L’ITALIA, IL "BIPOLARISMO PRESIDENZIALE", E I COSTITUZIONALISTI IN COMA PROFONDO (1994-2011). - con allegati
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
PIANETA TERRA. COSTITUZIONE EUROPEA, COSTITUZIONE ITALIANA: DONNE E UOMINI, BAMBINI E BAMBINE. Un’altra storia è possibile ...
DIGNITÀ, PERSONE, E POLITICA: CHI SIAMO NOI IN REALTÀ?! LA DIGNITÀ E’ UN "CHI" NON UN "CHE COSA"! - con allegati.
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E POLITICA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO ....
STATO DI MINORITÀ E FILOSOFIA COME RIMOZIONE DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO. Una ’lezione’ di un Enrico Berti, che non ha ancora il coraggio di dire ai nostri giovani che sono cittadini sovrani. Una sua riflessione
"ASCOLTA, ISRAELE": IL DIO "UNO", FONTE DELLA LIBERTÀ, LA LEGGE DEL "PADRE NOSTRO", E IL DIALOGO. - con allegati
CONTARE E PENSARE: MARE, "NUMERO E LOGOS". - con allegati
LA FACOLTÀ DI GIUDIZIO PERDUTA: KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI"). - con allegati
MONOTEISMO, CRISTIANESIMO E DEMOCRAZIA - con allegati
Federico La Sala (03.02.2012)
Idee.
«Senza coscienza del limite non c’è diritto né giustizia»
Parla il giurista francese Alain Supiot: «Il neoliberismo piega la democrazia alla ricerca di una efficienza economica a breve termine. E questo favorisce l’adesione all’uomo forte»
di Simone Paliaga (Avvenire, martedì 3 agosto 2021).
L’illimitato, il superamento dei limiti sembra essere la cifra caratterizzante il mondo di oggi. Ne parla in La sovranità del limite (Mimesis, pagine 216, euro 18,00) Alain Supiot, professore emerito del Collège de France e membro della Commissione mondiale sul futuro del lavoro.
Cosa significa l’espressione “sovranità del limite”, professore?
L’idea si ispira a Simone Weil, una delle più grandi menti del XX secolo. Nel suo libro La prima radice, scritto a Londra poco prima di morire, nel 1943, critica la sentenza di Hitler per cui “la forza regna ovunque e da sola domina la debolezza”. A essa, che esprime rozzamente una convinzione ampiamente condivisa nella civiltà occidentale, risponde che “la forza bruta non è sovrana quaggiù. È per natura cieca e indeterminata. Ciò che è sovrano qui è la determinazione, il limite”. Purtroppo il suo messaggio è rimasto inascoltato. Le correnti principali della filosofia politica, della sociologia o dell’economia hanno ridotto qualsiasi tipo di rapporto umano a un rapporto di dominio rimanendo cieche dinanzi ai limiti delle risorse del pianeta. Le molteplici crisi che ci assalgono oggi ricordano che gli uomini incapaci di autocontrollo sono condannati a raggiungere il loro limite catastrofico, come Hitler nel suo bunker il 30 aprile del 1945.
Simone Weil batte Carl Schmitt, dunque?
Schmitt, giurista cattolico e nazista, come Hitler fa del potere il segno della sovranità. L’opposizione con Weil diventa più chiara risalendo ai dibattiti medievali sull’Onnipotenza divina. Per alcuni, questa onnipotenza è assoluta, così che non esiste ordine nel mondo che non possa essere abolito in qualsiasi momento dalla volontà di Dio. Per altri, si tratta di una Onnipotenza ordinata: Dio si sarebbe autolimitato per lasciare spazio alla sua creazione e alla libertà umana. L’idea dell’autocontrollo di Dio si trova anche nella nozione ebraica di tzimtzum. Sovrano è chi afferma l’onnipotenza della propria volontà o chi possiede in sé il senso dei limiti della volontà? La questione si pone da quando la nozione di sovranità è stata secolarizzata per diventare, da Bodin e Descartes, l’attributo dei re e poi degli individui.
Come interiorizzare il limite?
Sul piano politico, la risposta è data da Montesquieu. “Perché non si abusi del potere, il potere deve fermare il potere”, quindi la costituzione deve garantire la separazione dei poteri. Sul piano individuale, l’interiorizzazione è l’oggetto primario dell’educazione che istituisce l’essere umano, cioè accompagna la sua crescita come il tutore sostiene la pianta finché non ne ha più bisogno. Interiorizzare le regole è una condizione di libertà. Per esercitare la libertà di espressione, per esempio, bisogna sottomettersi prima alla legge di una lingua! Più in generale, è sovrano chi non ha bisogno di un padrone perché è padrone di se stesso.
Perché affrontare oggi la questione del limite?
Perché il neoliberismo sta raggiungendo il suo limite catastrofico! A differenza del liberalismo classico, che poneva i calcoli di utilità individuali sotto l’ombrello di una legge comune, il neoliberismo pone la legge sotto l’ombrello dei calcoli di utilità. La legge non si fonda più su un’ideale di giustizia deliberato democraticamente, ma su una ricerca di efficienza economica a breve termine.
Se c’è una lezione da imparare dalla storia del diritto, è che un ordine politico la cui legge primaria è la competizione di tutti contro tutti, genera necessariamente violenza. Lo sapevano già gli antichi greci, che condannavano la pleonessia, l’accumulo illimitato di ricchezze. E l’Organizzazione internazionale del lavoro, l’ILO, lo conferma affermando “che solo sulla base della giustizia sociale si può stabilire una pace duratura”. Ignorando questa osservazione, che ora va estesa alla giustizia ambientale, ci si condanna a uno shock con la realtà di cui l’implosione finanziaria del 2008 e l’attuale pandemia globale non sono altro che sue manifestazioni.
Che ruolo ha il Diritto?
Non si dovrebbero né sopravvalutare né sottovalutare le risorse del Diritto, che Simone Weil pone in una regione intermedia tra il Cielo della giustizia e l’Inferno della forza bruta. Ma è chiaro che promuovendo il law shopping e una corsa al ribasso verso il sociale e l’ecologia, la globalizzazione mina il rule of law. Serve un nuovo salto normativo, che, come nel dopoguerra, promuova regole adatte alle nuove sfide tecnologiche, ecologiche e sociali.
E la governance digitale?
Il Diritto, la democrazia, lo Stato e tutti i quadri giuridici sono travolti dalla rinascita del vecchio sogno occidentale di armonia fondata sul calcolo. Riattivato prima dal taylorismo e dalla pianificazione sovietica, questo progetto scientista assume ora la forma della governance attraverso i numeri, sotto l’egida della globalizzazione. La ragione del potere non si trova in un’istanza sovrana che trascende la società ma in norme inerenti al suo corretto funzionamento. Prospera così un nuovo ideale normativo, che mira alla realizzazione efficace di obiettivi misurabili piuttosto che all’obbedienza a leggi giuste. Sospinto dalla rivoluzione digitale, il nuovo immaginario istituzionale è quello di una società in cui il diritto lascia il posto al programma e la regolamentazione alla regolazione. Ma quando la sicurezza non è garantita da una legge uguale per tutti, gli uomini non hanno altra scelta che giurare fedeltà al più forte. Radicalizzando l’aspirazione a un potere impersonale, che già caratterizzava l’imporsi del regno della legge, la governance coi numeri dà origine paradossalmente a un mondo dominato da vincoli di fedeltà.
Che cos’è il principio di solidarietà? Può porre un limite alla globalizzazione?
A differenza dell’assicurazione privata, che si basa sul calcolo attuariale del rischio, un regime di solidarietà si basa sull’appartenenza a una comunità, sia essa nazionale, professionale o familiare. I membri di questa comunità più fortunati e meno esposti al rischio contribuiscono di più dei meno fortunati o dei più esposti, per avere gli stessi diritti. A differenza dell’assistenza o della carità, la solidarietà non divide il mondo tra chi dona senza ricevere e chi riceve senza donare. Tutti contribuiscono secondo le proprie capacità e ricevono secondo i propri bisogni. Dovrebbe essere uno strumento potente per passare da una logica della globalizzazione, che mette in competizione tutti contro tutti, a una logica della mondializzazione, cioè di solidarietà tra nazioni rispettose della diversità delle loro storie e culture. Così, ad esempio, la questione della migrazione non sarà risolta né dalla costruzione di muri né dall’abolizione dei confini, ma dalla solidarietà tra i paesi del nord e del sud, in modo che tutti i giovani africani non siano costretti all’esilio per poter sperare di vivere con un lavoro decente.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI". GENERE UMANO: I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE!!! NON SOLO SUL PIANO TEOLOGICO-POLITICO, MA ANCHE ... ANTROPOLOGICO!!!
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO CON IL SUO TRADIZIONALE SOFISMA DELLA "FALLACIA ACCIDENTIS".
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"
FLS
L’intervento
Dante, simbolo dell’Italia molto prima della sua unità
Il presidente della Società Dante Alighieri sostiene l’iniziativa di una Giornata dedicata al poeta della «Commedia». Il Dantedì sarà una festa per gli italiani e chi ama l’Italia
di ANDREA RICCARDI *
La proposta di dedicare a Dante una giornata celebrativa, avanzata da Paolo Di Stefano sul «Corriere della Sera», incontra l’interesse di tanti. Dante dà nome alla Società Dante Alighieri, fondata nel 1889 da Giosue Carducci per difendere l’identità degli emigrati nel mondo. La Società lavora in questo senso da 130 anni e conta oggi circa 400 comitati e tante scuole ovunque. La sua missione resta l’insegnamento dell’italiano non solo agli emigrati e ai loro figli, ma anche a chi è attratto dalla lingua e dal vivere all’italiana.
Abbiamo sempre festeggiato la Giornata di Dante in tutti i nostri comitati il 29 maggio, scegliendo questa tra le possibili date di nascita del poeta, uno degli ultimi giorni del mese indicato nel commentario di Boccaccio. Questi afferma che Dante morì dopo aver passato il cinquantaseiesimo anno «dal preterito maggio». Ma la data non è importante. Quel che conta è l’esperienza positiva di una giornata dedicata al Sommo Poeta da parte della nostra Società lungo gli anni.
Sono quindi d’accordo sul Dantedì. Infatti Dante è un simbolo del «mondo italiano», molto prima dell’unità politica del Paese, che però si proietta verso il futuro e rappresenta un giacimento di poesia, umanità e mondo spirituale, ancora in parte da esplorare. È simbolo, in qualche modo, di «preveggenza», di un rapporto positivo tra passato e futuro: il poeta immagina la redenzione del Purgatorio, dando forma letteraria alla speranza di poter «rimediare» agli errori e ai limiti, in un modo che pochi decenni prima non esisteva. Dante ha fondato la visione di un’umanità più giusta e positiva. È una visione «italiana» in senso profondo. Del resto si celebrano le identità culturali associate alla grande poesia di autori come Cervantes o Shakespeare.
Dante è con Shakespeare nel cosiddetto «canone poetico occidentale». Molti lo conoscono. Tuttavia bisogna conoscerlo sempre meglio, perché la ricchezza letteraria della sua opera non si esaurisce e non si sintetizza. È come una Bibbia, che va letta e riletta: allora si scoprono messaggi e significati nuovi. Insegna una lettura che è un metodo per fare cultura, anche per i non specialisti. Lo si vede nel Paradiso, summa delle conoscenze concluse nel simbolo della rosa candida, che è un raffinato esempio di come insegnamenti alti e complessi possano essere incastonati in un testo poetico e letterario. La rosa, simbolo caro a poeti e mistici, è il fiore del mese di maggio, quando celebriamo la Giornata di Dante.
Qualunque sarà la data prescelta, la proposta di un Dantedì non deve cadere nel vuoto. La giornata sarà significativa non solo per la Dante Alighieri, da cinque generazioni impegnata nella salvaguardia della cultura italiana nel mondo. Sarà soprattutto una «festa» per gli italiani e per quanti guardano con simpatia al «mondo italiano» in tutto il suo spessore. Questo mondo vive anche fuori dalla penisola. Abbiamo dato come titolo al nostro prossimo congresso di Buenos Aires, che raccoglie italiani e amici dell’italiano: Italia, Argentina, mondo: l’italiano ci unisce. La nostra lingua non è egemonica, non s’impone ma attrae: unisce i tanti «pezzi d’Italia», come diceva il manifesto fondatore della nostra Società, guardando agli italiani e ai simpatizzanti per l’Italia nel mondo.
Dante non è solo il simbolo dell’Italia. È voce mondiale e patrimonio dell’umanità. L’Italia (e forse l’Europa) non sarebbero quel che sono nella cultura e nel seguir «virtute e canoscenza», se non ci fosse stato Dante, il quale non è solo, come molti credono, la sintesi del Medioevo, ma è l’anticipatore dell’umanesimo ancora prima di Petrarca, grazie al colloquio fertile con i classici, nonché il profeta del futuro con una visione moderna dell’esistenza e in una simbiosi di vita e arte, mai così intensa prima né dopo di lui. Per questo il Dantedì rappresenta, in questo sconfinato mondo globale dei nostri tempi, una salda radice e un’apertura al futuro.
L’Emilia-Romagna appoggio al progetto e l’evento a Ravenna al festival Dante2021
La regione Emilia-Romagna sostiene la mobilitazione per il Dantedì. In una risoluzione il consigliere Gianni Bessi (Partito Democratico) impegna la giunta «ad attivarsi presso il governo e il parlamento affinché si istituisca, tramite percorsi legislativi e normativi, anche formalmente la giornata del Dantedì». Al progetto di una Giornata mondiale per Dante è dedicato un evento del festival Dante2021 a Ravenna il prossimo 13 settembre. Con lo scrittore e giornalista Paolo Di Stefano, che in un articolo del 24 aprile sul «Corriere» aveva lanciato il Dantedì, intervengono il sindaco della città Michele de Pascale, Carlo Ossola (presidente del Comitato nazionale per i 700 anni dalla morte di Dante), Francesco Sabatini (presidente onorario dell’Accademia della Crusca), Wafaa El Beih (direttrice del dipartimento di Italianistica dell’Università di Helwan-Il Cairo), i traduttori René de Ceccatty e José María Micó e il tedesco Harro Stammerjohann, socio straniero della Crusca.
* Corriere della Sera, 15.07.2019 (ripresa parzale - senza immagini).
L’ ITALIA, LE “ROBINSON-NATE”, E LA “POESIA” DEL PRESENTE ... *
“OGGETTO: Per la nostra sana e robusta Costituzione.... ” (Mail, 2002): “[...] Tempo fa una ragazza, a cui da poco era morta la madre e altrettanto da poco cominciava ad affermarsi il partito denominato “Forza Italia”, discutendo con le sue amiche e i suoi amici, disse: “Prima potevo gridare “forza Italia” e ne ero felice. Ora non più, e non solo perché è morta mia madre e sono spesso triste. Non posso gridarlo più, perché quando sto per farlo la gola mi si stringe - la mia coscienza subito la blocca e ricaccia indietro tutto. Sono stata derubata: il mio grido per tutti gli italiani e per tutte le italiane è diventato il grido per un solo uomo e per un solo partito. No, non è possibile, non può essere. E’ una tragedia!”. Un signore poco distante, che aveva ascoltato le parole della ragazza, si fece più vicino al gruppo e disse alla ragazza: “Eh, sì, purtroppo siamo alla fine, hanno rubato l’anima, il nome della Nazionale e della Patria. E noi, cittadini e cittadine, abbiamo lasciato fare: non solo un vilipendio, ma un furto - il furto dell’anima di tutti e di tutte. Nessuno ha parlato, nessuno. Nemmeno la Magistratura!” (Si cfr. RESTITUITEMI IL MIO URLO! ... DALLA CINA UNA GRANDE LEZIONE!).
ITALIA, 2 GIUGNO 2019. A pag. 2 dell’inserto “ROBINSON” (n. 130) di “la Repubblica” del 1° Giugno 2019, in un testo con il titolo “Mia madre, il Re e la cosa di tutti “, e il sottotitolo “Il 2 giugno 1946 l’Italia scelse di non essere più una monarchia. Lessico familiare del Paese che puntò su se stesso”. L’autore - dopo aver premesso che “una persona sola che incarna lo Stato e incarna il popolo intero non può che essere, essere, simbolicamente, una persona «sacra»“, e chiarito che “è per definizione, per ruolo un signore al di sopra delle parti, non rappresenta una frazione, rappresenta l’intero. L’unità. La comunità. (...) la sua carica è elettiva. Non è un raggio divino, e nemmeno il raggio della Storia attraverso l’espediente dinastico, a fargli incarnare «la cosa di tutti»” (...) La repubblica è anti-assolutista anche in questo suo sapiente scegliere gli uomini che la incarnano a seconda dei sommovimenti della politica e della società (...) così si avvia alla conclusione: “Dunque si è repubblicani - o almeno lo sono io - se si ama e si accetta ciò che non è assoluto, NON SIMULA L’ETERNO, ACCETTA IL LIMITE, lo traduce in politica”.
E, INFINE, l’autore così CHIUDE: “Mi rimane da dire che quando Eugenio Scalfari fondò un giornale che si chiamava «la Repubblica» andavo all’università e subito pensai: che bel nome! Che nome giusto per un giornale! Ma come è possibile che a nessuno prima di lui, sia venuto in mente di chiamare così un pezzo di carta che si occupa soprattutto della «res publica», della cosa di tutti, e lo fa tutti i giorni? E’ al tempo stesso un nome umile e alto. Peggio per chi non se ne è accorto prima” (Michele Serra).
POESIA, COSTITUZIONE, E FUTURO RADICALE...: “Come certi capi indiani che si trovarono di fronte al fatto che, una volta entrati nelle riserve, non risultasse più comprensibile cosa fosse un atto coraggioso, quale attività potesse esemplificarlo, visto che le pratiche che sino ad allora avevano dato senso a tali attività erano venute meno - i bisonti scomparsi, le guerre con altre tribù proibite” (Italo Testa - sopra).
ITALIA: “ESAME DI MATURITA’ 2019”. - PER UN CONVEGNO E UNA RIFLESSIONE SUL CONCETTO DI UNITÀ E DI SOVRANITÀ (SOVRA-UNITÀ). Materiali sul tema .
Federico La Sala (20 giugno 2019)
Il “sacro dovere” e l’erosione della costituzione
di Francesco Palermo *
La costituzione è il perimetro entro il quale si può muovere la politica con le sue scelte discrezionali. È il ring nel quale il legittimo conflitto di idee deve svolgersi secondo regole prestabilite, la cui interpretazione è affidata a degli arbitri, i più importanti dei quali sono la Corte costituzionale e il Presidente della Repubblica. È pertanto non solo legittimo ma anzi doveroso che la politica ricorra ad argomentazioni costituzionali per giustificare le proprie azioni e le proprie tesi, perché solo dentro la costituzione può svolgersi la politica. La costituzione è, per certi aspetti, la versione laica del principio di esclusività tipico della religione: non avrai altro Dio all’infuori di me. E non può esserci politica al di fuori della costituzione.
Come troppo spesso accade anche con la religione, però, non è raro che i precetti vengano piegati ad interpretazioni funzionali alla preferenza politica del momento. E che tale torsione venga compiuta non già dagli arbitri, bensì dai giocatori.
Un esempio di particolare interesse si è registrato in questi giorni, quando il ministro dell’interno ha invocato l’articolo 52 della costituzione per giustificare la propria politica in materia di sbarchi. Nelle due pur diverse vicende della nave Diciotti da un lato e della nave Sea Watch dall’altro, il ministro Salvini ha rivendicato la scelta di negare l’accesso ai porti italiani come un obbligo costituzionale, fondato sul “sacro dovere” di ciascun cittadino alla “difesa della patria”, previsto appunto dall’articolo 52 della costituzione.
La disposizione non ha naturalmente nulla a che vedere con le questioni di cui si tratta. Il suo ambito di riferimento è esclusivamente la difesa militare, come si evince dai lavori preparatori e dagli altri commi dell’articolo, che prevedono rispettivamente l’obbligatorietà del servizio militare, nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge, e la natura democratica dell’ordinamento delle forze armate. È per questo che l’articolo 52 non fu oggetto di particolare dibattito in assemblea costituente, impegnata a sottolineare il carattere pacifista della costituzione. Non a caso il testo definitivo è praticamente identico a quello della prima bozza, caso rarissimo nei lavori della costituente. Erano tutti d’accordo su una previsione che doveva dare copertura costituzionale al servizio militare e alle forze armate.
Il ministro dell’interno trasforma invece quella previsione - estrapolandola dal contesto - in una sorta di diritto di resistenza. Peraltro ponendolo in capo al governo, ossia all’organo contro il quale il diritto di resistenza si esercita, nei pochi ordinamenti in cui è previsto. Non solo. Il richiamo al “sacro dovere” della “difesa della Patria” ha una forte portata simbolica. In primo luogo, la formulazione è nota anche ai cittadini meno familiari con la costituzione, quindi suona plausibile. In secondo luogo, richiama il gergo militare, anche grazie all’espressione ottocentesca della disposizione (“sacro dovere”), figlia di un’epoca in cui la guerra era ancora drammaticamente presente negli occhi e nelle menti dei costituenti. Soprattutto, l’invocazione di quel segmento dell’art. 52 è un abile gioco retorico: prima lo stacca dal contesto militare in cui è collocato, poi lo ricollega a tale contesto, facendo intuire che “l’invasione” dei profughi sia un atto di guerra nei confronti del Paese, contro cui occorre difendersi. Anche militarmente. Dunque senza essere soggetti alla costituzione, ma al diritto eccezionale del tempo di guerra, in cui vale quasi tutto.
Il rischio di una simile operazione, per quanto scaltra sotto il profilo politico e mediatico, è quello di depotenziare il carattere normativo della costituzione, di eroderne il ruolo di limite e di parametro dell’attività politica. Un’erosione che continua da tempo, trasversalmente alle forze politiche, e di cui questo caso è solo l’esempio più recente. Così facendo si arriva però a cancellare la funzione di garanzia della politica che è il compito principale della costituzione. Non può sfuggire la pericolosità di questo crinale. O forse sì. E infatti l’operazione funziona proprio in quanto alla gran parte degli elettori questo ruolo della costituzione - il più importante - sfugga. Si continua così a ballare sulla nave che affonda. Dimenticando che non è “solo” quella dei migranti, ma quella della costituzione. Su cui siamo imbarcati tutti...
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* 31.01.2019 - "Il sacro dovere e la sua torsione populista" (Il Mulino)
Federico La Sala
Così l’Uomo Nuovo abbatte il sapere delle élite decadute
Come si è arrivati alla scissione tra classe dirigente e popolo? Perché si perde fiducia nella rappresentanza? Come la politica è arrivata al suo grado zero? Riflessioni dopo l’intervento su “Repubblica” di Alessandro Baricco
di EZIO MAURO (la Repubblica, 11 Gennaio 2019)
La prima domanda, leggendo il breve saggio di Alessandro Baricco, è se possiamo vivere senza un’élite. La seconda è quanto tempo impiegheremo a considerare élite questa nuova classe di comando che ha spodestato la vecchia. E la terza, quella che conta, è dove, come e quando ha sbagliato il ceto dirigente del Paese, fino a suicidarsi nella disapprovazione generale del cosiddetto popolo ribelle. Fino a trasportare il termine élite [...].
Galante Garrone e Calamandrei: il senso della Costituzione
La storia intellettuale e morale di un uomo d’altri tempi, padre della Carta
di Furio Colombo (Il Fatto, 03.09.2018)
L’autore è Alessandro Galante Garrone, un nome che ha fatto da guida e da riferimento a tanti adolescenti torinesi dell’immediato dopoguerra, sul senso e il valore di essere antifacisti. Il libro è dedicato a Calamandrei (Biografia morale e intellettuale di un grande protagonista della nostra storia, Effepi Libri), il personaggio che - dopo avere partecipato alla scrittura della Costituzione - si è impegnato a guidare un’Italia nuova e pulita lungo un percorso nobile di solidarietà fraterna, un Paese senza odio e senza confini, dopo una guerra che ha attraversato le terre desolate della morte a milioni e del deliberato e bene organizzato sterminio di popoli.
Né Galante Garrone né Calamandrei si fidavano dello slancio spontaneo verso il bene di coloro che erano sopravvissuti a una guerra di stragi.
Galante Garrone ha preso subito la bandiera della democrazia, dimostrando che niente vive senza l’impegno (il dovere) e la partecipazione di ciascuno cittadino. Calamandrei ha spinto sulla scena ancora disadorna dell’Italia povera e incerta di allora, i diritti delle persone, i diritti della Costituzione, i diritti umani, i diritti civili che, in seguito, i partiti, con l’unica clamorosa eccezione di Marco Panella, di Emma Bonino, del Partito Radicale, avrebbero tralasciato come se fossero solo l’ornamento, non la materia prima della democrazia.
Ma l’imbarazzo deve essere grande, per chi prende in mano ora questo libro (che è una ristampa da un’Italia lontana) e lo confronti con l’Italia che stiamo vivendo adesso, dove i diritti umani di rom, migranti e poveri vengono non solo trascurati ma deliberatamente e fisicamente offesi perchè i più deboli non contano.
Governare con le false promesse, in un castello di illusioni e invenzioni, ha portato a precipitare in un triste retro-cortile senza cultura, senza storia, senza solidarietà, senza alcun interesse per sentimenti e diritti, dove conta solo il compiacimento del proprio personale potere.
Questo libro arriva dal passato in un tempo in cui si usa lo slogan “prima gli italiani”, che farebbe inorridire chiunque ha combattuto per la libertà, e ha scritto e insegnato la Costituzione italiana. Perciò Galante Garrone e Calamandrei servono oggi all’Italia come le navi ong e la Guardia costiera italiana servono a salvare migranti, benchè l’ordine di questa repubblica sia di voltare le spalle.
DUE VOLTI (E DUE NARRAZIONI) DELL’ITALIA - E DELLA CHIESA. Quale avvenire? *
La deriva della xenofobia
Senza vergogna
di Marco Tarquinio (Avvenire, sabato 4 agosto 2018)
Stiamo attraversando un tempo difficile, duro e bello come ogni tempo difficile, amaro come ogni tempo in cui nel nome di una Legge solo proclamata e di doveri solo parolai, e che ignorano e stritolano i diritti dei più deboli, si mette in questione l’umanità e l’uguaglianza stessa degli esseri umani. Senza vergogna. Ma la fragilità e la dignità della vita, di ogni vita umana, non si riconoscono dal passaporto e non si possono prendere in alcun modo in ostaggio. E le leggi non si applicano solo per stanare e "fermare" lo straniero, ma come ha sottolineato anche la nostra lunga inchiesta sul caporalato per far sì che chi è straniero di origine e italiano di lavoro non venga incluso e integrato soltanto nel (e dal) "lato oscuro" del nostro Paese.
È in tempi proprio come questi che a noi cristiani è chiesto di dare ragione in modo più limpido della nostra speranza. Ma non è un dovere solo nostro. Perché a tutti - ma proprio a tutti - è laicamente chiesto, se vogliamo tener saldo il patto di civile convivenza e la misura comune che contiene le nostre differenze e le compone in armonia, di sentirci impegnati a tener care e preservare le radici (troppo a lungo negate o date per scontate) dell’umanesimo che dà linfa, forza e capacità inclusiva alla nostra civiltà comune.
Questo tempo italiano è specialmente difficile perché ci mette davanti a due volti (e due narrazioni) dell’Italia, che invece o è una o non è.
Perché sarebbe un’Italia umanamente fallita - e del default più sconvolgente: il default della cultura e della fede che l’hanno unita prima di ogni azione politica - quel Paese bifronte che ci si ostina a voler scolpire non nel marmo, ma in grevi nuvolaglie di slogan xenofobi da social network e di parole e atti violenti che si vorrebbe derubricare a «sciocchezze». La «goliardata» che ha sfigurato il viso di Daisy Osakue non è la controprova di un’Italia serena e vaccinata dal razzismo: per rendersene conto, basta leggere ciò che è stato scatenato addosso a questa giovane donna, cittadina italiana di origine nigeriana.
Inqualificabile. Io continuo a vergognarmene. Anche se suo padre, a quanto risulta, non è stato uno stinco di santo e ha pagato il suo debito con la giustizia. E me ne vergogno anche se i tre aggressori a colpi di uova sono "bulli" e non adepti di uno dei manipoli razzisti che sparlano, sputano, menano e sparano (grazie a Dio, quasi sempre a vuoto) in giro per l’Italia.
Non sono l’Italia e non la rappresentano l’Italia. Ma - come ho scritto - ne deturpano i lineamenti, sino a sfigurarli. E allora non si può far finta di niente. Di costoro e per costoro ci dovremmo vergognare tutti, e ancor di più visto che ci viene spiegato e quasi intimato di dire e scrivere che non esistono e che comunque sono la logica reazione alla "violenza portata dagli stranieri". Ma proprio come i poveri, i violenti non hanno passaporto e non hanno patria. Ai poveri patria e passaporto sono negati. Ai violenti interessano solo come arma, e perciò non interessano affatto.
L’Italia non può essere ridotta a un ring di risentimenti etnici. Chi ha responsabilità lavori per evitarlo.
P.S. A quanti in queste settimane hanno ritenuto di ricordarci che i buoni cattolici e i giornali di ispirazione cattolica, prima e invece che delle persone costrette a migrare, dovrebbero preoccuparsi della vita non nata e ancora troppe volte abortita in Italia e in Europa - vita nascente che da appassionati di umanità e di scienza amiamo e rispettiamo sin dal primo istante come testimoniano le pagine del giornale - mi sento di rispondere con parole più grandi di noi: se non siamo capaci di amare e di essere giusti con coloro che vediamo, come potremo mai amare ed essere giusti con coloro che (ancora) non vediamo?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA COSTITUZIONE ITALIANA, IL CRISTIANESIMO, E LA TRADIZIONE DELLA MENZOGNA CATTOLICO-ROMANA.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. In Parlamento (ancora!) il Partito al di sopra di tutti i partiti.
Federico La Sala
POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA. Non è mai troppo tardi .... *
L’ appello
Prepariamoci alle Europee
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 03.08.2018)
La situazione dell’Italia si sta avvitando in una spirale distruttiva. L’alleanza di governo diffonde linguaggi e valori lontani dalla cultura - europea e occidentale - dell’Italia. Le politiche progettate sono lontane da qualsivoglia realismo e gravemente demagogiche. Nella mancanza di una seria opposizione, i linguaggi e le pratiche dei partiti di governo stanno configurando una sorta di pensiero unico, intriso di rancore e risentimento. Il popolo è contrapposto alla casta, con una apologia della Rete e della democrazia diretta che si risolve, come è sempre accaduto, nel potere incontrollato dei pochi, dei capi. L’ossessione per il problema dei migranti, ingigantito oltre ogni limite, gestito con inaccettabile disumanità, acuisce in modi drammatici una crisi dell’Unione europea che potrebbe essere senza ritorno.
L’Europa è sull’orlo di una drammatica disgregazione, alla quale l’Italia sta dando un pesante contributo, contrario ai suoi stessi interessi. Visegrad nel cuore del Mediterraneo: ogni uomo è un’isola, ed è ormai una drammatica prospettiva la fine della libera circolazione delle persone e la crisi del mercato comune. È diventata perciò urgentissima e indispensabile un’iniziativa che contribuisca a una discussione su questi nodi strategici. In Italia esiste ancora un ampio spettro di opinione pubblica, di interessi sociali, di aree culturali disponibile a discutere questi problemi e a prendere iniziative ormai necessarie.
Perché ciò accada è indispensabile individuare, tempestivamente, nuovi strumenti in grado di ridare la parola ai cittadini che la crisi dei partiti e la virulenza del nuovo discorso pubblico ha confinato nella zona grigia del disincanto e della sfiducia, ammutolendoli.
Per avviare questo lavoro - né semplice né breve - è indispensabile chiudere con il passato ed aprire nuove strade all’altezza della nuova situazione, con una netta ed evidente discontinuità: rovesciando l’ideologia della società liquida, ponendo al centro la necessità di una nuova strategia per l’Europa, denunciando il pericolo mortale per tutti i paesi di una deriva sovranista, che, in parte, è anche il risultato delle politiche europee fin qui condotte.
C’è una prossima scadenza, estremamente importante, che spinge a mettersi subito in cammino: sono ormai alle porte le elezioni europee. C’è il rischio che si formi il più vasto schieramento di destra dalla fine della Seconda guerra mondiale. La responsabilità di chi ha un’altra idea di Europa è assai grande. Non c’è un momento da perdere. Tutti coloro che intendono contribuire all’apertura di una discussione pubblica su questi temi, attraverso iniziative e confronti in tutte le sedi possibili, sono invitati ad aderire.
Gli altri firmatari: Enrico Berti Michele Ciliberto Biagio de Giovanni Vittorio Gregotti Paolo Macrì Giacomo Manzoni Giacomo Marramao Mimmo Paladino
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
UNITÀ D’ITALIA E FOLLIA: EMERGENZA LOGICO-POLITICA EPOCALE. PER UN CONVEGNO E UNA RIFLESSIONE SUL CONCETTO DI ’UNITÀ E DI SOVRANITÀ (SOVRA-UNITÀ). Materiali sul tema
Federico La Sala
Carlo Rovelli: fermiamo i nazionalisti.
C’è un’unica patria, è l’umanità
Le identità etniche sono un prodotto culturale che può diventare pericoloso, bisogna opporsi a chi le usa per alimentare i conflitti tra i popoli. La riflessione del fisico, pubblicata dal Guardian nei giorni scorsi
di Carlo Rovelli (Corriere della Sera, 31.07.2018)
La Gran Bretagna è un vecchio Paese. Il mio Paese, l’Italia, è giovane. Entrambi sono orgogliosi del loro passato. Entrambi sono contrassegnati da marcati caratteri nazionali: è facile identificare gli italiani o gli inglesi, tra la folla di un aeroporto internazionale. Riconosco facilmente l’italiano in me: non riesco a dire nulla senza agitare le mani, ci sono antiche pietre romane nelle cantine della mia casa a Verona, e gli eroi nella mia scuola erano Leonardo e Michelangelo ...
Eppure questa identità nazionale è solo uno strato sottile, uno tra tanti altri, assai più importanti. Dante ha segnato la mia educazione, ma ancora più lo hanno fatto Shakespeare e Dostoevskij. Sono nato nella bigotta Verona, e andare a studiare nella libertina Bologna è stato uno shock culturale. Sono cresciuto all’interno di una determinata classe sociale, e condivido abitudini e preoccupazioni con le persone di questa classe in tutto il pianeta più che con i miei connazionali. Sono parte di una generazione: un inglese della mia età è molto più simile a me di un veronese dall’età diversa. La mia identità viene dalla mia famiglia, unica, come è unica ogni famiglia, dal gruppo dei miei amici d’infanzia, dalla tribù culturale della mia giovinezza, dalla rete degli sparsi amici della mia vita adulta. Viene soprattutto dalla costellazione di valori, idee, libri, sogni politici, preoccupazioni culturali, obiettivi comuni, che sono stati condivisi, nutriti, per i quali abbiamo combattuto insieme, e che sono stati trasmessi in comunità che sono più piccole, o più grandi, o completamente trasversali ai confini nazionali. Questo è ciò che siamo tutti noi: una combinazione di strati, incroci, in una rete di scambi che tesse l’umanità intera nella sua multiforme e mutevole cultura.
Non sto dicendo che cose ovvie. Ma allora perché, se questa è la variegata identità di ciascuno di noi, perché organizziamo il nostro comportamento politico collettivo in nazioni e lo fondiamo sul senso di appartenenza a una nazione? Perché l’Italia? Perché il Regno Unito?
La risposta, ancora una volta, è facile: non è il potere che si costruisce attorno a identità nazionali; è viceversa: le identità nazionali sono create dalle strutture di potere. Visto dal mio giovane e ancora un po’ disfunzionale Paese, l’Italia, questo è forse più facile da notare che non dall’interno dell’antico e nobile Regno di sua maestà la regina. Ma è la stessa cosa. Non appena emerso, generalmente con fuoco e furia, la prima preoccupazione di qualsiasi centro di potere - antico re o borghesia liberale del XIX secolo - è promuovere un robusto senso di identità comune. «Abbiamo fatto l’Italia, ora facciamo gli italiani» è la famosa esclamazione di Massimo d’Azeglio, pioniere dell’unità d’Italia, nel 1861.
Sono sempre sorpreso di quanto diversa sia la storia insegnata in Paesi diversi. Per un francese, la storia del mondo è centrata sulla Rivoluzione francese. Per un italiano, eventi di dimensione universale sono il Rinascimento (italiano) e l’Impero romano. Per un americano, l’evento chiave per l’umanità, quello che ha introdotto il mondo moderno, la libertà e la democrazia, è la guerra di Indipendenza americana contro... la Gran Bretagna. Per un indiano, le radici della civiltà si trovano nell’era dei Veda... ciascuno sorride delle distorsioni degli altri, e nessuno riflette sulle proprie...
Leggiamo il mondo in termini di grandi narrazioni discordanti, che abbiamo in comune con i connazionali. Sono narrazioni create consapevolmente per generare un senso di appartenenza a famiglie fittizie, chiamate nazioni. Meno di due secoli fa c’era gente in Calabria che chiamava se stessa «greco», e non molto tempo fa gli abitanti di Costantinopoli chiamavano se stessi «romano»... e non tutti in Scozia o Galles hanno tifato Inghilterra nella coppa del mondo... Le identità nazionali non sono altro che teatro politico.
Non fraintendetemi. Non voglio suggerire che ci sia qualcosa di male in tutto questo. Al contrario: unificare popolazioni diverse - veneziani e siciliani, o diverse tribù anglosassoni - perché collaborino a un bene comune, è saggia e lungimirante politica. Se lottiamo tra noi stiamo ovviamente molto peggio che se lavoriamo insieme. È la cooperazione, non il conflitto, che giova a tutti. L’intera civiltà umana è il risultato della collaborazione. Qualunque sia la differenza tra Napoli e Verona, le cose vanno meglio per tutti senza frontiere fra l’una e l’altra. Lo scambio di idee e merci, sguardi e sorrisi, i fili che tessono la nostra civiltà, ci arricchisce tutti, in beni, intelligenza e spirito. Fare convergere persone diverse in uno spazio politico comune è vantaggio per tutti. Rafforzare poi questo processo con un po’ di ideologia e teatro politico, per tenere a bada i conflitti istintivi, montare la farsa di una Sacra Identità Nazionale, per quanto sia operazione fasulla, è comunque operazione utile. È prendere il giro le persone, ma chi può negare che la cooperazione è meglio del conflitto?
Ma è proprio qui che l’identità nazionale diventa un veleno. Creata per favorire la solidarietà, può finire per diventare l’ostacolo alla cooperazione su scala più larga. Creata per ridurre conflitti interni, può finire per generare conflitti esterni ancora più dannosi. Le intenzioni dei padri fondatori del mio Paese erano buone nel promuovere un’identità nazionale italiana, ma solo pochi decenni dopo questa è sfociata nel fascismo, estrema glorificazione di identità nazionale. Il fascismo ha ispirato il nazismo di Hitler. La passionale identificazione emotiva dei tedeschi in un singolo Volk ha finito per devastare la Germania e il mondo. Quando l’interesse nazionale promuove il conflitto invece che la cooperazione, quando alla ricerca di compromessi e regole comuni si preferisce mettere la propria nazione davanti a tutto, l’identità nazionale diventa tossica.
Politiche nazionaliste o sovraniste stanno dilagando nel mondo, aumentando tensioni, seminando conflitto, minacciando tutti e ciascuno di noi. Il mio Paese è appena ricaduto preda di questa insensatezza. Penso che la risposta sia dire forte e chiaro che l’identità nazionale è falsa. È buona se aiuta a superare interessi locali per il bene comune, è miope e controproducente quando promuove l’interesse di un gruppo artificiale, «la nostra nazione», invece che un più ampio bene comune.
Ma localismo e nazionalismo non sono solo errori di calcolo; traggono forza dal loro appello emotivo: l’offerta di una identità. La politica gioca con il nostro istintivo insaziabile desiderio di appartenenza. «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo hanno i loro nidi, ma il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il suo capo...» offrire una casa fittizia, la nazione, è risposta fasulla, ma costa poco e paga politicamente. Per questo la risposta alla perniciosa ideologia nazionale non può essere solo un appello alla ragionevolezza, ma deve trovare l’anelito morale e ideologico che merita: glorificare identità locali o nazionali e usarle per ridurre la cooperazione su scala più ampia non è solo un calcolo sbagliato, è anche miserabile, degradante, e moralmente riprovevole.
Non perché non abbiamo identità nazionali - le abbiamo. Ma perché ognuno di noi è un crocevia di identità molteplici e stratificate. Mettere la nazione in primo luogo significa tradire tutte le altre. Non perché siamo tutti eguali nel mondo, ma perché siamo diversi all’interno di ciascuna nazione. Non perché non abbiamo bisogno di una casa, ma perché abbiamo case migliori e più nobili che non il grottesco teatro della nazione: la nostra famiglia, i nostri compagni di strada, le comunità di cui condividiamo i valori, che sono diffuse nel mondo; chiunque siamo, non siamo soli, siamo in tanti. E abbiamo un posto meraviglioso da chiamare «casa»: la Terra, e una meravigliosa, variegata tribù di fratelli e sorelle con i quali sentirci a casa e con i quali identificarci: l’umanità.
1948-2018 Un estratto del saggio di Sabino Cassese sulla «Rivista trimestrale di diritto pubblico» (Giuffrè)
Tante impronte sulla Carta
Nella Costituzione idee cattoliche, liberali, marxiste. E tracce del fascismo
di Sabino Cassese (Corriere della Sera, 10.04.2018)
Nel 1995, Massimo Severo Giannini, uno degli studiosi che prepararono la Costituzione, riassumeva così la sua valutazione della Carta costituzionale del 1948: «Splendida per la prima parte (diritti-doveri), banale per la seconda (struttura dello Stato), che in effetti è una cattiva applicazione di un modello (lo Stato parlamentare) già noto e ampiamente criticato». Da dove è stata attinta questa prima parte «splendida», quale è stata l’«officina di idee» che l’ha prodotta?
Piero Calamandrei ha fornito una chiave per individuare le fonti ideali delle norme costituzionali quando ha detto, nel 1955, che esse furono «il testamento di centomila morti, scritto con sangue di italiani nel tempo della Resistenza», ma anche «un punto di ripresa del pensiero politico-civile italiano, dove parlano le “grandi voci lontane” di Beccaria, Cavour, Pisacane, Mazzini».
La Costituzione ebbe una breve gestazione - non più di un triennio -, ma la sua maturazione ideale non fu altrettanto breve. Essa non nacque come Minerva armata dalla testa di Giove. Vi sono intessute culture, aspirazioni, esperienze, ideologie di diversa provenienza, di epoche differenti.
Di questo contenuto profondo dei principi costituzionali non posso fare qui che qualche esempio, e soltanto in forma interrogativa, avanzando ipotesi. Come arriva la diade della Costituzione termidoriana (non delle precedenti Costituzioni francesi rivoluzionarie) «diritti e doveri» negli articoli 2 e 4, nonché nel titolo della parte prima della Costituzione italiana? Non bisogna riconoscere dietro alla formula del secondo comma dell’articolo 3, quello sull’eguaglianza in senso sostanziale, la critica marxista della eguaglianza meramente formale affermata dalle Costituzioni borghesi e il successo che solo pochi anni prima, nel 1942, aveva avuto anche in Italia il «piano Beveridge» con la sua libertà dal bisogno? Come spiegare la circostanza che dei 1357 lemmi della Costituzione uno di quelli che hanno il maggior numero di occorrenze è «ordinamento», senza capire che «così dalla prima commissione la grande ombra di Santi Romano si estendeva all’Assemblea, come se il piccolo libro fosse stato scritto a favore dei Patti Lateranensi», come notato nel suo solito stile immaginifico da La Pira nel suo intervento sull’articolo 7?
Ed è possibile ignorare la lunga storia del cattolicesimo italiano e del suo rifiuto dello Stato (la «questione romana»), che si intreccia con l’idea romaniana della pluralità degli ordinamenti giuridici o ispira le norme dove si afferma, prima che lo Stato garantisca i diritti o promuova le autonomie, che questi vadano riconosciuti, e quindi, preesistono allo Stato, consolidando quindi il pensiero della corrente antipositivistica (perché lo Stato viene dopo le persone, le «formazioni sociali» e gli ordinamenti originari non statali)?
Si possono comprendere le norme costituzionali sul patrimonio storico e artistico e sulla scuola ignorando l’elaborazione, in periodo fascista, a opera di Giuseppe Bottai, di Santi Romano, di Mario Grisolia, della legislazione sulle cose d’arte e della «carta della scuola», quindi senza riconoscere che la Costituzione antifascista ha raccolto anche l’eredità del fascismo? Infine, come intendere la portata dei programmi economici per indirizzare a fini sociali l’impresa privata, senza considerare una duplice esperienza, quella della pianificazione economica sovietica e quella del New Deal rooseveltiano?
Nel melting pot costituente, furono raccolte, messe insieme, ordinate queste diverse idee, culture, esperienze, e altre ancora, che si mescolavano all’esigenza di riportare libertà e rispetto per i diritti nel Paese. La Costituzione rappresentò una reazione al regime illiberale fascista, ma fu anche il precipitato di ideali di epoche diverse (risorgimentale, liberaldemocratica, fascista), Paesi diversi (specialmente quelli che si dividevano il mondo, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica), aree diverse (quella cattolica, quella socialista e comunista, quella liberale), orientamenti dottrinali opposti (quello statalistico e quello pluralistico).
Calamandrei ebbe l’intelligenza di riconoscere questo sguardo lungo della Costituzione, ma - forse prigioniero dell’idea che la Resistenza fosse un secondo Risorgimento - si fermò alla segnalazione del contributo ideale di autori lontani, Mazzini, Cavour, Cattaneo, Garibaldi, Beccaria. Nel discorso del 1955 tralasciò il contributo che proveniva da altri Paesi e da epoche più vicine, specialmente dal fascismo, un contributo che prova la lungimiranza degli autori della Costituzione, antifascisti che recuperarono l’eredità del fascismo (ma questo a sua volta aveva sviluppato ideali e proposte dell’età liberale).
Questo risultato non fu sempre positivo, come osservava Giannini, perché la seconda parte della Costituzione (o, meglio, quella relativa alla forma di governo) sembrò dimenticare proprio la lezione del passato, come alcuni costituenti dissero ai loro colleghi, ricordando che anche dalle debolezze del sistema parlamentare liberale era scaturito il fascismo. Ciò avrebbe richiesto un sistema di stabilizzazione dei governi, pure auspicato da molti (e anzi accettato in linea di principio dalla ampia maggioranza che votò l’ordine del giorno Perassi), secondo il quale il sistema parlamentare doveva avere «dispositivi idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e a evitare degenerazioni del parlamentarismo».
Come osservava Paolo Ungari molti anni or sono, «l’intera vicenda della cultura giuridica italiana fra le due guerre dovrebbe essere attentamente ripercorsa, e non solo al livello delle discussioni universitarie, per rendersi conto del patrimonio di idee e di tecniche degli uomini che sedettero nelle varie commissioni di studio del periodo intermedio, dalla commissione Forti a quella sulla “riorganizzazione dello Stato”, nonché alla Consulta e alla Costituente stessa».
“1° Gennaio 1948, da sudditi a cittadini: sovranità popolare, partecipazione, solidarietà”: il concorso nazionale ANPI-MIUR
Pubblicato il bando del concorso per le scuole ideato nell’ambito del protocollo d’intesa ANPI-MIUR
Scarica il bando:
Il caso italiano
Rischio autoritarismo: rappresentare non basta più, la democrazia sia più efficace
Rinforzare la democrazia
di Romano Prodi (Il Mulino, 08 gennaio 2018) *
Per molti anni, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, ci siamo illusi che l’espansione della democrazia fosse irresistibile. Una speranza alimentata da numerosi rapporti di organismi internazionali dedicati a sottolineare come il numero delle nazioni che affidavano il proprio futuro alle sfide elettorali fosse in continuo aumento. La convinzione di un “fatale” progresso della democrazia veniva rafforzata dalla generale condivisione delle dottrine che sono sempre state i pilastri della democrazia stessa, cioè il liberalismo e il socialismo che, alternandosi al potere, avrebbero sempre garantito la sopravvivenza ed il rafforzamento del sistema democratico. Tanto era forte questa convinzione che divenne dottrina condivisa il diritto (o addirittura il dovere) di imporre il sistema democratico con ogni mezzo, incluse le armi.
La guerra in Iraq e in Libia, almeno a parole, si sono entrambe fondate sulla motivazione di abbattere un tiranno per proteggere, in nome della democrazia, i sacrosanti diritti dei cittadini in modo da arrivare, con la maggiore velocità possibile, a libere elezioni.
La realtà ci ha obbligato invece a conclusioni ben diverse. Le guerre “democratiche” hanno mostrato l’ambiguità delle loro motivazioni e si sono trasformate in tragedie senza fine, mentre le elezioni imposte dall’esterno, soprattutto nei Paesi africani, sono state sempre più spesso utilizzate per attribuire al vincitore un potere assoluto, quasi patrimoniale, sul Paese. Colui che è stato eletto democraticamente si trasforma in proprietario dei cittadini e dei loro beni e la tornata elettorale successiva viene trasformata in una lotta impari se non addirittura in una farsa perché il leader democratico si è nel frattempo trasformato in un dittatore. Guardiamoci quindi dal ritenere che il progresso democratico sia fatale e inevitabile perché la democrazia non si esaurisce nel giorno delle elezioni. Essa si regge non sulle sue regole astratte ma sul rispetto di queste regole e, crollata l’influenza delle ideologie che ne stavano alla base, sui comportamenti e sui risultati delle azioni dei governanti.
Non dobbiamo quindi sorprenderci se, a quasi trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, ci troviamo invece in un mondo in cui il desiderio e la richiesta di autorità crescono a discapito del progresso della democrazia. Lo vediamo a tutte le latitudini: non solo in molti Paesi africani ma in Russia, in Cina, in Vietnam, nelle Filippine, in Turchia, in Egitto, in India, nei Paesi dell’Est Europeo e perfino in Giappone. Un desiderio di autorità che si estende alle democrazie più mature e che lievita perfino negli Stati Uniti pur essendo, in questo grande Paese democratico, temperato dagli infiniti pesi e contrappesi della società americana.
Tutti questi eventi ci hanno portato ad un punto di svolta: la democrazia sta cessando di essere il modello di riferimento della politica mondiale e non si esporta più.
Possiamo simbolicamente collocare il riconoscimento ufficiale di questa svolta nel XIX Congresso del Partito Comunista Cinese dello scorso ottobre. Il presidente Xi, forte dei suoi successi, ha indicato nel sistema cinese lo strumento più adatto per promuovere lo sviluppo ed il progresso non solo della Cina ma anche a livello globale. La proposta della via della seta intende sostituire nell’immaginazione popolare il piano Marshall come modello di riferimento per la crescita globale e, in particolare, dei Paesi in via di sviluppo.
Un compito facilitato dalle fratture fra i Paesi democratici e dalla moltiplicazione dei partiti politici all’interno di questi Paesi, evoluzioni che rendono sempre più complessa la formazione di governi democratici robusti e capaci di durare nel tempo. Il susseguirsi degli appuntamenti elettorali (locali, nazionali ed europei) e le analisi demoscopiche, che rendono di importanza vitale ogni pur piccolo appello alle urne, abbreviano l’orizzonte dei governi che, invece di affrontare i grandi problemi del futuro, si concentrano solo sulle decisioni idonee a vincere le sempre vicine elezioni.
A rendere più difficile e precaria la vita dei governi democratici si aggiunge la moltiplicazione dei partiti, figlia della maggiore complessità della società moderna e della crisi delle grandi ideologie del passato. Ci sono voluti sette mesi di trattative per formare un governo in Olanda e, dopo oltre tre mesi dalle elezioni, non vi è ancora alcun accordo per un governo tedesco.
Di fronte a tutti questi eventi il favore degli elettori si allontana sempre più da una democrazia che “rappresenta” e si sposta verso una democrazia che “consegna”, che opera cioè in modo efficace.
Se non vogliamo vedere crescere in modo irresistibile anche nei nostri Paesi il desiderio di autoritarismo dobbiamo rendere forte la nostra democrazia: è nostro dovere primario rinnovarla e irrobustirla per metterla in grado di “consegnare”.
Quest’obiettivo può essere raggiunto solo adottando sistemi elettorali sempre meno proporzionali e sempre più maggioritari.
Il sistema elettorale non è fatto per fotografare un Paese ma per renderne possibile il governo.
Di queste necessarie trasformazioni l’Italia se ne sarebbe dovuta rendere conto da gran tempo e invece le ha volute ignorare: speriamo che possa metterle in atto fin dall’inizio della prossima legislatura.
* Questo articolo è uscito su «Il Messaggero» del 7 gennaio 2018.
La Costituzione non è mai al sicuro, occhio ai programmi elettorali
1947-2017. La Carta come una bussola nella sfida del voto
di Anna Falcone (il manifesto, 28.12.2017)
Sarà la cifra tonda, sarà che questo compleanno della Costituzione arriva dopo la schiacciante vittoria referendaria del 4 dicembre, fatto sta che mai come quest’anno la ricorrenza della firma è stata fortemente sentita dagli italiani, che hanno partecipato in tanti alle iniziative organizzate per l’occasione in tutta Italia. E non solo per rinnovare il ricordo: questa celebrazione e il messaggio che ne scaturisce assumono un valore cruciale per le prossime elezioni politiche.
Lo hanno giustamente sottolineato Felice Besostri ed Enzo Paolini nell’articolo pubblicato ieri sulle pagine di questo giornale. Perché chi ha vinto la battaglia referendaria, e continua a difendere davanti alle Corti le ragioni della legittimità costituzionale delle leggi elettorali, o a sostenere chi lo fa, non potrà sottrarsi, al momento del voto, a un giudizio di coerenza fra schieramenti politici e rispetto del voto referendario.
Il fatto che a 70 anni dalla sua entrata in vigore la Costituzione è e rimane, in gran parte, inattuata rappresenta - per chi voglia raccoglierla seriamente - la sfida politica per eccellenza delle prossime elezioni. Non a caso, molti elettori ed elettrici, che non si rassegnano all’esistente, chiedono agli schieramenti in campo di ripartire proprio dall’attuazione della Costituzione e dalla implementazione dei diritti già riconosciuti dalla Carta quale antidoto alle inaccettabili diseguaglianze del nostro tempo. Un passaggio necessario, se non indispensabile, per rafforzare la credibilità dei programmi politici e, auspicabilmente, ricucire quel rapporto di fiducia fra politica e cittadini mai così in crisi. Un vulnus democratico tradotto in un astensionismo che sfiora ormai il 55% dell’elettorato: dato più che allarmante a cui non ci si può e non ci si deve rassegnare.
Rilanciare il messaggio della necessaria difesa e attuazione della Costituzione - in particolare delle norme che garantiscono il pieno e trasparente esercizio della democrazia e attribuiscono alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli che alimentano e aggravano le condizioni di diseguaglianza fra cittadini - diventa, allora, cruciale, soprattutto alla vigilia di una tornata elettorale le cui regole saranno scandite dall’ennesima legge elettorale ad alto rischio di incostituzionalità.
Pur nella piena consapevolezza che la Costituzione non delinea un programma univoco, capace di blindare le scelte dei diversi governi - è necessario riconoscere, infatti, e una volta per tutte, che esiste un nucleo duro di principi e diritti fondamentali inderogabili che ogni forza politica deve impegnarsi ad attuare, nelle forme e nei modi che ritiene più opportuni, per rispettare quella fedeltà alla Costituzione che li lega indissolubilmente alla Repubblica e ai suoi compiti costituzionali. Un patto democratico di diritti e obiettivi programmatici, inequivocabilmente vincolanti, che deve tornare ad essere il cuore di ogni programma elettorale. Soprattutto a Sinistra.
Sia chiaro: non è un’indicazione di voto, ma il suggerimento a una riflessione suppletiva sul voto e su chi auspicabilmente si impegnerà in maniera chiara e credibile a difendere e attuare la Costituzione. Nella piena consapevolezza che un tale ambizioso obiettivo, per essere concreto, deve essere condiviso da tanti, e non è monopolizzabile da pochi o da forze marginali. Perché la Costituzione non è perfetta, né intoccabile, ma è l’unico punto certo che abbiamo, il primo “bene comune” in cui si riconoscono gli italiani in questa difficile fase di transizione democratica. Se questa virerà verso il restringimento progressivo degli spazi di partecipazione e di democrazia o verso modelli più avanzati dipenderà anche dal se e come eserciteremo il nostro diritto di voto.
In tal senso, l’astensionismo, anche come forma estrema di protesta, più che sortire un ‘ravvedimento’, rischia di favorire le destre nel prossimo Parlamento, e con esse la formazione di uno schieramento largo e più ampio della compagine del futuro governo che, se non arginato, potrebbe trovare i numeri per unire le forze di quanti - avendo fallito le riforme del 2006 e del 2016 - potrebbero convergere su un progetto analogo, se non peggiore. Un’operazione che, (ipotesi remota, ma non impossibile) qualora dovesse raccogliere il sostegno dei 2/3 dei componenti di ciascuna Camera potrebbe non dare spazio neppure alla raccolta delle firme per chiedere il referendum costituzionale e, con esso, il pronunciamento popolare.
Per questo è necessario sollecitare le forze politiche in campo affinché si pronuncino, tutte, sul loro programma costituzionale: sul se e come intendano intervenire sulla Costituzione; sul se e come intendano dare attuazione al suo nucleo duro di principi e diritti inderogabili; sul se e come intendano metterla “in sicurezza” da possibili incursioni di future maggioranze gonfiate. Perché non ci si debba più trovare in futuro a contrastare una riforma o, peggio, una riscrittura della Carta, di parte e neppure menzionata nei programmi elettorali e adeguatamente dibattuta nel Paese. Ai tanti italiani che si sono recati al voto il 4 dicembre, almeno questo, è dovuto.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
VERGOGNA E "LATINORUM": UNA GOGNA PER L’ITALIA INTERA... *
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Le idee
La vergogna è morta
Da Berlusconi a Trump: così un sentimento è scomparso dall’orizzonte dei valori individuali e collettivi
di Marco Belpoliti (l’Espresso, 15 dicembre 2017)
Quando nel 1995 Christopher Lasch, l’autore del celebre volume “La cultura del narcisismo”, diede alle stampe un altro capitolo della sua indagine sulla società americana, “La rivolta delle élite” (ora ristampato opportunamente da Neri Pozza), pensò bene di dedicare un capitolo alla abolizione della vergogna.
Lasch esaminava gli scritti di psicoanalisti e psicologi americani che avevano lavorato per eliminare quella che sembrava un deficit delle singole personalità individuali: la vergogna quale origine della scarsa stima di sé. La pubblicistica delle scienze dell’anima vedeva in questo sentimento una delle ultime forme di patologia sociale, tanto da suggerire delle vere e proprie campagne per ridurre la vergogna, cosa che è avvenuta in California, ad esempio («programma cognitivo-affettivo finalizzato a ridurre la vergogna»). Lasch non ha fatto in tempo a vedere come questo sentimento sia stato abolito dalla classe dirigente che è apparsa sulla scena della politica mondiale all’indomani del 1994, anno in cui lo studioso della cultura è scomparso.
* * *
Con il debutto di Silvio Berlusconi in politica la vergogna è ufficialmente scomparsa dall’orizzonte dei valori e dei sentimenti individuali e collettivi. Le élite che hanno scorrazzato nel paesaggio italiano nel ventennio successivo alla “discesa in campo” sono state totalmente prive di questo. In un certo senso Berlusconi è stato l’avanguardia di una classe politico-affaristica che ha il suo culmine nella figura dell’attuale inquilino della Casa Bianca, Donald Trump. Nessuno dei due uomini d’affari trasformati in leader politici conosce né il senso di colpa né la vergogna propriamente detta.
La vergogna, come sostengono gli psicologi, costituisce un’emozione intrinsecamente sociale e relazionale. Per provarla occorre immedesimarsi in un pubblico che biasima e condanna. Ma questo pubblico non esiste più. Ci sono innumerevoli figure dello spettacolo, della politica, della economia e del giornalismo, per cui la sfrontatezza, l’esibizione del cinismo, la menzogna fanno parte della serie di espressioni consuete esibite davanti alle telecamere televisive e nel web. Nessuno prova più vergogna. Anzi, proprio questi aspetti negativi servono a creare un’immagine personale riconoscibile e, se non proprio stimata, almeno rispettata o temuta. Come ha detto una volta Berlusconi, genio del rovesciamento semantico di quasi tutto: «Ci metto la faccia». È l’esatto contrario del “perdere la faccia”, sentimento che prova chi sente gravare dentro di sé la vergogna. Metterci la faccia significa apparire rimuovendo ogni senso di colpa, di perdita del senso dell’onore, della rispettabilità.
* * *
L’esibizione dell’autostima è al centro del libro più celebre di Lasch, quello dedicato al narcisismo. «Meglio essere temuti che amati», recita un proverbio; nel rovesciamento avvenuto negli ultimi quarant’anni, cui non è estranea la televisione commerciale inventata da Silvio Berlusconi, è molto meglio che gli altri ti vedano come sei: cattivo, spietato, senza vergogna. L’assenza del senso di vergogna è generata dall’assenza di standard pubblici legati a violazioni o trasgressioni. Nella vergogna s’esperimenta l’immagine negativa di sé stessi, si prova il senso di un’impotenza. Questa emozione rientra in quel novero di quelle esperienze che sono definite dagli psicologi “morali”. Ciò che sembra scomparso in questi ultimi decenni è proprio un sistema di valori morali condivisi.
* * *
Non è lontano dal vero immaginare che la deriva populista nasca anche da questa crisi verticale di valori, dall’assenza di un codice etico collettivo. Nell’età del narcisismo di massa ognuno fa per sé, stabilendo regole e comportamenti che prescindono dagli altri o dalla società come entità concreta, entro cui si misura la propria esistenza individuale. La vergogna è senza dubbio un sentimento distruttivo, probabilmente molto di più del senso di colpa, come certificano gli psicoanalisti. Sovente porta a derive estreme, a reazioni autodistruttive, e tuttavia è probabilmente uno dei sentimenti più umani che esistano.
Per capire come funzioni la vergogna basta leggere uno dei libri più terribili e insieme alti del XX secolo, “I sommersi e i salvati” (Einaudi) di Primo Levi nel capitolo intitolato Vergogna. Lo scrittore vi riprende una pagina di un suo libro, l’inizio de “La tregua”, dove si racconta l’arrivo dei soldati russi ad Auschwitz. Sono dei giovani militari a cavallo che assistono alla deposizione del corpo di uno dei compagni di Levi gettato in una fossa comune. Il cumulo dei cadaveri li ha come pietrificati. Levi riconosce nei soldati russi il medesimo sentimento che lo assaliva nel Lager dopo le selezioni: la vergogna, scrive, che i tedeschi non avevano provato. La scrittore spiega che non è solo un sentimento che si prova per aver compiuto qualcosa di male, di scorretto o di errato. Nasce piuttosto dalla “colpa commessa da altrui”: la vergogna dei deportati scaturisce proprio da quello che hanno fatto i carnefici. Una vergogna assoluta, che rimorde alla coscienza delle vittime per la colpa commessa dai carnefici: «gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa». Levi parla di una vergogna radicale, che svela la profonda umanità di questo sentimento.
* * *
Gli psicologi affermano che la vergogna è molto più distruttiva del senso di colpa. Proprio per questo è lì che si comprende quale sia la vera radice dell’umano. Si tratta della «vergogna del mondo», come la definisce Levi, vergogna assoluta per ciò che gli uomini hanno fatto agli altri uomini, e non solo ad Auschwitz, ma anche in Cambogia, nella ex Jugoslavia, in Ruanda, nel Mar Mediterraneo e in altri mille posti ancora.
Che la vergogna ci faccia umani non lo dice solo Levi in modo estremo, ma lo evidenzia l’ultima frase di uno dei più straordinari testi letterari mai scritti, “Il processo” di Franz Kafka. Libro che quasi tutti hanno letto almeno una volta da giovani. Il romanzo dello scrittore praghese termina con una frase emblematica: «E la vergogna gli sopravvisse». K. è stato ucciso dai due scherani che l’hanno perseguitato nel corso dell’intera storia. L’hanno barbaramente accoltellato al cuore, dopo avere tentato inutilmente di convincerlo a farlo lui stesso. Il libro di Kafka si chiude con questa frase che, come ha segnalato Giorgio Agamben, significa esattamente questo: la vergogna ci rende umani. Chissà se Silvio Berlusconi e la sua corte hanno mai avuto in mano questo racconto, se l’hanno letto. Probabilmente no. Ma anche se lo avessero fatto, dubito che ne avrebbero tratto qualche ammaestramento, com’è evidente da quello che è seguito dal 1994: senza vergogna.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VERGOGNA E "LATINORUM": UNA GOGNA PER L’ITALIA INTERA. Sul filo di una nota di Tullio De Mauro
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
Politica della post verità o potere sovralegale?
di Ugo Morelli *
Gli orientamenti politici e gli esiti delle decisioni collettive sfidano oggi le tradizionali categorie della psicologia del potere. L’opinione pubblica alla base delle scelte si forma per vie che sfuggono alle forme conosciute e le campagne elettorali sono costruite al di fuori del mondo dei fatti. Non solo, ma chi sceglie in un certo modo, concorrendo a esiti determinanti anche per il proprio presente e il proprio futuro, sembra cambiare idea un momento dopo, a fatti compiuti e, almeno per un certo tempo, irreversibili.
Viene sempre più spesso in mente Winston Churchill e la sua affermazione sulla difesa della democrazia «purché non voti mia suocera». Una provocazione alla sua maniera che comunque induce a interrogarsi sul presente della democrazia e delle forme di esercizio del potere. A fare affermazioni senza prove e senza logica; smentendole immediatamente dopo o cambiando versione continuamente, si ottiene seguito e consenso e viene da chiedersi come sia possibile.
Se consideriamo l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti d’America, la domanda da porsi è come abbia fatto una minoranza di americani a portarlo al potere. L’interrogazione è, perciò, su un deficit di democrazia e sulla perdita di democrazia partecipativa, come sostiene Judith Butler.
«Ci avviciniamo all’ipotesi che ci pare di poter sostenere: non siamo di fronte a un’epoca di post-verità, bensì all’affermazione di forme di potere sovralegale», come le aveva definite Carl Schmitt.
L’uso del sistema democratico per prendere il potere e appropriarsene da parte di chi democratico non è, né nello stile né nella sostanza, mentre è comunque in grado di ottenere il consenso soprattutto di chi è in tutt’altra condizione, consente un accentramento del potere che non sarebbe concepibile in situazioni di una almeno relativa democrazia partecipativa. È necessario considerare la dematerializzazione e la virtualizzazione dell’esperienza per cercare di comprendere alcune delle vie di creazione del consenso e di affermazione del potere oggi. Si tratta, ad esempio, di riprendere quello che Jean Baudrillard scriveva parecchi anni fa:
I fatti non contano e la loro rappresentazione narrata predomina e vince. Come sostiene Judith Butler in un’intervista a Christian Salmon, apparsa il 24 dicembre 2016 su Robinson, parlando delle elezioni di Donald Trump e dei contenuti delle sue affermazioni:
Da tempo ci siamo resi conto di vivere in un’epoca in cui non disponiamo più di verità indiscutibili e la nostra condizione, come ampiamente segnalato da un profondo filosofo come Aldo Giorgio Gargani, è quella di chi è passato dalla verità al senso della verità. Secondo Giorgio Agamben: «La civiltà che noi conosciamo si fonda innanzitutto su una interpretazione dell’atto di parola, sullo ‘sviluppo’ di possibilità conoscitive che si considerano contenute e ‘implicate’ nella lingua» (Che cos’è la filosofia?, Quodlibet 2016). L’uso della lingua e soprattutto i suoi effetti non sono determinabili a priori. Vi è una dimensione performativa che piega i significati a seconda delle contingenze.
Accade per esempio oggi che la parola sicurezza sia usata efficacemente per ridurre e decimare i diritti democratici di libertà e, per molti aspetti, la democrazia stessa. E non accade senza consenso. Chi predica la sicurezza dà voce ad aspettative che sono poi alla base di ampi consensi. Sulla consapevolezza delle conseguenze di quel consenso si potrà discutere, ma intanto si produce una legittimazione di un sistema di potere. Sarà pure una minoranza della popolazione americana ad aver portato Trump al potere; rimane il fatto che c’è riuscita affermando le proprie aspettative profondamente antidemocratiche di vivere e agire al di sopra della legge.
Appare evidente che entrano in campo emozioni arcaiche e primordiali sollecitate e amplificate da mezzi virtuali contemporanei che non governiamo, ma ci dominano. Nel momento in cui, in modo confuso e contraddittorio, un leader libera l’odio, invita a usare la cosiddetta pancia per scegliere, legittima la possibilità di esprimere la collera senza limitazioni, rende dichiarabile e proponibile il razzismo, ognuno può sentirsi libero di tirar fuori le viscere. L’arcaismo emozionale e la pratica del voto con lo stile immediato e pratico del “mi piace”/ “non mi piace” di Facebook, producono una miscela sostenuta dalle vie mediatiche, in grado di mettere in discussione le forme della democrazia così come la conosciamo.
I processi di identificazione immediati generano dinamiche di “altercasting” e nel momento in cui le persone si riconoscono in un modo di essere e di fare volendo essere come il leader, non ci sono più disposizioni a verificare la verità delle affermazioni o la fattibilità delle proposte, ma solo adesione massiva e conformista, come abbiamo mostrato nella voce Conformismo.
Ma perché le persone aderiscono? Probabilmente ciò accade per emulazione e per paura. Un leader può guadagnarsi l’ammirazione per aver trovato il modo di non pagare le tasse o per il fatto di riuscire ad avere tante donne a disposizione, molestie sessuali incluse. Il leader va dove vuole, fa quello che vuole e prende quello che vuole. Chi vota vorrebbe essere come lui. Ciò però non basta. L’emulazione riguarda anche la corporeità, la gestualità, la teatralità delle espressioni e la corrispondenza a un modello mediatico stereotipato. Come ha mostrato Marco Belpoliti ne Il corpo del capo , il corpo si afferma come metafora e come forma di esercizio del potere, in particolare nelle modalità totalitarie. La forza attrattiva dei gesti e la loro capacità di coinvolgimento, soprattutto nelle performance comunicative, mostra di essere una componente non secondaria del potere sovralegale.
Accanto a questi fattori e impastandoli di un clima particolare, agisce la paura. Sia la paura suscitata ad hoc enfatizzando fenomeni del tempo come l’immigrazione, il pericolo derivante dagli emarginati o da forme di rivolta, le donne, i disoccupati, i diversi di ogni tipo; sia la paura indotta dai rischi del presente e dalla cosiddetta società del rischio.
Il rapporto tra il potere che non si basa sulla legittimazione, sulla dimostrazione dialogica dei fatti e sulla critica reciproca, ma si situa al di sopra della legge; il rapporto tra quel potere e la paura è stato molto ben descritto da Herta Müller, premio Nobel per la letteratura, a proposito delle continue visite che riceveva a casa dai servizi segreti:
«Mia madre chiese: che cosa vogliono da te?
Risposi: paura.
Era vero. Questa breve parola si spiegava da sé. Perché l’intero Stato era un apparato della paura. C’erano i sovrani della paura e il popolo della paura. Ogni dittatura è formata da chi incute paura e dagli altri, che hanno paura. Da chi vuole farti paura e chi morde per paura. Ho sempre pensato che la paura sia lo strumento quotidiano di chi vuole metterti paura e il pane quotidiano di chi, per paura, morde».
La paura da centralizzata si è fatta diffusa e dà vita a forme di potere non semplicemente riconducibili né ai fascismi storici e neppure alla post-verità.
Abbiamo due volte paura di questi tempi: paura per sé e per gli altri e paura dell’altro. E la maggior parte delle persone contribuisce ad alimentare la paura portandosela con sé, oltre a cercare di ottenere dalla paura propria e altrui il massimo vantaggio. Gestire la paura non è altro che il preludio all’ubbidienza.
C’è un’epidemiologia del potere che si basa su un particolare tipo di collusione tra chi domina e chi è dominato; su un forte accentramento e su un monopolio della comunicazione: tutto è reso possibile dal fatto che la maggioranza delle persone usa subendoli i social network, il sistema mediatico e i molteplici canali di informazione e comunicazione. Più che una post-verità sembra affermarsi una surverità, un potere sovralegale che non è raggiungibile con gli strumenti della critica e del conflitto politico come finora li abbiamo conosciuti.
* DOPPIOZERO, 18 febbraio 2017
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Caro Scalfari, con il Sì passa un’espropriazione di sovranità
di Gustavo Zagrebelsky *
Caro Eugenio Scalfari, ieri mi hai chiamato in causa due volte a proposito del mio orientamento pro-No sul referendum prossimo venturo e, la seconda volta, invitandomi a ripensarci e a passare dalla parte del Sì. La "pessima compagnia", in cui tu dici ch’io mi trovo, dovrebbe indurmi a farlo, anche se, aggiungi, sai che non lo farò. Non dici: "non so se lo farà", ma "so che non lo farà", con il che sottintendi di avere a che fare con uno dalla dura cervice.
I discorsi "sul merito" della riforma, negli ultimi giorni, hanno lasciato il posto a quelli sulla "pessima compagnia". Il merito della riforma, anche a molti di coloro che diconono di votare Sì, ultimo Romano Prodi, appare alquanto disgustoso. Sarebbero piuttosto i cattivi compagni l’argomento principale, argomento che ciascuno dei due fronti ritiene di avere buoni motivi per ritorcere contro l’altro.
Un topos machiavellico è che in politica il fine giustifica i mezzi, cioè che per un buon proposito si può stare anche dalla stessa parte del diavolo. Non è questo. Quel che a me pare è che l’argomento della cattiva compagnia avrebbe valore solo se si credesse che i due schieramenti referendari debbano essere la prefigurazione d’una futura formula di governo del nostro Paese. Non è così. La Costituzione è una cosa, la politica d’ogni giorno un’altra. Si può concordare costituzionalmente e poi confliggere politicamente. Se un larghissimo schieramento di forze politiche eterogenee concorda sulla Costituzione, come avvenne nel ’46-’47, è buona cosa. La lotta politica, poi, è altra cosa e la Costituzione così largamente condivisa alla sua origine valse ad addomesticarla, cioè per l’appunto a costituzionalizzarla. In breve: l’argomento delle cattive compagnie, quale che sia la parte che lo usa, si basa sull’equivoco di confondere la Costituzione con la politica d’ogni giorno.
Vengo, caro Scalfari, a quella che tu vedi come un’ostinazione. Mi aiuta il riferimento che tu stesso fai a Ventotene e al suo "Manifesto", così spesso celebrati a parole e perfino strumentalizzati, come in quella recente grottesca rappresentazione dei tre capi di governo sulla tolda della nave da guerra al largo dell’isola che si scambiano vuote parole e inutili abbracci, lo scorso 22 agosto. C’è nella nostra Costituzione, nella sua prima parte che tutti omaggiano e dicono di non voler toccare, un articolo che, forse, tra tutti è il più ignorato ed è uno dei più importanti, l’articolo 11. Dice che l’Italia consente limitazioni alla propria sovranità quando - solo quando - siano necessarie ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Lo spirito di Ventotene soffia in queste parole. Guardiamo che cosa è successo. Ci pare che pace e giustizia siano i caratteri del nostro tempo? Io vedo il contrario. Per promuovere l’una e l’altra occorre la politica, e a me pare di vedere che la rete dei condizionamenti in cui anche l’Italia è caduta impedisce proprio questo, a vantaggio d’interessi finanziario-speculativi che tutto hanno in mente, meno che la pace e la giustizia. Guardo certi sostegni alla riforma che provengono da soggetti che non sanno nemmeno che cosa sia il bicameralismo perfetto, il senato delle autonomie, la legislazione a data certa, ecc. eppure si sbracciano a favore della "stabilità". Che cosa significhi stabilità, lo vediamo tutti i giorni: perdurante conformità alle loro aspettative, a pena delle "destabilizzazioni" - chiamiamoli ricatti - che proprio da loro provengono.
Proprio questo è il punto essenziale, al di là del pessimo tessuto normativo che ci viene proposto che, per me, sarebbe di per sé più che sufficiente per votare No. La posta in gioco è grande, molto più grande dei 47 articoli da modificare, e ciò spiega l’enorme, altrimenti sproporzionato spiegamento propagandistico messo in campo da mesi da parte dei fautori del Sì. L’alternativa, per me, è tra subire un’imposizione e un’espropriazione di sovranità a favore d’un governo che ne uscirebbe come il pulcino sotto le ali della chioccia, e affermare l’autonomia del nostro Paese, non per contestare l’apertura all’Europa e alle altre forme di cooperazione internazionale, ma al contrario per ricominciare con le nostre forze, secondo lo spirito della Costituzione. Si dirà: ma ciò esigerebbe una politica conforme e la politica ha bisogno di forze politiche. E dove sono? Sono da costruire, lo ammetto. Ma il No al referendum aprirà una sfida e in ogni sfida c’è un rischio; ma il Sì non l’aprirà nemmeno. Consoliderà soltanto uno stato di subalternità.
Questa, in sintesi, è la ragione per cui io preferisco il No al Sì e perché considero il No innovativo e il Sì conservativo.
Ti ringrazio dell’attenzione. A cose fatte avremo tempo e modo
[...] A chi appartiene la Laguna di Venezia, all’ex sindaco Orsoni, all’ex ministro Galan e ai suoi predecessori o, per caso, agli abitanti di Venezia? Se non altro perché la Laguna, e la stessa città che noi ereditiamo, sono il frutto di un’opera secolare di conservazione, realizzata con ingenti sforzi da innumerevoli generazioni di veneziani. E la Val di Susa - già collegata alla Francia con un ferrovia internazionale, con una autostrada e con altre due strade minori - che si vuole sconvolgere con un tunnel di ben 57 km?
A chi appartiene la Val di Susa, al sindaco di Torino, a Prodi a Berlusconi, al ministro Alfano, che l ‘ha messo sotto assedio con una operazione di guerra di posizione? O non per caso alle popolazioni che da secoli l’hanno resa produttiva contribuendo alla ricchezza nazionale, che l’hanno curata e mantenuta per noi e per le generazioni che verranno? E dov’è il superiore fine nazionale che dovrebbe far tacere i diritti locali?
E il sottosuolo di Firenze, dov’è in corso una dissennata opera di escavazione per costruire una stazione sotterranea destinata alla TAV? Appartiene all’ex sindaco Renzi o agli attuali ministri in carica? E che dire dei costi, che secondo il parere di esperti come Marco Ponti, sono di almeno 4 volte superiori rispetto a una stazione di superficie ? Senza dir nulla dei pericoli di dissesto che corre la città, patrimonio dell’umanità.
Sono affari degli italiani o del ceto politico, alcuni rappresentanti dei quali sono già sotto inchiesta per questi lavori?
* Piero Bevilacqua, L’etica civile delle grandi opere (Eddyburg, 19.06.2014)
Tutti gli ostacoli del governo Renzi
di Franco Cordero (la Repubblica, 20.06.2014)
A TRE settimane dal voto europeo numeri ed eventi suggeriscono rilievi irrispettosi: gli 11.202.231 di voti raccolti dall’esordiente, pari al 40.8% dei votanti, erano un exploit inaudito nelle fiere elettorali italiane ( adde L’Altra Europa, 4%); i 4.614.364 (16.8%) racimolati da Forza Italia riflettono un leader ormai fiacco ma, issato a cavallo, può ancora guidare la carica, se qualche espediente meccanico lo tiene ritto (capitava in un vecchio film sul Cid Campeador); e inclusi i presumibili confluenti nel cartello (Ncd, Udc, FdI, Lega Nord), l’armata variopinta conta 9.997.02 teste (31.1%), in vista del tête-à tête finale, potendo pescare nel 21.11% sterile accumulato dai pentasiderei (qualora viga l’Italicum). Votassimo domani, la vittoria sarebbe ancora più larga, sennonché l’ex sindaco fiorentino vuole un’intera legislatura, fino al 2018 e qui ha gioco meno facile. Glielo complicano degli handicap.
Vediamoli cominciando dalla mistica delle riforme costituzionali; le promuoveva il Quirinale, tale essendo l’obiettivo della «larghe intese»: le quali erano veicolo d’un regime consortile dove il Pd sarebbe stato junior partner, perché nella XVI legislatura Re Lanterna era padrone, ma in 42 mesi dilapida il capitale, fino alle squallide dimissioni, sabato 12 novembre 2011. Furioso e gemebondo, lamentava le maglie strette d’una Carta obsoleta e i lunghi percorsi legislativi, imputabili alla struttura bicamerale, ululando ogniqualvolta la Consulta dichiarasse invalide norme disegnate sulla sua anomala misura. Il Colle guardava, indifferente all’immane conflitto d’interessi e coinvolto in manovre d’abusiva immunità.
L’eclissi dura un anno: redivivo, sfiora la clamorosa rivincita; nasce un governo bicolore guidato da Letta nipote, la cui storia familiare e politica vale un programma; e chi elabora le novità supreme, ministro competente? Gaetano Quagliariello, centurione berlusconiano. Marchiate dall’oligarchia partitica, le Camere attuali erano le meno idonee a rifondare lo Stato. Così tengono banco questioni artificiose su cui il governo s’impegna a vuoto.
L’urgente sta nell’economia infestata da mafie, camorra, corruzione: mancavano due spanne alla bancarotta; il morbo italico è debito pubblico straripante, declino produttivo, disoccupati, rendite parassitarie, caduta dei consumi, istruzione deficitaria, atonia morale. Molto cambierebbe appena fossero snidati i vampiri e l’uomo nuovo parla chiaro ma i consorti coltivano interessi nella cui gestione “garantismo” significa impunità: ad esempio, aborrono le intercettazioni, in ossequio alla privacy delittuosa; intendono la difesa come ingegnoso perditempo; difendono meccanismi perversi della prescrizione, affinché almeno un processo su tre finisca in scandalosi proscioglimenti. Nella casistica a colletto bianco è raro che scatti la pena: quando avviene, benefici penitenziari la convertono, tagliano, diluiscono; vedi Silvius Magnus, caso Mediaset.
Che nell’Italia 2014 “mercato” sia parola vuota, lo dicono notizie Expo e Mose scoperchiando malaffari miliardari dall’effetto notorio: un km d’alta velocità costa sei volte la stessa opera in Francia; vi mangiano impresari, intermediari, “facilitatori”, funzionari, pseudoconsulenti, parassiti dal vario colore sotto trasversale ombrello politico. Le procure ottengono misure cautelari. Qui gli oligarchi battono un colpo strepitoso.
Mercoledì 11 giugno Montecitorio votava norme comunitarie sulla responsabilità civile del magistrato. L’emendamento del solito leghista contempla azioni dirette contro l’autore dell’asserito «danno ingiusto» ossia liti tra imputato e chi lo giudica: idea da manicomio; l’arnese intimidatorio inquina il giudizio e lo ostruisce perché ogni chiamato in causa diventa incompatibile; l’Olonese li fulminerebbe uno dopo l’altro. L’emendamento riscuote 187 sì contro 180 e se Palazzo Madama, ripetesse l’impresa, navigheremmo sulla Nave dei folli (l’aveva incisa Dürer, 1494).
Naturali i trionfi a destra ma il Pd conta 293 teste sotto la cupola montecitoria e ne erano presenti 214; chi se ne intende calcola 57 traditori. Il capogruppo, pupillo dal emobersaniano, non se ne stupisce: fioriscono i « garantisti » Pd, eccome, primus quorum ipse; lo esclamava un anno fa, memorabile outing, e intavola la candidatura al patronato dei perseguibili o già imputati (corruttori, corrotti e simili); voci confraterne chiedono una «svolta storica» dal «giustizialismo» al virtuoso contrario.
Il Quirinale emette una vaga frase equidistante ( l’anno scorso esortava tribunali e corti al rispetto dello «statista » indaffarato). Lo sconfitto 2013 grida d’avere votato contro l’emendamento e solleva dubbi sul gruppo M. R. Sono lunghi i quasi 4 anni residui d’una legislatura completa, con innumerevoli occasioni d’imboscata. La vecchia guardia include vescovi atei, pasticheur postmarxisti: non vinceranno mai partite elettorali ma sono temibili nei giochi d’inerzia e fuoco amico. Il premier in carica è colpevole d’avere vinto due volte, alle primarie e nelle europee. Insomma, quanto meno dura la mésalliance, tanto meglio, ed è auspicabile un trasloco al Quirinale.
Scontiamo ancora i 101 voti Pd tolti a Romano Prodi: l’avevano appena acclamato; nella versione ipocrita Napolitano rieletto scongiura catastrofi. Nossignori, volevano larghe intese oligarchiche; Berlusco Felix canta al microfono «meno male che Giorgio c’è».
Il disegno consortile lo presupponeva ancora una volta salvo dal processo. Era scena da teatro nero lo stupore rabbioso giovedì 1 agosto 2013, h. 19.38: la lunga caduta dell’impero forse comincia lì, dalla lettura del dispositivo d’una sentenza; staremmo assai peggio se il tempo avesse estinto anche quella frode fiscale.
“Italian disaster”
The London Review Of Books: “Napolitano, anomalia italiana”
di Caterina Soffici (il Fatto, 22.05.2014)
La vera anomalia italiana? Giorgio Napolitano. Sull’ultimo numero della prestigiosa London Review of Books, lo storico britannico Perry Anderson analizza la crisi europea in un lungo saggio dal titolo: The Italian Disaster.
Non c’è bisogno di traduzione ed è interessante che per parlare del futuro dell’Europa e delle falle nel sistema della democrazia del vecchio continente, si parli del disastro italiano, raccontato con la secchezza degli storici inglesi: una sequenza di fatti, date, pochi commenti e molti argomenti. Quello che Denis Mack Smith ha fatto con i suoi saggi sul Risorgimento e la nascita del fascismo, Anderson, storico di formazione marxista, lo fa con gli anni recenti della storia patria. Secondo Anderson è il capo dello Stato la vera minaccia della democrazia italiana.
Visto in patria come il salvatore, “la roccia su cui fondare la nuova Repubblica”, Napolitano è invece una vera pericolosa anomalia, un politico che ha costruito tutta la carriera su un principio: stare sempre dalla parte del vincitore. Così da studente aderisce al Gruppo Universitario Fascista, poi diventa comunista tutto d’un pezzo: nel 1956 plaude l’intervento sovietico in Ungheria, nel 1964 si felicita per l’espulsione di Solgenitsyn, sostenendo che “solo i folli e i faziosi possono davvero credere allo spettro dello stalinismo”.
Fedele alla linea del più forte, vota sì all’espulsione del Gruppo del Manifesto per i fatti di Cecoslovacchia e negli anni Settanta diventa “il comunista favorito di Kissinger”, perché il nuovo potere da coltivare sono ora gli Stati Uniti. Gli Usa e Craxi sono i nuovi fari di Napolitano e dei miglioristi (la corrente era finanziata con i soldi della Fininvest) e nel 1996 il nostro diventa ministro degli Interni (per la prima volta uno di sinistra), garantendo agli avversari che “non avrebbe tirato fuori scheletri dall’armadio”.
Ma il meglio Napolitano lo dà da presidente della Repubblica: nel 2008 firma del lodo Alfano, che “garantisce a Berlusconi come primo ministro e a lui stesso come presidente l’immunità giudiziaria”, dichiarato poi incostituzionale e trasformato nel 2010 nel “legittimo impedimento”, anch’esso dichiarato incostituzionale nel 2011.
E poi una gragnuola di fatti: il mancato scioglimento delle Camere nel 2008, l’entrata in guerra contro la Libia del 2011 (scavalcando costituzione, senza voto parlamentare, violando un trattato di non aggressione), le trame con Monti e Passera per sostituire Berlusconi, modo - secondo Anderson - “completamente incostituzionale”.
Per non parlare della vicenda della ri-elezione al secondo mandato (“a 87 anni, battuto solo da Mugabe, Peres e dal moribondo re saudita”) e delle ultime vicende, con il siluramento del governo Letta.
Napolitano, che dovrebbe essere “il guardiano imparziale dell’ordine parlamentare e non interferire con le sue decisione”, scrive lo storico britannico, rompe ogni regola. “La corruzione negli affari, nella burocrazia e nella politica tipiche dell’Italia sono adesso aggravate dalla corruzione costituzionale”.
E poi il caso Mancino e la richiesta di impeachment contro il presidente da parte di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso, e l’invocazione della totale immunità nella trattativa Stato-mafia, che Anderson definisce “Nixon-style”, termine che evoca scandali come il Watergate. Ma gli esiti italiani sono stati diversi, come ben sappiamo.
Ripensare la sinistra
di Alfredo Reichlin (l’Unità, 08.11.2013)
LA SINISTRA È IN UN GRANDE TRAVAGLIO MA LA CRISI CHE LA ATTRAVERSA È TANTO PIÙ GRAVE PERCHÉ ESSA SEMBRA PRIVA DI UNA CHIARA IDEA DI SÉ E DEL SUO RUOLO. Non si vede un pensiero politico che abbia l’ambizione di leggere in modo autonomo e critico le cose nuove del mondo. Ma non è della contingenza politica che voglio parlare. Qui si vorrebbe riflettere sulla necessità di affermare una visione fondatamente critica, tanto più necessaria in rapporto a cambiamenti che non sto a ricordare. Cambiamenti che si possono riassumere sotto il titolo di «fine della occidentalizzazione del mondo».
La situazione è paradossale. Da un lato è fallita l’idea che proclamava la fine della storia e di conseguenza l’accettazione di un pensiero unico non più discutibile (il liberismo) ma dall’altro permane un vuoto. Non si vede un pensiero diffuso capace di dare alla politica una diversa dimensione. Perché di questo si tratta: insieme a tante cose, è la dimensione stessa dell’uomo che sta cambiando. Cambia il suo rapporto, non solo con gli altri uomini, ma con la natura. (...)
Non basta che i filosofi ci spieghino il mondo, occorre un nuovo soggetto su cui far leva se vogliamo cambiarlo. Ed è ciò che in effetti fece il socialismo storico. Esso dominò il Novecento non solo perché predicò la giustizia sociale ma perché fece leva su strumenti e pensieri capaci di farla valere. Inventò strumenti molto potenti che non esistevano prima: il sindacato, il partito di massa, il suffragio universale. Impose al capitalismo un compromesso democratico. Il lavoro restava una merce ma una merce speciale: per comprarla occorreva che la plebe si trasformasse in cittadini, armati di diritti e leggi uguali. I quali diritti si materializzavano in una nuova forma di Stato. Un potere. Lo Stato sociale. Insomma un «profeta armato». Ed è proprio questo il punto: questo «profeta» è stato «disarmato» alla svolta degli anni 70. Non solo in Italia. (...)
La sinistra si è divisa. Una parte di essa non si è nemmeno posta i problemi che Alain Tourane riassume così, in una sintesi estrema e forse estremista: «Tutte le categorie e le istituzione sociali che ci aiutavano a pensare e costruire la società (Stato, nazione, democrazia, classe, famiglia) sono diventate inutilizzabili. Erano figlie del capitalismo industriale. All’epoca del capitalismo finanziario non corrispondono più alla realtà delle cose».
Io non sono così drastico. Però anch’io credo che non abbiamo valutato in tutta la sua portata la cosiddetta «rivoluzione conservatrice». Non finiva solo un modello economico ma qualcosa di più lungo periodo. Finiva quel grande compromesso reso possibile dall’esistenza di determinati poteri (Stati, leggi, culture, nuova soggettività delle masse, sistemi) che garantivano un determinato rapporto tra politica ed economia. Gli «spiriti animali» dell’avidità si legittimavano in quanto costretti a misurarsi con nuovi diritti di cittadinanza, conquiste di libertà, diffusione del benessere, perfino con le spinte verso una certa equità sociale.
Non pretendo di aggiungere nulla alle tante analisi. Misuro solo gli effetti dell’enorme squilibrio che si è creato non solo nella distribuzione della ricchezza ma nel rapporto di forza tra la potenza dell’oligarchia finanziaria globalizzata e la debolezza della politica localizzata.
Si è aperta in realtà una nuova grandissima «questione sociale», molto diversa da quella classica originata dal vecchio industrialismo. Essa non consiste più essenzialmente nella contrapposizione tra salario e profitto. È il valore del lavoro che è messo in discussione.
Ciò apre una profonda contraddizione con il fatto che il lavoro è nonostante tutto il luogo della realizzazione di sé ed è il fondamento della cittadinanza. Perciò a me pare che il passaggio da costruire è realizzare una condizione di autonomia facendo molta leva sul superamento del lavoro come precariato, come residuo. E ciò in nome della necessità di creare una condizione umana segnata da una più forte conoscenza, responsabilità e partecipazione alle decisioni.
Dovremmo smetterla con la futile polemica tra Stato e mercato. Il mercato non cessa affatto di avere il suo ruolo. Ciò che gli sviluppi del mondo moderno rendono sempre più chiaro è che il mercato di per sé non è in grado di sovra determinare lo sviluppo degli altri sistemi sociali. Desideri, comportamenti e valori stimolati proprio dalle economie post-industriali tendono a farsi valere e a condizionare a loro volta l’economia al punto da sovvertirne i meccanismi di funzionamento. È la cosa su cui aveva molto riflettuto Karl Polany.
È diventato difficile perfino misurare con i parametri tradizionali il valore economico, il quale appare sempre più determinato dall’estensione delle reti e dalla velocità con cui esse consentono di scambiare idee, conoscenze e relazioni. È quindi venuto il momento di assumere una visione più ampia di ciò che significa creare «valore aggiunto» dal momento che questo si ottiene sempre più integrando conoscenza e socialità, investimenti in beni collettivi e intraprendenza personale.
La verità è che, così come è decrepita la vecchia contrapposizione cara ai «liberal» tra Stato e mercato, è anche diventata meno significativa la vecchia contrapposizione «socialista» tra profitto e salario. Lo sfruttamento è ben altra cosa: riguarda il lavoro ma investe tutta la condizione umana: la vita, i modi di pensare, i territori.
Ecco perché direi che il problema che massimamente emerge è quello di guardare al di là delle cronache dei partiti per interpellare forze diverse, anche culturali, sulla necessità di pensare un nuovo pensiero. Una nuova soggettività. La capacità non solo di definire in astratto le grandi riforme che sono necessarie, ma il «con chi e contro chi» e anche il «come» farle. Astratte fantasie?
Penso alla famosa osservazione di Antonio Gramsci relativa alla «concretezza», cioé il ruolo che in un determinato scenario storico-sociale assume la presenze o l’assenza di un soggetto portatore di una critica della realtà e di un progetto di cambiamento. Riesca o no a realizzare appieno la sua proposta, dice Gramsci, è l’esistenza stessa di questo punto di vista che fa parte del quadro e lo modifica. Ecco. Io credo che la sinistra se vuole tornare a contare nel mondo nuovo deve porsi questo problema.
«La sfida: ricostruire un punto di vista della sinistra»
Biasco, Urbinati, Pasquino, Pinelli, Rusconi, Galli, Tronti e Simone all’iniziativa con Reichlin
«Superare la subalternità al liberalismo solidale»
«Uscire dal silenzio per rilanciare una soggettività sociale e anche un partito»
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 8.11.2013)
Una grande deriva. Globale. E il tentativo di reagire, tornando a nominare ciò che è andato disperso, va rinominato: la sinistra. Da questa percezione nasce il convegno «Ripensare la cultura politica della Sinistra», alla sala Capranichetta di Piazza Montecitorio, scaturito da un’idea dell’economista Salvatore Biasco e inaugurato ieri dalla relazione di Alfredo Reichlin, che oggi pubblichiamo su l’Unità. Reichlin stesso definisce il tema: «il silenzio della sinistra» e il tentativo di spiegare perché. Specie in un momento in cui era lecito attendersi il contrario.
Ovvero il rilancio di politiche di regolazione del ciclo economico, laddove il capitalismo finanziario ha mandato all’aria i margini residui del patto tra economia e democrazia. Precipitando il mondo euro-occidentale in recessione. Con attacco senza precedenti al lavoro e al welfare e sprigionamento, dagli spiriti animali liberisti, di altri temibili spiriti: populismo, fondamentalismi, destre radicali.
Per Reichlin si tratta di rilanciare una «soggettività sociale della sinistra» e anche un partito. Un punto di vista insomma, su cui far leva per liberare “egemonicamente” i ceti subalterni (e cita il Gramsci delle crisi organiche del capitalismo). E il punto dibattuto resta: come ricostruirlo questo punto di vista generale in un mondo che rende invisibili i soggetti o li colonizza? Trasformando valori e istanze post-materiali in narcisismo e gregarismo consumista?
Hanno provato in tanti a rispondere ieri, da Salvatore Biasco, a Nadia Urbinati, a Gianfranco Pasquino, a Cesare Pinelli e a Gian Enrico Rusconi. Fino alla Tavola rotonda conclusiva con Carlo Galli, Mario Tronti, Biasco stesso e Raffaele Simone. Mentre oggi si cimentano Mariuccia Salvati, Luigi Ferrajoli, Fabrizio Barca, Laura Pennacchi, Miguel Gotor, con le conclusioni di Walter Tocci (il convegno è organizzato dalle fondazioni ex Ds, con Ugo Sposetti in qualità di sponsor politico).
E allora vediamoli i modi di ridare voce alla sinistra, in un momento delicatissimo, perché nel Pd si profila una leadership “personale” che fuoriesce del tutto dall’alveo di quello che della sinistra fu il troncone principale: il movimento operaio.
Ad esempi Biasco denuncia la smemoria di una comunità di destino e di interessi. Unita all’assenza di un «paradigma critico della società capitalista». Riprende il tema della soggettività di massa del partito e propone una «socialdemocrazia non nostalgica né statalista», ma che incarni il ruolo di regolatore e redistributore per il rilancio della domanda e la critica del capitalismo «così com’è». Biasco invoca un altro capitalismo: «sociale», lo definisce. Che incorpori dosi massicce di comunità e responsabilità. Dentro «compatibiltà sistemiche», da spingere in avanti e senza massimalismi.
Nadia Urbinati invece rileva come la sinistra sia stata essa stessa causa del suo male. Mostrandosi subalterna al «liberalismo solidale». Di qui una vera e propria «afasia in economia», e il trionfo congiunto di populisti e tecnici, contro la politica organizzata. Per Urbinati è necessario attaccare il nodo del «capitalismo manageriale e monetarista»: invisibile e irresponsabile. Che depotenzia, come dice Habermas, le istituzioni, le leggi e la politica. Il set di valori da cui ricominciare? Eccolo: «dignità della persona, beni comuni, eguaglianza, partecipazione all’economia, diritti civili e laicità degli stili di vita».
Per Pasquino la socialdemocrazia resta attualissima, come pure il keynesismo. Al punto che il politologo stende un «breviario ideale del cittadino socialdemocratico». Un soggetto civico informato, che partecipa a un tessuto comune, non una tantum come ai gazebo. E che perciò esprime classi dirigenti dalle «sue» organizzazioni. Dal sindacato, al partito, alle associazioni collaterali. Come è stato e come è ancora nelle grandi socialdemocrazie, malgrado i segni dell’egemonia liberista e monetarista. Del resto, dice ancora Pasquino, cosa c’è di più socialista dell’articolo 3 della nostra Costituzione, che prescrive di rimuovere gli ostacoli allo sviluppo personale e alla partecipazione economi- ca? Dunque, ci vogliono partiti pedagogici e radicati, per contrastare le forze impersonali dell’economia.
Anche se, visti i vincoli internazionali, occorrerebbe «una rivoluzione permanente e socialdemocratica alla Trotzky, un Trotzky socialdemocratico...». Altri spunti: «l’attacco di Jp Morgan all’eccesso di partitismo e socialismo presente nelle istituzioni dei Paesi europei». Lo ricorda Cesare Pinelli, professore alla Sapienza: è la finanza a voler fare la riforma dello Stato, la stessa finanza che ha generato la catastrofe!
Poi c’è l’analisi di Gian Enrico Rusconi, a modo suo drammatica. Dice: la Germania di Frau Merkel, nazional-monetarista e corporativa, «non sente ragioni». Esercita suo malgrado un’egemonia mercantilista, sulla base di regole che non intende mutare e che oggi la favoriscono. E «i tedeschi sono d’accordo, dagli operai agli imprenditori». Forse, conclude, meglio cercare di farle cambiare idea con il peso degli Stati nazionali, «più che con le utopie federaliste».
Due batture infine sulla tavola rotonda. Con due parole al centro. «Emancipazione» (Galli) e «Liberazione» (Tronti). Sono diverse, ma convergono su un punto: occorre ribaltare i rapporti di forza tra dominanti e dominati, e a favore dei secondi. Altrimenti non c’è sinistra.
L’allarme del presidente Napolitano
"Non si escluda il pericolo stragista"
"Non possiamo escludere un ritorno alla strategia stragista", afferma il Capo dello Stato.
All’incontro nell’aula bunker dell’Ucciardone risuona più volte il nome di Melissa la ragazza uccisa sabato nell’attentato di Brindisi
di ALESSANDRA ZINITI
Nel giorno della memoria, a 20 anni dalla strage che cambiò per sempre la storia della Sicilia, Palermo, l’Italia tutta grida il suo grazie a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, afferma la sua voglia di portare avanti le idee e l’esempio di morale e coraggio dei due giudici uccisi, ma chiede anche a gran voce verità e giustizia per quelle stragi che fino ad ora hanno visto punito solo il livello dell’esecuzione materiale.
LEGGI La cronaca della giornata
"Non lasciatevi intimorire, scendete in campo presto", dice il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, commosso e con le lacrime agli occhi alle centinaia di ragazzi che affollano l’aula bunker del carcere dell’Ucciardone. "Né Palermo né la Sicilia sono sempre uguali a loro stesse - continua il capo dello Stato - e ce lo dicono i fatti". Davanti a lui ci sono anche le compagne di Melissa, la ragazza uccisa a Brindisi sabato davanti alla scuola in un ancora misterioso attentato. "Non possiamo escludere un ritorno alla strategia stragista - dice un preoccupato Napolitano - ma ogni cosa avrà la risposta che si merita. Vedendo oggi quest’aula è evidente che chi ha ucciso Falcone e Borsellino ha fallito. E se hanno ucciso Melissa per offendere la memoria di una donna coraggiosa come Francesca Morvillo la pagheranno".
LEGGI Monito di Monti sugli apparati dello Stato
Nell’aula bunker dell’Ucciardone stipata come mai da migliaia di ragazzi delle scuole, da colleghi dei due magistrati uccisi, da delegazioni di investigatori arrivate da mezzo mondo, da esponenti delle istituzioni, i volti di Giovani Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino, Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Di Cillo, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Eddy Cusina, scorrono sul grande schermo mentre, alla presenza del capo dello Stato con la moglie Clio e del presidente del Consiglio Monti insieme ai ministri dell’Interno Cancellieri e della Giustizia Severino, risuonano le note dell’inno di Mameli e sventolano il tricolore.
FOTO Monti al Giardino della memoria
Ed è il premier Monti che, esortando i magistrati di Caltanissetta a cercare "i pezzi mancanti" garantisce che "non esistono ragioni di Stato che possano giustificare ritardi nella ricerca della verità. L’unica ragione di Stato - dice - è la verità". Affermazioni importanti anche perché il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, annunciando che "ci saranno presto novità nelle indagini sulle stragi che individueranno altre responsabilità" aggiunge che "ci furono talpe nelle istituzioni che suggerirono i movimenti di Giovanni Falcone". Non a caso certo dal procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, giunto a Palermo con gli studenti a bordo di una delle navi della legalità, si sente lanciare un nuovo appello alla collaborazione . "Qualcuno non ha detto tutto, chiunque conosce qualcosa parli, da qualsiasi parte sta".
FOTO L’arrivo delle navi della legalità
Ma nell’aula bunker risuona continuamente il nome di Melissa, la ragazza rimasta uccisa a Brindisi nell’ancora misterioso attentato davanti alla scuola intestata a Francesca Morvillo. Prima di fare il suo ingresso in aula il presidente Napolitano incontra i familiari delle vittime delle stragi ma anche le cinque compagne di Melissa arrivate a Palermo con le navi della legalità.
FOTO Napolitano e la maglietta antimafia
Nell’aula bunker c’è anche Leoluca Orlando, al suo primo giorno da sindaco. Nell’aria continua ad aleggiare la polemica con Maria Falcone per quella clamorosa denuncia che vent’anni fa, rompendo una grande amicizia, Orlando fece accusando Falcone di tenere nei cassetti le carte che avrebbero potuto fare giustizia per i delitti politici. "Orlando chieda scusa" ha ribadito la Falcone. Parole a cui Orlando ha risposto esprimendo il suo "rammarico umano e il suo dolore" ma rivendicando il suo diritto a denunciare le collusioni tra mafia e politica. "Come 20 anni fa denuncio che dentro lo Stato ci sono pezzi di mafia, lo so ma non ho le prove", ha detto Orlando.
Nel pomeriggio, in ventimila sotto l’albero Falcone in via Notarbartolo a conclusione del corteo che, partendo dall’aula bunker e da via D’Amelio, si riunisce per salutare con un grande applauso alle 17.58 il momento della strage di Capaci. In via D’Amelio e poi alla caserma Lungaro, insieme al capo della polizia Antonio Manganelli, ancora il presidente Napolitano per un omaggio a Paolo Borsellino e agli agenti della scorta.
* la Repubblica, 23 maggio 2012 (ripresa parziale)
Scalfaro, tre volte padre della patria
di Domenico Gallo (il manifesto, 1 febbraio 2012)
Adesso che è stata consegnata all’eternità, risplende la bellezza dell’avventura umana di Oscar Luigi Scalfaro, un uomo a cui spetta di diritto il riconoscimento di padre della patria.
Molti grandi uomini hanno dato il loro contributo nell’Assemblea costituente per definire i caratteri universali di quel progetto di democrazia che si è incarnato nella Costituzione ed ha definito il volto ed i caratteri della Patria repubblicana. Scalfaro, giovanissimo magistrato, proiettato nel ruolo di costituente ha respirato, assieme a Calamandrei, Dossetti, Basso, La Pira, Togliatti, Bozzi, Terracini, quell’aria di libertà, di pulizia morale, di risorgimento civile che spirava dalle montagne dove la resistenza aveva testimoniato la fede nell’avvento di un mondo nuovo, liberato per sempre dalle tirannie e dal ricatto della violenza e del terrore.
A differenza di altri, Scalfaro non ha mai perduto la fede nei valori repubblicani che i padri costituenti hanno donato al popolo italiano ed il destino gli ha dato la possibilità e l’opportunità di difenderli come un leone. Scalfaro è stato padre della patria in quanto ha contribuito ad edificare quella Costituzione che ha dato sostanza e contenuto di patria alla comunità politica degli italiani.
Dopo aver contribuito al parto della Costituzione, Scalfaro ha svolto un ruolo fondamentale, in due occasioni, per impedire che il patrimonio della democrazia, così faticosamente conquistato, venisse disperso dalle tempeste di vento nero che hanno attraversato l’Italia. La prima è stata quando, da presidente della Repubblica, nel 1994/1995, affrontò la crisi conseguente alla caduta del primo governo Berlusconi, che, sebbene dimissionario, in quanto sfiduciato dalle camere, non aveva alcuna intenzione di abbandonare il potere e pretendeva di punire, mediante lo scioglimento anticipato, il Parlamento che gli aveva tolto la fiducia, impedendo che potesse succedergli ogni altro governo.
Scalfaro difese in modo fermissimo ed intransigente le prerogative del Parlamento ed avvertì la necessità di un riequilibrio della competizione politica, chiedendo che si ristabilisse la «par condicio» prima di affidarsi nuovamente alle urne. Per questo fu accusato di golpismo da Berlusconi e fu oggetto di una campagna durissima di ingiurie, minacce e pressioni di ogni tipo, con esclusione soltanto dell’aggressione fisica e della defenestrazione. Però il cancro del berlusconismo fu estirpato dalla testa delle istituzioni e le elezioni del 1996 diedero la possibilità alle forze democratiche di mantenere aperti gli spazi della democrazia, soffocata dai tentacoli del partitoazienda.
Ma di fronte alla ignavia dei leader del centro-sinistra e di Rifondazione neanche Scalfaro poteva farci nulla. Così nel 2001 Berlusconi riuscì ad impadronirsi del governo e a portare avanti il suo progetto di fare la pelle alla Costituzione. Fino al punto che il 16 novembre del 2005 una maggioranza parlamentare, dominata da Forza italia e dalla Lega, decretò la morte della Costituzione, introducendo un nuovo ordinamento che trasformava la Repubblica democratica in un sultanato.
Nel silenzio della politica e degli sventurati partiti del centro sinistra, Scalfaro si ribellò. Non poteva accettare che il frutto dei sogni e delle passioni che avevano guidato la mano dei costituenti, che avevano deposto i sovrani ed avevano consegnato al popolo italiano una promessa perenne di libertà e di giustizia, venisse spazzato via dal vento nero di Arcore.
Fu a capo del comitato «salviamo la Costituzione» che chiamò a raccolta migliaia di persone. Persone che professavano diverse fedi, che appartenevano a diversi ceti sociali ed esprimevano diversi orientamenti politici, ma tutti si mobilitarono ed accorsero per esercitare l’estrema possibilità di salvare la Repubblica costituzionale costruita in Italia come alternativa al fascismo. Il referendum di giugno del 2006 cancellò l’ignobile riforma e salvò la Costituzione.
Dopo averla fatta nascere, la sorte ha assegnato a Scalfaro il compito di salvare, quaranta anni dopo, quella creatura preziosa - la democrazia costituzionale - per la quale la migliore gioventù europea aveva dato la vita, testimoniando nella resistenza il valore della dignità umana.
Scalfaro ha portato a termine la sua missione con onore e coraggio indomabile. A noi è rimasto ilcompito di fare tesoro della sua testimonianza e di trasmetterla alle generazioni future.
Morto l’ex presidente Oscar Luigi Scalfaro
Il cordoglio di Giorgio Napolitano
Capo dello Stato dal 1992 al 1999, il senatore a vita aderente al Pd si è spento nella notte a Roma *
ROMA - Oscar Luigi Scalfaro è morto questa notte a Roma. La notizia, trapelata via Twitter attraverso fonti giornalistiche molto vicine all’ex presidente della Repubblica, è stata confermata da fonti parlamentari. Nato a Novara il 9 settembre del 1918, Scalfaro fu eletto in Parlamento nel 1946, ininterrottamente deputato fino al 1992, quando, da presidente della Camera, fu eletto Capo dello Stato, carica ricoperta fino al 1999. Storico esponente della Democrazia Cristiana, attualmente era senatore a vita, aderente al Partito Democratico. Con Sandro Pertini ed Enrico De Nicola, Oscar Luigi Scalfaro ha ricoperto tutte le tre più alte cariche dello Stato, visto che fu anche provvisoriamente presidente del Senato all’inizio della XV Legislatura, fin quando non fu eletto Franco Marini. Il suo ultimo grande impegno è stata la difesa della Costituzione 1.
Appresa la notizia, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha reso omaggio alla figura di Scalfaro: "E’ con profonda commozione che rendo omaggio alla figura di Oscar Luigi Scalfaro nel momento della sua scomparsa, ricordando tutto quel che egli ha dato al servizio del Paese, e l’amicizia limpida e affettuosa che mi ha donato. E’ stato un protagonista della vita politica democratica nei decenni dell’Italia repubblicana, esempio di coerenza ideale e di integrità morale".
"Si è identificato - ha proseguito Napolitano - col Parlamento, cui ha dedicato con passione la più gran parte del suo impegno. Da uomo di governo, ha lasciato l’impronta più forte nella funzione da lui sentitissima di ministro dell’Interno. Da Presidente della Repubblica, ha fronteggiato con fermezza e linearità periodi tra i più difficili della nostra storia. Da uomo di fede, da antifascista e da costruttore dello Stato democratico, ha espresso al livello più alto la tradizione dell’impegno politico dei cattolici italiani, svolgendo un ruolo peculiare nel partito della Democrazia Cristiana".
"Mai dimenticando la sua giovanile scelta di magistrato - ha concluso il capo dello Stato -, Oscar Luigi Scalfaro ha avuto sempre per supremo riferimento la legge, la Costituzione, le istituzioni repubblicane. In questa luce sarà ricordato e onorato, innanzitutto da quanti come me hanno potuto conoscere da vicino anche il calore e la schiettezza della sua umanità. Alla figlia Marianna, che gli è stata amorevolmente, ininterrottamente vicina, la mia commossa solidarietà".
Il settennato al Quirinale di Scalfaro è stato uno dei più delicati e controversi. Successo a Cossiga, Scalfaro assistette allo sgretolamento della Prima Repubblica determinato dall’inchiesta su Tangentopoli, scontrandosi ripetutamente con Silvio Berlusconi dopo la vittoria elettorale del Polo delle Libertà nel 1994. Quando Berlusconi mise mano alla lista dei ministri del suo primo governo, Scalfaro ritenne sgraditi alcuni nomi. In particolare quello di Cesare Previti, avvocato del premier, indagato ma non ancora condannato, al Ministero della Giustizia, poi spostato alla Difesa e sostituito da Alfredo Biondi nel ruolo di Guardasigilli.
Dopo sei mesi, nel dicembre del 1994, il governo Berlusconi fu costretto alle dimissioni. Scalfaro, invece di sciogliere le Camere, come auspicato insistentemente da Berlusconi, tentò con successo di formare un nuovo governo. Nell’occasione, il presidente richiamò il suo operato al dettame costituzionale che vuole il Parlamento sovrano, una volta eletto dal popolo. E che la Costituzione prevede che la funzione di deputati e senatori della Repubblica sia esercitata senza vincoli di mandato, onde è consentito cambiare schieramento ed appoggiare formazioni politiche diverse dalla lista in cui si è stati eletti.
Quando Scalfaro svolse le consultazioni, ricevute rassicurazioni sulle possibilità di un governo tecnico, in un famoso discorso di fine anno invitò Berlusconi a un passo indietro, promettendo che il nuovo governo avrebbe avuto un incarico a termine e un presidente di fiducia dell’ormai ex premier. Il Cavaliere individuò il suo ex ministro del Tesoro Lamberto Dini, e assistette nell’anno successivo al progressivo spostamento dell’asse del governo così nato verso il centrosinistra, che con Prodi e l’Ulivo vinse le successive elezioni nel 1996.
Queste ed altre circostanze (tutte riconducibili al cosiddetto "ribaltone" del dicembre 1994) portarono nel centrodestra, alla nascita di una diffusa ostilità verso il Capo dello Stato, accentuata dalla sconfitta elettorale del 1996. In particolare, la legge sulla "par condicio", termine impiegato proprio da Scalfaro in più di una pubblica esternazione, per affermare l’esigenza della parità delle armi comunicative sulle reti televisive per tutti gli attori politici. Legge che fu vista come un modo per mitigare lo strapotere mediatico di Berlusconi.
* la Repubblica, 29 gennaio 2012
E se fossimo tutti berluschini?
di Angelo d’Orsi (il Fatto. 28.01.2012)
Il primo era stato Alberto Asor Rosa, in articolo dell’estate 2008 a paragonare il berlusconismo al fascismo, spingendosi ad affermare che il primo era peggiore del secondo, suscitando non poche polemiche. Poi la battaglia quotidiana prevalse, contro il Cavaliere di Arcore, che andava collezionando epiteti di varia efficacia, a cominciare da quello di “Caimano”, con la variante, inventata da Marco Travaglio, ben nota ai lettori del Fatto Quotidiano, di “Cainano”. E cresceva intanto la produzione di libri sul fenomeno Berlusconi, sul suo “partito di plastica”, che qualcuno infine cominciò a prendere sul serio, esaminandone gli effetti pervasivi sulla vita pubblica, grazie a un sistema di cricche affaristiche, con contorno di escort, di cui gran collezionista risultava essere proprio il capo del governo, capitano di una nave tanto pronto a cianciare e farsi fotografare, quanto inetto al comando, assai più occupato a gestire affari e affarucci privati - d’ogni genere - che ad affrontare i problemi di un’Italia ormai piegata su se stessa, “Concordia” senza timoniere, ferita nella sua etica pubblica, più ancora che nella sua capacità produttiva.
Oggi scaffali di biblioteche e librerie sono debordanti di biografie e di studi sull’inventore di Forza Italia: memorabile quello del compianto Giuseppe Fiori (Il venditore, Garzanti 1995) ; ma da tempo si sono aggiunte analisi del fenomeno, anche in previsione di una uscita di scena dell’uomo, non foss’altro che per ragioni biologiche.
E LE ANALISI si sono infittite, anche sul piano giornalistico, dopo le “dimissioni coatte” dello scorso novembre. Analisi che interpretano forse una paura: che “quella roba lì” sia destinata a rimanere anche dopo la definitiva scomparsa del personaggio che l’ha messa in piedi? Dopo un memorabile fascicolo doppio di MicroMega - intitolato senza infingimenti, “Berlusconismo e fascismo” - sono arrivati altri libri, articoli, dibattiti. Oltre alla paura degli uni e al pessimismo di altri, tra le motivazioni, probabilmente, c’è un’attitudine scaramantica: ma è emerso altresì il bisogno di studiare il fenomeno berlusconiano, prescindendo dal capo, mettendone in luce i complessi aspetti politici, sociali, mediatici e di costume.
Si tratta di capire, insomma, se tanti di noi non siano stati contagiati dal virus, diventandone “portatori sani”, fino al suo manifestarsi in forma violenta. Una sorta di Invasione degli ultracorpi, l’angoscioso romanzo di Jack Finney, portato al cinema da Don Siegel. Ma allora - metà anni Cinquanta - si era in piena Guerra fredda e l’allusione possibile era ai comunisti che “sembrano come noi”, ma come noi non sono, e si impadroniscono un po’ alla volta delle nostre menti. Qui si tratta di capire se il berlusconismo, giunto apparentemente a fine corsa, abbia permeato di sé i nostri modi, abitudini, pratiche.
Se lo chiedono, per esempio, due libretti recenti, uno di un sociologo, Rino Genovese (Che cos’è il berlusconismo, Manifestolibri), l’altro, ancor più smilzo e sbrigativo, di un militante anarchico, Piero Flecchia (Da Mussolini a Berlusconi, Mimesis). Gli autori vanno a caccia delle costanti, delle manifestazioni che in un passato più o meno lungo hanno non solo preparato, ma evidenziato il berlusconismo.
Al di là insomma della traiettoria personale di Silvio Berlusconi, si tenta di mettere a fuoco il quesito: la sua affermazione prima, la durata poi, sono dovute, oltre che a capacità personali e incapacità dei suoi avversari (inevitabili le bordate, peraltro ormai inevitabilmente e giustamente divenute moneta corrente, contro una sinistra rinunciataria, debole, spesso connivente), e a specifiche cause storiche, anche a “precondizioni” antropologiche? E dietro affiora l’altro interrogativo: il berlusconismo - fusione di populismo, leaderismo, familismo, affarismo, immoralismo, antipoliticismo - sarebbe stato possibile senza Berlusconi?
Genovese risponde di sì: si tratta di un processo di “deformazione della democrazia” (che però ha risvolti sovranazionali) che può essere caratterizzata così: un fenomeno politico che vede lobby economico-finanziarie che non si accontentano di esercitare pressioni politiche, ma mirano (e con Berlusconi da noi giungono) alla conquista diretta del potere, in tal modo svuotando nella pratica il sistema democratico che rimane più o meno intatto nella sua forma esteriore.
UNA SORTA di parassitismo della democrazia, scaturito dal più generale fenomeno di “ibridazione del moderno”, la coesistenza sempre più problematica di modi, tempi, culture tipici della modernità (o addirittura postmodernità), e forme sconcertanti di arcaismo. In tale quadro, se il berlusconismo diventa paradigmatico a livello almeno europeo, la figura di Berlusconi non è essenziale, anche se, aggiungo, ha fornito all’Italia un primato sulla scena forse mondiale, con un’overdose di volgarità sconcertante, ma con peculiarità che a mio avviso non possono essere svalutate. E soprattutto, non va accolto il pessimismo totale di chi ritiene (come Genovese) che l’Italia sia ormai inguaribile. Oggi che il pifferaio sembra ritornato nel cono d’ombra da cui era balzato fuori un ventennio fa, il quesito deve essere: come facciamo non solo a impedire che torni a istupidire gli italiani, ma a risanare il corpo e l’anima dell’Italia dal morbo berlusconiano? Ma su questi due punti non bastano le analisi: sono necessarie le azioni.
Offese dello Spiegel all’Italia: lo sdegno del Quirinale
(Il Messaggero del 28 gen 2012)
di Rosario Amico Roxas
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C’è poco da sdegnarsi; il quotidiano tedesco ha assimilato il comportamento di Schettino a quello dell’ex presidente del consiglio che pretendeva rappresentare tutti gli italiani e che una striminzita parte di italiani ha scelto come loro immagine e come loro portabandiera.
Quando "fece per viltade il gran rifiuto" fu l’immagine dell’Italia intera ad essere mortificata;proprio questa Italia una volta terra di Santi, Poeti e Navigatori, diventata terra di corrotti, corruttori, corruttibili, turbatori d’asta, truffatori, casta privilegiata, mafiosi, camorristi ndranghetari e coronisti e politici per interesse personale.
Lo sdegno del Quirinale dovrebbe rivolgersi innanzitutto contro questa gente e contro il governo che li ha mantenuti, protetti, salvati con condoni, sanatorie e scudi fiscali, cercando di tacitare la parete lesa della nazione con la mortificante "social card" che servì solo a dispensare fior di milioni agli stampatori della carta, ai gestori, inghiottendo quanto non utilizzato.
Dobbiamo armarci di tanta umiltà e accettare le denunce che ci piovono addosso (la risata della Merkel e di Sarkozy al solo pronunciare il nome Berlusconi, non ci è bastata ?) come brutale esperienza da non ripetere mai più.
Lo sdegno del Quirinale diventa così un "atto dovuto", ma non convince nessuno: sappiamo benissimo di meritarlo, grazie a chi ci ha ridotto ad essere i Pasquini d’Europa.
Rosario Amico Roxas
La fabbrica dei dibattiti pubblici
Un testo inedito di Pierre Bourdieu, sociologo (1930-2002).
(traduzione dal francese di José F. Padova)
Le Monde Diplomatique, gennaio 2012 pagg. 1, 16, 17
Da una parte, una situazione economica e sociale eccezionale. Dall’altra, un dibattito pubblico mutilato, ridotto a un’alternativa fra austerità di destra e rigore di sinistra. Come si delimita lo spazio dei discorsi ufficiali, per quale prodigio l’opinione di una minoranza si trasforma in «opinione pubblica»? questo spiega il sociologo Pierre Bourdieu in questo suo corso sullo Stato tenuto al Collège de France e pubblicato in questo mese.
Un uomo ufficiale [ndt.: autorità] è un ventriloquo che parla a nome dello Stato: egli prende una postura ufficiale - bisognerebbe descrivere la messa in scena dell’autorità -, parla in favore e al posto del gruppo al quale si rivolge, parla per e al posto di tutti, parla come rappresentante dell’universale.
Si perviene qui alla nozione moderna di opinione pubblica. Che cos’è questa opinione pubblica che invocano i creatori del diritto delle società moderne, delle società nelle quali il diritto esiste? È tacitamente l’opinione di tutti, della maggioranza o di coloro che contano, di coloro che sono degni di avere un’opinione. Penso che la definizione patente in una società che pretende di essere democratica, ovvero che l’opinione ufficiale è l’opinione di tutti, nasconda una definizione latente, cioè che l’opinione pubblica è l’opinione di quelli che sono degni di avere un’opinione. Vi è una specie di definizione per censo dell’opinione pubblica illuminata, come opinione degna di questo nome.
La logica delle commissioni ufficiali è quella di creare un gruppo, costituito in modo da dare tutti i segnali esteriori, socialmente riconosciuti e riconoscibili, della sua capacità di esprimere l’opinione degna di essere espressa, e nelle sue forme adeguate. Uno dei criteri taciti più importanti nella selezione dei membri della commissione, in particolare del suo presidente, è l’intuizione, da parte delle persone incaricate di comporre la commissione, che la persona considerata conosca le regole tacite dell’universo burocratico e le riconosca: in altre parole, qualcuno che sappia giocare il gioco della commissione in modo legittimo, nella maniera che va al di là delle regole del gioco, che legittima il gioco stesso. Non si è mai tanto addentro nel gioco quanto lo si è stando al di là del gioco stesso. In ogni gioco ci sono regole e fair play. A proposito del mondo intellettuale, avevo usato questa formula: l’eccellenza, nella maggior parte delle società, è l’arte di giocare con le regole del gioco, facendo di questo gioco giocato con le regole del gioco un omaggio supremo al gioco stesso. Il trasgressore controllato si oppone del tutto all’eretico.
Il gruppo dominante coopta i membri su indici minimi di comportamento che sono l’arte di rispettare la regola del gioco, finanche nelle trasgressioni, regolate, della regola stessa del gioco: la buona creanza, il conservatorismo. È la celebre frase di Chamfort: «Il vicario di Curia può sorridere di un commento contro la religione, il vescovo riderne del tutto, il cardinale aggiungervi il suo motto [irridente] (1)». Più si sale nella gerarchia delle eccellenze, più si può giocare con la regola del gioco, ma ex officio, partendo da una posizione tale che non vi siano dubbi. L’umorismo anticlericale del cardinale è supremamente clericale.
L’opinione pubblica è sempre una sorta di realtà doppia. È ciò che non si può non invocare quando si vuole legiferare su terreni non riconosciuti. Quando si dice «C’è un vuoto giuridico» (straordinaria espressione) a proposito dell’eutanasia o dei bambini-provetta, si convocano persone che lavoreranno con piena autorità. Dominique Memmi (2) descrive un comitato di etica [sulla procreazione artificiale], la sua composizione con persone disparate - psicologi, sociologi, donne, femministe, arcivescovi, rabbini, eruditi, ecc. - che hanno come scopo quello di trasformare una somma di idioletti [ndt.: Zingarelli: l’insieme degli usi di una lingua caratteristico di un dato individuo, in un determinato momento] (3) etici in un discorso universale che riempie un vuoto giuridico, vale a dire che dà una soluzione ufficiale a un problema difficile che scombussola la società - la legalizzazione delle madri in affitto, per esempio. Se si lavora in questi tipi di situazione si deve invocare un’opinione pubblica. In questo contesto la funzione attribuita ai sondaggi si comprende molto bene. Dire «i sondaggi sono dalla nostra parte» equivale a dire «Dio è con noi» in un altro contesto [ndt.: allude al “Gott mit uns”?].
Ma i sondaggi sono fastidiosi, perché talora l’opinione illuminata è contro la pena di morte, mentre i sondaggi sono piuttosto per. Che fare? Si crea una commissione. La commissione costituisce un’opinione pubblica illuminata che istituirà l’opinione illuminata come opinione legittima nel nome dell’opinione pubblica - che d’altra parte dice il contrario o non ha opinioni (e questo è il caso in molti argomenti). Una delle proprietà dei sondaggi consiste nel porre alle persone problemi che esse non si pongono, nel fare infilare risposte a problemi che essi non hanno posto, quindi a imporre risposte. Non è una questione di sotterfugi nella costituzione dei campionari delle domane [dei sondaggi], è il fatto di imporre a tutti domande che si pongono all’opinione illuminata e, per questo, di produrre risposte di tutti su problemi che si pongono a qualcuno, quindi di dare risposte illuminate prodotte dalla domanda: si sono fatte esistere per le persone domande che per loro non esistevano, mentre ciò che costituiva per le persone una domanda è la domanda stessa.
Traduco man mano un testo di Alexander Mackinnon del 1828, tratto da un libro di Peel su Herbert Spencer (4). Mackinnon definisce l’opinione pubblica dando la definizione che sarebbe ufficiale se non fosse inconfessabile in una società democratica. Quando si parla d’opinione pubblica si fa sempre un doppio gioco fra la definizione confessabile (l’opinione di tutti) e l’opinione autorizzata ed efficiente, che è ottenuta come sottoinsieme ristretto dell’opinione pubblica definita democraticamente.
«Essa è quel parere su un soggetto qualsiasi che è mantenuto e prodotto dalle persone meglio informate, più intelligenti e più moralmente qualificate della comunità. Questa opinione è gradualmente diffusa e adottata da tutte le persone con un po’ di educazione e di sentimenti convenienti a uno Stato civilizzato». La verità dei dominanti diviene quella di tutti.
Negli anni 1880 si diceva apertamente all’Assemblea nazionale [ndt.: v. storia della Rivoluzione francese, fra le altre quella di Furet-Richet] ciò che la sociologia ha dovuto riscoprire, vale a dire che il sistema scolastico doveva eliminare i figli degli strati sociali più sfavoriti. All’inizio si poneva il problema che in seguito è stato completamente rimosso, poiché il sistema scolastico si è messo a fare, senza che glielo si chiedesse, quello che ci si aspettava da esso. Quindi, nessuna necessità di parlarne. L’interesse del ritornare sulla genesi è molto importante, perché vi sono, all’inizio, dibattiti dove si dicono a chiare lettere cose che, in seguito, appaiono come rivelazioni provocatorie dei sociologi.
Il riproduttore della versione ufficiale sa produrre - nel senso etimologico del termine: producere significa «portare alla luce» -, facendola divenire protagonista, qualcosa che non esiste (nel senso di sensibile, di visibile) e in nome della quale egli parla. Deve produrre ciò in nome di quello che egli ha diritto di produrre. Non può non renderla protagonista, non darle una forma, non fare miracoli. Il miracolo più ordinario, per un creatore verbale, è il miracolo verbale, la riuscita retorica; deve produrre la messa in scena di ciò che autorizza il suo dire, ovvero dell’autorità in nome della quale egli è autorizzato a parlare.
Ritrovo qui la definizione della prosopopea che cercavo poco fa: «Figura retorica mediante la quale si fa parlare e agire una persona che si vuole evocare, un assente, un morto, un animale, una cosa personificata». E nel dizionario, sempre un formidabile strumento, si trova questa frase di Baudelaire che parla della poesia: «Saper usare sapientemente una lingua equivale a praticare una specie di stregoneria evocatoria». Gli esperti in materia, coloro che manipolano una lingua erudita, come i giuristi e i poeti, devono mettere in scena l’immaginario referente nel nome del quale parlano e che essi realizzano nella sua forma parlandone; devono fare esistere ciò che essi esprimono e questo nel nome di che essi esprimono. Devono nello stesso tempo produrre un discorso e produrre la credenza nell’universalità del loro discorso, con la produzione sensibile (nel senso di evocazione degli spiriti, dei fantasmi - lo Stato è un fantasma...) di quella cosa che garantirà ciò che essi fanno: «la nazione», «i lavoratori», «il popolo», «il segreto di Stato», «la sicurezza nazionale», «la domanda sociale», ecc.
Percy Schramm ha dimostrato come le cerimonie di incoronazione erano il transfert, nell’ordine della politica, delle cerimonie religiose (5). Se il cerimoniale religioso può trasferirsi tanto facilmente nelle cerimonie politiche, attraverso le cerimonie dell’incoronazione, è perché si tratta, nei due casi, di fare credere che vi è un fondamento del discorso, che non appare come auto-fondatore, legittimo, universale, se non perché vi è teatralizzazione - nel senso di evocazione magica, di stregoneria - del gruppo unito e consenziente al discorso che l’unisce. Da qui il cerimoniale giuridico. Lo storico inglese E. P. Thompson ha insistito sul ruolo della teatralizzazione giuridica nel XVIII secolo inglese - che non si può comprendere completamente se non si vede ch’essa non è semplice apparato che si aggiunge: essa è costitutiva dell’atto giuridico (6). Dire di diritto vestiti modestamente è azzardato: si rischia di perdere la pompa del discorso. Si parla sempre di riformare il linguaggio giuridico senza mai farlo, perché è l’ultimo vestito: i re nudi non sono più carismatici.
Una delle dimensioni molto importanti della teatralizzazione è la teatralizzazione dell’interesse per l’interesse generale; è la teatralizzazione del convincimento dell’interesse per l’universale, del disinteresse dell’uomo politico - teatralizzazione della credenza del prete, della convinzione dell’uomo politico, della sua fede in ciò che fa. Se la teatralizzazione del convincimento fa parte delle condizioni tacite per l’esercizio della professione di esperto - se un professore di filosofia deve avere l’aria di credere alla filosofia -, si tratta dell’essenziale omaggio dell’autorità-uomo all’autorità; è ciò che occorre accordare all’autorità per essere un’autorità: occorre accordare il disinteresse, la fede nell’autorità, per essere una vera autorità. Il disinteresse non è una virtù secondaria: è la virtù politica di tutti i mandatari. Le scappatelle da curati, gli scandali politici sono il crollo di questa specie di credenza politica nella quale tutti sono in malafede, essendo questa credenza una sorta di malafede collettiva, nel senso sartriano: un gioco nel quale tutti mentono a sé stessi e mentono ad altri, sapendo che si mentono. È questo, l’autorità...
(1) Nicolas de Chamfort, Maximes et pensées, Paris, 1795.
(2) Dominique Memmi, « Savants et maîtres à penser. La fabrication d’une morale de la procréation artificielle », Actes de la recherche en sciences sociales, n°76-77, Paris, 1989, p. 82-103.
(3) Du grec idios, «particulier» : discours particulier.
(4) John David Yeadon Peel, Herbert Spencer. The Evolution of a Sociologist, Heinemann, Londres, 1971. William Alexander Mackinnon (1789-1870) eut une longue carrière de membre du Parlement britannique.
(5) Percy Ernst Schramm, Der König von Frankreich. Das Wesen der Monarchie von 9. zum 16. Jahrhundert. Ein Kapital aus der Geschichte des abendländischen Staates (deux volumes), H. Böhlaus Nachfolger, Weimar, 1939.
(6) Edward Palmer Thompson, «Patrician society, plebeian culture», Journal of Social History, vol. 7, n°4, Berkeley (Californie), 1974, p. 382-405.
L’importanza delle radici
di Gian Luca Favetto (la Repubblica, 15 novembre 2011)
Un festival di letteratura con l’Italia come paese ospite. In cerca di luoghi dove seminare e raccogliere parole, le parole che producono pensieri e sentimenti. Che poi sono i libri, questi luoghi, e sono anche tutti gli uomini che con i libri parlano, comunicano, s’incontrano e confrontano, fanno esperienze, condividono tempo e storie. Si chiama I luoghi delle parole, è giunto all’ottava edizione ed è un festival sparso sul territorio. Dura una settimana e ha casa in dieci comuni piemontesi non distanti da Torino: Chivasso, Settimo, Brandizzo, Caluso, Castagneto Po, Leinì, San Benigno Canavese, San Maurizio Canavese, San Sebastiano da Po, Volpiano.
Quest’anno ha scelto un tema semplice: l’identità. All’ombra del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, una trentina di incontri declinano in tutte le possibili forme e sfumature il concetto, l’ipotesi, il dubbio, il sostantivo, la sostanza identità. Che cos’è?, di cosa è fatta?, da dove viene e dove va?, cosa dice oggi e cosa diceva ieri e cosa dirà domani. Se si parla di identità, l’Italia ospite ci sta bene. Come fosse un paese straniero, persino qui, in un lembo di pianura fra Po e Dora. In fondo, e neanche troppo in fondo, l’Italia è un paese straniero. Straniero a se stesso prima che agli altri. Ancora deve conoscersi, sperimentarsi, capirsi, incontrarsi. E non è certo che sia un male.
Detto questo, nell’abbuffata di incontri sull’identità, io parlo di radici, porto le radici. Radici versus identità. Quelle prescindono da questa. Non appartengono allo stesso sentire. Non c’è da far confusione. Le radici sono plurali, l’identità è un monolite cementificato. Le radici camminano, sono viaggio, l’identità è un arresto di tempo che fu. L’identità è dietro, le radici sono davanti. L’identità è un arrocco che difende, le radici entrano in contatto con l’altro, cercano e danno nutrimento, cercano e danno mondo. L’identità ha l’idem dentro, lo stesso, il medesimo, l’omologato, le radici sono differenze che si diramano. L’identità ha denti che mozzicano, strappano, lacerano, le radici non mordono, succhiano. Solo parole, si può obiettare. Ma sono le parole che contano e cantano, e fanno esistere le cose. Nessuna cosa è dove la parola manca, dice un verso del poeta tedesco Stefan George.
Le parole sono fatti: fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza. Le parole sono materia, sono carne e sono architravi. Non bisogna temerle, bisogna usarle. Allenarsi e usarle bene, con cura. Chi ha cura di se stesso e degli altri, di se stesso in mezzo agli altri, cura le parole. Le preoccupazioni vengono da come si usano. Non hanno colpe, non portano colpe, loro; a seconda dei casi, portano senso, fantasie, bisogni, speranze, dolore. E però capita che qualcuno usi identità - aggiungendo l’aggettivo culturale - come una mazza ferrata o un muro di protezione.
C’è chi dice che l’identità culturale sia la madre di tutti i razzismi. Non è così: non è madre, nemmeno matrigna, è zitella. L’identità culturale è la zitella di tutti i razzismi. Arida, non dà frutti, solo pene. Invece, le radici sono l’inizio delle storie, stanno al principio e vanno. Mentre l’identità - con questo accento che sa di passato remoto - è alla fine delle storie, è il loro tramonto. Noi siamo fatti di storie più che di atomi. Grazie alle storie viviamo. Là dove c’è una storia, c’è un uomo. Sono l’uno le radici dell’altra, e viceversa. L’identità è un valzer con se stessi, ogni tanto bisogna cambiare partner
Napolitano: "In Italia troppa partigianeria. E i leader politici non siano gelosi di me" *
ROMA - In Italia c’è un eccesso di partigianeria politica. Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo incontro stamattina con i giornalisti della stampa estera.
All’incontro ha partecipato una rappresentanza di giornalisti di diverse testate internazionali e secondo quanto si è appreso il capo dello stato avrebbe fatto riferimento, come gli è capitato altre volte, a una partigianeria politica esasperata usando il termine inglese "hyperpartisanship".
"Penso che non ci sia per i politici italiani motivo di ingelosirsi, perchè viaggiamo su pianeti diversi, non ci sono comparazioni possibili, che non siano invece arbitrarie", ha aggiunto il capo dello Stato a proposito del suo ruolo. Spiegando poi che il compito del Colle è quello di "rappresentare l’unità nazionale" ed è "completamente diverso da quello dei leader politici".
* la Repubblica, 23 maggio 2011
Data di pubblicazione: 27.06.2005 *
"Se fossi Papa..."
di Federico La Sala *
Se fossi nei panni di Papa Benedetto XVI e ... avessi ancora un po’ di dignità di uomo, di studioso, di politico, e di cristiano - oltre che di cattolico, dopo l’incontro di ieri con il Presidente della Repubblica Italiana, di fronte all’elevato ed ecumenico discorso di Carlo Azeglio Ciampi (lodevolmente, L’Unità di oggi, 25.06.2005, a p. 25, riporta sia il discorso del Presidente Ciampi sia di Papa Benedetto XVI), considerato il vicolo cieco in cui ho portato tutta la ’cristianità’ (e rischio di portare la stessa Italia), prenderei atto dei miei errori e della mia totale incapacità ad essere all’altezza del compito di "Vescovo di Roma e Pastore della Chiesa universale", chiederei onorevolmente scusa Urbe et Orbi, e ....convocherei immediatamente un nuovoConcilio!!!
Non me la sento di insegnare ad altri come fare un mestiere che non è il mio, ma credo che tutti abbiano apprezzato la difesa della laicità dello Stato italiano compiuta da Ciampi. La ringrazio dei documenti, che allego.
Due discorsi al Quirinale (Benedetto XVI e Carlo Azeglio Ciampi.pdf 25.29 KB )
* EDDYBURG
Soggetti alla legge ma non al capo
di Roberta De Monticelli (Saturno, 25 febbraio 2011)
MENTRE UN VENTO di rivolta soffia a sud della Penisola, incendiando i paesi islamici dal Nord Africa all’Iran, ci si può chiedere se la millenaria riflessione occidentale sul potere, la legge e la disobbedienza potrà ancora aiutarci a decifrare il futuro di questa che già la nostra speranza chiama “la caduta dei tiranni”. Ma se rivolgiamo di nuovo lo sguardo al presente italiano, un dubbio ancora più forte ci assale. Ovvero se le categorie filosofiche dell’obbedienza e della disobbedienza, sulle quali si fonda in definitiva quanto di meglio abbiamo saputo dire sui fondamenti del potere politico nella coscienza delle persone, possano servirci ancora. In questa Italia, «terra di nefandezze, abiure, genuflessioni e pulcinellate». In questo nostro Paese che «attraverso Machiavelli, ha mostrato al mondo il volto demoniaco del potere»; «che ha inventato il fascismo»; dove «la politica si è definitivamente trasformata in crimine, ricatto, delazione, scandalo, imbroglio». Parole vigorose.
Parole di uno scrittore, Ermanno Rea, che si fa leggere d’un fiato dalla prima all’ultima pagina nel suo La fabbrica dell’obbedienza (Feltrinelli). Questa fabbrica è l’Italia. Rea attraversa la questione morale passando per i nostri classici, l’Unità tradita, il fascismo, il dopoguerra democristiano, la svolta degli anni Ottanta, fino al presente di «un regime così corrotto e maleodorante che non si sa più con quale aggettivo bollarlo».
UN CORREDO DI SUDDITANZA E MENZOGNA
MA QUESTO libro pone una domanda, semplice e per così dire spettacolare. La stessa dei saggi su Rinascimento Riforma e Controriforma di Bertrando Spaventa, che proprio dagli studi del filosofo napoletano trae ispirazione e respiro. Noi siamo stati i primi. Abbiamo inventato il cittadino responsabile con l’Umanesimo e il Rinascimento. Com’è successo che a questi centocinquant’anni di splendore sia seguita la nostra lunga servitù civile e morale, con il suo corredo di arti della sudditanza, della menzogna, dell’opportunismo e del cinismo, che ritroviamo tanto ben descritte nelle pagine dei nostri classici da Guicciardini a Leopardi?
Com’è potuto accadere che questa storia si sia inesorabilmente ripetuta dopo grandi, in qualche modo miracolose, accensioni di speranza? Il Risorgimento finì di morire col fascismo, e la Costituzione nata dalla Resistenza si vede oggi che fine rischia di fare. Ecco, sarebbe molto miope chi vedesse nella risposta di Rea una semplice riedizione di quella di Spaventa: colpa della Controriforma! Ciò che conta non è di chi o di cosa sia la colpa, ma l’analisi spietata di come si fabbrica la servitù del cuore e la prigionia della mente - che sono l’esatto contrario di tutte le figure di una coscienza delle leggi, antiche e moderne. Delle figure, cioè, dell’obbedienza e della disobbedienza. Del dovere e del diritto. Che stanno alla libertà dei cittadini come la sudditanza al potere illimitato sta alla libertà dei servi. L’opposizione è la stessa che corre fra “I care” e “me ne frego” - come già aveva notato don Milani nel suo L’obbedienza non è più una virtù.
A differenza della legge, il potere è «alla ricerca di un’obbedienza sempre contingente e perciò da rinnovare continuamente, senza mai esigere... una responsabilità totale, prolungata nel tempo». Che sia ottenuta con la dipendenza spirituale, con la tecnica della confessione e del perdono, oppure con la dipendenza materiale, il favore e il ricatto: la distruzione dello “spirito delle leggi” è una cosa sola con la polverizzazione dell’impegno personale. Cioè la riduzione della necessità del dovere alla contingenza della soggezione, del valore della promessa al prezzo dello scambio - in una parola, la demolizione della responsabilità personale, che obbedienza e disobbedienza autentiche presuppongono.
Ci aiuta a vederlo Raffaele Laudani con il suo Disobbedienza (Il Mulino): un testo che, come ogni prima lezione di filosofia del diritto, si apre nel duplice segno del Socrate platonico e dell’Antigone sofoclea. «E poiché sei venuto al mondo, sei stato allevato ed educato, come puoi dire di non essere, prima di tutto, creatura nostra, in tutto obbligato a noi, tu e i tuoi avi?».
SIAMO UNA FABBRICA DI SERVI VOLONTARI
QUESTO DICONO le leggi a Socrate, secondo un celeberrimo passo del platonico Critone. Più che padre e madre sono per Socrate le leggi, senza le quali non esiste Città dove ragione si oppone a ragione, ma solo la ragione del più forte, la guerra o il dispotismo. Perciò Socrate accetta la morte e non fugge, pur sapendo che la condanna è ingiusta. Howard Zinn, cantore americano della disobbedienza civile, non perdonava a Socrate il suo atto di obbedienza.
Eppure è proprio dai tempi dell’Umanesimo e del Discorso sulla servitù volontaria (1548) di Etienne La Boétie che lo sappiamo: un tiranno non ha altra forza che quella che gli conferiscono i suoi sudditi, perché non c’è altra fonte di sovranità che il libero volere degli individui. È questa coscienza, infine, che ha permesso di intendere non solo la disobbedienza, ma anche l’obbedienza come un modo della libertà: l’obbedienza, s’intende, alla legge e non al capo. L’auto-obbligazione responsabile dei cittadini, che ha dunque come ultima fonte di legittimità nient’altro che il rispetto della pari dignità di ognuno. In questa autolimitazione del potere che ci fa, governanti e governati, uguali di fronte alla legge,è il valore della legalità e il senso delle istituzioni democratiche. Come la divisione e la relativa autonomia dei poteri. Oggi respiriamo l’onda maleodorante fatta di abusi condoni favori tangenti impunità soprusi e perdoni. È la palude stigia che abbiamo fatto della nostra anima, con un sì dopo l’altro alla ventennale svendita della legalità in cambio di consenso.
Chiamiamola pure “democrazia bloccata”: Ermanno Rea ci insegna che l’impunità assurta a stile di vita non è che l’ultimo capitolo della storia di minorità morale e cinismo cui ha condotto l’intimo matrimonio delle coscienze e della Controriforma. Solo una parola cambieremmo, al titolo. Non la fabbrica dell’obbedienza, ma della servitù - questo abbiamo fatto e continuiamo a fare dell’Italia. Allora sarà più chiaro che non abbiamo scusanti: perché non c’è servitù se non volontaria.
Le scommesse perdute dello stato. Crack istituzionale
Due recenti libri sulla crisi della democrazia rappresentativa. Il primo è di Maria Rosaria Ferrarese che affronta, ne La governance tra politica e diritto, le soluzioni che stanno emergendo nei sistemi politici occidentali incapaci di fronteggiare la globalizzazione. Gaetano Azzariti, ne Diritto e conflitti, analizza invece le contraddizioni del costituzionalismo nel registrare la natura dei conflitti sociali, culturali e di classe della contemporaneità
di Giuseppe Allegri (il manifesto, 24 febbraio 2011)
Come e perché ripensare la democrazia? È questa la principale domanda che pervade due volumi da poco in libreria. Quasi identica a quella che il filosofo d’origine tunisina Yves Charles Zarka pone in apertura al libro collettivo Repenser la démocratie (Armand Colin) a un nutrito gruppo di filosofi, giuristi, storici, sociologi. Nel nostro caso ci troviamo dinanzi a una sociologa del diritto, Maria Rosaria Ferrarese, autrice di La governance tra politica e diritto (Il Mulino, pp. 218, euro 18); e a un costituzionalista, Gaetano Azzariti, Diritto e conflitti. Lezioni di diritto costituzionale (Laterza, pp. 418, euro 35), un nome che i lettori de il manifesto conoscono assai bene per i suoi commenti e contributi sui duraturi «conflitti istituzionali» del nostro paese. Sin dai titoli si comprende che entrambi i lavori partono da un’analisi critica delle esperienze giuridiche, fortemente orientata a indagare i nessi istituzionali, politici e sociali dei modi di produzione del diritto, nella crisi delle categorie fondanti la modernità giuridica: statualità, democrazia rappresentativa, supremazia della legge, centralità del parlamento.
L’intento esplicitato da Ferrarese è quello di studiare la «governance come sfida alla, o come aggiustamento della democrazia»; o come interrogazione critica della «tradizionale geografia istituzionale costruita dallo stato moderno». Si parte da un dialogo/conflitto serrato tra «le sfide della governance» e le «presunzioni della democrazia rappresentativa», dapprima ponendo l’accento sulla «crisi della legislazione», l’insufficienza del clivage diritto pubblico/diritto privato e l’impossibile, reale divisione dei poteri. Siamo al centro della polarità tra costituzionalismo delle garanzie, limitazione dei poteri e governance prodotta da quella soft law che non pensa più il diritto come «formulazione normativa», ma piuttosto come «funzione, come risultato, come effettività». Sono le «impossibilità della rappresentanza» dinanzi alle «possibilità del costituzionalismo»: il deperimento «dell’ingegneria della delega» ai rappresentanti del popolo, lo sconfinamento territoriale oltre le frontiere perimetrate dalla democrazia istituzionale, il radicale mutamento delle società dopo l’«impoverimento» causato dalla crisi economica delle classi medie, massificate e individualizzate al contempo, pericolosamente sospese tra populismo, spettacolarizzazione delle pulsioni e «gestione professionale delle percezioni collettive». Si profila quindi la rivendicazione di nuove forme di partecipazione politica, la centralità della tutela delle minoranze, la riscrittura di nuove agende sociali e l’affermazione di inedite forme di produzione giuridica.
Ferrarese indaga da tempo il rapporto tra common e civil law nell’epoca globale, tra la tendenziale americanisation du droit e la necessaria, ma incompiuta, capacità di autotrasformazione della tradizione giuridica continentale, anche a fronte di un diritto comunitario spesso autoreferenziale.
Le fabbriche della legge
In questo oramai quarantennale cantiere si afferma la governance, come «esercizio del potere e produzione di norme giuridiche» attraverso strumenti e procedure che «legano soggetti, gruppi, comunità ai centri di potere»; ma anche come «modalità istituzionale» aperta, flessibile, a «geometria variabile», in un «panorama giuridico privo di centro e affidato a meccanismi di conflitto tra norme e di competizione tra ordinamenti». Nei due capitoli centrali della sua ricostruzione, Ferrarese indaga la «governance giudiziaria» e quella «contrattuale». Da una parte riprendendo «il precedente americano» della garanzia giurisprudenziale nella democrazia maggioritaria e il «dialogo tra Corti» nel diritto europeo dell’ultimo cinquantennio. Dall’altro esplorando la governance of contract, a partire dall’antropologia dell’homo oeconomicus, nell’esperienza del New Public Contracting thatcheriano, nel diritto globale della lex mercatoria, delle law firms e delle altre «istituzioni della globalizzazione» economica e finanziaria.
In questo quadro la governance diviene «succursale della democrazia»: approfitta delle incapacità della rappresentanza politica per instaurarsi al centro di una «competizione tra gli interessi», rispetto alla quale le istituzioni finiscono per divenire strumento della gouvernementalité foucaultiana, quasi riproducendo la «concezione cristiana del governo pastorale»; mentre in altri momenti si torna a una sorta di postmoderno medioevo della regolazione giuridica.
Eppure è possibile intravedere nelle procedure di governance una «tendenza al decentramento», alla frammentazione dei poteri, alle possibilità del controllo diffuso da parte di un’opinione pubblica attiva, dotata di accesso libero alla rete, alla «sperimentazione dal basso di meccanismi di partecipazione», oltre la dimensione contrattuale e giurisprudenziale della governance tradizionale. È lo spazio post-democratico dei soggetti invisibili alle istituzioni centralistiche dello Stato nazione, così come alla disseminazione immateriale della globalizzazione tardo-capitalista: la scommessa è quella di immaginare forme del conflitto all’altezza del mutamento di paradigma avvenuto nei sistemi istituzionali e di produzione normativa.
La dinamica costituzionale
E proprio di Diritto e conflitti si occupa Gaetano Azzariti, in un volume che ha il notevole pregio di essere sia un itinerario di lezioni di diritto costituzionale, che una proposta di ripensamento dei fondamenti teorici e istituzionali del costituzionalismo moderno e contemporaneo, alla luce della «dinamica dei conflitti»: un lavoro che necessita di un confronto ben più approfondito, che può essere solo suggerito e accennato in questa occasione.
La prima parte del libro ricostruisce il «diritto come norma sociale, regola di condotta» della convivenza, in cui «l’oggetto della scienza giuridica» si apre «alla società e alla complessità della realtà sociale» e l’ordinamento giuridico è inteso come «istituzione normativa e sociale». Rimane senza risposta la domanda sulla «costruzione del consenso sociale, che è sempre artificiale, ma può anche essere fortemente manipolata, nonché vacuamente spettacolare». È questo il punto di partenza dell’analisi critica proposta nella seconda, assai più ampia parte del volume: il rapporto tra «ordinamenti e conflitti» alla luce di una loro «composizione autoritativa», piuttosto che di una «soluzione procedurale», ipotesi alle quali viene preferita la «legittimazione dei conflitti» nella transizione dal «potere del demos alla sovranità della Costituzione».
È un’ampia e suggestiva cavalcata nel pensiero politico e giuridico della tradizione occidentale, che prende le mosse da una radicale e inappellabile critica della «composizione autoritativa dei conflitti», cui consegue il rifiuto della logica capitalistica dietro al «funzionalismo scettico di matrice nichilista», che può essere combattuto anche «in forza di un illuminismo disincantato e critico» e non necessariamente «contrapponendo una visione dogmatica e determinista»: «oltre al nulla del nichilismo, il costituzionalismo e la storia». In questo senso il «paradigma procedurale» di soluzione dei conflitti e il «normativismo» di matrice kantiana e kelseniana si mostrano insufficienti dinanzi alla portata innovativa di «conflitti irriducibili».
Qui si parte dalle figure tragiche di Antigone e Socrate, passando per la «resistenza passiva» di Tommaso e giungendo alla potenza razionalizzatrice della «gigantesca macchina dell’obbedienza» hobbesiana, capace di influenzare tanto il pensiero liberale del «costituzionalismo moderno di Locke», quanto «quello radicale e democratico» di Rousseau. Quel Rousseau che per Azzariti diviene il viatico alla «sovranità della costituzione»: l’affermazione post-rivoluzionaria del «nuovo patto sociale», che limita e divide i poteri, garantendo anche i «diritti fondamentali» dell’individuo; è l’avvio del lungo percorso che porta alla «democrazia pluralista o costituzionale». Affascinanti e coinvolgenti sono le pagine sul Rousseau «fomentatore del cambiamento», «critico dell’ideologia», promotore di un «radicalismo eversivo». Affascianti e coinvolgenti perché evidenziano la possibilità di intraprendere un percorso eterodosso verso una radicale trasformazione dell’esistente, anche tra le maglie oscure e a volte insondabili della governance postmoderna.
La democrazia del tumulto
L’ipotesi di contrastare la corrotta finanziarizzazione dell’economia ipercapitalista e «la crisi del modello politico incentrato sullo stato» (Ferrarese), a partire, piuttosto che dalla previsione di leggi intese come «limitazioni dell’azione», dalla creazione di «nuove istituzioni», post-rappresentative e non statali, che siano, usando una frase del Gilles Deleuze studioso di Hume, «modello positivo di azione». La sensazione che la centralità dei conflitti nel maturo capitalismo globale si dispieghi dalla necessaria lotta per la condivisione e trasmissione del sapere, inteso come bene comune, che già Condorcet definiva istruzione pubblica (contro la giacobina educazione nazionale), antagonistica tanto alla dimensione privata, che a quella statuale. E che intorno all’eccedenza della conoscenza si stia giocando tanto il massacro, prima generazionale e ora anche sociale, dell’ultimo trentennio in Europa, quanto le attuali, irriducibili rivolte sulla sponda meridionale del Mediterraneo.
È questo un sottile, ma duraturo filo rosso che lascia però del tutto aperta la dimensione creativa delle nuove forme di regolazione giuridica, sicuramente oltre le «buone pratiche» di una good governance. Se dovessimo elencare «buoni esempi» e modi per produrre il diritto, verrebbe da pensare alla democrazia del tumulto del Machiavelli dei Discorsi, che avremmo voluto trovare ricordata nel lavoro di Azzariti: «perché i buoni esempi nascono dalla buona educazione, la buona educazione dalle buone leggi, e le buone leggi da que’ tumulti che molti inconsideratamente dannano».
IL CASO
Deputato Pd denuncia tentata corruzione
"Soldi per passare con Berlusconi"
Gino Bucchino, 62 anni, racconta di essere stato avvicinato da un giovane di Rifondazione socialista.
"Mi ha detto: passa nei responsabili, per te 150mila euro e la rielezione. Garantisce Verdini".
Casini: "Stupirsi? Conosco altri 20 casi". Il coordinatore Pdl: "Mai conosciuto Bucchino. E Casini mi porti i nomi" *
ROMA - Gli avrebbero garantito 150mila euro e la certa rielezione in cambio del salto della staccionata per passare tra i "responsabili" a sostegno della maggioranza. Gino Bucchino, 62 anni, medico, residente in Canada ed eletto nella circoscrizione Nord e Centro America nelle liste del Pd, denuncia il tentativo di corruzione subito in conferenza stampa a Montecitorio. Garante dell’operazione, nelle parole del deputato Pd, il coordinatore Pdl Denis Verdini, che subito dopo la rivelazione nega di aver mai conosciuto Bucchino. Primo, sarcastico commento di Pier Ferdinando Casini: "Perché vi stupite? Se volete vi porto altri 20 di questi esempi". Franceschini: "Bucchino è persona seria e rigorosa. Il suo è un atto di coraggio".
Bucchino rivela di avere ricevuto l’offerta da un giovane aderente a Rifondazione Socialista, che gli avrebbe fatto il nome del coordinatore Pdl Denis Verdini quale referente dell’operazione. Bucchino non fa il nome del latore della proposta, riservandosi di rivelarlo al magistrato in caso di convocazione. Racconta che il giovane lo ha contattato circa tre settimane fa, proponendogli un incontro per sottoporgli un "importante progetto".
"Ci siamo visti il giorno dopo, in piazza San Silvestro - prosegue Bucchino nel suo racconto -. Lui è andato subito al sodo, senza perdersi in troppi giri di parole: ’questo Paese è in difficoltà e, piaccia o meno, può andare avanti solo sotto la guida di Berlusconi. Nel gruppo dei Responsabili c’è bisogno di gente di sinistra, proprio come te, che mantengano le proprie idee e la loro impostazione politica".
Per piegare la sua resistenza morale, il sedicente esponente di Rifondazione Socialista gli avrebbe detto: "Non devi rinunciare alle tue idee. Ma tu nel Pd non hai incarichi particolari... Con noi puoi far sentire la tua voce... Poi ci sarà una distribuzione di incarichi...". A seguire, i 150mila euro come contributo per le spese e l’assicurazione della rielezione. "E chi me lo garantisce?" avrebbe chiesto Bucchino. E l’altro: "Denis Verdini. Ne ho parlato con lui fino alle due di questa notte".
"Io - puntualizza Bucchino - ho ascoltato e non ho detto nulla. Lui allora mi ha chiesto di pensarci su e di dargli una risposta entro 24-48 ore. Di questa faccenda poi ne ho parlato con i miei collaboratori, ho messo al corrente i miei amici e alla fine ho mandato un sms a questo esponente di Rifondazione socialista, dicendogli che non ero interessato. L’ho ringraziato e la cosa è finita lì".
Il parlamentare democratico ha deciso di non rivolgersi all’autorità giudiziaria e di aver preferito una conferenza stampa "per fare una denuncia politica. Non ho intenzione di rivelare il nome della persona che mi ha contattato. Non ho grande esperienza di queste faccende ma se venissi convocato rivelerei l’identità della persona in questione. Finora non ho voluto raccontare questa storia per un importantissimo motivo: mio padre era molto malato e avevo altro a cui pensare. Ora che purtroppo è deceduto ho denunciato l’accaduto".
Denis Verdini replica alle accuse negando di conoscere Bucchino o che qualcuno lo abbia mai contattato a suo nome. "Ancora una volta - afferma il coordinatore Pdl in una nota - si cerca di trasformare quello che dal 14 dicembre scorso è un problema politico per l’opposizione in un inesistente caso di compravendita di parlamentari. Prima ha tentato Fini, seguito a ruota dalla sinistra, oggi l’on. Gino Bucchino, cui ha subito fatto seguito Casini. Ebbene: io non so chi sia l’on. Bucchino, non so quindi chi possa averlo contattato e avvicinato a mio nome. Di certo la notizia di denaro offerto in cambio di adesioni a gruppi che sostengono la maggioranza di governo è totalmente destituita di fondamento. E avverto fin d’ora che denuncerò chiunque propaghi certe menzogne. Quanto all’on. Casini, faccia i 20 nomi che dice. Sono qui che aspetto di leggerli".
Pronta la controreplica del leader Udc. "Se Verdini intende polemizzare su una battuta fatta in Transatlantico - dice Casini - liberissimo di farlo. Per quanto mi riguarda, per costume personale ho sempre usato le armi della politica e di un’etica pubblica che l’onorevole Verdini farebbe bene a rispettare. La denuncia, assai grave, l’ha fatta l’onorevole Bucchino e a lui si rivolgano gli amici del Pdl se hanno qualcosa da dire".
Cadono dalle nuvole anche quelli di Rifondazione Socialista, il movimento politico fondato da Filippo Fiandrotti, ex deputato lombardiano torinese. Ed è proprio Fiandrotti a smentisce categoricamente. "Diffido chiunque dall’usare il nome di Rifondazione Socialista - dice, interpellato al telefono -. Bucchino? ma chi è ’sto pazzo... Quel che dice questo signore è impossibile. Rifondazione Socialista l’ho fondata io e, a onor del vero, non esiste neppure più. Siamo confluiti nel Pd come componente culturale, con Fassino e Valdo Spini". Ma allora cos’è avvenuto? "Probabilmente qualcuno usa il nostro nome per fare i comodi suoi".
Mario Pepe, il deputato Pdl che, per la maggioranza, ha ’orchestrato’ in Transatlantico la nascita dei Responsabili, bolla come "molto sospetta" la denuncia del deputato del Pd. Bucchino, osserva Pepe, "non è mai stato nell’elenco" di quei "malpancisti" dell’opposizione da contattare. "Non so chi è - dice Pepe -, non so dove è stato eletto, non so nemmeno che faccia ha. E poi, perché proprio ora che la maggioranza si è già rafforzata? Che senso ha?". I responsabili, sottolinea Pepe, sono "gente che ha molta dignità, che ha abbandonato l’opposizione già prima del 14 dicembre, altro che compravendita".
Sulla credibilità di Gino Bucchino garantisce invece il capogruppo Pd alla Camera, Dario Franceschini. "E’ una persona seria e rigorosa. La sua denuncia è un atto di coraggio e fornisce la prova della vergognosa campagna messa in atto per ricostruire numericamente una maggioranza che la politica ha già demolito".
* la Repubblica, 24 febbraio 2011
Libia - Italia: l’imbarazzata complicità
di Pax Christi
del 22 febbraio 2011
comunicato stampa
Bloccare il mercato delle armi e rispettare i diritti umani
Il 2 settembre scorso abbiamo espresso il nostro disgusto per lo “spettacolo indecoroso” in onore di Gheddafi preparato dal capo del governo che ha ostentatamente baciato la mano al dittatore trascurando completamente ogni accenno alla violazione dei diritti umani, alla tragica sorte delle vittime dei respingimenti, a chi muore nel deserto o nelle prigioni libiche. Ora la repressione delle rivolte è spietata. Gruppi armati sparano sulla folla che viene anche bombardata.
Pax Christi vuole ricordare che l’Italia è il primo esportatore europeo di armamenti al regime di Gheddafi. Nel biennio 2008-2009 il governo italiano ha autorizzato alle proprie ditte l’invio di armamenti per oltre 205 milioni di euro, più di un terzo di tutte le autorizzazioni rilasciate dall’UE. A differenza dei colleghi europei, il ministro degli Esteri si è guardato bene dal dichiarare anche solo la sospensione temporanea dei rifornimenti di armi a Gheddafi.
L’Italia, complice di tanti affari e orrori, imbarazzata, balbetta.
Eppure non sono mancate le sollecitazioni. Dopo i primi tumulti nei paesi del nord Africa, con la Rete Disarmo e la Tavola della pace avevamo chiesto al Governo di sospendere ogni forma di cooperazione militare con tutti i paesi dell’area.
Ma la vita dei libici vale più del petrolio, del gas e di ogni altro interesse.
E’ urgente rivedere il “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia” firmato a Bengasi nell’agosto del 2008 da Berlusconi e Gheddafi - con cui le esportazioni di armamenti italiani verso le coste libiche hanno preso slancio.
Vogliamo ricordare che la legge 185 del 1990 sulle esportazioni di armamenti chiede di accertare il “rispetto dei diritti umani nel paese di destinazione finale" e di rifiutare le esportazione di armamenti “qualora esista un rischio evidente che la tecnologia o le attrezzature militari da esportare possano essere utilizzate a fini di repressione interna”.
Disarmo, giustizia e democrazia sono la premessa perché il nord Africa e il Mediterraneo diventino, secondo il sogno di La Pira, un “grande nuovo lago di Tiberiade”. Non il bagno di sangue che siamo costretti a guardare di fronte a casa.
Pax Christi Italia
Firenze, 22 febbraio 2011
Fonti e ulteriore documentazione in:
Rete Disarmo www.disarmo.org e
Unimondo
www.unimondo.org
È la matematica il grande motore della civiltà
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 23.02.2011)
Il sistema oggi in vigore in Occidente è stato "inventato" in India nel V secolo e poi tramandato dagli arabi agli europei Risultati geometrici, astronomici e architettonici molto importanti sono stati raggiunti da vari popoli in epoche e luoghi diversi Un saggio di Bellos mostra come, dall’abaco alle tabelline, lo sviluppo dell’uomo sia legato al saper contare
Se avesse voluto apporre un’epigrafe al suo libro Il meraviglioso mondo dei numeri (pubblicato da Einaudi Stile Libero), Alex Bellos avrebbe potuto usare la duplice domanda del neurofisiologo Warren McCulloch: «Che cos’è il numero, che l’uomo lo può capire? E che cos’è l’uomo, che può capire il numero?». Perché il suo sterminato ed enciclopedico libro è appunto un tentativo, divertente e riuscito, di rispondere a entrambi gli interrogativi, e di mostrare come le storie del numero e dell’uomo siano in realtà intrecciate in maniera inestricabile, e i progressi e regressi dell’uno siano andati di pari passo coi progressi e regressi dell’altro.
L’espressione "mondo dei numeri" del titolo si riferisce dunque non soltanto al concetto oggettivo di numero da una parte, e alle sue rappresentazioni soggettive nello spazio geografico e nel tempo storico dall’altra, ma anche alle facoltà intellettuali dell’uomo. In particolare, al fatto che la scrittura alfabetica e la notazione numerica hanno sempre fecondamente intessuto, in teoria e in pratica, un rapporto di mutua stimolazione e derivazione.
Non stupisce quindi che il libro di Bellos sia in realtà una storia delle civiltà mascherata, osservata e raccontata dai complementari punti di vista del numero, delle cifre e del calcolo: tre aspetti di un’unica realtà, che costituiscono le versioni aritmetiche del pensiero, della scrittura e del linguaggio. Né stupisce che il libro mostri che, come le idee sono legate alla lingua in cui vengono espresse, e le parole sono legate alla scrittura con cui vengono registrate, così le varie civiltà abbiano affrontato e risolto in maniera diversa i problemi di definire filosoficamente i numeri, rappresentarli semioticamente e manipolarli matematicamente, rispondendo in maniera diversa alla domande su che cosa essi siano, come si possano indicare e come li si possa maneggiare.
Naturalmente, non tutte le civiltà hanno trovato "la soluzione" di questi problemi, che consiste in una ricetta che combina i seguenti quattro ingredienti. Primo, scegliere una base arbitraria ma conveniente: ad esempio, dieci. Secondo, indicare tutti i numeri positivi minori della base con segni differenti: ad esempio, le cifre da 1 a 9. Terzo, rappresentare i numeri maggiori mediante un sistema posizionale, in cui le cifre hanno un valore diverso a seconda di dove si trovano: ad esempio, assegnando allo stesso 1 il valore di uno, dieci o cento, e allo stesso 2 il valore di due o venti, nelle espressioni 1, 12 e 123). E quarto, aggiungere una cifra (ad esempio, 0) per rappresentare allo stesso tempo sia un posto vuoto nella precedente rappresentazione, sia il numero zero corrispondente a una quantità nulla.
Anzi, questa "soluzione" è il lascito culturale all’umanità di un’unica, grande civiltà: quella indiana della dinastia Gupta, che regnò nella valle del Gange e dei suoi affluenti tra il terzo e il sesto secolo della nostra era, ed è ricordata anche nella storia dell’arte per i suoi capolavori, primi fra tutti le pitture e le sculture delle grotte di Ajanta. La più antica registrazione dell’uso del sistema numerico indiano viene dalla Lokavibhaga: un’opera del 458, la cui datazione stabilisce un limite temporale superiore alla nascita del sistema numerico che oggi è universalmente in vigore nel mondo intero, dopo essere stato adottato dagli Arabi, e da essi tramandato agli Europei.
I quali, come ricorda Bellos, non soltanto l’hanno accettato con grandi e secolari resistenze, ma ancor oggi lo usano in maniera impropria. Ad esempio, privilegiando alcune potenze della base dieci come il mille, il milione o il miliardo, e non assegnando alle potenze intermedie nomi propri, bensì nomi composti come diecimila e centomila, o dieci milioni e cento milioni, che trattano quelle potenze come basi aggiuntive al dieci e macchiano la purezza del relativo sistema decimale. Una stonatura che invece gli indiani seppero evitare.
Come racconta Bellos, il massimo numero per il quale gli indiani coniarono un nome fu quello delle gocce di pioggia che potrebbero cadere in diecimila anni sull’insieme dei mondi, valutato dal Buddha in dieci alla centoquaranta e da lui chiamato asankhya: una parola sanscrita che significa letteralmente "innumerabile" o "incalcolabile". In Occidente soltanto Archimede poté competere con queste imprese: per rimediare alla pochezza della lingua greca, che aveva come massimo nome di numero la miriade, pari a diecimila, nell’Arenario egli inventò un modo sistematico per parlare di grandi numeri e lo applicò al calcolo del numero dei granelli di sabbia che potevano riempire l’universo, da lui valutato in dieci alla sessantatrè.
Ma non solo i Greci non avevano nomi per i grandi numeri: non avevano neppure le cifre, e usavano le lettere al loro posto. Poiché l’alfabeto classico aveva ventiquattro lettere, aggiungendone tre cadute in disuso essi ottennero un sistema di ventisette lettere, che divisero in tre gruppi di nove ciascuno: le prime nove per le unità, le seconde nove per le decine, e le ultime nove per le centinaia. Questo permise divertimenti come la composizione di poemi isopsefi, "a stesso calcolo", in cui tutti i versi avevano la stessa somma numerica delle lettere. O paranoie come la lettura simbolica di numeri quali l’apocalittico 666, variamente interpretato nei secoli come il nome di Nerone, Diocleziano, Lutero o il Papa.
Ma non facilitò le operazioni aritmetiche, per le quali si dovette ricorrere a vari tipi di abaco: una letterale "tavoletta" che poteva essere di sabbia, di cera o a gettoni, e che permetteva di compiere in maniera analogica le operazioni che il sistema indiano permette invece di fare sulla carta in maniera digitale, manipolando le cifre con l’ausilio delle "tabelline’’. Bellos ci narra che l’abaco fu usato, in qualche forma, da tutti i popoli che non possedettero un adeguato sistema numerico che permettesse di fare i "calcoli": una parola, questa, che significa letteralmente "pietruzza" (come nel caso dei calcoli al fegato o alla cistifellea), e richiama l’origine primordiale dei numeri.
È in queste molteplici origini che si trovano le tante albe del numero di cui trattano i vari capitoli del libro di Bellos. Il sistema sessagesimale additivo dei Sumeri, ad esempio, di cui rimangono vestigia nel nostro computo dei secondi in un minuto, dei minuti in un’ora e dei gradi in un angolo giro. Il sistema decimale posizionale dei Babilonesi, che introdusse lo zero come posto vuoto. Il sistema vigesimale posizionale dei Maya, che arrivò a considerare lo zero come numero indipendente. E soprattutto il sistema completo di tutti gli ingredienti degli Indiani, che condividono con i Babilonesi, i Cinesi e i Maya l’introduzione del sistema posizionale, con i soli Maya l’invenzione dello zero, ma con nessun altro l’intuizione della necessità di indicare in maniera indipendente tutti i numeri minori della base.
Analogamente all’evoluzione biologica dell’uomo, o all’evoluzione linguistica dell’alfabeto, non bisogna però guardare all’evoluzione numerica del sistema indiano come a una teleologia. Da un lato, infatti, la constatazione che solo una civiltà è arrivata alla "soluzione" mostra che quest’ultima non può essere vista come un’inevitabile necessità, e dev’essere piuttosto considerata come una fortunata contingenza. E, dall’altro lato, i risultati geometrici, astronomici e architettonici raggiunti rispettivamente dai Greci, dai Maya e dai Romani, che possedevano solo sistemi numerici parziali e incompleti, mostrano che il progresso matematico, scientifico e tecnologico può evolversi in direzioni multiple e complementari, di molte delle quali Il meraviglioso mondo dei numeri narra le affascinanti vicende.
Occidente cieco
di Pino Arlacchi (l’Unità, 22.02.2011)
Dalla Libia giungono notizie drammatiche e contraddittorie. Il dittatore ha deciso di concludere nel sangue la sua avventura quarantennale e, mentre scrivo, il quadro cambia di ora in ora. Ma quali che siano i tempi e gli esiti della rivolta del popolo libico, è chiara e consolidata la direzione dei processi in atto nel mondo arabo: siamo in presenza di un’ondata paragonabile a quella che, negli anni Ottanta, portò la democrazia in America latina e, negli anni Novanta, nell’Europa dell’Est. Siamo in presenza di eventi di portata storica.
Come Occidente ci siamo arrivati impreparati. Alcuni governi attribuiscono la responsabilità di ciò agli organismi di intelligence. In effetti i precedenti non mancano. È noto che la Cia non riuscì a vedere il crollo del comunismo e che non si è stati capaci di avvertire lo shock petrolifero, l’ascesa della Cina, l’odierna virata a sinistra dell’America Latina. Potremmo compilare una lista molto lunga.
Ma non includeremmo la sorpresa di queste ultime settimane. No, questa volta la colpa non è di 007 incapaci, ma di un errore di prospettiva culturale. Abbiamo vissuto nell’idea dello scontro di civiltà con l’Islam e col suo inevitabile corollario: l’incompatibilità tra l’Islam e la democrazia. Ci siamo cullati nella presuntuosa convinzione d’essere, noi occidentali, i monopolisti della democrazia fino a escludere, nelle scelte di politica internazionale, quella che continuavamo a predicare: la sua universalità. E ora siamo qua, a bocca aperta, a guardare eventi enormi che, in realtà, non sono affatto sorprendenti.
E non è finita. Perché un po’ per cinismo, ma probabilmente anche per stupidità, c’è chi si ostina a trasferire quel pregiudizio di “incompatibilità” tra democrazia e Islam al presente: minimizza quanto è accaduto in Tunisia, in Egitto, e sta accadendo in Libia, e sostiene che questi processi alla fine consegneranno quei paesi ai Fratelli musulmani e al fondamentalismo islamico.
È la parola d’ordine della destra internazionale adottata con passiva disciplina dal nostro governo che fa breccia anche tra commentatori prudenti e moderati. Alcuni giorni fa sul Corriere della sera c’era chi si domandava se in fondo non era meglio la “stabilità” garantita dai governi autoritari di queste potenziali “democrazie estremiste” governate da partiti islamici.
C’è da chiedersi di quale “stabilità” parlino. Il Medio Oriente è da cinquant’anni l’area più instabile e conflittuale del mondo. La guerra internazionale più sanguinosa degli ultimi trent’anni si è combattuta tra Iran e Iraq con un milione di morti. E abbiamo forse dimenticato gli eventi tragici che si sono prodotti in Iran prima sotto lo Shah e poi sotto Komeini? E le ripetute invasioni del Libano? E le guerre in Afghanistan e in Iraq con l’annessa invasione del Kuwait?
Dobbiamo opporci con fermezza a questo mix di cecità e colpevole oblio che produce alla fine gli imbarazzanti balbettii del ministro Frattini, ancora una volta l’ultimo a capire. La democrazia è il piu grande fattore di stabilità e di pace di lungo periodo. Le democrazie riducono i budget militari, cioè gli strumenti della guerra. Sono il metodo della non violenza applicato ai rapporti interni e internazionali. È stato così in passato e sarà così anche nel mondo arabo.
LA LETTERA
Valorizziamo ciò che ci unisce
di GIORGIO NAPOLITANO *
Caro direttore,
il Consiglio dei Ministri ha adottato la decisione che ad esso competeva per quel che riguarda le modalità della festa del 17 marzo 2011. Ho ritenuto di dover restare - nel mio ruolo - estraneo a ogni disputa in proposito. Ma ritengo che lo spirito della decisione presa sia apprezzabile.
Quello che conta è che ci sia piena e attiva consapevolezza, a tutti i livelli istituzionali, del significato delle celebrazioni di questo storico anniversario: e cioè, della necessità di farne occasione di riflessione seria e non acritica, e insieme di decisa valorizzazione di tutto quel che ci unisce come nazione e ci impegna come Stato unitario di fronte ai problemi e alle sfide che ci attendono.
Nelle celebrazioni così concepite confido che potranno riconoscersi tutte le forze politiche, sociali e culturali, potranno aver spazio tutte le sensibilità.
* la Repubblica, 19 febbraio 2011
Intervento del Presidente Napolitano all’incontro su "La lingua italiana fattore portante dell’identità nazionale" nel 150 dell’Unità.
Palazzo del Quirinale, 21/02/2011 *
Questo nostro incontro non può chiudersi senza un caloroso ringraziamento, come quello che io voglio rivolgere alle prestigiose istituzioni il cui apporto ci è stato essenziale, al Presidente Amato e agli studiosi, i cui interventi hanno scandito un’intensa riflessione collettiva su aspetti cruciali del discorso sulla nostra identità e unità nazionale, e in pari tempo agli artisti le cui voci hanno fatto risuonare vive e a noi vicine pagine specialmente significative della poesia, della letteratura e della cultura italiana. Tra le figure dei primi e dei secondi, degli studiosi e degli interpreti, si è collocata - da tempo, come sappiamo, con straordinario ininterrotto impegno - quella di Vittorio Sermonti, dando voce alla Commedia di Dante.
Ringrazio dunque in egual modo tutti ; e non posso far mancare un vivo ringraziamento anche per chi ha curato la splendida raccolta, di alto valore bibliografico, da noi ospitata qui in Quirinale, di testi dei capolavori ed autori cari a Francesco De Sanctis. La cui storia ci appare più che mai rispondente al proposito - come poi disse Benedetto Croce - "di fare un grande esame di coscienza e di intendere la storia della civiltà italiana".
Non mi sembra eccessivo aggiungere - ed è il mio solo commento - che la iniziativa di questa mattina è risultata esemplarmente indicativa del carattere da dare alle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, la cui importanza va ben al di là di ogni disputa sulle modalità festive da osservare o sulle diverse propensioni a partecipare manifestatesi. Come tutti hanno potuto constatare, non c’è stata qui alcuna enfasi retorica, alcuna esaltazione acritica o strumentale semplificazione.
Si è discusso sulla datazione del configurarsi e affermarsi di una lingua italiana e del suo valore identitario in assenza - o nella lentezza e difficoltà del maturare - di una unione politica del paese.
Senza nascondersi la complessità del tema della nazione italiana, delle sue più lontane radici e del suo rapporto col movimento per la nascita, così tardiva, di uno Stato nazionale unitario, si è messo in evidenza quale impulso sia venuto dalla forza dell’italiano come lingua della poesia, della letteratura, e poi del melodramma al crescere di una coscienza nazionale. Il movimento per l’Unità non sarebbe stato concepibile e non avrebbe potuto giungere al traguardo cui giunse se non vi fosse stata nei secoli la crescita dell’idea d’Italia, del sentimento dell’Italia. De Sanctis richiama Machiavelli che "propone addirittura la costituzione di uno grande stato italiano, che sia baluardo d’Italia contro lo straniero" e aggiunge : "Il concetto di patria gli si allarga. Patria non è solo il piccolo comune, ma è tutta la nazione". La gloria di Machiavelli - conclude De Sanctis - è "di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli della società moderna e della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno lontano, del quale egli tracciava la via".
Quell’avvenire era ancora molto lontano. Secoli dopo, nella prima metà dell’Ottocento, si sarebbe determinato - è ancora De Sanctis che cito, dal capitolo conclusivo della sua "Storia", - "il fatto nuovo" del formarsi "nella grande maggioranza della popolazione istruita", di "una coscienza politica, del senso del limite e del possibile" oltre i tentativi insurrezionali falliti, oltre "la dottrina del «tutto o niente»".
E se con il progredire della coscienza e dell’azione politica, si giunge a "fare l’Italia" nel 1861, fu tra il XIX e il XX secolo, come qui ci si è detto in modo suggestivo e convincente, che cominciarono a circolare libri capaci di proporsi "come strumenti di educazione e formazione della rinata Italia". Tuttavia, la strada da fare restò lunga.
A conferma della nostra volontà di celebrare il centocinquantesimo guardandoci dall’idoleggiare lo Stato unitario quale nacque e per decenni si caratterizzò, si è stamattina qui crudamente ricordato come solo nel primo decennio del ’900 - nel decennio giolittiano - si produsse una svolta decisiva per la crescita dell’istruzione pubblica, per l’abbattimento dell’analfabetismo, e più in generale, grazie alla scuola, per un progressivo avvicinamento all’ideale - una volta compiuta l’unità politica - di una lingua scritta e parlata da tutti gli italiani. Di qui anche lo sviluppo di una memoria condivisa nel succedersi delle generazioni.
Dopo quella svolta, il cammino fu tutto fuorché lineare - in ogni campo d’altronde, per le regressioni che il fascismo portò con sé. Ed è dunque giusto, nel bilancio dei 150 anni dell’Italia unita, porre al massimo l’accento su quel che ha rappresentato l’età repubblicana, a partire dall’approccio innovativo e lungimirante dei padri costituenti, che si tradusse nella storica conquista dell’iscrizione nella nostra Carta del principio dell’istruzione obbligatoria e gratuita per almeno otto anni. Molti princìpi iscritti in Costituzione hanno avuto un’attuazione travagliata e non rapida : ciò non toglie che essi abbiano ispirato in questi decenni uno sviluppo senza precedenti del nostro paese e che restino fecondi punti di riferimento per il suo sviluppo a venire.
Non idoleggiamo il retaggio del passato e non idealizziamo il presente. I motivi di orgoglio e fiducia che traiamo dal celebrare l’enorme trasformazione e avanzamento della società italiana per effetto dell’Unità e lungo la strada aperta dall’Unità, debbono animare l’impegno a superare quel che è rimasto incompiuto (siamo - ha detto Giuliano Amato - Nazione antica e al tempo stesso incompiuta) e ad affrontare nuove sfide e prove per la nostra lingua e per la nostra unità. E infatti anche di ciò si è parlato ampiamente nel nostro incontro guardando sia alle ricadute del fenomeno Internet sulla padronanza dell’italiano tra le nuove generazioni sia alle spinte recenti per qualche formale riconoscimento dei dialetti. Eppure, a quest’ultimo proposito, l’Italia non può essere presentata come un paese linguisticamente omologato nel senso di una negazione di diversità e di intrecci mostratisi vitali. E nessuno può pretendere,peraltro, di oscurare l’unità di lingua cosi faticosamente raggiunta.
Bene, in questo spirito possiamo e dobbiamo mostrarci - anche presentando al mondo quel che abbiamo costruito in 150 anni e quel che siamo - seriamente consapevoli del nostro ricchissimo, unico patrimonio nazionale di lingua e di cultura e della sua vitalità ; e seriamente consapevoli del duro sforzo complessivo da affrontare per rinnovare - contro ogni rischio di deriva - il ruolo che l’Italia è chiamata a svolgere in una fase critica, e insieme ricca di promesse, di evoluzione della civiltà europea e mondiale.
Ho detto "seriamente" : perché in fin dei conti è proprio questo che conta, celebrare con serietà il nostro centocinquantenario. Come avete fatto voi protagonisti di questo incontro. Ancora grazie.
* FONTE: SITO PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA