Cacciari, sogno o son desto?
di Piergiorgio Odifreddi *
In seguito a una segnalazione attonita, ho guardato su YouTube un video intitolato Massimo Cacciari e Piero Coda in dialogo**. Il primo, è un filosofo noto a tutti. Il secondo, è un teologo di punta, molto rispettato nell’accademia. Ebbene, anch’io non credevo alle mie orecchie.
A scandalizzarmi non sono stati i salemelecchi del secondo nei confronti del primo. E neppure il tema della discussione (o meglio, della conferenza di Cacciari), che aveva a che fare con la Trinità. Piuttosto, è stato il modo in cui Cacciari ha trattato questo tema, che mi sembra paradigmatico di un certo tipo di filosofia, spesso difesa in questo stesso blog da un buon numero di commentatori.
Il discorso di Cacciari si basa tutto sull’esegesi di un versetto del Vangelo secondo Giovanni (X, 30), che dice semplicemente: Ego et Pater unum sumus. La frase è abbastanza innocua, e infatti l’edizione 2008 della C.E.I. traduce semplicemente: “Io e il Padre siamo una cosa sola”.
Ora, si sa che i filosofi sono soliti indulgere in quello che in inglese si chiama coloritamente to make a mountain out of a molehill, “far di una tana di talpa una montagna”. O, in italiano, “far di una mosca un elefante”. Ma qui mi sembra che Cacciari abbia veramente passato il segno, lanciandosi in un discorso che potrà anche avere precedenti teologici, ma che non per questo diventa più sensato dal punto di vista logico.
Dopo essersi immediatamente dimenticato dei due soggetti della frase, egli si avventa infatti sul corpo decapitato dell’unum sumus, dove naturalmente le cose vanno in tilt. Il predicato nominale unum viene sistemato facilmente, transustanziandolo in un soggetto. Ma allora il verbo dovrebbe essere essere un est (o un sum), e invece è un sumus. Follia teologica, afferma Cacciari come unica spiegazione, compiaciuto del suo sumo linguistico.
La tradizione trinitaria prenderebbe dunque le mosse da questa frase monca, in cui Gesù si ritroverebbe a dire non “io e un altro siamo uno”, cioè siamo la stessa persona descritta in due modi diversi, bensì “io e l’altro siamo l’Uno”, come se a parlare fosse un filosofo greco, invece di un falegname ebreo.
Naturalmente, come fondazione della trinità anche questa è traballante, visto che si parla comunque di due persone, invece che di tre. Ma a questo punto, non poteva certo essere quest’ostacolo a fermare Cacciari. Il quale, infatti, trova subito il terzo nella relazione tra il Figlio e il Padre. Incurante del fatto che questo porti in realtà immediatamente al paradosso del terzo uomo, proposto da Platone nel suo altrettanto confuso Parmenide.
Ogni commento sarebbe fuori luogo. Ma qualche domanda s’impone.
Primo, se la fede trinitaria si basa veramente su tali equilibrismi sconclusionati, c’è veramente qualcuno che possa crederci seriamente?
Secondo, non c’è veramente nessuno che osi dire a Cacciari che, invece di pontificare tronfiamente, farebbe meglio a studiare modestamente almeno un po’ di logica?
Terzo, se questi sono i grandi filosofi della nostra accademia, è veramente così scandaloso pretendere che, per far carriera e avere finanziamenti, anch’essi debbano essere sottoposti per par condicio a seri giudizi di serietà analoghi a quelli a cui devono soggiacere i seri scienziati?
*Fonte: Il non-senso della vita di Odifreddi, 5 febbraio 2011
**YOUTUBE: Massimo Cacciari e Piero Coda in dialogo 1/6
28 gen 2011 ... -Istituto Universitario Sophia
Massimo Cacciari e Piero Coda in dialogo: Il pensiero più alto: unità e trinità di Dio ...
Massimo Cacciari e Piero Coda in dialogo 2/6
Massimo Cacciari e Piero Coda in dialogo 3/6
Massimo Cacciari e Piero Coda in dialogo 4/6
Massimo Cacciari e Piero Coda in dialogo 5/6
Massimo Cacciari e Piero Coda in dialogo 6/6
Sul tema, nel sito, si cfr.:
1+1 non fa (sempre) 2 - recensione dell’ultima lezione di John Barrow
di Roberto Natalini (MaddMaths, 14 Dicembre 2020
Teorie del tutto di John Barrow è uno dei primi libri di divulgazione che abbia mai letto (era il 1992!). Quando uno decide di fare lo scienziato solitamente non ha molto tempo per leggere esposizioni non tecniche di teorie scientifiche. Gli sembra sempre di leggere la “versione per bambini” della cosa vera, quella su cui dovrebbe lavorare se avesse altro tempo da dedicare alla scienza, oltre a quello sprecato per produrre dei piccoli progressi infinitesimali nel proprio ristretto ambito di ricerca. Eppure se so qualcosa, in questo momento un ricordo confuso, sulla teoria delle stringhe, sui problemi cosmologici, e poi su alcune questioni di fondo della filosofia matematica, il principio antropico e la matematicità dell’universo, è proprio per la lettura dei libri di divulgazione di questo collega britannico di pochi anni più grande di me.
Questo libro, 1+1 non fa (sempre) 2. Una lezione di matematica, non è un libro come gli altri. Si legge in poche ore, è come una lunga chiacchierata con un amico che ti racconta qualcosa sui numeri, sulle domande su cui ha riflettutto per tutta la vita, sul senso del fare matematica e del ricercare le leggi matematiche che governano il mondo. Si parte dai numeri, dal significato del contare, da cosa abbia voluto dire arrivare all’astrazione dei numeri per tutta l’umanità. Certo, tutti i sistemi di numerazione al mondo, ma più in generale tutta la nostra scienza e tecnologia, poggiano su questo semplice fatto di addizionare uno a uno. All’inizio non doveva essere semplice riuscire a concettualizzare il concetto di numero. Popoli come gli indigeni della British Columbia avevano per esempio parole diverse per diversi oggetti. Le parole che si riferivano alle quantità uno e due cambiavano a seconda che si riferissero a oggetti piatti o curvi, uomini, oggetti lunghi, canoe o misure. Per contare come facciamo noi, bisogna avere l’idea di “una cosa” che sommata a “una cosa” la vediamo come “due cose”. Da qui parte il ragionamento di Barrow, che non vuole essere sistematico e nemmeno dettagliato. È un libro pieno di suggestioni e di echi, che fa venire voglia di saperne di più, che accenna ad alcuni snodi importanti del pensiero matematico, li connette tra loro, ma lascia a noi il compito di approfondire. Si parla del contare e delle basi, quando 1+1 può fare 10, di come la somma di due vettori unitari possa fare 2 o 0 o altro ancora, della definizione di numero da Frege a Peano, e della celebre dimostrazione di Whitehead e Russell, che dura per centinaia di pagine nei loro Principia Mathematica, del fatto che 1+1=2.
E poi, a un certo punto, Barrow argomenta su come la funzione successore possa sembrare naturale per la nostra mente, e parrebbe seguire dalla nostra esperienza dello scorrere del tempo e dal principio di causa ed effetto. E qui, come per minare la nostra certezza sulla naturalità di questo concetto, richiama il racconto La storia della tua vita, di Ted Chiang, per me il più grande autore di fantascienza contemporeaneo, da cui è stato tratto il film Arrival di Denis Villeneuve. In cui si racconta che degli alieni comunicano con spruzzi di inchiostro che si trasformano in strani vortici. E la linguista Louise Banks, interpretata nel film da Amy Adams, che li decifra in parte, capisce che questi alieni non hanno il senso del tempo, per loro è una dimensione come le altre, e i messaggi che ci mandano comprendono tanto il nostro passato che il nostro futuro.
E questa citazione mi ha fatto piuttosto pensare alla struttura stessa del libro. Un libro circolare, che ritorna spesso sui suoi passi, ma che ogni tanto parte in un’altra direzione, dai numeri transfiniti di Cantor, al teorema di incompletezza di Gödel, alla legge di Benford, per ritornare sulla questione centrale su cui Barrow, come tanti di noi, deve aver ragionato per tutta la vita: ma insomma, alla fine, che cos’è questa matematica? E perché funziona così tanto bene nelle nostre vite? Se è vero che la nostra intelligenza si è sviluppata per rispondere alle sfide del mondo circostante, sviluppando schemi e modelli capaci di garantirci la sopravvivenza, queste osservazioni nascono e si sintetizzano nel momento in cui riconosciamo l’identità degli oggetti, e di come, in tanti modi diversi, è molto utile sapere come e quando 1+1 sia uguale o non sia uguale a 2. E il libro ricomincia.
Roberto Natalini
2+2=4
Sarà un caso che l’ultimo libro di John D. Barrow, prima della sua assai prematura scomparsa, in edizione originale italiana vale la pena sottolineare, si intitolava, 1+1 non fa (sempre) 2? [...]" (Pino Donghi, "Odifreddi: matematica dappertutto e per tutti", Doppiozero, 10 Dicembre 2020)
Federico La Sala
Benedetto XVI-Odifreddi.
Il Papa e il matematico, affetto non calcolato
Piergiorgio Odifreddi pubblica le lettere con Benedetto XVI e dà un personale resoconto degli incontri con lui: un dialogo intenso, nel quale il matematico abbandona i toni aspri usati in passato
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, martedì 17 maggio 2022)
Il volume In cammino alla ricerca della verità ha alle sue spalle già un prodromo nel testo Caro papa teologo, caro matematico ateo (2013). Anche se necessariamente semplificato, e quantitativamente non omogeneo tra i due interlocutori, il dialogo risponde al canone del “Cortile dei Gentili”, incrociando in questo caso i due linguaggi e le due concezioni, la scientifica e la teologica.
La struttura del libro è a dittico, sia pure con tavole di differente tipologia ed estensione. La prima, infatti, è costituita dalla narrazione dei cinque incontri personali avvenuti tra i due protagonisti tra il 2013 e il 2018. Per ragioni concrete a dominare è Odifreddi, l’estensore dei racconti, che risultano perciò spiccatamente autobiografici. Il colloquio tra i due nelle tappe iniziali è più corposo, sia pure affidandosi di necessità alla frammentarietà, al balenare delle intuizioni, ma anche sfiorando i temi fondanti e abbozzando riflessioni suggestive. Successivamente il dialogo si fa più rarefatto ed esile da parte del papa emerito, scandito anche da silenzi.
Rilevante è, comunque, l’interpretazione di Odifreddi, che talora plasma parole e giudizi del suo interlocutore - persona sempre sorvegliata e rigorosa, pur non aliena all’ironia amabile - secondo un suo filtro e una sua sensibilità. Sorprende, comunque, una indubbia delicatezza affettuosa del narratore, che rivelerà a molti un volto inedito, rispetto a certe asprezze fin aggressive riservate in passato al mondo cristiano, e in particolare all’orizzonte ecclesiale. Spesso egli curiosamente ricorda la sua matrice cattolica tradizionale, fin seminaristica, col suo ingenuo proposito (o sogno) di diventare, più che prete, papa.
La seconda tavola di questo dittico ideale è la più vasta, e mette in scena un colloquio epistolare che ha come spunto la lettura, da parte di Odifreddi, di uno dei testi maggiori e più noti del teologo Ratzinger: «Dopo aver letto la Introduzione al cristianesimo, ne rimasi impressionato, e ne ho scritto un commento in forma di lettera aperta in Caro Papa, ti scrivo ( 2011)». La risposta del papa è articolata, e reagisce a questa “lettera aperta” con un «giudizio piuttosto contrastante». L’analisi, pur essendo di indole generale, è puntuale e tocca la dialettica tra la fede “scientifica” professata dal matematico e quella cristiana, affronta temi come l’evoluzione e la morale cattolica, si oppone all’idea di teologia come “fantascienza”, si apre alla bellezza e all’arte. Emblematico è un paragrafo netto, che delinea il perimetro genuino del dialogo.
Scrive Benedetto XVI: «La mia critica al Suo libro in parte è dura. Ma del dialogo fa parte la franchezza; solo così può crescere la conoscenza. Lei è stato molto franco e così accetterà che anch’io lo sia». E, riconoscente per l’attenzione riservata al suo saggio iniziale, conclude con la convinzione che «nonostante tutti i contrasti, non manchino del tutto le convergenze». Anzi, apre lo sguardo su temi finora inesplorati nel loro confronto: la libertà, l’amore e il male.
Nella “lettera aperta” di Odifreddi erano stati considerati in modo sbrigativo la persona e il messaggio di Cristo, e Ratzinger non ha esitazione ad annotare con sincerità: «Ciò che Lei dice sulla figura di Gesù non è degno del Suo rango scientifico». È così che la seconda lettera del 16 aprile 2014 si centra sul Gesù storico e il Cristo della fede, una questione per altro affrontata da un’imponente bibliografia esegetica storico- critica.
Il papa non esita, al riguardo, anche a suggerire un consiglio di approfondimento attraverso l’opera di un noto studioso tedesco, Martin Hengel. La personalità di Gesù, comunque, continuerà a occhieggiare successivamente, fino a una divagazione fantasmagorica sulla natura di Cristo, che lo stesso Odifreddi rubrica come «ingenuità bio-teologiche », e che Benedetto XVI molto bonariamente considera come «un tentativo interessante, ma non troppo convincente ».
Progressivamente la corrispondenza del professore cresce e affronta un arco tematico così vario, da divenire fin bulimico: oltre a Cristo, sono di scena fede, storia, morte, ragione, inferno, monoteismo, pandemia e altro ancora, offrendo anche una sua autobiografia. Al contrario, per motivi esterni comprensibili, le risposte di Benedetto XVI si fanno più esili, anche se talora con bagliori di intuizioni. Infatti, l’11 settembre 2018 egli confessa: «Purtroppo la mia salute sta declinando, così da non sapere se sarò in grado di avere ancora una volta una conversazione con Lei».
Tuttavia, l’intensità del dialogo si colora di tonalità persino affettuose. Al riguardo meritano attenzione le pagine appassionate e sofferte che il 18 ottobre 2020 Odifreddi invia al pontefice in occasione della morte della madre, «sfogo filiale, tanto privato e personale da risultare quasi una “confessione”». Questo scritto potrebbe essere l’ideale suggello ai colloqui tra i due, anche perché è una straordinaria testimonianza dell’approccio personale, anche emotivo, di un ateo di fronte alla morte di una persona cara, un’esperienza umana radicale. E Benedetto XVI, rispondendo il 24 novembre 2020, confessa senza esitazione che «la Sua lettera circa la morte della Sua amata Madre mi ha profondamente toccato».
Il dittico - composto dal quadro narrativo delle visite e da quello epistolare - mostrerà al lettore molte altre componenti rivelatrici delle due personalità, anche se è ovvia la prevalenza molto marcata di Odifreddi. Sorprendente è la folla, così eterogenea da risultare persino dispersiva, degli autori citati: dallo Pseudo-Dionigi a Dostoevskij, da Ildegarda di Bingen a Küng, da Guardini a Sartre, da Thomas Mann ad Amartya Sen, da Jan Assmann a Coetzee, e così via. Così come emerge l’attrazione del professore per l’orizzonte culturale-religioso indiano.
Nell’ambito della scienza spiccano due personaggi. Da un lato, John F. Nash (1928-2015), anche con la sua nota vicenda personale. D’altro canto, Kurt Gödel (1906-1978), col suo teorema dell’incompletezza: uno scienziato che a più riprese era stato oggetto degli interessi di Odifreddi, alla cui “prova matematica dell’esistenza di Dio” egli aveva anche dedicato un saggio con Gabriele Lolli («se esiste Dio, allora la matematica è coerente»).
Curioso è l’apparato dei doni che dimostrano l’affetto di Odifreddi durante le visite, soprattutto in relazione ai compleanni papali: oltre agli scontati libri o cd o dolci, originali sono la sfera dell’artista statunitense Dick Termes, la biosfera BeachWorld della Nasa sullo Space Shuttle, e ancora una sfera, quella delle costellazioni Mova. Queste e altre componenti personali costituiscono spesso la trama dell’epistolario di Odifreddi. Ma ben più importanti sono i percorsi interiori: fondamentale è, infatti, il simbolo del “cammino” alla ricerca della verità. Dopo tutto, anche la lezione del maestro proposta da Platone nella sua Apologia di Socrate si riassumeva nell’appello: «Una vita senza ricerca non merita di essere vissuta».
DISUGUAGLIANZA, INTOLLERANZA, E PACE PERPETUA...
FINE DELLA STORIA: NON COMPRESA LA LEZIONE DI DANTE ALIGHIERI SUI DUE SOLI E DI GIORDANO BRUNO (17 febbraio1600) SULLE TRE CORONE, DUE CORONE IN TERRA E UNA IN CIELO (“Ultima coelo manet)”, SI VA ANCORA AVANTI CON LE REGOLE DEL GIOCO DELLE TRE CARTE (questa è quella che vince, questa quella che perde, ecc...) e l’espulsione (lo spaccio) dal campo da gioco della BESTIA TRIONFANTE continua ad essere rinviata... USCIRE DAL LETARGO. La Regola, il Logos, non è un "Logo"!
CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA COSMOTEANDRIA. Non sapendo affrontare e non volendo risolvere il problema di Jean Jacques Rousseau (Discorso sull’origine della disuguaglianza: "Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare questo è mio, e trovò altri cosí ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile") come quello di Sigmund Freud (Il disagio della civiltà: "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comuni tà critiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori"), non ci resta che lavorare ... "PER LA PACEPERPETUA" (KANT, 1795)!!!
FLS
IMPARARE A CONTARE! "UNO. IL BATTITO INVISIBILE". Note a margine del libro di Giulio Busi *
RICOMINCIARE DA CAPO, DALLA COSTITUZIONE: UNO NON EQUIVALE UNO (=1), MA RENDE POSSIBILE E FONDA OGNI - UNO (= 1). IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS, NON UN LOGO! TRACCE PER UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA....
NONOSTANTE GIOACCHINO DA FIORE, NONOSTANTE DANTE ALIGHIERI (E LA DIVINA COMMEDIA) , NONOSTANTE GIOVANNI BOCCACCIO (E LA MEMORIA DI MELCHISEDEC E DEI TRE ANELLI), NONOSTANTE MICHELANGELO (E IL SUO TONDO DONI), NONOSTANTE LESSING (E IL SUO ELOGIO DEL SAGGIO NATHAN), NONOSTANTE FREUD E NONOSTANTE EINSTEIN ....
...SI VIVE ANCORA NEL REGIME DELL’UNO (= 1) E DELLA "DOTTA IGNORANZA" (1440) E DELLA COSMOTEANDRIA PLATONICA?!
"Dio non gioca a dadi" ma, dopo la lezione di Georges de La Tour (cfr. Giulio Busi, "Uno. Il battito invisibile": [...] A Preston Hall, nella grande serra in vetro e ferro trasformata in museo, i "Giocatori di Dadi" di Georges de la Tour accolgono i visitatori con il loro sorprendente mistero. Tre lanci, un unico risultato... I tre lanci hanno dato lo stesso risultato. Uno [...]"), l’Uno è ancora il più sfuggente e misterioso tra i numeri? Ogni essereu mano è un uno, ma ancora non si sa chi è l’Uno? Ma a che gioco giochiamo?! La storia è sempre e solo fatta da Uno (=1) solo? E i tre moschettieri lavorano ancora per il solito Uno (=1)?!
UNO. IL BATTITO INVISIBILE: "L’Uno ci avvolge, pulsa in noi. Troviamolo. L’Uno è stupore, incompletezza, mistero. A tratti, in una grande sventura o in una gioia profonda, per caso o dopo avere cercato a lungo, ci rendiamo conto d’essere #parte di un #tutto che ci sovrasta, ci avvolge e allo stesso tempo si sottrae alla nostra #comprensione. Lo sentiamo, il #tutto, senza poterlo #distinguere con #esattezza. Sebbene non ci sia consentito misurarlo con la #ragione, ci pare quasi di toccarlo, tanto è vicino, intimo.
Vecchie storie bibliche, sogni di mistici, saggezza indiana, inquietudini dei filosofi greci, poesia del Novecento. Sono i bracci di un fiume immenso e segreto, che questo libro risale passo dopo passo in cerca dell’Uno, del suo fulgore, del suo battito lieve, profondo, invisibile. L’Uno, il più sfuggente e misterioso tra i numeri" (G. Busi, "Uno. Il battito invisibile", Il Mulino).
QUATTRO PROFETI (1+1+1+1) O DUE PROFETI + DUE SIBILLE?! Nella cornice del Tondo Doni di Michelangelo, secondo gli esperti della Galleria degli Uffizi, "Vi sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di quattro profeti" (https://www.uffizi.it/opere/sacra-famiglia-detta-tondo-doni)? Non è bene, forse, rianalizzare il quadro e la cornice e ri-verificare la situazione, data la strettissima connesione anche con il lavoro portato avanti nella Cappella Sistina?!
... IMPARARE A CONTARE E USCIRE da interi millenni di labirinto (Nietzsche) e riprendere la diritta via (Dante2021), comporta un globale capovolgimento del puntodivista e, con Freud, l’aprire gli occhi (tutti e due) e guardare finalmente "da dove veniamo"... e lo straordinario sorgere della Terra, come è apparso ai primi esploratori del cosmo ...
DANTE2021, QUESTIONE ANTROPOLOGICA (ECCE HOMO) E
GIOCO DELLA TUNICA:
QUATTRO SOLDATI, TRE GIOCATORI DI DADI E PROBLEMA DELL’UNO.
A CHE GIOCO GIOCHIAMO?! Ancora al Grand Tour della cosmoteandria?
FLS
ARCHEOLOGIA, FILOSOFIA, LOGICA PSICOANALISI E COSTITUZIONE: "IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS" (non il Logo di una fattoria).
DIO E LE LETTERE DELL’ALFABETO. Questa storiella dello Zohar "nasconde" una grande lezione di logica e matematica, antropologia e teologia (e, a mio parere, offre la chiave per meglio capire il senso stesso del riferimento di Baruch Spinoza al detto Homo Homini Deus Est e il messaggio dell’ impresa di Dante Alighieri).
Quando si comincia a contare, da dove bisogna cominciare, per iniziare bene ed essere gà a metà dell’opera?! Chi è che conta e da dove inizia. Perché (come qui, nella storiella dello Zohar) dalla Bet?
Premesso che le lettere dell’alfabeto ebraico sono anche numeri e, quindi, hanno un valore numerico, è opportuno ricordare che alef vale zero (= 0) e che bet vale uno (= 1); e, quando si comincia a contare, si comincia a contare da uno (= 1), appunto, da bet.
Per non perdere la #bussola e, ancor di più, per non lasciarsi sopraffare dalla narcisismica terremotante tentazione di truccare le carte e il conto, però, occorre tenere ben presente che al "Dio" che conta, in un altro testo decisivo della tradizione biblica (Apocalisse di Giovanni), è attribuita la seguente importantissima frase: "Io sono l’alfa e l’omega" (greco koinè: "ἐγὼ τὸ Α καὶ τὸ Ω"). La precisazione è decisiva...
Amore è più forte di Morte (Ct., 8.6). A ben riflettere sull’apocalittica frase, si apre la porta di una chiara #comprensione sul Chi (= X) lega e sa legare "il principio e la fine" (Apocalisse 21:6, 22:13) e, al contempo, sul buon messaggio stesso della "Divina Commedia": "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145).
L’alfa (il principio) e l’omega (la fine), e la bet ("la prima lettera dell’alfabeto), la lettera che indica ""il verso giusto del cammino"!
Bet, la lettera di Benedizione ....
LA PIETRA FONDAMENTALE E LA PIETRA ANGOLARE: "ECCE HOMO". Ogni Uno (=1), Ognuno (ogni Eva e ogni Adamo, ogni Maria e ogni Giuseppe), Ogni Essere umano (Everyman, così Dante Alighieri per Ezra Pound), è antropologicamente e linguistica-mente la lettera dell’alfabeto, la Bet, la lettera di Benedizione e Bereshìt, la Parola che sta "Nel Principio": "Nel Principio era il Logos". L’amor che move il sole e le altre stelle....
#MATEMATICA
E
#COSTITUZIONE.
Se gli esseri umani sono
"fatti della stessa natura del tempo",
e il #tempo avesse l
a forma del coperchio,
la #paura del cielo
direbbe solo del
rifiuto
di uscire dalla
#selva oscura
e
#nascere!
#Fleur Jaeggy!
La matematica come abilitatore di futuro. La ripresa passa anche da qui
di Ersilia Vaudo (Il Sole-24 Ore, Alley Oop. L’altra metà del Sole, 17 Febbraio 2021)
La pandemia ha accentuato la ferita delle disuguaglianze. I più colpiti sono sempre loro, le famiglie disagiate, i giovani e le donne. La proporzione di laureati sotto i 34 anni che non ha un lavoro è in cresciuta, più di uno su tre. A dicembre dei 101 mila lavoratori in meno, 99 mila sono donne. E, secondo i dati Istat il 26,6% dei figli rischia un ‘downgrade‘ rispetto ai genitori, con una situazione molto più grave al Sud.
Tutte punte di iceberg di una realtà che da troppo tempo ci tira giù: povertà educativa profonda, grandi disparità territoriali, scarsa mobilità intergenerazionale tra livelli di istruzione, basso ritorno dell’investimento in istruzione e un tessuto produttivo con una debole domanda di competenze avanzate, che non sono quindi remunerate adeguatamente. È così che il nostro Paese non riesce a stimolare, ritenere, e capitalizzare sui suoi talenti.
In media le competenze in Italia sono sempre state basse da quando esistono dati standardizzati e comparabili tra Paesi. Ma l’ urgenza ha ora due livelli. Offrire al Paese i mezzi necessari per una decisa lotta alla povertà educativa, che è comunque un forte driver di disuguaglianze. Preparare il Paese alle sfide del futuro del lavoro, investendo nella costruzione del capitale umano necessario per le sfide di domani, anche nell’ottica dell’inclusione. Inclusione soprattutto nel perimetro delle competenze emergenti, tutte essenzialmente nei territori STEM (Scienza, tecnologia, Ingegneria, matematica), competenze digitali incluse.
Sono questi i settori in cui il potenziale di empowerement è più forte e le traiettorie di carriera crescite salariali più pronunciate. Qualche esempio sparso. Più della metà delle professioni del 2030, non esistono ancora e richiederanno competenze STEM. In questi settori i tassi occupazionali sono i più alti e la correlazione tra salario orario elevato e livelli avanzati di competenze matematiche è forte e dimostrata. Questo è il momento di spingere con più determinazione il Paese in questa direzione.
Qualcosa di inedito rispetto all’esposizione alla scienza è infatti avvenuto in questi lunghi mesi di emergenza sanitaria. Le competenze scientifiche sono tornate al centro. E hanno fatto la differenza, dopo un lungo periodo di post-verità e irrisione degli esperti. Anche il linguaggio della comunicazione è stato prevalentemente tecnico. E l’intensa esposizione a terminologie statistiche/ scientifiche è diventata familiarità, un po’ per tutti, con concetti quali percentuali, probabilità e crescita esponenziale. Questo risultato non è una cosa da poco. E sarebbe importante, nonché lungimirante, saper capitalizzare su questa nuova contingenza.
Perché in un Paese dove le disuguaglianze aumentano e l’ascensore sociale, per chi viene da famiglie più svantaggiate, è fermo, la sfida delle pari opportunità non può aspettare. E passa anche dalla matematica. Un linguaggio, un modo di pensare, un fattore di stima in sé stessi, e, in un mondo in trasformazione, un «abilitatore di futuro». La possibilità di essere a proprio agio in quegli spazi dove si immagina e si costruisce il domani. Rimanere indietro, vuol dire rimanere fuori. La sfida è comunque ardua.
Diceva Rilke, il futuro è in noi prima ancora che accada. L’ indagine Pisa 2018, pubblicata lo scorso dicembre - che valuta ogni 3 anni e in 79 Paesi, le competenze dei 15enni rispetto alla lettura, la matematica e le scienze - metteva in qualche modo a fuoco il «potenziale di futuro prima ancora che accada» di cui dispongono i ragazzi di quell’età e quindi l’abilità dei Paesi ad assicurare loro le conoscenze e gli strumenti intellettuali necessari ad affrontare la vita che li aspetta da lì a poco.
I risultati in Italia: siamo tra i Paesi in cui, tra il 2015 e il 2018, il rendimento in scienze è diminuito in modo più drastico. E abbiamo uno dei divari di genere più profondi per quanto riguarda le abilità matematiche. I ragazzi italiani ottengono risultati nettamente migliori delle ragazze in matematica. Dopo di noi si piazzano solo il Costa Rica e la Colombia. Le differenze in matematica mettono a fuoco anche altre dimensioni di disuguaglianze. Territoriali - le regioni del Nord hanno ottenuto risultati vicini ai migliori Paesi europei mentre regioni del Sud hanno ottenuti punteggio sotto la media nazionale - e socio-economiche. È impressionante osservare come lo status socio-economico aiuti a prevedere le prestazioni in matematica e scienza in tutti i Paesi partecipanti a PISA. Una sorta di determinismo sociale implacabile.
Quali sfide ci aspettano
L’emergenza sanitaria ha accentuato questa fragilità approfondendo ulteriormente tutte le distanze. Dopo un anno di didattica a distanza sono ancora soprattutto i bambini delle famiglie ad alto disagio sociale a pagarne il prezzo. La metà della progressione attesa sembra essere evaporata, coinvolgendo soprattutto i più piccoli, che hanno potuto beneficiare meno degli altri dell’ insegnamento a distanza o di studio autonomo. Certamente per la mancanza di supporti tecnologici che sono stati indispensabili per garantire la continuazione dell’ apprendimento durante la chiusura fisica delle scuole e che potrebbero continuare ad avere un peso importante nel prossimo anno accademico.
L’ Italia è uno dei Paesi occidentali dove la carenza infrastrutturale è più marcata e quindi dove le disparità potrebbero risultare più profonde. Ma anche perché le competenze medie soprattutto numeriche degli adulti italiani, che sono i genitori che hanno accompagnato i ragazzi durante la chiusura delle scuole, sono tra le più basse tra i Paesi dell’ area OCSE. Le competenze medie numeriche di un laureato italiano tra i 40 e i 60 anni sono paragonabili quelle di chi in Giappone ha terminato la scuola secondaria. E la percentuale di adulti che dichiara di non dover svolgere nessuna attività legata ai numeri (usare una calcolatrice, leggere un grafico, calcolare decimali) è la più alta dei paesi OCSE, dove il non usare i numeri è correlato con il “non saperlo fare”.
In Italia, il valore strategico di queste competenze non è ancora sufficientemente riconosciuto. E ci fa restare indietro. Guardiamo all’estero. Nel 2017, la Francia ha fatto delle competenze in matematica una priorità nazionale. La motivazione: uno scarso rendimento in matematica può portare ad una situazione socialmente ed economicamente difficile che, se non corretta, può pesare fortemente sul futuro sviluppo del Paese. Ma non solo.
La Francia riconosce che l’ esclusione dalla matematica, ha anche un impatto sulla fiducia in se stessi, induce un senso di inadeguatezza che rende i cittadini più inclini a delegare ragionamenti complessi, a preferire le semplificazioni e a diffidare degli esperti. Con l’inclusione nella matematica si costruisce anche una cittadinanza consapevole. La capacità di navigare attrezzati nel rumore di fondo di indistinguibili fatti e percezioni e essere consapevoli nell’ esercizio dei propri diritti. E la democrazia è un equilibrio delicato, oggi oltretutto messo alla prova dalla pandemia. Basti pensare che, secondo un rapporto CENSIS del 2020, il 38,5% degli italiani è pronto a rinunciare ai propri diritti civili per un maggiore benessere economico, introducendo limiti al diritto di sciopero, alla libertà di opinione, di organizzarsi, di iscriversi a sindacati e associazioni.
Scegliamo anche noi la strada intrapresa dalla Francia, puntando sull’insegnamento della matematica con metodi didattici innovativi. I progressi considerevoli realizzati dalle neuroscienze, soprattutto nella comprensione dei meccanismi di apprendimento dei bambini, stanno dando vita ad una nuova disciplina, la “neuro-educazione”.
In questa ottica, il ministro dell’educazione nazionale francese Jean-Michel Blanquer ha istituito un consiglio scientifico presieduto da Stanislas Dehaene, sostenitore dell’idea che «una teoria dell’educazione necessita la comprensione della mente che deve essere educata», che sta cambiando profondamente la prospettiva sulla didattica della matematica. Secondo Dehaene, figura prominente nel campo delle scienze cognitive, abbiamo tutti un «senso dei numeri» e la possibilità di raggiungere risultati eccellenti o pessimi dipenderà dall’ amore, o dalla diffidenza, per questa materia indotta prestissimo nei bambini dall’ambiente in cui sono immersi.
I bambini e le bambine che si convincono di “non essere portati” sono espressione di un fallimento pedagogico e di stereotipi familiari e sociali. E questo non possiamo più permettercelo. Se pensano di non essere portati è nostro dovere, come Paese, “portarceli”.
Una più grande inclusione nella matematica equivale a una democrazia più solida, un’economia più forte, meno disuguaglianze, e tante opportunità, reali e più giuste, di prepararsi al futuro prima che accada. Potrebbe essere questa la formula per la ripresa.
Matematica e virtù civili: una recensione di “La matematica è politica” di Chiara Valerio
di Marco Verani (MaddMaths! Matematica Divulgazione, Didattica - 12 Settembre 2020)
“La matematica è politica” di Chiara Valerio ci parla di virtù civili, così importanti e così dimenticate, e del ruolo che la Matematica ha nel forgiarle.
Diverse sono le virtù civili che affiorano, come fari, tra le pagine di Chiara Valerio.
Amore per la verità. Verità che deve essere conosciuta, ricercata, detta anche quando e’ scomoda. Mai imposta, mai subita.
Perseveranza. La matematica è palestra per allenare la perseveranza, per coltivare l’attenzione.
Bello ricordare e affiancare a questo punto le parole indimenticabili sull’attenzione di Simone Weil e Cristina Campo.
Umiltà. Fare matematica è ripartire dai propri errori, spesso riconoscere la propria incapacità, confrontarsi con il limite, il non-possibile. Smantellare l’idea del tutto è possibile sempre, subito.
Cura del bene comune. Tra i beni comuni più preziosi che abbiamo vi è la democrazia. Fare matematica è difesa ed esercizio di democrazia.
Chiara Valerio usa una bella espressione: ci dice che la matematica è una “disciplina di manutenzione”, manutenzione della democrazia, del con-vivere nel rispetto e nella solidarietà. Bellissima parola “manutenzione” che richiama il gesto paziente, lento e accudente delle mani. Sì, e’ vero: la matematica è politica.
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L’ECCE HOMO, L’8 MARZO AL TEMPO DEL “CORONA VIRUS”, E LA MEMORIA DI CHRISTINE DE PIZAN ...
ALLA LUCE DEL CHIARIMENTO DEL SIGNIFICATO DELLE PAROLE DI PONZIO PILATO: “ECCE HOMO”(cfr. sopra : https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/26/dialetti-salentini-piticinu/#comment-269838), si comprende meglio anche il significato delle parole di Christine de Pizan, l’autrice della “Città delle dame” : «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable » (« Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi» - cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Christine_de_Pizan), che dicono ovviamente non della “metamorfosi” in “vir” - uomo, ma della “metanoia” in “homo” - essere umano (su questo, in particolare, si cfr. Michele Feo, “HOMO - Metanoia non Metamorfosi”, “dalla parte del torto”, Parma, autunno 2019, numero 86, pp. 12-13).
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ASTREA ! “IAM REDIT ET VIRGO” ...
CARO ARMANDO... RICORDANDO DI NUOVO E ANCORA IL TUO PREGEVOLISSIMO LAVORO SU- GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA (si cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/#comment-238474), E LA TUA CONNESSIONE TRA LA “PIZANA” CAPACE DI “CONDURRE LE NAVI” CON LA FIERA E NOBILE Carola Rackete, A SUO E TUO OMAGGIO, riprendo qui una breve scheda su:
Buon 8 marzo 2020 - e buon lavoro...
SCIENZA, STORIA E SOCIETA’: “DOPO DEWEY. Il processo di apprendimento nelle due culture”.... *
Neuroscienze
Imparare, una bambinata
L’istruzione è il principale acceleratore del nostro cervello ma per potenziare le capacità di apprendimento bisogna cominciare da piccoli
di Gilberto Corbellini (Il Sole-24 Ore, 21.01.2020)
Si dice che le conoscenze neurobiologiche sarebbero state o sarebbero irrilevanti per insegnare a pensare meglio. Allora il governo francese avrebbe sbagliato a mettere un neuroscienziato, Stanislas Dehaene, a capo del Consiglio Scientifico dell’Istruzione Nazionale (CSEN), insediatosi il 10 gennaio 2018 quale organo consultivo alle dirette dipendenze del ministro dell’istruzione?
Formato da esperti a titolo volontario di diverse discipline, il consiglio analizza i cambiamenti nella domanda di istruzione e promuove la ricerca e l’uso della scienza (la scienza, non le chiacchiere!) per migliorare o potenziate le strategie educative. In realtà, pedagogisti e psicologi hanno dei pregiudizi verso le neuroscienze, in Francia come in Italia.
Titolare della cattedra di psicologia cognitiva sperimentale dal 2005 e membro dell’Académie des sciences, egli dirige l’unità di neuroimmagini dell’infrastruttura NeuroSpin (CEA de Saclay) dove dal 19 luglio scorso è in funzione il più potente scanner al mondo per l’imaging cerebrale (11,7 tesla per in costo di 50 milioni di euro): per investimenti nella ricerca e nella cultura scientifica siamo anni luce dietro alla Francia, che con livelli di analfabetismo funzionale metà dei nostri sta conducendo una capillare azione di potenziamento dell’istruzione.
Nell’ultimo libro, Dehaene riprende i temi trattati nei corsi tenuti in anni recenti al College de France, ed è grosso modo organizzato in due parti: una dedicata alle conoscenze sperimentali e teoriche sulle basi neurobiologiche dell’apprendimento, e la seconda che spiega i quattro pilastri che consentono di imparare. Si apre con il caso di Felipe, un bambino brasiliano che dall’età di 4 anni è paralizzato e cieco, a causa di un proiettile vagante che gli entrava nel midollo spinale. Dopo 3 anni, parla correntemente portoghese, inglese e spagnolo, scrive racconti usando un dispositivo digitale ed è curioso di tutto. E’ un esempio della straordinaria plasticità del cervello umano, che impara anche quando è parzialmente distrutto.
Contrariamente a quanto pensano gli empiristi, dice Dehaene, il cervello non è una tabula rasa su cui verrebbero vergate le informazioni ambientali. L’evoluzione, di per sé, impara attraverso la selezione naturale e immagazzina conoscenze sull’ambiente nel genoma, ma ha scoperto o inventato «i mezzi per adattarsi il più rapidamente possibile a condizioni imprevedibili». I bambini, per esempi, sanno gestire le probabilità dalla nascita, il che gradualmente consente loro di rifiutare false assunzioni e conservare ciò che funziona.
Dehaene è fautore della teoria del cervello bayesiano, per cui saremmo statistici innati, individuando regolarità ed eccezioni nell’ambiente, per imparare nuove lezioni: il cervello combina in modo quasi ottimale le conoscenze individuali e collettive acquisite durante l’evoluzione umana con dati in arrivo dal mondo esterno. La teoria bayesiana sarebbe la soluzione all’antico dilemma dell’empirismo contro nativismo/razionalismo: l’apprendimento delle lingue, il riconoscimento delle parole, la teoria della mente, etc. possono anche essere descritte e spiegate come inferenze bayesiane.
Leggere e calcolare, attività ignorate dai nostri antenati e dai primati, procedono riciclando funzioni più antiche messe al servizio di nuove abilità attraverso la plasticità cerebrale. Questa plasticità è limitata da vincoli genetici e dovuti allo sviluppo. Nel cervello di un bambino piccolo, l’apprendimento si traduce nella proliferazione di neuroni e connessioni sinaptiche, alcune delle quali scompaiono se non utilizzate. Quando spegne la prima candelina, il cucciolo umano ha già fatto proprie le regole principali della lingua madre: fonemi, prosodia, lessico mentale e sintassi. Ecco perché i bambini nati in un ambiente bilingue o trilingue si impadroniscono facilmente di queste lingue. Il periodo più «sensibile», quello in cui apprendiamo di più, raggiunge il picco nella prima infanzia. Con l’età impariamo sempre meno facilmente, con velocità che dipendono dalle facoltà e dalla dotazione genetica: mentre le abilità fonologiche diminuiscono drasticamente dopo 12 mesi, quelle grammaticali e lessicali sono aperte fino all’adolescenza e, in misura minore, per tutta la vita.
L’invenzione della scuola ha permesso alla specie di moltiplicare le notevoli capacità di apprendimento. L’istruzione è «il principale acceleratore del nostro cervello», afferma Dehaene, che raccomanda di investire massicciamente nella scuola materna e nell’istruzione primaria se si vuole continuare a vivere in una società liberale e all’altezza delle sfide. Nella capacità di apprendimento sono coinvolti quattro meccanismi essenziali: l’attenzione, che seleziona le informazioni su cui si ci si focalizza; l’impegno attivo o motivazione ad imparare, che incoraggia la formulazione di nuove ipotesi; il ritorno sugli errori, che consente di correggere le nostre false rappresentazioni; e il consolidamento, che memorizza le informazioni a lungo termine, specialmente durante il sonno.
Per Dehaene il cervello umano è ancora superiore alla intelligenza artificiale. Gli algoritmi convenzionali di deep learning sarebbero solo un’imitazione del funzionamento di alcuni circuiti cerebrali, che corrispondono all’incirca alle prime fasi dell’elaborazione sensoriale, in cui il cervello opera in modo inconscio. È in una seconda fase, molto più lenta, consapevole e ponderata, che il nostro cervello dispiega il ragionamento, l’inferenza, la flessibilità, etc. Qui l’intelligenza artificiale non può ancora competere. Dehaene è titubante sull’impatto sociale e culturale dell’intelligenza artificiale, come si evince anche dall’ultimo capitolo dello stimolante dialogo, pubblicato circa un anno fa, con l’esperto di AI e vicepresidente di Facebook Yann LeCun, molto più ottimista di lui, nel libro La plus belle histoire de l’intelligence (Robert Laffont, 2018)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MATEMATICA: I "BASTONI DI ISHANGO". In Africa, in Congo, le origini dei numeri? Convegno a Bruxelles
DONNE, UOMINI E MATEMATICA. Se le donne non "contano", non sanno nemmeno contare; e gli uomini, se "contano", altrettanto non sanno nemmeno contare!!!
Federico La Sala
LINGUISTICA GENERALE (SAUSSURE) E MATEMATICA (RUSSELL), E LA "CORRISPONDENZA BIUNIVOCA" SCOMPARSA. Una questione antropo-logica epocale... *
Mathone. Pillole di matematica per comprenderla meglio ogni giorno
La matematica conta: storia dei primi numeri
di Paolo Boldrini *
Leggere, scrivere e contare sono tra le attività più importanti che la nostra mente riesce a svolgere e costituiscono la base dello sviluppo umano. In questo articolo analizzeremo l’operazione di contare e il concetto strettemente legato di numero naturale. Mentre lettura e scrittura sono invenzioni relativamente recenti, diffuse a partire dal 3000 a.C. l’usanza del contare ha radici molto più antiche.
1 Perchè gli uomini hanno iniziato a contare?
2 Piccole e grandi quantità
3 Il corvo conta fino a 5
4 Terzetti e numeri naturali
5 Un’apparente tautologia
6 Cosa significa contare?
Perchè gli uomini hanno iniziato a contare?
Le prime tracce di conteggi risalgono addirittura al paleolitico. I principali reperti che testimoniano questa capacità sono un osso di lupo risalente al 40000 a.C e il cosiddetto osso di Ishago, risalente al 20000 a.C. Entrambi i ritrovamenti presentano delle tacche incise. Mentre per il primo non si può escludere si trattasse di una funzione decorativa; nel caso dell’osso di Ishago, l’asimmetria delle incisioni rende concordi gli studiosi nell’affermare che la finalità non fu estetica ma pratica.
Ma che cosa contavano gli uomini nella preistoria? Non è difficile immaginare quali possano essere le utilità di un tale strumento: per un cacciatore era fondamentale sapere quante lance avesse a disposizione, mentre un raccoglitore era interessato a sapere quanti frutti era stato in grado di trovare in una giornata.
In seguito, con la diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento, divenne ancora più importante saper contare: un pastore deve conoscere esattamente la quantità di pecore nel suo gregge, altrimenti rischia di dimenticarne qualcuna! Ah di pecore e numeri naturali ne avevamo parlato anche qui Numeri Naturali: dalle pecore al concetto di numero .
Piccole e grandi quantità
Nonostante il contare abbia risposto originariamente a problemi pratici, si tratta di un’operazione astratta e tutt’altro che naturale. Essa non va confusa con la capacità di distinguere piccole quantità di oggetti; per comprendere la differenza è sufficiente un rapido esperimento.
Quanti oggetti contengono i seguenti gruppi?
Ovviamente è molto semplice distinguere le differenze, senza la necessità di mettersi effettivamente a contare quante figure sono presenti in ogni insieme.
Questo però funziona solo con piccole quantità: prova a valutare il numero degli oggetti nei seguenti insiemi:
In questo caso è stato certamente più difficile capire il numero “a colpo d’occhio” e probabilmente sarà stato necessario contare le forme a piccoli gruppi di due o tre elementi per avere la certezza del numero totale.
Mentre la capacità di contare sembra essere prerogativa umana, la distinzione tra piccoli gruppi di oggetti è diffusa anche in alcuni animali, soprattutto uccelli. A questo proposito è interessante riportare un racconto risalente al Settecento.
Il corvo conta fino a 5
Un contadino voleva uccidere un corvo che aveva nidificato in cima a una torre, dentro ai suoi poderi. Ogni volta che si avvicinava, però, l’uccello volava via, fuori dalla portata del suo fucile, finché il contadino non si allontanava. Solo allora l’animale ritornava nella torre, riprendendo le incursioni sui terreni dell’uomo. Il contadino pensò allora di chiedere aiuto a un suo vicino. I due, armati, entrarono insieme nella torre e poco dopo ne uscì soltanto uno. Il corvo però non si lasciò ingannare, e non ritornò al nido finché non fu uscito anche il secondo contadino. Per riuscire ad ingannarlo entrarono poi tre uomini e successivamente quattro e cinque. Ma il corvo ogni volta aspettava che fossero usciti tutti prima di far ritorno al nido. Soltanto in sei finalmente, i contadini ebbero la meglio, infatti il corvo aspettò che cinque di loro fossero usciti e quindi fiducioso rientrò sulla torre, dove il sesto contadino lo uccise.
Stimolati da questo racconto, diversi studiosi si sono interessati dell’effettiva capacità di conto di alcuni animali, in particolare l’etologo tedesco Otto Koehler dimostrò con una serie di esperimenti che il suo corvo, Jacob era in grado di contare fino a 6, quindi al contadino per stanarlo sarebbe servita una persona in più rispetto a quelle del racconto!
Terzetti e numeri naturali
É giunto il momento di interrogarci sul vero significato del contare [**]. Fino ad ora abbiamo dato per scontato un legame tra il processo di conteggio e i numeri naturali. Essi sono talmente basilari che raramente ci soffermiamo sul loro reale significato.
L’idea, apparentemente banale, che sta alla base dei numeri naturali e di conseguenza del conteggio è che un terzetto di pecore, un terzetto di mele e un terzetto di pietre hanno una cosa in comune: il numero 3!
Tuttavia, come spiega il filosofo e matematico Bertrand Russell, nel suo saggio “Introduzione alla filosofia matematica”, non bisogna commettere questo fraintendimento: “Un terzetto d’uomini è un esempio del numero tre, e il numero tre è un esempio di numero; ma il terzetto non è un esempio di numero“.
Tutti i terzetti hanno in comune il numero 3, ma nessuno dei terzetti costituisce il numero 3. Essi sono ben distinti dai duetti e dai quartetti, e ciò che li distingue è proprio il fatto di essere 3. Quindi un numero è la caratteristica comune a tutti gli insiemi costituiti da quel determinato numero di elementi. Il numero 7 per esempio è tecnicamente definito come l’insieme degli insiemi di 7 elementi.
Un’apparente tautologia
Questa affermazione sembra tautologica: come posso sapere il “numero di elementi di un insieme” se non conosco la definizione di numero e non so nemmeno cosa significhi contare?
Immaginiamo di avere duetti, terzetti e in generale insiemi di n elementi, come posso raccogliere tutti quelli con lo stesso numero di elementi senza effettivamente contarli?
Russell utilizza il criterio della corrispondenza biunivoca. Dati due insiemi, essi hanno la stessa cardinalità (numero di elementi) se e solo se è possibile creare una funzione biunivoca tra i due. Ovvero una funzione che ad ogni elemento del primo insieme associa uno e un solo elemento del secondo.
In questo modo è possibile raggruppare gli insiemi con la stessa cardinalità senza presupporre la capacità di contare. Fatto ciò è sufficiente dare un nome agli insiemi di insiemi (1 a quelli di 1 elemento, 2 a quelli di 2 e così via). In questo modo abbiamo definito i numeri in maniera consistente!
Cosa significa contare?
A questo punto resta solo da capire cosa significhi contare. Anche in questo caso è utile ragionare in termini di corrispondenze biunivoche. Soffermiamoci sul caso dell’osso di Ishago, su di esso ogni tacca sta a rappresentare un’unità. Non si sa cosa sia stato contato in questo modo, supponiamo i frutti raccolti durante la giornata. Ad ogni frutto corrisponde una tacca, quindi esiste una corrispondenza biunivoca tra l’insieme dei frutti e l’insieme delle tacche. Astraendo possiamo asserire che l’operazione di contare non è nient’altro che creare una corrispondenza biunivoca tra l’insieme degli oggetti da contare e un sottoinsieme dei numeri naturali!
Se vuoi approfondire ti consiglio l’articolo GEORG CANTOR: QUANTO È INFINITO L’INFINITO? in cui Lorenzo spiega come contare insiemi di infiniti elementi!
Spero che questo articolo ti sia piaciuto, nel prossimo vedremo come il concetto di numero si è evoluto nelle diverse culture. Ospite speciale: il numero 0!
Se ti interessa l’argomento dei numeri, del contare e la matematica più in generale ti consiglio questo libretto leggero ma interessante: L’uomo che sapeva contare.
* Fonte: Mathone (ripresa parziale - senza immagini).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
RILEGGERE SAUSSURE. UN "TRATTATO TEOLOGICO-POLITICO" RIDOTTO A UN BANALE "CORSO DI LINGUISTICA GENERALE"!!!
DONNE, UOMINI E MATEMATICA. Se le donne non "contano", non sanno nemmeno contare; e gli uomini, se "contano", altrettanto non sanno nemmeno contare!!! La punta di un "iceberg": una "nota" del "disagio della civiltà"
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Federico La Sala
SCIENZA, FILOSOFIA, E ANTROPOLOGIA. Non è il caso di ripensare i fondamenti?! *
Chimica.
I 150 anni della tavola di Mendeleev, il rivoluzionario degli elementi
Lo scienziato russo inventò la Tavola periodica degli elementi grazie alla sua passione per i giochi: la sua scoperta ha qualcosa di incredibile. Mendeleev scoprì anche l’origine minerale del petrolio
di Franco Gàbici (Avvenire, mercoledì 27 febbraio 2019)
Il primo giorno di marzo del 1869, e dunque 150 anni fa, il chimico russo Dmitrij Ivanovic Mendeleev (1834-1907) presentava la sua famosa "Tavola periodica degli elementi", che oggi sotto forma di poster campeggia in tutte le aule di scienze del mondo e in omaggio a questa straordinaria invenzione l’Onu ha dichiarato il 2019 "Anno internazionale della tavola periodica degli elementi".
Per la creazione di questa ’tavola’ lo storico della scienza John D. Bernal definì Mendeleev «il Copernico della chimica» e in effetti il chimico russo fornì ai ricercatori uno strumento efficacissimo che non solo catalogava gli elementi fino allora conosciuti ma consentiva soprattutto di fare delle previsioni.
Al tempo di Mendeleev erano conosciuti 63 elementi e gli scienziati si erano posti il problema di dar loro una sistemazione secondo uno schema logico. Anche Mendeleev, ovviamente, stava studiando la questione e la scoperta della sua tavola è legata a una storia che ha dell’incredibile.
Come Mendeleev sognò la Tavola periodica degli elementi
Mendeleev, infatti, era un appassionato giocatore di carte e il gioco che maggiormente preferiva era il cosiddetto "solitario". E proprio inventando un "solitario chimico" gli venne l’idea che gli avrebbe dato fama e prestigio. Mendeleev trascrisse su cartoncini il simbolo degli elementi conosciuti e il loro peso atomico, vale a dire il numero che si ottiene facendo la somma dei neutroni e dei protoni contenuti nel nucleo di ogni atomo, e si mise a giocare con quei cartoncini ordinandoli e organizzandoli proprio come si usa fare con le carte da gioco.
Quello strano "solitario", però, non gli indusse nessuna soddisfazione e così dopo tre giorni e tre notti trascorsi davanti al tavolo gettò la spugna e se ne andò a dormire. E qui accadde il miracolo, perché in sogno ebbe la visione di quella "tavola" che stava cercando. In quella tavola gli elementi, ordinati in colonne, e raggruppati in gruppi di elementi simili, presentavano «una evidente periodicità di proprietà» e proprio a causa di questa particolarità chiamò la sua tavola con l’appellativo «periodica». Ed era talmente convinto che la sua idea fosse giusta che proprio pensando a questa periodicità lasciò nella sua tavola alcuni spazi vuoti che, secondo le sue previsioni, sarebbero stati occupati da elementi ancora da scoprire.
Una Tavola profetica
La tavola periodica degli elementi all’inizio non fu però accolta molto benevolmente ma sei anni dopo quanti nutrivano dubbi dovettero ricredersi. Nel 1875, infatti, esaminando un metallo proveniente dai Pirenei, il chimico Paul Émile Lecoq de Boisbaudran scoprì il Gallio, un metallo che andò a occupare, accanto all’alluminio, la casella vuota che Mendeleev gli aveva riservato e per il quale aveva pensato il nome di "Eka-alluminio". Il peso atomico del Gallio (69.7) era molto simile a quello previsto da Mendeleev (68) e ciò dimostrava che la tavola funzionava. Successivamente altri tre posti vuoti previsti dalla tavola furono occupati dall’Elio, dal Neon e dall’Argon e ribadirono la geniale intuizione di Mendeleev.
Ovviamente le moderne tavole contengono più elementi perché ora gli elementi conosciuti hanno superato il centinaio. Gli ultimi inseriti, che completano il "settimo periodo" della tavola, sono quattro. Si tratta però di elementi creati in laboratorio e non rintracciabili in natura: il Nihonio (113), il Moscovio (115), il Tennesso (117) e l’Oganesson (118).
Nel corso del tempo la tavola di Mendeleev ha subito una sorta di restyling che, pur lasciando integra la sostanza, ne ha cambiato invece la forma. Moltissime le versioni, secondo alcuni sarebbero addirittura 800 e dalle forme più svariate: circolari, cubiche, a elica, piramidali, a spirale, a triangolo... Una versione curiosa ha disposto gli elementi secondo uno schema che segue il tracciato della metropolitana di Londra! Insomma, come si dice, ce n’è per tutti i gusti.
I rivali di Mendeleev
Non è infrequente, sfogliando la storia della scienza, imbattersi nell’annosa questione della priorità di una scoperta e Mendeleev e la sua tavola non fecero eccezione. Già Johann Wolfgang Döbereiner, un autodidatta garzone di una farmacia, aveva raggruppato a tre a tre gli elementi che avevano proprietà chimiche simili, insiemi conosciuti come le "triadi di Döbereiner", e che in qualche modo possiamo considerare i progenitori della tavola periodica. Anche John Dalton e John Newlands si interessarono al problema e altri ancora si aggiunsero all’elenco dei presunti scopritori della tavola come John Newlands che dopo aver notato il ripetersi di certe proprietà a intervalli di 8, paragonò la periodicità alle ottave musicali formulando la "Legge delle ottave".
L’unico, forse, che potrebbe a ragione rivendicare un diritto di priorità è Julius Lothar Meyer che nel 1864, e dunque cinque anni prima della presentazione di Mendeleev, dopo aver pubblicato una tavola nella quale aveva sistemato 28 elementi col criterio del peso atomico crescente, presentò una tavola periodica molto simile a quella di Mendeleev. E secondo Van Spronsen, dunque, Mendeleev e Meyer si possono considerare scopritori indipendenti della stessa legge.
Le due tavole erano molto simili. In entrambe, infatti, gli elementi erano sistemati in righe e colonne seguendo l’ordine del peso atomico crescente, ma alla fine fu adottata quella di Mendeleev perché risultava più precisa, ma anche e soprattutto per quegli spazi vuoti inseriti che ipotizzavano elementi ancora da scoprire.
Va infine ricordato che Mendeleev non va identificato tout court con la sua tavola. Il chimico russo, infatti, scoprì l’origine minerale del petrolio e si dedicò allo sviluppo dell’industria petrolifera e anche carbonifera. Credeva, inoltre, nel grande significato sociale e culturale della scienza e, come si legge nella voce che gli ha dedicato la grande enciclopedia Scienziati e tecnologi (Mondadori, 1975), «considerò il progresso della scienza come una condizione assolutamente indispensabile di sviluppo dell’economia e della cultura», un tema a lui molto caro e al quale dedicò numerosi articoli e saggi.
Idee.
La scienza ha bisogno della filosofia
Senza una visione umanistica che risalga ai fondamenti della conoscenza il rischio è la dispersione. Ma l’attività delle scienze trova il suo presupposto nella dimensione personale del ricercatore
di Giuseppe Tanzella-Nitti (Avvenire, giovedì 24 ottobre 2019)
La formulazione della tavola periodica degli elementi chimici, scoperta 150 anni or sono dal chimico russo Dmitrij Ivanovic Mendeleev, ha suggerito al Festival della scienza di Genova di dedicare l’edizione dell’anno 2019 al tema degli “Elementi”. La scelta è senza dubbio opportuna. Il metodo scientifico, infatti, deve gran parte del suo successo alla capacità di “ridurre” i fenomeni a modelli matematizzabili, in base ai quali poter predire il comportamento di un sistema nel tempo. Tale processo consiste nello “scomporre” il suo oggetto di studio per cercare gli elementi e le proprietà elementari del reale fisico.
L’implicita persuasione che orienta questo metodo è l’idea che per conoscere davvero una cosa occorra saperla scomporre nei suoi elementi e capire come e perché funziona... È ciò che facciamo quando esaminiamo una scatola di costruzioni... Il ricercatore, tuttavia, si imbatte spesso in qualcosa di inaspettato. Nell’operare questa “scomposizione” e procedere lungo il suo cammino di comprensione dei fenomeni, si accorge talvolta che, per comprendere e rappresentare un fenomeno, occorre partire da alcuni presupposti, che non appartengono, in senso stretto, al metodo scientifico. Così facendo la scienza spinge la sua analisi fino al fondamento stesso del conoscere. Il tentativo rappresentarlo, al confine fra scienza e filosofia, viene chiamato il problema dei fondamenti.
Le discipline scientifiche colgono questo stato di cose in diversi ambiti della loro ricerca. La cosmologia contemporanea lo fa quando cerca di tematizzare l’universo come un “tutto”, in particolare la sua origine. La fisica e la chimica, quando si interrogano sul motivo delle specifiche formalità dei componenti della materia, sulla loro universalità, sui loro criteri di ordinamento e di simmetria. La biologia si chiede se a fondare il suo oggetto di studio siano gli elementi che compongono il vivente o non, piuttosto, l’organismo nel suo insieme. Anche la matematica e la logica si interrogano sui loro fondamenti, quando ricercano la completezza dei sistemi assiomatici e dei linguaggi formali in genere.
In sostanza, per comprendere la realtà non basta conoscere gli elementi che la compongono (particelle elementari, elementi chimici), ma è necessario conoscere anche i processi di cui tali elementi sono oggetto e i loro rapporti con l’ambiente circostante. Si affacciano all’analisi delle scienze le nozioni di relazione e di informazione, proprietà che riguardano la totalità del sistema in esame e, grazie ad essa, aiutano a comprendere il comportamento delle parti che lo compongono. Ne risultano interessate, in particolare, la fisica (sistemi complessi, meccanica quantistica), la chimica (proprietà molecolari) e la biologia ( system biology). In questi fenomeni si converge ormai sulla conclusione che “il tutto è maggiore della somma delle parti”. Imbattersi nel problema dei fondamenti suggerisce che l’articolazione fra scienze e filosofia non sia solo quella del “limite” - immagine alla quale siamo abituati soprattutto nelle questioni di carattere etico - ma piuttosto quella dell’apertura e del trascendimento.
La riflessione filosofica non limita la scienza, impedendole di procede- re nella sua conoscenza, ma piuttosto la fonda e la trascende, offrendole i presupposti che la rendono possibile. Lungo questi percorso, la domanda dello scienziato sui fondamenti del conoscere può diventare apertura al mistero del Fondamento dell’essere. Nel suo volume La mente di Dio, Paul Davies scriveva: «Per quanto le nostre spiegazioni scientifiche possano essere coronate dal successo, esse incorporano sempre certe assunzioni iniziali. Per esempio, la spiegazione di un fenomeno in termini fisici presuppone la validità delle leggi della fisica, che vengono considerate come date. Ma ci si potrebbe chiedere da dove hanno origine queste leggi stesse. Ci si potrebbe perfino interrogare sulla logica su cui si fonda ogni ragionamento scientifico. Prima o poi tutti dobbiamo accettare qualcosa come dato, sia esso Dio, oppure la logica, o un insieme di leggi, o qualche altro fondamento dell’esistenza».
Molti scienziati - nel passato come nel presente - hanno condiviso la visione che la natura fosse effetto di un Logos creatore. A motivare la loro ricerca è stata la convinzione che esistesse una verità oggettiva, riflesso di un Fondamento increato e meritevole di essere cercata con passione. Francis Collins dichiara di averlo compreso studiando il Dna e restandone tanto colpito da convertirsi da posizioni agnostiche ad un cristianesimo convinto, fino a fondare l’importante Fondazione Bio-Logos per studi su scienza e fede. Non sappiamo se Mendeleev, già cristiano ortodosso, osservando la sua Tavola degli elementi chimici abbia provato un sentimento analogo. Dobbiamo però a lui l’opportunità, 150 anni dopo, di poterlo provare noi.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Federico La Sala
ARITMETICA, ANTROPOLOGIA, E "MONOTONISMO"... *
Profezia è storia /13.
Benedetto è il numero uno
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 31 agosto 2019)
In questo racconto, tra i più noti della letteratura religiosa antica, il numero benedetto è il numero uno. Con Elia, solo contro le centinaia di profeti di Baal, e Abdia unico salvatore di profeti, la Bibbia ci dice che in molte crisi tremende la salvezza arriva perché c’è rimasto un giusto che salva tutti. In alcuni momenti decisivi, la massa critica è uno. Noè, Abramo, Mosè, i profeti, Elia, Abdia, Maria, Gesù: per quanto importante e bello sia il "noi", la Bibbia esalta anche l’"io". Il noi non salva nessuno se al suo cuore non c’è almeno un io che obbedisce a una voce e liberamente agisce. Un io giusto è il lievito della buona massa del noi. È questa la radice di quel principio personalista al centro dell’umanesimo occidentale, che oggi, nel fascino esercitato da nuovi noi, continua a ripeterci che nessun gruppo supera in dignità la singola persona, al massimo la può uguagliare. Nel "calcolo della dignità" nei gruppi umani le regole dell’aritmetica non valgono. Questo valore non aumenta con la somma, perché il primo addendo ha già un valore infinito - qui uno più uno più uno fa sempre e solo uno.
Durante una carestia tremenda e lunghissima, mentre una regina sanguinaria sta sterminando i profeti di YHWH, un uomo li salva: «A Samaria c’era una grande carestia. Acab convocò Abdia, che era il maggiordomo. Abdia temeva molto YHWH; quando Gezabele uccideva i profeti di YHWH, Abdia aveva preso cento profeti e ne aveva nascosti cinquanta alla volta in una caverna e aveva procurato loro pane e acqua» (1 Re 18, 2-4). Abdia è un amico dei profeti. Come l’etiope Ebed-Melec l’eunuco che salvò Geremia dalla cisterna (Ger 38), anche ora incontriamo un uomo, un "maggiordomo", che salva i profeti dalla morte.
Anche la storia delle religioni e delle civiltà conosce questa categoria di giusti, questi goel. I profeti hanno molti nemici; ma hanno anche alcuni amici e "salvatori". Li ospitano nelle loro case-Betania, li nascondono, li curano, li consolano, credono in loro quando tutti li abbandonano. I profeti hanno questi amici, ne hanno almeno uno, almeno una, che diventa il tozzo di pane e il palmo d’acqua per non morire nell’attraversamento dei deserti. A volte sono i genitori, una sorella. Non sono sempre discepoli dei profeti, a volte sono solo amici. Un amico di profeta vale più di mille discepoli.
Abdia incontra Elia, e la dote con cui si presenta sono i cento profeti che ha salvato: «Io nascosi cento profeti, cinquanta alla volta, in una caverna e procurai loro pane e acqua?» (18, 13). Elia gli si fa incontro: «Quello lo riconobbe e cadde con la faccia a terra dicendo: "Sei proprio tu il mio signore Elia?". Gli rispose: "Lo sono; va’ a dire al tuo signore: c’è qui Elia"» (18, 7-8). Abdia ha paura. Elia lo rassicura, e lui va: «Abdia andò incontro ad Acab e gli riferì la cosa». (18, 16). Elia incontra finalmente Acab. Ed entriamo in una delle pagine più note e tremende della Bibbia: la sfida, la cosiddetta ordalia del Monte Carmelo tra Elia e quattrocentocinquanta profeti di Baal. Una scena potente ed epica, che ci fa vivere in presa diretta un brano della religione di quei popoli arcaici, in bilico tra magia e fede.
«Acab convocò tutti gli Israeliti e radunò i profeti sul monte Carmelo. Elia si accostò a tutto il popolo e disse: "Fino a quando salterete da una parte all’altra? Se il Signore è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!"» (18, 20-21). Elia propone un duello tra YHWH, il Dio di Israele e Baal, il dio locale fenicio-cananeo. Dalla parte di Baal ci sono centinaia di profeti; accanto a YHWH c’è il solo Elia.
Ancora una lotta impari, un altro Davide contro un altro Golia. Ma, anche qui, la vittoria non è una faccenda di forza né di numeri. È la qualità, non la quantità, il principio attivo di queste vittorie. Dal resto del racconto si comprende, infatti, che la sfida non è tra due dèi entrambi vivi, ma piuttosto tra Dio e il nulla. Questa vittoria di YHWH è una delle prime attestazioni monoteistiche di Israele. «Ci vengano dati due giovenchi; essi se ne scelgano uno, lo squartino e lo pongano sulla legna senza appiccarvi il fuoco. Io preparerò l’altro giovenco e lo porrò sulla legna senza appiccarvi il fuoco. Invocherete il nome del vostro dio e io invocherò il nome di YHWH. Il dio che risponderà col fuoco è Dio!"» (18, 23-24).
I profeti di Baal apparecchiano per primi il loro altare, e attendono che Baal, il dio dei fulmini, faccia bruciare la legna per il sacrificio. E poi «invocarono il nome di Baal dal mattino fino a mezzogiorno, gridando: "Baal, rispondici!". Ma non vi fu voce, né chi rispondesse» (18, 26).
Non vi fu voce... Torna quella nota bellissima che accompagna l’intera Bibbia: il Dio vero è il Dio della voce. YHWH parla, chiama, sussurra. Gli idoli sono falsi perché non hanno voce, sono sfiatati. La frenesia profetica cresce, svelandoci dettagli interessanti di quegli antichi riti: «Gridarono a gran voce e si fecero incisioni, secondo il loro costume, con spade e lance, fino a bagnarsi tutti di sangue» (18, 28). Il fuoco non ci accende, Baal non risponde. Elia ironizza e li sbeffeggia: «Gridate a gran voce, perché è un dio! È occupato, è in affari o è in viaggio; forse dorme» (18, 27). In questo sfottò Elia "si dimentica" che molti salmi sono un grido per "svegliare" Dio, e che la prima preghiera collettiva della Bibbia fu un urlo di schiavi perché YHWH, distratto, si ricordasse della sua promessa (Es 2). Anche i profeti più grandi nell’agone della lotta religiosa possono usare contro l’avversario le parole più umane e più belle imparate sotto la tenda di casa. Come noi.
Quindi arriva il turno di Elia: «Elia prese dodici pietre... Eresse un altare nel nome di YHWH... Dispose la legna, squartò il giovenco e lo pose sulla legna... Elia disse: "YHWH, Dio di Abramo, di Isacco e d’Israele, oggi si sappia che tu sei Dio in Israele... Rispondimi, Signore, rispondimi, e questo popolo sappia che tu, o Signore, sei Dio e che converti il loro cuore!". Cadde il fuoco del Signore e consumò l’olocausto, la legna, le pietre e la cenere» (18, 31-38). Colpisce l’essenzialità sobria della preghiera di Elia, se confrontata alla spettacolarità barocca dei profeti di Baal - le liturgie eccessive ed emozionali sono quasi sempre segno di fedi larvatamente idolatriche. Elia vince la sfida, e il popolo esclama: «YHWH è Dio! YHWH è Dio!» (18, 39). Elia celebra la sua vittoria facendo sgozzare uno a uno i quattrocentocinquanta profeti di Baal: «Elia disse loro: "Afferrate i profeti di Baal; non ne scappi neppure uno!". Li afferrarono. Elia li fece scendere al torrente Kison, ove li ammazzò» (18, 40). Un epilogo tremendo, come tutta la scena.
L’ordalia, o "giudizio di Dio", è una prova il cui esito veniva interpretato come diretta manifestazione della volontà degli dèi. Era molto diffusa nell’antichità e in molte culture. In Europa le ordalie furono introdotte soprattutto dai popoli germanici, in Italia dai Longobardi, per molti secoli tollerate anche dalla Chiesa. Nell’ordalia - del fuoco, dei veleni, dei metalli fusi... - chi usciva illeso dalla prova era considerato giusto e/o innocente. Il dato di fatto veniva eretto a volontà divina. Quindi il più forte in duello, o il più scaltro a camminare sul fuoco, era benedetto da Dio e portatore di un suo messaggio. E così, i forti diventavano ancora più forti, i deboli ancora più deboli. Qualcosa di molto simile alla religione economico-retributiva, che leggeva nella ricchezza la benedizione di Dio e nella povertà la maledizione, che rendeva i ricchi due volte benedetti e i poveri due volte maledetti.
La Bibbia ha dovuto lottare molto per liberarsi da questa visione arcaica e "naturalistica" della fede, e c’è riuscita solo in parte. Ha cercato di mostrarci che i "miracoli" non sono di per sé prove della verità della fede, ma solo segni imperfetti e sempre parziali. Perché anche i falsi profeti sanno fare miracoli, anche i maghi in Egitto simulavano le piaghe, e Simon Mago con i suoi gesti "strabiliava" gli abitanti di Samaria (Atti degli Apostoli, cap. 8). Geremia era avversato e perseguitato dai falsi profeti che invocavano il miracolo che li avrebbe salvati - che non ci fu.
C’è voluto l’Esilio per capire che YHWH non è vero perché vincitore, che continuava a essere il Dio della promessa anche da Dio sconfitto. Ma noi nonostante tutta la Bibbia, i Vangeli, san Paolo, san Francesco, nonostante il non-miracolo della croce e la non-ordalia dei chiodi e del legno, siamo troppo tentati di imitare Elia, di pensare che il nostro Dio è vero perché è vincente, e poi sgozziamo i perdenti.
Il miracolo del fuoco sul Monte Carmelo non prova che YHWH è Dio. Forse prova soltanto che Baal è un idolo, ma questo lo sapevamo prima dell’ordalia. Non è bene "tentare Dio", dirà un’altra anima della stessa Bibbia. Anche perché noi troppe volte apparecchiamo gli altari, facciamo veglie, urliamo e chiediamo il miracolo che non arriva. E come noi siamo capaci di non perdere la fede davanti a un figlio che non guarisce e muore, quella stessa fede vera non può essere creata da nessun miracolo. Anche perché di fronte a un miracolo per noi dobbiamo sempre continuare a chiedere a Dio: "Perché non agli altri"?
La parte luminosa di questa pagina buia del Monte Carmelo non sta allora nella luce del fuoco che irrompe sulla scena, ma nella domanda che Elia rivolge al suo popolo: «Fino a quando salterete da una parte all’altra? Se YHWH è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!» (18,21).
La tentazione idolatrica è tenace, sempre presente e attiva nel cuore dell’uomo e della donna perché, diversamente dall’ateismo, non nega Dio ma prima lo riduce a idolo e poi lo moltiplica - ogni idolatria è politeista, perché ogni consumatore ama la varietà delle merci. L’idolatra non rinnega Dio, lo rimpicciolisce per manipolarlo. I profeti ci dicono: "scegli", perché è meglio, paradossalmente, passare interamente a Baal che aggiungerlo nel tempio accanto a YHWH. Ma noi preferiamo molti piccoli dèi innocui a un unico Dio vero e scomodo. Ecco perché sulla terra l’idolatria è molto più presente della fede. Quando il figlio dell’uomo tornerà sulla terra vi troverà certamente l’idolatria. La fede non lo sappiamo. Speriamo che la trovi almeno in uno. E se viene presto, che quell’uno possiamo essere noi.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
SVOLTA IN FRANCIA. DALLA CARITÀ ("CHARITE’") DI PASCAL ALLA CARITA’ DI PAPA RAZTINGER ("DEUS CARITAS EST", 2006), DALLA CHIAREZZA DI CARTESIO ALLA "CONFUSIO-NE" ("COMMUNIO") DI J.-L. MARION .... IL PRESIDENTE SARKOZY E IL FILOSOFO J.-L. MARION: DALL’ACCOGLIENZA DELLA DIVERSITÀ ALLA DIFESA DELL’IDENTITÀ, ’NAZIONALE’ E ’CATTOLICA’.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Federico La Sala
Le api sempre più brave in matematica
Riconoscono i simboli e li associano ai numeri
di Redazione ANSA (05 giugno 2019)
Nuove sorprese dalle api che si rivelano sempre più brave in matematica: dopo la scoperta che riconoscono lo zero e sanno fare operazioni aritmetiche di base, adesso si sa che riescono a collegare i simboli ai numeri e diventano i primi insetti che si distinguono per questa abilità. Il risultato apre nuove possibilità di comunicazione tra gli umani e altre specie, oltre a più semplici approcci per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. La scoperta si deve alla ricerca pubblicata sulla rivista Proceedings of the Royal Society B e coordinata dall’Università di Melbourne in Australia (Rmit), in collaborazione con l’Università francese di Tolosa.
Il gruppo di ricerca è lo stesso che nel 2018 aveva scoperto che questi insetti riconoscono il concetto di zero, come delfini, pappagalli e scimpanzè. In questo nuovo esperimento i ricercatori hanno addestrato le api in un labirinto a forma di Y ad abbinare un simbolo a un numero, a esempio il simbolo 2 a due banane o due cappelli, rivelando che sono in grado di apprendere che un simbolo rappresenta una quantità numerica.
"Diamo per scontato che da bambini riusciamo a imparare che cosa sono i numeri, ma essere in grado di riconoscere cosa rappresenta il simbolo 4 richiede in realtà un livello sofisticato di capacità cognitive", osserva Adrian Dyer, della RMIT University.
La capacitù delle api di associare simboli e numeri è notevole, considerando che il loro cervello meno di un milione di neuroni, contro gli 86 miliardi del cervello umano. Altri studi, ha proseguito l’esperto, avevano già dimostrato che "i primati e gli uccelli possono imparare a collegare simboli e numeri, ma questa è la prima volta che osserviamo questa abilità negli insetti".
Se le api "hanno la capacità di apprendere qualcosa di così complesso come un linguaggio simbolico creato dall’uomo, questo - conclude - apre nuovi entusiasmanti percorsi per la comunicazione futura tra le specie, oltre a gettare nuova luce su come le abilità numeriche possano essersi evolute
“Francesco ormai è di sinistra come noi teologi ribelli”
Parla il frate domenicano, imprigionato dalla dittatura brasiliana, che è stato consigliere di Fidel Castro e del presidente Lula
di Piergiorgio Odifreddi (Il Fatto 29.01.2019)
Frei Betto è uno dei massimi esponenti della “teologia della liberazione”, che a partire dagli anni 70 ha cercato di coniugare la religione cattolica con l’impegno politico a favore dei deboli e degli oppressi, e di invertire le storiche alleanze della Chiesa con i regimi militari, dittatoriali e reazionari del Sudamerica. Abbiamo colto l’occasione della sua ultima visita in Italia per farci raccontare la sua avventurosa vita.
Quando è nata la combinazione dei suoi impegni religioso e politico?
Da quando, negli anni 50 della mia adolescenza, mi sono iscritto all’Azione Cattolica. Al contrario di ciò che succedeva in Italia con Luigi Gedda, che l’aveva indirizzata verso il centrodestra, in Brasile l’Azione Cattolica era vicina al Partito comunista. Fui poi influenzato dal pensiero e dall’esempio del guerrigliero Carlos Marighella, uno dei principali oppositori della dittatura militare negli anni 60.
Lei fu poi imprigionato dal regime.
Sì, per due volte: nel 1964, per quindici giorni, e tra il 1969 e il 1973, per quattro anni. La prima volta fui torturato, e la seconda cercarono di farmi fuori mettendomi per due anni tra i detenuti comuni. Avevo paura, ma poi mi accorsi che io e i miei tre confratelli eravamo rispettati e temuti dai carcerati: ci credevano dei terroristi, e qualcuno venne addirittura a dirci che voleva ‘arruolarsi nel nostro commando’, una volta uscito.
Ha scritto qualcosa, sulla sua esperienza in carcere?
Certo, due libri che hanno iniziato la mia carriera di giornalista e scrittore, con i proventi della quale ho sempre potuto mantenermi. Il primo è la raccolta di lettere dal carcere Dai sotterranei della storia (1971), che fu un successo. E il secondo è Battesimo di sangue (1983), la cui edizione italiana ha una prefazione di monsignor Luigi Bettazzi, e dal quale è stato tratto nel 2006 un omonimo film.
A parte monsignor Bettazzi, che era noto per le sue aperture a sinistra, quale fu la reazione del resto della Chiesa?
Nel 1970 il cardinale di San Paolo, il conservatore Agnelo Rossi, venne a trovarci in carcere, e noi gli mostrammo i segni delle percosse: lui uscì e disse alla stampa che stavamo bene, anche se qualcuno di noi si era ferito cadendo dalle scale. Paolo VI lo convocò a Roma, e al suo ritorno lui scoprì di essere stato ‘promosso e rimosso’: divenne prefetto di Propaganda Fide, e fu sostituito dal cardinale progressista Paulo Evaristo Arns.
Paolo VI non era dunque così male.
Era un uomo travagliato e indeciso, ma abbastanza aperto. Aveva letto il mio libro Dai sotterranei della storia e mi mandò in carcere un biglietto di incoraggiamento, accompagnato da un rosario realizzato con grani di ulivo della Terra Santa. La sua enciclica Populorum progressio (1967) mostra che non era contrario alla teologia della liberazione.
Al contrario di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Insieme, loro, hanno combattuto la teologia della liberazione per 36 anni. Basta ricordare l’episodio di Managua nel 1983, quando Wojtyla svillaneggiò in pubblico all’aeroporto Ernesto Cardenal, sacerdote e ministro della Cultura, che fu poi sospeso a divinis insieme agli altri preti del governo sandinista. Da confrontare con la sua stretta di mano al dittatore cileno Augusto Pinochet nel 1987. Per non parlare della sua alleanza con il presidente Ronald Reagan e dei suoi incontri con il capo della Cia William Casey, testimoniati da Carl Bernstein e Marco Politi nel loro boicottato libro Sua santità (1996).
E Ratzinger?
Di lui basta ricordare il processo al teologo Leonardo Boff, che pure era stato un suo allievo all’Università di Monaco. Un nuovo caso Galileo, che nel 1984 mise a tacere per anni la voce di uno dei maggiori teologi della liberazione. Nel 1992, dopo ulteriori minacce di reprimende, Boff decise di abbandonare il saio francescano: amica Ecclesia, sed magis amica Veritas.
Immagino le piacerà papa Francesco, nonostante l’ormai diffusa percezione che sia “molto fumo e poco arrosto”?
Il cardinal Bergoglio non era progressista, ma da papa Francesco è diventato un fautore della teologia della liberazione. Nella sua enciclica socioambientale Laudato si’ (2015) indaga le cause della devastazione della Natura. E le sue posizioni sulla comunione ai divorziati e sul battesimo ai figli di coppie omosessuali sono grandi passi avanti, anche se deve barcamenarsi tra tutti gli ostacoli che gli vengono messi di fronte.
Castro regalò a Francesco a Cuba “Fidel e la religione” (1985), la famosa intervista rilasciata a lei.
Spero che sia stata l’edizione in spagnolo, e non quella in italiano, che fu manipolata. So che Giovanni Paolo II lesse quel libro, in preparazione per il loro incontro del 1998. Io ho seguito dal vivo a Cuba tutte le visite dei tre pontefici, in qualità non solo di confidente di Castro, ma anche di suo consulente teologico. E so che il papa e il Comandante diventarono amici, e si incontrarono più volte in privato in nunziatura, durante la settimana di visita del 1998.
Quando conobbe Fidel?
Nel 1980 a Managua, alla festa per il primo anniversario del nuovo governo sandinista. Fui invitato insieme a Lula, che all’epoca era il capo dei sindacati brasiliani. Una sera il ministro degli Esteri, il sacerdote Miguel d’Escoto, fautore della teologia della liberazione, ci invitò a un incontro tra Castro e gli industriali. Quando questi se ne andarono noi rimanemmo a parlare fino all’alba: discussi con lui del modo in cui il regime trattava i religiosi, e di come l’atteggiamento ateo non fosse meno fondamentalista di quello religioso. Da quel momento egli mi considerò informalmente il suo consigliere per gli affari religiosi.
Quante volte l’ha incontrato?
Decine, ogni volta che andavo a Cuba: le ultime due nell’anno in cui morì. Mi invitava ad andarlo a trovare tardi a casa sua e parlavamo per ore di tutto. Anche di scienza, soprattutto dopo che gli diedi il mio libro con Marcelo Gleiser Conversazione su fede e scienza (2011). Una volta gli ho chiesto se era ateo, visto che molti se lo domandavano, ma lui rispose che preferiva essere definito agnostico.
Di Lula che mi dice?
Lo conosco da sempre, e so che non è personalmente corrotto: il processo che gli hanno fatto è una farsa politica, senza prove fattuali. Il suo governo è stato il migliore che il Brasile abbia mai avuto, ma purtroppo ha fatto molti errori, e molti esponenti del suo partito erano effettivamente corrotti.
E di Bolsonaro?
Le cose indecenti che dice sugli indigeni, sulle donne e sugli omosessuali lo qualificano come un fascista. E la sua ascesa democratica al potere mi ricorda quella di Hitler nel 1933. Spero di sbagliarmi, ma temo di no.
C’era una volta un paradosso... *
Il governo m5s-lega e il barbiere di Lenin
di Piergiorgio Odifreddi (Il Fatto, 03.11.2018)
Secondo Silvio Berlusconi, il governo gialloverde è “il più sbilanciato a sinistra della storia del Paese”. Poiché però il leader di Forza Italia è notoriamente ossessionato dai comunisti, che secondo lui sono insediati in ogni luogo e responsabili di ogni male, la sua opinione non va presa troppo seriamente. Ma può fornire lo spunto per ricercare analogie tra ciò che è successo a Palazzo Chigi dopo il 1° giugno 2018, con il governo del cambiamento italiano, e ciò che è accaduto allo Smolnij e al Cremlino dopo il 7 novembre 1917, con il governo rivoluzionario russo.
Lasciando da parte le opinioni ideologiche, grillo-leghiste da un lato e marxiste-leniniste dall’altro, concentriamoci sui fatti concreti, a cominciare dall’atteggiamento pauperista e semiascetico che i partiti pentastellato e bolscevico hanno imposto ai propri vertici e proposto ai propri militanti. Ad esempio, gli scontrini dei rimborsi spese dei parlamentari 5S della scorsa legislatura e i viaggi in economy dei nuovi ministri richiamano lo stile di vita modesto adottato da Lenin, che si accontentava di vivere insieme alla moglie e alla sorella in quattro sole stanze al Cremlino, e attendeva pazientemente in coda il proprio turno per passare dal barbiere.
Anche l’astio verso i tecnici e il sospetto nei confronti delle loro “manine”, uniti alle minacce e alle promesse di epurazione politica nei ministeri, trovano un’antecedente molto più drastico e radicale nell’esecuzione degli alti comandi zaristi e nel licenziamento degli ufficiali dell’esercito, che furono sostituiti da una nuova gerarchia tratta dalle truppe rivoluzionarie, di scarsa preparazione ed esperienza militare, ma di fidata fede bolscevica.
Quanto alla rimozione del pessimismo dei fatti e alla sua sostituzione con l’ottimismo della volontà, sintetizzate nel rifiuto del nuovo governo grillo-leghista di farsi condizionare dai mercati e dai trattati europei, e nel proposito di abolire la povertà per decreto, impallidiscono di fronte all’analogo rifiuto del nuovo governo bolscevico di farsi condizionare dalla situazione bellica al fronte e dai trattati internazionali, e al proposito di uscire unilateralmente dalla guerra con il decreto sulla Pace, approvato già l’8 novembre 1917.
In fondo non è sorprendente trovare simili analogie, in governi che si propongono programmaticamente di apportare cambiamenti radicali nello status quo del proprio Paese, e quelli fatti non sono che esempi paradigmatici delle novità da introdurre nel comportamento individuale dei nuovi leader, nell’organizzazione interna del nuovo Stato e nelle relazioni esterne con i Paesi stranieri. Novità che devono essere introdotte, per mantenere le promesse di cambiamento, ma che non necessariamente si possono introdurre.
Al proposito, la storia sovietica lascia poche illusioni al riguardo. Ad esempio, fare la fila dal barbiere poteva essere naturale per un politico disoccupato in esilio, ma diventava velleitario e sciocco per un capo di governo occupato a condurre una Guerra civile che impegnava tutto il suo tempo e richiedeva tutte le sue energie. Infatti, poco dopo Lenin capì che era meglio fare meno gesti simbolici, ma meglio il proprio lavoro. Anche aggirare e rimuovere i tecnici nell’esercito non si rivelò essere una grande idea, visti i risultati ottenuti al fronte. Infatti, durante la Guerra civile non si poterono risuscitare gli alti comandi zaristi fucilati, ma si dovettero reintegrare di corsa gli ufficiali rimossi, pur mettendo al loro fianco dei commissari del popolo a controllare le loro “ditine” posate sui grilletti. Perché con i dilettanti si stava perdendo la guerra, mentre per vincerla servirono i professionisti. Quanto ai condizionamenti esterni, si possono anche rimuovere nella propria testa, ma non per questo essi svaniscono miracolosamente.
Il decreto della Pace portò in poche settimane a un ultimatum tedesco e alla capitolazione di Brest-Litovsk, con la perdita di un terzo dell’impero russo: a sconfiggere in seguito la Germania non fu certo l’unilateralismo sovietico, ma l’azione comune degli Alleati.
I sovietici impararono presto la lezione che i proclami utopici e le azioni dimostrative sono malattie infantili del cambiamento, e li sostituirono con un realismo e un pragmatismo che permisero loro di sopravvivere per settant’anni, tanti quanti la nostra Repubblica.
Se il governo giallo-verde vuole provocare un cambiamento serio e desidera durare a lungo, dovrà imparare anch’esso presto la stessa lezione e vaccinarsi velocemente contro le stesse malattie infantili.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
BERTRAND RUSSELL: LA LEZIONE SUL MENTITORE (IGNORATA E ’SNOBBATA’), E "L’ALFABETO DEL BUON CITTADINO".
RIFARE UNO STATO?! BASTA UN NOTAIO, UN FUNZIONIARIO DEL MINISTERO DELL’INTERNO E LA REGISTRAZIONE DI UN SIMBOLO DI PARTITO CON IL NOME DEL POPOLO!!! A futura memoria, note e appunti sul caso
Federico La Sala
PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" ... *
L’effetto Matilda raccontato da Ben Barres, scienziato transgender
Un’attivista per i diritti delle donne vissuta alla fine dell’Ottocento, una storica della scienza e un importante neurobiologo. Il filo rosso che collega queste tre persone si chiama effetto Matilda.
di Simone Petralia (OggiScienza, 16 agosto 2018)
IPAZIA - Matilda Joslyn Gage è stata una femminista e una libera pensatrice statunitense. Nel corso della sua vita ha lottato per il suffragio femminile, per i diritti dei nativi americani e per l’abolizione della schiavitù. “Woman as inventor”, un suo breve saggio del 1870, è al tempo stesso un elogio dell’inventiva femminile e una denuncia lucida e argomentata delle discriminazioni e delle disparità di trattamento a causa delle quali il talento delle donne è spesso calpestato o non riconosciuto.
L’effetto Matilda: cos’è
La comunità scientifica, si sa, non è esente da pregiudizi. A parità di abilità e conoscenze, per esempio, uno scienziato famoso godrà di maggior credito rispetto a un ricercatore poco noto. Nel 1968, il sociologo Robert K. Merton ha definito questa forma di discriminazione “effetto san Matteo”, dal verso attribuito all’evangelista: “a chiunque ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha” (Mt 13, 12). Prendendo spunto dal lavoro di Merton e dal saggio di Matilda Joslyn Gage, nel 1993 la storica della scienza Margaret W. Rossiter ha sviluppato il concetto di “effetto Matilda”.
L’effetto Matilda indica la tendenza a sottovalutare o a sminuire i risultati scientifici conseguiti dalle donne. È stato dimostrato che le ricerche condotte da scienziate suscitano in media meno interesse e vengono citate con minor frequenza rispetto a lavori analoghi realizzati da uomini; quando l’importanza di una scoperta compiuta da una donna è innegabile, invece, questa viene spesso attribuita a un collega maschio. L’effetto Matilda ha segnato la carriera di molte grandi scienziate - da Nettie Stevens a Rosalind Franklin, da Cecilia Payne Gaposchkin a Wu Jianxiong - le quali spesso si sono viste negare un premio Nobel che sarebbe spettato loro di diritto; ma a subirne gli effetti sono state e sono tuttora anche migliaia di ricercatrici sconosciute che vedono il loro lavoro ignorato o svilito a causa di questo pregiudizio.
Il punto di vista di Ben Barres
“Ho vissuto nei panni di una donna e in quelli di un uomo. Questo mi ha dato la possibilità di riflettere sulle barriere che le donne devono affrontare”. Sono parole di Ben Barres, neurobiologo americano. Morto prematuramente nel dicembre del 2017, Barres è ricordato soprattutto per le sue importanti ricerche sul modo in cui le cellule gliali contribuiscono alla formazione e allo sviluppo dei neuroni. È stato uno scienziato di successo, ma - da uomo transgender - anche un alfiere della causa LGBTQ+, sempre in prima linea per il raggiungimento della parità dei diritti di tutte le minoranze.
Barres ha effettuato la transizione dal genere femminile a quello maschile nel 1997, quando aveva 42 anni e lavorava già da tempo alla Stanford University. Nel corso della sua vita ha avuto quindi la possibilità di toccare con mano le piccole e grandi differenze nel modo in cui solitamente ci si relaziona a un altro essere umano, a seconda che lo si percepisca come un uomo o come una donna. Soprattutto ha vissuto sulla sua pelle, per anni, ciò che per la maggior parte degli uomini è pura teoria: l’effetto Matilda.
Nel corso di una conferenza tenutasi nel gennaio del 2005, Lawrence Summers - importante economista, all’epoca presidente della Harvard University - aveva sostenuto che la scarsa presenza femminile in certi ambiti scientifici, come la matematica o l’ingegneria, è da imputare a una caratteristica innata delle donne, la mancanza di una attitudine intrinseca alla scienza. Poco tempo dopo anche lo psicologo cognitivo Steven Pinker e il biologo Peter Lawrence avevano formulato ipotesi analoghe. Quella del determinismo sessuale è un’idea che, in forme e con sfumature differenti, viene riproposta periodicamente. Alcuni scienziati e intellettuali - tra cui il nostro Piergiorgio Odifreddi - sostengono ancora oggi che la difficoltà che le donne hanno a emergere in certe discipline, come la matematica, sia dovuta al fatto che non sono biologicamente portate per l’astrazione.
Nel luglio del 2006, a distanza di alcuni mesi dalle esternazioni Summers e degli altri studiosi, esce su Nature un lungo articolo in cui Barres espone il suo punto di vista sulla questione. La domanda a cui cerca di rispondere è evidente sin dal titolo: “Does gender matter?”, il genere condiziona davvero le performance in ambito scientifico? La risposta è molto chiara: sì. Il genere conta, dice Barres, non tanto perché le donne abbiano caratteristiche innate che le rendono meno capaci degli uomini, quanto piuttosto per l’assunzione sociale che le donne siano per natura meno capaci. In altre parole, a condizionare i risultati scientifici femminili è proprio l’effetto Matilda.
Barres ha la possibilità di replicare alle affermazioni di Summers e degli altri sostenitori dell’innatismo biologico non da un punto di vista puramente teorico, ma rifacendosi alle sue esperienze personali. Avendo vissuto la prima parte della sua vita da donna, ha toccato con mano il sessismo strisciante e ha poi potuto paragonarlo al trattamento successivo riservatogli in quanto uomo. Quando studiava al MIT, racconta, era stata l’unica persona della sua classe - composta soprattutto da ragazzi - a risolvere un complesso problema matematico; il professore, non si sa se per gioco o sul serio, le aveva detto che a risolverlo doveva essere stato il suo fidanzato. Durante il dottorato ad Harvard aveva fatto domanda per un posto all’università; i candidati erano solo due: lei, che all’attivo aveva sei importanti pubblicazioni, e un uomo che aveva pubblicato un solo paper. Venne scelto il candidato maschile. Poco dopo la transizione, un membro della facoltà che aveva assistito a un seminario di Barres non sapendo che fosse transgender, aveva detto che le sue ricerche erano con ogni evidenza superiori a quelle della sorella. Aveva letto le pubblicazioni precedenti di Barres, firmate col nome femminile, senza capire che si trattava della stessa persona; il solo fatto che a scriverle fosse stata una donna era bastato a modificare, in peggio, la sua percezione sulla qualità complessiva del lavoro.
Nel suo articolo, oltre a raccontare episodi legati alla sua storia personale, Barres dimostra la pervasività dell’effetto Matilda ricorrendo anche ai dati. Numerose statistiche, infatti, dimostrano come il pregiudizio di genere sia un potente bias, una vera e propria distorsione cognitiva che condiziona il modo in cui si giudicano le persone. Questo avviene in tutti gli ambiti, anche in un contesto apparentemente evoluto e razionale come quello scientifico. Le donne che fanno domanda di finanziamento per le loro ricerche, per esempio, devono essere 2.5 volte più produttive degli uomini per essere considerate egualmente competenti.
Altri studi sulle minoranze
Altri studi dimostrano come il pregiudizio riguardi, oltre che le donne, anche tutte le persone appartenenti a minoranze di qualche tipo, sia etniche che legate all’orientamento sessuale o all’identità di genere. Sembra che l’unico modo per tenersi al riparo da questo bias sia essere maschi, bianchi, cisgender - cioè non transgender - e ovviamente eterosessuali. “La gente che non sa che sono transgender”, scrive Barres nel suo articolo, “mi tratta con molto più rispetto. Posso persino completare un’intera frase senza essere interrotto da un uomo”. Le persone riconosciute come transgender, invece, devono affrontare pregiudizi analoghi a quelli delle donne, soprattutto coloro che affrontano un percorso di transizione contrario rispetto a quello di Barres, ovvero dal genere maschile a quello femminile; passaggio percepito da molti, in maniera più o meno inconscia, come una sorta di “declassamento sociale”.
Tornando all’effetto Matilda, Barres nota come siano in pochi ad ammettere che si tratti di un problema reale del mondo scientifico. Non solo quasi tutti gli uomini sono inconsapevoli dei loro privilegi, ma anche molte donne sembrano essere riluttanti a riconoscere il peso reale della discriminazione di genere. Questo per varie ragioni, tra cui un fenomeno noto come “rifiuto dello svantaggio personale”, per cui le donne confrontano i loro risultati solo con quelli ottenuti da altre donne, escludendo gli uomini e inserendosi implicitamente in una categoria a parte.
Sono molte le cose che si potrebbero fare per contrastare l’effetto Matilda. In primo luogo, sostiene Barres, evitare di far sentire le ragazze - a scuola, in famiglia e in qualsivoglia contesto - non all’altezza dei loro coetanei maschi o non adatte a intraprendere una carriera scientifica; a lanciare segnali di questo tipo sono, in maniera il più delle volte inconsapevole, gli stessi genitori o gli insegnanti. Occorre poi che la comunità scientifica lavori per migliorare l’equità nei processi di selezione e per dare sempre più posizioni di leadership alle donne e a persone appartenenti a minoranze. “La diversità fornisce un punto di vista più ampio, più sensibilità e maggior rispetto per le diverse prospettive, valori inestimabili in qualsiasi ambito”. Serve, infine, riconoscere che il problema esiste. Non voltarsi dall’altra parte, ma parlare, esporsi, raccontare quello che si è subito e non vergognarsi - mai - di essere chi si è. Seguire, insomma, l’esempio di Ben Barres.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
ARITMETICA E ANTROPOLOGIA. UNA DOMANDA AI MATEMATICI: COME MAI "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia)?! Non è il caso di ripensare i fondamenti"? ..... *
Antropologia.
Caleb Everett: Siamo tutti figli dei numeri
Sono fondamentali per lo sviluppo della civiltà, delle relazioni umane e della coscienza di sé. Parla l’antropologo che ha studiato le società primitive che non ne fanno uso
di Eugenio Giannetta (Avvenire, mercoledì 15 agosto 2018)
Che ore sono? Quanto è alto? Quanto pesa? Domande semplici, che richiedono una risposta semplice, perlopiù racchiusa in un numero. Eppure ci sono società, popoli diversi dal nostro, che vivono senza i numeri per come li conosciamo e utilizziamo quotidianamente. Tutto ciò è al centro del lavoro di Caleb Everett, docente di Antropologia all’Università di Miami, che ha ripercorso le tappe dell’invenzione dei numeri: «Un insieme fondamentale di innovazioni di carattere linguistico che hanno contraddistinto la nostra specie in modi che non hanno trovato adeguato riconoscimento».
I numeri in effetti sono un’invenzione umana che di fatto ha trasformato l’evoluzione della nostra esperienza, a partire appunto da domande semplici.
«Nella popolazione Munduruku dell’Amazzonia - spiega Everett -, non esistono parole esatte per i numeri superiori al ’due’. Nel caso di un altro popolo amazzonico, i Piraha, le parole per indicare i numeri non esistono affatto, nemmeno per il numero 1. Gli individui di queste popolazioni come fanno allora a rispondere alla domanda ’quanti anni hai?’, o ad altre domande che si basano sul concetto di numero e che per la maggior parte delle persone della nostra società riguardano aspetti fondamentali della vita?». Everett ricorda come i numeri siano protagonisti nel nostro presente, ma anche nel nostro passato, poiché segnano la cronologia degli eventi e la percezione del trascorrere del tempo. La sua analisi, però, non si limita a questo, tocca infatti altri aspetti, come quello simbolico, le concezioni numeriche di bambini in età pre-linguistica e le capacità numeriche di alcune specie animali.
È un lavoro antropologico tout court, che attraversa la storia dei numeri e del linguaggio, e che ne definisce appunto il tratto numerico e il valore della quantità, a partire da misurazioni primitive, quindi da unità di misura indicate inizialmente con parti del corpo umano, fino a un diverso e più sviluppato livello di astrazione. Il risultato finale di queste ricerche, che hanno portato Everett in Amazzonia e Nicaragua,- è il saggio I numeri e la nascita della civiltà. Un’invenzione che ha cambiato il corso della storia (Franco Angeli, pagine 282, euro 25), di cui abbiamo parlato con l’autore, la cui tesi, riferita già dal prologo del volume, rivela come i numeri abbiano nel tempo consentito una fioritura di tecnologie materiali e comportamentali:
«Nella vita quotidiana ci affidiamo a conoscenze che non sono propriamente nostre, che possiamo ricavare dalle menti altrui, e che in molti casi sono state acquisite casualmente e in modo violento nel corso dei millenni. Pensate ad alcuni esempi della vostra cultura: non avete dovuto inventare l’automobile, gli impianti di riscaldamento o il modo più efficiente per sfilettare il pollo: sono tecnologie e comportamenti che avete ereditato. Le vostre azioni sono state modellate attraverso gli altri e siete stati educati ai vostri comportamenti, sia in modo formale che informale, attraverso il linguaggio».
Riflessioni, quelle dell’autore, che sono il risultato di un approfondimento capillare di ulteriori studi condotti da archeologi, linguisti e psicologi, che negli ultimi anni hanno provato a mostrare come i numeri siano un’invenzione in primo luogo linguistica, spesso creati a partire dalla parola mano, che ha consentito di definire le quantità con minore approssimazione. Un passaggio non distante, ad esempio, da quanto accadde con l’invenzione delle parole per definire i colori.
Proviamo a immaginare: che cosa potrebbe accadere a una popolazione che si ritrovasse improvvisamente senza numeri?
«Ci vorrebbe molto tempo, a meno che non siano stati cancellati anche dalla mente delle persone, oltre che dalla lingua parlata e scritta. Ma presumendo che siano magicamente scomparsi, dovremmo lottare per gestire molte delle tecnologie che ci circondano, che richiedono una certa consapevolezza di quantità precise. Ad esempio, non saremmo in grado di comunicare il tempo in modo preciso, il che avrebbe un impatto su qualsiasi altra cosa. Le popolazioni anumeriche, o quelle con pochi numeri, non tengono traccia di cose come ore, minuti e secondi».
Senza i numeri, come sarebbe la nostra vita?
«Senza numeri le nostre vite sarebbero probabilmente molto più simili a quelle delle persone di cui parlo nel libro. Probabilmente saremmo cacciatori, raccoglitori e non indu-strializzati, dal momento che sia l’agricoltura che l’industrializzazione si basano sugli strumenti concettuali che chiamiamo numeri».
I suoi genitori erano missionari e si sono occupati della traduzione della Bibbia in varie lingue, cosa che le ha dato la possibilità di passare molto tempo tra le tribù dell’Amazzonia. La sua esperienza da bambino in quei luoghi e con quelle culture ha ispirato questo lavoro?
«Certamente, mi ha dato un’esperienza di prima mano con un gruppo di persone che non ha numeri, che alla fine mi ha portato a interessarmi a questo argomento, come ricercatore, anni dopo».
È possibile che cambi la cultura numerica di una popolazione?
«Le culture numeriche cambiano continuamente. Basta considerare quanto sia cambiata la cultura numerica dell’Europa, o più specificamente la regione che ora è l’Italia. Durante l’impero romano fu usato un insieme di numeri completamente diverso, che aveva alcuni svantaggi rispetto al sistema numerico indù-arabo che ora usiamo. Fibonacci lo riconobbe nel XIII secolo e, in parte per via del suo lavoro, i numeri che ora usiamo arrivarono alla diffusione in tutto il mondo. E hanno svolto un ruolo importante nella rivoluzione scientifica».
Nella nostra epoca numeri e dati sono sempre più importanti, basti ragionare sul concetto di big-data. Quanto emerge questo aspetto dal suo lavoro?
«Faccio ricerche anche su altri argomenti, ad esempio sui suoni prodotti dagli esseri umani. E questa ricerca richiede l’utilizzo di big data. In un recente lavoro con migliaia di linguaggi, ad esempio, il mio lavoro suggerisce che il clima potrebbe influire sul modo in cui le lingue evolvono».
È possibile pensare a numeri scollegati dalla loro rappresentazione linguistica?
«Potrebbe essere possibile, ma possiamo dire con certezza che, prima di essere annotati o espressi in altri modi non verbali, in ogni cultura i numeri venivano prima pronunciati».
C’è una differenza tra tradizione orale e scritta riguardo ai numeri?
«La tradizione orale ha il primato, ma tornando a Fibonacci, ad esempio, i numeri che ha introdotto avevano una storia diversa rispetto ai numeri parlati italiani»
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
ARITMETICA E ANTROPOLOGIA. UNA DOMANDA AI MATEMATICI: COME MAI "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia)?! Non è il caso di ripensare i fondamenti?!
CHI SIAMO NOI IN REALTA’? Relazioni chiasmatiche e civiltà: UN NUOVO PARADIGMA.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE....
"Le donne non possono essere prete": lo stop di Ladaria
Il cardinale prefetto dell’ex Sant’Uffizio: "La dottrina è definitiva, sbagliato creare dubbi tra i fedeli. Cristo conferì il sacramento ai 12 apostoli, tutti uomini"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 maggio 2018)
CITTÀ DEL VATICANO - Si tratta "di una verità appartenente al deposito della fede", nonostante sorgano "ancora in alcuni paesi delle voci che mettono in dubbio la definitività di questa dottrina". A ribadire il "no" del Vaticano all’ipotesi dell’ordinazione presbiterale femminile è il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il neo-cardinale gesuita Luis Ladaria, in un lungo e argomentato articolo pubblicato sull’Osservatore Romano. Intitolato "Il carattere definitivo della dottrina di ’Ordinatio sacerdotalis’", il testo è scritto per fugare "alcuni dubbi" in proposito.
Evidentemente, il ritorno di proposte aperturiste circa le donne-prete avanzate soprattutto in alcuni paesi sudamericani in vista del Sinodo dei vescovi di ottobre dedicato all’Amazzonia, ha allarmato la Santa Sede che attraverso la sua massima autorità gerarchica ha voluto ribadire ciò che anche per Francesco sembra essere assodato: "Sull’ordinazione di donne nella Chiesa l’ultima parola chiara è stata data da Giovanni Paolo II, e questa rimane", ha detto Papa Bergoglio tornando nel novembre del 2016 dal suo viaggio lampo in Svezia.
Durante il Sinodo sull’Amazzonia uno dei temi centrali sarà quello della carenza di preti. Come superare il problema? In proposito, da tempo, si parla dell’opportunità di ordinare i cosiddetti viri probati, uomini sposati di una certa età e di provata fede che possano celebrare messa nelle comunità che, appunto, hanno scarsità di sacerdoti e dove è difficile che un prete possa recarsi con regolarità. Altri uomini di Chiesa fanno altre proposte: propongono, come ad esempio ha recentemente fatto monsignor Erwin Krautler della prelatura territoriale di Xingu in Amazzonia, che oltre ai viri probati si proceda con l’ordinazione delle diaconesse. Mentre altri ancora, invece, hanno parlato direttamente di donne-prete.
Ladaria ricorda che "Cristo ha voluto conferire questo sacramento ai dodici apostoli, tutti uomini, che, a loro volta, lo hanno comunicato ad altri uomini". E che per questo motivo la Chiesa si è riconosciuta "sempre vincolata a questa decisione del Signore", la quale esclude "che il sacerdozio ministeriale possa essere validamente conferito alle donne".
Già Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994, disse che "la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa". Mentre la Congregazione per la dottrina della fede, in risposta a un dubbio sull’insegnamento di Ordinatio sacerdotalis, ha ribadito che "si tratta di una verità appartenente al deposito della fede".
Chi vuole le donne-prete argomenta che la dottrina in merito non è stata definita ex cathedra e che, quindi, una decisione posteriore di un futuro Papa o concilio potrebbe rovesciarla. Dice, tuttavia, Ladaria che "seminando questi dubbi si crea grave confusione tra i fedeli" perché, Denzinger-Hünermann alla mano (l’autorevole volume che raccoglie simboli di fede, decisioni conciliari, provvedimenti di sinodi provinciali, dichiarazioni e scritti dottrinali dei Pontefici dalle origini del cristianesimo all’epoca contemporanea) la Chiesa riconosce che l’impossibilità di ordinare delle donne appartiene alla "sostanza del sacramento" dell’ordine. Una sostanza, dunque, che la Chiesa non può cambiare. "Se la Chiesa non può intervenire - dice ancora Ladaria - è perché in quel punto interviene l’amore originario di Dio".
Ladaria parla anche dell’infallibilità e del suo significato. Essa non riguarda solo pronunciamenti solenni di un concilio o del Papa quando parla ex cathedra, "ma anche l’insegnamento ordinario e universale dei vescovi sparsi per il mondo, quando propongono, in comunione tra loro e con il Papa, la dottrina cattolica da tenersi definitivamente". A questa infallibilità si è riferito Giovanni Paolo II in "Ordinatio sacerdotalis?, un testo che Wojtyla scrisse dopo un’ampia consultazione portata avanti a a Roma "con i presidenti delle conferenze episcopali che erano seriamente interessati a tale problematica". "Tutti, senza eccezione - ricorda Ladaria - hanno dichiarato, con piena convinzione, per l’obbedienza della Chiesa al Signore, che essa non possiede la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
Federico La Sala
MATEMATICA, TEOLOGIA POLITICA, E ANTROPOLOGIA...
Api matematiche, riconoscono lo zero
Come delfini, pappagalli e scimpanzè
di Redazione Ansa*
Anche le api entrano a far parte del club molto esclusivo di animali che sanno cos’è lo zero, insieme a delfini, pappagalli, scimpanzè e bambini in età prescolare: si tratta di una scoperta sorprendente, considerata la complessità del concetto matematico astratto del nulla, e apre a nuovi e più semplici approcci per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Lo studio, pubblicato sulla rivista Science, è stato coordinato dall’Università di Melbourne in Australia (Rmit), in collaborazione con l’Università francese di Tolosa.
La scoperta solleva non poche domande su come una specie così diversa e lontana dagli esseri umani, con meno di un milione di neuroni a confronto degli 86 milioni del cervello umano, possa condividere un’abilità così complicata: infatti lo zero è un concetto molto difficile che i bambini impiegano anni ad imparare e che era assente in alcuni sistemi numerici di antiche civiltà.
I ricercatori guidati da Scarlett Howard hanno attirato gli insetti verso una parete con piccoli fogli bianchi, ognuno con un numero da due a cinque di forme nere disegnate. Dopo aver addestrato le api tramite ricompense di cibo a scegliere i fogli con un minore o un maggior numero di forme, i ricercatori hanno introdotto due numeri nuovi, uno e zero: a quel punto gli insetti hanno dimostrato di sapere che lo zero è minore di uno.
"Se un’ape riesce a riconoscere lo zero con meno di un milione di neuroni", dice Adrian Dyer dell’Università di Melbourne, uno degli autori, "allora devono esserci modi più semplici ed efficienti per insegnare lo stesso concetto ai sistemi di Intelligenza Artificiale. Ad esempio - prosegue - per noi è semplice attraversare la strada quando non passa nessuno, ma per un robot risulta un compito molto più difficile".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
MATEMATICA, TEOLOGIA POLITICA, E ANTROPOLOGIA: CONTIAMO E PENSIAMO ANCORA COME SE FOSSIMO NELLA CAVERNA DI PLATONE. NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN
Federico La Sala
Chi è il numero uno?
Eugen Rosenstock-Huessy e il ruolo della prima persona.
di Damion Searls (Il Tascabile, 03.04.2018) *
Può essere sconvolgente rendersi conto, all’improvviso, che qualcosa a cui non avevi mai pensato - qualcosa che avevi sempre accettato come reale - è solo un articolo di fede. Spesso è il linguaggio a far accendere la lampadina: qualcuno ridefinisce la realtà con una nuova parola (mansplaining, Rebecca Solnit) o mostrando i poteri nascosti e le interconnessioni di una parola antica (debito, David Graeber). Raramente la rivelazione riguarda il linguaggio in sé.
La citazione è di Eugen Rosenstock-Huessy (1888-1973), un teorico del Cristianesimo dell’età moderna molto particolare. (Tutte le traduzioni sono dal volume The Language of the Human Race: An Incarnate Grammar in Four Parts [Die Sprache des Menschengeschlechts: Eine leibhafte Grammatik in vier Teilen].) Rosenstock-Huessy ha ispirato alcuni connoisseur, tra cui W. H. Auden e Peter Sloterdijk, ma possiamo dire in tutta tranquillità che è ancora poco conosciuto. È difficile capire cosa pensare di lui. Di sicuro trovo fastidiosa la palese importanza della nascita di Cristo - o della Missione Divina - che inserisce regolarmente nei suoi ragionamenti filosofici. (Auden: “Chi lo legge per la prima volta può trovare, come è capitato a me, certi aspetti della sua scrittura un po’ difficili da accettare... Per quanto mi riguarda, posso solo dire che ascoltando Rosenstock-Huessy, io sono cambiato”). Il dogma grammaticale a cui fa riferimento - e contro cui si è battuto a morte in un libro di oltre 1.900 pagine - è la lista all’apparenza innocente che risale ai Greci: la prima persona, la seconda persona, la terza persona. Io amo, tu ami, egli ama, o, se avete studiato Latino, amo, amas, amat.
Non sta dicendo che dovremmo aggiungere una forma per la “quarta persona”, come per esempio la distinzione tra terze persone in Ojibwe, oppure una “persona zero” per le costruzioni impersonali come in Finlandese. Sta dicendo che rendere “io” la prima persona è il peccato originale non solo della linguistica, ma della filosofia, della scienza e della stessa vita sociale. E lo intende davvero. Teoricamente, appiattisce l’esperienza vissuta in resoconti freddi e asettici, assimilando tutto all’“affermazione” di un “dato” in terza persona che non richiede alcun coraggio personale, non ha alcuna rilevanza sociale.
Empiricamente, la lista Greca commette un errore: la “prima persona” infatti non arriva per prima. L’io di un bambino si sviluppa quando gli viene rivolta la parola, da un genitore o da un’altra persona che si prende cura di lui. Qualcuno deve dire “tu” nel modo giusto perché un “io” non folle possa di fatto esistere. (Vedi Neither Sun Nor Death di Peter Sloterdijk, p. 30, dove ho sentito parlare di Rosenstock-Huessy per la prima volta). Dal punto di vista psicologico, neurocognitivo e dello sviluppo, “io” è l’ultima persona. Sei un bravo bambino. La bottiglia è lì. Ho fame.
È questa la rivelazione che mi ha tanto colpito. La prima persona non è la prima. Non esiste nessuna lista, a parte quelle che inventiamo. Che aspetto avrebbe il mondo se potessi vedere al di fuori di questo schema? Se prima venisse un legame tanto forte da darti l’autorità di giudicare l’esperienza di qualcun altro - tu ami, tu hai fame, sei carino oggi, ti stai comportando male - e poi venisse una visione condivisa del mondo, e solo successivamente un’espressione di sé? L’idea Cartesiana, “penso dunque sono”, e tutte le distinzioni tra mente/corpo/io/altro avrebbero potuto non emergere mai se Cartesio non fosse stato indottrinato con l’idea che “io” viene per primo. Esistono romanzi in prima e in terza persona, ma la seconda è un’anomalia, proprio come nella vita reale non possiamo prenderci la libertà di parlare per una seconda persona come faremmo di noi stessi in quest’era dell’espressione di sé. Quanto altro ancora della natura del romanzo, e della percezione della mia vita, risale essenzialmente alla grammatica greca di duemila anni fa?
Vale la pena notare che scrisse questi pensieri sulla tirannia nel 1945. E che l’uso del “lui o lei”, ben avanti sui tempi, è suo.
Rosenstock-Huessy fa risalire tutto a questo peccato, dai conflitti con l’autorità a scuola alla schizofrenia, e avanza delle rivendicazioni impressionanti per un proprio “metodo grammaticale” che riconfiguri il linguaggio. Come dicevo, non so cosa pensare al riguardo. Ma è qui, presentato per voi sotto forma di paragrafi alternati da me e da lui. Voi siete la prima persona. Fatene quello che volete.
Traduzione di Alessandra Castellazzi. Si ringraziano l’autore e The Paris Review per la pubblicazione dell’articolo.
* Damion Searls traduce dal tedesco, dal norvegese, dal francese e dall’olandese. Ha tradotto classici come Proust, Rilke, Nietzsche, e Ingeborg Bachmann. Il suo ultimo libro è Macchie d’inchiostro - Storia di Hermann Rorschach e del suo test.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Elementi per una matematica della fede
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 28.02.2018)
Benché apparentemente lontane, matematica e fede sono legate da una gran quantità di numeri: l’1 nel monoteismo, il 2 nella dualità tra il bene e il male, il 3 nella Trinità, il 4 nei Vangeli, il 5 nelle ferite di Cristo in croce, il 6 nei giorni della creazione del mondo, il 7 nei peccati capitali, l’8 nelle beatitudini, il 9 nelle novene, il 10 nel Decalogo, il 12 negli apostoli, eccetera. Il campione della numerologia teologica è stato Agostino, che arrivò a dire: “Togli i numeri alle cose, e tutte periranno”.
I numeri ci aiutano anche a misurare la fede e a monitorarne i cambiamenti, come nella recente indagine condotta dalla Community Media Research del sociologo Daniele Marini. Nel 2000, ad esempio, in Italia si dichiarava formalmente cattolico il 79,2% della popolazione, mentre nel 2017 la percentuale è scesa al 60,2%. E mentre nel 2000 il 49,6% dei cattolici dichiarati praticava assiduamente i riti e le funzioni religiose, oggi solo il 25,6% lo fa. Viceversa, coloro che dichiarano di non aderire ad alcuna religione sono saliti dal 18,8% al 33,4%. E coloro che si definiscono materialisti sono il 49,6%, a fronte di un 34,5% che si definisce religioso e/o spirituale. A conferma del fatto che anche in Italia, come nel resto del mondo occidentale, la società si sta sempre più secolarizzando e despiritualizzando, anche a causa del diffondersi della cultura tecnologica e scientifica, e nonostante la scarsa attenzione che questa cultura spesso riceve nelle scuole e nei media.
FILOSOFIA, MATEMATICA E REALTA’: IMPARARE A CONTARE!!! Una nota in memoria di PRIMO MORONI ...
PLAUDENDO AL VOSTRO "SPECIALE MATEMATICA E REALTÀ", in ottima corrispondenza con l’incontro filosofico del 22 pv (“Realismo Metafisica Modernità”, Aula Biblioteca Guglielmo Marconi - Piazzale Aldo Moro 7, Roma),
PREMESSO CHE il “LOGOS” non è un “NUMERO” (cfr. CONTARE E PENSARE... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4963) e, convinto che occorra legare insieme FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA (cfr. ATENE/EUROPA ... https://www.alfabeta2.it/2017/02/16/ateneeuropa-volare-sullabisso/#comment-625400),
COME CONTRIBUTO al lavoro della Redazione di ALFABETA2 e del SUO CANTIERE, ripropongo qui UNA DOMANDA AI MATEMATICI: COME MAI “UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO”?! Non è il caso di ripensare i fondamenti?! (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3995)
e un mio breve lavoro
in memoria di PRIMO MORONI:
CHI SIAMO NOI, IN REALTÀ?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4198).
BUON-LAVORO!!!
Federico La Sala (18.02.2017)
2)
MATEMATICA, REALTÀ, E CREATIVITÀ. Un omaggio ad “Alfabeta - 1”, “Alfabeta - 2“, e un contributo ai lavori del Cantiere ...
Realismo e Metafisica. A voler rendere meno sintetico ed ellittico il discorso, e a raccordare l’ieri con l’oggi, “ALFABETA 1” con “ALFABETA 2” e il CANTIERE, mi sia consentito richiamare, due miei interventi: il primo sugli atti di un convegno eccezionale sugli “stati generali” del realismo scientifico e filosofico - LIVELLI DI REALTÀ (“Alfabeta”, 66, 1984) e, insieme, il secondo sul “grande scontro” tra razionalismo fondazionalistico e razionalità antifondazionalistica - FILOSOFI CATTOLICI IN POLEMICA (“Alfabeta”, 108, 1988), intorno al lavoro del filosofo cattolico Dario Antiseri, vicino al “pensiero debole” ieri e vicino a studiosi e ricercatori (cfr. il suo contributo “L’universo incerto della ragione umana”, nel volume collettaneo “I modi della razionalità”, Mimesis Edizioni, 2016, pp. 29-45) di questi anni recenti, sino ad oggi.
REALISMO E MODERNITÀ. RIPRENDENDO A “CONTARE”, e portando alla luce del sole (dalla caverna o, se si vuole, da “interi millenni” di labirinto) il legame profondo tra filosofia, matematica, e antropologia, si arriva a comprendere di nuovo e meglio che della razionalità, come dell’essere, si può parlare “in molti modi” - non in un solo modo (quello mono-logico ed ego-latrico, con le sue platonizzanti pretese: “Io, Platone, sono la Verità”). E, altrettanto, come sia possibile riportare - FILOSOFICAMENTE E ANTROPOLOGICAMENTE - la vita e la ricerca sulla strada aperta da ARISTOTELE (al di là di ogni tomistica e neotomistica illusione: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3617#forum3121791) e illuminata da KANT (oltre ogni scetticismo e ogni idealismo-materialismo: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829), definitivamente, fuori dall’orizzonte della creatività “andropologica” dell’ “uomo supremo”, del “superuomo” e della sua società a “una” dimensione.
N.B. - L’uscita dallo “stato di minorità” è all’ordine del giorno già dal 1784...
BUON-LAVORO!!!
Federico La Sala (19.02.2017)
* DUE NOTE A MARGINE DELLO "SPECIALE MATEMATICA E REALTÀ" DI ALFABETA2.
Festival della filosofia in Magna Grecia
Dall’11 ottobre mille studenti da tutta l’Italia sul tema ’Uno’ *
(ANSA) - POTENZA, 4 OTT - Mille studenti liceali, provenienti da tutta l’Italia, parteciperanno alla ventesima edizione del "Festival della filosofia in Magna Grecia" - la rassegna dedicata ai percorsi filosofici e alla scoperta dei luoghi maggiormente simbolici - che per la Basilicata si svolgerà dall’11 al 14 ottobre tra Matera, Metaponto di Bernalda e Miglionico (Matera), con il titolo "Uno". Il cartellone è stato presentato a Potenza in una conferenza stampa. La rassegna, divenuta itinerante nel 2012, tocca i luoghi dell’approdo dei Greci nel Sud Italia, ed è dedicato ai ragazzi che vogliono avvicinarsi alla filosofia: nel corso dei tre giorni sono previste visite alle aree archeologiche, dialoghi con docenti ed esperti, concorsi e laboratori.
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COSTITUZIONE E PENSIERO. ITALIA: LA MISERIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA E LA RICCHEZZA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO ...
Piergiorgio Odifreddi, intervista Huffpost: "Il 90 per cento degli italiani è stupido"
di Redazione (l’Huffington post, 25/09/2016)
Odifreddi, nel suo dizionario c’è anche la voce: Matteo Renzi. Perché?
Se vogliono conquistare voti, i politici devono dire alle persone ciò che si vogliono sentir dire. Tendenzialmente, delle stupidaggini. E Matteo Renzi è l’erede perfetto di Berlusconi: il Cavaliere ha imparato a farlo cantando sulle navi, lui esordendo alla Ruota della fortuna.
Ma politicamente?
Renzi ha realizzato il programma berlusconiano, andando addirittura oltre con il Jobs act, che ha dissolto le tutele dello statuto dei lavoratori.
Dedica un lemma anche a Grillo.
Grillo ha iniziato a dire scemenze prima di cominciare a fare politica. Per dire: sosteneva che l’AIDS era una bufala, che l’OGM ammazza, che le radiazioni dei cellulari cuociono le uova. Ma lui ci crede. È questa la grande differenza tra Grillo e un politico di professione: che il politico deve dire delle cretinate per racimolare voti, lui le dice per convinzione.
Eppure ha un gran consenso.
Non voglio dire che il suo pubblico sia fatto di deficienti. È una parola brutta. Dico: ingenui. Ma rimane il fatto che sono persone che credono alle scie chimiche e fanno battaglie contro i detersivi. È la parte della società con meno mezzi culturali per giudicare.
Possibile che siano tutti così?
Bertrand Russell diceva che i politici hanno nei confronti degli elettori un vantaggio: che gli elettori sono più stupidi di loro. E giudicare Grillo, per me, è troppo difficile: mi è così distante che lo considero un minus habens. Quando lo sento, mi viene la pelle d’oca. Dicono che i suoi siano argomenti di pancia. Io fatico a considerarli proprio argomenti.
A Palermo, però, molte persone sono andate per ascoltarlo alla Festa nazionale dei 5 stelle.
Il novanta per cento delle persone è stupido. Quindi, considerato che siamo 60 milioni, in Italia ci sono almeno 54 milioni di stupidi: non credo ve ne siano di più a quella festa.
E gli altri dove vanno?
Vanno anche alle feste dell’Unità. Come si fa a pensare che dopo due anni di governo Renzi quella festa abbia un senso? Almeno, per decenza, cambiassero nome.
Non le sembra di sottovalutare? Il partito democratico governa il Paese, i Cinque stelle hanno conquistato due grandi città alle ultime elezioni.
C’è una differenza enorme tra le due città: a Torino, Chiara Appendino è il prodotto di ciò che i 5 stelle stessi chiamano poteri forti; a Roma, invece i poteri forti li hanno contro.
Può essere più esplicito?
Dietro Appendino c’è la Fiat. Appena aletta, John Elkan è subito corso a incontrarla. Viceversa, Virginia Raggi è dovuta recarsi in visita dal Papa.
C’è solo questa differenza tra le due?
No, Appendino ha le qualità per governare, Raggi le ha solo per vincere le elezioni.
Scrive: "E’ venuto il momento di tornare a considerare i banchieri paria della società e reietti da Dio".
Nel Medio Evo, era considerato usuraio chiunque prestasse denaro, a qualsiasi tasso. Oggi il fastidio per i banchieri è tornato a essere forte. Quando la gente vede i posti di lavoro che evaporano, le tutele che si dissolvono, e dall’altra gli aiuti di stato per tenere in vita istituti che hanno fallito, s’incazza.
Però è difficile vivere in un mondo senza banche.
Certo che si può vivere in un mondo senza banche. Per metà del secolo scorso, l’Unione Sovietica ne ha fatto a meno.
Non è andata benissimo, però.
Non per quel motivo. Mi domando perché non si possano nazionalizzare le banche che vengono salvate. Perché è diventata una bestemmia?
In Europa, nazionalizzare è contrario alle regole dell’Unione.
È per questo che l’UE suscita l’astio dei suoi cittadini: perché è solo un’unione economica.
Nel suo libro, mostra di preferire Ratzinger a Papa Francesco. Perché?
Da ateo, con Benedetto XVI ho avuto un dialogo. Mi è interessato leggere le cose che scriveva, Ratzinger aveva una profondità di pensiero. La statura intellettuale Papa Francesco lascia perplessi. Quando parla, mi cadono le braccia. La misericordia, il vogliamoci bene, l’amore: sono cose talmente banali. Chi può essere contrario?
È facile criticare l’Islam allo stesso modo in cui lei, ora, ha fatto con il Cattolicesimo?
Penso che, in realtà, sia molto più facile criticare l’islam che il Cristianesimo. Farlo, è politicamente corretto. Ci sono partiti politici che fanno propaganda sull’equazione musulmano uguale terrorista. E l’opinione pubblica è sempre sul chi va là.
Dimentica quello che è successo in Francia per le vignette di Charlie Hebdo su Maometto?
La diversità è che i cristiani non vengono sotto casa ad aspettarti se li prendi di mira con la satira. Ma ricorda la parodia di Ratzinger fatta da Crozza? A un certo punto ha dovuto smettere di farla. E potrei fare altri esempi. Nei risultati, non è molto diverso da quello che accade con l’Islam.
Lei è stato compagno di classe di Flavio Briatore. Ha letto della polemica sul turismo al sud, secondo lui poco sensibile ai bisogni dei ricchi?
Non saprei dire se è così. So che con Briatore studiavo al geometra. Lui fu bocciato al secondo anno, poi lasciò e fece una scuola privata per recuperare tutti gli anni in uno. Credo sia la dimostrazione che il detto popolare - "ultimi a scuola, primi nella vita" - è vero.
La sfida dei numeri è letteraria
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 17.04.2016)
La matematica, come si sa, è la Cenerentola della cultura: un po’ dovunque, ma soprattutto in Italia. È difficile immaginare che la sua storia si concluderà felicemente come nella fiaba, con qualche principe azzurro che la sposerà. Ma ogni tanto, almeno, sulla porta di casa la matematica può appendere un fiocco rosa, per annunciare un suo qualche parto: verginale, ovviamente.
È il caso della nuova rivista mensile Mate, che reca come sottotitolo Da zero all’infinito. È pubblicata dalla casa editrice Centauria, e il suo primo numero si troverà in tutte le edicole da questo mercoledì. Avrà 100 pagine e sarà disponibile sia in edizione cartacea che digitale, per tablet o cellulare. Il suo direttore, Luciano Regolo, ha dichiarato che la rivista vuole «cercare di sfatare il pregiudizio che la matematica sia appannaggio di pochi eletti». Una sfida che verrà affrontata «offrendo uno spaccato di quanto numeri e formule siano nella nostra quotidianità, nella natura, nell’arte e nel tempo libero, nel nostro passato, nel nostro presente e nel nostro futuro».
Ogni numero di Mate conterrà almeno un’intervista, oltre a dossier, studi, approfondimenti, spiegazioni di teoremi teorici e pratici, analisi dei legami con l’attualità, una ricca sezione di giochi e, dulcis in fundo, un “giallo del mese”: tutto a sfondo matematico, ovviamente. Auguri, dunque, e 1000 numeri!
Odifreddi sa che la matematica è il grande motore dela civiltà, ma non sa «Che cos’è il numero, che l’uomo lo può capire? E che cos’è l’uomo, che può capire il numero?»
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 23.02.2011)
Il sistema oggi in vigore in Occidente è stato "inventato" in India nel V secolo e poi tramandato dagli arabi agli europei Risultati geometrici, astronomici e architettonici molto importanti sono stati raggiunti da vari popoli in epoche e luoghi diversi Un saggio di Bellos mostra come, dall’abaco alle tabelline, lo sviluppo dell’uomo sia legato al saper contare
Se avesse voluto apporre un’epigrafe al suo libro Il meraviglioso mondo dei numeri (pubblicato da Einaudi Stile Libero), Alex Bellos avrebbe potuto usare la duplice domanda del neurofisiologo Warren McCulloch: «Che cos’è il numero, che l’uomo lo può capire? E che cos’è l’uomo, che può capire il numero?». Perché il suo sterminato ed enciclopedico libro è appunto un tentativo, divertente e riuscito, di rispondere a entrambi gli interrogativi, e di mostrare come le storie del numero e dell’uomo siano in realtà intrecciate in maniera inestricabile, e i progressi e regressi dell’uno siano andati di pari passo coi progressi e regressi dell’altro.
L’espressione "mondo dei numeri" del titolo si riferisce dunque non soltanto al concetto oggettivo di numero da una parte, e alle sue rappresentazioni soggettive nello spazio geografico e nel tempo storico dall’altra, ma anche alle facoltà intellettuali dell’uomo. In particolare, al fatto che la scrittura alfabetica e la notazione numerica hanno sempre fecondamente intessuto, in teoria e in pratica, un rapporto di mutua stimolazione e derivazione.
Non stupisce quindi che il libro di Bellos sia in realtà una storia delle civiltà mascherata, osservata e raccontata dai complementari punti di vista del numero, delle cifre e del calcolo: tre aspetti di un’unica realtà, che costituiscono le versioni aritmetiche del pensiero, della scrittura e del linguaggio. Né stupisce che il libro mostri che, come le idee sono legate alla lingua in cui vengono espresse, e le parole sono legate alla scrittura con cui vengono registrate, così le varie civiltà abbiano affrontato e risolto in maniera diversa i problemi di definire filosoficamente i numeri, rappresentarli semioticamente e manipolarli matematicamente, rispondendo in maniera diversa alla domande su che cosa essi siano, come si possano indicare e come li si possa maneggiare.
Naturalmente, non tutte le civiltà hanno trovato "la soluzione" di questi problemi, che consiste in una ricetta che combina i seguenti quattro ingredienti. Primo, scegliere una base arbitraria ma conveniente: ad esempio, dieci. Secondo, indicare tutti i numeri positivi minori della base con segni differenti: ad esempio, le cifre da 1 a 9. Terzo, rappresentare i numeri maggiori mediante un sistema posizionale, in cui le cifre hanno un valore diverso a seconda di dove si trovano: ad esempio, assegnando allo stesso 1 il valore di uno, dieci o cento, e allo stesso 2 il valore di due o venti, nelle espressioni 1, 12 e 123). E quarto, aggiungere una cifra (ad esempio, 0) per rappresentare allo stesso tempo sia un posto vuoto nella precedente rappresentazione, sia il numero zero corrispondente a una quantità nulla.
Anzi, questa "soluzione" è il lascito culturale all’umanità di un’unica, grande civiltà: quella indiana della dinastia Gupta, che regnò nella valle del Gange e dei suoi affluenti tra il terzo e il sesto secolo della nostra era, ed è ricordata anche nella storia dell’arte per i suoi capolavori, primi fra tutti le pitture e le sculture delle grotte di Ajanta. La più antica registrazione dell’uso del sistema numerico indiano viene dalla Lokavibhaga: un’opera del 458, la cui datazione stabilisce un limite temporale superiore alla nascita del sistema numerico che oggi è universalmente in vigore nel mondo intero, dopo essere stato adottato dagli Arabi, e da essi tramandato agli Europei.
I quali, come ricorda Bellos, non soltanto l’hanno accettato con grandi e secolari resistenze, ma ancor oggi lo usano in maniera impropria. Ad esempio, privilegiando alcune potenze della base dieci come il mille, il milione o il miliardo, e non assegnando alle potenze intermedie nomi propri, bensì nomi composti come diecimila e centomila, o dieci milioni e cento milioni, che trattano quelle potenze come basi aggiuntive al dieci e macchiano la purezza del relativo sistema decimale. Una stonatura che invece gli indiani seppero evitare.
Come racconta Bellos, il massimo numero per il quale gli indiani coniarono un nome fu quello delle gocce di pioggia che potrebbero cadere in diecimila anni sull’insieme dei mondi, valutato dal Buddha in dieci alla centoquaranta e da lui chiamato asankhya: una parola sanscrita che significa letteralmente "innumerabile" o "incalcolabile". In Occidente soltanto Archimede poté competere con queste imprese: per rimediare alla pochezza della lingua greca, che aveva come massimo nome di numero la miriade, pari a diecimila, nell’Arenario egli inventò un modo sistematico per parlare di grandi numeri e lo applicò al calcolo del numero dei granelli di sabbia che potevano riempire l’universo, da lui valutato in dieci alla sessantatrè.
Ma non solo i Greci non avevano nomi per i grandi numeri: non avevano neppure le cifre, e usavano le lettere al loro posto. Poiché l’alfabeto classico aveva ventiquattro lettere, aggiungendone tre cadute in disuso essi ottennero un sistema di ventisette lettere, che divisero in tre gruppi di nove ciascuno: le prime nove per le unità, le seconde nove per le decine, e le ultime nove per le centinaia. Questo permise divertimenti come la composizione di poemi isopsefi, "a stesso calcolo", in cui tutti i versi avevano la stessa somma numerica delle lettere. O paranoie come la lettura simbolica di numeri quali l’apocalittico 666, variamente interpretato nei secoli come il nome di Nerone, Diocleziano, Lutero o il Papa.
Ma non facilitò le operazioni aritmetiche, per le quali si dovette ricorrere a vari tipi di abaco: una letterale "tavoletta" che poteva essere di sabbia, di cera o a gettoni, e che permetteva di compiere in maniera analogica le operazioni che il sistema indiano permette invece di fare sulla carta in maniera digitale, manipolando le cifre con l’ausilio delle "tabelline’’. Bellos ci narra che l’abaco fu usato, in qualche forma, da tutti i popoli che non possedettero un adeguato sistema numerico che permettesse di fare i "calcoli": una parola, questa, che significa letteralmente "pietruzza" (come nel caso dei calcoli al fegato o alla cistifellea), e richiama l’origine primordiale dei numeri.
È in queste molteplici origini che si trovano le tante albe del numero di cui trattano i vari capitoli del libro di Bellos. Il sistema sessagesimale additivo dei Sumeri, ad esempio, di cui rimangono vestigia nel nostro computo dei secondi in un minuto, dei minuti in un’ora e dei gradi in un angolo giro. Il sistema decimale posizionale dei Babilonesi, che introdusse lo zero come posto vuoto. Il sistema vigesimale posizionale dei Maya, che arrivò a considerare lo zero come numero indipendente. E soprattutto il sistema completo di tutti gli ingredienti degli Indiani, che condividono con i Babilonesi, i Cinesi e i Maya l’introduzione del sistema posizionale, con i soli Maya l’invenzione dello zero, ma con nessun altro l’intuizione della necessità di indicare in maniera indipendente tutti i numeri minori della base.
Analogamente all’evoluzione biologica dell’uomo, o all’evoluzione linguistica dell’alfabeto, non bisogna però guardare all’evoluzione numerica del sistema indiano come a una teleologia. Da un lato, infatti, la constatazione che solo una civiltà è arrivata alla "soluzione" mostra che quest’ultima non può essere vista come un’inevitabile necessità, e dev’essere piuttosto considerata come una fortunata contingenza. E, dall’altro lato, i risultati geometrici, astronomici e architettonici raggiunti rispettivamente dai Greci, dai Maya e dai Romani, che possedevano solo sistemi numerici parziali e incompleti, mostrano che il progresso matematico, scientifico e tecnologico può evolversi in direzioni multiple e complementari, di molte delle quali Il meraviglioso mondo dei numeri narra le affascinanti vicende.
BERLUSCONI (CON I SUOI COM-PARI) RUBA LE CHIAVI DI CASA DELL’ITALIA INTERA, REALIZZA UN COLPO DI STATO, E IL PARLAMENTO E IL CAPO DELLO STATO PERMETTONO A 17 ANNI DI DISTANZA ANCORA L’ESISTENZA DEL SUO PARTITO!?!
DUE PRESIDENTI (1994-2011) GRIDANO "FORZA ITALIA"!!! E si pensa ancora che sia tutto una barzelletta!!! (fls)
di Gaetano Azzariti (il manifesto, 10.02.2011)
«Farò causa allo Stato», sarebbe questa la reazione di Berlusconi alla richiesta di rito abbreviato presentata dalla Procura di Milano. Vista la nota propensione a raccontar barzellette del nostro Presidente del Consiglio si può pensare che si sia trattato solo di una malriuscita battuta di spirito.
Se, invece, si dovesse prendere sul serio l’affermazione riportata dalle agenzie di stampa, essa apparirebbe sintomatica di una concezione premoderna dei rapporti tra poteri, estranea alla nostra cultura democratica e costituzionale, lontana dalla realtà dello Stato contemporaneo e dall’evoluzione che, dai tempi di Montesquieu, ha portato a conformare lo Stato come un’entità divisa.
Una barzelletta se s’immagina il «Capo» del governo che fa causa a se medesimo, chiedendo magari al «suo» ministro della giustizia il risarcimento per i danni subiti dal tentativo di svolgere i processi che lo vedono coinvolto. Vedere accanto la vignetta-copertina di Vauro, certamente illuminante più di ogni discorso su una simile schizofrenia dissociativa.
A noi non rimane che prendere sul serio quanto è stato detto. La dichiarazione è grave e inquietante perché tende a negare ogni autonomia ai poteri dello Stato, a quello giudiziario in particolare. Se si ha un minimo di rispetto per la divisione dei poteri (carattere fondativo della civiltà costituzionale moderna) si dovrebbe sapere che compete ai giudici l’esercizio della giurisdizione nei confronti di ogni soggetto di diritto, di ogni persona. La minaccia di «far causa» perché il giudice svolge le sue indagini ha come scopo quello di negare l’autonomia e l’indipendenza del potere, mira a delegittimare l’ordine della magistratura nel suo complesso.
Nulla può valere a giustificare le affermazioni del premier, neppure le sue eventuali ragioni «processuali». Non si può escludere allo stato, infatti, che la Procura di Milano stia interpretando male le regole processuali, né si può escludere che in sede dibattimentale le ragioni della difesa prevalgano su quelle dell’accusa, venendosi così a dimostrare la non perseguibilità penale per le imputazioni mosse. Ma ciò dovrebbe indurre Berlusconi a partecipare al processo che lo vede indagato, non a minacciarne un altro «eguale e contrario».
Deve essere chiaro che la Procura sta esercitando le sue funzioni d’indagine nel rispetto delle regole processuali. Ha presentato, infatti al Gip la richiesta di rito immediato ai sensi degli art. 453 e segg. del Codice di procedura penale. Spetterà ora al Giudice verificare la sussistenza dei presupposti.
Ci sono alcuni profili giuridici che dovranno essere valutati con attenzione e pacatezza: quelli concernenti la possibilità di procedere per via breve, oltre che per il reato di concussione, anche con riferimento all’accusa di sfruttamento della prostituzione minorile; quello riguardante la competenza della procura milanese; quello relativo al carattere comune ovvero funzionale del reato di concussione posto in essere - secondo l’accusa - dal Presidente del Consiglio. Questioni delicate, che si dovrebbero sviluppare secondo la normale dialettica processuale, nel contraddittorio delle parti, in base a quanto stabilisce la legge.
Ma chi ha mai detto che è facile fare i processi? Anche le accuse dovranno essere provate. In fondo proprio a questo servono i processi. Sono le «sante inquisizioni» i riti d’indagine che non servono a nulla, avendo sin dall’inizio già formulato una condanna. Per fortuna il medioevo giuridico è alle nostre spalle, sebbene il Presidente Berlusconi non sembra essersene accorto. Noi, che siamo sempre stati garantisti, con tutti e in ogni caso, non indietreggiamo: è nel processo che si provano le accuse e può farsi valere l’innocenza di ciascun indagato.
Per cortesia Cavaliere, si faccia processare. Dimostri, se può, in quella sede la sua innocenza, almeno la non rilevanza penale dei suoi comportamenti privati: l’onore del paese ne verrebbe sollevato. Se è convinto che la procura di Milano non abbia «né la competenza territoriale né quella funzionale» faccia come tutti: lo dica al giudice che dovrà valutare l’operato della procura, eserciti i suoi diritti di difesa. Ma non fugga dal processo, non è più il tempo antico del «diritto sovrano». E poi, signor Presidente se lo faccia dire: se proprio non crede alla giustizia perché vuol far causa allo Stato?