Il coma dell’anima
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 29.03.2009)
Non è solo il corpo a esser sequestrato, dalla legge che il Senato ha approvato sul testamento biologico. Molte cose giuste sono state scritte sullo Stato espropriatore, ma la presa di possesso oltrepassa l’organico.
È la vita a essere sequestrata, nel suo scabroso intreccio tra materia e spirito, corpo e anima. Più precisamente, è l’idea che da millenni ci facciamo del vivere bene, che non è mero vegetare ma vivere pensando, ragionando, capendo chi soffre. In questo viver bene, il pensiero della morte è, oltre che centrale, il più vitale dei pensieri. Non è il finale segmento della strada terrena, ma quel che le dà profondità, sapore. Per la filosofia antica, a cominciare da Platone, l’esistere saggio consiste proprio in questo: nel prepararsi alla morte, l’anima impara a esser «tutta raccolta in sé»; s’abitua a vivere «senza impacci», più liberamente sceglie la virtù.
Socrate parla nel Fedone di questo prepararsi e lo chiama esercizio di morte, melete thanatou: allenamento, meditazione. Un po’ più tardi, Seneca e Marco Aurelio diranno che ci si allena vivendo ogni giorno come fosse l’ultimo: non per fatalismo ma per aguzzare l’intelligenza, la perfezione.
Posso vivere bene o male il mio giorno: ma se è l’ultimo il bene peserà di più e anche il male, non potendolo più riparare. Il testamento biologico doveva essere proprio questo: una preparazione del fine vita e un ripensare la vita stessa, un rammemorarla, un predisporre autonomamente la sua conclusione in caso di non-coscienza, senza ledere il prossimo e senza dipendere da tutori non scelti. Doveva essere un esercizio di morte: un atto del vivere bene.
La legge approvata in Senato, se non sarà cambiata dalla Camera, non lo permette. La Dichiarazione anticipata non è vincolante (articolo 7 della legge), e contro la nostra volontà dovremo esser nutriti e idratati artificialmente. La legge e lo Stato non si limitano a gestire al nostro posto i corpi, ma meditano, si esercitano, vivono insomma, al nostro posto. Chi si esercita a morire è sentinella - il verbo greco ha la stessa radice. Vivere bene è vigilare su di sé, darsi da soli una legge (questo è: auto-nomia). È lo Stato a divenire ora sentinella, non solo ai confini d’un territorio geografico ma alle frontiere stesse dell’essere. Diventa bio-potere, bio-politica: due parole che Michel Foucault coniò nei primi Anni 70, quando studiò la clinica e la metamorfosi della medicina. Il sovrano che decide della vita e della morte non lascia solo vivere ma «fa vivere»: complice della tecnica, della scienza, di una Chiesa sbandata, determina i cicli vitali. Beppino Englaro non ha torto quando dichiara: «Adesso lo Stato si crede Dio». Fini, parlando della legge ieri al Congresso Pdl, ha ammonito contro lo Stato etico e l’abbandono dello Stato laico.
Molto più del corpo è dunque in gioco. Sono in gioco l’essere dell’uomo e l’antichissima arte medica, già in mutazione secondo Foucault dalla fine del ’700. È quel che fa capire Umberto Veronesi, quando il 18 marzo dice in Senato: «La medicina tecnologica moderna è in grado di spostare il termine della vita al di là della morte naturale, introducendo una vita artificiale che permette agli organi del corpo umano di rimanere vitali, anche senza attività cerebrale, senza coscienza, senza pensiero, senza vista, udito, parola». Nutrimento e idratazione forzati dei comatosi non sono trattamenti terapeutici ma «forme di sostegno vitale», dice la legge, e anche questo è opinabile. Il trattamento forse non è terapeutico ma di sicuro è sanitario (Veronesi ha descritto crudamente l’inserimento di tubi nei corpi), e fa violenza anch’esso alla natura e a Dio. Foucault parla, a proposito della nascita della clinica, della fine della medicina aspettante e dell’avvento della medicina interventista, tecnologica. Il medico aspettante non rompe il rapporto con la natura. Spera di dominarla meglio, ma conosce il limite, non punta ad annullare la morte, la sua necessità. I rivoluzionari del ’700 crearono le cliniche non solo istituendo un nuovo clero - i medici pagati con i beni confiscati alla Chiesa - ma presumendo addirittura di abolire la malattia.
Quando lo Stato s’impadronisce dell’esercizio di morte non nega all’uomo solo la libertà. Gli toglie la responsabilità: quella di riconoscere la finitezza dell’essere. Per questo non è appropriato parlare esclusivamente di diritti calpestati. Calpestato è il senso del dovere che impregna il viver bene, se è vero che il pensiero della morte, per chi voglia redigere il più importante dei testamenti (quello che riguarda non gli averi, ma l’essere) è meditazione sul proprio presente e memoria di una vita fatta di emancipazioni.
Il contrario dell’esercizio di morte è l’indifferenza e dunque più fondamentalmente: la perdita di controllo su di sé, l’anticipato coma dell’anima. Per lo Stato che monopolizzando ogni cosa si sostituisce alla natura, il cittadino comatoso è l’ideale. Non contano l’uomo e i suoi modi scritti o verbali di allenarsi alla morte. Conta il corpo nudo, «gettato lontano» nelle cliniche, come scrive Rilke nel Malte Laurids Brigge. Contano il sovrano, e le macchine con cui esso piega la volontà delle persone. Quella che viene strappata all’uomo, in realtà, è la condizione di maggiorità (la sua Mündigkeit, direbbe Kant). Non a caso il sottosegretario Eugenia Roccella paragona il comatoso irreversibile, trafitto anche senza volerlo da sonde nutritive, a un neonato nutrito col biberon.
Chi immaginava un vero testamento biologico dovrà ricordarlo. Come quel neonato dovrà vedersi da ora in poi allo specchio, se la legge passerà: infantilizzato, dotato di diritti dell’infanzia ma gettato nella prigione del coma senza aver potuto sventare in tempo lo stato di minorità. Dovrà vedersi non come bamboccione ma addirittura come lattante, titolare di diritti ma privo di responsabilità.
La maggiore età è per Kant la facoltà che ciascuno possiede di determinare se stesso, di parlare e pensare per proprio conto in indipendenza e libertà, di sfuggire la minorità. È così comodo esser minorenni, e lusinghiero per chi ci vorrebbe poppanti: «A far sì che la stragrande maggioranza degli uomini (e con essi tutto il bel sesso) ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltreché difficile, anche molto pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra costoro. Dopo averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito che queste pacifiche creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui le hanno imprigionate, in un secondo tempo mostrano a esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole» (Kant, Risposta alla domanda: cos’è l’Illuminismo?).
Chi aspira alla maggiorità si guarderà dall’esaltare valori supremi, che sempre hanno qualcosa di guerresco: abbassando ogni altro valore, il Valore Supremo diventa Unico. Il bello delle costituzioni è di ammettere le contraddizioni (c’è il valore della vita, ma anche il rispetto dell’autodeterminazione personale). Trovare un equilibrio tra valori significa non vederne più di supremi. È una delle forme del viver bene, e della laicità.
Vivere bene vuol dire anche, per chi auspica veri testamenti biologici, ascoltare punti di vista diversi (come fa la Costituzione). È vero che togliere cibo e acqua è rischioso eticamente: se mi affido a un medico, devo non temere - lo diceva il filosofo Jonas - che si trasformi in boia, servendo magari interessi estranei (i trapianti, il desiderio di sbarazzarsi dei vecchi in società senescenti). È vero che urge perfezionare le terapie del dolore, perché spesso più che morire temiamo il soffrire. Sono obiezioni sostanziali; vanno ascoltate: purché il malato non sia ridotto a lattante.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
la Repubblica, 29.03.2009
Englaro: la legge è un’offesa alla libertà dei cittadini
FIRENZE - «Più che un’offesa a Eluana, il ddl sul testamento biologico è un’offesa alle libertà fondamentali di tutti i cittadini». Lo ha detto Beppino Englaro durante una conferenza stampa a Firenze, città che domani gli conferirà la cittadinanza onoraria. Il padre di Eluana ha poi usato le parole del presidente della Camera Gianfranco Fini pronunciate dal palco del Pdl per affermare che il ddl sul biotestamento è «più da stato etico che laico».
Englaro ha poi replicato all’arcivescovo Giuseppe Betori che aveva criticato fortemente la decisione del Comune (22 voti contro 16) di nominarlo cittadino onorario. «Ho il massimo rispetto per le istituzioni religiose - ha commentato Englaro - ma penso che loro non abbiano il massimo rispetto per me».
Il padre di Eluana, ha ricevuto a Palazzo Vecchio a Firenze la cittadinanza onoraria. E’ stato accolto da un lunghissimo applauso dei politici e cittadini presenti. Contemporaneamente i consiglieri comunali del Pdl sono usciti dall’aula per protestare
Beppino EnglaroLa cittadinanza onoraria di Firenze consegnata oggi a Beppino Englaro è in realtà "stata consegnata ad Eluana, che era ribelle come è ribelle da sempre Firenze". Così il padre della ragazza morta dopo 17 anni di coma ha ringraziato il Consiglio comunale fiorentino che oggi, riunito in seduta straordinaria, gli ha consegnato il riconoscimento e il Giglio d’Oro. La cerimonia è stata presieduta dal presidente dell’ Assemblea Eros Cruccolini mentre la motivazione è stata letta dall’assessore alla cultura Eugenio Giani. Assente il sindaco Leonardo Domenici, a Roma per l’Anci. E assenza polemica anche dei consiglieri del centrodestra che sono usciti nel momento in cui Cruccolini ha dichiarato aperto il Consiglio straordinario.
All’arrivo di Englaro il pubblico ha cominciato a gridare ’bravo’ e ’c’è bisogno di persone cosi", mentre ai consiglieri del Pdl lo stesso pubblico diceva ’fuori’. Un uomo, medico, ha cercato di esporre un cartello con scritto ’Firenze inneggia alla morte’ ma è stato bloccato dai vigili.
Englaro: "Questa onorificenza è per Eluana". "L’irriducibilità per la libertà che è nel Dna dei fiorentini era anche nel Dna di Eluana - ha proseguito Beppino Englaro - e quindi lo spirito fiorentino e quella di mia figlia sono in perfetta armonia: sono irriducibili contro tutte le forme di oppressione e di autoritarismo", e soprattutto pronti a lottare per "la libertà contro tutti gli oppressori". Englaro nel suo intervento ha ringraziato il presidente del Consiglio comunale Cruccolini, il capogruppo del Ps, Alessandro Falciani, che aveva presentato la mozione per la cittadinanza onoraria, e anche il sindaco.
Il Pdl lascia l’aula. All’inizio della cerimonia i consiglieri comunali del Pdl sono usciti dall’aula per protestare contro il conferimento dell’onorificenza. I rappresentanti del gruppo in consiglio hanno consegnato a Beppino Englaro una lettera per spiegare le loro motivazioni. "Abbiamo rispetto - scrivono gli esponenti del centrodestra nella lettera - per il dramma personale da lei vissuto con grande sofferenza, ma non riteniamo che esso possa costituire titolo per l’ottenimento di una cittadinanza onoraria. La decisione assunta, a maggioranza, è stata improvvida e improvvisa. Il consiglio le conferirà la cittadinanza sulla base di motivazioni non condivise dall’intera città compiendo una forzatura che non ha altra spiegazione se non forse quella di voler apportare con un atto simbolico il proprio irresponsabile contributo alla campagna di legittimazione dell’eutanasia. La cittadinanza - conclude la lettera - sarà moralmente dimezzata".
"Per capire il dramma di Eluana occorre tempo". A chi gli chiedeva cosa pensasse dei consiglieri del Pdl che hanno abbandonato l’aula quando è iniziata la seduta straordinaria, mentre suonavano le chiarine, Beppino Englaro ha risposto: "Ho i massimo rispetto per queste persone, sono problematiche molto difficili e serve un approfondimento. Io stesso - ha aggiunto - ci ho messo molto tempo a capire. Non mi meraviglio, è l’argomento del fine vita che è tremendo e spacca le coscienze. Sarà il tempo a chiarire". Poi, al termine della cerimonia ha ricordato la gita fatta con la moglie e Eluana a Firenze "nell’89 o il ’90: Eluana era rimasta affascinata da Firenze - ha concluso - ma come si fa a non rimanere affascinati della nostra citta’".
* la repubblica,/Firenze, 30 marzo 2009
Don Santoro: "Il Vangelo parla d’amore nel mio vescovo questo amore non l’ho visto"
Don Santoro lo saluta e dice: in questa chiesa non mi riconosco più. Un’ora di colloquio col sindaco Domenici che firma la cittadinanza. Incontri all’Isolotto, alle Piagge e al Puccini. Oggi in consiglio comunale
di Simona Poli
Le baracche di Enzo Mazzi all’Isolotto, quelle di don Santoro alle Piagge. E’ questa la Firenze che accoglie Beppino Englaro a cui a mezzogiorno in Palazzo Vecchio verrà data la cittadinanza onoraria firmata ieri dal presidente del consiglio comunale Eros Cruccolini e dal sindaco Leonardo Domenici, che con Englaro ha parlato per un’ora da solo nel suo studio, spiegando che oggi sarà assente per impegni istituzionali. Più di quella pergamena ufficiale, che porta con sé anche gli strascichi di una poco edificante polemica politica, vale forse il patto di alleanza che in questi giorni si è creato in modo spontaneo tra Englaro e la gente che gli è andata incontro per ascoltarlo. Generazioni, storie e destini diversi, uomini e donne che ciascuno a suo modo nella vicenda di Eluana trovano fonte di riflessione per ripensare se stessi. E’ il caso di Alessandro Santoro, che di fronte ad Englaro pronuncia la pubblica confessione di un prete che si sente smarrito: «Dopo questo baccanale osceno si può solo chiedere perdono come fece il figliol prodigo nella parabola raccontata da Gesù», dice nel silenzio perfetto della sala in cui sono sedute decine di persone. «Sono profondamente disturbato da questa ostentata onniscienza della Chiesa in cui non riesco più a riconoscermi. Di quel cristianesimo non so che farmene, il Vangelo di fronte alla vita usa solo la parola amore, che significa avvicinarsi all’altro e al suo mistero per riconoscersi. Nel mio vescovo questo amore non l’ho visto».
Englaro quasi non ci crede: «Ero un randagio che abbaiava alla luna, per tanto tempo nessuno mi ha voluto dare ascolto. E ora arrivo qui, a Firenze, e mi sento dire quelle parole semplici e dirette che sembrava impossibile poter udire». Lo ripete più volte, anche la sera al Teatro Puccini dove l’associazione "Liberi di decidere", che ha già raccolto tremila testamenti biologici certificati da un notaio, ha voluto invitarlo insieme a Paolo Flores d’Arcais per dare un segnale concreto di sostegno a una battaglia civile che era nata solitaria ed è ora diventata la battaglia di molti dopo l’approvazione al Senato del testo di legge sul fine vita.
Tantissime persone vicino ad Englaro, anche molto giovani. Alle dieci di mattina è già affollata la casetta in cui ogni domenica si riunisce la comunità dell’Isolotto per celebrare la sua "messa laica" col pane fatto in casa al posto dell’ostia e le preghiere scritte a mano sui fogli di carta al posto del breviario. E’ un dialogo ricco ma senza contrapposizioni, chi è venuto qui lo ha fatto per mostrare comprensione e affetto ad un padre costretto ad affrontare fin troppo dolore. Senza pregiudizi, senza nessuna voglia di attaccarlo, di giudicarlo.
Anzi. Tra i messaggi di solidarietà arrivano quelli di un monaco di San Miniato al Monte, Bernardo Francesco Maria, dell’ex prete operaio Renzo Fanfani, delle comunità cristiane di base, di don Fabio Masi della parrocchia di Santo Stefano a Paterno, del presidente del quartiere 4. A parte Cruccolini, due soli politici presenti, Valdo Spini e il consigliere dei Socialisti Alessandro Falciani, che è stato l’ideatore della proposta di cittadinanza e che ha accompagnato Englaro in ogni suo appuntamento fiorentino. «L’Eluana era la persona più libera del mondo, amava tutti e adesso sarà amata da tutti, lo dice sempre la sua mamma», racconta Beppino sorridendo. «Per noi in famiglia questi concetti erano chiarissimi, li avevamo approfonditi, li davamo per scontati. L’Eluana era convinta che la vita è libertà e non condanna a vivere. Non mi sarei mai immaginato di diventare l’unico a combattere per il rispetto di principi che a me sembrano incontestabili. Non avevo scelta, dovevo affrontare la questione pubblicamente perché sono convinto che la vera libertà è dentro la società».
Diciassette anni di solitudine e poi quella sentenza della Cassazione del 16 ottobre 2007: «Dobbiamo essere fieri della nostra magistratura, i giudici non si sono lasciati condizionare dalla politica, che pure ci ha provato in tutti i modi. Sono certo che quella sentenza verrà riletta, studiata e capita perché lì è finalmente tutto molto chiaro. Non si può imporre con la violenza un trattamento che tiene in vita una vita che non esiste in natura. La vicenda di Eluana non va contro nessuno».
Della capacità di accettare la morte e di come lo Stato debba garantire a ciascuno di poter scegliere in che modo essere o non essere assistito nella fase terminale della vita, Englaro parla per oltre un’ora col sindaco Domenici, in un colloquio privato che si conclude con la firma del documento per la cittadinanza onoraria. «Sul biotestamento c’è una questione di diritti, di libertà e di autodeterminazione delle persone e della loro volontà che deve essere affrontata - io me lo auguro - andando al di là della polemica o della contrapposizione tutta politica», dice il sindaco. «Non ci divide il fatto di considerare sacra la vita umana, almeno per quanto mi riguarda. Abbiamo punti di vista diversi sul modo di attuare e rispettare la dignità e, per certi versi, la stessa sacralità della vita». Englaro saluta con sollievo la notizia che anche Bondi si è schierato a fianco di Fini nella critica alla legge passata in Senato: «Non mi sorprende perché con Bondi avevo parlato e sapevo che certe cose erano state capite. Ci sono tutte le premesse perché il testo alla Camera venga modificato». La questione torna centrale sia durante il dibattito serale al Puccini che nel pomeriggio, quando don Santoro la affronta dal suo punto di vista di sacerdote. «Credo che per la Chiesa sia importante difendere la vita ma senza imporre nessuna verità. Mi riconosco nella chiesa di Gesù, in questa non riesco a starci. Lo dico davanti a te, Englaro, perché non ho l’arroganza di pensare di aver visto Dio ma l’unico Dio possibile che posso intravedere, eventualmente, è nel dolore composto, nella fede laica profonda della vita, in questa battaglia civile che tu hai deciso di portare avanti, affrontando attacchi strumentali e il baccanale osceno di persone che hanno ostentato preghiere, rosari e parole senza senso».
* La Repubblica/Firenze,30 marzo 2009
Il conflitto.
Un saggio di Jonathan Baron contesta le certezze del ’mondo latino’ e riapre il dibattito.
La lezione degli scienziati anglosassoni: empirici e possibilisti.
Bioetica, quando l’utile e’ morale
In questa ’guerra di religione’ si fronteggiano pragmatismo e utilitarismo da una parte,
essenzialismo e normativismo dall’altra
di EDOARDO BONCINELLI (Corriere della sera, 29 giugno 2008)
Una guerra di religione o, se preferite, di mentalita’, e’ in atto da un certo numero di anni qui, al centro dell’Europa; una guerra culturale che vede da una parte principalmente l’Italia, e alcune frange di altri Paesi latini, e dall’altra il mondo anglosassone. Certamente meno devastanti del razzismo, ma piu’ sornione, pervasive e forse perniciose, le guerre di religione offrono a chi le combatte il vantaggio di potersi sentire buono, se non santo: si lotta per i propri valori e la propria identita’. E ci si sente moralmente superiori. "Gli altri" al contrario non hanno sensibilita’, sono barbari, mentre e’ inutile far notare che, come in ogni guerra, esistono persone degnissime da una parte e dall’altra e loschi figuri sull’una e sull’altra sponda. Nel caso specifico si fronteggiano pragmatismo e utilitarismo da una parte ed essenzialismo e normativismo dall’altra, per non parlare degli opposti atteggiamenti dei due mondi verso il materialismo e l’empirismo. Nel campo morale gli uni amano quasi sempre veder adottare norme universali imposte una volta per tutte, gli altri preferiscono un atteggiamento possibilista e maggiore disponibilita’ a decidere caso per caso.
La divergenza, nata probabilmente con lo sviluppo della filosofia inglese del Sei-Settecento, nelle sue articolazioni conoscitive e morali, ha raggiunto una nuova notorieta’ e grande popolarita’ con il diffondersi delle questioni bioetiche e piu’ in generale con l’imporsi del dibattito pubblico sugli interrogativi sollevati dalla biomedicina. Nelle questioni bioetiche la mentalita’ angloamericana e’ avversata apertamente dalle gerarchie della Chiesa cattolica, ma anche da esponenti della cultura laica italiana che affermano con un sospiro che gli anglosassoni hanno una cultura e una sensibilita’ differenti, ovvero una cultura e una sensibilita’ sbagliate.
Qualcuno in passato si e’ appellato addirittura a Kant, che sarebbe debitamente preso in considerazione dalle nostre parti, ma non da "quelli", e qualcuno e’ arrivato a demonizzare tutto cio’ che si fa o si dice in campo bioetico soprattutto in Inghilterra, ma anche negli Stati Uniti e in Canada.
Come succede quasi sempre in questi casi, molte affermazioni nascono dall’ignoranza, per esempio a proposito della natura dell’utilitarismo, una dottrina filosofica considerata con grande sufficienza nel nostro Paese - al punto che nel linguaggio quotidiano l’aggettivo "utilitaristico" ha una connotazione assai negativa - ma che possiede invece un grande valore morale e politico se letto e studiato nella sua formulazione piu’ autentica. Si tratta spesso di un vero e proprio abbaglio filosofico, alimentato da interessi culturali non sempre trasparenti.
Queste considerazioni mi sono venute prepotentemente alla mente leggendo Contro la bioetica di Jonathan Baron (Raffaello Cortina, a cura di Luca Guzzardi), un libro molto ponderato, aggiornato e coraggioso, centrato su alcuni aspetti particolari del ragionamento bioetico di oggi. Il titolo non deve ingannare; non si tratta di un libro contro la bioetica, ma di un tentativo sistematico di riconsiderarne alcuni lati sotto varie angolature.
"Questo libro - dice infatti l’autore proprio all’inizio dell’opera - mette in relazione tre aree di ricerca che coltivo da anni: la teoria della decisione, l’utilitarismo e la bioetica applicata". Non insistero’ sull’utilitarismo, una posizione che "ritiene che la scelta migliore sia quella che comporta il maggior bene atteso", perche’ cio’ richiederebbe un discorso troppo lungo, ma vale la pena spendere due parole sulla moderna teoria della decisione, una disciplina che sta divenendo sempre piu’ importante.
Partendo dalla considerazione che i pareri in tema di bioetica "tendono a fondarsi sulla tradizione e su giudizi intuitivi", l’autore ci ricorda quanto fallaci possano essere proprio i giudizi basati sull’intuizione e sulla prima impressione. Esistono ormai molti lavori, piu’ o meno estesi e articolati, che illustrano tale punto con grande dovizia di particolari.
Messo alla prova della logica, il nostro cervello fornisce molto spesso giudizi infondati e lo fa quasi sempre se deve pronunciarsi in fretta. E’ anche per questo motivo che molte cose costano 19,99 euro invece di 20 o 699 invece di 700. Se e’ costretto poi a ripensarci e a considerare le cose con piu’ calma, il cervello di ciascuno di noi puo’ anche ricredersi e formulare giudizi piu’ corretti, ma in prima battuta siamo tutti inclini a sbagliare.
E sempre nella stessa, prevedibile direzione. Sarebbe assurdo, dice Baron, non tenere conto di queste nostre tendenze innate, soprattutto oggi che le conosciamo bene, e arriva a proporre una sua "analisi utilitarista delle decisioni", una forma di ragionamento e di valutazione che potrebbe portare i comitati di bioetica o il consulente bioetico singolo a sbagliare di meno.
Qualcuno potrebbe ribattere, dice il nostro autore, che gli eventuali sbagli sono "semplicemente il prezzo della moralita’, ma quale ’moralita’’ ci autorizza a peggiorare la situazione di qualcun altro?". Al di sopra e al di la’ delle guerre ideologiche personali, dovrebbe esserci un’attenta e sollecita considerazione per il disagio e il dolore del singolo interessato: gli ideologi disputano, ma e’ il singolo che soffre. Lui e la sua famiglia.