro in un brindisi: quel paio di bicchieri di cognac con i più alti gradi del potere criminale nazista rappresentarono il culmine della sua carriera. Lo avrebbe candidamente dichiarato di fronte ai giudici di Gerusalemme quindici anni dopo, al processo che lo condannò all’impiccagione per crimini contro il popolo ebraico.
Quella riunione a Wannsee aveva trasformato Eichmann in uno specialista di trasporti verso l’inferno. Il suo unico commento, rimasto solo nella villa in cui aveva organizzato l’incontro, ascoltando il finale di un quintetto di Schubert con il quale si erano deliziati i suoi superiori, fu: «Non capirò mai come si possa apprezzare questa spazzatura sentimentale viennese». Ottuso e zelante, ingranaggio fondamentale della macchina di morte, Adolf Eichmann si apprestava a diventare l’icona di quella che Hannah Arendt avrebbe definito «la banalità del male».
Schmitt, l’elogio dell’applauso
La «teoria dell’acclamazione» nazista contro la democrazia borghese
di Giuseppe Bedeschi (Corriere della Sera, 14.01.2012)
A Norimberga Carl Schmitt venne processato per il suo passato nazista: infatti, benché fosse caduto in disgrazia nel 1936 (a causa di un duro attacco sferratogli dalla rivista delle SS che gli rinfacciava la sua collaborazione con von Papen nel 1932), egli era stato una delle personalità culturali più prestigiose che avevano aderito al regime hitleriano. Era stato presidente dell’associazione dei giuristi nazionalsocialisti; aveva avallato con la sua autorità imprese efferate, come la «notte dei lunghi coltelli» del 30 giugno 1934 («l’azione del Führer - affermò allora - è stata un atto di autentica giurisdizione. Essa non sottostà alla giustizia, ma è essa stessa giustizia suprema»). Dal tribunale di Norimberga Schmitt venne prosciolto, ma fu dichiarato «persona non grata» nell’ambito delle istituzioni accademiche.
E tuttavia, benché messo al bando per il suo passato nazista, Schmitt continuò a esercitare un fascino notevole su personalità eminenti della cultura europea. Basti pensare a Raymond Aron - che stava certo agli antipodi, sia sul piano dottrinale sia su quello politico, del pensatore tedesco - il quale in una pagina delle sue Memorie (1983) ricordò di averlo conosciuto personalmente, di avere intrattenuto con lui rapporti epistolari, e poi ne diede questa ammirata caratterizzazione: «All’epoca della repubblica di Weimar Carl Schmitt era stato un giurista di eccezionale talento, riconosciuto da tutti.
Appartiene tuttora alla grande scuola dei sapienti tedeschi, che vanno oltre la propria specializzazione, abbracciano tutti i problemi della società e della politica e possono definirsi filosofi, come, a suo modo, lo fu Max Weber». Aron aggiunse che «uomo di alta cultura, Schmitt non poteva essere un hitleriano e non lo fu mai». Affermazione certo azzardata, questa di Aron, eppure in un certo senso vera, in quanto il filosofo tedesco aveva maturato il proprio pensiero molto prima che il nazionalsocialismo conquistasse il potere in Germania. Ma è altrettanto vero che la sua adesione al partito di Hitler, lungi dall’essere opportunistica (come alcuni hanno sostenuto), era pienamente coerente coi motivi più profondi della sua riflessione.
Tale riflessione era maturata nella repubblica di Weimar, travagliata dalle discordie dei partiti, dall’aspro contrasto degli interessi, dalle spinte centrifughe, dalle minacce rivoluzionarie e «golpiste» (nel 1919 ci fu un tentativo di rivoluzione comunista, represso nel sangue; nel 1920 il Putsch di destra di Kapp, nel 1923 il fallito tentativo di colpo di Stato di Hitler).
A questa situazione di sfacelo, tremendamente aggravata dalla crisi economica, che minacciava l’esistenza della nazione tedesca, Schmitt opponeva il suo concetto di popolo inteso come comunità coesa e organica (Gemeinschaft), che deve unificare completamente gli individui, e che è la base della «vera» democrazia. La quale non può essere confusa con la democrazia liberale, e con quella sua espressione caratteristica che è il parlamentarismo. Il liberalismo infatti si fonda, secondo Schmitt, sull’individuo isolato, sul privato egoista, dedito solo ai propri interessi. Ciò si vede anche, egli dice, nella procedura elettorale introdotta dal liberalismo, in cui il singolo esprime il proprio voto in una cabina, in una situazione di segretezza e di completo isolamento: sicché, proprio nel momento in cui si chiede al privato di diventare cittadino e di esercitare, col voto, una funzione pubblica, lo si relega nel suo ruolo di privato, di «borghese». (Questa critica ha avuto molta fortuna a sinistra: essa ritorna, nella sostanza, nella Critique de la raison dialectique di Sartre). Il risultato di tutto ciò è una maggioranza «puramente aritmetica», cioè nulla di coerente e nulla di stabile.
La vera democrazia, per Schmitt, è tutt’altro. Essa deve essere espressione autentica della volontà del popolo, la quale si manifesta nel modo più alto attraverso l’«acclamazione». «La forma naturale dell’immediata espressione del volere di un popolo - egli dice - è la voce che consente o che rifiuta della folla riunita, l’acclamazione». Attraverso il proprio «grido» (Zuruf) il popolo approva o disapprova, acclama un Führer, si identifica con lui. Grazie a questa investitura popolare del Führer, il regime nazionalsocialista era una vera democrazia, in quanto poggiava sulla sostanza del popolo tedesco, sulla unità della sua stirpe.
Un altro importante filone della riflessione filosofica di Schmitt è stato quello della «teologia politica»: un’espressione con la quale il filosofo tedesco intendeva dire che per un verso i concetti politici derivano da quelli teologici, e per un altro verso presentano una analogia strutturale con essi. «Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. Non solo in base al loro sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia, come ad esempio il Dio onnipotente che è divenuto l’onnipotente legislatore, ma anche nella loro struttura sistematica, la cui conoscenza è necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti.
Lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia. Solo con la consapevolezza di questa situazione di analogia si può comprendere lo sviluppo subito dalle idee della filosofia dello Stato negli ultimi secoli». A questa idea schmittiana di «secolarizzazione» sono state mosse molte critiche. Hans Blumenberg ha obiettato che essa delegittima la modernità, e quindi non è in grado di capire lo sforzo di autofondazione che è proprio della politica moderna.
Esce ora in edizione italiana, presso Laterza, un libro che raccoglie tutta la discussione fra Blumenberg e Schmitt (L’enigma della modernità. Epistolario 1971-1978 e altri materiali, pagine 227, 20): una discussione profonda, in cui due grandi personalità, con una storia filosofica e politica completamente diversa l’una dall’altra, si misurano, con tolleranza e al tempo stesso con tormentata passione, sul futuro spirituale dell’Europa e, più in generale, del mondo moderno.
Torna il reportage che il critico italiano fece sull’incontro tra intellettuali europei
Il primo festival culturale con Jaspers, Benda e Contini
Filosofi e studiosi si videro nel 1946 per cercare di ricostruire l’identità continentale dopo la guerra. Ponendosi problemi molto simili a quelli di oggi
di Roberto Esposito (la Repubblica, 11.01.2012)
La prima sensazione che procura la lettura del brillantissimo reportage giornalistico, redatto da un giovane Gianfranco Contini, dell’incontro internazionale tra intellettuali europei svoltosi a Ginevra nel 1946 - adesso edito da Quodlibet con il titolo Dove va la cultura europea?, per la cura di Luca Baranelli e con un’introduzione di Daniele Giglioli - è quella di un contrasto acuto tra la marcata lontananza dell’orizzonte postbellico, e anche dei protagonisti, e la singolare attualità di alcune notazioni del «critico nelle spoglie del cronista», come egli stesso si presenta.
Notazioni profonde, nei confronti di un evento certo non anodino, come poteva essere il primo dibattito europeo dopo la sconfitta non solo del nazismo, ma per certi versi dell’intera l’Europa; ma insieme caustiche, espresse in punta di penna e senza reticenze diplomatiche, da parte di un "inviato" del calibro di Contini, appena reduce dalla lotta partigiana e anche da una personale esperienza di governo nella breve stagione repubblicana dell’Ossola, come ricordato nel libro in forma di intervista Diligenza e voluttà. Ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini (Mondadori 1989).
Sembra quasi di vedere, nello scenario svizzero ricostruito con incomparabile verve narrativa dall’autore, «l’erta canizie romantica» del «simpatico ed eruditissimo» Francesco Flora «fra le tante teste pettinate (come, molto affettata, la perdurante frangia ascetica di Benda)» o il contrasto, non solo di idee, tra Karl Jaspers, «gentiluomo altissimo, esile, pallido e canuto, figurino impeccabile in nero e grigio» e «il piccolo Lukács, col suo volto di asceta magro e duro, con la bocca larghissima e piatta, gli occhiali ampi?, la zazzera centroeuropea appena contenuta e un vestitino color senape».
Il tutto non senza notare, da parte del critico-cronista, la vistosa carenza di italiani, rappresentati dal solo Flora, dal momento che Croce, alla notizia di una probabile "calata di Sartre", aveva esclamato «E allora che ci andiamo a fare ?». D’altra parte non c’era poi da sorprendersi che i francesi, veri padroni di casa, non avessero fatto ponti d’oro a coloro che, con Hitler quasi a Parigi, li avevano aggrediti alle spalle. Il che non toglie che Contini potesse legittimamente lamentare l’assenza non solo dei Moravia, degli Alvaro o dei Bacchelli, ma anche dei "giovani filosofi" Calogero e Capitini, Antoni e Bobbio, Luporini e Del Noce - tutti, ad eccezione degli ultimi due, della sua stessa provenienza azionista.
Davanti alle macerie ancora fumanti della guerra, a un anno dalla scoperta di Auschwitz e dall’esplosione di Hiroshima, la domanda intorno a cui ruotano le giornate di Ginevra non è poi tanto diversa da quella del primo Congresso degli scrittori antifascisti tenutosi alla Mutualité di Parigi nel giugno del ’35 (su cui si veda Per la difesa della cultura. Scrittori a Parigi nel 1935, a cura di Sandra Teroni, Carocci 2002). Dal resto il motivo della décadence europea era stato intonato da tempo, prima ancora che dai vari Husserl, Heidegger, Spengler, da un ispirato Valéry, all’epilogo dell’altra guerra, quando, all’interrogativo «Che cosa è, dunque, questa Europa», poteva già rispondere che essa «è una sorta di capo del vecchio continente, una appendice occidentale dell’Asia» in La Crise de l’esprit. Note (o L’Européen).
Certo, rispetto ad allora un’orda di barbari aveva passato il Reno minacciando di travolgere una civiltà bimillenaria. E già s’intravedeva, tra i vincitori americani e russi, uno scontro di egemonia, foriero, se scatenato, di una catastrofe ancora peggiore. È in questo quadro incandescente e incerto che Contini esercita la propria critica affilata, prendendo debita distanza innanzitutto dal proposito, in quell’occasione un po’ goffo, prima ancora che reazionario, di tenere a riparo la cultura europea dal vento della politica.
Da qui, da questa opzione esplicita a favore di un impegno sobrio ma fermo, discendono tutti i suoi giudizi. Da quello, impietoso, per «l’ircocervo di sciocchezze, di logica e finezza victorhughiane» di Bernanos, «clown perfetto» con la sua «oratoria catastrofica di cassandra non inascoltata» a quello, rispettoso, nei confronti del marxista Lukács, nonostante la netta distanza ideologica che li separava; a quello, aperto ma perplesso, su Jaspers, ricco di pathos esistenziale, ma privo di coerenza interiore e di necessità speculativa. Ciò cui, contro le ipotesi totalizzanti di destra come di sinistra, Contini sembra piuttosto rimandare, nell’ora della ricostruzione, è il senso del limite e dell’equilibrio tra le polarità opposte che, nella loro dialettica, hanno costituito la risorsa profonda della storia europea - l’oscillazione continua tra ragione e fede, autorità e libera ricerca, ordine e rivoluzione. La stessa Resistenza, nella memoria freschissima dell’autore, si configura come una vicenda fatta di ingredienti diversi, ma non priva, nella sua vocazione al sacrificio, di un impulso religioso.
Ma perché l’Europa possa ancora attingere a quella fonte, apparentemente inaridita - questa mi pare la conclusione che possiamo trarre dalle terse pagine di Contini - deve rinnovare radicalmente, prima ancora che il rapporto con le potenze che la circondano, quello con se stessa. Non solo vincere il demone nazionalista che per troppo tempo ha portato dentro rischiando di farsene strangolare, ma anche ripensare a fondo la fatale categoria di sovranità, allargandola progressivamente dai confini dei singoli Stati a quello dell’intera comunità europea. Nella relazione di apertura dell’incontro di Ginevra (oggi interamente leggibile in rete) Julien Benda pronuncia parole che, a sessantacinque anni di distanza, non hanno perso nulla della loro pregnanza: «oggi l’idea di nazione sembra aver terminato la sua carriera, a favore dell’idea di Europa. Ma non facciamoci illusioni; non crediamo che tale idea trionferà naturalmente; sappiamo che essa troverà, da parte di quella che intende detronizzare, una forte opposizione e una resistenza tenace. La verità è che le nazioni, per fare veramente l’Europa, dovranno abbandonare, non certo tutto, ma qualcosa della loro particolarità in favore di un’entità più generale».
Schiene dritte
L’eretico Martinetti, italiano per caso
Fu uno dei dodici professori che non giurarono al fascismo. E allo studente Lelio Basso disse: “Qui il maestro è Lei”
di Raffaele Liucci (il Fatto, 06.01.2012)
PIERO MARTINETTI (1872-1943) fu tra i migliori italiani del Novecento. Professore di filosofia teoretica a Milano, formò generazioni di allievi (ma non di discepoli), da Guido Morpurgo-Tagliabue a Eugenio Colorni. Antifascista, fu uno dei 12 docenti (su oltre 1200!) che nel 1931 si rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà al fascismo, perdendo così la cattedra. Cultore della filosofia come forma suprema dell’ascesi religiosa, non accettò mai la prepotenza della Chiesa, «la quale, sotto il pretesto del rispetto alla religione, mira a rendere impossibile qualunque altro pensiero». Convinto, sulla scia del prediletto Schopenhauer, che uomini e animali fossero uniti da una parentela universale, elaborò i primi barlumi di un pensiero animalista ante litteram, assai critico verso la vivisezione. Estraneo alle «scuole», alle conventicole e alle mode storicistiche di casa nostra, spesso ripeteva agli amici: «Io sono un cittadino europeo, nato per combinazione in Italia».
Per cogliere la tempra del suo carattere, basti un aneddoto. Quando il socialista Lelio Basso, condannato al confino di Ponza nel 1928, si presentò scortato dagli agenti all’esame di filosofia, Martinetti cominciò a interrogarlo, ma presto lo interruppe più o meno con queste parole: «Io non ho alcun diritto d’interrogarla sull’etica kantiana: resistendo a un regime oppressivo Lei ha dimostrato di conoscerla molto bene. Qui il maestro è Lei. Vada, trenta e lode».
Il suo epistolario, ora disponibile grazie alle amorevoli cure di Pier Giorgio Zunino, ci proietta nella cittadella interiore di un alieno, rispetto alla melassa italiota. Prendiamo il giuramento imposto dal regime agli accademici. Fior di antifascisti, da Marchesi a Calamandrei, si adeguarono. Lo abbiamo fatto, si giustificheranno nel dopoguerra, per impedire che a educare le nuove generazioni fossero soltanto gli scalzacani del duce. Può essere. Ma quale differenza con le scarne parole indirizzate da Martinetti al ministro della pubblica istruzione Balbino Giuliano: «Sono addolorato di non poter rispondere con un atto di obbedienza. Per prestare il giuramento richiesto dovrei tenere in nessun conto o la lealtà del giuramento o le mie convinzioni morali più profonde: due cose per me ugualmente sacre». Lo splendore dell’intransigenza.
Non a caso, sono soprattutto due i «chiarissimi professori» che escono ammaccati da questo carteggio. Il primo è padre Agostino Gemelli, il teorico della «riconquista cattolica» all’ombra dei labari littori, un ragno velenoso che farà di tutto per imprigionare nella propria tela il pensiero eretico di Martinetti. Il secondo è Giovanni Gentile, archetipo dell’accademico arrampicatore e manovriero, «servo a tutti», rovesciando un celebre motto di Kant. Rifulge, invece, Ernesto Buonaiuti, straordinaria figura di sacerdote modernista, perseguitato senza tregua dai pretastri in camicia nera.
Le pagine più affascinanti del carteggio sono forse quelle dell’ultimo decennio, dal ’32 in poi, quando Martinetti, costretto ad abbandonare l’università, si ritirò nel suo eremo piemontese di Castellamonte. Una vita solitaria e spartana, ma operosissima, mentre i suoi libri erano sequestrati dalla prefettura e messi all’indice dal Sant’Ufficio. Pochi i corrispondenti epistolari, fra i quali spicca Nina Ruffini, nipote del giurista Francesco, un altro dei professori che non giurarono. Nel crepuscolo della sua vita, Martinetti verga alcuni delle più perspicue riflessioni sulla natura del potere totalitario sviluppate in quegli anni.
Un’analisi che non lascia scampo. Un mondo in cui le vittime amano «le dittature, l’ordine dispotico, l’uguaglianza nel servaggio». L’Italia ridotta a un «branco di schiavi», cosicché i «pochi spiriti isolati appariscono come dei nemici del bene pubblico». E tuttavia, anche se «le tenebre prevalgono sempre, la luce non si spegne mai completamente». Per questo pubblicare libri resta «l’unica forma di bene che oggi sia lecito fare».
Morì il 23 marzo del ’43, senza fare in tempo a gioire per il crollo del regime.
Piero Martinetti, Lettere (1919-1942), a cura di Pier Giorgio Zunino con la collaborazione di Giulia Beltrametti, Olschki, pagg. LXXXI-264, • 36,00
Le lettere di Martinetti che non prestò giuramento al fascismo
Vita da filosofo contro il regime
Mussolini chiese il suo esonero e lo definì un "filosofante"
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 07.06.2012)
Documento di un’epoca e di un protagonista della cultura e della vita civile italiana, queste Lettere 1919-1942 di Piero Martinetti raccolte e curate da Pier Giorgio Zunino con la collaborazione di Giulia Beltrametti (Olschki) offrono un’occasione importante di accostarci a un personaggio straordinario, uno dei più rari e preziosi maestri italiani di vita e di pensiero che il ’900 ci abbia regalato.
Di Piero Martinetti pochi sanno qualcosa di più oltre al fatto dell’essere stato l’unico filosofo universitario italiano che si sia rifiutato di prestare giuramento di fedeltà al fascismo. Quella scelta che lo fece decadere dalla cattedra dell’università di Milano fu l’esito naturale di un percorso di ferrea coerenza morale e intellettuale. Per Piero Martinetti l’insegnamento di filosofia teoretica e morale fu l’impegno di una vita. Le lettere permettono di ritrovarne la cifra umana più profonda, quella che si rivelava nei contatti personali: si pensi per esempio al senso doloroso dell’inadeguatezza della propria opera che ogni elogio e apprezzamento stimolava in lui.
Qui i curatori ricompongono quello che rimane delle sue lettere, pubblicandone molte tuttora inedite, integrando e correggendo sugli originali quelle già note, indicando le lacune per ora non colmate, precisandone e contestualizzandone le circostanze.
Citiamo a titolo d’esempio la lettera del dicembre 1937 a Guido Cagnola, dove Piero Martinetti ragiona sul suo appartarsi dal mondo e prepararsi alla morte come ad un passaggio, una metamorfosi del "principio che vive in noi". Quanto ingiusta risulta così la polemica clericale sulle sue esequie laiche e sulla scelta di far cremare le sue spoglie, condannata allora come segno di ateismo. Ma quello fu l’epilogo postumo della guerra senza quartiere che oppose Martinetti alle autorità del regime clericofascista e che conobbe episodi clamorosi. Agli scontri pubblici il filosofo non si sottrasse: non per un protagonismo che gli fu del tutto estraneo, ma per la convinzione che difendendo la sua indipendenza intellettuale, come ebbe a scrivere a Bernardino Varisco, si difendeva in realtà «uno degli interessi più vitali e più gelosi dello Stato».
Lo dimostrò nella battaglia intellettuale che lo vide impegnato nella Milano degli anni Venti contro il protervo caposcuola della neoscolastica, il convertito Padre Agostino Gemelli. Nello scontro allora in atto che aveva per posta la religione degli italiani, Gemelli capeggiava la restaurazione di un cattolicesimo di Stato e si confrontava con la religione dello Spirito di Croce e di Gentile ma più ancora con quel solitario professore piemontese formatosi sullo studio di filosofie indiane e che andava pubblicando volumi e saggi su argomenti che il battagliero francescano riteneva monopolio cattolico: la metafisica, le dottrine cristiane, i rapporti fra morale e teologia.
Il conflitto esplose in occasione del congresso di filosofia organizzato da Martinetti a Milano nel 1926: un congresso preceduto dalla denunzia di un sicario al rettore e seguito dall’intervento pubblico ostile di Giovanni Gentile e da un telegramma di Mussolini che chiese l’esonero immediato dall’insegnamento del "filosofante".
L’esonero non ci fu. Ma il regime regolò poi i conti con l’imposizione del giuramento di fedeltà a cui Martinetti si rifiutò: la Chiesa mise all’indice le opere nel 1937. Martinetti reagì alla condanna con una lettera inviata alla Congregazione dell’Indice, un’istituzione che a quella data non esisteva più, poi con una seconda versione della stessa mandata alla direzione dell’Osservatore Romano: questa seconda versione, rintracciata nell’Archivio Vaticano della Congregazione per la dottrina della fede, compare qui per la prima volta e offre a Zunino l’occasione di una precisa messa a punto dei dati documentari e del contesto di tutta la questione. E si può così con migliore conoscenza di causa rileggere questa testimonianza dello stile e dei convincimenti profondi di Martinetti.
L’uomo aveva presentato le sue credenziali filosofiche dichiarando fin dal 1909 che, se dopo Kant «nessun filosofo serio può non essere in Etica "kantiano", dopo il Cristianesimo non è possibile non essere in qualche modo cristiano» (un suggerimento che Croce non dimenticò).
Ora, giunto all’appuntamento finale con un’autorità ecclesiastica vittoriosa e vendicativa, dichiarava di aver scritto contro la Chiesa con un «segreto senso di dolore». In quella Chiesa - così Martinetti - «vi sono tante cose che ammiro e che amo». E si dichiarava pronto a ritrattare le sue accuse se e quando avesse visto il capo di quella Chiesa non benedire più le bandiere di guerre fratricide e vietare «a tutti i fedeli di seguire i comandamenti del demonio». Questo non gli fu dato. Ma la sua testimonianza era destinata a restare. Essa si stacca dal grigiore del chiacchiericcio di religione allora diffuso come la cima solitaria di una grande pianta.
Abolire la miseria
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 28 dicembre 2011)
Certe volte dimentichiamo che il pensiero di unirsi in una Federazione, nato come progetto non utopico ma concreto nell’ultima guerra in Europa, non ha come obiettivo la semplice tregua d’armi fra Stati che per secoli si sono combattuti seminando morte. È un progetto che va alle radici di quei nostri delitti collettivi che sono stati i totalitarismi, le guerre. Che scruta le ragioni per cui gli individui possono immiserirsi al punto di disperare, anelare a uno strabiliante Redentore terreno, immaginare la salvezza schiacciando i propri simili: i deboli, in genere. Dicono che i motivi che spinsero gli europei a unirsi, negli anni ’50, sono svaniti perché il compito è assolto: la guerra è oggi tra loro impensabile. Questo spiegherebbe come mai non esistono più statisti eroici come Monnet, De Gasperi, Adenauer: uomini marchiati dalla guerra di trent’anni della prima metà del ’900.
Chi parla in questo modo trascura quello sguardo scrutante che i fondatori gettarono sulla questione della miseria, e l’estrema sua attualità. Trascura, anche, quel che l‘Europa unita ha tentato di fare, per creare non solo istituzioni politiche ma sociali, economiche. Dai delitti del ‘900 siamo usciti, nel ‘46, con un patto di mutua assistenza fra cittadini.
È detto Welfare perché prese forma in Inghilterra grazie al piano concepito durante la guerra, su mandato del governo, da William Beveridge, uno dei fondatori della Federal Union: lo Stato del Benessere (meglio sarebbe dire Bene-Vivere: il bene dell’Essere è cosa più scabrosa) dà sicurezza non aleatoria all’indigente, l’escluso, l’anziano, il paria.
Per questo è una grave svista pensare che l’Europa abbia concluso la missione, e stia lì solo come arcigna guardiana dei conti in ordine. Esattamente come nel dopoguerra, sono richiesti Fondatori, Inventori: se la crisi odierna è una sorta di guerra, è urgente immaginare istituzioni durature perché i mali che stanno tornando (miseria, diseguaglianza) non trascinino ancora una volta le società in strapiombi di disperazione, risentimento, e quell’odio dell’altro che si disseta bramando capri espiatori (ieri gli ebrei, oggi gli immigrati e in prospettiva anche i vecchi che "muoiono così tardi").
Abolire la miseria: così s’intitolava lo splendido libro che l’economista Ernesto Rossi, autore con Altiero Spinelli e Eugenio Colorni del Manifesto di Ventotene, scrisse in carcere nel ‘42 e pubblicò nel ’46: "Bisogna unire tutte le nostre forze per combattere la miseria per le stesse ragioni per le quali è stato necessario in passato combattere il vaiolo e la peste: perché non ne resti infetto tutto il corpo sociale". La sfida oggi è identica, e sono le pubbliche istituzioni nazionali e europee a doversi assumere il compito. Affidarlo a chiese o filantropi vuol dire regredire a tempi in cui solo la carità era il soccorso.
In molti paesi arabi sono gli estremismi musulmani a occuparsi del Welfare, confessionalizzandolo. Non è davvero il modello da imitare: gli Stati europei si sono sostituiti alle chiese fin dal ‘200, creando istituzioni laiche aperte a tutti. Anche l’Europa unitaria investe su organismi comuni perché - sono parole di Jean Monnet - "gli uomini sono necessari al cambiamento, ma le istituzioni servono a farlo vivere". E aggiunge, citando il filosofo svizzero Amiel: "L’esperienza d’ogni uomo ricomincia sempre; solo le istituzioni diventano più sagge: accumulano l’esperienza collettiva e da quest’esperienza e saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse regole vedranno cambiare non già la loro natura, ma trasformarsi gradualmente il loro comportamento". È laico anche questo: voler cambiare i comportamenti, non la natura dell’uomo.
È importante ricordare come nacque il Welfare, perché in Europa, Italia compresa, le campagne elettorali si svolgeranno su questi temi, e sul banco degli imputati ci sarà spesso la medicina stessa che dopo il ’45 ci somministrammo sia per abolire le guerre, sia per abolire la miseria. Non è improbabile, ad esempio, che le destre italiane - non ancora emendate - tramutino l’Europa in bersaglio: da essa verrebbero quelle regole che ci impoveriscono e commissariandoci, ci umiliano. L’attacco al governo Monti, quando s’inasprirà, sfocerà in attacco all’Unione. È già chiaro negli slogan leghisti. Lo è nell’offensiva di Berlusconi contro le tasse: cioè contro il tributo che ciascuno (specie i ricchi) deve versare per preservare la pubblica salute.
Rifondare oggi l’Europa concentrandosi sulla lotta alla miseria significa capire perché l’Unione ci chiede certi comportamenti, e al tempo stesso inventare istituzioni aggiuntive che diano sicurezza all’esercito, in aumento, di disoccupati e precari. Significa comprendere che la battaglia al debito pubblico non è una mania né una mannaia: è il patto generazionale che l’Unione ci chiede di stringere, visto che gli Stati da soli non l’hanno fatto per timore delle urne. Il Trattato di Maastricht impone di non caricare le generazioni future di debiti contratti dalla presente generazione per procurarsi dei beni senza pagare le relative imposte, scrive Alfonso Iozzo, economista e federalista europeo, in un saggio sulla re-invenzione del Welfare ("Il Federalista", 1/2010).
Val la pena leggerlo, questo saggio, che poggia sulle solide basi di studi fatti da James Meade, Nobel dell’economia, sui modi di garantire redditi minimi di cittadinanza all’intera società. Il presupposto è estinguere il debito degli Stati, e trasformarlo in credito pubblico: in un patrimonio che lo Stato preveggente tiene per sé, dedicandolo non alle spese correnti ma al finanziamento del Welfare, questo bene non solo sminuito ma spesso inviso. Iozzo è convinto, come il liberal Meade, che la ricchezza delle nazioni o dell’Europa (il Pil) vada calcolata con nuovi metodi (Meade chiamava il suo Stato Agathopia, il Buon posto in cui vivere). Il criterio non è più la differenza fra quel che costano i beni prodotti e il reddito ricavato. È il patrimonio di cui dispone lo Stato, è la sua gestione: l’obiettivo è sapere se alle generazioni future verrà lasciato un capitale maggiore o minore di quello che noi abbiamo ricevuto dalle generazioni precedenti. Le leggi di Maastricht applicano tale metodo, prescrivendo come primo passo l’estinzione del debito pubblico.
Resta da compiere il secondo passo: la trasformazione del debito in un credito che protegga i cittadini in tempi di crisi. Non tutti hanno come patrimonio il petrolio norvegese, ma Oslo è un modello e ogni Stato ha l’acqua, l’aria, possibilmente nuove forme di energia: altrettanti beni pubblici consumati dall’individuo. Poiché petrolio e gas prima o poi finiranno, la Norvegia ha istituito con i ricavi energetici un Fondo pensione sottratto all’azzardo dei mercati. Solo il 4% del Fondo può essere annualmente usato per la spesa pubblica, lasciando ai cittadini un capitale a disposizione per il futuro, quando il patrimonio sarà esaurito (ogni norvegese è proprietario virtuale attraverso il Fondo di circa 100.000 euro, contro una quota del debito pubblico a carico di ogni italiano di 30.000 euro).
Avendo combattuto i debiti pubblici, l’Europa potrebbe escogitare iniziative simili, inducendo gli Stati a garantire nuova sicurezza sociale. Non solo; potrebbe far capire che nei costi vanno ormai incluse l’acqua sperperata, l’aria inquinata: beni non rinnovabili come il petrolio norvegese. Si parla molto di far ripartire la crescita. Ma essa non potrà esser quella di ieri, e questa verità va detta: perché i paesi industrializzati non correranno come Asia o Sudamerica; e perché la nostra crescita sarà d’avanguardia solo se ecologicamente sostenibile.
Di qui l’importanza delle prossime elezioni: non solo quelle nazionali, ma quelle del Parlamento europeo nel 2014. Chi griderà contro le tasse e contro l’Europa troppo patrigna e severa promette un paese dei balocchi, dove è sempre domenica e sempre truffa. Meglio saperlo prima, che troppo tardi. Meglio ricominciare l’eroismo, di cui non cessa il bisogno.
Per riscoprire i valori religiosi alla base dell’economia di mercato
La finanza
e il vitello d’oro
di JONATHAN SACKS *
L’idea potrebbe apparire assurda. Cosa ha a che fare la religione con l’economia o la spiritualità con le istituzioni finanziarie? La risposta è che l’economia di mercato ha radici religiose. Essa è infatti emersa in un’Europa permeata di valori ebraico-cristiani.
Come ha evidenziato l’economista di Harvard, David Landes, fino al XV secolo, la Cina era molto progredita in una vasta gamma di tecnologie rispetto all’Occidente. Tuttavia, la Cina non ha creato un’economia di mercato, non ha visto la nascita della scienza moderna né la rivoluzione industriale. Come afferma Landes, essa non possedeva l’insieme di valori che l’ebraismo e il cristianesimo hanno dato all’Europa.
L’economia di mercato è profondamente coerente con i valori esposti nella Bibbia ebraica. La prosperità materiale è una benedizione divina. La povertà schiaccia lo spirito e il corpo, e alleviarla è un compito sacro. Il lavoro è una nobile vocazione. "Vivrai - recita il Salmo - del lavoro delle tue mani, sarai felice e godrai di ogni bene".
La competizione alimenta il fuoco dell’inventiva: "La rivalità fra gli scribi aumenta la sapienza". Dio ci invita - dicevano i rabbini - a essere suoi collaboratori nell’opera della creazione. I diritti di proprietà privata sono fondamentali per la libertà. Quando il ruolo di guida di Mosè viene messo in discussione, egli afferma: "Io non ho preso da costoro neppure un asino". Elia sfida re Acab per la confisca della vigna di Nabot. Oltre a ciò, afferma Landes, la Bibbia introduce il concetto del tempo lineare, rifiutando l’idea che il tempo sia un ciclo in cui, in definitiva, nulla cambia.
I primi strumenti finanziari del capitalismo moderno furono sviluppati nel XIV secolo dalle banche nelle città cristiane di Firenze, Pisa, Genova e Venezia. Max Weber ha tracciato i collegamenti fra l’etica protestante e lo spirito del capitalismo moderno. Michael Novak ha fatto la stessa cosa per il cattolicesimo. Gli ebrei, pur essendo solo lo 0,2 per cento della popolazione mondiale, sono stati insigniti di più del 30 per cento dei premi Nobel per l’economia. Quando ho chiesto all’economista dello sviluppo Jeffrey Sachs che cosa motivava il suo lavoro, ha risposto senza esitare, tikkun olam, l’imperativo ebraico di "risanare un mondo disgregato". La nascita dell’economia moderna è inseparabile dalle sue radici ebraico-cristiane.
Tuttavia, non si tratta di un equilibrio stabile. Il mercato mina i valori stessi che gli hanno dato origine. La cultura consumistica è profondamente antitetica alla dignità umana. Accende il desiderio, mina la felicità, indebolisce la capacità di rinviare la soddisfazione dei propri istinti e ci rende ciechi di fronte alla distinzione, di vitale importanza, fra il prezzo delle cose e il loro valore.
Gli strumenti finanziari al centro della crisi attuale, mutui subprime e cartolarizzazione del rischio, sono così complessi che i governi, le autorità normative e, a volte, persino i banchieri stessi non sono riusciti a comprenderli nella loro estrema vulnerabilità. Quanti hanno incoraggiato le persone ad accendere mutui che poi non sono in grado di pagare, si sono resi colpevoli di ciò che la Bibbia definisce mettere "inciampo davanti al cieco".
La creazione di un debito personale e collettivo in America e in Europa dovrebbe aver inviato segnali di allarme a chiunque abbia familiarità con le istituzioni bibliche degli anni sabbatici e giubilari, indetti proprio a causa del pericolo che le persone venissero intrappolate dal debito.
Questi sono sintomi di un fallimento più ampio: considerare il mercato come un mezzo e non come un fine. La Bibbia offre un’immagine vivida di cosa accade quando le persone smettono di vedere l’oro come mezzo di scambio e cominciano a considerarlo come oggetto di culto. Chiama questo il vitello d’oro. Il suo antidoto è il sabato: un giorno su sette in cui né lavorare né dare lavoro, né vendere né comprare. È un tempo dedicato a cose che hanno un valore, non un prezzo: famiglia, comunità e rendimento di grazie a Dio per ciò che abbiamo, invece di preoccuparci di quel che ci manca. Non è una coincidenza che in Gran Bretagna, la domenica e i mercati finanziari siano stati deregolati più o meno nello stesso momento.
Stabilizzare l’euro è una cosa, guarire la cultura che lo circonda è un’altra. Un mondo in cui i valori materiali sono tutto e i valori spirituali sono nulla, non genera né uno Stato stabile né una buona società. È giunto il momento di riscoprire l’etica ebraico-cristiana della dignità umana a immagine di Dio. L’umanità non è stata creata per servire i mercati. I mercati sono stati creati per servire l’umanità.
* ©L’Osservatore Romano 9-10 dicembre 2011
Quel massone di Mosè
L’origine misteriosa dell’ebraismo
Finalmente tradotto in Italia il fondamentale studio di Reinhold gesuita, poi protestante e "libero muratore"
Il relativismo che propone confronti e analizza le relazioni è il motore che fa avanzare la conoscenza
Il profeta è visto come un capo politico che ha fatto della sapienza egizia la religione del suo popolo
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 09.12.2011)
Il relativismo è la bestia nera di tutti i fondamentalismi religiosi. Chi propone una verità esclusiva non tollera che la sua merce sia messa sullo stesso banco delle altre, paragonata e soppesata e magari individuata come un prodotto storico, con tanto di data di nascita e rapporti di parentela con quelli della concorrenza. E tuttavia non c’è dubbio sul fatto che la cultura occidentale è impastata di relativismo: lo scopriamo ogni volta che ci confrontiamo con l’alterità culturale di paesi dove - è storia di questi giorni - i meccanismi elettorali democratici portano al potere partiti religiosi. Naturalmente, qui si impone una distinzione necessaria: c’è un relativismo banalizzante, quello che si esprime nella considerazione che non c’è niente di nuovo sotto il sole; e c’è un relativismo stimolante, quello che confronta, analizza e cerca di cogliere le relazioni. Quando Niccolò Machiavelli confrontò Mosé con Numa Pompilio e la religione antica di Roma con quella della Roma cattolica, fece il salto di qualità che distingue il relativismo banalizzante dal distacco intellettuale di chi si pone come osservatore al di fuori e davanti all’oggetto osservato. In termini di storia della cultura, la conquista del punto di vista dell’osservatore occupò la cultura europea su di un lungo arco di tempo, dal ’400 italiano fino all’Illuminismo, passando attraverso la scoperta dell’America e le tragedie delle guerre di religione e del colonialismo benedetto dai missionari cristiani.
Ma questo stesso percorso si propose e continua a riproporsi nella vita delle persone e può essere compiuto nello spazio di una vita individuale. Lo dimostra il caso di Carl Leonhard Reinhold, un autore importante nella cultura di lingua tedesca che solo oggi trova per la prima volta un editore italiano. Sulle sue qualità di scrittore basti dire che senza la sua opera la filosofia di Kant non avrebbe conquistato il mondo della scuola e dell’università nel secolo d’oro dell’idealismo filosofico.
Ma la ragione che riporta tra noi questo scritto va cercata nella biografia intellettuale di uno dei più noti e letti studiosi del fenomeno religioso e della teologia politica. Senza questo scritto forse Jan Assmann non avrebbe avuto l’idea di fondo del suo Mosé l’egizio. Perché questo è precisamente il tema del piccolo libro di Reinhold, I misteri ebraici ovvero la più antica massoneria religiosa, edito da Quodlibet (pagg. 258, 18 euro), a cura e con un saggio di Gianluca Paolucci e con una introduzione scritta appositamente da Jan Assmann.
Davanti a un titolo che parla dell’ebraismo come la più antica massoneria forse qualche lettore si chiederà se non si tratta per caso dell’accusa di complotto giudaico-massonico scagliato contro i rivoluzionari francesi a fine ’700 dall’abate Barruel e diventato la fissazione dei gesuiti della Civiltà cattolica negli anni di quella feroce battaglia antigiudaica e antimassonica che li vide condividere l’antisemitismo del "socialismo degli imbecilli". Il fatto è che Reinhold fu gesuita e massone. Un fatto solo apparentemente singolare, che ci aiuta a capire come la storia cambi continuamente i colori delle cose e i significati delle parole. Nel suo tempo tra Compagnia di Gesù e Massoneria ci fu un’intensa simpatia; i gesuiti frequentavano le logge stimolati dall’idea che presiedeva all’origine del loro Ordine, quella della fiducia nel potenziale rivoluzionario dell’intelligenza come strumento d’azione di una piccola élite illuminata da Dio.
Carl Leonhard Reinhold (nato in Austria nel 1758, morto a Weimar nel 1823) cominciò la sua carriera come gesuita e lo rimase fino allo scioglimento della Compagnia, un evento traumatico per un Ordine religioso che si sentì mal protetto dal papato e che vide la dispersione degli ex membri. La storia dei gesuiti nell’impero asburgico e dei loro percorsi massonici, come ha mostrato un ottimo libro di Antonio Trampus, vide i membri del disciolto Ordine religioso confluire nelle logge massoniche per dividersi poi tra un versante illuministico aperto a idee rousseauiane e un versante reazionario di appoggio all’assolutismo.
Reinhold non seguì né l’uno né l’altro filone: convertitosi al protestantesimo per l’influsso di Herder, trovò in Kant il maestro della sua vita, colui al quale dedicò la sua straordinaria capacità di divulgatore e di docente universitario nella fase matura della sua attività. Da questo rapido curriculum si può già intuire come i percorsi della sua vita lo avessero predisposto al relativismo e stimolato alla comparazione.
La Compagnia di Gesù aveva portato un suo straordinario contributo in tal senso quando, sul fondamento di un impulso mistico all’azione salvifica, aveva innestato il suo metodo che fu detto dell’accomodamento: porsi dalla parte dell’altro, imparare la lingua di giapponesi, cinesi, indios d’America, abituarsi a vedere le cose coi loro occhi come mezzo per poter meglio conquistare neofiti al cristianesimo. Ma il mezzo era rischioso, come intuirono i rivali domenicani. Comportava da un lato l’abitudine a ricercare analogie e parentele, e dall’altro la semplificazione delle dottrine, col risultato di spogliare il cristianesimo della lussureggiante vegetazione di culture europee cresciuta sul suo tronco.
Quanto al lavoro della comparazione, i punti obbligati di riferimento erano sempre quelli: la religione ebraica, madre che resisteva all’abbraccio e alle vessazioni dei figli cristiani; e la misteriosa religione egizia, con quelle piramidi e quei tipi umani così simili ai reperti archeologici delle culture dell’America centrale da suggerire l’ipotesi di una lontanissima migrazione di popoli mediterranei oltre Oceano.
L’idea di Reinhold fu semplicissima: mentre altri sviluppavano comparazioni superficiali cercando analogie formali fra miti pagani antichi e racconti biblici, egli propose l’idea di un nesso diretto, un anello storico di trasmissione tra i misteri egizi e la religione mosaica. L’anello sarebbe stato Mosé, una specie di massone ante litteram, un capo politico che avrebbe fatto della sapienza segreta degli egizi la religione del popolo ebraico.
Era un passo ulteriore rispetto all’intuizione di Machiavelli. Si poteva così ritrovare il nucleo della religione di Mosé in quei misteri egizi così familiari ai frequentatori delle logge massoniche e prima che a loro all’erudizione curiosa e raffinata della cultura gesuitica del ’600. Dalla comparazione nasceva un’ipotesi di derivazione e di sviluppo. È su questa base che si doveva sviluppare ai nostri giorni la ricerca di Jan Assman. Ma anche, prima e più in generale, doveva partire da qui l’impulso a porre la comparazione come metodo al centro della moderna scienza storica delle religioni in un assetto statale del sapere.
L’etica religiosa e il suo “doppio”
Nel suo “Il disagio dei monoteismi” il grande studioso Jan Assmann ripercorre le radici del Dio unico e propone una nuova strategia per la tolleranza
di Maurizio Bettini (la Repubblica, 27.03.2016)
L’interpretazione che Jan Assmann ha dato delle forme del monoteismo costituisce uno dei contributi più interessanti che le ricerche storiche e antropologiche, in campo religioso, abbiano ricevuto negli ultimi anni. Sua in particolare la formula “esclusione Mosaica” per definire un tratto che accomuna i tre grandi monoteismi: ossia la convinzione che il Dio sia unico, e che non possa essere se non il proprio («non avrai altro Dio all’infuori di me»).
Questo atteggiamento conduce a considerare “falsi dèi” le divinità altrui, concependo il proprio Dio come l’unico “vero”; e ha scatenato per questo sanguinosi conflitti di religione, come oggi purtroppo ancora vediamo. Al contrario, nelle religioni politeistiche - in cui era perfino possibile identificare una divinità altrui con una divinità propria - il conflitto per affermare il “vero dio” era rimasto del tutto sconosciuto.
Di Assmann sono già state tradotte opere fondamentali, quali Mosé l’egizio o Il prezzo del monoteismo: oggi il lettore ha a disposizione una sintesi viva, aggiornata del suo pensiero nel libro intervista rilasciata a Elisabetta Colagrossi ( Il disagio dei monoteismi, Morcelliana).
Cosa propone Assmann nel suo dialogo? In primo luogo una revisione della “esclusione mosaica”: l’opposizione fra dio vero e dio falso si sarebbe affermata non tanto nei libri mosaici della Bibbia, dove in effetti si parla solo di esclusiva “fedeltà” al Dio d’Israele, ma nei profeti più recenti, come Geremia e il Deutero-Isaia. Questo mutamento sarebbe anzi avvenuto per influsso dello Zoroastrismo, la religione iranica. Di conseguenza, aggiungiamo noi, l’opposizione tra dio vero e dio falso avrebbe la sua origine in una cultura religiosa esterna a quella ebraica. Su quest’ultima ipotesi ci nasce un dubbio, però. Non potrebbe essere questo un modo per alleggerire, diciamo così, la responsabilità del monoteismo ebraico, e di quelli che da esso sono derivati, nell’elaborazione di un modello religioso che oggi appare sempre più messo in discussione?
Il lettore attento più ai problemi dell’oggi che a quelli delle origini, troverà comunque di grande interesse la proposta che Assmann avanza per superare gli odierni conflitti di religione: ossia un ritorno a ciò che l’Aufklärung tedesca definiva “religio duplex”. Una religione “doppia” nel senso che accanto, o sotto, quelle rivelate - e spesso tra loro in conflitto - si riconosceva l’esistenza di un’unica e comune religione a carattere etico: un punto di fuga “trascendentale” in cui tutte le diverse fedi, senza rinunciare alle proprie specificità, possono convergere.
Jan Assmann
Monoteismi e violenza
di Lucetta Scaraffia (Il Sole-24 Ore, Domenica, 17.04.2016)
Se molti ritengono che ogni religione possa comunque divenire causa di violenza, la maggior parte delle persone tende a pensare che questa sia piuttosto connaturata ai monoteismi. Jan Assmann sotiene che «c’è molto da riflettere sul fatto che proprio la religione, che oggi appare come l’elemento principale di antagonismo politico e culturale, nel mondo antico al contrario servisse come elemento per mettersi in relazione con altri popoli e culture» scrive, collegando così i suoi studi sulle religioni egizia ed ebraica con i conflitti religiosi attuali.
Infatti è proprio sulla differenza fra le religioni “pagane” e i monoteismi che vertono le sue ricerche sulla tradizione religiosa egizia, che considera appartenente a una classe definibile come cosmoteismo.
La definizione presuppone un rapporto più simbiotico nei confronti della natura e si fonda sulla divinizzazione di entità cosmiche come il sole, la luna, l’acqua: divinità che, nella loro immediata esperibilità, erano in sostanza traducibili da una religione all’altra. Infatti erano solo i nomi delle divinità a cambiare, non la loro identità. Questa tecnica di traduzione dei nomi degli dei era funzionale al diritto internazionale: i trattati con gli altri stati venivano ratificati con giuramenti in nome delle divinità, e questo poteva essere fatto solo se c’era una corrispondenza degli dei.
Questa traducibilità degli dei è stata rotta dal monoteismo biblico, una religione della trascendenza: il Dio di Mosé, quello della Bibbia, non si lasciava mettere in relazione con alcun altro nome di Dio in un’altra religione. Assmann ha chiamato questa differenza fra cosmoteismo e monoteismo «distinzione mosaica».
Ciò che blocca la traducibilità delle religioni è secondo lo studioso il concetto di rivelazione, trasmessa una volta per sempre, che fonda una verità assoluta.
In seguito alla rivelazione, infatti, le religioni si dividono in vere o false, oppure fedeli o traditrici del vero Dio. Quindi non comparabili e profondamente differenti perché appartenenti a due realtà opposte: quella del vero e quella del falso.
Assmann pensa che un’attenuazione dei conflitti religiosi in corso si possa ottenere solo attraverso la creazione di una piattaforma comune condivisa, come dovrebbero essere i Diritti umani. Secondo lo studioso si potrà uscire dalla distinzione mosaica attraverso la costruzione di una religione a due piani, una religione che «ha imparato a concepirsi come una tra le molteplici e a guardarsi con gli occhi degli altri».
E riprendendo l’opera di Lessing Nathan il saggio, un rifacimento dell’antica leggenda delle “tre anella”, Assmann propone di considerare vera la religione di chi ne dà testimonianza con la sua vita, attraverso una condotta migliore degli altri.
La grande perversione
di Leonardo Boff *
Per risolvere la crisi economico-finanziaria della Grecia e dell’Italia è stato costituito, per esigenza della Banca Centrale Europea, un governo di soli tecnici senza la presenza di politici, nell’illusione che si tratti di un problema economico che deve essere risolto economicamente. Chi capisce solo di economia finisce col non capire neppure l’economia.
La crisi non è di economia mal gestita, ma di etica e di umanità. E queste hanno a che vedere con la politica. Per questo, la prima lezione di un marxismo minimo è capire che l’economia non è parte della matematica e della statistica, ma un capitolo della politica. Gran parte del lavoro di Marx è dedicato alla destrutturazione dell’economia politica del capitale. Quando in Inghilterra si visse una crisi simile all’attuale e si creò un governo di tecnici, Marx espresse con ironia e derisione dure critiche perché prevedeva un totale fallimento, come effettivamente successe. Non si può usare il veleno che ha creato la crisi come rimedio per curare la crisi.
Per guidare i rispettivi governi di Grecia e Italia hanno chiamato gente che apparteneva agli alti livelli dirigenziali delle banche. Sono state le banche e le borse a provocare l’attuale crisi che ha affondato tutto il sistema economico. Questi signori sono come talebani fondamentalisti: credono in buona fede nei dogmi del mercato libero e nel gioco delle borse. In quale punto dell’universo si proclama l’ideale del greed is good, ovvero l’avidità è un bene? Come fare di un vizio (e diciamo subito, di un peccato) una virtù? Questi signori sono seduti a Wall Street e alla City di Londra. Sono volpi che non si limitano a guardare le galline, ma le divorano. Con le loro manipolazioni trasferiscono grandi fortune nelle mani di pochi. E quando è scoppiata la crisi sono stati soccorsi con miliardi di dollari sottratti ai lavoratori e ai pensionati. Barack Obama si è dimostrato debole, inchinandosi più a loro che alla società civile. Con i soldi ricevuti hanno continuato la baldoria, giacché la promessa regolazione dei mercati è rimasta lettera morta. Milioni di persone vivono nella disoccupazione e nel precariato, soprattutto i giovani che stanno riempiendo le piazze, indignati contro l’avidità, la disuguaglianza sociale e la crudeltà del capitale.
Persone formate al catechismo del pensiero unico neolibersita tireranno fuori la Grecia e l’Italia dal pantano? Quello che sta succedendo è il sacrificio di tutta una società sull’altare delle banche e del sistema finanziario.
Visto che la maggioranza degli economisti dell’estabilishment non pensa (né ha bisogno), tentiamo di comprendere la crisi alla luce di due pensatori che nello stesso anno, il 1944, negli Stati Uniti, ci hanno fornito una illuminante chiave di lettura. Il primo è il filosofo ed economista ungaro-canadese Karl Polanyi con il suo La grande trasformazione (1944; Einaudi, 1974), un In che consiste? Consiste nella dittatura dell’economia. Dopo la Seconda Guerra Mondiale che ha aiutato a superare la grande Depressione del 1929, il capitalismo ha messo a segno un colpo da maestro: ha annullato la politica, mandato in esilio l’etica e imposto la dittatura dell’economia. A partire dalla quale non si ha più, come si era sempre avuta, una società con mercato, ma una società di solo mercato. L’ambito economico struttura tutto e fa di tutto commercio, sorretto da una crudele concorrenza e da una sfacciata avidità. Questa trasformazione ha lacerato i legami sociali e ha approfondito il fossato fra ricchi e poveri in ogni Paese e a livello internazionale.
L’altro pensatore è un filosofo della scuola di Francoforte, esiliato negli Usa, Max Horkheimer, autore de L’eclissi della ragione (1947; Einaudi 1969). Qui si danno i motivi per la Grande Trasformazione di cui parla Polanyi che consistono fondamentalmente in questo: la ragione non è più orientata dalla verità e dal senso delle cose, ma è stata sequestrata dal processo produttivo e ridotta ad una funzione strumentale «trasformata in un semplice meccanismo molesto di registrazione dei fatti». Deplora che concetti come «giustizia, uguaglianza, felicità, tolleranza, per secoli giudicati inerenti alla ragione, abbiano perso le loro radici intellettuali». Quando la società eclissa la ragione, diventa cieca, perde significato lo stare insieme, rimane impaludata nel pantano degli interessi individuali o corporativi. È quello che abbiamo visto nell’attuale crisi. I premi Nobel dell’Economia, i più umanisti, Paul Krugman e Joseph Stiglitz hanno scritto ripetutamente che i “giocatori” di Wall Street dovrebbero stare in carcere come ladri e banditi.
Ora, in Grecia e in Italia, la Grande Trasformazione si è guadagnata un altro nome: si chiama la Grande Perversione.
* Teologo e filosofo
* Adista/Segni Nuovi, n. 92 del 10/12/2011
SOCIETA’
Nel mondo globale l’«altro» non c’è più
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 01.12.2011)
Alla fine “noi” siamo davvero gli “altri”. Basta con la condiscendenza verso i primitivi, basta con il paternalismo di chi pensa che, se si impegnassero, gli aborigeni di qualsiasi latitudine potrebbero raggiungere l’unico livello di civilizzazione universalmente riconosciuto come tale, e cioè quello che obbedisce agli standard dell’Occidente illuminista. Un conto era quando gli altri se ne stavano nei loro villaggi, in atolli sperduti o in avamposti inaccessibili. Adesso invece abitano le nostre città, esercitando su di noi lo stesso sguardo sorpreso e indagatore che fino a poche generazioni fa l’Occidente riservava al resto del pianeta. Noi il centro, loro periferia. Tutto mescolato, adesso. Senza che gli altri ci diano almeno la soddisfazione di lasciarsi corrompere dai nostri vizi. La globalizzazione viaggia a modo suo e i simboli tribali convivono con la logica del consumismo. Non è un “altro” mondo: è il mondo così com’è. Il nostro e, nel contempo, il loro.
Una provocazione? La lanterna dell’antropologo di Marshall Sahlins (a cura di Cristiano Casalini, Medusa, pagine 64, euro 9,00) è anche questo, non c’è dubbio. Nello stesso tempo, è un’eccellente introduzione al pensiero di quello che viene ormai considerato il maggior antropologo vivente: statunitense, classe 1930, Sahlins ha studiato in particolare le culture della Polinesia, pubblicando numerosi saggi, alcuni dei quali già noti al lettore italiano (Capitan Cook, per esempio, edito da Donzelli nel 1997, e Un grosso sbaglio, uscito da Eleuthera lo scorso anno). Quanto alla Lanterna dell’antropologo, si tratta di una conferenza pronunciata nel 1997 a Nanterre, quindi in Francia, patria dell’Illuminismo. Il posto ideale per “rovesciare la torta” dei pregiudizi occidentali. Partendo, letteralmente, dalla metafora cara al maestro di Sahlins, Leslie White, per il quale la base di ogni società era marxianamente costituita dalle tecnologie e dai mezzi di produzione, su cui in un secondo momento si stendeva la “glassa” delle forme simboliche e culturali. Niente affatto, ribatte l’intemperante allievo, che pure di economia se ne intende: i simboli vengono prima, le tecnologie contano fino a un certo punto. Altrimenti non si spiegherebbe il fenomeno dei cosiddetti develop man, i melanesiani che, una volta inurbati, continuano a praticare le antiche usanze tribali, magari adoperando mazzi di banconote al posto delle conchiglie votive.
«La riflessione di Sahlins ha come obiettivo il superamento di un equivoco fortemente radicato - sottolinea l’antropologo Franco La Cecla -, quello per cui le culture tradizionali sarebbero fatalmente destinate a soccombere quando vengono a contatto con l’Occidente. È un pregiudizio che in realtà ne sottintende un altro, vale a dire che le culture degli “altri” siano immutabili nelle loro strutture e immobili nel tempo. Prive di storia, insomma. Oggi sappiamo che questa distinzione, cara a un autore come Claude Lévi-Strauss, non ha più senso. Le culture che fino a poco tempo fa immaginavamo rigide e fisse si dimostrano, al contrario, capaci di adattarsi in modo originale ai processi della globalizzazione. Da un certo punto di vista, questo rappresenta la fine del mito della “purezza” degli indigeni, che fa da contraltare alla presunta malvagità del nostro modello di civilizzazione. Il quale, tra l’altro, non per questo rinuncia a proporsi come egemonico. Chi parla di “culture subalterne” lo fa nella convinzione di non essere subalterno. Di essere centro, non periferia». E il denaro? «Il riconoscimento dell’elemento simbolico insito nella moneta è ben presente, oltre che in Sahlins, negli studi di Maurice Bloch. In generale, poi, l’attenzione per i significati profondi dei processi economici è determinate in ambito neomarxista, dove si tende a dare per scontato che gli elementi culturali vengano prima di quelli strutturali o, se si preferisce, sovrastrutturali». Ma una rivoluzione come quella suggerita da Sahlins non si traduce in una sorta di relativismo? «Non direi - afferma la Cecla -. Anche da un punto di vista religioso, mi pare interessante l’intuizione per cui alcune popolazioni indigene possono ormai considerare il cristianesimo appreso dai missionari come una componente essenziale della loro identità».
Meno severo verso l’eredità dell’antropologia classica si dimostra lo storico Franco Cardini: «È una disciplina che discende da buone intenzioni e da cattiva coscienza insieme - sintetizza -. In questo c’è tutto il paradosso dell’Occidente, che prende coscienza della propria marginalità con Erodoto, per il quale è evidente che il centro sta altrove, nell’Impero persiano, rispetto al quale i greci sono sudditi periferici. Si tratta di un atteggiamento unico nella storia della cultura, perché di solito ogni civiltà rivendica un primato, un’unicità che la rende centrale e irriducibile a confronto delle altre. Lo stesso cristianesimo, a ben vedere, si fonda su una promessa altrettanto insolita: già per Agostino la legittimità dell’Impero romano è considerata la condizione che rende possibile la nascita di Gesù, eppure Gesù non è romano. Appartiene a un popolo che in quel momento è assoggettato all’autorità centrale, un popolo che, tra l’altro, fonda da sempre la propria identità sul principio di elezione e quindi di centralità». Da dove viene, allora, la cattiva coscienza? «Dal fatto che queste premesse sono clamorosamente contraddette dalla prassi dell’Occidente - risponde Cardini -, che con la forza bruta dell’azione ha cercato di imporre il proprio modello al resto del mondo. Cercando, nei momenti più drammatici, un correttivo nel principio di tolleranza, che emerge nel Seicento, con Locke, in ambito religioso e diventa universale nel secolo seguente». E adesso a che punto siamo? «Al punto indicato da san Paolo nella Lettera ai Galati - rilancia Cardini -. Per effetto della globalizzazione ci rendiamo conto che davvero non esiste più “giudeo né greco" e che l’alterità è, da un certo punto di vista, l’unico tratto che accomuna gli esseri umani. Siamo tutti gli altri di qualcuno, ma questo non si traduce in una resa al relativismo. Se mi permette il gioco di parole, solo il riconoscimento della relatività delle culture rende possibile la relazione fra di esse. Del resto, è quello che sosteneva Cusano nel De pace fidei. E pensare che a quell’epoca, a metà Quattrocento, Colombo non aveva ancora scoperto l’America...»
Alessandro Zaccuri
UNA STORIA DI LUNGA DURATA. Materiali sul tema:
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
Il SONNO PROFONDO DEI GIUDICI COSTITUZIONALISTI, LA "LOGICA" DEL MENTITORE E IL GOLPISTICO TRIONFO DEL PARTITO DI "FORZA ITALIA".
Perché gli ideali non sono assoluti ma figli di un’epoca
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 22 novembre 2011)
Si può dissentire radicalmente sulle premesse e consentire pienamente sulle conclusioni? È la domanda che ci si pone al termine della lettura dell’ultimo, profondo, appassionato, angosciato ma non rassegnato libro di Roberta De Monticelli, La questione civile - Sul buon uso dell’indignazione (Raffaello Cortina Editore).
Il tema è la giustizia, massima virtù sociale; lo scopo è il risveglio alla giustizia attraverso "esercizi di disgusto". L’impianto è filosofico. Il discorso si svolge da Platone e Aristotele, indugia su quello che sembra il preferito, Immanuel Kant, per arrivare a Simone Weil e a Bobbio. Ma, la riflessione spazia: antropologia, psicologia, teologia, giurisprudenza, letteratura. Tutto può essere messo a frutto e fatto reagire, al di sopra delle divisioni disciplinari. Trattandosi di filosofia pratica, cioè orientata all’azione sul suo oggetto - la giustizia -, inevitabile è incontrare di continuo le brutture, le oscenità, le meschinità, gli arrivismi, l’ipocrisia, l’illegalità, la corruzione, le prepotenze, le viltà e il servilismo, cioè la catastrofe etica della nostra società.
Il libro, con una certa sorpresa del lettore, non inizia dalla giustizia. Vi arriva attraverso la bellezza. Bellezza e giustizia: che rapporto c’è? Dicendo bellezza, non si deve pensare a estetismo, snobismo, collezionismo d’arte e cose di questo genere. Se bellezza è armonia e proporzione dei rapporti - di elementi figurativi, architettonici, poetici e musicali, e anche sociali - allora possiamo dire che la bellezza è forma visibile della giustizia. Il rapporto è stretto, inscindibile. Vale l’eterna massima della filosofia scolastica: iustum, bonum, verum et pulchrum convertuntur. Queste qualità dell ’esistenza vivono l’una nell’altra. Non occorre intuizione metafisica per capirne i nessi. Risultano ancora più chiari rovesciando il positivo in negativo: l’ingiustizia è cattiva; il cattivo è falso; il falso è brutto. Si può arrivare alla giustizia a partire dalla bellezza, ma si sarebbe potuto anche dal bonum o dal verum. A partire da uno, si arriva agli altri.
Fin qui, tutto bene. Il passo successivo è da discutere. Giustizia, bontà, verità e bellezza sono "valori", "cose che valgono", non in termini economici, (non c’è un mercato dei valori secondo la legge della domanda e dell’offerta), ma in termini morali. Sono il lato positivo, prezioso, della vita. A meno di pervertimento in bruta animalità, dove vige il fatto compiuto, cioè la "giustizia del più forte", non ne possiamo fare a meno. Potremmo perfino dire che li chiamiamo valori, ma sono necessità, secondo il motto di Kant: se non c’è posto per la giustizia sulla terra, non ha senso la vita degli uomini.
De Monticelli dà grande importanza alla questione del fondamento. È convinta che i valori siano "dati", non perché li si possa constatare e ammirare in sé e per sé. Nel teatro greco, per esempio, "La Pace" si presentava come una fanciulla, avvolta in un peplo trasparente, e tutti esclamavano: "come è bella!". Di lei si poteva dire: "Come è bella!" perché la bellezza le era incorporata e gli spettatori ne facevano esperienza. Dunque, "i fatti stessi si qualificano come beni e come mali" (belli o brutti, giusti o ingiusti, ecc.) e a noi non resta che prendere atto del loro valore, come constatazione. Ne è convinta De Monticelli e chi, come Platone, crede che esista "la bellezza" che si riflette in "le cose belle". Se fosse così, sarebbe possibile fondare la morale in termini oggettivi: le cose belle sono belle perché portano in sé la bellezza, non perché l’attribuiamo loro, secondo la nostra concezione. Insomma: è bello ciò che è bello, non ciò che piace: piace perché è bello, non viceversa (lo stesso, per gli altri valori).
Come possiamo non insorgere - leggiamo nel libro - di fronte alle casette a schiera che deturpano le colline senesi dipinte da Simone Martini? Non è questo, oggettivamente, un insulto al bello, e dirlo non è forse una constatazione di fatto? "Nerone era crudele", non è la stessa cosa? Andiamo oltre: Adolf Hitler era un essere degenerato. Chi non sarebbe d’accordo? Dunque il brutto è incorporato nelle casette a schiera del Senese; la crudeltà, in Nerone; la degenerazione, in Hitler. Ripeto: chi non sarebbe d’accordo? Ma perché siamo d’accordo? Sono "le cose" (le villette, Nerone, Hitler) che parlano a noi, o siamo noi che parliamo a e di loro?
Siamo al problema del fondamento. Al "monismo" essenzialista - fatti e valori sono tutt’uno - si oppone la separazione "dualista": ciò che è non è detto che debba o non debba essere. Un muro separa i fatti dai valori: gli uni non "convertuntur" affatto negli altri. Riconsideriamo l’esempio estremo di Hitler. Ora (e, purtroppo, nemmeno da tutti) si ritiene sia stato uno dei massimi flagelli dell’umanità, ma non allora. C’era chi lo riteneva un nuovo messia, perfino tra gli uomini di chiesa. Per milioni di persone, in Germania e altrove, era il salvatore della civiltà europea contro la barbarie asiatica, impersonata dal comunismo sovietico. In nome del "valore" superiore della civiltà occidentale, si è stati perfino disposti a chiudere gli occhi davanti alla shoah: evidentemente, la difesa della vita degli ebrei si riteneva un non-valore, o un valore minore, di fronte ad altri valori, come il capitalismo o la religione cristiana.
C’era un valore assoluto, obiettivo, e, se sì, qual era? No, non c’era. C’era invece una lotta mortale tra valori soggettivi e relativi, con le rispettive armate schierate su fronti opposti. Noi sappiamo, ora, come sarebbe stato giusto, buono, vero, e bello schierarsi. Ma, come osservatori, dobbiamo ammettere che entrambe le parti, allora, ritenevano di combattere la buona battaglia e che ciascuna delle due vedeva incorporate nelle armi dell’altra il male, e nelle proprie il bene.
Dunque, è più probabile che la condizione esistenziale degli esseri umani non sia quella assunta da De Monticelli. Per lei, il valore delle cose, positivo o negativo, si manifesta nella loro esistenza. Dunque la precede. Per chi non pensa metafisicamente, invece, è l’esistenza che precede i valori. Il che è come dire ch’essi non sono dati ma sono i viventi a doverli dare; vengono dalla nostra libertà e responsabilità e non li troveremo fuori, ma in noi.
Sappiamo che entrambe le posizioni, monismo e dualismo, sono aperte a grandi rischi. Non sono quindi i rischi, gli argomenti per propendere per l’uno o per l’altro. La metafisica dei valori espone al dogmatismo, quando la loro gestione finisca, come è possibile, nelle mani di autorità etiche: stato, partito-chiesa, chiesa. L’anti-metafisica espone all’indifferenza o al soggettivismo estremo e distruttivo, quando prevale l’idea che le questioni di valore non abbiano senso o siano affari da gestire ciascuno per sé.
Piuttosto, riprendendo l’interrogativo iniziale, che è quello davvero importante per il vivere comune, possiamo dire che, quali che siano le opinioni circa il fondamento, sui contenuti si può perfettamente convenire. Gli uni riterranno di andar scoprendo valori; gli altri, di andar creandoli. Da punti di partenza diversi si può giungere alla medesima meta e, cosa consolante, si può, anzi si deve, operare insieme. A condizione di isolare le ali estreme: i dogmatici e i nichilisti. Per riprendere il titolo del libro di De Monticelli: a queste condizioni, far buon uso della comune indignazione è possibile.
Il centro non è più l’Europa
di Filippo Gentiloni (il manifesto, 20 novembre 2011)
La storia delle religioni, come è ormai ben noto, segue la storia della politica e anche quella della economia. Un discorso che vale, ovviamente, anche per il cristianesimo: i suoi centri, i suoi "palazzi" non si trovano più dove si trovavano una volta, cioè in Europa o negli Stati Uniti, culturalmente dipendenti dall’Europa: si trovano ormai là dove nasce il mondo che è nuovo sotto tutti gli aspetti, compreso quello religioso.
È il mondo asiatico, quello che unisce Cina e India, "L’impero di Cindia", come lo ha definito Federico Rampini: «Sono tre milioni e mezzo. Sono più giovani di noi , lavorano più di noi. Hanno più risparmi e più capitoli di noi da investire. Cindia è il nuovo centro de mondo, dove si decide il futuro dell’umanità». Il discorso vale, ovviamente, anche per le religioni, che fanno parte delle società in cambiamento e in piena evoluzione. Roma, anche se a malincuore, deve tenerne conto.
L’Asia, d’altronde, sta riportando in primo piano le sue antiche posizioni religiose. Il buddismo, ad esempio, sta riconquistando posizioni importanti dovunque. Cristianesimo e anche islam appaiono, invece, fermi sulle posizioni tradizionali. Il vecchio occidente è già oggi molto meno importante di quanto non appaia a Roma, a Londra o a New York.
Quello che sta accadendo in Cindia è importante anche per tutti i poveri del mondo. E per tutte le chiese. Ancora Rampini: «È finita l’era in cui l’uomo bianco - una piccola minoranza sul pianeta - poteva vivere di rendita sulla sua superiorità scientifica e tecnologica, industriale e militare» e, possiamo aggiungere, anche religiosa. Lo devono tenere presente anche le chiese cristiane, cattoliche, protestanti e ortodosse. I loro confini saranno sempre più precisi e limitati. Il loro universalismo sempre più teorico che pratico.
Grecia, se l’Europa espelle Platone
È chiaro che siamo lontani dagli antichi modelli di bellezza. Ma non è possibile negare che è all’origine di tutto
La reazione stizzita di Milan Kundera quando la moglie gli mostra la prima pagina del giornale
di Bernardo Valli (la Repubblica, 18.11.2011)
PARIGI. Nel caffé affacciato sulla bocca del métro Sèvres-Babylone, entrano i coniugi Kundera, Eva e Milan. Lei ha in mano una copia di Le Monde appena acquistato nella vicina edicola. Lo stende sul tavolino e gettata un’occhiata ai titoli di prima pagina non trattiene un’esclamazione di sdegno.Gira il giornale affinché il marito possa leggere il motivo della sua indignazione; e infatti lo scrittore ha la stessa reazione, seguita da un gesto desolato della mano. Non conosco la lingua ceca e quindi non riesco a capire le parole che si scambiano, ma incuriosito dalla breve, agitata mimica dei coniugi Kundera, corro a comperare il quotidiano, e mi salta subito agli occhi quel che ha provocato il loro lampo di collera. È un titolo, nel quale ci si chiede se la Grecia sia un paese europeo. «La Grèce est-elle un pays européen?»
Anch’io vengo colto da un risentimento improvviso nei confronti di chi ha preparato il terreno a quella bestemmia di dimensione storica. Bestemmia che mette in dubbio con tracotanza, con smisurato, indecente orgoglio (l’aristotelica hybris) l’essenza dell’Europa. Vale a dire dell’Occidente, che non a caso è la traduzione greca di Europa; e il cui pensiero originale, non solo il nome, viene da quella terra della quale si mette in discussione il carattere europeo.
È facile scorgere in questa reazione un’eccessiva dose di retorica. Infatti c’è. È un po’ come scandire: siamo tutti greci europei. Perché no? Affidarsi ai tradizionali punti di orientamento offertici dalla storia per muoversi nel presente conduce in una sfera metafisica. La Grecia non produce più gli eterni modelli della bellezza. È chiaro. Cosi come Roma non è più la patria del diritto, né del medioevo ascetico e trascendente, né del Rinascimento che ha elevato il significato della vita terrena. È chiarissimo. Lo stesso vale per tanti altri centri della civiltà europea. Tutti quei passati non appartengono tuttavia al dominio delle nazioni o degli Stati di oggi, ma al (crociano) "regno della verità". Costituiscono nel loro insieme, con le loro differenze e contraddizioni, il comun denominatore culturale dell’Europa odierna, multilingue ma con idee affini che si sono influenzate a vicenda, formando attraverso i secoli una forte corrente di pensiero. Affidarsi unicamente al livello dei redditi, alle peripezie finanziarie e alle oscillazioni della moneta unica per determinare l’appartenenza all’Europa e di conseguenza alla sua civiltà, è semplicemente un delitto. È uno dei punti più alti toccati dalla nostra ignoranza di europei del XXI secolo. Pensare che la Grecia del presente non possa coabitare, per la sua struttura economica e sociale, alla zona dell’euro è un conto. Ma nessuno ha il diritto di pensare che essa non sia più europea. Il suo passato, quel che della sua civiltà è vivo nel nostro pensiero, nella nostra cultura, appartiene appunto al "regno della verità", di cui noi tutti europei facciamo parte. La Grecia più di qualsiasi altro paese poiché è stata l’origine di tutto. Si può amputare l’Europa?
Milan Kundera è un europeo che può capire più di altri cosa significa essere escluso dall’Europa. Come cecoslovacco ha vissuto il tradimento dell’Europa che nel 1938, con l’accordo di Monaco, abbandonò il suo paese alla Germania di Hitler. E dieci anni dopo ha vissuto la separazione della "cortina di ferro", tra l’Europa dell’Est e quella dell’Ovest. La tragedia cecoslovacca si è ripetuta nel ’68, quando i comunisti hanno cercato di dare "un volto umano" (ossia "europeo", cosi dicevano) al regime imposto da Mosca. La quale, puntuale, mandò i carri armati, senza che nessuno si muovesse in Occidente. Era dunque facile da interpretare la stizza di Milan Kundera nel caffè di Sèvres-Babylone, davanti al titolo provocatorio sulla Grecia. Gli veniva spontaneo identificarsi con quel paese. Non poteva non indignarsi e non spazzar via con un gesto della mano l’interrogativo che metteva in dubbio il carattere europeo della Grecia, madre culturale d’Europa. Nessun carro armato minaccia Atene. Le calamità che possono abbattersi, e che già si abbattono, sulla Grecia sono di un’altra natura. Quelle visibili, concrete, sono economiche. Ma c’è l’umiliazione che è altrettanto pesante.
E i greci sono orgogliosi. Dopo secoli di occupazione ottomana sono ritornati in Europa, pagando un altissimo prezzo di sangue. Byron e Chateaubriand si sono associati alla loro lotta. Delacroix gli ha dedicato quadri che all’epoca equivalevano a romanzi. E Mussolini la pagò cara, e con lui gli italiani, quando pensò di poter "rompere la schiena"alla Grecia. La resistenza al regime dei colonnelli, impossessatisi del potere nel 1967, fu aspra e coraggiosa. L’ho seguita per anni con passione e rispetto. Quando negli ultimi Settanta la fragile, disordinata democrazia greca chiese di entrare nella Comunità europea, Valéry Giscard d’Estaing, allora presidente della repubblica in Francia, replicò agli oppositori che non si poteva «chiudere la porta in faccia a Platone». La logica di quella decisione era essenzialmente politica, poiché la Grecia non aveva tutti i requisiti. Ma c’era l’aspetto simbolico. Ad Atene era nata la democrazia, la politica, il teatro, la poesia, la filosofia, la bellezza. Il paese rurale e depresso, dove gli armatori miliardari non pagavano le tasse, restava sinonimo di cultura. Non lo si poteva certo lasciare fuori dalla porta. I suoi abitanti rappresentano poco più di un millesimo della popolazione mondiale. I suoi monumenti e le sue opere letterarie e filosofiche costituiscono una porzione assai più grande come vestigia della civiltà occidentale. Di cui sono le fondamenta. Senza le quali il denominatore comune culturale alla base dell’Europa non esisterebbe.
Il futuro dell’Unione tra crisi e populismo
I filosofi e l’economia, simposio a Parigi
di Jurgen Habermas (la Repubblica, 10.11.2011)
Sul breve termine, tutte le attenzioni devono essere concentrate sulla crisi. Ma al di là di questo, gli attori politici non dovrebbero dimenticare i difetti di costruzione che sono alla base dell’unione monetaria e che potranno essere rimossi non più solo attraverso un’unione politica adeguata: l’Unione Europea non dispone delle competenze necessarie per armonizzare le economie nazionali, che presentano divergenze marcate sul piano della competitività. Il «patto per l’Europa» appena ribadito serve solo a ribadire un difetto antico: gli accordi non vincolanti fra capi di governo sono o inefficaci o antidemocratici e per questa ragione devono essere sostituiti da un’incontestabile istituzionalizzazione delle decisioni comuni.
Da quando l’embedded capitalism è tramontato e i mercati globalizzati della politica stanno evaporando, diventa sempre più difficile per tutti gli Stati dell’Ocse stimolare la crescita economica e garantire una ripartizione giusta degli introiti, e garantire la sicurezza sociale della maggioranza della popolazione. Dopo la liberalizzazione dei tassi di cambio, questo problema è stato disinnescato dall’accettazione dell’inflazione. Dal momento che questa strategia comporta dei costi elevati, i governi utilizzano sempre più la scappatoia delle partecipazioni ai bilanci pubblici finanziate con il credito. La crisi finanziaria che va avanti dal 2008 ha fissato anche il meccanismo dell’indebitamento pubblico a spese delle generazioni future; e nel frattempo non si capisce come le politiche di austerity - difficili da imporre sul fronte interno - possano essere conciliate sul lungo periodo con il mantenimento di un livello sopportabile di Stato sociale.
Dato il peso dei problemi, ci si aspetterebbe che i politici, senza rinvii e senza condizioni, mettano finalmente sul tavolo le carte europee, in modo da chiarire esplicitamente alle popolazioni la relazione fra costi a breve e utilità reale, vale a dire il significato storico del progetto europeo. Dovrebbero superare la loro paura dei sondaggi di opinione e affidarsi alla potenza persuasiva dei buoni argomenti. Invece strizzano l’occhio a un populismo che loro stessi hanno favorito occultando un tema complesso e impopolare. Sulla soglia dell’unificazione economica e politica dell’Europa, la politica sembra esitare e tirarsi indietro. Perché questa paralisi? È una prospettiva prigioniera del XIX secolo, che impone la risposta nota del demos: un popolo europeo non esiste e dunque un’unione politica degna di questo nome sarebbe costruita sulla sabbia. A questa interpretazione vorrei contrapporne un’altra: una frammentazione politica duratura nel mondo e in Europa è in contraddizione con la crescita sistemica di una società mondiale multiculturale e blocca qualsiasi progresso nel campo della civiltà giuridica costituzionale dei rapporti di forza fra Stati e dei rapporti di forza sociali.
Fino a questo momento l’Ue è stata portata avanti e monopolizzata dalle élite politiche e il risultato è stata una pericolosa asimmetria tra la partecipazione democratica dei popoli ai benefici che i loro Governi «ricavano» per sé stessi sul remoto palcoscenico di Bruxelles e l’indifferenza, per non dire assenza di partecipazione, dei cittadini dell’Ue rispetto alle decisioni del loro Parlamento di Strasburgo. Questa osservazione non giustifica una sostanzializzazione dei «popoli». Solo il populismo di destra continua a proiettare la caricatura di grandi soggetti nazionali che si chiudono a vicenda e bloccano qualsiasi formazione di volontà transnazionale.
Negli Stati territoriali si è dovuto cominciare installando l’orizzonte fluido di un mondo della vita diviso in grandi spazi e attraverso relazioni complesse, e riempirlo con un contesto comunicativo rilevante della società civile, con il suo sistema circolatorio delle idee. Va da sé che una cosa del genere si può fare soltanto nel quadro di una cultura politica condivisa che resta abbastanza vaga. Ma più le popolazioni nazionali prendono coscienza, e più i media fanno prendere loro coscienza, della profonda influenza che le decisioni dell’Ue esercitano sulla loro vita quotidiana, più crescerà il loro interesse a esercitare anche i loro diritti democratici in quanto cittadini dell’Unione. Questo fattore di impatto è diventato tangibile con la crisi dell’euro. La crisi costringe anche il Consiglio europeo, a malincuore, a prendere decisioni che possono pesare in modo squilibrato sui bilanci nazionali.
La conseguenza di un «governo economico» comune, che piace anche al Governo tedesco, significherebbe che l’esigenza centrale della competitività di tutti i Paesi della comunità economica europea si estenderebbe ben al di là delle politiche finanziarie ed economiche e arriverebbe a toccare i bilanci nazionali, intervenendo fino al ventricolo del muscolo cardiaco, cioè fino al diritto dei Parlamenti nazionali di prendere decisioni di spesa.
Se non si vuole violare in modo flagrante il diritto vigente, questa riforma in sospeso è possibile solo trasferendo altre competenze degli Stati membri all’Unione. Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno raggiunto un compromesso tra il liberalismo economico tedesco e lo statalismo francese che ha contenuti ben diversi. Se ho ben capito, cercano di trasformare il federalismo esecutivo implicito nel trattato di Lisbona in un predominio del Consiglio europeo (l’organo intergovernativo dell’Unione) contrario al trattato. Un sistema del genere consentirebbe di trasferire gli imperativi dei mercati sui bilanci nazionali senza alcuna reale legittimazione democratica.
L’Unione deve garantire quello che la Legge fondamentale della Repubblica federale tedesca chiama (art. 106, comma 2): «l’omogeneità delle condizioni di vita». Questa «omogeneità» fa riferimento solo a una stima delle situazioni della vita sociale che sia accettabile dal punto di vista della giustizia distributiva, non a un livellamento delle differenze culturali. Un’integrazione politica fondata sul benessere sociale è indispensabile se si vuole proteggere la pluralità nazionale e la ricchezza culturale del biotopo della «vecchia Europa» dal livellamento nel quadro di una globalizzazione che avanza a ritmo sostenuto.
© Le Monde (tradotto da Denis Trierweiler e Fabio Galimberti)
ENZO PACI: "Parigi 30 marzo 1960. Ho trovato Ricoeur alla Gare de Lyon. Non ci vedevamo da quindici anni. Da Wietzendorf era partito all’improvviso. Dormivo. Non volle svegliarmi e lasciò un pane nel mio giaciglio [...]" (Enzo Paci, Diario fenomenologico, Milano 1961, pp. 97-08).
L’homunculus di Goethe è il simbolo di quella che Husserl denuncia come “crisi delle scienze”.
Dal “Diario fenomenologico” di Enzo Paci, una tracciadi di lettura della "Crisi delle scienze europee" di Edmund Husserl
a c. di Federico La Sala*
4 febbraio 1960.
Nel patto biblico tra Dio e l’uomo c’è una clausola fondamentale: “Sia chiaro” dice Dio “che creatore sono soltanto io che ti ho creato e non tu. Io sono, su questo punto, un Dio geloso”. Come può essere nato un pensiero di questo genere?
Per una analisi fenomenologica vedo due vie. La prima è la proiezione, in Dio, del padre. Il figlio, per essere uomo, deve ribellarsi al padre. È la via del complesso edipico, la via di Freud. Ovviamente la proiezione si pone come divieto e come gelosia proprio perché il divieto deve essere superato. L’uomo diventa “virile” per la violazione della proibizione. Se il padre è Dio, raggiunge il massimo della umana virilità e cioè diventa Dio. Questa posizione è immatura. Infatti il padre è sempre divinizzato. La sostituzione al padre è eroica: il figlio diventa o Dio o il Diavolo. La maturità dell’uomo in quanto uomo viene raggiunta proprio quando cade la divinizzazione del padre. Se il padre diventa un uomo, anche il figlio diventa un uomo. Di solito ciò avviene quando il figlio, di fatto, diventa padre. di un nuovo figlio, e così via. Di fronte a suo figlio, il figlio divenuto padre si pacifica col proprio padre: ora lo può. Spetta a lui l’essere divinizzato.
La seconda via. Nell’atto sessuale procreante non mi accoppio per avere un figlio. Nella esperienza jn prima persona di me stesso e dell’altro nell’atto sessuale non sento di. procreare, non ho I’esperienza in prima persona del “far nascere”. L’evidenza sessuale è l’evidenza dell’altro in me e di me nell’altro. Non può essere I’evidenza del figlio che non c’è ancora.. Se le conseguenze saranno procreative, nota Husserl, lo saprò dopo. Dai fatti. Ma posso pormi la domanda: “come avviene?” Fenomenologicamente questo “come” deve essere sperimentato dal soggetto. Ma il soggetto è il soggetto che inizia la sua nascita in seguito alla fecondazione. Non sono io ma è mio figlio, o sono io, ma nell’atto del mio nascere. C’è qui .rn distacco. Il distacco che si inizia subito, appena compiuto I’atto sessuale. Anche la donna si estrania da me. Ciò che ha di mio in sé è ancora mio, ma non sono più io.
Nell’amore, all’inizio, ho proiettato me stesso in lei: è diventata la “mia vita”. Proprio per questo devo possederla: per “riavere la mia vita”. Ma la “mia vita”, invece di essermi restituita, diventa concretamente un’altra vita. Così si diventa padre, diventando un altro soggetto. Ma così si è figli: si inizia geneticamente la propria storia, la storia della propria soggettività. Procreare e nascere sono due operazioni mie, di me soggetto, che mi sfuggono.
La prima mi sfugge nèl distacco che segue all’atto sessuale dal quale ha inizio, appunto, la procreazione. La seconda operazione, il nascere, mi sfugge perché che sia mia mi viene detto da altri. Non è in prima persona. Non posso ricordare la mia vita intrauterina e la mia nascita. Le due operazioni, che mi sfuggono, sono proiettate in Dio che diventa il solo creatore.
C’è un’implicazione: lo studio scientifico della procreazione e della nascita è, alla fine, la genetica. Come scienza fenomenologica rientra, in qualche modo, nell’antropologia, oltre che nella psicologia e nella somatologia, in quanto il suo problema si pone come studio delle modalità e del significato della genesi, sperimentata soggettivamente, e per ciò fenomenologicamente. Una delle conseguenze dell’implicazione scientifica è la seguente: lo studio scientifico della genesi, lo studio scientifico obiettivo, può porsi come un sostituto dell’atto sessuale.
Uno scienziato si può accorgere, magari tardi, che la conoscenza scientifica si è per lui sostituita alla “conoscenza” in senso biblico e cioè all’atto sessuale. Ciò può accadere al filosofo in quanto ricercatore della genesi del mondo. O allo storico: la genesi è la storia.
La feticizzazione è fascinosa perché sostituisce l’atto sessuale creativo. I,e tecniche possono esercitare, da questo punto di vista, un’attrazione magica. Una tecnica può sostituire I’atto sessuale e, in cibernetica, la procreazione mancata. Il tecnico vorrà costruire il figlio come un homunculus nell’inconsapevole desiderio di sostituire agli uomini le macchine. L’homunculus di Goethe è il simbolo di quella che Husserl denuncia come “crisi delle scienze”.
* Enzo Paci, Diario fenomenologico, Il Saggiatore, Milano 1961, pp. 95-97.
L’ILLUMINISMO. Adottò il motto oraziano «Sapere aude». Kant: «Abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza»
IL PARLAMENTO. Luogo di una vera e propria rappresentazione che in quanto tale ha bisogno del pubblico
Il segreto della democrazia: non avere segreti
Una forma di governo che si fonda sulla piena visibilità del potere, incompatibile con l’esistenza degli arcana imperii cari agli assolutisti
Un intervento del 1988. Si intitola Democrazia e segreto il volume, in uscita da Einaudi (pp. XIX-53, 9), che raccoglie alcuni interventi di Norberto Bobbio (1909-2004), tra i quali una relazione tenuta nel marzo del 1988 a Sassari, nell’ambito di un convegno di studi gius-internazionalistici sul tema «Il trattato segreto». Di questo testo proponiamo qui uno stralcio. Pubblicato la prima volta in edizione fuori commercio come plaquette einaudiana alla fine del 2009, il libro è ora disponibile per tutti, con la prefazione ampliata di Marco Revelli.
di Norberto Bobbio (La Stampa, 16.10.2011)
In un articolo del 1981, intitolato L’alto e il basso. Il tema della conoscenza proibita nel ’500 e ’600 , Carlo Ginzburg prese lo spunto dal passo paolino ( Lettera ai Romani , 11, 20), che nella vulgata suona «Noli autem sapere, sed time», interpretato via via sempre più nel senso di un invito alla rinunzia alla superbia intellettuale e quindi come un ammonimento contro la eccessiva curiosità del sapiente, per fare qualche riflessione sui limiti assegnati alla nostra conoscenza dalla presenza di tre sfere invalicabili: gli arcana Dei , gli arcana naturae e gli arcana imperii , strettamente connessi tra di loro. Chi aveva trasgredito quei limiti era stato punito: esempi classici, Prometeo e Icaro. Ma potremmo aggiungere, forse il più familiare, almeno alla tradizione culturale italiana, l’Ulisse dantesco.
Le grandi scoperte astronomiche del Cinquecento rappresentarono una prima trasgressione del divieto di penetrare gli arcana naturae. Quali ripercussioni avrebbe avuto questa prima trasgressione della prescrizione di arrestarsi di fronte a una delle tre terre proibite, rispetto alla analoga prescrizione nelle altre due? Alla metà del Seicento, racconta Ginzburg, il cardinale Sforza Pallavicino acconsentì a riconoscere che era lecito penetrare i segreti della natura perché le leggi naturali sono poche, semplici e inviolabili. Ma non ammise che ciò che valeva per i segreti della natura valesse anche per i segreti di Dio e per quelli del potere, ritenendo che fosse un atto di temerità violare l’imperscrutabilità della volontà del sovrano non altrimenti che quella di Dio. Negli stessi anni Virgilio Malvezzi ripeté analogo concetto dicendo che «chi per isciogliere i fisici avvenimenti adduce Iddio per ragione è poco filosofo, e chi non lo adduce per iscioglimento di politici, è poco cristiano».
Per contrasto, il pensiero illuministico adottò come suo motto l’oraziano «Sapere aude». Alcuni anni or sono si svolse sulla Rivista storica italiana un dotto dibattito sull’origine del motto (di cui io avevo trovato un altro esempio nel saggio in difesa della codificazione scritto da Thibaut nel 1814) tra Luigi Firpo e Franco Venturi. Firpo risalì a Gassendi, citato dal Sorbière nel suo Diario.
Com’è noto, il motto campeggia nello scritto sull’illuminismo di Kant, che Kant traduce così «Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza». È in questo saggio che Kant afferma che l’illuminismo consiste nell’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso e che alla base dell’illuminismo sta la più semplice di tutte le libertà, la libertà di far uso pubblico della propria ragione. «Il pubblico uso della propria ragione deve essere libero, ed esso solo può attuare l’illuminismo fra gli uomini». Conducendo alle logiche conseguenze questa affermazione, si scopre che vengono a cadere i divieti tradizionali posti a guardia degli arcana imperii . Per l’uomo uscito di minorità, il potere non ha, non deve più avere, segreti. Perché l’uomo diventato maggiorenne possa fare pubblico uso della propria ragione è necessario che egli abbia una conoscenza piena degli affari di Stato. Perché egli possa avere una piena conoscenza degli affari di Stato, è necessario che il potere agisca in pubblico. Cade una delle ragioni del segreto di Stato: l’ignoranza del volgo che faceva dire dal Tasso a Torrismondo: «I segreti di Stato al folle volgo ben commessi non sono».
Spetta a Kant il merito di aver posto con la massima chiarezza il problema della pubblicità del potere e di averne dato una giustificazione etica. [...] Affinché questo principio della pubblicità possa essere non solo dichiarato dal filosofo ma attuato dal politico, in modo che, per esprimerci ancora una volta con Kant, non si dia ragione al detto comune «Questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica», occorre che il potere pubblico sia controllabile. Ma in quale forma di governo questo controllo può avvenire se non in quella in cui il popolo ha il diritto di prendere parte attiva alla vita politica?
Kant certamente non è uno scrittore democratico nel senso che per «popolo» intende non tutti i cittadini ma solo i cittadini indipendenti, ma quale sia il valore che egli attribuisce al controllo popolare sugli atti del governo risulta ancora una volta in tema di diritto internazionale là dove, affermando che la pace perpetua può essere assicurata soltanto da una confederazione di Stati che abbiano la stessa forma di governo repubblicana, ne dà la ragione col celebre argomento che solo con il controllo popolare la guerra cesserà di essere un capriccio dei principi, o, con l’espressione kantiana, una «partita di piacere».
Sino a che il potere del re era considerato come derivante dal potere di Dio, gli arcana imperii erano una diretta conseguenza degli arcana Dei . In uno dei suoi discorsi Giacomo I, principe assoluto e teorico dell’assolutismo, definì la prerogativa, cioè il potere regio non sottoposto al potere del parlamento, come un «mistero di Stato» comprensibile solo ai principi, ai re-sacerdoti che, come dèi in terra, amministrano il mistero del governo. Un linguaggio come questo in cui l’appello al mistero svolge un ruolo essenziale, e si sottrae ad ogni richiesta di spiegazione razionale sul fondamento del potere e del conseguente obbligo di obbedienza, è destinato a scomparire via via che il discorso del governo si sposta dall’alto al basso, e, per restare in Inghilterra, dalla prerogativa del re ai diritti del parlamento.
Il linguaggio esoterico e misterico non si addice all’assemblea di rappresentanti eletti periodicamente dal popolo, e quindi responsabili di fronte agli elettori, pochi o molti che siano, ma non si addiceva del resto neppure alla democrazia degli antichi, quando il popolo si riuniva in piazza ad ascoltare gli oratori e quindi a deliberare. Il parlamento è il luogo dove il potere viene rappresentato nel duplice senso che esso è il luogo dove si riuniscono i rappresentanti e dove, nello stesso tempo, avviene una vera e propria rappresentazione, che in quanto rappresentazione ha bisogno del pubblico e deve quindi svolgersi in pubblico. Coglie bene questo nesso tra rappresentanza e rappresentazione Carl Schmitt quando scrive: «La rappresentanza può aver luogo soltanto nella sfera della pubblicità. Non c’è alcuna rappresentanza se si svolga in segreto e a quattr’occhi [...]. Un parlamento ha carattere rappresentativo solo in quanto crede che la sua attività sia pubblica. Sedute segrete, accordi e decisioni segrete di qualsivoglia comitato possono essere molto significative ed importanti, ma non possono avere mai un carattere rappresentativo».
Con ciò non si vuol dire che ogni forma di segretezza debba essere esclusa: il voto segreto può essere in certi casi opportuno; la pubblicità delle Commissioni parlamentari non è riconosciuta. C’è anche chi, come Giovanni Sartori, nella nuova edizione, aggiornata ed arricchita, della sua teoria della democrazia, condanna la richiesta di una politica sempre più visibile, come poco consapevole delle conseguenze che la maggiore visibilità comporta. Ma non si può non riconoscere con Schmitt che «rappresentare» significa anche «rendere visibile e rendere presente un essere invisibile mediante un essere pubblicamente presente».
Possiamo concludere questa riflessione con Richard Sennett che nel suo aureo libretto sull’autorità, pubblicato nel 1980 (tradotto in italiano nel 1981) afferma: «Tutte le idee di democrazia che abbiamo ereditato dal XVIII secolo sono basate sulla nozione di un’autorità visibile». E cita il detto di Jefferson: «Il dirigente deve agire con discrezione ma non gli deve essere concesso di tenere per sé le sue intenzioni».
SAPERE AUDE! USCIRE DAL "CERCHIO DEI CERCHI" DELLA FILOSOFIA DI HEGEL.
PAROLA DI ENRICO BERTI: Più realista, e meno illuminista, di Kant è stato Hegel, il quale ha criticato i pedagogisti suoi contemporanei che volevano insegnare a «pensare con la propria testa».
E’ talmente vero quello che pensa Berti (e, con lui, la maggioranza dei suoi colleghi di filosofia e storia della filosofia) che qualsiasi studente e ogni studentessa per educarsi all’uso della sua propria intelligenza e alla sua "facoltà di giudizio" deve ricorrere non alle sue (e loro) letture di Kant, ma a qualche perito o a qualche manuale di estimo: l’estimo è la disciplina che ha la finalità di fornire gli strumenti metodologici per la valutazione dei beni per i quali non sussiste un apprezzamento univoco!!!
MATERIALI SUL TEMA, NEL SITO, IN:
Gioacchino - da Fiore!!!
Fuga dalla libertà
Guida antropologica al "servo arbitrio"
Un brano della lezione che Zagrebelsky terrà a Roma per il ciclo "Le parole della politica" Dobbiamo liberarci dei nemici che ci portiamo dentro. Per farlo servono diversità, legalità, cultura uguaglianza e sobrietà Sono quattro i tipi umani che rinunciano al loro volere: il conformista, l’opportunista, il gretto e il timoroso
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 16.06.2011)
Nel 1549 fu pubblicato un libello in cui si studiava lo spettacolo sorprendente della disponibilità degli esseri umani, in massa, a essere servi, quando sarebbe sufficiente decidere di non servire più, per essere ipso facto liberi. Che cosa è - parole di Etienne de la Boétie, amico di Montaigne - questa complicità degli oppressi con l’oppressore, questo vizio mostruoso che non merita nemmeno il titolo di codardia, che non trova un nome abbastanza spregevole?. Il nome - apparso allora per la prima volta - è "servitù volontaria". Un ossimoro: se è volontaria, non è serva e, se è serva, non è volontaria. Eppure, la formula ha una sua forza e una sua ragion d’essere. Indica il caso in cui, in vista di un certo risultato utile, ci s’impone da sé la rinuncia alla libertà del proprio volere o, quantomeno, ci si adatta alla rinuncia. Entrano in scena i tipi umani quali noi siamo: il conformista, l’opportunista, il gretto e il timoroso: materia per antropologi.
a) Il conformista è chi non dà valore a se stesso, se non in quanto ugualizzato agli altri; colui che si chiede non che cosa si aspetta da sé, ma cosa gli altri si aspettano da lui. L’uomo-massa è l’espressione per indicare chi solo nel "far parte" trova la sua individualità e in tal modo la perde. L’ossessione, che può diventare malattia, è sentirsi "a posto", "accettato". Il conformista è arrivista e formalista: vuole approdare in una terra che non è la sua, e non in quanto essere, ma in quanto apparire. Così, il desiderio di imitare si traduce nello spontaneo soggiogarsi alle opinioni, e l’autenticità della vita si sacrifica alla peggiore e più ridicola delle sudditanze: l’affettazione modaiola. La "tirannia della pubblica opinione" è stata denunciata, già a metà dell’Ottocento da John Stuart Mill, e oggi, nella società dell’immagine, è certo più pericolosa di allora. L’individuo si sente come sotto lo sguardo collettivo di una severa censura, se sgarra, o di benevola approvazione, se si conforma. Questo sguardo è a una sorta di polizia morale. La sua forza, a differenza della "polizia" senza aggettivi, è interiore. Ma il fatto d’essere prodotta da noi stessi è forse libertà? Un uomo così è libero, o non assomiglia piuttosto a una scimmia?
b) L’opportunista è un carrierista, disposto a "mettersi al traino". Il potere altrui è la sua occasione, quando gli passa vicino e riesce ad agganciarlo. Per ottenere favori e protezione, che cosa può dare in cambio? Piaggeria e fedeltà, cioè rinuncia alla libertà. Messosi nella disponibilità del protettore, cessa d’essere libero e si trasforma in materiale di costruzione di sistemi di potere. Così, a partire dalla libertà, si creano catene soffocanti che legano gli uni agli altri. Si può illudersi d’essere liberi. Lo capisci quando chi ti sta sopra ti chiede di pagare il prezzo dei favori che hai ricevuto. Allora, t’accorgi d’essere prigioniero d’una struttura di potere basata su favori e ricatti, che ti prende dal basso e ti solleva in alto, a misura del tuo servilismo.
Quel de la Boétie, già nominato, ha descritto questo meccanismo. Il segreto del dominio sta in un sistema a scatole cinesi: un capo, circondato da pochi sodali che, distribuendo favori e cariche, a loro volta ne assoldano altri come complici in prevaricazioni e nefandezze, e questi altri a loro volta. Così la rete si estende, da poche unità, a centinaia, a migliaia, a milioni. Alla fine, il numero degli oppressori è quasi uguale a quello degli oppressi, perché appena compare una cricca, tutto il peggio, tutta la feccia degli ambiziosi fa gruppo attorno a lui per aver parte al bottino. Il tiranno genera tirannelli. Ma questi sono uomini liberi o parassiti come quelli che infestano il regno animale e vegetale?
c) L’uomo gretto è interessato solo a ciò che tocca la piccola sfera dei suoi interessi privati, indifferente o sospettoso verso la vita che si svolge al di là, che chiama spregiativamente "la politica". Rispetto alle questioni comuni, il suo atteggiamento l’ipocrita superiorità: "certo gli uni hanno torto, ma nemmeno gli altri hanno ragione", dunque è meglio non immischiarsi. La grettezza è incapace di pensieri generali. Al più, in comune si coltivano piccoli interessi, hobby, manie, peccatucci privati, unitamente a rancori verso la società nel suo insieme. Nell’ambiente ristretto dove si alimentano queste attività e questi umori, ci si sente sicuri di sé e aggressivi ma, appena se ne esce, si è come storditi, spersi, impotenti.
La grettezza si accompagna al narcisismo e alla finta ricerca della cosiddetta "autenticità" personale che si traduce in astenia politica accompagnata dal desiderio d’esibirsi. In apparenza, è profondità esistenziale; in realtà è la vuotaggine della società dell’immagine. Il profeta della società gretta è Alexis de Tocqueville, nella sua analisi della "uguaglianza solitaria": vedo una folla innumerevole di uomini simili ed eguali che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri. Ciascuno di loro, tenendosi appartato, è estraneo al destino degli altri: se ancora gli rimane una famiglia, si può dire almeno che non abbia più patria.
Su questa massa solitaria s’innesta la grande, terribile e celebre visione del dispotismo democratico: "al di sopra di costoro s’innalza un potere immenso e tutelare, che s’incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. E’ assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Ama che i cittadini siano contenti, purché non pensino che a stare contenti". Ora, chi invoca su di sé un potere di tal genere, "immenso e tutelare", è un uomo libero o è un bambino fissato nell’età infantile?
d) La libertà può fare paura ai timorosi. Siamo sicuri di reggere le conseguenze della libertà? Bisogna fare i conti con la nostra "costituzione psichica", dice Freud: l’uomo civile ha barattato una parte della sua libertà per un po’ di sicurezza. Chi più di tutti e magistralmente ha descritto il conflitto tra libertà e sicurezza è Fëdor Dostoevskij, nel celebre dialogo del Grande Inquisitore. A dispetto dei discorsi degli idealisti, l’essere umano aspira solo a liberarsi della libertà e a deporla ai piedi degli inquisitori, in cambio della sicurezza del "pane terreno", simbolo della mercificazione dell’esistenza. Il "pane terreno" che l’uomo del nostro tempo considera indispensabile si è allargato illimitatamente, fino a dare ragione al motto di spirito di Voltaire, tanto brillante quanto beffardo: "il superfluo, cosa molto necessaria". E’ libero un uomo così ossessionato dalle cose materiali, o non assomiglia piuttosto alla pecora che fa gregge sotto la guida del pastore?
Conformismo, opportunismo, grettezza e debolezza: ecco dunque, della libertà, i nemici che l’insidiano "liberamente", dall’interno del carattere degli esseri umani. Il conformista la sacrifica all’apparenza; l’opportunista, alla carriera; il gretto, all’egoismo; il debole, alla sicurezza. La libertà, oggi, più che dal controllo dei corpi e delle azioni, è insidiata da queste ragioni d’omologazione delle anime. Potrebbe perfino sospettarsi che la lunga guerra contro le arbitrarie costrizioni esterne, condotte per mezzo delle costituzioni e dei diritti umani, sia stata alla fine funzionale non alla libertà, ma alla libertà di cedere liberamente la nostra libertà.
La libertà ha bisogno che ci liberiamo dei nemici che portiamo dentro di noi. Il conformismo, si combatte con l’amore per la diversità; l’opportunismo, con la legalità e l’uguaglianza; la grettezza, con la cultura; la debolezza, con la sobrietà. Diversità, legalità e uguaglianza, cultura e sobrietà: ecco il necessario nutrimento della libertà.
Benedetto XVI riceve 2mila zingari europei
di Luca Kocci (il manifesto, 12 giugno 2011)
Duemila zingari di tutta Europa ricevuti in udienza dal papa in Vaticano. È la prima volta che succede - solo Paolo VI, nel 1965, incontrò un gruppo di rom a Pomezia poco prima della chiusura del Concilio Vaticano II - e, in tempi in cui destra e Lega Nord a Milano agitano la minaccia "zingaropoli" e il sindaco Alemanno a Roma chiama "piano nomadi" gli sgomberi continui e la distruzione dei campi rom, il gesto di Benedetto XVI assume un valore simbolico. E forse anche "riparatorio" per la cacciata da parte dei gendarmi del Vaticano dei 200 rom che, nel venerdì santo, si erano rifugiati nella basilica di San Paolo.
«Mai più il vostro popolo sia oggetto di vessazioni, di rifiuto e di disprezzo», ha detto ieri il papa ai duemila rappresentanti dei gruppi rom, sinti, manuches, kale, yenish e travellers, arrivati a Roma da tutta Europa - dove i zingari sono fra i 12 e i 15 milioni, 170mila in Italia - per il 75esimo anniversario del martirio e il 150esimo della nascita del beato Zefirino Giménez Malla, gitano di origine spagnola ucciso durante la guerra civile franchista.
E quattro testimoni hanno raccontato la realtà degli zingari di oggi e di ieri. Fra loro l’austriaca Ceija Stojka, sopravvissuta ai lager nazisti di Auschwitz, Ravensbruk e Bergen-Belsen, dove si è consumato il Porrajmos, «divoramento», ovvero lo sterminio degli zingari - oltre 500mila le vittime - voluto da Hitler e a cui collaborò anche il regime fascista di Mussolini istituendo campi di concentramento a loro dedicati: «Quando sono nata in Austria la mia famiglia contava più di 200 persone e solo sei di noi sono sopravvissuti alla guerra e allo sterminio», ha raccontato. «Ero bambina e dovevo vedere morire altri bambini, anziani, donne, uomini; e vivevo fra i morti e i quasi morti nei campi. Sento ancora gli strilli delle Ss, vedo le sorveglianti con i loro cani grandi che ci calpestavano, sento ancora l’odore dei corpi bruciati. Non è possibile dimenticare tutto questo, l’Europa non deve dimenticarlo. Oggi i campi di concentramento si sono addormentati e non si dovranno mai più svegliare. Ho paura però che Auschwitz stia solo dormendo».
«Siete un popolo che non ha vissuto ideologie nazionaliste, non ha aspirato a possedere una terra o a dominare altre genti. Siete rimasti senza patria e avete considerato idealmente l’intero continente come la vostra casa», ha replicato il papa. «Da parte vostra, ricercate sempre la giustizia, la legalità, la riconciliazione», e le amministrazioni si rendano conto che «la ricerca di alloggi e lavoro dignitosi e di istruzione per i figli sono le basi su cui costruire quell’integrazione da cui trarrete beneficio voi e l’intera società». Chissà se a qualche sindaco "cattolico" saranno fischiate le orecchie.
Un saggio di Galli e Stefani spiega come è stato declinato il comandamento
La potenza del nome di Dio e quella dello Stato
I totalitarismi del Novecento hanno provato a sostituirsi alla divinità promettendo la realizzazione del paradiso in terra e la creazione dell’uomo nuovo liberato dal male
di Antonio Gnoli (la Repubblica 3.6.11
Le nostre società, cosiddette secolarizzate, non hanno mai smesso realmente di interrogarsi sul ruolo etico, normativo, religioso e perfino politico dei Dieci Comandamenti. E non sorprende perciò che una casa editrice laica come il Mulino abbia deciso di pubblicare una serie di autorevoli interventi sui comandamenti del Decalogo. Quello dedicato a Non nominare il nome di Dio invano si avvale dei contributi del biblista Piero Stefani e dello storico della politica Carlo Galli. Si tratta di un comandamento più vicino all’avvertimento che all’imposizione. Tiene conto dell’impronunciabilità e insieme della forza evocativa che si cela dietro la parola Dio. Etimologia e teologia sono i due campi nei quali più spesso risuona il suo Nome. Ma è nella storia (o nell’alter ego della politica) che ha trovato la propria intima realizzazione.
Nel nome di Dio si scatenano guerre, si incoronano sovrani, si fanno rivoluzioni, si fondano nazioni. Ma quanto è invano o appropriato pronunciarne il Nome? Il comando - ci suggerisce Galli - è generico. Non precisa le circostanze in cui è lecito o degno dire il nome di Dio. Certo nelle preghiere, nelle invocazioni lo si esterna. Ma per il resto c’è indeterminatezza. Non sappiamo se e come invocare Dio, come farne il nostro scudo, o come sollevarlo alla nostra parola impura. Perché quel comando è senza norma. Nel senso, ci pare di intendere, che è superiore alla norma e alle leggi umane: quel Nome, infatti, proviene da Dio e non dall’uomo. È un Dio che, attraverso l’azione e la potenza, si rivela al mondo ma non coincide con esso, operando uno scarto, una distanza che la politica si incaricherà di colmare. La nascita del potere religioso risiede nel rapporto asimmetrico tra Dio e l’uomo. Quest’ultimo può solo invocare l’intervento divino e profetizzarne gli effetti, ma non può sottrarsi alla potenza del suo Nome.
È stato Thomas Hobbes tra i primi a constatare che dietro Dio c’è comunque l’uomo. La sua ardita costruzione statuale lo spinge a sostituire Dio con il Leviatano (ossia con lo Stato, con il Dio mortale). Ai suoi occhi i profeti hanno smesso di parlare per bocca di Dio; la parola non scende più direttamente fra gli uomini. Ormai Dio comunica solo attraverso l’efficacia dello Stato. Con Hobbes una nuova teologia politica punta al ristabilimento dell’ordine e della pace. E tuttavia la storia successiva mostra che «la neutralizzazione del nome di Dio è sempre incompleta». La sentenza "Dio è morto" va rivista alla luce di quelle religioni politiche che fanno della sacralizzazione del potere la loro forza simbolica. I totalitarismi del Novecento hanno cercato di sostituirsi a Dio, introducendo nei rispettivi programmi ideologici la realizzazione del paradiso in terra, e la creazione dell’uomo nuovo liberato dal male. La politica, insomma, non è più scelta razionale tra due o più opzioni, ma destino di un popolo, di una nazione, di una terra riconsacrata. Un ruolo di primo piano svolgono la violenza (sempre purificatrice) e l’arbitrio. Al vecchio emblema delle crociate - Dio lo vuole! - si sostituisce il Partito, lo Stato o il Popolo lo vuole!
Tramontata la visione mitologica della politica, superata con Kelsen e le successive liberaldemocrazie la separazione di questa dalla religione, sembra oggi riprendere forza l’uso estremizzato del rapporto tra politica e religione. Così è nella pratica terroristica del fondamentalismo islamico, come pure nelle guerre culturali dei polemisti cattolici e degli atei devoti che nel nome di Dio dichiarano la loro avversità al relativismo, in tutte le sue forme.
È possibile una diversa strada che rinunci al sigillo dell’assoluto? Galli evoca una politica laica e in difesa dei diritti umani che faccia a meno del Dio-sostanza onnipresente e onnipervasivo. Mentre Stefani ricorre a un Dio i cui precetti coincidano con i dettami della coscienza e superino la soggezione all’autorità che si macchia di un comando sbagliato. Il rifiuto del giuramento di fedeltà a Hitler di Josef Mayr-Nusser (un oscuro impiegato morto nei pressi di Dachau) o la coerenza di Dietrich Bonhoeffer, rinchiuso per resistenza in un carcere nazista e poi impiccato, mostrano che un’altra concezione di Dio è possibile, e che nel suo nome si possono compiere scelte libere, al riparo dagli effetti spesso nefasti del monoteismo.
di Ida Dominijanni (il manifesto, 25 maggio 2011)
Fra il nome "democrazia", inteso come ideale normativo, e la cosa a cui si riferisce, le democrazie reali con tutto il loro carico di contraddizioni, anomalie, regressioni e smentite, è aperto oggi uno scarto analogo a quello che abbiamo già conosciuto fra il nome "comunismo" e le sue realizzazioni novecentesche. E come accadde, ben prima dell’89, per il pensiero comunista, così oggi, vent’anni dopo l’89 e il trionfo della democrazia sul comunismo, è in questo scarto fra il nome e la cosa che si apre lo spazio per il pensiero democratico critico e autocritico.
Più o meno critico e autocritico, perché le posizioni in campo sono molto sventagliate (una buona esemplificazione nel volume In che stato è la democrazia, ed. Nottetempo, con interventi di Agamben, Badiou, Bensaid, Wendy Brown, Nancy, Rancière, Kristin Ross, Zizek: il manifesto ne ha già parlato in occasione dell’uscita sia francese che italiana) e si differenziano non solo per il grado di durezza delle contestazioni allo stato effettivo della cosa, ma anche per il credito che mantengono o revocano alla pregnanza del nome.
Non si tratta insomma soltanto di riconoscere e combattere le degenerazioni in atto nelle democrazie reali, ma più radicalmente di chiedersi se il termine "democrazia" mantenga il suo significato ideale e mobilitante, o possa comunque essere ri-significato e rilanciato, malgrado e oltre queste degenerazioni; o se invece non debba essere destituito come emblema dominante ma consunto della politica contemporanea.
Dentro questo scarto fra il nome e la cosa si snoda il lungo dialogo fra Ezio Mauro, direttore di Repubblica, e Gustavo Zagrebelsky, giurista ed ex presidente della Corte costituzionale, pubblicato da Laterza con il titolo La felicità della democrazia (245 pp., 15 Euro).
Si tratta, va detto subito, di un dialogo vero, con i suoi punti di contatto e di frizione, che restituiscono un giudizio concorde sullo stato della cosa, e gradi diversi di investimento (Ezio Mauro) e di disincanto (Zagrebelsky) sulle sorti del nome. Lo stato della cosa è sotto gli occhi di tutti: ovunque in Occidente, e in Italia emblematicamente, la democrazia reale si rivela oggi il regime delle «promesse non mantenute», secondo una nota espressione di Norberto Bobbio, quando non della corruzione sistematica, dell’illegalità e del populismo. Eppure, il nome resta l’ideale, l’unico ideale politico, del presente, capace di chiamare alla mobilitazione sia chi vuole appropriarsene, come oggi in Nordafrica, sia chi vuole distruggerlo, come Al Quaeda nello scorso decennio.
Ma qui già le posizioni dei due interlocutori si differenziano. Se per Ezio Mauro le contraddizioni pur allarmanti della cosa non intaccano la fiducia nel nome e nella sua vocazione universalistica, per Zagrebelsky al contrario è proprio il nome a vacillare: impugnato ormai, in Occidente, più dai potenti per legittimare i propri abusi che dagli esclusi per ottenere uguaglianza e giustizia, esso si rivela un termine contemporaneamente «troppo elastico e troppo compulsivo», tanto elastico da prestarsi a coprire derive oligarchiche e autoritarie, e tanto compulsivo da essere diventato «lo shibboleth d’accesso alla vita politica» anche per chi democratico non è.
Se per Mauro la democrazia, erede superstite e vincente delle lotte novecentesche per l’emancipazione e i diritti, è «il vero sistema di credenze dell’occidente, la nostra vera religione secolarizzata», e va difesa «con ogni mezzo, perfino quello estremo e contronatura della guerra» dalle sfide e dagli attacchi che subisce, per Zagrebelsky quel sistema di credenze è segnato da una storia di compromissioni col dominio politico, economico e culturale su altri popoli: «dobbiamo difenderci, ma dobbiamo anche interrogarci», e comunque la difesa della democrazia non può passare per la sua sospensione nello stato d’eccezione.
Se, di conseguenza, Ezio Mauro vede nella guerra interna e internazionale al terrorismo - il caso Moro in Italia, l’11 settembre su scala globale - due momenti emblematici, dolorosi ma necessari, di questa difesa senza se e senza ma della democrazia, più problematico è lo sguardo ex-post di Zagrebelsky: su Moro in particolare, mentre per il direttore di Repubblica non c’era alternativa alla fermezza, («lo Stato era un guscio vuoto, ma quel guscio andava in ogni caso difeso: se salta il guscio, salta la democrazia»), per Zagrebelsky («credo, allora, di avere oscillato; oggi propenderei per tentare ogni strada pur di salvare una vita in pericolo») il «senso dello Stato» allora invocato aveva un’eco vagamente totalitaria, la fermezza coprì un deficit di autorità politica e istituzionale, e «non diciamo che lo Stato non ha ceduto: rispetto alla vita di Moro e al dovere di salvarla, non solo ha ceduto ma ha perso tutto».
Ma veniamo al presente, e alle due derive su cui nell’Italia di oggi la distanza fra la cosa e il nome si misura tangibilmente. La prima deriva è lo scollamento fra forma e sostanza democratica, ovvero fra la democrazia procedurale e il sistema di diritti, non solo individuali e politici ma collettivi e sociali, che essa dovrebbe garantire e invece non garantisce più.
Qui il dialogo si fa più stretto e le due voci si sovrappongono: non c’è forma democratica senza sostanza, dicono i due autori all’unisono ripercorrendo il caso Thyssen come «scandalo della democrazia», l’accordo Fiat del 23 dicembre come punta sintomatica di una globalizzazione che straccia i diritti nella diserzione della politica, l’istituzione del reato di clandestinità e più in generale la politica anti-immigrati come prova provata del capovolgimento dell’inclusività democratica nell’esclusione xenofoba. In Italia tuttavia non si tratta solo di scollamento fra forma e sostanza: è la stessa forma della democrazia a vacillare - seconda deriva - sotto la pressione del populismo berlusconiano.
Siamo all’osso della questione che da anni occupa il centro del dibattito pubblico: se e quanto il ventennio berlusconiano abbia deformato l’assetto democratico della Repubblica. C’è, lo sappiamo, chi risponde di no: chi sostiene, non solo nel campo del centrodestra - per ultimo Pierluigi Battista sul Corsera di pochi giorni fa, a commento del primo turno delle amministrative - che la democrazia resta tale finché funziona la conta elettorale, e che quanti da sinistra gridano al regime non fanno altro che coprire l’incapacità politica dell’opposizione di conquistare il consenso necessario a diventare maggioranza.
Qui il punto però non è la denuncia del regime (Mauro: «non sono d’accordo con chi sostiene che l’Italia di oggi non è democratica, o usa paragoni impropri con regimi del passato»), bensì la concezione della democrazia. Che nelle costituzioni novecentesche non si regge solo sul principio di legittimità, cioè sul voto, ma anche su quello di legalità, con tutte le dovute conseguenze in termini di divisione e limitazione dei poteri.
Ed è precisamente questa combinazione ad essere saltata nell’Italia berlusconiana, dove il consenso maggioritario e il riferimento continuo alla sovranità popolare servono a legittimare «l’unione sacra», come la chiama Ezio Mauro, fra il Capo e il popolo, «una «concezione titanica della leadership» che non riconosce i vincoli della legge e i limiti del potere, e mescola «affabulazione del reale e del leggendario in una mitologia del contemporaneo, dove la storia scorre solo nella dimensione eroica, di succeso in successo, e non sono previsti dubbi, pause e incertezze».
Una «democrazia carismatica» che in Italia si è affermata in virtù delle «anomalie» di cui Berlusconi è portatore - conflitto d’interessi, strapotere economico e mediatico, legislazione ad personam - ma che può diventare «una tentazione per l’Occidente, la sua scorciatoia». E coprire da noi - sottolinea Zagrebelsky invitandoci a distogliere lo sguardo dalla persona del leader e da una visione troppo eroica del suo carisma presunto - la solidificazione di un potere oligarchico ramificato e più duraturo della stella, peraltro calante, del Capo.
Perché allora, e ancora, la democrazia? Zagebelsky pone la domanda in termini non retorici, consapevole che se nel breve giro di un ventennio la «baldanzosa fiducia» dell’89 nell’avvenire della democrazia si è capovolta in disincanto qualche ragione c’è; e che se oggi «la fiammella democratica» si riaccende nella primavera araba questo non ci esime dal chiederci perché da noi, invece, «la fiamma si affievolisce». Nella risposta si riaffacciano, fra i due interlocutori, tonalità diverse.
Per Ezio Mauro il saldo della partita democratica, al netto della sua pur allarmante crisi, resta comunque in attivo: la condizione stessa della cittadinanza garantisce che, di fronte alle derive degenerative, «il campo resti contendibile» e il conflitto praticabile; la partita è aperta ed è nelle nostre mani. E dalla parte della democrazia, sottolinea il direttore di Repubblica, lavorano processi inarrestabili di svelamento del potere e dei suoi giochi segreti: «la vecchia talpa dell’informazione», potenziata e globalizzata da Internet, scava per noi, in un braccio di ferro «fra menzogna e conoscenza» che piega la politica verso la trasparenza e la sottrae alle pretese del potere.
Per Zagrebelsky pure la partita è nelle nostre mani, anzi ancor più nettamente nelle mani della «tanto bistrattata società civile», meno vincolata ai «giri di potere» che ingabbiano l’insieme della classe dirigente; ma a patto che torni in campo, dal basso appunto più che dall’alto, la concezione e la passione della politica come conflitto fra fini e fra modelli di organizzazione sociale alternativi, e non solo come amministrazione e «accomodatura» più o meno moderata dell’esistente. E’ qui dunque , «nello scadimento della politica in amministrazione» e nel conseguente appannarsi delle differenze fra destra e sinistra, se vogliamo ancora chiamare così due visioni alternative di sistema, «la causa della crisi della democrazia»: la politica dei fini essendo, della democrazia, una pre-condizione, non un residuo vetero-novecentesco di cui liberarsi in nome di una malintesa condizione post-ideologica.
Lo sguardo del giurista è portato dunque alla fine a posarsi sul bordo extra-giuridico del discorso: la crisi della politica da un lato, la crisi dell’homo democraticus contemporaneo dall’altro. Non per caso, il dialogo finisce su quella soglia - l’insuperata descrizione tocquevilliana della «folla innumerevole di uomini simili ed eguali, che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli piaceri con cui soddisfare il loro animo, ciascuno di loro come estraneo al destino degli altri» - che più radicalmente interroga la razionalità democratica, obbligandola a ripensare non solo le promesse mancate della democrazia ma anche le sue premesse: non solo le deformazioni del kratos ma anche la formazione del demos (appena uscito sempre da Laterza, su questo punto, il libro di Valentina Pazé In nome del popolo. Il problema democratico); non solo l’edificio istituzionale, ma l’antropologia politica su cui si erige; non solo le regole e i diritti, ma anche le forme di vita, i desideri, il rapporto fra legge e godimento, i legami fra ordine simbolico e ordine sociale.
La stessa domanda conclusiva che dà il titolo al dialogo fra Mauro e Zagrebelsky, quella sul rapporto - ipotetico - fra democrazia e felicità, allude alla necessità di sporgersi su questo bordo esterno del discorso, dove la razionalità democratica perde presa e l’immaginario populista ne guadagna. E’ su questo bordo, forse, che siamo chiamati a indagare di più se vogliamo svelare, con gli inganni del potere, anche i nostri autoinganni.
Il mito della caverna e la caverna del mito, continua la lotta
Il mito della caverna e la caverna del mito. Osama, Obama, il nemico e il salvatore del mondo. La bara del demonio, l’antico mare, i Servizi americani. Gli Usa hanno bisogno dello spettacolo e del ridicolo, per celebrarsi e promuovere il nuovo corso, di cui prova inconfutabile sarebbe la riforma sanitaria del presidente democratico.
di Emiliano Morrone *
La Cia ha dichiarato che Bin Laden era nella sua villa blindata in Pakistan, prima della morte. Ricercato e bombardato ovunque, era una specie di Riina, per la bravura a nascondino. Stava quieto dentro al forte, ci racconta la stampa planetaria. Da lì, allora, diramava i suoi messaggi in video: "morte agli infedeli" e appelli alla lotta religiosa.
Bisognerebbe sapere quanti statunitensi, magari distrutti dalla crisi o costretti al lavoro disumano con paghe da miseria, sono disposti a crederci.
Il liberismo culturale imposto dai dominatori della Terra è, anzitutto, sorgente e mezzo della menzogna. La persuasione si realizza, scandirebbe Chomsky, grazie agli oligopoli dell’informazione.
Alla fine, ogni costruzione inverosimile, tipo l’azione intelligente contro Osama, diventa verità rivelata. Di default. Guai agli obiettori. Il meccanismo, e non il soggetto cinematografico, è uguale nella vicenda a luci rosse della nipote di Moubarak.
Il pensiero liquido che pensiamo - per rammentare una formidabile analisi di Gaetano Mirabella sulla perdita di centralità e identità dell’utente web - è funzione dell’antropologia e ontologia degli individui, persi in un’oceano di notizie e stimoli virtuali. Ma, questo pensiero, rassegnato, è anche il risultato del massacro nel lavoro: disoccupazione, precarietà, sfruttamento; i problemi di un’Italia priva, ormai, di sindacati. Tranne Fiom.
Nel contesto, drammaticamente reale, ci sono due strade: l’alternativa culturale e la piazza. A oltranza.
L’Europa smarrita e l’immigrazione
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 01.05.2011)
Nel suo mezzo secolo di vita l’Europa ha cercato di diventare un modello di nuova cittadinanza. Teorici e giuristi hanno parlato addirittura di un nuovo paradigma di libertà politica capace di dissociare la cittadinanza dall’appartenza nazionale, una rivoluzione non meno radicale di quella del 1789. Ma messo alla prova del flusso di migranti, il mito europeo si appanna. Gli Stati nazionali tornano protagonisti, le diplomazie bilaterali prendono il sopravvento, le frontiere tornano a chiudersi, le scaramucce di certificati e rimpatri si susseguono. Di fronte agli sbarchi dei profughi del mondo, l’Europa non sembra più certa di voler essere il laboratorio di una nuova cittadinanza. E forse, la recentissima decisione della Corte di Giustizia della Ue di bocciare la norma italiana che prevede il reato di clandestinità va letta come un invito dell’Europa dei diritti all’Europa della politica di rivedere la sua strategia sull’immigrazione.
Ma a dispetto di ciò che l’Europa vuole o non vuole, in un modo o nell’altro i migranti sono ormai parte della sua identità, di quello che è e sarà. Sono il banco di prova del mito europeo e della civiltà democratica. Soprattutto i migranti senza-Stato (stateless), un fenomeno globale relativo a persone senza una nazionalità comprovata. Per ragioni diverse: o perché lo Stato dal quale provengono ha cessato di esistere a causa di guerre civili, o perché chi scappa ha dovuto tenere segreta l’identità per non subire repressione a causa della propria fede religiosa. Nel ventesimo secolo, la pulizia etnica venne realizzata riducendo ebrei e membri di alcune minoranze nazionali europee allo stato di non-cittadini nei paesi dove erano nati, con l’esito ben noto di poterli così deportare ed eliminare in massa. Senza Stato ovvero alla mercé del potente di turno. Nel 1954 le Nazioni Unite hanno adottato la Convenzione sugli stateless tesa a prevenire che persone fossero o restasse senza uno Stato. Nel 1961 molti paesi, tra i quali il nostro, hanno sottoscritto la convenzione impegnandosi a garantire la nazionalità a persone apolidi nate nel loro territorio.
La guerra in Iraq e in Afghanistan, le guerre civili nell’Africa sub-sahariana, le rivoluzioni anti-autoritarie nei paesi arabi hanno comportato un aumento prevedibile dei migranti, rifugiati che scappano la fame e la violenza, che chiedono asilo. Migliaia di uomini, donne e bambini, per piccoli scaglioni o uno ad uno, a piedi o con mezzi di fortuna pagati a prezzi di strozzinaggio, sono da anni in movimento, scappando spesso dalle guerre che i paesi verso i quali vanno sono impegnati a combattere.
Un fatto di grande interesse è che tra questa umanitá di senza-Stato sembra configurarsi una nuova identità politica, nata negli interstizi della legge: di quella oppressiva degli stati di provenienza e di quella che incontrano negli stati d’approdo, dove sono dichiarati subito illegali. Senza-Stato e senza legge: è in questa identità paranomica che sta prendendo forma una nuova espressione di identità politica, di cittadinanza senza-Stato, ovvero non come appartenenza istituzionalizzata ma come azione di auto-determinazione alla libertà; cittadinanza come forma di democrazia nascente in quanto denuncia radicale di una condizione di assoluto assoggettamento, di rivendicazione non di diritti umani semplicemente, ma di diritti civili e politici.
I migranti hanno per convenzioni internazionali i diritti umani fondamentali: diritto al soccorso umanitario e medico. Vita minima: questo significa avere diritti umani. Come ha scritto Hannah Arendt in pagine esemplari, ai migranti non è riconosciuto uno spazio legale-politico, ma solo uno spazio naturale; non è riconosciuto il diritto di organizzarsi ma solo di sopravvivere. Chi fa parte della categoria umana semplicemente è caduto nella natura, se così si può dire, fuori della famiglia delle nazioni e dello stato. Persone senza protezione da parte di un governo, nate nella «razza sbagliata», perseguitate non perché hanno fatto qualcosa ma perché sono ciò che sono. La non esistenza legale -poiché senza documenti - costringe i migranti a farsi politicamente attivi fuori della legge. Ancora da Arendt: il paradosso per gli umani protetti dai diritti umani è che per essere rispettati nei diritti devono diventare oggetto di repressione. Violando le leggi si guadagnano l’ingresso nel sistema della legge e acquistano diritti civili - quello alla difesa nei processi o a un trattamento che esclude violenza e tortura - che da ‘liberi’ non avrebbero, perché non-cittadini.
La novità di questi ultimi anni, a partire dalla rivolta in Grecia nel dicembre 2008, è che i migranti hanno mostrato di voler usare anche una lingua politica, di volere esercitare una qualche forma di cittadinanza, mettendo in pratica quello che il mito europeo ha predicato soltanto. È successo a Rosarno all’inizio del 2010, quando i lavoratori africani stagionali si sono organizzati per reagire alla loro semi-schiavitù. è successo recentemente in Australia, dove in un campo di detenzione più di trecento migranti hanno deciso di fare lo sciopero della fame per parlare con persone autorizzate del governo Australiano e ottenere di non essere rimpatriati in Afghanistan, da dove erano scappati; hanno chiesto interlocutori con autorità di trattativa, proprio come facciamo noi cittadini quando vogliamo fare sentire la nostra voce. Ma a noi quella voce è concessa dalla costituzione. A loro è negata, nonostante i diritti umani.
In questi casi recenti, pur nella differenza delle circostanze, i migranti hanno manifestato una chiara auto-proclamazione di soggettività politica, un passo importante perché un’ammissione esplicita che i diritti umani non danno il potere di contrastare ciò che dallo stato di rifugiati è lecito aspettarsi, ovvero il rimpatrio. Non essere rimpatriati è una richiesta che proviene dall’avere non i diritti umani semplicemente, ma una voce politica. Ma quale cittadinanza è possibile fuori dallo spazio statale? L’ordine giuridico, anche quello europeo che pure ha l’ambizione di essere sovranazionale, non contempla un’identità politica al di fuori dello Stato. Eppure questi migranti agiscono come se fossero cittadini, e così facendo avanzano una richiesta di diritto politico come esseri umani (reclamano una cittadinanza cosmopolita).
È questa l’importante novità che sta emergendo dai recenti movimenti di migranti senza-Stato. La loro è una sfida importante alle forze progressiste e democratiche dell’Europa poiché indubbiamente le esigenze ragionevoli di regolare i flussi migratori devono potersi combinare a un progetto che riconosca una dignità di cittadinanza ai migranti, come capacità riconsciuta di proporre e contestare, di trattare e avere una rappresentanza, al di là e indipendentemente dall’appartenenza ad un corpo politico. Partire da una lettura non pregiudiziale di queste esperienze è la condizione minima per cercare di trovare soluzioni giuridiche e politiche che diano dignità ai migranti e nello stesso tempo facciano avanzare l’idea di una comunità politica europea che non sia solo un mito.
Nota sul tema:
1911-2011: l’Italia della scienza negata
di Armando Massarenti *
Immaginate di vivere in un paese in cui l’egemonia culturale è dettata dallo spirito di un uomo che non eccelle solo nel proprio ambito, la matematica, ma è dotato anche di una visione generale, storica, critica, dei diversi saperi scientifici; e che ama ricollocarli, nel loro continuo intrecciarsi e progredire, entro una visione unitaria del sapere. Un uomo che, senza disdegnare le discipline umanistiche, è ben consapevole di quanto la scienza abbia contribuito, e potrà in futuro contribuire, alla crescita dell’industria, dell’istruzione generale, del vivere civile.
Quest’uomo ha anche in mente, fin nei dettagli, un sistema educativo critico e costitutivamente aperto - proprio come i saperi che intende rafforzare e veicolare, e come il "metodo" che ha già portato a scoprire fondamentali leggi di natura - e vuole mettere tutto ciò al servizio di una scuola al passo coi tempi, che non sia concepita solo per una piccolissima élite, ma che sappia stimolare l’intelligenza e la creatività del più ampio numero possibile di persone.
Ora pensate invece a un paese in cui l’egemonia è dettata da una filosofia che considera la scienza, e persino la matematica, come una sorta di menomazione dell’intelletto, frutto di menti settoriali e limitate, soprattutto se confrontata con le vette altissime di un sapere le cui leggi universali sono attingibili a livello Metafisico da poche menti elette, le sole capaci di nutrirsi di arte, filosofia e letteratura, cioè degli ingredienti dell’unica cultura davvero degna di questo nome. E ora scegliete. In quale di questi due paesi preferireste essere nati?
Certo, direte, nessuno dei due esiste allo stato puro. Somigliano più a dei modelli archetipici che a descrizioni di mondi reali. Però, se avete scelto il secondo, spero vi sia almeno chiaro che, nelle sue linee generali, è proprio quello in cui state vivendo. Almeno da un secolo a questa parte, da quando a Bologna si consumò uno dei confronti culturali più drammatici della nostra storia.
Il 6 aprile 1911 si tenne il congresso della Società filosofica italiana, fondata e presieduta dal grande matematico Federigo Enriques, un formidabile organizzatore culturale, autore di libri di storia della scienza, cofondatore della casa editrice Zanichelli (con cui pubblicò buona parte delle sue opere) e di riviste filosofiche e scientifiche.
Enriques riteneva che una filosofia degna di una società moderna non potesse che essere pensata in stretta connessione con l’avanzare delle scienze. Sapeva di porsi così in aperto contrasto con l’emergente idealismo di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, con i quali cercò di ingaggiare un confronto civile, ma rimase sconcertato dalla violenza con cui questi condussero la disputa. Enriques aveva denunciato il loro atteggiamento nei confronti dei saperi scientifici proprio in quanto genericamente liquidatorio e, in definitiva, antifilosofico.
Quella degli idealisti non era la critica filosofica delle scienze, postpositivista, che egli auspicava, capace di entrare nel merito delle competenze di ambiti specifici e di contribuire alla loro crescita, ma un modo apodittico di negare il connubio tra scienza e filosofia, come se Leibniz e Cartesio non fossero stati insieme filosofi e scienziati, oltre che fondatori della filosofia moderna.
Ma fu proprio quel tono sprezzante e liquidatorio a inasprirsi durante la disputa e a segnare la sconfitta di Enriques. Gli fu dato platealmente dell’incompetente. E non solo in campo filosofico. Fu invitato, in maniera insultante, a parlare solo della sua materia, cioè di matematica, un sapere non per veri filosofi ma per quegli «ingegni minuti» che sarebbero appunto gli scienziati. Ma il suo dilettantismo abbracciava anche la scienza. Come si poteva concepire una rivista - notò Gentile - «che discorra, in uno stesso fascicolo, dell’elettro-magnetismo dell’universo, della medianità, dei rapporti tra chimica e biologia, del bisogno di luce che hanno le piante, della coscienza, della scuola economica austriaca, delle principali leggi della sociologia, delle origini del celibato religioso, della riforma dell’insegnamento di matematica elementare eccetera»? «Secondo me, non può incoraggiare se non il dilettantismo scientifico, di cui non so quanto sia per giovarsi la scienza».
Peccato che né Croce né Gentile potessero apprezzare il valore dei "dilettanti" che scrivevano su «Scientia», membri di quella comunità scientifico-filosofica internazionale che, grazie a intellettuali come Enriques, comprendeva anche il nostro giovane stato nazionale. Qualche nome? Mach, Poincaré, Carnap, Cassirer, Rutherford, Lorentz, Russell, Einstein.
La sconfitta di Enriques ha avuto conseguenze durature. Ha portato ad esempio alla costruzione del sistema educativo gentiliano. Che, beninteso, ha avuto i suoi indiscutibili pregi: il liceo, benché antiscientifico nello spirito, ha comunque contribuito a formare una classe dirigente che talvolta è riuscita a eccellere anche in ambiti scientifici. L’insegnamento della filosofia, scientifica o antiscientifica che sia, unito a una solida cultura classica, è comunque un’eccellente palestra del pensiero e una porta di accesso per un’ampia gamma di competenze. Ma oggi che anche i licei classici non sono più quelli di una volta, non sarebbe giusto pensare a una scuola più direttamente improntata ai saperi necessari alla società di oggi? Non potremmo, nel nome di Enriques, provare a proiettarci in un futuro diverso da quello che ci è toccato in sorte un secolo fa?
ANTONIO GRAMSCI (1924). "Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo":
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L’ITALIA FERITA E SCONCERTATA. DOPO CHE IL SUO PAPA HA BENEDETTO E GUIDATO L’ATTACCO, BRUNO FORTE SI CHIEDE "COME CURARE L’ALBERO MALATO DELLA POLITICA". Una nota di premessa sull’inizio dell’offensiva e le sue "riflessioni sui nostri tempi", oggi
L’internazionale del cinismo
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 8 aprile 2011)
Nulla più degli ultimi morti, inghiottiti dal mare in burrasca nella zona di ricerca contesa tra Malta e l’Italia, testimonia il tragico scarto tra l’urgenza del bisogno di chi per sua sventura abita Paesi poveri o segnati da guerre e dittature e la capacità a farvi fronte dei Paesi tra i più ricchi e sviluppati e più orgogliosi della propria democrazia e rispetto dei diritti umani.
Il fatto che questi ultimi morti fossero in fuga da zone di guerra civile - Eritrea, Somalia - quindi potessero aspirare allo status di rifugiati, rende ancora più evidente la sproporzione tra il bisogno di aiuto di chi, non potendo più stare nel proprio Paese pena la vita, rischia la vita propria e dei propri figli per andarsene, e il modo impacciato, spesso conflittuale, ancor più spesso controvoglia, con cui i Paesi ricchi e democratici vi rispondono. Non mi riferisco solo all’Italia, anche se lo spettacolo dato a Lampedusa nelle settimane scorse ha ben esemplificato l’impasto di impreparazione e cinismo con cui il nostro governo si è mosso. C’è il comportamento di Malta, che da un lato rivendica il controllo di un’ampia zona di mare, salvo respingere con fermezza le imbarcazioni che accostano e non essere in grado di prestare soccorso, chiamando ogni volta i mezzi italiani.
Ottenendo così per sé un doppio risultato: nessuna spesa di salvataggio e nessuna responsabilità di accoglimento dei disperati del mare, una volta che questi si trovano su una nave italiana. Soprattutto c’è il comportamento della Francia, in prima fila quando si trattava di bombardare la Libia, anche al di là del mandato dell’Onu, ma altrettanto in prima fila a pattugliare i confini, perché nessuno di coloro di cui "difende la lotta per la libertà" bombardando più o meno indiscriminatamente il loro Paese, eserciti questa libertà duramente conquistata anche a rischio di vita cercando di entrare in territorio francese.
È una bella gara internazionale di cinismo e di scaricabarile, ove l’Europa come entità politica si mostra in tutta la sua inconsistenza, incapace di far valere le proprie stesse norme a fronte dell’autarchia egoistica dei singoli Paesi. Se non muoiono prima, i migranti e il loro disagio divengono uno strumento di ricatto, interno (nella lotta politica) ed esterno (verso gli altri paesi). Corpi da spostare, da controllare, alternativamente da contenere e da esibire per evocare paura, da mandare via, da non fare arrivare, da far sparire. Totalmente depersonalizzati, anche nel linguaggio con cui si parla di loro.
Ogni Paese ha diritto a controllare i propri confini e a regolare gli accessi. E le migrazioni di massa improvvise producono tensioni che non devono essere sottovalutate. Ma le tensioni non devono, non dovrebbero, neppure essere sollecitate da una gestione tanto improvvisata quanto cinicamente strumentale, dimentica del più elementare rispetto dei diritti umani.
Purtroppo, la condizione a cui il governo italiano sembra abbia deciso di concedere i permessi temporanei - solo a coloro che promettono di andarsene altrove, sapendo che altrove saranno ricacciati indietro - e la contromossa francese di un ulteriore irrigidimento del diritto di ingresso sembrano essere solo un’ulteriore passaggio di questa indecente gara a chi è più bravo a disfarsi degli immigrati. L’esito principale sarà l’aumento dei clandestini tra qualche mese, quando scadranno i permessi e molti non saranno riusciti ad entrare in nessun altro Paese europeo.
L’Europa e il vizio del vecchio lupo
di Moni Ovadia (l’Unità. 09.04.2011)
La vecchia Europa è come il lupo del celebre proverbio, perde il pelo ma non il vizio. Lascia prosperare nel proprio ventre molle la xenofobia. Sarkò, vicino alle prossime elezioni, si vede contendere lo spazio dalla fascista Le Pen, degna figlia di tanto padre, leader di un partito che in una vera democrazia, dopo la vergogna di Vichy, non dovrebbe arrivare oltre lo 0,1 % e forse non dovrebbe neppure esistere. Ma Sarkò invece di difendere i grandi valori della Repubblique preferisce cavalcare la pancia reazionaria della douce France. In Italia, il paese che ha generato i repubblichini, i demofascisti di Berlusconi cercano di abolire il transitorio XII della Costituzione che vieta la ricostituzione del partito fascista in ogni forma. Scandalo! E perché?
L’Europa pullula di forze ultrareazionarie. Il nostro governo si regge su un partito xenofobo. E quando i suoi dirigenti più prudenti esprimono un minimo di decenza istituzionale ci pensano i militanti duri e puri a rimetterli in riga come si ascolta e si legge sul web leghista con perle del genere:"invadiamo Lampedusa con i maiali, così i tunisini che sono musulmani scapperanno".
E l’Europa comunitaria, invece di lanciare una conferenza permanente sull’immigrazione per gestirla nel quadro dei principi democratici e del rispetto dei diritti umani, nel migliore dei casi tituba e nel peggiore, lascia prosperare i rigurgiti razzisti dimentica delle devastazioni che causarono alla vecchia Europa. Il posto di xenofobi e razzisti non è la politica, sono quei bar dello sport dove ruttare i miasmi delle loro parole avvelenate insieme a quelli dell’alcol mal digerito.
“Il Vaticano porta avanti una strategia di riconquista europea”
intervista a Martine Nouaille, a cura di Amanda Breuer Rivera
in “www.lemondedesreligions.fr” dell’11 marzo 2011
(traduzione: www.finesettimana.org)
Secondo il suo libro “Benedetto roi d’Italie. Chronique d’un pays à l’ombre du Vatican”, il papa domina la politica italiana...
Sì, per una ragione molto semplice, Silvio Berlusconi ha bisogno del Vaticano per conquistare una parte dell’elettorato e non gli rifiuta niente. Per questo, la Chiesa influenza la vita politica italiana negli ambiti che le interessano prioritariamente, cioè sui temi della morale e della bioetica, in nome dei valori superiori del cristianesimo. Per il Vaticano, la vita politica deve ispirarsi ai suoi valori. Ad esempio, il parlamento italiano delibera attualmente una legge mirante a proibire alle persone malate in fin di vita di ricorrere all’eutanasia passiva. Questa legge fa riferimento al caso Eluana del 2008. In stato vegetativo da anni, suo padre voleva lasciarla morire tranquillamente. Ma la Chiesa cattolica vi si è fermamente opposta.
C’è un’influenza crescente della Chiesa cattolica sulla politica italiana?
È difficile dirlo, perché il suo potere è molto legato alla personalità del presidente del Consiglio. Pur essendo in maggioranza cattolica e legittimista con il papa, la società italiana ha un comportamento laico e molto secolarizzato. Niente dovrebbe impedire ai politici di prendere le distanze dall’influenza del Vaticano sulle istituzioni e sui partiti. Eppure, fino ad ora, Silvio Berlusconi ha avuto bisogno del sostegno del Vaticano e ha potuto riceverne un appoggio. Ma questo sostegno comincia a sbriciolarsi a causa della sua vita personale molto contestata.
In Francia esiste una relazione simile tra il potere e il Vaticano?
No, la Francia è un paese laico. Certo, il presidente Nicolas Sarkozy ha affermato che i valori cristiani fanno parte della nostra eredità e ha aggiunto che i preti sono superiore ai maestri. Nonostante tutto, tanto le istituzioni che le mentalità non sono affatto disposte a subire uno stretto rapporto con il Vaticano. L’Italia è un caso particolare per ragioni storiche. Per molto tempo i papi hanno avuto un potere temporale su Roma e si sono opposti fino all’ultimo all’unificazione italiana per conservare questo potere. Dato che l’unificazione è recente, il Vaticano conserva una forte influenza sul paese, ma in Francia non è così. Il Vaticano non ha qui una grande rete e non può imporre la sua legge. Tuttavia i poteri politici possono fargli delle concessioni, come ad esempio sulle leggi di bioetica.
Nel suo libro, lei sviluppa la tesi di una strumentalizzazione della religione da parte di certi regimi democratici. Può chiarire meglio?
Le nostre società liberali, come le conosciamo noi, attualmente non hanno più punti di riferimento culturali ed ideologici. Quindi certi politici, come Silvio Berlusconi o Nicolas Sarkozy, cercano di riempire questo vuoto con riferimenti al religioso. Ma in Francia il religioso non è più un patrimonio comune a tutti. Nicolas Sarkozy ha una concezione della laicità diversa da quella della Chiesa. Se la “sana laicità” del papa è una laicità che riconosce i valori cristiani come valori che devono guidare la società, la “laicità positiva” del presidente assegna alla religione un ruolo di legame sociale e di gendarme ideologico. Tuttavia, quando valorizza le “radici cristiane della Francia”, non si rende conto che questa rivendicazione indebolisce i legami sociali che erano basati sulla “laicità francese”, quella in cui le religioni sono un fatto privato e non devono intervenire nelle scelte politiche in quanto tali.
Quali sono le conseguenze?
Penso che con il dibattito attuale sulla laicità, promosso dall’UMP e da Nicolas Sarkozy, si finisce per offuscare dei riferimenti importanti della vita in società. Non si sa più esattamente che cosa sia la laicità, la separazione tra Chiesa e Stato o la differenza tra ambito privato e ambito pubblico. C’è un certo indebolimento della laicità che è la base della nostra Repubblica.
L’indebolimento della laicità in Francia può essere una porta aperta al Vaticano?
In ogni caso, è l’obiettivo del papa. Sotto la sua influenza, il Vaticano è partito nel tentativo di riconquista spirituale dell’Europa. Non perde la speranza di rimettere in discussione questa laicità alla francese per far avanzare una “sana laicità”. Su scala europea, non ha rinunciato a rimettere in discussione certe leggi adottate attualmente da tutti i paesi democratici sulla morale, sull’unione omosessuale, sul diritto all’aborto, sul diritto di scegliere la propria vita nella dimensione più intima... Quindi anche se il Vaticano ha perso molte anime, continua a voler controllare i corpi.
Con quali mezzi pensa di riconquistare spiritualmente l’Europa?
Secondo l’iniziativa di Benedetto XVI, la riconquista spirituale dell’Europa si farà in parte attraverso il “Cortile dei gentili”. Questo nome si riferisce ad un passo del Vangelo in cui Gesù evoca il cortile del Tempio, luogo di discussione tra gli ebrei e i non ebrei. Il Vaticano vuole dialogare con i non-credenti, ma non con tutti. Secondo loro, non si pone neanche la possibilità di discutere con Michel Onfray, ad esempio. Ma sono pronti a discutere con un certo tipo di non-credenti ad esempio quelli che si interrogano sul vuoto lasciato dalla perdita del religioso. L’iniziativa del “Cortile dei gentili” si svolgerà in Francia alla fine del mese di marzo in tre luoghi emblematici: la Sorbona, l’Unesco, l’Académie Française, il Collège des Bernardins e il sagrato di Notre-Dame. Esiste quindi una strategia di riconquista cattolica. Ma si scontra con una secolarizzazione sempre più importante delle società. Quindi i giochi sono ancora tutti aperti!
(traduzione: www.finesettimana.org)
Martine Nouaille, Benedetto roi d’Italie. Chroniques d’un pays à l’ombre du Vatican (Stock, 2011)
L’identità di Cristo
di Franca D’Agostini (il manifesto, 30 marzo 2011)
Nel pontificato di Benedetto XVI si esprime un preciso disegno politico-culturale, che si annuncia chiaramente, e in tutta onestà, nella prima enciclica papale: la Deus caritas est, del 2006. Qui il pontefice dice senza mezzi termini che la dottrina sociale della Chiesa deve prendere il posto lasciato vuoto dalla koiné marxista; deve cioè sostituirsi al marxismo (un «sogno svanito») nella sua opera di mobilitazione convergente delle coscienze umane. Consapevole di quanto la fine del bipolarismo mondiale e la cosiddetta «crisi delle ideologie» abbiano portato e stiano portando a un nuovo orizzonte politico e ideologico, il papa ipotizza dunque che il messaggio cristiano, di cui la Chiesa è prima autorevole interprete, possa e debba porsi alla testa del mutamento.
La sua fisionomia politica
L’ipotesi sembra rischiosa e nello stesso tempo plausibile. Rischiosa perché potrebbe essere l’inizio di un tipo di teocrazia intellettuale che urta contro tutte le conquiste del pensiero politico moderno. Plausibile perché l’idea del marxismo, o più in generale dei movimenti libertari dell’Ottocento, come forme di secolarizzazione (o realizzazione-dissoluzione) del messaggio cristiano, è ben presente alla nostra memoria culturale. L’intera opera di Benedetto XVI - e prima ancora di Joseph Ratzinger - si colloca in equilibrio su questo discrimine.
Questo papa, che oltre a essere un teologo e un sacerdote è anche, chiaramente, un intellettuale pubblico, sembra aver lavorato soprattutto nella prima direzione. Ma per chiunque sia interessato alle sorti dell’umanità globalizzata, è utile vedere da vicino con quali argomenti si giustifica l’ipotesi. E in questo senso i due libri del papa su Gesù di Nazareth costituiscono un’ottima risorsa, perché affrontano il problema in modo diretto e preliminare, chiedendosi: che cosa ha detto e fatto Gesù? Che significato ha per noi la sua figura?
La politica di Gesù. Il primo libro, uscito nel 2007, riguarda il periodo Dal battesimo alla Trasfigurazione, il secondo, appena uscito (a cura di Pierluca Azzaro, e tradotto da Ingrid Stampa), va Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione (Libreria Editrice Vaticana). Questo secondo libro può definirsi decisamente politico.
Il suo tema dominante è la questione della regalità di Gesù Cristo. È questo in effetti il tema centrale dell’ultima fase della vita di Gesù, che incomincia con l’ingresso in Gerusalemme, tra la folla che lo acclama, culmina con il processo e la condanna, precisamente a causa del suo presentarsi come Re d’Israele e Figlio di Dio (bestemmia! urla Caifa, stracciandosi le vesti), e si conclude con il trionfo della Resurrezione.
Benedetto XVI avverte che Gesù separa religione e politica, in precedenza intrecciate, nella prospettiva tradizionale giudaica. Eppure, tutto il testo è destinato a mostrare che in Gesù si esprime una nuova forma di regno e di potere, un nuovo modo di essere giusti e concepire la giustizia, un nuovo tipo di agire pubblico. Dunque tutti gli aspetti del «politico» che riconoscono i filosofi: il potere (Schmitt, Foucault), la giustizia (Rawls), l’agire (Arendt), sono coinvolti.
Il punto è che questi aspetti sono praticati e concepiti da Gesù in modo nuovo. I termini «nuovo», «novità», dominano nel libro. Ma in che cosa consiste, esattamente, la novità? Il papa individua sostanzialmente due categorie-chiave: il sacerdozio, e la verità. Il potere di Gesù è potere sacerdotale, e comporta una speciale (nuova) visione del sacerdozio; il regno di Gesù è il regno (inedito) della verità.
La sua fisionomia rivoluzionaria
Gesù rivoluzionario? Intuitivamente, e al di là di ogni raffinata analisi teologica, si sarebbe portati a dire che la novità di Gesù consiste nel «rovesciamento» per cui si afferma il primato dei deboli, degli umili, dei poveri e degli oppressi (ciò di cui si lamentava appunto Nietzsche). La concezione cristiana della giustizia si presenta subito, nelle parole della più tranquilla tra i personaggi evangelici: Maria. Nel Magnificat appare con chiarezza un Dio che «rovescia i potenti dai troni», e «innalza gli umili», che «ricolma di beni gli affamati» e «rimanda a mani vuote i ricchi». E tutto ilseguito della narrazione conferma questa intuizione preliminare.
In ciò effettivamente il cristianesimo potrebbe facilmente sostituirsi al «sogno svanito» del marxismo, o forse correggerlo e integrarlo: è l’intuizione di Simone Weil, e di molti altri. Ma non è questa la via intrapresa dal Papa. Il tema di Gesù difensore dei poveri e dei perseguitati non è del tutto assente nell’analisi di Benedetto XVI. Però, insistendo in questa direzione, il Papa avrebbe dovuto sposare la causa delle teologie politiche, specie quelle della liberazione, o quelle femministe. Perciò, tanto nel precedente volume quanto nel secondo, l’autore ha una cura del tutto speciale non nel discutere, ma piuttosto nel disattivare e attenuare una simile ipotesi interpretativa.
In questo nuovo volume i conti con le teologie libertarie vengono fatti rapidamente, nella riflessione sulla «purificazione del Tempio», quando Gesù adirato rovescia i tavoli dei cambiamonete. Qui il Papa scrive che sì, il gesto di Gesù esprime uno zelo speciale, ma l’idea del riscatto promesso da Gesù così come è concepito dalle «teologie della rivoluzione» equivale all’idea di una legittimazione della violenza «come mezzo per instaurare un mondo migliore»; ed è pertanto inaccettabile nella luce del messaggio evangelico.
In realtà, non è necessario legittimare la violenza per riconoscere che l’integrità di Gesù indica agli esseri umani un modo preciso di essere giusti, e di promuovere la giustizia. Ma per Benedetto XVI questo e altri gesti fanno di Gesù non un rivoluzionario, né un «rovesciatore» di ordini e gerarchie, ma piuttosto un Sommo Sacerdote di un tipo particolare.
La chiave interpretativa del «sacerdozio» di Gesù è una costante in tutto il testo. Gesù è un sacerdote di tipo nuovo, che è venuto per servire, e non per essere servito, che compie la sua opera nel sacrificio di se stesso (in tal modo ponendo fine alla consuetudine dei sacrifici animali), e facendosi tramite della verità. Il suo zelo è amore per il Tempio, la casa di suo padre. Evidentemente questa prospettiva permette al Papa di allacciare meglio il Nuovo Testamento all’Antico, enfatizzando la continuità del Cristianesimo con l’ebraismo. Ma gli permette anche di minimizzare un aspetto che è altrimenti evidentissimo: l’anticlericalismo di Gesù, un altro dato ben noto, e inequivocabile.
In modo insistente, Gesù manifesta una netta e sistematica avversione per le gerarchie ecclesiastiche («guai a voi scribi e farisei!»), e proprio da queste viene condannato e ucciso. Prevede lui stesso che «dovrà soffrire molto» a causa degli «anziani, degli scribi, dei sacerdoti». E non è un caso che il suo unico e solo gesto violento siano proprio quei tavoli rovesciati, contro la corruzione del Tempio. Se davvero Gesù di Nazareth è da vedersi come un sacerdote di un genere particolare, allora il senso del suo sacerdozio non risiede soltanto nel «sacrificio di sé» ma anche (e piuttosto) nel lanciare l’autocritica della Chiesa come apparato sacerdotale. In questo senso, Caifa aveva le sue ragioni: Gesù costituiva un serio pericolo.
Il Regno della Verità. Ma il punto cruciale dell’analisi compare proprio al centro del libro. Il potere di Gesù è il potere della verità, scrive l’autore. «Gesù qualifica come essenza della sua regalità la testimonianza della verità». Anche in precedenti opere, e nel suo confronto con i filosofi «laici», Joseph Ratzinger ha fatto della verità il concetto-chiave del suo magistero. Resta però sempre in gioco la questione di Pilato: che cosa è la verità? Che cosa intende Benedetto XVI per «verità»?
Ora è interessante notare che la verità di cui si tratta non è tanto e propriamente «l’adeguamento dell’intelletto alla realtà oggettiva», come scriveva Giovanni Paolo II nell’Enciclica Fides et ratio, richiamando la formula tomistica dell’adaequatio intellectus et rei. L’autore del Gesù di Nazareth ci dice infatti che questa nozione di verità è appropriata, ma funziona solo per una verità parziale, umana, che è sempre imperfetta e incompiuta. Nell’ottica umana «la verità in tutta la sua grandezza e purezza non appare». Invece, la vera verità è qualcosa di cui dispone Dio, e vale allora la «formula lapidaria» di San Tommaso: Dio è la prima e somma verità. Dunque: gli umani non hanno vera verità, questa proviene da Dio e Dio solo ne dispone.
Una teocrazia intellettuale
In questi passi Benedetto XVI si rivela in perfetto accordo con molta filosofia laica del Novecento. Non soltanto, per esempio, con Hilary Putnam, che assegna la vera verità allo «sguardo di Dio», ma anche con il maestro di tutti i relativismi, Richard Rorty, che vede nel concetto stesso di veritàl’espressione di una visione «teologica» della conoscenza. L’unica variazione è che mentre per Putnam (ebreo) la verità resta l’enigma inaccessibile di Dio, e per Rorty non c’è verità perché non c’è nessun Dio, per Benedetto XVI Dio c’è, e la sua verità è accessibile, ma attraverso Gesù Cristo, e cioè attraverso la Chiesa, interprete autorizzata del suo messaggio.
Esattamente come i relativisti, Benedetto XVI ritiene che le facoltà umane non abbiano accesso alla verità. «Dare testimonianza alla verità» non significa dunque per lui dire le cose come stanno, ma piuttosto: «mettere in risalto Dio e la sua volontà di fronte agli interessi del mondo e delle sue potenze». Le conseguenze sono molto problematiche, tanto sul piano politico quanto sul piano dottrinale. Qui ha origine, in sordina ma inequivocabilmente, la teocrazia intellettuale di cui si diceva. «La moderna dottrina dello Stato», scrive il Papa, riconosce che il mondo umano non dispone di verità; ma allora: «quale giustizia sarà possibile», visto che non ci sono criteri per distinguere la vera giustizia? Ecco dunque la Chiesa venire in soccorso degli Stati smarriti, senza fondamenti e senza vero: il messaggio cristiano deve dettare agli organismi statali la regola del vero, perché evidentemente «senza verità l’uomo non coglie il senso della sua vita, e si lascia, in fin dei conti, il campo ai più forti».
L’obiezione però è fin troppo facile: se i contenuti della verità sono stabiliti dalla dottrina ufficiale della Chiesa, quali garanzie abbiamo che questa verità sia esente dalla parzialità e dal difetto che per definizione affliggono ogni tentativo umano di sapere? Chi ci assicura che questa pretesa verità non sia ancora la voce «del più forte»? Se si ignorano queste perplessità siamo di nuovo daccapo: siamo al Sinedrio che non fa trionfare affatto la verità, ma anzi, tutto al contrario: manda a morte Gesù.
L’altra verità. Si può in effetti sostenere che proprio la difesa della verità è un dato intrinseco al messaggio di Gesù, e che nel cristianesimo la verità diventa davvero «categoria politica». È essenziale però chiarire che forse non si tratta della summa veritas, come ritiene Joseph Ratzinger, ma più semplicemente: della verità umile e banale, per cui è vero significa così stanno le cose. In questa prospettiva molto cambia.
In primo luogo, spostare l’accento sul potere della verità significa dire: la realtà, proprio quella realtà che urta i nostri corpi, ferendoli, quella realtà fisica che ci fa morire, e soffrire, ed è teatro delle guerre, dell’ingiustizia, e dell’oppressione dei più deboli, ha un potere inequivocabile e primario nelle nostre vite. Questa idea schiettamente naturalistica della vita umana è ben presente nell’operare di Gesù, non per nulla attento a curare i corpi, e pronto a commuoversi per la morte di Lazzaro e per il dolore degli esseri umani che incontra. Verità è la proprietà delle parole (umane) che dicono onestamente e con giustizia questi fatti. Di qui l’estrema importanza del logos - parola, ragione, discorso - per il vangelo di Giovanni.
In secondo luogo, questa verità, cioè dire l’urto dei fatti contro chi vorrebbe occultarli per nascondere e legittimare l’ingiustizia, non è un requisito di Dio, ma degli uomini. Come dice J. C. Beall, in Spandrels of Truth (Oxford University Press, 2009), la verità è una dotazione caratteristica del linguaggio umano. È il nostro linguaggio, che occulta, devia, sbaglia, e ha bisogno di chiarire e generalizzare, a richiedere il predicato ’è vero’. Dio non ne ha alcun bisogno. Dunque il quadro si rovescia: la verità è affare degli uomini, non di Dio, e non per nulla Gesù la difende e ne fa il centro del suo potere: esattamente perché il suo potere è attento agli uomini, e alle loro specifiche fragilità.
In terzo luogo: anche il bisogno del papa di distinguere la rivoluzione di Gesù dalla violenza degli «zeloti», o dei «terroristi», da questo punto di vista potrebbe ricavarne qualche vantaggio. Infatti richiamarsi alla verità, che in definitiva è una proprietà di discorsi, e non di azioni, significa che la trasformazione e l’emancipazione avvengono anzitutto attraverso la parola, non attraverso la violenza. Ecco dunque il senso del potere salvifico del logos come potere non violento, «senza eserciti né legioni».
In questa prospettiva, si direbbe, il lavoro politico di Gesù è equivalente al lavoro politico svolto dai «Tribunali della verità» sorti in Sud Africa contro l’apartheid; o equivalente a tutte le discussioni che oggi riguardano la giustizia globale, ai faticosi tentativi di cambiare le cose con organismi nonsolo nominalmente «umanitari», o alla «parola contro la mafia» di Roberto Saviano e di altri. È vero allora che, intesa in questo modo, la luce innovativa di Gesù Cristo, da quegli sperduti paesi della Palestina «cresce» ed è cresciuta «lungo i secoli», come scrive il papa.
Ma certo la distorsione che la lettura di Benedetto XVI imprime alle interpretazioni libertarie del Vangelo complica la situazione. La parola di Gesù viene assorbita nella voce della Chiesa, delle sue istituzioni dottrinali, dei suoi sacerdoti; il potere eversivo della verità libera dai vincoli delle convenzioni diventa potere non di Dio, ma dei suoi interpreti autorizzati. In questo senso, il cristianesimo non è più l’erede e il sostituto del «sogno svanito», ma il suo affossamento, la sua definitiva cancellazione dalla storia. Il rischio che con ciò si cancelli anche la promessa del Cristianesimo stesso, e se ne oscuri la luce, deve però essere preso in seria considerazione.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
Gran confusione nei cieli d’Europa
di EUGENIO SCALFARI *
GIORNALI di tutto il mondo, i nostri compresi, scrivono da giorni che c’è grande confusione. Lo dicono anche i governi, gli stati maggiori delle varie forze armate, i politici e le persone interrogate per strada.
C’è grande confusione sulla guerra di Libia, sulle sollevazioni africane e mediorientali (alle quali proprio in queste ore si sono aggiunte la Siria e la Giordania), sull’uso del nucleare, sui debiti sovrani, sugli schieramenti internazionali, sui flussi migratori. I grandi paesi emergenti, Cina India Brasile Russia Sudafrica, cominciano ad elaborare una posizione politica comune che sia alternativa a quella dell’occidente, cioè del Nord- America. L’Europa, come sempre, è divisa in due, forse in tre se non addirittura in quattro pezzi. Divisa su tutto: sul caso Gheddafi, sull’immigrazione, sull’energia atomica, sull’economia.
Ma c’è grande confusione anche sui concetti che sembravano chiari, sul significato di parole che sembravano univoche, su valori che sembravano condivisi: il fondamento della morale, il pacifismo, la democrazia, la dignità della donna. Perfino la libertà. Perfino l’eguaglianza. Perfino i diritti e i doveri.
Si direbbe che, quasi d’improvviso, il gomitolo della storia non riesca più a svolgersi, i fili si sono imbrogliati inestricabilmente, i nodi sono arrivati al pettine tutti insieme, la cruna dell’ago è ostruita. Babele trionfa e trionfano la ferocia l’astuzia la Suburra.
Bisogna dunque cercare il capo del filo e svolgerlo per poter capire qualche cosa.
E il capo del filo, sul terreno concreto, oggi sta in Europa perché è proprio qui in Europa che il groviglio è diventato più inestricabile e la confusione ha raggiunto il massimo.
***
La risoluzione dell’Onu ha stabilito che la popolazione civile della Libia sia protetta dalla Comunità internazionale contro le operazioni poliziesche e militari di Gheddafi. Protetta con tutti i mezzi disponibili ed efficaci per fermare Gheddafi, con l’esclusione di sbarcare truppe a terra. La "no fly zone" è uno degli strumenti, ma non il solo, anche perché porta con sé logicamente la distruzione degli impianti gheddafiani a terra e in volo: aeroporti, flotta aerea, installazioni radar, batterie contraeree. Ma poiché l’obiettivo è quello di tutelare la popolazione civile bisogna anche distruggere il sistema dei trasporti militari, le armi pesanti di cannoneggiamento, i mezzi blindati. Insomma bisogna disarmare Gheddafi. Infine, sempre ottemperando alla risoluzione dell’Onu fatta propria dall’Unione europea, bisogna applicare sanzioni economiche e impedire che il raìs riceva rifornimenti di armi. In teoria tutti si sono dichiarati d’accordo con questi obiettivi salvo alcuni membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu (Russia, Cina, India, Brasile, Germania) che però, astenendosi, hanno consentito che l’operazione "protettiva" partisse.
Tralasciamo la bega tra Italia e Francia sul comando dell’operazione: ormai è stato deciso che il comando sarà affidato alla Nato. Ma questo non cambia granché, salvo forse un rallentamento burocratico-operativo sul terreno.
Resta il problema di fondo: che farà Gheddafi?
Se la risoluzione dell’Onu sarà interpretata in modo limitato, Gheddafi resterà al potere a Tripoli e aspetterà che la presenza degli stranieri nei cieli libici e nel mare cessi. La "no fly zone" non potrà durare in eterno, prima o poi la coalizione dei "protettori" si scioglierà, il dispositivo militare sarà smantellato e tutti se ne torneranno a casa. Tutti salvo ovviamente Gheddafi e il suo esercito mercenario. I rifornimenti di armi riprenderanno e in Libia tutto ricomincerà da capo salvo l’alleanza dei "protettori" che una volta sciolta non si riformerà più. Prima che ciò avvenga bisogna dunque avviare un negoziato.
***
Questa sequenza l’hanno capita tutti, più o meno tardivamente. L’hanno capita gli americani, l’Onu, la Nato, i francesi, gli italiani, la Turchia, la Lega araba, la Lega africana. Tra il capire e il fare c’è però di mezzo... Gheddafi. Non se ne andrà in esilio se non sarà con le spalle al muro. Farà ogni sorta di promesse, giurerà di "fare il buono", accetterà di emanare una Costituzione democratica e libere elezioni, lo giurerà sulla testa dei figli e dei nipoti. Tutto, pur di restare al comando. L’esilio no, non lo accetterà se non sarà ridotto all’impotenza. Nel suo caso l’impotenza significa: senza più esercito, senza più mercenari, senza più consenso, senza più macchina di propaganda, senza più ricchezze se non quanto necessario al suo (lauto) sostentamento. Di fatto prigioniero nel suo bunker e con la denuncia alla Corte dell’Aia per crimini contro l’umanità pendente sul suo capo come avvenne per Milosevic.
Solo se ridotto in queste condizioni accetterà l’esilio come salvavita. Perciò se la risoluzione dell’Onu di protezione della popolazione civile libica deve essere rispettata il solo modo praticabile è quello di ridurre Gheddafi in quella condizione. Altrimenti diciamo che è stato tutto un macabro e dispendiosissimo scherzo. È pienamente comprensibile che i Paesi definiti dalla sigla Bric (Brasile, Russia, India, Cina) puntino a questo risultato: l’umiliazione degli Usa, dell’Europa, di quello che un tempo si definiva Occidente. Ma che sia questo anche l’obiettivo della Germania è incomprensibile a meno che, per la Germania, l’umiliazione della Unione europea sia un punto di passaggio per instaurare l’egemonia tedesca sull’Europa. Egemonia non soltanto economica (quella già c’è) ma anche politica.
Quell’egemonia ha ormai un solo ostacolo: la Francia, guidata da un leader che qualcuno descrive come un personaggio da avanspettacolo. Quanto a noi, in fatto di avanspettacolo non accettiamo lezioni da nessuno. Infatti siamo noi che, dopo i primi tentennamenti, abbiamo considerato la Francia come il nemico o almeno il rivale numero uno. Sarkozy forse fa ridere ma la Francia è la Francia e purtroppo noi facciamo ridere tutti anche in circostanze nelle quali si dovrebbe piangere.
***
In realtà la sola questione che interessa chi detiene la "golden share" del governo italiano, cioè Bossi, è quella degli immigrati. Lampedusa è stata fin qui l’agnello sacrificale: è stata lasciata sola perché si è voluto che rappresentasse visibilmente, sotto gli occhi delle televisioni di mezzo mondo, una popolazione di cinquemila abitanti ridotti allo stremo ed una popolazione di ottomila immigrati ridotti in condizioni disumane.
Alla fine anche Maroni, che aveva vaticinato l’apocalisse senza aver preparato nulla per fronteggiarla, si è reso conto che la soglia dell’insopportabilità era stata varcata e ha preso (apparentemente) le misure per fronteggiarla requisendo due navi da crociera per sgombrare l’isola. Ci vorrà una settimana ma la sgombrerà, ma fino all’altro ieri non l’aveva fatto. Perché? Non ci vuole una gran fantasia ma a lui non era venuto in mente nulla.
Resta tuttavia un mistero: dove sistemerà, sia pure provvisoriamente, gli ottomila immigrati? E come fronteggerà quelli che nel frattempo continueranno ad arrivare?
Finora sono arrivati dalla Tunisia o meglio dai campi allestiti al confine tra Libia e Tunisia dove novantamila profughi si sono accalcati da quando in Libia è scoppiata la guerra civile. Ma ora le partenze sono cominciate anche dalla costa libica, dai campi di concentramento allestiti da Gheddafi dove a questo punto tutti i paletti sono saltati.
Questi campi erano un inferno e c’era gente di ogni provenienza: africani di Eritrea e di Etiopia, sudanesi e perfino neri provenienti dall’Africa equatoriale e subsahariana. La strada era di migliaia di chilometri e la Libia era la tappa verso il Mediterraneo.
Gheddafi faceva il carceriere. Berlusconi lo pagava per questo, petrolio a parte. Adesso il raìs ha altre cose cui pensare e semmai si serve del flusso di migranti per dimostrare la necessità di rimettere in sella un carceriere della sua stazza.
Voglio qui trascrivere un pensiero di Luigi Einaudi, un liberale conservatore che in realtà fu una grande persona che fa onore al nostro Paese.
"Le barriere giovano soltanto a impoverire i popoli, a inferocirli gli uni contro gli altri, a far parlare a ciascuno di essi uno strano e incomprensibile linguaggio, di spazio vitale, di necessità geopolitiche e a far pronunciare ad ognuno di essi esclusive scomuniche contro gli immigrati stranieri, quasi che fossero lebbrosi e quasi il restringimento feroce d’ogni popolo in se stesso potesse, invece di miseria e malcontento, creare ricchezza e potenza".
Questo scrisse Einaudi in un discorso pronunciato all’Assemblea Costituente il 29 luglio del 1947. Parole che sembrano scritte oggi. Gettate al vento in un Paese del quale fu il primo presidente della Repubblica appena nata.
***
Questa è la deplorevole, mortificante, lacerante situazione in cui ci troviamo mentre il Parlamento, forte d’una maggioranza che sta in piedi solo perché una ventina di deputati ricatta con successo il presidente del Consiglio, si occupa dei problemi giudiziari dell’imputato Silvio Berlusconi: cancellare i processi colpendoli con la legge "ad personam" sulla prescrizione brevissima, sollevare il conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale, intimidire i magistrati con la responsabilità civile personale.
La Lega acconsente perché ha il suo tornaconto e passa all’incasso. Almeno il suo è un ricatto politico ma gli altri sono ricatti di altro genere. Passano all’incasso gli "irresponsabili" dei vari gruppi di parlamentari comprati con cambiali che ora debbono esser pagate per non andare in protesto; passano all’incasso le veline e le escort, passano all’incasso i difensori d’ufficio e anche gli esiliati "pro tempore" come Scajola.
A me a volte Berlusconi fa tenerezza. Ma se penso allo scempio che ha fatto di questo Paese la tenerezza cede il posto ad un sentimento di giustizia che non saranno le aule giudiziarie a soddisfare ma l’isolamento morale e la disfatta politica che le sue azioni e omissioni si sono ampiamente meritate.
* la Repubblica, 27 marzo 2011
LACAN CON FREUD E "KANT CON SADE": "Che l’opera di Sade anticipi Freud, foss’anche solo riguardo al catalogo delle perversioni, è una sciocchezza detta e ridetta nelle lettere, la cui colpa, come sempre, va agli specialisti". Così inizia il testo di J. Lacan, Kant con Sade, (Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 762).
Sulla "kantizzazione" di Sade e sulla "sadizzazione" di Kant da parte di Lacan, cfr.: E, Fachinelli, "Lacan e la Cosa", La Mente estatica, Adelphi, Milano 1989, pp. 181-195; e, sulla più generale "hitlerizzazione" di Kant, si cfr.: F. La Sala, Sigmund Freud, i diritti umani, e il problema dell’"Uno")
LACAN E "L’ORIGINE DEL MONDO" (G. Courbet, 1866): "(...) Jacques Lacan conservava L’ origine del mondo nascosta dietro un pannello, nello studio della sua casa di campagna, non rivelandone il segreto che agli ospiti d’ élite: Dora Maar, Marguerite Duras, Claude Lévi-Strauss... E quando finalmente svelava il dipinto, Lacan concentrava il proprio sguardo non sul monte di Venere, ma sullo sguardo dello spettatore. Si divertiva a farsi voyeur del voyeur" (Sergio Luzzatto).
La pace perpetua
Il grande filosofo ha creduto nell’espansione della democrazia e dell’emancipazione
Kant, la rivolta dei giovani arabi e l’inganno dello scontro di civiltà
Nessuno ha previsto le rivoluzioni democratiche del Nordafrica. I servizi di intelligence sono stati spiazzati In questi decenni ha dominato la paura dell’Islam. Ma le forze della pace hanno continuato ad operare
di Pino Arlacchi (l’Unità, 08.03.2011)
Sono in molti a chiedersi in questi giorni come mai le rivoluzioni democratiche del Nordafrica non sono state previste da nessuno, e perché i centri di intelligence, soprattutto americani, nonostante i loro enormi budget, siano rimasti così clamorosamente spiazzati davanti ai cambiamenti epocali in corso.
Questo fallimento ha una spiegazione. Non solo gli analisti dei servizi di sicurezza, ma anche la maggior parte degli studiosi di scienze sociali non sono stati capaci di anticipare nulla di ciò che sta accadendo nel mondo arabo semplicemente perché vittime e autori, allo stesso tempo, di un grande inganno. Parlo di un colossale offuscamento delle coscienze durato quasi due decenni, e basato sull’idea che viviamo in un epoca catastrofica, dove la nostra sicurezza corre un pericolo mortale a causa di una serie di minacce, la prima delle quali è l’ Islam, seguita da altre quali gli stati canaglia, l’ immigrazione, l’ espansione della Cina, il riarmo, i conflitti e le guerre.
Il primo decennio del nuovo secolo, dall’ elezione di Bush II all’ inizio del 2011, è stato dominato dall’inganno e dalla paura, cioè dal mito del caos globale. Una visione negativa delle cose che ha avuto conseguenze politiche rilevanti, perché ha abbassato le nostre aspettative, ci ha costretti sulla difensiva, e ci ha tolto la fiducia in un mondo più decente. Eppure, non ci sarebbe voluto molto per cogliere i segnali di una potente forza contraria: quella del progresso umano e della pace. Una forza che ha continuato ad agire sotto la superficie degli eventi e a dispetto della propaganda della destra globale trionfante, e al potere negli Usa ed altrove.
Una potenza benefica, che ha fatto decrescere la violenza grande e piccola, ridotto o azzerato minacce, accresciuto la sicurezza individuale e collettiva, allargato democrazie e diritti.
La transizione democratica del Nordafrica, allora, non è altro che un tassello del mosaico che le forze della pace hanno continuato a comporre sotto i nostri occhi, e con la nostra partecipazione, sia pure poco convinta.
Al tema dell’ inganno e della paura ho dedicato lo studio più importante della mia vita, scritto nel 2008, prima dell’ elezione di Obama, e pensato nei dieci anni precedenti. In esso ho criticato la visione sbagliata della sicurezza internazionale ancora oggi dominante, ed ho richiamato il pensiero di un grande europeo, Emanuele Kant, il filosofo che più ha creduto nell’ espansione della democrazia e dell’ emancipazione umana.
Sarebbe bastato rileggere qualche pagina di un libretto pubblicato da Kant nel 1795, «La pace perpetua» per non stupirsi di fronte al tramonto dei tiranni Nordafricani. In esso il filosofo tedesco ha disegnato un mondo governato dalle democrazie e dalle organizzazioni internazionali, dove la guerra diventa sempre più rara, obsoleta ed assurda. Un mondo dove i cittadini daranno il loro consenso all’ uso della forza solo per autodifesa, e dove la diffusione dei regimi democratici ha instaurato un metodo della nonviolenza che ha finito con l’ estendersi anche ai rapporti tra gli Stati.
Queste dinamiche hanno continuato ad operare in realtà anche dopo l’ 11 settembre 2001. Le forze della pace kantiana hanno continuato il loro lavoro. Fino a sfociare nella «storia che si è dischiusa» all’ alba di quest’anno, secondo la bella definizione di Obama.
Tutto ciò si è verificato nonostante le idee di un pensatore reazionario, Samuel Huntington, il capofila della teoria dello scontro di civiltà con l’ Islam, fossero diventate un pensiero unico che ha ingannato molte persone in buona fede. La bandiera dello scontro di civiltà ha riportato in auge una legione di profeti di sventura, che hanno vaticinato disastri e guerre che esistevano in realtà solo nei loro desideri. Non ne hanno azzeccata una. Ma le loro errate previsioni hanno svolto la funzione di far crescere le paure collettive che hanno gonfiato a loro volta le spese militari.
Le idee di Kant ci hanno invece aiutato a rafforzare le istituzioni del dialogo e dei diritti universali: le Nazione Unite, il Parlamento e l’ Unione europea, e quella panoplia di trattati e di agenzie internazionali che formano come una rete che scoraggia la guerra e incoraggia la democrazia e la giustizia in ogni angolo del pianeta.
L’ imbroglio dello scontro di civiltà (con annessa teoria della superiorità etico-politica dell’ Occidente) è oggi nella polvere, sconfitto dai giovani arabi che manifestano per i diritti universali. Adesso dobbiamo fare attenzione a non cadere in una trappola.
Quella del trionfalismo progressista, che vede una crescita lineare ed ineluttabile della democrazia. Il catastrofismo di Huntington non va sostituito da una fede ingenua e dogmatica nello sviluppo umano. Da una specie di inganno al rovescio che ci porta ad ignorare le potenze distruttive della violenza e dell’ oppressione.
La continuità del processo in corso dipende da noi. Dalle mosse che saremo in grado di fare per tutelare le conquiste appena ottenute, e per espanderle ancora. Anche qui Kant ci può essere utile. Per lui il progresso etico-politico non era scontato, e poteva conoscere fasi anche molto lunghe di regresso e stagnazione. Per evitare le quali occorreva riflettere bene sugli errori passati, ed imparare a non ripeterli: il celebre learning process kantiano.
Se la rivoluzione democratica del Nordafrica sfocerà in un congiungimento politico di quei paesi all’ Europa e in un passo avanti verso la democrazia universale, invece di ripiegarsi su se stessa ed arretrare verso regimi semi-tirannici o verso situazioni di «stati falliti», dipende in primo luogo dalle azioni di chi combatte in loco. Ma dipende anche da noi. Dal sostegno che sapremo dare alle forze della nonviolenza e della solidarietà. Battiamoci, allora, perchè questo secondo decennio del ventunesimo secolo si svolga all’ insegna della profezia kantiana sulla pace democratica.
Un’eredità plurale
L’attaccamento alle radici comporta inevitabili conflitti. Anziché affannarsi a cercare dubbie identità, è più utile rifarsi alle lezioni di Jürgen Habermas e di Denis de Rougemont che da prospettive differenti prefigurano comunità caratterizzate da valori di inclusione e solidarietà.
di Remo Ceserani (il manifesto, 23 febbraio 2011)
Tutti si affannano, in questi giorni, e riempiono le pagine dei giornali, dei siti web, dei blog, e delle trasmissioni televisive, per discutere di identità: l’identità italiana, le radici cristiane dell’Italia o dell’Europa, l’identità padana (del tutto immaginaria e composita), e così via. La parola «identità», usata a proposito e a sproposito, compare sempre più spesso nei discorsi degli storici e dei giornalisti italiani, con insistito riferimento, in questi ultimi tempi, all’identità italiana (un’identità, come è noto, abbastanza incerta e traballante e prodotta con qualche fatica attraverso le vicende del Risorgimento, del Fascismo e della Resistenza). Tutti sappiamo che l’idea di una identità forte, sia delle singole persone (gli imprenditori, i costruttori del proprio destino, i protagonisti della propria vita), sia delle singole comunità (i gruppi sociali, le classi, le nazioni) sono un prodotto tipico della modernità, basato su forti investimenti ideologici e su vere e proprie costruzioni di sé con tutti gli strumenti offerti dalla mitologia (le origini, le radici) e dall’immaginario (la storia, la bandiera, gli inni, le date fatidiche, sia delle vittorie sia persino in certi casi, delle sconfitte, come è avvenuto per l’identità serba in seguito alla vittoria turca nella Piana dei Merli, nel Kosovo, il 15 giugno 1389, giorno di San Vito).
Individui in movimento
Forse è il caso di dirci, sommessamente, che si corrono grossi rischi, e si cade in troppe rigidità ideologiche, quando si parla di identità. L’attaccamento alle radici, siano esse etniche, culturali o, peggio ancora, religiose, comporta un’inevitabile conseguenza di conflitti. La difesa della propria identità prevede un confronto, e spesso un contrasto (anche violento) con le identità altrui. Il panorama mondiale è ancor oggi pieno di conflitti che nascono proprio dalla rivendicazione delle proprie radici e dallo scontro fra identità diverse. E la storia offre esempi infiniti di guerre tribali, interetniche, civili, nazionali, mondiali, nate da simili rivendicazioni.
Oggi in teoria saremmo in un mondo, quello della globalizzazione o della modernità liquida, in cui gli individui si muovono sempre più rapidamente e attraversano molti confini: sono immigrati che lasciano i paesi poveri o i regimi polizieschi per andare a vivere in società più aperte e più ricche di opportunità di lavoro. Sono giovani che hanno ottenuto una formazione nelle università e in centri di ricerca del proprio paese e, per sfuggire a strutture chiuse e corporative, o per semplice desiderio di ampliare conoscenze ed esperienze, vanno a operare nei centri di ricerca o nei laboratori di altri paesi. Sono persone che si trapiantano per necessità o per gusto della novità e dell’avventura. Sono i protagonisti della mobilità sociale. Sono coppie che si formano dopo l’incontro fra individui (uomini o donne) appartenenti a culture diverse, che vanno a vivere presso uno di loro oppure si spostano entrambi in un paese terzo.
Nel segno dell’illuminismo
Se esaminiamo questo problema dal punto di vista della teoria sociale, non possiamo che contrapporre all’idea di «identità» (ossia l’attaccamento più o meno volontario alle proprie radici e alla propria comunità di origine, la disponibilità a rafforzarla e difenderla fino al sacrificio - «pro patria mori»), l’idea di «appartenenza», ossia la libera scelta della comunità in cui vivere e disponibilità a rafforzarla e difenderla, con juicio e possibilmente con armi pacifiche. È stato chiarissimo in proposito il filosofo tedesco Jürgen Habermas, che ne ha parlato al tempo della discussione sulla costituzione europea e dello scontro con chi insisteva - fra questi non solo i prelatidel Vaticano ma anche Fini, se ben ricordate - sulla necessità di inserire nel testo la rivendicazione dell’identità cristiana dell’Europa.
Habermas respingeva qualsiasi idea tradizionale di nazione come «una comunità del destino plasmata da una comune eredità, una lingua e una storia comuni», e dichiarava di concepire piuttosto le nostre nazioni moderne come comunità di cittadini: «una comunità civica, anziché etnica», la cui identità collettiva «non esiste indipendentemente o antecedentemente al processo democratico da cui scaturisce» (Tempo di passaggi, Milano, Feltrinelli, 2004, ma vedi anche Ach Europa!. Kleine politische Schriften XI, Frankfurt, Suhrkamp).
Rifacendosi all’idea illuministica degli Stati moderni come formazioni storiche fondate su un contratto costituzionale, procedure democratiche, condivisione d’interessi economici, valori culturali, interpretazioni del passato e sviluppo di una «sfera pubblica», Habermas concepisce l’Europa come una comunità specifica di cittadini (citoyen) caratterizzata dalla presenza condivisa di valori come la solidarietà, l’orientamento verso il sociale, l’inclusione politica ed economica. Questo passaggio del discorso di Habermas mi sembra di grande importanza: sarebbe bene che chi può scegliere la comunità alla quale aderire, ammesso che la possibilità di scelta sia reale (e temo che, pur con tutta la mobilità sociale del mondo globalizzato, quelli che possono scegliere non siano molti), preferisse una comunità caratterizzata da valori condivisi come «la solidarietà, l’orientamento verso il sociale, l’inclusione politica ed economica». Per fare qualche esempio dal mondo occidentale dopo la grande crisi: molti paesi europei sembrano poco inclini all’inclusione politica ed economica degli immigrati; l’Inghilterra e gli Stati Uniti, che tendono a cancellare il welfare, sembrano poco orientati verso la solidarietà e il sociale.
Il federalista Gioberti
Se poi esaminiamo il problema dal punto di vista della storia (di gran moda ai nostri giorni, in cui abbiamo delegato al bravissimo Benigni di tentare la ricostruzione, con l’aiuto di Aldo Cazzullo, delle vicende del Risorgimento - ma forse avrebbe fatto meglio a chiedere l’aiuto anche di Alberto Mario Banti), credo doveroso riconoscere che il problema dell’identità italiana sia un vero ginepraio. Tutti noi, nati nell’una o nell’altra regione italiana, abbiamo problemi non piccoli a risalire all’indietro nella storia e a identificare le nostre origini e identità. Cosa sono io, nato in Lombardia? Di eredità celtica, o germanico-longobarda, o villanoviana, etrusca, latina, romana? O addirittura pelasgica, come voleva Gioberti, uno dei padri della patria di cui si parla poco in questi giorni, il quale nel 1846 si fece sostenitore di un’Italia unificata con il consenso papale e nel 1848 si proclamò federalista? Sentite cosa scriveva nel Primato: «Il genio proprio degli Italiani nelle cose civili risulta da due componenti, l’uno dei quali è naturale, antico, pelasgico, dorico, etrusco, latino, romano, e s’attiene alla stirpe e alle abitudini primitive di essa; l’altro è sovrannaturale, moderno cristiano, cattolico, guelfo, e proviene dalle credenze e instituzioni radicate, mediante un uso di ben quindici secoli e tornate in seconda natura agli abitanti della penisola. Questi due elementi, che sono entrambi nostrani, ma il primo dei quali è specialmente civile e laicale, il secondo religioso e ieratico, insieme armonizzano, giacché essendo logicamente simultanei e cronologicamente successivi, ma con assidua vicenda, l’uno compie l’altro, e corrispondono ai due grandi periodi della nostra istoria prima e dopo di Cristo, e alle due instituzioni italiane più forti e mirabili (alle quali credo che niun’altra si possa paragonare) cioè all’imperio latino nato dalla civiltà etrusco pelasgica, e alla dittatura civile del Papa nel medio evo, procreata dal Cristianesimo».
Tre città-simbolo
Vorrei, a tutti quanti si tormentano sulla questione dell’identità italiana, e ancor più su quella dell’identità europea, ricordare le parole di un grande intellettuale ginevrino, Denis De Rougemont, calviniano, figlio di un pastore, ma anche spirito libero e coraggiosamente radicale, che negli ultimi anni della sua vita, dopo la formazione parigina (il cui frutto fu un libro curioso e controverso: L’amore e l’occidente, 1939) e un lungo soggiorno americano, da Ginevra si spese con grande energia in favore dell’Europa, proponendo uno Stato federale basato sul modello della Svizzera (Écrits sur l’Europe, a cura di Christophe Calame, Parigi 1994). De Rougemont insiste sullediversità delle tante componenti che formano l’Europa e sul loro ruolo fecondo (lo stesso, a maggior ragione, dovremmo dire dell’Italia): «la diversità delle tradizioni, delle lingue, dei partiti, delle nazioni e persino delle religioni, è una condizione fondamentale della creatività e dello spirito d’invenzione» propri dell’Europa.
Nella ricerca delle memorie condivise, De Rougemont mette in campo le tre città-simbolo della grande tradizione: Atene, Gerusalemme, Roma, e poi numerose culture: l’Oriente, la Grecia, il Cristianesimo, i Celti, i Germani, gli Arabi, gli Scandinavi, gli Slavi. Egli ricorda per esempio l’apporto celtico del gusto per l’avventura, per la dismisura e per la potenzialità trasfigurante del sacrificio e della sconfitta, oppure l’apporto germanico e celtico dell’ideologia cavalleresca e della fedeltà di appartenenza al clan e al ceto nobiliare, oppure ancora l’apporto occitanico della concezione cortese della vita e dell’amore, arricchita di elementi della gnosi e dell’erotismo arabo. Ma ricorda anche altri elementi, che spiegano l’insieme complesso e pieno di contraddizioni delle identità europee: 1) la molteplicità delle lingue ma anche le loro profonde e nascoste affinità, dovute all’eredità indoeuropea, che accomuna quasi tutte le lingue antiche e moderne del continente (ricorda per esempio la presenza in molti paesi dei derivati dei termini dubron e dour che in celtico e in brettone armoricano significavano «acqua», come dimostrano i nomi dei fiumi Douro in Spagna, Drance e Thur in Svizzera, Dordogne, Durance, Drôme e Dore in Francia, le due Dore in Italia, la Dordrecht in Olanda e venti altri fiumi europei); 2) la lunga tradizione di organizzazioni statali e burocratiche forti, ereditate dall’opera di romanizzazione, che ha portato gli Europei a costruire stati-nazione molto accentrati e autoreferenziali e, sottolinea De Rougemont, a non saper concepire Dio o la vita spirituale al di fuori dei quadri istituzionali delle Chiese; 3) la concezione della persona umana fortemente autonoma e impegnata a seguire una propria vocazione indipendente, ma capace di contribuire alla fondazione di valori condivisi della comunità (eredità greco-cristiana colorata di valori germanici e celtici); 4) lo spirito critico e la propensione a liberarsi dall’impalcatura del sacro e dal culto dei morti, dai miti tribali, dalle credenze religiose nate dalla paura (che De Rougemont considera una eredità propriamente evangelica); 5) la tendenza, purtroppo molto diffusa, a lasciarsi condizionare dai legami pesanti con la materialità (e quindi a essere meno distaccati e liberi rispetto, per esempio, ai popoli influenzati dall’induismo o dal buddismo); 6) la tendenza, inoltre, a lasciarsi attrarre dall’astrazione (e quindi essere meno capaci di comunicare con le proprie forze vitali dei popoli africani influenzati dall’animismo).
Appartenenza e egoismo
Mi pare un quadro straordinariamente efficace delle nostre tante diversità e un programma convincente in favore di un’Italia, e di un’Europa, non delle identità, ma delle differenze e delle appartenenze. De Rougemont aveva in mente la Svizzera: un paese in cui convivono tre religioni e quattro lingue, orgoglioso della sua indipendenza, delle sue istituzioni politiche, unito non da ragioni di identità etnica, linguistica o religiosa, ma da peculiari, rispettabilissime, tradizioni storiche (ma anche, si deve aggiungere, da non poche ragioni di convenienza e interessi economicomateriali, e da una solidarietà un po’ chiusa su di sé e corretta da un qualche egoismo - come dimostra il recente affacciarsi sulla scena politica di un movimento xenofobo come il Ppd di Christof Blocher).
Tutto considerato, mi pare che la lezione di De Rougemont, così come quella di Habermas, potrebbe essere estremamente salutare in un’Italia come è quella in cui viviamo, estremamente confusa e distratta.
Occidente cieco
di Pino Arlacchi (l’Unità, 22.02.2011)
Dalla Libia giungono notizie drammatiche e contraddittorie. Il dittatore ha deciso di concludere nel sangue la sua avventura quarantennale e, mentre scrivo, il quadro cambia di ora in ora. Ma quali che siano i tempi e gli esiti della rivolta del popolo libico, è chiara e consolidata la direzione dei processi in atto nel mondo arabo: siamo in presenza di un’ondata paragonabile a quella che, negli anni Ottanta, portò la democrazia in America latina e, negli anni Novanta, nell’Europa dell’Est. Siamo in presenza di eventi di portata storica.
Come Occidente ci siamo arrivati impreparati. Alcuni governi attribuiscono la responsabilità di ciò agli organismi di intelligence. In effetti i precedenti non mancano. È noto che la Cia non riuscì a vedere il crollo del comunismo e che non si è stati capaci di avvertire lo shock petrolifero, l’ascesa della Cina, l’odierna virata a sinistra dell’America Latina. Potremmo compilare una lista molto lunga.
Ma non includeremmo la sorpresa di queste ultime settimane. No, questa volta la colpa non è di 007 incapaci, ma di un errore di prospettiva culturale. Abbiamo vissuto nell’idea dello scontro di civiltà con l’Islam e col suo inevitabile corollario: l’incompatibilità tra l’Islam e la democrazia. Ci siamo cullati nella presuntuosa convinzione d’essere, noi occidentali, i monopolisti della democrazia fino a escludere, nelle scelte di politica internazionale, quella che continuavamo a predicare: la sua universalità. E ora siamo qua, a bocca aperta, a guardare eventi enormi che, in realtà, non sono affatto sorprendenti.
E non è finita. Perché un po’ per cinismo, ma probabilmente anche per stupidità, c’è chi si ostina a trasferire quel pregiudizio di “incompatibilità” tra democrazia e Islam al presente: minimizza quanto è accaduto in Tunisia, in Egitto, e sta accadendo in Libia, e sostiene che questi processi alla fine consegneranno quei paesi ai Fratelli musulmani e al fondamentalismo islamico.
È la parola d’ordine della destra internazionale adottata con passiva disciplina dal nostro governo che fa breccia anche tra commentatori prudenti e moderati. Alcuni giorni fa sul Corriere della sera c’era chi si domandava se in fondo non era meglio la “stabilità” garantita dai governi autoritari di queste potenziali “democrazie estremiste” governate da partiti islamici.
C’è da chiedersi di quale “stabilità” parlino. Il Medio Oriente è da cinquant’anni l’area più instabile e conflittuale del mondo. La guerra internazionale più sanguinosa degli ultimi trent’anni si è combattuta tra Iran e Iraq con un milione di morti. E abbiamo forse dimenticato gli eventi tragici che si sono prodotti in Iran prima sotto lo Shah e poi sotto Komeini? E le ripetute invasioni del Libano? E le guerre in Afghanistan e in Iraq con l’annessa invasione del Kuwait?
Dobbiamo opporci con fermezza a questo mix di cecità e colpevole oblio che produce alla fine gli imbarazzanti balbettii del ministro Frattini, ancora una volta l’ultimo a capire. La democrazia è il piu grande fattore di stabilità e di pace di lungo periodo. Le democrazie riducono i budget militari, cioè gli strumenti della guerra. Sono il metodo della non violenza applicato ai rapporti interni e internazionali. È stato così in passato e sarà così anche nel mondo arabo.
Riscopriamo l’etica. Agamben: "Provate a vivere secondo le vostre idee"
intervista a Giorgio Agamben
a cura di Franco Marcoaldi (la Repubblica, 8 febbraio 2011)
In cosa crediamo? Quali sono le credenze civili, religiose, politiche, scientifiche, su cui si regge la società? La risposta si fa particolarmente difficile in un mondo come il nostro, che vede le credenze tradizionali - oggetto di una costante erosione - trasformarsi in surrogati, con il conseguente dilagare delle più diverse forme di superstizione. Oppure, per converso, il trionfo di uno scetticismo e di un’indifferenza che rasentano il nichilismo.
Proveremo a trattare la questione "credere, credenza", affrontandola da diversi punti di vista. E partiremo chiedendo l’aiuto di un filosofo italiano di fama internazionale: Giorgio Agamben. «Nella nostra cultura esistono due modelli di esperienza della parola. Il primo modello è di tipo assertivo: due più due fa quattro, Cristo è risorto il terzo giorno, i corpi cadono secondo la legge di gravità. Questo genere di proposizioni sono caratterizzate dal fatto che rimandano sempre a un valore di verità oggettivo, alla coppia vero-falso. E sono sottoponibili a verifica grazie a un’adeguazione tra parole e fatti, mentre il soggetto che le pronuncia è indifferente all’esito.
Esiste però un altro, immenso ambito di parola del quale sembriamo esserci dimenticati, che rimanda, per usare l’intuizione di Foucault, all’idea di "veridizione". Lì valgono altri criteri, che non rispondono alla separazione secca tra il vero e il falso. Lì il soggetto che pronuncia una data parola si mette in gioco in ciò che dice. Meglio ancora, il valore di verità è inseparabile dal suo personale coinvolgimento».
Il senso profondo del credere andrebbe dunque ricercato proprio qui?
«Certamente. Anche se, nel corso del tempo, il trionfo del primo modello, quello assertivo, ha di fatto cancellato il secondo. Mi fanno sorridere i confronti, oggi molto in voga, tra credenti e non credenti: veri e propri dialoghi tra sordi, visto che preti e scienziati condividono da versanti opposti lo stesso modello di verità. Poco importa che si discuta di leggi fisiche o teologiche, che naturalmente si elidono tra loro. Si tratta in ogni caso di proposizioni assertive. La confusione tra ciò che possiamo credere, sperare e amare e ciò che siamo tenuti a considerare vero, oggi ci paralizza».
Quando sarebbe stato cancellato il secondo tipo di esperienza con la parola?
«Nella tradizione dell’Occidente, è stato Aristotele ad affermare che la filosofia deve occuparsi soltanto delle proposizioni che possono risultare vere o false. Eppure esisteva ed esiste un’altra esperienza della parola: quella della promessa, della preghiera, del comando, dell’invocazione, che è stata esclusa dalla riflessione filosofica. Naturalmente, ciò non significa che essa non abbia continuato ad agire: il diritto e la religione si fondano su di essa».
Un esempio?
«Il più importante di tutti: San Paolo, che definendo la parola della fede, non fa riferimento a criteri di verità, ma parla di vicinanza tra cuore e labbra. È significativo che, tranne una volta, egli usi sempre l’espressione, da lui inventata, "credere in Gesù Cristo" e non, come sarebbe stato normale in greco, credere che Gesù è il figlio unigenito di Dio, eccetera. La differenza è sostanziale. La Chiesa, attraverso i suoi concili, ha cercato di fissare la fede in dogma, in un’esperienza di tipo assertivo. E così si è smarrito un tratto fondamentale della natura umana, che esige una fede estranea a una logica puramente fattuale. La vera fede non aderisce a un principio prestabilito ed è singolare che proprio la Chiesa, che doveva preservare questa idea, se ne sia dimenticata. Da qui la formula "Credo perché è assurdo"».
Quali sono i riflessi negativi di tale logica assertiva sulla nostra vita sociale?
«Infiniti. Pensi all’etica: si afferma che per agire bene bisogna disporre di un sistema di credenze prefissato. Dunque, agirebbe bene soltanto colui che ha una serie di principi a cui deve conformarsi.È il modello kantiano, ancora imperante, che definisce l’etica come dovere di obbedire a una legge. Quando lavoravo sull’idea di "testimonianza", mi colpì la storia di una ragazza che, sottoposta a tortura dalla Gestapo, aveva rifiutato di rivelare i nomi dei suoi compagni. A chi più tardi le chiese in nome di quali principi era riuscita a farlo, rispose soltanto "l’ho fatto perché così mi piaceva". L’etica non significa obbedire a un dovere, significa mettersi in gioco: in ciò che si pensa, si dice e si crede».
Anche perché, travolta la credenza nell’infallibilità di quella certa legge, rimane un campo di rovine.
«Prima o poi accade a tutte le credenze di tipo oggettivo. E difatti: le credenze politiche si sono letteralmente sbriciolate, quelle teologico-religiose si fossilizzano in dogmi contrapposti. Per quanto riguarda quelle scientifiche, esse risultano completamente irrelate rispetto alla vita etica dei singoli individui».
In Credere e non credere Nicola Chiaromonte formula una domanda secca: si può credere da soli?
«È una domanda pertinente. Che io riformulerei in questo modo: com’è possibile condividere una verità o una fede che non siano di tipo assertivo? Io penso che questo accada nei territori dell’esistenza in cui ci si mette in gioco personalmente. Se la veridizione è lasciata ai margini e il solo modello della verità e della fede diventano la scienza e il dogma, la vita diventa invivibile. Di qui l’indifferenza e lo scetticismo generalizzato, oltre che la tetraggine sociale dilagante. Soltanto procedendo a ritroso, ricercando quella diversa esperienza di parola, si può tornare al rapporto originario con la verità, irriducibile a qualunque sua istituzionalizzazione. Le faccio un esempio: la scienza guarda al passaggio dal primate all’uomo parlante unicamente in termini cognitivi, come se fosse soltanto una questione di intelligenza e di volume cerebrale. Ma non c’è solo questo aspetto. La trasformazione deve essere stata altrettanto gigantesca dal punto di vista etico, politico, sensibile. L’uomo non è solo homo sapiens. È un animale che, a differenza degli altri viventi, i quali non sembrano dare importanza al loro linguaggio, ha deciso di correre fino in fondo l’azzardo della parola. E da qui è nata la conoscenza, ma anche la promessa, la fede, l’amore, che esorbitano la dimensione puramente cognitiva».
È una strada ancora aperta?
«L’uomo non ha ancora finito di diventare umano, l’antropogenesi è sempre in corso. Menandro ha scritto: "com’è grazioso - cioè capace di gratuità - l’uomo quando è veramente umano". È questa gratuità che dobbiamo riscoprire. Tanto più che i modelli di credenza che ci vengono proposti non ci persuadono più. Sono, come diceva Chiaromonte, mantenuti a forza, in malafede».
Proviamo dunque a perimetrare il novero di queste credenze più genuine, anche se sotterranee, sommerse.
«Prendiamo la politica: perché non interroga finalmente la vita delle persone? Non la vita biologica, la nuda vita, che oggi è continuamente in questione nei dibattiti spesso vani sulla bioetica, ma le diverse forme di vita, il modo in cui ciascuno si lega a un uso, a un gesto, a una pratica. Ancora: perché l’arte, la poesia, la letteratura, sono museificate e relegate in un mondo a parte, come se fossero politicamente e esistenzialmente irrilevanti?».
Anche lo scrittore russo Alexandr Herzen lamentava a suo modo la cancellazione dell’esperienza vitale soggettiva. Affermando che crediamo in tutto, tranne che in noi stessi.
«Viviamo in società abitate da un Io ipertrofico, gigantesco, nel quale però nessuno, preso singolarmente, può riconoscersi. Bisognerebbe tornare all’ultimo Foucault, quando rifletteva sulla "cura di sé", sulla "pratica di sé". Oggi è rarissimo incontrare persone che sperimentino quella che Benjamin chiamava la droga che prendiamo in solitudine: l’incontro con sé stessi, con le proprie speranze, i propri ricordi e le proprie dimenticanze. In quei momenti si assiste a una sorta di congedo dall’Io, si accede a una forma di esperienza che è l’esatto contrario del solipsismo. Sì, penso che si potrebbe partire proprio da qui per ripensare un’idea diversa del credere: forme di vita, pratica di sé, intimità. Queste sono le parole chiave di una nuova politica».
Più che Narciso poté la vergogna
Come cambierà il linguaggio dei seguaci di Freud
colloquio con Maria Teresa Hooke
di Stefania Rossini (L’espresso, 3, Gennaio 2011
Maria Teresa Hooke, già presidente della Società psicoanalitica australiana, è stata, con la cinese Yang Yunping, responsabile dell’organizzazione della conferenza "Freud e Asia", che si è svolta lo scorso autunno a Pechino, primo incontro ufficiale tra i maggiori esponenti della psicoanalisi internazionale e i terapeuti a orientamento psicoanalitico che si vanno moltiplicando in Cina e in tutto l’Oriente. A lei chiediamo i risultati di un incontro fino a ieri impensabile nell’ambiente tradizionalmente chiuso dei discendenti di Freud.
Qualcuno ha parlato di un congresso storico.
"Credo che sia la parola giusta. Ci siamo incontrati a compimento di un lavoro di contatti e di formazione fatto in Cina per anni da psicoanalisti tedeschi, norvegesi e americani. Erano presenti anche tutte le altre società asiatiche che si rifanno alla psicoanalisi. Ma la vera sorpresa non siamo stati noi per loro, bensì loro per noi. Molti dei delegati occidentali non si aspettavano di trovare gruppi organizzati e altamente sofisticati nelle conoscenze e nella pratica".
Resta però un interrogativo ineludibile. Come può la Cina, con la sua cultura millenaria e la sua storia presente, fare propria una disciplina con radici così profondamente europee?
"È il problema che ci siamo posti lungo tutti i lavori del congresso, con gli occidentali preoccupati che la psicoanalisi vada incontro a trasformazioni e i cinesi impensieriti di subire una colonizzazione culturale. Perché ciò non avvenga, è necessario uno scambio continuo di concetti, di esperienze, di miti e di parole che possono avere riferimenti diversi".
Per esempio?
"I cinesi sono molto interessati alle teorie sul trauma e sulla sua trasmissione attraverso le generazioni. Ma il trauma va declinato nel loro contesto, che è quello della rivoluzione culturale, con milioni di persone perseguitate e uccise".
Sono passati più di trent’anni...
"Il tempo non conta perché di quella tragedia in Cina non si può parlare e il trauma non può essere elaborato come è avvenuto in Germania, dove fa parte della storia. I pazienti che oggi si rivolgono alla psicoanalisi sono i discendenti degli uomini e delle donne uccisi nella rivoluzione culturale. Portano un dolore tremendo che è stato trasmesso nel silenzio e nel segreto storico e familiare".
C’è senso di colpa per quanto è avvenuto?
"La cultura asiatica conosce la vergogna, più che la colpa. A un altro livello, lo si vede anche quando mostriamo, attraverso filmati, il trauma dei bambini staccati precocemente dai genitori. C’è una forte reazione di vergogna perché in Cina è diffusa l’abitudine di lasciare i neonati ai nonni o, in passato, nei kindergarten di Stato".
Che ne sarà di concetti classici, come il complesso di Edipo, nel passaggio dalla famiglia occidentale a una società così collettiva?
"Siamo talmente all’inizio che è difficile dirlo. Ma credo che, con qualche inevitabile aggiustamento, i fondamenti della psicoanalisi rimarranno intatti perché sono universali. Come sono universali i problemi umani che riscontro nei pazienti cinesi, scontando il contesto diverso".
Un contesto che oggi è fatto anche di una corsa alla produzione e al consumo. È arrivata anche la cultura del narcisismo?
"C’è una forte spinta verso i problemi dell’individuo e questo spiega anche il forte interesse per la psicoanalisi. Ma la transizione dalla società collettiva è appena cominciata e la cultura del narcisismo, come la conosciamo in Occidente, non ha ancora fatto il suo debutto".
COSA PUBBLICA
di Mario Pezzella (il manifesto, 01.10.2010)
La rilettura della filosofia di Hannah Arendt da parte dello studioso Miguel Abensour * consente di mettere a fuoco una visione dell’agire politico che non ha lo scopo di edificare una «buona società», ma l’affermazione della libertà dei singoli
Ricostruendo il suo cammino intellettuale, nell’ultimo libro Pour une Philosophie politique critique, Abensour ricorda quanto decisivo sia stato il suo confronto con l’opera di Hannah Arendt: «Dovevo approfondire la questione così nuova della natalità, prendere le misure dell’antiplatonismo della Arendt e valutare ciò che significava il gesto, a prima vista sconcertante, che consisteva nell’andare a cercare la filosofia politica di Kant nella Critica del giudizio».
Abensour aveva negli Settanta approvato la rinascita della «filosofia politica», come antidoto a una concezione sociologica o economicista dell’azione storica; successivamente, egli non ha condiviso la sua trasformazione in disciplina accademica e il tentativo di giustificare la concezione liberale e parlamentare della democrazia come l’unica pensabile e possibile. Lo studio della Arendt gli permette di elaborare il suo pensiero, di giungere prima a una «critica della filosofia politica», e poi - in positivo - a una filosofia politica critica. La Arendt, così riletta da Abensour, appare come la pensatrice di una moltitudine insorgente e radicale, critica verso ogni forma di democrazia formale e spettacolare, pronta a opporre il suo momento istituente e creativo a quello inerte e costituito dello Stato.
Dentro la caverna di Platone
In questa prospettiva, il termine stesso di «filosofia politica» è paradossale, quasi un tentativo di unire due concetti di per sé contraddittori. Filosofia e politica non appartengono piuttosto a tradizioni differenti e alternative? Secondo la Arendt «la filosofia politica avrebbe innanzitutto il torto di essere il frutto dello spirito corporativo dei filosofi. Oggetto della ricerca non sarebbe più la questione della città, della città buona, ma il rapporto del filosofo alla città. Alla domanda sul regime politico migliore si sostituirebbe la ricerca del regime capace di proteggere il filosofo dalle passioni della moltitudine». La Arendt, come è noto, amava definirsi uno «scrittore politico», nella linea di Machiavelli, Montesquieu e Tocqueville: questi avrebbero esaltato l’elemento irriducibile della pluralità, del conflitto e della moltitudine nella storia, mentre i filosofi avrebbero piuttosto cercato di ricondurre i molti all’Uno, la contraddizione alla quiete, il molteplice a una codificazione istituita e immutabile.
Questa critica è ben visibile - secondo Abensour - nell’analisi dedicata dalla Arendt al mito della caverna di Platone, che è insieme una ripresa e una critica della lettura heideggeriana del noto testo della Repubblica. Gli uomini incatenati nella caverna danno un’immagine totalmente negativa della vita pubblica e della polis; ad essi il filosofo, illuminato dalla visione delle Idee, dovrebbe portare ordinamento e armonia. Ma il tentativo non finisce troppo bene, secondo la Arendt: perché in realtà i disgraziati e recalcitranti cittadini proprio non ne vogliono sapere di essere illuminati dall’alto di un’autorità estranea e non condivisa. Come già aveva scritto Heidegger, è perfino prevedibile una lotta mortale tra il «liberatore» e i prigionieri che non vogliono saperne di essere liberati.
Il potere della polis
L’immagine della caverna e dei prigionieri suppone dunque un’immagine negativa dell’agire politico, a cui il filosofo vuole opporsi ed imporsi, per affermare contro un simile caos l’unità e l’autorità regolatrice. Una visione dell’essere-in-comune totalmente negativa, un’ostilità alla polis, concepita come luogo di disordine e iniquità, inducono il filosofo ad imporre dall’esterno un argine al dilagare della corruzione e della morte; come se la città e l’agire dei cittadini fossero irrimediabilmente condannati all’ignoranza e all’impotenza. Questa visione negativa della politica spinge Platone a modificare addirittura la sua teoria delle idee nella Repubblica: più che oggetto di visione contemplativa, esse divengono istanze normative, in base a cui dev’essere ordinata la vita della città.
L’azione politica ha la potenza di inserire nell’essere la discontinuità salvatrice, il balenio di un possibile che prima non era, e che essa estrae alla luce del significato. L’essere-per-la nascita affiora soprattutto nel tempo sospeso di una cesura storica, nell’intervallo che segna la discontinuità tra un’epoca e l’altra, quando come diceva Walter Benjamin, la dialettica degli eventi resta «in bilico».
Nella breccia che si apre tra un ordine in declino e un possibile ignoto, che ancora non si è solidificato e alienato in un nuovo regime, si apre il tempo dell’azione politica vera, inaugurale e iniziale. L’azione politica introduce il nuovo e il possibile nella ripetizione sempre uguale del tempo e rompe la catena del destino e della necessità. Tra l’essere-per-la-nascita e l’essere-per-la-morte vi è dunque la stessa differenza che passa tra le modalità del possibile e del necessario: «Una denota l’ingresso nella possibilità, l’altra ne segna l’estinzione». La nascita è per la Arendt potenza originante, da cui scaturisce l’azione politica come affermazione di un inizio.
Ma come è possibile che l’azione inaugurale, la vitalità della cesura, il potere istituente dei cittadini, si diano durata e resistano alla tentazione di creare un ordine altrettanto stabile e alienato del precedente?
La Arendt trova sostegno in un pensatore, che pur non avendo mai scritto una vera e propria «filosofia politica», ha concepito una innovativa teoria del «senso comune»: si tratta di Kant e della sua opera in apparenza più lontana dalla politica, La critica del giudizio. Il senso comune è pensato come «una condizione di possibilità» della comunicabilità universale, e rivela la volontà degli uomini di creare un mondo in cui ogni singolarità venga riconosciuta nella sua differenza specifica; essi realizzano così il desiderio di persuadersi l’uno con l’altro e l’aspirazione a giudizi universali e condivisi. La Arendt estende il significato del giudizio di gusto kantiano all’ambito del giudizio politico: «Ogni giudizio, ma anche ogni azione, dovrebbe rispondere a questa esigenza originaria di comunicazione universale, dandosi come obiettivo di far passare nell’effettività, sotto forma di legge tale idea di umanità, rinviando a un contratto originario. La comunicazione non è un dato dell’esperienza. Ogni giudizio di gusto è attraversato, lavorato da questo contratto originario e dall’esigenza di comunicabilità universale che esso comporta».
I diritti contro la legge
Interpretando in tal modo la Arendt, Abensour si ricollega alle origini del giacobinismo rivoluzionario francese (a Saint-Just è dedicato un suo saggio politico importante, che introduce le opere complete). Saint-Just considerava l’istituzione repubblicana come il braciere destinato a conservare il fervore costituente della rivoluzione, evitando che esso si spenga nella morta cenere della legge, nella sua tendenza a trasfigurare l’attività legiferante in potere costituito e immutabile: «L’istituzione, più matrice che cornice, contiene in sé una dimensione immaginaria, di anticipazione, che possiede di per sé una potenza stimolante, tale da far nascere, da generare costumi o piuttosto attitudini e comportamenti, che vadano nel senso dell’emancipazione, da essa annunciata. In questo senso l’istituzione, "sistema di anticipazione" come dice Gilles Deleuze, si oppone alla legge, nella misura in cui essa contiene un appello - appello di una libertà ad altre libertà -, che la differenzia radicalmente dal vincolo caratteristico della legge».
Come evitare il passaggio dal gioco reciproco del senso comune, gestazione della volontà generale dei cittadini, a un nuovo regime statico-inerte, fondato sulla violenza e il terrore? Il senso comune è il principio a priori della decisione politica democratica, che si oppone al principio autoritario fondato sulla sottomissione e sulla asimmetria dei rapporti di padronanza. Per praticarlo occore tuttavia la desueta virtù del coraggio civico: se la vita sotto il dominio si limita «alla ripetizione della vita e al suo ciclo ripetitivo», l’azione politica espone nello spazio pubblico dell’apparire, in cui, coem sostiene Hannah Arendt, «ogni cosa ed ogni uomo si espongono alla vista altrui».
Tal eroismo non ha però nulla di sacrificale o di romantico, e in particolare di differenzia da quello evocato da Heidegger in Essere e tempo. Non è la risposta all’appello sovrumano del destino, ma il coraggio civico che si applica a criticare ogni regime che voglia porsi come fatalità inviata da un dio. Solo la mancanza di un dio e dei suoi «eletti» presunti può salvarci, nell’ambito politico. L’eroismo si condensa qui nella singolarità del dissenso di fronte a una legge, statuita deprivando e ingannando il «senso comune» dei cittadini, eludendo l’arena della persuasione e della comunicazione. Contro le decisioni occulte delle elites combatte la «democrazia insorgente», come la chiama Abensour, che riattiva incessantemente il conflitto dei diritti contro le leggi, il disaccordo tra la realizzazione del principio di eguaglianza e la sua restrizione a una parte sola dei cittadini. Le istituzioni che possono dar forma a tale insorgenza, sono quelle consiliari e comunaliste, che la Arendt ha descritto - nella loro possibile efficacia pragmatica oltre che nel loro orientamento utopico - nel libro Sulla Rivoluzione.
La natura del conflitto
Alla filosofia politica fondata su principi primi e sul dominio dell’Uno, la Arendt oppone il pensiero ampliato di Kant, più un processo e un metodo che una determinazione di contenuti: esso esprime il continuo tentativo di accordare i nostri giudizi a quelli degli altri, senza poter sapere se avremo successo e quale risultato finale emergerà dal confronto. Il pensiero ampliato si costituisce come intelletto collettivo, intessuto dai cittadini, nel movimento continuo della comunicazione e della persuasione, nel dissenso contro le leggi che tendono a bloccare tale attività, nell’apertura ripetuta del tempo storico, che non si appaga di alcuna soluzione definitiva.
Il senso comune non mira a una «società buona» che concluda armonicamente (e tirannicamente) la storia, ma ad una accettazione del conflitto e della disunione e al loro riassorbimento in «giudizi politici» condivisi e contingenti.
Paradossalmente, solo l’accettazione e il dispiegamento del conflitto può affermare il bene «comune» ed evitare che esso, divenendo di fatto particolare, ed espressione di una parte sola, degeneri in una guerra distruttiva e autodistruttiva.
L’azione politica resta esposta a una contingenza radicale, pur guidata da una potenza trascendentale e utopica: «L’idea del senso comune o il senso comune come idea, richiama precisamente a qualcosa che non è dell’ordine dell’esperienza, pur abitandola come il trascendentale, in cui soltanto l’esperienza e il pensiero che la costituisce possono trovare il loro luogo fondativo (...) Il trascendentale è presente in seno all’empirico come rappresentazione di un altrove, senza il cui riferimento l’empirico non reggerebbe, l’esperienza perderebbe il suo principio di orientamento». Se non è possibile dedurre il contenuto della decisione da un principio generale e astratto, è però opportuno lasciarsi guidare da una unità di misura (la relazione simmetrica tra uguali) e dal «pensiero ampliato», che esalta il confronto delle opinioni e critica ogni forma di asservimento.
• MIGUEL ABENSOUR
Dal «comunista» Blanqui alla critica dello Stato
Miguel Abensour è un filosofo della politica atipico per la Francia. Atipico perché ha intrapreso un percorso di ricerca che si discosta da quelli seguiti da Jacques Ranciere, Alain Badiou, Etienne Balibar, solo per citare gli studiosi che più di altri hanno cercato di sviluppare una critica radicale della democrazia liberale. Se per Ranciere o Balibar o Badiou la democrazia è caratterizzata dalla presa di parola dei senza potere o come contesto per un superamento del capitalismo, per Abensour è una forma politica che garantisce la libertà dei singoli perché non prevede istituzioni centrali (lo Stato) preposte alla decisione politica. Studioso del giacobinismo, in particolare di Saint-Just, e dell’utopia socialista a partire dal «comunista» Blanqui e William Morris, si è interessato della filosofia di Emmanuel Levinas e di Martin Buber. Oltre a questo saggio su Hannah Arendt («Hannah Arendt contro la filosofia politica?», Jaca Book, pp. 179, euro 24) in Italia è stato pubblicato «La democrazia contro lo Stato» (Cronopio, pp. 207, euro 18.50).
La terza crisi dell’Europa rimasta senza futuro
di Alain Touraine (la Repubblica, 29.09. 2010)
Viviamo tre crisi. Questa formula sembra una costruzione artificiale, ma non lo è. Dopo la crisi finanziaria è esplosa una crisi monetaria ed economica, che si è rivelata una crisi politica. Ma i nostri Paesi europei si mostrano incapaci di pensare e di organizzare il proprio futuro - e qui sta la terza crisi. La prima, la più visibile, è stata la crisi finanziaria (preparata da una serie di crisi regionali e settoriali, e dall’esplosione della bolla di Internet): quella dei subprimes.
La crisi del credito ipotecario, culminata nel 2008 col tracollo della banca Lehman Brothers a New York, ha colpito più duramente gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ma anche l’Europa continentale. Per converso, le altre parti del mondo hanno ripreso quota in brevissimo tempo, riuscendo persino a conseguire alti livelli di crescita.
C’era chi credeva la crisi ormai superata e la ripresa assicurata quando, all’inizio del 2010, è esplosa una crisi economica e di bilancio, soprattutto europea. È incominciata con un boato: la Grecia era sull’orlo del fallimento. Si è dovuto ricorrere alla mobilitazione dei grandi Paesi europei e dell’Fmi, per scongiurare una catastrofe che rischiava di estendersi ad altri Paesi.
Abbiamo così scoperto la gravità delle nostre malattie: i giganteschi deficit di bilancio, il rapido aumento del debito pubblico, e quasi ovunque l’incapacità di ridurre gli alti livelli della disoccupazione. Questa crisi è innanzitutto politica, dato che pone in luce l’impotenza dei Paesi europei, incapaci di gestire le loro economie, ridurre la spesa pubblica, migliorare il gettito fiscale, e soprattutto di far ripartire la crescita, senza la quale nessun risanamento dei bilanci è possibile. Se la Gran Bretagna, il cui sistema bancario è stato praticamente nazionalizzato dopo il 2008, ha saputo lanciare un rigoroso programma di austerità, non si può dire altrettanto della Francia e dell’Italia - per non parlare della Spagna, schiacciata da una disoccupazione del 20%.
Italia e Francia non hanno commesso errori giganteschi in politica economica; le cause della loro incapacità di ripresa sono essenzialmente politiche. I governi si sono dimostrati impotenti; hanno mancato di elaborare un’analisi solida con progetti precisi. I due presidenti, Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy, sono attaccati sul piano personale più che per la loro gestione economica. Ma sia in Italia che in Francia, i partiti d’opposizione si sono rivelati non meno deboli dei governi. E la debolezza delle sinistre politiche ha aiutato i governi di destra ad accollare ai lavoratori dipendenti il peso delle misure da adottare.
La terza crisi dell’Occidente è l’assenza di un progetto di civiltà. Per secoli l’Occidente europeo ha concentrato tutte le sue risorse nelle mani di un’élite dirigente: quella delle monarchie assolute, e quindi del grande capitalismo. E ha potuto così, nell’arco di pochi secoli, conquistare gran parte del mondo. Questo modello vincente si reggeva però su due situazioni pericolose. In primo luogo, su una società che nel suo insieme era brutalmente assoggettata al potere dei dirigenti. Dai sudditi del re agli operai delle industrie, dai colonizzati alle donne e ai bambini, tutte le categorie della popolazione hanno subìto forme di dominio estreme. Altra sua debolezza: è servito alla formazione degli Stati nazionali per secoli in guerra tra loro, finché nel 900 l’Europa si è autodistrutta con le due guerre mondiali e l’ondata dei regimi totalitari.
Le lotte tra gli Stati nazionali europei sono cessate solo con l’egemonia americana e la creazione di un’Unione europea che si reggeva sull’indebolimento degli Stati. Il sistema sociale europeo si è indebolito più lentamente. I popoli avevano rovesciato i re, i lavoratori avevano conquistato diritti sociali, le colonie si erano liberate, le donne avevano ottenuto alcuni diritti, pur senza riuscire a porre fine alle disuguaglianze a loro danno. Ma ora l’Europa si ritrova senza un modello di sviluppo, senza un progetto per il suo futuro.
Eppure non sarebbe impossibile. Conosciamo fin d’ora le grandi priorità del secolo a venire: gli ecologisti ci hanno convinto della necessità di far convergere i diritti dell’economia con quelli della natura; alcuni movimenti culturali ci hanno insegnato che occorre non solo portare al governo la maggioranza, ma anche rispettare i diritti delle minoranze. Le donne, su un piano più privato che pubblico, hanno iniziato a costruire una società il cui principale obiettivo è riconciliare gli estremi opposti, dando la priorità all’integrazione interna e non alla conquista esterna. Ma questi grandi progetti hanno più forza presso l’opinione pubblica che in seno ai governi. Siamo troppo consapevoli delle disastrose conseguenze delle idee spengleriane sul declino dell’Occidente, che a suo tempo alimentarono la politica nazista, per riesumare quell’espressione; ma in un mondo in crescita, con nuove grandi potenze in via di formazione, la stagnazione, se non il regresso dell’Europa rappresenta un dato di fatto.
L’Unione europea ha affrontato il compito necessario di integrare un continente che la volontà di Stalin aveva spaccato in due; ma non ha saputo offrire agli europei un progetto per il futuro, e neppure nuove idee e nuove urgenze, un nuovo posto nel mondo. Eppure, in Europa come negli Stati Uniti, la vita esiste ancora, non già al disopra, ma sotto il livello dei governi; ed è sul web che si sono formati i grandi movimenti più entusiasti, quali Move on negli Stati Uniti o i Viola in Italia.
Ma se è possibile inventare un futuro, oggi non abbiamo più gli strumenti politici, e ancor meno intellettuali, che servirebbero per superare le crisi. Nel mondo economico c’è un unico settore che è riuscito a riprendersi rapidamente e con forza: quello del capitale finanziario. Al tempo stesso però, le disuguaglianze sociali sono nuovamente in aumento; l’economia produttiva è trascinata fuori dall’Europa; il dibattito politico non ha ripreso vita in nessuno dei Paesi europei.
Non possiamo più addebitare alla crisi la nostra impotenza politica e persino intellettuale, che di fatto ne costituisce la principale causa. Questa constatazione ci indica chiaramente le nostre priorità: non usciremo dalla crisi economica se prima non saremo usciti dalla crisi politica e da quella culturale. Da qui l’urgenza di un riassestamento politico, e più ancora di una rinascita intellettuale e culturale. Il Belgio e l’Olanda sono devastati dal populismo sciovinista e dalla xenofobia. In Italia e in Francia la vita politica è allo sfascio, e va completamente ricostruita.
Dato il ruolo dominante degli Stati Uniti, abbiamo tutti bisogno di una vittoria di Obama su un partito repubblicano trainato dalla sua area più reazionaria e ottusa. Sono stati i migliori economisti ad insegnarci l’importanza prioritaria delle soluzioni sociali e politiche per superare le crisi economiche; ma sembra che i politici siano ben lontani dall’ascoltarli. Non possiamo più avanzare a piccoli passi, anche perché non sappiamo neppure se stiamo avanzando o indietreggiando. Abbiamo urgente bisogno di immaginare, di pensare, di costruire il nostro avvenire, al di là delle nebbie e dei silenzi che ci impediscono di scoprire gli strumenti politici indispensabili alla sua costruzione.
Traduzione di Elisabetta Horvat
Un saggio ricostruisce il ruolo del gerarca nazista nel cammino che portò alla «soluzione finale»: puntava al genocidio già dai primi anni Trenta
Heydrich, l’architetto della Shoah
di ANTONIO AIRÒ (Avvenire, 18.09.2010)
Il 20 gennaio 1942, a Wannsee, una conferenza ad alto livello dei maggiori esponenti del nazismo pianificava la ’soluzione finale’ mettendo in cantiere la deportazione (e la sicura morte della gran parte di essi) degli undici milioni di ebrei, uomini, donne, bambini, giovani e anziani, residente in Europa. La decisione del maggior genocidio della nostra storia era stata anticipata in un discorso di Hitler nel novembre precedente (senza alcun atto ufficiale successivo) e confermata sostanzialmente dopo la scelta di dichiarare la guerra agli Stati Uniti. «Il conflitto mondiale incombe su di noi: l’annientamento degli ebrei è la conseguenza necessaria».
Ma la conferenza (il cui verbale sarebbe stato rielaborato da Adolf Eichmann) sanciva il ruolo e l’autorità di Reinhard Heydrich, personaggio ai vertici delle SS, interprete fedelissimo delle intenzioni del Führer, dietro Himmler «intellettuale antisemita e razzista fanatico ». Personaggio quasi sconosciuto al mondo degli storici, Heydrich, come risulta dal documentato saggio di Édouard Husson, docente di Storia contemporanea alla Sorbona, è invece l’’architetto’ che darà sostanza ad un progetto inumano che nasceva da lontano e che la guerra avrebbe portato a compimento con la vittoria del Reich, ponendo fine con la conquista della Russia «al complotto ebraico mondiale ».
Nelle pagine del libro - con un ampio ricorso alle fonti, molte inedite e la cui interpretazione non sempre è di agevole lettura - emerge come la soluzione finale della questione ebraica sia per Heydrich quasi un’ossessione che affondava le sue radici nelle ripetute affermazioni di Hitler fin dal 1919 e che egli, con uno zelo e un’obbedienza assoluta che coinvolgeva tutti i settori del partito e del regime (militari compresi), portava avanti. Un genocidio che negli anni Trenta sarebbe stato avviato con il ricorso all’eutanasia con la quale si eliminavano i soggetti più deboli della società tedesca, ebrei in testa. «Le uniche autorità che si mobilitarono contro i metodi genocidi dei nazisti furono le Chiese», osserva Husson. All’inizio della guerra lo zelo di Heydrich arrivò a proporre l’arresto di tutta una serie di personalità cattoliche e il loro invio nei campi di concentramento. Il suggerimento rientrò perché Hitler aveva deciso di rinviare la questione a dopo la vittoria germanica nel conflitto e «il cristianesimo fosse sradicato» nel popolo tedesco.
La soluzione finale si sarebbe riproposta con l’occupazione della Polonia. Questa sarebbe divenuta un laboratorio con l’inclusione degli ebrei nelle diverse fasi di eliminazione fisica della classe dirigente di quel Paese e la deportazione generalizzata nei ghetti realizzati nelle città. L’occupazione della Francia - e l’armistizio con Parigi - faceva emergere il progetto di deportare la gran parte degli ebrei nel Madagascar.
Il 3 luglio 1940 Hitler faceva intendere in un discorso che se la Gran Bretagna avesse cooperato a questo piano «non avrebbe più avuto la preoccupazione di uno Stato ebraico in Palestina». Hitler continuò a pensare alla lontanissima colonia francese come sede obbligata degli ebrei sopravvissuti per per lunghi mesi.
Ma la resistenza degli inglesi faceva saltare questa ipotesi e Heydrich riponeva in primo piano un ’genocidio lento’ con il trasferimento degli ebrei nei Paesi dell’Est europeo. La conquista della Russia, accompagnata dalla ’liquidazione’ di ebrei, zingari, funzionari politici di quella nazione - conseguenza di una rapida vittoria delle truppe tedesche - avrebbe risolta la questione ebraica. Intanto un decreto del settembre 1941 imponeva agli ebrei l’identificazione con la stella gialla, secondo le indicazioni di Heydrich. E decine di convogli di deportati partivano verso l’Unione Sovietica.
La rapida vittoria del Reich non si verificava. L’entrata in guerra degli Stati Uniti allargava il conflitto. La conferenza del 20 gennaio poneva quindi le basi per la soluzione finale con la deportazione generalizzata degli ebrei europei. Quelli residenti nell’Unione Sovietica sarebbero stati lasciati morire nei campi di lavoro forzato. Nel maggio 1942 Heydrich sarebbe stato ucciso dai partigiani a Praga. Il genocidio degli ebrei non si sarebbe però fermato: sei milioni di morti il bilancio.
Édouard Husson
HEYDRICH E LA SOLUZIONE FINALE
La decisione del genocidio
Einaudi. Pagine 406. Euro 32 ,00
Niente sofismi, sui Rom è razzismo
di Furio Colombo (il Fatto, 19.09.2010)
Che storia è? Che cosa è accaduto? Guerra della Repubblica francese contro gli zingari? Tutto è possibile, sappiamo che conta la paura, pesa il pregiudizio e che la politica è fatta anche di quel brutto ingrediente che è il populismo, ovvero la voglia di piacere alle maggioranze facendo qualcosa di cattivo e di ingiusto ai danni delle minoranze. Ma due cose non tornano in questa vicenda. La prima è che la presenza nomade degli zingari, gitani, rom dura da secoli in Europa, come testimoniano storiografia, letteratura, poesia, musica, folklore, proverbi e costumi.
Ci sono sempre momenti in cui qualcuno crede di scoprire ciò che c’è sempre stato e pensa di denunciarlo come intollerabile. La seconda è che i rom gitani o zingari dispersi per l’Europa sono pochissimi. Poche decine di migliaia di persone in comunità (campi) che spesso non arrivano a cento persone.
Come è possibile che un fatto così antico e così piccolo colpisca prima l’attenzione, poi l’ira, infine produca l’editto di cacciata dal Paese del presidente di una grande Repubblica? La cosa è ancora più difficile da capire perché il Paese è la Francia e il presidente è Sarkozy. Era sempre sembrato in grado di tenere in equilibrio il suo temperamento nervoso di uomo iperattivo con le esigenze di personaggio al sommo delle istituzioni francesi. Certo, alcuni aspetti del suo passato politico non sono un buon preannuncio, come le violenze di tipo leghista scatenate anni fa dalla sua polizia nelle banlieu parigine, contro giovani figli di immigrati, cittadini francesi. Ma, da presidente del Paese che si identifica con il valore della libertà e dei diritti civili, Sarkozy aveva dimostrato di saper tenere a distanza le squilibrate spinte a certi tipi di azione e persecuzione della destra di Le Pen e dei suoi eredi. Zingari, sfogo ideale
QUALCOSA è scattato, vuoi nella vita pubblica (sondaggi, popolarità in declino) vuoi nella vita privata di Sarkozy (di questo non sappiamo nulla e non ospiteremo cattiverie suggerite da francesi malevoli) per rompere in modo così clamoroso l’equilibrio della più alta istituzione francese, dunque del suo governo, dunque dei suoi ministri e della sua polizia. Un percorso utile per capire ciò che sta accadendo è la vicenda giudiziaria che da qualche tempo insegue Sarkozy (fondi illegali versati alla sua campagna elettorale). I giudici francesi non mollano. Molte cose sono possibili quando si confrontano il senso di impotenza di qualcuno molto potente con una comunità di persone (i rom) senza potere e senza rappresentanza e del tutto privi di difesa.
Per lo sfogo d’ira di Sarkozy, per lo stato di non equilibrio in cui, per qualche ragione, il presidente francese è caduto, gli zingari sono l’ideale. Primo, distruggere i campi, che non sono certo di cemento armato. Secondo, forzarli a “tornare a casa”, come se dei nomadi avessero una casa. Terzo, trasportarli verso Paesi dell’Est, certe volte individuati a caso,badandobeneafingerechesi tratti di “rimpatrio” (raramente i rom fanno conferenze stampa per smentire); badando a far notare la elargizione di una buonuscita di 300 euro per famiglia, alla presenza delle telecamere, in modo che i detrattori del presidente siano serviti. Si tratta di partenze “assistite” e “spontanee”. In tal modo siamo costretti a vedere di che cosa è capace il presidente Sarkozy quando gli va la mosca al naso. Ecco uno che non scherza. Un vero uomo, direbbe se potesse dire tutto, Sarkozy, di se stesso.
Amici in Italia, estranei in Europa
MA SIAMO solo a metà della storia. Segue prima l’imbarazzo, poi la condanna europea. E quando la Commissione Europea, con il presidente Barroso gli resiste, i presenti al summit di Bruxelles parlano di uno scontro con scambio di urla. Una vera scenata del sempre meno equilibrato Sarkozy contro quel punto debole - però simbolico - che è la Commissione Europea. Forse la situazione di squilibrio e quel volare di insulti hanno attratto l’attenzione di Berlusconi, che si unisce subito, nel senso che anche lui (unico in Europa) proclama non solo che l’iniziativa di Sarkozy è sacrosanta, ma che lo farà anche in Italia: persecuzione degli zingari, che non hanno alcun governo per proteggerli e alcuna forza politica. Del resto quella persecuzione è già in atto a pieno regime a Roma e a Milano, oltre che in tutti “territori” della Lega.
Dunque Berlusconi si pronuncia ma gli accade il solito incidente che lo tormenta fuori dall’Italia. Non solo la stampa francese (o quella europea) non fanno cenno della Santa Alleanza: tutta la Francia e tutta l’Italia contro i rom. Ma si dà un caso curioso. Sarkozy, che nella disciplinata stampa italiana ringrazia ripetutamente Berlusconi (testualmente: “E’ così che si vedono i veri amici”) nella irata conferenza stampa a Bruxelles non lo nomina mai. Questa battaglia è sua e se la gestisce lui. Qui però finiscono la parte mondana e quella giornalistica della insolita e stupefacente vicenda. E comincia la verifica, non secondo principi umani e morali, che non sarebbe male includere in questa storia. Ma comincia la riflessione del buon senso.
Cittadini da secoli
BASTA riprendere la storia dall’inizio. Abbiamo detto che la Francia (e poi la Francia e l’Italia, 150 milioni di persone in due dei paesi più ricchi del mondo) si schierano contro i rom. Deve trattarsi di un rischioso progetto: liberare i rispettivi paesi dalla invasione degli zingari. Ci sarebbe un primo ostacolo: gli zingari sono cittadini europei. Qui dovrebbe soffermarsi il diritto. Il buon senso si ferma molto prima. Il buon senso avverte che i rom - sommando i due paesi - non sono neppure 400 mila, dispersi in campi di poche centinaia, a volte decine di persone. Metà sono donne, metà sono bambini. C’è un altro dettaglio che attrae l’attenzione del buon senso e avverte che qualcosa non va nell’equilibrio di questi due stati: una buona metà dei perseguitati sono cittadini francesi o cittadini italiani da secoli.
Qui, nella guerra ai rom, mancano le ragioni (vere e false) con cui gli untori scatenano la guerra contro l’immigrazione. Ti dicono che sono tanti, che sono troppi che prenderanno il sopravvento e imporrano il giogo islamico. I rom sono pochi, sono cristiani, sono in giro da secoli, sono cittadini europei e, spesso, sono cittadini dei paesi in cui ormai vivono con cui condividono scuola e lingua. Purtroppo tutto ciò ci porta verso un’unica, triste, squallida spiegazione: questo è razzismo nella sua forma più rozza e più pura. È tutto qui. Ma è come diagnosticare, nel cuore dell’Europa, il peggiore dei mali.
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 16.09.2010)
Uno spettro si aggira per l’Europa: un altro. Non quello rosso del comunismo che nel 1848 allarmò la Santa Alleanza. Oggi lo spettro veste gli stracci colorati e si muove sui carrozzoni di un popolo di nomadi. È questo lo spettro che ha spinto Sarkozy a rispondere sgarbatamente alla commissaria europea Viviane Reding e che gli ha guadagnato l’immediato appoggio di Berlusconi.
Oggi nasce in Europa una nuova internazionale: quella della paura. Ne tengano conto gli storici del futuro. Abbiamo avuto finora diverse Europe, quella cristiana, quella degli umanisti, quella illuministica. È stato battuto il tentativo di dar vita a un’Europa nazifascista nel segno della romanità antica e della svastica che nel 1934 portò a Roma per annunciarne la creazione l’ideologo del razzismo nazista Alfred Rosenberg. Ci fu, invece di quella, l’Europa rinata dalle rovine grazie all’intelligenza e al coraggio di uomini come Federico Chabod che concluse le sue lucidissime lezioni sulla storia dell’idea d’Europa lasciando Milano per unirsi alla Resistenza in Val d’Aosta.
Ma quella che oggi ha preso forma nelle dichiarazioni di Sarkozy e per la quale il nostro presidente del Consiglio si è affrettato a dichiarare che esiste «una convergenza italo-francese» è un’Europa dominata dalla paura, dalla volontà di chiudere le porte agli immigrati e di cacciare via i rom.
Notiamo di passaggio la differenza di stile tra le due dichiarazioni, quella di Sarkozy e quella di Berlusconi. Quella di Sarkozy è una rispostaccia pubblica, da litigio di condominio: quella di Berlusconi è un avvertimento di metodo: di queste cose si deve parlare privatamente. Ma ambedue partono da un unico presupposto: quello che i rom siano spazzatura. Anzi, qualcosa di meno. Sul mercato internazionale della spazzatura il prezzo dei rimpatri francesi dei rom - 300 euro un adulto, 100 un bambino - è decisamente a buon prezzo se confrontato con quello dei residui speciali che attraversano l’Europa su carri blindati per andare a nascondersi in qualche miniera abbandonata o a farsi bruciare negli impianti tedeschi.
Accomuna le due dichiarazioni lo stesso disprezzo per gli esseri umani in gioco. Ci si chiede se siamo giunti davvero al punto di dover riconoscere che l’Europa ha dimenticato l’epoca in cui i trasferimenti forzati di popolazione e l’eliminazione fisica degli indesiderati presero avvio proprio dai rom. Sbaglieremmo a trascurare le ragioni di questa rapida convergenza dei due presidenti nella costruzione di un’Europa della paura.
Il ministro Maroni ci aveva già informato all’inizio dell’estate che stava preparando la sua campagna d’autunno col rilancio del tema degli immigrati. E non è certo da oggi che la politica della paura costituisce la risorsa alla quale si appella una dirigenza politica senza idee e senza risultati da presentare al paese. È una ricetta a suo modo infallibile. Ma la censura della commissaria europea Viviane Reding ha fatto suonare l’allarme in casa leghista e ha spinto Berlusconi a coprirsi dietro le spalle di Sarkozy per la semplice ragione che la Francia è sempre la Francia.
Sarà bene che l’opinione pubblica democratica si svegli: non si dimentichi che si sta discutendo della sorte di esseri umani mercificati e venduti a un tanto il chilo. Che cosa contino sul mercato di una coalizione che si presenta a mani vuote davanti al paese in cerca di rilanci elettorali lo abbiamo capito dal commento del governo all’episodio della sparatoria partita da navi vedetta italiane in mani libiche: pensavano forse che si trattasse di immigrati clandestini? Perché evidentemente in questo caso si sarebbe trattato di una causa giusta. Che i libici, con l’aiuto e l’avallo dell’Italia, sparino sui pescherecci dei disperati o li chiudano nei campi di concentramento viene considerato un successo politico del nostro paese.
Comunque il risultato è quello di una brusca svolta storica: nell’idea d’Europa, nella immagine della Francia paese della libertà e rifugio per chi non trova libertà in casa sua; anche nella realtà storica di un’Italia che, pur nella fragilità delle sue istituzioni statali, aveva trovato nel solidarismo cristiano e in quello socialista le risorse ideali e pratiche per assicurare assistenza e conforto ai diseredati.
Rom, questione comune
di Etienne Balibar (il manifesto, 18.09.2010)
Dal punto di vista dei rom, il processo di unificazione europea ha di sicuro aperto delle possibilità di comunicazione nella comunità finora inesistenti e ha dato la possibilità di reclamare i propri diritti in modo più efficace e legittimo. Ma non ha modificato la configurazione di base della persecuzione, o addirittura può aver dato ad essa una nuova dimensione. Si tratta di una storia affascinante: quello che era ampiamente invisibile è diventato visibile e un’intera parte della storia d’Europa diventa comprensibile.
Ed è una questione vitale per il futuro dell’Europa: essa non può essere costruita sull’esclusione, non è un Impero. Ufficialmente, presenta se stessa come uno spazio per la realizzazione dei diritti democratici e del benessere comune delle sue popolazioni. In pratica, conquisterà legittimità nelle menti e nei cuori dei cittadini (una cosa più difficile di quanto immaginato all’inizio) soltanto se comporterà un avanzamento verso istituzioni più democratiche e una cultura di maggiore - e non di minore - solidarietà.
Sotto questo punto di vista, la persecuzione dei rom in Europa, trasmettendosi da un Paese all’altro in un processo di emulazione negativa come nel passato, non è un problema che riguarda ogni paese separatamente, ma è un problema "comune", un problema "comunitario".
Affrontandolo in questo modo - e lavorando contro le proprie inclinazioni - gli europei eliminerebbero non solo una fonte di conflitti interni e di violenza che può diventare insopportabile, ma costruirebbero una comune cittadinanza. Inoltre reclamando i loro diritti, elevando il discorso dal livello culturale a quello civile, trovando gli interlocutori istituzionali e gli alleati di cui hanno bisogno tra la popolazione, i rom di tutta Europa conquisterebbero un’integrazione che ci riguarda tutti, collettivamente. Non essendo un esperto di storia e sociologia rom, ma in quanto cittadino europeo e filosofo che ha lavorato su altri aspetti dell’esclusione e sul loro impatto sullo sviluppo della democrazia, vorrei affrontare le tre principali questioni in discussione.
La prima riguarda l’esclusione e la cittadinanza e la loro trasformazione a livello paneuropeo. I rom sono privi di alcuni diritti di base in molti paesi europei e nello spazio europeo, malgrado il fatto che siano cittadini europei, essendo di pieno diritto cittadini degli stati membri. Questi diritti di base includono il diritto di circolazione, di residenza, di lavoro, il diritto alla scuola, alla salute e alla cultura. I rom sono costretti a risiedere in determinate aree, dalle quali del resto possono anche venire arbitrariamente espulsi. Sono definiti o come "nomadi" o come cittadini che provengono da determinati paesi. Sono a priori considerati come delinquenti o come una popolazione pericolosa. Non vengono mai ammessi o sono ampiamente sottorappresentati nella maggior parte delle professioni, sia manuali che intellettuali (con tassi di disoccupazione che toccano i massimi). È inutile dire che questo riguarda anche gli impieghi pubblici. Questo fenomeno è illegale o legale, con la scusa di norme e di accordi interstatali che riguardano l’igiene, la previdenza sociale, le politiche per l’occupazione e le norme culturali. Hanno luogo su uno sfondo di una persistente estrema violenza "popolare", che è alimentata anche da gruppi neofascisti e da bande criminali, solo verbalmente condannati da molti stati membri dell’Unione europea. Solo i più vergognosi pogrom diventano una notizia per la stampa nazionale o internazionale.
La costruzione dell’Ue ha avuto degli effetti estremamente contraddittori. Ha prodotto una categorizzazione dei rom a livello europeo, dal momento che per la Ue sono stati considerati un "problema" nel loro stesso diritto a farne parte. Questo è uno scalino preliminare nella nuova razzializzazione dei rom. Li mette nella stessa categoria dei "migranti" di origine extracomunitaria, in un quadro generale che ho definito come l’emergente apartheid europeo, il lato oscuro dell’emergenza di una «cittadinanza europea». La differenza proviene dal fatto che i "migranti" (e i discendenti di migranti) sono visti come un altro esterno, mentre gli tzigani come un altro interno. Ciò d’altronde rafforza il vecchio stereotipo del nemico interno, che ha effetti sanguinosi.
Malgrado gli enormi cambiamenti storici e sociali - specialmente dopo la seconda guerra mondiale e la fine della guerra fredda - che hanno portato l’Europa molto lontana dal proprio passato, questo fenomeno è testimone di una traccia durevole delle persecuzioni nella storia europea. È inevitabile la comparazione con il caso, di cui si è parlato molto di più, della persecuzione di un "gruppo razziale" nella storia europea, cioè gli ebrei. I due "gruppi paria" sono stati il bersaglio congiunto del genocidio nazista (come altre popolazioni "devianti"). Rappresentano casi completamente diversi di traiettoria religiosa ed economica, ma - è importante sottolinearlo - entrambi hanno svolto un ruolo centrale nello stabilire delle connessioni tra diverse culture europee (specie nel campo artistico, nel caso degli tzigani) incarnando l’elemento "cosmopolita" senza il quale le culture "nazionali" restano isolate e sterili.
Questo mi porta a prendere in considerazione una seconda questione, che riguarda più specificamente le tendenze di razzializzazione in Europa. Alcuni anni fa mi ero chiesto se bisognasse ammettere che esiste un razzismo o neo-razzismo "europeo" che avrebbe avuto, rispetto alla costruzione "sopra-nazionale", la stessa relazione di complementarità ed eccesso che il razzismo tradizionale (antisemitismo, razzismo coloniale, ecc) aveva con lo stato-nazione e le classiche costruzioni imperialiste. Bisogna essere molto prudenti a proporre questo tipo di ipotesi. Nondimeno, ci sono dei fenomeni inquietanti che possono dare credito a questa ipotesi, ponendo i rom nella scomoda posizione di caso test. In conclusione, possiamo dire che l’unificazione dell’Europa ha reso la razzializzazione del "problema tsigano" più visibile, perché mostra l’evidente contraddizione con la tendenza generale e ufficiale verso il superamento dei pregiudizi etnici e nazionali sulla quale è costruita la "nuova Europa". Da questo punto di vista, ci sono almeno tre fenomeni che mi paiono rilevanti:
1. La tendenza delle nazioni europee a proiettare sui rom i pregiudizi verso altre nazioni. Per esempio, la stampa francese è più attenta a riferire dei pogrom che hanno luogo in Italia o in Ungheria, o delle discriminazoni in Romania, ma resta quasi silenziosa sul modo in cui i comuni in Francia respingono i "nomadi" dal loro territorio, o sul modo in cui la polizia di frontiera francese espelle cittadini rumeni e bulgari per alimentare le statistiche ufficiali, pur sapendo benissimo che, in quanto cittadini europei, essi torneranno al più presto.
2. Arriviamo al fenomeno della costruzione del capro espiatorio e, più precisamente, al modo in cui le "nazioni" europee si considerano ufficialmente l’un l’altra come membri di una stessa comunità. Dopo aver superato le antiche ostilità, esse restano nei fatti piene di mutuo risentimento e sospetto reciproco - cosa che, fino ad un certo punto, dipende dal fatto che la costruzione europea è rimasta in mezzo al guado. Questo risentimento e sospetto reciproco tende a venire proiettato verso gruppi "devianti". I rom sono come una nazione in eccesso in Europa, che si distingue per l’odio che suscita non solo perché travalica i confini ma anche perché incarna l’archetipo delle popolazioni senza stato, che fanno resistenza alle norme di territorializzazione e di normalizzazione culturale (per ironia della sorte, sotto molti aspetti, questa singolarità è essa stessa frutto delle persecuzioni).
3. Questo problema, come sappiamo, diventa eccezionalmente acuto quando vengono prese in considerazione le relazioni tra Europa occidentale ed Europa dell’est. Il fatto che i regimi di tipo sovietico in Europa dell’est durante la guerra fredda, in paesi che hanno anche un’importante popolazione rom, avessero combinato una politica coercitiva e normativa con programmi di integrazione economica, ha comportato la definizione di "protégés del socialismo" in paesi dove (per quanto tempo ancora?) la maggioranza della popolazione vede l’ammissione alla Ue come la strada più rapida verso la liberalizzazione economica e sociale. Nell’altra metà del continente, i paesi occidentali e la loro opinione pubblica li percepiscono come la perfetta illustrazione della povertà e della deregulation con le quali l’Ue sfida i vecchi membri. In entrambi i casi, sono rigettati e visti più come "orientali" che come veramente europei.
Se la relegazione dei rom nella condizione di comunità senza stato prosegue (de facto più che de jure: vivono, certo, sotto la giurisdizione degli stati, ma sono visti sia come inadatti che ostili ad entrare nella costruzione di uno stato moderno), cosa che ci riporta all’origine della loro discriminazione, essa rivela al tempo stesso i limiti della costruzione della sfera pubblica in Europa. Essa può essere paragonata a uno statalismo senza stato.
Questa situazione poco chiara, combinata con altri fattori, tende ad esacerbare varie forme di razzismo popolare, in particolare sotto la forma dell’ossessione della sicurezza. Dall’altro lato, ha portato alla creazione di una piuttosto densa rete di istituzioni e organizzazioni che hanno a vedere con la "questione rom" a livello europeo. Alcune di queste organizzazioni ed iniziative governative possono favorire lo sviluppo di una coscienza autonoma e di una pratica civile nella comunità rom, mentre altre tendono a ridurli allo stato di un gruppo sotto controllo, protetto e piazzato sotto sorveglianza.
Questo dilemma, secondo me, porta a prendere in considerazione un altro problema cruciale, che riguarda le vie dell’emancipazione proposte alle popolazioni rom in Europa. Parlando da un punto di vista astratto, ci sono due strade, come in altri casi simili. Una può essere definita "maggioritaria" e comporta la richiesta della fine dell’ "eccezione", il riconoscimento dei diritti di base che, di principio, appartengono ad ogni cittadino. L’altra può essere definita "minoritaria" e si basa su un crescente senso di identità e di solidarietà tra le popolazioni rom, attraverso i confini nazionali, che porta verso una maggiore autonomia culturale e, di conseguenza, verso una maggiore visibilità come gruppo "quasi nazionale" che lotta contro l’esclusione all’interno di un’Europa multi-nazionale.
La prima strada dipende soprattutto dai passi avanti più generali sui diritti umani e da un ritorno a politiche sociali che riescano ad arginare la corrente neo-liberista, mentre la seconda dipende dalla capacità di utilizzare il discorso e le istituzioni dell’Unione europea affinché i rom arrivino a costruirsi una voce autonoma. Nessuna delle due strade è facile, né probabilmente sufficiente. Sarà responsabilità dei rom stessi articolare una combinazione efficace. Ma è anche nostra responsabilità - e nostro interesse - in quanto democratici europei, aiutarli in questo processo, lottando contro il risorgere del razzismo in mezzo a noi, inventando un’Unione migliore.
* Questo testo è una rielaborazione, per gentile concessione di Etienne Balibar, dell’introduzione al volume «Romani Politics in Contemporary Europe» (Palgrave ed. dicembre 2009), una raccolta di saggi sulla questione dei rom e l’Europa a cura di Nando Sigona e Nidhi Trehan. La traduzione è stata curata da Anna Maria Merlo
Cari amici di Mondadori preferisco la giustizia
di Vito Mancuso (la Repubblica, 03.09.2010)
Giornali, radio, siti, tv, non vi è stato mezzo di comunicazione che non abbia ripreso e alimentato il dibattito sviluppatosi in seguito al mio articolo del 21 agosto «Io autore Mondadori e lo scandalo ad aziendam». Naturalmente ognuno ha detto la sua, sia in merito alla questione in sé sia a me che l’avevo sollevata, facendomi provare l’ebbrezza di un viaggio sulle montagne russe della psiche col passare da coscienza profetica a povero ingenuo, da eroe coraggioso a ipocrita opportunista.
Su quest’ultimo aspetto non ho nulla da replicare, registro solo lo spettacolo di individui così incapaci di prescindere dall’ego e concentrarsi sulle cose in sé da risultare impossibilitati a concepire che qualcuno faccia qualcosa senza volerci guadagnare. Molto più interessante è la dimensione oggettiva della questione, che ritengo di poter riassumere come segue.
1. Esistenza del problema: il problema da me sollevato esiste, non è per nulla nuovo perché risale al 1993 cioè a quando il proprietario della Mondadori entrò in politica, e spesso riaffiora come i sintomi di una malattia non curata. Persino i giornali e le tv (Tg1) che ne hanno sostenuto l’inesistenza in realtà col loro zelo hanno confermato che esiste, perché non si dedicano pagine e minuti preziosi a un falso problema. Si fa così solo con un problema vero di cui si vuole sostenere capziosamente la falsità.
2. Essenza del problema: nella sua specificità il problema consiste in quell’immenso agglomerato di potere che (caso unico in occidente) fa capo all’attuale premier e che genera il nodo da tutti conosciuto come «conflitto di interessi». Se il Gruppo Mondadori non fosse «sua» proprietà, la discutibile legge ad aziendam voluta dal «suo» governo rientrerebbe al massimo nelle normali pressioni che le singole lobby esercitano in ogni democrazia di libero mercato. Purtroppo però la proprietà del Gruppo Mondadori e la guida del governo coincidono, il che conduce chi riflette in modo disinteressato a non poter evitare di associare la legge di cui ha beneficiato il «suo» gruppo editoriale (pagando solo 8,6 milioni invece di 350) alle altre leggi ad personam finora volute dal «suo» governo, compresa la legge-bavaglio contro la libertà di stampa e il progetto di legge sul processo breve.
3. Prospettive di soluzione del problema: Eugenio Scalfari (le cui parole affettuose ricambio con gratitudine) affermava in risposta al mio articolo che il problema «si combatte politicamente». È vero, ma mi permetto di replicare che la politica, come l’essere secondo Aristotele, «si dice in molti modi», non tutti riservati ai politici di professione. Uno di questi modi è la pubblicazione che, come dice la stessa parola, è un gesto pubblico, spesso non privo di risvolti politici e mai privo di risvolti economici, soprattutto per autori da primi posti della classifica vendite. In questa prospettiva io chiedo due cose:
A) l’autore ha il dovere di verificare la correttezza etica (e non solo giuridica) del proprio editore?
B) l’autore ha il dovere di chiedersi quali investimenti sostiene con il profitto da lui generato?
A entrambe le domande si può rispondere di no, che un tale dovere dell’autore non c’è, sostenendo da un lato che l’autore si deve preoccupare solo della libertà di esprimere le proprie idee, del prestigio del catalogo, della professionalità dei funzionari editoriali e basta, e dall’altro lato che ciò che conta per lui è unicamente la capacità di promozione, distribuzione e vendita dell’editrice alla quale affida il suo testo.
Molti degli autori del Gruppo Mondadori intervenuti a seguito del mio articolo hanno sostenuto in parte o per intero queste prospettive, compresi Eugenio Scalfari, Corrado Augias e Adriano Prosperi. Mentre nessuno si è posto la domanda B, nella risposta alla domanda A Scalfari ha distinto gli attuali dirigenti che guidano l’Einaudi dalla proprietà da cui i medesimi dirigenti dipendono, Augias ha dichiarato che il suo rapporto con la Mondadori «non è con una marca ma con uomini», Prosperi è stato il più duro giungendo a negare la stessa pertinenza del problema: «Mettersi ad aprire una discussione in termini moral-editoriali lascia il tempo che trova».
Io non sono d’accordo. Io penso che discutere pubblicamente delle pubblicazioni sia qualcosa di molto utile se non un dovere, e penso che alle due domande poste sopra si debba rispondere con un netto sì: l’autore ha il dovere di vagliare la correttezza etica della sua editrice (e del Gruppo al quale essa fa capo) e si deve chiedere a quali investimenti contribuisce con il profitto generato dalle vendite delle sue opere. Naturalmente mi posso sbagliare, posso essere ingenuo e mancare di realismo, ma questo è il mio pensiero. Il quale ritengo valga soprattutto per quegli autori che scrivono di etica, di politica, di filosofia e che sono giunti grazie al valore del proprio lavoro a vedersi riconosciuto il ruolo pubblico di «intellettuali», svolgendo così un compito abbastanza delicato verso la società.
Penso sarebbe auspicabile che tutti gli autori fossero attivi nel cercare di arginare l’immenso conflitto di interessi del quale da quasi un ventennio tutti noi italiani (di destra, di centro, di sinistra non importa) siamo prigionieri, ma so bene che non tutti possono sempre permettersi questa battaglia, perché esprimere pubblicamente il proprio pensiero è un privilegio abbastanza raro.
Primum vivere deinde philosophari, questa antica massima di saggezza vale per tutti, nessuno è chiamato a fare l’eroe. Per quanto mi riguarda poter esprimere liberamente il mio pensiero coincide con la possibilità di «combattere la buona battaglia», per riprendere la celebre espressione di san Paolo.
Naturalmente non condanno nessuno né chiamo nessuno a crociate, mi permetto solo di dire che provo ammirazione per tutti quegli intellettuali che, potendo permetterselo, evitano di contribuire con i proventi delle loro opere a finanziare quel conflitto di interessi che è «la madre di tutti i problemi». Sono consapevole altresì che ognuno si sceglie le battaglie ideali come meglio crede e io non intendo insegnare nulla a nessuno, tanto meno alle insigni personalità che in questo articolo ho chiamato in causa, cerco solo di dare il mio contributo perché l’Italia possa un giorno non essere più il paese dei furbi.
Quando avrò concluso il volume per il quale ho un contratto in essere con la Mondadori tirerò le logiche conseguenze di tutto questo ragionamento, come lo stesso farò per un piccolo saggio che avrei dovuto consegnare entro dicembre all’Einaudi per un volume a più autori a cura di Gustavo Zagrebelsky. Ai cari amici che ho in Mondadori ai quali mi legano stima e affetti incancellabili ho scritto ieri: «... magis amica iustitia».
Come vivere senza Berlusconi?
di Philippe Ridet (Le Monde, 7 settembre 2010 - traduzione: www.finesettimana.org)
Si deve ad un teologo discreto una delle cose più vivaci dell’estate italiana. Approfittando di una - molto - breve pausa sul fronte delle polemiche politiche, Vito Mancuso si poneva un grave problema tramite una lettera aperta al quotidiano la Repubblica del 21 agosto: poteva continuare a pubblicare, “in pace con la coscienza” i suoi libri da Mondadori, mentre a questa casa editrice, controllata da Mediaset - il settore dei Media della holding finanziaria della famiglia Berlusconi (Fininvest) -, veniva consentito un ristorno fiscale di svariate centinaia di milioni di euro? La sua risposta è no.
Bisogna riconoscere che questa presa di posizione, piuttosto rara, e questa denuncia di un ennesimo conflitto di interessi non ha scombussolato nessuno più di tanto. Gli scrittori e gli intellettuali sollecitati dalla stampa a reagire non si sono precipitati ad esprimere la loro solidarietà ad un uomo che ormai si rifiuta che il proprio lavoro possa, in qualsiasi modo, arricchire Berlusconi. Al contrario, non sono mancate le riserve, né i sarcasmi. Perché una presa di coscienza così tardiva? gli si è rimproverato, sospettandolo di avere orchestrato una campagna pubblicitaria. Perché tanta ingenuità? gli hanno detto altri, per i quali questa battaglia individuale è persa in partenza.
Dal 1994, data della presa di controllo di Mondadori e della vecchia casa editrice torinese Einaudi da parte della Fininvest (per mezzo di un giudice la cui corruzione è stata accertata in seguito) nessuno ignora chi sia il proprietario di queste aziende. Questo non vuol dire tuttavia che gli autori pubblicati dalle case editrici del presidente del Consiglio non si siano posti il problema.
Roberto Saviano, l’autore del best-seller Gomorra, si è posto la questione della propria fedeltà alla Mondadori, quando, in primavera, Berlusconi aveva accusato gli scrittori che trattavano di “Mafia” di “rovinare l’immagine del paese”. Rassicurato da una lettera del presidente della Mondadori, Marina Berlusconi, figlia del Cavaliere, Saviano aveva messo a tacere i propri dubbi.
Ad oggi, quattro autori delle case editrici controllate da Mediaset - tra cui il Premio Nobel della letteratura del 1998 José Saramago (morto a giugno) - si sono visti rifiutare un libro a causa del contenuto ritenuto troppo ingiurioso nel confronti dell’azionista di maggioranza. Vuol dire forse che gli scrittori pubblicati da Mondadori o Einaudi hanno perso ogni capacità di indignazione, preferendo venire a patti col nemico per assicurarsi delle buone vendite?
In verità, è piuttosto un diffuso senso di stanchezza quello che si potrebbe notare. Stanchezza di fronte ad un dibattito continuamente rilanciato a partire dalla prima apparizione di Silvio Berlusconi al potere. Stanchezza all’idea di affrontare questo problema ricorrente: si può boicottare Berlusconi, vivere senza Berlusconi? Bisogna dire che l’impresa non è semplice. Se è facile denunciare l’onnipresenza del suo impero nell’economia italiana, è più difficile farne a meno.
Prendiamo il caso di un antiberlusconiano duro e puro, che per nulla al mondo vorrebbe contribuire all’arricchimento del Cavaliere. Chiamiamolo signor Rossi. Per la televisone è abbastanza semplice, il signor Rossi dovrà evitare i tre canali del “Cavaliere” (Canale 5, Italia 1, Rete 4). Il sacrificio non è particolarmente costoso vista la mediocrità dei programmi. Tuttavia dovrà usare con parsimonia i canali della TV pubblica: il capo del governo ha nominato la maggior parte dei dirigenti.
Al cinema il signor Rossi non andrà a vedere i film prodotti da Mediaset o distribuiti da Medusa. Per la stampa eviterà il Giornale, di proprietà del fratello di Silvio Berlusconi. Il signor Rossi rinuncerà ugualmente al settimanale Panorama, come pure ad una quarantina di riviste.
Andando oltre, le cose si complicano. Occorrerà al signor Rossi l’attenzione puntigliosa del vegetariano alla ricerca dei grassi animali. La Finivest possiede infatti partecipazioni in due società italiane, la banca Unicredit e l’assicurazione Generali, che sono tra i maggiori investitori italiani. Con un effetto a cascata, queste partecipazioni piazzano la Fininvest al centro dell’economia e dell’industria del paese. Qualche esempio: se il signor Rossi deve cambiare i pneumatici dell’automobile o il materasso, dovrà rinunciare a Pirelli. Per un conto in banca eviterà Intesa San Paolo, la più grande banca italiana. Se prende l’autostrada, deve evitare la Milano-Torino. Tifoso di calcio, eviterà gli incontri del Milan, di cui Berlusconi è proprietario e presidente. Si vede da questo che la vita senza Berlusconi non è cosa agevole in Italia.
Vito Mancuso è comunque deciso a tentare la sorte. Venerdì 3 settembre, in un nuovo scritto su la Repubblica, ha rinnovato la sfida chiamando gli scrittori di Mondadori e Einaudi a “liberarsi da questo conflitto di interessi nel quale sono tutti prigionieri”. Ma aggiunge: “so bene che non tutti possono sempre permettersi questa battaglia, perché esprimere pubblicamente il proprio pensiero è un privilegio abbastanza raro. Primum vivere deinde philosophari, questa antica massima di saggezza vale per tutti, nessuno è chiamato a fare l’eroe”. Il signor Rossi ne sa qualcosa.
Come salvarsi dal populismo nel mondo senza confini
Lo sguardo cosmopolita contro la demagogia
Per gentile concessione dell’editore anticipiamo parte della premessa dell’ultimo libro di Ulrich Beck "Potere e contropotere nell’età globale" in uscita per Laterza
di Ulrich Beck (la Repubblica, 06.09.2010)
Il successo del populismo di destra in Europa (e in altre parti del mondo) va inteso come reazione all’assenza di qualsiasi prospettiva in un mondo le cui frontiere e i cui fondamenti sono venuti meno. L’incapacità delle istituzioni e delle élites dominanti di percepire questa nuova realtà sociale e di trarne profitto dipende dalla funzione originaria e dalla storia di queste istituzioni. Esse furono create in un mondo nel quale erano ancora pienamente valide le idee di piena occupazione, di predominio della politica nazional-statale sull’economia nazionale, di frontiere funzionanti, di chiare sovranità e identità territoriali.
Lo si può mostrare in relazione a quasi tutti i temi scottanti del nostro tempo. Chi, di fronte alla disoccupazione di massa e all’occupazione precaria in rapida diffusione promuove l’ideale della piena occupazione, offende l’umanità. Chi, nei Paesi in cui il tasso di natalità è sceso sotto la soglia fatidica di 1,3 figli per ogni donna, afferma che le pensioni sono al sicuro, offende l’umanità. Chi, di fronte alla drastica riduzione dei proventi dalle imposte sui profitti vanta i meriti della globalizzazione, che consente ai grandi gruppi economici transnazionali di mettere gli Stati gli uni contro gli altri, offende l’umanità. Chi, nell’era delle catastrofi ambientali e degli avvelenamenti alimentari in atto o incombenti proclama che la tecnica e l’industria risolveranno i problemi da esse stesse prodotti, offende l’umanità.
Noi europei facciamo come se esistessero ancora la Germania, l’Italia, i Paesi Bassi, il Portogallo, ecc. E invece non ci sono più da un pezzo, poiché quelle riserve di potere che sono gli Stati nazionali chiusi in se stessi e le unità nazionali delimitate l’una rispetto all’altra sono diventate irreali al più tardi con l’introduzione dell’euro. Nella misura in cui c’è l’Europa non esistono più la Germania, la Francia, l’Italia, ecc. (anche se questi Paesi continuano a governare nelle teste delle persone e nei libri illustrati degli scrittori di storia), poiché non ci sono più le frontiere, le competenze e gli spazi di esperienza esclusivi su cui si fondava questo mondo di Stati nazionali. Ma se tutto ciò è passato, se il nostro pensiero, le nostre azioni e le nostre ricerche si muovono all’interno di categorie-zombie, quale mondo si sta formando o si è già formato?
(...) Per comprendere il terremoto politico provocato e sfruttato dal populismo di destra occorre mettere in luce le fonti della sua potenza. Esse risiedono nel fatto che qui i temi e i motivi cari al nuovo controilluminismo da cui è connotata la modernità europea - la lotta contro il declino e la decadenza, la rinascita dei vecchi valori e delle vecchie comunità - vengono applicati ai tabù attuali della modernizzazione radicalizzata. In tutto ciò è irritante questa massima del «sia ... sia», che rimescola i fronti del politico. Il cosiddetto «populismo di destra» non è affatto un populismo solo di destra, ma un populismo sia di destra che di sinistra. Esso può essere particolarmente potente e inquietante perché questo tipo di politica lega, assorbe, combina, sintetizza ciò che sembra escludersi: obiettivi di destra con metodi di sinistra, la rottura emancipatrice dei tabù messa in scena dai mass-media, che sprigiona il potenziale tossico del risentimento antimoderno. Ciò si riflette anche nella reazione pubblica. Si denuncia la demagogia dei populisti come un pericolo per la democrazia stabilita - ma, perlomeno in cuor proprio, la si saluta come una terapia d’urto necessaria a scuotere la democrazia dal suo letargo. Pertanto, la potenza dei populisti è direttamente proporzionale alla mancanza di risposte della politica stabilita alle domande di un mondo radicalmente mutato.
Tutto ciò può essere osservato come sotto una lente d’ingrandimento se si prendono in considerazione (come fa questo libro) le conseguenze della globalizzazione (...). In questo libro la globalizzazione è intesa e sviluppata - riprendendo questi approcci ma nello stesso tempo facendo un passo al di là di essi - come trasformazione storica. Da questa prospettiva emerge che, nello spazio di potere dai contorni ancora indefiniti di una politica interna mondiale, la distinzione tra il nazionale e l’internazionale su cui si era basata la nostra visione del mondo è cancellata (...).
Se ciò che è nazionale non è più nazionale e ciò che è internazionale non è più internazionale, allora il realismo politico prigioniero dell’ottica nazionale è sbagliato. Al suo posto - è questo l’argomento di questo libro - subentra un realismo politico di cui occorre comprendere la logica di potere e che assegna un posto centrale al ruolo decisivo dell’economia mondiale e dei suoi attori nella collaborazione e nel contrasto tra gli Stati, ma anche alle strategie dei movimenti transnazionali della società civile, ivi compresi i movimenti anticivili, ossia le reti terroristiche, che mobilitano contro gli Stati la violenza privatizzata per perseguire i propri obiettivi politici.
Un realismo, ovvero un machiavellismo, cosmopolitico risponde in particolare a due domande. Primo: come e attraverso quali strategie gli attori dell’economia mondiale impongono agli Stati le leggi della loro azione? Secondo: come possono a loro volta gli Stati riconquistare un meta-potere statuale-politico di fronte agli attori dell’economia mondiale per imporre al capitale mondiale un regime cosmopolitico che includa anche la libertà politica, la giustizia globale, la sicurezza sociale e la conservazione dell’ambiente?
L’importanza e la pertinenza di questa nuova politica economica mondiale derivano per un verso dal fatto che essa in quanto teoria del potere è sviluppata nello spazio strategico dell’economia transnazionale e, per un altro, dal fatto che nello stesso tempo essa risponde alla domanda che allora si pone: come può il mondo della politica organizzata per Stati (nei suoi concetti fondamentali, nel suo spazio di potere strategico, nelle sue condizioni di contorno istituzionali) aprirsi alle sfide dell’economia mondiale ma anche ai problemi derivati dalla modernizzazione?
(...) Lo Stato nazionale non è più il creatore di un quadro di riferimento che include in sé tutti gli altri quadri di riferimento e che rende possibili le risposte politiche. Gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 insegnano, non ultimo, che la potenza non è sinonimo di sicurezza. In un mondo radicalmente diviso la sicurezza potrà esserci solo quando ognuno sarà disposto a - e capace di - vedere il mondo della modernità scatenata con gli occhi dell’altro, dell’alterità, cioè quando l’evoluzione culturale risveglierà in ciascuno questa apertura e quest’ultima sarà diventata quotidiana .
(...) Se si dischiude intellettualmente e politicamente lo spazio di potere mondiale al di là delle vecchie categorie di «nazionale» e «internazionale», si aprono (accanto alle spiegazioni della reazione populistica) prospettive di un rinnovamento cosmopolitico della politica e dello Stato.
Come salvarsi dal populismo nel mondo senza confine!
Lo Stato nazionale non è più il creatore di un quadro di riferimento che include in sé tutti gli altri quadri di riferimento e che rende possibili le risposte politiche. (Ne quelle Religiose ne quelle Filosofiche e Scientifiche!)
la verità è nel cuore dell’uo¬mo, dove si trova anche Dio, «se ci muoviamo con le risorse della scien¬za e della filosofia, questo tipo di ve¬rità resta fuori dal discorso».!
Il termine carisma denota, la capacità di esercitare una forte influenza su altre persone. Similmente al termine adoperato in senso religioso deriva dalla parola χάρισμα, charisma, a sua volta derivata dal sostantivo χάρις, cháris, ovvero grazia. Assume, in entrambi i casi, il significato di dono. È assimilabile alla cosiddetta aura, l’alone di leggenda e mistero che ha avvolto diversi personaggi storici del passato. Il termine carismatico è stato attribuito e viene tuttora attribuito a persone - sovente leader politici o statisti in genere - che abbiano segnato in qualche modo la storia per la loro capacità di radunare attorno a sé una massa, enorme organizazione capace di sconvolgere il corso degli eventi.
Carisma (psicologia)................................................
Ma, dal momento che l’influenza sociale è comunque sempre un processo reciproco, quello che caratterizza i leader è che possono influenzare gli altri nel gruppo più di quanto siano influenzati loro stessi. Per questo motivo nelle più recenti teorie sulla leadership ci propone di ritenere la leadership una relazione, il leader è colui che ha dei seguaci, senza seguaci non ci possono essere leader.
Leadership come l’iniziazione di una struttura, con questa affermazione si vuole intendere che la funzione di leadership è indispensabile per l’avvio di una struttura e per il suo mantenimento Leadership vuol dire saper guidare se stessi verso un obiettivo. Quando si parla di leadership ci si rende conto che spesso l’influenza scaturita dai grandi leader non deriva dal diretto contatto con esso, ma avviene attraverso alcuni intermediari. È necessario dunque porre una chiara distinzione tra leadership diretta, che comprende le relazioni e le interazioni fra un leader riconosciuto e i suoi immediati collaboratori e la leadership indiretta detta anche leadership.
Il più grande uomo che sia mai esistito
SI PUÒ dire di qualcuno, senza timore di essere smentiti, che è il più grande uomo che sia mai esistito? Da cosa misurate la grandezza di un uomo? Dal suo genio militare? dalla sua forza fisica? dalle sue capacità intellettuali? La grandezza di un uomo, disse lo storico H. G. Wells, si può misurare ‘da ciò di cui è stato l’ispiratore, e dall’avere indotto altri a pensare seguendo criteri interamente nuovi e con un vigore che non si è spento con lui’. Wells, pur non professandosi cristiano, ammise: “Giudicato con questo metro, Gesù supera tutti”. Alessandro Magno, Carlo Magno (chiamato “Magno” già dai suoi contemporanei) e Napoleone Bonaparte furono potenti sovrani. Con la loro formidabile presenza esercitarono grande influenza sui loro sudditi. Eppure Napoleone avrebbe detto: “Gesù Cristo ha influito ed esercitato autorità sui Suoi sudditi senza la Sua presenza fisica e visibile”. Con i suoi insegnamenti dinamici e con il modo in cui visse la sua vita conforme ad essi, Gesù ha influito potentemente sulla vita degli uomini per circa duemila anni. Uno scrittore fece questa appropriata osservazione: “Tutti gli eserciti che abbiano mai marciato e tutte le flotte che siano mai state costruite e tutti i parlamenti che si siano mai radunati e tutti i re che abbiano mai governato, messi insieme, non hanno influito sulla vita dell’uomo sulla terra in maniera così potente”.
“Io ti prego, non di toglierli dal mondo, ma di vigilare su di loro a causa del malvagio.
Essi non fanno parte del mondo come io non faccio parte del mondo.
Santificali per mezzo della verità; la tua parola è verità. 18 Come tu hai mandato me nel mondo, anch’io ho mandato loro nel mondo. E io mi santifico in loro favore, affinché anche loro siano santificati per mezzo della verità. “Prego non solo per questi, ma anche per quelli che riporranno fede in me....
(nel prossimo futuro di questa generazione stessa che apparteniamo anche noi).
E voi certamente vedrete di nuovo [la distinzione] fra il giusto e il malvagio, fra chi serve Dio e chi non lo ha servito”.
La porta dell’arca di Noe’ e’ ancora aperta; ma non per tanto e poi sara’ chiusa dalle mani stesse di Dio.
Le persone che in Europa vanno ancora in chiesa di solito non ci vanno per scoprire cosa Dio richiede da loro. Un articolo dall’Italia dice: “Gli italiani si costruiscono una religione su misura che sia adatta al loro stile di vita”. E un sociologo italiano afferma: “Dal papa prendiamo qualunque cosa ci sia congeniale”. Lo stesso si può dire dei cattolici in Spagna, dove la religiosità ha lasciato il posto al consumismo e alla ricerca di un paradiso da ottenere subito, quello economico! Queste tendenze sono in netto contrasto con il cristianesimo insegnato e praticato da Cristo e dai suoi seguaci. Gesù non offrì una religione “self-service” o “a buffet”, in cui ognuno prende ciò che più gli aggrada e scarta quello che non è di suo gradimento. Egli disse: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda di giorno in giorno il suo palo di tortura e mi segua di continuo”. Gesù insegnò che il modo di vivere cristiano richiedeva sacrificio e sforzo a livello personale.
(Con tutto il bene del mondo)
Mentalità nazista anti rom
di Moni Ovadia (l’Unità, 04.09.2010)
Oggi a Roma in Campo de’ Fiori si terrà una manifestazione di solidarietà e di lotta per i diritti dei rom e dei sinti. Il mio amico Santino Spinelli, rom abruzzese, cittadino italiano, musicista di fama internazionale, professore di cultura romanì all’università di Chieti, mi ha lanciato un accorato appello perché ne parli. Lo faccio con il cuore e con tutta la passione di cui sono capace, ma questa volta anche alzando il tiro. I recenti provvedimenti del governo francese, le esternazioni di ministri del nostro governo in vena di emulazioni, l’ennesima tragica morte di innocenti nei luoghi del degrado a cui i rom sono costretti con deliberata crudeltà da un sistema che li vuole cancellare sono infami espressioni di razzismo, nulla di meno.
La mentalità che li partorisce è identica a quella dei nazisti. Non ingannino le modalità apparentemente diverse dovute solo al mutato contesto formale in cui viviamo. La stessa mentalità portò alle vessazioni e alle violenze antisemite e antinomadi che naturalmente sfociarono nello sterminio di ebrei, rom e sinti nei campi di sterminio.
I diretti responsabili odierni di questa politica sono i nazisti di oggi, chi approva, chi tace, chi gira la testa dall’altra parte è un infame complice di questi miserabili vigliacchi. In questi giorni è stato messo in pensionamento anticipato un coraggioso prelato cattolico che aveva alzato la voce con chiarezza e senza riserve diplomatiche contro il governo francese. Non dimentichiamo mai che il silenzio, l’opportunismo e le titubanze per convenienza sono, ieri come oggi i più perniciosi alleati dell’orrore.
Tutti gli esseri umani per bene hanno la responsabilità e il dovere di lottare contro il razzismo se non vogliono diventarne sodali. In particolare, tocca agli ebrei e alle loro istituzioni denunciare i politici razzisti interrompendo ogni rapporto di contiguità con loro.
Oggi a Campo dei fiori un presidio contro la discriminazione: ecco un piccolo manifesto per favorire l’integrazione e cacciare i pregiudizi
Otto idee per Rom e Sinti
Per dire stop a razzismo e discriminazione, ai campi Rom e alle forme di ghettizzazione delle popolazioni Sinti e Rom, oggi il Coordinamento nazionale antidiscriminazione ha organizzato una manifestazione alle 14.30 in Piazza Campo dei fiori, a Roma
di Alexian Santino Spinelli (il Fatto, 04.09.2010)
Un bambino muore, un bambino di soli tre anni muore a Roma, Caput Mundi, a poca distanza dal Vaticano, centro dell’Impero della Chiesa Cattolica Romana, nel cuore della cultura europea. È un bambino rom che allunga un’interminabile lista di bambini rom morti per cause futili. Lui figlio legittimo della discriminazione e della segregazione razziale, capro espiatorio di tutti i mali della società come poteva pensare di non pagare le sue colpe e di non essere usato come agnello sacrificale? Ai disvalori si è opposta una sincera e ferrea resistenza durante la seconda guerra mondiale che è costata oltre 50 milioni di morti di cui 500 mila Rom e Sinti barbaramente massacrati nei lager.
Oggi si vive un retaggio di quella cultura etnocentrica e razzista, con i campi di sterminio “moderni” (campi nomadi anche se i Rom non sono nomadi per cultura) e le nuove forme di deportazioni “civili” e “democratiche” approvate in larga maggioranza dall’opinione pubblica teleguidata e frastornata dai pregiudizi. Ma che non ci sia l’alibi del “Io non sapevo”. Ecco otto punti per migliorare la situazione dei Rom e Sinti in Italia
1 La sicurezza e la legalità vanno garantite a tutti. Rom e Sinti compresi. Nessuna voce autorevole ha condannato realmente l’episodio. Solo all’estero si sono resi conto della gravità della situazione dei Rom e Sinti in Italia.
2 Ristabilire la legalità riguardo la palese violazione dei più elementari diritti umani nei confronti delle diverse comunità Rom e Sinte in Italia, costrette a vivere in condizioni disumane e fortemente discriminate in netto contrasto con la Costituzione Italiana, con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e con le normative europee ed internazionali.
3 Smantellare i campi nomadi che sono pattumiere sociali degradanti e frustranti, centri di segregazione razziale permanente ed emblema della discriminazione. I Rom e Sinti non sono nomadi per cultura. La mobilità è sempre coatta e mai una scelta.
4 Facilitare l’accesso alle case popolari con pari opportunità o sviluppare insediamenti urbanistici non ghettizzanti facilitando anche l’utilizzo dei servizi pubblici. Favorire il più possibile l’accesso alla scolarizzazione, al lavoro e all’assistenza sanitaria alle famiglie di Rom e Sinti più disagiate.
5 Arrestare il processo di demonizzazione e di criminalizzazione di un intero popolo. Sono i singoli che hanno un nome e cognome a sbagliare e che devono essere puniti e non l’etnia di appartenenza.
6 Promuovere la conoscenza della storia, della cultura, dell’arte e della lingua dei Rom e dei Sinti per combattere gli stereotipi negativi e favorire l’integrazione.
7 Creare una consulta in Italia di intellettuali Rom e Sinti e associazioni che abbiano una esperienza internazionale sulle problematiche concernenti la realtà delle comunità romanès che possano favorire la mediazione nella risoluzione dei problemi sociali e politici.
8 Favorire il più possibile il processo di integrazione positiva a coloro i quali dimostrano una chiara volontà di partecipazione sociale evitando di porre sullo stesso piano chi merita e chi delinque.
(*) musicista e docente universitario
FRANCIA
Rom, in migliaia in piazza a Parigi
130 città contro le espulsioni
Manifestazioni anche in Europa. "No alla politica disumana di Sarkozy". Malgrado questa massiccia adesione, però, i sondaggi continuano a mostrare come oltre la metà dei francesi sostenga la linea dura del governo
PARIGI - Per una volta si è riunita anche tutta la gauche francese, in prima fila oggi a Parigi nella manifestazione anti-xenofobia che è partita da place de la Republique. In prima fila, in quella che è considerata la grande protesta contro il presidente Nicolas Sarkozy e la sua decisione di espellere nomadi e rom, anche il sindaco socialista della capitale, Bertrand Delanoe.
La protesta è concentrata contro le politiche del governo nei confronti dei rom 1 e soprattutto contro le espulsioni collettive dei nomadi verso alcuni Paesi d’origine, dalla Romania alla Bulgaria. Sono ben 138 le manifestazioni organizzate in tutto il Paese e oltre 130 le città coinvolte: in testa al corteo di Parigi una quarantina di rom rumeni, il cui campo è stato smantellato il 12 agosto scorso a Choisy-Le-Roi, alla periferia della città. Nelle loro mani uno striscione: "No alla politica disumana di Sarkozy". Artisti come Regine, Jane Birkin, Anges Jaoui e Jean Cherhal hanno intonato, lungo le strade, "Les Petits Papiers", celebre canzone di Serge Gainsbourg, accompagnati da una fisarmonica.
E la protesta non si esaurisce a Parigi. A Bordeaux centinaia di persone sono scese in strada per dire "basta al razzismo" e gruppi di manifestanti si sono dati appuntamento anche nel resto d’Europa, davanti alle ambasciate francesi di diversi Paesi Ue, inclusa l’italia. Questi mini sit-in sono stati organizzati da decine di associazioni e organizzazioni per la difesa dei diritti umani con il sostegno dei sindacati e dei partiti di opposizione
Le espulsioni hanno finora colpito oltre 1000 rom, innescando una serie di polemiche nella comunità internazionale. Secondo le cifre ufficiali, lo scorso anno sono stati espulsi 11 mila rom. La "League of Human Rights", che ha organizzato la maggior parte delle manifestazioni, ha dichiarato di voler reagire così a un governo ’’xenofobo". I sit-in sono stati supportati dal partito dell’opposizione socialista e dal sindacato Cgt, il secondo più grande della Francia. Malgrado questa massiccia desione, però, i sondaggi continuano a mostrare come oltre la metà dei francesi sostenga le misure del governo.
A ribasso nei sondaggi e imbarazzato dallo scandalo politico-fiscale che ha investito il ministro del lavoro Eric Woerth, costretto a difendere la cruciale riforma delle pensioni, il presidente francese Nicolas Sarkozy aveva annunciato a fine luglio un inasprimento della sua politica di sicurezza. Ma, decidendo di smantellare i campi illegali di rom e annunciando di voler togliere la cittadinanza ai neofrancesi di origine straniera che si macchino di certi reati, ha suscitato l’indignazione dell’opposizione e di gran parte della società civile.
Si protesta anche a Roma. Appuntamento presso l’ambasciata francese a Roma per la manifestazione contro il "razzismo e la discriminazione di rom e sinti", contro "i campi nomadi" e contro le politiche sui nomadi di Sarkozy e Maroni, organizzata dal coordinamento nazionale antidiscriminazione. Sono un centinaio le persone che da piazza della Cancelleria si sono spostate nell’adiacente Campo de’ Fiori.
Le bandiere blu e verdi con al centro una ruota, simbolo dei rom, sventolano dunque anche nella capitale. Presenti alla manifestazione Prc, Sel e Cgil. "Questa manifestazione è gemellata con quella di Parigi", ha spiegato Alexian Santino Spinelli, rom e docente all’università di Camerino. "Siamo qui contro i respingimenti in Francia e in Italia e contro i campi rom, che ci emarginano. In pochi sanno che il settanta per cento dei rom in italia vive in case, mentre i bambini stanno morendo nei campi. È un bollettino di guerra in periodo di pace".
Secondo il delegato del sindaco ai rapporti con la comunità rom di Roma, Najo Adzovic, si tratta però di una manifestazione "ideologica e politica, un evento organizzato dai centri sociali e dalle associazioni che non rispecchia la nostra comunità e il cui scopo è solo quello di fare un pò di rumore". "Protestare e far sentire la propria voce è giusto e corretto, ma a farlo - prosegue Adzovic - dobbiamo essere noi rom che però non ne sentiamo la necessità, almeno qui a Roma, dove le politiche della sicurezza si sposano con quelle dell’integrazione. In questa città, mai come in questo momento, ci stiamo confrontando con un’amministrazione disposta ad ascoltare le nostre esigenze e le nostre problematiche a 360 gradi".
* la Repubblica, 04 settembre 2010
LA LETTERA
"Presidente, mi sento tradito
da una politica senza umanità"
di TAHAR BEN JELLOUN *
Signor Presidente Sarkozy,
ho la fortuna di beneficiare di due nazionalità. Sono marocchino e francese, dal 1991. E sono felice di quest’appartenenza a due Paesi, due culture, due lingue, che vivo come un permanente arricchimento. Ma dopo le sue dichiarazioni di Grenoble sulla possibile revoca della nazionalità francese ai responsabili di reati gravi, sento la mia nazionalità francese in qualche modo minacciata, o quanto meno resa più fragile. Non che io abbia l’intenzione di darmi alla delinquenza o di turbare gravemente l’ordine pubblico; ma in quelle parole vedo un attacco contro le fondamenta stesse del Paese, contro la sua Costituzione. E ciò, signor presidente, non è ammissibile in una democrazia, in uno Stato di diritto come la Francia, che rimane malgrado tutto il Paese dei diritti umani; un Paese che per tutto il secolo scorso ha accolto e salvato centinaia di migliaia di esiliati politici.
Nel 2004, da ministro dell’Interno, lei dichiarò che "a ogni reato deve corrispondere una risposta ferma, la stessa per chi è o non è francese in base alla sua carta d’identità". Oggi, in veste di presidente, lei contraddice la sua posizione di ministro. E ciò mi induce a riflettere sulla funzione che lei ricopre, e a intervenire, sia pure tardivamente, nel dibattito pubblico sull’identità nazionale che uno dei suoi ministri ha creduto opportuno di lanciare.
La nazionalità fa parte dell’identità. E come nel mio caso, può essere duplice. Io non riesco a vedermi privato di una delle mie nazionalità. Mi sentirei diminuito.
Nessuna società è di per sé razzista. Dire che la Francia è "un Paese razzista" è stupido e ingiusto.
Sono marocchino e francese. La sua idea di revocare la cittadinanza a chi compie reati gravi per me è una minaccia
Al pari di tanti altri, anche questo Paese è percorso da tendenze all’esclusione e al razzismo, vuoi per motivi ideologici e politici, vuoi per ragioni attinenti al disagio sociale, alla povertà o alla paura. Confondere l’insicurezza con l’immigrazione non è solo un errore, è una colpa.
Il ruolo di un dirigente politico è quello di scoraggiare, e ove necessario di impedire lo sviluppo di siffatte tendenze. Un capo di Stato non dovrebbe reagire con i suoi umori, in maniera viscerale. Non è un cittadino qualsiasi, che può permettersi di dire qualunque cosa gli venga in mente. È tenuto a pesare le parole e a misurarne le possibili conseguenze. La Storia registra ogni sua dichiarazione, buona o cattiva, giusta o inopportuna che sia. E il suo quinquennato, signor presidente, resterà certamente segnato da alcuni dei suoi sconfinamenti verbali. Chiunque ha diritto a reagire a un insulto, ma non un capo di Stato. Non che si sia autorizzati a mancargli di rispetto - ma il presidente della Repubblica deve porsi al disopra del livello di un cittadino medio. È un simbolo, investito di una funzione nobile, eccezionale. Per abitarla, per consolidare quest’ambizione bisogna saper volare alto, e non rimanere invischiati nei fatti fino a dimenticare di essere un cittadino d’eccezione.
Quali che siano i valori, di destra o di sinistra, sostenuti dal partito da cui proviene, il capo dello Stato, in quanto eletto a suffragio universale, dev’essere il presidente di tutti i francesi. Compresi quelli di origine straniera. E anche nel caso in cui la sfortuna abbia spezzato la loro sorte, o li predisponga a una precarietà patogena. Ora, le sue recenti dichiarazioni, peraltro denunciate da un editoriale del New York Times e da personalità autorevoli come Robert Badinter, denotano un cedimento che forse nel 2012 potrà valerle un certo numero di voti del Front National, ma che al tempo stesso la pone in una situazione difficilmente sostenibile.
Signor presidente, comprendo bene quanto il problema della sicurezza la preoccupi. Ma nessuno mai sarà disposto a prendere la difese di un delinquente che abbia sparato su un agente della polizia o della gendarmeria. Spetta alla giustizia dare una "risposta ferma" a questi reati, i cui autori vanno però giudicati indipendentemente dalla loro origine e religione, o dal colore della loro pelle. Altrimenti si cade nell’apartheid. La repressione peraltro non basta. Occorre andare alla radice del male, se si vuole risanare in maniera definitiva la drammatica situazione delle banlieue.
È più facile suscitare la diffidenza, o magari l’odio per lo straniero, che promuovere il rispetto reciproco. Ma un capo di Stato non è un poliziotto d’alto rango. È il magistrato supremo della nazione, il garante della giustizia e dello stato di diritto. E in quanto tale deve essere irreprensibile, sia nei comportamenti che nelle parole. Ora, signor presidente, il suo discorso sulla revoca della nazionalità ai delinquenti di origine straniera che abbiano attentato alla vita di un poliziotto o di un gendarme è ricusato dalla Costituzione. Sono parole al vento - perché come lei ben sa, se una legge del genere fosse votata, la sua applicazione creerebbe più problemi di quanti possa risolverne. Non spettava a lei lanciare questa minaccia.
Signor presidente, lei non ignora certo il contenuto dell’ultimo rapporto dell’Ong "Transparence France". Ma nel caso che questo testo le fosse sfuggito, citerò una delle sue conclusioni: "La Francia continua a veicolare un’immagine relativamente degradata della sua classe politica e della sua amministrazione pubblica". Peraltro, per quanto riguarda i livelli di corruzione, la Francia è classificata al 24° posto su 180 Paesi.
La crisi economica non è una scusa. La crisi morale è un fatto. A lei, signor presidente, spetta il compito di ripristinare l’immagine della Francia per quanto ha di più bello, di più invidiabile, di universale: il suo status di Paese dei diritti umani. È il Paese della solidarietà e della fratellanza proclamate, una terra generosa, ricca delle sue differenze, dei suoi colori, delle sue spezie, che tra l’altro dimostra come l’islam sia perfettamente compatibile con la democrazia e la laicità. Perciò la prego, signor presidente, di cancellare dal suo discorso le idee infelici che sono quelle diffuse da un partito di estrema destra, nell’intento di far ripiegare il Paese su se stesso, di isolarlo, di tradire i suoi valori fondamentali.
Voglia credere, signor presidente, all’espressione dei miei migliori sentimenti.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
* la Repubblica, 04 settembre 2010.
L’universo di Hawking
«Si è autogenerato senza l’intervento di Dio»
«Il grande disegno» esce a pochi giorni dalla visita del Papa a Londra
La controversa tesi nell’ultimo libro. Cacciari: illogico
di Dario Fertilio (Corriere della Sera, 03.09.2010)
In principio era il caos, sostiene Stephen Hawking. E di Dio, nessuna traccia. Parole grosse che, trattandosi di uno dei massimi astrofisici viventi, fanno boom. Tanto più che proprio lui, uno degli scienziati più famosi al mondo, condannato all’immobilità e privo della parola per un’atrofia muscolare progressiva, teorico delle stringhe e dei buchi neri, in un suo libro precedente ( Breve storia del tempo, pubblicato in Italia dalla Bur Rizzoli) aveva lasciato invece una porta socchiusa ai creazionisti, sostenendo che la presenza di Dio non sarebbe incompatibile, in sé, con un approccio scientifico all’universo.
Ma questa voltano : The Grand Design, «Il grande disegno», scritto con il fisico americano Leonard Mlodinow, in 200 pagine serrate e anche immaginifiche si spinge abbastanza lontano da ipotizzare la presenza di altri universi abitati, per poi giungere all’apodittica conclusione che il Big Bang sarebbe una «inevitabile conseguenza delle leggi della fisica», e che l’intervento di una mano creatrice sarebbe decisamente da escludere. Più precisamente, alla domanda che Hawking si pone da sé, «l’universo ha avuto bisogno di un creatore?», la risposta è chiara e incontrovertibile: no. E perché no? «Perché c’è una legge che si chiama gravità, e l’Universo può e continuerà a crearsi da sé, dal niente. La creazione spontanea è la ragione per cui qualcosa esiste piuttosto che il nulla, per cui l’Universo esiste, e noi stessi esistiamo». Punto. Per il grande Stephen Hawking, in pensione da un anno e già sulla cattedra occupata da Newton, la questione è chiusa.
In Gran Bretagna le sue conclusioni finiscono ovviamente in prima pagina - cominciando dal «Times» - tanto più che l’uscita del libro (giovedì prossimo) cade appena una settimana prima della visita di papa Ratzinger al di là della Manica.
Subito reazioni positive da Richard Dawkins, il biologo dichiaratamente ateo, che saluta l ’ est ensione al - l’universo delle teorie darwiniane sugli esseri viventi. Altrove, però, e cominciando dall’Italia, prevalgono invece, in varie gradazioni: perplessità, scetticismo, imbarazzo.
Il filosofo della scienza Giulio Giorello, ad esempio, ammette che l’idea di una creazione dal vuoto, «per effetto di una fluttuazione casuale rapidissima e molto energetica», è materia dibattuta dai cosmologi quantisti, anzi «l’ipotesi di una creazione senza creatore la si può ritrovare persino tra le pieghe della filosofia indiana». Una cosa però, sottolinea, è «fare a meno di Dio come creatore agente dall’esterno, un’altra parlarne come forza intrinseca alla natura, sulle orme di Giordano Bruno e Spinoza». Inoltre, a suo giudizio, «il bisogno di Dio non è basato sulla cosmologia, e la grazia è una scintilla nel buio. D’altra parte la scienz a prescindetot a l mente da Dio».
Più netto, e quasi sprezzante verso Hawking, un altro filosofo, Massimo Cacciari: «Nulla è più assurdo e antiscientifico di pretendere che un linguaggio specialistico fornisca risposte universali. È una contraddizione logica, quella di Hawking, che ha qualcosa di comico e non va nemmeno presa in considerazione. Meglio avrebbe fatto a leggersi la "Dialettica trascendentale" di Kant».
Più articolati, ma di fatto consonanti, i pareri del mondo scientifico. Tommaso Maccacaro, presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica, analizza i punti principali della teoria di Hawking ( presenza di altri sistemi solari simili al nostro, di altri possibili universi, l’idea che si possa raggiungere un equilibrio fra la teoria quantistica del mondo subatomico e quella della gravità) e conclude: «Nessuno di questi punti può servire come base per una discussione su Dio, perché le cose sono totalmente disgiunte. Mi sembrano affermazioni talmente irrazionali da far sì che qualsiasi teologo ne possa fare un solo boccone». E il biologo evoluzionista Telmo Pievani: «Sulla teoria fisica delle stringhe, invocata da Hawking non c’è affatto consenso. Se invece parliamo di evoluzionismo, certo, il processo della vitavnon sembra procedere secondo un progetto. Ma da qui a dimostrare che un’entità sovrannaturale non esiste ce ne corre. E se anche riuscissimo a conoscere i pensieri di Dio, questo non proverebbe che Lui non esiste».
IL CASO
Hawking: "Vi spiego perché
non è stato Dio a creare l’universo"
La teoria nel nuovo libro dello scienziato: "Il Big Bang deriva solo dalle leggi della fisica". Molte reazioni dei teologi, dopo questo annuncio, alla vigilia della visita del Papa
dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI *
LONDRA - L’universo ha bisogno di un Creatore? "No". La perentoria risposta arriva dal professor Stephen Hawking, l’astrofisico più famoso del mondo, considerato da molti l’erede di Newton, del quale ha per così dire ereditato la prestigiosa cattedra all’università di Cambridge. In un nuovo libro che esce in questi giorni, l’autore del best-seller internazionale Dal Big Bang ai buchi neri sostiene, sulla base di nuove teorie, che "l’universo può essersi creato da sé, può essersi creato dal niente" e dunque "non è stato Dio a crearlo".
La sua affermazione occupava ieri tutta la prima pagina del Times di Londra, come una sfida, l’ennesima, della scienza alla religione. "Così come Darwin ha smentito l’esistenza di Dio con la sua teoria sull’evoluzione biologica della nostra specie", commenta Richard Dawkins, biologo difensore dell’ateismo, "adesso Hawking la nega anche dal punto di vista della fisica". Nel suo libro più famoso, l’astrofisico aveva cercato di spiegare che cosa accadeva "prima" del Big Bang, ossia prima che nascesse il tempo, lasciando il quesito irrisolto. Il capitolo conclusivo conteneva un ragionamento che alcuni interpretarono come l’idea che Dio non fosse incompatibile con una comprensione scientifica dell’universo: scoprire cosa c’era prima Big Bang, arrivare a una "completa teoria" dell’universo - scriveva Hawking - "sarebbe il più grande trionfo della ragione umana, perché a quel punto conosceremmo la mente di Dio".
Ma nella sua nuova opera, intitolata The Grand Design (Il grande disegno o progetto) e scritta insieme al fisico americano Leonard Mlodinow, lo scienziato offre la risposta: anziché essere un evento improbabile, spiegabile soltanto con un intervento divino, il Big Bang fu "una conseguenza inevitabile delle leggi della fisica". Scrive Hawking: "Poiché esiste una legge come la gravità, l’universo può essersi e si è creato da solo, dal niente. La creazione spontanea è la ragione per cui c’è qualcosa invece del nulla, il motivo per cui esiste l’universo, per cui esistiamo noi". Nel libro, lo studioso predice inoltre che la fisica è vicina a formulare "una teoria del tutto", una serie di equazioni che possono interamente spiegare le proprietà della natura, la scoperta considerata il Santo Graal della fisica dai tempi di Einstein.
E’ tuttavia la sua asserzione che Dio non ha creato l’universo, e dunque non esiste, a suscitare eco e polemiche. "Se uno ha fede", osserva il professor George Ellis, docente di teologia alla University of Cape Town, "continuerà a credere che sia stato Dio a creare la Terra, l’Universo o perlomeno ad accendere la luce, a innescare il meccanismo che ha messo tutto in moto, prima del Big Bang o del presunto nulla che lo ha preceduto". Ma il campo dell’ateismo accoglie la pubblicazione del libro di Hawking come una vittoria della ragione e della scienza, da celebrare a due settimane dalla visita in Inghilterra di papa Benedetto XVI, che non sarà per niente d’accordo con Hawking.
Nel nuovo libro, l’astrofisico rivela che il riferimento alla "mente di Dio" nel suo precedente volume sul Big Bang era stato male interpretato. Hawking non ha mai creduto che scienza e religione fossero conciliabili. "C’è una fondamentale differenza tra la religione, che è basata sull’autorità, e la scienza, che è basata su osservazione e ragionamento", conclude. "E la scienza vincerà perché funziona".
* la Repubblica, 03 settembre 2010
Il nostro secolo senza Lumi
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 03.12.2000)
SI APRE con un saggio intitolato "Il contro Illuminismo" il libro Controcorrente di Isaiah Berlin uscito da poco nelle librerie in versione italiana (Adelphi) e si chiude con una cinquantina di pagine sul "Nazionalismo-negligenza passata e potenza presente": un inizio e una conclusione che colpiscono in questo storico delle idee che è stato uno dei pensatori più significativi del Novecento.
I due scritti sono stati composti uno a ridosso dell’ altro nei primi anni Settanta e sembrano di oggi tanto è intensa la loro attualità. L’ autore, almeno in apparenza, non esprime giudizi di valore propri né sulle tesi degli anti-illuministi né su quelle dei nazionalisti; si limita a scavare ed esporre il pensiero degli uni e degli altri, che appartengono in realtà al medesimo filone: il romanticismo dello "Sturm und Drang", la "Kultur" tedesca, l’ organicismo delle culture localistiche, dei retaggi, dei vincoli del sangue e della terra con le loro variazioni che vanno dal più spinto anarchismo individualistico al vitalismo e al culto della potenza e del carisma del Capo.
Berlin non prende partito: descrive come farebbe un magistrale entomologo, deidealizza le posizioni e ne mostra l’essenza profonda e le implicazioni che dal piano delle idee tracimano in quello dei fatti. Al nazionalismo, del quale acutamente segnala una ripresa vigorosa proprio in anni nei quali ne veniva sancita una quasi definitiva scomparsa, riserva anche critiche severe e preoccupazioni profonde; contemporaneamente però riconosce la forza di quelle idee, di quei movimenti di pensiero (e di fatti) che ha in Fichte e in Herder i suoi primi protagonisti e che si dipana quasi senza interruzioni dalla seconda metà del XVIII secolo fino ai giorni nostri.
La scelta dei temi di questo libro, il titolo che l’autore gli ha anteposto (Against the current), l’interpretazione che ne dà l’autore dell’introduzione, Roger Hansheer, che Berlin calorosamente ringrazia «per aver fornito un’esposizione così partecipe e limpida delle mie idee», mi fanno arrischiare un’ipotesi: che cioè il cuore di Berlin - se di cuore si può parlare discutendo della storia delle idee, ma perché no? - stia piuttosto dalla parte dei romantici che non da quella dei «philosophes».
A suffragare questa ipotesi ci sono due assenze nel libro che pesano quanto le presenze che vanno da Machiavelli a Vico a Sorel a Herzen e a tutta la vastissima platea dell’irrazionalismo volontaristico dell’Otto - Novecento. La prima e più vistosa assenza è proprio quella dell’Illuminismo e della triade dei suoi maggiori protagonisti francesi, Voltaire, Diderot, Rousseau, ai quali si deve aggiungere la triade inglese di Hume, Locke, Newton.
Berlin lascia il campo a quella vera e propria caricatura dell’Illuminismo costruita dai suoi avversari e diventata una «vulgata» rilanciata perfino dal Croce: e cioè il carattere del tutto astratto, utopistico, deterministico, illusoriamente calato dall’alto come una gabbia sulla spontaneità e la vitale differenza delle culture che sarebbe stato il tratto determinante della civiltà dei Lumi.
Mi si potrà obiettare che in una rassegna delle idee «controcorrente» non c’era posto per l’Illuminismo che rappresenta qui il bersaglio colpito e non la freccia che colpisce. Evidentemente è proprio questo il criterio che ha guidato la scelta dell’autore e la costruzione del libro.
Ma qui mi pare si debba cogliere un primo errore di Berlin o perlomeno un varco vistoso alla sua pretesa oggettività di analista: quando egli scriveva quei saggi la cultura dominante non era già più - e da gran tempo - il razionalismo dei Lumi bensì appunto il volontarismo irrazionale sboccato nell’esistenzialismo prima (subito dopo la seconda guerra mondiale) e nel nichilismo compiuto poi o tutt’al più nella cultura dell’Essere d’impronta heideggeriana. La scienza - è vero - e l’adorazione della tecnologia hanno assunto negli ultimi decenni del secolo appena trascorso un peso prima sconosciuto e la scienza è certamente razionalità e uso di metodiche deduttivo-induttive che fanno perno sul principio di causalità. In qualche modo l’egemonia del pensiero scientifico potrebbe testimoniare il riaccendersi della fiamma illuministica e quindi, per chi vuole produrre una saggistica «controcorrente», giustificherebbe la scelta dell’Illuminismo come bersaglio e del volontarismo irrazionale e romantico come la freccia contundente di cui si esaminano la natura, le ascendenze e le filiazioni ideali.
Ma, a ben guardare, le cose non stanno affatto così. Il pensiero scientifico contemporaneo è ormai ben lontano dal classicismo newtoniano ancorato alla causalità e al principio di contraddizione: ha scoperto invece la casualità, il relativismo, il principio di indeterminazione, la coesistenza di isole di elementi «ordinati» galleggianti in un ambiente di forze caotiche e permanentemente insidiate dal caos incombente. Sostenere che questo particolare tipo di pensiero scientifico derivi dall’Illuminismo dei «philosophes» e ne segnali una reviviscenza contro la quale valga la pena di sostenere l’irrazionalismo dei romantici rivalutandone la ribellione ad un’egemonia dominante è quantomeno azzardato.
D’altra parte l’operazione cultura di Isaiah Berlin nei confronti del pensiero dei Lumi trascura, secondo me, un aspetto di importanza capitale: dal punto di vista della storia delle idee se c’è stato un pensiero di rottura col passato, con le tradizioni consolidate da secoli, con i tabù, questo è stato il pensiero dei Lumi in tutte le sue variegate correnti. La «Kultur» romantica o più semplicemente arcaica del sangue e della terra ha dominato il mondo per secoli anzi per millenni in tutte le latitudini del pianeta e purtroppo lo domina tuttora.
Etichettare quel modo di sentire ancor prima che di pensare come un coraggioso recupero d’una concretezza storica smarrita e una liberazione salutare dalla gabbia «cimmerica» (come disse Goethe) apprestata dai «philosophes» è, questa sì, una caricatura storica che non va considerata con indulgenza ma demistificata con ferma consapevolezza.
Il mondo moderno soffre non per un eccesso, ma per un drammatico deficit di razionalità; la razionalità è minoritaria, la razionalità è controcorrente, la razionalità meriterebbe un’azione filosofica e storica di recupero. Ma soprattutto merita (e qui non uso un condizionale ottativo) che si faccia giustizia delle caricature con le quali la si vuole dipingere e la si riporti a quello che in effetti è stata nella storia del pensiero moderno che per le sue parti valide e tuttora vitali affonda nel Settecento dei «philosophes», nel Seicento di Descartes, di Spinoza e di Galileo, nel Cinquecento di Montaigne le sue radici più profonde e più nutritive.
Non è certo in un articolo di giornale che si possa affrontare un tema di questa vastità che del resto ha avuto i suoi interpreti, i suoi critici, gli storici che ne hanno narrato la nascita, lo sviluppo e gli effetti, i filosofi che ne hanno esaminato le derivazioni e l’influenza sul pensiero successivo.
Vorrei ricordare a questo proposito che Kant trae gran parte delle sue radici dalla cultura illuministica, che tutta la grande fase dell’economia classica, dai fisiocratici ad Adam Smith, a Ricardo e a Malthus, ne costituisce parte integrante e che lo stesso Nietzsche indica in Voltaire uno dei suoi punti di riferimento.
Lo dico qui di passata, ma mi ha colpito che nel saggio «Il contro Illuminismo» di Berlin si parli di tutti coloro, maggiori e minori, che illustrarono l’irrazionalismo, il volontarismo, il vitalismo, con una completezza ed una scrupolosità inappuntabili, ma il nome di Nietzsche, cioè di quella che apparentemente rappresenta la stella polare di quella vasta costellazione, viene fatto una sola volta quasi di sfuggita senza alcun approfondimento del suo pensiero e delle sue derivazioni. Nel saggio di Berlin Nietzsche è soltanto nominato in mezzo ad un lungo elenco di nomi. Questa lacuna non può certo essere casuale.
Evidentemente Berlin era consapevole che Nietzsche aveva uno spessore di pensiero tale da non poter essere trattato e classificato insieme agli Herder, agli Herzen e neppure insieme a Kierkegaard e a Schopenhauer che Berlin richiama più volte e verso il quale Nietzsche ha certamente un debito culturale molto notevole. Se il creatore di Zarathustra non viene arruolato da Berlin nel battaglione degli antiilluministi una ragione ci sarà. Mi limito qui a segnalare questa assenza sulla quale varrà la pena di ritornare.
Che cosa fu dunque l’Illuminismo nella sua essenza culturale e nella storia delle idee? In sintesi si può dire:
1. Segnò il discrimine culturale e politico tra l’ancien régime e il pensiero moderno nelle sue realizzazioni giuridiche, politiche, costituzionali e culturali.
2. Condusse la sua battaglia nella politica e nel costume avendo come bandiera la libertà individuale nell’ambito della legge e concepì la legge come un contratto sociale stipulato tra i membri di una comunità.
3. Il principio basilare dell’ordine giuridico-morale fu quello di limitare la libertà dei singoli quando essa dovesse invadere ed offendere la libertà altrui. 4. Propugnò l’ eguaglianza degli individui e il cosmopolitismo; ritenne che gli ordinamenti razionali potessero essere applicati a comunità di etnie e storie diverse sviluppando in esse l’ educazione e la tolleranza.
4.Non ebbe, nei suoi protagonisti di maggior rilievo e spessore, alcuna tentazione all’astrattezza e ad imporre a tutti gli uomini uno schema astratto e "cemiteriale" (Goethe). Né Voltaire, né Rousseau, né Hume pensarono mai nulla di simile e mai lo pensò Diderot che fu il massimo filosofo di quel gruppo. L’Encyclopédie, che rappresentò l’ ossatura di quella corrente di pensiero, fu anzi la prima e vera "scuola" che insegnò alla nascente opinione pubblica la concretezza dei problemi e la specificità dei temi, delle informazioni e dei progetti. Non a caso è su quella scuola che si formarono Beccaria, i fratelli Verri e tutta la grande corrente illuministica italiana.
5. Predicò la tolleranza, il rispetto delle altrui opinioni, l’ abolizione dei privilegi di ogni genere di casta e di sangue, la sostituzione del potere assoluto con il potere democratico e l’ equilibrio tra vari poteri indipendenti tra di loro.
6. Lottò contro l’ uso temporalistico della religione e contro le sue pretese di assolutezza e di esclusivo possesso e magistero della verità. È falso tuttavia che gli illuministi esaurissero il mondo delle idee nella ragione e cancellassero con un tratto di penna l’ ombra del mistero. Non ci sono dichiarazioni e argomentazioni del genere nei maggiori dei suoi esponenti.
Ho già detto, e ancora me ne scuso, che in questa sede non posso che limitarmi a ricordare pochi aspetti essenziali. Ma mi premeva qui di segnalare che, purtroppo, essere illuministi oggi è il vero modo di mettersi contro corrente rispetto al pensiero e alla prassi comune e dominante. Il fatto che un pensatore del livello di Berlin non se ne sia reso conto ed abbia anzi, in qualche modo, reso testimonianza del contrario mi ha molto stupito e mi è sembrato opportuno darne segnalazione. Spero che altri riprendano il tema e lo approfondiscano a sufficienza.
Giusto o sbagliato: Come decidere?
Opinioni diverse
Dopo avere preso in esame gli insegnamenti di illustri pensatori vissuti nel corso dei secoli, un’enciclopedia afferma che, dal tempo del filosofo greco Socrate al XX secolo, ci sono stati “ripetuti dibattiti su cosa sia il bene e quale sia la norma su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato”. - Encyclopædia Britannica.
Per esempio i sofisti, un importante gruppo di filosofi greci del V secolo a.E.V., insegnavano che le norme su cosa è giusto e cosa è sbagliato sono stabilite dall’opinione comune. A uno di questi sofisti sono attribuite le parole: “Ciò che a ciascuna città sembra giusto e bello, così è anche per essa, finché lo riconosce tale”. Usando questo metro Jodie, menzionato nell’articolo precedente, avrebbe dovuto tenersi il denaro, dato che la maggioranza delle persone della sua comunità, o “città”, probabilmente se lo sarebbe tenuto.
Immanuel Kant, illustre filosofo del XVIII secolo, la pensava diversamente. Un periodico dice: “Immanuel Kant e altri come lui . . . diedero risalto al diritto dell’individuo di fare le proprie scelte”. (Issues in Ethics) Secondo la filosofia kantiana, quello che Jodie faceva era affar suo purché non violasse i diritti altrui. Non doveva permettere che fosse l’opinione della maggioranza a stabilire le sue norme.
Come risolse il dilemma Jodie? Scelse una terza possibilità. Mise in pratica l’insegnamento di Gesù Cristo, le cui norme morali sono state elogiate da cristiani e no. Gesù insegnò: “Tutte le cose dunque che volete che gli uomini vi facciano, anche voi dovete similmente farle loro”. (Matteo 7:12)
Con sorpresa della cliente Jodie le consegnò gli 82.000 dollari. Quando gli fu chiesto perché non li avesse presi, Jodie spiegò che era testimone di Geova e aggiunse: “Quel denaro non mi apparteneva”. Considerava importanti le parole di Gesù riportate nella Bibbia in Matteo 19:18: “Non devi rubare”.
L’opinione comune è una guida sicura?
Alcuni probabilmente direbbero che è stato stupido da parte di Jodie essere così onesto. Ma l’opinione comune non è una guida sicura. Per esempio, il fatto di vivere in una società dove la maggioranza credeva che non ci fosse nulla di male nei sacrifici di bambini, come avveniva in alcune società del passato, li avrebbe resi una cosa giusta? (2 Re 16:3) Che dire se foste nati in una società che accettava il cannibalismo? Questo avrebbe forse significato che mangiare carne umana non fosse realmente sbagliato? Una cosa non è giusta solo perché sono in tanti a farla. Molto tempo fa la Bibbia mise in guardia contro questa trappola: “Non devi seguire la folla per fini empi”. - Esodo 23:2.
Gesù Cristo indicò un’altra ragione per cui dovremmo stare attenti a non adottare l’opinione comune quale guida su cosa è giusto e cosa non lo è. Egli rivelò che Satana è “il governante del mondo”. (Giovanni 14:30; Luca 4:6) Satana si serve della sua posizione per sviare “l’intera terra abitata”. (Rivelazione 12:9) Perciò se stabilite le vostre norme su cosa è giusto e cosa è sbagliato unicamente in base a ciò che è comune potreste adottare il punto di vista di Satana sulla moralità. Ovviamente questo sarebbe tragico.
(Con tutto il rispetto e il bene del mondo)
Caro John
La posizione di Kant è diversa ed è molto più consonante con il messaggio evangelico e la Costituzione della nostra Repubblica (art. 3) - e la tua terza possibilità (cum grano salis).
Per riflettere meglio, mi permetto di citarti a riguardo delle tue riflessioni una sua considerazione-indicazione dalla "Critica della ragion pratica":
"[...] la legge morale è per la volontà di un essere perfettissimo una legge della santità, ma per la volontà di ogni essere finito razionale è una legge del dovere [...] Noi siamo sotto una disciplina della ragione [...] Dovere e obbligo sono le denominazioni che dobbiamo dare soltanto alla nostra relazione con la legge morale. Noi siamo bensì membri legislativi di un regno dei costumi, possibile mediante la libertà rappresentata a noi mediante la ragion pratica come oggetto di rispetto, ma nello stesso tempo ne siamo i sudditi, non il sovrano, e il disconoscere il nostro grado inferiore come creature, e il rifiuto presuntuoso dell’autorità della legge santa, è già una infedeltà alla legge secondo lo spirito, quand’anche se ne osservi la lettera".
"Ma con ciò - continua Kant - s’accorda benissimo la possibilità di un comandamento come questo: Ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo tuo come te stesso" E aggiunge in nota: "Con questa legge è in forte contrasto il principio della propria felicità, di cui alcuni vogliono fare il principio supremo della moralità. Questo suonerebbe così: Ama te stesso sopra ogni cosa, ma Dio e il prossimo tuo per amor di te stesso" (dal cap. terzo del L. I - Analitica, "Dei moventi della ragion pura pratica").
Essere giusti con noi stessi - come con Kant - è difficile, ma è l’unica via per non ... morire a noi stessi, agli altri, e al "regno della grazia" (Kant). Ricordiamo: GRAZIA (gr.: "Charis") di DIO ("Deus charitas est": 1 Gv., 4.8).
M. grazie per la tua benevole attenzione e moltissimi saluti.
Buone vacanze,
Federico La Sala
La posizione di Kant è diversa!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Allora! fra il dire e il fare c’e’ in mezzo il mare....Io aggiungo...Non un mare ma! UN"OCEANO, INCLUSO UN INTERO CONTINENTE.
Una caratteristica prettamente umana
Jodie è proprietario di un’agenzia che si occupa di valutare e vendere beni mobili e immobili lasciati in eredità. Sta aiutando una donna a inventariare gli oggetti della casa appartenuta alla sorella defunta. Frugando attorno al caminetto trova due vecchie cassette di attrezzi da pesca. Guarda dentro una di esse e non crede ai suoi occhi. Avvolte nella stagnola ci sono mazzette da 100 dollari, per un totale di 82.000 dollari (circa 68.000 euro) in contanti! Jodie è solo nella stanza. Cosa deve fare? Prendere la cassetta e tacere o dire alla cliente che ha trovato quel denaro?
IL DILEMMA di fronte al quale si trova Jodie mette in evidenza una qualità che ci distingue dagli animali. Un’enciclopedia afferma: “Una caratteristica peculiare degli esseri umani è quella di fare domande ponderate su ciò che dovremmo o non dovremmo fare”. (The World Book Encyclopedia) Se un cane affamato vede un pezzo di carne sul tavolo non si chiede se deve mangiarlo o meno. Ma Jodie ha la capacità di soppesare le implicazioni morali della sua decisione. Tenersi i soldi equivale a rubare, ma è improbabile che lo scoprano. D’altro canto il denaro non gli appartiene, ma la cliente ne ignora l’esistenza. Inoltre, dove vive Jodie la maggioranza delle persone lo considererebbe stupido se consegnasse il denaro alla cliente.
Cosa fareste se vi trovaste nei panni di Jodie? Il modo in cui rispondete a questa domanda dipende dal codice morale, o etico, che avete deciso di seguire nella vostra vita.
Cos’è l’etica?
L’etica è definita “dottrina o indagine speculativa intorno al comportamento pratico dell’uomo di fronte ai due concetti del bene e del male”. (Dizionario della lingua italiana, Devoto-Oli) Lo scrittore Eric J. Easton dice: “I termini ‘etica’ e ‘morale’ hanno lo stesso significato basilare. Il primo deriva dal greco (ethikòs) e il secondo dal latino (moralis), ed entrambi si riferiscono all’autorità della consuetudine e della tradizione”.
Per molto tempo è stata principalmente la religione a stabilire le norme morali da seguire nella vita. La Parola di Dio, la Bibbia, ha influenzato molte società. Tuttavia sempre più persone in tutto il mondo respingono le varie norme religiose considerandole poco pratiche e rifiutano il codice morale della Bibbia ritenendolo superato. Cos’ha riempito il vuoto? Un libro osserva che “il pensiero laico ha . . . sconfitto l’autorità che in precedenza era appannaggio della religione”. (Ethics in Business Life) Invece di rivolgersi a fonti religiose molti chiedono aiuto a studiosi di etica. L’esperto di bioetica Paul McNeill dice: “Credo che gli esperti di etica siano i sacerdoti di oggi. . . . Ora la gente parla in termini di etica là dove un tempo forse parlava in termini di religione”.
Quando dovete prendere decisioni difficili, come distinguete cosa è giusto e cosa è sbagliato? Le vostre norme etiche sono determinate da Dio o da voi?
(Secondo, Confucio...Quando un’Italiano non sa’ una cosa! COSA FA’? (L" INSEGNA).
(Meno male che sono diventato un Testimione di Geova e che; sono diventato, inoltre un (EMIGRATO INTEGRATO)
Spero che questo sia un bene per me ma! se qualcuno lo considera un danno non avvantaggioso allora io rispetto la sua opinione....contento tu contenti TUTTI...Tanto io sono a piu’ di 10.000 mila kilometri da voi....o vorreste che vada piu’ lontano!!! Dove sono i pinguini e magari poi quel pinguino che cammina dietro a me mi dice: Ma! non ti sei mai accorto del tuo modo ridicolo di camminare!!!
(Se lo vogliamo o no’...dovremmo renderci conto che ci troviamo a fare guerra con le parole....ma! i fatti sono fatti e modo di vivere con un elevato stato morale...o basso se lo vogliamo e prima o poi ne pagheremo le conseguenze.
IO, Professore La Sala non parlo e mi rivolgo solo a lei....comunque se vuole si faccia posto e si metta in fila!!!.
(Con tutto il rispetto e il bene del mondo....finche’ non ci constringono di metterci in fila ( Come figli russi o americani, oppure italiani).
Caro John
Mi dispiace ripeterlo, ma è’ detto: Ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo tuo come te stesso. Questo messaggio del grande comandamento non vuol dire e non significa: Ama te stesso sopra ogni cosa, e Dio e il prossimo tuo per amor di te stesso.
Ripeto: Essere giusti con noi stessi - come con Kant - è difficile, ma è l’unica via per non ... morire a noi stessi, agli altri, e al "regno della grazia" (Kant). Ricordiamo: GRAZIA (gr.: "Charis") di DIO ("Deus charitas est": 1 Gv., 4.8).
Ancora m. grazie per la tua benevole attenzione e moltissimi saluti.
E, ancora: Buone vacanze,
Federico La Sala
“Dio è amore”
Ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo tuo come te stesso. Professore La Sala...lei vuole dire che 2+2 =4! perche’ io questo gia’ lo sapevo...sono da quaranta anni un Testimone di Geova e sempre stato attivo e istruttore per quelli che devono imparare a parlare del Regno di Dio avvenire e la speciale "Grazia" o l’immeritata benignita’ di accettare e credere che Dio ha’ mandato il suo primo genito e Unigenito Figlio Cristo Gesu’ per redimerci dei nostro peccati; (Restando sempre inperffetti e di peccare involontariamente ma non tanto spesso come tutto il resto del mondo che non accetta di seguire le orme di Cristo nelle sua vita di ogni giorno).
Io Professore La Sala se avessi bisogno di un’operazione a cuore aperto avrei piu’ fiducia di lei che mi operasse piu’ degli altri!!!!!!!!
“Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore”. - 1 GIOVANNI 4:8.
TUTTI gli attributi di Geova sono genuini, perfetti e attraenti, ma il più attraente di tutti è l’amore. Niente ci avvicina di più a Geova. Siamo felici che l’amore sia anche la sua qualità dominante. Come facciamo a saperlo?
La Bibbia dice riguardo all’amore qualcosa che non dice mai riguardo agli altri principali attributi di Geova. Non dice che Dio è potenza né che Dio è giustizia e neanche che Dio è sapienza. Egli possiede queste qualità e ne è la fonte ultima. Dell’amore, invece, viene detto qualcosa di più profondo in 1 Giovanni 4:8: “Dio è amore”. L’amore è molto profondo in Geova. È l’essenza stessa o la natura di Dio. In genere si potrebbe ragionare in questo modo: la potenza permette a Geova di agire, la giustizia e la sapienza determinano il suo modo di agire, ma è l’amore che lo motiva ad agire. E l’amore è sempre presente nel modo in cui si serve degli altri attributi.
Spesso si dice che Geova è la personificazione stessa dell’amore. Quindi se vogliamo saperne di più riguardo all’amore, dobbiamo conoscere Geova.
Vi do un nuovo comandamento, che vi amiate gli uni gli altri; come vi ho amati io, che anche voi vi amiate gli uni gli altri.
"Da questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore fra voi”.
“Tutte le cose dunque che volete che gli uomini vi facciano, anche voi dovete similmente farle loro; questo è infatti ciò che significano la Legge e i Profeti. 13 “Entrate per la porta stretta; perché ampia e spaziosa è la strada che conduce alla distruzione, e molti sono quelli che vi entrano;
“E certamente diverranno miei”, ha detto Geova degli eserciti, “nel giorno in cui produrrò una speciale proprietà. E di sicuro mostrerò loro compassione, proprio come un uomo mostra compassione al figlio suo che lo serve. E voi certamente vedrete di nuovo [la distinzione] fra il giusto e il malvagio, fra chi serve Dio e chi non lo ha servito”.
Ecco perche’ L’aggente immobigliare-Joedy ha’ restituito i soldi ...non sono i miei da tenermi disse...applicando il sesto senzo O la terza cosa da fare; rifitando l’opinione publica e quello che tutti farebbero....cose dell’altro mondo vero Professore...come disse Gesu’ "Voi non fate parte del mondo; riferendosi alla povera e basso livello di vita che la maggiranza conduce senza alcun rimorso di coscienza; la quale non e’ stata mai addestrata tramite l’accurata conoscenza con perspicacia della parola di Dio.
Montelbano sono! Tu l’avresti restituiti gli $82.000!
Caro John
. Lo so che non sei (ancora) John e che sei "Montalabano"! Ma questa dichiarazione non fa proprio onore al John che dice di camminare sulla strada dell’amore ("charitas")!
Come ha detto Kant (mi permetto ancora di ripetere), "il disconoscere il nostro grado inferiore come creature, e il rifiuto [ o l’accoglimento furbo e] presuntuoso dell’autorità della legge santa, è già una infedeltà alla legge secondo lo spirito, quand’anche se ne osservi la lettera".
Ripeto. Essere giusti con noi stessi - come con Kant - è difficile, ma è l’unica via per non ... morire a noi stessi, agli altri, e al "regno della grazia" (Kant). Ricordiamo: GRAZIA (gr.: "Charis") di DIO ("Deus charitas est": 1 Gv., 4.8).
M. grazie ancora per la tua benevole attenzione e moltissimi saluti.
Buone vacanze,
Federico La Sala
Ripeto. Essere giusti con noi stessi - come con Kant - è difficile, ma è l’unica via per non ... morire a noi stessi, agli altri, e al "regno della grazia"
"Da dove vengono le guerre e da dove vengono le lotte fra voi? Non vengono da questo, cioè dalle vostre brame di piacere sensuale che causano un conflitto nelle vostre membra? 2 Voi desiderate, eppure non avete. Continuate ad assassinare e a concupire e non potete ottenere. Continuate a combattere e a far guerra. Non avete perché non chiedete. 3 Chiedete e non ricevete, perché chiedete per uno scopo empio, per spendere nelle vostre brame di piacere sensuale. 4 Adultere, non sapete che l’amicizia del mondo è inimicizia con Dio? Chi perciò vuol essere amico del mondo si costituisce nemico di Dio. 5 O vi sembra che la scrittura dica senza scopo: “Con tendenza all’invidia lo spirito che ha preso a risiedere dentro di noi continua ad avere ardente desiderio”? 6 Comunque, l’immeritata benignità che egli dà è maggiore. Quindi dice: “Dio si oppone ai superbi, ma dà immeritata benignità (La grazia) agli umili”. 7 Sottoponetevi perciò a Dio; ma opponetevi al Diavolo, ed egli fuggirà da voi. 8 Accostatevi a Dio, ed egli si accosterà a voi. Mondate le vostre mani, o peccatori, e purificate i vostri cuori, o indecisi. 9 Siate nell’afflizione e fate cordoglio e piangete. Il vostro riso si muti in lutto, e la [vostra] gioia in abbattimento. 10 Umiliatevi agli occhi di Geova, ed egli vi esalterà. e di conoscere l’amore del Cristo che sorpassa la conoscenza, perché siate ripieni di tutta la pienezza che Dio dona.
"Soprattutto, smettete di giurare, sì, sia per il cielo che per la terra o con qualsiasi altro giuramento. Ma il vostro Sì significhi Sì, e il vostro No, No, affinché non cadiate sotto giudizio".
"Togliervi la vecchia personalità che si conforma alla vostra condotta di un tempo e che è corrotta secondo i suoi desideri ingannatori; 23 e ad essere rinnovati nella forza che fa operare la vostra mente, 24 e a rivestire la nuova personalità che fu creata secondo la volontà di Dio in vera giustizia e lealtà".
"Affinché siate pienamente capaci di afferrare mentalmente con tutti i santi ciò che è l’ampiezza e la lunghezza e l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore del Cristo che sorpassa la conoscenza, perché siate ripieni di tutta la pienezza che Dio dona".
) Finché vengo, continua ad applicarti alla lettura pubblica, all’esortazione, all’insegnamento. 14 Non trascurare il dono che è in te, che ti fu dato mediante predizione e quando il corpo degli anziani impose le mani su di te. 15 Pondera queste cose; sii assorto in esse, affinché il tuo progresso sia manifesto a tutti".
è difficile, ma è l’unica via per non ... morire a noi stessi, agli altri, e al "regno della grazia"
Vede Professore La Sala lei continuatamente dice: e’ difficile...Allora vuole fare le cose come vuole lei...si rifiuta di ammettere e neanche crede che; vale la pena provarci e VIVERE non morire come vuole lei...per poi tramite il gratuito dono della grazia di Dio saremo salvati. Non fa’ senzo mi creda Professore Non e’ raggionevole come non e’ stato raggionevole che qualcuno abbia detto che; Eluana Ungaro si sarebbe svegliata dalla coma di 17 anni; si sarebbe sposata e avuto figli...Mi creda non era scientificamente raggionevole allora come non e’ raggionevole e’ il fatto che come dice lei e’ troppo difficile Non morire! Certo che siamo imperfetti e pecchiamo e moriamo ma c’e’ da vedere come pecchiamo perche’ lo facciamo e perche’ vogliamo morire quando esiste una possibilita’ di vivere per sempre su’ questa terra, quando sara’ trasformata in un bel Paradiso per adempiere il proposito di Dio per una nuova generazione, una generazione che sara’ riscattata dalla morte di Cristo Gesu’.
Sempre con la stessa stima Professore e rispetto e con tutto il bene del mondo e un po’ sale e pepe.
Caro John
Ti prego (ancora) di rileggere: "Noi siamo bensì membri legislativi di un regno dei costumi, possibile mediante la libertà rappresentata a noi mediante la ragion pratica come oggetto di rispetto, ma nello stesso tempo ne siamo i sudditi, non il sovrano, e il disconoscere il nostro grado inferiore come creature, e il rifiuto presuntuoso dell’autorità della legge santa, è già una infedeltà alla legge secondo lo spirito, quand’anche se ne osservi la lettera".
Tieni presente che Kant si chiama "Immanuel" e che ha scritto anche su "la pace perpetua". La possibilita’ di vivere per sempre su questa terra, su una terra nuova ("Ge-nova") , trasformata in un bel Paradiso (un "regno di grazia"), può andare totalmente in fumo, se noi - non Cristo - non moriamo a noi stessi e agli altri e non siamo capaci di ri-nascere a noi stessi, agli altri, e alla stessa Terra!!! Kant, come Dante, è scesso all’inferno per capirlo.
Cristo ci ha insegnato la strada, ma se ci vogliono 82.000 dollari per non cadere in tentazione (ai tempi di Gesù bastavano 29 denari) dove vogliamo andare, se non restare nella vecchia terra?!
Sì, la terra ("geo-") va! Ma dove va? Verso la pace perpetua o "la pace perpetua"?!
Ripeto. Essere giusti con noi stessi - come con Kant - è difficile, ma è l’unica via per non ... morire a noi stessi, agli altri, e al "regno della grazia" (Kant). Ricordiamo: GRAZIA (gr.: "Charis") di DIO ("Deus charitas est": 1 Gv., 4.8).
M. grazie ancora per la tua benevole attenzione e moltissimi saluti.
Federico La Sala
In una società individualistica e narcisistica come la nostra, in cui tutti parlano sempre di più in prima persona singolare, può appari¬re paradossale chiedersi «che fine ha fatto l’io?».
Le scienze cognitive contemporanee, ancora più radical¬mente di Freud e della filosofia nove¬centesca, hanno infatti messo in questione l’unità, la razionalità, la coerenza e la capacità di governare l’azione dell’io. Danni cerebrali di piccola entità possono colpire selet¬tivamente le nostre capacità mentali, mentre molti esperimenti mostrano che nel cervello sono in azione si¬multanea varie agenzie cognitive che si contendono il centro della co¬scienza.
E almeno due sistemi alter¬nativi guidano i nostri processi deci¬sionali. Uno è veloce, istintivo, auto¬matico e poco flessibile; l’altro è più lento, sottoposto al controllo consa¬pevole, più duttile e raffinato. Se bi¬sogna spostarsi all’istante perché ci sta cadendo un vaso in testa, è me¬glio affidarsi al primo; se vogliamo decidere al meglio in un contesto di interazione sociale, risulta migliore il secondo.
Ma, spesso, si manifestano cortocircuiti che ci rendono incoe¬renti o irrazionali agli occhi degli al¬tri.
Che dire poi della li¬bera volontà, che riteniamo al massi¬mo influenzata dai condizionamenti culturali, dalle mode e dalla pubbli¬cità? In laboratorio, i neuroscienziati ci indicano invece che le nostre deci¬sioni sono prese dal cervello ben pri¬ma che ce ne rendiamo conto, dis¬solvendo così la nostra idea di libertà e lo stesso ruolo attivo dell’io. Sono soltanto alcune delle risultanze che fanno parlare di una ’scomparsa’ del soggetto personale come lo co¬noscevamo.
La forma dialogica del libro rende facilmente accessibile l’immersione in un ambi¬to di ricerca che sta rivoluzionando l’immagine di noi stessi. E che pone anche interrogativi forti e pressanti a chi non ritenga che l’unica certezza identitaria rimastaci sia il Dna. Come scrive Di Francesco, infatti, riferen¬dosi al concetto di io agostiniano, per il quale la verità è nel cuore dell’uo¬mo, dove si trova anche Dio, «se ci muoviamo con le risorse della scien¬za e della filosofia, questo tipo di ve¬rità resta fuori dal discorso».
“AMOREVOLE BENIGNITA’” “Ti ho’ amato con un amore a tempo indefinito. Percio’ ti ho’ attratto con amorevole benignita’.
I Discepoli di Serge Wellens *
Pur se! anche loro erano fatti di Polvere-Fango e Sabbia; con sentimenti e imperfezioni come tutti gli altri...Senza alcuna ombra del dubbio! Andavano Avanti. “Con la loro tristezza e la loro fame; sia fisica che “spirituale” e con tutte le loro tentazioni che; l’imperfezione gli recava e la loro fatica erano là per ascoltare...Con discernimento per imparare a lampo e mettere in pratica al “campo” la parola del panettiere, Gesu’. Il suo stesso corpo; simboleggiava il pane. Era il miracolo del pane e I cinque pesciolini che; un ragazzo s’aveva portato, per andare appresso al Maestro e mangiando, “mangiando”;Il vero pane dal cielo! “Chi si nutre della mia carne e beve il mio sangue rimane unito a me, e io unito a lui”. “Questo discorso è offensivo; chi lo può ascoltare?” “Molti dei suoi discepoli se ne tornarono alle cose [lasciate] dietro e non camminavano più con lui. Perciò Gesù disse ai dodici: “Non ve ne volete andare anche voi, vero?” 68 Simon Pietro gli rispose: “Signore, da chi ce ne andremo? Tu hai parole di vita eterna;
Invictus William Henley
Dal profondo della notte che mi avvolge, buia come il pozzo più profondo che va da un polo all’altro,, ringrazio quali che siano gli dei per la mia inconquistabile anima.
Nella morsa delle circostanze, non mi sono tirato indietro, ne’ ho pianto. Sotto i colpi d’ascia della sorte, il mio capo sanguina, ma non si china.
Più in là, questo luogo di rabbia e lacrime appare minaccioso ma l’orrore delle ombre, e anche la minaccia degli anni non mi trova, e non mi troverà spaventato.
Non importa quanto sia stretta la porta... quanto piena di castighi la vita. Io sono il padrone del mio destino. Io sono il capitano della mia anima.
Fu disprezzato, e non lo tenemmo in nessun conto. 4 Veramente portò lui stesso le nostre infermità; e in quanto alle nostre pene, se le caricò. Ma noi stessi lo considerammo come piagato, colpito da Dio e afflitto. 5 Ma egli era trafitto per la nostra trasgressione; era schiacciato per i nostri errori. Il castigo per la nostra pace fu su di lui, e a causa delle sue ferite c’è stata per noi guarigione. 6 Come pecore abbiamo tutti errato; ci siamo diretti ciascuno verso la sua propria via; e Geova stesso ha fatto imbattere in lui l’errore di tutti noi. 7 Egli fu messo alle strette, e si lasciava affliggere; ciò nonostante non apriva la bocca. Era portato proprio come una pecora al macello; e come un’agnella che davanti ai suoi tosatori è divenuta muta, neanche apriva la bocca. 8 A causa della restrizione e del giudizio fu tolto; e chi si preoccuperà anche [dei particolari] della sua generazione? Poiché fu reciso dal paese dei viventi. A causa della trasgressione del mio popolo ebbe il colpo. 9 E farà il suo luogo di sepoltura perfino con i malvagi, e con la classe del ricco alla sua morte, malgrado non avesse operato violenza e non ci fosse inganno nella sua bocca.
“Veramente vi dico che sarà difficile a un ricco entrare nel regno dei cieli. 24 Ancora vi dico: È più facile a un cammello passare per la cruna di un ago che a un ricco entrare nel regno di Dio”. 25 Udito ciò, i discepoli espressero grandissima sorpresa, dicendo: “Chi può realmente essere salvato?” 26 Guardandoli in faccia, Gesù disse loro: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio ogni cosa è possibile”.
"Che dunque? Se alcuni non hanno espresso fede, renderà forse la loro mancanza di fede senza efficacia la fedeltà di Dio? 4 Non sia mai! Ma sia Dio trovato verace, benché ogni uomo sia trovato bugiardo, come è scritto: “Affinché tu sia provato giusto nelle tue parole e vinca quando sei giudicato”.
Professore La Sala ...se lei ritiene smettere la conversazione lo faccia pure...Io mi sto’ grattando la testa e tirando i capelli...almeno per quei quattro che ci sono rimasti...Ma poi non lo faccio comunque...cercando di leggere il suo penziero ma: mi e’ difficile svelare il suo scopo e dove vuole arrivare dicendo : E’ DIFFICILE! Per esempio milioni di persone giocano per vincere e sanno che E’ Difficile vincere ma! giocono lostesso....Perche’ Lei non prova ad essere padrone della sua anima e si sforzi di fare il meglio del meglio pur di (SPERARE) d’acquistrare, piu’ importante e duratura dell’approvazione che la scienze, con i suoi multeplici (DUBBI) e la filosofia che; ( ci mancha sempre qualche cosa nel quadro) gli possa offrire. l’approvazione di Dio.
Possibile professore che lei considera l’azione di giuda con il prendersi i 30 denari dalla cassa delle contribuzioni del Tempio (PIACEVOLE) e che Lei stesso farebbe la stessa cosa? Certo che tanti lo farebbero e tanti lo fanno ogni istante di secondo del tempo dell’orologgio ma noi lo vogliamo fare pure?
Giuda era buono (prima) quando Gesu’ lo chiamo ma POI! Come un perfetto cristallo se ti cade dalla mano si rompe.
SULLA "CRITICA DELLA RAGION PURA", LA TEOLOGIA, E IL FANATISMO. UNA CONSIDERAZIONE (E UN CONSIGLIO) DI IMMANUEL KANT:
"AL CONTRARIO CON LA CRITICA SI DA’ AL NOSTRO GIUDIZIO IL CRITERIO COL QUALE SI PUO’ SICURAMENTE DISTINGUERE il sapere ["Wissen"] dalla sua illusoria parvenza ["Scheinwissen"]; ed essa, portata nella metafisica al pieno suo uso, costituisce un modo di pensare che estende poi il suo benefico influsso ad ogni altro uso della ragione, cominciando dall’ispirare il vero spirito filosofico. E lo stesso servizio che rende alla teologia, rendendola indipendente dal giudizio della speculazione dogmatica e ponendola così del tutto al sicuro dagli attacchi degli oppositori, non è certo da giudicarsi piccolo. Giacché la metafisica comune, sebbene le promettesse grande aiuto, non poteva poi mantenere le promesse, ed inoltre, chimando a suo appoggio la dogmatica speculativa, non aveva fatto altro che armare nemici contro se stessa.
Il fanatismo (Schwarmerei), che non può sorgere in una età illuminata, se non nascondendosi sotto una metafisica scolastica, sotto la cui protezione può arrischiarsi a delirare quasi con ragione, è dalla filosofia critica, scacciato da questo ultimo rifugio, e soprattutto per un insegnante di metafisica, non può non essere di grande importanza il poter dire, con universale consenso, che ora finalmente ciò che egli presenta, è anche una scienza e che si apporta così un reale vantaggio alla comunità" (I. Kant, Prolegomeni ad ogni metafisica futura che si presenterà come scienza, Laterza, Bari 1967, pp. 200-201).
La scienza non ha rapporti con la verità, perché ciò che essa produce sono solo proposizioni "esatte", cioè "ottenute da (ex actu)" le premesse che sono state anticipate in via ipotetica. Che poi l’ipotesi sia confermata dall’esperimento dice solo che noi conosciamo la validità operativa di quell’ipotesi, non la natura della cosa indagata con quell’ipotesi, perché, interrogata, la cosa non mostra il suo volto, ma semplicemente risponde all’ipotesi anticipata.
La fede, a sua volta, non ha a che fare con la verità perché, lo dice Tommaso d’Aquino commentando Paolo di Tarso, la fede, a differenza della scientia espressa dalla ragione umana, conduce in captivitatem omnem intellectum, cioè rende l’intelletto prigioniero di un contenuto che non è evidente, e che quindi gli è estraneo (alienus), sicché l’intelletto è inquieto (nondum est quietatus) di fronte alla fede, nei cui riguardi si sente in infirmitate et timore et tremore multo. La fede, inoltre "crede" proprio perché non "sa".
Io non credo che due più due faccia quattro perché lo so. Posso invece credere nell’immortalità!!! dell’anima, proprio perché non lo so. E allora tra scienza e fede non c’è conflitto, perché la scienza risponde all’esigenza di una "spiegazione" del mondo, mentre la fede risponde all’esigenza di reperire un "senso" alla nostra vita e al nostro essere nel mondo.
La fede infatti, ce lo ricorda Pascal, non saprebbe cosa farsene di un Dio raggiungibile con gli strumenti della sola ragione, perché ciò di cui va alla ricerca è, nella versione della fede cristiana, "il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe". Quindi un Dio che parla al cuore umano nei termini di uno sguardo accogliente, di una protezione che ci rassicuri nella precarietà dell’esistenza, nella speranza di sopravvivenza e di salvezza. Di tutto questo la scienza non si occupa, perché il suo scopo non è quello di reperire un senso per la nostra esistenza, ma di pervenire alla conoscenza sempre più approfondita del mondo.
Se i riferimenti della fede e della scienza sono così diversi e tra loro distanti, non c’è un piano su cui possono confliggere, se non per coloro che vogliono affidare all’una o all’altra entrambi i compiti: quello di spiegare il mondo e di reperire un senso. Questa pretesa, nel caso della scienza, si chiama, come scrive Jaspers, "superstizione scientifica" e nel caso della fede "negazione della ragione".
(Solo ad una piccola percentuale...indeterminata; ma piccola...e questa e’ un’altra prova che nessuno lo sa).
(Un caloroso BENVENUTA alla SCIENZA e MOLTO apprezzata....MAH! la FEDE c’e’ sempre stata).
La grandezza di un uomo, disse lo storico H. G. Wells, si può misurare ‘da ciò di cui è stato l’ispiratore, e dall’avere indotto altri a pensare seguendo criteri interamente nuovi e con un vigore che non si è spento con lui’. Wells, pur non professandosi cristiano, ammise: “Giudicato con questo metro, Gesù supera tutti”.
Alessandro Magno, Carlo Magno (chiamato “Magno” già dai suoi contemporanei) e Napoleone Bonaparte furono potenti sovrani. Con la loro formidabile presenza esercitarono grande influenza sui loro sudditi. Eppure Napoleone avrebbe detto: “Gesù Cristo ha influito ed esercitato autorità sui Suoi sudditi senza la Sua presenza fisica e visibile”.
Distinti saluti; a Lei Professore che un ottimo lavoro e a tutto lo staff con stima ed apprezzamento per il fatto che tramite (La voce di Fiore on line la mia routine di studio sia aumentata ingrandita la conoscenza e raffinata come aggiungere piu’ sfaccettature a un diamante per renderlo piu’ prezioso).
"AL CONTRARIO CON LA CRITICA SI DA’ AL NOSTRO GIUDIZIO IL CRITERIO COL QUALE SI PUO’ SICURAMENTE DISTINGUERE il sapere ["Wissen"] dalla sua illusoria parvenza ["Scheinwissen"]; ed essa, portata nella metafisica al pieno suo uso, costituisce un modo di pensare che estende poi il suo benefico influsso ad ogni altro uso della ragione, cominciando dall’ispirare il vero spirito filosofico. E lo stesso servizio che rende alla teologia, rendendola indipendente dal giudizio della speculazione dogmatica e ponendola così del tutto al sicuro dagli attacchi degli oppositori, non è certo da giudicarsi piccolo. Giacché la metafisica comune, sebbene le promettesse grande aiuto, non poteva poi mantenere le promesse, ed inoltre, chimando a suo appoggio la dogmatica speculativa, non aveva fatto altro che armare nemici contro se stessa.
Il fanatismo (Schwarmerei), che non può sorgere in una età illuminata, se non nascondendosi sotto una metafisica scolastica, sotto la cui protezione può arrischiarsi a delirare quasi con ragione, è dalla filosofia critica, scacciato da questo ultimo rifugio, e soprattutto per un insegnante di metafisica, non può non essere di grande importanza il poter dire, con universale consenso, che ora finalmente ciò che egli presenta, è anche una scienza e che si apporta così un reale vantaggio alla comunità" (I. Kant, Prolegomeni ad ogni metafisica futura che si presenterà come scienza, Laterza, Bari 1967, pp. 200-201).
Kant, tenuto in grande considerazione per i suoi trattati sulla logica e la ragione, scrisse:
Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse:
il cielo stellato sopra di me,
e la legge morale in me”.
Morale e Ragionare...Che’ strane parole! Ma dove vai a trovare una persona al mondo che ha’ un’alta morale e che; perfino! ragiona! (Non in questo mondo!)
Saluti!
La Morale e’ fatta per l’uomo...
Non l’uomo per la morale!
Immanuel Kant
Cordiali saluti a tutto lo staff Dall’Emigrato-Integrato; essendo stato sparato; come un piccolo pallino nella- carttucca... per sparire.
(Il Letterato Orfano!)
«Sapere aude». Kant: «Abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza»
Difatti il cervello piu’ l’usiamo e piu’ efficace diviene...Disponibile ad aiutarti ma! se poi ; Le tradizioni, Il pregiudizio e l’orgoglio ce lo impedisce; allora e solo allora dovremmo renderci conto che non "ne vogliamo sapere"... di cosa! di scoprire la verita’. "Scoprirete la verita’ e la verita’ vi rendera’ "LIBERI" SHALOM
SALUTI A TUTTO LO STAFF....DALL’EMIGRATO INTEGRATO DA 50 ANNI
Difatti!...La stragande maggioranza; desiderebbe risposte a domande che si sono poste-chieste a se stessi tutta la vita ma! senza investigare, domandare ed essinzialmente...ascoltare. (Se le risposte ti vengono date-provvedute)
Che’ gran peccato; dalla culla alla tomba portarsi tale peso "insopportabile", fino a quando moriranno; con un nodo nella gola------> (senza risposte)
SHALOM..... «Sapere aude». Kant: «Abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza»
La verità è nel cuore dell’uomo, dove si trova anche Dio, «se ci muoviamo con le risorse della scienza e della filosofia, questo tipo di verità resta fuori dal discorso».!
Il termine carisma denota, la capacità di esercitare una forte influenza su altre persone. Similmente al termine adoperato in senso religioso deriva dalla parola χάρισμα, charisma, a sua volta derivata dal sostantivo χάρις, cháris, ovvero grazia. Assume, in entrambi i casi, il significato di dono.
È assimilabile alla cosiddetta aura, l’alone di leggenda e mistero che ha avvolto diversi personaggi storici del passato. Il termine carismatico è stato attribuito e viene tuttora attribuito a persone - sovente leader politici o statisti in genere - che abbiano segnato in qualche modo la storia per la loro capacità di radunare attorno a sé una massa, enorme organizazione capace di sconvolgere il corso degli eventi.
Saluti cari con empatia ed apprezzamento
Rom. 7:9...Cord. saluti