«Non conosci la storia»
Scalfari-Spinelli, fine di un idillio
di Luca Mastrantonio (Corriere della Sera, 16.12.2013)
Ieri Eugenio Scalfari ha scomunicato Barbara Spinelli per le dure critiche al presidente Giorgio Napolitano. Spinelli è rea, scrive il fondatore di «Repubblica», di conoscere «poco o nulla» della Storia d’Italia, «quando pensa e scrive che la decadenza cominciò negli anni Settanta del secolo scorso e perdura tuttora».
Questo Paese - Scalfari ha sentito il bisogno di ricordare - «è un Paese dove parte del popolo è incline e succube di demagoghi di ogni risma». Per questo, sostiene, è sbagliato credere che «il grillismo» vada «sperimentato», come auspica Spinelli (che assieme a altri intellettuali ha più volte appoggiato l’ipotesi di un’alleanza tra Pd e Beppe Grillo).
Prima della condanna, ecco le prove d’accusa. Scalfari fa riferimento agli «appunti su Napolitano affidati alla “recitazione” di Marco Travaglio», contenuti nel libro Viva il re! (Chiarelettere), dove Spinelli racconta retroscena e particolari che riguardano gli scambi epistolari e il colloquio avuto di persona con il Presidente della Repubblica nel 2009: il Napolitano ritratto da Spinelli-Travaglio è una specie di imitazione di Maurizio Crozza.
Scalfari, in nome del padre (di Barbara Spinelli), è però pronto a rimetterle questi peccati: «Ti assicuro che da questo momento in poi cancello dalla mia memoria quanto ho ora ricordato. Voglio solo pensare il meglio di te». E cioè? «Che sei la figlia di Altiero Spinelli», spiega prima di indicare la salvifica penitenza: «Ricordalo sempre anche tu e sarà il tuo maggior bene».
Spinelli, raggiunta telefonicamente, non ha voluto commentare. Lei, che lasciò «La Stampa» nel 2010, perché giudicata troppo morbida con Berlusconi, passerà al «Fatto quotidiano»? «Non voglio dire assolutamente niente», risponde. È restata sorpresa dei toni di Scalfari e dal riferimento paterno? «Non voglio dire assolutamente niente».
Curiosità: nel libro di Travaglio (p. 25) è introdotta così: «Barbara Spinelli ben conosce il capo dello Stato perché figlia di Altiero Spinelli, politico e pensatore considerato uno dei padri dell’Europa unita, a cui Napolitano era legato da uno stretto rapporto di solidarietà politica».
Gad Lerner, sul blog, ha parlato di «ramanzina impropria e di pessimo gusto», giudicando «sgradevole la sufficienza» di Scalfari verso Barbara Spinelli.
Ma al di là delle «sgradevoli» questioni di genere patriarcale, il divorzio Scalfari-Spinelli, come lo scontro che Scalfari ebbe con Stefano Rodotà, è sintomatico di un cambiamento di schema: con Matteo Renzi, Enrico Letta, Napolitano e Grillo (che non sa politicamente dove andare), le carte si sono sparigliate.
È finita l’egemonia politica-mediatica berlusconiana, ed è in crisi, sistemica, l’annessa e redditizia filiera antiberlusconiana. Il fronte unico anti-Cav non è più compatto, le battaglie «civili» sono intestine alla sinistra e spesso «incivili».
Risposta a Scalfari
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 16.12.2013)
Sono stupita dalle parole che Eugenio Scalfari dedica non tanto e non solo alle mie idee sulla crisi italiana ma, direttamente, con una violenza di cui non lo credevo capace, alla mia persona.
Violento è infatti l’uso che fa di Altiero Spinelli, del quale nessuno di noi può appropriarsi: chi può dire come reagirebbe oggi, di fronte alle rovine d’Italia e dell’Europa da lui pensata nel carcere dove il fascismo l’aveva rinchiuso, e difesa sino all’ultimo nel Parlamento europeo?
Non ne sono eredi né Scalfari, né il Presidente della Repubblica, e neppure io. Il miglior modo di rispettare i morti è non divorarli, il che vuol dire: non adoperarli per propri scopi politici o personali. Mi dispiace che Scalfari abbia derogato a questa regola aurea.
Quanto al Movimento 5 Stelle, io dico che va ascoltato: non è solo l’Italia peggiore che ha votato per lui a febbraio. Senza la sua scossa il discorso pubblico continuerebbe a ignorare la crisi dei partiti, i modi del loro finanziamento, l’abisso che li separa dalla loro base.
Mettere M5S sullo stesso piano di Marine Le Pen o di Alba Dorata più che un errore è una controverità. È anche un gesto di intolleranza verso chi la pensa diversamente.
In proposito vorrei dire un’ultima cosa: è inutile e quantomeno scorretto accusare Grillo di condannare alla gogna i giornalisti, quando all’interno d’una stessa testata appaiono attacchi di questo tipo ai colleghi.
Cara Barbara, come ti avevo promesso ieri, io ho già dimenticato le cose per me sgradevoli che ho ascoltato nella trasmissione di Travaglio e quelle che tu hai scritto su Grillo sul nostro giornale. L’unica cosa che non dimentico è il mio antico affetto nei tuoi confronti.
Eugenio Scalfari
Le oligarchie e il suicidio delle vecchie sinistre. «La vittoria del tycoon è frutto di rigetto dell’establishment globalizzato e delle sue politiche neoliberali»:
(...) Il guaio è che la vecchia sinistra non crede di vivere il sonno della ragione. Crede d’incarnare la ragione ed esser più sveglia di tutti gli altri (Barbara Spinelli, Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2016)
I Forconi e i luoghi della vita di Barbara Spinelli (la Repubblica, 18.12.2013)
FIN qui abbiamo visto come in uno specchio, in maniera confusa, l’impoverirsi italiano: lo leggevamo nella scienza triste delle statistiche, delle percentuali. Ora lo vediamo faccia a faccia: è l’insurrezione formidabile, generalizzata, di chi patisce ricette economiche che piagano invece di risanare.
Non è insurrezione pura, anzi il contrario. Non è collera di operai ma dei più svariati mestieri, perché tutti precipitano, anche il ceto medio che s’immaginava scampato e tanto più si sgomenta. In molte regioni il movimento è agguantato dalle mani predatrici della destra estrema, o berlusconiana, o leghista.
Già sei anni fa, il Censis avvertì governi e politici: attenzione - disse - l’Italia è una “poltiglia” che ha smesso di sperare nel futuro, non potete far finta di niente. Prima ancora, fra il 2003 e il 2004, nacque la canzone che divenne emblema del sito di Grillo ed è oggi parola ricorrente del movimento 9 dicembre: «Non ce la faccio più!». Qualche mese fa sui muri di Atene comparve una scritta, contro l’Unione europea, che echeggia il nuovo antieuropeismo italiano: «Non salvateci più!». È detta rivolta dei forconi, perché volutamente rimanda alle jacquerie contadine del ’300. Neppure questa è una novità. La crisi frantuma la società, il vecchio scontro fra chi nella scala sociale stava sopra e chi sotto è soppiantata dall’atroce separazione tra chi sta dentro i castelli signorili e chi è fuori: escluso, non visto, non più rappresentato, ignaro della vecchia contrattazione perché il sindacato protegge i protetti, non chi è allo sbando. Hilary Mantel, scrittrice inglese, sostiene che gli inglesi son ricaduti nel Medio Evo: «La povertà è di nuovo equiparata a fallimento morale e debolezza, e l’assistenza pubblica anziché un diritto è un privilegio».
C’è di tutto, nel tumulto degli impoveriti: i piccoli commercianti che non rientrano dallo scoperto bancario, gli artigiani senza soldi per pagare le tasse e puniti dai tassi usurai praticati da Equitalia, i proletari giovanili del precariato, gli autotrasportatori, e il popolo delle partite Iva che usava evadere, che votava Lega, ed è ora sul lastrico. Non stupisce che nel movimento si attivino destre eversive come Forza Nuova o CasaPound. La Casa della Legalità a Genova sospetta infiltrazioni mafiose a Torino, Imperia, Ventimiglia, Savona. Alcuni inneggiano a governi militari, come in Grecia. Andrea Zunino, agricoltore, rappresenta solo se stesso ma si proclama leader e confessa, a Vera Schiavazzi su Repubblica, la sua ammirazione per la dittatura nazionalista e xenofoba del premier ungherese Orbàn. Si domanda, anche, come mai «5 o 6 tra i più ricchi del mondo siano ebrei».
Lo sguardo lungo della storia è utile, per ascoltare e capire la storia mentre si fa. Forse più dello sguardo degli economisti, disabituati a pensare l’uomo quando dice, nel sottosuolo, «non ne posso più». Jacques Le Goff, non a caso specialista del Medio Evo, denunciò già nel ’97 la nefasta smemoratezza storica degli economisti: «Una lacuna tanto più disdicevole se si pensa che la maggior parte degli stessi economisti, che hanno acquisito nelle nostre società e presso i governi europei e mondiali un’autorità spesso eccessiva e a volte ingiustificata, non hanno una buona conoscenza della storia economica e, cosa ancor più grave, si preoccupano poco della dimensione storica».
Anche l’apparire di un personaggio come Pierre Poujade, negli anni ’50 in Francia, sorprese le élite dominanti quando si mise alla testa di una vastissima rivolta di piccoli commercianti e artigiani fino allora trascurati. Anche quel movimento, effimero ma per alcuni anni possente, covava sporadici pensieri fascistoidi, antisemiti (il bersaglio era il premier Mendès France, «non autenticamente francese»). Gli intellettuali lo stigmatizzarono, da Roland Barthes a Maurice Duverger. Più fine e terribilmente attuale il giudizio che diede lo storico-geografo André Siegfried: figli reietti della deflazione, i poujadisti «si dibattono nel chiasso, con i gesti disordinati della gente che annega».
Qui si ferma tuttavia il paragone. Poujade spuntò nell’era della ricostruzione e del Piano Marshall, a partire dal 1953. Lottava contro le trasformazioni di una crescita forte: le prime catene di supermercati che bandivano i negozi tradizionali, e le tasse innanzitutto, chedopo la Liberazione misero fine a tanti vantaggi - penuria, prezzi alti, mercato nero - accumulati in guerra dal piccolo commercio. Ben altro clima oggi: c’è deflazione, ma senza trasformazioni e senza vere rappresentanze locali. È una discesa di tutti, tranne per i ricchissimi.
Forse per questo viene meno il mito della Piazza, caro a Poujade. La piazza romana divide i capi dell’odierno movimento, e i più temono infiltrazioni neofasciste. La parola che usano di più è “presidio”. Importante non è sfilare davanti al centro del potere ma presidiare i propri territori, i“pochi metri quadrati di pavimento” di cui parla Kafka, su cui a malapena stanno diritti.
Ma, soprattutto, quel che manca oggi alla rivolta è un’egemonia culturale e politica che la interpreti e non la sfrutti elettoralmente. Il poujadismo fu all’inizio egemonizzato dai comunisti, che presto si ritrassero. Poi fu De Gaulle ad assorbirlo. La partitocrazia esecrata dai poujadisti fu lui a spegnerla, creando una repubblica presidenziale; e poté farlo perché nella Resistenza era stato uomo senza macchia, capace di incarnare il meglio e non il peggio della nazione, di redimerla e non di inchiodarla ai suoi vizi. Non così da noi: specie nell’ultimo trentennio.
Sono tante le colpe di chi ha lasciato gli impoveriti senza rappresentanza e senza futuro. “Troppo volgare è stato l’esodo della sinistra, di tutte le sinistre, dai luoghi della vita”, scrive Marco Revelli sul Manifestodel 12 dicembre, e pare di riascoltare l’economista Federico Caffè quando deprecava il «mito della deflazione risanatrice » e l’indifferenza dei politici, degli economisti, degli stessi sindacati, a chi questo mito lo pagava immiserendosi.
Gli adoratori del mito fanno capire che non c’è niente da fare: altra medicina non esiste. Mario Monti quand’era premier invitò addirittura a rassegnarsi: una generazione è perduta. La realtà è ancora più cupa, se pensiamo che in Italia i Neet (le persone che non lavorano né studiano - Not in Education, Employment or Training) sono il 27% fra i 15 e i 35 anni, non fra i 16 e i 25 come si calcola in altre democrazie: vuol dire che stiamo parlando ormai di due generazioni perdute, non di una sola.
C’è da fare invece, se si aprono gli occhi su quel che accade nei luoghi della vita (sono questi i «presìdi»), e non si trasforma la rivolta in mero affare di ordine pubblico. Se la sinistra non lascia alle destre il monopolio su una disperazione in parte poujadista e regressiva, in parte assetata di giustizia e uguaglianza di diritti. Se si tira la gente verso l’alto e non il basso; verso l’Europa da cambiare e non verso la bugia dell’assoluta sovranità nazionale. È un insulto al movimento bollarlo come fascista, ma anche abbracciarlo con euforica, ipocrita, e finta acquiescenza. Senza linguaggio di verità, inutile sperare in un’egemonia culturale che aiuti a pensare chi insorge. È quel che tenta Paolo Ferrero, quando adotta il parlar-vero e dice al movimento: in fondo la vostra è una battaglia subalterna al liberismo che combattete; è dal liberismo che attingete i vostri slogan anti- statalisti, anti-tasse, anti-sindacato.
Non ha torto: molto accomuna i nuovi movimenti italiani al moderno tea party americano, oltre che al poujadismo di ieri. Meglio schiodarsi da simili model-li, se non si vuol restar prigionieri di un nazionalismo che vuol liquidare il Welfare, e che non aiuterà chi soffre la povertà e la perdita dei diritti.
Direttore Scalfari perché l’hai fatto?
Barbara Spinelli ha ragione. Esistono forse bersagli leciti e bersagli illeciti?
C’è qualcuno al di sopra di ogni giudizio, di ogni voce critica?
di Sandra Bonsanti (il Fatto, 17.12.2013)
È un momento di grande amarezza quello in cui si è costretti a prendere parte fra persone che si è sempre rispettato e ammirato e che sono entrate in conflitto fra loro su questioni di fondo, che riguardano i principi che ci hanno sempre guidato nella vita e la storia da cui siamo nati. Lo scontro tra Eugenio Scalfari e Barbara Spinelli è qualcosa che va ben oltre la rottura di un’antica amicizia. Coinvolge in pieno il giudizio morale e politico che si dà sulle istituzioni, sulle radici del distacco fra la società e i partiti, su cosa sia stato il berlusconismo e come e se e da chi sia stato ostacolato. E su come si debba agire oggi, in questi giorni difficilissimi.
Per questo non si può tacere. Per questo dico che Barbara Spinelli ha ragione e che il mio amato direttore (...) ha torto. Sbaglia non solo nel giudizio politico ma anche in quello di fondatore del giornale su cui oggi scrive Barbara. Cosa c’è all’origine di tutto? Due sono in sostanza le contestazioni. Dice Scalfari di aver ascoltato gli appunti di un incontro tra Barbara e il presidente Napolitano “affidati alla recitazione di Travaglio”. Accusa la giornalista di essersi espressa a sostegno della possibilità di “sperimentare” il grillismo. È chiaro che il problema è uno solo: Scalfari è tra coloro che pensano che il Quirinale in questi anni sia stato senza peccato nel compito di presiedere il Paese, che anzi sia stato un baluardo contro derive di ogni genere e che lo sia tuttora. La Spinelli ha seguito invece la vicenda italiana con un distacco che spesso si è fatto voce critica nei confronti del Quirinale. Non solo per la gestione della vicenda della trattativa indagata dalla Procura di Palermo, ma anche per il modo in cui sono state contrastate in tempi diversi le reazioni alle iniziative legislative di Berlusconi. Napolitano incontra Barbara il 26 gennaio 2009 e un resoconto di quel colloquio è raccontato nel prologo di Viva il Re! di Marco Travaglio.
NON È STATO facile in questi anni criticare Napolitano: l’establishment romano ha accusato ogni critica di populismo e ha sospinto con durezza ogni criticità nel recinto dell’antipolitica. Qualcosa di simile è accaduto anche a Libertà e Giustizia. Lo testimoniano i riferimenti alla nostra associazione negli articoli di Emanuele Macaluso, gli affettuosi avvertimenti di vecchi amici. (...). Certo sarebbe facile dire che alla base di tutto c’è proprio il giudizio su Berlusconi, sulla pericolosità di non affrontarlo nettamente e duramente, sui “no” che non sono stati detti, sulle brecce aperte e lasciato che si allargassero sempre di più. Per arrivare, come si è arrivati, alla finta pacificazione nazionale impersonata dalle larghe intese. Fino ad arrivare alla sollecitazione a cambiare la Costituzione in parti fondamentali, persino a consentire che tutto avvenisse senza tener conto dell’art. 138, somma garanzia della nostra Carta.
Abbiamo anche noi di LeG avuto i nostri scontri. Abbiamo cercato di rispondere ai nostri soci, alle loro critiche e ai loro apprezzamenti, e alla nostra coscienza. Ma attaccare la giornalista Spinelli nel fondo domenicale del suo giornale, con quelle parole e quelle motivazioni... Direttore, perché l’hai fatto? Esistono dei bavagli leciti e dei bavagli illeciti? Esiste qualcuno al di sopra di ogni giudizio, di ogni sospetto, di ogni voce critica e non nemica? L’epoca che stiamo attraversando non è già abbastanza barbara senza che arrivino scomuniche e amarezze di questo genere? Che speranza può esserci di tornare a essere un Paese democratico quando si chiede alle voci migliori di tacere, in quanto inopportune e certamente ignoranti?
Caro direttore, so che tuo padre ti portò giovanetto nello studio di Mario Ferrara e a lui ti affidò perché seguisse i tuoi primi passi. Mario Ferrara, che ricordando Giovanni Amendola nel 1956 scrisse la più bella definizione del giornalismo: “Che cos’è in fondo un giornale? Molti di voi non lo sanno, molti di voi lo apprenderanno forse un giorno. Un giorno, se in quelle pagine che escono, in quelle poche parole irte di errori di tipografia, se in quei fogli alita spirito di verità, una volontà di credere e di sperare, essi si difenderanno e saranno un alimento e una speranza per tutti. Se viceversa essi conterranno la subdola menzogna, essi saranno un atroce veleno che ancor prima dell’avvento del fascismo e in venti anni di dittatura fascista ha avvelenato le coscienze degli italiani”. I tempi bui che forse ci aspettano hanno anche oggi bisogno di spirito di verità. Le menzogne sono il veleno.
Un’impropria ramanzina di Scalfari contro Barbara Spinelli
di Gad Lerner ( blog, domenica, 15 dicembre 2013)*
Come già avevo segnalato sul blog la settimana scorsa, Barbara Spinelli ha scelto di confidare a Marco Travaglio le vicissitudini dei suoi colloqui e scambi epistolari privati con il presidente della Repubblica, in sintesi, i dissensi e le dure reprimende subite da Giorgio Napolitano.
Il tutto è riportato nella parte iniziale di “Viva il re”, nuovo libro di Travaglio per l’editore Chiarelettere. La vicenda ha oggi uno strascico nell’editoriale domenicale di Eugenio Scalfari su “La Repubblica” che critica aspramente la Spinelli accusandola di eccessiva indulgenza per Grillo. Che si manifestino dissensi fra personalità che scrivono per lo stesso giornale non solo è fisiologico, è anche salutare. E in questo caso tali dissensi, per esempio sul ruolo istituzionale e politico svolto da Napolitano, rispecchiano dilemmi e lacerazioni interne all’elettorato progressista. Ma ho trovato assai sgradevole la sufficienza con cui Scalfari si rivolge a Barbara Spinelli: “Ti assicuro che da questo momento in poi cancello dalla mia memoria quanto ho ora ricordato. Voglio solo pensare il meglio di te a cominciare dal fatto che sei la figlia di Altiero Spinelli. Ricordalo sempre anche tu e sarà il tuo maggior bene”.
Trovo che si tratti di una ramanzina impropria e di pessimo gusto, anche se proviene da un grande giornalista.
Repubblica
La gogna per i giornalisti: Scalfari contro Spinelli *
Chissà se oggi i giornali e i tg, l’Ordine dei giornalisti e la Federazione della stampa, ma anche il premier Letta e la presidente della Camera Boldrini, denunceranno la nuova “gogna per giornalisti” e solidarizzeranno con la vittima. L’interrogativo sorge spontaneo, visto che la gogna non l’ha allestita Grillo contro una penna ostile ai 5 Stelle, ma Eugenio Scalfari contro Barbara Spinelli, la più prestigiosa editorialista di Repubblica, cioè del suo stesso giornale.
Finora soltanto Gad Lerner, anche lui firma illustre del quotidiano, ha osato criticare sul suo blog la “ramanzina sgradevole, impropria e di pessimo gusto”. Diversamente dal blog Grillo, che pubblica stralci di articoli menzogneri e poi ne smonta il contenuto (talvolta insultandoli, come con la Oppo, talvolta no, come con Merlo e Battista), Scalfari fa di peggio. Insulta chi si permette di criticare Napolitano (“il fuoco dei cannoni da strapazzo... spara Grillo, spara Travaglio, spara perfino Barbara Spinelli”). Ma non cita mai quelle critiche per contestarle nel merito, forse nel timore che i lettori le condividano. Il peccato mortale della Spinelli è di non aver partecipato alla demonizzazione di Grillo e soprattutto di aver raccontato a Marco Travaglio, per il libro “Viva il Re!”, uno scambio di lettere e un incontro con Napolitano. Ma questo i lettori di Repubblica non devono saperlo, dunque Scalfari non lo dice. Le scrive invece di aver “ascoltato i tuoi appunti su Napolitano affidati alla ‘recitazione’ di Travaglio”. Allusione all’ultima puntata di Servizio Pubblico, in cui Travaglio non ha mai recitato alcunchè: semplicemente Santoro ha affidato a un’attrice la lettura di alcuni brani dell’intervista alla Spinelli contenuta nel libro.
Invece di smentire, casomai ci riuscisse, l’allergia di Napolitano alle critiche della libera stampa descritta e documentata dalla Spinelli, Scalfari attacca personalmente la editorialista dandole dell’ignorante (“conosce poco o nulla la storia d’Italia”). Le ricorda che è “figlia di Altiero Spinelli” perchè questo è il suo “maggior bene”, manco fosse una ragazzina che deve presentarsi accompagnata dai genitori e chiedere il loro permesso per scrivere e per pensare. Infine la informa di aver “cancellato dalla mia memoria” quanto ha scritto su Grillo e detto su Napolitano. Per molto meno, c’è chi verrebbe accusato di fascismo, squadrismo, gogna, liste di proscrizione, macchina del fango, misoginia e sessismo.
Se Barbara non fosse una signora, potrebbe ricordare a Scalfari - come fece Giorgio Bocca che è figlio di un croupier del casinò di Sanremo, o - come fanno in pochi - che da giovane era caporedattore di “Roma Fascista”. Si attende comunque con ansia l’intervento del governo, del Parlamento, del Quirinale e possibilmente dell’Onu per il vile attentato alla libertà di stampa.
* il Fatto 16.12.2013