Rosario Forlenza
La Repubblica del Presidente
Gli anni di Carlo Azeglio Ciampi
1999-2006
SCHEDA *
Il libro
La Repubblica del Presidente indaga il discorso storico e patriottico sviluppato dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi dal 1999 al 2006. Ciampi e i suoi collaboratori del Quirinale tentarono di costruire sul patriottismo repubblicano, e sulla memoria storica, un mito di fondazione nazionale che potesse generare coesione tra i cittadini, rinsaldare il senso di appartenenza collettivo e sostenere le istituzioni repubblicane. Discorsi, interventi, viaggi, rituali e pratiche civili di memoria che avrebbero condotto alla reinterpretazione e alla rilettura di eventi, simboli, luoghi, date e personaggi centrali della vicenda storica italiana, dal Risorgimento in poi.
Il discorso storico ciampiano ha inteso in sostanza modificare la percezione e l’immagine ufficiale dell’Italia, offrendo una nuova narrativa della Patria capace di elaborare un nuovo linguaggio con cui pensarsi come nuova comunità politica radicata nel passato, eppure pronta alle sfide del presente e del nuovo secolo.
Carlo Azeglio Ciampi, economista e uomo politico, dal 1979 al 1993 è stato Governatore della Banca d’Italia. Dall’aprile 1993 al maggio 1994 è stato Presidente del Consiglio, durante la XIII Legislatura Ministro del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica. Ha ricoperto numerosi incarichi di rilevanza internazionale e il 13 maggio del 1999 è stato eletto, in prima votazione, decimo Presidente della Repubblica Italiana.
L’a u t o r e
Rosario Forlenza è Postdoctoral Research Associate all’Università di Princeton. Studioso di storia sociale e politica del ventesimo secolo, di antropologia e simbologia politica, di culture politiche e memoria, ha pubblicato articoli e saggi in riviste scientifiche italiane e internazionali.
È autore di Le elezioni amministrative della prima Repubblica. Politica e propaganda locale nell’Italia del secondo dopoguerra, 1946-1956 (Roma 2008). Nel 2010 per Diabasis ha curato, con Ilario Belloni, Questioni civiche. Forme, simboli e confini della cittadinanza.
Le ragioni del libro
•Uno strumento per conoscere e riconoscere, dal vivo dell’esperienza presidenziale, la storia italiana contemporanea alla soglia di passaggi cruciali.
•Studi, riflessioni, occasioni per ripensare l’Unità d’Italia nel futuro presente.
•Una grande lezione di etica e di virtù civili per educare i giovani, senza retorica, a essere cittadini di una nazione solidale e condivisa
Beppe, Tonio e le donne vanno a votare. L’educazione al voto per le elezioni amministrative del 1946(di Rosario Forlenza).
"Quaderno" di documentazione sulla Presidenza di Carlo Azeglio Ciampi,
a c. di Federico La Sala
La Voce di Fiore - Maggio 2011
INDICE (cliccare sui titoli, per accedere ai documenti)
1994-2011. UNA DIARCHIA DI FATTO: ITALIA (1994-2011). TRE PRESIDENTI: OSCAR LUIGI SCALFARO (1992-1999), CARLO AZEGLIO CIAMPI (1999-2006), GIORGIO NAPOLITANO (2006-2011), E IL PARTITO DEL FALSO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DEL "POPOLO DELLA LIBERTA’": "FORZA ITALIA"!!!
L’ITALIA (1994-2011), TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA".
In memoria di Sandro Pertini e di Gioacchino da Fiore, alcuni appunti per i posteri
DOPO CIAMPI. PRESIDENZA NAPOLITANO ....
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E POLITICA: RIPENSARE COSTITUZIONE CITTADINANZA E SOVRANITA’. -Uscire dal letargo : "Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge"(Mario Draghi).
Quale sovranità?
C’è chi chiede più sovranità, intendendo più autonomia di decisione, ma anche chi vorrebbe più iniziativa collettiva
di Andrea Ruggeri (Il Mulino, 04 marzo 2021)
E se fossimo tutti sovranisti? C’è chi inarcherebbe il sopracciglio al solo pensiero di essere paragonato ai sovranisti nazionalisti. Ma c’è confusione su cosa si intende per sovranità. Sia chiaro, quest’ambiguità non è né strettamente un fenomeno italiano, né di sviluppo recentissimo.
Queste note esplorano due domande, una analitica - cosa intendiamo per sovranità? - e una critica - possiamo illuderci che una sovranità condivisa, anziché solitaria, non abbia rischi?
Boris Johnson e Donald Trump - ma anche Matteo Salvini con il suo «prima gli italiani» - sono sovranisti che sostengono che «riprendersi il controllo» del processo decisionale sia sufficiente per tornare a essere pienamente sovrani e dare forma in maniera autonoma al futuro del proprio Paese. Sovranità intesa, dunque, come mantenimento delle decisioni dentro i confini nazionali: si è sovrani, se si è indipendenti nel decidere. E poi c’è chi crede che la sovranità si debba declinare come controllo delle politiche e degli effetti delle stesse. Per loro non è centrale il luogo ove si decide, ma essere sovrani è governare la politica o almeno influenzarla. Dunque, per (ri)prendere il controllo si deve non solo partecipare, ma anche pesare, nelle organizzazioni sovranazionali e multilaterali. Macron e Draghi potrebbero dunque rappresentare coloro che interpretano la sovranità anche come condivisone della stessa.
Ma, dunque, cosa intendiamo per sovranità? Nello studio della politica internazionale il concetto di sovranità è centrale, ma la sua ambiguità è palese, non solo poiché spesso si usa il termine per descrivere azioni sia di politica interna sia di politica estera, ma anche perché alcuni pensano che la sovranità si possa unicamente delegare, mentre altri che la si possa anche condividere. Alcuni si illudono che il concetto di sovranità sia chiaro e netto, per via del «mito fondativo» della sovranità legato alla pace di Vestfalia (1648). La sovranità vestfaliana, forse all’insaputa di molti oratori, è quella più utilizzata nei discorsi pubblici e che tendiamo a etichettare frettolosamente come sovranismo. Stephen Krasner definiva questa forma di sovranità come «un assetto istituzionale per l’organizzazione della vita politica che si basa sulla territorialità e sull’autonomia. Gli Stati esistono in territori specifici. All’interno di questi territori, le autorità politiche nazionali sono gli unici arbitri del comportamento legittimo». Altre caratteristiche chiave, spesso riportate, configurano la sovranità come eguaglianza formale fra Stati e indivisibilità della stessa.
Tuttavia, tantissimi autori hanno evidenziato come eguaglianza e indivisibilità della sovranità sono sfidati quotidianamente nel campo delle relazioni internazionali. David Lake, infatti, scrive che «la sovranità è divisibile e dividerla in passato non ha portato a un’erosione inesorabile del principio». Però, Krasner ha notato come oltre al concetto vestfaliano di sovranità, vi siano almeno altri tre concetti di sovranità, prossimi ma diversi. Primo, il grado di controllo esercitato dagli enti pubblici e dall’organizzazione dell’autorità entro i confini territoriali. Se l’autorità statale non riesce a proiettare il potere centrale, non c’è sovranità. Secondo, il grado di controllo esercitato dall’autorità interna sui movimenti transfrontalieri. L’incapacità di regolare il flusso di merci, persone e idee attraverso i confini territoriali è stata descritta come una perdita di sovranità. Terzo, la sovranità intesa come diritto di alcuni attori a concludere accordi internazionali, concetto sviluppato e utilizzato principalmente dagli studiosi di diritto internazionale. Gli Stati sovrani possono stipulare trattati. Ecco un’ambiguità analitica: la sovranità può essere intesa come controllo della politica interna, ma anche come relazione esterna fra entità sovrane. Tuttavia, John Agnew, coniando il termine «la trappola territoriale», faceva giustamente notare che la politica interna, e dunque la sovranità interna, non è indipendente dalla politica esterna ed estera: ci illudiamo che i confini possano difenderci da scelte esterne e cadiamo nella fallacia di dividere nettamente tra politica interna ed estera.
Kenneth Waltz, acuto analiticamente ma con un punto di vista parziale e profondamente americano, scriveva che fra Stati sovrani «nessuno ha il diritto di comandare; nessuno deve per forza obbedire». Ma quest’eguaglianza è chiaramente solo formale. Un fatto è dirsi sovrano perché si hanno personalità giuridica e organi decisionali, un altro è essere liberi dalle scelte e dalle politiche adottate da altri Paesi. Infatti, sebbene l’istituzione della sovranità affermi il principio di non intervento negli affari di altri Stati, l’intervento è sempre stato una caratteristica degli affari internazionali. Dunque, Krasner definì la sovranità vestfaliana come un’«ipocrisia organizzata», una pratica contraddittoria dove si afferma l’inviolabilità dei confini territoriali, ma si continua a intervenire negli affari altrui. Questa sovranità ipocrita, in un mondo meno globalizzato e con alleanze internazionali ben salde, era meno problematica per Paesi come l’Italia. Oggi, invece, l’influenza e gli effetti di soggetti esteri sono più forti, soprattutto se si rimane ancorati solamente a una visione della sovranità vestfaliana.
David Lake sottolinea un’ulteriore differenza analitica importante: si può delegare sovranità a un’organizzazione internazionale, ma vi può anche essere il raggruppamento della sovranità in sede internazionale. Nel delegare sovranità alle organizzazioni internazionali, gli Stati concedono loro porzioni di sovranità per eseguire determinati compiti limitati. Mettendo in comune l’autorità - raggruppamento della sovranità - all’interno delle organizzazioni internazionali, gli Stati trasferiscono l’autorità di prendere decisioni vincolanti da se stessi a un corpo collettivo di Stati all’interno del quale possono esercitare più o meno influenza. Oggi, secondo Lake, gran parte delle preoccupazioni riguarda la messa in comune di sovranità, piuttosto che la sua delega. E aggiunge che quando si parla di Unione europea più che cedere sovranità, si raggruppa sovranità.
A scopo esplicativo, per elaborare quanto scritto sopra sul concetto di sovranità, riprendo alcuni interventi recenti nel dibattito pubblico da parte di due presidenti del consiglio: Giuseppe Conte e Mario Draghi. Nel suo discorso alla Camera per la fiducia nel giugno del 2018, Conte dichiarava: «Le forze politiche che integrano la maggioranza di governo sono state accusate di essere populiste e antisistema. Se populismo è attitudine ad ascoltare i bisogni della gente, allora lo rivendichiamo». Per Conte il nodo centrale della sovranità è dove essa risiede, nel popolo. Nel suo discorso di fronte all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York nel settembre 2018, Conte, per respingere alcune accuse contro il governo giallo-verde, ribadiva l’importanza di chi detiene la sovranità: «quando qualcuno ci accusa di sovranismo e populismo amo sempre ricordare che sovranità e popolo sono richiamati dall’articolo 1 della Costituzione italiana, ed è in quella previsione che interpreto il concetto di sovranità e il suo esercizio da parte del popolo». Dimenticava, Conte, la seconda parte dell’articolo 1, «che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Dove i membri della costituente chiaramente intesero, dopo un tragico conflitto mondiale, la possibilità e necessità di poter delegare sovranità per guadagnarne in cooperazione. Conte espresse allora un sostegno al concetto di sovranità come indipendenza decisionale, focalizzandosi sull’aspetto procedurale - chi decide e dove - ma recentissimamente ha condiviso l’idea che vi sono situazione e circostanze in cui si può cedere sovranità a organizzazioni sovranazionali.
Conte, nella sua lectio all’ateneo fiorentino del 26 febbraio 2021, sembra dunque parzialmente rivedere cosa si debba fare con la sovranità: «Abbiamo sempre più integrato i nostri sistemi economici, i nostri modelli educativi, le nostre legislazioni sociali, cedendo spazi di sovranità e trasferendo competenze via via sempre più importanti dagli Stati all’Unione». La sovranità rimane nazionale, ma parziali deleghe possono avvenire per poter affrontate sfide contemporanee. Non è dunque esplicitata una necessità di sovranità collettiva, ma un’esigenza -dato il contesto - semmai di delega.
Draghi, invece, è tetragono sul valore di una sovranità condivisa, o, come Lake direbbe, di «raggruppamento della sovranità», che si concentra di più sul risultato delle politiche, anziché sul processo decisionale. Draghi, nel suo discorso a Bologna nel 2019 per il conferimento di una laurea ad honorem, così definiva chiaramente la sua idea di sovranità: «La vera sovranità si riflette non nel potere di fare leggi - come vorrebbe una definizione giuridica - ma nella capacità di controllare i risultati e rispondere ai bisogni fondamentali delle persone. [...] La capacità di prendere decisioni indipendenti non garantisce ai Paesi tale controllo. In altre parole, l’indipendenza non garantisce la sovranità».
Ed ecco che il passaggio succinto sulla sovranità nel suo discorso per la fiducia del suo esecutivo, forse in questo contesto può guadagnare ulteriore chiarezza: «Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa [...] Non c’è sovranità nella solitudine. C’è solo l’inganno di ciò che siamo, nell’oblio di ciò che siamo stati e nella negazione di quello che potremmo essere».
Sembra chiaro che il vulnus stia nel credere che «riprendere il controllo» e poter decidere indipendentemente si traducano nel poter plasmare il proprio futuro. In questo caso la sovranità viene declinata essenzialmente come processo decisionale, interno ai confini nazionali, anziché come effetto delle decisioni stesse. Ci si illude che potendo dire quel che si vorrebbe fare od ottenere - senza confrontarsi con altri - porti a fare e ottenere ciò che si vuole. Oggi, un’Italia che mirasse a una sovranità solitaria, in realtà non sarebbe sovrana perché sarebbe alla mercé della potenza egemone di turno. Oggi gli Stati Uniti, domani forse la Cina.
Se un sovranismo vestfaliano, di stampo indipendentista o nazionalista, è solamente frutto di un’ambiguità analitica o di un malinteso storico - o al massimo di una miopia retorica e strumentale- possiamo illuderci che una sovranità condivisa, anziché solitaria, non abbia rischi? L’interdipendenza economica di oggi è una realtà consolidata e le sfide globali, dal terrorismo transnazionale alle pandemie globali, fino al cambiamento climatico, non possono essere risolte dai singoli Paesi. Dunque, si può puntare al rafforzamento della sovranità - intesa come capacità di controllare i risultati - raggruppando autorità e risorse in organizzazioni sovranazionali, in primis, come l’Unione europea.
Tuttavia, anche in questo caso si rischia di cadere in una fallacia sovranista, ma di delega. La politica e dunque l’importanza della sovranità, è decidere «chi ottiene cosa, quando e come», come sosteneva Harold Lasswell. E dunque mettere insieme risorse per affrontare un’arena internazionale sempre più complessa e attori sempre più competitivi non può giustificare una delega in bianco, senza sviluppare al contempo e ulteriormente istituzioni e strumenti di controllo e partecipazione da parte della cittadinanza. Ma devono essere chiari ai cittadini quali benefici e politiche si potranno guadagnare e perseguire attraverso questa sovranità condivisa. E i benefici ottenuti dovranno essere diffusi e condivisi. La questione centrale non è dunque essere per il sovranismo o essere contro di esso, ma quale sovranità si vuole ottenere e come gestirla collettivamente, non solo in Europa, ma anche in qualità di cittadini.
LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA.... *
Speranze e delusioni in un tornante decisivo del Novecento italiano
L’Orologio di Carlo Levi
di Andrea Mariuzzo (Il Mulino, 02 dicembre 2020])
Il 29 novembre del 1902 nasceva a Torino uno degli intellettuali più brillanti e sottovalutati del Novecento italiano: Carlo Levi. Esponente di quella generazione di figli della buona borghesia del capoluogo piemontese che in tanti casi si sarebbe impegnata nel gruppo cittadino di Giustizia e Libertà sgominato dalla polizia politica fascista nel 1935 a causa della delazione di Dino “Pitigrilli” Segre, Levi fu per tutta la vita attivista politico della sinistra antifascista, ma anche scrittore e giornalista, osservatore con occhio quasi antropologico delle dinamiche sociali piccole e grandi di un Paese, del suo Mezzogiorno più profondo e di una classe politica, e soprattutto pittore molto apprezzato dai suoi contemporanei.
Tuttora, Levi deve la sua fama alle riflessioni nate nel periodo del confino in un villaggio della Lucania, e raccolte in Cristo si è fermato a Eboli, pubblicato da Einaudi subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale e tradotto in tutto il mondo. Ormai quasi dimenticata è, invece, la sua opera letteraria forse più matura, L’Orologio, pubblicato sempre con la casa editrice torinese nel 1950. Eppure, esso rappresenta forse l’unico esempio riuscito, quantomeno tra i pochi applicati a materia relativa all’età repubblicana italiana, di un genere assai raramente praticato nella letteratura italiana, quello del “romanzo politico”.
Riletto oggi, di certo, il libro presenta al pubblico una difficoltà non da poco che pure deve essere affrontata per apprezzarlo, cioè la necessità di immaginarsi come all’epoca e nel contesto della sua stesura un protagonista degli eventi narrati, risalenti a cinque anni prima, potesse rileggerli e guardare criticamente al modo in cui li visse. Vale tuttavia la pena di provarci, per poter godere di una riflessione che ha ancora molto da dirci sull’attualità e sulle sue radici storiche.
L’Orologio, dunque, prende esplicitamente le mosse dalle conclusioni del Cristo si è fermato a Eboli, in alcune pagine citando esplicitamente il libro precedente. Nell’Italia fossilizzata su illusori contrasti all’interno della propria classe dirigente che in realtà celavano la realtà profonda della dialettica di sopraffazione sui “contadini” dei “donluigini”, occorreva ricostruire da zero una comunità nazionale realmente coesa, strutturata attorno a istituzioni davvero al servizio dei cittadini e capaci di accompagnarli nel loro sforzo di elevazione sociale, ma prima di tutto occorreva smantellare fino in fondo gli apparati amministrativi e burocratici dal precedente assetto strutturalmente ineguale. A quegli apparati burocratici i privilegiati di ogni livello, dai grandi imprenditori monopolisti ai piccoli titolari della concessione di una farmacia, erano avvinghiati per ottenere ciò che sanciva in modo inequivocabile la propria condizione di privilegio: una sinecura pubblica, una sovvenzione, una deroga, una norma spudoratamente favorevole.
Su questi rapporti istituzionali e politici malati, che pure lo precedevano di decenni negli interstizi della società italiana, si era retto per vent’anni il regime fascista, e allo smantellamento di questa patologia che era stata una delle basi portanti della dittatura doveva dedicarsi, per completare la sua opera, l’antifascismo vittorioso nel 1945. Era del resto questo l’obiettivo di quella che il Partito d’Azione, allora soggetto politico di riferimento di Carlo Levi nonché interprete più convinto dell’epopea resistenziale, intendeva raggiungere con quella che con un certo understatement era presentata come “riforma della pubblica amministrazione”, ma che in realtà doveva essere una rivoluzione culturale, un lavacro purificatore di tutti i germi socio-culturali alla radice del fascismo. Lavacro purificatore forse utopistico, ragione fondamentale per cui tanta parte delle culture politiche italiane, da quelle raccolte nei partiti di massa della sinistra marxista a quella del cattolicesimo organizzato di governo fino agli opinionisti liberal-conservatori a la Montanelli, avrebbe ricordato il Pda come un partito di anime belle, di illusi sospesi tra il desiderio di crogiolarsi nei loro sogni e la volontà di realizzarli con un colpo di mano giacobino, in definitiva figure storicamente inutili o peggio ancora (per chi guardava da destra) mosche cocchiere per utopie assai meglio armate.
Scrivendo L’Orologio nel 1950, Levi non rinnegava affatto quell’obiettivo ideale, ma in una certa misura ammetteva la necessità di riflettere su quanto esso fosse effettivamente realizzabile, poiché chiariva che esso poteva essere spiegato, e “fatto passare” al pubblico, solo nella forma del romanzo, della scrittura di finzione. Il canovaccio del racconto era però intessuto di fatti reali, poiché l’azione si svolgeva effettivamente tra il 22 e il 24 novembre del 1945, nelle convulse giornate in cui si consumò la crisi del governo guidato da Ferruccio Parri, l’esecutivo in cui gli azionisti avevano riposto le speranze di vedere realizzate le loro istanze di rinnovamento al soffio del “vento del Nord” dell’esperienza resistenziale. Allo stesso modo aveva radici nella realtà anche il ruolo del protagonista e voce narrante, direttore del quotidiano del partito che esprimeva “il Presidente”, proprio come nel novembre 1945 Levi era direttore dell’organo azionista “L’Italia libera”.
In fondo tutto il romanzo è la riflessione su quanto la compagine azionista ed ex-partigiana alla guida del governo chiede troppo a quel “vento del Nord”, per il quale era impossibile soffiare così forte da abbattere abitudini e necessità radicate troppo in profondità nel sentire del Paese, soprattutto delle sue zone più problematiche.
Questa riflessione si dipana, sul piano narrativo, nella forma di due viaggi.
Dapprima il protagonista-narratore si trova a compiere un giro per Roma alla ricerca di esponenti politici più o meno importanti, ma soprattutto alla scoperta di funzionari e impiegati passati dal pre-fascismo al post-fascismo senza mutare di una virgola il loro atteggiamento e il modo di interpretare il loro ruolo. Essi, ai suoi occhi, rappresentavano la vera forza materiale della conservazione, in quanto legati in maniera irremovibile a quei piccoli privilegi che di fatto non permettevano loro null’altro che di galleggiare appena sopra la miseria, ma senza i quali essi non sapevano neppure immaginarsi.
Al protagonista toccò poi compiere un viaggio di andata e ritorno per Napoli che assunse i caratteri di un’odissea tra strade bombardate e paesi ridotti all’inesistenza. Il viaggio di ritorno, in particolare, avverrà in automobile, privilegio che il direttore di un giornale di partito non si sarebbe mai potuto concedere se nel capoluogo campano non avesse ricevuto un passaggio da due esponenti di spicco dei due grandi partiti che si apprestavano a gestire in proprio il governo e il potere: Colombi (figura sotto cui si cela il democratico-cristiano Attilio Piccioni) e Tempesti (il comunista Emilio Sereni).
Proprio nel corso del viaggio due rappresentanti dei grandi partiti di massa, a cui simbolicamente sarebbe passata la responsabilità di guidare il Paese pochi giorni dopo con l’incarico di formare il governo affidato direttamente al leader della Dc Alcide De Gasperi, si rendono protagonisti di un dialogo di cui il protagonista è muto testimone, forse profetico per il dibattito pubblico degli anni successivi: un dialogo in cui moderati e sinistra si confrontano da posizioni opposte, ma portandolo avanti utilizzando le stesse parole e riconoscendo reciprocamente il ruolo l’uno dell’altro. Si manifestava insomma come inevitabile la conclusione che avrebbe condotto all’esito delle elezioni per la Costituente nel giugno 1946, ovvero quella per cui per avere successo nella politica italiana si doveva finire per accettare, e quasi per incorporare e rappresentare, ciò che nel Paese non funzionava, costruendo su tale comune accettazione la collaborazione e il conflitto.
Si chiudeva così la riflessione sul recente passato di Levi, che aveva accompagnato parole e pensieri del protagonista col pensiero ricorrente di un vecchio orologio di famiglia che aveva portato a riparare, ma che non avrebbe più ritirato anche perché nel frattempo gli eventi gliene avevano regalato uno nuovo, come a simboleggiare anche sul piano materiale una netta cesura nel suo percorso esistenziale di attivista politico antifascista che però si stagliava sulla continuità della verità destinata a uscire in modo più evidente dalle pagine del volume: «il nostro [Stato] è una grande organizzazione caritatevole per coloro che ne fanno parte [...]. Qualcuno deve pagare le spese della pubblica carità, le spese di Stato: e questi sono coloro che dello Stato non fanno parte».
Dopo settant’anni queste parole restano allo stesso modo suggestive, anche se l’effettiva partecipazione o meno alla “carità di Stato” si è fatta sempre meno facilmente intuibile.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA. Alcune note su un testo del Muratori
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO" !
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
POLITICA
Sardine, Prodi: Chiedono toni civili *
"Discutere in politica con toni anche più civili? Certo, ma questo è abbastanza scontato. La gente è perplessa sulle tensioni che ci sono. D’altra parte non avevo mai visto in vita mia una grande manifestazione che inneggia alla civiltà dei toni. Questo quindi vuol dire che la durezza del dibattito, indipendentemente dai contenuto del dibattito, comincia a stancare". Lo ha detto l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi parlando delle ’sardine’ con i giornalisti a Firenze al termine del convegno dal titolo "Carlo Azeglio Ciampi ministro del Tesoro e l’adesione all’Euro", organizzato dalla Scuola Normale di Pisa a Palazzo Strozzi.
"Non è mica necessario in politica mangiarsi, azzannarsi l’uno con l’altro. Si può anche dibattere come stamattina. Oggi non sento dibattito su contenuti veri. Noi questa mattina abbiamo dibattuto sui contenuti, sulla sostanza della politica, ed è quello che io vorrei che si ritornasse a fare, perchè abbiamo bisogno di discutere sull’avvenire del Paese e quindi sulle grandi decisioni da prendere. E qui invece si lavora sui puntigli, sulle recriminazioni: è proprio una marcia indietro", ha aggiunto.
All’incontro, che ha visto relazioni sul ruolo di Ciampi nel primo governo Prodi (1996-98), a cui ha assistito il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, hanno partecipato il senatore a vita Mario Monti, l’ex ministro dell’Economia Vittorio Grilli, l’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco e gli economisti Alessandro Petretto, Pierluigi Ciocca e Giangiacomo Nardozzi.
* ADNKRONOS, 03/12/2019 19:33 (ripresa parziale).
Il “sacro dovere” e l’erosione della costituzione
di Francesco Palermo *
La costituzione è il perimetro entro il quale si può muovere la politica con le sue scelte discrezionali. È il ring nel quale il legittimo conflitto di idee deve svolgersi secondo regole prestabilite, la cui interpretazione è affidata a degli arbitri, i più importanti dei quali sono la Corte costituzionale e il Presidente della Repubblica. È pertanto non solo legittimo ma anzi doveroso che la politica ricorra ad argomentazioni costituzionali per giustificare le proprie azioni e le proprie tesi, perché solo dentro la costituzione può svolgersi la politica. La costituzione è, per certi aspetti, la versione laica del principio di esclusività tipico della religione: non avrai altro Dio all’infuori di me. E non può esserci politica al di fuori della costituzione.
Come troppo spesso accade anche con la religione, però, non è raro che i precetti vengano piegati ad interpretazioni funzionali alla preferenza politica del momento. E che tale torsione venga compiuta non già dagli arbitri, bensì dai giocatori.
Un esempio di particolare interesse si è registrato in questi giorni, quando il ministro dell’interno ha invocato l’articolo 52 della costituzione per giustificare la propria politica in materia di sbarchi. Nelle due pur diverse vicende della nave Diciotti da un lato e della nave Sea Watch dall’altro, il ministro Salvini ha rivendicato la scelta di negare l’accesso ai porti italiani come un obbligo costituzionale, fondato sul “sacro dovere” di ciascun cittadino alla “difesa della patria”, previsto appunto dall’articolo 52 della costituzione.
La disposizione non ha naturalmente nulla a che vedere con le questioni di cui si tratta. Il suo ambito di riferimento è esclusivamente la difesa militare, come si evince dai lavori preparatori e dagli altri commi dell’articolo, che prevedono rispettivamente l’obbligatorietà del servizio militare, nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge, e la natura democratica dell’ordinamento delle forze armate. È per questo che l’articolo 52 non fu oggetto di particolare dibattito in assemblea costituente, impegnata a sottolineare il carattere pacifista della costituzione. Non a caso il testo definitivo è praticamente identico a quello della prima bozza, caso rarissimo nei lavori della costituente. Erano tutti d’accordo su una previsione che doveva dare copertura costituzionale al servizio militare e alle forze armate.
Il ministro dell’interno trasforma invece quella previsione - estrapolandola dal contesto - in una sorta di diritto di resistenza. Peraltro ponendolo in capo al governo, ossia all’organo contro il quale il diritto di resistenza si esercita, nei pochi ordinamenti in cui è previsto. Non solo. Il richiamo al “sacro dovere” della “difesa della Patria” ha una forte portata simbolica. In primo luogo, la formulazione è nota anche ai cittadini meno familiari con la costituzione, quindi suona plausibile. In secondo luogo, richiama il gergo militare, anche grazie all’espressione ottocentesca della disposizione (“sacro dovere”), figlia di un’epoca in cui la guerra era ancora drammaticamente presente negli occhi e nelle menti dei costituenti. Soprattutto, l’invocazione di quel segmento dell’art. 52 è un abile gioco retorico: prima lo stacca dal contesto militare in cui è collocato, poi lo ricollega a tale contesto, facendo intuire che “l’invasione” dei profughi sia un atto di guerra nei confronti del Paese, contro cui occorre difendersi. Anche militarmente. Dunque senza essere soggetti alla costituzione, ma al diritto eccezionale del tempo di guerra, in cui vale quasi tutto.
Il rischio di una simile operazione, per quanto scaltra sotto il profilo politico e mediatico, è quello di depotenziare il carattere normativo della costituzione, di eroderne il ruolo di limite e di parametro dell’attività politica. Un’erosione che continua da tempo, trasversalmente alle forze politiche, e di cui questo caso è solo l’esempio più recente. Così facendo si arriva però a cancellare la funzione di garanzia della politica che è il compito principale della costituzione. Non può sfuggire la pericolosità di questo crinale. O forse sì. E infatti l’operazione funziona proprio in quanto alla gran parte degli elettori questo ruolo della costituzione - il più importante - sfugga. Si continua così a ballare sulla nave che affonda. Dimenticando che non è “solo” quella dei migranti, ma quella della costituzione. Su cui siamo imbarcati tutti...
* 31.01.2019 - "Il sacro dovere e la sua torsione populista" (Il Mulino)
Federico La Sala
La festa del 2 giugno
La democrazia a un bivio
di Guido Crainz (la Repubblica, 01.06.2018)
Mai come quest’anno il 2 giugno ci costringe a interrogarci sul nostro essere nazione e sulla tenuta della nostra democrazia, ed è difficile sfuggire alla sensazione di essere di fronte a un bivio. Mai infatti, neanche nelle fasi più aspre, questa data ha cessato di essere la festa di tutti gli italiani: il momento in cui ribadiscono i fondamenti culturali, politici e civili del proprio vivere collettivo. Mai qualcuno aveva pensato di utilizzare il 2 giugno per contestare le nostre regole costituzionali. Mai, neanche per un attimo, era stata proposto di lacerare questa giornata con una manifestazione di parte volta a colpire proprio quelle regole, assieme alla figura istituzionale che ne è garante ( e il vulnus resta, anche se la miserevole proposta è crollata grazie alla alta e necessaria fermezza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella).
Non avvenne neppure nel clima teso della Guerra fredda, nonostante le profonde divisioni e contrapposizioni di allora. E non avvenne negli anni cupi della strategia della tensione e del terrorismo degli anni Settanta: la centralità del 2 giugno verrà appannata semmai dalla smemoratezza degli anni Ottanta, nel prolungarsi dell’abolizione della festività decisa nel 1977 (discutibile conseguenza di esigenze di “austerità”).
Quell’appannarsi era in realtà il sintomo dell’indebolimento civile del Paese, malamente mascherato dalle euforie di quel decennio, e alla vigilia del crollo della “ prima Repubblica” Giorgio Bocca evocava a contrasto, su queste pagine, l’Italia uscita dalla guerra: eravamo divisi in fazioni, scriveva, in un Paese distrutto, eppure «uniti nel vivere, liberali, cattolici, monarchici, comunisti, padroni, operai, tutti certi di essere padroni del nostro destino. Ma questa voglia di avere un’identità, di essere noi, sembra esserci uscita dal corpo. Che Paese siamo? Che cosa significa essere italiani? » . In quella crisi il valore centrale del 2 giugno sembrò offuscarsi ancora e la sua decisa riaffermazione fu parte integrante della pedagogia civile avviata con forza dal presidente Ciampi e proseguita dai suoi successori.
Fu parte integrante del loro impegno a rifondare il “ patriottismo repubblicano” nella coscienza collettiva, collocandolo nella più ampia appartenenza europea e rafforzandone al tempo stesso i momenti simbolici e le date fondative. In primo luogo, appunto, la festa del 2 giugno, ripristinata da Ciampi nella sua interezza e accompagnata da una parata che poneva ora al centro l’impegno dell’esercito nelle calamità civili e nelle missioni di pace. Ciampi stesso ha ricordato: andai a quella prima, rinnovata sfilata «in una vettura scoperta, con al fianco il ministro della Difesa, Sergio Mattarella. Eravamo circondati da una folla festosa che mi diceva di andare avanti, mi ringraziava, era contenta » . Quella ispirazione è andata via via arricchendosi e sono ancora vive le immagini di un anno fa, con la folta presenza di sindaci e con quell’enorme tricolore che calava sul Colosseo.
È forte dunque la sensazione di essere oggi di fronte a una possibile, inquietante divaricazione, e nei giorni scorsi lo abbiamo compreso in maniera traumatica: in essi infatti il fantasma del populismo è uscito definitivamente dal limbo delle definizioni astratte o da territori ancora lontani. È diventato forza corposa e devastante, con la lacerante contrapposizione fra una “ sovranità del popolo” arbitrariamente interpretata e le istituzioni che la fanno realmente vivere, svilite e calpestate assieme alle loro regole. Questo abbiamo vissuto e viviamo, e quelle lontane parole di Giorgio Bocca sembrano di nuovo drammaticamente attuali.
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO ...
Il Colle ha fallito? Dipende da noi
«Il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male (Simone Weil)»
di Roberta de Monticelli (Il Fatto, 01.06.2018)
Un filosofo è come il matto di corte, lo si può lasciar parlare. C’è chi vuole far processare per alto tradimento il presidente della Repubblica e chi lancia hashtag in suo sostegno. Ci sono giuristi pronti ad affermare che non ha fatto che il suo dovere (Flick) e altri radicalmente critici (Villone e Carlassare), come ce ne sono di molto perplessi (Onida). Ci sono commentatori che in mancanza d’altre idee attribuiscono lo sconquasso al “circo mediatico giudiziario” che ci avrebbe per troppo anni lavato il cervello facendoci credere che in Italia corruzione e impunità siano maggiori che altrove (Panebianco) - ma non vedono che il lavaggio non è bastato, visto che nessuno (neppure il capo dello Stato) s’è fatto un baffo della circostanza che il candidato ministro dell’Economia da ex presidente dell’Impregilo era incorso in inchieste giudiziarie ben motivate dalle intercettazioni, che gli avrebbero sbarrato in ogni altro Paese civile la porta di quel ministero.
C’è chi sostiene con assoluta convinzione che il gesto del Presidente ha salvato la democrazia assediata dai populismi e chi con convinzione altrettanto assoluta sostiene che ha soffocato la domanda democratica di cambiamento, per asservire lo Stato alla tecno-plutocrazia europea, o peggio al diktat tedesco. Nota a margine: non si percepisce traccia di simili congiure e diktat da quassù - il regno del fool è il vuoto celeste, dove le linee aeree franco-canadesi forniscono una massa di giornali nelle principali lingue europee, e neppure un angolino contiene un commento su queste indebite pressioni, nonostante i titoli ridondino di “crisi istituzionale in Italia” e “l’Italia mette a processo l’Europa”.
Ed ecco lo sragionamento del fool, per chi volesse conoscerlo. Che il gesto del presidente della Repubblica sia o non sia stato un tragico errore, dipende da noi. Nel senso che non sarà stato un errore, e forse sarà stato invece uno di quegli attimi che le generazioni future ricorderanno con ammirata gratitudine, solo se d’ora in poi gli uomini e le donne di buona volontà non si daranno tregua a costruire in due mesi la Parte della Speranza Progressista e Civile, per farla trovare pronta alle elezioni, con a capo i migliori cavalieri delle buone cause sconfitte nell’ultimo quinquennio...
Quanti ce ne sono, e come saranno bravi se somigliano alle idee per cui furono silenziati, in materia di anticorruzione e legalità, di taglio alla spesa, di politica industriale e del lavoro, di lotta alla disuguaglianza, allo scempio dell’ambiente e del paesaggio, di vera politica della scuola, dell’università e della ricerca.
Non contro ma verso gli Stati Uniti d’Europa. Il programma di questa Parte? Sarà buono se si procederà con infinita attenzione ai veri tagli. “Il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male” (Simone Weil).
È questo il taglio sottile da operare, o il groviglio da dirimere. Guardate se non torna, lo sragionamento. Tutto il male che ci circonda viene da questo groviglio! Vorresti difendere, certo, la bandiera italiana dal disprezzo di chi ci tratta da gente che non sa stare ai patti, ma poi guardi quelli che la levano ora sulla piazza e ti accorgi che è sporca, lordata dall’uso che ne fece il demagogo lombardo predecessore dell’attuale. Vorresti accorrere, certo, a difesa della Repubblica e del suo presidente, allinearti a quei poveri corazzieri in alta uniforme, ma ti si stringe il cuore solo a guardarli, tanto svilita è l’idea che difendono, che solo il ricordo di quell’adunata di ceffi e mammole che presiedettero all’elezione del precedente presidente al suo secondo mandato ti riempie di vergogna, come quello delle innumerevoli forzature di un governo che da incostituzionalmente eletto si fa costituente senza averlo mai avuto in alcun programma. Vorresti ripetere anche tu, lo stesso, “sto col presidente”, perché dall’altra parte c’è la prepotenza di chi “se ne frega” di qualunque vincolo etico e giuridico in nome di folle senza volto, di chi addirittura non si vergogna a ripetere “chi si ferma è perduto”. E ti accorgi che il solo sostegno al governo del presidente verrà dai responsabili di tutte quelle forzature che hanno svilito l’uniforme dei miei corazzieri, e anche dal ghigno trionfale di un signore politicamente appena riabilitato, ancora prima che si sia quietato l’effetto di rivolta emetica indotto dalle immagini di Sorrentino in Loro 1 e Loro 2...
Il fool nella sua follia si rivolge anche a molti elettori Cinque Stelle: avete lottato - lo so perché ero con voi - per preservare un po’ di bellezza dove interessi biechi la sconciavano. Ma la bellezza non è un valore, è il nome di tutti i valori, compresa la (pari) dignità di tutte le persone. Come potete ora sostenere anche la bruttezza di parole e gesta di chi la nega? Non sta lì il primo nefasto miscuglio?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
Il caso italiano
Una vicenda del tutto nuova, complessa e non priva di rischi: ma che conferma che la nostra Costituzione è ben presidiata
Il presidente garante
di Enzo Cheli (Il Mulino, 28.05.2018)
Nell’arco della nostra storia repubblicana nessun capo dello Stato si è trovato a dover gestire una vicenda istituzionale così difficile e complessa come quella che il presidente Mattarella ha dovuto affrontare nel corso dell’ultima settimana, conclusasi con la rinuncia da parte di Giuseppe Conte all’incarico di formare il nuovo governo. Una vicenda che sta suscitando polemiche e contrasti, ma che il Quirinale ha gestito con grande equilibrio e una forte attenzione al rispetto dei confini delle proprie prerogative costituzionali.
Ai sensi dell’articolo 92 della nostra Costituzione, tali prerogative affidano, com’è noto, al presidente della Repubblica il compito di nominare il presidente del Consiglio dei ministri su sua proposta (una proposta che la prassi non ha mai ritenuta vincolante) i ministri. Nella dichiarazione rilasciata dinanzi alle telecamere dopo la rinuncia del professor Conte, il presidente Mattarella ha ricostruito puntualmente i passaggi essenziali di questa vicenda che, dopo le elezioni del 4 marzo, ha preso l’avvio con il fallimento dei primi tentativi di trovare una maggioranza in grado di sostenere in Parlamento un governo politico; con l’incarico con riserva conferito a Giuseppe Conte su indicazione del Movimento 5 Stelle e della Lega che avevano raggiunto un accordo intorno a un inedito “contratto di governo”; con la condivisione da parte del presidente Mattarella di tutte le proposte per gli incarichi ministeriali formulata dal professor Conte, ad eccezione della proposta avanzata per il ministero dell’Economia, che veniva a investire un tecnico di sicura competenza e anche di antica fede europeista, ma oggi apertamente schierato a favore di una possibile uscita dall’euro del nostro Paese. Proposta che, trapelata nel corso delle trattative, non aveva mancato di allarmare i mercati europei e mondiali determinando una rischiosa e crescente pressione negativa sia sui titoli del debito pubblico sia sui titoli delle imprese quotate in borsa. Poteva il presidente Mattarella opporsi a questa designazione fino a determinare la rinuncia di Conte all’incarico ricevuto? È questo l’interrogativo che viene oggi a dividere l’opinione pubblica del nostro Paese.
A mio avviso è certo che, nell’opporsi alla proposta ricevuta, il capo dello Stato non ha invaso - come taluni affermano - la sfera dell’indirizzo politico di maggioranza, ma ha soltanto esercitato una competenza connessa alla sfera dei suoi poteri di controllo costituzionale su tale indirizzo, poteri che entrano in gioco - e che il capo dello Stato non solo è legittimato, ma anche tenuto a esercitare - ogni qualvolta l’azione del governo possa aprire la strada alla lesione di interessi di rilevanza costituzionale attinenti alla sfera dell’unità nazionale, come quelli afferenti, in particolare, alla politica estera, alla politica europea e alla politica della difesa, nonché alla politica di bilancio; tutte materie rispetto alle quali le competenze del capo dello Stato, ai sensi della Carta costituzionale, assumono un contenuto non solo formale, ma di sostanza.
Né va sottovalutato il fatto che il presidente Mattarella nel rifiutare la candidatura che gli veniva proposta non ha formulato una propria proposta, ma si è limitato a sollecitare le forze politiche impegnate nella definizione del nostro governo ad avanzare - attraverso il presidente del Consiglio incaricato - proposte alternative.
Cosa che non è avvenuta per l’irrigidimento di una delle forze in campo, particolarmente interessata a passare al più presto a nuove elezioni. Passaggio che viene, peraltro, anch’esso a collegarsi a una prerogativa fondamentale del presidente della Repubblica qual è lo scioglimento delle Camere e che il presidente Mattarella almeno sinora - e fino alla verifica parlamentare sull’assenza di qualunque maggioranza - non ha dato per scontato.
Siamo di fronte a una vicenda del tutto nuova, complessa e non priva di rischi. Ma che ha dato la conferma che la nostra Costituzione risulta ancora oggi ben presidiata.
La politica non è per gli ignoranti
Per Carlo Azeglio Ciampi studiare Filologia classica o guidare la Banca d’Italia “è la stessa cosa”. Serve disciplina intellettuale, rispetto dei documenti e ricerca della verità. Valori e metodi di cui oggi i leader sono purtroppo privi
di Salvatore Settis (Il Fatto, 17.09.2017)
Normalista dal 1937 al 1941, Ciampi si laureò a Pisa in Filologia classica. Suoi maestri furono il grande filologo Giorgio Pasquali e la papirologa Medea Norsa; fra i suoi compagni di corso c’era Scevola Mariotti, altro grande filologo che sarebbe stato suo amico di una vita.
Della Norsa, Ciampi ricordava le sofferenze dovute alle leggi razziali, ma anche la generosità di Gentile, che nel 1939 pubblicò con lo stemma della Normale (di cui era allora direttore) un volume della Norsa che un editore fiorentino aveva bloccato in ultime bozze per ragioni di “razza”.
La tesi di Ciampi era dedicata a Favorino, un retore di lingua greca del II secolo d.C., amico di Plutarco e attivo anche alla corte dell’imperatore Adriano, con cui ebbe però un contrasto finendo poi in esilio. Favorino commentò allora : “È davvero stupido criticare qualcuno che ha al suo servizio trenta legioni”. Il testo a cui è dedicata la tesi di Ciampi è una sorta di auto-consolazione filosofica “sull’esilio”, dove tra l’altro viene affermata un’idea di “patria” non come luogo di nascita, ma d’elezione: per Favorino, nato ad Arles, la vera patria era Roma, con la sua vita culturale multilingue e incomparabile.
Dopo la formazione filologica e malgrado la passione per l’insegnamento, la guerra impresse alla vita di Ciampi tutt’altro corso. Ma l’imprinting filologico della Normale non fu mai dimenticato, e lo mostra un episodio del 6 dicembre 2000, quando, da Presidente, Ciampi venne in Normale in visita ufficiale.
Egli volle allora incontrare i normalisti, e per un’ora si intrattenne a colloquio con essi con grande cordialità, tanto che qualche allievo della Scuola si prese qualche confidenza forse eccessiva, a cui Ciampi reagiva divertito. Un normalista chiese al Presidente : “Ma come mai Lei, che ha studiato filologia classica, è poi passato alla Banca d’Italia?”. Ciampi, fattosi serio senza perdere il tono affabile di quella conversazione, rispose: “È la stessa cosa. Studiando filologia classica in Normale ho imparato una disciplina intellettuale, il rispetto dei documenti e la ricerca della verità: principî che mi hanno accompagnato alla Banca d’Italia, a Palazzo Chigi, al Quirinale”.
Ma che cosa intendeva Ciampi con quelle parole, che non erano una gratuita battuta, ma una professione di fede? Io credo che con quel suo “È la stessa cosa” Ciampi intendesse due valori diversi ma convergenti: la pienezza dell’impegno civile e la centralità della competenza specifica. Virtù, quando ci sono, ugualmente importanti per un filologo classico, per un Governatore della Banca d’Italia e per un Presidente del Consiglio o della Repubblica. La Normale, Ciampi lo ripeteva spesso, è scuola di vita anche perché il suo carattere competitivo impone ritmi di lavoro inconsueti, innescando abitudini fondate sull’intensità e la densità del lavoro, sulla serietà dell’impegno personale, su un’applicazione profonda ed esclusiva ai problemi che di volta in volta si studiano. Dal lavoro solitario del normalista in biblioteca al senso di responsabilità del cittadino che si mette al servizio della comunità, Ciampi vedeva una continuità necessaria, una comune esigenza morale.
Non meno importante era stata, nel contesto degli anni Trenta, l’orgogliosa rivendicazione che la filologia debba avere piena cittadinanza non solo come mera tecnica di costituzione dei testi, ma come strumento di interpretazione storica. Quando Pasquali aveva scritto sulla Nuova Antologia del 1931 un articolo sulla Paleografia quale scienza dello spirito, stava reagendo alla concezione crociana della filologia come “utile e servizievole”, ma “senza splendori”, poiché “la filologia non è la critica e non è la storia”, discipline che esigono, scrive Croce, “robustezza di coordinato pensiero”.
Riassumendo anni dopo i termini di quella polemica, un altro grande maestro della Normale, Augusto Campana, definiva la paleografia, e con essa la filologia, come discipline “non semplicemente classificatorie, descrittive, meccaniche”, ma “miranti alla visione e ricostruzione di uno sviluppo storico, specchio e fattore della cultura in organica connessione con ogni altra componente di essa”: una forma di conoscenza piena e non ancillare.
La filologia come strumento e strategia per accostarsi non solo ai testi, ma ai problemi; non solo alla storia, ma alla realtà amministrativa e politica; non solo al passato, ma al presente. Questa concezione di Ciampi dava continuità alla sua vita di studio e di lavoro; era un’etica della competenza della quale sentiamo oggi più che mai il bisogno. L’idea che anche per chi fa politica e ha responsabilità di governo sia necessaria la minuta conoscenza dei fatti, la precisione delle informazioni, l’accuratezza nel comunicare ai cittadini quel che si sta facendo o quel che occorrerebbe fare: virtù che troppo spesso appaiono tramontate (speriamo non per sempre).
Ci è toccato invece assistere, in questi anni, al trionfo dell’incompetenza, alla sagra delle chiacchiere. Non farò alcun nome ma citerò un solo episodio, per il suo valore esemplare: qualcuno, che ricopriva un’altissima carica di governo, pur essendo laureato in giurisprudenza scambiò impunemente un ordine del giorno in Costituente (l’odg Perassi, 4 settembre 1946) per una norma transitoria (inesistente) della Costituzione, e come tale la citò ripetutamente in pubbliche argomentazioni politiche, e a proposito di una proposta di riforma costituzionale.
Altri esempi, credo, non occorrono: tutti siamo bersagli e vittime di un imperversante storytelling, secondo cui la verità dei fatti è irrilevante, e quel che importa non è se un’affermazione sia vera o falsa, ma quale beneficio apporta a chi la fa. Perciò ci tocca subire litanie di statistiche inventate o truccate senza alcuno scrupolo, e sentirle cambiare, o meglio improvvisare, da un giorno all’altro a seconda di scadenze elettorali o altre contingenze, e senza alcun rispetto per la verità; ci tocca vedere al tempo stesso la mortificazione di chi è competente, ma costretto a emigrare per mancanza di lavoro, e il trionfo arrogante di chi, pur senza sufficienti competenze specifiche, occupa posizioni di rilievo nelle pubbliche amministrazioni.
Ci tocca, e davvero vien da chiedersi quousque tandem?, vedere sulla scena politica schieramenti basati sulle appartenenze e sulle convenienze, e non sull’analisi dei problemi e sulla competenza professionale; e in nome di meri giochi di potere abbiamo visto e vediamo sbriciolarsi i dati di fatto, sparire all’orizzonte la precisione e l’attendibilità delle analisi, svanire nel nulla il pubblico interesse.
Il fermo richiamo di Ciampi alla filologia (cioè alla competenza) nell’esercizio della politica è qualcosa di cui l’Italia non ha mai avuto tanto bisogno come oggi. Se vogliamo ricordarlo senza cadere in tentazioni agiografiche, è a questa sua lezione morale che dobbiamo con altrettanta fermezza richiamarci, ripetendo senza sosta che la politica ha davvero bisogno di competenza, ha bisogno di filologia. Ne ha bisogno, oggi, più che mai.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!! Un’inchiesta e una mappa
Federico La Sala
TWEET (18.09.2016). L’ITALIA CONTESA DA "DUE" PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA E IL MANCATO " GIUDIZIO DI SALOMONE":
UN OMAGGIO A #Ciampi. A sua memoria. RIPARTIRE DALL’#Italia: VIVA L’ITALIA, VIVA LA #Costituzione ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=913
#Ciampi LA #BIBBIACIVILE e il #Giudizio di #SALOMONE (la #Cortecostituzionale senza #coscienza e #sapienza) ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5171
Come ti interrogo un presidente
di Bruno Tinti (il Fatto, 30.09.2014)
C’è una gara tra molti giornalisti italiani. Napolitano non deve testimoniare nel processo di Palermo sulla trattativa Stato-mafia. Non ha nulla da dire, non sta bene che sia sentito come testimone, trattasi della consueta arroganza di pm e giudici... Non è vero niente ma non importa: la ritrosia di Re Giorgio a sottomettersi all’articolo 1 della Costituzione e ad accettare il principio di separazione dei poteri deve essere sostenuta a prescindere; tanto più se fondata sul timore che, testimoniando testimoniando, qualche scheletro salti fuori da qualche armadio e spieghi ai cittadini perché, per lui e solo per lui, si è inventato un codice di procedura penale nuovo di zecca (nella parte relativa alle intercettazioni telefoniche).
L’opportunismo è incompatibile con la memoria; almeno con quella scomoda. Il precedente di Cossiga che, nel 1990, rifiutò di testimoniare avanti al giudice Casson nel processo Gladio se lo ricordano tutti. Anche perché Cossiga piantò un casino furibondo. Ma quello, rispettoso delle istituzioni e collaborativo, di Ciampi al tempo dell’indagine Telekom Serbia non lo ricorda nessuno.
Era il 2004 e noi (la Procura di Torino) ci trovavamo alle prese con una commissione di inchiesta parlamentare che si era fatta portare in giro da un millantatore e calunniatore di nome Igor Marini. Alcuni deputati si fecero perfino arrestare in Svizzera, dove si erano recati per prendere imprecisati documenti custoditi negli uffici pubblici di Lugano; il tutto da turisti, senza rogatorie e senza accordi con le autorità svizzere: una cosa imbarazzante. La polizia li fermò e li trattenne per qualche ora; poi li riaccompagnò alla frontiera con le orecchie rosse per la vergogna.
CERCAMMO di ricostruire la vicenda dell’acquisto di una quota di Telekom Serbia da parte di Telecom. Fu abbastanza difficile, anche per via del plotone di esecuzione parlamentare che aveva deciso di fucilare Prodi, Dini e Fassino, opportunamente accusati da Marini di aver percepito tangenti. Invece noi lo incriminammo per calunnia, reato per cui fu poi condannato.
Nel corso delle indagini, saltò fuori che l’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, poteva fornire informazioni preziose. Così Marcello Maddalena (il procuratore capo di Torino) telefonò a Loris D’Ambrosio, il magistrato che già allora era consigliere giuridico al Quirinale, e gli disse di questa nostra necessità: “Indaghiamo sull’affaire Telekom Serbia, avremmo necessità di interrogare il presidente come testimone. Si può combinare? Quando e dove vuole lui, naturalmente”. Un paio di giorni e arrivò la risposta: “Va bene tra... a Castel Porziano? ” “Certo, come no. Ringrazi il presidente da parte nostra”.
Così, in una bella giornata di luglio, arrivammo (Maddalena e io) al cancello della tenuta. Un signore ci fece strada con la sua automobile fino alla residenza del presidente. Un posto bellissimo, una casa bassa, immersa tra i pini, arredata con una raffinatezza semplice e preziosa. Ciampi ci ricevette subito; era insieme allo storico segretario generale della Presidenza della Repubblica, Gaetano Gifuni. Tanto era grosso, diffidente e un po’ altezzoso Gifuni, tanto era piccolo, gentile e semplice Ciampi.
Ci fece accomodare e ci offrì un caffè. Poi si sistemò su una poltrona e si disse a nostra disposizione. Io aprii il portatile e cominciai a scrivere. Rispose a ogni domanda, senza chiederne il motivo, in maniera chiara ed esauriente. Qualcuna di esse - era evidente - avrebbe potuto metterlo in imbarazzo: era in atto uno scontro politico senza precedenti e senza esclusione di colpi. Ma il presidente non apparve mai turbato; mai reticente, mai in cerca di risposte equivoche, raccontò quello che sapeva.
Lesse con attenzione il verbale che avevo redatto; non trovò nulla che richiedesse modifiche e pregò Gifuni di leggerlo a sua volta. In verità non era una procedura prevista dal codice ma, con uno sguardo, Maddalena e io ci trovammo d’accordo nel non sollevare obiezioni. Nemmeno Gifuni trovò nulla da ridire ma, forse per giustificare il suo ruolo, mi impegnò fastidiosamente sulla sostituzione di due o tre parole e sulla modifica di un paio di frasi che, all’esito, non mutarono affatto di significato.
PRIMA che ce ne andassimo, il presidente ci chiese se gradivamo un tè, un succo di frutta, un altro caffè. Poi ci fu una piccola conversazione nel corso della quale Maddalena gli rimproverò di aver preso una posizione pubblica a favore della Fiorentina; gli disse: “Presidente, perché non lo fa anche per il Bologna? ”, squadra di cui lui è tifoso. Ridemmo tutti (io un po’ meno perché di calcio non capisco niente) ; e poi ce ne andammo. Tempo dopo, non so chi disse a Maddalena che in effetti Ciampi aveva detto qualcosa anche sul Bologna, cosa che lo riempì di soddisfazione.
Il verbale della deposizione di Ciampi è agli atti del processo Telekom Serbia. Che non fu indolore per la politica: dimostrammo la pochezza dell’indagine e delle conclusioni (colpevoliste, ça va sans dire) della commissione parlamentare di inchiesta; gli onorevoli commissari fecero una figura barbina; e il complotto della destra nei confronti degli uomini politici di riferimento della sinistra fu smascherato. Anche, ovviamente non solo, a seguito della deposizione di Carlo Azeglio Ciampi. Esempio concreto, sarebbe bene ricordarlo ora, di un capo dello Stato garante delle istituzioni e rispettoso della Costituzione e delle leggi.
“Afascisti” e antifascisti
di Maurizio Viroli (il Fatto, 23.04.2011)
Non ricordo un 25 aprile così carico di preoccupazioni come questo che ci prepariamo a celebrare. É ormai evidente a tutti che l’attuale scontro politico in Italia è fra il signore con la sua corte da una parte e la Costituzione repubblicana dall’altra. La nostra Costituzione, ricordiamocelo, è antifascista, non afascista. I Costituenti avevano quale loro ideale guida, pur con le grandi differenze politiche e ideologiche che li dividevano, la volontà di mettere per sempre al riparo l’Italia da una ricaduta nell’orrore del fascismo. Per questa ragione, che era in sintesi un’esigenza di libertà, vollero inserire nella nostra carta fondamentale tutti i principi che il fascismo aveva deriso e calpestato: i diritti individuali, il valore supremo della persona umana, l’idea che il potere sovrano deve procedere dal basso all’alto, il concetto dei limiti imposti all’esercizio del potere sovrano da parte della Costituzione, la centralità del Parlamento, l’indipendenza della magistratura, il puntiglioso elenco delle libertà individuali, il rifiuto di qualsiasi discriminazione di razza e religione.
E PER TOGLIERE ogni dubbio in merito allo spirito che sostiene ed ispira la nostra Costituzione deliberarono, pur fra contrasti e preoccupazioni serie, di collocare fra le disposizioni transitorie e finali la norma che vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista. Non si può dunque difendere la Costituzione senza difenderne in modo intransigente il carattere antifascista.
E invece, in questa povera patria in cui si stanno perdendo anche le più elementari cognizioni di rigore intellettuale e di serietà politica e morale, l’attacco alla Costituzione tocca già l’antifascismo, e quel che più avvilisce è che si vuol distruggere l’antifascismo in nome della libertà.
È infatti in nome della libertà di esprimere le proprie idee che il senatore Cristiano De Eccher e i suoi sodali vogliono abolire la norma FINALE non transitoria (proprio non ci arrivano a capire la differenza!) XII che vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista. Come si fa a non essere d’accordo? Il fascismo è un’idea politica come le altre e dunque chi vuole professarla, in uno Stato democratico e liberale, deve essere libero di farlo.
Il problema è che lo scopo di ogni partito politico non è dibattere idee ma governare. Un partito democratico vorrà governare secondo i principi della democrazia; un partito liberale secondo i principi liberali; un partito socialista secondo i principi socialisti; un partito fascista secondo i principi del fascismo. Il che vuol dire, per essere precisi, assassinare, mettere in carcere o inviare al confino di polizia gli oppositori politici; abolire la libertà di stampa; dichiarare illegali gli altri partiti; trasformare le elezioni in ratifiche di nomine dall’alto; perseguitare gli ebrei; scatenare guerre di conquista. La riorganizzazione di un partito fascista sarebbe dunque un vero e proprio atto di guerra contro la libertà. Favorirla o non ostacolarla, vuol dire aiutare la libertà a morire, altro che difenderla.
E NON TIRIAMO fuori i soliti argomenti: ‘lasciamoli fare tanto non sono un pericolo’; ‘ma il fascismo non può tornare’ e altre cretinate del genere. Nel 1922, 1923, 1924, nessuno, o pochissimi, pensavano che Mussolini avrebbe instaurato un regime come il fascismo. Quando l’élite politica si rese conto del pericolo, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti , era troppo tardi. Per questo bisogna agire ora, con assoluta intransigenza.
La mentalità comune italiana è intrisa di anticomunismo, di razzismo, di disprezzo per il parlamento e per i metodi della democrazia, per non parlare della spaventosa ignoranza storica. Ci sono parlamentari che copiano senza batter ciglio frasi intere del ‘Manifesto degli intellettuali fascisti’ redatto da Giovanni Gentile nel 1925 per dare base ideologica al nuovo regime. In un contesto simile un partito fascista troverebbe facilmente proseliti.
E quando ciò avverrà, cosa faremo? Lo lasceremo prosperare fino a quando conquisterà il potere? O dichiareremo uno stato d’emergenza con leggi eccezionali che metteranno a repentaglio la libertà di tutti? Non trascuriamo poi il fatto che appena abolita la norma, i fascisti sfileranno liberi ed esultati nelle piazze inneggiando al duce e ai campi di sterminio. Chi sarà allora in grado di impedire gravi disordini e inevitabili tragedie?
QUANDO SI tratta di libertà e di fascismo ciascuno deve fare la sua parte, subito, senza aspettare. Anche la Chiesa deve fare sentire la sua voce. Dica la verità, dica che il fascismo è incompatibile con la fede cristiana perché questa si fonda sul carità e quello la derideva e disprezzava come segno della mentalità dei deboli, e predicò e praticò una dottrina delle razze superiori e delle razze inferiori che ripugna alla fratellanza in Cristo.
Facciano sentire, una buona volta, una voce indignata e unanime le forze politiche, le associazioni che si riconoscono nell’antifascismo e gli intellettuali. Si schierino apertamente contro l’abolizione della norma XII tutte le persone che amano davvero la libertà e non voglio metterla in pericolo per la colpevole irresponsabilità di senatori che hanno studiato il liberalismo alla corte del signore.
di Ezio Mauro (la Repubblica, 22.04.2011)
Siamo così arrivati al dunque: la Costituzione nella sua essenza, nei suoi princìpi, nel suo fondamento. Quindi la natura della Repubblica, l’equilibrio tra i poteri che si bilanciano a vicenda, il concerto istituzionale che dovrebbe dare forma repubblicana alla democrazia quotidiana del nostro Paese. Questo è il senso - più simbolico che concreto, per ora, e tuttavia oltremodo significativo - dell’ultima iniziativa della destra berlusconiana: riscrivere l’articolo 1 della Carta Costituzionale, per sovraordinare gerarchicamente il Parlamento agli altri poteri dello Stato.
Come al solito, e come avviene normalmente per ogni legge ad personam, si parte con un test, perfettamente coerente con i propositi del leader, ma tecnicamente irresponsabile. In questo caso è una proposta firmata da un deputato del Pdl che si muove «a titolo personale», senza impegnare direttamente il partito, in modo che il vertice possa saggiare le reazioni e decidere poi se cavalcare fino in fondo l’iniziativa o attenuarla, o farla cadere. O più semplicemente, come ha fatto ieri Berlusconi, prendere le distanze dal modo e dal momento della proposta, non certo dalla sostanza. Come sempre i deputati ignoti a Roma, o i candidati consiglieri comunali di Milano interpretano non solo e non tanto la volontà del Capo.
Ma interpretano anche il suo sentimento politico più profondo, e portano alla luce le pulsioni nascoste e gli obiettivi reali, insieme con l’urgenza di uno stato di necessità. Il risultato è quello che avevamo prefigurato da tempo. Poiché l’anomalia berlusconiana cresce di giorno in giorno, andando a cozzare contro i capisaldi della Repubblica (il controllo di legalità, l’autonomia della magistratura, il sindacato di costituzionalità, l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge), la destra sta proponendo il patto del diavolo al sistema democratico. Costituzionalizza l’anomalia, smetti di considerarla tale, introiettala: ne risulterai sfigurato ma pacificato, perché tutto finalmente troverà una sua nuova, deforme coerenza, e si riordinerà nella disciplina al nuovo potere, riconosciuto infine come supremo.
La questione sostanziale è la separazione dei poteri, il loro reciproco bilanciamento. Quando emblematicamente si vuole porre mano al primo gradino dell’edificio costituzionale, è per cambiare l’equilibrio dell’intero ordinamento. Ecco il senso della «centralità del Parlamento» inserita nell’articolo 1. E l’autore della proposta lo spiega con chiarezza: «Il Parlamento è sovrano, e gerarchicamente viene prima degli altri organi costituzionali come magistratura, consulta e presidenza della Repubblica». Questo perché, secondo il Pdl, oggi il Parlamento «è troppo debole» ed è «tenuto sotto scacco da magistratura e Consulta».
Va così a compimento quel tratto di "populismo reale", o realizzato, che trasforma una legittima cultura politica - la demagogia carismatica - in sistema, in forma di Stato. E prevede, fin dalla Costituzione, che il voto popolare trasfiguri con la sua unzione la maggioranza vincitrice nel dominus non soltanto del governo, ma di tutto l’ordine costituzionale, sovraordinando come logica conseguenza il Capo di quella maggioranza ad ogni altro potere, e liberandolo da ogni controllo. Si supera così il principio costituzionale secondo cui la sovranità non "emana" dal popolo verso i vincitori delle elezioni, ma nel popolo "risiede" anche dopo il voto, perché il popolo continua ad esercitarla, a «contrassegno ineliminabile - come dice il dibattito nella Costituente - del regime democratico».
È la negazione di quel "concerto" che deve guidare i vertici dello Stato nell’esercizio delle loro potestà, per una concezione antagonista e gerarchizzata delle funzioni e delle istituzioni che, se si introduce il principio di primazia e dunque di soggezione, devono subordinarsi e accettare il comando. Ed è anche la trasformazione - metapolitica a questo punto - del presidente del Consiglio in Capo, titolare di comando, supremazia e privilegio sugli altri poteri dello Stato. Con questa mutazione, cambia la natura stessa del sistema.
Formalmente, siamo sempre nella democrazia parlamentare, potenziata semmai dal richiamo formale del Parlamento come fondamento dell’intero sistema repubblicano. Di fatto, com’è ben evidente dalla prassi di questi anni che con la riscrittura della Carta diventerebbe meccanismo costituzionale, entreremmo nella fase di un inedito bonapartismo costituzionale: con l’istituzionalizzazione del carisma e con il leader eletto dal popolo che in quanto vincitore e Capo della maggioranza parlamentare si pone al vertice dello Stato libero da ogni bilanciamento. Fino a prevalere sullo stesso Presidente della Repubblica, addirittura per definizione gerarchica.
C’è un’altra questione, che non riguarda solo le istituzioni, ma chiama in causa tutti noi. Come dovrebbe essere ormai evidente, la destra oggi al potere sta saggiando il perimetro del sistema, per vedere se i muri maestri reggono, o se per sfuggire alle difficoltà del suo leader gli sfondamenti sono possibili. Purtroppo, ha verificato negli ultimi due anni che ogni forzatura è praticabile, perché le anomalie in Italia non vengono più chiamate con il loro nome, perché ogni superamento del limite non viene giudicato, anzi viene derubricato a "conflitto", mettendo sullo stesso piano chi deforma e chi difende le regole.
Le stesse regole che hanno retto il sistema per decenni, sono ormai considerate in fondo come un’ossessione privata e residua di pochi ostinati, insultati di volta in volta come "bardi", "puritani", "parrucconi", secondo la necessità di difesa del leader. Anzi, è nato il concetto nuovissimo di "regolamentarismo": è il richiamo alle regole, o alla legalità, o al diritto, trasformato in ideologismo, in burocraticismo, noioso e antiquato freno capace solo di impacciare e limitare la spada populista del comando. Una spada che se invece fosse libera e fulgida potrebbe tagliare d’un sol colpo - tra gli applausi generali, e a reti unificate - i nodi intricati della complessità contemporanea, che la politica si attarda ancora a cercare di sciogliere, perché è stata inventata per questo, prima che la riformassero.
Di chi sto parlando? Di chi ha responsabilità istituzionali, prima di tutto, e magari tace per tre giorni davanti ai manifesti ignobili sui giudici brigatisti del Pdl a Milano, e si muove solo dopo che il Capo dello Stato è intervenuto con una netta condanna. È un problema di responsabilità, com’è evidente, e di autonomia. E si capisce a questo proposito come uno degli obiettivi della destra sia stato in quest’ultimo anno quello di de-istituzionalizzare - senza riuscirci - il presidente della Camera, proprio per depotenziare questa assunzione autonoma di responsabilità istituzionale: mentre con il presidente del Senato ovviamente il problema non si pone.
Ma il tema della responsabilità, e della coscienza del limite riguarda anche la cultura, gli intellettuali italiani. Sempre pronti a parlar d’altro, a trasformare tutto in "rissa", senza distinguere chi ha lanciato il sasso e chi ha reagito, anzi invitando sempre tutti a rientrare ugualmente nei ranghi, a darsi una calmata come se fossimo davanti ad una questione di galateo e non di sostanza democratica, o come se la difesa della legalità o delle istituzioni potesse o dovesse essere messa sullo stesso piano degli attacchi. Com’è evidente, non è qui un problema di destra o sinistra. Si può essere di destra, io credo, ma dire no a certe forzature e agli eccessi che danneggiano il Paese e indeboliscono la qualità della democrazia.
Il discorso vale anche per i corpi intermedi, per l’intercapedine liberale che un decennio fa il Paese aveva e che oggi non si vede, per quel network che si considera classe dirigente, e che per diventare establishment non solo da rotocalco dovrebbe dimostrare di avere a cuore certo i suoi legittimi interessi, ma talvolta anche l’interesse generale. Vale infine per la Chiesa, che ha scambiato in questi anni con questa destra, sotto gli occhi di tutti, i suoi favori in cambio di legislazioni compiacenti, e che oggi sembra incapace di una libera e autonoma lettura di ciò che sta accadendo in Italia.
Questi silenzi, queste disattenzioni, questa finta neutralità tra la forza e il diritto lasciano non soltanto solo - com’è destino al Colle - ma fortemente esposto agli attacchi, alle polemiche e alle insofferenze il Presidente della Repubblica. Il quale si trova spesso a dover intervenire per primo e in prima persona per segnalare che si è passato un limite, perché nessuno ha sentito il dovere di farlo prima di lui: che è il garante supremo, ma non può essere l’unico ad avvertire una responsabilità che è generale, e ci riguarda tutti.
Si tratta, semplicemente, di aver fiducia davvero nella democrazia. Di credere quindi che le anomalie vadano chiamate per nome, che le forzature debbano essere segnalate come tali a un’opinione pubblica che - se informata - saprà giudicare autonomamente: nulla di più. Sapendo che la destra sta giocando una partita per lei decisiva e che questi eccessi nascono in realtà dal profondo delle sue difficoltà, perché il rafforzamento numerico frutto della compravendita nasconde una debolezza politica ormai evidente. Dunque, la partita è aperta. Dipende da ognuno di noi giocarla (per la parte che ci compete) o accettare di vivere nel Paese di Ponzio Pilato.
Parlamento inchiodato
di Rossana Rossanda (il manifesto, 22.04.2011)
Leggendo Asor Rosa, noto sovversivo, confesso di avere pensato che sollecitasse un intervento del Capo dello Stato. E così avevo letto l’articolo 88 della Costituzione che prevede la possibilità per il Presidente della Repubblica di sciogliere una camera con l’accordo di un presidente della medesima - Fini, mi ero detta. E mi chiedevo perché Giorgio Napolitano non lo facesse davanti a un premier che straparla, e mi rispondevo: forse per timore del vuoto che si aprirebbe nell’inesistenza di altre autorevoli figure.
Mi sbagliavo. Luigi Ferrajoli in privato e Gaetano Azzariti sul manifesto mi hanno spiegato che Napolitano non può: l’art. 88 non può essere letto senza l’89, per il quale qualsiasi atto del presidente non è valido senza la firma di un ministro. Siamo sul serio una repubblica parlamentare, è il parlamento che elegge il governo, un membro del governo deve firmare assieme al Capo dello Stato. Ora che un membro del governo Berlusconi firmi un gesto contro Berlusconi è impensabile. Insomma, è soltanto dall’interno della maggioranza che può partire un mutamento traumatico, come è avvenuto quando la Lega ha lasciato il Premier.
Il nostro Presidente della Repubblica ha ben pochi poteri, fra cui quello di non apporre la propria firma a una legge e rimandarla alle Camere, ma soltanto una volta; se queste gliela ripresentano, deve firmare. Di soltanto suo, Napolitano ha la facoltà di indirizzarsi alle Camere, ammonendo: «Questo è troppo!». In un paese civile sarebbe un terremoto. Da noi il governo attuale, la sua ipermaggioranza è capace di rispondere: «E chi se ne frega?».
Per chi, come me, vive in una repubblica presidenziale, dove il capo dello stato non è super partes ma il rappresentante supremo della parte che ha vinto, si confonde con il primo ministro, può smentirlo da un giorno all’altro, avanza proposte che il governo ignorava ed è costretto a seguire o viceversa, una repubblica parlamentare appare di gran lunga preferibile. Il generale de Gaulle - mi dico con sollievo - non è passato di qui. Come è dunque che siamo senza via d’uscita?
E’ chiaro che i padri costituenti non avevano neppure immaginato un premier come Berlusconi. Ma neanche a maggioranze del tutto impermeabili a una dialettica decisiva fra coscienza del paese e istituzioni.
Nell’estate del 1960, per avere fatto un accordo con i fascisti, suscitando la collera popolare e mandando l’esercito a reprimerla, Tambroni cadde velocemente - non la forma ma la sostanza del suo agire apparve intollerabile alla sua stessa parte. Ed è invece dalla tolleranza di qualsiasi assurdità di Berlusconi - come nel caso di Ruby, votato da 314 deputati come problema di politica internazionale - che Berlusconi è reso intoccabile. Di più penso che i costituenti, affidando questo potere alla maggioranza, la pensassero del tutto rappresentativa del voto, ignorando che potesse essere gonfiata attraverso un premio di maggioranza che la allarga molto al di là della sua effettiva presenza elettorale.
La Dc governò quasi quarant’anni con una maggioranza relativa che la obbligava a tener conto degli alleati, e quando tentò di far passare un premio di maggioranza che era uno scherzo rispetto al "porcellum", la gente si levò contro la "legge truffa", e questa cadde. Se si votasse con una proporzionale decente Berlusconi avrebbe una assai modesta maggioranza relativa; la Lega non basterebbe e una sua caduta per via parlamentare sarebbe possibile. Ma con il "porcellum" e il premio di maggioranza che comporta, la dialettica parlamentare è azzerata.
Come è possibile che in una repubblica così assolutamente parlamentare, sia lecito inchiodare così il parlamento? La risposta è semplice: la legge elettorale detta "porcellum" piaceva non solo a Berlusconi ma anche a D’Alema, Veltroni, Prodi - solleticati dall’idea di funzionare come potere assoluto, iperpresidenti. Nessun governo di centrosinistra si sognò di cambiarla.
Repubblica virtuosamente parlarmentare ma eletta con un meccanismo che fa schifo. Tale che anche se l’opposizione non fosse invertebrata, come è, sarebbe in difficoltà. Così, sommando alla sua debolezza le proporzioni della maggioranza, Berlusconi non è minacciato "dal basso". Lo fu un momento, a novembre, e il Capo dello Stato, volendo far passare i bilanci nei termini legali, gli lasciò il tempo di comperare alcuni deputati. Non c’è procedura, per perfetta che sia, in grado di proteggere da una opacità delle coscienze, e questa presenta di regola il suo prezzo. Asor Rosa ha un bell’invocare uno stato d’emergenza democratica. E’ il senso della parola "democrazia" che è sfuggito a destra e a sinistra. E, visto che c’è chi sospetta che egli evochi un golpe dei carabinieri, vien da pensare che sia sfuggito anche «a sinistra in basso».