Galileo, il più grande scrittore italiano
La sua lezione: Poesia e conoscenza non si escludono a vicenda
di Piergiorgio Odifreddi (il Fatto, 03.10.2012)
Galileo è il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo. Affermazione perentoria, questa, che certamente farà sorridere di sufficienza il lettore umanista, pronto a consigliare al matematico di preoccuparsi degli argomenti di sua competenza. Peccato però che l’affermazione sia di uno dei nostri maggiori letterati: la fece infatti Italo Calvino sul Corriere della Sera il 24 dicembre 1967, non mancando di suscitare reazioni e proteste.
Carlo Cassola, ad esempio, saltò su a dire: “Ma come, credevo che fosse Dante! E poi, Galileo era scienziato e non scrittore”. Senza desistere, Calvino rispose precisando il suo pensiero su due piani. Il primo, interno, rilevava che “Galileo usa il linguaggio non come uno strumento neutro, ma con una coscienza letteraria, con una continua partecipazione espressiva, immaginativa, addirittura lirica”. Il secondo, esterno, notava che “Galileo ammirò e postillò quel poeta cosmico e lunare che fu Ariosto”, e che “Leopardi nello Zibaldone ammira la prosa di Galileo per la precisione e l’eleganza congiunte”.
In altre parole, Galileo sarebbe il medio proporzionale fra l’Ariosto e il Leopardi, e i tre identificherebbero un’ideale linea di forza della nostra letteratura.
Inutile dire che Calvino stesso si considerava un punto di questa linea, caratterizzata da una concezione della letteratura come mappa del mondo e dello scibile, e da uno stile intermedio fra il fiabesco realista e il realismo fiabesco. E niente forse esibisce questa comunanza di stili, più delle parallele e quasi identiche metafore che Galileo e Calvino fanno della scrittura stessa, come di un’interminabile e ininterrotta linea creata dal movimento della penna.
Leggiamo, infatti, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo: “quei tratti tirati per tanti versi, di qua, di là, in su, in giù, innanzi, indietro, e intrecciati con centomila ritortole, non sono, in essenza e realissimamente, altro che pezzuoli di una linea sola tirata tutta per un verso medesimo’”.
La “scrittura rampante” del Dialogo sui massimi sistemi
Nelle ultime righe del Barone rampante si legge “Questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito”.
E allora, perché avviciniamo Calvino e gli scrittori per il puro piacere di leggere, e Galileo e gli scienziati soltanto per il dovere di conoscere? Non avrebbe senso portare le pagine del Dialogo sulle pubbliche piazze, allo stesso modo in cui Benigni declama i versi della Commedia? Col vantaggio, fra l’altro, di non essere costretti a sorbirci gli anacronismi del povero padre Dante, che con i suoi angeli e demoni oggi ci appare più un precursore dei fumettoni alla Dan Brown, che il cantore di una moderna visione del mondo? In fondo, “a voler dir lo vero”, sono proprio le bassezze cosmologiche, teologiche, filosofiche e politiche della Commedia a renderla così adatta agli altissimi spettacoli del nostro maggior comico.
Ma non sempre e non tutti abbiamo voglia di ridere, e a volte qualcuno potrebbe desiderare la seria lettura di pagine che fossero nobili e alte anche per il pieno contenuto, e non soltanto per la vuota forma. E che quelle di Galileo lo siano.
La nave su cui Galileo naviga letterariamente costituisce uno dei laboratori in cui si eseguono gli ideali esperimenti scientifici del Dialogo, e il fatto che su di essa la vita si svolga nella stessa identica maniera che sulla Terra, ad esempio per quanto riguarda la caduta di una palla di piombo o il volo di un insetto, dimostra la relatività galileiana: il fatto, cioè, che le leggi della meccanica sono invarianti rispetto a sistemi in moto uniforme, che risultano dunque indistinguibili fra loro da questo punto di vista.
Sulla Luna prima di Leopardi. E sulle leggi dell’universo prima di Einstein
Tre secoli dopo Albert Einstein userà analogamente treni e ascensori per argomentare a favore, rispettivamente, delle relatività speciale e generale: il fatto, cioè, che anche le leggi dell’elettromagnetismo sono invarianti rispetto a sistemi in moto uniforme, e che gravitazione e accelerazione producono effetti indistinguibili fra loro.
Ma niente dimostra meglio la differenza tra le metafore fini a se stesse della letteratura d’evasione, e quelle mirate a uno scopo della letteratura di divulgazione, dell’uso che Galileo fa della Luna. Prima di lui, e fino all’Ariosto, il viaggio sul nostro satellite e la sua geografia appartenevano infatti al genere fantasy, e i viaggi spaziali erano sorretti da inverosimili propulsioni: dalle trombe d’acqua della Storia vera di Luciano di Samosata all’ippogrifo dell’Orlando Furioso.
Portiamo pure a teatro Dante. Ma insieme a Newton e Galileo
Con la prima giornata del Dialogo la Luna invece cambia faccia. O meglio, mostra per la prima volta il suo vero volto, con i monti e le valli che il cannocchiale ha permesso di scoprire, e appare come la conosciamo oggi grazie alle foto dei telescopi, dei satelliti e degli astronauti. E anche meglio, perché né Galileo, né Keplero hanno avuto bisogno di andarci di persona per capire come si sarebbe vista la Terra dalla Luna, con variopinti risultati che superano ogni sbiadita invenzione poetica.
I poeti dell’inconscio, invece, della Luna sanno soltanto una cosa: che c’`e. Ma anche quelli dilettanti di astronomia non sanno molto di più, visto che persino il Leopardi amante di Galileo continuava a scrivere nel 1819 che la Luna “da nessuno cader fu vista mai se non in sogno”, benché fin dal 1687 Isaac Newton avesse non solo composto il verso che “la Luna cade continuamente verso la Terra”, ma aveva anche calcolato esattamente di quando essa cade.
Che si leggano pure nelle aule e nelle piazze i versi di Dante e Leopardi. Ma che si aggiungano ai programmi di scuola e di teatro anche e soprattutto le prose di Galileo e di Newton, per far gioire la mente con quella che già Pitagora chiamava la Poesia dell’Universo: una poesia che “intender non la puo’ chi non la prova”, e che “non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritta”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Federico La Sala
ROVELLI - i quanti, l’epistemologia e l’interdisciplinarietà
di Giorgio Mattana *
“E pensare che oggi qualcuno vede scienze naturali, scienze umane e letteratura come ambiti impermeabili l’uno all’altro ...” (p. 127). Helgoland è un appassionante libretto in cui il fisico Carlo Rovelli espone con leggerezza, adottando la forma del racconto scientifico-filosofico, la sua interpretazione “relazionale” della meccanica quantistica, nonché la visione del mondo a suo avviso più coerente con essa. Nel 1925 il giovane Werner Heisenberg, sulla sperduta isoletta del Mare del Nord Helgoland, detta anche Isola Sacra, in una sorta di ritiro spirituale, concepisce la teoria dei quanti. A definirne il formalismo matematico contribuiranno altri giovani scienziati: Pascual Jordan, Paul Dirac e Wolfgang Pauli. Max Born, quarantenne, è il più anziano del gruppo. Alcuni la chiamano “la fisica dei ragazzi”, ma è una svolta epocale. Si uniranno poi all’impresa Ervin Schrödinger, Louis de Broglie e altri. Padri spirituali ne sono a vario titolo Max Planck, con la sua fondamentale costante, Niels Bohr con il suo modello dell’atomo, e Albert Einstein, che peraltro non ne accetta le implicazioni indeterministiche, con l’idea dei “quanti” di energia.
La teoria dà conto in modo mirabile di una serie di sconcertanti risultati sperimentali che tormentavano i fisici del primo Novecento, ma scuote al tempo stesso dalle fondamenta l’immagine scientifica del mondo. Ancora più della relatività generale di Einstein, che modificava radicalmente la concezione dello spazio e del tempo della meccanica newtoniana e del senso comune, rendendoli dipendenti da masse e movimenti e fra loro inscindibilmente interconnessi.
Il principio di indeterminazione di Heisenberg, che stabilisce l’impossibilità di accertare contemporaneamente la posizione e la velocità di un elettrone, variabili che nel mondo macroscopico permettono di calcolare la traiettoria di ogni corpo in movimento, sfidava le basi della fisica classica, nella quale Rovelli sembra a tratti includere la stessa relatività, al fine di sottolineare la sconvolgente novità dell’immagine della natura riflessa dalla meccanica quantistica.
La peculiarità del testo non risiede tuttavia nella brillante esposizione dei caposaldi della teoria, già oggetto di numerose trattazioni divulgative incluse quelle dello stesso Rovelli, ma nell’illustrazione della sua interpretazione “relazionale” e delle sue più significative ricadute filosofiche e interdisciplinari. Il principio di indeterminazione, la misteriosa costante di Planck, l’effetto fotoelettrico, la sovrapposizione quantistica illustrata dall’apologo di Schrödinger del gatto sveglio/addormentato, che Rovelli sostituisce a quello vivo/morto, lo sconcertante fenomeno dell’entanglement, per cui due particelle venute a contatto nel passato mantengono una sorta di legame reciproco anche a migliaia di chilometri di distanza, ci fanno gettare lo sguardo su un abisso dove la realtà ordinariamente intesa scompare. Il mondo della fisica classica, erede del meccanicismo settecentesco, fatto di materia e movimento, viene soppiantato da un mondo di relazioni e di eventi che prende forma dalle fondamentali intuizioni di Heinsenberg sulla fisica degli “osservabili”.
Perché cercare di capire cosa fa l’elettrone, e con esso tutte le altre particelle della fisica subatomica, quando non lo osserviamo? E se l’elettrone non seguisse alcuna orbita? E se prendesse forma, assumesse questa o quella caratteristica, per esempio emettere luce, solo nell’interazione con noi? Quello che si profila è un radicale mutamento di paradigma scientifico-filosofico, una nuova visione della natura basata sulla considerazione che l’interazione fra osservatore e osservato codificata da Heisenberg è la regola, non l’eccezione.
Nulla esiste in assoluto, tutto è in relazione a qualcosa, proprio come l’elettrone esiste nella relazione con noi e assume interagendo con i nostri strumenti di misura posizione, velocità o energia. Non esiste un elettrone “in sé”, con una sua orbita definita che non riusciamo a cogliere per l’imperfezione del nostro sistema osservativo. Non esiste una natura popolata di oggetti con proprietà assolute, nulla esiste in “sdegnoso” isolamento: tutto è in relazione ad altro, tutto interagisce con altro, tutto è in relazione con tutto. Il sasso è in relazione con il suolo a cui si “manifesta” con il suo peso, la velocità è sempre in relazione al sistema di riferimento, l’alto e il basso esistono solo in relazione alla superficie terrestre. È un’ontologia di relazioni, di cui gli oggetti rappresentano i “nodi”, di sistemi fisici che si rispecchiano gli uni negli altri. E tali relazioni non poggiano su nulla di solido, come stabiliva la fisica della materia e del movimento, delle qualità primarie oggettive in sé esistenti e di quelle secondarie. La grammatica del mondo scoperta dalla fisica quantistica non è costituita da semplice materia e movimento. “La relazionalità che permea il mondo scende fino a questa grammatica elementare. Non possiamo descrivere nessuna entità elementare se non nel contesto di ciò con cui è in interazione” (148).
Dietro la fisica degli “osservabili” di Heisenberg c’è Ernst Mach, profondamente influenzato dalla lezione humeana, che ha proposto l’empiriocriticismo come la cornice concettuale più adatta a inquadrare l’impresa conoscitiva umana, successivamente adottata dai neopositivisti del Circolo di Vienna. Dell’epistemologia machiana, anche detta fenomenismo, Rovelli sottolinea lo spirito antimetafisico, la scrupolosa aderenza ai dati dell’esperienza e lo smascheramento degli errori e dei paradossi connessi al bisogno di oltrepassarli postulando un mondo di oggetti, cose o enti sussistenti in modo assoluto e dotati di proprietà definite una volta per tutte. Contro Mach si era scagliato Lenin in nome del materialismo attaccandone il portavoce russo Bogdanov, ma dalla disamina di Rovelli è il materialismo che esce sconfitto, in quanto rappresentante della vecchia metafisica, non diversamente dalle idee platoniche e dallo spirito assoluto di Hegel.
L’empiriocriticismo machiano si presta invece ottimamente a fare da sfondo a quel mutamento di paradigma (Kuhn) o a quella rottura epistemologica (Bachelard) che ci propone la meccanica quantistica. La teoria più strana, controintuitiva e sconvolgente che sia mai stata concepita, ma anche la più riccamente confermata: “non ha mai sbagliato”. Non si dimentichi che a non essere prevedibile è il comportamento della singola particella, che le sue leggi sono probabilistiche e che in quanto tali sono state sempre confermate, per non dire delle loro innumerevoli applicazioni tecnologiche. Da essa Rovelli deriva una visione più “leggera” della natura, come trama di relazioni e gioco di specchi, priva di un fondamento assoluto e di un punto di vista privilegiato, così nuova da chiamare in causa un pensiero ancora più radicale e “altro” di quello machiano. La dottrina di Nāgārjuna, pensatore indiano del secondo secolo, asserisce esplicitamente “che non ci sono cose che hanno esistenza in sé, indipendentemente da altro” (p. 150). L’assenza di esistenza indipendente è “vacuità”: “le cose sono vuote nel senso che non hanno realtà autonoma, esistono grazie a, in funzione di, rispetto a, dalla prospettiva di qualcosa d’altro” (p. 151). “La lunga ricerca della ‘sostanza ultima’ della fisica, passata attraverso materia, molecole, atomi, campi, particelle elementari ... è naufragata nella complessità relazionale della teoria quantistica dei campi e della relatività generale” (p. 153).
Le ricadute interdisciplinari dell’interpretazione della realtà proposta da Rovelli sono facilmente intuibili, sia a livello generale sia per quanto riguarda la psicoanalisi, dove non può non trarne alimento la concezione relazionale della mente affermatasi negli ultimi decenni. L’evoluzione della teoria da un modello strettamente unipersonale verso modelli sempre più caratterizzati in senso relazionale, dalla concezione kleiniana delle relazioni oggettuali, alla visione winnicottiana della relazione madre-bambino, al modello bioniano della rêverie e della relazione contenitore-contenuto, fino alla teoria del campo e ai modelli intersoggettivisti e relazionali, sembra ormai un fatto acquisito. Come in fisica il mondo degli oggetti si stempera in un più fluido e cangiante mondo dove la lama di un coltello assomiglia alla spumeggiante cresta di un’onda dell’oceano, dove le cose si palesano le une alle altre nell’interazione, proprio come all’osservatore umano, così in psicoanalisi l’osservazione della mente in interazione con un’altra mente ne ha evidenziato le caratteristiche relazionali. E come non ha senso parlare in assoluto delle proprietà di un oggetto, così non ha senso parlare di un soggetto che non sia in relazione con altri soggetti che ne riflettono l’immagine e ne vengono riflessi, in una complessa trama di relazioni di cui rappresentano i nodi.
Si potrebbe addirittura ipotizzare che l’evoluzione relazionale della psicoanalisi sia consistita nell’abbandonare l’implicito isomorfismo con il mondo della fisica classica, popolato di oggetti, cose o enti concepiti come in sé conclusi e privi di relazione ad altro, per approdare a una visione più fluida, molteplice e interattiva della soggettività, sempre legata a una complessa e mutevole rete di relazioni esterne e interne. Ma l’utilità del punto di vista relazionale riguarda anche il rapporto della psicoanalisi con le altre discipline, riecheggiando le più condivisibili acquisizioni postmoderne sul carattere prospettico e contestuale di ogni attività conoscitiva, senza assecondarne le più radicali e discutibili derive scettiche e nichiliste. Si tratta di una visione relativa e complessa della conoscenza, basata sul lutto della verità unica e della spiegazione definitiva, ma compatibile con l’esistenza di specifici criteri di referenzialità e validazione all’interno di ogni disciplina. La congruenza fra metodo e oggetto permette di vedere la psicoanalisi come una disciplina caratterizzata da uno specifico metodo di indagine e da un altrettanto specifico sistema concettuale e linguistico, adeguati alla conoscenza di un determinato oggetto e irriducibili ad altri metodi e sistemi. Su questa base essa può dialogare con le altre discipline nella consapevolezza della relatività delle proprie conoscenze, ma anche della loro irriducibilità a quelle delle altre scienze, alla ricerca di una descrizione sempre più articolata, complessa e verosimilmente mai definitiva del soggetto umano.
*Fonte: Spi-Web, 12 Novembre 2020
POESIA E MAGIA. È stato l’enigma meglio custodito dell’«Orlando furioso»: chi, o che cosa, è il temibile negromante che tiene prigioniero Ruggiero in cima ai Pirenei? E qual è il titolo del libro che ha in mano? Gli indizi convergono e mostrano la vera fisionomia del personaggio e la visione del mondo del poema di Ariosto
Segreto svelato: Atlante è l’atlante
di Franco Farinelli (Corriere della Sera, La Lettura, 04.12.2016)
Siamo in grado di svelare il segreto meglio riposto (ma all’inizio di Pulcinella) di tutto l’Orlando furioso : chi, anzi che cosa sia Atlante, il negromante che nel suo castello in cima ai Pirenei tiene prigioniero Ruggiero e produce incanti, illusioni e giochi di specchi.
Una quarantina d’anni fa David Quint avanzò l’ipotesi che dietro tale figura si celasse quella del Boiardo, dal cui Orlando innamorato l’Ariosto trasse molto. Poeta dunque contro poeta. Italo Calvino arrivò invece a pensare che Atlante fosse l’Ariosto stesso, che cioè egli simboleggiasse per così dire la continua lotta dell’artista, trasfiguratore della realtà, nel cavare il meglio dalla propria vena.
In realtà, come nella celebre novella di Poe sulla lettera rubata, non ci si è fin qui accorti della vera identità di Atlante perché si è cercato troppo lontano, senza avvedersi di quel che era invece subito a tiro: Atlante è l’atlante, la raccolta di carte geografiche legate insieme. «La stanza avara», come Ariosto definisce il castello del mago è insomma nient’altro che una mappa, e la «finzïon d’incanto» che la costruzione esercita è quella cartografica.
L’aspetto e l’azione dell’incantatore sono descritti all’ottava diciassettesima del Canto quarto: egli cavalca l’Ippogrifo, il cavallo alato, tenendo nella destra un libro la cui lettura produce un’«alta meraviglia». Questa consiste nel fatto che per un verso sembra che egli attacchi con l’arma, e l’impressione è talmente vivida che, preparandosi a ricevere il colpo, le vittime chiudono istintivamente gli occhi; in realtà egli è lontano, e alla sensazione visiva non corrisponde nessun contatto fisico, nessun «tocco». È il contenuto del libro a produrre l’effetto stupefacente per cui il mondo «al falso più che al ver si rassomiglia» (II, 54), la meraviglia «alta» nel doppio senso ideale e materiale, cioè di ordine superiore e allo stesso tempo di fatto sopraelevata, perché chi subisce l’assalto non cavalca in cielo ma sta a terra.
Ma di quale libro si tratta? Qual è questo libro che «facea tutta la guerra» (IV, 25)? Si tratta di un testo sul cui titolo, dunque sulla cui natura, stranamente, i commentatori non si sono fin qui molto spesi. Ma la risposta non è difficile, se si pone mente alle mosse di cui la guerra in questione consiste.
La logica dello scontro tra Atlante e il resto del mondo non si fonda soltanto sulla tecnica della falsa eliminazione della distanza, sull’illusione che quel che è lontano sia invece vicino e viceversa, ma anche sulla disparazione tra vista e tatto. Disparazione è termine tecnico che si riferisce alla differenza tra l’immagine percepita dell’occhio destro e quella dall’occhio sinistro, che il cervello ricompone in un’unica visione unitaria. Qui invece disparazione serve a definire lo scarto e la frattura tra quel che si vede e quel che si tocca, il cui incrocio risulta, per i malcapitati assaliti da Atlante, del tutto fuorviante: non soltanto la punta della lancia è lontana e non vicina come pare, ma il contatto che di conseguenza vien dato per imminente non si produce.
Si potrebbe obiettare che comunque anche in tal modo la coincidenza tra l’impressione visiva e quella tattile resta impregiudicata, perché ambedue risultano nel medesimo tempo illusorie, ambedue producono lo stesso concomitante ingannevole effetto. Ma così non è, perché si precisa (in II, 53) che Atlante «quando all’uno accenna, all’altro mena», quando fa finta di colpire uno percuote invece chi gli sta accanto: la vista cioè sembra individuare un bersaglio ma il tatto è dolorosamente costretto a smentirla e a registrarne un altro, diverso e anzi opposto.
Disparazione dunque, e anche la più decisa. Così la domanda diventa: quando nasce la diffrazione, il décalage, la differenza anzi l’opposizione tra il tatto e la vista, quando e dove s’incrina per la prima volta la loro concordanza? Al riguardo non vi sono dubbi: all’inizio del Quattrocento a Firenze, sotto il portico dell’Ospedale degli Innocenti, concepito e costruito dal Brunelleschi. La prima struttura architettonica realizzata secondo il modello della prospettiva lineare moderna, vale a dire secondo il codice spaziale.
È sotto tale portico che, con lo spazio, nasce la modernità, perché per la prima volta il soggetto vien chiamato a una decisione inconcepibile sia per l’antichità che per il Medioevo: è costretto a scegliere se credere appunto al tatto - cioè all’intero suo corpo, per il quale le linee che delimitano il pavimento del portico stesso sono rette - oppure, al contrario, concedere fiducia alla sua vista, per la quale le linee in questione appaiono al contrario convergere all’infinito, verso il punto di fuga di fronte a sé, il centro della finestrella dove fino al 1875 i trovatelli fiorentini venivano deposti.
È questa, insomma, la disparazione originaria, la scissione archetipica che fonda l’intera tattica di Atlante, e che implica tra l’altro la fine della coerenza euclidea del mondo, sovvertendone uno dei principali assunti.
Ma da dove deriva, a sua volta, il modello brunelleschiano, qual è l’origine della moderna forma di spazio? La risposta coincide appunto con il titolo del libro che Atlante reca nella destra e che tanta forza conferisce alla sua azione: la Geografia di Tolomeo, appunto un atlante e insieme un manuale d’istruzioni per costruire mappe, che da tempo gli storici dell’arte (Kim Veltman e Samuel Edgerton jr. per primi) hanno individuato come la matrice dell’invenzione della prospettiva fiorentina.
Perciò Atlante è davvero l’atlante, nel senso che quando intorno al 1570 Antonio Lafréri edita a Roma in volume le sue Tavole moderne di geografia raccolte et messe secondo l’ordine di Tolomeo, la prima collezione cartografica sul cui frontespizio appare la figura di Atlante che regge il globo, evidentemente egli sa bene di agire proprio come il negromante che imperversa nell’ Orlando furioso: costringe in un magico, poderoso edificio tutte le forme del mondo, per preservarle dalla vita che, come dicono i tedeschi, fa male alla vita. Proprio come il mago dal cavallo alato aveva imprigionato nel suo castello Ruggiero per preservarlo dalla sicura morte che egli avrebbe incontrato se avesse continuato a duellare in giro per il mondo.
Se finora non ci siamo accorti di quello che, a proposito della figura di Atlante, è sempre stato sotto i nostri occhi è soltanto perché crediamo ancora alla lezione di Max Weber, per la quale l’epoca moderna è l’epoca del «disincanto del mondo», segna la fine della magia come tecnica di salvezza. Ma dall’Ariosto si apprende invece che ogni epoca ha invece il suo incanto, tanto tragico e maggiore quanto la tecnologia avanza: il gran tema della polvere da sparo contro la cavalleria che compare nel canto nono. Allora il problema era la prima forma con la quale l’insieme dei processi che oggi chiamiamo globalizzazione iniziava a manifestarsi.
Di qui il fascino dell’ Orlando, la cui furia corrisponde allo stile parossistico del nuovo funzionamento del mondo, nel bilico di un complesso di storie che riconosce allo spazio che avanza (ad Atlante) la supremazia su ogni antica logica dei luoghi ma che si conclude con la riaffermazione dell’ umanità del destino degli esseri viventi. Per questo il Furioso resta ancora il viatico più utile per inoltrarci sulla Terra che è la nostra, oggi che la globalizzazione assume una seconda forma e spazza via quella spaziale che è stata la prima: perché Ludovico Ariosto ci ha lasciato la prima e forse fin qui unica guida per restare umani in un mondo finalmente diventato un unico globo.
Perché la matematica?
di Piergiorgio Odifreddi *
Due settimane fa, l’inserto domenicale del New York Times ha pubblicato un articolo intitolato L’algebra è necessaria? A porsi la domanda non era ovviamente un matematico, o uno scienziato. Bensì, un politologo, preoccupato del fatto che ormai nelle scuole statunitensi la matematica sia diventata un ostacolo obbligatorio, che devono superare tutti coloro che poi vorranno iscriversi a qualunque tipo di corso di laurea all’università, scientifico o umanistico che sia.
“Pure i poeti o i filosofi devono studiare la matematica alle superiori”, si scandalizzava il povero politologo! E il suo argomento era che è giusto far sudare sulle equazioni o i polinomi gli studenti che se lo meritano, perché vogliono diventare ingegneri o fisici. Ma perché mai torturare gli altri, così sensibili, che vogliono invece scrivere versi o dedicarsi alla metafisica?
Da noi, queste cose le dicevano Croce e Gentile un secolo fa, e il bel risultato che si ottiene a non far studiare la matematica agli umanisti lo si vede anzitutto dalle loro opere filosofiche, appunto.
Più in generale, non è certamente un caso che la filosofia analitica, che monopolizza il mondo anglosassone, sia così diversa da quella continentale, che domina nella vecchia Europa. Lo standard di rigore adottato dalla prima è infatti contrapposto allo stile letterario della seconda, e la matematica insegna anzitutto proprio quello standard.
Questo è il primo motivo per studiarla: perché chi viene forgiato da una logica ferrea, nella quale un solo segno sbagliato può provocare disastri irreparabili, non si accontenterà più dei non sequitur di Heidegger o di Ratzinger, e rimarrà felicemente sordo alle sirene della metafisica filosofica o teologica.
Naturalmente, la ragione ha una sua bellezza. Dunque, il secondo motivo per studiare la matematica è educare l’occhio o l’orecchio della mente, per essere in grado di vederla o sentirla, questa bellezza. In fondo, nessuno si chiede perché si creano e si fruiscono l’arte o la musica: semplicemente, sono espressioni dello spirito umano, che soddisfano ed elevano chi le intende. Ma pochi sanno che c’è tanta bellezza nei progetti di Fidia, nelle fughe di Bach o nei quadri di Kandinsky, quanta ce n’è nei teoremi di Pitagora, di Newton e di Hilbert.
Gli esempi non sono scelti a caso. Perché nell’arte e nella musica ci sono, e ci sono sempre state, correnti razionaliste che parlano lo stesso linguaggio della matematica. E capire e apprezzare i loro prodotti richiede lo stesso grado di istruzione, e lo stesso livello di addestramento, che servono per capire e apprezzare i teoremi e le dimostrazioni. In entrambi i casi, all’insegna del motto che, certe cose, “intender non le può chi non le prova”.
E’ ovvio che certa arte e certa musica, allo stesso modo della matematica, richiedono uno sforzo superiore di quello sufficiente per guardare una pubblicità, orecchiare una canzonetta o leggere un romanzetto. Anche scalare l’Himalaya o le Alpi è più impervio che andare a passeggio, ma solo così si possono conquistare le vette, delle montagne o della cultura. E questo è il terzo motivo per studiare la matematica: perché lo sforzo di concentrazione e lo studio assiduo che sono necessari per fruirla, vengono ampiamente ricompensati dalle altezze intellettuali a cui elevano coloro che li praticano.
Infine, il quarto motivo per studiare la matematica è che serve. Senza le derivate e gli integrali, non avremmo la tecnologia meccanica ed elettromagnetica, dalle automobili ai telefoni. Senza la logica matematica, non ci sarebbero i computer. Senza la teoria dei numeri, i nostri pin sarebbero insicuri. Senza il calcolo tensoriale, i navigatori satellitari non funzionerebbero. Addirittura, senza la geometria non sarebbe stato scoperto il pallone da calcio.
Ma senza tutte queste cose, non saremmo comunque meno uomini, o uomini peggiori. Senza la ragione, la bellezza e la cultura, invece, sì. E’ per questo che la giustificazione utilitaristica, che di solito viene invocata per prima, qui appare non solo come last, ma anche come least: cioè, per ultima, anche in ordine di importanza.
ANTITETICA DELLA RAGION PURA
di Immanuel Kant *
Se Tetica è ogni insieme di dottrine dommatiche, io intendo per Antitetica, non affermazioni dommatiche del contrario, ma il conflitto di conoscenze secondo l’apparenza dommatiche (thesin cum antithesi), senza che si annetta all’una piuttosto che all’altra uno speciale diritto all’assenso.
L’Antitetica, dunque, non si occupa punto di affermazioni unilaterali, ma prende a considerare le conoscenze universali della ragione solo pel conflitto di esse tra loro e per le cause di tal conflitto. L’Antitetica trascendentale è una ricerca intorno all’antinomia della ragion pura, le sue cause e il suo risultato.
Quando noi rivolgiamo la nostra ragione non semplicemente, per l’uso dei princìpi dell’intelletto, agli oggetti dell’esperienza, ma ci avventuriamo ad estenderla al di là dei limiti di questa, allora vengon fuori proposizioni sofistiche, che dalla esperienza non possono né sperare conferma, né temere confutazione; ciascuna delle quali non soltanto è in se stessa senza contraddizione, ma trova perfino nella natura della ragione le condizioni della sua necessità; solo che, disgraziatamente, il contrario ha dalla parte sua ragioni altrettanto valide e necessarie di affermazione.
Le questioni che si presentano naturalmente in una tale dialettica della ragion pura, son dunque: 1) In quali proposizioni propria mente la ragion pura è soggetta inevitabilmente a una antinomia. 2) Su quali cause si fonda questa antinomia. 3) Se nondimeno, e in qual modo, alla ragione, in questo conflitto, resti aperta una via alla certezza.
Un teorema dialettico della ragion pura deve, dunque, avere in sé questo, che lo distingua da tutte le proposizioni sofistiche: che non concerna una questione arbitraria, che non si solleva se non per un certo scopo voluto, ma sia una questione siffatta, che ogni ragione umana nel suo cammino vi si deve necessariamente imbattere; e in secondo luogo, che così essa come la contraria porti seco non soltanto un’apparenza artificiosa, che, se uno l’esamini, dilegua tosto, ma un’apparenza naturale e inevitabile, che, quando anche uno non ne sia più ingannato, illude pur sempre, sebbene non riesca più a gabbare; e però può bensì esser resa innocua, ma non può giammai venire estirpata.
Una tale dottrina dialettica non si riferirà all’unità intellettuale di concetti d’esperienza, ma all’unità razionale di semplici idee, le cui condizioni - poiché primieramente, come sintesi secondo regole, essa deve accordarsi con l’intelletto, e pure, insieme, come unità assoluta di essa, con la ragione, - se essa è adeguata all’unità della ragione, saranno troppo grandi per l’intelletto, e se proporzionata all’intelletto, troppo piccole per la ragione; dal che deve sorgere un conflitto, che non si può evitare, donde che si prendano le mosse.
Queste affermazioni sofistiche aprono dunque una lizza dialettica, dove ogni parte cui sia permesso di dar l’assalto ha il disopra, e soggiace di sicuro quella che è costretta a tenersi sulla difensiva. Quindi anche i cavalieri gagliardi, s’impegnino essi per la buona o per la cattiva causa, sono sicuri di riportare la corona della vittoria, se badano solo ad avere il privilegio di dar l’ultimo assalto senza essere più obbligati a sostenere un nuovo attacco dell’avversario.
Si può facilmente immaginare, che questo arringo pel passato è stato abbastanza spesso corso, che molte vittorie sono state guadagnate da ambo le parti; ma per l’ultima, che decide la cosa, si è sempre badato che il difensore della buona causa tenesse solo il terreno, e così fosse impedito all’avversario di impugnare più oltre le armi. Come giudici di campo imparziali, dobbiamo mettere affatto da parte, se sia la buona o la cattiva causa quella che i combattenti sostengono, e lasciar che essi se la sbrighino prima tra loro. Forse, dopo essersi l’un l’altro più stancati che danneggiati, essi scorgeranno da se stessi la vanità della loro lotta e si separeranno da buoni amici.
Questo metodo di assistere a un conflitto di affermazioni, o piuttosto di provocarlo da sé, non per decidere alla fine in favore dell’una o dell’altra parte, ma per ricercare se l’oggetto di esso non sia forse una semplice illusione, che ciascuno vanamente s’affanna ad acchiappare, e in cui ei non può nulla guadagnare, quand’anche non gli si resistesse punto: questo metodo, dico, si può chiamare metodo scettico.
Esso è da distinguere del tutto dallo scetticismo, principio di una inscienza secondo arte e scienza1, che spianta le fondamenta d’ogni cognizione, per non lasciarle, possibilmente, in nessuna parte alcuna certezza e sicurezza. Giacché il metodo scettico mira alla certezza, in quanto cerca di scoprire in un tale combattimento, onestamente inteso da ambo le parti e condotto con intelligenza, il punto dell’equivoco, per fare come i saggi legislatori, che dall’imbarazzo dei giudici nell’amministrazione della giustizia ricavano per sé un ammaestramento intorno a ciò che di manchevole e non abbastanza determinato è nelle loro leggi. L’antinomia, che si rivela nell’applicazione delle leggi, è per la nostra limitata sapienza la maggior prova d’esame della nomotetica, per rendere così attenta la ragione, che nella speculazione astratta non s’accorge facilmente dei suoi passi falsi, ai momenti della determinazione dei suoi princìpi.
Ma codesto metodo scettico è essenzialmente proprio solo della filosofia trascendentale; e in ogni modo, può farsene a meno in ogni altro campo di ricerche, solo in questo no.
Nella matematica il suo uso sarebbe assurdo: poiché in essa non può restar nascosta e sfuggire all’occhio nessuna falsa affermazione, in quanto le dimostrazioni vi debbono sempre procedere al filo dell’intuizione pura, e mediante una sintesi sempre evidente.
Nella filosofia sperimentale può bene un dubbio sospensivo esser utile; se non che, nessun malinteso, almeno, è possibile, il quale non si possa facilmente tòr via, e ad ogni modo nell’esperienza devono in definitiva trovarsi gli ultimi mezzi della decisione del dissidio, presto o tardi che essi abbiano a rintracciarsi. La morale può dare tutti i suoi princìpi anche in concreto e insieme le conseguenze pratiche, almeno in esperienze possibili, e così evitare il malinteso dell’astrazione.
Per contro, le affermazioni trascendentali, che si arrogano vedute che si estendono al di là del campo d’ogni possibile esperienza, né si trovano nel caso che la loro sintesi astratta possa esser data in qualche intuizione a priori, né son tali che il malinteso possa esser scoperto mercé una qualche esperienza. La ragione trascendentale non ci permette dunque altra pietra di paragone che il tentativo d’un accordo delle sue affermazioni tra loro stesse, e quindi, prima, di una gara di combattimento tra loro, libera e senza ostacoli; e a questa gara al presente noi vogliamo dar corso.
*Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura, Editori Laterza Bari 1966, vol. II, pp. 350-353.
Un saggio di Jim Al-Khalili racconta la fisica divertendo da Maxwell a Einstein
Achille il gatto e la logica
Così l’arte dei paradossi spiega la scienza a tutti
di Stefano Bartezzaghi (la Repubblica, 08.2010.2012)
Un fisico scozzese sostiene che ogni volta che un suo compatriota si sposta in Inghilterra aumenta il quoziente d’intelligenza medio di entrambi i paesi. Come è possibile? Gli scozzesi, sostiene lui, sono più intelligenti degli inglesi, quindi il migrante aumenta la media di intelligenza inglese. Ma trasferirsi dalla Scozia all’Inghilterra è una tale sciocchezza che sicuramente a commetterla può essere soltanto uno degli scozzesi meno intelligenti, quindi con il suo trasloco aumenta anche il quoziente medio scozzese. Il paradosso era solo apparente.
Inglese, nato a Baghdad da padre iracheno e madre inglese, Jim Al-Khalili dà un ottimo contributo alla media generale dell’intelligenza. Ha cinquant’anni, ricerca e insegna nel campo della fisica teorica, è un esperto comunicatore scientifico. È lui che ha sentito da un collega scozzese il paradosso sul quoziente medio di intelligenza e lo ha impiegato nella prefazione di un libro che ora esce anche in italiano (La fisica del diavolo. Maxwell, Schrödinger, Einstein e i paradossi del mondo, trad. di Laura Servidei, Bollati Boringhieri, pagg. 242, euro 20).
Il libro è importante, nella sua non immodesta veste di intrattenimento pacato, perché non elude ma butta sul piatto con onesta consapevolezza il vero problema della cosiddetta divulgazione scientifica. Per fare divulgazione bisogna sapere spiegare bene la scienza, ma per far capire davvero la scienza spesso occorre, ancorché spiegarla, ripiegarla; ovvero, confondere le idee più che chiarirle. È questa la maledizione, ma anche la benedetta funzione, del paradosso.
Sono alcuni anni, ormai, che la divulgazione scientifica e in particolare matematica ha assunto una rilevanza prima impensabile, costituendo anche una delle poche controtendenze nel mainstream dell’editoria corriva. Al proposito si possono citare il Festival della Scienza, a Genova (Al-Khalili sarà presente all’edizione 2012), e quello della Mente, a Sarzana; l’Infinities di Luca Ronconi e innumerevoli film, libri, fumetti, spettacoli teatrali su biografie come quella di Alan Turing; le raccolte di giochi logici e matematici, che ci sono sempre state ma non sono mai state tanto abbondanti (l’ultima: Federico Peiretti, Matematica per gioco, Longanesi), sino ai quattro volumi delle Grandi Opere Einaudi intitolati a “La Matematica” e curati da Claudio Bartocci e Piergiorgio Odifreddi (due autori che, ognuno a modo suo, rappresentano al meglio la nuova figura dell’intellettuale eclettico e a proprio agio in svariati campi del sapere, partendo da una formazione matematica o logica).
La matematica, soprattutto, pare giocare un ruolo omologo a quello che all’epoca dello strutturalismo spettava alla linguistica: la disciplina che ha come oggetto il linguaggio comune a tutte le altre, e assume perciò una posizione centrale e una funzione “modellizzante” (come dire: esemplare).
Nei confronti di non addetti e non adepti (spesso anche non adatti) la matematica esercita pure un fascino per certi versi analogo e per altri opposto a quello della musica: quello di espressione non traducibile in parole, espressione senza contenuto verbalizzabile. Non a caso il sudoku, sublime giocattolo logico, è stato definito dall’esperto di giochi Will Shortz “wordless crossword”, parole crociate senza parole. Spiegare la matematica a parole, così come la musica, è dunque una sfida: richiede non solo grande confidenza sia con i numeri sia con le parole, ma anche una grande immaginazione e capacità di immedesimazione psicologica nella mentalità del lettore profano.
Che la psicologia entri, e quanto, nel discorso potrebbe anche apparire strano. Ma come! La matematica e la logica, queste fortezze del calcolo impersonale, gli strenui avvocati divorzisti della mente dai vizi inveterati dell’opinione, i disinfestatori delle contraddizioni e degli altri parassiti del pensiero... Eppure, se già queste immagini sembrano rispondere ai canoni di una mythologie sociosemiotica piuttosto che a quelli di un’equanime gnoseologia, matematica e logica riescono ad arrivare al grande pubblico soprattutto quando giocano con il proprio rovescio.
Pochi sembrano in grado di appagarsi nella contemplazione del teorema di Lagrange o di quello di Pitagora o del principio del terzo escluso. Ma invece, annunciata anche da usi lessicali peculiari (come le dimostrazioni “per assurdo”, i numeri “irrazionali”, la fuzzy logic, dove fuzzysignifica “confuso”, “indistinto” e quindi “sfumato”) ecco che si apre la via privilegiata per mostrare all’opinione pubblica le seduzioni del pensiero razionale: la via dei paradossi. Cosa attrarrà la doxa meglio dei paradoxa?
La matematica e la logica, così come anche la fisica, non ci affascinano tanto quando dicono «Le cose stanno così, come non sapete né pensate », quanto se dicono «Le cose non stanno affatto come pensate e come pensate di sapere»: ci fanno dubitare che Achille possa mai superare la tartaruga o ci parlano di due gemelli di età diverse. Come accorriamo alla finestra per un incidente stradale, così anche la collisione tra il rigore della dimostrazione e l’apparenza sensoriale (e il nostro modo di organizzarla) ha un richiamo irresistibile.
Con i paradossi il divulgatore desta la meraviglia, e quindi la curiosità: due inneschi della ragione che di per sé tanto «razionali» (nel senso tardo-positivista, ma ancor oggi vulgato, del termine) non sono.
Quando poi ci si trova a dover spiegare la relatività o addirittura la meccanica quantistica il paradosso (in cui senso comune e buon senso, come si dice oggi, «vanno a sbattere») non è più accidentale: «Per quanto si cerchi di spiegarla accuratamente, per chi non è un fisico la meccanica quantistica suonerà sempre sconcertante, se non addirittura inverosimile». In un esperimento immaginato da Erwin Schrödinger, per esempio, la vita di un gatto in una certa scatola dipende dal decadimento di un atomo. C’è il dubbio che secondo la meccanica quantistica quel gatto sia vivo tanto quanto sia morto.
Con sapienza comunicativa e onestà epistemologica Al-Khalili è devoto ai paradossi: non solo ne riconosce la funzione comburente e motoria per la ricerca scientifica ma poi ne percepisce e ne sa potenziare anche il carattere enigmistico che li rende tanto affascinanti per il profano. Così gli chiarisce subito (cosa rarissima) la differenza tra paradossi veri, paradossi percepiti, contraddizioni logiche. Quindi tramite nove paradossi ben scelti gli spiega molte cose utili, magari già orecchiate ma mai capite a fondo; tramite i paradossi più inspiegabili; infine mette la persistenza, forse necessaria, di un vallo fra quanto sappiamo, come specie, e quanto riusciamo a rappresentarci, come individui dotati di buon senso. Il paradosso ci fa attraversare quel vallo prima in una direzione, poi nell’altra. Le emozionanti oscillazioni di un ponticello così precario ci ricordano che la razionalità distinta dalla psicologia semplicemente non esiste. O meglio, esiste come esistono le illusioni, i miraggi, le fate morgane. O meglio, la sua esistenza è essa stessa un paradosso.
Da Einstein all’ultimo Nobel, se in classe il genio era un somaro
Spunta la pagella del biologo premiato a Stoccolma: “Un disastro”
di Elena Dusi (la Repubblica, 10.10.2012)
PER togliersi il sassolino dalla scarpa ci ha messo 64 anni. Ma l’effetto è stato grandioso. Il Nobel per la Medicina John Gurdon, giudicato al liceo troppo stupido per fare lo scienziato, ha dedicato ieri al suo prof una frase pronunciata con un ghigno di vittoria: «Andavo a scuola. A 15 anni seguii il mio primo semestre di scienze. Il professore nel giudizio finale scrisse che la mia idea di questo mestiere era ridicola. Le sue frasi posero fine al mio rapporto con la scienza a scuola». La pagella della Eton School è incorniciata e appesa nello studio di Gurdon a Cambridge: «Quando gli esperimenti non riescono, mi diverto a pensare che l’insegnante avesse ragione». Il giovane John nel 1949 aveva avuto il punteggio più basso fra i 250 ragazzi del corso di biologia. «È stato un semestre disastroso» scrisse l’insegnante. «Il suo lavoro è stato di gran lunga insoddisfacente.
Impara male e i fogli dei suoi test sono pieni di strappi. In una prova ha preso il punteggio di 2 su 50. Spesso si trova in difficoltà perché non ascolta, ma insiste a fare le cose di testa sua. Ho sentito che Gurdon ha intenzione di diventare scienziato. Allo stato attuale, mi sembra una cosa ridicola. Se non può nemmeno imparare i fatti basilari della biologia, non ha chance di fare il lavoro di uno specialista. Sarebbe una pura perdita di tempo per lui e per quelli che dovranno insegnargli».
Quanto ad acume predittivo, il prof di Gurdon era in buona compagnia. Quello di Einstein scrisse: «Non arriverà mai da nessuna parte». E il padre della relatività sembrò dargli ragione quando a 16 anni fu respinto dal Politecnico di Zurigo. Ma non è vero che i suoi punti deboli fossero matematica e scienze, anzi. Einstein aveva voti bassi in francese, geografia e disegno. Peggio di lui Stephen Hawking, che degli anni universitari ricorda «la noia e la sensazione che non ci fosse nulla per cui valesse la pena sforzarsi». L’astrofisico inglese studiava non più di un’ora al giorno, non si sentiva dotato e confessò di aver imparato a leggere a 8 anni. Ma quando a 21 gli diagnosticarono la Sla, ha raccontato, ricevette una frustata: «Capii che sarei morto presto e che c’erano molte cose da fare prima ».
«Un ragazzo al di sotto degli standard comuni di intelletto » secondo i suoi insegnanti e «una disgrazia per sé e la famiglia» secondo suo padre. Charles Darwin, dopo un’esperienza disastrosa a medicina, fu apostrofato dal genitore così: «Non pensi ad altro che alla caccia e ai cani». Il giovane Charles fu indirizzato verso la carriera religiosa, ma per fortuna della teoria dell’evoluzione risultò un disastro anche lì. Di Thomas Edison a 8 anni il suo maestro disse che era «confuso ». Sua madre lo ritirò dalla scuola dopo tre anni per educarlo personalmente. Non scienziato ma politico, Churchill era secondo il maestro delle elementari «un costante disturbo, sempre pronto a ficcarsi in qualche guaio».
Il sistema educativo anglosassone non è il solo a soffocare i giovani geni. Margherita Hack in terza media fu rimandata in matematica e oggi ricorda: «Studiavo, ma il professore mi aveva preso in uggia. Tenevo sempre gli occhi bassi facendo finta di leggere qualcosa sotto al banco. Ma non avevo nulla, era solo uno scherzo. Un giorno lui si avventò su di me e trovò un giornale dentro alla cartella, che però era chiusa, arrabbiandosi moltissimo. Comunque è vero, la scienza studiata a scuola è molto diversa da quella che si affronta più tardi, come professione ». A disagio con matematica e scienza era anche Rita Levi Montalcini. Ma il futuro Nobel per la medicina attribuì le sue difficoltà al fatto che le medie Margherita di Savoia di Torino puntavano a formare brave spose e madri di famiglia. Non scienziate.
La scuola, per loro un male necessario
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 10.10.2012)
MA LASCIATA a se stessa rimane sicuramente animale. Con buona pace di Gibbon, è più probabile che la scuola sia sempre necessaria, eccetto nei casi in cui è dannosa. Le porte delle scuole devono dunque rimanere aperte a tutti, eccetto a chi è in grado di sviluppare un pensiero indipendente e di guardare al mondo con uno sguardo non convenzionale. Cercare infatti di imbrigliare una tale persona nel sapere comune può appunto tarpargli le ali, e impedirgli di sviluppare le proprie potenzialità. E se non lo fa, crea comunque un ostacolo contro il quale il genio si trova a scontarsi, a volte in maniera tragica e con risultati fatali.
È il caso di Évariste Galois, ad esempio, l’inventore dell’algebra moderna, che fu rifiutato per due volte all’Ècole Polytechnique per la sua incapacità di superare gli esami convenzionali, e morì in duello a vent’anni. Meno tragici, ma sempre emblematici, sono i casi di Albert Einstein ed Henri Poincaré, i due massimi fisici teorici del periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento, che trovarono entrambi molte difficoltà a scuola.
Naturalmente, un genio che non vada a scuola rischia di diventare un fenomeno da baraccone, con una cultura squilibrata e incompleta. Per questo la scuola dovrebbe cercare di «dare a ciascuno secondo i propri bisogni intellettuali, e pretendere da ciascuno secondo le proprie possibilità mentali». Ma chi potrebbe pensare e programmare una tale scuola, se non un genio? Cioè, una delle persone meno adatte a farlo?
L’uomo non è un algoritmo
Il Nobel per l’economia a Lloyd Shapley e Alvin Roth
Premiati per la «teoria delle allocazioni», cioè i meccanismi di scambio fuori mercato
Si può ridurre tutto alla matematica però?
di Pietro Greco (l’Unità, 16.10.2012)
I due hanno ottenuto il premio «per la teoria delle allocazioni stabili e la pratica della progettazione del mercato». Tradotto dal gergo tecnico significa che il primo, Lloyd Shapley, ha contribuito, già a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, a elaborare teorie economiche per spiegare meccanismi di scambio fuori dal mercato. E il secondo, Alvin Roth, per aver applicato, a partire dagli anni ’80, quelle teorie a problemi pratici. Entrambi hanno utilizzato molta matematica.
In realtà sono molti decenni che gli economisti cercano di trasformare la loro disciplina in una scienza fortemente matematizzata. Cosicché spesso un premio Nobel per l’economia potrebbe trasformarsi in una Medaglia Fields per la matematica. E viceversa. Non a caso grandi matematici da von Neumann a Nash hanno elaborato teorie economiche e molti economisti uno fra tutti, Keynes erano matematici.
UN SISTEMA DINAMICO
Un’idea centrale nelle teorie economiche fortemente matematizzate è che il mercato sia una sorta di grande piazza in continua trasformazione, un sistema dinamico, dove agiscono persone che hanno sempre presente il loro interesse (economico) e cercano di massimizzarlo. Sulla base di questo assunto, i cui presupposti risalgono al pensiero di Adam Smith, nel corso del tempo sono stati elaborate teorie economiche fondate su veri e propri teoremi. Tuttavia, si chiese Lloyd Shapley alla fine degli anni ’50, non tutto al mondo è (o dovrebbe essere) mercato. Per esempio è possibile spiegare con un algoritmo il modo migliore e più efficace per far sposare dieci donne con dieci uomini? In questo caso si tratta di allocazioni stabili: fatta la scelta, essa resta (meno di divorzi). Il problema delle «allocazioni stabili» fu risolto, in via matematica, da Lloyd Shapley e da David Gale con un algoritmo: l’algoritmo Gale-Shapley. Naturalmente (e fortunatamente) femmine e maschi per sposarsi non seguono non sempre, almeno le vie (considerate ottimali dagli economisti) dell’interesse della matematica, ma le vie più inafferrabili (e anche più piacevoli) dell’amore e della passione.
Cosicché l’algoritmo di Gale-Shapley restò a lungo inapplicato. Fino a quando Alvin Roth non pensò di applicarlo a problemi reali, dove l’interesse (non economico) ha comunque la preminenza rispetto alla passione. Per esempio l’allocazione dei giovani medici negli ospedali. Come far incontrare, nel modo più favorevole possibile per entrambi, ospedali e medici? O, anche, reni da trapiantare con pazienti che attendono il trapianto? Nessuno di questi problemi può essere risolto sulla base delle leggi di mercato.
Ma non per questo è saggio lasciarle al caso o all’egemonia di uno dei contraenti o alle raccomandazioni all’italiana. Soluzioni molto buone, sostenne e provò Alvin Roth, possono essere trovate con l’algoritmo di Gale-Shapley. La cosa ha funzionato talmente bene, negli Stati Uniti almeno, da meritare un Nobel.
Resta la domanda di fondo. È la matematica il risolutore dei problemi economici, sia nella dinamica di mercato che in condizioni di stabilità come quelle studiate dai due nuovi laureati a Stoccolma? Nessun dubbio che la matematica aiuti. Ma anche nessuna illusione. I nostri problemi economici vengono dalla politica. Una politica che, ovviamente, tiene conto dello sviluppo dell’economia matematizzata. Ma anche del fatto che gli uomini non sono solo gli omologhi «agenti razionali» che popolano le teorie economiche. Gli uomini sono portatori di diversità e di una ben più profonda razionalità, che tiene in conto anche altri interessi (da quelli estetici a quelli sociali a quelli ideali) che vanno ben oltre il mero interesse economico. Non sempre, per fortuna, questi interessi altri sono completamente riducibili ad algoritmi. Confinabili in modelli generali.