Le celebrazioni in Grecia dopo quelle all’Altare della Patria
Napolitano: «Il 25 aprile è una festa di tutti».
Il presidente a Cefalonia: «Apporto dei partigiani essenziale ma troppo a lungo la resistenza dei militari è stata ignorata» *
ROMA - Il 25 aprile «in cui si celebra in Italia la Festa della Liberazione è la festa di tutti gli italiani». Lo ribadisce il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha voluto rendere omaggio al monumento ai caduti italiani della divisione Aqui, trucidati tra il 24 e il 25 aprile 1943, a Cefalonia, in Grecia. Napolitano, che in mattinata aveva partecipato alle commemorazioni ufficiali all’altare della Patria, a Roma, dice no a divisioni su una festa che deve essere di tutti e ricorda le sue parole nel discorso di insediamento davanti al Parlamento: «Ci si può ritrovare senza riaprire le ferite del passato nel rispetto di tutte le vittime e nell’omaggio non rituale alla liberazione dal nazifascismo come riconquista dell’indipendenza e della dignità della Patria».
FESTA DI TUTTI - Il presidente, che ha partecipato per la prima volta alle celebrazioni da Capo dello Stato, ha posto l’accento sulla pluralità di contributi che arrivarono, sia dai partigiani che dai militari, per la liberazione d’Italia spiegando che «questa più comprensiva visione del percorso che condusse l’Italia dal crollo dell’8 settembre 1943 all’insurrezione del 25 aprile 1945 può favorire un effettivo riconoscimento unitario, oggi nel nostro paese, del valore della festa che ovunque celebriamo».
PONTE CON LA RESISTENZA - Il rifiuto dei militari italiani a Cefalonia di arrendersi ai tedeschi rappresenta «un ponte ideale» con la Resistenza., aggiunge il presidente della Repubblica . «A Cefalonia - dice Napolitano - si manifestò un impulso egualmente nobilissimo e destinato a dare i suoi frutti. Si può ben cogliere, fuori da ogni mitizzazione, un ponte ideale tra quell’impulso e la successiva maturazione dello spirito della Resistenza». «Non c’è polemica storiografica o pubblicistica - aggiunge il capo dello Stato - non c’è disputa sulle cifre o sulle persone che possa oscurare l’eroismo e il martirio delle migliaia di militari italiani che scelsero di battersi, caddero in combattimento, furono barbaramente trucidati dopo la sconfitta e la resa, o portati alla morte in mare, o deportati in Germania». «Una simile somma di sacrifici non potrà mai essere dimenticata dall’Italia».
VALORI - Alla vigilia del 25 aprile Napolitano aveva già parlato al Quirinale, invitando «non solo a ricordare» quel che avvenne ma anche a «costruire» rispettando «quei valori e quegli insegnamenti nel loro significato non contingente, non destinato ad esaurirsi con gli eventi del passato». In particolare , aveva detto, «siamo chiamati a prestare tutta la nostra attenzione all’attualità di quegli insegnamenti; sapendo che è nostro compito non solo ricordare ma costruire ponendo a frutto la grande forza creativa che può scaturire dalle esperienze vissute in una fase storica precedente. Per fare ciò, è necessario considerare quei valori e quegli insegnamenti nel loro significato non contingente, non destinato ad esaurirsi con gli eventi del passato. Soltanto così riusciremo a vivere il 25 aprile non semplicemente come richiamo alla storia, ma come punto di partenza per costruire insieme un futuro migliore. La Liberazione, in effetti, fu un risultato di decisiva importanza per l’avvenire del Paese, ma al tempo stesso e soprattutto fu la premessa, la condizione per un’Italia nuova, per la Costituzione, per la faticosa ed entusiasmante edificazione di una democrazia vitale, per la rinascita economica e sociale, per lo sbocciare della realtà istituzionale dell’Europa e delle Organizzazioni Internazionali, anima e strumento del multilateralismo, e quindi, via via, per il superamento della contrapposizione tra i blocchi ideologici e militari e per la fine della Guerra Fredda: tutte conquiste che la Liberazione dell’Italia e dell’Europa ha reso possibili, tutte tappe di un difficile cammino che continua nel presente e si proietta nel futuro».
* Corriere della Sera, 25 aprile 2007
Cefalonia scuote il premio Acqui
«Anche collaborazionisti sull’isola»
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 01.09.2017)
Su come si comportarono i tedeschi sull’isola greca di Cefalonia (Mar Ionio), nel settembre 1943, non esistono dubbi: fu un feroce crimine di guerra fucilare un gran numero di militari italiani della divisione Acqui catturati dopo una settimana di combattimenti. Ma è sulle scelte dei nostri connazionali che i pareri divergono: una discussione riaperta dal libro di Elena Aga Rossi Cefalonia (il Mulino, 2016), che si è inasprita con la decisione di includerlo nella cinquina finalista del premio Acqui Storia, creato proprio per onorare i caduti dell’omonima divisione.
Il volume, recensito da Paolo Mieli sul «Corriere» il 5 settembre 2016, svela che un po’ di polvere venne nascosta sotto il tappeto per celebrare il martirio dei nostri militari sterminati: incertezze ed errori nelle trattative con i nazisti, episodi di insubordinazione contro il comandante della Acqui, generale Antonio Gandin (fucilato dopo la resa e medaglia d’oro alla memoria), considerato filotedesco da coloro che premevano per volgere le armi contro gli ex alleati. Il numero dei caduti fu gonfiato: si è parlato di 9 mila vittime, mentre una valutazione realistica fa scendere a circa 2 mila il conto degli uccisi sull’isola.
Il punto più scottante riguarda però l’allora tenente Renzo Apollonio. Sulla base di documenti dell’epoca, tra i quali spiccano una relazione del 1946 di Ermanno Bronzini, capitano della Acqui, e un rapporto di Livio Picozzi, ufficiale inviato a Cefalonia dall’esercito nel 1948 per indagare sugli eventi, Elena Aga Rossi ne ha ricostruito l’operato in termini molto critici.
Secondo questa versione dei fatti, sostenuta anche dallo storico tedesco Hermann Frank Meyer (autore del libro Il massacro di Cefalonia, Gaspari editore), Apollonio prima spinse per lo scontro con la Wehrmacht; poi sfuggì alla strage in circostanze poco chiare; quindi collaborò in posizione di comando con le forze del Terzo Reich, svolgendo anche missioni per conto loro a Belgrado e Atene; infine prese contatti con gli Alleati, che gli chiesero di arrendersi come capo del presidio lasciato dai nazisti sull’isola dopo averla evacuata, e riuscì a tornare in patria con tutti gli onori, dichiarando di aver svolto un’attività clandestina antitedesca di cui però sono rimaste ben poche tracce.
Dato che Apollonio, poi divenuto generale e scomparso da tempo, aveva assunto un ruolo di rilievo tra gli ex commilitoni, fino a diventare presidente dell’Associazione nazionale dei reduci della divisione Acqui e dei loro familiari, il libro ha suscitato reazioni aspre da parte di alcuni soci dell’organizzazione, secondo i quali l’autrice non ha tenuto nel debito conto altri documenti, come un giudizio del 1949 che dichiarò infondate le accuse di collaborazionismo rivolte ad Apollonio e una ritrattazione sottoscritta da Bronzini 31 anni dopo la sua relazione, nel 1977. D’altra parte l’Associazione ha rifiutato la proposta di Elena Aga Rossi di pubblicare sul suo sito web un altro rapporto di Picozzi sfavorevole ad Apollonio, inviato nel 1948 al capo di stato maggiore Luigi Efisio Marras, e una lettera in sintonia con le tesi del libro firmata da Rocco Russo, nipote di don Romualdo Formato, cappellano della divisione di stanza a Cefalonia.
Quando poi il saggio edito dal Mulino è stato incluso nella cinquina del premio Acqui (sezione scientifica), diversi membri dell’Associazione hanno scritto al Comune della cittadina piemontese, che organizza la manifestazione, per esprimere il loro dissenso. Si tratta, tengono a specificare gli interessati, di interventi a titolo personale. Bisogna aggiungere tuttavia che a nome dell’Associazione, Tiziano Zanisi, delegato ai rapporti con il premio, ha spedito alla stampa una lettera dai toni pacati, ma nella sostanza niente affatto tenera verso Elena Aga Rossi. Pur dichiarando di non voler interferire con il compito della giuria, la lettera definisce «un passo falso» la qualifica di collaborazionista attribuita nel libro ad Apollonio.
L’assessore alla Cultura del Comune di Acqui, Alessandra Terzolo, dichiara al «Corriere» che ha pensato di promuovere un chiarimento: «Noi rispettiamo il valore scientifico del libro, ma anche le posizioni espresse dai reduci di Cefalonia e dai loro familiari: mantenendoci neutrali, vorremmo organizzare un dibattito tra l’autrice e uno storico designato dall’Associazione Acqui, da svolgere dopo l’assegnazione del premio, per non influenzare la giuria, ma possibilmente prima della sua consegna».
Questa ipotesi, che ricorda un po’ i faccia a faccia televisivi, non convince Elena Aga Rossi: «Sono disposta a un confronto nell’ambito di un convegno tra studiosi sulla questione di Cefalonia, ma dev’essere del tutto svincolato dal premio Acqui. Non mi sembra opportuno aderire a iniziative che nei fatti finirebbero per risolversi in un processo al mio libro».
Una posizione che Maurilio Guasco, presidente della giuria del premio, giudica sensata: «Capisco che l’autrice non voglia mettersi a confronto con persone che hanno attaccato duramente il suo saggio: si rischierebbe la rissa. Altra cosa sarebbe un seminario o una tavola rotonda tra gli studiosi che si sono occupati di Cefalonia. Un’iniziativa che sarei disponibile a presiedere».
Il sindaco di Acqui, Lorenzo Lucchini, ritiene che ci sia spazio per tenere aperto il dialogo: «Lavoreremo per trovare una soluzione che consenta un confronto sereno».
L’Italia incompatibile
di Furio Colombo *
Giorni come il 25 aprile tracciano linee di confine, demarcazioni nette fra un prima e un dopo, fra un destino e un altro destino, un’Italia e un’altra Italia. Non resta che sperare che niente di questa data diventi cerimonia e abitudine e che ci sia sempre chi la spiega nelle scuole ai più giovani con pazienza e chiarezza.
Non c’è niente in questa frase che condanni irreversibilmente qualcuno, vita, scelte, idee, sentimenti, o che stabilisca (troppo tardi, comunque) una lista di reietti. Niente che non rispetti i morti. Quanto ai vivi, gli esseri umani cambiano in meglio o in peggio e si trasformano tutto il tempo come la natura, il paesaggio, la storia. Dipende dal momento in cui si scatta la fotografia il rapporto col tempo, passato e futuro.
Ma date come il 25 aprile non spostano di un millimetro il senso di ciò che è avvenuto e che ha salvato tutti, persecutori e perseguitati, anzi ha salvato - con il suo impetuoso sbocco nella libertà - sopratutto i persecutori che sarebbero stati costretti a continuare nella loro triste missione, ondata di morti dopo ondata di morti.
Per questo chiunque, la sera del 22 aprile, si sia incontrato con il programma «RT, Rotocalco televisivo, Speciale Resistenza e resistenze», di Enzo Biagi, su Raitre, ha un debito in più verso il vecchio maestro che non rinuncia. E dopo cinque anni di esilio riprende con gli italiani, tra montagne di spazzatura e di vergogna, il discorso di libertà esattamente dal punto in cui lo avevano forzato a interrompere.
Come ricorderete Enzo Biagi è il primo, nella lista di alcuni protagonisti della televisione italiana (tra cui Michele Santoro, Daniele Luttazzi) licenziati personalmente con un potere che non aveva - ma che alla Rai, tramite personale subalterno, è diventato immediatamente esecutivo - dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Molti di noi hanno frequentemente citato con scandalo la motivazione di quel licenziamento: «attività criminosa». Con queste parole Silvio Berlusconi che - ci viene detto - non è nemico ma solo avversario, intendeva descrivere ogni attività di opposizione. E a molti di noi è sembrato naturale definire “regime” la situazione politica in cui un governante vuole e può mettere a tacere chi non lo esalta.
Ora, cambiato il tempo, il governo - e, un pochino anche il Paese e la Rai - Enzo Biagi ritorna. E con la sua trasmissione dedicata alla Resistenza, nel senso originale del 25 Aprile e nel senso perenne del non piegarsi solo perché qualcuno è più ricco e potente e ti può anche mettere al bando, racconta con la sua implacabile pacatezza che esiste una Italia incompatibile con l’Italia libera e democratica evocata da quel giorno e descritta nei dettagli dalla Costituzione. E che non è questione di sentimenti (inimicizia o gentile confronto) ma di nessun punto di corrispondenza fra un’Italia e l’altra. Dice che non bastano né le lacune della memoria né la potenza dei media (tuttora in prevalenza orientati a non offendere un grande editore che può comprare tutto, e può comprare molti) a oscurare l’incompatibilità di un’Italia con l’altra.
Credo che possa essere utile confrontare il sommario della trasmissione con cui Biagi torna in Tv con l’articolo di fondo de Il Giornale (autore Massimo Teodori) dello stesso giorno. Quell’articolo celebra la buona accoglienza riservata a Berlusconi nei due congressi fondanti del nascente PD, ma poi elenca le tappe, che per l’autore sono esecrabili, della “delegittimazione di Berlusconi”. L’Italia di Biagi si apre con Roberto Saviano e la piovra della camorra con cui non si può convivere, si chiude con Tina Anselmi, mai dimenticata investigatrice della P2, passa attraverso la Resistenza come guerra partigiana e lotta al fascismo.
Ci fa riascoltare la voce limpida di Primo Levi che descrive con la famosa chiarezza come si distrugge un essere umano. Ascolta Vittorio Foa da giovane: si poteva non resistere?
E colloca al centro il magistrato Gherardo Colombo, verso cui molti italiani si considerano debitori (come verso tutto il Pool di Mani pulite) per la coraggiosa, tenace, difficilissima difesa della reputazione dell’Italia, mentre stava per essere ricoperta da un blob di corruzione tra i più vasti e più estesi al mondo.
Dunque, lo stesso giorno in cui è andata in onda la trasmissione-manifesto di Enzo Biagi, Massimo Teodori ha scritto: «La storia (della delegittimazione e demonizzazione del “nemico” politico, Ndr) cominciò dal colle più alto con Oscar Luigi Scalfaro che distorse i poteri presidenziali contro il premier». Come è noto «li distorse» per impedire che il plurinquisito Previti, ora condannato in via definitiva, diventasse ministro della Giustizia, evitando dunque un grave insulto alla Repubblica e all’immagine dell’Italia nel mondo. L’articolo di Teodori continua: «La storia proseguì con l’accanimento giudiziario in sintonia con l’ala giustizialista dei post-comunisti». Si capisce l’intento.
“Accanimento giudiziario” deve diventare il titolo di un capitolo della storia italiana, quello dei processi a Silvio Berlusconi. L’autore evidentemente conta sul fatto che a poco a poco smetteremo di insistere nel raccontare ciò che è avvenuto davvero e finiremo per dire che, sì, quelle gravissime imputazioni non erano che vaneggiamenti di giudici comunisti. L’affermazione viene dalla casa che non ha esitato a dire e a ripetere che «bisogna essere mentalmente tarati per fare i giudici».
Ma l’autore del fondo de Il Giornale implacabile continua:
«Infine i girotondi espressero, ai limiti del grottesco, quell’animus giacobino tanto gradito ai piani alti della politica illiberale e della gauche caviar, la cui nobile aspirazione era vedere in manette il parvenu della politica».
Poiché i girotondi sono mobilitazione spontanea, diventa interessante l’evocazione dei «piani alti della politica illiberale» che vuol dire: è illiberale chi invoca «la legge uguale per tutti» e denuncia le leggi ad personam che la rendono «legge di uno solo». La frase è affetta da palese assurdità fattuale, logica e storica. Ma Teodori ha un punto di forza su cui poggiare la sua costruzione orwelliana del “ministero della verità”. Dice infatti in conclusione: «Se il Partito Democratico servirà a tenere a freno le pulsioni antidemocratiche tanto radicate nei politici di sinistra (ovvero l’ostinazione a ripetere : “la legge è uguale per tutti”, Ndr) sarà un passo avanti per l’Italia civile e liberale». Sembra chiaro che qui si sta accennando all’Italia di Previti, Dell’Utri, Cuffaro, dei beneficiari di condono continuo, degli evasori lodati perché «a un certo punto diventa legittimo frodare il fisco», degli scrupolosi autori dei falsi in bilancio, di personaggi come il sindaco An di Trieste che ha sempre rifiutato di recarsi alla risiera di San Sabba dove fascisti e nazisti massacravano gli ebrei.
Del resto il capo di tutta questa gente mai si è fatto trovare - lui che è dappertutto - ad una celebrazione del 25 aprile durante i cinque anni del suo celebrato governo costellato di canzoni e di allegre passeggiate a Villa Certosa. L’Italia di Tina Anselmi, di Oscar Luigi Scalfaro, di Gherardo Colombo, dei girotondi ne ha fatto a meno.
Come si vede la questione - che è giusto ripetere nel giorno della Resistenza incoraggiati dal libero ritorno in video di Enzo Biagi - non è di buona educazione (anche se è bene mostrare buona educazione quando Silvio Berlusconi si presenta al congresso di un partito che ha appena finito di considerare autore di «delitti, morte e miseria»). È una questione di incompatibilità. L’Italia della Liberazione e della Costituzione è incompatibile con l’Italia della illegalità che ha cercato, senza successo, di cancellare il 25 aprile e metà della Costituzione italiana nata dal 25 aprile. La scelta fra queste due Italie è una decisione drammatica che tocca agli elettori. A noi spetta il compito di rendere chiara l’alternativa.
* l’Unità, Pubblicato il: 25.04.07, Modificato il: 25.04.07 alle ore 8.40
Perché è viva la Resistenza
di Enzo Collotti (il manifesto, 25.04.2007)
Che cosa resta del 25 aprile? Domandarselo è più che legittimo, nel frastuono e nella confusione della vita politica italiana in cui la fretta dei politici di cambiare pelle concede poco spazio alla riflessione sulle modalità dei cambiamenti e sul loro rapporto con le costanti della nostra storia che sono le linee guida dalle quali non si può derogare senza smentire le origini stesse della Repubblica.
E’ chiaro che a oltre sessant’anni da quel 25 aprile del 1945 non è riproducibile l’intensità con la quale la mia generazione ha vissuto il giorno della liberazione, dopo la lunga attesa dei giorni dell’occupazione nazista e dell’oppressione della Repubblica sociale nutrita non solo dalla Resistenza ma anche dalle aspettative per il futuro. Il ricambio delle generazioni comporta anche una diversa sensibilità nello sguardo con il quale si percepiscono i fatti storici costitutivi del nostro patto civile di collettività e non possiamo impedire che le nuove generazioni rivivessero con la distanza di oltre mezzo secolo, e quindi con un distacco non solo temporale, i momenti fondativi della Repubblica democratica.
E’ altrettanto inevitabile che oggi, salvo rarissime eccezioni, il personale politico proveniente per esperienza diretta dalla Resistenza sia di fatto scomparso dalla scena pubblica, mentre anche la maggior parte degli indicatori ci significano (a cominciare dalla scuola), che la stessa memoria familiare appartiene ormai a un passato irrevocabilmente superato. Mai come in un frangente di questa natura si deve avere coscienza che la sopravvivenza di quelli che chiamiamo i valori della Resistenza è affidata alla persistenza e alla continuità della memoria, che non è un prodotto spontaneo della somma delle memorie individuali ma un processo collettivo, sollecitato da una pluralità di soggetti, istituzionali e non.
Nel primo cinquantennio repubblicano i partiti politici - nati dall’esperienza dei comitati di liberazione - furono tra i soggetti collettivi naturali strumenti di trasmissione di quella tradizione, insieme a una pluralità di enti della vita associativa che concorrevano a compenetrare la società di quei valori e ideali. La lacerazione di quel tessuto politico e associativo, in questa infinita transizione italiana, ha disperso un patrimonio politico-culturale che fa fatica a ricostituirsi e identificare le sedi stesse del suo insediamento sociale. I partiti politici anche nelle nuove configurazioni, la scuola, l’associazionismo rimangono le sedi privilegiate per custodire e alimentare questa memoria, in una prospettiva ormai di lunga durata ma anche come risvolto di una prassi operativa, nella misura in cui sono valori della Resistenza i vincoli pratici e le regole che devono governare la nostra convivenza e ispirano la nostra direzione di marcia. Soltanto se continuiamo a essere consapevoli di quanto è stata aspra la lotta per sottrarci alla dittatura fascista e nazista, per restituirci le libertà democratiche e consentirci l’elaborazione della Costituzione, restituiremo alla Resistenza il significato di un evento storicamente motivato nel suo naturale contesto temporale e epocale e ridaremo ai valori della Resistenza con la loro materiale evidenza il senso della loro attualità e della loro permanente necessità.
Il 25 aprile rimane un fatto fortemente simbolico, uno di quei punti fermi dei quali ogni collettività ha bisogno come punto di riferimento, ma non è principalmente sui miti e sui riti che si deve alimentare la memoria della Resistenza. Essa sarà viva se gli indirizzi politici saranno improntati a quei valori essenziali per i quali in Italia e in Europa migliaia di uomini e donne hanno sacrificato la loro esistenza per rivendicare la propria autonoma responsabilità e il diritto di partecipazione, il rispetto della dignità dell’uomo, l’aspirazione alla giustizia sociale e all’eguaglianza, l’utopia di una Europa pacifica e pacifista. Una tavola di valori che si trova scritta nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza, italiana e europea, il libro che vorremmo fosse letto dalle generazioni più giovani.