In un bel documentario dal titolo «1512. La volta di Michelangelo nella Sistina compie 500 anni» mandato in onda, ieri, 31 ottobre 2012 (giorno dell’anniversario) su TV2000 alle ore 13.05 (e replicato alle 23.05) con Antonio Paolucci, Gianluigi Colalucci e cardinale Gianfranco Ravasi,
il cardinale dichiara, con la massima autorevolezza e con la massima ’innocenza’, che nella Volta della Sistina insieme alle figure centrali relative al testo del Genesi, ci sono i profeti e le sibille, e la presenza di "queste donne" è definita come "il più curioso" elemento della narrazione michelangiolesca.
Evidentemente, dopo 500 anni, per la teologia della Chiesa cattolico-romana, la loro presenza è decisamente ancora un problema, un grosso problema! (Federico La Sala, 01.11.2012)
Sul tema, per approfondimenti, mi sia consentito, si cfr.:
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.
La Volta Sistina compie 500 anni
di Antonio Paolucci (Il Sole-24 Ore, 28 ottobre 2012)
Ci sono date destinate a rimanere indimenticabili nella universale storia delle arti. Una di queste è il 1508. Quell’anno Giulio II della Rovere un vecchio papa che sembrava amare la politica, la diplomazia e la guerra più di quanto non amasse la pittura, chiama al suo cospetto due artisti. Uno è un ragazzo di appena venticinque anni, Raffaello Sanzio da Urbino, e a lui chiede di dipingergli ad affresco le pareti del suo appartamento privato, le Stanze più famose del mondo, quelle che da allora in poi tutti conosceranno come "di Raffaello".
L’altro è Michelangelo Buonarroti, giovane uomo di trentatré anni, celebre per i capolavori di scultura (la Pietà di San Pietro, il David di Piazza della Signoria) lasciati a Roma e a Firenze. A quest’ultimo affida la decorazione della volta nella "cappella magna" che quasi trent’anni prima (1481-83) il papa all’epoca regnante, lo zio Sisto IV, aveva fatto affrescare lungo le pareti dai grandi professionisti umbri e toscani di quegli anni; dal Ghirlandaio, dal Botticelli, dal Perugino, fra gli altri.
Incomincia così nel 1508 l’avventura della volta della Sistina, il duello, quasi il corpo a corpo di Michelangelo con gli oltre mille metri quadrati di intonaco da riempire di centinaia di figure. Il contratto è dell’8 Maggio 1508, l’inaugurazione della prima parte, dall’ingresso fino al centro, è del 15 agosto del 1511, del 31 ottobre 1512 la conclusione dei lavori.
Nel pomeriggio del 31 ottobre di Cinquecento anni fa, ai Vespri della vigilia di Ognissanti, il Papa (con «17 cardinali in cappa festiva» scrive il cronista) inaugurava la grande impresa. Da quei più di mille metri di pittura oggi sospesi sui cinque milioni di visitatori che ogni anno attraversano la Sistina, è precipitato sulla storia dell’arte italiana ed europea - scriverà il Wölfflin nel 1899 con una bella metafora - qualcosa di paragonabile a un «violento torrente montano portatore di felicità e al tempo stesso di devastazione».
Di fatto, dopo la volta della Sistina, nulla sarà più come prima. Incomincia da quel 31 ottobre del 1512 la stagione che i manuali chiamano del Manierismo. Al punto che Giorgio Vasari, in un passaggio famoso delle Vite, potrà scrivere: «questa opera è stata ed è veramente la lucerna dell’arte nostra, che ha fatto tanto giovamento e lume all’arte della pittura, che ha bastato a illuminare il mondo». In una trentina di parole tre volte con tre diversi vocaboli ("lucerna", "lume", "illuminare") il Vasari esalta il concetto di un’opera destinata a svelare e a guidare il destino delle arti nel tempo a venire. In un certo senso le cose sono andate proprio così, a tal punto grande è stata l’influenza che quegli affreschi hanno esercitato sugli artisti d’Italia e d’Europa.
La bibliografia sulla volta della Sistina è così vasta che basterebbe a riempire una biblioteca di medie dimensioni. Del resto l’immane sciarada teologico scritturale che Michelangelo dispiegò nel cielo della "cappella magna" offre di continuo occasioni di singolari interpretazioni e decodificazioni. Il formidabile genio mitopoietico del Buonarroti, la sua ineguagliata capacità di inventare situazioni iconografiche radicalmente nuove, spalancano praterie sterminate agli esegeti contemporanei, specie a quelli di scuola americana.
Per esempio. Di recente, qualcuno con una ipotesi certo fantasiosa e improbabile però suggestiva, ha voluto riconoscere nel gruppo di Dio Padre circondato dagli angeli che "crea" un Adamo già esistente e perfettamente formato, il profilo di un cervello umano. Quasi che quella scena fosse il manifesto di un Michelangelo creazionista precursore del "disegno intelligente".
Molte cose si sono dette e si diranno ancora sulla volta della Sistina. A me piace ricordare l’impresa della volta così come ce la racconta Michelangelo stesso in un celebre sonetto autocaricaturale il cui originale si conserva negli archivi di Casa Buonarroti a Firenze.
I’ho già fatto un gozzo in questo stento
come fa l’acqua a’ gacti in Lombardia
o ver d’altro paese che si sia,
ch’a forza ’l ventre appicco sotto l’mento
la barba al ciel, e la memoria sento
in sullo scrigno, e l’pecto fo d’arpia
e ’l pennel sopra ’l viso tuctavia
mel fa, gocciando, un ricco pavimento...
Il testo è grottesco, surreale, sulfureo. Parla di un uomo che il lavoro stravolge e disarticola, che non si sente adatto, da scultore, alla pratica della pittura a fresco, che prova rabbia, delusione, sconforto e che pure è capace di esaltare con due versi bellissimi («e ’l pennel sopra ’l viso tuctavia mel fa gocciando un ricco pavimento») la faticosa gloria dell’arte.
«1512. La volta di Michelangelo nella Sistina compie 500 anni» è il titolo del documentario realizzato da Nino Criscenti in onda il 31 ottobre (giorno dell’anniversario) su TV2000 alle ore 13.05 (replica 23.05) con Antonio Paolucci, Gianluigi Colalucci e cardinale Gianfranco Ravasi.
Lo stesso 31 ottobre, su Rai Storia (ore 23), va in onda il documentario «Michelangelo e la Sistina. Storia di un’opera d’arte» di Piero Badaloni e Nino Criscenti con Antonio Paolucci, Gianluigi Colalucci e Massimo Firpo.
MICHELANGELO E GHIBERTI. Una nota:
PROFETI E SIBILLE.LA PORTA DEL PARADISO: Forse deriva proprio dall’antico nome del luogo l’appellativo di "Porta del Paradiso", mentre Vasari fornì un versione diversa, attribuendo l’idea a Michelangelo, che osservando le due ante bronzee avrebbe pronunciato: «elle son tanto belle che elle starebbon bene alle porte del Paradiso».
FRANCESCO DI PAOLA (1416-1507) |
1512 - Giulio II, il 13 maggio, emana un breve con cui ordina di iniziare le indagini canoniche intorno alla vita, alle virtù e ai miracoli di frate Francesco [di Paola] per la sua canonizzazione.
1513 - Leone X, il 7 luglio, eleva Francesco all’onore dei beati. I frati possono ora celebrare la festa il 2 aprile.
1519 - Leone X, il 1° maggio, canonizza Francesco, iscrivendolo nel "Catalogo dei Santi Confessori", e stabilendo la celebrazione della festa in tutta la "Chiesa universale il giorno 2 aprile" (cfr.: Daniele Macris, Giuseppe Tallarico, La canonizzazione di san Francesco di Paola, Editore Pubblisfera, San Giovanni in Fiore, 2012, p. 31).
DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!!
Federico La Sala
Ildegarda di Bingen, Caterina da Siena, Teresa d’Avila e Teresa di Lisieux
di Cettina Militello (L’Osservatore Romano, 05 aprile 2025)
Quattro donne sono state riconosciute dottore della Chiesa. Il filo rosso che le lega è quello dell’esperienza mistica e della profezia. Di Ildegarda sappiamo che fu votata a Dio piccolissima. Per noi è impensabile consegnare a un eremo una bimba di otto anni. Eppure il contesto che l’accolse e l’educò ne favorì le doti straordinarie. Sì perché abbiamo a che fare con una visionaria nel senso più pieno, con una donna per così dire travagliata dallo straordinario. E poiché ai suoi tempi era assai sottile il confine tra stregoneria ed esperienza mistica, il suo corpo ha finito con il ribellarsi. Giovane monaca resta paralizzata sino a quando il discernimento operato su di lei le riconosce il carisma profetico. Ecco, Ildegarda è profetessa che alle ardite visioni unisce una conoscenza enciclopedica. La vediamo cimentarsi in tutti gli ambiti delle scienze allora conosciute: Scrittura, teologia, anatomia, medicina, farmacologia, astronomia, gemmologia, musica, poesia ... insomma, chi più ne ha ne metta.
Fondatrice di un monastero autonomo, tesse le sponde del Reno predicando nelle cattedrali che vi si affacciano. Interlocutrice di papi e imperatori non esita a denunciare le piaghe della Chiesa.
La si può considerare pazza o posseduta. E pazza di certo è alla maniera in cui Francesco di Assisi, un secolo dopo, si definirà nella modalità sua di sequela di Cristo un “novello pazzo”.
La pazzia indica una condizione borderline, e uso il termine nel senso letterale dello stare su un confine, quello tra l’umano e il divino, del situarsi nella concretezza della propria e altrui storia e protendersi verso Dio facendogli totalmente spazio sino ad essere e apparire appunto sulla soglia, in qualche modo anormali, perciò capaci di parole eclatanti, forti, profetiche nella misura in cui mostrano il presente nelle sue contraddizioni e perciò spingono la Chiesa alla riforma. Un solo esempio. Già anziana, Ildegarda da ospitalità nel cimitero del monastero ad un uomo scomunicato, che alla fine della sua vita si è pacificato con la Chiesa. Non ne accettano la riconciliazione gli ecclesiastici del luogo che vorrebbero ne disseppellisse il cadavere. Ildegarda rifiuta, si appella al papa e vince la causa, ma per un lunghissimo tempo sul monastero graverà l’interdetto. Le monache saranno private di tutto ciò che caratterizza la loro vita: liturgia, assistenza spirituale, suono delle campane... La lotta intrapresa ne accelera la morte. L’episodio ci dice la capacità sua di donna di opporsi all’ingiustizia, rischiando certo, ma testardamente allineata sul primato della giustizia e della misericordia.
Ildegarda sottopone il suo primo testo profetico, lo Scivias, a Bernardo di Chiaravalle, monaco rancoroso e partigiano, inflessibile con quanti non ne condividono il pensiero. Ma tutte mistiche di cui parliamo in un modo o nell’altro devono sottoporsi al giudizio clericale e maschile. Paradossalmente solo per questa via acquisiscono autorevolezza e, benché donne, hanno diritto alla parola.
Avviene così anche a Caterina da Siena, donna singolarissima, anch’essa interlocutrice di imperatori e papi. Ma, a differenza di Ildegarda, non ha avuto altri maestri che lo Spirito. Deve a lui la scienza che trasborda dai suoi scritti. L’agiografia dice che a un certo punto fu in grado di leggere e scrivere senza avere avuto maestri. Terziaria domenicana vive in una situazione a mezzo tra secolarità e vita religiosa. Membro di una numerosissima famiglia ne delude le aspettative di un vantaggioso matrimonio. La sua influenza e la sua parola inquietano l’ordine domenicano che le invia quale “inquisitore” un saggio confratello. Raimondo da Capua, poi generale dell’ordine, esaminandola, diventerà suo fedelissimo seguace.
Difficile compendiare in poche righe l’influenza che questa donna ha avuto nella Chiesa del suo tempo. Si è portata in Francia per convincere il papa a ritornare a Roma. Lacerante, fuori le righe, la sua passione per la pace. Commovente la sua fedeltà al papa, indicato secondo la teologia del tempo quale “dolce Cristo in terra”.
Caterina sperimenta le vette ardite delle nozze mistiche. Non solo la transverberazione, ossia il vivere nell’estasi l’esperienza del cuore trafitto dal dardo dell’amore divino - come avverrà a Teresa d’Avila -ma addirittura lo scambio dei cuori tra lei e Cristo sposo. Sicuramente anoressica, si nutre della sola eucaristia e si strugge d’amore per la Chiesa.
Teresa d’Avila ci ha lasciato anch’essa una ricca produzione letteraria che ne illustra la vicenda riformatrice e il percorso mistico. I chierici contemporanei non l’hanno amata, anzi osteggiata. Emblematico il giudizio su di lei espresso dal nunzio pontificio in Spagna: «Femmina inquieta, errante, disobbediente e ribelle che sotto il titolo di devozione, inventa male dottrine, andando fuori di clausura contro l’ordine del concilio tridentino e dei prelati, insegnando come maestra contro quello che san Paolo ha raccomandato ordinando alle donne di non insegnare».
Pazze sinché si vuole, ma lucidamente consapevoli di doversi adoperare per una intelligenza sapida dell’evangelo. Ma anche tormentate intimamente dinanzi al pericolo di una insidia diabolica. Parossistico il bisogno di Teresa d’essere assicurata circa la soprannaturalità del proprio vissuto. Resta però emblematica nel suo denunciare quanto ha sofferto perché donna. Si augura infatti un tempo in cui le donne siano giudicate non a partire da un pregiudizio misogino, ma per il loro valore.
Teresa di Lisieux sembra davvero fuori il turbine sconvolgente di queste sue sorelle. Ma non è pazzia volersi chiudere nel Carmelo a quindici anni? Addirittura recarsi a Roma per averne il permesso dal papa? E proprio a Roma lei e la sorella infrangono i divieti, pena la scomunica, entrando in luoghi interdetti alle donne, non senza una punta di rivolta.
Di Teresa “dottore” e della sua “piccola via” si è tanto scritto. Mi piace ricordare quel passaggio in cui nel vortice delle vocazioni che vorrebbe far sue, prima d’arrendersi alla più ovvia - l’amore - dice che sentiva anche la vocazione a esser prete.
Piccola martire di una comunità rigorosa, sapiente interprete di un Dio misericordioso a cui si immola, anche lei vive alle frontiere di una pazzia che, a riandare al significato che il termine ha nella lingua greca, alla fine indica una persona “posseduta”. Nel nostro caso si tratta di donne possedute da Dio. Ovvero di donne che hanno scelto di farsi “invadere” da Dio aprendosi al suo amore oltre ogni ragionevole limite. Donne non rinunciatarie, ma prepotentemente attive. Donne sagge, sapienti il cui magistero ci interpella a tutt’oggi.
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di Cettina Militello
Teologa, vice-presidente della Fondazione Accademia Via Pulchritudinis ETS_
STORIA, FILOLOGIA, ARCHEOLOGIA, ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA-POLITICA.
"COSTANTINO" E "COSTANTINISMO". Per fare "#mente locale" sulla #hamletica #question (#Shakespeare), forse, è bene ricordare - in memoria di #Dante Alighieri e di #Lorenzo Valla - due contributi sul tema:
ANTROPOLOGIA E "DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (S. FREUD, 1929): L’URLO DI "JUDITH SHAKESPEARE".
A MEMORIA DI VIRGINIA WOOLF, a suo onore e gloria, forse, è bene rimeditare le sue stesse parole, "pronunciate" nella sua conferenza dedicata al tema di "Una stanza tutta per sé": "[...] sarebbe stato impossibile, completamente e interamente impossibile che una #donna scrivesse nell’epoca di Shakespeare le #opere di Shakespeare. Immaginiamo, giacché ci riesce così difficile conoscere la realtà, che cosa sarebbe successo se Shakespeare avesse avuto una sorella meravigliosamente dotata, chiamata Judith, diciamo." (Virginia Woolf, "Romanzi e Altro", Mondadori, Milano).
"TO BE, OR NOT TO BE - THAT IS THE QUESTION" ("HAMLET, III.1). Se si considera il luogo e la modalità della morte di Virginia Stephen Woolf, con i suoi particolari riferimenti ("appoggia il suo bastone da passeggio sull’argine dell’Ouse e poi si getta nelle acque del fiume"), data la dichiarata "sorellanza" di "Judith" con "William Shakespeare" e la sua urlata domanda amletica sul «Chi mai potrà misurare il fervore e la violenza del cuore di un poeta quando rimane preso e intrappolato in un corpo di donna?», come non "registrare" (chissà se mai è stato fatto) la forte "consonanza" con il "racconto" della regina Gertrude sulla morte di Ofelia: "C’è un salice che cresce di traverso /a un ruscello e specchia le sue foglie /nella vitrea corrente; qui ella venne [...]" ("Amleto", IV. 7); e, come non sollecitar-si a una riletture delle opere degli "Shakespeare" e a una più ampia e profonda riflessione sulla "tragedia" della questione antropologica?!
Federico La Sala
Dalla loro “follia” è nato il Vangelo della resurrezione
di Marinella Perroni (L’Osservatore Romano, 05 aprile 2025)
A volte sono proprio i problemi che inducono la curiosità, spingono a porsi qualche domanda e fanno scoprire qualcosa di nuovo. Se si ha un po’ di familiarità con gli scritti del Nuovo Testamento, anche senza essere addetti ai lavori si può percepire qualcosa che lascia perplessi e fa nascere interrogativi. Per esempio: c’è un legame tra resurrezione di Cristo, donne e follia?
Un confronto illuminante
Il confronto tra i racconti delle apparizioni pasquali dei quattro vangeli e un testo particolarmente conosciuto di una lettera di Paolo è illuminante. I tre vangeli sinottici concordano nel dire che, oltre a essere state testimoni oculari della morte e della sepoltura, le discepole che avevano seguito Gesù dalla Galilea a Gerusalemme, cioè lungo tutta la sua missione, sono anche le prime testimoni dell’apparizione pasquale dell’Angelo che consegna loro l’annuncio dell’avvenuta resurrezione e le investe del compito di diffonderlo tra i discepoli. Dal canto suo Giovanni si serve di tradizioni diverse, ma la sostanza è la stessa: protagoniste dei racconti di apparizione non sono le discepole galilee, ma è colei che ne rappresenta in qualche modo la responsabile, Maria di Magdala, a cui è riservata l’unica apparizione individuale del Risorto e l’esplicita consegna del mandato apostolico nei confronti degli altri discepoli.
Invece Paolo, nella sua prima Lettera ai cristiani di Corinto, correda la dichiarazione di fede sulla morte e la risurrezione di Cristo con un elenco di diverse apparizioni del Risorto suffragate da una lista di nomi che hanno la funzione di comprovare i fatti a partire dalla testimonianza degli stessi protagonisti, rappresentano cioè la garanzia di quello che la formula dichiara: Cefa, i Dodici, cinquecento fratelli, poi Giacomo e tutti gli apostoli hanno fatto l’esperienza delle apparizioni del Risorto come, più tardi, l’ha fatta anche Paolo stesso. Tutti sono rigorosamente maschi. Paolo dice di aver ricevuto quella formula e questo significa che, quando lui scrive la lettera negli anni 50, essa doveva rappresentare già un punto fermo della prima catechesi cristiana. Quanto viene tramandato nelle comunità giudeo-cristiane dell’epoca, dunque, è che l’annuncio della fede pasquale e la testimonianza della resurrezione, sono garantite unicamente da maschi. Come mai se, come abbiamo detto, per tutti e quattro gli evangelisti sono invece solo le discepole galilee che fanno la prima esperienza della Resurrezione quando, al mattino di Pasqua, trovano il sepolcro vuoto?
Non è facile interpretare un tale strabismo della tradizione. Soprattutto in un tempo come il nostro in cui siamo presi in ostaggio dalla consapevolezza della tensione tra Fact e Fake ed è ancora più difficile ricostruire fatti avvenuti in un tempo molto lontano e il cui racconto ci è pervenuto solo grazie a una catena di interpretazioni. Un’indicazione però c’è e merita di essere presa sul serio.
Il filo rosso della “follia”
È interessante notare che al più antico dei vangeli, quello di Marco, viene aggiunta una seconda conclusione in cui si fa esplicito riferimento proprio alle apparizioni alla Maddalena e ai due sulla strada di Emmaus, ma si insiste anche sul fatto che nessuno degli altri discepoli aveva creduto alla loro testimonianza e che questo diviene addirittura motivo di rimprovero da parte del Risorto stesso, durante l’ultima decisiva sua apparizione all’intera comunità liturgicamente riunita intorno agli Undici, «perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risorto» (Marco 16,9-20). Si può capire, forse, la necessità apologetica di garantire che la tradizione sulle apparizioni non si basasse su esperienze individuali che potevano essere considerate poco verificabili, ma fosse piuttosto radicata nella realtà di un intero movimento religioso già in qualche modo strutturato e che faceva riferimento all’autorità morale dei discepoli storici di Gesù. Colpisce, comunque, che la forza della testimonianza profetica delle discepole, se da una parte risulta un elemento geneticamente irrinunciabile per la nascita dell’annuncio pasquale, deve d’altra parte essere temperata dalla consapevolezza della sua dubbia credibilità: alle donne si deve la genesi della fede nella resurrezione, ma ci si rimette in credibilità se si da troppo risalto alla loro testimonianza. Perché?
Da questo punto di vista l’evangelista Luca è quello che consente di chiarire almeno un po’ i termini della questione. Per lui, quando Maria Maddalena, Giovanna e Maria madre di Giacomo, nonché le altre che erano con loro, hanno raccontato agli apostoli la loro esperienza di apparizione «quelle parole parvero a loro come un vaneggiamento e non credevano ad esse» (24,11). Secondo il terzo evangelista, anche alla testimonianza dei due discepoli di Emmaus non viene prestata fede, ma costituisce, di fatto, un’esperienza comunicabile e credibile (24,35) come quella a Simone va considerata un evento autorevole (24,34), mentre solo quella alle donne rappresenta un vaneggiamento: le donne annunciano un kerigma incredibile (24,9-11) e trasmettono un’esperienza estatica che risulta incomunicabile (24,22). Il legame tra visione profetica e allucinazione, tra esperienza estatica e follia comincia a farsi strada.
C’è poi un episodio narrato nel libro degli Atti degli Apostoli che ancora una volta mette in rapporto resurrezione, donne e pazzia. Quando Pietro, dopo essere stato liberato dal carcere da un angelo, bussa alla porta della casa di Maria «dove molti erano riuniti e pregavano», la giovane domestica di nome Rode che gli apre, e che corre ad annunciare che lui è alla porta, è giudicata pazza. Si tratterà pure di uno stratagemma letterario per far crescere la tensione narrativa, ma ancora una volta è un vaneggiamento femminile che è motivo di incredulità. Anche Paolo, quando parla di risurrezione di fronte a filosofi epicurei o stoici e all’Aeropago di Atene, viene trattato da ciarlatano o deriso (Atti 17,16-34), ma la sua visione del Risorto sulla via di Damasco non è mai stata tacciata di follia.
I commentatori sono concordi nel riconoscere che la tradizione sulle apparizioni pasquali alle donne e, con essa, l’accusa di fondare la nuova fede su un’allucinazione, deve essere stata molto radicata e diffusa nei primi tempi cristiani. Ancora nella prima metà del iii secolo il dottore della Chiesa Origene reagisce polemicamente contro un filosofo di nome Celso che accusava i cristiani di fondare la loro fede sulla testimonianza di una «donna pazza» dicendo, però, di non conoscere Maria Maddalena e portando come esempi alternativi Pietro e Paolo. Misoginia da entrambe le parti? Possibile. Si tratta però di una spiegazione ancora insufficiente.
È del tutto ragionevole che una nuova religione che voleva farsi spazio all’interno di un mondo culturalmente e religiosamente complesso come quello dell’impero dovesse assumere il principio patriarcale di autorità e perseguire quindi la propria legittimazione sull’esclusione delle donne non soltanto da ruoli e uffici, ma perfino dalla costruzione della memoria collettiva. Questa logica ha presieduto all’edificazione della “grande Chiesa” e alla sua progressiva istituzionalizzazione. La questione seria però è un’altra. Infatti, la fede nella resurrezione di Cristo poteva nascere solo al di fuori di questa logica, poteva essere indotta solo sulla base di fenomeni mistici, visionari e di profetici slanci in avanti. Solo una fede visionaria che salta i confini della stretta ragione ma è in grado di coinvolgere tutti i sensi nell’esperienza di una dimensione del sacro accessibile unicamente in termini mistici poteva far saltare tutte le regole. E per questo forse, solo le donne, da sempre sentinelle alle porte di ingresso nella vita e di uscita dalla vita, sentinelle del segreto della nascita e della morte, potevano arrivare per prime a percepire come possibile un modo altro di incontrare il Maestro, di tenerne viva la memoria, di non cercare tra i morti colui che è vivo.
Per questo i Vangeli, nonostante l’ostilità diffusa nei confronti delle testimonianze delle donne in tutti gli ambiti pubblici, non possono fare a meno di riconoscere che solo il loro protagonismo ha reso possibile il passaggio dal discepolato nei confronti di un rabbi e di un messia a un altro discepolato, quello nei confronti di colui che «non è qui, è risorto» (Luca 24,6). La loro fede visionaria sconfina in quella che, secondo la logica del mondo, va chiamata “follia”? È del tutto possibile, e non è un caso se ben presto è stato necessario attivare processi in grado di garantire alla nuova fede la legittimazione di autorevoli figure maschili. Per Marco, Matteo, Luca e Giovanni, però, è proprio dalla loro “follia” che è nato il vangelo della resurrezione.
L’IMMAGINARIO COSMOTEANDRICO DEL DEMIURGICO "VASAIO" BIBLICO E PLATONICO (E L’IMPOSSIBILE USCITA DALLA CAVERNA DEL NARCISISMO). *
IL "PADRE" DI ADAMO-PIGMALIONE AL LAVORO:
ADAMO ED EVA
UNA LETTURA PSICOANALITICA
di Gianfranco Ricci (4 apr 2024)
Il racconto di Adamo ed Eva è contenuto nel primo libro della Bibbia, la Genesi.
In particolare, uno dei dettagli più celebri del racconto biblico di Genesi è quello relativo alla creazione di Eva:
Nel corso del Seminario X, “L’angoscia” (1962-1963) e nel Seminario XV, intitolato “L’atto psicoanalitico” (1967-1968), Jacques Lacan commenta il racconto biblico di Adamo ed Eva.
Nel Seminario X Lacan introduce un neologismo: “sépartition” (separtizione). Adamo, l’unico uomo, vede venir meno la sua unità, la coincidenza tra Uno e Altro, perdendo una parte di sé.
Come sottolinea Massimo Recalcati nel libro “La legge della parola”:
La perdita della costola non lascia un segno ma fonda nell’uomo, fin dall’origine, l’esperienza della mancanza, del meno, della perdita.
L’azione di Dio, nella lettura di Recalcati, è definibile come “taglio separtitore”, capace di dividere soggetto e oggetto, separandoli per sempre, a partire da un orizzonte mitico, fuori dal tempo.
Per Lacan il racconto biblico diviene esempio paradigmatico per spiegare la teoria dell’oggetto causa del desiderio, chiamato oggetto piccolo (a).
Per Lacan, la condizione di Adamo, separato da Dio della propria costola e quindi impossibilitato a fare meno del rapporto con l’Altro, è alla base della possibilità stessa di far esistere il desiderio.
Il desiderio, sottolinea Lacan, ha sempre di mira l’oggetto perduto, che il soggetto cerca di ritrovare.
L’azione del linguaggio, che separa l’uomo dal suo oggetto, è a causa del desiderio stesso. Per questo la costola sottratta ad Adamo, e pertanto non più recuperabile, è alla base di due aspetti centrali del desiderio per Freud: l’oggetto è per sempre perduto (Adamo non potrà ottenere di nuovo la sua costola) e il soggetto ricerca il suo oggetto nel luogo dell’Altro (Adamo orienta il suo desiderio verso Eva).
Per Lacan, l’oggetto piccolo (a) è il nome di questo oggetto staccato dal corpo e perduto per sempre.
Per questo, sottolinea Lacan, l’esperienza che Adamo fa di Eva è “etero”: non si tratta di porre l’accento sulla differenza dei corpi, bensì su una non coincidenza, su una diversità di fondo.
Adamo, che ha visto sottrarsi la costola, finisce con il non coincidere più con il se stesso che è stato; dall’altra, Eva, scaturita dalla costola, non può tornare più a far parte di Adamo.
Il mito dell’Uno, dell’unione mitica senza scarti e senza resti, nell’immaginario biblico tramonta per sempre, lasciando spazio al desiderio.
Per questo, Recalcati conclude sottolineando che “il mito biblico della costola perduta è dunque il mito dell’origine del desiderio umano: ricercare nell’Altro la parte più irraggiungibile di me stesso. La relazione con l’eteros sorge dunque da questa urgenza.”
Nel corso del Seminario X, Lacan sottolinea una caratteristica fondamentale dell’oggetto perduto come inteso da Freud: non si tratterebbe di una parte del corpo materno (il seno) staccato dal corpo della madre e portato con sé dal piccolo, bensì dell’esperienza dei “pezzi” del corpo materno vissuti come parte del proprio corpo.
Il bambino quindi vivrebbe il seno materno come parte stessa del proprio corpo, provando profonda angoscia e un vissuto di orrore e perdita nel momento del distacco, come se la separazione fosse, in origine, una mutilazione dei corpi.
Questo dettaglio si accorda con il mito biblico: Eva non sarebbe altro se non una parte del corpo di Adamo, la celebre costola. La perdita di una parte di Sè aprirebbe quindi al rapporto con l’Altro, facendo crollare il mito narcisistico di unità che abita come un fantasma l’animo umano.
* ARTE, TECNOLOGIA, E LETTERATURA: UNA RISATA VI SEPPELLIRA’.
Un "Sillo", una parodia critica della filosofia dell’uomo dell’età delle macchine di Giacomo Leopardi:
"Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi" ("Operette morali", 1827).
ANTROPOLOGIA #FILOLOGIA #ARCHEOLOGIA E "#CHARITAS":
IL "TONDO DONI" (#MICHELANGELO #BUONARROTI).
SE SI PENSA, COME SI CREDE ( «I Papi Giovanni XXIII e Francesco “sognatori” come san Giuseppe» ), CHE "secondo le Scritture i “#sognatori” sono «gli unici capaci di far andare avanti la storia», facendola «uscire dai vicoli ciechi creati dagli uomini». E san Giuseppe è il #modello «di ogni credente chiamato a essere un sognatore: uomini e donne che fanno la volontà di Dio; giusti che ascoltano la sua parola» [...]" (cfr. L’Osservatore Romano, 21 marzo 2025), ALLORA NON RESTA CHE "#SOGNARE", FARE IL #SOGNO DI TUTTI I BAMBINI E DI TUTTE LE BAMBINE DEL "MONDO", E, RICONOSCERE E RESTITUIRE A #GIUSEPPE, ACCANTO A #MARIA, E, A MARIA ACCANTO A GIUSEPPE, #DIGNITA’, #ONORE E #GLORIA.
Federico La Sala
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA: DA #DANTE ALIGHIERI E #MICHELANGELO #BUONARROTI, UNA SOLLECITAZIONE A RIPENSARE L’ UNO (#ONU), AL DI LA’ DEL #PLATONISMO E DEL #PAOLINISMO.
ARTE E ARITMETICA: IL "QUADRATO" DEL "CERCHIO". IL "TONDO DONI" E QUATTRO PROFETI (2+2= 4). Per la "Galleria degli Uffizi" nella cornice, sono "raffigurate la testa di Cristo e quelle di quattro profeti". Ma, per Michelangelo, non è la testa di Gesù Cristo e non sono le teste di due profeti e #due #sibille?!
Non è meglio ri-#contare? Oppure è da ritenersi la punta di un "iceberg", di una questione antropologico-teologica "eterna"?!
Questa la "question" (Shakespeare): una questione antropologica e teologico-politica. Ri-pensare #comenasconoibambini: ri-considerare la #Relazione di "#Giuseppe e #Maria" e ri-meditare la lezione di Michelangelo Buonarroti. Solo così, forse, è possibile capire cosa significa il "ritrovamento" del Laocoonte e, altrettanto, come sia possibile liberare OGNI "UNO", ogni INDIVIDUO ("1") dalla "solitudine" e dall’immaginario bellico ("Homo homini lupus") e uscire dalla polifemica e luciferina "caverna" della #tragedia. (#19marzo 2025).
ARTE, STORIA DEL CRISTIANESIMO, E ICONOGRAFIA:
“Senza indugio”: le donne e la parola
di Laura Destro (SettimanaNews, 10 febbraio 2025)
Il titolo del libro, "Senza indugio", e il sottotitolo "Con voce di donna. Omelie per l’anno C" sembrano il segno di un cambiamento dei tempi riguardo alla presenza e al ruolo delle donne nella Chiesa.
Anche la data scelta per la presentazione del libro, il 17 gennaio, giorno natale della beata Osanna Andreasi, laica domenicana, e la cornice suggestiva della sua casa, a Mantova, evidenziano un cambio di paradigma. Tutta al femminile è stata l’organizzazione dell’evento, curata dal gruppo diocesano «Donne e Chiesa», che dal 2021 si impegna nella valorizzazione di donne − come la beata Osanna − che hanno segnato il cammino della Chiesa nei secoli e oggi.
Frutto della collaborazione del Coordinamento Teologhe Italiane - associazione che promuove studi di genere in ambito teologico, biblico, patristico, storico - è il libro in questione. Lo presentano la teologa Cristina Simonelli, storica esponente del Coordinamento, e il biblista don Lorenzo Rossi.
Prezioso il contributo delle donne “nell’ascolto e nella narrazione della Parola” - dice il vescovo Marco Busca nella sua introduzione. “La Parola ci supera”; per questo c’è bisogno di una molteplice narrazione e “ognuno, [in quanto] parte di questa comunicazione, la restituisce secondo i propri carismi”.
“Gesù è nato da donna” dice Paolo in Galati, 4,4. Ed è nella casa di Nazareth che Gesù apprende il suo vocabolario, frutto sì della potenza della parola del Padre ma anche di quella di un uomo e di una donna. Di Maria che, “tessitura di carne e di Parola”, è l’uditrice per antonomasia.
Nel mezzo di una festa di nozze (Gv 2,1-11), una figura di donna “si distacca” all’improvviso; è la madre di Gesù, che si accorge che non c’è più vino. Anche noi - scrive ancora mons. Busca - abbiamo bisogno, nella interpretazione delle Sacre Scritture, di una parola “forte”, come il vino buono delle giare. La “sapienza” delle dieci donne autrici delle Tracce per le Omelie, conferisce, con il suo “sapore”, nuova forza alla Parola.
La liturgia e la Parola
Per un credente è fondamentale essere coscienti della centralità della Liturgia e della Parola e a tale scopo fruire di tutte le voci e sensibilità che all’interno di una comunità possono contribuire a estendere all’ Assemblea la portata dell’impianto liturgico e la potenza della Scrittura.
Il termine Tracce, riportato nel sottotitolo, evidenzia il ruolo corale della comunità nello scavo dei passi tratti dal Vangelo di Luca, mentre il titolo descrive l’andare “senza indugio” di Maria da Elisabetta, dei pastori all’annuncio, dei discepoli di Emmaus di nuovo a Gerusalemme.
Condividere degli “orizzonti” di significato è stato il presupposto da cui le studiose del Coordinamento hanno preso le mosse per la stesura delle loro Tracce.
La sensibilità femminile attraversa tutto il libro; tuttavia, da tempo, appartiene all’ordinarietà della procedura, dice Cristina Simonelli - e la sua esperienza di vita in parrocchia lo conferma - costruire le omelie comunitariamente. Anche per don Lorenzo Rossi le riflessioni domenicali sono il frutto di una condivisione; cosa che permette di ridimensionare il protagonismo del presbitero all’ambone e di far emergere il ruolo che la comunità (donne e uomini) svolge nella meditazione della Parola. Omelia è “risposta ecclesiale alla Parola” non “spiegazione”. Ciò che il presbitero offre è più della sua parola, in quanto espressione della comunità.
“Spezzare la Parola” comporta non solo condivisione di orizzonti - dice la teologa Simonelli - ma formazione. Per rimanere aderenti ai testi ed evitare improvvisazioni e forzature funzionali al momento, è necessaria una solida preparazione. Se è importante la voce femminile nell’interpretazione della Parola, la Chiesa deve investire sulla formazione di figure a cui affidare docenze a livello universitario e seminari, come avviene per i maschi.
Don Lorenzo Rossi, rettore del Seminario diocesano, vicedirettore dell’ISSR “San Francesco” di Mantova e docente presso la Facoltà teologica di Milano, dice che la maggior parte degli utenti dell’ISSR mantovano è donna.
“Senza indugio”: la voce delle donne
Le Tracce, pur essendo un contributo individuale, non riportano il nome dell’autrice, facendo del libro il frutto di una coralità, segno distintivo della femminilità.
Il Vangelo di Luca, proclamato nell’anno C, ha spesso come protagoniste le donne, “non perché Luca sia da considerare un femminista ante litteram” - afferma don Lorenzo Rossi − ma per il suo universalismo[1]. La salvezza è per tutti[2], anche per le donne, in quanto “concordi e perseveranti nella preghiera”[3].
Alcune riflessioni presenti nelle Tracce danno conto del diverso rapporto delle donne con Gesù e della particolare sensibilità delle autrici nel rilevarlo.
Maria è prima di tutto madre e la maternità nel passo della nascita[4] si esplica in tutta la sua pienezza. Gli angeli annunciano ai pastori “un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”, ma il loro sguardo coglie solo la seconda parte dell’annuncio, cancellando il gesto della fasciatura e rendendo “invisibile” chi quel gesto l’ha compiuto e chi quel “corpo l’ha lavato e rivestito” prima di adagiarlo nella mangiatoia.
Maria - “teologa silenziosa” - coglie nel silenzio questa parzialità “custodendo e meditando” in profondità “il senso delle cose”.[5]
Maria è anche colei che, rifiutando la logica di una mortifera “ferialità” - così la teologa definisce una quotidianità sbiadita - e sentendo il “desiderio profondo della felicità”, in modo “impertinente”, davanti ad un consesso di uomini, sollecita il figlio con “Non hanno più vino”.
Non possiamo solo “autoconservarci ... esaurendo ... la nostra vitalità” - è il commento - ma vivere con generosità, e fare in modo che anche gli sforzi apparentemente inutili - acqua al posto del vino - siano compiuti alla “presenza vivificante di Dio”[6].
“Rallegrati, o piena di grazia” è questo il saluto dell’angelo a Maria narrato nel Vangelo di Luca e proclamato nel giorno dell’Immacolata. Maria è la “graziosa”, la “gratificata” da Dio; il suo sì alla chiamata non la asservisce ma, serva rinnovata, la fa pronta a corrispondere al disegno divino e, a “collaborare al mistero dell’incarnazione”. In questa capacità di “ricevere e trafficare il dono ricevuto” è insita una santità “costitutiva e originaria”, modello di quella santità a cui Dio ci chiama[7].
“Discepole” vengono definite, a vario titolo, altre figure femminili. È a Maria di Magdala che Gesù risorto si rivela e, affidandole l’incarico di divulgare il Kerygma, da discepola la trasforma in “apostola” di una nuova sequela, quella della “vite e i tralci”[8]. In questa veste, da lei inizia una comunità fondata sulla fede nella Resurrezione, capace di ricevere lo Spirito Santo come suo dono.
Anche la peccatrice, entrata nella casa di Simone il fariseo durante il banchetto fra i cui ospiti c’è Gesù, ha la postura della discepola: “dietro” e “ai suoi piedi”, che ella bagna con le lacrime del pentimento delle sue colpe e che asciuga con i suoi capelli. Ma, mentre Simone, pensandosi “un debitore- base”,” non peggio degli altri”, sta nel banchetto al fianco di Gesù, ritenendo “legittimo” il perdono ricevuto, la postura della donna è “esagerata”, “eclatante”, come è stata la sua vita di peccatrice, che ora, riconoscente, sente che le è stata “condonata”[9].
Nella stessa posizione - “ai piedi di Gesù” - è Maria di Betania.
Il suo atteggiamento non rispetta il “protocollo dell’accoglienza” previsto per le donne e, a differenza della sorella Marta, tutta indaffarata, fa “la sola cosa buona di cui c’è bisogno”. La “scelta, l’ascolto, la messa in discussione della propria identità, la consapevolezza” è tutto questo la parte buona che non le potrà essere tolta, dice Gesù.[10]
A questo particolare sguardo sulle donne e al modo fiero con cui le teologhe ce l’hanno consegnato va la nostra gratitudine.
[1] At. Ap.
[2] Gal 3, 28, “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo”
[3] At. 1, 12-14
[4] Lc, 2,16-21
[5] Coordinamento Teologhe Italiane (a cura di), Senza indugio − Con voce di donne. Omelie per l’anno C; EDB ed.; Bologna, 2024, 37-39
[6] Ivi, 125-127
[7] Ivi, 279-281
[8] Ivi, 82-83
[9] Ivi, 161-163
[10] Ivi, 182-183
"Senza indugio. Con voce di donna. Omelie per l’anno C" (EDB 2024).
Ho conosciuto un ragazzo della comunità Bahá’í, appassionato di san Paolo, che durante una conversazione ha usato questa frase: “sono affamato di narratori di Dio”. Dio si lascia raccontare. Celebra in noi e con noi una liturgia di parola e di parole in cui il lettore - che si fa interprete e poi narratore - diventa parte del messaggio, con la sua carne, la sua cultura, la sua età, il suo genere, la sua sensibilità spirituale. Abbiamo bisogno di convergenze e divergenze di risonanze e narrazioni per “balbettare” la Parola che culmina in una liturgia di Silenzio, grembo puro di accoglienza e adorazione. Il mistero che supera tutti ci “ammutolisce”, pur suscitando una continua espressività multiforme di cui abbiamo bisogno.
C’è bisogno di una narrazione di generazioni: risonanze di bambini e di anziani, intuizioni folgoranti dei piccoli e parole misurate, piene di anni di lettura, di sapienti vegliarde e di saggi anziani. La profezia sembra prediligere le labbra degli infanti e dei vecchi: “Dalla bocca dei bambini e dei lattanti hai tratto una forza, a causa dei tuoi nemici, per ridurre al silenzio l’avversario e il vendicatore” (Salmo 8,3); “Uno degli anziani mi disse: Non piangere; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli” (Ap 5,1-14).
Abbiamo bisogno di narrazioni di genere: “non c’è più né uomo né donna”, si legge nella lettera ai Galati che pare relativizzare le “differenze” o, meglio, finalizzarle all’essere una cosa sola in Cristo (cap. 3,28); ma di lì a poche righe, presentando l’identità di Gesù, Paolo afferma che “Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge” (Gal 4,4). Una sottolineatura necessaria non solo ad attestare la storicità dell’incarnazione. L’espressione, infatti, è densa di contenuto antropologico e religioso. Entrambi i significati riassunti nelle due parole “donna” e “legge”.
La grande uditrice della Torà è Maria di Nazareth che ha intessuto con la matassa del suo sangue rosso la carne del Logos divino, come ci è dato di ascoltare negli inni della tradizione siro-palestinese e di vedere nelle icone e negli antichi mosaici. Tessitura di carne e di parole poiché il figlio di Dio è cresciuto in età e sapienza nella casa di Nazareth apprendendo il vocabolario della madre e del padre. Le “parole di grazia” che usciranno dalla bocca del figlio di Giuseppe (cfr. Lc 4,22) non sono solo le cose udite dal Padre che il Figlio ha fatto conoscere a noi (cfr. Gv 15,15), sono anche le parole della Torà udite sulle labbra di un padre e una madre, due pii israeliti, che hanno contribuito a dare parole alla Parola perché un giorno la Parola potesse arrivare alle orecchie e al cuore di quel popolo e della sua cultura. Le loro parole “sante”, risonanze di salmi e profezie, come pure le parole dei lavori quotidiani e il dialetto degli affetti che risuonavano nella casa di Nazareth, hanno contribuito a meritare a Gesù quel complimento ammirato: “Mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo!»” (Gv 7,46). Gesù è un Rabbi che insegna “come uno che ha autorità” (Mc 1,22), autorità che gli viene dall’alto in quanto è il Logos che “tutto sostiene con la sua parola potente” (Eb 1,3), ma anche insegnamento efficace che gli deriva dall’autorità della parola umana appresa da Maria e Giuseppe che, con il loro parlare genitoriale, hanno espresso la forma autentica del maschile e del femminile che si è impressa nell’umanità del Figlio dell’uomo ed è risuonata nei suoi approcci salvifici alle donne e alle coppie.
La liturgia della Chiesa celebra tra pochi giorni la seconda domenica del tempo ordinario che proclama la pagina evangelica che Giovanni dedica al primo dei segni compiuti da Gesù a Cana di Galilea (Gv 2,1-11).
Trovo un elogio mariano nel commento proposto dalla professoressa Donata Horak che condivido: “Ma ecco, tra le tante persone invitate alla festa si distacca una figura di donna, una vera credente, l’unica coscienza risvegliata che si accorge che il vino si sta esaurendo: sente che la festa rischia di scivolare nella ferialità delle abitudini e delle consuetudini sociali, che perderà il sapore, l’ebbrezza, il calore” (p. 126). La Chiesa è ancora e sempre la sala nuziale pensata dal Padre per festeggiare con abbondanza di invitati e di vino le nozze del suo Figlio con l’umanità. Non mancano gli assetati e affamati di narrazioni divine. Il rischio anche per noi credenti non è la mancanza del vino buonissimo della Parola ma che si annacqui in narrazioni insipide, incolori, anestetiche, anemiche... Ecco perché abbiamo bisogno di dare voce alla Parola sprigionando tutto il potenziale espressivo di risonanza e di racconto di cui la Chiesa è capace, prestando attenzione anche ai lettori e commentatori di “oltre confine”. Ci sono esegeti “clandestini” e “affabulatori” appassionati della Parola sparsi ovunque. Perché la Bibbia non è un testo “imprigionato”, anzi per sua natura è un tesoro di verità “rischiose” e non facilmente addomesticabili specie quando la Parola è nelle mani e nella lettura del popolo. Grazie di questo strumento di parole a servizio della narrazione della Parola con voce di donna, frutto della gestazione paziente del “Verbo” nel sapere e nel sapore di teologhe e bibliste delle chiese d’Italia, nostre sorelle nello Spirito.
Grazie alla professoressa Cristina Simonelli che ha accolto l’invito a presentare alla comunità mantovana questo testo curato dal coordinamento delle teologhe italiane. La saluto con amicizia e gratitudine per essere la portavoce delle dieci voci femminili autrici del testo. Con lei salutiamo anche don Lorenzo Rossi, biblista della nostra diocesi, esperto della letteratura lucana.
L’evangelista Luca riserva un’attenzione delicata e obiettiva alle donne in rapporto a Gesù. Esse lo seguono e lo servono con i loro beni (Lc 8,2-3), lo seguono fin dalla Galilea sino alla punta più alta del Calvario dove guardano da lontano lo spettacolo della croce (Lc 23,48), per avvicinarsi poi al sepolcro e osservare dove è stato posto il corpo di Gesù così da tornare finalmente il giorno dopo con aromi e oli profumati per un ultimo gesto di omaggio. Ma il giorno dopo non è la naturale successione del precedente. È un giorno nuovo. Il primo giorno della settimana, aurora della nuova creazione che capovolge paradigmi e criteri della nostra condizione naturale, una vera rifusione del maschile e del femminile, nella nascita della Donna-Chiesa Sposa dell’Agnello. Anche le donne sono impreparate e inadeguate alla risurrezione, impaurite e incredule, con il volto chino a terra, devono accogliere l’annuncio di due uomini che vedono presentarsi a loro in abito sfolgorante (cfr. Lc 24,1-10), due rappresentanti di un “altro” mondo, dove non c’è più né maschio né femmina perché tutto ciò che è creato è trasfigurato nella risurrezione. Queste donne, a cui l’evangelista riconosce un nome proprio (Maria Maddalena, Giovanna e Maria madre di Giacomo) insieme alle altre che erano con loro, sono provocate dall’annuncio pasquale a diventare “teologhe” in quanto “si domandavano che senso avesse tutto questo”, in ordine al loro ri-diventare credenti alla sequela del Maestro amato che ora però chiede il salto di livello della fede nella risurrezione: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?”. Le donne corrono a raccontare queste cose agli apostoli. Costituite “apostole degli apostoli”, per usare l’espressione felice della liturgia bizantina di Pasqua, hanno il compito non scontato di annunciare il kerigma alle “colonne della chiesa”, pure loro spiazzati e increduli davanti a un annuncio che alle orecchie della carne pare “un vaneggiamento” e sortisce comunque il buon esito di far correre Pietro verso il sepolcro insieme a Giovanni che “vide e credette” (cfr. Gv 20,1-9).
L’originalità - anche di fronte alla Parola - non sta nell’essere donne piuttosto che uomini, ma nell’essere umili discepoli “giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti”; costoro “non prendono moglie né marito; e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio” (Lc 20,35-36).
Un femminile e un maschile rigenerati dalla Parola possono riprendere in mano la regia del mondo per rigenerarlo nella novità escatologica del Regno. Senza indugio!
MEMORIA, #STORIA, E #LETTERATURA: "SANVALENTINO" E "DIVINA COMMEDIA" (#Dantedì, #25marzo 2025).
"SAN VALENTINO (FESTA)". A quanto pare la #filologia è ancora più al servizio del #Platonismo (e altri -ismi) che della #Parola e dell’#Amore (14febbraio 2025).
QUALE EUROPA PER UN #BUON 2025 ?: UNA #STORIA DI LUNGA DURATA E UNA ORAZIANA SOLLECITAZIONE SUL "SAPERE AUDE!" (#KANT, #KOENIGSBERG, 1784; #KALININGRAD, 2024) DA RIPRENDERE...
RICORDANDO CHE “La guerra non si abolisce coi trattati, ma stimolando la riflessione e la cultura di tutti”, come sosteneva Gino Strada, forse, oggi alla fine del 2024, io renderei omaggio anche alla memoria di Enrico Berlinguer che, il 15 dicembre del 1981, dichiarò la fine della "spinta propulsiva" della rivoluzione sovietica, anticipando sia la svolta di Gorbaciov sia la caduta e la fine del "comunismo" russo, e, con esso, del "muro di Berlino" (1989). Al contempo, e insieme, renderei omaggio allo stesso Michail Gorbaciov (cfr. foto allegata, "Le Monde" 1989) e, ancora, ad Antonio Gramsci (1891-1937).
CULTURA E #SOCIETA’. Alla luce dell’avvio del #Giubileo2025 e delle celebrazioni dell’anniversario del #Primo #Concilio di #Nicea (325), una importante #analogia (carica di #teoria) sulla relazione tra il #cristianesimo e il #paolinismo e il #marxismo e il #leninismo, fatta da Gramsci:
"POSIZIONE DEL #PROBLEMA. [...] Marx è un creatore di Weltanschauung, ma quale è la posizione di Ilici? È puramente subordinata e subalterna? La spiegazione è nello stesso marxismo - scienza e azione -. Il passaggio dall’utopia alla scienza e dalla scienza all’azione (ricordare opuscolo relativo di Carlo Radek). La fondazione di una classe dirigente (cioè di uno Stato) equivale alla creazione di una Weltanschauung. [...] Marx inizia intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità, 〈superata〉 da concezione della libertà). Fare un parallelo tra Marx e Ilici per giungere a una gerarchia è stolto e ozioso: esprimono due fasi: scienza-azione, che 〈sono〉 omogenee ed eterogenee nello stesso tempo. Così, storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo: Cristo-Weltanschauung, S. Paolo organizzazione, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessarii nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, non teorico)." (A. Gramsci, "Quaderno 7 § 33").
#BUONANNO, #BUON2025!
TEATRO FILOSOFIA E METASTORIA: EDUCAZIONE "BIBLICA", "INTERPRETAZIONE DEI #SOGNI" (S. FREUD, 1899), "COSTRUZIONI NELL’#ANALISI" (S. #FREUD, 1937), E "CHÂTIMENT DE L’ORGUEIL" (#BAUDELAIRE,1861).
"FENOMENOLOGIA DELLO #SPIRITO" (HEGEL) ED "ECCE HOMO" (NIETZSCHE). SE SI CONSIDERA CHE, dalla cosiddetta nascita di Cristo, non solo al tempo di Elisabetta I d’Inghilterra e di #Shakespeare, "Un modo per vedere la storia di Natale è che Giuseppe fu tradito dallo Spirito Santo; sua moglie che gli diede un figlio bastardo del cielo" ("One way to view the #Christmas story is that Joseph was cuckolded by the Holy Spirit; his wife who bore him a bastard son of heaven", cfr. Paul Adrian Fried, "First Sunday After Christmas - Jesus of King David’s Bloodline (Series, Part 5.b.)", cit.), ma anche OGGI, nell’attuale presente storico, fine-anno 2024 secondo il #calendario gregoriano (Gregorio XIII, 1582), si "tramanda" la stessa "storia", vuol dire che non si è ancora ben compresa tutta l’importanza della "silenziosa" costante presenza storica e "legale" (di "Principio", secondo la #Legge, secondo il "Logos") della figura di "Giuseppe" accanto alla figura di "Maria" e della stessa lezione del "#presepe" di #Francesco di #Assisi (Greccio, 1223).
STORIA E LETTERATURA E STORIOGRAFIA: "#DIVINA COMMEDIA" E #COSTITUZIONE DEI "#DUE SOLI" (#DANTE ALIGHIERI) . A mio parere, c’è da pensare che, nonostante le "dicerie sacre" di un Gesù, nato da un altro "Giuseppe" (e secondo una concezione cosmoteandrica "biblica", "platonica" e "plutonica" della donna-#femmina come "Terra - #Vaso", che deve nutrire e far crescere il #seme del "supremo" uomo-#maschio), non si sia ben meditato sul fatto che "la punizione dell’#orgoglio" è già stata evangelicamente ben "scritta" (Baudelaire, "I Fiori del Male", XVI) e, "qui e ora", l’hegeliano "Spirito Santo" di #Mammona (come da enciclica del 2006, "Deus #caritas est") deve solo inginocchiarsi dinanzi a "Giuseppe" e alla stessa "Maria" e chiedere ad entrambi "perdono" e "benedizione". #GiselePelicot insegna...
#Buon2025
ANTROPOLOGIA #TEOLOGIA E #STORIOGRAFIA: "SAPERE AUDE!" (#ORAZIO - #KANT).
"AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE": MEMORIA DI #MARTIN #LUTERO E DELLA #RIFORMAPROTESTANTE (1517) E DELLA #RIFORMA #ANGLICANA (1534), IN RICORDO DELLA "PRIMA RINASCITA" (GIOACCHINO DA FIORE, FRANCESCO DI ASSISI, E DANTE ALIGHIERI)
IL #NODO ANTROPOLOGICO (E TEOLOGICO-POLITICO) DEL #MATRIMONIO E DELLA #CONOSCENZA "BIBLICA", OGGI (#14DICEMBRE 2024). Ricordando che Lutero e Katharina von Bora si sposarono nel 1525, forse, è bene ricordare che la cultura dominante (meglio, la filosofia egemone) è quella della tradizione socratico-platonica, rilanciata da Niccolò #Cusano (con la sua "dotta ignoranza" e la sua paolina "pace della fede"), e, che, quando Lutero in un’omelia tenuta nel 1531, così parla (v. oltre), fa tremare tutto l’ordine tragico della antropologia e della teologia conosciuta e "giustficata", anche e ancora da un Erasmo da Rotterdam, che confonde "Cristo" con "Socrate"!
IL TEMA DEL #PRESEPE E DEL "#COMENASCONOIBAMBINI. Lutero, in verità, riprende coraggiosamente il filo evangelico (francescano e dantesco) e riscopre l’#alleanza di #fuoco tra l’uomo e la donna, altro che la vecchia o la nuova tragica "alleanza": «La parola di Dio è in realtà iscritta nel coniuge. Quando l’uomo guarda sua moglie come fosse l’unica donna sulla terra, e quando una donna guarda suo marito come se fosse l’unico uomo sulla terra, allora proprio lì siete faccia a faccia con Dio che parla». (cfr. #Luciano Moia, "Riscoperte. Amoris laetitia e Lutero, quegli incroci sorprendenti", Avvenire, 13 dicembre 2024).
BUON NATALE 2024
ARTE #STORIA #ANTROPOLOGIA E #STORIOGRAFIA:
PROFETI E #SIBILLE NEL "REGNO DI #NAPOLI" AGLI INIZI DEL #SEICENTO...
UNA GRANDE OCCASIONE PER FAR FESTA E, POSSIBILMENTE, FAR CONOSCERE AI DODICI PROFETI, 12 PROFETI MINORI DI #RIBERA LE 12 SIBILLE DELLA #CHIESA DELLA "MADONNA DEL CARMINE" DI #CONTURSI TERME (#CARMELITANI SCALZI, 1613), CHE, RICOMPARSE DOPO IL TERREMOTO DEL 1980, SONO COSTRETTE A VIVERE ANCORA IN UNO STATO DI DISAGIO (DELLA CIVILTA’), IN GRAN DIFFICOLTA’.
QUESTIONE ANTROPOLOGICA, ARTE, E STORIOGRAFIA: UNA DOMANDA SULLA PRESENZA DEI PROFETI E DELLE SIBILLE NELLA STORIA DELLA CULTURA EUROPEA.
NELLA UDIENZA DEL MERCOLEDI’ (16 ottobre 2024), il papa, portando avanti il suo "Ciclo di Catechesi. Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza" e, in particolare, sul tema del «“Credo nello Spirito Santo”. Lo Spirito Santo nella fede della Chiesa», ha detto che lo Spirito Santo "ha parlato per mezzo dei profeti": "[...] Nei primi tre secoli, la Chiesa non ha sentito il bisogno di dare una formulazione esplicita della sua fede nello Spirito Santo. Per esempio, nel più antico Credo della Chiesa, il cosiddetto Simbolo apostolico, dopo aver proclamato: “Credo in Dio Padre, creatore del cielo e della terra, e in Gesù Cristo, nato, morto, disceso agli inferi, risorto e asceso al cielo”, si aggiunge: “[credo] nello Spirito Santo” e niente di più, senza alcuna specificazione.
Ma fu l’eresia a spingere la Chiesa a precisare questa sua fede. Quando questo processo iniziò - con Sant’Atanasio nel quarto secolo - fu proprio l’esperienza che essa faceva dell’azione santificatrice e divinizzatrice dello Spirito Santo a condurre la Chiesa alla certezza della piena divinità dello Spirito Santo. Questo avvenne nel Concilio Ecumenico di Costantinopoli, del 381, che definì la divinità dello Spirito Santo con le note parole che ancora oggi ripetiamo nel Credo: «Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà vita, e procede dal Padre e dal Figlio. Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti». [...]"(cit.).
I "VEGGENTI" DI MICHELANGELO E LA "CAPPELLA SISTINA". RICORDANDO IL FALLIMENTARE DISCORSO TEOLOGICO-POLITICO E ANTROPOLOGICO DEL FILOSOFO (E CARDINALE) NICOLA CUSANO, LEGATO ALLA SUA OPERA FONDAMENTALE, LA "DOTTA IGNORANZA" (1440), E ALLA SUA PROPOSTA SULLA "PACE DELLA FEDE" ("DE PACE FIDEI", 1453), NONCHE’ LA CADUTA DI COSTANTINOPOLI (1453), E, AL CONTEMPO, IL LAVORO CRITICO DI FILOLOGIA REALIZZATO DA LORENZO VALLA SULLA "DONAZIONE DI COSTANTINO" ("De falso credita et ementita Constantini donatione", 1440), FORSE, E’ OPPORTUNO RICHIAMARE ALLA MEMORIA LA LUNGA ONDA DELLA SOLLECITAZIONE UMANISTICO-RINASCIMENTALE E RIAPRIRE GLI OCCHI SUL FILO DELLA PROPOSTA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL DISCORSO "PROFETICO" NON SOLO DELLA TRADIZIONE CULTURALE DEL POPOLO EBRAICO MA ANCHE DELLE TRADIZIONI CULTURALI DEGLI ALTRI POPOLI.
Nella intera Europa, è un caso che, a partire dalla costruzione della Cappella Sistina, "tra il 1475 e il 1481 circa, all’epoca di papa Sisto IV della Rovere, da cui prese il nome", fino alla beatificazione di Teresa d’Avila da papa Paolo V nel 1614 e, ancora, alla santificazione da papa Gregorio XV nel 1622, i Profeti e le Sibille camminano insieme non solo nella Volta della stessa Cappella Sistina dipinta da Michelangelo Buonarroti (1508-1512)?
"IL PRESEPE" (E IL POSSIBILE "CREDO") DI MICHELANGELO BUONARROTI, OGGI (15 OTTOBRE 2024).
UNA #PAROLA DI #METASTORIA E #METAFILOSOFIA: "#AMORE E’ PIU’ FORTE DI #MORTE" (Ct. 8.6 - trad. di #Giovanni Garbini).
Il Concilio Ecumenico di Costantinopoli, del 381 [del 2024], definì la #divinità dello #SpiritoSanto (#Charitas) con le parole che ancora oggi si ripetono nel "Credo": «Credo nello Spirito Santo ["Deus charitas est": 1 Gv. 4.8], che è Signore [#Logos: Gv.1.1] e dà vita, e procede dal Padre ("#Giuseppe") [e la Madre -"#Maria"] e dal Figlio ["#Gesù"- "#Cristo"]. Con il Padre [e la Madre] e il Figlio, [l’#Amore -"Charitas"] è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei #profeti» [e delle #sibille].
Allegato: #Tondo Doni. Nella cornice non sono "raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti" - come scrivono gli esperti della "Galleria degli Uffizi" - ma chiaramente, e per Michelangelo, #due profeti e due sibille.
GIORNATA MONDIALE DELL’#ANATOMIA ("World Anatomy Day"): NON SOLO VESALIO.
GIOVANNI VALVERDE DE AMUSCO E LA "SCOPERTA" DEI "#TESTICOLI DELLE #DONNE" (cfr. allegato: cap. 15 del Libro III dell’ "Anatomia" di #GiovanniValverde, stampata a Roma nel 1560).
COME NASCONO I BAMBINI: #RIVOLUZIONE COPERNICANA (IN #TERRA E IN #CIELO) E #MENSCHWERDUNG. #AL TEMPO DI #FILIPPO II e #TERESA D’AVILA, il medico Giovanni Valverde riconosce alla #donna il ruolo attivo nell’atto del #concepimento e pone le premesse per l’#uguaglianza, per la "#ley de #igualdad".
PEDAGOGIA STORIA LETTERATURA E FILOLOGIA: L’INDICAZIONE DELLA SIBILLA TIBURTINA E LA ESORTAZIONE DELLA DEA "LEVANA" ("CONTEMPLATE CHI E’ PIU’ GRANDE DI VOI!") NELL’ORIZZONTE DELLA "MORTE DI DIO" E DEL NICHILISMO.
Una ipotesi di ricerca... *
A) Nella sua "Legenda Aurea", Jacopo da Varagine scrive:
"Narra papa Innocenzo III che il senato voleva adorare come un dio Ottaviano per aver riunito e pacificato tutto il mondo; ma il prudente imperatore non volle usurpare il nome di immortale poiché ben sapeva di essere come uomo, mortale. Insistevano i senatori nel loro proposito onde Ottaviano interrogò la Sibilla per sapere se mai sarebbe nato nel mondo qualcuno più grande di lui.
Era il giorno della Natività di Cristo e la Sibilla si trovava in una stanza, sola con l’imperatore: ed ecco apparire un cerchio d’oro attorno al sole e in questo cerchio una vergine bellissima con un fanciullo in grembo. La Sibilla mostrò questo portento all’imperatore: mentre costui teneva gli occhi fissi alla visione sentì una voce che diceva: - Questa è l’ara del cielo! -. Esclamò allora la Sibilla: - Questo fanciullo è più grande di te; adoralo -.
La stanza dove avvenne tale fatto è stata poi consacrata alla Madonna ed ora si chiama Santa Maria Ara Coeli.
Timoteo ci dice di aver trovato negli antichi libri romani lo stesso fatto raccontato in modo diverso: dopo trentacinque anni di regno, Ottaviano salì in Campidoglio e chiese agli dei chi avrebbe retto l’impero dopo di lui. Udì in risposta queste parole: - Un fanciullo celeste, figlio del Dio vivente, nato da una vergine immacolata -. Ottaviano fece allora costruire un altare e vi fece scolpire queste parole: - Questo è l’altare del figlio del Dio vivente - (...)" (Jacopo da Varagine, "Legenda Aurea", Libreria Editrice Fiorentina, p. 52 s.).
B) Nei "Suspiria de Profundis", a proposito di Levana (e le «Nostre Signore del Dolore»), Thomas De Quincey scrive:
"Spesso a Oxford vidi nei miei sogni Levana. La riconobbi dai suoi simboli romani. Chi è Levana? Lettore, che sostieni di non aver troppo tempo per erudirti, non ti dispiacerà che te lo spieghi. Levana era la dea romana che esercitava per il neonato il primo ministero di nobilitante benevolenza, tipico, nel suo rituale, di quella grandezza che è dappertutto propria dell’uomo e di quella benignità delle potenze invisibili che anche nel mondo pagano scende talvolta a sostenerla. Al momento stesso della nascita, proprio quando il neonato saggiava per la prima volta l’atmosfera del nostro travagliato pianeta, esso era deposto in terra.
Questo gesto si prestava a diverse interpretazioni. Ma immediatamente, affinché una così nobile creatura non restasse in quell’umile posizione più di un istante, o la mano paterna in rappresentanza di Levana, o un parente prossimo in rappresentanza del padre, lo sollevava in alto, gli ordinava di stare eretto quale sovrano di tutto il mondo e ne volgeva la fronte verso le stelle dicendo, forse in cuor suo: «Ammirate ciò che è più grande di voi!» Questo atto simbolico rappresentava la funzione di Levana. E quella dama misteriosa che non rivelò mai il suo volto (salvo a me in sogno) ma sempre agì per procura, traeva il suo nome dal verbo latino (rimasto tuttora nell’italiano) levare, sollevare verso l’alto.
Tale è la spiegazione di Levana. E da ciò è venuto che alcuni intendano per Levana la potenza tutelare che vigila l’educazione nella prima infanzia. Colei che non tollererebbe alla nascita del suo mirabile pupillo nemmeno una sua finta o simbolica degradazione, ancor meno si può ritenere che tollererebbe la vera degradazione inerente al mancato sviluppo delle facoltà che sono in lui. Ella perciò vigila sull’umana educazione. Ora la parola educo, con la penultima breve, è derivata (per un processo che spesso si riscontra nella cristallizzazione delle lingue) dalla parola edùco, con la penultima lunga. Tutto ciò che educe, o sviluppa, educa. Per educazione di Levana si intende, perciò, non il povero meccanismo che è messo in moto da sillabari e da grammatiche, ma il meccanismo che è mosso dal possente sistema di forze interiori nascoste nel profondo della vita umana e che, per mezzo di passioni, lotte, tentazioni, energie della resistenza, agisce continuamente sui fanciulli e non si arresta mai ne giorno né notte, come le stesse ruote possenti del giorno e della notte, i cui istanti, simili a raggi che non hanno sosta, brillano eternamente nel loro ruotare. (cfr. T. De Quincey, "Confessioni di un oppiomane" - con i racconti: "Suspiria de Profundis" e "La diligenza inglese", Garzanti 1987).
Umanesimo. Erasmo da Rotterdam e il matrimonio: amore «bello e santo»
Disponibili per la prima volta in italiano tutte le opere del filosofo sul tema. Pagine ricche di acume che rivelano intuizioni e aperture per l’epoca decisamente controcorrente
di Matteo Al Kalak (Avvenire, mercoledì 2 ottobre 2024)
La Costituzione italiana, all’articolo 29, stabilisce che “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Sono ricorrenti i dibattiti che, ancora oggi, animano le cronache sul valore di questo istituto, la definizione stessa di famiglia, la necessità di incrementare la natalità, e così via. Insomma, piaccia o non piaccia, la famiglia è una piccola società, un luogo in cui la collettività riconosce una parte fondamentale del proprio corredo. Secondo i padri costituenti, questa “cellula” della Repubblica era fondata sul matrimonio. È l’unione tra due individui che genera qualcosa di nuovo e speciale, in grado di perpetuare e sostanziare la società stessa. Il matrimonio è, dunque, un punto di partenza, un nesso tra persone che, più di altri, sollecita la cura del legislatore.
A scandagliare le profondità di questa istituzione che, in buona sostanza struttura le società umane sono stati in molti. Tra di essi, figura anche uno dei più celebri umanisti del XVI secolo: Erasmo da Rotterdam. Per la prima volta, il pubblico italiano ha l’opportunità di accedere, in modo sistematico e organizzato, ai suoi scritti sul matrimonio in una traduzione che consente di toccare con mano l’acume - e come stupirsi? - con cui il grande intellettuale affrontò questo nodo cruciale ( Scritti sul matrimonio, Aragno, pagine 752, euro 50,00).
Una ricca introduzione della storica Lucia Felici consente di comprendere l’originale posizione di Erasmo nel panorama di una cristianità sempre più scossa e divisa dalle contrapposizioni religiose. Come spiega la studiosa, il progetto di Erasmo non scardinava la tradizionale visione patriarcale della famiglia, né andava a rivoluzionare il consueto impianto delle virtù richieste ai due coniugi (va dunque rifuggita ogni tentazione di un Erasmo proto-femminista). Ciò nonostante, la condizione femminile all’interno del matrimonio ne esce rafforzata e, secondo Felici, la sensibilità erasmiana presenta vari punti di contatto con quanto accadeva nel mondo riformato.
La raccolta include due testi fondamentali nella produzione di Erasmo: l’Encomium matrimonii e la Christiani matrimonii institutio. Due opere che bene riassumono la concezione dell’umanista olandese. La prima, breve e pungente, rivelava la sua potenza programmatica presentando il matrimonio come lo stato migliore e più santo in cui l’uomo potesse vivere, poiché Dio a ciò lo aveva ordinato sin dalla creazione. Il matrimonio era la Chiesa domestica cui il cristiano doveva aspirare, in una polemica nemmeno troppo velata con un clero i cui abusi avevano alimentato la contestazione del mondo protestante. Erasmo non si rifugiava in un quadro idilliaco: esplicitava i problemi che potevano derivare dalla vita di coppia, ma tracciava anche possibili soluzioni. L’Institutio, composta più tardi, riprese il tema in modo serio e “accademico”, approfittando per replicare alle critiche indirizzate all’Encomium. Il trattato toccava tre punti essenziali: la centralità del matrimonio; i metodi per consolidarlo; l’educazione dei figli. Se il ruolo del marito restava cruciale e, per così, si manteneva come pilastro dell’architettura matrimoniale, Erasmo rigettava gli atteggiamenti con cui la legge consentiva di punire l’adulterio e, più in generale, ogni legittimazione della violenza tra i coniugi. Può sembrare una concessione minima, ma, per i tempi, rappresenta un avanzamento deciso e controcorrente.
Ma è a Erasmo - più che a un moderno lettore - che va forse lasciata l’ultima parola. «Non tollero - scrive Erasmo - chi mi dice che quel desiderio amoroso [del matrimonio] è turpe e che esso non viene dalla natura ma dal peccato. Che cosa potrebbe esserci di più lontano dal vero. Noi rendiamo turpe con l’immaginazione ciò che per sua stessa natura è bello e santo». L’amore del matrimonio, vissuto alla luce del Vangelo, è “bello e santo” (quasi un’anticipazione dell’Amoris laetitia; cfr. §62): dirlo cinque secoli fa era davvero rivoluzionario.
ANTROPOLOGIA (KANT), STORIOGRAFIA, E LETTERATURA (BAUDELAIRE):
IL CASTIGO DELL’ORGOGLIO ("Châtiment de l’orgueil").
DAI "FIORI DEL MALE", UN #RACCONTO "STORICO" DI ALTA PROFONDITA’: COME UN TEOLOGO, CHE EBBE PAURA DEL "TRAUMA DELLA NASCITA" E, SULLA #NEGAZIONE DEL "RIDICOLO FETO", APRI’ LA STRADA ALLA "GLORIA" DELLA #COSMOTEANDRIA DELLA "#CAVERNA" PLATONICO-LUCIFERINA ("MAMMONICA") E FINI’ PER ESSERE "LA GIOIA E LO SCHERNO DEI #FANCIULLI".
In quei tempi meravigliosi in cui la Teologia fiorì con la massima forza ed energia, si narra che un giorno uno dei più grandi dottori, dopo aver forzato i cuori indifferenti ed averli commossi ne le loro nere profondità; dopo aver superato verso le glorie celesti strani sentieri a lui stesso ignoti, dove forse eran giunti solo i puri Spiriti, come un uomo salito troppo in alto, preso da vertigine, gridò in un trasporto di satanico orgoglio:
Immediatamente la sua ragione scomparve. Lo splendore di quel sole si velò; tutto un caos piombò in quell’intelligenza, tempio già vivo, pieno d’ordine e di opulenza, sotto le cui vòlte tanto fasto era stato sfoggiato. Il silenzio e la notte regnarono in lui, come in un sotterraneo di cui si è smarrita la chiave.
Da quel giorno fu simile a le bestie di strada, e, quando andava pei campi senza nulla vedere, incapace di distinguere l’estate da l’inverno, sudicio, inutile e brutto come una cosa logora, formava la gioia e lo scherno dei fanciulli. (Charles Baudelaire, "I fiori del male").
Il caso.
Le parole del Papa sulle donne (e l’insolita nota dell’Università di Lovanio)
di Gianni Cardinale, inviato a Bruxelles (Avvenire, sabato 28 settembre 2024)
Papa Francesco incontra gli studenti e i docenti dell’Université Catholique di Louvain-la Neuve, la sezione francofona dell’antica Lovanio che nel 1968 dovette lasciare la casa madre in seguito alle proteste dei nazionalisti fiamminghi che ne reclamavano la soppressione. Ma di questa vicenda nessuno ha fatto cenno sia nella visita a Leuven, né a Louvain. Gli argomenti sono altri. Con una sorprendente contestazione dell’ateneo alle parole del Pontefice. Ma andiamo per ordine.
Il Papa viene accolto dal saluto della rettrice Francoise Smets. E poi gli viene letta una lettera di studenti e professori che prendendo spunto dalla Laudato si’ afferma in modo netto che «l’appello allo sviluppo integrale ci sembra incompatibile con le posizioni sull’omosessualità e sul posto delle donne nella Chiesa cattolica».
Il Papa non risponde direttamente a queste osservazioni, ma nel suo discorso oltre ad affrontare il tema del cristianesimo e l’ecologia («non siamo padroni, siamo ospiti e pellegrini sulla terra») affronta anche tale questione.
«Pesano qui - spiega - violenze e ingiustizie, insieme a pregiudizi ideologici». Perciò «bisogna ritrovare il punto di partenza: chi è la donna e chi è la Chiesa». La Chiesa «è il popolo di Dio, non un’azienda multinazionale». La donna, «nel popolo di Dio, è figlia, sorella, madre. Come io sono figlio, fratello, padre».
Per Francesco «ciò che è caratteristico della donna, ciò che è femminile, non viene sancito dal consenso o dalle ideologie». Ma «la dignità è assicurata da una legge originaria, non scritta sulla carta, ma nella carne». La dignità è «un bene inestimabile, una qualità originaria, che nessuna legge umana può dare o togliere».
A braccio ricorda che «la Chiesa è donna», e poi aggiunge: «La donna è più importante dell’uomo ma è brutto quando vuole fare l’uomo». E infine, sempre a braccio, invita a «non entrare nelle lotte con delle dicotomie ideologiche».
ANTROPOLOGIA E PSICOANALISI: DANTE ALIGHIERI, LA #DIVINA COMMEDIA, "LA SACRA #FAMIGLIA" (#MARX-#ENGELS), E L’#ANDROCENTRISMO CONTEMPORANEO.
#STORIA #LETTERATURA E #FILOLOGIA. CONSIDERANDO CHE il #23settembre richiama anche il giorno della morte di #SigmundFreud, e RICORDANDO, ancora , che all’inizio della sua "#Interpretazione dei sogni (1899) c’è il virgiliano #AcherontaMovebo", personalmente, devo dire che resto sempre più che sorpreso dell’accettazione del #fatto che si accolga acriticamente non solo il "giudizio" di #UmbertoEco ma anche dell’intero mondo accademico delle scienze storiche logiche e filologiche (dopo i #maestridelsospetto), e non si aprino gli occhi sugli innumerevoli #segnavia posti dallo stesso #Dante Alighieri sul suo cammino.
A CHE GIOCO GIOCHIAMO?! COME E’ (STATO) POSSIBILE (ADDIRITTURA PER SETTE SECOLI) ACCREDITARE la #madre di #Dante, #Bella (che a #Virgilio così parla:
come la giovane Beatrice ... fino a fare del Poeta una persona incapace di essere spiritualmente fedele alla sua sposa #GemmaDonati, di essere un #padre onesto e leale con i propri figli e, infine, di capire persino la ragione del perché sua figlia Antonia, entrata in convento, prenda il nome di suor #Beatrice? Boh e Bah?! Mistero dell’altro mondo? Chi ha paura di Beatrice?
PSICOANALISI DELLA SOCIETA’ CONTEMPORANEA: I GIGANTI SULLE SPALLE DEI BAMBINI E "LA SOCIETA’ SANA" ("THE SANE SOCIETY", 1955).
UNA NOTA SUL "TEMPO FUORI DAI CARDINI" E L’ANSIA DELLA "DE-GENERAZIONE" DELLO STORICO PRESENTE
SOCIOLOGIA, PEDAGOGIA, E PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE. SE DA MOLTI DECENNI I #PIFFERAI GIGANTI dei "mass-media" e dei "social media" (veri e propri "cavalieri dell’apocalisse"), a cui "abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi" (come denunciava McLuhan), si sono ormai seduti sulle spalle dei "#bambini" e degli stessi "#genitori", non è forse il caso di uscire, con Dante Alighieri, dal #letargo e dall’#inferno, e cercare di ripensare e chiarirsi le idee, con "Amleto" (III.2), sulla "trappola per topi" ("The Mousetrap"), e portare sulla scena il "giogo" del "pifferaio" dello "#stato di Danimarca" planetario"? Se non ora, quando?!
P.S. - IL #BAMBINO SULLE SPALLE DEL GIGANTE: SAN CRISTOFORO.
L’HAMLETICA QUESTIONE DELLA INTELLIGENZA, L’ALBA DELLA TERRA ("EARTHRISE"), L’ALBERO DEL "CERVELLO" (IL NOCE), E LA "NEXOLOGIA" CHIASMATICA DELLE "COSTRUZIONI NELL’ ANALISI" (S. FREUD, 1937). *
UNA "NOCE-PESCA", "IL "PESCA-NOCE" E UNA EPISTEMOLOGIA "GENESI-CA": LA MENTE ACCOGLIENTE. Una traccia per una #svolta_antropologica...
ANTROPOLOGIA E #PSICOANALISI. Sulla relazione mente-cervello, sull’#enigma dello #gnommero, dell’ ingarbugliatissimo gomitolo (nascosto all’interno della #testa dell’essere umano, della "noce" - a "drupa aperta"), forse, non è male tenere presente (ancora e) anche il contributo di uno dei suoi grandi "#pescatori", a partire dalle sue ricerche sull’#anguille (non sui "punti di #capitone" di #Lacan: il papà di #SigmundFreud era un #mercante di #lana, ma il figlio non faceva #materassi, per tutta la vita ha cercato la via delle "anguille" per il #mare dei #Sargassi, ed è riuscito a giungere a #Maresfield).
*
PIANETA TERRA (PROMESSA), ONU (=UNO), E "UmaNITÀ" ("HUMANITAS"):
PROFEZIA, ANTROPOLOGIA, E TEOLOGIA-POLITICA.
SE E’ VERO CHE "DA TEMPO I PROFETI PARLANO A UNA CITTA’ CHE NON LI VUOLE PIU’ ASCOLTARE!" (Nicola Fanizza), E’ ALTRETTANTO VERO CHE, DA #TEMPO, DA MOLTO TEMPO, nonostante tutta la #storia (già solo quella) dell’#arte e, in particolare, la grande lezione di #Michelangelo #Buonarroti, che sapeva anche di #anatomia e di "vecchio" e "nuovo" #testamento" , è anche colpa dei #PROFETI che hanno "silenziato" le #Sibille, hanno buttato via la #bilancia (Vermeer ), e vogliono continuare a "pesare" solo "l’ #oro"!!!
CON DANTE ALIGHIERI, GIORDANO BRUNO, GALILEO GALILEI, SPINOZA, FREUD, ED EINSTEIN, #OLTRE. Senza #Kant, solo milioni di milioni di "mille piani", vecchi "ritornelli", e "dotta ignoranza" (1440) a volontà.
NOTE:
ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA) E ARTE: UNA NOTA DI ANTROPOGENESI CHIASMATICA (NEXOLOGIA) E DI STORICHE COSTRUZIONI NELL’ ANALISI (S. FREUD, 1937).
I VEGGENTI E L’ IPOTESI DELLA NASCITA DELL’ESSERE UMANO (E DELLA SUA COSCIENZA) DI MICHELANGELO BUONARROTI.
IL "MESSAGGIO" DEI SETTE PROFETI E DELLE CINQUE SIBILLE NELLA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA E DEI "DUE PROFETI" E DELLE "DUE SIBILLE" DELLA SACRA FAMIGLIA DEL "TONDO DONI".
STORIA DELL’ ARTE, ANTROPOLOGIA, E TEOLOGIA:
IL PULPITO DELLA "CHIESA DI SANT’ANDREA" DI PISTOIA è il capolavoro di Giovanni Pisano. [...]
Iniziato nell’anno 1298 e terminato nel 1301 , vi si può misurare il rapporto con le analoghe opere scolpite dal padre (i pulpiti del Battistero di Pisa e del Duomo di Siena). Poche sono le testimonianze relative a quest’opera se non l’iscrizione in lingua latina che corre tra le arcatelle ed i parapetti in cui si testimoniano il committente Arnoldo, i tesorieri Andrea Vitelli e Tino di Vitale, e l’artista Giovanni Pisano, lodatissimo artefice che in questo pulpito "seppe superare il padre in sapienza".
[...] Il programma iconografico del pergamo riprende i modelli paterni, con Allegorie nel pennacchio degli archetti, Profezie (ovvero sei sibille per il mondo pagano e dieci profeti per il mondo giudaico) a figura intera, appoggiate sulle mensole dei capitelli, ed i cinque parapetti del pulpito con Storie della vita di Cristo:
[...] Le scene sono molto affollate, come nel pulpito di Siena, ma a paragone con la ritmica organizzazione dell’insieme di Nicola Pisano, qui le figure scolpite da Giovanni sembrano emergere improvvisamente dal background (altorilievo), con bruschi giochi di luce ed ombra che scaturiscono dal diverso livello di rilievo di ciascuna figura e dall’estrema ricerca di dinamismo. Uno dei riquadri più notevoli è quello del Massacro degli innocenti, dove è posto in scena un movimento vorticoso dei personaggi con accentuato espressionismo degli aspetti, deformati dalla pena, dalla paura, dalla costernazione. Inoltre c’è un virtuosismo nel contrapporre figure con dettagli preziosamente rifiniti e altre sbozzate, con effetti di contrasto drammatico. Mai fino ad ora un artista medioevale era riuscito a rendere così vivo un dramma. Pisano si ispirò a modelli tedeschi o alle scene più toccanti della Colonna Traiana.
Notevole è la novità anche in una delle sibille, che si volta con uno scatto quasi spaventato verso un angelo che da dietro le suggerisce le rivelazioni profetiche. [...]" (ripresa parziale, senza le immagini e senza le note).
ANTROPOLOGIA, STORIA, ARTE, E RINASCIMENTO:
A BILL VIOLA (New York, 25 gennaio 1951 - Long Beach, 12 luglio 2024), IN MEMORIA.
Alcuni appunti...
A). MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). DOPO 500 ANNI E PIù, LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA #CAPPELLASISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO.
B). "RINASCIMENTO ELETTRONICO" (Palazzo Strozzi, 10 marzo-23 luglio 2017"): "The #Greeting di #BillViola e la "Visitazione" del #Pontormo - Capolavori a confronto, di Arturo #Galansino (In occasione della mostra "#Bill Viola. Rinascimento elettronico").
C). Bill Viola.
Nota:
"BILDUNGSROMAN" E VIDEOGIOCHI: PERCHE’ "DANTE VS. RENZO TRAMAGLINO" STRAVINCE?!
UNA CARTINA DI TORNASOLE PER UNA QUESTIONE DI "ARCHEOLOGIA" LETTERARIA E FILOLOGIA DANTESCA E MANZONIANA.
IN UN BRILLANTE INTERVENTO, apparso su "Insula Europea", il 25 Luglio 2022, CON IL TITOLO «Salvare la “principessa” nei videogiochi: Dante vs. Renzo Tramaglino», l’autrice, Teresa Agovino così scrive:
CON DECISIONE E CHIAREZZA, L’AUTRICE HA FATTO LE DOMANDE GIUSTE, MA LA RISPOSTA NON RISOLVE E NON HA RISOLTO IL PROBLEMA: LA LINGUA CONTINUA A BATTERE DOVE IL DENTE DUOLE. CONTRARIAMENTE A QUANTO SI INSISTE A PENSARE DA 700 ANNI E PIU’, DANTE ALIGHIERI è GIA’ SPOSATO (SUA MOGLIE E’ GEMMA DONATI: nella "Commedia" la "persona" di "LUCIA"; e SUA MADRE, #BELLA, è la "persona" di "BEATRICE", la donna "beata", che va a sollecitare la "persona" di "Virgilio" a correre in aiuto del figlio); RENZO TRAMAGLINO, invece, e LUCIA MONDELLA sono "i promessi sposi", appunto.
SE QUESTA E’ LA "SITUAZIONE", QUI E ORA ("OGGI", E NON FRA MILLE ANNI), NON "SAREBBE, dunque, interessante - come scrive sempre l’autrice - aprire una prospettiva di condivisione tra il mondo accademico dei manzonisti e quello videoludico dei produttori/giocatori (come già ha in parte ben tentato di fare Toniolo) in favore di una nuova idea di gaming legata" (cit.) a una nuova prospettiva storiografica di lettura dell’una come dell’altra opera - e quella di "Dante" e quella di "Renzo Tramaglino"?!
STORIA E STORIOGRAFIA. E’ MAI POSSIBILE, che dopo più di 700 anni, si continui a pensare che Dante, nel mezzo del cammino della sua vita, perseveri nel suo sognare "Beatrice" come la sua "principessa"; e, ancora, che la figura della "Lucia" di Renzo non abbia alcun legame manzoniano con la "Lucia" di Dante?! Forse non è meglio svegliarsi dal sonno dogmatico filologico e cominciare a "mettere nuove carte in tavola" e fornire nuove coordinate storiografiche ai costruttori di videogiochi per far meglio "giocare" i ragazzi e le ragazze del tempestoso tempo presente sia nello spirito critico della "Divina Commedia" sia dei "Promessi Sposi"?! Così sia (per non arrossire)!
NOTA:
ANTROPOLOGIA FILOSOFIA, PSICOANALISI, E CIVILTA’ (KANT 2024): CRITICA DELLA COSMOTEANDRIA OCCIDENTALE.
RIATTIVARE IL "CIRCUITO DELLA PAROLE". Oltre il lacanismo (e il paolinismo), l’omaggio di Sigmund Freud a Marie Bonaparte:
"La grande domanda, alla quale nemmeno io ho saputo rispondere, è questa: che cosa vuole la donna?” (Freud 1933). *
PIANETA TERRA: ALLA LUCE DEL "CANTICO DEI CANTICI" (è "l’amor che move il sole e le altre stelle"), DOPO MILLENNI DI COLONIZZAZIONE DEL " LOGOS" (DIVENTATO UN "#LOGO"), e, dopo aver gettato in pasto all’algoritmo la "lingua" ("#langue" ) del "Corso di linguistica generale" di Ferdinand de #Saussure, forse, è ora di ri-attivare antropologicamente il "circuito della #parole", e, al contempo, fare chiarezza sulle #ideologie falloforiche nelle loro tragiche pretese androcentriche e platonizzanti e passare alla "commedia" (#DanteAlighieri): almeno dai lavori di #Michelangelo Buonarroti, per riflettere teologicamente sul tema, le Sibille camminano insieme ai #Profeti nella Volta della #CappellaSistina e l’ amore di ogni "Maria" e ogni "Giuseppe" cerca di illuminare non solo il cammino di ogni loro bambino e di ogni loro bambina ("Gesù"), ma anche le loro stesse comunicazioni e le loro stesse relazioni tra di loro e con tutti gli esseri umani (e non solo).
Note:
A CHE GIOCO GIOCHIAMO, IN REALTÀ?! LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA DEL DIVANO DI #FREUD E IL PERMANERE DEL COMPROMESSO "OLIMPICO" (PLATONICO E ARISTOTELICO) SUL PROBLEMA DEL "COME NASCONO I BAMBINI".
ANTROPOLOGIA E STORIA: #UNO (#ONU). Alla luce dell’eredità tragica di #Edipo (#Sofocle) e #Amleto (#Shakespeare), sulla questione antropologica (e cristologica) la cultura europea (e planetaria) ancora non è riuscita a fare chiarezza sulla dimensione "nexologica" (da "#nexus") e confonde ancora "nexuno", con "#nessuno", e non comprende nemmeno un semplice "nesso"!
PSICOANALISI ("L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI", 1899): "IL DIALOGO PSICOANALITICO" (Jean-Jacques #Abrahams, "Les Temps Modernes", 1969). A partire dal caso dell’«uomo dei topi» (Freud, 1909) e dell’«uomo con il magnetofono, dramma in un atto con grida d’aiuto di uno psicoanalista» (Jean-Jacques Abrahams, 1977), il problema è ancora sul divano di #SigmundFreud (non di #Lacan), e l’#enigma del "come nascono i bambini" non è stato ancora risolto... A gloria eterna della sollecitazione di "Sigismondo di Vindobona" e di Franca Ongaro Basaglia (cfr. "Così parlò Edipo a #Cuernavaca", "pM - Panorama mese", novembre 1982), che fare? Continuare i giochi "olimpici" di enigmistica nello spirito di Edipo e di cruciverba nello spirito di Amleto?
STORIA, STORIOGRAFIA E "DIVINA COMMEDIA" (#DANTE2021): L’IMMAGINARIO APOLLINEO E LA SOPRAVVIVENZA DELL’ #ALGORITMO DELLA TRAGEDIA. Se è vero, come è vero, che per la religione greca «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda» (#Eschilo, "Eumenidi"), è anche vero che dopo la nascita di Cristo e dopo la diffusione del Cristianesimo, come ha scritto Franca Ongaro Basaglia (1978), continua ad essere "possibile un’operazione #matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo".
NOTE:
QUESTIONE ANTROPOLOGICA (E CRISTOLOGICA) ED ENIGMA DELLA SFINGE (EGITTO E GRECIA):
CON SHAKESPEARE E FREUD, OLTRE LO "SCILLA E CARIDDI" DEL "MATRIARCATO" E DEL "PATRIARCATO.
La #question di Amleto (#Hamlet) è "BIBLICA" E "COSMICA". Si tratta di uscire dalla "preistoria" (#Marx), e di andare oltre la grande instaurazione di Zeus/Apollo/Atena, accettata e sopportata per compromesso "storico-olimpico" da Era/Giunone (Freud pone #Giunone nella "testa" della sua "Interpretazione dei sogni" (1899).
"The #Mousetrap", teatro nel teatro del mondo planetario terrestre, è per fare affiorare alla coscienza (quanto ha già capito Francesco d’Assisi e Dante Alighieri) e andare oltre "#Adamo ed #Eva": #Amleto ("Gesù") è Figlio del Re Amleto ("#Giuseppe") e della Regina Gertrude ("#Maria").
Ciò che dice Freud, in una nota del testo di "L’uomo dei #topi" [*] richiama un problema all’ordine del giorno dell’umanità: comporre in spirito di giustizia e amore la guerra tra #matriacato e #patriarcato, e, riprendere il cammino con tutte le "#sibille" e con tutti i "#profeti" (come da indicazione già di Michelangelo Buonarroti).
COSMOLOGIA, STORIA E LETTERATURA, (E DISAGIO DELLA) CIVILTA’: GIACOMO LEOPARDI, NELL’ORIZZONTE COPERNICANO DI KANT E DI FREUD. Una nota a sua memoria...
RICORDARE che Giacomo Leopardi (Recanati, 29 giugno 1798 - Napoli, 14 giugno 1837 ), a introduzione del testo della "Ginestra o il fiore del deserto" (1836), abbia premesso le parole riprese dall’evangelo di Giovanni (III,19) "Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἂνθρωποι/ μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς ("E gli uomini amarono/ piuttosto le tenebre che la luce" (Giovanni III, 19), è una valutazione radicale di denuncia della scelta fatta.
Il "giudizio" della "lenta ginestra" sull’umanità che ha amato (v. "ἠγάπησαν") le tenebre e non la luce, dice di una #negazione dell’ ἀγάπη, dello stesso «amore» cristiano, che in qualche modo richiama le considerazioni fatte da Kant nella "Fine di tutte le cose" ) e, al contempo, anche le riflessioni di Freud sulla svolta data da Paolo di Tarso nella "gestione" del messagio evangelico: "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori" (S. Freud, "Disagio della civiltà", 1929).
NOTE:
L’ ITALIA, METAFORA DEL GIARDINO: SIGMUND FREUD (E DANTE ALIGHIERI) ALLA RICERCA DELLA VIA D’USCITA DALL’ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA (E DELLA "CADUTA" LUCIFERINA ALL’INFERNO).
USCIRE DA SE’ PER CERCARE LA "ANTICA TERRA" E RI-TROVARE "I PROPRI #GENITORI". Come #DanteAlighieri, con #Virgilio ("dolcissimo patre"), così Sigmund #Freud, con più difficoltà edipiche (con il suo padre #Jakob): entrambi cercano "l’antica madre" (#Eneide, III, 116-117), il "sogno di una cosa" (K. #Marx), il "giardino dell’Impero" l’uno, la "Terra promessa" l’altro.
DANTE, MILTON, E FREUD. Alla fidanzata #Martha, il 7 agosto 1882, Sigmund Freud scrive che, nel "Paradiso perduto" (John Milton, 1667), «ancora di recente, in un momento in cui non mi sono sentito sicuro del tuo amore, ho trovato consolazione e conforto».
#AMARE L’ITALIA. Freud, confidando nell’amore di sua madre #Amalia (#Nathanson), come Dante, nell’amore di sua madre, la "#Bella e beata", "#Beatrice"), l’uno, come l’altro, affrontano un lungo cammino per risalire "salomonicamente" la corrente, e, finalmente, ritrovare al di là della dell’inferno e della tragedia, "l’antica matre" ("#Eva") e l’antico padre ("#Adamo"), e, finalmente, rigenerarsi nell’acqua viva dell’#amore "che muove il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145).
#COSMOLOGIA #POESIA E #LOGOS. Quando avremo sondato l’Universo alla ricerca della nostra incapacità di dominarlo e di capirlo, dovremo ritornare al Poeta e concludere che a muover il Sole e le altre stelle (a muoverle, ma non a spiegarle) è l’Amore. Allora la nostra fede non sarà più liberatrice, ma deduttiva, accettata per la nostra incapacità di andare oltre. Crederemo perché è evidente, non perché è assurdo." (#ENNIO #FLAIANO, "DIARIO DEGLI ERRORI", 1967).
* MARINA D’ANGELO, "I VIAGGI DI FREUD IN ITALIA. LETTERE E MANOSCRITTI INEDITI", BORINGHIERI 2024:
ANTROPOLOGIA, TEOLOGIA, ARTE E STORIA: IL PROGRAMMA ANTROPOLOGICO E TEOLOGICO DELL’UMANESIMO "PERDUTO":
"Le #Sibille, secondo lo schema varroniano, sono #dieci (cinque per ogni navata) e derivano il loro nome dai luoghi di pertinenza geografica: la Sibilla Persica, l’Ellespontica, l’Eritrea, la Frigia, la Samia, la Delfica per quanto riguarda il mondo orientale e greco; la Libica per l’Africa; e poi quelle occidentali (con riferimento all’Italia): la Cumea o Cimmeria, la Cumana (virgiliana) e la Tiburtina." (https://operaduomo.siena.it/pavimento/).
SIBILLE E PROFETI NEL REGNO DI NAPOLI, NEL PRIMO SEICENTO.
ARTE, #STORIA, E #ANTROPOLOGIA: LA LUNGA ONDA DEL RINASCIMENTO.
I profeti nella Certosa di San Martino: il genio di Ribera attratto dalla magia di Napoli
di Aurelio Musi (Corriere della Sera, 27 marzo 2024)
In uno di quei minuscoli libretti, che hanno fatto la storia dell’editore Colonnese, può essere racchiuso un intero universo, una civiltà, il mondo di segni di un’epoca. José Vicente Quirante Rives, con “Dodici araldi grinzosi. I profeti di Ribera nella certosa di San Martino” (Colonnese ed.), dedicato alla memoria di Giuseppe Galasso, accompagna il lettore fra terra e cielo, fra l’umano e il divino, fra passione e luce: “perché non vi sarà più notte”.
Nei dodici profeti di Ribera c’è la realtà quotidiana e precaria, c’è la vita dei vecchi, c’è Caravaggio, c’è la solitudine del profeta, la certosa come imitazione del deserto. I profeti, messaggeri che portano sulla superficie dei loro volti le profonde rughe, sedimenti di vita e di sapienza, ricevono la visione da Dio, la traducono in parole. Quirante fantastica sui certosini che entrano nell’ampia navata, fanno l’esegesi delle immagini, osservano le profezie realizzate, le inseriscono in una fittissima rete di relazioni, distendono il tempo tra passato, presente e futuro. Sopra i dodici profeti di Ribera i dodici apostoli di Lanfranco con i loro nomi. Dodici più dodici ventiquattro come gli anziani dell’Apocalisse, come la somma dell’Antico e Nuovo Testamento.
“Solo chi si reca a Napoli e visita nel Duomo la cappella di San Gennaro, con lo splendido dipinto di Ribera vicino a opere del Domenichino e del Lanfranco, e poi sale alla Certosa, contempla nella cappella del Tesoro la profonda e monumentale Pietà, e vede nella chiesa la Comunione degli Apostoli e i profeti nella navata centrale, è in grado di percepire tutta la sapienza pittorica, la profondità emotiva, la solidità compositiva e la monumentalità di Ribera, che si presenta come uno dei grandi del suo tempo” (p. 23).
Lo spagnolo autore di questo aureo libretto è un vero innamorato di Napoli, della sua civiltà artistica, della sua anima aristocratica. E’ capace di scoprirne tesori nascosti e illuminare ulteriormente aspetti e personaggi noti o meno noti della sua ricchissima storia: anche per questi motivi Quirante, ex direttore del “Cervantes”, si è guadagnato la cittadinanza onoraria di Napoli.
Quirante scrive un capitolo su Gustaw Herling, “che passerà più della metà della sua vita a Napoli come José de Ribera. Entrambi si sposeranno e fonderanno una famiglia, entrambi intrappolati nella città feroce e seducente come la formica nell’ambra” (p. 47).
Ribera arriva a Napoli nel 1616. Insieme col Lanfranco opera alla Corte del viceré Monterey. Firma le sue opere come “español”, ma non vorrebbe tornare in patria. Ribera e Quirante: l’autore e, forse, il suo consapevole o inconsapevole doppio.
USCIRE DALL’#INFERNO DELLA #RIPETIZIONE E DAL #LETARGO DI MILLENNI (Par. XXX, III, 94).
Storia, filosofia, filologia, #psicoanalisi: una nota su una "ignota" #svolta_antropologica in corso...
IL PROGRAMMA DI #DANTEALIGHIERI ALL’ORDINE DEL GIORNO (#25MARZO 2024: #Dantedì).
Riprendere il cammino di "#Ulisse" e portarsi oltre il "Convivio", il #Simposio, di #Platone e del suo "socratico" #amore (#Eros), avido e cupìdo, #figlio nato dalla astuta alleanza (#Metis) dell’#uomo-#Ingegno (gr. #Poros) e della #donna-#Povertà (gr. #Penia). La lezione di Platone appare essere la chiara codificazione di una fenomenologia dello spirito della #tragedia e la sua parola una versione della #Legge del #Figlio di Dio (#Zeus) , #Apollo: "«non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...» (#Eschilo, #Eumenidi, 657 ss.): : un ’#cattolicesimo’ platonico.
STORIAELETTERATURA, #FILOLOGIA E #CRITICA: #DIVINACOMMEDIA. Gianfranco #Contini: «[...] L’impressione genuina del postero, incontrandosi in Dante, non è d’imbattersi in un tenace e ben conservato sopravvissuto, ma di raggiungere qualcuno arrivato prima di lui» (cfr. "Un’interpretazione di Dante", in Id., G. Contini, "Un’idea di Dante. Saggi danteschi", Torino, Einaudi, 2001, I ed. 1970, pp. 110-11).
ARTE, #ANTROPOLOGIA, #FILOLOGIA E #TEOLOGIA:
MICHELANGELO BUONARROTI, I PROFETI E LE SIBILLE.
LA "STORICA" #LEZIONE ANTROPOLOGICA DELLA #CORNICE LIGNEA DEL #TONDODONI (E DELLA #NARRAZIONE DELLA #VOLTA DELLA #CAPPELLASISTINA: DUE PROFETI E #DUE SIBILLE "INDICANO" LO #SPAZIOTEMPO DELLA #NASCITA DEL #FIGLIO DI #MARIAEGIUSEPPE. Come mai gli esperti della #GalleriadegliUffizi "insistono" a sostenere che nella "cornice del Tondo [...] sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti"?!
ARTE RELIGIONE STORIA ANTROPOLOGIA E FILOLOGIA DEL RINASCIMENTO:
LORENZO LOTTO (1480-1556).
A MIO PARERE, LORENZO LOTTO MERITA ATTENZIONE CULTURALE E STORIOGRAFICA: LA LUNGA ONDA DELL’#INTERPRETAZIONE UMANISTICO-RINASCIMENTALE DEL MESSAGGIO EVANGELICO, COME DI UN #CAMMINO #PARALLELO DI #PROFETI E #SIBILLE, CHE ARRIVA MAGISTRALMENTE CON [MICHELANGELO BUONARROTI FINO IN CIMA ALLA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA, E, CON LORENZO LOTTO, GIUNGE CON I PROFETI E LE SIBILLE DELLA "CAPPELLA SUARDI", NELLE OPERE DEL "CICLO LAURETANO", ALLA SANTA CASA DI LORETO, ALLA CASA DI MARIA E GIUSEPPE, E ALLA "ADORAZIONE DEL BAMBINO".
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DANTEDI’, #STORIAELETTERATURA, E #FRANCOSTORIE:
LA "#STORIA POSTALE", I #MESSAGGI DELLE #SIBILLE (#MICHELANGELO, "VOLTA DELLA #CAPPELLA SISTINA",1512), IL #SERVIZIO POSTALE DELLA #FAMIGLIA DI #BERNARDO TASSO (1493-1569) E #TORQUATO TASSO (1544-1595), E LA MEMORIA DI #ANTONIO ROSMINI ( #24MARZO 1797 - 1 LUGLIO 1855).
ACCOGLIENDO LA SOLLECITAZIONE A RICORDARE ANTONIO ROSMINI SERBATI "(#Rovereto 1797 - #Stresa 1855), sacerdote e filosofo vissuto nella prima metà dell’Ottocento", forse, è possibile far emergere e mettere in evidenza un legame stretto con la cultura dell’#Europa del #Cinquecento, la "storia postale" e gli avvii dell’impresa dei #Tasso: degno di nota è il fatto che la tesi di laurea di Rosmini è una breve dissertazione sulle Sibille->https://media.agiati.org/page/attachments/01-pag-09-patricia-salomoni-antonio-rosmini-lettore-e-traduttore-dei-classici.pdf] (1822).
#Dantedi #25marzo 2024: vista e considerata la presenza nella "Casa natale di Antonio Rosmini" della #SibillaCumana, è bene riannodare il filo tra Dante e Rosmini e non far disperdere "al vento ne le foglie levi [...] la sentenza di #Sibilla." (#DanteAlighieri, Par. XXXIII, vv. 65-66).
LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO --- NEL VENTRE DELLA PAROLA. Inascoltato il bisogno di profezia... *
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NEL VENTRE DELLA PAROLA/1. Inascoltato il bisogno di profezia. Giona e il suo “invece".
di Luigino Bruni (Avvenire, 17 febbraio 2024)
La nostra generazione ha perso contatto con la profezia. Non la riconosce, non la stima, e così il posto che era dei profeti è stato prima lasciato vuoto poi subito occupato dai leader e dagli influencer; perché quando la domanda di profeti che sale dalla gente non incontra la profezia vera, entra in scena quella falsa con la sua grande efficienza e i suoi effetti speciali. La Bibbia ci dice che Dio ascolta il grido del povero, ma ci dice anche che i profeti sono amplificatori necessari di questo grido, perché possa giungere fino al cielo. Senza profezia il misero continua ad urlare, e non accade nulla. Ieri, oggi, forse sempre, anche se ogni generazione ha il dovere etico di creare le condizioni affinché i figli crescano in un mondo dove poter sperare che, finalmente, un profeta o qualcuno ascolterà davvero il grido dei poveri, e lo consoli.
La Bibbia non è l’unico luogo dove poter imparare la profezia, ma è certamente un ambiente privilegiato per la qualità e la quantità delle parole dei suoi profeti. Di tutti i profeti, persino di quei libri “profetici” che non sono stati scritti da profeti, come quello di Daniele. O come quello di Giona, di cui oggi iniziamo un commento che ci accompagnerà nelle prossime domeniche. «Fu rivolta a Giona, figlio di Amittài, questa parola di YHWH: “Àlzati, va’ a Ninive, la grande città, e in essa proclama che la loro malvagità è salita fino a me”» (Giona 1,1-2).
Tra coloro che hanno commentato Giona pochi hanno cercato in questo libro un insegnamento sulla profezia, tantomeno gli elementi per una grammatica profetica. Il libro stesso non chiama Giona “profeta”, anche se nel solo riferimento storico che nella Bibbia è associato al suo nome viene chiamato profeta: «Il profeta Giona, figlio di Amittài» (2 Re 14,25). Un profeta del Nord, al tempo del re Geroboamo II, quindi dell’VIII secolo. Un profeta nazionalista perché, dice il testo, quel re malvagio (2 Re 14,24) aveva riconquistato territori ad Israele, dal Libano fino all’Arabia, e lo aveva fatto «secondo la parola del Signore pronunciata per mezzo del suo servo, il profeta Giona» (2 Re 14,25).
Quando nella Bibbia leggiamo che qualcosa è accaduto “secondo la parola del Signore”, sappiamo che quei fatti o vittorie erano stati interpretati come una conseguenza di una parola-volontà di YHWH. Ed è quindi probabile che quell’antico profeta fosse un esponente della tradizione nazionalistica, al quale si opponeva un altro profeta, Amos, che non è da escludere indirizzasse proprio a Giona le sue critiche alle ambizioni e illusioni militari di Israele - ci sono sempre stati “profeti” che sostengono le guerre e altri profeti che le combattono. Forse, allora, il Giona del II libro dei Re fu un profeta non così marginale; e chissà se il Libro di Giona non fu scritto per correggere, secoli dopo, il nazionalismo di quell’antico primo Giona?!
Ma il protagonista del libro di Giona non ha nulla a che fare, sul piano storico, con quell’antico profeta del Nord. Ciò non significa però affermare che nel Libro di Giona non ci siano, sul piano teologico e narrativo, allusioni a quell’antico profeta Giona. Lo stesso significato del nome Giona, cioè Colomba, da Osea è usato per indicare Israele - «Èfraim è come un’ingenua colomba» (Os 7,11). I profeti del Nord, da Elia e Geremia, sono fondamentali per capire la vicenda di Giona e la sua misteriosa vocazione. La città di Ninive, poi, la co-protagonista del racconto di Giona, era la capitale dell’Assiria, il centro politico di quell’impero nemico che nell’VIII secolo conquistò Efraim e deportò le tribù del Nord in Mesopotamia, e non fecero più ritorno.
Anche del Libro di Giona sappiamo molto poco. Nulla del suo autore, nulla di certo su quando fu scritto: le ipotesi vanno dall’VIII secolo al II a.c. Non esiste poi un consenso neanche sul messaggio teologico principale del libro né sui quelli collaterali. La complessità e l’ambivalenza della storia di Giona le ritroviamo già nel famoso “segno di Giona”, al quale Luca (11,29) dà una interpretazione diversa da Matteo (12,39). Le letture cristologiche e allegoriche dei Padri ne hanno poi arricchita e complicata ulteriormente la comprensione. Ma, come ogni tanto succede, i controversi e misteriosi messaggi di Giona lo hanno reso molto generativo nei secoli, soprattutto nell’arte e nella letteratura, da Ariosto a Camus, fino a Master&Commander (il film di P. Weir).
Ho deciso di riprendere i miei commenti biblici su “Avvenire” con Giona perché innanzitutto è un racconto molto bello, un vero gioiello narrativo, breve, intenso e saporitissimo. Avevo in passato posticipato l’intrapresa cosciente che Giona fosse un testo bisognoso di una certa familiarità con i profeti biblici e con i libri storici, utili e forse necessari per provare ad accompagnare Giona nel suo viaggio nel ventre della parola. È poi difficile capire Giona senza Giobbe (i due racconti non si intrecciano soltanto in Moby-Dick), e forse senza Saul. È l’unico libro biblico che termina con una domanda, un finale aperto che ricorda quello della parabola del figliol prodigo - e noi ci chiediamo se il figlio maggiore entrò nel banchetto, e se Giona, o Dio?, si convertì davvero. Ma in Giona ci sono anche presenze bibliche improbabili e in genere non viste. Il nome “colomba” è nome femminile. Ci sono infatti tracce delle donne della Bibbia, del loro rapporto libero, dialettico, creativo con la parola di Dio, un’obbedienza più simile a quella delle figlie che a quella delle serve. Dell’obbedienza disubbidiente di Rut, di Ester, della sunammita, della siro-fenicia del vangelo, delle levatrici d’Egitto, di Tamar, di Mical, di Maria.
Il racconto di Giona è pieno di veloci colpi di scena. Il primo lo troviamo subito. Giona deve partire, deve andare nella grande città assira di Ninive, sulle rive del Tigri, una città antichissima - se ne hanno tracce a partire dal VI millennio a.c. Deve recarsi lì per svolgere una missione da ambasciatore di Dio: il profeta è anche questo, ma spesso diventa il messaggio che deve annunciare. Deve portare una parola dura, rivelare a quella città pagana che la loro malvagità è grande ed è quindi “salita” fino a Dio. Uno scenario che ci ricorda da vicino Sodoma e Gomorra, il cui grido di male «era giunto fino a me» (Gn 18,21).
«Giona invece si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore» (1,3). La prima decisiva svolta narrativa e spirituale del libro di Giona sta tutta in quell’invece, e buona parte del senso della sua storia sta in questo avverbio, che non è un avverbio della profezia. Dopo aver letto la prima frase e il comando di YHWH, tutta la Bibbia ci suggeriva una sola continuazione di quella prima frase: ...e Giona partì come gli aveva comandato il Signore. Nessun’altra storia di profeti ci racconta infatti di un comando divino ricevuto cui fa seguito un invece: alcuni hanno delle incertezze (Mosè, Geremia), qualcuno si sente schiantato e tramortito (Ezechiele), altri non riconoscono subito la voce (Samuele) ... ma nessuno disubbidisce. Nessuno, tranne Giona, che è l’unico profeta che conosce l’invece.
Sarebbe sufficiente solo questo avverbio iniziale per escluderlo dall’elenco dei profeti, e invece la Bibbia lo ha inserito tra Adbia e Michea, e nessuno ha mai pensato di toglierlo da lì. Quindi un primo compito che ci attende in questo commento a Giona è cercare di capire perché Giona resti un profeta biblico nonostante un incipit chiaramente non-profetico, nonostante un inizio che lo classificherebbe come un anti-profeta o, addirittura, un falso profeta. E invece, lo vedremo, Giona resta un profeta, un profeta vero. Ma può un profeta autentico disubbidire alla parola che lo chiama e gli affida un compito da svolgere? E che ruolo ha la disubbidienza nella vita dei profeti e in quella di tutti coloro - e sono tanti sulla terra - che hanno ricevuto una qualche vocazione, religiosa, artistica o laica? O magari la profezia inizia solo dopo la conversione di Giona e non si trova già in questo primo “invece”?
Il testo, in nessuna delle sue versioni (ebraica e greca) ci dà indizi sul perché Giona non obbedisca a YHWH. Né ci spiega un secondo dettaglio narrativo importante: perché oltre a non ubbidire Giona inizi un altro viaggio verso la misteriosa Tarsis? È un nome di città o di luogo che incontriamo molte volte nella Bibbia (25 volte), senza che si sia arrivati ad una ipotesi condivisa su dove si trovasse - le molte ipotesi vanno dall’Andalusia (che resta la più probabile) alla Sardegna, dalla Fenicia all’Asia Minore; lo storico ebreo Flavio Giuseppe confonde Tarsis con Tarso, e Gerolamo suggerisce persino l’India.
Avrebbe infatti potuto semplicemente non partire, restarsene a casa e lì starsene “lontano dal Signore”. E invece no, parte per un altro lungo viaggio, senza una meta ragionevole. Forse perché quando sappiamo che il viaggio buono è uno solo e noi non lo vogliamo fare, che la strada giusta ha una sola precisa destinazione che noi decidiamo di non imboccare, che il Signore si trova “lontano” da dove stiamo andando..., quasi sempre ci illudiamo che si possa sostituire il giusto destino-destinazione con un altro scelto da noi, che andare lontano non significhi allontanarsi dal Signore ma solo da un suo primo volto che non ci piace più - e lo pensiamo davvero, e qualche volta, paradossalmente, è anche vero.
Sappiamo, soprattutto lo sanno con certezza i profeti, che stare fermi di fronte alla chiamata al viaggio sarebbe la sconfitta totale. Perché ogni chiamata è una continuazione del primo “vattene” rivolto ad Abramo, un errare buono che salva e riscatta l’errare di Caino. Ecco perché il profeta parte, non può non partire, perché se davanti alla Voce che lo chiama non parte, semplicemente muore. Giona ci dice quindi che l’errore comune dei profeti e delle vocazioni profetiche non sta nel restare a casa, ma nel partire in una direzione sbagliata, ben sapendo che è sbagliata però illudendosi che il gesto del cammino possa curarne il finale. Giona, dopo l’ordine di Dio, partì. Non andò nella direzione giusta, ma partì. E quel partire sbagliato fu migliore del restare, perché sarà proprio lungo quella strada non-retta che troverà una misteriosa salvezza.
LA BILANCIA E LA NASCITA...
DIRITTO, DOVERE, E COSTITUZIONE: UNA QUESTIONE DI FILOLOGIA E DI ANTROPOLOGIA (DA PORRE ALL’ORDINE DEL GIORNO, PER EVITARE... UN ARROSSIMENTO GENERALE).
La #bilancia della #giustizia e l’urgenza epocale di una #equilibrazione del #rapportosociale di ri-#produzione: "un’operazione #matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (Franca Ongaro Basaglia, 1978).
#SAPEREAUDE! (#KANT2024). LIBERARE la #Giustizia dalla benda (v. allegato) è un programma di uscita dallo "stato di minorità" (#Kant, 1784), una sollecitazione antropologica a servirsi della propria facoltà di giudizio, di avere il coraggio di #apriregliocchi (ricordare la difficoltà di #Freud, a riguardo) e di non #giudicare né con gli occhi chiusi né con un solo occhio.
Riconoscere l’#identità e la #differenza di sé con sé, di sé con l’altro da sé, di sé con l’altra da sé, l’#uguaglianza e la #diversità, è proprio una questione di "equilibrazione", di bilancia: ne va della nostra stessa #nascita e della nostra stessa #vita.
"AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Ct. 8.6):
UNA INDICAZIONE DA GIUBILEO DI PAPA FRANCESCO E UNA PREMESSA FONDAMENTALE A UN’ ANTROPOLOGIA ALL’ALTEZZA DEL "CANTICO DEI CANTICI" (Ct. 8.6).
AMORE (#CHARITAS) E CASTITA’. L’’indicazione è premessa fondamentale al #riconoscimento giuridico e teologico dei "#dueSoli" (#DanteAlighieri), della #maternità piena di "#Maria" e della #paternità piena di "#Giuseppe" e alla ricostituzione della "FAMIGLIA" umana e divina: al di là del "giocastolaio" #incesto edipico (#SigmundFreud e #ThomasMann), la riconsiderazione (al di là delle pretese imperial-costantiniane e tebane di #SistoIV e di #GiulioII della Rovere) e la riaffermazione antropologica e "cosmicomica" della Relazione d’#Amore ("Charitas") tra #MariaeGiuseppe e #Gesù.
ARTE E "PROPAGANDA FIDE": #TONDODONI. Attenzione: nella cornice "raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti" (Galleria degli Uffizi)? Ma, per Michelangelo, non erano e non sono due #profeti e due #sibille?!
COSMOLOGIA, ANTROPOLOGIA (E CRISTOLOGIA), E PSICOANALISI. Con la ripresa dello spirito di Francesco di Assisi, di Giotto, e di Dante Alghieri, e la memoria del "Cantico dei cantici", a mio parere, è possibile comprendere "#Chiara-mente" che le radici della Terra non sono tragico-edipiche, ma "#Cosmicomiche" (come da lezione di Italo Calvino, Santiago de Las Vegas de La Habana, 15 ottobre 1923 - Siena, 19 settembre 1985).
DOTTA IGNORANZA (1440), "PACE DELLA FEDE" (1453), E RILANCIO DI UN "NUOVO" #PRESEPE "FRANCESCANO" (ALL’ORIGINE DELLA "#CAPPELLASISTINA"): #ARCHEOLOGIA, #FILOLOGIA, E #STORIAELETTERATURA ...
Un invito alla lettura di un "vecchio" lavoro di #ricerca di Arnalda Dallaj:
"#ORAZIONE E #PITTURA TRA «#PROPAGANDA» E #DEVOZIONE AL TEMPO DI #SISTOIV. [...] A proposito del dibattito sull’Immacolata Concezione e delle vivacissime forme che lo caratterizzarono tra l’ottavo decennio del #Quattrocento e gli inizi del #Cinquecento sono state utilizzate di recente espressioni come « mezzi pubblicitari » e «manifesti dottrinali» ponendo così l’accento sull’intensa ricerca, da parte delle istituzioni ecclesiastiche, di appropriati canali di comunicazione per ampliare il confronto sulla dottrina che, proprio in quel secolo, aveva conquistato basi più salde, anche se il definitivo assestamento maturerà solo nel 1854. Una data cardine fu il 1477, allorché il #papa #francescano Sisto IV autorizzò la celebrazione della festa e approvò l’Ufficio, appositamente composto da Leonardo Nogarolo, concedendo ampia indulgenza per la partecipazione alla liturgia. La tesi della « preservazione » di Maria dal peccato originale, pur trovando sempre maggiori consensi, continuò ad essere avversata soprattutto dai Domenicani. [...]" (cf. Arnalda DALLAJ: "IL CASO DELLA MADONNA DELLA MISERICORDIA DI GANNA").
Federico La Sala #ARCHEOLOGIA, #FILOLOGIA, E #STORIAELETTERATURA ...
Un invito alla lettura di un "vecchio" lavoro di #ricerca di Arnalda Dallaj:
"#ORAZIONE E #PITTURA TRA «#PROPAGANDA» E #DEVOZIONE AL TEMPO DI #SISTOIV. [...] A proposito del dibattito sull’Immacolata Concezione e delle vivacissime forme che lo caratterizzarono tra l’ottavo decennio del #Quattrocento e gli inizi del #Cinquecento sono state utilizzate di recente espressioni come « mezzi pubblicitari » e «manifesti dottrinali» ponendo così l’accento sull’intensa ricerca, da parte delle istituzioni ecclesiastiche, di appropriati canali di comunicazione per ampliare il confronto sulla dottrina che, proprio in quel secolo, aveva conquistato basi più salde, anche se il definitivo assestamento maturerà solo nel 1854. Una data cardine fu il 1477, allorché il #papa #francescano Sisto IV autorizzò la celebrazione della festa e approvò l’Ufficio, appositamente composto da Leonardo Nogarolo, concedendo ampia indulgenza per la partecipazione alla liturgia. La tesi della « preservazione » di Maria dal peccato originale, pur trovando sempre maggiori consensi, continuò ad essere avversata soprattutto dai Domenicani. [...]" (cf. Arnalda DALLAJ: "IL CASO DELLA MADONNA DELLA MISERICORDIA DI GANNA").
TEATRO E METATEATRO: "THE TIME IS OUT OF JOINT" (HAMLET, I.5).
Una nota a margine del lavoro in corso di Paul Adrian Fried (cfr. "Shepherds in Shakespeare, Oedipus, Hamlet, and the Bible", December 24, 2023):
IL "PRESEPE" NON MI PIACE (EDUARDO DE FILIPPO, "NATALE IN CASA CUPIELLO", 1931). SENZA PENSARE COL "SENNO DEL POI", STORIOGRAFICAMENTE E INDIPENDENTEMENTE DA FREUD, si può benissimo pensare che a Shakespeare il "presepe" dell’Europa "cattolico-spagnola" non piaccia e, al contempo, che egli, sul filo della tradizione umanistico-rinascimentale (e delle specifiche sollecitazioni della riforma protestante e della riforma anglicana, di Giordano Bruno, e alla presenza di Elisabetta I) collabori dentro a un ampio lavoro culturale del tempo alla ripresa della tradizione dei pastori dell’Arcadia e abbia consapevolmente sollecitato a riflettere su un programma teologico-politico di riforma storico-sociale epoca, di un "ritorno" al "Paradiso terrestre" (come già Dante Alighieri, "Monarchia"). Ieri, come oggi, non è bene riprendere il filo della sollecitazione ad uscire dal letargo?!
Antropologia, Presepe, e cosmoteandria: origine storica dell’antisemitismo "francescano" (contro ebrei e musulmani). La progressiva riduzione del messaggio evangelico e francescano, caduto nelle maglie della tradizione ecclesiastica (paolina-costantiniana), trova il suo momento culminante nell’incapacità di risolvere pacificamente il rapporto con l’ Islam nel 1453 ("caduta di Costantinopoli e e fallimento della teologia "ecumenica" della "pace della fede", il "De pace fidei" del cardinale Cusano) e nella decisione di innescare la marcia sull’Immacolata concezione (della Madre del Figlio di Dio) proprio da parte del papa "francescano" Sisto IV della Rovere, con la fondazione (1475-1478) del suo personale "presepe" (la "Cappella Sistina").
RIFLESSIONI SULL’OCULISTICA TEOLOGICO-POLITICA:
SVEGLIARSI DAL #SONNODOGMATICO (#KANT) E RICONSIDERARE IL PROGRAMMA DI RICERCA DI #WITTGENSTEIN: USCIRE DALLA #CAVERNA, DALLA TRAPPOLA POLIFEMICA DEL #CINEFORUM PLATONICO, E DALL’#INFERNO EPISTEMOLOGICO ...
IL #SOGGETTO "METAFISICO" ("TEOLOGICO-POLITICO") C’E’... MA NON SI VEDE!
«Il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo. ("Tractatus logico-philosophicus", 5. 632); «Ove, nel mondo, vedere un soggetto metafisico?. Tu dici che qui sia proprio così come nel caso dell’occhio e del campo visivo. Ma l’occhio, in realtà, tu non lo vedi. E nulla nel campo visivo fa concludere che esso sia visto da un occhio.» ("Tractatus logico-philosophicus", 5. 633).
#VISIONE, #DESIDERIO, E #ANTROPOLOGIA DELLA #COMUNICAZIONE: UNA "MEMORIA" DI #MARSHALLMCLUHAN. "[...] Fin quando resteremo legati a un atteggiamento narcisistico e considereremo le estensioni dei nostri corpi qualcosa di veramente esterno e indipendente da noi, non riusciremo ad affrontare le sfide della tecnologia se non con le piroette e gli afflosciamenti di una buccia di banana. Archimede disse una volta: "Datemi un punto di appoggio e solleverò il mondo". Oggi ci avrebbe indicato i nostri media elettrici dicendo: "M’appoggerò ai vostri occhi, ai vostri orecchi, ai vostri nervi e al vostro cervello, e il mondo si sposterà al ritmo e nella direzione che sceglierò io". Noi abbiamo ceduto questi "punti d’appoggio" a società private [...]" ( "Gli strumenti del comunicare", Milano, Il Saggiatore, 1967 ).
ARTE STORIA STORIOGRAFIA: RUBENS, LA SIBILLA PERSICA, E LA FINE DELLA LUNGA ONDA DEL RINASCIMENTO.
Una nota a margine di un evento...
A #NAPOLI, IL GIORNO 4 DICEMBRE 2023, Maura Sgarro con i suoi "Colloqui con quattordici artisti del Seicento europeo" (kimerik.it, 2023) e Aurelio Musi con la sua "Malinconia barocca" (Neri Pozza, 2023), faranno una doppia presentazione dei loro libri e, ad essa, come annuncia la dr.ssa Sgarro, «"sara’ presente" anche P. P. Rubens con il suo quadro "Le conseguenze della guerra" del 1638» (https://www.facebook.com/maura.sgarro.125/posts/pfbid0X5gFzPRc7MRdJTF2vsYEiDmQmM5GrP7KEpckAV9839aRxvfLUuXT2eydu7mQWdXxl). Approfittando dell’occasione, forse, è una buona idea richiamare l’attenzione su una opera giovanile di #Rubens, legata alla complessa storia del tema delle #Sibille, alla SibillaCumana, alle Sibille della #CappellaSistina, alla filosofia del Rinascimento, e allo stesso #Barocco (cfr. Giovan Battista Marino, "Dicerie Sacre", 1614; e "Adone", 1623).
"RUBENS. ALLEGORIA DELLA FEDE. LA SIBILLA PERSICA [...] L’Allegoria della Fede. La #SibillaPersica [...] È un capolavoro della prima maturità di Rubens (Siegen, 1577-Anversa, 1640), appena rientrato da Roma ad Anversa tra il 1611 e il 1614 [....] rappresenta l’Allegoria della Fede cristiana, come testimonia il libro aperto con il disegno dell’Immacolata Concezione sul quale la nobildonna punta l’indice. Nel monocolo la Vergine è colta nel suo ruolo di dominatrice del male. [...]
[...] Il dipinto impone il riconoscimento della Sibilla, non in una generica allegoria della fede, ma nella Sibilla Persica, associata alla profezia della nascita di Cristo dalla Vergine, sottomettendo la bestia demoniaca per la salvezza del genere umano [...]
La Persica viene per lo più rappresentata col capo coperto con veste damascata e ricami in oro così come appare nel presente dipinto, così come la scelta di rappresentare una sibilla non in vesti antiche o greco-romane o orientali è tipicamente fiamminga [...] Quasi nella posa di un’annunciata sorpresa durante la lettura, appare, diversamente da come ci si potrebbe attendere, per via dell’iscrizione circolare entro cui è racchiusa ancora giovane, con il volto non coperto dal velo o copricapo [...]
Un ritratto in veste sibillina di una donna di condizioni sociali elevate, dotata di virtù morali e intellettuali, di un’illuminazione mentale, assistita dal volere divino e alla qualità per eccellenza della profetessa, di età non avanzata, in opposizione alla vecchia lectio secondo la quale la Persica andava ritenuta la più vecchia delle sibille”. (Arte.it).
CIELO STELLATO E MALINCONIA BAROCCA. COSMOLOGIA, RIVOLUZIONE SCIENTIFICA E ARTISTICA, MA NON ANTROPOLOGICA: QUANDO L’ITALIA E L’EUROPA CADDERO IN UN VICOLO CIECO (1618-1648). Una sollecitazione a ripensare la #storiografia dei primi decenni del #Seicento...
Un omaggio al lavoro di Maura Sgarro ("Colloqui con quattordici artisti del Seicento europeo", Kimerik 2023) e di Aurelio Musi ("Malinconia barocca", Neri Pozza 2023).
MEMORIA E #STORIA: #ELSHEIMER E #RUBENS. "Adam #Elsheimer (Francoforte sul Meno, 16 settembre 1578 - Roma, 11 dicembre 1610): [...] Secondo i biografi, Elsheimer, che lavorava molto lentamente e che lasciò pochissime opere (oggi se ne contano una trentina), morì perciò quasi in povertà. Una famosa lettera, piena di dolore, di #Rubens a Johann Faber che lo informava da Roma della scomparsa dell’amico, è forse il miglior tributo fatto a questo artista. Fu sepolto nella chiesa di San Lorenzo in Lucina a Roma, dove nel 2010 è stata apposta una lapide-cenotafio con profilo in bronzo e l’iscrizione che ricorda tra l’altro: "Nel 1609 dipinse / il cielo stellato / osservandolo / con uno dei primi / telescopi".
ARTE E #SCIENZA: CIGOLI, GALILEO GALILEI, E LA LUNA. [...] Quella fra Galileo e il Cigoli è, semplicemente, l’amicizia di una vita. Ce ne resta la testimonianza attraverso 29 lettere di Cigoli a Galileo e solo due dello scienziato al pittore perché gli eredi dell’artista, con eccessivo zelo, ritennero di dover distruggere tutte le prove di un sodalizio compromettente dopo la condanna papale. [...]
Cigoli si trasferisce da Firenze a Roma nel 1604; Galileo all’epoca è ancora a Padova. Tornerà a Firenze nel 1610. [...]
RAGIONE E FEDE: GALILEO E LA CHIESA CATTOLICO-ROMANA. "[..." class="spip_out">Galileo e Ludovico Cigoli: la Luna e le #macchiesolari fra scienza ed arte Nell’ottobre del 1610 Cigoli riceve da Papa Paolo V l’incarico di affrescare la cupola di Santa Maggiore Maggiore con l’Immacolata Concezione, Apostoli e Santi. La fatica è resa da questo passo nella lettera del 1° luglio 1611: “Nel resto, io attendo a salire 150 scalini a Santa Maria Maggiore et a tirare a fine allegramente, a questi caldi estivi che disfanno altrui; et ivi, senza esalare vento né punto di motivo di aria, tra il caldo e l’umido che contende, me la passerò tutta questa state”. Ma sui ponteggi e sulla cupola di Santa Maria Maggiore succedono cose bellissime. Succede, ad esempio (lettera del 23 marzo 2612), che Cigoli usi un cannocchiale galileiano per osservare le macchie solari: 26 osservazioni, disegnate appositamente per Galileo (fig. 3); [...] Succede poi che nell’ottobre del 1612, dopo oltre due anni di lavoro, l’affresco sia completato, e che l’Immacolata Concezione sia strutturata secondo un’iconografia del tutto nuova: una Madonna in piedi su una luna perfettamente galileiana (fig. 4) , la stessa luna (fig. 1) le cui fasi Galileo aveva dipinto all’acquerello in uno dei suoi studi (fig. 2). La testimonianza commovente di un amico fedele.
Su Cigoli si può contare, e Galileo non esita a chiederne l’aiuto in vista della pubblicazione dell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari, a cura dell’Accademia dei Lincei. Ad occuparsi della pubblicazione è direttamente Federico Cesi, il Principe dell’Accademia; ma per scegliere l’incisore che dovrà occuparsi della parte iconografica dell’opera sia Cesi sia Galileo concordano nel rivolgersi a Cigoli . Fu scelto poi l’incisore lussemburghese Matthias Greüter. [...]" (cfr. "
#Cosmicomiche #calvino100 #rinascimento #astronomia #barocco #8dicembre
LA TRAGEDIA DEL CD. "PATRIARCATO", OVVERO IL "COMPROMESSO DORICO" DELLA RAGIONE OLIMPICA (ELEUSIS2023).
Una nota a margine della "metafisica concreta" dell’Occidente... *
DOTTA IGNORANZA (CUSANO,1440) CONTRO FILOLOGIA (LORENZO VALLA, 1440):#COME NASCONO I BAMBINI...
STORIA #STORIOGRAFIA E #ANTROPOLOGIA. MASSIMO #CACCIARI, a mio parere, sta ancora a difendere, il #compromesso "dorico" della #tragedia tebana di #Giocasta ed #Edipo (e della #caduta biblica): con tutta la stima nei suoi confronti personali, ma la logica della sua metafisica concreta resta tutta dentro l’orizzonte del #paolinismo e della #cosmoteandria atea e devota! (Nicea, 325-2025).
#DANTE2021 #BOVILLUS #COSMICOMICHE (#calvino100)
ANTROPOLOGIA, PSICOANALISI ("INTERPRETAZIONE DEI SOGNI"), E LETTERATURA ("IL CASTELLO DEI DESTINI INCROCIATI").
DUE NOTE A MARGINE DELLA TRADIZIONE ICONOGRAFICA DEL BASTONE FIORITO DI SAN GIUSEPPE E DEL TEMA DELL’ANNUNCIAZIONE NELLA STORIA DELL’ARTE:
A. - LA STORIA DI UN’ANTICA MEMORIA CARMELITANA PROVENIENTE DAL SUSSEX...
"Bastone fiorito di San Giuseppe venerato a Napoli": [....] Sulla collina di San Potito a Napoli la Congregazione di San Giuseppe dei Nudi detiene una collezione di reliquie unica in Italia. Tra queste, la più importante si trova in un una bella teca di legno cedrino: il bastone fiorito appartenuto a san Giuseppe. Secondo la tradizione Giuseppe, come altri pretendenti (ciascuno munito di una verga), aveva chiesto a Dio un segno su chi dovesse sposare la Vergine Maria, e proprio il bastone di Giuseppe germogliò e fiorì miracolosamente. Venerato da quasi tre secoli, il bastone-reliquia è stato rubato in un convento di padri carmelitani del Sussex, in Inghilterra, dove si trovava esposto fin dal XIII secolo. Alla fine la reliquia si è fermata a Napoli nel 1712 come dono al cantante d’opera Giuseppe Grimaldi, detto Nicolino. Quest’ultimo acconciò a casa propria l’esposizione del bastone per la pubblica venerazione a partire dal 1714. Il 17 gennaio 1795, la reliquia fu definitivamente trasferita nella chiesa di San Giuseppe dei Nudi. (cfr. Marzena Wilkanowicz-Devoud, "Dove si trovano le reliquie di san Giuseppe?", Aleteia, 09.06.2021).
B - VITA E POESIA: LA NASCITA DI UN ESSERE UMANO. Un bastone fiorito in generale sembra plausibile, e particolarmente adatta al contesto di un’ Annunciazione? Certamente! A mio parere, tutto il tradizionale storico contesto iconografico sul tema dell’Annunciazione appare chiaramente collegato alla figura di Giuseppe e alla cosiddetta "radice Iesse" (Is., 11:1), all’albero di Jesse, alla "Casa di Davide" ("De Domo David") della tradizione ebraica e, al contempo, al senso stesso del messaggio evangelico ("eu-angelico"), al problema di tutti i problemi, al come nascono gli esseri umani, al "come nascono i bambini: vale a dire, alla lezione di Francesco di Assisi (1223), al presepe e alle sue figure fondamentali, memoria di Adamo ed Eva - e Caino, di Giuseppe e Maria - e Gesù.
#PROFETI, #SIBILLE, #QUESTIONEANTROPOLOGICA (#KANT,1800), E #FILOLOGIA:
ANTONIO #ROSMINI, LA "PRISCA THEOLOGIA", E LA "#CHARITAS".
Rileggere il testo della "BREVE DISSERTAZIONE DI ANTONIO ROSMINI SULLE SIBILLE" (#PatriciaSalomoni, "#RosminiStudies", 6, 2019). Che Rosmini abbia iniziato il suo percorso riflettendo sulle figure delle Sibille, è da considerarsi un fatto degno della massima attenzione - e, ovviamente, di ulteriore approfondimento!
La riflessione su tale tema, probabilmente, lo ha reso più vigile nel suo cammino e nella sua fedeltà alla lettera e allo spirito della "Charitas". Il "Kant italiano", infatti, iniziando il suo percorso con la tesi di laurea sulle Sibille (1822), non solo non ha perso il suo legame con la Grazia (Charis) e con le Grazie (Charites), ma - coerentemente - ha saputo custodire anche l’«h» della #Charitas! E ha cercato di tenere ferma la sua distanza dalla logica economica - sempre più dilagante - della "carità" del "mercato" ("caritas") e, al contempo, dalla politica di sostegno alla diffusione della "eu-carestia" - a tutti i livelli. Ma, alla fine, non è riuscito a coniugare - come voleva, in spirito di verità e carità - - il rapporto tra filosofia (sapienza pagana) e rivelazione (sapienza ebraica).
Già all’inizio del suo percorso, benché partito con buona volontà e - kantianamente ("Sapere aude!") - con gran coraggio, infatti, egli s’inchina all’autorità di sant’Agostino ("De Civitate Dei", XVIII, 47) e - pur rendendosi conto con lo stesso Agostino che "qualsiasi predizione su Cristo poteva essere dichiarata falsa dagli empi e soggiacere al medesimo discredito, sia che si trattasse degli oracoli delle Sibille o delle profezie degli Ebrei" - conclude con un "non è gradito a Lui stesso che, nelle dispute, noi dedichiamo troppe energie più a quelli che a queste" e attribuisce la palma della credibilità solo a "queste .. certissime, luminosissime, custodite dal popolo ebraico a noi assai ostile, e protette da ogni corruzione con incomparabile ed encomiabile cura nel corso di molti secoli" (P. Salomoni, cit, p. 227).
A partire da "queste" premesse (promesse già non mantenute!), ovviamente, accolta solo la parola dei "profeti" non si può che rinarrare e riscrivere la vecchia "storia dell’Amore" di Adamo ed Eva [...] E così, contravvenendo frettolosamente alle regole morali del suo stesso "metodo filosofico", il suo desiderio di lasciarsi guidare "in tutti i suoi passi dall’amore della verità", come dalla carità ("charitas") piena di grazia (charis), resta confinato nell’orizzonte della caduta e della minorità - e la presenza delle Sibille insieme ai Profeti nella Volta della #CappellaSistina è ancora un grosso problema! (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3...).
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"AD THEOLOGIAM PROMOVENDA" (L’Osservatore Romano, 03 novembre 2023). Per promuovere la teologia, nel paragrafo 7, è scritto che Rosmini considerava la #teologia una espressione sublime di “carità intellettuale” ... chiedeva che la ragione critica di tutti i saperi si orientasse all’Idea di #Sapienza e [sapesse stringere] interiormente in un “circolo solido” la Verità e la Carità insieme [...] (https://www.osservatoreromano.va/it/news/2023-11/quo-252/ad-theologiam-promovenda.html ).
FILOSOFIA, FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, POLITICA, E RELIGIONE E STORIA E LETTERATURA:
LA DIAGNOSI HAMLETICA DI SHAKESPEARE E LA DIALETTICA "NAPOLEONICA" DELLO SPIRITO DI HEGEL.
Una nota *
Il tramonto della cristianità
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 18 Settembre 2023)
La crisi della Chiesa è sotto gli occhi di tutti. Naturalmente preoccupa soprattutto i cristiani, ma non riguarda soltanto loro perché essa è l’effetto di una crisi sottostante, quella della civiltà cristiana che è la base delle nostre società. Per questo non riguarda soltanto la fede cristiana, ma la società contemporanea nel suo insieme.
In che modo e con quali conseguenze è l’argomento di un breve e interessante saggio della filosofa politica francese Chantal Delsol dal titolo esplicito, La fine della cristianità e il ritorno del paganesimo (ed. Cantagalli). Il punto di partenza della sua analisi è la constatazione che stiamo assistendo al tramonto della cristianità, la civiltà fondata sul cristianesimo che ha dominato l’Europa e il mondo Occidentale per sedici secoli. Il suo declino è certamente provocato «dal cedimento della base che ne sosteneva l’esistenza: la fede in una verità trascendente, in questo caso quella in un Dio unico venuto nel mondo», tuttavia non comporta necessariamente la fine del cristianesimo. Una religione, infatti, resta viva anche quando raccoglie un piccolo numero di credenti. Quanti e fino a quando, impossibile dirlo e, a questo punto, viene inevitabilmente alla memoria la frase forse più sconcertante pronunciata da Gesù, riportata nel Vangelo di Luca (18,8): «Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?»
La civiltà cristiana, invece, scrive Delsol, come tutte le costruzioni umane è «effimera, soggetta ai tempi e alle mode, ed eminentemente fragile, mortale». È del tutto ragionevole pensare che possa finire. Il suo inizio è convenzionalmente stabilito dagli storici nel 394 d.C., data della battaglia del fiume Frigido e della definitiva sconfitta del paganesimo. Da quel momento ha preso il sopravvento una civiltà nuova «ispirata, ordinata e guidata dalla Chiesa», con un nuovo «modo di vivere» e una nuova concezione del bene e del male. Il suo declino inizia molti secoli dopo, con il movimento culturale dell’Illuminismo e la Rivoluzione Francese che cercò di fare piazza pulita della Chiesa con abbondante uso della ghigliottina contro chierici e fedeli laici. Poi divenne sempre più rapido, fino ad assomigliare a una vera débâcle culturale a partire dagli anni Sessanta del Novecento, quando i movimenti della contestazione giovanile in tutto il mondo occidentale scompaginarono la società cambiando i costumi e affossando le tradizioni, e gettarono le basi del mondo odierno. Chantal Delsol pensa che quegli anni rappresentino il punto di non ritorno della crisi e che oggi all’orizzonte, a vista d’uomo, sia impossibile immaginare una rinascita della cristianità.
Già nel 1969 Joseph Ratzinger, allora giovane teologo e professore universitario, fece questa previsione sul futuro della Chiesa: «Diventerà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi... Poiché il numero dei suoi fedeli diminuirà, perderà anche gran parte dei privilegi sociali, ... non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la sinistra e ora con la destra» e diventerà più spirituale.
Il futuro papa immaginava che un processo lungo e difficile ma positivo l’avrebbe condotta a liberarsi della mondanità, della pomposità e del settarismo permettendole di essere di nuovo, come all’origine, l’assemblea (questo è il significato della parola chiesa) dei ‘piccoli’, termine con cui il linguaggio biblico chiama coloro che non cercano potere, riconoscimenti o ricchezze ma Dio, e a lui si affidano con semplicità e fiducia. Purificata dalla zavorra accumulata lungo i secoli del suo predominio, dopo grandi sommovimenti e una lunga crisi che, a suo parere, era appena cominciata sarebbe rimasta «non la Chiesa del culto politico, che è già morto, ma la Chiesa della fede... Conoscerà una nuova fioritura e apparirà come la casa dell’uomo, dove trovare vita e speranza oltre la morte» (Cfr. La profezia dimenticata di Ratzinger sul futuro della Chiesa, reperibile on line o nel libro Faith and Future, Ignatius Press, 2009). Una Chiesa nuova e antica capace di annunciare sempre lo stesso messaggio di speranza affidatole duemila anni fa. Per quale altro scopo se non per conoscerlo la gente dovrebbe avvicinarsi alla Chiesa, si domanda senza tergiversare il filosofo polacco Kolakowski in un breve saggio incompiuto solo ora tradotto in italiano: «Se non è Dio e Gesù che la gente cerca nella Chiesa, la Chiesa non ha alcun compito specifico da realizzare...è Dio che tutti vorrebbero trovare nel cristianesimo», non un’ideologia o una lobby politica (L. Kolakowski, Gesù. Saggio apologetico e scettico, ed. Le Lettere).
Fine del cristianesimo, dunque, fine della morale e trionfo dell’ateismo? Tutt’altro. Se il XXI secolo vedrà la fine della cristianità, scrive Delsol, non vedrà però la fine della moralità, come paventano alcuni cristiani convinti che i principi morali derivino solo dalla religione. Lo dimostrano le società pagane la cui moralità era determinata dai costumi, dalle leggi e dalle tradizioni. Allo stesso modo la società post-cristiana segue una morale che rispecchia i costumi condivisi dalla maggioranza dei cittadini e confermata dalle leggi dello Stato il quale provvede anche alle sanzioni a sua tutela non più affidate alla Chiesa.
Per quanto riguarda l’ateismo, Delsol è certa che non trionferà perché non ha presa sull’animo umano, portato piuttosto a riempire il vuoto provocato dalla fine del trascendente con altre forme di sacro. Le religioni e le filosofie orientali rispondono perfettamente alle nuove esigenze di spiritualità, perché «non brandiscono alcun Dio, alcun dogma, alcun obbligo» e il loro «sforzo per eliminare la sofferenza è molto simile alle sessioni di sviluppo personale, ed è proprio quello che i nostri contemporanei cercano». Anche l’ecologismo è perfetto per l’uomo di oggi. Egli non riconosce più gerarchie e separazioni tra uomo e natura, e nella ricerca di una sacralità senza divinità rigetta ogni monoteismo avvicinandosi piuttosto all’antico animismo; la sua visione è una sorta di cosmo-teismo «preoccupato più dello spazio che del tempo» perché non immagina niente al di sopra del mondo. La fede ecologista, inoltre, bilancia almeno in parte l’individualismo esasperato reintroducendo il concetto di responsabilità personale verso il futuro del pianeta e di chi lo abiterà. Forse, prospetta prendendo a prestito le riflessioni del filosofo tedesco Odo Marquard, dopo il regno di Dio e dopo quello dell’uomo è giunto il regno della natura.
Dall’analisi della Delsol, dalle parole di Ratzinger, dalle considerazioni di Kolakowski emergono pensieri convergenti, non pessimisti, che indicano una via percorribile per il futuro. La Chiesa può sopravvivere tornando all’essenza della sua missione, alla sua originaria ragione d’essere: l’annuncio e la testimonianza del messaggio di Gesù, semplicemente così come lo raccontano i Vangeli. La speranza di un amore che va oltre la morte, oltre le nostre fragilità, gli errori, le mancanze. La consapevolezza di condividere un destino che dovrebbe farci sentire responsabili gli uni degli altri e tutti del mondo. La perdita del potere politico, del riconoscimento sociale, della ricchezza potrebbe essere un beneficio piuttosto che una catastrofe, argomenta Chantal Delsol. Forse non deve essere la cristianità a lasciarci, ma potrebbero essere i cristiani ad abbandonarla rinunciando alla forza e all’ideologizzazione per tornare ad essere quello che devono essere: testimoni. «Non possiamo inventare un altro modo di essere se non quello dell’egemonia? La missione dev’essere necessariamente sinonimo di conquista?» E conclude: «Probabilmente sarebbe meglio se rimanessimo solamente dei testimoni silenziosi e, in fondo, degli agenti segreti di Dio».
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LA DIAGNOSI HAMLETICA DI SHAKESPEARE E LA DIALETTICA "NAPOLEONICA" DELLO SPIRITO DI HEGEL:
Nonostante Hegel sapesse che "The time is out of joint" (Shakespeare, "Hamlet", I.2), la visione COSMOTEANDRICA di Napoleone a cavallo a Jena (1806) in parte lo accecò e non poté più portarsi fuori dalla DIALETTICA della "strada di Damasco" (e "protestante" e "cattolica"). Con Amleto (e Marx), tuttavia non si può non ripetere: "Ben detto, vecchia talpa!" (I.5).
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, TECNOCRAZIA, E COSMOTEANDRIA: IL"NOVUM ORGANUM" (BACONE). L’ AVANZATA DEL GIGANTE, ormai, con i suoi stivali dalle sette leghe, è diventata inarrestabile: è un "golem-antico" progresso sulla strada aperta dal demiurgico sogno tragico dell’Accademia platonico-socratica, paolina, baconiana-hobbesiana, e schmittiana. "Il parto maschio del tempo ovvero la grande instaurazione del dominio dell’uomo sull’universo" è ormai a "buon" punto.
RINASCIMENTO, OGGI: TEMPO, FILOLOGIA E STORIOGRAFIA *
La Vergine delle Rocce tra i Templi di Agrigento
La Bottega di Leonardo - La Vergine delle rocce: verso Agrigento Capitale della Cultura italiana 2025.
di Mario Barbagallo *
[Foto] Particolare della Vergine delle rocce, versione Cheramy. Il centro del Mediterraneo si trova in una sala di Villa Aurea, non di certo per meriti geografici ma per una questione d’incontri.
Varcate le soglie del sentiero che porta all’ingresso del percorso espositivo, con gli occhi ancora pieni della maestosità delle colonne doriche, con le gambe cariche del piacevole peso della scoperta ma con la vista addolcita dal fluente divenire del paesaggio che si apre a sud verso il mare, si fa l’esperienza dell’incontro.
Una serie di opere provenienti dalla bottega di Leonardo accolgono il visitatore, comprendendo così quali novità l’artista abbia portato da Firenze e quali nuove soluzioni formali stesse sperimentando a Milano. Le opere di Cesare da Sesto, Marco d’Oggiorno, Giampietrino, Martino Piazza da Lodi, Bernardino Lanino, Bernardino de’ Conti mostrano una nuova attenzione al paesaggio, all’intensità dei corpi che si stagliano naturalisticamente sul cielo scuro: dipinti che invadono gli spazi della sala principale nella quale si confrontano, riprodotte in due schermi differenti, la versione della Vergine delle Rocce del Musée du Louvre di Parigi e quella della National Gallery di Londra.
[Foto] La riproduzione su schermo della Vergine delle rocce del Louvre. In un’atmosfera intima, creata da un’attenzione meticolosa nell’allestimento e avvalorata dalla scelta garbata dei direzionamenti dei fasci di luce, i quali accarezzano le morbidezze dei chiaroscuri e degli sfumati senza offenderne le figure, l’anima viaggia nei secoli cogliendo quel balzo temporale che dalla classicità greca arriva alle soglie del Rinascimento.
Percorrendo l’esposizione in senso orario si arriva alla piccola sala che custodisce gelosamente la perla della mostra: dischiudendo leggermente la tenda il Rinascimento viene svelato agli occhi e l’anima non può che cogliere gli elementi che il Divino ha manifestato sulla Terra.
[Foto] Leonardo e bottega (attr.), Vergine delle Rocce, versione Cheramy, olio su tavola trasportato su tela. La Vergine delle Rocce nella versione Cheramy, proveniente da una collezione privata e attribuita, come riportato dal cartiglio, allo stesso Leonardo con l’ausilio di collaboratori, nello specifico Boltraffio, esterna quella chiarissima discendenza dalla versione del Louvre di Parigi. È una di quelle opere che segna per sempre l’anima. L’occhio attento coglie le differenza che l’artista a livello iconografico mette in opera, sinonimo di un dibattito teologico che in quegli anni doveva essere particolarmente acceso. Ma non lascia dubbi all’occhio il resto: è Leonardo che parla.
La Vergine patrocina l’incontro. Maria è colei che sa e che fa da intermediaria per il piccolo Battista in atto di adorazione verso il Bambin Gesù mentre l’Angelo ci invita direttamente ad assistere con reverenza all’episodio con la stessa osservanza del Battista. Maria al centro della composizione con la mano “svolazzante” e tutta di scorcio all’altezza del viso dell’angelo, appena sopra la mano stessa dell’angelo e sul capo del piccolo Gesù in segno di protezione: un’immagine che viene fissata per l’eternità e nella quale Leonardo stesso si fa interprete di un’ iconografia unica che ne segnerà per sempre il proprio genio. Attorno alle figure le aspre rocce addolcite solo dal lento fluire delle acque e dai profumi estasianti delle piante in primo piano.
La scena deriverebbe, seppur con i necessari adattamenti derivanti dal dibattito teologico coevo, dai Vangeli Apocrifi, nello specifico il Protovangelo di Giacomo, conosciuto nella Firenze del Quattrocento in cui nell’episodio della “Fuga in Egitto” la Sacra Famiglia incontra il Battista già proiettato alla vita eremitica.
La roccia si irradia idealmente e, nonostante la propria natura aspra e desertica, si confronta con quella domata e plasmata appena fuori dalle sale, dove le colonne calcaree s’innalzano fino a toccare l’azzurro, slanciate sinuosamente tra la fertile campagna siciliana, dove i profumi dei fiori dei mandorli inebriano l’aria. In quel preciso istante il confronto diviene questione di sensi.
Akragas e la Milano della fine del XV secolo si trovano in contatto per la prima volta, fuori dal tempo ma non per questo in antitesi con la storia, soprattutto se questa è legata all’arte. In questi termini assume un maggior valore la scelta di una location d’eccezione dove il fil rouge è questione squisitamente “geologica”.
È un viaggio a ritroso nel tempo alla scoperta di una delle opere più importanti del Rinascimento, quella che permetterà a Leonardo di studiare quei meccanismi in grado di dare “moto e fiato” alle figure, di esprimere emozioni e stati psicologici che saranno visibili, di lì a poco, nel Cenacolo di Santa Maria delle Grazie.
Un dialogo inedito. Un confronto che parla espressamente di matericità, di ricerche verso una nuova monumentalità, di ambienti sacri che fanno da sfondo e accolgono chi porta dentro di sé la propria missione. In quella visione archetipica che Leonardo elabora nella propria mente, coadiuvato da una committenza attenta al dibattito teologico intorno alla Immacolata Concezione di Maria, si fa l’esperienza concreta della materia e di un silenzioso affaccio verso le braccia aperte della Vergine, dove terreno e ultraterreno s’incontrano verso una nuova ricerca di forme che Leonardo elabora a Milano e che segnerà, per citare Vasari, il raggiungimento della “Maniera Moderna”.
La mostra La Bottega di Leonardo - La Vergine delle rocce, visitabile dal 31 luglio al 31 dicembre 2023, a cura di Vittorio Sgarbi e Nicola Barbatelli è prodotta da Mediatica, Ellison, Samar e patrocinata dal Ministero della Cultura, dalla Regione Siciliana, dal Comune di Agrigento e dal Parco della Valle dei Templi di Agrigento. Una proposta espositiva alla portata di tutti che ben si configura come conoscenza storico artistica che ciascuno di noi dovrebbe inserire nel proprio bagaglio esperienziale e culturale.
[Foto] Veduta di Villa Aurea, Parco Archeologico Valle dei Templi. Un’occasione per staccarsi dalla contemporaneità e vivere l’eterno presente dell’opera d’arte. I templi custodi della memoria dello spirito dell’uomo divengono un tutt’uno con l’opera di Leonardo vivendo una raffinata simbiosi simbolo di manifestazione del Divino.
La presenza di Leonardo in Sicilia è un evento che riporta l’isola al centro del dibattito storico artistico in vista del 2025, quando Agrigento sarà capitale della Cultura Italiana. Un’occasione per respirare la storia, per ricordare a noi stessi che la cultura è dibattito, incontro e confronto.
* Fonte: Tota Pulchra News, 8 Settembre, 2023 (ripresa parziale - senza immagini).
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Nota:
RINASCIMENTO, OGGI. Antropologia, Filologia, Arte e Storia d’#Europa. Sul filo di #Eleusis2023 (e a ricordo della figura di #Demetra), una brillante indicazione (ed ’operazione’) per il Giubileo 2025 (Chiesacattolica, 2025) e per la #memoria di #Nicea2025.
UNA "OPERAZIONE" STRAORDINARIA E UN GRANDE OMAGGIO A #LEONARDODAVINCI E ALLA #CULTURA DELL’#UMANESIMO E DEL #RINASCIMENTO: C’E’ UNA #MEMORIA DA RITROVARE ( "W O ITALY", #Agrigento 1993) E, OLTRE #COSTANTINO (E #NICEA 2025), UNA #FILOLOGIA DA #RICOMINCIARE A STUDIARE (#LORENZOVALLA, 1440), E IL #CAMMINO DI #PROFETI E DI #SIBILLE DA RIPRENDERE... BUON LAVORO E ONORE AD #AGRIGENTO2025
FLS
ANTROPOLOGIA, ARTE, FILOLOGIA, E STORIOGRAFIA.
UNA “SOPRAVVIVENZA” DELLE “DICERIE SACRE” (G. B. MARINO, 1614) IN UN LAVORO IN CRETA DI ANTONO CANOVA (1757-1822). *
RI-LEGGENDO INSIEME LE “DICERIE SACRE” (1614) E IL POEMA “ADONE” (1623) di Giovan Battista Marino E RECUPERANDO (alla luce delle indicazioni date dal “professore con la rosa in mano”) il contesto ideologico del programma umanistico-rinascimentale della “prisca teologia” e della “docta religio”, e, AL CONTEMPO, RIPONENDO ATTENZIONE a un “modello in creta della dea Venere che abbraccia Adone morente”, realizzato da Antonio Canova, forse, non appare ("cum grano salis") ben visibile il filo che lega l’orizzonte storico-culturale di Michelangelo Buonarroti con quello di Giovan Battista Marino, e, infine, gli stessi Carmelitani scalzi di Contursi Terme (Salerno), che affrescano e dedicano (nel 1613) la loro Chiesa della Madonna del Carmine con la figure di 12 Sibille?
Qualche anno più tardi, dopo la morte di ShaKespeare, Cervantes, e Garcilaso El Inca de la Vega nel 1616, prenderà il via la Guerra dei Trentanni e tutti i sogni di una “pace della fede” (Niccolò Cusano, “De pace fidei”, 1453) vanno in fumo.
Storiografia e Sismografia alla Warburg:
FOLLIA
di Lavinia Mainardi (Passioni & Linguaggi, 1 luglio 2023)
Scrive James Hillman in L’anima dei luoghi. Conversazione con Carlo Truppi: «Nell’antica Grecia, luoghi quali crocevia, sorgenti, pozzi, boschi e simili avevano specifiche qualità e specifiche personificazioni: dei, demoni, ninfe, daimones, e se si era inconsapevoli di tutto questo, se si era disattenti alle figure che abitavano un incrocio o un bosco, se si era insensibili ai luoghi, si correva un grande pericolo. Si poteva esserne posseduti». Se come asseriva Servio nullus locus sine genio est proveremo a metterci alla ricerca di un daimon, di una ninfa e di un incrocio a svelarci la tentacolare pregnanza del genius di una di quelle che Michel Foucault definisce eterotopie, ovvero luoghi differenti, chiusi e rigidamente normati, che il filosofo francese ci descrive in maniera particolareggiata nella sua Storia della follia nell’età classica: «Una data può servire come punto di riferimento: 1656, decreto di fondazione dell’Hôpital géneral, a Parigi. A prima vista si tratta solo di una riforma: appena d’una riorganizzazione amministrativa. Diverse organizzazioni già esistenti sono raggruppate sotto un’unica amministrazione: la Salpêtrière, ricostruita sotto il regno precedente per mettere al coperto un arsenale; Bicêtre, che Luigi XIII aveva voluto dare alla commenda di Saint-Louis per farne una casa di riposo destinata agli invalidi dell’esercito [...] Tutto è destinato ai poveri di Parigi [...] si tratta di accogliere, di alloggiare e di nutrire [...] bisogna anche provvedere alla sussistenza, alla buona tenuta, all’ordine generale [...] questo incarico è affidato a direttori nominati a vita [...] L’Hôpital géneral - sottolinea Foucault - non è un’istituzione medica. È piuttosto una struttura semigiuridica [...] e al di fuori dei tribunali, decide, giudica ed esegue».
In quell’epoca foriera di trasformazioni, sospesa come un funambolo fra la sfrenata leggerezza della Belle Époque e la consapevolezza della finis imperii, in quell’atmosfera di imminente ma latente crisi che attenderà il nuovo secolo per esplodere, il direttore della Salpêtrière era il Professor Jean-Martin Charcot cui si deve quella che Georges Didi-Huberman sintetizza ineccepibilmente come “Invenzione dell’isteria”.
Un’invenzione di cui tenteremo di rintracciare le rizomatiche connessioni con gli altri saperi che in quegli anni stavano modificando il paradigma epistemologico della nascente sensibilità “contemporanea”, intrecciando alle certezze misurabili del Positivismo un serpeggiante affacciarsi delle componenti meno razionali del pensiero.
Ma prima torniamo per un momento ai nostri daimones. In La follia che viene dalle ninfe, Roberto Calasso ricorda come «il primo essere cui Apollo parlò sulla terra fu proprio una ninfa, depositaria di quella conoscenza oracolare cui il dio ambisce in un’era in cui il sapere è possessione e la metamorfosi lo “statuto normale della manifestazione”». Scrive Roberto Calasso: «L’immagine moderata della possessione dipende ancora in gran parte, seppure non lo si ammetta, dall’ occultismo ottocentesco. Sono bocche schiumanti o megere glossolaliche o bionde sataniste efferate i primi riferimenti che affiorano, se persino Eric Dodds, in The Greeks and the Irrational si sentì in dovere di dare finalmente cittadinanza alla letteratura parapsicologica accanto ai testi di Platone e degli Orfici». Per i Greci «la possessione fu una forma primaria della conoscenza [...] la mente era un luogo aperto, soggetto ad invasioni, incursioni [...] segnale di una metamorfosi [...] una conoscenza che è un pathos [...] ninfa è la materia mentale che fa agire e che subisce l’incantamento [...] ciò che gli alchimisti chiameranno prima materia».
Intorno al 1890, rammenta Calasso, «a Firenze il giovane Aby Warburg studiava Botticelli, in rapporto a quella che allora si chiamava “sopravvivenza” (Nachleben) e presto arrivò a una conclusione [...] l’antichità riaffiorava non tuttavia nelle winckelmanniane vesti di “nobile semplicità e quieta grandezza”, ma nell’improvviso intensificarsi del gesto». Ma fu una sorta di apparizione quella di una figura femminile arcaicizzante nell’affresco del Ghirlandaio in Santa Maria Novella La nascita di san Giovani Battista a far riemergere la ninfa proiettandola in un orizzonte problematico in cui la «mania è più bella della sōphrosynē »: l’orizzonte delle alienate della Salpêtrière.
Un orizzonte che a questo punto esige di essere meglio compreso alla luce di un prisma di influenze, relazioni, incontri, conoscenze accidentali, uno di quei crocevia insomma evocati da Hillman.
Nell’ottobre del 2018 il Musée d’art et d’histoire du Judaïsme di Parigi ha promosso la mostra Sigmund Freud, du regard à l’écoute , in cui si indagano i referenti meno conosciuti dell’iniziatore della psicanalisi attraverso un apparato iconografico eterogeneo che include quadri, disegni, incisioni, oggetti e dispositivi scientifici, in una sorta di Wunderkammer della patologia neurologica fin de siècle. Una sezione della mostra, nell’intento di far emergere la derivazione del pensiero freudiano anche dalla psichiatria francese, filiazione fin troppo emarginata, si sofferma sui rapporti con Charcot, in occasione di un giovanile viaggio di studio. Scrive Jean Clair in La Salpêtrière, magnétisme, hystérie et hypnose: «Durante l’inverno 1885-1886, Sigmund Freud, giovane medico, ottiene una borsa di studio per seguire a Parigi i corsi di Jean-Martin Charcot. Il celebre neurologo dirige la clinica delle malattie del sistema nervoso presso la Clinica ospedaliera della Salpêtrière, di cui ha inaugurato la cattedra. Le sue lezioni pubbliche, durante le quali pratica l’ipnosi su pazienti isteriche, sono dei rendez-vous mondani in cui si incontrano scienziati, scrittori ed artisti. Freud desidera vedere con i propri occhi queste controverse esperienze, incorniciate dall’aura del “meraviglioso” che si ricollegava precedentemente al magnetismo animale (teoria e pratica terapeutiche sviluppate nel XVIII secolo dal medico tedesco Franz Anton Mesmer, fondate sull’ipotesi dell’esistenza di un “fluido magnetico”), ma dove nessuno sospettava un eccesso di compiacenza da parte delle malate nei confronti dello sguardo dei medici. La teatralità delle sessioni e gli artefatti di questa proteiforme malattia “che sembra ignorarare l’anatomia”, qualificata come nevrosi, impressiona Freud che propone a Charcot di tradurre le sue Maladiès du système nerveux in tedesco. Questo insegnamento è stato immortalato dal quadro di André Brouillet Une leçon clinique à la Salpêtrière del 1887, di cui Freud acquisterà una riproduzione posizionata nel suo studio viennese».
Ma a cosa rapportare questa spettacolarizzazione del patologico, la rappresentazione fotografica della malattia (L’iconographie photographique de la Salpêtrière fornì un repertorio per molta arte visiva coeva, probabilmente anche per certe forzature espressionistiche della pittura di Egon Schiele come dimostra un recente studio di Federica Usai che ancora una volta collega Parigi a Vienna), la teatralità corporea di membra esibite a sguardi apparentemente clinici, quella che Georges Didi-Huberman definì nel suo primo lavoro datato 1982 L’invenzione dell’isteria, scritta due anni prima della scomparsa di Michel Foucault cui il lavoro deve molta della sua ispirazione. Scrive Didi-Huberman: «la Salpêtrière (fu) una grande macchina ottica volta a decifrare gli invisibili lineamenti di un cristallo: la grande macchina territoriale, sperimentale, magica dell’isteria. Il metodo “anatomo-clinico” promosso da Charcot aveva realizzato qualcosa di simile a un compromesso con l’obiettivo, fisiologico ed essenzialista, di studiare le malattie nervose. Sebbene non sia possibile vedere direttamente il funzionamento del cervello, si potranno tuttavia individuare i sintomi, visibili sul corpo, degli effetti provocati dalle alterazioni di tale funzionamento»: l’isteria è prima di tutto uno sguardo, un’immagine, anzi un repertorio di sintomi induttivamente ricondotti ad una tassonomia iconografica.
Se dunque da un lato il teatro dei martedì di Charcot si può ricondurre all’emergere di quella preminenza del visivo da cui verrà permeata tutta la cultura a posteriori, non si può eludere dal contemporaneo emergere, proprio nella seconda metà dell’Ottocento, epoca di dilagante positivismo, di una rivalutazione dei tratti più irrazionali in molteplici discipline, in primis la filologia, tendenza culminata con l’uscita nel 1872 de La Nascita della Tragedia di Friedrich Nietzsche, che portava a compimento un percorso che, forse nato con il ritrovamento nel gennaio del 1506 del gruppo scultoreo del Laocoonte con le sue torsioni e i suoi grovigli, continuato a scorrere fra i ruscelli carsici di certo anti-rinascimento e del manierismo più anti classico, riemerso in certe estetiche eterodosse del Romanticismo tedesco fra i filosofi di Heidelberg, Creuzer e Bachofen, venne amplificato anche dalla riscoperta di categorie retoriche quali quella del Sublime.
Una strada tortuosa che Didi-Huberman sembra voler ripercorrere, voltandosi ora con occhi diversi a guardare all’esperienza della Salpêtrière. In L’immagine insepolta, pubblicato nel 2002, il cui sottotitolo Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte tradisce i sentieri nel frattempo imboccati dallo storico dell’arte francese, viene compiuta una scrupolosa ricognizione del complesso orizzonte di situazione e dei referenti della Weltanschauung del critico tedesco, visione in cui Didi-Huberman rileva una metafora-chiave, quella del sismografo che capta «onde, tensioni, resistenze, sintomi, crisi».
Captatori furono Goethe di fronte al gruppo statuario del Laocoonte, captatori furono Nietzsche e Burckhardt nel riscoprire le radici dionisiache dell’antica civiltà greca, captatore fu Darwin con le sue rivoluzionarie teorie evoluzionistiche e captatore fu anche Charcot con il suo dinamografo che «ausculta il corpo isterico», operando così una sovrapposizione fra i corpi inarcati delle alienate della Salpêtrière e le cosiddette Pathosformeln, su cui è improntata la concezione di sopravvivenze dell’antico di Warburg.
«Le Pathosformeln - scrive Didi-Huberman - andranno comprese come le cristallizzazioni corporee della “dialettica del mostro”. Momenti-sintomi [...] le formule di pathos sono considerate da Warburg secondo il punto di vista dialettico della rimozione [...] e del ritorno del rimosso. L’immagine in movimento [...] non descrive altro che movimenti-sintomi. [...] In base a quale paradigma possiamo comprenderli? Più di qualsiasi altra cosa è la clinica dell’isteria trionfante e spettacolare in questa fine del XIX secolo che sembra dover fornire il modello sintomatologico più pertinente [...] Nel sintomo isterico si fondono le Pathosformeln espressive della crisi e il Nachleben di un trauma latente che fa ritorno nell’intensità dei movimenti prodotti. A quel punto - continua Didi-Huberman - sorge l’astro di Charcot, maestro e caposcuola indiscusso del funzionamento sintomatico, nonché indiscusso direttore del corpo di ballo dello spettacolo isterico alla fine del XIX secolo [...] Come non rimanere colpiti dall’analogia tra le figure dionisiache della Ninfa in Warburg e le figure dell’isteria disegnate da Richter alla Salpêtrière?»
Per un breve momento, dunque, quello che si è cercato di fissare in questa veloce rassegna, il genius loci di un ospedale barocco diretto da un enigmatico e ambizioso professore di neurologia, regista di performances ante litteram, permise ad arte e follia di incontrarsi, un incontro da cui l’estetica non ha più saputo svincolarsi.
L’ONDA LUNGA DEL RINASCIMENTO.
Una nota a margine della mostra al Museo e Real Bosco di Capodimonte sul tema “Gli Spagnoli a Napoli. Il Rinascimento meridionale” *
MEMORIA E STORIA: BASILICA DI SAN DOMENICO MAGGIORE (NAPOLI). NELLA CAPPELLA CON L’ALTARE dove c’è la “Madonna della Neve tra il Battista e S. Matteo”, a destra, c’è il cenotafio di Giambattista Marino (m. 1625), il famoso poeta secentista, con busto in bronzo, di Bartolomeo Viscontini (1682) e, a sinistra, il monumento sepolcrale di Bartolomeo e Girolamo Pepi (1580), illustri giureconsulti “da Contursi”, con una lapide su cui è scritto: “Bartholomaeo Pepi Iurisconsulto, qui claros gessit summa continentiae et æquitatis laude Magistratus, Parenti optvmo Hieronymoque germano fratri et nomini in omnibus vitæ partibus integerrimo. Marcus Antonius Pepi Dominus Contursii, Sancti Angeli Fasanellæ, Optati, Optatelli, et aliorum Benemerentibus. Anno Domini M.D.LXXX»”.
12 SIBILLE CON I CARMELITANI SCALZI NELLA TERRA (DEL PRINCIPE DI EBOLI E) DELLA FAMIGLIA PEPI. A CONTURSI, nell’ attuale Città di CONTURSI TERME (SA), una grande pala d’altare, collocata sull’altare della Chiesa della Madonna del Carmine, con pareti affrescate con le figure di 12 Sibille, fu commissionata e dedicata dal giureconsulto Paolo Pepi, alla memoria dello zio Paolo Antonio Pepi: «AD HONOREM SACRATISS. VIRGI DE MO/TE CARMELO, ET IN MEMORIA CELE/BERRI IUREC: D. PAULI ANTO. PEPI/... PAULUS PEPI IUREC: PRONEPOS/ / F/EC. ANNO DOMINI 1608/IACOBUS DE ANTORA NEAP. PNGB».
Per approfondimenti, mi sia lecito, si cfr.: A CONTURSI TERME (SALERNO), IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE).
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Il Perugino negli affreschi del Collegio del Cambio: il Rinascimento classico e cristiano
Capolavoro del Perugino, gli affreschi della Sala delle Udienze nel Collegio del Cambioa a Perugia sono uno dei vertici del Rinascimento, soprattutto per la commistione di temi classici e cristiani.
di Federico Giannini, Ilaria Baratta *
Girando per la Sala delle Udienze del Nobile Collegio del Cambio di Perugia, si potrà facilmente individuare, sulla parete verso l’entrata, un autoritratto dell’autore degli affreschi, il Perugino (Pietro Vannucci; Città della Pieve, 1450 circa - Fontignano, 1523), e subito sotto la sua effigie, che ce lo restituisce in maniera realistica come un cinquantenne un poco appesantito, si troverà un’iscrizione che recita: “Petrus Perusinus Egregius / Pictor / Perdita si fuerat pingendi / hic rettulit artem / Si nusquam inventa est / hactenus ipse dedit”, e cioè “Pietro Perugino pittore egregio: se l’arte del dipingere era perduta, egli la recuperò, e se mai fino ad allora era stata inventata, egli la creò”. A tutta prima potrebbe apparirci non proprio una dichiarazione di modestia, insomma, anche se non dobbiamo leggerla come un’incensazione di se stesso: l’iscrizione infatti, molto probabilmente, venne dettata dall’umanista che ideò il programma iconografico della sala, Francesco Maturanazio (Perugia, 1443 - 1518), che pescò dalla tradizione classica e umanistica (in particolare da Plinio e da Petrarca) per elevare l’artista allo status di pittore divino, dal momento che nella tradizione classica era prerogativa delle divinità l’insegnamento delle arti ai mortali.
E in effetti già anticamente gli affreschi della Sala delle Udienze del Collegio del Cambio erano ritenuti una delle opere migliori del Perugino, se non il suo capolavoro. Anche un detrattore del Perugino come Giorgio Vasari, nelle sue Vite, esprime un giudizio molto positivo nei confronti di questo ciclo di dipinti, rammentando come molti lo ritenessero il suo lavoro più importante: “Questa opera, che fu bellissima e lodata più che alcun’altra che da Pietro fusse in Perugia lavorata, è oggi dagl’uomini di quella città, per memoria d’un sì lodato artefice della patria loro, tenuta in pregio”. Il Perugino venne chiamato a decorare la Sala delle Udienze nel 1496. L’Arte del Cambio era una delle principali corporazioni professionali della Perugia quattrocentesca: era l’associazione che tutelava gli interessi dei cambiavalute (le banche, diremmo in termini contemporanei) e, assieme all’Arte della Mercanzia, era l’unica che aveva ricevuto il privilegio di poter aprire la propria sede direttamente dentro al Palazzo dei Priori, ovvero l’edificio simbolo delle virtù civiche della città, la sede del potere laico, il luogo che doveva rappresentare tutti i perugini.
I locali del Collegio del Cambio si trovano al pianterreno di Palazzo dei Priori e la Sala delle Udienze era il luogo in cui i membri della corporazione si riunivano, ricevevano, discutevano delle loro attività. Il contratto per l’incarico del Perugino, a lungo sconosciuto, è stato rinvenuto presso l’Archivio di Stato di Perugia e pubblicato nel 2013 sul Burlington Magazine da Alberto Maria Sartore: siglato nel 1496, il documento è stato fondamentale per chiarire la cronologia dei lavori e per avere contezza dei cambiamenti in corso d’opera, dal momento che a un certo punto il programma venne modificato. Non si tratta dell’accordo definitivo, ma di una bozza preliminare redatta in volgare dal notaio del Cambio, Pietro Paolo di ser Bartolomeo e reca la data dell’11 maggio 1496.
A rappresentare il Cambio erano due “uditori”, ovvero due funzionari di livello superiore, Amico Graziani e Mario Monaldi, che riferivano di aver avuto una riunione preliminare con il Perugino per definire i dettagli della decorazione (erano stati loro ad aver proposto al Cambio, nel mese di gennaio, il nome del pittore di Città della Pieve). Il documento comincia descrivendo gli elementi della volta, che doveva essere decorata con le immagini dei sette pianeti accompagnate da “animali” e altri “ornamenti”. Ognuno dei pianeti doveva essere dipinto in oro o argento, mentre gli “ornamenti” dovevano essere in “azzuro de la Magna”, ovvero in azzurrite tedesca. Il contratto descrive poi il programma delle quattro pareti partendo dalle due lunette della parete meridionale, ovvero quella opposta al monumentale “seggio” ligneo destinato a chi presiedeva le riunioni. In queste lunette il Perugino era chiamato a dipingere le quattro virtù cardinali e, sulla parete nord, le immagini di dodici personaggi illustri dell’antichità, senza che però fossero fornite ulteriori specifiche. Quanto alla parete occidentale, le indicazioni erano più precise: una Natività e una Trasfigurazione da eseguirsi a olio su tavola, con decorazioni in oro, in blu oltremare e in diversi altri preziosi pigmenti.
Per terminare il lavoro, il Cambio concedeva al Perugino un anno dalla stipula del contratto: per la precisione, sei mesi per il soffitto e gli affreschi sulle pareti, e altri sei mesi per le parti in olio su tavola. La somma pattuita era di 350 ducati: 50 subito, 50 al completamento degli affreschi, 50 all’inizio delle opere su tavola, e infine 50 per ogni anno fino a raggiungere la somma completa (i pagamenti, con questo sistema, sarebbero andati avanti sino al 1507). Si trattava insomma di un contratto “particolarmente svantaggioso per il pittore”, come ha scritto Sartore. “Non soltanto era obbligato a completare l’intero programma entro l’anno (un lasso di tempo irrealistico, date le dimensioni e la complessità del ciclo, senza calcolare gli altri impegni firmati dal Perugino), ma 200 dei 350 ducati promessi furono pagati in rate annuali fisse di 50 ducati spalmate su quattro anni solo dopo che gli affreschi furono terminati”. Inoltre evidentemente l’artista andò incontro ad alcune penali dal momento che ritardò la consegna del ciclo, e che dalla firma del contratto i pagamenti durarono per quasi dieci anni.
L’Arte del Cambio intendeva avvalersi dei servigi di uno dei più importanti artisti in circolazione all’epoca, all’apice della sua carriera, peraltro in un periodo in cui era appena tornato a Perugia da Firenze ed era oberato d’impegni: nello stesso periodo, per esempio, attendeva alla realizzazione della Madonna della Confraternita della Consolazione, del Polittico di San Pietro, del Gonfalone della Giustizia e di altre opere che punteggiano l’epoca del suo successo. L’artista, dal canto suo, era comunque ben lieto di rimanere in città, tanto che nel 1496 incaricò un suo uomo di fiducia di gestire i suoi affari a Firenze: il Perugino ebbe così modo di organizzare al meglio il lavoro, che poté ovviamente contare su un’ampia collaborazione della bottega.
Esiste peraltro un documento del 1496 che attesta l’affitto di un locale, a pochi passi dal Collegio del Cambio, da parte di un gruppo di artisti formato da Ludovico d’Angelo, Sinibaldo Ibi, Berto di Giovanni, Lattanzio di Giovanni ed Eusebio da San Giorgio: prima della scoperta del contratto per la Sala delle Udienze s’era parlato di una “società del 1496” fondata quasi per competere col Perugino, mentre a partire dal rinvenimento Sartore ha ipotizzato che in realtà non doveva trattarsi di un sodalizio che intendeva far concorrenza al maestro, ma forse era una “squadra di assistenti di cui il maestro necessitava per realizzare un ciclo così ambizioso”. Un ciclo che, come anticipato, subì delle modifiche in corso d’opera: la Natività e la Trasfigurazione, per esempio, furono infine dipinte ad affresco e non su tavola. Il Perugino comunque non cominciò subito a lavorare: trascorse infatti gran parte del 1497 tra Firenze e Fano, per dedicarsi in maniera intensiva alle pitture del Cambio a partire dal 1498. Il lavoro ebbe termine nel 1500, come attesta la data lasciata dall’artista sopra uno dei pilastri.
Come s’è visto, il contratto non approfondiva più di tanto il contenuto del ciclo. In effetti indicazioni più precise sarebbero giunte al pittore da una commissione incaricata di elaborare il tema iconografico: non si sa però se alla stipula del contratto il programma fosse già chiaro, oppure se fosse ancora in fase di discussione.
È comunque noto da tempo che il raffinato programma iconografico si debba a Maturanzio, che immaginò una commistione di temi sacri e temi pagani, ispirandosi al De officis e al De inventione di Cicerone (di cui l’umanista perugino possedeva un incunabolo, oggi conservato alla Biblioteca Augusta di Perugia con numero d’inventario 296, dove si vedono annotazioni dello stesso Maturanzio legate proprio al ciclo del Cambio).
In particolare, è nel De inventione che il grande oratore romano afferma che il diritto è espressione della ragione umana che trova accordo con la ragione naturale (ius naturale), e che la saggezza politica si fonda sull’esercizio delle virtù, definita da Cicerone (al libro II, capitolo 159) come “una disposizione della mente secondo natura e ragione”, formata da quattro parti, che coincidono con le virtù cardinali cristiane: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Altre fonti d’ispirazione per Maturanzio furono altri testi antichi come i Factorum et dictorum memorabilium libri di Valerio Massimo, ma anche opere moderne quali l’Astrolabium di Johann Engel (latinizzato in Johannes Angelus), pubblicato nel 1494, oppure forse la diretta fonte di quest’ultimo, il calendario astrologico di Baccio Baldini, pubblicazione all’epoca piuttosto popolare e stampata in diverse edizioni, che l’artista potrebbe preso a modello per la raffigurazione dei pianeti. Il Perugino comunque non fu un semplice esecutore: possiamo infatti immaginarlo a dialogo con Maturanzio sulla scelta delle soluzioni iconografiche (per esempio, lo studioso Rudolf Hiller von Gaertringen gli attribuisce l’invenzione della combinazione degli eroi con le virtù e le iscrizioni, nata probabilmente dal confronto con l’umanista). L’idea di fondo del ciclo, che doveva fornire una sorta di esempio a chiunque entrasse in questa sala, come ha scritto Pietro Scarpellini, è che in Cristo “si realizzano compiutamente le virtù cardinali, esemplate dagli uomini famosi, in particolare la Giustizia che deve regolare l’attività pubblica nell’Udienza del Cambio”. L’uomo che voglia dunque avvicinarsi all’esempio di Cristo dovrà seguire le virtù degli antichi illustri, e farsi guidare dalle virtù cristiane, che vengono tutte rappresentante negli affreschi della Sala delle Udienze. L’unitarietà simbolica del ciclo si esprime dunque nella solidità e nell’armonia dell’impianto compositivo, che “svela così una concezione unitaria, che si manifesta in forme compatte e coerenti”.
Perugino, Autoritratto (1498-1500; affresco; Perugia, Nobile Collegio del Cambio, Sala dell’Udienza) L’autoritratto con l’iscrizione Perugino, Catone Uticense (1498-1500; affresco; Perugia, Nobile Collegio del Cambio, Sala dell’Udienza)
A presiedere, per così dire, tutto il ciclo è la figura di Catone Uticense, simbolo di libertà (per il fatto che aveva preferito uccidersi piuttosto che accettare di vedere la repubblica sottomettersi a Giulio Cesare: questa è l’immagine dell’Uticense che ci è stata tramandata anche dalla Commedia di Dante Alighieri), figura storica apprezzata anche dal principale sostenitore del ciclo, Amico Graziani, che era peraltro amico di Maturanzio. È lui che introduce il visitatore alla lettura del ciclo, che può cominciare dalle pareti con le scene sacre: si parte dalla Trasfigurazione, l’episodio descritto nei vangeli di Matteo, Marco e Luca durante il quale Gesù, dopo aver condotto con sé i discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte Tabor, cambiò aspetto mostrandosi assieme ai profeti Mosè ed Elia in una luce soprannaturale.
Perugino dipinge Cristo in una mandorla, con uno schema collaudato: è al centro, i due profeti sono a fianco a lui in posizione simmetrica, inginocchiati su due nuvole, mentre il registro inferiore, che occupa una metà esatta della composizione, ospita i tre discepoli che osservano stupiti, con Giovanni che solleva una mano per ripararsi dal bagliore. Attorno alla figura di Cristo le scritte “Hic est filius meus dilectus” e “Domine bonum est nos hic esset”, ovvero “Questo è il figlio mio diletto” e “Signore, per noi è bene essere qui” (è la frase che avrebbe pronunciato Pietro dopo l’apparizione di Gesù tesa a mostrar loro un saggio della bellezza del paradiso, come si legge nel vangelo di Matteo).
La scena della Trasfigurazione allude, secondo l’interpretazione dello studioso Elvio Lunghi, alla Fede, mentre la Carità è rappresentata dalla Natività: i personaggi (la Vergine, Gesù Bambino e san Giuseppe) sono raffigurati sotto un’architettura classica dalle alte colonne, decorate con motivi a grottesca, e anche qui sono disposti simmetricamente, a riprendere l’impostazione della scena omologa che l’artista aveva dipinto nella Cappella Sistina (poi rimossa per far posto al Giudizio universale di Michelangelo).
Il Bambino è al centro, i genitori sono ai suoi lati, inginocchiati, mentre i pastori più indietro sono collocati a formare una piramide, con quello sulla sinistra che è controbilanciato, sul lato opposto, dal bue e dall’asinello. Dietro, la veduta si apre sul paesaggio umbro (intravediamo, in lontananza, l’onnipresente lago Trasimeno che il Perugino inseriva quasi sempre nei suoi scorci paesistici), dove compaiono tre angeli che intonano canti in lode a Cristo appena nato e, in basso sulla sinistra, osserviamo anche un pastore che sta conducendo il suo gregge.
La parete attigua vede una grande lunetta con l’immagine dell’Eterno tra gli angeli sopra un gruppo di profeti e sibille, insieme che simboleggia la Speranza, la terza virtù teologale. La figura del Padreterno appare in un circolo dorato attorniato da tutte le gerarchie angeliche (angeli, cherubini e serafini), e sotto di lui, in un altro paesaggio con le colline dell’Umbria, si vedono i personaggi identificati dai loro cartigli:
da sinistra a destra s’incontrano Isaia, Mosè, Daniele, Davide, Geremia e Salomone per il gruppo dei profeti, e poi le sibille Eritrea, Persica, Cumana, Libica, Tiburtina e Delfica. Tutti questi personaggi annunciano la venuta del figlio di Dio.
Una curiosità: è l’unica delle scene il cui disegno fu riportato su parete con la tecnica dell’incisione e non con quella dello spolvero.
Il Perugino negli affreschi del Collegio del Cambio: il Rinascimento classico e cristiano
Capolavoro del Perugino, gli affreschi della Sala delle Udienze nel Collegio del Cambio a Perugia sono uno dei vertici del Rinascimento, soprattutto per la commistione di temi classici e cristiani.
di Federico Giannini, Ilaria Baratta *
Le altre due scene sono raffigurate sulla parete di fronte. Entrambe seguono lo stesso schema: vi troviamo due delle quattro virtù cardinali assise in cielo, identificate, oltre che dai loro tipici attributi iconografici, dalle tavole sorrette da coppie di putti, e sotto di loro sei eroi dell’antichità. A sinistra, la Prudenza e la Giustizia (con i loro attributi: lo specchio e la spada) sono raffigurate sopra Fabio Massimo, Socrate, Numa Pompilio, Furio Camillo, Pittaco e Traiano, mentre a destra, la Fortezza e la Temperanza (scudo e bastone la prima, le due brocche per “temperare” l’acqua la seconda) compaiono sopra altri sei eroi, ovvero Lucio Siconio, Leonida, Orazio Coclite, Publio Scipione, Pericle e Cincinnato.
La prudenza (prudentia) è per Cicerone “la conoscenza delle cose buone e cattive” e si compone di tre parti: memoria, intelligenza e capacità di previsione, incarnate rispettivamente da Fabio Massimo, Socrate e Numa Pompilio. L’iscrizione suggerisce di non fare cose di cui ci si potrebbe pentire, e di cercare piuttosto la verità. La giustizia (iustitia) viene invece definita nel De inventione come un “abito mentale che tutela il bene comune”, e risulta dallo ius naturae (il diritto naturale, ovvero quello che non discende dall’opinione, ma da un istinto innato che è fondato su religio, pietas, gratia, vindicatio, observantia e veritas: lo ius naturae è impersonato da Furio Camillo), dalla consuetudine, che stabilisce le cose utili (Pittaco), e dalla legge scritta (Traiano). Nell’iscrizione si legge che se al mondo nascessero uomini come i tre che impersonano le tre qualità della giustizia, non ci sarebbero più azioni malvagie. La fortezza (fortitudo) è secondo Cicerone “la capacità di affrontare i pericoli e di sopportare la fatica”. Le sue parti sono magnificentia (magnanimità, generosità), fidentia (sicurezza e fiducia in se stessi) patientia (pazienza) e perseverantia (perseveranza). La magnificentia è rappresentata da Lucio Siconio, la fidentia da Leonida, la patientia e la perseverantia da Orazio Coclite. Nell’iscrizione si può leggere che chi pratica la fortezza non ha niente da temere. Infine, la temperanza (temperantia) è nel De inventione descritta come “il controllo fermo e moderato della ragione sulla lussuria e su altri impulsi impropri”. Si compone di continentia (continenza), clementia (clemenza) e modestia (modestia), valori ai quali corrispondono i personaggi di Scipione l’Africano, di Pericle e di Cincinnato. Nell’iscrizione, la temperanza è identificata come una “dea” che può insegnare il controllo di se stessi.
Secondo il summenzionato Elvio Lunghi, l’idea di interpretare gli affreschi come allusioni alle sette virtù cristiane potrebbe guardare al noto precedente dei dipinti che Sandro Botticelli e Piero del Pollaiolo eseguirono tra il 1469 e il 1470 per il Tribunale della Mercanzia di Firenze, l’istituto che giudicava i reati di carattere commerciale (ci si muove dunque nell’ambito in cui operava anche l’Arte del Cambio di Perugia), oggi tutti conservati agli Uffizi.
E si tratterebbe di un programma pienamente conforme, come ha ben riassunto Stefania Gialdroni nel suo saggio Perugino’s Justice. The Frescoes for the Collegio del Cambio between Legal History, Iconography, and Iconology del 2022, all’ideale di Maturanzio del christianus vir “che deve perseguire virtù sia cardinali che teologali, sulla base del presupposto che il cristianesimo ha mostrato al mondo la vera giustizia e ricostruito la vita umana sui due pilastri fondamentali della pietas e dell’humanitas”.
Secondo Gialdroni, il ciclo trasmette l’idea di giustizia dei banchieri perugini del Quattrocento: non tanto punire i delinquenti, quanto assicurare l’applicazione della legge in modo veloce e sulla base delle consuetudini mercantili e dell’equità. Lo Statuto del Cambio, approvato nel 1377, prevedeva infatti che i giudizi venissero applicati con rapidità, in maniera semplice e senza difficoltà (“summarie, simpliciter et de plano”) e secondo diritto, verità, equità e buone consuetudini (“de iure, veritate et equitate et secundum bonam consuetudinem”).
La figura di Catone era dunque funzionale a invitare i membri del Collegio a “lasciarsi alle spalle le passioni personali per seguire la retta via. Questo”, scrive Gialdroni, “è il messaggio che i mercanti volevano dare, questa è l’immagine del diritto mercantile e della giustizia che volevano proiettare: niente scene violente, niente punizioni, niente riferimenti ai ‘libri della legge’ (cioè allo ius commune), ma piuttosto una sorta di armonia, un invito alla moderazione, o meglio alla ‘temperanza’”.
Si rivolge infine lo sguardo verso l’alto a vedere le raffigurazioni dei sette pianeti, il cui influsso, secondo le credenze del tempo, poteva condizionare le attività umane. Nella raffigurazione dei pianeti, Hiller von Gaertringen, nel suo saggio pubblicato nel catalogo della mostra sul Perugino del cinquecentenario del 2023, ha ipotizzato la possibile presenza del Pinturicchio, che avrebbe collaborato alla realizzazione di queste immagini (e a suo avviso si potrebbe anche ravvisare l’aiuto del giovane Raffaello nel disegno della scena coi profeti e le sibille, che palesano posizioni più variate rispetto a quelle solite del Perugino, e un raggruppamento più denso: nei suoi collaboratori abituali non si riscontrano variazioni così marcate rispetto allo stile del maestro). Ecco dunque il Sole al centro (con il dio Apollo, associato a questo astro), Saturno, Giove e Marte sulla parete di fondo, e Mercurio, la Luna (con la dea Diana) e Venere che invece decorano la parte che sta sopra la finestra. Le divinità che presiedono i pianeti vengono tutte raffigurate su carri trainati da animali, come da una diffusa iconografia. Nelle cornici si dispiega inoltre tutta l’inventiva dell’artista che per gli “altri ornamenti” indicati dal contratto immaginò animali veri e fantastici, mascheroni, motivi vegetali, che tuttavia furono per la più parte eseguiti materialmente dai suoi collaboratori.
Il Perugino aveva terminato il suo lavoro impiegandoci più del tempo previsto, ma riuscì nell’impresa di dipingere uno dei più significativi lavori del Rinascimento, una delle opere che meglio incarnano l’idea umanistica di commistione tra elementi classici ed elementi cristiani, e seppe farlo senza offrire contributi particolarmente originali o novità dirompenti: dalla sua aveva la capacità di dar forma al pensiero più aggiornato del suo tempo con una pittura pacata, serena, elegante (i detrattori direbbero anche “ripetitiva”), tanto nelle figure quanto nel paesaggio, che non sconvolgeva né inquietava la sua clientela ma al contempo si dimostrava in linea con la modernità, grazie alla sua capacità, ha scritto Vittoria Garibaldi, “di trasporre i concetti letterari, umanistici e classici in immagini figurate, armoniche e pacate, fatte di silenzi ritmicamente alternati”.
Per questo un grande studioso come Lionello Venturi definì il Perugino, nel suo volume sugli affreschi del Collegio del Cambio, come “il più tradizionale tra i pittori moderni e il più moderno fra i pittori tradizionali”. Si torna dunque da dove si era partiti: all’autoritratto del pittore. Non è l’immagine di un artista pieno di sé che si autocelebra in un’opera da lui eseguita. Il Perugino, come ha osservato Laura Teza, diventa intanto simbolo del riscatto d’un’intera città, ruolo sostanzialmente inedito per un artista, almeno a Perugia.
Maturanzio, in una sua Oratio in qua laudes et origo Perusiae tractantur, presentava il Perugino “come celeberrimo esempio delle virtù intellettuali e fattive della patria perugina”, scrive Teza, “possibile exemplum per i sopiti ingegni della città, che non vive pienamente la sua grande stagione intellettuale perché inconsapevole del proprio valore”: l’artista diviene così, negli affreschi del Cambio, un “modello di virtù patria, la personificazione di un’arte ritrovata”, e ancora “espressione vivente di quelle virtù di sapienza, di forza, di dominio di sé necessarie all’esercizio del bene pubblico, richiamate all’attenzione di una città distratta”.
Inoltre, l’autoritratto va letto come la testimonianza più evidente dell’apprezzamento che l’Arte del Cambio riservò al ciclo, tanto che gli uditori evidentemente concessero al Perugino, a pitture ultimate, di lasciare la sua effigie, proprio perché erano estremamente soddisfatti di come l’artista aveva portato a termine l’opera. E avevano ragione: poche altre opere di Pietro Vannucci raggiungono i vertici toccati nella Sala delle Udienze. E pochi altri cicli affrescati del tempo riescono a trasmetterci con altrettanta precisione le idee, le conoscenze, le aspettative e le speranze degli uomini del Rinascimento.
* Fonte: Finestre sull’Arte, scritto il 27/05/2023 (ripresa parziale, senza immagini).
ALMANACCO QUOTIDIANO
di Almanacco quotidiano *
Nonostante l’anno di celebrazioni per il settimo centenario dantesco, il nome di Guido Vernani resta ai più sconosciuto. Perfino la sua Rimini sembra esserselo del tutto dimenticato, nel 2021 come del resto da sempre. Eppure Guido Ariminensis, o Vergnani, o Vernano o de Vergnano, fu l’ideologo dei più accaniti avversari del Sommo Poeta. Ma non si trattava di poesia, bensì di politica. E l’idea politica del fiorentino è condensata nel trattato De Monarchia.
La poesia rende immortali, la politica difficilmente ci riesce. Eppure la meravigliosa costruzione poetica di Dante voleva essere innanzi tutto politica e filosofica. Per i contemporanei, almeno i più potenti e istruiti nel latino in cui è scritto, il De Monarchia andava letto con attenzione ancora maggiore della Commedia.
Un’attenzione che per gli avversari politici di Dante si risolse in condanna totale. E fu così che nel 1329 - la data e nemmeno l’episodio hanno il conforto di prove certe, ma sono riferite pochi anni dopo da Bartolo da Sassoferrato e poi da Boccaccio, cui danno credito la maggioranza degli storici odierni - tutte le copie del De Monarchia che si riuscirono a rastrellare furono messe al rogo nella piazza di Bologna. A volere la condanna per heresia, il cardinale Bertrando del Poggetto, nonostante l’Autore, com’è noto, fosse morto già da 8 anni.
Il prelato avrebbe pure tentato di impadronirsi delle ossa di Dante per gettare fra le fiamme anche quelle; non vi riuscì solo per le risolute opposizioni del plenipotenziario di Firenze Pino della Tosa e di Ostasio Da Polenta signore di Ravenna. Oltre duecento dopo, nel 1559, il De Monarchia venne ritenuto ancora così pericoloso da essere inserito dal Sant’Uffizio nel primo Indice dei libri proibiti. Condanna confermata nelle successive edizioni dell’Indice sino alla fine del XIX secolo.
Nel 1329 Bertrand du Poujet, italianizzato in Bertrando del Poggetto, era da 10 anni Legato per la Provincia Romandiolæ (la Romagna più il Bolognese) e la Toscana per conto di papa Giovanni XXII, suo parente e protettore, che stava ad Avignone. Il Cardinal Legato conduceva, anche con le armi, la difficile lotta contro i Ghibellini, che avevano vieppiù rialzato la testa con la calata in Italia dell’imperatore Ludovico il Bavaro. Castruccio Castracani dalla sua Lucca controllava gran parte della Toscana paralizzando le guelfe Firenze e Siena; Visconti di Milano, Scaligeri di Verona e Bonaccolsi di Mantova dilagavano ormai in tutto il nord Italia e minacciavano la stessa Bologna. Qui Bertrando aveva stabilito la sua roccaforte, facendovi anche costruire il sontuoso palazzo-fortezza della Galliera.
Ma la penna ferisce più della spada. Per ribattere efficacemente agli imperiali non bastavano nè guerre nè roghi di manoscritti. Quel Dante che aveva esaltato l’Impero e negato potesse essere sottomesso a un Papa, andava debellato negli stessi campi in cui aveva voluto avventurarsi: giuridico, filosofico, teologico. Tanto più pericoloso in latino, quanto la sua Commedia in volgare lo stava rendendo sempre più popolare. Ed ecco che compare la “De Reprobatione Monarchiae compositae a Dante“. Autore: il frate domenicano Guido Vernano de Arimino.
Luigi Tonini nell’Ottocento rintracciò negli archivi tutte le scarne notizie che lo riguardano. Ipotizza l’orgine del cognome: dalla villa di Vernano, dipendente dalla pieve di Santa Paola di Roncofreddo, castello appartenente al Comune di Rimini sin dal 1197 e alla fine del Duecento a Gianciotto Malatesta. Vernano fa tutt’ora parte della diocesi riminese sebbene sia ricompresa nella provincia di Forlì-Cesena, comune di Sogliano al Rubicone. Nella località, raggiungibile percorrendo la ripidissima via Vernano-Montetiffi che poco a monte di Ponte Rosso lascia il fondovalle dell’Uso e la strada provinciale 88, esiste tuttora una chiesetta risalente al XII secolo dedicata a San Benedetto.
Il primo indizio sul nostro personaggio compare “in Atto del 10 maggio 1293, nel Codice Pandolfesco, fra i possessori adjacenti a certo terreno posto in curia Veruculi v’ha un Guido Vernanus. Se costui non fu un omonimo, potremo dire che il suo ingresso alla Religione fosse posteriore a quell’anno”. In quanto chi prendeva i voti non poteva detenere beni propri quale tal terreno a Verucchio, mentre Guido a un certo punto risulta far parte de’ Predicatori di S. Domenico. I frati mendicanti Domenicani avevano a Rimini il grande convento dedicato a San Cataldo. Una pergamena della Gambalunga datata 31 dicembre 1324 nomina “Fra Guido de Vernano” fra i fedecomissari di una permuta.
Ma la prima prova della sua attività di autorevolissimo predicatore è del 22 settembre 1325. “Quando - dice sempre il Tonini - Guido Rettore della Chiesa di S. Severo di Cesena, Vicario di Giovanni Vescovo di Rimini, pubblicò nella Cattedrale di S. Colomba la Bolla di Papa Giovanni XXII contro Ludovico il Bavaro, e contro Castruccio tiranno di Lucca, Fr. Guido de Vernano Ord. Praedicat. de Arimino vulgarizzavit et vulgariter exposuit dictas litteras Johis. XXII. Così il Garampi trovò notato nell’Archivio segreto Vaticano”. Tocca dunque a lui tradurre dal latino e spiegare al popolo riminese perchè il Papa scomunicava l’Imperatore e il principale capo ghibellino.
Un altro documento è del 7 maggio 1326, quando “in presentia fratris Guidonis Vernani, e di altri Religiosi Domenicani, Girolamo Vescovo di Rimini diede la Bolla per la fondazione del Monastero delle Monache di Santa Catterina fuori Porta S. Andrea”. Ancora, l’8 dicembre del 1329 tale Umizino di Fusolo della contrada di San Cataldo prospicente l’omonimo convento (all’incirca l’attuale via Raffaele Tosi) nel suo testamento lascia un legato di 25 lire a “Fratri Guidoni Vernano pro suis necessitatibus”. L’ultima notizia che lo dà vivente è del 20 gennaio 1344: è “sindaco” di San Cataldo e in quanto tale vende una casa, posta sempre nella contrada omonima, a tale Martino Tommasini per 30 lire di Ravenna.
Fin qui le carte riminesi che parlano del Vernani. Dalle altre risulta lettore nello Studium generale dell’ordine dei frati predicatori in Bologna tra il 1310 e il 1324; nel 1312 consulente per l’inquisitore diocesano presso il convento di San Domenico sempre a Bologna.
Di quanto Guido ha scritto di suo pugno restano tre opere. La prima è un commento alla bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII, quindi un trattato De Potestate summi pontificis del 1327. Sempre in ardente difesa della potestà assoluta del Papa, come si addiceva ai Domenicani allora in fierissima contesa con i Francescani, pure loro frati mendicanti e predicatori, ma schierati con l’Impero. Infine “un libello polemico che riguarda direttamente la fortuna di Dante nel Trecento: il De Reprobatione Monarchiae compositae a Dante, dedicato a Graziolo de’ Bambaglioli”, come annota Pier Giorgio Ricci nell’Enciclopedia Dantesca della Treccani (1970).
Graziolo era un insigne personaggio di Parte Guelfa, primo cancelliere di Bologna e “notaro alle spie” per il Cardinale del Poggetto: il che allora non significava essere il capo dei servizi segreti, ma comandante degli altrettanto preziosi esploratori militari. Scacciato da Bologna il Cardinale nel 1334 appena morto il Papa suo protettore, abbattuto a furor di popolo il forte della Galliera (dove oggi è il parco delle Montagnola), tutti i Bambaglioli furono esiliati e i loro beni confiscati. Quindi non stupisce che Guido dedichi la sua censura anti-dantesca e anti-imperiale a Graziolo, filo-papale quanto lui. Curioso invece che lo stesso Bambaglioli nel 1324, se non prima, sia stato uno dei primissimi a commentare e in termini entusiastici l’Inferno di Dante. Tanto potente fu da subito il fascino di quelle terzine, al di là delle appartenze politiche. Il De Reprobatione si ritiene scritto in contemporanea o subito dopo la condanna cardinalizia, che dovrebbe risalire al 1328.
Appaiono semmai più sconcertanti le considerazioni di storici e filologi italiani moderni sul conto del domenicano riminese. Lo stesso Tonini si rammarica nel constatare che “il nostro Fra Guido con la precisione della dialettica scolastica, sebbene in modo aspro oltre il bisogno, pone a sindacato ciascuna proposizione del Filosofo Poeta”. Addirittura, il già citato Pier Giorgio Ricci nel compilare la voce Vernani, Guido dell’Enciclopedia Dantesca, alla venerabile distanza di sette secoli sente il dovere di confutare lui quel frate medievale, facendo dire all’Alighieri quel che Egli non potè, essendo ormai defunto: “Con linguaggio acerbamente polemico il trattatello si studia di sottolineare i molti errori nei quali sarebbe incorso Dante, tacciato d’ignoranza e di stupidità, bollato come perverso ed eretico”; “Ma D. avrebbe potuto rispondere che il V. gli attribuiva affermazioni che nel testo della Monarchia non esistono, ovvero che male aveva inteso il suo pensiero”; “Ma ancora una volta D. avrebbe potuto rispondere che il V. non aveva inteso bene il suo pensiero”. E come si spiega quell’imbarazzante dedica dell’acerbissimo inquisitore al Bambaglioli, di ferma fede guelfa e tuttavia primigenio e appassionato commentatore dell’Inferno? Non si spiega, ma la solita Enciclopedia Dantesca (Aldo Vallone, 1963) ci tranquillizza: “Un avvenimento che non può lasciare ombre e perplessità sulla devozione del B. per Dante”.
Il che però non rende onore nè alla storia e tantomeno alla grandezza di Dante. Che viene invece colta in pieno in pagine di gran lunga più interessanti, ma scritte fuori dall’Italia. Come quelle di Ernst Hartwig Kantorowicz.
Nato a Poznań nel 1895, ebreo, volontario nella prima guerra mondiale e alla fine del conflitto nei Freikorps dell’ultra-destra in armi contro polacchi e comunisti, autore di una monumentale biografia di Federico II d Svevia, docente all’Università di Francoforte, autosospeso nel 1933 alle prime persecuzioni antisemite di Hitler, emigrato negli USA nel 1939, licenziato dall’università di Berkeley nel 1949 per aver rifiutato di prestare giuramento di anticomunismo, docente a Princeton fino alla morte nel 1963.
Kantorowicz per tutta la vita si interrogò sul potere. Da dove proviene? Nell’agognarlo come nel subirlo, gli uomini come se lo sono spiegato? Perchè riconoscono ad altri un’autorità? Insieme alla biografia dello “stupor mundi” l’altro capolavoro del medievista tedesco è -“I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia poltica medievale” (“The King’s Two Bodies. A Study in Mediaeval Political Theology”, 1957). Tutto il libro tende all’ultimo capitolo: dedicato a Dante. E inevitabilmente al suo antagonista dottrinale più stimolante, Guido Vernani.
Il De Monarchia per essere dato alle stampe in Italia attese la bellezza di quattro secoli. Vigente la condanna dell’Indice, il veneziano Pasquali che stava pubblicando l’opera omnia di Dante osò far gemere i torchi per il trattato anti-papale solo nel 1740 e premunendosi con false indicazioni sul frontespizio: Dantis Aligherii florentini Monarchia, Coloniae Allobrogum, apud Henr. Albert. Gosse & Soc. Il Tonini ci casca e ci informa che, “per essersi pubblicato in Colonia il libro De Monarchia che Dante ebbe scritto a’ tempi di Lodovico Bavaro contro la S. Sede, il P. Tommaso Ricchini Domenicano stimò opportuno la pubblicazione anche di essi”, cioè De Potestate e De Reprobatione di Vernani “i quali per ciò videro la luce per la prima volta in Bologna nel 1746 coi Tipi di S. Tommaso”.
Appena Dante si riaffacciava si rendeva necessario contrattaccare, con il predicatore riminese in testa e sempre partendo da Bologna.
Ma cosa aveva scritto Dante di tanto grave? Nel Purgatorio (XVI, 106) lo condensa così: “Soleva Roma, che l’buon mondo feo/ due soli aver, che l’una e l’altra strada/ facean vedere, e del mondo e di Deo”. E’ la “teoria dei due soli” che ogni liceale conosce e che nel De Monarchia è sviluppata compiutamente. In parole poverissime, papato e impero sono i due soli che illuminano il cammino del genere umano, il primo per condurre al paradiso celeste, il secondo al paradiso terrestre. Le due autorità supreme sono dunque alla pari. Così era nell’impero romano, nel quale Dio scelse di far nascere suo Figlio, fatto uomo quale suddito di Cesare.
Secondo Kantorowicz, “in effetti Dante ebbe una posizione chiave nelle discussioni politiche e intellettuali attorno al 1300 e se superficialmente il suo atteggiamento è stato spesso etichettato come reazionario, è solo la prevalenza dell’idea imperiale nelle sue opere per quanto differente essa fosse da quella dei secoli precedenti ad aver oscurato i caratteri assolutamente non convenzionali delle sue vedute politico-morali”.
Da una parte c’erano i “monisti” teocratici: “il potere del papa deriva da Dio, il potere dell’imperatore da quello del papa”, ovvero il sole è uno solo. Che invece i soli fossero due, che papa e imperatore derivassero entrambi i loro poteri da Dio, erano già in tanti a teorizzarlo fin dall’XII secolo. Con una spiacevole conseguenza per il papa: perchè l’imperatore potessere esercitare il suo potere gli era sufficiente essere eletto, senza bisogno dell’incoronazione pontificia. La pensavano così i “dualisti”. Ma Dante si spinge oltre.
“Due fini, adunque, cui tendere l’ineffabile Provvidenza pose dinanzi all’uomo: vale a dire la beatitudine di questa vita, consistente nell’esplicazione delle proprie facoltà e raffigurata nel paradiso terrestre; e la beatitudine della vita eterna, consistente nel godimento della visione di Dio, cui la virtù propria dell’uomo non può giungere senza il soccorso del lume divino, e adombra nel paradiso terrestre”. (De Monarchia, III, 16.14 sgg e 43 sgg.)
Glossa Kantorowicz: “Dante distingueva tra una perfezione «umana» e una «cristiana», due aspetti profondamente diversi della possibile felicità umana”. Aspetti destinati non a contrapporsi ma a sostenersi. “Gli autonomi diritti della società umana - per quanto dipendente dalla benedizione della Chiesa - erano con tanta forza esaltati che si può veramente dire che Dante ha «bruscamente e completamente mandato in frantumi» la concezione dell’indiscutibile unità tra temporale e spirituale”. “Dante non contrappose humanitas e christianitas, ma separò completamente l’una dall’altra; egli tolse l’«umano» dal campo cristiano e lo isolò come valore autonomo - forse il tributo più originale conseguito da Dante nell’ambito della teologia politica”. In effetti, un terremoto non da poco per un “reazionario”. Semmai qualcosa che anche nei termini odora già di “umanesimo”.
Ma non basta. “La sua humana universitas abbracciava non solo i cristiani o i membri della Chiesa romana, ma era concepita come la comunità universale di tutti gli uomini, cristiani o no. Essere «uomo», e non essere «cristiano», era il criterio per appartenere dalla comunità umana di questo mondo che, per il raggiungimento della pace, giustizia, libertà e concordia universale, doveva essere guidato dall’imperatore-filosofo alla propria autorealizzazione secolare nel paradiso terrestre“. “L’humana civitas di Dante comprendeva tutti gli uomini: gli eroi e i saggi pagani (greci e romani) come il sultano musulmano Saladino e i filosofi musulmani Avicenna e Averroè”
“E Dante, riprendendo un argomento tradizionale, poteva sostenere che il mondo fu nella condizione migliore quando venne guidato dal divo Augusto, che dopo tutto era un imperatore pagano, sotto il cui regno Cristo stesso scelse di farsi uomo e, perciò, cittadino romano“.
Ce n’era abbastanza per chi invece sosteneva che non vi era “nessun legittimo impero fuori dalla Chiesa”. Peggio, nessun imperatore pagano aveva esercitato un potere legittimo. E di qui parte il contrattacco di Guido Vernani: “Fra i pagani non vi fu mai vera res publica nè vero imperatore”, scrive il riminese.
Ancora Kantorowicz: secondo Dante “l’uomo qua uomo non necessitiava dell’assistenza della Chiesa per giungere alla felicità filosofica, alla pace, giustizia, libertà e concordia terrena, che erano alla sua portata grazie all’azione delle quattro virtù intellettuali. Questa idea fondamentale venne ben intesa non solo da contemporanei come Guido Vernani, che appassionatamente vi si oppose, ma anche da quegli esponenti del mondo della cultura che successivamente ripresero, per accoglierle, le posizioni dantesche”.
E qui lo studioso passa brillantemente ad illustrare gli affreschi del Perugino nella Sala dei Cinti Collegio del Cambio di Perugia: magnifico esempio dei postumi frutti danteschi.
Quindi, punto dopo punto, elenca le confutazioni del domenicano. Trovandole assai fondate. Dante si abbevera dal pagano Averroè: “Pur in modo superficiale, il suo avversario Guido Vernani aveva quindi ragione ad etichettare la dottrina filosofica del poeta pessimus error“. “Vernani - giustamente dal punto di vista tradizionale - partiva dall’anima intellectiva, dall’anima intellettuale, presupponendo quindi la tradizionale unità di intelletto e anima”. Anima e intelletto che invece Dante aveva separati.
“Guido Vernani poteva segnare ancora un punto a suo favore concludendo che «il monarca dell’intera razza umana prefigurato da Dante deve di necessità superare in virtù e saggezza l’intera razza umana». Vernani respingeva la tesi di Dante negando possibilità di esistenza ad un essere umano tanto perfetto. Con una riserva, tuttavia; egli affermava infatti che, stando alla stessa teoria dantesca, si poteva di fatto immaginare l’esistenza di un solo essere in cui fosse presente in atto tutta l’umanità: Cristo, l’unico vero monarca del mondo. Le considerazioni di Vernani coglievano nel segno”.
Dunque con quel “trattatello” il domenicano aveva capito benissimo che Dante non era nostalgico del tempo che fu, ma temibilissimo profeta di un futuro da combattere con le forze disponibili.
Ovviamente Kantorowicz sta dalla parte di Dante e lo adora. Proprio per questo riconosce a Vernani il massimo degli onori: quello di essere stato il contemporaneo che meglio ha saputo comprendere il poeta in tutte le sue enormi, sconvolgenti implicazioni. E quindi, in corerenza con le proprie idee, colui che meglio di tutti ha saputo stargli alla pari e controbatterlo.
* Fonte: Chiamamicitta.it, 10 Mag 2023 (ripresa parziale).
FILOLOGIA STORIA E TEOLOGIA-POLITICA: QUALE PROSPETTIVA PER LA CRISTOLOGIA DEL CRISTIANESIMO STORICO?
Quale ricapitolazione, quella antropologica ("ECCE HOMO") o, ancora, quella andrologica ("ECCE VIR")!?
DAI TEMPI DI ENRICO VIII, TOMMASO MORO, E CARLO V, RIPRESA DI UN FILO PER L’INCORONAZIONE DI CARLO III. L’arcivescovo di Westminster pregherà, per la prima volta dopo l’Act of Supremacy del 1534.
"INCORONAZIONE RE CARLO III. SARÀ PRESENTE ANCHE IL CARDINALE NICHOLS:
Il 06 maggio 2023 il Re Carlo III d’Inghilterra sarà incoronato. La cerimonia sarà presieduta da Sua Grazia Justin Welby, Arcivescovo di Canterbury. Come noto, il Re d’Inghilterra è anche il Capo della Chiesa Anglicana. [...]. Al rito di incoronazione prenderanno parte anche S.E.R. il Sig. Cardinale Arcivescovo di Westminster, l’arcivescovo greco-ortodosso di Thyateira e della Gran Bretagna, il moderatore della The Free Churches e il Segretario generale dell’organizzazione ecumenica “Churches Together in England”. Questi, insieme a Justin Welby e a Stephen Cottrell reciteranno anche una preghiera di benedizione.
L’arcivescovo di Westminster, pregherà, per la prima volta dopo l’Act of Supremacy del 3 novembre 1534, sul Re dicendo:
“Dio riversi su di voi le ricchezze della sua grazia, vi custodisca nel suo santo timore, prepararvi a un’eternità felice e vi accolga all’ultimo nella gloria immortale”.
A presiedere la cerimonia, però, sarà Sua Grazia Justin Welby, massima autorità spirituale della Anglicana Ecclesia (...)" ("Silere non possum", 30 aprile 2023 ).
ATTO DI SUPREMAZIA: La legge del Parlamento inglese (1534) con la quale il re Enrico VIII fu proclamato #capo #supremo della #Chiesa d’#Inghilterra, e assunse quindi tutti i poteri giuridici del #papa." (Treccani)
GIORNATA DELLA TERRA (2023), MESSAGGIO EVANGELICO E #CONCILIO DI #NICEA (325-2025): #ANTROPOLOGIA, #TEOLOGIA, E #STORIA. Una nota a margine del documento del Centro Orientamento Pastorale (*)
(*)
GIORNATA DELLA TERRA (2023) E MESSAGGIO EVANGELICO (2025).
Pastorale “generativa”? Certissimamente un paradigma interessante per la missione della Chiesa... Ma ad esso, unitamente allo spirito dei profeti, non manca anche e ancora lo spirito delle profetesse, delle sibille!? Non è bene, forse, ri-andare nella Cappella Sistina, guardare in alto, ri-meditare le indicazioni di Michelangelo, e ri-vedere e ri-pensare il “Tondo Doni”, con la sua cornice? Non è bene, dopo 1700 anni da Nicea 325, arrivare al 2025 rinnovando il paradigma e ri-diventare finalmente “bambini”, semplicemente esseri umani, cristiani adulti? Se non ora, quando? (Federico La Sala)
P. S. #COMENASCONOIBAMBINI E #FILOSOFIA (ENZO PACI, "SCUOLA DI MILANO") : "TONDO DONI". #Attenzione - Nella #cornice, è detto che sono"raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti" (Galleria degli Uffizi), ma, per Michelangelo, non sono due profeti e due sibille?!
STORIA E LETTERATURA, FILOLOGIA, E STORIOGRAFIA:
SISTO IV DELLA ROVERE (1471-1484), IL PAPA DELLA CAPPELLA SISTINA (1475 -1481), LA "CONFRATERNITA DELLA CONCEZIONE" DI MILANO E LEONARDO DA VINCI (1483). APPUNTI INTORNO A "IL SORRISO DI CATERINA" (CARLO VECCE):
A) "Leonardo a Milano, in un luogo segreto: la chiesa di S. Francesco Grande: [...] Nel 1477, in seguito all’istituzione della festa dell’Immacolata Concezione da parte del papa Sisto IV, viene dedicata qui una cappella [...], sotto la tutela della Confraternita della Concezione. E qui avviene la svolta per cui è ancora ricordata la chiesa che non c’è più. Leonardo da Vinci infatti, nel 1483 viene invitato a dipingere per questo luogo la tavola con la Vergine delle Rocce. [...]".
B) "[...] A Milano, dietro Sant’Ambrogio, nei lavori per la nuova sede dell’Università Cattolica, sta ricomparendo la cappella dell’Immacolata Concezione, quella della Vergine delle rocce dipinta da Leonardo: tornano alla luce il muro vicino all’altare, il pavimento della cripta, i frammenti del cielo stellato dipinto sulla volta dagli Zavattari. Confusi tra loro, resti umani di antiche sepolture. Forse anche quelli di Caterina, morta a Milano tra le braccia di suo figlio nel 1494, e sepolta in quello stesso luogo. "(Maria Pirro, «La madre di Leonardo da Vinci? Schiava, esule nel Mediterraneo», Il Mattino, 14.03.2023).
C) "La Vergine delle Rocce. La prima versione della Vergine delle Rocce è un dipinto a olio su tavola trasportato su tela (198x123 cm) [...], databile al 1483-1486 e conservato nel Musée du Louvre di Parigi, mentre la seconda versione è conservata alla National Gallery di Londra(...)".
La madre di Leonardo era schiava e straniera, del Caucaso. Trovato un documento che lo conferma
di Costanzo Gatta (Stile Arte, 14 Marzo 2023)
Un documento trovato nell’archivio di Stato di Firenze da parte del professor Carlo Vecce dell’Università di Napoli conferma le origini straniere di Caterina, la madre di Leonardo. La donna era una circassa, di origini Caucasiche, che fu portata a Firenze da un uomo di nome Donato. Il suo lungo viaggio, prima di arrivare alla capitale fiorentina, la portò, in stato di schiavitù, prima sul mare di Azov, in Russia, poi a Bisanzio, quindi a Venezia. Successivamente, Caterina fu acquistata dalla famiglia Da Vinci.
Il documento ritrovato riguarda un atto di affrancamento dalla servitù, emesso da Piero da Vinci, padre di Leonardo e compagno transitorio della donna. La rinunzia a Caterina come a un “oggetto di proprietà” avvenne sei mesi dopo la nascita del grande artista. Il ritrovamento conferma ciò che già indicavano le indagini sulle impronti digitali di Leonardo stesso, condotte nel passato. riproponiamo ora un’importante intervista.
di Costanzo Gatta
All’Università di Chieti, dopo anni di ricerche su oltre 200 impronte lasciate su 52 fogli leonardeschi è stata ricostruita, con sofisticate tecniche dattiloscopiche, l’impronta di un polpastrello del genio di Vinci, forse l’indice della mano sinistra. Il dermatoglifo rivela caratteristiche arabe, la struttura risulta tipica in due terzi della popolazione, per l’esattezza il 65%.
Stile aveva pubblicato in proposito due ampi servizi nel dicembre 2004, quando le ricerche erano agli inizi. “La trama dei polpastrelli - scrivevamo allora - avrebbe una tipologia orientale; ciò potrebbe confermare che la madre del pittore fosse una schiava venuta da lontano”.
Sangue mediorientale nelle vene di Caterina, madre di Leonardo? Da un pezzo lo si diceva, senza dar eccessivo credito alla storia. Ora c’è un motivo in più per tornare a parlare delle origini orientali di quella donna: non una contadinotta della campagna toscana ma una giovane levantina che avrebbe avuto una relazione con ser Pietro, il padre del futuro genio da Vinci.
Già molti anni fa si diceva che la mamma fosse una delle tante schiave che nel ’400 erano state portate a lavorare in Toscana: una poveraccia senza alcun diritto, senza un patronimico, forse appena convertita. Una serva chiamata come mille altre: Catharina. Uno studioso toscano aveva frugato negli archivi per cercare contratti d’acquisto di schiavi. Voleva raccapezzarsi in questo mistero. Aveva ripercorso i vari flussi migratori ipotizzando che la donna fosse ebrea, circassa, araba. A quei tempi i risultati furono negativi.
E così, ai tanti misteri della vita di Leonardo, si aggiunse anche questo della madre, la povera Caterina, con la quale il donnaiolo ser Pietro faceva bellamente all’amore, nonostante stesse per portare all’altare Albiera, figlia dell’Amadori, notaio.
La storia - prima della scoperta del 2023 - dice poco. Si sa solo che quando la serva fu mandata - secondo il costume dei paesi sulle colline toscane - a sgravarsi nel casale che ancora oggi esiste, era l’aprile del 1452. Una camera dal soffitto basso con pagliericcio, attaccata alla cucina col camino, poche nicchie nel muro per riporvi ramaiole, caldaie e il pennato: qui la giovane Catharina attese, assieme alla levatrice, che si rompessero le acque. Non era misteriosa la relazione del giovane ser Pietro, uno dei tanti borghesi di Vinci, la cui casata sfornava rampolli notabili che alternativamente venivano avviati alla carriera legale o alla vita ecclesiastica.
Per i casi della vita la nascita del genio venne messa - nero su bianco - da Antonio, il nonno. “Nachue (nacque) un mio nipote, figliuolo di ser Piero mio figliuolo, a dì 15 d’aprile (1452) in sabato a ore 3 di notte. Ebbe nome Lionardo...”. Il resto si può immaginare: quattro soldi di dote per mandar via Caterina contenta e poi il battesimo, senza nemmeno la mamma. Lo sappiamo ancora dal nonno, che ebbe a registrare con precisione i presenti attorno a quel fonte di pietra, tuttora intatto. “Battizzollo Piero di Bartolomeo da Vinci, in presenza di Papino di Nanni, Meo di Torino, Pier di Malvolto, Monna Lisa di Domenico di Brettone”. Insomma c’erano tutti: prete, testimoni e intimi. Mancava Caterina, che ritroveremo poi sposata a tale Antonio del Vacha, detto Accattabriga, soprannome che non prometteva nulla di buono. In gioventù doveva essere stato un soldataccio di ventura.
Nelle note del catasto di Vinci per l’anno 1457 si trova che nonno Antonio, di 85 anni, abitava nel popolo di Santa Croce, era marito di Lucia, di anni 64, e aveva per figli Francesco e Piero, d’anni 30, sposato ad Albiera, ventunenne. Convivente con loro era “Lionardo figliuolo di detto ser Piero non legiptimo nato di lui e della Chatarina, al presente donna d’Achattabriga di Piero del Vacca da Vinci, d’anni 5”. Albiera non poteva avere figli e Piero aveva accolto in casa l’illegittimo. Intanto Caterina lavorava con il marito un piccolo appezzamento di proprietà e i campi delle suore del convento di San Pier Martire. Nonno Antonio morì novantaseienne, nel 1468, e negli atti catastali di Vinci Leonardo, che ha diciassette anni, risulta suo erede insieme con nonna Lucia, il padre Piero, la matrigna e gli zii Francesco e Alessandra. L’anno dopo, la famiglia del padre, divenuto notaio della Signoria fiorentina, e quella del fratello Francesco, che era iscritto nell’Arte della seta, erano in una casa di Firenze, abbattuta già nel Cinquecento, nell’attuale via dei Gondi.
Madonna Litta Dell’Accattabriga si hanno invece notizie da un verbale di citazione durante un processo alla Curia vescovile di Pistoia. La data è il 26 settembre 1470, dopo i disordini verificatisi all’inizio del mese nella pieve di Santa Maria di Massa Piscatoria, nella palude di Fucecchio. Alcune persone, armate di lancia, capeggiate da due preti (uno della diocesi di Lucca, l’altro sotto la potestà del vescovo di Firenze) avevano disturbato la celebrazione durante la festa in onore della Madonna e interrotto la Messa. Antonio fu chiamato a testimoniare ma non si presentò.
Di Caterina si sa che fu donna prolifica, e da Accattabriga ebbe sicuramente almeno quattro femmine e un maschio. Rimasta sempre lontana da Leonardo, si ricongiungerà al figlio - pare certo - nel 1493 a Milano. E in una casa di Porta Vercellina, nel territorio della parrocchia dei Santi Nabore e Felice, morirà il 26 giugno 1494, dopo lunga malattia. Per le cure prima e poi per i funerali, Leonardo annotò le spese (eccessive per una servente, non certo per una madre): “Quattro chierici, cinque sotterratori, un medico, le candele...”. Oggi Caterina ritorna in scena. A parlarci di lei sono le impronte digitali del figlio, quei polpastrelli che hanno creato uno sfumato magico, inimitabile. Evocano la donna, quelle ditate rimaste fra il cielo e il fogliame che fa da sfondo al ritratto di Ginevra Benci o su un disegno della Battaglia di Anghiari, fra i capelli di Cecilia Gallerani o sulle pagine dei Codici voltate con mani sporche.
Gli studi sulle impronte di Leonardo sono stati illustrati da Luigi Capasso, direttore dell’Istituto di antropologia e del Museo di storia delle scienze biomediche dell’Università di Chieti e Pescara, e da Alessandro Vezzosi, direttore del Museo Ideale di Vinci.
STORIA E LETTERATURA, FILOLOGIA, E STORIOGRAFIA:
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E INFERNO EPISTEMOLOGICO.
LEONARDO, IL RINASCIMENTO E IL CODICE DA VINCI. Una nota del 30 marzo 2005:
"[...] Perché del “ Codice da Vinci”, di un’opera “tra realtà e fiction”, non tentiamo finalmente di spiegare le ragioni profonde del successo invece di ripetere quanto molti (in modo molto conformistico vanno ripetendo da tempo) hanno già detto? Perché il “ Codice da Vinci” è considerato allo stesso modo dell’opera di Salman Rushdie, Versetti Satanici? E perché in Libano è stata pronunciata una fatwa contro l’autore, Dan Brown?
La ragione principale, a mio parere, sta nel filo della storia d’amore che è sotteso a tutto il racconto e nei problemi che ad esso sono collegati. Una citazione (tanto) per cominciare:
Questo è il problema dei problemi - un tema, se si riflette bene, molto prossimo a quello affrontato nel Cantico dei Cantici. Leggere per credere - e credere per leggere! E allora cerchiamo di essere onesti con noi stessi (prima, leggiamo l’opera) e (poi, facciamo i ‘conti’) con lo stesso autoree il suo lavoro: vediamo quali sono i temi e il tema centrale del romanzo-thriller... e così forse possiamo capire un po’ di più le ragioni del suo planetario successo e un po’ di più anche il senso della cronaca (cfr. Anais Ginori, “Le donne imam cambieranno l’islam”. Una giornalista dietro lo “scisma” Usa: La Repubblica, 27.03.2005, p. 15) del nostro stesso tempo!!!
Non accodiamoci alle varie gerarchie: “Sàpere aude!” - cerchiamo di avere il coraggio di usare la nostra personale intelligenza e di co-noscere e di co-nascere.... finalmente, al di là delle fantasie e delle cecità teo-biologistiche e teo-razziste di una dis-umanità, zoppicante e moribonda." (Il "Codice da Vinci", come i “Versetti Satanici”. Due opere da leggere, che danno (tanto) da pensare!, "il dialogo, 30 marzo 2005).
#Earthrise #Metaphysics #Anthropology #Theology #Cosmology #Eleusis2023 #Roma2024
EUROPA, FILOSOFIA, ED ELEUSIS 2023:
METAPHYSICS ANTHROPOLOGY PSYCHOANALYS: APRIRE GLI OCCHI SUL SOCRATICO AMORE "CONVIVIALE" (EROS = CUPIDO), SUL DESIDERIO CIECO E VIOLENTO, E PORTARSI CON FREUD, FUORI DAL DISAGIO NELLA CIVILTA’, OLTRE LO STADIO DELLO SPECCHIO DEL TRAGICO PLATONISMO E PAOLINISMO ...
"SAPERE AUDE!". RICORDANDO, CON IL VENOSINO ORAZIO, LE INDICAZIONI DI KANT sul "coraggio di servirsi della propria intelligenza" e sulla necessità di reinterrogarsi sull’intero sapere, ripartendo dalla antropologia, dalla questione antropologica, forse, è il tempo opportuno uscire dal profondissimo letargo (Dante contava XXV secoli di sonno dogmatico) e re-interrogarsi non solo su "come nascono i sogni" e su "come nascono le idee", ma anche, e innanzitutto, come nascono i bambini, e soprattutto non continuare a ripetere vecchi e tragici ritornelli sull’amore di Platone: è una questione di filologia e di teologia-politica (Lorenzo Valla, "La falsa Donazione di Costantino", 1440).
"IL CREPUSCOLO DEGLI IDOLI" (NIETZSCHE). LA ’RISPOSTA’ DI DIOTIMA A SOCRATE: "Caro Socrate, tu sei come Eros - figlio di Ingegno (a sua voìta figlio di Metis. I’intelligenza astuta) e di Povertà - un perfetto #filosofo, perché non sei sapiente come gli dèi né del tutto ignorante come i comuni mortali: sei solo consapevole della tua ignoranza, ma tu sei cieco, cieco e brutto come un ... ciclope. Tu sai che non sai amare e vai in cerca di chi sa amare. Ma tu, caro Socrate. non capisci proprio nulla, né degli uornini, né delle donne. e neppure degli dei: tu sei solo cupìdo (un cieco saettante, avido e vioÌento). Come la rìsposta della Pizia, così la risposta di Diotima: eglì non capisce e va avanti ... a costringere chi ’solo il dio sa’ deve partorire. [...]" (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Roma 1991, p. 184).
CADUTA NELLA CAVERNA PLATONICA E COSMOTEANDRIA. Se non ci si sveglia e si continua a contrabbandare l’andrologia tragica di Socrate e Platone per antropologia e, dall’alto della "dotta ignoranza" (Niccolò Cusano,1440) dell’anatomia e della medicina, si spaccia #Vir per #Homo, dove si pensa di andare, se non all’inferno?!
ANATOMIA, ANTROPOLOGIA, E STORIOGRAFIA. Se si vuole ricominciare umana-mente e riprendere il cammino della rivoluzione copernicana e scientifica, bisogna ripartire quantomeno dalla sapienza di Michelangelo (riprendere il cammIno dei profeti e delle sibille del #TondoDoni, rilanciato alla grande nella narrazione della Volta della Cappella Sistina) e, poi, proseguire seguendo le lezioni di anatomia e di medicina di Realdo Colombo e, infine, leggendo il capitolo 15 del Libro III dell’ Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato “De Testicoli della Donna” (p. 91).
MEMORIA E STORIA DI LUNGA DURATA. APPUNTI SU PROBLEMI DI PATRIMONIO CULTURALE, ARTE, E ANTROPOLOGIA
A) SPAGNA: A 700 ANNI DALLA MORTE DI D. GONZALO RUIZ DI TOLEDO, "SEÑOR DE ORGAZ (1323-2023)", UNA BUONA OCCASIONE PER RI-ANALIZZARE L’OPERA DI "EL GRECO" ("LA SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ", TOLEDO 1586 -1588) ... E PER RIMEDITARE LO STRAORDINARIO IMPEGNO RIFORMATORE (CARICO DI TEORIA E DI FUTURO) DI TERESA D’AVILA (1515-1582).
B) TERESADAVILA (Avila 1515 - Alba de Tormes 1582): "[...] Teresa (Teresa Sánchez de Cepeda Ávila y Ahumada) nasce in una famiglia ricca; il padre era figlio di un ebreo convertito - dunque tTeresa fu di origini ebree. La madre trasmette alla figlia l’amore per i romanzi cavallereschi, ma muore quando Teresa ha solo 13 anni.
Diventa una donna determinata, affascinante e trascinatrice, estrema nelle sue scelte e insieme capace di amministrare i monasteri e di trattare con diplomazia coi grandi dell’epoca. Da ragazza convince il fratello a fuggire per andare a combattere contro gli infedeli. Sempre col fratello scrive un romanzo cavalleresco; manifesta, insomma, subito due grandi amori della sua vita: la fede e la scrittura.
È l’epoca della grande crisi della Chiesa, che all’apice della propria magnificenza è percorsa da profonde inquietudini, divisa dalla predicazione di #Lutero e Juan de Valdés, una ferita profonda e interna. Teresa ha trent’anni all’epoca del Concilio di Trento (1545-1563), tappa di quella “rifondazione” della chiesa cattolica, che si impegna tanto nella guida delle anime, con la fondazione di nuovi ordini religiosi e la promozione di una rinnovata austerità e spiritualità, quanto nel controllo delle stesse, imponendo nuove e più severe regole monastiche e potenziando i tribunali dell’#Inquisizione. In in Spagna in particolare, dopo il culmine della potenza raggiunto sotto il regno di Carlo V (1500-1558), suo figlio Filippo II (1527-1598) si fa paladino della ortodossia cattolica. [...]" (Cfr. Maria Rosa Panté, "Teresa d’Avila", Enciclopedia delle donne)
C) CARMELITANI SCALZI: L’ULTIMA LEZIONE DI TERESA D’AVILA. A CONTURSI TERME, IN PROVINCIA DI SALERNO, NELLA TERRA DEL "PRINCIPE DI EBOLI" (Rui Gomes da Silva), L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE (IN STATO DI PROGRESSIVO DEGRADO).
D) QUESTIONE ANTROPOLOGICA E PSICOANALISI: LA STORIA NON LA FANNO SOLO I PROFETI, MA ANCHE LE SIBILLE. Ricordando che l’interpretazione del messaggio evangelico di Teresa d’Avila è connessa alle "Meditazioni sul Cantico dei cantici" (e non all’androcentrismo della lettura paolina), ed è molto prossima a quella di Michelangelo Buonarroti e al suo "Tondo Doni" (e al suo Mosè), sollecita anche a riproblematizzare (Julia Kristeva, "Teresa, mon amour", 2009) il rapporto tra Freud e Lacan ("Encore", 1972-1973) ) e, infine, a portarsi oltre la logica del "superuomo" del cattolicesimo costantiniano!
ARTE STORIA E STORIOGRAFIA:
NELL’EUROPA DEL XVI SECOLO, DOPO LA RIFORMA PROTESTANTE (1517), IL CONCILIO DI TRENTO (1545-1563) E LA BATTAGLIA DI LEPANTO (1571), UNA ALLEANZA "CATTOLICISSIMA" TRA ALTARE E TRONO:
a) FILIPPO II, ALLA VIGILIA DELL’ATTACCO ALL’INGHILTERRA, VIENE "IMMORTALATO" NELLA CERIMONIA FUNEBRE DELLA ARTISTICA CELEBRAZIONE DELLA "SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ" DA EL GRECO (TOLEDO 1586-1588).
b) QUADRO INGLESE DELLA CELEBRAZIONE DELLA DISFATTA DELLA FLOTTA SPAGNOLA NEL1588. "Il cosiddetto Ritratto dell’Armada, dipinto dopo il 1588 per commemorare la disfatta dell’Invincibile Armata. Elisabetta tiene la mano sul globo, simbolo di autorità, mentre sullo sfondo è raffigurato l’evento."
EUROPA 2023: ARTE, STORIA, ANTROPOLOGIA.
A 700 ANNI DALLA MORTE DI D. GONZALO RUIZ DI TOLEDO, "SEÑOR DE ORGAZ (1323-2023)", UNA BUONA OCCASIONE PER RI-ANALIZZARE E RI-PENSARE L’OPERA DI "EL GRECO": "LA SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ" (1586-1588)... E ANCHE IL NASCERE (IN TERRA) E IL RINASCERE (IN TERRA E IN CIELO) - OGGI
NELLA SPAGNA DI FILIPPO II, IN UNA EUROPA, SEGNATA GIA’ DALLA RIFORMA PROTESTANTE (WITTENBERG, 1517), DALLA RIVOLUZIONE DEI "CORPI TERRESTRI" IN ANATOMIA (Realdo Colombo, amico di Michelangelo Buonarroti e professore alla Sapienza, 1448; Andrea Vesalio, medico di Carlo V prima e di Filippo II poi, 1553; e Juan Valverde de Hamusco, medico del cardinale Giovanni di Toledo, 1556/1560) E DEI "CORPI CELESTI" IN ASTRONOMIA (Niccolò Copernico, "De revolutionibus orbium coelestium,1543), E, DOPO I LAVORI DEL CONCILIO DI TRENTO (1545-1563), E DOPO GLI ANNI DELLO STRAORDINARIO IMPEGNO RIFORMATORE DI #TERESADAVILA (1515-1582), A TOLEDO, NEGLI ANNI 1586-1588, L’ARTISTA DOMENICO THEOTOKOPULOS, DETTO "EL GRECO", PORTA A COMPIMENTO IL SUO CAPOLAVORO.
#QUESTIONEANTROPOLOGICA (#FILOLOGIA E #CRISTOLOGIA ): SHAKESPEARE E NIETZSCHE.
La grande eroica ricerca di #Nietzsche è stata quella di rispondere alla domanda già di #Shakespeare , alla #question di Amleto, e portare il discorso oltre #Wittenberg (la #RiformaProtestante ), e chiarirsi e chiarire le idee relative all’ #essere degli esseri umani, figli e figlie del "#Re dei Re", di "Dio", e di andare oltre la tragica #logica del "sapere di non sapere" platonica, del #mentitore, e dell’ #adulterio e dell’#incesto ("Così parlò #Zarathustra ", parte IV). Egli, a mio parere, ha aperto la strada e dato indicazioni per sciogliere il nodo e non nella direzione del #supeuomo cosmoteandrico (cfr. Federico La Sala , "La #menteaccogliente. Tracce per una #svolta_antropologica ", Roma 1991).
#ANTROPOLOGIA O #ANDROLOGIA? #Gesù, chi era? Quello del "parto maschio del tempo" di san #Paolo e #Costantino (e #Bacone ), o quello del tempo di san #Francesco ("Cantico delle #Creature " o "Cantico di Frate #Sole ") e #DanteAlighieri ("l’amor che muove il sole e le altre stelle") e di ogni #essereumano nato di donna e di uomo nel pianeta Terra?
ANTROPOLOGIA, CONOSCENZA, E RINASCITA (OMAGGIO AD ELEUSI, CAPITALE EUROPEA DELLA CULTURA 2023).
IL FILO DI M-ARIANNA...
“Come un uomo potrebbe sapere che cosa sia una donna? La vita della donna è totalmente differente da quella degli uomini. Dio ha fatto così. L’uomo è sempre lo stesso sin dalla sua circoncisione fino alla sua vecchiaia. Egli è il medesimo prima del suo primo incontro con una donna e dopo. Il giorno in cui una donna conosce per la prima volta l’amore, spezza la sua vita in due. Quel giorno, essa diventa un’altra. L’uomo, dopo il suo primo amore, rimane quello che era prima. La donna, dopo il giorno del suo primo amore, è un’altra. E così rimane per tutta la vita. L’uomo passa la notte insieme con una donna e passa via. La sua vita e il suo corpo restano sempre gli stessi. La donna concepisce. Quale madre, essa è un’altra che la donna senza figli. Essa, innanzi tutto, porta per nove mesi nel proprio corpo le conseguenze di quella notte. Nella sua vita cresce qualcosa che non ne scomparirà più. Essa, infatti, è madre. Essa è e rimane madre anche se suo figlio, anche se tutti i suoi figli muoiono. Perché essa ha portato il bambino sotto il cuore. Dopo però, quando il bambino è già nato, lo porta entro il cuore. E dal cuore egli non uscirà più. Nemmeno quando sarà morto. Tutto questo l’uomo non lo conosce; egli non ne sa niente.
“Egli ignora la differenza che passa fra il tempo prima dell’amore e quello dopo l’amore, fra quello prima della maternità e quello dopo la maternità. Egli non può sapere niente. Soltanto una donna può sapere questo e parlare di questo. È perciò che noi non permettiamo nemmeno che i nostri mariti intervengano con le loro parole nelle nostre faccende. La donna può fare una sola cosa. Essa può stare attenta a sé. Essa può comportarsi decentemente. Essa deve essere sempre come è la sua natura. Essa deve sempre essere fanciulla o essere madre. Prima di ogni amore essa è fanciulla, dopo ogni amore essa è madre. Da questo puoi vedere se essa è una buona donna".
"Queste parole di una nobile donna abissina, riportate dal Frobenius in uno dei suoi più bei libri, Der Kopf als Schicksal , siano messe qui a titolo di motto, per preparare e confermare ciò che verrà esposto nello studio su Kore. Esse siano qui anche in ricordo di quel grande uomo, la cui opera di vita stimola lo studioso delle civiltà e delle mitologie a proseguirla e lo spinge a prendere posizione di fonte ad essa”.
* Cfr. CARL GUSTAV JUNG, KÁROLY KERÉNYI, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Bollati Boringhieri.
Maria “faccendiera del Paradiso” per una Chiesa sinodale
Un commento dei teologi Scarafoni e Rizzo
di PAOLO SCARAFONI E FILOMENA RIZZO (La Stampa, 06 Dicembre 2022)
Nel giorno dell’Immacolata prendiamo spunto dal bel contributo del compianto padre Stefano De Fiores, «L’immagine di Maria dal Concilio di Trento al Vaticano II (1563-1965)», dove si racconta Maria nelle pieghe della storia. La scoperta dell’America aveva spinto gli sguardi sulle terre emerse oltre i confini convenzionali. Durante il periodo barocco, a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, grazie a Galileo l’universo diventa più grande. Gli orizzonti si dilatano. Tutto acquisisce termini superlativi, anche nell’arte e nella spiritualità. Nel mondo cattolico Maria è qualificata con aggettivi che le attribuiscono una esaltazione spettacolare: trionfo, regalità, eminenza, e soprattutto privilegio. Sembra un’eresia chiamarla «sorella» e «serva» come fanno i carmelitani, avversati da autori come De Bérulle e Bellarmino che ritengono che la Madre di Dio superi in dignità e grazia tutte le creature in un ordine a parte tra Cristo e la Chiesa, fra il cielo e la terra. De Convelt la pone al di sopra dei Serafini, il cui amore «paragonato all’amore della Vergine non è amore infiammato, ma appare cenere e fuoco spento». C’è chi la chiama «un Dio creato; un finito infinito; un’onnipotente debolezza... Dio increaturito o creatura deificata». È il famoso padre Mostro, il domenicano Niccolò Riccardi, chiamato così per l’eccezionale obesità o per la grande eloquenza o forse per l’incredibile memoria. Viene ripresa la dottrina di San Bernardo sulla mediazione universale delle grazie da parte di Maria, in quanto «Cristo consegna a sua madre ogni grazia da distribuire agli altri».
Le immagini mariane acquistano un valore determinante. I gesuiti se ne fanno promotori. Francesco Borgia, il terzo generale della Compagnia, in una famosa sentenza, paragona le immagini alle spezie di un pasto, ovvero ciò che può stimolare il gusto. L’icona da lui preferita è quella presente nella Chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma, la Madonna Salus Populi Romani, che si riteneva dipinta da san Luca. Le sue accorate omelie mariane ottengono da Pio V il permesso di eseguirne una copia con uno stile leggermente diverso, sotto la supervisione di San Carlo Borromeo. Da quella poi ne vengono dipinte tante altre e inviate nei luoghi di missione, dal Brasile alla Persia.
Il trionfo di Maria non è oscurato dalla dea ragione nel secolo dei lumi. Lodovico Antonio Muratori, prete modenese, storico e letterato, invita a purificare, con buone intenzioni, le forme religiose popolari dalla superstizione pagana, e a far comprendere che non si possono mettere in competizione le varie immagini della Madonna, e che bisogna avere più fiducia nella messa che negli scapolari e nelle medaglie. Il suo sforzo non è accolto perché non nasce dalla coscienza comunitaria, ma dal mondo accademico.
Proprio durante l’Illuminismo si consolida la devozione del mese mariano, adottata immediatamente dal popolo perché legata al ciclo delle stagioni. Al primo trattato di mariologia risalente a Placido Nigido all’inizio del seicento, ne seguono ora altri: tra i più importanti quello di San Luigi Grignon de Monfort e quello di Sant’Alfonso Maria de Liguori. Per Monfort, Maria è lo «stampo di Dio, forma Dei», una madre viva e dinamica nella storia. La Vergine si trova nella categoria teologica della «relazione». Per lui è cristocentrica, e invita a correggere le espressioni tipiche del tempo: è meglio dire di essere «schiavi di Gesù attraverso Maria o in Maria», più che «schiavi di Maria». Sant’Alfonso sviluppa la teologia narrativa e orante, valorizzando il sensus fidelium per l’Immacolata Concezione. Maria «è la faccendiera del Paradiso, che continuamente sta in faccende di misericordia impetrando grazie a tutti, ai giusti e peccatori».
L’ancien régime, per sostenere la «restaurazione», rifiuta gli ideali rivoluzionari, specialmente la libertà e l’uguaglianza e ripropone le prerogative aristocratiche. Utilizza la figura di Maria. Il suo splendore mette in risalto la sua condizione eccezionale e i suoi privilegi. Ma Maria appartiene sempre al popolo, è il suo tesoro. Pio IX l’8 dicembre del 1854 definisce il dogma dell’Immacolata non tanto in favore dei privilegi aristocratici, ma piuttosto in sintonia con il sensus fidelium.
L’Italia barocca esalta Maria, la Francia dei lumi non riesce a offuscarla né la restaurazione a strumentalizzarla. L’Inghilterra romantica dipana il travaglio mariologico tra una devozione sana e una artificiale, grazie agli studi storici e patristici di San John Henry Newman, che attraverso il suo metodo peculiare si avvicina al sentire autentico della fede del popolo di Dio maturata nel tempo: «nella devozione cristiana si sono aperte due grandi correnti lungo i secoli: una centrata sul Figlio di Maria, l’altra sulla Madre di Gesù... non è necessario che l’una oscuri l’altra». Il popolo di Dio non ha mai visto Maria rivale, ma ministra del suo Figlio. Più ami Maria più ami Gesù.
Con il Concilio Vaticano II si pone fine a tutti gli iconoclasti e i mariolatri che falsano la figura della Madre di Dio. La mariologia è inserita nel cuore dell’ecclesiologia, esaltando il nesso tra la beata Vergine e il mistero della Chiesa. Lumen Gentium 53, in chiave antropologica, dichiara di lei che è la più vicina agli uomini perché è la più vicina a Dio, a Gesù Cristo: «Redenta in modo eminente in vista dei meriti del Figlio suo e a lui unita da uno stretto e indissolubile vincolo... quale discendente di Adamo, è congiunta con tutti gli uomini bisognosi di salvezza». L’unicità di Maria non la separa da noi. La sua eminenza è compresa come compenetrazione con il Figlio divino, e servizio nella missione agli altri.
Papa Francesco non nasconde il suo amore per Maria. È bello vederlo pregare davanti alla Salus populi romani, prima di partire e al ritorno dai suoi viaggi, per invocare il suo aiuto, affidarsi a lei e ringraziarla. L’identità sinodale della Chiesa richiede una riflessione teologica e antropologica sul ruolo della Madre di Dio. La sua presenza nelle comunità non soltanto ci invita a custodire, ma anche a continuare il cammino attraverso nuovi «cantieri». Ella è il modello di apertura, l’aurora che ci stimola alla «ri-recezione» della fede nel cambio epocale, «la faccendiera» che dal Paradiso ci aiuta a non aver timore di attualizzare e rendere più autentico il modo di vivere il Vangelo al servizio dell’umanità sofferente, per il Regno di Dio.
FILOLOGIA, STORIA, E INTERPRETAZIONE DEI SOGNI (E DEI SEGNI):
LA CADUTA DI COSTANTINOPOLI (1453), IL "DE PACE FIDEI" DI NICCOLO’ CUSANO (1453), E LA "MADONNA SALTING" DI ANTONELLO DA MESSINA (1460).
Un segnavia per "arrivare" a Eleusis nel prossimo 2023.
ARTE E SOCIETÀ: LA MADONNA SALTING. A mio parere, l’influenza maggiore sulla produzione della "Madonna #Salting" di Antonello da Messina appare decisamente essere di scuola fiamminga. Tuttavia, essendo Antonello originario di Messina, forse, è da riguardare con particolare attenzione il senso simbolico della melagrana già aperta in mano al Bambino e, insieme, del cinturino annodato intorno al corpo del Figlio con i due fiocchetti (due piccole "#melagrana"), messi in una zona di chiara evidenza, che rimandano decisamente ai frutti del melograno in via di maturazione e alla fecondità della Madre, tutta vestita e "punteggiata" da infiniti "chicchi".
IPOTESI: QUESTIONE CRISTOLOGICA (ANTROPOLOGICA). Dato che il quadro è del 1460 circa, forse, potrebbe essere una "indicazione" di un discorso ancora sul nascere, di un dibattito all’ordine del giorno sul problema del Figlio, cioè sul tema decisivo dell’epoca (la caduta di Costantinopoli è del 1453 e il cardinale Niccolò Cusano cerca la via della pace della fede, nel 1453)": il nodo è proprio quello del Figlio (... e del "Presepe", e del "Natale"), quello dell’interpretazione teologico e antropologica della figura di Cristo (un tema ancora all’ordine del giorno), in un’ottica ecumenica.
CONSIDERATO CHE la "Dotta Ignoranza" di Cusano (1440) è del tutto segnata dalla tradizione filosofica e scientifica aristotelico-platonica (come sarà ancora per gli aristotelici dell’epoca di Galileo Galilei), la figura e il tema del bambino-homunculus è la parola chiave per comprendere non solo la teologia e l’anatomia dell’epoca, ma anche l’arte e l’antropologia, forse, è OPPORTUNO "RIPENSARE COSTANTINO": "IN HOC SIGNO VINCES". Proprio la caduta di Costantinopoli (1453), infatti, porterà l’Europa a svegliarsi dal letargo, a muoversi militarmente, e a prendere sotto la guida della Spagna la strada della riconquista (Granada,1492), della cacciata dei Mori e degli Ebrei (1492), della conquista dell’America (1492), e dell’avvio della prima globalizzazione teologico-politica del Pianeta Terra.
A) ANTONELLO DA MESSINA, "MADONNA SALTING".
B) BOSCH (1453-1516), ALL’ESCORIAL (1593). "Il Giardino delle delizie (o Il Millennio) è un trittico a olio su tavola (220×389 cm) di Hieronymus Bosch, databile 1480-1490 circa e conservato nel Museo del Prado di Madrid.[...]".
C) ELEUSIS 2023. Una delle capitali europee della cultura del 2023 è Eleusi: una buona opportunità storica per ripensare la figura della Terra-Madre, Demetra, della figlia, Persefone, e del tema dei misteri eleusini, e, al contempo, anche del melograno, e della melagrana, dell’agricoltura, delle stagioni, ecc.
OPERA DI SANTA MARIA DEL FIORE (Firenze 1296)
Sibille, Profeti e Patriarchi nel Campanile di Giotto
Capolavori di statuaria gotica e del primo Rinascimento
Il Campanile ha una decorazione scultorea esterna che fu realizzata nell’arco di cento anni, 1334-1436, iconograficamente molto elaborata, ordinata su tre livelli per ognuno dei quattro lati. In un nostro precedente articolo abbiamo già raccontato dei primi due livelli di queste decorazioni, ovvero i rilievi trecenteschi di Andrea Pisano e della sua bottega raffiguranti le scienze umane e le potenze celesti che le governano. Il terzo livello è occupato da sedici nicchie cuspidate, all’interno delle quali furono collocate, quattro per ciascun lato, altrettante sculture in marmo in altissimo rilievo e a tutto tondo, raffiguranti sibille, profeti e patriarchi.
Intorno alla metà del Trecento lo stesso Andrea Pisano con il figlio Nino e altri collaboratori avevano collocato sul lato ovest, quello maggiormente visibile dalla piazza, le sculture (lavorate in realtà solo sul lato frontale, l’unico visibile), raffiguranti la Sibilla eritrea, che secondo la tradizione cristiana antica aveva preannunciato la Redenzione; la Tiburtina, che per la stessa tradizione avrebbe profetizzato la nascita del Salvatore; David, re di Gerusalemme, autore dei Salmi e antenato di Cristo e suo figlio e successore il Re Salomone, creatore del grande tempio di Gerusalemme e sovrano di insuperabile sapienza. Ancora, i due Pisano e altri collaboratori scolpirono, per ornare il lato meridionale, un Mosè con in mano le tavole della legge e altri profeti non meglio identificati rappresentati barbati e con grandi cartigli. Sono tutte queste figure, connotate dall’elegante linearità e dalla possanza volumetrica insegnata in pittura da Giotto, transumanate e ieratiche, eccezion fatta per le sibille, che esprimono una certa umana allegrezza.
Completati questi due fronti per alcuni anni restarono vuote le nicchie degli altri due, l’orientale e il settentrionale, ed è qui che tra il 1409 e il 1436 la maniera giottesca del Pisano cedette il passo al rinascimento e cioè alla novità dirompente del naturalismo classico di Donatello e del suo collaboratore Nanni di Bartolo, detto “il Rosso”.
Per il lato orientale Donatello scolpì due splendidi profeti, difficilmente riconoscibili, forse Malachia e Isaia, perciò chiamati per consuetudine uno l’"imberbe" per via dell’acconciatura e l’altro “il pensieroso”, a ragione della posa con la mano riflessiva al mento. Si tratta di due straordinarie rappresentazioni connotate da un naturalismo senza precedenti di uomini avanti con l’età, vestiti con tuniche all’antica. L’espressione dei loro volti, ogni membro del loro corpo e ogni lembo delle loro vesti esprime con potenza il loro turbamento interiore provocato da quanto Dio gli ha rivelato. A loro si aggiunsero un terzo profeta (forse Zaccaria) opera di Nanni, che sembra arringare il popolo con la fierezza di un senatore romano sollevando una mano e lo sguardo e poi, una quarta statua, una delle più celebri del Rinascimento: il Sacrificio di Isacco, che Donatello e Nanni di Bartolo scolpirono insieme. Abramo è anziano, con lunga barba ed è colto nel momento in cui si torce con espressione sconvolta verso il cielo, richiamato dalla voce dell’angelo, un attimo prima di affondare il coltello nella gola del figlio Isacco che è inginocchiato ai suoi piedi nudo (il primo nudo a dimensioni naturali dell’arte moderna).
Alla coppia di geniali scultori fu affidata l’esecuzione anche della restante quaterna di statue per le nicchie rivolte a settentrione, le meno visibili perché dirimpetto al fianco della Cattedrale.
Di nuovo Donato e Nanni realizzarono quattro capolavori assoluti. Nanni scolpì il profeta Abdia, giovane bello e vigoroso con lo sguardo concentrato e triste verso coloro a cui mostra, aprendolo, il testo profetico del proprio rotolo; e San Giovanni Battista, ultimo dei profeti e primo dei santi, anche lui un giovane di bell’aspetto che, con espressione malinconica, mostra il cartiglio con l’annuncio dell’Agnello di Dio.
Donatello superò il compagno: il suo Geremia, impegnato a meditare su quanto scritto nel proprio cartiglio, è vigoroso e vibrante di spirito, ha le fattezze di un uomo di mezza età trasandato e di umili condizioni, ma esprime la forza fisica e la dignità morale di un eroe classico.
Lo Zuccone poi (forse il profeta Abacuc, così soprannominato dai fiorentini per riferimento affettuoso al cranio calvo con cui fu immaginato) è un’opera semplicemente insuperabile: Donatello ha dato forma a un uomo sui quaranta, dal corpo asciutto e nervoso avvolto in un largo manto e in un camice, che sbarra gli occhi per fissare qualcosa davanti a sé e tiene la bocca socchiusa per stupore di ciò che vede o per proferire parola a qualcuno che gli è di fronte.
Queste ultime quattro sculture erano troppo belle per restare “nascoste” sul fronte nord e nel 1464 furono “scambiate” con quelle trecentesche poste a ovest, così da dare miglior ornamento al lato del Campanile affiancato alla facciata della Cattedrale.
Le sedici sculture rimasero al loro posto per mezzo millennio finché, nel Novecento, si provvide a mettere al riparo questi splendidi marmi dalle ingiurie del tempo. Tra il 1939 e il 1945 Romano Romanelli e Natale Binazzi realizzarono a mano le copie in marmo bianco dei quattro profeti del lato ovest: i più esposti alle intemperie e, forse, i più belli.
Quindi, nel 1973-76 Enzo Cardini eseguì in cemento e polvere di marmo i calchi delle restanti 12 statue.
Gli originali di questi capolavori si possono ammirare nella sala del Museo dell’Opera del Duomo dedicata alle sculture del Campanile, a una distanza ravvicinata che nella collocazione originaria era impossibile, ma su un piano abbastanza elevato da poterne godere le pose e le espressioni dalla corretta prospettiva dal sotto in su.
*Fonte: Duomo di Firenze. Opera Magazine, 17/02/2022 (ripresa parziale, senza immagini).
La Chiesa anglicana: la religiosità di Elisabetta, un lascito al suo popolo
Lealtà, servizio e umiltà, le qualità della Regina che hanno toccato i suoi sudditi. La Reverenda Jules Cave Bergquist: nei suoi messaggi parlava della sua fede e del conforto e del sostegno che offriva proprio a lei
di Francesca Sabatinelli - Città del Vaticano, 09 settembre 2022.
Il mondo anglicano vive il suo profondo dolore per la morte di Elisabetta II, capo della Chiesa d’Inghilterra. Ad esprimerlo, in tutta la sua interezza, è stato ieri nel suo messaggio di cordoglio l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, primate della comunione anglicana. “Abbiamo perso - aveva scritto Welby - una persona la cui lealtà irremovibile, capacità di servizio e umiltà ci ha aiutato a dare un significato a chi siamo attraverso decenni di straordinari cambiamenti nel nostro mondo e nella nostra società”. Lealtà, capacità di servizio e umiltà, doni spirituali che riconosce anche la Reverenda Jules Cave Bergquist, cappellano di Napoli, Bari, Sorrento e Capri e vicario per l’Italia del Vescovo anglicano per l’Europa:
Reverenda, l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, ha sottolineato nel suo messaggio di cordoglio per la morte di Elisabetta II, l’incrollabile lealtà, il servizio e l’umiltà della Regina, qualità che hanno segnato profondamente i sudditi, i fedeli del regno ...
Io credo che si possa capire tutto alla luce di qualcosa che la Regina ha detto in occasione del suo 21mo compleanno. Era in Sudafrica con la famiglia e ha parlato alla sua gente dicendo “Dichiaro davanti a voi tutti che tutta la mia vita sia lunga o corta sarà dedicata al servizio vostro e anche al servizio della nostra grande famiglia imperiale, alla quale noi apparteniamo tutti”. E quindi lei, già all’età di 21 anni, sapendo di divenire poi regina, ha dedicato la sua vita al servizio. E ha riferito a questo diversi momenti della sua vita. Trascorsi gli anni l’impero è diventato il Commonwealth, una famiglia di nazioni, molte delle quali sono indipendenti oggigiorno, tutte però con forti legami di una storia insieme, ma con rapporti aggiornati, e la Regina ha saputo gestire questo aggiornamento con intelligenza e spirito di servizio. Poteva fare questo soltanto con i doni spirituali della lealtà, verso la sua gente, dello spirito di servizio e dell’umiltà nel trasformare l’impero in un Commonwealth, una famiglia.
Qual è l’eredità di Elisabetta? Che cosa lascia al mondo anglicano? Quale segno della sua fede cristiana?
Lei è conosciuta per una fede molto forte e molto personale. Andava in chiesa ogni domenica e anche in altri momenti dell’anno, nelle cappelle dei palazzi reali di tutta Gran Bretagna. È anche vero che nei momenti in cui la Regina indirizzava un messaggio alla sua gente, tipo a Natale, oppure in momenti di crisi, non lasciava mai scappare l’opportunità di parlare della fede e del conforto e del sostegno che offriva proprio a lei. E credo anche che la sua eredità sia quella di aver saputo trasmettere l’importanza della fede ai suoi discendenti, e quindi anche a Carlo e a William, il rispetto per la fede e l’importanza dei titoli che loro erediteranno come lei ha ereditato, come quello di Defensor fidei, difensore della fede, o di suprema governatrice della Chiesa anglicana. Sono titoli personali ma devono essere radicati nella realtà dell’essere il responsabile spirituale di una Chiesa.
In molti hanno sottolineato la capacità di Elisabetta II di interpretare un ruolo che lei considerava una missione, lei è d’accordo?
Sì, certo. Come dicevo prima, a proposito del suo 21mo compleanno, è sempre stato importantissimo per Elisabetta. Essere monarca per lei era essere Difensor fidei. Sappiamo tutti che Difensor fidei è stato un titolo dato ad Enrico VIII dal Papa (Papa Leone X ndr) per aver scritto un libro sui sette sacramenti. È un titolo ereditato dalla Regina e poi anche dai re. Molte persone mi chiedono: “Ma la Regina è il capo della vostra Chiesa, della Chiesa di Inghilterra, della Chiesa anglicana?” Il capo della Chiesa nostra è Cristo, come per la Chiesa Cattolica. Il Papa per voi è il vicario di Cristo, per noi la Regina, così come i suoi successori, sono governatori supremi della Chiesa d’Inghilterra, significa che il ruolo comprende l’accertarsi che la sua Chiesa abbia i vescovi per essere governata, significa quindi invitare i vescovi ad assumere le responsabilità per il gregge. La Regina ha saputo aggiornare anche questa missione e tramandarla ai suoi discendenti. Era molto importante per lei, non solo la fede personale, ma anche guardare alla fede come una cosa da tramandare al suo popolo, ai suoi eredi.
Lei l’ha incontrata personalmente? Ne ha un ricordo?
No, non l’ho mai incontrata, ho conosciuto sua sorella, Margaret, anche lei donna di grande fede. Però ho incontrato il principe Carlo (Re Carlo III). Ero responsabile nazionale delle vocazioni e lui veniva ad un seminario anglicano a Oxford, quindi ho avuto l’opportunità di parlargli. È una persona molto interessante, è molto curioso di sapere, di incontrare, di agire per il bene. Perlopiù in Inghilterra è conosciuto come agricoltore biologico, sperimenta da decenni una agricoltura ecosostenibile. È appassionato, instancabile sostenitore dei movimenti per salvaguardare il creato, e credo che in questo andrà molto d’accordo con Papa Francesco, autore della Laudato si’. Però Carlo ha parlato anche del titolo di Difensor fidei, che sapeva un giorno avrebbe ereditato. A lui interessano molto anche le altre Chiese cristiane, così come le altre religioni presenti nel territorio. È conosciuto per avere conoscenza profonda dell’Islam, per esempio. Quindi, credo che nel futuro Carlo saprà salvaguardare la libertà della fede di tutti i suoi sudditi.
In molti leggeranno come una novità avere un Re che si interessa anche di altre religioni, ma non è vero, e la prova ne è il fatto che il nonno di Carlo, cioè il padre di Elisabetta (Re Giorgio VI, ndr) era ancora imperatore dell’Impero britannico quando fece costruire decenni fa la prima moschea in Inghilterra, a Londra, a St John’s Wood, su di un terreno della casa reale. Fece costruire questa moschea per i suoi sudditi musulmani, quindi già al tempo del padre della Regina la monarchia inglese voleva salvaguardare la possibilità di professare la propria fede e di avere i posti dove farlo. Io sono piena di speranza che la regina abbia saputo tramandare a Re Carlo III l’importanza della fede, nella vita sia della famiglia reale, sia dei suoi sudditi.
Nella Chiesa un processo che non potrà essere arrestato, dice Liviana Gazzetta, autrice di “Virgo et Sacerdos”
di Maria Rosaria De Rosa (Il paese delle donne on line - rivista,15 Febbraio 2021
Partiamo dall’attualità in questo incontro con Liviana Gazzetta, studiosa di storia delle donne - si è occupata dei movimenti femminili nell’Italia contemporanea - e autrice del libro appena pubblicato Virgo et Sacerdos. Idee di sacerdozio femminile tra Ottocento e Novecento, Edizioni Storia e Letteratura, Roma 2020.
Per la prima volta una donna parteciperà al Sinodo dei Vescovi non solo con funzioni consultive ma anche con diritto di voto. Il 6 febbraio papa Francesco ha nominato sottosegretaria del Sinodo suor Nathalie Becquart, religiosa saveriana, già direttrice del Servizio Nazionale per l’Evangelizzazione dei giovani e per le vocazioni della Conferenza dei Vescovi di Francia. A gennaio, il Papa ha aperto anche formalmente alle donne, nella liturgia cattolica, il Lettorato e l’Accolitato. Infine, per la prima volta, c’è una sottosegretaria di Stato, Francesca di Giovanni. E numerose sono le nomine di laici e di donne laiche in posti chiave, ad esempio la nomina di sei docenti universitarie e manager della finanza nel Consiglio per l’Economia Vaticana.
Perdonami se aggiungo al tuo elenco di fatti innovativi anche questo dato, che non è promosso dalla gerarchia, ma mi pare di grande rilievo: nel maggio del 2020 si è avuta la candidatura simbolica della teologa e biblista francese Anne Soupa (fondatrice del “Comité de la Jupe”) al ruolo di arcivescovo di Lione. Poi non dimenticherei l’incisiva lettera “Chiesa, chiedici scusa” firmata da centinaia e centinaia di credenti a vario titolo.
Nel merito della tua domanda, credo che all’interno della chiesa cattolica si sia aperto un processo che non potrà essere arrestato. Un processo che dal punto di vista storico si può leggere anche come riflesso di processi più ampi di crescita della soggettività femminile da cui il mondo cattolico non si difende più, come un tempo, secondo la logica intransigentistica. Dal punto di vista spirituale, poi, direi che questo processo dipende anche dalla ricchezza della ricerca femminile aperta tra teologhe, religiose, donne delle comunità: mentre il femminismo cosiddetto laico, a mio avviso, conosce le secche del materialismo e di una sostanziale mancanza di orizzonti, dentro la chiesa c’è invece una dinamicità intensa, spesso connessa alla contraddizione di fondo tra le grandi finalità universali della fede e le disparità di fatto ancora esistenti tra uomini e donne. Mi pare che, tenendo conto di questo, Bergoglio stia tentando di aprire lentamente, ma progressivamente, la chiesa a questa ricchezza, come parte di un tentativo più generale di riforma delle strutture ecclesiali.
In modo sintetico, e forse un po’ provocatorio, si potrebbe dire un po’ tutto e un po’ niente. Dal punto di vista sostanziale è diventato palese che le motivazioni legate all’impedimentum sexus non reggono assolutamente più. Nello stesso tempo pesa tutta la millenaria tradizione, che per il mondo cattolico gioca un ruolo molto importante (a differenza delle chiese evangeliche); pesa la posizione del Magistero, in particolare di papa Giovanni Paolo II con la sua “Ordinatio sacerdotalis”, che è stata presentata come sintesi definitiva (naturalmente negativa) sulla questione; pesa soprattutto il fatto che buona parte del potere effettivo nella chiesa è ancora nelle mani di uomini: la maggior parte dei quali non ha mosso un passo verso la comprensione di queste realtà.
Quello che emerge dalla mia ricerca, così come da parallele ricerche di Claude Langlois, è che è esistita una domanda femminile di sacerdozio che si è espressa ben prima del Concilio Vaticano II, presente anche in personalità che pure accettavano in toto la dottrina della chiesa o che addirittura erano su posizioni di intransigente opposizione al mondo moderno. La loro non era infatti una rivendicazione di diritto al ministero ordinato, ma una dedizione totale di sé, una forte vocazione che non trovava riconoscimento. Queste personalità manifestavano una sofferenza sottile ma profonda per la misoginia e il disprezzo che il clero mostrava nei confronti della loro ricerca spirituale. Era quindi l’identificazione con la Vergine, unita a una riflessione sul suo ruolo nel sacerdozio universale di Cristo (per questo l’appellativo di Virgo sacerdos), che consentiva di esprimere quel bisogno non riconosciuto.
La mia tesi è che il femminismo ha influito storicamente su entrambi i piani in cui è stata avanzata la domanda di sacerdozio. Il femminismo ha influito chiaramente sui processi di crescita della soggettività femminile che sono all’origine del piano rivendicativo al sacerdozio; ma ha influito anche indirettamente sul piano della vocazione: costituendo uno stimolo a pensare nuovi e più autonomi modi di vivere la femminilità, il movimento femminista ha per riflesso innescato processi di crescita anche in quelle donne cattoliche che, opponendosi alla domanda di diritti e libertà, finivano per cercare nuovi percorsi oltre i modelli tradizionali.
Il culto alla Virgo sacerdos (su cui il S. Uffizio pose una sorta di pietra tombale agli inizi del ‘900) ha avuto aspetti di originalità anche perché associata a una ricerca iconografica per accreditare forme di rappresentazione, appunto, sacerdotale della Madonna: una Vergine potente, mediatrice tra Dio e l’umanità, vestita con la pianeta dei preti, una Vergine come non l’abbiamo praticamente mai vista raffigurata nelle nostre chiese. Aggiungo che quasi tutte le famiglie religiose femminili che sono nate o hanno sviluppato una spiritualità legata al sacerdozio di Cristo (e la mia ricerca su questo si può dire solo agli inizi) hanno mostrato una grande consapevolezza delle insufficienze del clero maschile nello svolgimento del proprio ruolo e un’insospettata capacità di rielaborazione della tradizione teologica in un modo più favorevole alle donne.
Vorrei però citare come altrettanto inaspettate le reazioni dei teologi del S. Uffizio alla devozione di cui stiamo parlando: reazioni che mostrano un fastidio, un’insofferenza, una misoginia così profonde da far pensare a quanto poco i valori del cristianesimo dovessero aver permeato le loro vite...
Michelangelo ritratto in uno schizzo a margine di un’antica Divina Commedia: l’incredibile scoperta di James Hall *
06 Settembre 2022 *
Lo storico inglese James Hall lo sostiene con certezza: una vecchia edizione della "Divina Commedia" di Dante Alighieri recherebbe in calce un disegno nascosto che ritrae Michelangelo Buonarotti intento a scolpire. Il prezioso volume è custodito nella Biblioteca Vallicelliana di Roma e risale al XV secolo.
"Lo scultore, finora sconosciuto, può essere identificato con Michelangelo durante o poco dopo il suo trionfale successo nell’intaglio del David (1501-4)", scrive infatti il docente all’University of Southampton, che presenterà la sua ricerca in un volume intitolato "The Artist’s Studio: A Cultural History", che sarà pubblicato dall’editore Thames & Hudson il 21 ottobre in Gran Bretagna.
In un’intervista rilasciata a The Art Newspapers lo studioso ha sottolineato: "Durante una conferenza ho visto brevemente questo disegno straordinario. Mi sono chiesto se avrei potuto includerlo nel mio libro. Dopo alcuni mesi, ho improvvisamente pensato che molti dei pezzi del puzzle sembrano corrispondere a Michelangelo".
“Il disegno mostra un artista al lavoro per scolpire una testa colossale, brandendo un martello. Alle sue spalle si trova una statuetta senza braccia. Il disegno appare nel primo canto dell’Inferno, nel momento in cui Dante decide coraggiosamente di prendere la "via maestra" attraverso l’Inferno. Lo scultore ha abbandonato la statuetta più frivola per scolpire la testa colossale.”
"La testa sembra girarsi sulla spalla, con un sorriso. Credo che debba essere un fauno" spiega Hall, "Mi ricorda molto il fauno che si aggrappa alla gamba del Bacco di Michelangelo (1496-7).
I
noltre, sul soffitto della Sistina, ci sono putti decorativi fissati sull’architettura che fiancheggiano i profeti e le sibille, che sono simili, girando con espressioni sfacciate sui loro volti; sembra molto in quello spirito".
"Le teste hanno uno stile molto classico e questo si adatta anche al passo di Dante in cui, ancora esitante, dice: ’Non sono Enea, né San Paolo’. Quindi Dante sta dicendo che non sono una di queste grandi figure. Ma è quello che diventa quando entra nell’Inferno. Così come Michelangelo quando realizza opere immense che superano l’antichità".
"Si pensava che l’edizione di Dante appartenesse alla famiglia Sangallo, che era composta da architetti e scultori, principalmente di Firenze e Roma. Ma recentemente questa ipotesi è stata messa in discussione perché la grafia delle annotazioni sul libro non sembra corrispondere a quella dei Sangallo", aggiunge Hall intervistato da "The Art Newspaper". "Un artista toscano o anche un dilettante di talento potrebbe aver creato la raffigurazione di Michelangelo", aggiunge Hall.
*Fonte: Il Giornale d’Italia, 06.09.2022
ANTROPOLOGIA E STORIA...
𝐈𝐥𝐝𝐞𝐠𝐚𝐫𝐝𝐚 𝐃𝐢 𝐁𝐢𝐧𝐠𝐞𝐧, detta "la Sibilla del Reno", benché beatificata nel 1342, è stata proclamata “Dottore della Chiesa Universale” solo nel 2012: dopo la lezione antropologica ed ecumenica (1508-1512) di Michelangelo ("La Sacra Famiglia o TondoDoni" e il racconto immortalato nella Volta della Cappella Sistina), la Chiesa cattolica ha ancora grandi difficoltà a leggere la storia dell’umanità come un cammino di Profeti e di Sibille che vanno verso Betlemme.
Usa, la Corte Suprema sancisce la fine del diritto all’aborto: annullata la sentenza Roe v. Wade *
In America la sentenza che tutelava il diritto delle donne a interrompere una gravidanza non esiste più. Con una decisione che rovescia un diritto fondamentale radicato negli Stati Uniti da 50 anni, la Corte Suprema ha annullato la storica sentenza Roe v. Wade, con cui nel 1973 la stessa Corte aveva riconosciuto il diritto della texana Norma McCorvey di interrompere la gravidanza garanetendo a tutte le donne di poter abortire liberamente.
La decisione è stata presa da una Corte divisa, con 6 voti a favore dei giudici conservatori e 3 contrari, i giudici liberal Sonia Sotomayor, Elena Kagan e Stephen Breyer che hanno diffuso un comunicato per dissociarsi: "Tristemente, molte donne hanno perso oggi una tutela costituzionale fondamentale. Noi dissentiamo". Tutti e tre i giudici nominati dall’ex presidente Donald Trump, che ha perso nel voto popolare sia nelle elezioni del 2016 che in quelle del 2020, durante il suo mandato hanno votato per l’abolizione della sentenza. E infatti Trump è il primo a esultare: "È la volontà di Dio. La decisione vuol dire seguire la Costituzione e restituire i diritti", ha detto l’ex presidente americano.
Quello della Corte Suprema è stato un "tragico errore" e la sentenza emessa è il risultato di un’ "ideologia estrema", ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, nel discorso tenuto alla nazione nel pomeriggio di venerdì. La Corte suprema, ha detto il presidente, "ci ha riportato indietro di 150 anni, ora è a rischio la salute delle donne" e ha chiamato gli americani a una battaglia politica contro la sentenza: "Permettetemi di essere molto chiaro e inequivocabile - ha detto - l’unico modo in cui possiamo garantire il diritto di scelta di una donna (sull’aborto) è che il Congresso ripristini questi diritto con una legge federale. Non c’è nessuna azione esecutiva del presidente che possa farlo. Ma al momento al Congresso mancano i voti per farlo ora, dunque gli elettori alle elezioni di novembre devono far sentire la loro voce".
La decisione è stata presa nel caso "Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization", in cui i giudici hanno confermato la legge del Mississippi che proibisce l’interruzione di gravidanza dopo 15 settimane. A fare ricorso era stata l’unica clinica rimasta nello Stato a offrire l’aborto. Una bozza trapelata nelle scorse settimane (redatta dal giudice Samuel Alito, risalente a febbraio e confermata poi come autentica dalla corte) aveva indicato che la maggioranza dei ’saggì erano favorevoli a ribaltare la Roe v Wade, suscitando vaste polemiche e proteste negli Usa. Alito che scrive nel dispositivo "La Roe vs Wade è stata sbagliata fin dall’inizio in modo eclatante. Il suo ragionamento - aggiunge - è stato eccezionalmente debole, e la decisione ha avuto conseguenze dannose".
Ora quindi i singoli Stati saranno liberi di applicare le loro leggi in materia. Si torna agli anni precedenti alla sentenza, quando l’aborto negli Usa era disciplinato da ciascuno Stato. In oltre la metà l’aborto era considerato reato, quindi non poteva essere praticato in nessun caso. In oltre 10 Stati era legale solo se costituiva pericolo per la donna, in caso di stupro, incesto o malformazioni fetali.
Già prima della diffusione, poco dopo le 10 ora locale, della decisione ufficiale centinaia di persone, in maggioranza donne, si sono riunite per protestare di fronte all’edificio che ospita il massimo organismo giuridico americano. E le principali organizzazioni pro choice hanno diffuso un comunicato in cui denunciano "ogni tattica e minaccia di gruppi che usano la distruzione e le violenza come mezzo, non parlano per noi, i nostri sostenitori, le nostre comunità e il nostro movimento", si legge nella dichiarazione di Planned Parenthood, Naral Pro-Choice America e Liberate Abortion Campaign. "Siamo impegnati a proteggere ed espandere l’accesso all’aborto e alla libertà riproduttiva attraverso un attivismo pacifico e non violento", concludono. Diversa la reazione dei repubblicani. Il leader del gruppo alla Camera, Kevin McCarthy, plude alla decisione "che salva vite umane".
"Oggi la Corte suprema non solo ha annullato quasi 50 anni di precedenti, ha relegato la decisione più intensamente personale che qualcuno possa prendere ai capricci di politici e ideologi, attaccando le libertà essenziali di milioni di persone". Così Barack Obama in un tweet, sua prima reazione alla sentenza. La moglie l’ex presidente degli Stati Uniti. "Ho il cuore spezzato per gli americani che hanno perso il diritto fondamentale di assumere decisioni informate" in merito al loro corpo. Lo afferma Michelle Obama parlando di una "decisione orribile" da parte della Corte Suprema sull’aborto. "Avrà delle conseguenze devastanti", aggiunge. Durissima anche Hillary Clinton che bolla la decisione della Corte Suprema sull’aborto come un’"infamia", un "passo indietro per i diritti delle donne e i diritti umani".
Il presidente americano Joe Biden ha dato mandato al segretario alla salute di garantire l’accesso delle donne alla pillola abortiva e ad altri farmaci per "l’assistenza riproduttiva" approvati dalla Food and Drug Administration. Lo annuncia la Casa Bianca in una nota.
* Fonte: la Repubblica, 24 GIUGNO 2022 (ripresa parziale).
Exousia e cristologia femminista al seminario del Cti
Il rilancio delle teologhe
di VITTORIA PRISCIANDARO (L’Osservatore Romano, 04 giugno 2022)
Ci sono anche loro tra le firmatarie della articolata riflessione proposta ai “Fratelli vescovi” come contributo al cammino sinodale. Del documento “Ma lei gli replicò”, che fa riferimento «alla conversione di Gesù dopo lo straordinario dialogo con la donna siro-fenicia», il Coordinamento delle teologhe italiane (Cti) ha parlato anche durante il seminario del 7 maggio scorso, presso l’Antonianum di Roma. Perché partecipazione e autorità, discernere e decidere - i punti su cui è incentrata la riflessione proposta dalla rete sinodale delle donne - sono termini ampiamente risuonati all’incontro su “L’autorità teologica della donne. Pratiche di exousia”, che ha visto la presenza delle fondatrici del Cti, ma anche di giovanissime appassionate di teologia.
«L’autorità delle donne è un tema che viene dal femminismo storico, che si è domandato cosa significa avere una voce autorevole e come tramandarsi la forza di prendere la parola», spiega la presidente del Cti, Lucia Vantini. « La parola exousia esprime il fatto che l’esistenza delle cose e degli esseri viventi viene da fuori. Per i femminismi, questo riconoscimento di dipendenza da altro non è affatto una sottrazione, ma una forza che rende capaci di libertà. Sono i legami, infatti, a dare consistenza ed espressività a un soggetto. In questa prospettiva il potere si trova riconfigurato come potere-di-autorizzare altre e altri in una trama di parole, simboli, gesti e pratiche che mira alla condivisione anche quando inevitabilmente si aprono conflitti». Inoltre, aggiunge Vantini, «nel termine autorità c’è idea di far aumentare, di spingere, di sostenersi tra generazioni. La presenza di giovani teologhe al seminario è stato il segno della grande fecondità della vita teologica della donne. Il futuro passa per questo».
«Ai fratelli vescovi scriviamo che autorizzare deve significare difendere e non abusare del potere, perché nelle Chiese c’è un movimento di esclusione, di chiusure di spazi, casi di epurazione e di licenziamento», dice Cristina Simonelli, che ha tenuto la relazione di apertura del seminario “La teologia delle donne come pratica di autorità”, citando il documento della rete sinodale. «Noi donne abbiamo una memoria, un presente e una consegna di autorità che se esercitata crea stima, empowerment». Il cammino del Cti, nato nel 2003 dall’intuizione di Marinella Perroni - fare un’associazione in prospettiva di genere, ecumenica, pluri e multidisciplinare -, ha percorso strade che hanno portato a numerose pubblicazioni e, negli ultimi anni, alla serie Exousia, con la San Paolo, dove «ciascun volume ri-visita in prospettiva di genere gli ambiti teologici e si propone di attestare possibili circolarità ermeneutiche: tra discipline e temi, tra appartenenze confessionali, tra interessi e posizionamenti».
La serie, spiega Simonelli citando la presentazione che accompagna ogni volume, risponde a una necessità: «La teologia non va semplicemente aggiornata ma completamente riscritta. L’accesso delle donne alla Teologia non ha comportato un semplice aggiornamento degli schedari, ha piuttosto reso evidente l’urgenza di un ripensamento generale dei modelli». Condizione imprescindibile per questa svolta «è quella di accogliere la differenza, vagliando criticamente le prospettive acquisite, introducendo l’esplorazione di campi di indagine inediti, formulando categorie e paradigmi nuovi».
Al centro del seminario, dunque, l’ultimo volume della Collana, Percorsi di cristologia femminista, scritto da Milena Mariani e da Mercedes Navarro Puerto. «I quasi cinquant’anni di decostruzioni e ricostruzioni femministe dimostrano quanto nel discorso cristologico il cambiamento del punto di vista, grazie all’immissione della prospettiva di genere e femminista», ha spiegato nella sua relazione Milena Mariani, «consenta ripensamenti critici e approcci nuovi, illumini aspetti rimossi o prima ignorati dell’identità di Gesù, contribuisca a scongiurare le derive non solo sessiste e misogine, ma anche antigiudaiche, razziste, imperialiste, colonialiste che non appartengono soltanto al passato della tradizione cristologica». Le critiche femministe si sono soffermate, in particolare, su «l’uso strumentale della maschilità di Gesù per ribadire la superiorità del maschio e per rafforzare l’immaginario esclusivamente maschile di Dio». Un secondo nodo è stato indicato, fin dall’inizio, nelle teologie della croce accusate non solo di «veicolare l’immagine di un Dio sadico e indifferente, ma anche di esaltare le idee di sofferenza salvifica, di sacrificio vicario, di obbedienza passiva alla volontà divina, che hanno avuto ricadute storicamente rovinose sulla condizione delle donne e dei più umili nella scala sociale e sulle relazioni intessute dai paesi occidentali, di storia cristiana, con il resto del mondo».
Dalle conclusioni di Mariani viene fuori la centralità della testimonianza e dell’esperienza di fede delle donne, che «richiederebbe il riconoscimento di un’autorità che si trova legittimata sin dal principio dalla traccia pasquale alla base delle narrazioni evangeliche, impensabile senza la loro testimonianza». Un’esperienza che, allora come oggi, «si esprime con parole, idee, sensibilità e gesti propri, la cui piena fecondità e novità nel linguaggio e nella vita delle Chiese cristiane richiederebbe un “discepolato di uguali” che ancora attende di essere davvero realizzato».
di VITTORIA PRISCIANDARO
AMORE ("CHARITAS"):
LA FEDE DI DANTE, E DI SAN PIETRO,
E
LA FEDE DI SAN PAOLO.
Beatrice (Pd. XXIV, 34) chiede al "gran viro"(San Pietro) di verificare se Dante ha capito
la differenza tra la fede
in "Nostro Segnor" Gesù
(Ponzio Pilato: Ecce Homo, gr. «idou ho anthropos»)
oppure
nel "Nostro Signore" di San Paolo, l’Uomo (Vir):
"sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo,
e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»],
e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
GIORNATA DELLA TERRA (22 aprile 2022): SORGERE DELLA TERRA, ANTROPOLOGIA ("ECCE HOMO"), E CONCORDIA.
In memoria del "discorso sulla dignità dell’uomo" (1486) di Giovanni Pico della Mirandola...
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E FILOLOGIA. "Tutti dobbiamo contribuire a fermare la distruzione della nostra casa comune e ripristinare gli spazi naturali: governi, aziende e cittadini dobbiamo agire come fratelli e sorelle che condividono la Terra, la casa comune che Dio ci ha affidato" (Papa Francesco).
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS. Memoria di Anselmo d’Aosta (21 aprile): riprendere il lavoro sul "Cur Deus Homo" e portarlo oltre l’orizzonte della Dotta Ignoranza (1440) e della Scuola di Atene: meglio seguire l’indicazione di Michelangelo già presente nel Tondo Doni e ripensare il cammino delle Sibille e dei Profeti.
USCIRE DALLA TERRA (CAVERNA)... E, FINALMENTE, VEDERE DALLO SPAZIO, DALLA LUNA, IL SORGERE DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE DELLA CASA COMUNE DELL’INTERO GENERE UMANO: L’ALBA DELLA MERAVIGLIA.... E LA FINE DELLA CLAUSTROFILIA!
Federico La Sala
Donne protagoniste della loro storia di fede
A colloquio con la storica e teologa Adriana Valerio in occasione dell’8 marzo
di Sabina Baral (Chiesa Evangelica Valdese, Torre Pellice, 4 Marzo 2022)
Il cristianesimo e le donne, un rapporto difficile? A ridosso dell’8 marzo, giornata internazionale della donna, ne abbiamo parlato con Adriana Valerio, storica e teologa, già docente di storia del cristianesimo e delle chiese all’Università “Federico II” di Napoli.
Una ricerca ventennale, la sua, volta a ricostruire la presenza delle donne nella storia cristiana.
C’è urgenza di femminismo nella chiesa e se sì di quale femminismo?
Se per femminismo si intende la consapevolezza da parte delle donne della propria dignità e la richiesta di superare le condizioni di discriminazione, dobbiamo dire che è un’esigenza antica che si pone con continuità nella storia della Chiesa. Non volendo risalire alle posizioni espresse nel Rinascimento dalle donne impegnate in progetti di riforma evangelica (tanto cattolica quanto riformata), è dall’Ottocento che si levano dalle Chiese voci di denuncia e richieste di considerare diversamente i ruoli femminili all’interno delle comunità. Molti sono gli esempi a riguardo: dalle partecipanti all’anticoncilio del 1969 che, in polemica con il Concilio Vaticano I, chiedevano il superamento del clericalismo che opprimeva le donne, alle protagoniste del movimento modernista che auspicavano la riforma liturgica e una diversa interpretazione della Bibbia; dalle uditrici presenti al Vaticano II, che auspicavano una nuova visione antropologica, alle teologhe che propongono oggi la revisione delle discipline teologiche rilette in una chiave di genere.
Oggi le religioni sono tutte in difficoltà storica: un limite o un’opportunità per le donne?
Nelle crisi ci sono sempre opportunità e possibilità di sviluppo. La crisi che sta attraversando la chiesa cattolica con il calo delle vocazioni spinge, per esempio, a riflettere sul ruolo dei laici e sulla necessità di riconoscere il lavoro che le donne già svolgono, soprattutto in terra di missione, dove laiche e religiose hanno importanti mansioni pastorali. Le crisi, però, accentuano anche le paure e tanti nella gerarchia ecclesiastica, davanti al nuovo, hanno paura dei cambiamenti e temono di perdere sicurezze.
Veniamo al binomio donna e teologia. È giusto parlarne al singolare?
No, perché non è mai esistita un’unica elaborazione teologica, nemmeno tra gli uomini. Le donne pongono nuovi interrogativi e fanno emergere la necessità di portare alla luce esperienze femminili dimenticate, mettendo in discussione la costruzione androcentrica delle discipline teologiche e delle strutture ecclesiastiche scarsamente inclusive. Le teologhe si esprimono con modalità diverse anche in sintonia con i diversi contesti culturali nei quali vivono.
Ne è una prova il progetto internazionale, interconfessionale e interculturale «La Bibbia e le donne» che da 15 anni, in 4 lingue, pubblica volumi che studiano la Bibbia e la sua storia di ricezione, relativamente alle questioni di genere. All’interno di questi libri emergono scuole di pensiero che usano differenziati metodi di approccio. Troviamo così espresse la teologia narrativa accanto alla storico-critica, i queer studies accanto al femminismo post-coloniale espresso dai movimenti di liberazione del cosiddetto terzo mondo, in un mosaico variopinto di esperienze e proposte.
Nel suo libro «Le ribelli di Dio», lei ricorda le importanti personalità femminili presenti nella Scrittura, dimostrando il ruolo fondamentale svolto dalle matriarche dell’ebraismo, dalle profetesse e dalle testimoni cristiane. Chi sono oggi le “ribelli di Dio”?
Le forme di dissenso all’interno della Chiesa cattolica si giocano perlopiù intorno alla questione dei ministeri e, nei confronti delle donne, permane la strategia del silenzio, non dando risonanza alle posizioni della teologia femminista, che mette in discussione l’impostazione patriarcale e androcentrica dell’interpretazione biblica, della teologia e della tradizione, e soffocando qualunque istanza di partecipazione ecclesiale che apra all’ordine sacro.
Oggi, nonostante si cerchi di coprire con il silenzio casi scomodi, molte cattoliche in varie parti del mondo si preparano all’ordine sacro illegale o esercitano già il ministero presbiterale in comunità disposte ad accoglierle.
In Francia si è costituito il gruppo Toutes apôtres per aprire il ministero alle donne e la teologa francese Anne Soupa si è candidata alla guida come Vescova della sede vacante della Diocesi di Lione. Queste donne non accettano più di essere oggetto di riflessioni o di decisioni da parte del magistero, unico garante di verità e di ortodossia, ma, in opposizione, affermano di essere soggetti della propria vita di fede, di voler cambiare i canoni interpretativi aprendo le dottrine codificate a nuove prospettive. Verità ed errore, ortodossia ed eresia, in questa riscrittura teologica acquisiscono una diversa luce e il mio ultimo libro Eretiche (Il Mulino 2022) lo mette in evidenza.
PER LA VERITA’ E LA RICONCILIAZIONE. Per un "cambio di civiltà" - al di là del Regno di "Mammasantissima" (altro che "Patriarcato")!: l’alleanza edipica della Madre con il Figlio, contro il Padre, e contro tutti i fratelli e tutte le sorelle...
La ripresa c’è se sostantivo femminile e sostenibile
di Antonio Guterres (Avvenire, martedì 8 marzo 2022)
Mentre il mondo celebra la Giornata internazionale della Donna, l’orologio dei diritti delle donne sta andando indietro. Tutti noi ne stiamo pagando il prezzo. Come un effetto domino, le crisi degli ultimi anni e quelle che ci affliggono in questo momento hanno messo in luce quanto una leadership femminile sia di importanza cruciale. Le donne hanno fronteggiato eroicamente la pandemia da Covid-19, come dottoresse, infermiere e impiegate nella sanità pubblica e nell’assistenza sociale. Ma allo stesso tempo, donne e ragazze sono state le prime a perdere il posto di lavoro e a dover rinunciare all’istruzione, con lavori non retribuiti di assistenza e cura e dovendo fronteggiare un aumento vertiginoso dei casi di abuso domestico e di matrimoni infantili. La pandemia ha mostrato ancora di più una verità antica: le radici del patriarcato vanno in profondità. Viviamo in un mondo ancora prevalentemente maschile con una cultura maschilista.
Di conseguenza, sia nel bene che nel male, le donne sono più esposte alla povertà. La loro assistenza sanitaria viene sacrificata, l’istruzione e l’opportunità limitate. E nei Paesi in conflitto - dall’Etiopia all’Afghanistan e all’Ucraina - le donne e le ragazze sono le voci più fragili ma anche le più forti nel chiedere pace. Se guardiamo al futuro, una ripresa sostenibile e uguale per tutti è possibile solo se si tratta di una ripresa femminile - una che metta al centro il progresso per ragazze e donne. Abbiamo bisogno del progresso economico, con investimenti orientati all’istruzione, all’impiego, alla formazione e al lavoro dignitoso delle donne. Le donne dovrebbero essere le prime nella lista dei 400 milioni di posti di lavoro che siamo chiamati a creare entro il 2030. Abbiamo bisogno del progresso sociale, con investimenti in sistemi di protezione sociale e di economia sanitaria.
Essi producono, infatti, molti benefici, creando lavori ecosostenibili e, allo stesso tempo, sostenendo i membri delle nostre società che necessitano assistenza, compresi i bambini, gli anziani e i malati. Abbiamo bisogno del progresso finanziario, per riformare un sistema monetario globale moralmente fallimentare, cosicché tutti i Paesi possano investire in una ripresa economica pensata e realizzata al femminile. Ciò include aiuti economici e sistemi fiscali più favorevoli che trasferiscano a coloro che ne hanno più bisogno gli elevati guadagni del benessere mondiale. Abbiamo bisogno di un’azione urgente e rivoluzionaria per il clima, per invertire l’aumento sregolato di emissioni, e per la disparità di genere, che lascia ancora donne e ragazze eccessivamente vulnerabili. I Paesi sviluppati devono urgentemente mantenere i loro impegni di sostegno finanziario e tecnico per una corretta transizione dai combustibili fossili.
Le economie di successo e stabili del futuro saranno ecosostenibili e inclusive. Abbiamo bisogno di più donne al potere, nel governo e nel commercio, tra i ministri delle finanze e tra i grandi manager privati, che sviluppino e rendano effettive delle politiche ecologiche e sociali progressive che favoriscano tutti. Abbiamo bisogno del progresso politico che attraverso misure mirate assicuri alle donne pari opportunità e rappresentanza a tutti i livelli decisionali, attraverso quote di genere significative.
La disuguaglianza di genere è principalmente una questione di potere. Sradicare secoli di istanze patriarcali richiede un’equa condivisione del potere in ogni istituzione, a tutti i livelli. Nelle Nazioni Unite, abbiamo ottenuto - per la prima volta nella storia dell’organizzazione - la parità di genere ai vertici dirigenziali nei quartier generali e nel mondo.
Questo ha significativamente migliorato la nostra abilità di riflettere e rappresentare al meglio le comunità per le quali lavoriamo. A ogni tappa di questo percorso, possiamo trarre ispirazione dalle donne e dalle ragazze che premono per il progresso in ogni ambito e in ogni angolo del mondo. Le giovani attiviste per il clima sono al centro degli sforzi globali per spingere i governi a mantenere i loro impegni. Le attiviste per i diritti delle donne chiedono coraggiosamente uguaglianza e giustizia, e la costruzione di società più pacifiche in quanto mediatrici, pacificatrici e operatrici umanitarie anche in alcune delle zone più problematiche del mondo.
Nelle società in cui i movimenti per i diritti delle donne sono in fermento, le democrazie sono più forti. E quando il mondo si impegna per ampliare le opportunità di donne e ragazze, tutta l’umanità ne esce vittoriosa.
Per una questione di giustizia, uguaglianza, moralità e semplice buon senso, abbiamo bisogno di portare avanti l’orologio sui diritti delle donne. Abbiamo bisogno di una ripresa sostenibile, femminista, che ruoti attorno a - e che sia guidata da - donne e ragazze.
Segretario generale delle Nazioni Unite
PER LA VERITA’ E LA RICONCILIAZIONE. RIMEDITARE LA LEZIONE DI ESCHILO. Dalla storia di Clitennestra, si arriva anche a immaginare una nuova giustizia, all’interno di nuovi rapporti sociali e politici.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO. Rimeditare la lezione di Alessandro Manzoni
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Rimeditare la lezione di Franca Ongaro Basaglia.
Federico La Sala
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E MESSAGGIO EVANGELICO: UNA QUESTIONE DI "RICAPITOLAZIONE", SECONDO UMANITA’ ("ECCE HOMO") NON SECONDO VIRILITA’ ("ECCE VIR)! *
La “ricapitolazione” di tutte le cose in Cristo
di Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 14 febbraio 2001) *
1. Il disegno salvifico di Dio, “il mistero della sua volontà” (Ef 1,9) concernente ogni creatura, è espresso nella Lettera agli Efesini con un termine caratteristico: “ricapitolare” in Cristo tutte le cose, celesti e terrestri (cfr Ef 1,10). L’immagine potrebbe rimandare anche a quell’asta attorno alla quale si avvolgeva il rotolo di pergamena o di papiro del volumen, recante su di sé uno scritto: Cristo conferisce un senso unitario a tutte le sillabe, le parole, le opere della creazione e della storia.
A cogliere per primo e a sviluppare in modo mirabile questo tema della ‘ricapitolazione’ è sant’Ireneo vescovo di Lione, grande Padre della Chiesa del secondo secolo. Contro ogni frammentazione della storia della salvezza, contro ogni separazione tra Antica e Nuova Alleanza, contro ogni dispersione della rivelazione e dell’azione divina, Ireneo esalta l’unico Signore, Gesù Cristo, che nell’Incarnazione annoda in sé tutta la storia della salvezza, l’umanità e l’intera creazione: “Egli, da re eterno, tutto ricapitola in sé” (Adversus haereses III, 21,9).
2. Ascoltiamo un brano in cui questo Padre della Chiesa commenta le parole dell’Apostolo riguardanti appunto la ricapitolazione in Cristo di tutte le cose. Nell’espressione “tutte le cose” - afferma Ireneo - è compreso l’uomo, toccato dal mistero dell’Incarnazione, allorché il Figlio di Dio “da invisibile divenne visibile, da incomprensibile comprensibile, da impassibile passibile, da Verbo divenne uomo. Egli ha ricapitolato tutto in se stesso, affinché come il Verbo di Dio ha il primato sugli esseri sopracelesti, spirituali e invisibili, allo stesso modo egli l’abbia sugli esseri visibili e corporei. Assumendo in sé questo primato e donandosi come capo alla Chiesa, egli attira tutto in sé” (Adversus haereses III, 16,6). Questo confluire di tutto l’essere in Cristo, centro del tempo e dello spazio, si compie progressivamente nella storia superando gli ostacoli, le resistenze del peccato e del Maligno.
3. Per illustrare questa tensione, Ireneo ricorre all’opposizione, già presentata da san Paolo, tra Cristo e Adamo (cfr Rm 5,12-21): Cristo è il nuovo Adamo, cioè il Primogenito dell’umanità fedele che accoglie con amore e obbedienza il disegno di redenzione che Dio ha tracciato come anima e meta della storia. Cristo deve, quindi, cancellare l’opera di devastazione, le orribili idolatrie, le violenze e ogni peccato che l’Adamo ribelle ha disseminato nella vicenda secolare dell’umanità e nell’orizzonte del creato. Con la sua piena obbedienza al Padre, Cristo apre l’era della pace con Dio e tra gli uomini, riconciliando in sé l’umanità dispersa (cfr Ef 2,16). Egli ‘ricapitola’ in sé Adamo, nel quale tutta l’umanità si riconosce, lo trasfigura in figlio di Dio, lo riporta alla comunione piena con il Padre. Proprio attraverso la sua fraternità con noi nella carne e nel sangue, nella vita e nella morte Cristo diviene ‘il capo’ dell’umanità salvata. Scrive ancora sant’Ireneo: “Cristo ha ricapitolato in se stesso tutto il sangue effuso da tutti i giusti e da tutti i profeti che sono esistiti dagli inizi” (Adversus haereses V, 14,1; cfr V, 14,2).
4. Bene e male sono, quindi, considerati alla luce dell’opera redentrice di Cristo. Essa, come fa intuire Paolo, coinvolge tutto il creato, nella varietà delle sue componenti (cfr Rm 8,18-30). La stessa natura infatti, come è sottoposta al non senso, al degrado e alla devastazione provocata dal peccato, così partecipa alla gioia della liberazione operata da Cristo nello Spirito Santo.
Si delinea, pertanto, l’attuazione piena del progetto originale del Creatore: quello di una creazione in cui Dio e uomo, uomo e donna, umanità e natura siano in armonia, in dialogo, in comunione. Questo progetto, sconvolto dal peccato, è ripreso in modo più mirabile da Cristo, che lo sta attuando misteriosamente ma efficacemente nella realtà presente, in attesa di portarlo a compimento. Gesù stesso ha dichiarato di essere il fulcro e il punto di convergenza di questo disegno di salvezza quando ha affermato: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). E l’evangelista Giovanni presenta quest’opera proprio come una specie di ricapitolazione, un “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52).
5. Quest’opera giungerà a pienezza nel compimento della storia, allorché - è ancora Paolo a ricordarlo - “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28).
L’ultima pagina dell’Apocalisse - che è stata proclamata in apertura del nostro incontro - dipinge a vivi colori questa meta. La Chiesa e lo Spirito attendono e invocano quel momento in cui Cristo “consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza... L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa (Dio) ha posto sotto i piedi” del suo Figlio (1Cor 15,24.26).
Al termine di questa battaglia - cantata in pagine mirabili dall’Apocalisse - Cristo compirà la ‘ricapitolazione’ e coloro che saranno uniti a lui formeranno la comunità dei redenti, che “non sarà più ferita dal peccato, dalle impurità, dall’amor proprio, che distruggono o feriscono la comunità terrena degli uomini. La visione beatifica, nella quale Dio si manifesterà in modo inesauribile agli eletti, sarà sorgente perenne di gaudio, di pace e di reciproca comunione” (CCC, 1045).
La Chiesa, sposa innamorata dell’Agnello, con lo sguardofisso a quel giorno di luce, eleva l’invocazione ardente:“Maranathà” (1Cor 16,22), “Vieni, Signore Gesù!” (Ap 22,20).
* FONTE: VATICAN.VA, 14 FEBBRAIO 2001 (RIPRESA PARZIALE)
FLS
UNA QUESTIONE DI GIUSTIZIA E DI BILANCIA (di una "statera" non di una "statua").
Ipotesi per una rilettura della "Pesatrice di perle" di Johannes van der Meer *
NASCITA E "GIUDIZIO DI SALOMONE". Del dipinto Pesatrice di perle (o Donna con una bilancia) di Jan Vermeer (databile al 1664 e conservato nella National Gallery of Art di Washington), anche alla luce del fatto che dentro il quadro c’è rappresentato un altro quadro - un dipinto con un Giudizio Universale - c’è da pensare, probabilmente, che la figura della donna in avanzato stato di gravidanza rimandi alla figura della Sibilla Libica (raffigurata da tantissimi artisti e anche da Michelangelo nella Cappella Sistina) e al suo specifico annuncio del messaggio evangelico, e comunichi il rapporto che esiste tra la bilancia (la giustizia e l’equilibrio), il grembo (il concepimento), e la nascita di un bambino, una bambina - una maestra, un maestro di umanità...
A quanto pare, anche Jan Vermeer (1632- 1675), conosceva bene il tema delle Sibille e della Giustizia (di Astrea, della Virgo della IV Ecloga di Virgilio, Dante, e Michelangelo) e della bilancia (la parola esatta della profezia della Sibilla Libica)... ed è riuscito a dare un bel quadro del tema della nascita del Bambino, dell’implicito riferimento all’esemplare giudizio di Salomone sul comportamento delle due madri e, infine, allo stesso Giudizio Universale.!
Della Sibilla Libica, infatti, questo è il suo messaggio: «Uterus Matris erit statera cunctorum. L’utero della Madre sarà la bilancia di tutti gli esseri umani». Una bilancia ("statera"), non una "statua"!
Che re-fuso - e che confusione filologica e antropologica!
*
Federico La Sala
LA QUESTIONE DELL’ANTROPOCENTRISMO, IL RINASCIMENTO, E LA BIENNALE D’ARTE VENEZIA 2022...
ANTROPOLOGIA, STORIA, E FILOLOGIA. Per una messa in discussione critica dell’antropocentrismo rinascimentale (che ha matrici antiche, nella tradizione greco-romana), forse, sarebbe meglio ripartire dalla Trasfigurazione di Cristo del Beato Angelico del 1437-1446, e dall’opera di Lorenzo Valla, "Sulla Donazione di Costantino falsamente attribuita e falsificata" del 1440, e, infine, anche dall’uomo vitruviano (1490) e dal "bambino nel grembo materno" (del 1511) di Leonardo da Vinci.
PER RI-NASCERE, VEDERE DALLO SPAZIO IL SORGERE DELLA TERRA. Alla luce di questo capovolgimento di sguardo, si potrà osservare meglio il cammino della tentazione prometeica e faustiana dello stesso antropocentrismo del Rinascimento, fino ad arrivare alla hubris della tecnica, che si caratteriza per essere più un camuffato androcentrismo tragico (alla Socrate e alla Platone, come ha ben visto Nietzsche) che non un semplice antropocentrismo, antropologicamente fondato.
ARTE E SOCIETÀ. Piero di Cosimo è una figura-chiave del tempo: nel 1481 è a Roma col maestro Cosimo Rosselli, per lavorare nella Cappella Sistina (voluta da papa Sisto IV); e nel 1483 è a Firenze: del 1488 è la Sacra conversazione, ora nella Galleria dello Spedale degli Innocenti ("Era molto amico di Piero lo spedalingo de li Innocenti").
BAMBINI ABBANDONATI E ANDROCENTRISMO. Ricordato che anche Leonardo da Vinci era un figlio naturale e che il "presepe" era stato introdotto nella Firenze del ’400, nell’Ospedale degli Innocenti (l’Ospedale non ha la ruota ma una cappella aperta, il presepe, dove il bimbo veniva deposto tra le immagini di Gesù, nato povero e allevato nella carità), è da dire che il nodo di Ercole, il problema di come nascono i bambini, è ancora sciolto come la cosmoteandria tragica (Eschilo con Platone e Aristotele) comandava e, a metà 1500, con il Concilio di Trento "il matrimonio diventa un’istituzione obbligata, e l’ingresso dell’Ospedale viene chiuso da una grata; da luogo di accoglienza per i meno ricchi diviene rifugio per una sottospecie di infanzia, che nasce sotto il segno di una vergogna ereditata dalla madre" (Adriano Prosperi).
Federico La Sala
Cosmologia, antropologia, cristianesimo e civiltà.
"IL FIGLIO DELL’UOMO": UNA QUESTIONE ANTROPOLOGICA E FILOLOGICA...
COSMOLOGIA. “Da Copernico in poi l’uomo rotola dal centro verso una X”. Così Nietzsche, nel 1886. Ma, per un filosofo nato filologo e, per di più, uno dei grandi maestri del sospetto, contrariamente a quanto si è sempre ripetuto in modo "umano, troppo umano", non è bene tornare a interrogarlo e cercare di avere ulteriori dati sulla destinazione "ignota"?
ANTROPOLOGIA. Nel 1888 pubblica "Ecce homo. Come si diviene ciò che si è": un Urlo contro la paolina religione del "Vir Dei", una critica radicale della cosmoteandria faraonica, e un aut aut epocale.
LA PUNTA DI UN ICEBERG BIMILLENARIO: PUGLIA (12 FEBBRAIO 2022). "Ecce Vir": il "caso serio" del quadro intitolato "Sabinus vir Dei".
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana
SCIOGLIMENTO DEI GHIACCIAI E RINASCIMENTO, OGGI. Una ristrutturazione epocale e lo sgretolamento della cosmoteandria tradizionale (#cosmo, teologia/ #dio e #andrologia/uomo) è già da tempo in atto: la nascita di una antropologia annunciata già da Michelangelo nel suo "Tondo Doni", con le sue due sibille e i suoi due profeti - non "quattro profeti", come vuole la Galleria degli Uffizi, e da Galileo Galilei con il suo "Sidereus Nuncius" (1610), fondata sulla visione del sorgere della Terra, è già in cammino: un capovolgimento e una nuova ricapitolazione, una radicale inversione logico-storica!
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA E MESSAGGIO EVANGELICO: UNO SGUARDO NUOVO SULLA STORIA E SULL’ARTE...
L’evangelizzazione attraverso l’arte
Musei Vaticani, tour dell’anima con il direttore Barbara Jatta
di Elisa Calessi *
"[...] Andiamo, ora, alla Cappella Sistina. Ma non ci fermiamo davanti al Giudizio Universale. Barbara Jatta ci indica di guardare in alto, verso le Sibille. Maestose figure di donne, affrescate da Michelangelo Buonarroti tra il 1508 e il 1512. «Mi hanno sempre colpito perché sono annunciatrici del Verbo e sono imponenti. Se vogliamo, sembrano anche mascoline. La Delfica, la Libica, le ho sempre trovate figure meravigliose e molto incisive. Donne che parlano e vedono prima degli altri». Ci soffermiamo, in particolare, a osservare la Delfica. Ha in mano un rotolo, ma volge la testa dalla parte opposta, rispetto alla rotazione del corpo. Come se qualcosa o qualcuno l’avesse distratta, mentre era intenta a leggerlo.
Torniamo nella Pinacoteca. In una sala in fondo, l’ottava, il direttore dei Musei Vaticani ci mostra un dipinto di grandi dimensioni: è la Madonna di Foligno di Raffaello. «È una opera della maturità artistica, che guarda agli artisti veneti, ma anche alla plasticità di Michelangelo. Ha una dolcezza infinita. La trovo un’opera bellissima». Gli occhi le brillano. «È un grande privilegio del mio lavoro, una grande benedizione, essere attorniata da questa bellezza. Perché ti ricarica. Come mi ha detto poco tempo fa Papa Francesco, l’arte aiuta ad andare avanti. Le difficoltà ci sono, ovviamente. Ma sono ripagate. Questa bellezza ti dà la forza di continuare con passione, ma anche con devozione, con senso di responsabilità per questo ruolo così delicato e importante. Un ruolo di conservazione e condivisione di un patrimonio non solo di storia e di arte, ma anche di fede e di devozione cristiana».
Le chiediamo come si intrecciano l’arte e la fede. «Questi - spiega - sono Musei dove l’identità cristiana è talmente forte che l’attenzione all’aspetto di evangelizzazione è preminente. Io sono una storica dell’arte, ma in questo luogo le considerazioni sono e devono essere diverse. Le faccio un esempio: io faccio parte di un consesso di direttori di musei internazionali, Louvre, National Gallery, eccetera. Ma sento fortemente di essere portatrice di una identità diversa, che è quella cristiana. Quella che si fa qui è un’opera non solo di educazione artistica e storica, ma di evangelizzazione attraverso l’arte. Lo aveva capito Pio xi quando, all’indomani dei Trattati Lateranensi del 1929, istituì la commissione edilizia che permise di costruire la rampa dell’ingresso e il portone principale e che consentì di far entrare i visitatori direttamente dall’Italia. Dal 1932 chiunque può pagare un biglietto ed entrare facilmente. Prima, invece, dovevi entrare dal Palazzo. E i Musei erano aperti solo per diplomatici, accademici. Pio XI capì, da uomo di cultura e di fede, la straordinaria potenzialità di evangelizzazione racchiusa in queste collezioni».
E, in questo trionfo di bellezza, la donna è centrale. «Non c’è dubbio che le figure femminili sono notevoli in tutte le collezioni. La Vergine è la rappresentazione per eccellenza nell’arte cristiana. In alcuni casi, forse ancora di più del Cristo. Ma già nell’antichità la figura femminile è estremamente valorizzata nelle Veneri». Ce ne fa vedere due, in particolare. Si trovano nel Museo Pio Clementino, Gabinetto delle Maschere. La prima è una copia dell’Afrodite di Doidalsas. «Guardi il volto, la dolcezza dei movimenti». La seconda, nella stessa stanza, è una copia romana dell’Afrodite Cnidia di Prassitele. In piedi, le fattezze morbide, l’espressione seria.
«Ci sono tante Veneri meravigliose nel Museo Pio Clementino. E c’è una scultura femminile bellissima nel Museo Gregoriano Profano». È la Niobide Chiaramonti. La statua, una copia di età adrianea, raffigura una delle figlie di Niobe mentre tenta di fuggire dalle frecce di Apollo e Artemide. Manca la testa, è rimasto solo il corpo. «È una donna forte, ma in movimento. E ha un panneggio splendido, mosso dal vento», ci invita a osservare. Effettivamente, a guardarla, colpisce questo moto di tutto il corpo, come se lo scultore avesse catturato l’istante in cui fugge. «L’abbiamo messa al centro della sala. Del resto, anche la Niobide è una divinità».
C’è una continuità «tra l’arte antica e quella cristiana: la donna è espressione di un canone di dolcezza, di bellezza. Con il cristianesimo, poi, il soggetto femminile ha uno sviluppo esponenziale, per il ruolo che la Vergine ricopre nella vita».
Il nostro viaggio è finito, ci dirigiamo verso l’uscita. Non prima di aver dedicato un ultimo sguardo alla Niobide fuggente.
Barbara Jatta è direttore dei Musei Vaticani, nominata da Papa Francesco, dal 1 gennaio 2017. Cinquantanove anni, storica dell’arte, è la prima donna a ricoprire questa carica in cinquecento anni di storia delle collezioni pontificie. Nei Musei ogni giorno operano circa mille persone, tra dipendenti e collaboratori.
* L’Osservatore Romano, 05 febbraio 2022 (ripresa parziale).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Federico La Sala
#ANTROPOLOGIA E #ARTE. #Michelangelo insegna: la #storia non la fanno solo i #profeti, ma anche le #sibille. #Apriregliocchi sulla #cornice del quadro #TondoDoni (https://uffizi.it/opere/sacra-famiglia-detta-tondo-doni ) e la #CappellaSistina
Un esercizio audace e creativo per ispirare uno stile sinodale «dal basso».
Le Sibille e la narrazione sinodale.
di Paolo Scarafoni - Filomena Rizzo *
Il popolo di Dio torni a parlare nella Chiesa! Sembra che balbetti con problemi che vanno dalla afasia, potrebbe parlare ma non sa; alla disartria, saprebbe parlare ma non può. Lo sforzo iniziale del sinodo per recuperare il popolo di Dio sarebbe quello di una rieducazione alla comunicazione, magari con dei mediatori?
Papa Francesco raccomanda di non perdere il «filo rosso» del Convegno ecclesiale di Firenze, dove invitava a ricominciare «dal basso», «dalle piccole comunità, dalle piccole parrocchie» affinché «esca la saggezza del popolo di Dio». Si tratta di «porsi al servizio di questa grande opera di raccolta delle narrazioni delle persone: di tutte le persone, perché in ciascuno opera in qualche misura lo Spirito; anche in coloro che noi riterremmo lontani e distratti, indifferenti e persino ostili» (CEI 12.10.2021). La rieducazione è al contrario. È il nostro ascolto che si deve aprire a comprendere parole nuove. Il percorso sinodale di questo biennio nella dimensione della narrazione «è per sua natura alla portata di tutti, anche di coloro che non si sentono a loro agio con i concetti teologici» (CEI 29.09.2021).
È a noi cara la cittadina di Contursi Terme, in provincia di Salerno, dove trascorriamo parte dell’estate. La sua suggestiva chiesetta del Carmine ci ha stimolato a riconoscere alcuni percorsi di fede propri di quella comunità. È il nostro «caso serio», di Balthasariana memoria. È un esercizio audace di creatività che non vuole dettare un programma, ma ispirare uno stile sinodale «dal basso» per l’evangelizzazione (Evangelii gaudium 33).
Di fronte agli accomodamenti e alle storture che iniziavano ad attenuare la fiamma cristocentrica accesa dal Concilio, Von Balthasar scriveva della vergine e martire Cordula, modello della accoglienza della novità irrinunciabile di Cristo. Noi facciamo riferimento alle dodici vergini Sibille dipinte a tempera sulle pareti della «piccola cappella sistina» del Carmine, che sono patrimonio della vita di fede dei contursani. Sono percorsi meno ufficiali e linguaggi creativi, nei quali molti potrebbero riconoscersi come persone che si appartengono in ragione della chiamata di Dio e riscoprire l’identità della Chiesa particolare per aprire nuove prospettive e orizzonti, non soltanto in vista del contributo da inviare alla segreteria del sinodo.
I Padri della Chiesa hanno trovato alleate preziose nelle Sibille, grazie alle loro profezie, come lampade che illuminano il cammino dell’umanità pagana verso il cristianesimo. I profeti annunciavano il Messia al popolo d’Israele, le Sibille il Salvatore ai pagani.
Varrone e Lattanzio enumerarono dieci Sibille, per lo più collocate in oriente. Nel 1481 il domenicano Filippo Barbieri all’elenco ne aggiunge due, con il proposito di riequilibrare geograficamente la loro presenza nel mondo occidentale e raggiungere il numero simbolico di 12, segno di pienezza sacra nell’ebraismo e nel cristianesimo.
Nel 1608 un ignoto frate carmelitano, con l’aiuto di modesti artisti, «scrisse» pittoricamente un poema sulla «nascita della fede». Rappresentando le Sibille ha saputo raccogliere le istanze pietistico devozionali di quel tempo del popolo contursano, sensibile ai doni divini, circondato da bellezze naturali, con numerose e abbondanti sorgenti di acque benefiche e terapeutiche. Esse sono un patrimonio che attraversa le generazioni, in quella pietà popolare sana, nella consuetudine di stare con Dio.
Il popolo di Contursi Terme, molto attento e attivo riguardo alle problematiche civili, può attingere anche a questa ricchezza per cementare il senso di comunità. Le Sibille aiutano a pensare modelli ecclesiali più liberi, per riattivare la circolarità delle relazioni come nella Chiesa nascente, rispetto alla visione di un’armata, o di una istituzione ingessata d’altri tempi.
Le Sibille erano donne del Mediterraneo, libere, voci profetiche del paganesimo greco, del monoteismo giudaico, della religione politeista romana e del cristianesimo, in diretto collegamento con lo Spirito divino. Un importante esercizio narrativo, quando si partecipa «alle celebrazioni, alla preghiera, ai dialoghi, ai confronti, agli scambi di esperienze e ai dibattiti», sarebbe quello di ricordare le donne della comunità, non soltanto le più prestigiose, ma tutte quelle significative nelle singole famiglie e a livello di paese. Si tratta della memoria che penetra nel quotidiano e nei piccoli gesti, che costruiscono la vera santità comunitaria (Gaudete et exultate 16); ma non solo, sarebbe un esercizio che serve a tutti per superare una mentalità patriarcale, dare il giusto valore alle donne, costruttrici di quella comunità, ed educare a relazioni positive e paritarie, che non si prestino alla violenza di genere.
I nomi delle Sibille ricordano la fratellanza dei popoli perché sono derivati dal luogo che la tradizione assegna loro come patria, e rivelano il ruolo della loro missione nelle nazioni. La comunità potrebbe riflettere sull’accoglienza delle numerose famiglie di stranieri che ormai ne fanno parte e dei tanti turisti che ogni anno visitano le terme, per purificare stereotipi e pregiudizi. Aiuterebbe fare riferimento all’alleanza di Noè o dei popoli, alla quale è legata la Sibilla, spesso identificata con quella Cumana, che sarebbe salita sull’arca per essere salvata, quale moglie di uno dei figli del patriarca (Oracoli sibillini I, 211; III, 827).
Nella fratellanza e nell’accoglienza c’è sempre lo spezzare il pane insieme. La Sibilla Persica vaticinava che Cristo avrebbe moltiplicato il pane e i pesci per sfamare il popolo (Oracoli sibillini I,357; VI,15), a sostegno anche oggi della moltiplicazione di esperienze solidali, della cura per gli altri, che «viene dal basso e in piena gratuità».
Il territorio di Contursi è in prevalenza a vocazione agricola. Fa parte di quelle «aree interne» del Meridione d’Italia. Ora è seriamente minacciato dal dislocamento di industrie inquinanti. Le comunità della valle dei fiumi Sele e Tanagro sono chiamate ad intervenire con spirito libero e amore per il creato sul proprio futuro. La comunità sta reagendo con tante iniziative per diventare protagonista di una nuova stagione di sviluppo sostenibile.
Le Sibille superano la cultura maschilista del conflitto e del profitto perché hanno un aspetto cosmico messo in evidenza già da Plutarco: come donne sono legate alla vita, alla fertilità, la loro morte è una non morte. Il loro corpo insepolto valica i confini spazio-temporali, con «una sorta di metamorfosi del corpo, che si assimila alla terra, alle erbe, agli animali, anch’essi portatori dello pneuma profetico», ai quali dona capacità mantiche.
Ecco perché da sempre sono simbolo della «cura del creato» e della «forza dello Spirito». La loro presenza nelle nostre chiese, accolta nel tempo, avrebbe dovuto agevolare il processo di recezione dei contenuti del Sinodo sull’Amazzonia e degli appelli di Querida Amazonía, ed evitare polemiche sterili e pretestuose. Profondo è il collegamento con le culture amazzoniche, che presentano la Madre Terra, che mai potrebbe essere confusa con la Madre di Dio, alla quale proprio le Sibille dedicano tanti versi. Il più bello è forse quello della Libica o italica: «Uterus Matris erit statera cunctorum. L’utero della Madre sarà la bilancia dell’umanità».
Il magistero sul creato di Papa Francesco potrebbe rafforzare la consapevolezza della comunità locale per giungere a decisioni di bene comune per il proprio futuro. L’esercizio del «discernere insieme» proposto dalla Chiesa, potrebbe essere di aiuto e di ispirazione, senza invadere gli spazi e le competenze, in un reciproco scambio di doni eliminando definitivamente i vecchi schemi di contrapposizione ideologica. A sua volta il cammino sinodale locale si arricchirebbe di contributi a contatto con le problematiche reali che vive la comunità.
La Chiesa non rinunci ad essere un presidio, un «ospedale da campo». Il coinvolgimento civile, rispettoso e libero, da parte dei cristiani, che si sforzano di essere testimoni credibili, potrebbe risvegliare in molti il desiderio di conoscere Gesù e il ritorno ad una più autentica vita sacramentale: anche la tradizione liturgica è ricca di riferimenti alle Sibille. In pieno Medioevo, nella celebrazione della Vigilia di Natale, nell’elenco dei «Profeti di Cristo» (Ordo Prophetarum) era compresa anche la Sibilla Eritrea, chiamata ad annunciare con il canto il ritorno del Signore nel Giorno del Giudizio. Come non ricordare la devozione popolare che è confluita nella liturgia romana funebre con la sequenza Dies irae: «Dies irae, dies illa, Solvet seclum in favilla, Teste David cum Sibylla».
Le Sibille possiedono in germe i tre tratti dell’umanesimo cristiano «umiltà, disinteresse, beatitudine», che stentiamo ancora a riconoscere nella società e perfino nella Chiesa. Sono fortemente auspicati dal Concilio Vaticano II, e possiamo augurarci di ritrovarli seminati in mezzo al popolo. Quelle vergini non sono ossessionate dal «potere» e dalla ricchezza, hanno uno stile di vita sobrio. Non sono sacerdotesse, non vivono in templi ma in grotte e presso corsi d’acqua accessibili a chiunque. I loro vaticini non si rivolgono all’interesse dei singoli, dei potenti, ma riguardano tutti, l’intera comunità, non sono astratti né ideologici. Indicano un cammino che porta a Cristo, cambiamenti profondi nell’umanità, e mettono in guardia contro il male. Papa Francesco invita a ritrovare la gioia di «annunciare il Vangelo in un tempo di rigenerazione» partendo dalle realtà locali. È il momento favorevole per questo esercizio, possibile in tante piccole comunità cristiane in Italia, che de vono riscoprire il loro «caso serio», e trovare elementi di ispirazione per incarnare il Vangelo.
VITA "EXTRATERRESTRE" E SGUARDO NUOVO. Tracce per una svolta_antropologica...
IL PRESENTE. Come è possibile "guardare al futuro" se torniamo al passato? Grazie al "passato", siamo arrivati al "presente" ("futuro" del passato). Ma "un ritorno al passato", cosa può dirci di diverso da quanto già sappiamo, se ancora camminiamo e pensiamo come in "passato"?!
IL PASSATO. Un vento fortissimo viene dal passato e questo vento (ricordare Walter Benjamin) a noi, che siamo spinti sempre più avanti e che continuiamo a guardare ipnotizzati il "passato", quale "futuro" mostra? Un crescere oceanico di macerie e rifiuti...
Filosofia, Scienza, e DisagiodellaCiviltà (Freud, 1929). Il problema è proprio quello di liberare l’epistemologia dalla caverna platonica e ripartire da un ulteriore sguardo nel gorgo claustrofilico (Elvio Fachinelli, Claustrofilia, 1983) e soprattutto da un fatto inaudito e impensato: nascere, diventare un essere umano extraterrestre e aprire gli occhi sul ... SorgeredellaTerra.
Federico La Sala
MUSICA, MUSE, PROFETI E SIBILLE, ANTROPOLOGIA, E "MOS-ART" DI SALUTE E LIBERAZIONE:
DISAGIO DELLA CIVILTA’ (FREUD, 1929). Il problema, a mio parere, è che la ricerca e i risultati di Alfred A. Tomatis (Nizza, 1º gennaio1920 - Carcassonne, 25 dicembre2001) sono talmente innervati con la nostra non-volontà di sapere di sé che, pur comprendendo che già il solo "parlare è suonare il proprio corpo" (Alfred Tomatis), alle accademiche platoniche orecchie (cieche e sorde e zoppe, come quelle di Edipo) il messaggio non arriva o arriva assolutamente distorto.
DANTE 2021: MEMORIA DI APOLLO E DELLE MUSE
Roma. C’è Giuditta fra Caravaggio, Artemisia e gli altri
Una mostra affianca al capolavoro di Palazzo Barberini circa trenta opere sul tema dell’eroina biblica. Il confronto, come al solito, è con la figlia di Orazio Gentileschi
di Maurizio Cecchetti (Avvenire, giovedì 30 dicembre 2021)
Quando c’è di mezzo Caravaggio, è bene cercare sempre nel quadro un riflesso della sua vita interiore, della sua psicologia. Per un artista dal carattere rissoso e mosso da un forte sentimento competitivo, che a quanto riporta Gaspare Celio - pittore e trattatista seicentesco di cui qualche anno fa venne scoperta una copia del suo compendio alle Vite del Vasari - forse era fuggito da Milano ancora giovane per evitare processi per un omicidio non ben precisato, e che altri ne commetterà a Roma e altrove, si può pensare che mentre dipingeva il quadro Giuditta decapita Oloferne si ricordasse di ciò che aveva provato assistendo ad alcune esecuzioni capitali, riflettendo su se stesso («e se prima o poi dovesse capitare anche a me?). Nelle azioni drammatiche che dipingeva, spesso lui è dentro il quadro: nel Davide con la testa di Golia, è suo il volto del gigante. Nel Martirio di san Matteo, lui è ai margini della scena e si gira a guardare l’assassinio dell’evangelista; nella Cattura di Cristo è sulla destra che alza la testa per vedere sopra la fila dei soldati venuti per arrestare Gesù... Che cosa vede? Se l’immagine ha un senso, vede Giuda che sta per baciare il suo profeta disarmato mentre lo consegna alla giustizia romana: il quadro è un saggio di antropologia sul tradimento degli “amici”...
A voler stare ai fatti, non ci fu nessuna sfida fra Artemisia e Caravaggio. Tanto più che quando lui morì, nel 1610, ormai lontano da Roma da qualche anno, Artemisia aveva circa diciassette anni e aveva appreso gli strumenti della pittura attraverso il padre, nella cui bottega transitavano artisti di valore e notabili della Roma reduce, dopo il 1600, da uno dei giubilei più fastosi e più orientati al trionfalismo della Chiesa che stava da decenni contrastando l’avanzata protestante.
Se di sfida si può parlare riguardo ad Artemisia, l’unica degna di approfondimenti è quella con la pittura del padre Orazio. Ma di questo parlerò fra poco, perché è un altro il tema della mostra romana ordinata a Palazzo Barberini fino al 27 marzo da Maria Cristina Terzaghi, storica dell’arte con un nutrito carnet di saggi sul Caravaggio (anche lei fu tra i primi a rinvenire la mano del pittore nell’Ecce homo spuntato come un fungo dalla sera alla mattina a Madrid in un’asta, poi ritirato e finito nel caveau del Prado che lo sta facendo pulire per capire se è veramente di Caravaggio).
Il tema della mostra infatti è quello dell’episodio biblico di Giuditta e Oloferne, la cui interpretazione prima di Caravaggio non ebbe mai la stessa capacità di raffigurare un evento efferato e sacro come se stesse accadendo sotto i nostri occhi.
La mostra è accompagnata da un catalogo (Officina libraria) con le opere esposte e le schede per ogni dipinto, precedute da alcuni saggi storici che seguono percorsi iconografici, letterari, sociali, fino agli sviluppi psicoanalitici su “Donne e violenza nell’arte occidentale”. Ovviamente, la curatrice ha redatto un saggio ampio e ponderoso sulla storia del dipinto caravaggesco, a partire dal primo proprietario, il banchiere Ottavio Costa, che possedeva altre due opere del pittore, ma della Giuditta fu particolarmente “geloso” (forse, come pensa la Terzaghi, non voleva che qualcuno convincesse Caravaggio a farne un’altra versione, in realtà io credo che le ragioni fossero legate alla natura e qualità stessa del quadro: inaudita potenza visiva e conturbante bellezza sacra). Quando la tela venne scoperta dal restauratore romano Pico Cellini nel 1951, la retrospettiva del Caravaggio a Milano era stata già inaugurata. Longhi, strabiliato dalla bellezza dell’opera, fece prorogare la mostra di due mesi perché il quadro potesse venire esposto. Ci fu anche il tentativo di venderlo all’estero, ma la pronta notifica vincolò il quadro, che venne acquistato dallo Stato vent’anni dopo, nel 1971, per 250 milioni di lire. Non mi dilungo sugli accostamenti, già fatti nei decenni scorsi, con un fatto di cronaca che fece scalpore, la decapitazione di Beatrice Cenci nel 1599 per aver ucciso il padre che la maltrattava e la segregava. Secondo Gianni Papi, in realtà, l’opera sarebbe successiva, anche a quelle della Cappella Contarelli (ciclo di san Matteo). Un documento che attesta un pagamento del banchiere Costa datato 1602 per un quadro imprecisato, rafforzerebbe il dubbio sulla cronologia. -Segnalo i riferimenti che Terzaghi fa con alcune opere che potrebbero aver ispirato Caravaggio nel momento in cui escogitava l’opera (in particolare una incisione del 1540 di Giovan Battista Scultori derivata da una Giuditta decapita Oloferne di Giulio Romano, che potrebbe far pensare alle peregrinazioni del Merisi in quegli anni “vacanti” tra Milano e Roma, che lo portarono quasi certamente fino a Venezia); e tralascio gli spunti per l’identificazione della modella che prestò la sua bellezza a Giuditta (Longhi l’aveva definita una «Fornarina del naturalismo»), con ogni probabilità Fillide Melandroni, cortigiana senese a Roma fin da adolescente.
Con Artemisia si entra, invece, in un campo minato, perché la “premiata ditta Gentileschi”, «padre e figlia», in realtà è ancora coperta da ombre e da dissidi familiari da chiarire. Da tempo è in atto una ricerca che aspira a distinguere con chiarezza le opere che sono di Orazio e quelle di Artemisia. Non è facile, almeno tra quelle che precedono l’esodo della pittrice da Roma. Resta però, a mio parere, un elemento dirimente che possono negare soltanto quelli che si richiamano ancora al mito femminista di Artemisia - il libro di Anna Banti diede la stura a questa interpretazione da superare -: Orazio è un pittore più bravo di sua figlia. Ed è sulle qualità pittoriche che bisogna trovare un maggior accordo fra gli studiosi.
Il caso da manuale riguarda le due versioni della Giuditta decapita Oloferne attribuite ad Artemisia: quella di Capodimonte, esposta ora a Roma, e quella degli Uffizi: quasi identica l’impostazione, ma in realtà diversa nello spazio, perché quella di Firenze è più ampia e mostra le gambe di Oloferne, ma soprattutto il sangue che sprizza ovunque con una violenza che nel quadro di Capodimonte, seppur più ravvicinato, è attenuata. Quel sangue che imbratta, come uno stigma psicologico, fa pensare a una mano femminile. Nel quadro di Napoli l’eroina indossa un abito azzurro-blu, mentre a Firenze è del tipico giallo che ricorre spesso nella pittura di Artemisia. Orazio dipinge con maggior eleganza e raffinatezza, con una luce che esalta la bellezza “sartoriale” dei tessuti e congela i toni in una visione quasi metafisica (per esempio il bianco dei lenzuoli), come si vede anche nella tela Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne di Hartford.
Vi fu sempre un certo traffico di opere dallo studio di Orazio, dove anche la giovane Artemisia lavorava, e i documenti, che anche la Terzaghi ricorda, oggi insinuano il dubbio che il quadro di Capodimonte possa essere, come sostenevo fin dalla mostra del 1991 che rilanciò il mito di Artemisia, non suo ma di Orazio. Questo, francamente, rende un po’ superficiale il giudizio di Keith Christiansen secondo cui Orazio non badava troppo alla paternità dei suoi dipinti. Se fosse per amore verso la figlia non so, può anche darsi, ma il problema potrebbe invece essere che Artemisia aveva il “complesso di Elettra”, come direbbero gli psicoanalisti, cioè invidiava l’intesa fra Orazio e la sua pittura, vedendola come sostituta della madre. Ci sarebbe ben altro da aggiungere riguardo ai quadri esposti, fra cui figurano, tra i più straordinari, quelli del Valentin, di Cristofano Allori, di Cagnacci, di Manfredi, di Lavinia Fontana, di Pierfrancesco Foschi e del Tintoretto.
Mi limito a due appunti finali sull’impostazione della mostra: aver poco approfondito la diversa interpretazione del tema da parte di mani femminili, rispetto alla predominanza di quelle maschili. Questo è il classico tema su cui si possono indagare due psicologie, se non opposte, complementari.
La seconda riguarda il fatto biblico, rispetto al quale si offre una lettura poco puntuale per lo più vedendo la fortuna del tema in funzione antiprotestante. In sostanza, mi chiedo perché fra saggi storici molto curati, compreso quello del Giano bifronte Filippo Maria Ferro, grande studioso d’arte e psicoanalista, non abbia trovato posto il contributo di un teologo-biblista.
Chi vuole può compensare la carenza appoggiandosi all’ultimo numero di “La Civiltà Cattolica” (4114) dove i gesuiti Saverio Corradino e Giancarlo Pani offrono una propedeutica al tema, ovvero La teologia della storia nel Libro di Giuditta, che il testamento ebraico non ha accolto fra i canonici, ma che i due autori definiscono «a suo modo un midrash sull’intera storia della salvezza».
LETTERATURA E FILOSOFIA...
DANTE 2021: "IL BUON DIO STA NEL DETTAGLIO" (diceva Aby Warburg)!
ANTROPOLOGIA E "MISTICA". All’epoca di Miguel de Cervantes (1547-1616), «Dio cammina anche tra le pentole» (Fondazioni V,8): la cavalleria è finita e comincia l’avventura di una nuova fenomenologia dello spirito (già oltre la logica del Padrone e del Servo di Hegel), quella di Teresa d’Avila (1515-1582): sulle ali di Michelangelo (1475-1564) , ella sollecita a ripensare l’incarnazione e la sacra famiglia e comincia a indicare, con sibille e profeti, un cammino antropologico inedito - al di là della tragedia!
La storia non la fanno i soliti "quattro profeti" (si cfr. la scheda sul "Tondo Doni" della Galleria degli Uffizi e si osservino bene le figure nella cornice del quadro).
Federico La Sala
#MESSAGGIOEVANGELICO
E
#MAGISTERO ANTROPOLOGICO
A #FUTURAMEMORIA.
Per una #Cristologia
non andrologica,
lezione di #TeresadAvila,
#STORIA #ARTE #ARTERAPIA #FILOSOFIA #FILOLOGIA:
IL #QUADRO E LA #CORNICE DEL #TONDO DONI.
UNA #QUESTIONE DI #ANTROPOLOGIA E DI #PRESEPE ...
Ad #Arte? Se nella #cornice del #TondoDoni, "sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti" (Galleria degli Uffizi), e non quelle di #due profeti e di due #sibille, cosa si può capire dei #due soli di #Dante e del racconto della #Cappella Sistina?:
Michelangelo dipinse questa #SacraFamiglia per #AgnoloDoni, mercante fiorentino il cui prestigioso matrimonio nel 1504 con Maddalena Strozzi avvenne in un periodo cruciale per l’arte a #Firenze di inizio secolo. La compresenza in città di #Leonardo, #Michelangelo e #Raffaello apportò uno scatto di crescita al già vivace ambiente fiorentino, che nel primo decennio del secolo visse una stagione di altissimo fervore culturale.
(...) La #cornice del #tondo, probabilmente su disegno di Michelangelo è stata intagliata da Francesco del Tasso, esponente della più alta tradizione dell’intaglio ligneo fiorentino. Vi sono raffigurate la #testa di #Cristo e quelle di #quattro #profeti, circondate da grottesche e racemi, in cui sono nascoste, in alto a sinistra, delle mezze lune, insegne araldiche della famiglia Strozzi.
Federico La Sala
Santo del giorno: 21 novembre
Solennità di Cristo Re *
Il Papa Pio XI, istituendo nell’anno Giubilare 1925 la nuova solennità di Cristo Re, pubblicava la sapientissima enciclica «Quas primas». Ne riportiamo i punti principali.
«Avendo concorso quest’Anno Santo non in uno ma in più modi, ad illustrare il regno di Cristo, ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro apostolico ufficio, se, assecondando le preghiere di moltissimi Cardinali, Vescovi e fedeli fatte a Noi, sia da soli, sia collettivamente, chiuderemo questo stesso Anno coll’introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re. Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l’appellativo di Re, per il sommo grado di eccellenza che ha in modo sovraeminenie fra tutte le cose create. In tal modo infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini, non solo per l’altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è la Verità, ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da lui la verità. Similmente Egli regna nelle volontà degli uomini sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perchè con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra, in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori, per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità ».
La regalità di Gesù Cristo « consta di una triplice potestà: la prima è la potestà legislativa. È dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui essi debbono riporre la loro fiducia e nel tempo stesso come Legislatore, a cui debbono ubbidire. In secondo luogo egli ebbe dal padre la potestà di giudicare il cielo e la terra, non solo come Dio, ma ancora come uomo. Infine diciamo che Gesù Cristo ha pure il diritto di premiare o punire gli uomini anche durante la loro vita ».
Dove si trova il regno di N. S. Gesù Cristo? Di quali caratteri particolari è dotato? Come si acquista? Il regno di N. S. Gesù Cristo « ha principalmente carattere soprannaturale e attinente alle cose spirituali. Infatti quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, Egli cercò di togliere loro dal capo queste vane attese, e questa speranza ». Così pure quando la folla, presa da ammirazione per gli strepitosi prodigi da lui operati, voleva acclamarlo re, egli miracolosamente si sottrasse ai loro sguardi e si nascose: ed a Pilato che l’aveva interrogato sul suo regno rispose: « Il mio regno non è di questo mondo ». L’ingresso in questo regno soprannaturale, si attua mediante la penitenza e la fede, e richiede nei sudditi il distacco dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e la sete di giustizia ed inoltre il rinnegamento di se stessi per portare la croce dietro al Signore. Ecco il programma di ogni cristiano che vuole essere vero suddito di Gesù Cristo Re!
* Fonte: Santo del giorno, 21 novembre 2021 (ripresa parziale).
Note:
Martirologio Romano: Solennità di nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’Universo: a Lui solo il potere, la gloria e la maestà negli infiniti secoli dei secoli:
"[...] Questa festa fu introdotta da papa Pio XI, con l’enciclica “Quas primas” dell’11 dicembre 1925, a coronamento del Giubileo che si celebrava in quell’anno.
È poco noto e, forse, un po’ dimenticato. Non appena elevato al soglio pontificio, nel 1922, Pio XI condannò in primo luogo esplicitamente il liberalismo “cattolico” nella sua enciclica “Ubi arcano Dei”. Egli comprese, però, che una disapprovazione in un’enciclica non sarebbe valsa a molto, visto che il popolo cristiano non leggeva i messaggi papali. Quel saggio pontefice pensò allora che il miglior modo di istruirlo fosse quello di utilizzare la liturgia. Di qui l’origine della “Quas primas”, nella quale egli dimostrava che la regalità di Cristo implicava (ed implica) necessariamente il dovere per i cattolici di fare quanto in loro potere per tendere verso l’ideale dello Stato cattolico: “Accelerare e affrettare questo ritorno [alla regalità sociale di Cristo] coll’azione e coll’opera loro, sarebbe dovere dei cattolici”. Dichiarava, quindi, di istituire la festa di Cristo Re, spiegando la sua intenzione di opporre così “un rimedio efficacissimo a quella peste, che pervade l’umana società. La peste della età nostra è il così detto laicismo, coi suoi errori e i suoi empi incentivi”.
Tale festività coincide con l’ultima domenica dell’anno liturgico, con ciò indicandosi che Cristo Redentore è Signore della storia e del tempo, a cui tutti gli uomini e le altre creature sono soggetti. Egli è l’Alfa e l’Omega, come canta l’Apocalisse (Ap 21, 6). Gesù stesso, dinanzi a Pilato, ha affermato categoricamente la sua regalità. Alla domanda di Pilato: “Allora tu sei re?”, il Divino Redentore rispose: “Tu lo dici, io sono re” (Gv 18, 37).
Pio XI insegnava che Cristo è veramente Re. Egli solo, infatti, Dio e uomo - scriveva il successore Pio XII, nell’enciclica “Ad caeli Reginam” dell’11 ottobre 1954 - “in senso pieno, proprio e assoluto, ... è re”. [...]" (cfr. "Santi e beati": Francesco Patruno).
PIO XI, LETTERA ENCICLICA QUAS PRIMAS, 11 dicembre 1925
FLS
L’intervento del nunzio apostolico Pierre all’assemblea generale dei vescovi degli Stati Uniti
L’unità è il futuro di una Chiesa sinodale
di Amedeo Lomonaco (L’Osservatore Romano, 17 novembre 2021)
«Il cammino verso il futuro implica necessariamente l’unità. Una Chiesa divisa non sarà mai in grado di condurre gli altri all’unità più profonda voluta da Cristo». È quanto ha affermato, martedì 16 novembre, l’arcivescovo Christophe Pierre, nunzio apostolico negli Stati Uniti, nella giornata di apertura dell’assemblea generale della Conferenza dei vescovi cattolici del Paese (Usccb). L’appuntamento si svolge a Baltimora, nel Maryland, fino al 18 novembre, con la partecipazione di quasi 300 vescovi chiamati a riflettere sul tema dell’Eucaristia.
Il presule ha centrato il suo intervento sul tema della sinodalità, sulla scia del processo avviato da Papa Francesco in tutta la Chiesa. La sinodalità, ha detto, «non è un concetto astratto», ma aiuta ad affrontare «la realtà della nostra situazione attuale» come «una risposta alle sfide del nostro tempo e al confronto che minaccia di dividere questo Paese e che ha anche i suoi echi nella Chiesa. Sembra che molti non si rendano conto di essere impegnati in questo confronto, prendendo posizioni radicate in certe verità, ma isolate nel mondo delle idee e non applicate alla realtà dell’esperienza di fede, vissuta dal popolo di Dio nelle situazioni concrete».
Il nunzio ha ricordato «diverse questioni urgenti che la Chiesa deve affrontare oggi». Una di queste è la vita: «Non possiamo abbandonare la nostra difesa della vita umana innocente o della persona vulnerabile». Tuttavia, ha aggiunto, un approccio sinodale «sarebbe quello di capire meglio perché le persone cercano di interrompere le gravidanze», quali sono «le cause profonde delle scelte contro la vita» e quali sono i fattori che rendono queste scelte «così complicate per alcuni».
Sul tema dell’Eucaristia ha affermato che «le realtà sono più importanti delle idee. Possiamo avere tutte le idee teologiche sull’Eucaristia - e, naturalmente, ne abbiamo bisogno - ma nessuna di queste idee è paragonabile alla realtà del Mistero eucaristico, che ha bisogno di essere scoperto e riscoperto attraverso l’esperienza pratica della Chiesa, vivendo in comunione, particolarmente in questo tempo di pandemia. Possiamo diventare così concentrati sulla sacralità delle forme della liturgia che perdiamo il vero incontro con la Sua presenza reale. C’è la tentazione di trattare l’Eucaristia come qualcosa da offrire a pochi privilegiati piuttosto che cercare di camminare con coloro la cui teologia o discepolato è carente, aiutandoli a comprendere e apprezzare il dono dell’Eucaristia e aiutandoli a superare le loro difficoltà. Piuttosto che rimanere intrappolati in una “ideologia del sacro”, la sinodalità è un metodo che ci aiuta a scoprire insieme una via da seguire».
Dopo l’intervento del nunzio, ha preso la parola monsignor José Horacio Gómez, arcivescovo di Los Angeles e presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, che ha ricordato come la missione della Chiesa sia «la stessa in ogni tempo e in ogni luogo»: è quella di «proclamare Gesù Cristo e aiutare ogni persona a trovarlo e a camminare con Lui». Dio, ha sottolineato, ci chiama «a costruire il suo Regno» e a infondere nella società «i valori del Vangelo». «La sfida che abbiamo è quella di capire come la Chiesa dovrebbe svolgere la propria missione in un’America che ora è altamente secolarizzata».
Citando l’appello costante di Papa Francesco per una Chiesa missionaria, monsignor Gómez ha ricordato che ogni cattolico condivide la responsabilità per la missione:
sacerdoti,
diaconi,
seminaristi,
religiosi e consacrati,
uomini e donne laici:
siamo tutti battezzati per essere missionari».
Nonostante uno scenario difficile, reso ancora più critico dall’attuale pandemia, l’arcivescovo di Los Angeles afferma che ci sono segni di speranza: c’è «un risveglio spirituale» nel Paese e molti «sono alla ricerca» in un momento in cui «la società americana sembra perdere la sua storia, radicata in una visione biblica del mondo». «Stanno cercando una nuova storia che dia senso alla loro vita». Ma «non hanno bisogno - ha affermato monsignor Gómez - di una nuova storia». «Ciò di cui hanno bisogno è ascoltare la vera storia, la bellissima storia dell’amore di Cristo per noi, il suo morire e risorgere dalla morte per noi, e la speranza che egli porta alle nostre vite». Infine, ha parlato del piano pastorale per «una rinascita eucaristica». Si tratta di un progetto missionario che mira a portare le persone nel cuore del mistero della fede: l’Eucaristia - ha concluso - è «la chiave di accesso alla civiltà dell’amore che desideriamo creare».
"QUATTRO" ... QUATTRO PROFETI? IL "TONDO DONI" E LA TRACCIA PER UN’ALTRA "INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" DI MICHELANGELO E DEL SUO RACCONTO NELLA CAPPELLA SISTINA...
di Federico La Sala (Le parole e le cose, 9 novembre 2021)
AL FINE DI UN’INTERPRETAZIONE non riduttiva del "Tondo Doni" di Michelangelo è opportuno fare bene attenzione alla cornice lignea che sta intorno.
NELLA SCHEDA DELLA Galleria degli Uffizi, relativa alla Sacra famiglia, detta “Tondo Doni” di Michelangelo #Buonarroti è scritto:
"QUATTRO PROFETI": MA "COME NASCONO I BAMBINI"?!
Se il tema è quello della nascita di Cristo ("il Figlio dell’Uomo"), il discorso di Michelangelo è semplicemente chiaro e tondo e già anticipa alla grande il programma della Sistina: nella cornice vi sono raffigurate la testa di Cristo (in alto) e ai lati le teste di due profeti e due sibille e, al centro (il fuoco del cammino dell’intero genere umano), Gesù, il "Figlio dell’Uomo" ("Ecce Homo" - ogni essere umano, come da antropologia e filologia), con le figure dei genitori, il "profeta" Giuseppe e la "sibilla" Maria.
L’Uomo non è più un Lupo! L’uomo è per l’uomo un Dio ("Homo homini deus est"), come ricorderà Spinoza nella sua "Etica".
Sacra famiglia, detta “Tondo Doni”
Michelangelo Buonarroti (Caprese 1475 - Roma 1564) *
Michelangelo dipinse questa Sacra Famiglia per Agnolo Doni, mercante fiorentino il cui prestigioso matrimonio nel 1504 con Maddalena Strozzi avvenne in un periodo cruciale per l’arte a Firenze di inizio secolo. La compresenza in città di Leonardo, Michelangelo e Raffaello apportò uno scatto di crescita al già vivace ambiente fiorentino, che nel primo decennio del secolo visse una stagione di altissimo fervore culturale. Agnolo poté quindi celebrare le sue nobili nozze e la nascita della sua primogenita con alcune delle massime espressioni di questa eccezionale fioritura: i ritratti dei due coniugi dipinti da Raffaello, e il tondo di Michelangelo, che è l’unico dipinto certo su tavola del maestro.
Michelangelo aveva da poco studiato le potenzialità del formato circolare, molto apprezzato nel primo Rinascimento per gli arredi devozionali domestici, nei marmi del “Tondo Pitti” (Museo Nazionale del Bargello) e del “Tondo Taddei” (Royal Academy di Londra): in entrambi i casi la Madonna, il Bambino e San Giovannino occupano prepotentemente tutta la superficie del rilievo. Anche il “Tondo Doni” è concepito come una scultura, in cui la composizione piramidale del gruppo si impone su quasi tutta l’altezza e la larghezza della tavola. E’ stato notato che, nella sua compattezza, il gruppo ricorda la struttura di una cupola, tuttavia animata al suo interno dalle torsioni dei corpi e dalla concatenazione dei gesti per il passaggio delicatissimo del Bambino dalle mani di San Giuseppe a quelle della Vergine.
Questa composizione così articolata ed espressiva scaturisce dalla conoscenza e dallo studio da parte di Michelangelo dei grandi marmi del periodo ellenistico (III-I secolo a. C.), contraddistinti da movimenti serpentinati e forte espressività, che stavano emergendo dagli scavi delle ville romane. Alcuni di questi importanti ritrovamenti, come l’Apollo del Belvedere e il Laocoonte scavato nel gennaio 1506, sono citati puntualmente nel quadro fra le figure di nudi in piedi, appoggiati a una balaustra (rispettivamente a sinistra e a destra di San Giuseppe).
La presenza di Laocoonte permette di avanzare per il tondo una datazione che coincide con la nascita di Maria Doni (settembre 1507). I giovani nudi, la cui identificazione è complessa, sembrano rappresentare l’umanità pagana, separata dalla Sacra Famiglia da un basso muretto che rappresenta il peccato originale, oltre il quale c’è anche San Giovannino, che favorirebbe l’interpretazione battesimale del dipinto.
La cornice del tondo, probabilmente su disegno di Michelangelo è stata intagliata da Francesco del Tasso, esponente della più alta tradizione dell’intaglio ligneo fiorentino. Vi sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di quattro profeti, circondate da grottesche e racemi, in cui sono nascoste, in alto a sinistra, delle mezze lune, insegne araldiche della famiglia Strozzi.
* GLI UFFIZI, 11.11.2021 (ripresa parziale)
Anticipazione.
Lo spirito autentico dei Sinodi è nel sapersi mettere in gioco
di Antonio Spadaro (Avvenire, giovedì 4 novembre 2021)
L’avvio del Sinodo sulla sinodalità, avvenuto il 9 ottobre scorso, c’invita a porre la domanda su che cosa significa oggi essere Chiesa e quale sia il suo senso nella storia. E tale domanda è pure alla base del Cammino sinodale che la Chiesa italiana sta avviando, e di quello in corso o in fase di avvio in Germania, Australia e Irlanda. Chi ha seguito le Assemblee del Sinodo dei vescovi degli ultimi anni si è certamente reso conto di quanto sia emersa la diversità che plasma la vita della Chiesa cattolica. Se un tempo una certa latinitas o romanitas costituiva e modellava la formazione dei vescovi - i quali, tra l’altro, capivano almeno un po’ di italiano -, oggi emerge con forza la diversità a ogni livello: mentalità, lingua, approccio alle questioni. E ciò, lungi dall’essere un problema, è una risorsa, perché la comunione ecclesiale si realizza attraverso la vita reale dei popoli e delle culture. In un mondo fratturato come il nostro, è una profezia.
Non si deve immaginare la Chiesa come una costruzione di mattoncini Lego diversi che si incastrano tutti al punto giusto. Sarebbe questa un’immagine meccanica della comunione. Potremmo meglio pensarla come una relazione sinfonica, di note diverse che insieme danno vita a una composizione. Se dovessimo proseguire usando questa immagine, direi che non si tratta di una sinfonia dove le parti sono già scritte e assegnate, ma di un concerto jazz, dove si suona seguendo l’ispirazione condivisa nel momento. Chi ha fatto l’esperienza dei recenti Sinodi dei vescovi avrà percepito le tensioni che emergevano all’interno dell’Assemblea, ma anche il clima spirituale nel quale erano - per lo più - immerse. Il Pontefice ha sempre molto insistito sul fatto che il Sinodo non è un’assemblea parlamentare dove si discute e si vota per maggioranza e minoranza. Il protagonista, in realtà, è lo Spirito Santo, che «muove e attira», come scrive sant’Ignazio nei suoi Esercizi spirituali. Il Sinodo è un’esperienza di discernimento spirituale alla ricerca della volontà di Dio sulla Chiesa.
Che questa visione del Sinodo sia anche una visione della Chiesa, non è da mettere in discussione. C’è una ecclesiologia - maturata negli anni grazie al Concilio Vaticano II - che oggi si dispiega. Per questo c’è bisogno di grande ascolto. Ascolto di Dio, nella preghiera, nella liturgia, nell’esercizio spirituale; ascolto delle comunità ecclesiali nel confronto e nel dibattito sulle esperienze (perché è sulle esperienze che si può far discernimento e non sulle idee); ascolto del mondo, perché Dio vi è sempre presente, ispirando, muovendo, agitando: abbiamo l’opportunità di diventare «una Chiesa che non si separa dalla vita», ha detto Francesco salutando i partecipanti intervenuti all’inizio del percorso sinodale (9 ottobre). Il Pontefice ha quindi sintetizzato così: «Siete venuti da tante strade e Chiese, ciascuno portando nel cuore domande e speranze, e sono certo che lo Spirito ci guiderà e ci darà la grazia di andare avanti insieme, di ascoltarci reciprocamente e di avviare un discernimento nel nostro tempo, diventando solidali con le fatiche e i desideri dell’umanità». Mettere la Chiesa in stato sinodale significa renderla inquieta, scomoda, tesa perché agitata dal soffio divino, che certo non ama safe zones, aree protette: soffia dove vuole.
Il modo peggiore per fare sinodo allora sarebbe quello di prendere il modello delle conferenze, dei congressi, delle “settimane” di riflessione, e immaginare che così tutto possa procedere in modo ordinato, anche cosmeticamente. Altra tentazione è l’eccessiva premura per la «macchina sinodale», perché tutto funzioni come previsto. Se non c’è il senso della vertigine, se non si sperimenta il terremoto, se non c’è il dubbio metodico - non quello scettico -, la percezione della sorpresa scomoda, allora forse non c’è sinodo. Se lo Spirito Santo è in azione - una volta ha affermato Francesco -, allora «dà un calcio al tavolo». L’immagine è riuscita, perché è un implicito riferimento a Mt 21,12, quando Gesù «rovesciò i tavoli» dei mercanti del tempio.
Per fare sinodo occorre cacciare i mercanti e rovesciare i loro tavoli. Non sentiamo oggi il bisogno di un calcio dello Spirito, se non altro per svegliarci dal torpore? Ma chi sono oggi i «mercanti del tempio»? Solo una riflessione intrisa di preghiera potrà aiutarci a identificarli. Perché non sono i peccatori, non sono i «lontani», i non credenti, e neanche chi si professa anticlericale. Anzi, a volte essi ci aiutano a capire meglio il tesoro prezioso che conteniamo nei nostri poveri vasi di argilla. I mercanti sono sempre prossimi al tempio, perché lì fanno affari, lì vendono bene: formazione, organizzazione, strutture, certezze pastorali. I mercanti ispirano l’immobilismo delle soluzioni vecchie per problemi nuovi, cioè l’usato sicuro che è sempre un «rattoppo », come lo definisce il Pontefice. I mercanti si vantano di essere «al servizio » del religioso. Spesso offrono scuole di pensiero o ricette pronte all’uso e geolocalizzano la presenza di Dio che è «qui» e non «lì».
Fare sinodo allora implica essere umili, azzerare i pensieri, passare dall’«io» al «noi», aprirsi. Colpisce in questo senso, ad esempio, quanto ha detto il Relatore generale del Sinodo, cardinale Jean-Claude Hollerich, nel suo saluto il 9 ottobre durante l’inaugurazione: «Devo confessare che non ho ancora idea del tipo di strumento di lavoro che scriverò. Le pagine sono vuote, sta a voi riempirle». Occorre vivere il tempo sinodale con pazienza e attesa, aprendo bene occhi e orecchie. «Effatà cioè: “Apriti!”» (Mc 7,34) è la parola chiave del Sinodo. Roland Barthes - da esimio linguista e semiologo - aveva capito che gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola servono a creare un linguaggio di interlocuzione con Dio fatto di ascolto e parola. Occorre comprendere che il Sinodo, a suo modo, condivide questa natura linguistica, di creatore di linguaggio. Ed è per questo che è importante il metodo, cioè il modo e le regole del cammino, soprattutto in funzione del pieno coinvolgimento.
In definitiva, la dinamica che si sviluppa nel Sinodo può essere descritta come un «giocarsi», un «mettersi in gioco». E, ad esempio, giocare a calcio non significa soltanto tirare una palla, ma anche correrle dietro, «essere giocati» dalle situazioni che si verificano in campo. Infatti, «il gioco raggiunge il proprio scopo solo se il giocatore si immerge totalmente in esso», come scrive Gadamer nel suo celebre saggio “Verità e metodo”. Il soggetto del gioco, dunque, non è il giocatore, ma il gioco stesso, che prende vita attraverso i giocatori. E questo è, in fondo, lo spirito del Sinodo: mettersi finalmente davvero in gioco seguendo la dinamica animata dallo Spirito.
Direttore “La Civiltà Cattolica”
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E STORIA: IL MESSAGGIO EVANGELICO, "IL FIGLIO DELL’UOMO", E IL "DIO AMORE", IL "DEUS CHARITAS"... *
Il nuovo libro di Ravasi. In parole e in opere: così si racconta Gesù
Il cardinal Ravasi ricostruisce la “biografia” di Cristo in una traversata della Scrittura che fa dell’Incarnazione un principio storico e interpretativo
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, mercoledì 27 ottobre 2021)
Nessuno meglio del cardinale Gianfranco Ravasi conosce la complessità con la quale è chiamato a confrontarsi chi voglia ripercorrere la vicenda di Gesù. È una tradizione ricchissima, che risale perlomeno alla Vita Iesu Christi data alle stampe nel 1474 dal certosino Ludolfo di Sassonia, precoce best seller di età umanistica del quale si contano 88 edizioni. Ma anche prima, anche nella lunga stagione del Medioevo la storia del Figlio dell’Uomo era stata raccontata più volte, attraverso le immagini della Biblia Pauperum diffusa ovunque in Europa, nelle cattedrali più sfarzose come nelle più remote pievi di campagna. Per non parlare del Novecento, che è l’epoca di Giovanni Papini e di François Mauriac, di Norman Mailer e di José Saramago. Il «pensoso palpito» del Cristo di Ungaretti si percepisce chiaramente anche nel tempo dell’inquietudine e della secolarizzazione, secondo una traiettoria che lo stesso Ravasi ripercorre con la consueta precisione all’inizio di questa sua Biografia di Gesù. Secondo i Vangeli (Cortina, pagine 256, euro 19,00, in libreria dal 28 ottobre). A dispetto dell’apparente semplicità, titolo e sottotitolo meritano di essere esaminati con attenzione, perché comporre una biografia di Gesù “secondo i Vangeli” significa anche addentrarsi in una “biografia dei Vangeli”.
Forte della sua autorità di biblista, il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura segue appunto questa strada, che è quella di un’esegesi tanto ragionata quanto appassionata. Non per niente, la “vita di Gesù” che più di ogni altra somiglia a questa di Ravasi è l’estroso Volete andarvene anche voi? di Luigi Santucci, uno scrittore che dello stesso Ravasi è stato amico e perfino complice sul piano spirituale e intellettuale. In quel libro, anziché ricondurre l’esistenza terrena di Cristo a uno schema narrativo, Santucci trasceglieva alcuni brani o versetti salienti e li commentava con la sua sensibilità di narratore e credente. Il metodo di Ravasi è un altro, ma risponde alla medesima logica di aderenza al testo.
C’è una biografia dei Vangeli, dicevamo, che coincide con la scoperta e con la valorizzazione della loro dimensione storica. Ravasi, com’è noto, non ha mai considerato come dato dirimente l’antichità del singolo frammento, preferendo insistere sul principio di storicità interna che preside alla struttura del canone neotestamentario, a sua volta convalidato dalle attestazioni di ambito profano (su tutte, il celebre dispaccio di Plinio il Giovane all’imperatore Traiano e la controversa ma comunque sintomatica menzione da parte di Giuseppe Flavio). Radicati nella storia, i Vangeli non sono tuttavia resoconti storici in senso stretto, ricorda Ravasi. Fin dal principio nel racconto della vita di Gesù gli elementi di cronaca si mescolano con l’interpretazione da parte della comunità dei discepoli, che in questo modo si fa partecipe dell’Incarnazione: proprio perché si è fatto uomo, Cristo può essere fatto oggetto di racconto; proprio perché è Dio, non può essere raccontato se non nella consapevolezza del mistero.
A rigore, la biografia dei Vangeli comincia fuori dai Vangeli stessi. Ravasi indica come punto germinale la dichiarazione di fede che, nella Pasqua dell’anno 57, Paolo riproduce nella Prima lettera ai Corinzi: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e fu sepolto. È risorto il terzo giorno secondo le Scritture e apparve a Cefa e quindi ai Dodici». La novità buona del kerygma si colloca qui, nell’indissolubilità tra Passione, Risurrezione e testimonianza proclamata dall’annuncio originario. Questo è anche il fuoco prospettico dell’intera Biografia di Gesù, nella quale Ravasi non si limita a passare in rassegna i quattro Vangeli, registrando le peculiarità di ciascuno dei Sinottici e argomentando la singolarità del testo di Giovanni.
L’aspetto più coinvolgente della sua Biografia di Gesù sta nell’individuazione dei grandi nuclei tematici che si ripresentando nelle sequenze narrative maggiori. Quelle riferite alla morte e Risurrezione, anzitutto, ma anche i racconti dell’infanzia, nei quali l’intonazione letteraria si fa più evidente, senza per questo inficiare la consistenza del fatto storico. Particolarmente convincente, fino a imporsi come l’aspetto più originale del libro, è la scelta di concentrarsi in modo specifico sulle due componenti essenziali del linguaggio di Gesù. La parola efficace delle parabole e il gesto eloquente dei miracoli sono indagati da Ravasi in capitoli carichi di spunti per la meditazione personale. «Le mani di Gesù - scrive tra l’altro l’autore - toccano ripetutamente carni malate, operano su persone sofferenti, s’intrecciano con le sue parole di speranza. Piaghe, organi paralizzati, corpi devastati o inerti sono ininterrottamente sotto l’azione di quelle mani».
Così come non comincia nei Vangeli, il racconto della vita di Gesù non si esaurisce in essi. A fianco del canone si situa infatti la lussureggiante biblioteca degli apocrifi, alla quale nel corso del tempo hanno attinto con larghezza artisti, poeti e narratori. Molte immagini alle quali siamo abituati e non poche figure fatte segno di devozione provengono da questa zona che Ravasi non manca di attraversare nelle ultime pagine del libro. Ancora una volta, si ritorna all’essenziale, ai giorni fatidici della condanna a morte e della Pasqua. Ripercorriamo così le peripezie di Pilato, che da personaggio storico diventa nella narrazione degli apocrifi esempio morale. E ci imbattiamo nella “correzione” più struggente, quella che nel Vangelo di Gamaliele rimedia al mancato incontro tra Gesù e la Madre. Episodio poi carissimo alla devozione popolare, a conferma di come la storia «di un Dio che si fa crocifiggere sul Golgota» (è la geniale sintesi di Borges) non smetta mai di essere raccontata.
* NOTARE BENE:
MESSAGGIO EVANGELICO E FIGLIO DELL’UOMO [nel senso di "Adamo" ed "Eva", di "Giuseppe" e "Maria"! - "Allora la folla gli rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo [="Filius hominis" = "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου"] deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?»"(Gv. 12,34=C.E.I.]).
LEZIONE DI "ANDROLOGIA" DI PAOLO DI TARSO. Prima lettera ai Corinzi, 11, 1-3: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «aner, andròs - uomo»], e capo di Cristo è Dio" .
Federico La Sala
QUESTIONE ANTROPOLOGICA (NON ANDROLOGICA): "ECCE HOMO".
LA GIUSTIFICAZIONE PER FEDE E IL PROBLEMA CRISTOLOGICO: CHI E’ GESU?!? E CHI IL SUO E NOSTRO "PADRE"?!
Catechesi sulla Lettera ai Galati: 9. La vita nella fede *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Nel nostro percorso per comprendere meglio l’insegnamento di San Paolo, ci incontriamo oggi con un tema difficile ma importante, quello della giustificazione. Cos’è, la giustificazione? Noi, da peccatori, siamo diventati giusti. Chi ci ha fatto giusti? Questo processo di cambiamento è la giustificazione. Noi, davanti a Dio, siamo giusti. È vero, abbiamo i nostri peccati personali, ma alla base siamo giusti. Questa è la giustificazione. Si è tanto discusso su questo argomento, per trovare l’interpretazione più coerente con il pensiero dell’Apostolo e, come spesso accade, si è giunti anche a contrapporre le posizioni. Nella Lettera ai Galati, come pure in quella ai Romani, Paolo insiste sul fatto che la giustificazione viene dalla fede in Cristo. “Ma, io sono giusto perché compio tutti i comandamenti!”. Sì, ma da lì non ti viene la giustificazione, ti viene prima: qualcuno ti ha giustificato, qualcuno ti ha fatto giusto davanti a Dio. “Sì, ma sono peccatore!”. Sì sei giusto, ma peccatore, ma alla base sei giusto. Chi ti ha fatto giusto? Gesù Cristo. Questa è la giustificazione.
Cosa si nasconde dietro la parola “giustificazione”, che è così decisiva per la fede? Non è facile arrivare a una definizione esaustiva, però nell’insieme del pensiero di San Paolo si può dire semplicemente che la giustificazione è la conseguenza della «misericordia di Dio che offre il perdono» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1990). E questo è il nostro Dio, così tanto buono, misericordioso, paziente, pieno di misericordia, che continuamente dà il perdono, continuamente. Lui perdona, e la giustificazione è Dio che perdona dall’inizio ognuno, in Cristo. La misericordia di Dio che dà il perdono. Dio, infatti, attraverso la morte di Gesù - e questo dobbiamo sottolinearlo: attraverso la morte di Gesù - ha distrutto il peccato e ci ha donato in maniera definitiva il perdono e la salvezza. Così giustificati, i peccatori sono accolti da Dio e riconciliati con Lui. È come un ritorno al rapporto originario tra il Creatore e la creatura, prima che intervenisse la disobbedienza del peccato. La giustificazione che Dio opera, pertanto, ci permette di recuperare l’innocenza perduta con il peccato. Come avviene la giustificazione? Rispondere a questo interrogativo equivale a scoprire un’altra novità dell’insegnamento di San Paolo: che la giustificazione avviene per grazia. Solo per grazia: noi siamo stati giustificati per pura grazia. “Ma io non posso, come fa qualcuno, andare dal giudice e pagare perché mi dia giustizia?”. No, in questo non si può pagare, ha pagato uno per tutti noi: Cristo. E da Cristo che è morto per noi viene quella grazia che il Padre dà a tutti: la giustificazione avviene per grazia.
L’Apostolo ha sempre presente l’esperienza che ha cambiato la sua vita: l’incontro con Gesù risorto sulla via di Damasco. Paolo era stato un uomo fiero, religioso, zelante, convinto che nella scrupolosa osservanza dei precetti consistesse la giustizia. Adesso, però, è stato conquistato da Cristo, e la fede in Lui lo ha trasformato nel profondo, permettendogli di scoprire una verità fino ad allora nascosta: non siamo noi con i nostri sforzi che diventiamo giusti, no: non siamo noi; ma è Cristo con la sua grazia a renderci giusti. Allora Paolo, per avere una piena conoscenza del mistero di Gesù, è disposto a rinunciare a tutto ciò di cui prima era ricco (cfr Fil 3,7), perché ha scoperto che solo la grazia di Dio lo ha salvato. Noi siamo stati giustificati, siamo stati salvati per pura grazia, non per i nostri meriti. E questo ci dà una fiducia grande. Siamo peccatori, sì; ma andiamo sulla strada della vita con questa grazia di Dio che ci giustifica ogni volta che noi chiediamo perdono. Ma non in quel momento, giustifica: siamo già giustificati, ma viene a perdonarci un’altra volta.
La fede ha per l’Apostolo un valore onnicomprensivo. Tocca ogni momento e ogni aspetto della vita del credente: dal battesimo fino alla partenza da questo mondo, tutto è impregnato dalla fede nella morte e risurrezione di Gesù, che dona la salvezza. La giustificazione per fede sottolinea la priorità della grazia, che Dio offre a quanti credono nel Figlio suo senza distinzione alcuna.
Perciò non dobbiamo concludere, comunque, che per Paolo la Legge mosaica non abbia più valore; essa, anzi, resta un dono irrevocabile di Dio, è - scrive l’Apostolo - «santa» (Rm 7,12). Pure per la nostra vita spirituale è essenziale osservare i comandamenti, ma anche in questo non possiamo contare sulle nostre forze: è fondamentale la grazia di Dio che riceviamo in Cristo, quella grazia che ci viene dalla giustificazione che ci ha dato Cristo, che ha già pagato per noi. Da Lui riceviamo quell’amore gratuito che ci permette, a nostra volta, di amare in modo concreto.
In questo contesto, è bene ricordare anche l’insegnamento che proviene dall’apostolo Giacomo, il quale scrive: «L’uomo è giustificato per le opere e non soltanto per la fede - sembrerebbe il contrario, ma non è il contrario -. [...] Infatti come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta» (Gc 2,24.26). La giustificazione, se non fiorisce con le nostre opere, sarà lì, sotto terra, come morta. C’è, ma noi dobbiamo attuarla con il nostro operato. Così le parole di Giacomo integrano l’insegnamento di Paolo. Per entrambi, quindi, la risposta della fede esige di essere attivi nell’amore per Dio e nell’amore per il prossimo. Perché “attivi in quell’amore”? Perché quell’amore ci ha salvato tutti, ci ha giustificati gratuitamente, gratis!
La giustificazione ci inserisce nella lunga storia della salvezza, che mostra la giustizia di Dio: di fronte alle nostre continue cadute e alle nostre insufficienze, Egli non si è rassegnato, ma ha voluto renderci giusti e lo ha fatto per grazia, attraverso il dono di Gesù Cristo, della sua morte e risurrezione. Alcune volte ho detto com’è il modo di agire di Dio, qual è lo stile di Dio, e l’ho detto con tre parole: lo stile di Dio è vicinanza, compassione e tenerezza. Sempre è vicino a noi, è compassionevole e tenero. E la giustificazione è proprio la vicinanza più grande di Dio con noi, uomini e donne, la compassione più grande di Dio verso di noi, uomini e donne, la tenerezza più grande del Padre. La giustificazione è questo dono di Cristo, della morte e risurrezione di Cristo che ci fa liberi. “Ma, Padre, io sono peccatore, ho rubato...”. Sì, ma alla base sei un giusto. Lascia che Cristo attui quella giustificazione. Noi non siamo condannati, alla base, no: siamo giusti. Permettetemi la parola: siamo santi, alla base. Ma poi, con il nostro operato diventiamo peccatori. Ma, alla base, si è santi: lasciamo che la grazia di Cristo venga su e quella giustizia, quella giustificazione ci dia la forza di andare avanti. Così, la luce della fede ci permette di riconoscere quanto sia infinita la misericordia di Dio, la grazia che opera per il nostro bene. Ma la stessa luce ci fa anche vedere la responsabilità che ci è affidata per collaborare con Dio nella sua opera di salvezza. La forza della grazia ha bisogno di coniugarsi con le nostre opere di misericordia, che siamo chiamati a vivere per testimoniare quanto è grande l’amore di Dio. Andiamo avanti con questa fiducia: tutti siamo stati giustificati, siamo giusti in Cristo. Dobbiamo attuare questa giustizia con il nostro operato.
*UDIENZA GENERALE, Mercoledì, 29 settembre 2021 (ripresaparziale).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Federico La Sala
Il Canto della Sibilla
di Carlo Finocchietti *
Il “Canto della Sibilla” è un testo liturgico di genere apocalittico che descrive i segni della fine del mondo e il giudizio universale. La sua versione cantata si è diffusa nell’Italia centro-meridionale (per esempio ad Alghero) e nella penisola iberica (Castiglia, Catalogna e Baleari). L’Unesco ha voluto dichiararla, con una decisione del 2010, uno dei Capolavori del Patrimonio Orale e Immateriale dell’Umanità.
La versione premiata dall’Unesco è quella diffusa nell’isola di Maiorca, dove la popolarità del Canto è immensa: si può dire che ogni parrocchia lo canti in forma teatrale nella celebrazione della notte di Natale, per annunciare la venuta del Salvatore e il suo ritorno nel Giorno del Giudizio.
Il testo del canto è tratto dagli Oracoli Sibillini ed è stato utilizzato in un sermone dell’africano Quodvultdeus. Venerato come santo dalla Chiesa cattolica, Quodvultdeus (letteralmente “quello che Dio vuole”), è stato un vescovo berbero di Cartagine al tempo dell’invasione dei Vandali di Genserico e poi profugo a Napoli, dove è morto verso il 453. Ma è stato soprattutto il suo maestro e amico Agostino che ha reso celebre il testo inserendolo nella sua opera De Civitate Dei (La città di Dio), con il famoso incipit “Judicii signum tellus sudore madescet”.
La prefigurazione del Giorno del giudizio è contenuta nei testi di molti Profeti. Ma saranno anche le Sibille che proporranno questo genere di profezie. Le Sibille erano profetesse e sacerdotesse dotate di poteri divinatori e capaci di predire il futuro su ispirazione di divinità pagane. Le più conosciute erano l’Eritrea, la Cumana e la Delfica. Il mondo cristiano, basandosi sulle concordanze tra profezie bibliche e vaticini pagani, assimilerà progressivamente le Sibille e le porrà sullo stesso livello dei Profeti. Fino ad arrivare alla consacrazione finale in Vaticano, dove, nell’Appartamento Borgia, dodici Sibille sono affrescate in coppia con altrettanti Profeti.
Il Canto della Sibilla trova analogie con il Dies Irae, altro testo che ha avuto grande fortuna liturgica e musicale. Anche Tommaso da Celano si appoggia all’autorità della Sibilla: “Giorno dell’ira, quel giorno / che dissolverà il mondo terreno in cenere, / come annunciato da Davide e dalla Sibilla”.
Luca Signorelli fa spiegare dalla Sibilla Eritrea e dal profeta David i segni del “Finimondo” affrescato nella Cappella di San Brizio del Duomo di Orvieto. Andrea Milanesi ha scritto che il Canto della Sibilla continua a rinnovare la sua straordinaria impronta di teatrale drammaticità, esaltata dagli sconvolgenti riferimenti al giudizio finale e al caos degli elementi (fuoco celeste, tremore della terra, eclissi lunare e solare): Il portato drammatico e trascendentale evocato da queste straordinarie melodie e la vertigine apocalittica risvegliata dalle profezie e dagli oracoli pronunciati da queste misteriose figure sfociano nelle domande esistenziali e nelle riflessioni sul destino dell’uomo, che trovano risposta ultima nella speranza della nuova prospettiva di salvezza eterna inaugurata con la nascita di Gesù Cristo.
Leggiamo l’Oracolo sibillino citato da Sant’Agostino in una traduzione italiana.
Come segno del Giudizio la terra si bagnerà di sudore. / Dal cielo verrà il re che sarà nei secoli, certamente per giudicare con la sua presenza la carne e il mondo. / Perciò l’infedele e il fedele vedranno Dio in alto con i santi proprio alla fine del mondo. / Così appariranno con la carne le anime, che egli stesso giudica, quando la terra giace incolta tra densi roveti. / Gli uomini getteranno via gli idoli e ogni ricchezza; il fuoco brucerà la terra, il mare e il cielo e diffondendosi infrangerà le porte del tetro Averno. / Ma i corpi di tutti i santi saranno illuminati dalla luce della libertà, e una fiamma eterna brucerà i peccatori. / Allora, svelando le proprie azioni nascoste, ognuno manifesterà i suoi segreti, e Dio dischiuderà i cuori alla luce. / Allora vi sarà lutto e tutti faranno stridere i denti. / Si oscura lo splendore del sole e cessa la danza delle stelle. / Rotolerà il cielo e il chiarore lunare si spegnerà. / Abbasserà i colli, innalzerà dalla loro profondità le valli. / Tra le cose degli uomini non vi sarà più nulla di sublime o di alto. / Già i monti sono abbassati al livello dei campi e tutte le cerulee distese del mare scompariranno, / la terra ridotta in frantumi perirà: così parimenti fonti e fiumi sono seccati dal fuoco. / Ma allora dall’alto del cielo la tromba farà venir giù un suono lugubre, piangendo la miserabile catastrofe e i vari travagli, la terra spaccandosi farà vedere il caos infernale. / E qui dinanzi al Signore compariranno insieme i re e dal cielo ricadrà un fiume di fuoco e di zolfo.
* Fonte: "Visioni dell’Aldilà", 4 aprile 2019 (ripresa parziale, senza immagini).
22 febbraio - Ore 19.00: Il Canto della Sibilla è un testo liturgico con melodia gregoriana che ebbe una grande diffusione durante il Medioevo nel sud d’Europa e che si interpreta tradizionalmente durante la Messa della Vigilia di Natale nelle chiese di Maiorca (tra i quali spiccano quelli interpretati nel Monastero di Lluc e nella Cattedrale di Palma) e nella Cattedrale di Alghero in Sardegna.
Maiorca e Alghero sono gli unici due luoghi nei quali il canto rappresenta una tradizione che si protrae dal Basso Medioevo fino ai giorni nostri, essendo rimasta immune anche all’abolizione avvenuta nel Concilio di Trento (1545-1563) e a qualsiasi altra vicissitudine. Il 16 novembre 2010 fu dichiarato dall’UNESCO Patrimonio Immateriale dell’Umanità. Precedentemente era stato dichiarato Bene di Interesse Culturale (BIC) dal Consiglio Insulare di Maiorca il 13 dicembre 2004.
* Accademia di Spagna (ripresa parziale).]
FREUD E "PROFETI E SIBILLE" DI SIGNORELLI:
"[...] Sigmund Freud giungeva a Orvieto la sera dell’8 settembre 1897. La mattina dopo, «presto», annotava, per la moglie, le prime impressioni in una cartolina postale:
In quell’occasione, acquistava alcune fotografie, ancora oggi conservate nel Museo Freud di Londra: il panorama della città sotto la neve visto da Sud Ovest, alcuni particolari degli affreschi di Signorelli (Profeti e sibille, Empedocle, il particolare dei Dannati col diavolo alato che porta in volo sulle spalle una donna, la Resurrezione della carne), una panoramica delle tombe etrusche [...]"
(cfr. Lucio Riccietti, Sigmund Freud a Orvieto negli anni della scoperta e della dispersione del patrimonio storico artistico, Orvieto, 2017).
FLS
PSICOANALISI, ANTROPOLOGIA, E MATEMATICA. NOTE PER RISCRIVERE UN “ROMANZO FAMILIARE” NUOVO...
ACHERONTA MOVEBO. “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” (Se non potrò piegare gli Dei, muoverò Acheronte: Virgilio, Eneide, VII, 312). A partire da questa citazione virgiliana, volendo, è possibile tentare di "rileggere" l’intero percorso della ricerca di Freud. Ricordando con lo stesso Freud della "Psicopatologia della vita quotidiana" (1901), l’altra importante citazione sempre ripresa dall’Eneide (IV, 625 ) : "Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor" (che nasca un giorno dalle mie ceneri un vendicatore), si comincia a capire cosa c’è nel "coraggio degli inizi" (Rubina Giorgi, 1977) e in questa identificazione di Freud con Giunone/Era (non solo la moglie di "Zeus", ma anche la sua stessa madre) con Didone e con Annibale, il grande nemico di Roma.
IL PROBLEMA DEL LIBERATORE. L’esergo dell’Interpretazione "dichiara" semplicemente la "natura" teologico-politica del suo progetto: cercare di fermare il matrimonio di Enea e la nascita della nuova Troia (Roma)! Con la stessa determinazione di Giunone/Era (Virgilio), Freud lavora a portare alla luce della coscienza europea la struttura edipica del sogno del Dio greco e cattolico-romano (di Platone come di Paolo di Tarso), e venir fuori dall’orizzonte della tragedia (come Dante e lo stesso Nietzsche). Con l’aiuto di "Zeus/Giove"" e di "Era/Giunone", pur tra mille difficoltà, egli riesce a venir fuori dall’inferno e a "nascere, di nuovo"! Nel 1938 arriva a Londra e porta a compimento il suo ultimo lavoro "L’uomo Mosè e la religione monoteistica". Un grande respiro di sollievo! Morirà l’anno successivo.
ANTROPOLOGIA, MATEMATICA, E PSICHIATRIA. Pur avendo Freud dato già dal 1907 chiare indicazioni per lavorare congiuntamente a una nuova educazione civica e a una nuova educazione sessuale per una "società sana" (Erich Fromm, 1955), l’Italia (comel’Europa e l’intero Pianeta) naviga ancora in un oceano illuminato da una diffusa cosmoteandria.
"UNA VOCE” FUORI DAL CORO. Come ha scritto Franca Ongaro Basaglia ("Una voce. Riflessioni sulla donna", il Saggiatore, 1982), continuiamo a fare "un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" e a leggere per lo più e sempre il vecchio "romanzo familiare", quello edipico! Che dire?! Che fare?! Non è meglio uscire dal "sonnodogmatico"?!
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, MESSAGGIO EVANGELICO, COSTITUZIONE, E SIMBOLI.... *
I simboli e i singoli, laicità e buon senso.
Ma la libertà non è negativa
di Giuseppe Anzani (Avvenire, venerdì 10 settembre 2021)
Il crocifisso torna davanti ai giudici. È toccato alla Corte suprema di Cassazione a Sezioni unite dire se quel simbolo può stare appeso o no alle pareti di un’aula scolastica. Regolamenti, leggi, sentenze? L’orizzonte si apre a temi più grandi, irrompono parole come libertà religiosa, laicità dello Stato, cultura e tradizione e comune sentire e individuale dissentire; e infine sullo sfondo, volere o no, resta quel mistero immenso che due millenni fa ha spaccato in due la storia del mondo.
E dire che l’origine del caso è un episodio in apparenza banale: l’assemblea di classe degli studenti delibera l’esposizione del crocifisso nell’aula, un docente non lo vuole e lo stacca fisicamente durante le sue ore di lezione; riceve una sanzione disciplinare, la impugna. La causa percorre tutti i gradi e approda alle Sezioni unite, che decidono sostanzialmente così: l’aula può accogliere il crocifisso, quando la comunità scolastica decide in autonomia di esporlo; ciò non comporta discriminazione; il docente dissenziente non ha nessun potere di veto; deve tuttavia cercarsi una soluzione che rispetti la sua «libertà negativa di religione». Come a dire, in sottinteso, da ultimo: usate il buon senso.
L’avversione al crocifisso scoppia episodicamente per iniziativa solitaria di individui dei quali è difficile capire se soffrano di allergia al senso religioso altrui o perseguano un disegno demolitore. Sono casi rari, ma eclatanti.
Quello dello scrutatore elettorale, quello del giudice che rifiutava di tenere udienza, quello della donna atea che per far togliere il crocifisso dalla scuola portò il caso fino alla Corte europea dei Diritti umani (2011); e ne ebbe sentenza che l’esposizione del crocifisso «non è sufficiente a condizionare e comprimere la libertà di soggetti adulti e a ostacolare l’esercizio della funzione docente».
Bisognerà dunque riflettere sulla autenticità di simili dichiarate ’allergie’; la legge fondamentale sulla scuola (decreto legislativo n. 297/1994) garantisce ai docenti «autonomia didattica e libera espressione culturale», ma nel «rispetto della coscienza civile e morale degli alunni». Sono gli alunni, infatti, il corpo vivo della comunità scolastica; è in funzione di loro che si fanno cattedre, e non viceversa. Il gesto di togliere a forza, da sé, il crocifisso voluto dagli alunni non pare esattamente un atto educativo.
Libertà? Colpisce la frase «libertà negativa» usata dalla Corte. Se ne intuisce l’intento protettivo, ma il rispetto del ’negativo’ può imporre di azzerare ogni positivo? La libertà del no può annientare la libertà altrui del sì? Libertà è essenzialmente una dimensione positiva della persona umana, è un «agere licere».
La libertà è espressione, non compressione. Se ha un limite, esso è dato dalle contigue libertà, e il suo traguardo è l’armonia. Così la libertà religiosa trova presidio in un concetto di laicità che è tutto il contrario di una asfaltatura dei simboli religiosi per non turbare gli irreligiosi. Chi non s’intona al canto è libero di non cantare, ma non può pretendere di zittire il coro. Una laicità castrante non è nella nostra civiltà, non è nella nostra legge, non è nella nostra libertà. Ma infine, per chi ha fede, il nocciolo non è neppure il crocifisso-arredo. È il Crocifisso, il Vivente, e nessuno può toglierlo dal mondo, e nessuno ce lo stacca dal cuore.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
Federico La Sala
Il tema.
Una domanda, dieci tracce: ecco come le diocesi saranno coinvolte nel Sinodo
Nel Documento preparatorio per il Sinodo dei vescovi il "questionario" per la consultazione dal basso che vedrà protagoniste tutte le Chiese locali del mondo
di Giacomo Gambassi (Avvenire, martedì 7 settembre 2021)
Un’unica, impegnativa domanda. E poi dieci tracce per declinarla nel concreto e capire come ciascuna diocesi sia capace di “camminare insieme”. Ha i tratti di un esame di coscienza la grande consultazione “dal basso” di tutta la Chiesa che aprirà il processo sinodale voluto da papa Francesco e che sarà il primo tassello per giungere a celebrare il Sinodo dei vescovi sul tema “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione” in programma nell’ottobre 2023 a Roma.
L’ascolto delle diocesi del mondo è ai nastri di partenza e coinvolgerà ogni angolo del pianeta da ottobre ad aprile. Un’avventura inedita «con obiettivi di grande rilevanza per la qualità della vita ecclesiale», spiega il Documento preparatorio diffuso ieri che intende «mettere in moto le idee, le energie e la creatività di tutti coloro che parteciperanno all’itinerario».
Il testo è soprattutto una bussola per ogni territorio e per avviare la consultazione. A partire dall’interrogativo «fondamentale», come viene definito, a cui tutte le diocesi sono chiamate a rispondere: «Una Chiesa sinodale, annunciando il Vangelo, “cammina insieme”: come questo “camminare insieme” si realizza oggi nella vostra Chiesa particolare? Quali passi lo Spirito ci invita a compiere per crescere nel nostro “camminare insieme”?». L’intento è «raccogliere le esperienze di sinodalità vissuta, coinvolgendo i pastori e i fedeli a tutti i livelli». In particolare, specifica il Documento, verrà «richiesto il contributo degli organismi di partecipazione delle Chiese particolari, specialmente il Consiglio presbiterale e il Consiglio pastorale». E ogni diocesi dovrà fare una sintesi del «lavoro di ascolto e discernimento» in dieci pagine al massimo.
Per favorire il confronto, vengono proposte alcune serie di domande “pratiche” racchiuse all’interno di dieci ambiti tematici. Così, ad esempio, ogni diocesi dovrà riflettere su «chi cammina insieme» o chi sono i suoi «compagni di viaggio anche al di fuori del perimetro ecclesiale». Oppure valutare come «vengono ascoltati i laici, in particolare giovani e donne»; in che modo si recepisce «il contributo di consacrati o consacrate»; come si accoglie «la voce delle minoranze, degli scartati, degli esclusi». Ancora. Le Chiese locali sono invitate a capire se il proprio «stile comunicativo» è «libero e autentico, senza doppiezze e opportunismi», a promuovere «la partecipazione attiva di tutti i fedeli alla liturgia», ad analizzare «come la preghiera e la celebrazione orientino il “camminare insieme”» ma anche «le decisioni più importanti».
Poi c’è la sfida della missione che chiama chiunque. Da qui i quesiti su come ogni battezzato sia «protagonista» o in quale maniera i credenti impegnati nel sociale siano sostenuti dalla comunità. Quindi la necessità del dialogo nella Chiesa e con l’ambito civile: come vengono affrontate le divergenze di visione, i conflitti? come promuoviamo la collaborazione con le diocesi vicine? come la Chiesa impara da altre istanze della società: il mondo della politica, dell’economia, della cultura, i poveri?, sono alcune domande. Non manca il richiamo alla vicinanza ecumenica con le altre confessioni cristiane o alla formazione.
E fra gli interrogativi ci sono anche quelli sui “vertici” nella Chiesa: come viene esercitata l’autorità? come si promuove la partecipazione alle decisioni in seno a comunità gerarchicamente strutturate?
Ciò che al Papa sta a cuore è «una conversione sinodale» che consenta di «immaginare un futuro diverso per la Chiesa e per le sue istituzioni all’altezza della missione ricevuta». Del resto, dice il Documento citando san Giovanni Crisostomo, «Chiesa e Sinodo sono sinonimi».
ANTROPOLOGIA, TEOLOGIA, E CRISTIANESIMO. Michelangelo con Francesco d’Assisi e Dante o "con Agostino e Paolo nella mente"?!
CAPPELLA SISTINA
Il montaggio patetico della Salvezza
Giovanni Careri, Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina, Quodlibet: gli affreschi di Michelangelo in una lettura warburghiana, e eisensteiniana, che li restituisce quale organismo vivente attraversato da dialettiche «formule di pathos»
di Corrado Bologna *
«Il buon Dio vive nei dettagli», diceva Aby Warburg. Il suo progetto era di connettere dettagli e affinità, ombre delle idee fermate nei gesti delle opere d’arte, per edificare un atlante iconologico reticolare, capace di restituire un’intera morfologia della civiltà ricostruendo il gioco di energie e di opposizioni dinamiche che dà forma e senso alle immagini. S’innamorò della Ninfa riconoscendola nel movimento seducente della fanciulla che il Ghirlandaio aveva colto al volo come una farfalla nella Cappella Tornabuoni di Santa Maria Novella. Poi lo inseguì per anni, quel gesto, sui sarcofaghi, nei dipinti, in innumerevoli minuzie ricondotte genialmente a «far sistema» in un percorso mentale e culturale vastissimo.
Invece, di Michelangelo, il più grande allievo di Ghirlandaio, Warburg si occupò poco. Però almeno in due tavole dell’ormai celebre Atlante di Mnemosyne, la 53 e la 56, pose implicitamente in rapporto, accostandoli per esaltarne il dinamismo semantico, alcuni dettagli degli affreschi della Sistina, i giovanili Antenati di Cristo nelle lunette della volta (1511-’12) e il maturo Giudizio Universale (1535-’41). In essi intuì forse una traccia di quel maestoso, occulto progetto che Giovanni Careri definisce «fabbrica del corpo glorioso», ricostruendone la vicenda in un libro densissimo, di alto profilo culturale, elegantemente warburghiano nel metodo interpretativo e nell’ampiezza della documentazione (Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina, Quodlibet, pp. 293, € 28,00).
Questo libro affascinante, che «decostruisce» la Cappella smontandone il moto figurativo depositato lungo trent’anni di straordinaria concentrazione da uno dei più grandi artisti di ogni tempo, mi riporta alla memoria un piccolo capolavoro quasi dimenticato (e che conto di riproporre presto), La cattedrale come spazio dei tempi, pubblicato da Friedrich Ohly nel 1972. Ohly propose di «leggere» la Cattedrale di Siena come «immagine architettonica di storia della salvezza che parla attraverso le sue forme foggiate in gradi biblici al pari, su un altro piano, della cronaca universale nella letteratura e della rappresentazione del mondo figurata». Secondo la sua acuta interpretazione quello spazio sacro produce l’«inglobamento del passato e del futuro in un tutto che sta dinanzi agli occhi», recuperando l’effetto emozionale e devozionale di un «processo di visualizzazione» per cui «il fluire della storia diventa un bene stabile». Nella Cattedrale di Ohly, come nella Sistina di Careri, davvero «la storia del mondo si evolve in rappresentazione del mondo»: l’edificio si trasforma nello «spazio figurativo e temporale di una mappa mundi cosmica».
Nella Sistina, invece che la riproduzione dell’universo, il tema è la storia della Salvezza. Giovanni Careri dimostra con erudizione e sottigliezza ermeneutica quali energie spirituali, teologiche, ideologiche, si confrontano e si scontrano in quel luogo straordinario, in cui Michelangelo concentrò uno sforzo titanico, non solo artistico ma anche ermeneutico e teologico, depositandovi un pensiero nutrito dalla corrente degli Spirituali stretti intorno al cardinale Reginald Pole a Viterbo (con lui, a leggere il Beneficio di Cristo, c’erano anche Vittoria Colonna e Sebastiano dal Piombo).
Michelangelo raffigura in cifra, con Agostino e Paolo nella mente, «il passaggio dalla filiazione carnale alla filiazione divina dal punto di vista della storia cristiana, come pure la necessità antropologica di definire l’identità cristiana in rapporto al suo "altro"». Rappresenta così la salvezza dell’umanità che si staglia in un campo di tensione fra il tempo messianico e il paolino katéchon, la frenante forza d’inerzia con cui la temporalità storica incarnata negli Antenati, cioè insieme «gli ebrei "ostinati"» e «il cristiano negligente», ne ritarda l’adempimento. In questo senso la Cappella Sistina è attraversata da energie formidabili, e si trasforma in un teatro della memoria, in un dispositivo mnemotecnico di metamorfosi interiore simile a quello che Giulio Camillo ideò negli stessi anni: il percorso che lo spettatore compie nello spazio vivo, con il suo corpo e il suo sguardo, è un cammino iniziatico. L’«istanza del soggetto» coinvolge sia chi dipinge sia chi osserva, giacché «il corpo glorioso» dell’uomo può venir `fabbricato’ attraverso un’«inclusione» spirituale, che Careri definisce «conformazione per somiglianza» rispetto al corpo di Cristo.
Sono certo che a Warburg, e anche ad Ohly, sarebbe piaciuto questo Michelangelo segreto, colmo di straordinarie Pathosformeln, riportato alla luce da Giovanni Careri. Il metodo con cui è impostata la sua colta, molto documentata e originale «antropologia della Cappella Sistina», si fonda sull’«analisi cinematica della pittura» e sul riconoscimento di un «"montaggio" delle immagini messo a punto da Michelangelo stesso», che «il montaggio di Warburg non fa che riprendere e sviluppare». Questo montaggio è di fatto il cinema mentale dell’artista, che lo storico riporta in vita attraverso un’antropologia dell’immagine, e soprattutto del suo intrinseco dinamismo.
La Sistina è compresa come un organismo vivente, in cui le immagini invitano l’osservatore all’«attualizzazione del significato teologico e devozionale» che accennano, grazie al «montaggio patetico» con cui sono connesse. Proprio di un «montaggio patetico» che coinvolge le percezioni fisiche, le immagini mentali, gli affetti di chi entra nell’opera d’arte con il corpo e con la mente, Giovanni Careri parlava nel suo primo libro, Voli d’amore. Architettura, pittura e scultura nel «Bel composto» di Bernini. E anche allora si richiamava a quello che il grande regista russo Sergej Eizenstejn definiva «il montaggio delle attrazioni», «un’operazione estetica di scomposizione e ricomposizione di un molteplice eterogeneo che si compie nello spettatore».
Rimeditando l’intuizione di Eizenstejn, il quale come Warburg (probabilmente senza conoscerlo) parlava di «formule del pathos», Careri coglie, nel corpo vivente della Sistina, «la dinamica indotta dal passaggio da un sistema all’altro», e rilegge il Giudizio universale, accanto alle pareti di Perugino, Botticelli, Signorelli, Ghirlandaio, «come un’uscita dalle categorie visive della storicità umanista che regolano i cicli degli affreschi quattrocenteschi rispetto ai quali il grande affresco della parete di fondo viene non solo ad aggiungersi, bensì a "montarsi"».
Il Giudizio del Michelangelo maturo è in dialogo anche con la volta del Michelangelo trentenne: e Careri dimostra, con un’argomentazione serrata e molto solida, come gli Antenati, nelle lunette del soffitto, «incarnano il ruolo di contrappeso terreno al movimento d’ascensione e di caduta dei personaggi eroici», mentre il gesto possente del Cristo nel Giudizio, di fronte allo spettatore, diviene «il nucleo generativo di una serie di onde, espressione di una forza che attraversa i corpi, li lega fra loro e dà loro forma». Cristo, con «l’impulso dato dalla furia del movimento», nella serpentina del suo corpo immenso, non solo condanna i reprobi, ma accoglie e salva i giusti. Quel gesto costituisce un vortice ambivalente, fra parousia e terribilità, a cui gli astanti, nel dipinto e nello spazio della cappella, possono corrispondere compiendo l’«assunzione di somiglianza» che otterrà la loro «conformazione» gloriosa. Il tempo del Giudizio è quindi il paolino tempo che resta, «un tempo che si contrae e comincia a finire». E un’immagine dialettica, perfettamente benjaminiana: «corrisponde all’orizzonte temporale verso il quale gli affreschi delle pareti e quelli della volta dispiegavano le loro narrazioni e i loro annunci, ancor prima che il grande affresco della parete dell’altare venisse a dar figura visibile a questo punto di fuga del tempo, sino ad allora implicito». In una simile catastrofe il «punto di fuga del tempo della storia» si rovescia, messianicamente, «nel punto di vista privilegiato per comprenderla».
* Fonte: Quodlibet -«Alias - il manifesto», 25 aprile 2021
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
PER LA PACE PERPETUA. ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO....
MICHELANGELO PER UN RITRATTO A PROUST: UNA ILLUMINANTE INDICAZIONE DI WALTER BENJAMIN.
Federico La Sala
In cammino con Dante/20.
Raab e Cunizza, due donne generose nell’amore
Il IX canto del Paradiso ha come protagoniste la prostituta biblica che salvò Giosuè e la sorella di Ezzelino nota al suo tempo per i mariti e gli amanti: e Dante anticipa lo stupore di trovarle lassù
di Carlo Ossola ( Avvenire, domenica 1 agosto 2021)
Si direbbe che Dante, nella Commedia, abbia scelto di attestare il canone biblico femminile ricordato da Adam Scoto: «Eva, Sara, Rebecca, Lia, Rachel, Bala, Zelpha, Thamar, Raab, Debbora, Ruth, Anna, Bethsabee, Esther, Iudith, Elisabeth» (De tripartito tabernaculo, pars II, cap. VI, in PL, 198, 693B). Esse sono quasi tutte menzionate, spesso in Paradiso (o nel Paradiso Terrestre) e con ruoli eminenti: Lia e Rachele su tutte; nell’Empireo, al più alto grado, seggono Eva la progenitrice e Maria la rigeneratrice; e subito sotto, elette a far corona a Beatrice: «Ne l’ordine che fanno i terzi sedi, / siede Rachel di sotto da costei [Eva] / con Bëatrice, sì come tu vedi. / Sarra e Rebecca, Iudit e colei [Ruth] / che fu bisava al cantor che per doglia / del fallo disse: “Miserere mei”» (Par XXXII, 7-12).
Un rilievo speciale è dato, nel cielo di Venere, a Raab, la prostituta che diede ospitalità agli inviati di Giosuè, li nascose e li salvò dai nemici: «In seguito Giosuè, figlio di Nun, di nascosto inviò da Sittim due spie, ingiungendo: “Andate, osservate il territorio e Gerico”. Essi andarono ed entrarono in casa di una donna, una prostituta chiamata Raab, dove passarono la notte. Ma fu riferito al re di Gerico: “Ecco alcuni degli Israeliti sono venuti qui questa notte per esplorare il paese”. Allora il re di Gerico mandò a dire a Raab: “Fa’ uscire gli uomini che sono venuti da te e sono entrati in casa tua, perché sono venuti per esplorare tutto il paese”. Allora la donna prese i due uomini e, dopo averli nascosti, rispose: “Sì, sono venuti da me quegli uomini, ma non sapevo di dove fossero. Ma quando stava per chiudersi la porta della città al cader della notte, essi uscirono e non so dove siano andati. Inseguiteli subito e li raggiungerete”. Essa invece li aveva fatti salire sulla terrazza e li aveva nascosti fra gli steli di lino che vi aveva accatastato» (Giosuè, 2, 1-6).
In un Breviarium in Psalmos (attribuito a sant’Agostino e a san Girolamo; cfr. PL, 26, 1085A) si legge addirittura - tanta è la forza dell’exemplum biblico: «Ergo anima nostra illa Raab, illa meretrix, potest concipere, et parere Salvatorem» (Psalmus LXXXVI). Anche la nostra anima, prostituta essa stessa, avvinghiata al peccato, può dar ricetto e generare il Salvatore! È certamente questo il caso più evidente dell’efficacia delle opere, la sollecitudine dell’accoglienza già ricordata nel Vangelo (Mt 25, 34-40) e ribadita da san Paolo nella lettera agli Ebrei: «Per fede Raab, la prostituta, non perì con gl’increduli, avendo accolto con benevolenza gli esploratori» (11, 31); e ripetuta da Beda e da molti altri: «Denique Raab meretrix, nonne ex operibus iustificata est, suscipiens nuntios?» (“E infine Raab, la prostituta, non fu forse giustificata e salva per le sue opere, lei che accolse gli esploratori?”; Allegorica expositio in Samuelem, in PL, 91, 650C): secondo, del resto, il detto evangelico: «Non chiunque dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli » (Mt 7, 21). E Beatrice stessa per Dante non è forse nel poema - con splendida definizione - «opra di fede»? (Purg XVIII, 48).
Dopo tanti affanni, e desolazioni, e cautele e astuzie, finalmente Raab «si tranquilla» in Paradiso: il termine, accostato a “scintilla”, è una delle rime più affascinanti di tutta la Commedia, come ben vide il Tommaseo: «E non a caso, credo io, dice che la donna di Gerico in quel pianeta alla fine si tranquilla scintillando come raggio di sole in acqua limpida [113-115], si tranquilla dall’irrequieto dibattere delle fiamme e degli amori suoi vaghi» (DDP, ad locum). Non diversa è la storia - che precede nel canto IX del Paradiso - di Cunizza da Romano, figlia di Ezzelino II, morta a Firenze dopo il 1279, donna dai molti amori e di tanti pentimenti, della quale può valere il ritratto in versi che ci lascia Ezra Pound: «e sesta figlia Madonna Cunizza / dapprima sposa a Riccardo di San Bonifacio / e poi da Sordello sottratta al marito. / E con lui giacque in Treviso / finché lui non ne venne cacciato. / E lei scappò con Bonio che era un soldato / pazza d’amore / e andò da un posto all’altro / spassandosela assai / spendendo e spandendo / finché Bonio fu ucciso una domenica / e lei passò a un signore di Braganza / e infine mise su casa in Verona» (I Cantos, XXIX, trad., per questo passo, di Giovanni Giudici).
Più volte presente nei Cantos (VI, LXXIV, LXXVI, LXXVIII), Cunizza è, per Pound, l’esempio stesso di una gratuità totalmente spesa nell’amore, un amore così pieno che non lascia - nella letizia - traccia di rimorso: «Cunizza fui chiamata, e qui refulgo / perché mi vinse il lume d’esta stella; / ma lietamente a me medesma indulgo / la cagion di mia sorte, e non mi noia; / che parria forse forte al vostro volgo» (Par IX, 3236). Quell’«indulgere a sé» è davvero “forte” ma risponde, osserva nel suo commento Benvenuto da Imola, a un impulso naturale: «essa dice bene, dacché gli ignoranti si sorprendono che una famosa prostituta sia beata, non considerando che questo vizio è naturale, e comune e quasi necessario nei giovani». Egli fa eco, qui, a Boccaccio, che negli stessi termini si era espresso, nelle sue Esposizioni, quanto agli amori di Paolo e Francesca: «Sono adunque dannati in questo cerchio, come assai fu dichiarato leggendo la lettera, i lussuriosi; intorno al vizio de’ quali è da sapere che la lussuria è vizio naturale, al quale la natura incita ciascuno animale» (commento al canto V dell’Inferno). E con più profonda verità di fede il Tommaseo: «indulgo: perdono a me il mio fallire che mi fu perdonato».
Così infine Giovanni Giudici, che da Pound eredita, volle intitolare la sua “satura drammatica” del Paradiso Perché mi vinse il lume d’esta stella (1991), aggiungendo, ai versi di questi, il proprio toccante e sommesso congedo: «Perché di tanta pena / L’amore sia narrato / La quasi santità / Del nostro unico peccato».
#EDUCAZIONE CIVICA
#EDUCAZIONE SESSUALE.
#Memoria della
#Legge di #Apollo
(#Eschilo):
«non è la madre la #generatrice di quello che è chiamato suo figlio;
ella è la nutrice del germe in lei inseminato.
Il #generatore è colui che la feconda».
ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA. IL PROBLEMA DEL "DE DOMO DAVID" E DEL "COME NASCONO I BAMBINI", OGGI... *
DE DOMO DAVID. Gesù "Venne a Nàzaret, dove era cresciuto (..) Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?»
La fedeltà e il riscatto /16.
E il respiro divenne bambino
di Luigino Bruni *
«Così Boaz prese in moglie Rut. Egli si unì a lei e il Signore le accordò di concepire: ella partorì un figlio. E le donne dicevano a Noemi: "Benedetto il Signore, il quale oggi non ti ha fatto mancare uno che esercitasse il diritto di riscatto. Il suo nome sarà ricordato in Israele! Egli sarà il tuo consolatore e il sostegno della tua vecchiaia, perché lo ha partorito tua nuora, che ti ama e che vale per te più di sette figli"» (Rut 4,13-15). Tornano in scena le donne di Betlemme, come coro in una tragedia greca. Il libro di Rut è molte cose, tutte belle, ma bellissime sono le donne. Prima di iniziarne il commento sapevo che Rut era un libro al femminile; non pensavo però lo fosse così intensamente. Una grande sorpresa, ma anche un modo per onorare le donne che in questo tempo di pandemia hanno sorretto, con la loro cura, il mondo. Le donne donano, ancora una volta, parole meravigliose a Noemi, e a noi. L’ambiente della benedizione è ancora la reciprocità: Rut mette al mondo un bambino, le donne dicono che quel bambino riscatterà Noemi, amata da Rut, che per lei vale come molti figli. Una danza d’amore stupenda, una circolazione di hesed, di agape e di philia. Reciprocità diretta e indiretta, autentica protagonista del libro.
In un libro tutto centrato attorno alla grande figura-istituzione del goèl, il riscattatore-redentore, alla fine scopriamo che il goèl non è solo Boaz: l’altro goèl è il bambino. Quel bambino riscatterà le due donne, e sarà il loro consolatore, il loro hiphil, colui che, letteralmente, "fa tornare il respiro", colui che "ridona il fiato", il rianimatore.
È molto bella questa definizione del bambino di Rut come goèl e come rianimatore. Ogni giorno assistiamo nelle nostre famiglie all’arrivo di bambini che nascendo ridanno fiato a una madre, a un padre, a una nonna. Coppie stanche, famiglie sfiatate, ricominciano a respirare col bambino che nasce. Ogni bambino non porta con sé soltanto il fagotto di provvidenza, porta anche ossigeno per ricominciare a respirare, o per respirare tutti meglio. I bambini allungano la vita non solo perché fanno affacciare la nostra esistenza al di là di essa, ma perché estendono il nostro respirare, ci danno una gioia e una voglia di vivere che non avremo senza quel dono. I bambini forzano il nostro destino e ci donano giorni di vita extra, che decidiamo di vivere solo per poter rivedere un figlio o una nipote ancora domani. Ci insegnano a contare i nostri giorni con un’altra sapienza del cuore.
Il bambino di Rut è il riscattare di Noemi, è il suo secondo goèl. Boaz, il primo goèl, poteva riscattare solo il terreno e garantire una sussistenza materiale a Rut e a sua suocera; ma il libro ci ha continuamente detto che il vero riscatto di Rut e Noemi era un figlio. Questo riscatto non può essere garantito con atti giuridici e neanche con il matrimonio.
È solo e soltanto dono. Perché ogni bambino è dono, e non c’è dono più puro e grande di un figlio. Ogni figlio è qualcosa di più di un fatto naturale e necessario. Siccome nella natura esiste anche la sterilità, per l’arrivo di un figlio la natura non basta. E anche se la nostra cultura ha perso il senso religioso della generatività, un bambino che arriva è la gioia più grande perché porta iscritta in sé questa dimensione essenziale di libertà e di dono. Se un giorno il senso religioso dovesse scomparire dalla faccia della terra, potrà sempre rinascere insieme a un bambino.
«Noemi prese il bambino, se lo pose nel seno e gli fece da nutrice. Le vicine gli cercavano un nome e dicevano: "È nato un figlio a Noemi!"» (4,16-17). Il padre, Boaz esce di scena subito dopo aver svolto il suo compito - il midrash Leqah lo fa morire il giorno dopo le nozze ("Le leggende degli ebrei", vol. VI). -Il nome e lo svezzamento del bambino diventano una faccenda interamente femminile, anche perché lo sono davvero. Il monopolio femminile dei primi anni di vita dei bambini e delle bambine è stata una delle leggi auree non scritte delle civiltà. Fino alla generazione dei miei genitori gli uomini erano ospiti temporanei e provvisori dell’educazione primaria dei loro bambini. Si affacciavano ogni tanto sull’uscio, poi si ritraevano subito per mancanza di tatto e di competenze. In quel mondo i bambini erano i tesori delle donne (mamme, nonne, zie, sorelle), tesori fugaci e passeggeri, spesso le uniche gioie in vite difficili e ingiuste.
È nato un figlio a Noemi: il figlio era nato a Rut, ma ieri più di oggi ogni figlio che nasce a una figlia è anche figlio della madre di lei. Pochi amori sono più grandi di quello di una nonna per un/a nipote, impossibile da comparare a quello dei genitori, e se fossimo capaci di calcolarlo non lo scopriremmo minore, solo diverso. Ce ne accorgiamo, per contrasto drammatico, quando entra in campo la sofferenza per un nipote: quella dei nonni è una sofferenza aumentata, quella per il nipote moltiplicata per quella dei suoi genitori, un prodotto che sfiora l’infinito.
Inoltre, come unica volta nella Bibbia, il figlio viene attribuito a una donna e non a un uomo (per esempio: «A Set nacque un figlio, che chiamò Enos»: Gn 4,26). E Noemi non è più l’amara e la vuota, Dio l’ha riempita con un bambino. Lei diventa nutrice del bambino che a sua volta le darà respiro nella sua vecchiaia: ancora una faccenda di reciprocità. Le donne scelgono addirittura il nome per il bambino, anche qui unico caso nella Bibbia, perché non sono le vicine di casa né le donne del paese a scegliere il nome di un bambino. Qui invece le donne danno il nome al figlio di Rut-Noemi, forse per dirci qualcosa che le altre donne della Bibbia ci avrebbero detto se avessero potuto prendere più spesso la parola: un figlio non è un bene privato, è bene comune, è figlio di tutte, ed è l’intero villaggio a crescerlo. Nel presepe ci sono anche tutte queste donne di Betlemme, anche se non potevano saperlo.
«E lo chiamarono Obed. Egli fu il padre di Iesse, padre di Davide» (4,17). Ecco il nome che mancava al nostro mosaico, Davide, il nome più amato di tutti i nomi, che echeggia nell’aria fin dall’inizio della storia. E grazie a questo nome, che da solo racchiude tutta la Bibbia, capiamo un senso profondo del libro di Rut. La storia di Noemi, Rut e Boaz è il ponte che lega le storie della preistoria alla storia di Israele, Abramo e patriarchi con la monarchia, Davide con la tribù di Giuda e Gerusalemme. Quando Davide fa la sua comparsa nella storia di Israele (nel primo libro di Samuele), non viene menzionata la sua genealogia, arriva a Betlemme dal nulla. Il libro di Rut completa il filo d’oro della salvezza, spiega la trama della provvidenza. E così il libro di Rut riscatta la triste storia di Giuda, quell’incesto con Tamar, da cui nacque Peres, l’avo di Boaz, il nonno di Davide: «Questa è la discendenza di Peres: Peres generò Chesron, Chesron generò Ram, Ram generò Amminadàb, Amminadàb generò Nacson, Nacson generò Salmon, Salmon generò Boaz, Booz generò Obed, Obed generò Iesse e Iesse generò Davide» (4,18-22).
Tutto questo per dirci qualcosa di importante sulla logica della Bibbia, e della vita. Il tempo nella Bibbia si muove nelle due direzioni dell’asse. Per capire il senso pieno di un evento bisogna andare avanti e indietro nel tempo. Ciò che lo spiega non è solo quanto è accaduto prima, perché essenziale è anche quanto è accaduto dopo. Il matrimonio tra Boaz e Rut non illumina soltanto la persona e la storia di Davide (che verrà dopo), spiega anche la storia di Giuda e Tamar (avvenuta prima). Dà senso ai dolori e alle gioie che l’hanno preceduto e seguito.
Gesù di Nazareth non spiega solo il senso della storia di Giuda, Tamar, Rut e Davide, ma Giuda, Rut e Davide spiegano Gesù: ci fanno capire che nella sua carne e nel suo messaggio c’erano anche l’incesto di Giuda e l’omicidio di Davide, insieme alla grazia e alla fedeltà di Rut. E quindi che l’umanità di Cristo è vera anche perché raccoglie i peccati e le virtù disseminate lungo la sua genealogia. Ma se è così, allora nel suo corpo risorto ci sono anche Giuda, Davide, Rut, Noemi e tutte le donne di Betlemme, riscattati da un altro goèl.
Quando i primi cristiani fecero la coraggiosa e felicissima scelta di tenere legato l’Antico al Nuovo Testamento, allungarono, nei due sensi, l’asse dei goèl della storia della salvezza, la serie dei riscattatori e dei riscattati, moltiplicarono il dono del respiro dei bambini. Ma se guardiamo il mondo con occhi di Bibbia, ci accorgiamo che ogni volta che un bambino viene generato, con la sua storia spiegherà la storia dei suoi avi e illuminerà quella dei suoi discendenti. Quante volte la laurea di una nipote e la fedeltà di una nonna si spiegano e illuminano a vicenda? E qualche volta per capire veramente un grande dolore o una grande gioia bisogna aspettare i mille anni e oltre che separano i campi di orzo di Boaz dalla grotta di Maria. Nella lingua con cui sono scritte le frasi decisive della nostra vita il verbo è posto alla fine.
* Avvenire, sabato 17 luglio 2021 (ripresa parziale)
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
COME NASCONO I BAMBINI: EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
FLS
SCHEDA...*
VENEZIA:
LA CHIESA DI SANTA MARIA DI NAZARETH, O DEGLI SCALZI (E LA PRESENZA DI 12 SIBILLE).
La chiesa di Santa Maria di Nazareth, o chiesa degli Scalzi, è un edificio religioso della città di Venezia dei primi del XVIII secolo. Opera di Baldassarre Longhena ma con la facciata di Giuseppe Sardi, è situata nel sestiere di Cannaregio in prossimità della stazione ferroviaria di Venezia Santa Lucia.
La chiesa di Santa Maria di Nazareth deve la sua origine all’insediamento dei Carmelitani scalzi nella città lagunare.
Fu edificata da Baldassarre Longhena in un’unica navata, con due cappelle laterali, ognuna a sua volta affiancata da due cappelle minori. Dopo l’arco trionfale, l’aula si immette nel presbiterio, rialzato e dotato di una cupola. Nell’abside, si nota il coro dei frati.
Venne consacrata nel 1705, ma subì un importante restauro fra il 1853 e il 1862 da parte del governo austriaco. Al suo interno l’11 febbraio 1723 venne tumulato Ferdinando II Gonzaga, quinto e ultimo principe di Castiglione[1].
Oggi è monumento nazionale. Al suo interno marmi colorati e sfarzosi corinzi danno una sensazione di opulenza e di meraviglia al visitatore.
Presbiterio
L’altare maggiore è opera di Jacopo Antonio Pozzo (ovvero fra Giuseppe Pozzo) come anche il parato ligneo della sacrestia.[4] Il presbiterio è sovrastato da un baldacchino sorretto da colonne tortili. Il fastoso tabernacolo della mensa, vede la statua della Madonna con putto e profeti, proveniente dall’isola di Santa Maria di Nazareth, poi Lazzaretto.
Le statue di dodici Sibille, opera di Giuseppe Torretto, Giovanni Marchiori, Pietro Baratta, Giuseppe e Paolo Groppelli, stanno distribuite, cinque per parte, sulle pareti laterali e due giacenti sull’arco del baldacchino[5].
* Chiesa di Santa Maria di Nazareth (Venezia) (Wikipedia).
* Sulla presenza delle 12 Sibile nel "Presbiterio", in particolare, si cfr. anche il doc. su I Carmelitani Scalzi a Venezia. La chiesa di Santa Maria di Nazareth e il brolo del convento, Biblos Edizioni, 2015, pp. 22-26).
Scheda
Chi sono le Sibille?
di Ufficio Beni Culturali *
Con il termine Sibilla si indicava nell’antichità greco-romana una donna che possedeva la capacità di prevedere il futuro. Nel dizionario dell’Arte Medievale Treccani al termine Sibilla corrisponde la seguente definizione: "Nell’antichità classica, fin dal periodo arcaico della Grecia particolare tipo di veggente femminile [...] che profetizza quando e dove è ispirata, anche senza essere interrogata; la sua ispirazione è concepita come possessione divina, e per tale ragione la profetessa si mantiene vergine. Le Sibille divennero esseri leggendari; mediatrici tra dio e l’uomo, spesso concepite come figlie di divinità e di ninfe e dee esse stesse".
Pertanto le Sibille erano delle profetesse che, rivolgendosi alle comunità, alle città e ai regni, preannunciavano eventi e calamità naturali, esiti di battaglie e cantavano la storia delle città. Queste profetesse venivano anche consultate in occasioni di cerimonie, durante i periodi di carestia e al diffondersi di pestilenze, così da conoscere le cause e i rimedi ai mali che affliggevano il genere umano. Il dio che ispirava le Sibille è nella maggior parte delle attestazioni, Apollo, dio della poesia, della medicina, delle arti, della musica, della luce e della profezia. Minori sono le testimonianze che vedono Zeus, Giove o Dioniso quali ispiratori delle veggenti.
Le numerose profezie diffusesi in età classica spinsero gli studiosi antichi ad interrogarsi sul numero delle Sibille esistenti. Il primo autore che affrontò questa ricerca fu il filosofo greco Eraclide Pontico che individuò tre differenti Sibille: la Sibilla Marpessa o Ellespontica, la Sibilla Delfica e la Sibilla Eritrea. Solo in età romana, con lo studio dell’antiquario Varrone, si arrivò ad individuare dieci Sibille: la Sibilla Persica, la Libica, la Delfica, la Cimmeria, l’Eritrea, la Samia, la Cumana, l’Ellespontica, la Frigia e la Tiburtina. L’antiquario ordinò le profetesse in ordine cronologico e di ognuna fornì la fonte letteraria in cui era citata.
Con l’avvento della Religione Cristiana le Sibille non persero la loro importanza, anzi, al pari dei Profeti divennero annunciatrici della venuta di Cristo e del suo operato. Per questo motivo a partire dal Medioevo e durante tutto il Rinascimento le profetesse divennero soggetti nelle arti figurative italiane e nei testi letterari. Inizialmente le Sibille venivano rappresentate in forma singola ed accostate al ciclo dei Profeti, solo a partire dal Quattrocento vennero separate dai Profeti e costituirono un ciclo autonomo di dodici veggenti: le dieci del canone di Varrone più le due aggiunte da Filippo Barbieri nel 1481, l’Agrippea e l’Europea.
Nel contesto italiano l’apice della diffusione e considerazione delle Sibille si raggiunse con le raffigurazioni della Cappella Sistina nel 1508-1512 ad opera di Michelangelo Buonarrotti. In seguito, l’esaurirsi delle tensioni profetiche dalla metà del Cinquecento e i rigidi canoni controriformistici generarono una progressiva perdita di interesse, sia artistico che letterario, nei loro confronti. Ciò non si verificò nelle zone periferiche, dove le veggenti continuarono a rivestire un ruolo significativo sia in ambito religioso che privato.
È questo il caso della Provincia di Bergamo dove a partire dal XV secolo la presenza delle Sibille è osservabile nei contesti religiosi sottostanti alla Diocesi di Bergamo, e nell’ambito privato dell’Oratorio Suardi di Trescore Balneario.
* Ufficio diocesano dei Beni Culturali della diocesi di Bergamo
#EDUCAZIONE CIVICA
#TRAGEDIA
E
#DIVINA COMMEDIA
#oggi.
Dopo #Dante (1321)
e la #rivoluzione delle #sfere celesti
(#Copernico 1543)
e terrestri
(#Giovanni Valverde, #Anatomia 1560),
celebra ancora la
#dotta ignoranza
di
Socrate
e
Niccolò Cusano
"IL GIOCO DELLA PALLA", SECONDO LA LOGICA "ANDROLOGICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO...:
#DANTE2021
E
#ANTROPOLOGIA (#HOMO LUDENS):
IL #GIOCO DELLA #PALLA
(#De ludo globi) DI
#NICCOLO’ CUSANO
riguarda «un gioco scoperto da poco che tutti comprendono facilmente e giocano volentieri»
E
LA #DOCTA IGNORANTIA
#FILOLOGIA
E
#STORIA.
#PILATO
(#Ecce Homo gr.: «idou ho #anthropos»),
#SAN PAOLO
(1Cor. 11, 3: "di ogni #uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ]"),
#GIUSEPPEFLAVIO
("Egli era il #Cristo")
FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA. COME NASCONO I BAMBINI...*
È la nostra nascita il miracolo che salva il mondo
Quella postilla di Hannah Arendt che illumina i dati Istat sulla natalità
di Sergio Belardinelli (il Foglio, 24 apr 2021)
L’Istat ci ha comunicato di recente che, complice anche il Covid, in Italia nel 2020 i morti sono stati 746 mila e i nuovi nati 404 mila. Un dato agghiacciante nel suo significato sociale e culturale che a me, come una sorta di riflesso condizionato, richiama alla mente uno dei brani filosofici più intensi che abbia mai letto: “Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane dalla sua normale, naturale rovina è in definitiva il fatto della natalità in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. È in altre parole la nascita di nuovi uomini, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana, che l’antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo, che trova forse la sua gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la ‘lieta novella’ dell’avvento: ‘un bambino è nato per noi’”.
Con queste parole Hannah Arendt conclude il capitolo di Vita Activa dedicato all’azione. Si tratta di un brano che cito e commento ormai da quarant’anni, nel quale viene messo a tema un nesso, quello tra la libertà e la natalità, tra la libertà e la vita, col quale, che io sappia, soltanto la Arendt ha avuto l’acutezza e il coraggio di cimentarsi e che, a prima vista, può apparire persino paradossale. La vita infatti, almeno immediatamente, sembra richiamare non tanto la libertà, quanto piuttosto il gigantesco, immutabile ripetersi dei cicli naturali, l’ambito di quelli che il grande biologo Adolf Portmann, autore peraltro assai caro alla Arendt, definirebbe i “rapporti preordinati” - il contrario, quindi, di ciò che in genere intendiamo allorché parliamo di libertà. Quanto poi alla vita specificamente umana, essa, è certo impastata di libertà, ma è anche qualcosa che, a diversi livelli, non dipende da noi, qualcosa di cui, nonostante le tecnologie della riproduzione, non possiamo avere il completo controllo: la riceviamo semplicemente; non scegliamo i nostri genitori, né il luogo dove venire al mondo; dobbiamo fare continuamente i conti con gli altri, con le nostre passioni, i nostri istinti, le nostre inclinazioni, con quel coacervo di natura, ragione, sentimenti, usi e costumi che vanno a costituire appunto il “gran mare” della vita. La vita insomma pone una serie di condizioni e condizionamenti alla libertà che possono renderla persino impossibile. Eppure, rompendo in un certo senso questa grande catena, è proprio la libertà che dà sapore e specificità alla vita umana; solo la libertà impedisce che il mondo si riduca spinozianamente a “sostanza”, a qualcosa di omogeneo, a qualcosa come un continuo fluire; solo la libertà è capace di introdurre nel mondo un elemento di novità, qualcosa di imprevisto.
Pensieri non nuovi, si potrebbe dire. Ma proprio qui si inserisce la fondamentale postilla arendtiana, preziosa per leggere in una chiave forse inusuale ma certo illuminante anche i dati Istat sulla natalità in Italia da cui siamo partiti: è la stessa vita umana, il nostro venire al mondo, la nascita unica e irripetibile di ciascuno di noi, a rappresentare la prima e più immediata forma di novità, il primo scompaginamento, se così si può dire, della routine della vita.
La facoltà dell’azione, dice la Arendt, “è ontologicamente radicata” nel “fatto della natalità”. In entrambe le dimensioni - la libertà e la natalità - ritroviamo non a caso una costitutiva “novità”, un costitutivo essere insieme agli altri (non si nasce, né si agisce da soli), qualcosa che implica l’accettazione della realtà nella quale siamo e insieme fiducia nel futuro. In questo senso ogni bambino che nasce è un segno di speranza nel mondo; è l’irruzione nel mondo di una “novità”, la cui memoria, è il caso di dire, ritroviamo da adulti nell’esercizio della nostra libertà, nella nostra capacità di incominciare qualcosa che senza di noi non incomincerebbe mai.
Novità, pluralità (gli uomini, non l’uomo abitano la terra, ripete spesso Hannah Arendt) e speranza: questo ci schiude direttamente e in modo straordinario il discorso arendtiano sulla libertà radicata nella natalità. Ma indirettamente, specialmente oggi, tale discorso ci schiude molto di più. Ci fa capire, ad esempio, quale tragedia, anche simbolica, si consuma nel momento in cui un paese come l’Italia registra in un anno un saldo passivo tra morti e nuovi nati di 342 mila unità. È un po’ come se il mondo e la nostra libertà perdessero la speranza, ossia ciò che dà loro sapore, ciò che è insieme accettazione della realtà nella quale viviamo e fiducia nel futuro.
È vero, tutto passa. La vita non è altro che un eterno dissolversi nel gigantesco circolo della natura dove, propriamente, non esiste inizio né fine e dove tutte le cose e gli eventi si svolgono in un’immutabile ripetizione: la mors immortalis di cui parlava Lucrezio. Ma la Arendt non accetta questa mestizia, poiché a suo avviso “la nascita e la morte di esseri umani non sono semplici eventi naturali”; avvengono in un mondo dove vivono altri uomini; un mondo che acquista significato grazie alle loro azioni e ai loro discorsi; un mondo che per questo è sempre aperto alla novità.
Con la creazione dell’uomo, dice la Arendt, “il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso, e questo, naturalmente è solo un altro modo di dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo”. Di nuovo l’inizio, dunque, diciamo pure, la natalità.
È proprio perché, in quanto uomini, siamo initium, nuovi venuti, iniziatori, per virtù di nascita che secondo la Arendt, siamo indotti ad agire. La definizione che più si addice agli uomini non è quella di “mortali”, ma piuttosto quella di “coloro che nascono”. In questo modo, quasi per una sottile ironia della sorte, la categoria della natalità diventa fondamentale proprio nel pensiero di un’allieva (e anche qualcosa di più) di Martin Heidegger, l’inventore dell’essere per la morte. Non che la Arendt ovviamente trascuri che la morte rappresenta l’ineluttabile fine di ogni vita umana, solo che, a suo avviso, gli uomini, anche se debbono morire, non nascono per questo, bensì per incominciare. E siamo di nuovo al passo da cui siamo partiti: “Il miracolo che salva il mondo....”.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva
Federico La Sala
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA (2008) "NON CLASSIFICATA"!!!
SALUTE RIPRODUTTIVA
Fertilità femminile *
Le cellule riproduttive femminili (ovociti), a differenza di quelle maschili (spermatozoi), vengono prodotte prima della nascita, durante lo sviluppo degli organi genitali.
Nel corso della vita questa "riserva" si riduce poi progressivamente mensilmente fino ad esaurirsi del tutto (menopausa). Ogni donna nasce con 1-2 milioni di follicoli e alla pubertà ne rimangono 500.000. Solo 500 di questi escono dall’ovaio e gli altri si distruggono.
Il sistema riproduttivo femminile dipende dal ciclico reclutamento follicolare, dalla selezione di un unico follicolo dominante, dall’ovulazione e dalla formazione del corpo luteo. Se la fecondazione e di conseguenza l’impianto non avvengono, il corpo luteo scompare, l’endometrio si sfalda e compare la mestruazione.
Dalla pubertà alla menopausa, circa ogni mese, quindi, il corpo femminile si prepara ad un’eventuale gravidanza. Se questa non avviene, compare una nuova mestruazione. Il ciclo mestruale ha una durata variabile tra i 21 e i 35 giorni. Mediamente è di 28 giorni, ma nell’adolescente può essere spesso irregolare.
Dal secondo giorno dall’inizio delle mestruazioni, comincia la cosiddetta fase follicolare: i follicoli che portano a maturazione la cellula uovo si attivano nuovamente, sia per far maturare l’ovocita sia per provvedere alla sintesi degli ormoni (estrogeni e progesterone) necessari per ricostituire l’endometrio.
Intorno al 14° giorno avviene invece l’ovulazione, momento in cui possono avvenire la fecondazione e il concepimento. Il periodo fertile dura circa due giorni (durata in vita della cellula uovo).
Gli spermatozoi sopravvivono invece nel corpo femminile molto di più, anche fino a 4 giorni, per cui un rapporto sessuale avvenuto anche 3 o 4 giorni prima dell’ovulazione può portare alla fecondazione. Per tutto il periodo fertile, quindi, la fecondazione è possibile. Dopo l’uscita della cellula uovo il follicolo si trasforma nel corpo luteo, che produce progesterone, per predisporre l’utero a ricevere l’impianto della cellula uovo fecondata.
Questa fase del ciclo si chiama fase luteale o secretiva. In caso di mancata fecondazione l’uovo viene espulso con la mestruazione. La perfetta sincronia della fisiologia femminile è peraltro continuamente minacciata da insulti o da difetti ad esempio patologie endocrine ovariche od extraovariche che possono ad esempio inficiare l’ovulazione rendendo pertanto la donna infertile o subfertile.
Con l’aumentare dell’età, nella donna si verifica non solo una progressiva riduzione del patrimonio follicolare ma anche un aumento percentuale di ovociti con alterazioni cromosomiche, che mensilmente vengono messi a disposizione dell’ovaio stesso.
Anche l’utero subisce un deterioramento funzionale che riduce la capacità dell’endometrio di interagire con l’embrione e favorisce la possibilità di aborti spontanei; inoltre si registra un incremento dell’incidenza di patologie quali endometriosi e fibromi che ulteriormente riducono la fertilità.
FONTE: [MINISTERO DELLA SALUTE. Data ultimo aggiornamento 17 settembre 2020. (ripresa parziale, senza immagine).
SALUTE RIPRODUTTIVA
Fertilità maschile
Lo spermatozoo è la cellula riproduttrice dell’uomo, fondamentale per la sua fertilità, in quanto incontrandosi con l’ovocita femminile da origine all’embrione.
La spermatogenesi e la produzione di testosterone sono regolati da un sistema integrato di controllo. L’ipotalamo, attraverso la secrezione pulsatile dell’ormone rilasciante le gonadotropine (GnRH), controlla la secrezione ipofisaria dell’ormone follicolo-stimolante (FSH) e dell’ormone luteinizzante (LH) i quali a loro volta stimolano il testicolo a produrre rispettivamente gli spermatozoi e il testosterone.
Il testicolo è costituito da due compartimenti distinti, anche per funzioni: quello tubulare dove si trovano le cellule di Sertoli e gli spermatozoi in diversi stadi di maturazione, e quello interstiziale con le cellule di Leydig deputate alla produzione di testosterone. La spermatogenesi è un processo complesso che culmina con la produzione degli spermatozoi maturi e ha una durata di circa 74 giorni.
Le cellule di Sertoli sono importanti per il sostentamento delle cellule della linea seminale e per la loro normale maturazione.
Gli spermatozoi da stadi più immaturi progrediscono dalla base al centro del tubulo seminifero (lume) secondo i diversi stadi di maturazione (spermatogonio, spermatocita, spermatide e spermatozoo).
Gli spermatozoi lasciano i testicoli attraverso un sistema di dotti:
e raggiungono le vescichette seminali che, con le loro caratteristiche secrezioni, insieme alla prostata, contribuiscono alla formazione di gran parte del volume finale dell’eiaculato e fungono anche da contenitore tra un’eiaculazione e la successiva. Chiaramente una qualsiasi disfunzione o blocco della spermatogenesi o danno di queste strutture può comportare alterazioni della fertilità.
FONTE: [MINISTERO DELLA SALUTE. Data ultimo aggiornamento 17 settembre 2020. (ripresa parziale, senza immagine).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva....
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
VIVA L’ITALIA!!! Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
Federico La Sala
#ERMETISMO ED #ECUMENISMO RINASCIMENTALE:
#ERMETE TRISMEGISTO E LE #SIBILLE.
la #meraviglia
del
della Cattedrale di Siena
G20: Draghi, ad agosto summit ad hoc su emancipazione donne
’Sarà prima volta nella storia del vertice’
(ANSA) - ROMA, 21 GIU - "Il nostro governo vanta il numero più alto di sottosegretarie donne nella storia d’Italia. Abbiamo anche nominato una donna come capo dei servizi segreti per la prima volta in assoluto.
In ogni caso, questi sono solo dei primi passi.
Quest’anno l’Italia ha la presidenza del G20. Ad agosto terremo una conferenza ministeriale sull’emancipazione femminile per la prima volta nella storia del G20. Vogliamo aiutare le leader femminili in tutto il mondo a favorire l’emancipazione di altre donne."
Lo dice il premier Mario Draghi intervenendo, con un videomessaggio, al "Women Political Leaders Summit 2021". (ANSA).
L’Italia in cammino sinodale. Processo che parte dal basso
Su La Civiltà Cattolica il direttore si sofferma sull’avvio del percorso nazionale. «Chiaro il contesto: un incontro organizzato dai vescovi italiani». Il ruolo del laicato e l’unità della coscienza
di Antonio Spadaro *
Dal 24 al 27 maggio scorsi si è svolta la 74ª Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana. Essa è stata aperta dalla preghiera, presieduta da papa Francesco, e dal suo dialogo con i vescovi presenti. I lavori dell’Assemblea, sotto la guida del cardinale presidente Gualtiero Bassetti, hanno riguardato il tema: “Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita. Per avviare un cammino sinodale”. Tra l’altro, nella sua Introduzione, il cardinale Bassetti ha definito questo cammino come «quel processo necessario che permetterà alle nostre Chiese che sono in Italia di fare proprio, sempre meglio, uno stile di presenza nella storia che sia credibile e affidabile».
Il Pontefice ha esortato i pastori a riprendere le linee tracciate dal Convegno ecclesiale di Firenze, e a valorizzare un percorso che parta dal basso e metta al centro il popolo di Dio. Egli ha sempre lamentato una certa «amnesia» riguardo alle indicazioni che diede nel capoluogo toscano il 10 novembre 2015. Chiaro che la concomitanza tra l’indizione del Sinodo della Chiesa universale - del quale parleremo successivamente - e l’avvio del percorso sinodale della Chiesa italiana sarà un’occasione unica per sintonizzare i cammini.
L’Assemblea generale ha quindi votato la seguente mozione: «I vescovi italiani danno avvio, con questa Assemblea, al cammino sinodale secondo quanto indicato da papa Francesco e proposto in una prima bozza della Carta d’intenti presentata al Santo Padre». Il Consiglio permanente della Cei costituirà un gruppo di lavoro per armonizzarne temi, tempi di sviluppo e forme.
Le misurate parole della mozione riassumono e rilanciano un dibattito durato sei anni. Ad aprirlo fu il Papa a Firenze, suggerendo il metodo sinodale: «La nazione non è un museo, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose», disse Francesco. «Mi piace una Chiesa italiana inquieta - aggiunse - sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti».
Tutto rimase sottotraccia. All’inizio del 2019, “La Civiltà Cattolica” rilanciò la proposta di un Sinodo nazionale (cfr. A. Spadaro, “I cristiani che fanno l’Italia”, in Civ. Catt. 2019 I 250-252): ci parve la via più sicura da indicare a tutti, quella in grado di aiutarci a leggere a fondo la storia di oggi. Un luogo privilegiato di discernimento è infatti il processo sinodale, dove, se lo Spirito Santo è in azione, - come ha affermato Francesco - «dà un calcio al tavolo, lo butta e incomincia daccapo». E allora ecco la domanda: non sentiamo oggi il bisogno di un calcio dello Spirito? Se non altro per svegliarci dal torpore...
Alla nostra proposta fecero seguito interventi autorevoli di vescovi su “L’Osservatore Romano”, “Avvenire”, “Corriere della Sera”, e di teologi e studiosi su “Famiglia Cristiana”, “il Regno” e altra stampa cattolica e laica che, in generale, alimentarono il dibattito. Su “La Civiltà Cattolica” intervennero successivamente anche padre Bartolomeo Sorge e il sociologo Giuseppe De Rita.
«La sinodalità è una proposta che sentiamo di poter e dover fare a una società slabbrata come la nostra», puntualizzò il cardinale Bassetti il 1° aprile 2019. Il Pontefice ha poi effettivamente indicato il cammino sinodale alla Chiesa italiana, parlando ai vescovi del nostro Paese il successivo 20 maggio 2019, aprendo la 73ª Assemblea generale della Cei.
Il 21 gennaio scorso, la rotta è stata aggiornata. Andando «oltre le emergenze», ha detto il cardinale Bassetti, l’Italia deve ricomporre le quattro «fratture» (sanitaria, sociale, educativa, delle nuove povertà) che l’hanno piegata, con una capillare «opera di riconciliazione».
Il 30 gennaio Francesco, in un discorso in cui non a caso ha anche difeso con fermezza il Concilio Vaticano II («Chi non lo segue è fuori dalla Chiesa»), ha rilanciato la proposta in maniera decisa, affermando: «La Chiesa italiana deve tornare al Convegno di Firenze, e deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi: anche questo processo sarà una catechesi». Il contesto è chiaro: un incontro organizzato dai vescovi italiani. Chiaro il messaggio: la Chiesa italiana deve incominciare un processo di Sinodo nazionale. Chiaro, infine, il metodo: camminare a partire dal basso verso l’alto; comunità per comunità, diocesi per diocesi. «Il momento è adesso», ha scandito Francesco.
* * *
È necessaria un’«opera di riconciliazione» con la realtà e la storia - anche recente - del nostro Paese, ripensando uno «stile di presenza» della Chiesa italiana nella storia e nella vita del Paese, consapevoli del fatto che «la Chiesa è il cuore di Dio che batte nella storia» (monsignor Aldo Del Monte).
Le parole di Francesco alla Curia romana del 21 dicembre 2019 devono guidare il discernimento: «Non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale». Quindi occorre anche fare un discernimento sulle dinamiche interne della stessa Chiesa italiana, in particolare quella del «clericalismo».
Il Sinodo è un mare aperto, e noi - ha detto Francesco in piena pandemia - «siamo tutti sulla stessa barca». Oggi i credenti sono chiamati a remare con tutti, e a farlo con la consapevolezza di essere anche cittadini. E questa è pure una vera «sfida» culturale, che è molto di più che un progetto. Sarà necessario, dunque, parlare dell’annuncio del Vangelo e delle sue difficoltà in un mondo mutato dalla pandemia, dagli stili di vita mobili, fluidi, veloci, plurali, dalle verità «alternative» dei social network e da tanti altri cambiamenti.
I processi ecclesiali di rinnovamento sono un fatto sinodale, il cui protagonista è il popolo di Dio. La Chiesa italiana ha bisogno di ritrovarsi in condizione sinodale. La richiesta di un «Sinodo dal basso» ha già messo in moto la riflessione, le discussioni, il coinvolgimento delle comunità e di alcune diocesi. Il metodo del Sinodo è né più né meno che lo stesso modo di esistere della Chiesa.
In questo senso pensiamo sia da riprendere il «voto finale» che padre Bartolomeo Sorge espresse al Convegno ecclesiale del 1976 e registrato negli Atti. Egli, dopo aver affermato che «la risposta pastorale della Chiesa italiana non può essere più affidata alla stesura di un documento», postulava la necessità di «dar vita a strutture permanenti di consultazione e di collaborazione tra Vescovi, rappresentanti delle varie componenti della comunità ecclesiale ed esperti provenienti da tutti i movimenti di ispirazione cristiana operanti in Italia».
Padre Sorge intendeva indicare quel modo di procedere che oggi Francesco definisce come «popolo e pastori insieme» (cfr. Documento di Aparecida n. 371). Infatti - proseguiva padre Sorge - «è urgente offrire alla nostra comunità ecclesiale un luogo di incontro, di dialogo, di analisi e di iniziativa che [...] superi in radice l’impossibile divisione tra "Chiesa istituzionale" e "Chiesa reale"», e che è anche il rischio dell’oggi. Allora la proposta rimase senza esito. Oggi le condizioni per riprendere quel voto ci sono. E sappiamo che i frutti del cammino sinodale verranno per la grazia dello Spirito Santo. Il Sinodo, finalmente!
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Antonio Spadaro è direttore de "La Civiltà Cattolica"
* Avvenire, giovedì 17 giugno 2021 (ripresa parziale).
Cristoforetti prima donna in Europa a guidare una stazione spaziale *
Nel 2022 Samantha sarà lanciata verso la "base" dalla Florida: "E’ un onore, coordinerò una squadra eccezionale"
L’astronauta Samantha Cristoforetti sarà la prima donna europea al comando della Stazione spaziale internazionale (ISS). E la terza al mondo dopo due americane: accadrà nel corso della Expedition 68 che la vedrà in orbita nel 2022. Lo annuncia l’Agenzia Spaziale Europea (ESA).
AstroSamantha si dice "onorata" della nomina. "Ritornare sulla Stazione spaziale internazionale per rappresentare l’Europa è un onore di per sé", afferma l’astronauta. "Sono onorata della mia nomina alla posizione di comandante e non vedo l’ora di attingere all’esperienza che ho acquisito nello spazio e sulla Terra per guidare una squadra molto competente in orbita".
Come membro dell’equipaggio "Crew-4" insieme agli astronauti NASA Kjell Lindgren e Bob Hines, nel 2022 Samantha sarà lanciata verso la Stazione Spaziale dalla Florida, USA, su un veicolo spaziale Crew Dragon di SpaceX. Questa sarà la seconda missione spaziale di Samantha. L’esperienza maturata in questi anni le sarà sicuramente utile per il suo nuovo ruolo.
Il Direttore Generale dell’ESA Josef Aschbacher ha spiegato che "la nomina di Samantha al ruolo di comandante della ISS è un’ispirazione per un’intera generazione che sta concorrendo per entrare nel corpo astronauti dell’ESA. Non vedo l’ora di incontrare i candidati finali e colgo l’occasione per incoraggiare ancora una volta le donne a farsi avanti".
* Fonte: la Repubblica, 28 Maggio 2021
#NiccoloCusano,
per indicare la #via alla
"#Visione di Dio" (1454),
si serve di
un quadro dell’artista Rogier Van der Wayden,
allievo di Robert #Campin,
autore del #TritticodiMerode
Con #Virgilio e #Beatrice (#dueSoli),
#NiccoloCusano,
(«Non è la madre che genera chi è chiamato figlio, ma solo nutrice è del seme gettato in lei»)
non esce dall’orbita
della #tragedia (#Eschilo).
LA "DOTTA IGNORANZA" E L’IMMAGINARIO DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA.... *
Dio secondo Stefano Levi Della Torre
Dal nostro lato
di Sergio Massironi *
«Colonizzazione immaginaria dell’inspiegato». Così Stefano Levi Della Torre definisce la religione in un piccolo volume dal titolo lapidario: Dio (Torino, Bollati Boringhieri, 2020, pagine 160, euro 12). Voce di un ebraismo laico, culturalmente ricco e poliedrico, l’autore non va oltre le convinzioni di Feuerbach e, pur muovendosi a suo agio nel Novecento scientifico e filosofico, rimane fermo nell’idea ottocentesca per cui Dio non è che proiezione degli uomini. E solo per questo interessante: «Dio rappresenta una domanda, anche se si vorrebbe fosse una risposta». A chi non provi fastidio per un agnosticismo dogmatico - inconfessato quanto rigoroso - il volume sarà di nutrimento, dal momento che dell’idea di Dio consente un’ampia recensione, lontana dall’inaccessibilità linguistica di molta teologia. Pagine che si divorano, nel dinamismo multidisciplinare con cui attraversano la tradizione occidentale. All’insegna, certo, di un criterio di lettura fermo e coerente, elemento di forza e insieme di debolezza del libro: «Che il mistero esista è una constatazione di cui fa fede la nostra ignoranza. Non l’ignoranza di ciò che ancora non sappiamo, ma che un giorno sapremo, bensì l’ignoranza inamovibile. L’ignoranza del perché del tutto, essendo il perché un interrogativo che si agita ma entro i limiti umani della nostra mente, preoccupata di dare al tutto un senso, cioè un movente e un fine».
Bonhoeffer e con lui la migliore teologia del secolo scorso hanno mostrato lo scarto tra il “Dio tappabuchi”, a cui Levi Della Torre non rileva alternativa, e un Dio al centro del mondo conosciuto, delle cose sapute, della vita vissuta: il Dio che in Cristo sospende le proiezioni umane e dice altrimenti di sé. Non lasciare che Dio parli chiude, prima che inizi, il riflettere “teo-logico”, ma ciò nonostante il volume tocca i nodi della modernità. Quest’ultima ha incorporato, spesso inconsapevolmente, molti effetti della novità cristiana. Primo fra tutti il valore del soggetto, nella sua autonomia e maturità che, per quanto opposte in senso emancipativo a un’idea di legge e a un’esperienza di potere troppo spesso eteronome, hanno una radice biblica. Dove biblica significa trascendente, destabilizzante le proiezioni umane, figlie a loro volta di una cultura e di un immaginario tutt’altro che a noi connaturati. Si tratta, insomma, di spingere più a fondo le intuizioni che legano il nostro autore alla sua genealogia ebraica: «Il Dio della Bibbia sa benissimo che il suo popolo cade a ogni passo nell’idolatria, ingannato dalle varie forme di essa in cui non sa ogni volta riconoscerla, dal fondamentalismo al nazionalismo. Dio sa di essere lui stesso una tentazione idolatrica, per questo dice: non pronunciate il mio Nome». Questa coscienza, che ha statura di conoscenza, oppone alle facili soluzioni agnostiche una via difficile e non idolatrica di incontro con l’Altro. Presente nel libro come un seme nascosto, può dal lettore essere coltivata.
Levi Della Torre offre in tale direzione, quasi suo malgrado, non pochi squarci che motivano e rimettono in cammino. La stima per il Lògos è più decisiva, infatti, delle conclusioni che l’autore presume logiche. Così, chi rifiuti di veder relegata la propria religiosità nei territori dell’irrazionale, apprezzerà e sosterrà il “dia-logo”, almeno interiore, che il volume innesca.
In effetti, secondo il Salmo 62, «una parola ha detto Elohim, due ne ho ascoltate: l’una è la Parola di Dio, l’altra la parola umana, a reciproca testimonianza». Di qui la complessità di ogni via anti-idolatrica. «Dal “suo lato” (mitisidò, in ebraico), dal lato cioè della sua essenza imperscrutabile, Dio è unico e unitario; dal “nostro lato” (mitsidenu, in ebraico), ci si presenta secondo diversi aspetti, secondo quanto ciascuno sappia intuire e interpretare, mentalmente e in pratica. E quando la voce del Roveto in Esodo 3, 14 dice ehijé asher ehijé e ne cogliamo la forma al futuro, potremmo tradurre “sarò Colui che sarò”. Alla luce di Esodo 15, secondo cui il Dio unico è inteso “dal nostro lato” secondo l’intendimento di ciascuno, potremo allora interpretare: “Sarò quello che tu saprai farmi essere per te”».
Questo approccio, che rappresenta una vera e propria postura, un modo rivoluzionario di abitare la realtà, è più fedele al Lògos e alla sua luce di quanto non si sperimenti sul binario morto in cui il volume conclude la sua corsa. L’approccio positivista, infatti, si conferma impossibilitato a tenere insieme ciò che l’autore sino all’ultimo contrappone: i Lumi della conoscenza e il buio dell’ignoranza, i territori sicuri della scienza (e della democrazia) e il caotico abisso che sospingerebbe alla fede. «Il prevalere del paradigma della proporzione tra causa ed effetto ha animato la secolarizzazione moderna. La sua intelligibilità, non solo scientifica, ma anche empirica, ha favorito la democratizzazione del sapere e lo sviluppo della coscienza individuale. [...] Paradossalmente, il paradigma fluido, che sembra quello più attuale a livello scientifico e filosofico, ha risvolti affini al modo antico di percepire il mondo. L’indeterminato, lo smisurato, la sproporzione, ispiravano in antico il senso del sacro, e quindi la religione per sua interpretazione, contenimento e riduzione alla misura umana. Oggi il non sapere, o l’eccesso di informazione in cui l’arbitrio dell’opinione si sente legittimato a prevalere sul sapere, il senso di andar perdendo il controllo cognitivo degli eventi e della propria vita ripropone forse l’inquietudine del sacro e quindi forme religiose e di fede, nuove o tradizionali, a suo rimedio».
E invece la via di Israele è quella di un luminoso conoscere che sospinge alla fede, come emblematicamente colto da un autore (troppo poco) citato: quel Nicolò Cusano che da gigante dell’Umanesimo mise le basi di un’altra modernità, ancora da esplorare. Una modernità che non separa, ma connette, che coglie in Cristo la coincidenza degli opposti e la leggibilità di un universo dai forti tratti d’imponderabilità. La via intravista dal cardinal Cusano, troppo ardita per la sua stessa Chiesa, coltivando approcci multidisciplinari e persino contraddittori radica in Dio dignità e responsabilità di ogni soggetto umano.
D’altra parte, Stefano Levi Della Torre intuisce come sin dalla prima pagina della Genesi (in ebraico bereshit) il discorso biblico disponga della chiave smarrita dalla moderna illusione di un sapere oggettivo. Seconda lettera dell’alfabeto ebraico, «la beth di bereshit ci avverte che quell’“in principio” non è proprio l’inizio, ma piuttosto un cambiamento di stato. Sottotraccia, è l’esito di una grande battaglia tra l’informe e la forma, tra il disordine e l’ordine, tra il tohu vavohu (massa tenebrosa, vorticosa, caotica) e l’intelletto divino, e quindi di quello umano, che è “a sua immagine e somiglianza”. Una battaglia mai finita; anzi, è sempre in atto, vi siamo immersi». Ecco la chiave che riapre le conclusioni del libro e impedisce di leggerci su un binario morto. Il Dio biblico non sta sul lato della massa tenebrosa e chiama alla sua somiglianza.
La chiave sta in un pronome bistrattato, cui sono legate le sorti della modernità e della stessa rivelazione biblica. «Se la seconda lettera, la beth, non designa un inizio assoluto, la prima lettera, l’alef, in qualità iniziale compare a un certo punto, nel mezzo della narrazione biblica con la parola anokhì, “io”. Una prima volta lo dice Adam di sé in Gen 3, 10; un’altra volta lo dice Dio sul Sinai, in apertura delle “Dieci Parole” [...]. Questo anokhì in cui sia l’uomo sia Dio riconoscono se stessi come soggettività [...] non nasce dall’inerzia, ma dallo sforzo di un distacco e di una nascita della coscienza di se stessi, a confronto con l’altro e col tu». La via difficile implica che “Dio” e “io” vivano solo insieme. In modo ben più serio e vertiginoso dell’essere l’uno illusione o proiezione dell’altro.
* Fonte: L’ Osservatore Romano, 04 febbraio 2021
Nota:
L’IMMAGINARIO MITOLOGICO DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA:
AL DI LA’ DELLA "DOTTA IGNORANZA" DEL CARDINALE CUSANO E DELLA "TEORIA" DEL "TRITTICO DI MERODE":
#MENSCHWERDUNG. - #Come nascono i bambini: ripartendo dal #sapere di non sapere,
Niccolò Cusano ricade nella #antropologia zoppa e cieca di #Aristotele
e propone nella #Docta Ignorantia (III, 5) del 1440 la visione (#teoria) del trittico di Merode (1427).
FLS
La prima radice
Il castigo ha sostituito il destino, ma le donne erano altro. Petrignani ri-legge Bompiani
di Sandra Petrignani (Il Foglio, 22 nov 2019)
Suggerisco di cominciare a leggere L’altra metà di Dio (Feltrinelli) dalla fine. Nel senso: suggerisco di leggere - per cominciare - l’ultimo capitolo dal titolo “Ri-epilogo” perché, appunto, è un epilogo ed è un riepilogo, che aiuterà a orientarsi nelle intenzioni dell’autrice, Ginevra Bompiani, e nelle tante storie che ri-legge e ri-racconta (quanti “ri”, giusti e necessari). Io l’ho letto alla fine, con enorme commozione, e poi ho anch’io riavvolto e ri-capito la messe delle storie.
Dice Ginevra: “Questo libro nasce dall’ansia”, non per le cose sue personali, ma per quel che ci tocca vivere nell’epoca in cui viviamo (e non solo noi donne). Spiega che ha diviso il testo in tre parti (Distruzione. Punizione. Mistificazione). Che ha voluto capire da dove è nata la “corsa suicida” che ci ha portato alla catastrofe del pianeta. Che il castigo ha sostituito il destino. Che l’Occidente (è sotto gli occhi di tutti) ha “definitivamente confuso la verità con la menzogna”.
Perché siamo a questo punto, è la grande domanda. Perché l’umanità si è data una storia così violenta, distruttiva e autodistruttiva? Avrebbe potuto andare diversamente? Volendo provare a rispondere, l’autrice si mette in marcia, e parte da lontano, da molto lontano, dalla silenziosa preistoria. Dall’inizio dei tempi, dal regno delle madri o matriarcato che dir si voglia, quando non c’erano ancora storie da leggere, ma solo da ascoltare, e poi dall’inizio delle storie scritte, almeno quelle che sono arrivate fino a noi.
Ma siccome “anche le storie hanno il loro inconscio”, Ginevra indaga nella loro misteriosa “primavoltità” (per citare con lei il neologismo di Bobi Bazlen), cerca l’ombra, la parte cancellata e orale che ha lasciato tracce delicate e sepolte, la parte lunare, quell’altra metà di Dio che è stata proditoriamente sottratta, “il femminile che non abbiamo ancora mai visto, affiancato a un maschile che non vediamo più”. Perché l’ipotesi (ma è molto più di un’ipotesi, ne restano tracce tangibili in tanti reperti archeologici e nel filo rosso che lega miti di civiltà diverse) è che “sia esistito un mondo in cui i valori maschili non sopraffacevano quelli femminili”, “un mondo vasto, splendido e mite” in cui regnavano le donne, che le armi non le conoscevano, non le costruivano, non le usavano e che dalle armi sarebbero state sopraffatte, sottomesse, ridotte al ruolo marginale di spose (nella migliore delle ipotesi).
E, dice Bompiani, “non vi è mistificazione più antica e più durevole, più tenace e silenziosa di quella che qualche migliaio di anni fa ha sostituito il mondo pacifico e egualitario delle società matriarcali con il patriarcato, facendo delle prime il grande rimosso della storia e dell’altro la nostra seconda natura”.
Non faccio che citare direttamente l’autrice perché il suo è un libro scritto in modo incantevole e preciso, dotto e visionario insieme, che convince e affascina nel suo stare saldo sui testi di riferimento, ma non per noiosamente chiosarli o non solo per interpretarli, bensì per interrogare senza fine l’immaginario umano: “Non cerco la Storia, ma le storie che ci hanno formati nel sonno”.
Che meraviglia. E così torniamo ad Adamo ed Eva, al sacrificio di Isacco, a Lot ridotta a statua di sale, alla Vergine Maria, cui non è concessa la divinità (nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: non dimentichiamo!), ma solo di essere “beata fra le donne”.
Man mano che si procede nella lettura viene un sentimento di rabbia e d’indignazione per la grande impostura che ci domina da sempre, per la vasta simbologia (non solo quella ebreo-cristiana sangue del nostro sangue. Bompiani va dritta alle origini risalendo all’ispirazione mesopotamica delle storie bibliche e della mitologia greca) che ci ha nutriti e resi quelli che siamo, mentre forse potevamo essere un’umanità diversa, materna, più somigliante in tutto al volto, così femminile, di Gesù Cristo, un figlio non a caso, figlio però di un padre dispotico e disposto a sacrificarlo (“riparando” al mancato sacrificio di Isacco che tragicamente lo annuncia) e di una madre dolorosa, completamente priva di potere.
La temeraria Ginevra si concede ogni tanto (spesso) il lusso di seguire libere associazioni e ci illumina sull’ispirazione di scrittori e filosofi amati (da Kafka a Wittgenstein, per citarne due soltanto) in una vertiginosa scorribanda culturale che non è mai schiacciante, voglio dire che non sopraffà il lettore, ma lo suggestiona, lo illumina e lo incanta, in una lingua di grande dolcezza, quella stessa lingua che fa dire a Franz Kafka, appunto: “Consideratemi un sogno”. Le cose viste “in sogno” dalla pizia Ginevra hanno la forza convincente del presagio cui non si sfugge, della verità intravista e terribile.
San Giuseppe e la trappola per topi
Il Trittico dell’Annunciazione di Robert Campin è una miniera di simboli mariani. Ma la cosa più curiosa è la bottega di San Giuseppe tutto intento a fabbricare una trappola per topi.
Doveva essere devotissimo di san Giuseppe il committente che sta all’origine della Pala di Robert Campin detta comunemente Pala di Mérode, dal nome della famiglia che la ospitava. Lo si vede, con la moglie, nel pannello di destra della pala. Non abbiamo la certezza circa l’identità dei due coniugi. Il Metropolitan Museum, dove risiede l’opera, identifica il committente con un ricco uomo d’affari del tempo, certo Jan Engelbrecht. Per altri era un mercante di stoffe di Colonia, prossimo alle nozze, Peter Inghelbrecht o Engelbrecht. Quel che rimane certo è il cognome: Engelbrecht che significa: breccia dell’Angelo.
Da qui si comprende il tema del pannello centrale: la rappresentazione dell’Annunciazione nel momento in cui, l’angelo, vero protagonista della scena, irrompe nella stanza di Maria.
La casa di Maria è una casa di pietra, sontuosa e solare, a dispetto della bottega di san Giuseppe, piuttosto piccola, raffigurata nel terzo pannello. Il contrasto è voluto e serve anche per mitigare la novità dell’ambientazione scelta per la Vergine annunciata. Se si confronta quest’opera con altre dello stesso periodo si nota come si fosse soliti rappresentare gli eventi dell’Infanzia del Salvatore, specie l’Annunciazione, dentro Chiese o Cattedrali, quasi a sottolineare la sacralità degli eventi. Qui Campin, per primo, registra invece l’assoluta normalità della casa di Maria.
San Giuseppe invece è presentato come un modesto artigiano, abile e capace, che lavora nel contesto di una città rispettabile. E ne vediamo chiaramente uno scorcio dalla finestra aperta. Anch’egli, del resto come si evince dal turbante, è uomo di tutto rispetto. Tra le altre opere di Robert Campin troviamo il ritratto di un anonimo signore facoltoso (e lo capiamo dall’abito foderato di pelliccia) che porta il medesimo turbante indossato da san Giuseppe. Solo il colore si differenzia: mentre nell’uomo ritratto, il copricapo è rosso, colore peraltro che designava l’alto rango, in San Giuseppe è blu, segno distintivo della diversa qualità del rango di San Giuseppe. Egli era nobile nello spirito e la sua dignità è da collocarsi appunto entro il mistero del piano divino. Insomma San Giuseppe è uomo voluto dal Cielo.
Nel XV secolo, molto prima quindi della proclamazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa universale (1621), ci fu un movimento popolare (analogo a quello legato al culto dell’Immacolata) che desiderava propagare il culto di San Giuseppe, collocando il Santo al pari degli Apostoli. Gli anni di punta di tale devozione furono proprio quelli in cui venne realizzata questa pala (tra il 1420 e il 1430).
Promotori di questo movimento giuseppino furono il Card Peter d’Ailly (1350-1425) vescovo di Cambrai e il suo pupillo John Gerson (1363-1429) che, nel concilio di Colonia (1416), proposero appunto di elevare San Giuseppe al livello degli apostoli.
Robert Campin ci permette di entrate nella bottega del Santo raccontandoci nei mini particolari il suo lavoro.
Il desco appare così inclinato, nella sua prospettiva, da dare l’impressione di volersi rovesciare. Siamo così costretti a guardare gli strumenti da lavoro di san Giuseppe: tenaglie, martello, chiodi. Sono chiari riferimenti alla croce, supplizio sopra il quale morirà quel Figlio che sta per essergli dato. Come si narra, appunto nel pannello centrale dell’Annunciazione della Vergine.
Sul desco di Giuseppe, però, c’è un oggetto, che pur riconoscendolo, fatichiamo a comprenderne il senso. Si tratta di una trappola per topi. A ben vedere ve ne sono due: una in via di costruzione e una seconda, in funzione, sul davanzale della finestra. Il senso di un simbolo tanto bizzarro lo spiega Sant’Agostino in uno dei suoi discorsi (256): «Il diavolo ha esultato quando Cristo è morto, ma per la morte di Cristo, il diavolo è stato vinto, come se avesse ingoiato l’esca nella trappola per topi. La croce del Signore era una trappola per il diavolo, l’esca con cui è stato catturato era la morte del Signore». Ecco, dunque, l’ignaro Giuseppe fabbricare quell’elemento che sarà per l’uomo simbolo di liberazione: «dov’è o morte la tua vittoria?». Ripete instancabilmente l’Apostolo: Cristo ci ha liberato. Anche Lorenzo Lotto, in una delle sue natività, colloca la propria firma sopra una trappola per topi.
Il topo, del resto, per la sua facilità riproduttiva e la rapidità del suo agire, è da sempre simbolo di lussuria e di disonestà. Fra il ricchissimo bestiario di Jeronimus Bosch, il topo compare sovente, proprio a significare l’ingannevole audacia del male. Mentre l’uomo si lascia ingannare dal tentatore, Cristo gioca il male sul suo stesso terreno. Il diavolo, infatti, ingannato dall’umanità del corpo di Cristo, addenta la preda, ma il veleno della vita, nascosto nella divinità di Cristo, lo ucciderà.
A questo significato attribuito alla trappola, in riferimento a Cristo e alla sua passione, concorrono altri elementi del pannello. Ai piedi di San Giuseppe c’è una sega, strumento che - secondo la predicazione del tempo - san Pietro usò per tagliare l’orecchio a Malco, nel giardino degli ulivi; mentre, più a lato, vediamo una scure piantata solidamente in un ceppo. «La scure è alle radici», proclama il Battista all’inizio della sua predicazione: di fronte alle malizie del male, cui l’uomo presta il fianco, c’è un giudizio inappellabile che si compie, quello della verità. Ora, con la venuta di Cristo e con la sua passione (come si vede nel pannello centrale dove Cristo raggiunge il grembo della Vergine imbracciando una piccola croce), si compie il tempo definitivo del giudizio sulla storia.
Non possiamo fare a meno di notare però che san Giuseppe è intento a tutt’altro lavoro che apparentemente poco ha a che fare con la trappola in fabbricazione collocata sul desco. San Giuseppe sta forando una tavola di legno con fori a intervalli regolari. Vediamo l’oggetto perfettamente compiuto nella casa di Maria, proprio dietro le sue spalle, Si tratta di un parafuoco. Il soggetto iconografico della Madonna del Fuoco o del parafuoco, è abbastanza frequente in quel secolo, lo stesso Campin ne realizza alcune, e vuole indicare la verginità della Vergine. Sia per il riferimento al roveto ardente che arde senza consumarsi, sia per il riferimento al fuoco della passione che rimase estranea alla Vergine e quindi anche al coniuge, san Giuseppe.
Allora comprendiamo il simbolo: san Giuseppe fu custode non solo del Redentore ma anche della castità di Maria. Il diavolo sapeva, per il versetto di Isaia 7,14, che Cristo sarebbe nato da una Vergine, ma mai si sarebbe immaginato che questa Vergine avrebbe contratto matrimonio. Sposando San Giuseppe e rimanendo illibata con lui nel matrimonio, il diavolo fu confuso e non comprese la natura divina del Cristo. Perciò, non solo Cristo fu trappola per il demonio, ma anche lo stesso San Giuseppe. La sua santità confuse le aberrate prospettive del Maligno, il quale è incapace di comprendere come le straordinarie vie di Dio possano intrecciarsi con l’ordinarietà della vita. Sì, una vita straordinariamente ordinaria quella di questo anziano Giuseppe che lavora placido accanto alla casa della sua futura sposa! Egli sa che il suo ruolo è quello di custode e si prepara, fabbricando quegli oggetti che più profondamente lo possono portare a identificarsi con il piano divino e ad aderirvi con tutta l’obbedienza del cuore.
* Fonte: Monache dell’Adorazione Eucaristica (Adoratrici.it, 15.03.2020 - ripresa parziale, senza immagini).
Albero di Jesse *
L’albero di Jesse (o Iesse) è un motivo frequente nell’arte cristiana tra l’XI e il XV secolo: rappresenta una schematizzazione dell’albero genealogico di Gesù a partire da Jesse, padre del re Davide, il quale è di particolare importanza nelle tre religioni abramitiche, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam.
Origine
Il tema iconografico trae spunto da un famoso annuncio messianico contenuto nel capitolo 11 del libro del profeta Isaia (11,1.10) [1] da cui ha origine il suo nome greco [2]. Gli artisti combinarono la frase con la genealogia di Gesù come appare nel vangelo secondo Matteo [3] o secondo il Vangelo di Luca (3, 23-38)[4], genealogie che tuttavia presentano vistose differenze.
La più antica rappresentazione conosciuta dell’albero di Jesse è datata 1086, e compare nel Codice Vissegradesi, vangelo dell’incoronazione di Vratislao II di Boemia[5].
Iconografia
Jesse viene solitamente rappresentato coricato, semi-coricato o nell’iconografia meno antica seduto[6][7]. Nell’arte romanica, solitamente, egli è rappresentato coricato all’aperto mentre in quella gotica appare più spesso dentro ad un letto riccamente adornato, come nelle vetrate della chiesa di Saint-Étienne a Beauvais che datano al 1520.
Spesso Jesse appare addormentato, la testa appoggiata su una mano. Questa posizione è, a volte, associata ad un sogno profetico concernente la discendenza del dormiente. Dal suo fianco o dal suo ventre o anche dal dorso[7] o più raramente dalla sua bocca, s’innalza un albero i cui rami sorreggono gli antenati di Gesù, in particolare Davide riconoscibile per la sua arpa, fino a Maria. Le vetrate della cattedrale di Chartres rappresentano, dal basso in alto Davide, Salomone, Roboamo, Abias ed infine Maria. Ogni artista, a seconda del testo che ha utilizzato, del proprio gusto e dello spazio che ha a disposizione, aggiunge altri personaggi dell’Antico Testamento, spesso i profeti che gli esegeti del Medioevo pensavano avessero annunciato la venuta di Cristo (sono quattordici sulle vetrate di Chartres). Alla sommità si trova Gesù, a volte in croce, a volte bambino, sulle ginocchia della madre.
Nel XIII secolo, l’albero si sviluppa verticalmente, ed è solo nel XV che comincia a ramificarsi lateralmente[6]. Ancora presente nell’iconografia cristiana del XV sec., il motivo declina nel XVI per scomparire con la Controriforma[6].
Esistono naturalmente anche altre forme di rappresentazione della genealogia di Gesù, che non utilizzano l’albero di Jesse, il più famoso è quello dipinto nelle lunette della Cappella Sistina da Michelangelo tratto dal Vangelo secondo Matteo[8].
I supporti
L’albero di Jesse è stato un motivo popolare in tutte le arti: si trovano esempi nei manoscritti miniati, le stampe, le vetrate, la scultura monumentale, gli affreschi, le tappezzerie o nei ricami[6].
Manoscritti
Il motivo appare in parecchie bibbie romane, ad esempio nella Bibbia di Lambeth, sotto forma di una B maiuscola decorata all’inizio del Libro di Isaia o del vangelo di Matteo. La bibbia di San Benigno, del XII secolo, una delle più antiche che ci sono pervenute, mostra Jesse e le sette colombe rappresentanti i sette doni dello Spirito Santo[9]. La bibbia dei Cappuccini (ultimo quarto del XII sec.) conservata nella Bibliothèque nationale de France ne è un altro esempio, l’albero di Jessi decora la L maiuscula del Liber generationis nel vangelo di Matteo[10].
Poiché il re Davide era considerato l’autore dei Salmi, i salteri erano sovente illustrati con un albero di Jesse, soprattutto i manoscritti inglesi, dove l’albero di Jesse s’arrotola attorno alla B maiuscola del testo latino Beatus Vir all’inizio del primo salmo. Uno dei primi esempi è il salterio di Huntingfield, della fine del XII secolo. La British Library possiede un bellissimo salterio del XIV sec., detto di Gorleston. In questi due esemplari Jesse è allungato ai piedi della lettera B. Si potrebbero citare ancora il salterio di Macclesfield (Fitzmuseum, Cambridge) ed il Salterio e le Ore del duca di Bedford [11].
Alcuni manoscritti consacrano una pagina intera al motivo, aggiungendovi personaggi, per esempio la sacerdotessa di Apollo Sibilla Cumana del salterio d’Ingeburg (inizio del XII sec.). Presso Colonia, in un lezionario di prima del 1164 si descrive un Jesse insolito, morto in una tomba o bara, da cui l’albero cresce[12].
Una prestigiosa rappresentazione dell’Albero di Jesse si trova nella cappella Roano (voluta dall’Arcivescovo Giovanni Roano), detta cappella del Crocifisso, sita all’interno del Duomo di Monreale in Sicilia.
Evoluzione
L’albero di Jesse, contaminato dalla popolarità del tema della parentela santa si modifica fino a diventare, a partire dal X secolo, il modello da cui deriveranno le successive rappresentazioni degli alberi genealogici[13] e in particolare per sintetizzare figurativamente la genealogia delle famiglie reali[14].
Per Tilde Giani Gallino l’albero di Jesse dell’abbazia di Saint-Denis rappresenta, dissimulato, un fallo di dimensioni sproporzionate. Questa rappresentazione è risultato dell’inconscia compensazione del suo ideatore, l’abate Sugerio, che - sfavorito dalla natura, causa imbecille corpusculum - proiettò, tramite quello che per lui era simbolo di forza e autorità, la sua «volontà di potenza».[15][16]
L’immagine dell’albero che nasce direttamente dal fianco di Jesse, affermatasi nei secoli XI-XII, ha una sconcertante analogia con la scena in cui si vede Brahmā seduto su un loto che esce dal ventre di Viṣṇu, secondo i testi sacri Veda. Nell’arte romanica i personaggi sono collocati direttamente sui rami e non nei calici dei fiori come avverrà dopo un paio di secoli, analogamente a quanto rappresentato nelle sculture buddhiste in Birmania, Cambogia, Cina ed altre parti dell’Estremo Oriente. Queste immagini si ritrovano a Worms, Issoudun (cappella dell’Ospedale), Rouen (cattedrale), Sens (cattedrale).[17]
* Fonte: Wikipedia (ripresa parziale, senza immagini e senza note).
Profeti e Sibille
di Rosanna Virgili (Avvenire, domenica 18 aprile 2021)
«Profeti, Sibille, Cassandra e Tiresia dal lato greco; Samuele, Isaia, Geremia ed Ezechiele da quello ebraico: con un futuro spettacoloso che li vede tutti insieme nella volta della Cappella Sistina per mano di Michelangelo. La profezia deriva da ispirazione divina: Cassandra da Apollo, Tiresia da Zeus; i profeti biblici da Dio. La chiamata di ciascuno di essi possiede una forza teologica e poetica formidabile». Così inizia un bell’articolo di Pietro Boitani dedicato ai “professionisti del futuro”.
Quelli cui ancora molti di noi chiedono lumi sui giorni a venire, cos’erano davvero anche nel mondo antico? Lo fa capire bene Boitani quando, a proposito della bella Cassandra, trova che nell’Iliade non faccia altro che constatare «la pura realtà» che ella coglie per prima, circa il cadavere di Ettore. «L’oracolo di Delfi - dice Eraclito - non dice e non nasconde: significa». Vede il futuro nelle pieghe del presente. Voce stessa di Dio, i profeti biblici, che riuscivano a capire quale sfacelo avrebbe fatto seguito alle testarde e reiterate violazioni della giustizia e della fraternità, con l’intelligenza della fede.
Gli antichi professionisti del futuro
Per quello che accadrà domani ci si è sempre rivolti a profeti, sibille e oracoli
di Pietro Boitani ("San Francesco", 19.04.2021).
Il futuro è insondabile: la scienza moderna riesce a prevedere i moti degli astri; i comportamenti delle particelle, le reazioni degli elementi chimici; e via via con minore precisione a inquadrare le combinazioni di cellule e l’ evoluzione degli organismi viventi; infine, a elaborare proiezioni economiche, sociologiche, politiche. Ma il nostro immaginario ancestrale è dominato da due tipi di futuro, quello della fama e quello di coloro che lo annunciano ab antiquo: profeti, Sibille, estensori di apocalissi.
Le figure maggiori sono Cassandra e Tiresia dal lato greco; Samuele, Isaia, Geremia ed Ezechiele da quello ebraico: con un "futuro" spettacoloso che li vede tutti insieme nella Volta della Cappella Sistina per mano di Michelangelo.
La profezia deriva da ispirazione divina: Cassandra da Apollo, Tiresia da Zeus o da Atena; i profeti biblici da Dio. La chiamata di ciascuno di essi possiede una forza teologica e poetica formidabile. Nel caso di Samuele, il testo gioca sulla ripetizione della "parola". Samuele, al servizio del vecchio sacerdote Eli, sente la Voce chiamarlo. Corre allora dal maestro: «Mi hai chiamato, eccomi!». Ma Eli: «Non ti ho chiamato, torna a dormire!». Il messaggio divino deve essere ripetuto ben tre volte, e il futuro che esso minaccia è il "piano" stesso di Dio, la sua giustizia.
In Eschilo, Cassandra "vede" l’ assassinio di Agamennone: la possiede, invasandola dopo aver desiderato invano di possederla fisicamente, Apollo, che la punisce per il suo rifiuto di darsi a lui con la condanna ad essere inascoltata. Ma nell’ Iliade Cassandra constata la pura realtà, scorgendo per prima il cadavere di Ettore che giunge a Troia, e chiamando tutti a contemplarlo. È il momento tremendo in cui la profezia si adempie. Al sorgere dell’ Aurora, Priamo e il suo araldo ritornano dalla tenda di Achille, tra grida e lamenti si avvicinano alla città. Non li vede nessuno, ma Cassandra, «bella come Afrodite d’ oro», sale sulla rocca e li avvista. C’ è qualcosa di infinitamente tragico nel contrasto tra la bellezza di Cassandra - «prima per bellezza delle figlie di Priamo», ripete Omero - e la morte che ella scorge e segnala. Lì, in quel cuneo del bello, sta la tragedia della profezia compiuta.
Altra tragedia, quella di Tiresia: «Ahi, ahi, com’ è terribile sapere», egli esclama nell’ Edipo re, «quando non giovi a chi sa! Io ne ero ben consapevole, ma l’ ho dimenticato; altrimenti non sarei venuto qui». Tiresia porta con sé il segreto del destino di Edipo: Tiresia, l’ uomo che ha sperimentato cosa voglia dire essere donna, colui che riceve il dono della profezia come compenso per la perdita della vista fisica: occhio per occhio, davvero.
Le profezie antiche sono enigmatiche e ambigue: «Il Signore di cui è l’ oracolo in Delfi», sostiene Eraclito, «non dice e non nasconde: significa». Solamente le previsioni di un Esiodo o di un Virgilio che legano astronomia e agricoltura sono chiare ed esatte, perché basate sull’ esperienza: «Quando le Pleiadi sorgono, dà inizio alla mietitura». Ma la durata più estesa del futuro che l’ antichità e le epoche successive riescono a concepire è quella fornita dalla fama: che non è la gloria, ma il parlar di qualcuno: Rumor, diceria. Per l’ immaginario del futuro che ha dominato l’ Occidente, è un concetto fondamentale almeno sino al Settecento. La rivoluzione scientifica del secolo XVII muta radicalmente il panorama. Il futuro porta ora il segno della precisione quantitativa: l’ ingresso della matematica e dello sperimentalismo nelle scienze fisiche altera definitivamente la previsione: non più profezia ma interpretazione di dati ed elaborazione di modelli. Su queste basi nascerà nel Novecento, seguendo germi antichi, la fantascienza, che elabora visioni del futuro fondate su previsioni scientifiche. C’ è chi immagina l’ apocalisse, come Walter Miller nel capolavoro Un cantico per Leibowitz; chi una successione di specie attraverso Anni senza fine, come Clifford Simak; e chi infine, come Stanley Kubrick in 2001: Odissea nello spazio, ricostruisce l’ intera storia dell’ umanità, dalla preistoria all’ oggi e poi al futuro remoto.
In Un cantico per Leibowitz la situazione di partenza è l’ olocausto nucleare (il «Diluvio di Fiamma») che ha avuto luogo sulla Terra nel XXI secolo e cui segue un nuovo Medioevo. All’ inizio dei secoli bui Isaac Edward Leibowitz trova rifugio in un monastero benedettino e fonda poi il proprio Ordine: il cui compito principale è quello di conservare i Memorabilia, gli scritti sopravvissuti al Diluvio di Fiamma. In effetti il primo protagonista del romanzo, Frate Francis Gerard dello Utah, ritrova antichissimi documenti che col tempo permettono lo sviluppo di una nuova scienza e di una nuova civiltà. Ancora una volta, però, l’ alta tecnologia conduce inevitabilmente al conflitto nucleare, e alla fine del romanzo i monaci sono costretti ad abbandonare la Terra su un’ astronave. Nel messaggio pessimista di Un cantico per Leibowitz ha una parte fondamentale l’ idea che un periodo di barbarie, di regresso della storia, sia necessario incubatore di una nuova civiltà. È un concetto cui pare accennare Dante quando enuncia la sua prima visione del futuro in Purgatorio XI: il celebre miniatore Oderisi da Gubbio parla dell’ umana vanità e, prima di mettere in scena i grandi artisti (Cimabue e Giotto, i due Guidi e Dante) che si succedono nel conquistare la gloria, enuncia la legge che governa il poco che l’ uomo può: quella della vana-gloria, che non dura se non seguita dalle «etati grosse». Le «etati grosse» sono appunto i periodi nei quali la civiltà viene meno e la barbarie impera. Gli uomini più grandi dell’ antichità non sarebbero famosi ora se non ci fosse stata tra loro e Dante una «etate grossa», un ...Medioevo.
Nel secondo grande classico, Anni senza fine di Simak, prevale invece il «tacito, infinito andar del tempo» (dall’ anno 2008 al milione) e il succedersi di specie diverse nel dominio sulla Terra: dotati di modifiche fondamentali al loro corpo o al loro habitat, i cani rimpiazzano l’ uomo - divenuto nel frattempo un mito da studiare filologicamente - e le formiche sostituiscono i cani, mentre la continuità è assicurata dal robot Jenkins, già maggiordomo della famiglia Webster e ora guardiano della cripta dove tutti i suoi membri giacciono in eterna ibernazione. «Una concezione della storia che voglia coprire la totalità delle cose umane», scriveva Karl Jaspers in Origine e senso della storia, «deve includere il futuro».
2001: Odissea nello spazio, il film iconico di Kubrick, ne provvede un altro. Il monolite nero piovuto da chissà dove segna qui, accompagnato dal rimbombare del Così parlò Zarathustra di Richard Strauss, le tappe fondamentali dell’ evoluzione umana: sulla Terra dà l’ impulso fondamentale alla trasformazione degli ominidi in homines sapientes; ritrovato sulla Luna nel 2001, spinge l’ uomo alla navigazione verso Giove e i suoi satelliti mentre il computer assassino HAL viene disattivato.
L’ unico astronauta superstite viene allora lanciato, dopo aver rinvenuto il monolite, in «folle volo» attraverso lo spazio e il tempo, sino a ritornare sulla Terra e morire sollevando l’ indice verso l’ Uovo Cosmico che contiene lo «Star-Child», il Puer Aeternus: come dichiara di nuovo la musica di Strauss, è l’ embrione del superuomo. Non esisterà più il tempo, recita il titolo di un bellissimo saggio di Riccardo Antonangeli, Eternità e trama nell’ arte del racconto (Roma, Studium).
Tramonto dell’ uomo o sua trasformazione: la fantascienza invita a porsi la domanda con la frase usata da Dante per immaginare noi, suoi posteri - coloro che, dice in Paradiso XVII parlando all’ antenato Cacciaguida e inventando il futuro, «questo (il suo) tempo chiameranno antico». L’ uomo diverrà una leggenda? Chi chiamerà il nostro tempo antico? I cani, le formiche, il superuomo?
ANTROPOLOGIA, MATEMATICA, E IL PROBLEMA DELL’UNO: "DOCTA IGNORANTIA", "COINCIDENTIA OPPOSITITORUM", E NUOVO PRINCIPIO DI CARITÀ (CHARITAS)! *
Maestri.
Ripartire da Cusano, il sapiente che sa di non sapere
Filosofo, teologo, diplomatico, cardinale, vescovo, umanista, un saggio di Massironi lo rilegge come modello di pensiero di fronte allo smarrimento culturale e spirituale del nostro tempo
di Simone Paliaga (Avvenire, giovedì 15 aprile 2021)
Tocca in sorte all’epoca attuale fare esperienza della crisi di configurazioni religiose, filosofiche, simboliche, giuridiche che per secoli hanno dato senso e ordine alla realtà circostante. Scollinare da una stagione all’altra non lascia indenni. Il passaggio di epoca comporta lo scacco di una ragione ormai diventata incapace di ritrovare le proprie tracce nel mondo. Il suo naufragio non è però un fenomeno isolato. Fa il paio con la soggettività che se ne faceva interprete, e che ormai fatica a riconoscersi nella realtà che la circonda. Lo spaesamento avviene perché una ragione calamitata dal finito è esposta all’irrompere dell’imprevedibile e l’uomo, alla stregua di una singolarità in costruzione, scopre che essere umano significa non restare identici in rapporto alla Verità.
Sono le sfide da fronteggiare quando a un’epoca di cambiamenti succede il cambiamento di un’epoca. Sembrerebbero questioni più attuali che mai in questo frangente storico. Ma non appartengono esclusivamente al nostro tempo. Lo conferma Sergio Massironi nel suo Il cardinale inquieto. La ripresa di Cusano in Italia come provocazione alla modernità (pagine 228, euro 22) appena pubblicato dalle edizioni Vita e Pensiero e che sarà presentato oggi alle ore 18 in un confronto online che vedrà l’autore discuterne con monsignor Sergio Ubbiali, docente di Teologia sistematica presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, e Silvano Petrosino, che insegna Antropologia religiosa e media all’Università Cattolica del Sacro Cuore, moderati da Sara Corna, del Collegio Villoresi di Monza. Il dibattito sarà trasmesso, in diretta, sul canale Youtube e profilo Facebook della casa editrice. Massironi nel suo lavoro mette in dialogo, con gran agio, la biografia intellettuale di Nicola da Cusa con alcune analisi critiche del suo pensiero condotte di recente in Italia.
Pur passando in rassegna le fatiche di Davide Monaco, Giovanni Gusmini, Cesare Catà, Gianluca Cuozzo e Marco Maurizi, lo studioso lombardo non rinuncia al confronto con figure come il filosofo Harald Schwaetzer sullo statuto del soggetto, con il teologo Ingolf U. Dalferth sul problema della ragione e il contributo dell’escatologia e con Jorge Bergoglio sui risvolti ecclesiologici-magisteriali.
Riannodare i fili tra presente e passato è una necessità perché «la crisi della modernità - avverte Massironi - ha provocato nel pensiero del Novecento una ripresa critica della parabola europea. Ciò ha offerto al cristianesimo l’opportunità di ripensarsi e di intervenire nuovamente con la propria proposta a indicare una traiettoria». Nicola da Cusa rappresenta, per usare in maniera impropria un’immagine a lui cara, uno speculum, uno specchio con cui compiere questo passo.
Il Cusano (1401-1464) è uno straordinario modello di riflessione per oggi perché percorre il crinale tra due mondi altrettanto delicato del nostro senza trovarsi impreparato dinanzi alle nuove sfide. Egli è di certo l’ultimo pensatore della stagione medioevale ma anche il primo riformatore nella fase moderna. Lo testimoniano sia la sua opera sia la sua biografia intellettuale. Filosofo, teologo, diplomatico, cardinale, vescovo, umanista, al tempo stesso quindi pastore di anime, politico, teoreta e uomo di fede oltreché grande collezionista di manoscritti, in perfetta sintonia con la passione umanistica delle fonti.
Nel corso dell’esistenza ha percorso più e più volte l’Europa, dalla natia Kues a Bisanzio, da Basilea a Parigi, da Colonia a Roma. Gli studi condotti a Padova gli hanno permesso di svincolarsi dai dibattiti frustri e desueti vissuti nel corso dei primi anni trascorsi all’università di Heidelberg dove si discuteva ancora della disputa degli universali, quasi un duecentesco déjà vu.
Ma i tempi erano ormai fuggiti in avanti. Infatti è il soggiorno italiano a consentire a Nicola da Cusa di nutrirsi della grande cultura umanistica che allora soffiava sulla penisola. Frequentare Vittorino da Feltre, Giuliano Cesarini e Lorenzo Valla, interloquire con Tommaso Parentuccelli, il futuro Niccolò V e con Enea Silvio Piccolomini, futuro papa Pio II, o ancora confrontarsi, durante la missione a Bisanzio, con Isidoro di Kiev, Giovanni da Ragusa, il cardinale Bessarione, Gemisto Pletone permettono al Cusano di non rinchiudersi tra le strette gole della scolastica ma di schiudere strategie di pensiero rivolte all’epoca nuova.
Mettendo a frutto il dispositivo della docta ignorantia, Nicola da Cusa comprende che il non sapere è il vero sapere e assume, nel De coniecturis, la natura prospettica della scienza umana che permette di conoscere, senza indulgere in alcun relativismo, la singola cosa come coincidentia oppositorum, un risultato che contrae il tutto in sé, punto nodale dell’intreccio di relazioni del reale, e capace di comprendere in sé il prima e dopo del passaggio d’epoca
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER LA PACE E IL DIALOGO, UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. GIUSEPPE dà a suo Figlio, GESU’ (= "Dio" salva), il NOME del Suo "Dio", e Gesù rivela che il Nome di "Dio" è "Amore" (Agape, Charitas)!!!
UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI: STORIA DELLE IDEE E DELLE IMMAGINI. A CONTURSI TERME (SALERNO), IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE ..... RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
#Come nascono i bambini:
ripartendo dal #saperedinonsapere,
Niccolò Cusano
ricade nella #antropologia zoppa e cieca di #Aristotele
e propone nella #Docta Ignorantia (III, 5) del 1440
la visione (#teoria) del trittico di Merode (1427)
La fedeltà e il riscatto.
Noemi la migrante si alzò
di Luigino Bruni ( Avvenire, sabato 3 aprile 2021)
«Al tempo dei giudici ci fu nel paese una carestia...» (Rt 1,1). Nei pochi versi del Libro di Rut ogni nome è un messaggio. Come in una miniatura medioevale, il capolavoro nasce dalla cura dei dettagli. Al tempo dei giudici... Il libro dei Giudici descrive un tempo di violenza e di soprusi, e si chiude con il racconto - tra i più tremendi della Bibbia - dell’omicidio perpetrato da uomini di Gadaa nei confronti di una donna di Betlemme (Gdc 19,29).
Il Libro di Rut inizia con un’altra donna di Betlemme: Noemi (o Naomi). La Bibbia va letta tutta insieme, perché, come nella vita, il senso di una parola lo si trova anche in un’altra, anche lontana. Ci fu nel paese una carestia. Nella Bibbia le carestie non sono soltanto eventi climatici. Sono anche teofanie, parole di Dio. Una carestia condusse Abramo in Egitto, un’altra ci portò i figli di Giacobbe e lì avvenne la grande riconciliazione con il loro fratello Giuseppe. Spesso una carestia è dolore che prepara una resurrezione. È un dolore che ci costringe a uscire da una terra che senza quel dolore non avremmo mai lasciato. Nella Bibbia qualche volta le persone partono inseguendo una voce; altre volte partono inseguendo acqua a pane. Per poi scoprire, ma solo alla fine, che dentro quel dolore che li aveva fatti fuggire di casa c’era lo stesso amore. Ma per capirlo c’è voluto tutta la vita, a volte quella di molte generazioni.
«E un uomo con la moglie e i suoi due figli emigrò da Betlemme di Giuda». Una famiglia emigra. Ancora non sappiamo i loro nomi, ma subito sappiamo il nome della città colpita dalla carestia: Betlemme. Quel nome però non sta facilmente accanto alla parola carestia.
Betlemme, lo sappiamo, significa "casa del pane". Quella famiglia per una carestia lascia la casa del pane, va a cercare il pane lontano dalla sua casa. Eccoci dentro un primo paradosso. Erano già dentro la casa del pane e la lasciano per il pane. Ma quella famiglia, diversamente dalle altre grandi migrazioni bibliche, non va in Egitto, dove il ciclo delle acque del Nilo era più forte delle carestie.
Va in un luogo improbabile, un nome quasi impronunciabile per gli ebrei del tempo: «nei campi di Moab». Va dai moabiti, che insieme agli ammoniti erano tra gli storici nemici di Israele. Un popolo, poi, che portava iscritto nella sua storia proprio il segno del pane e dell’acqua: «L’Ammonita e il Moabita non entreranno nella comunità del Signore... Non vi entreranno mai, perché non vi vennero incontro con il pane e con l’acqua nel vostro cammino, quando uscivate dall’Egitto» (Dt 23,4-5). Non vi vennero incontro con il pane: perché allora andare a cercare pane là dove il pane era stato negato? La tensione cresce...
«Quest’uomo si chiamava Elimélec, sua moglie Noemi e i suoi due figli Maclon e Chilion; erano Efratei, di Betlemme di Giuda. Giunti nei campi di Moab, vi si stabilirono" (Rt 1,2). Elimélec, cioè il mio Dio (Eli) è re (mélec). Anche qui un nome che parla: quell’uomo migrante porta con sé il legame con quel suo Dio diverso. I nomi dei suoi due figli maschi sono invece nefasti e cupi, traducibili come "malattia" e "tubercolosi" (o "esaurimento").
Nella Bibbia il numero due per i figli in genere non porta bene, a partire da Caino e Abele, passando per Isacco e Ismaele, Esaù e Giacobbe, Rachele e Lia, fino al rapporto tra il figliol prodigo e suo fratello - tanto che André Gide ha voluto immaginare, nella parabola di Luca, un terzo figlio minore, e una madre ("Il ritorno del figliol prodigo"). Due è anche il numero dell’invidia, della rivalità, del conflitto per ottenere il riconoscimento, per l’eredità e la primogenitura. Nella Bibbia il due non è ancora il numero della buona fraternità - e nessun numero lo è se la fraternità non genera un legame più grande di quello del sangue.
E vi si stabilirono. Vissero a Moab da "migranti". Il verbo gûr (emigrare) e il sostantivo ger (migrante) sono parole di casa nella Bibbia o, meglio, "di tenda". Vivere in un paese straniero da ger è una buona condizione. In Israele, ad esempio, il ger osservava il Sabato e partecipava alle principali feste. Non sappiamo come fosse la condizione giuridica del ger presso i moabiti, ma non è da escludere una condizione analoga a quella in Israele ("Rut", Donatella Scaiola, Paoline). Una parola, ger, che al lettore biblico ricorda poi direttamente Abramo: «Io sono uno straniero (ger) residente ospite in mezzo a voi» (Gn 23,4).
Abramo abitò la terra promessa da ger, a dirci che la condizione di migrante è la condizione umana, che nessuna terra promessa è per sempre.
Nella Bibbia ogni migrazione è continuazione di quella dell’arameo errante, che non ha mai smesso di errare, che ha sempre custodito una nostalgia spirituale profonda per quella casa nomade, libera e povera. Il libro di Rut è molte cose, ma è anche una grande riflessione sulla dimensione nomade della vita, che ci porta a cercar pane lontano dalla casa del pane, poi ci fa tornare, per ripartire ancora inseguendo, come la cerva, altre piste dell’unica vita, che è vera perché provvisoria.
«Poi Elimélec, marito di Noemi, morì ed essa rimase con i suoi due figli» (Rt 1,3). In quella nuova situazione di residenti-migranti a Moab accade un primo evento traumatico. Muore Elimélec. Nel morire viene definito "marito di Noemi". Prima era Noemi la "moglie di Elimélec", ora l’uomo è il marito di Noemi, un’espressione rarissima in quelle culture patriarcali, ma che sta bene in un libro al femminile. Il Midrash aggiunge una bella nota su questa definizione: «La morte di un uomo non è sentita da nessuno tranne che da sua moglie» (Midrash Rabbah del libro di Rut, Parashah Beth).
Non sappiamo come e perché morì il marito di Noemi. Ciò che è certo è che gli uomini iniziano, uno alla volta, a sparire. «I figli sposarono donne moabite: una si chiamava Orpa e l’altra Rut» (Rt 1,4). Sposare, per due ebrei, delle donne moabite non è un dettaglio secondario. La Legge di Mosè, lo abbiamo visto, non permetteva ai moabiti di diventare membri della comunità di Israele. Ancora il Midrash dà una sua lettura: «Moabita (maschile) ma non moabita (femminile)». Quel divieto allora non valeva per le donne?
Quel mondo patriarcale tutto incentrato sulla legge dei primogeniti maschi, aveva sviluppato delle norme che attenuavano e contrastavano questa legge ferrea. La storia della salvezza è infatti intersecata da primi figli non eletti (Caino, Esaù...) e da ultimi che vengono scelti (Giuseppe, Davide...).
E ora vediamo donne che riescono a violare addirittura la Torah di Mosè.
C’è una tipica trasgressione femminile. Accanto alle trasgressioni di tutti, maschi e femmine, c’è quella che si insinua nelle intercapedini delle leggi scritte da maschi, nei pertugi di regolamenti pensati e voluti da e per un mondo maschile. Le donne, quasi sempre ospiti di comunità non disegnate da loro, hanno dovuto imparare a sopravvivere infilandosi, spesso di nascosto, in quelle zone grigie e ambivalenti delle leggi, approfittando del non-detto e del non-esplicitato. E qualche volta togliendo quel sassolino dal muro per vedere oltre attraverso un foro, o gettando un seme tra le pietre di un muro a secco. Quel muro qualche volta poi crolla, magari senza averlo voluto - volevano solo vedere un altrove, solo piantare un fiore. C’è una sovversione discreta della legge, un "rovesciare i potenti dai troni" diverso, dove i potenti cadono quasi senza accorgersene.
«Abitarono in quel luogo per dieci anni. Poi morirono anche Maclon e Chilion, e la donna rimase senza i suoi due figli e senza il marito» (Rt 1,4-5). Rimase «come il resto dei resti dell’offerta del pasto» (Parashah Beth). Passano dieci anni (di matrimonio? o di residenza a Moab?), e poi muoiono anche i due figli di Noemi, per di più senza lasciarle nipoti - il testo non lo dice ma il contesto lo suggerisce, come suggerisce una sterilità delle due nuore: dieci anni fu il termine che portò Sara a far unire Abramo con la sua schiava Agar. La vita le lascia solo due vedove: Noemi ha una compagnia tutta femminile. L’economia del racconto ha eliminato i tre uomini dalla scena, e in un libro fatto quasi solo di dialoghi, quegli uomini sono entrati e usciti senza dire neanche una parola. Un campo sgombrato per far risaltare tre donne, tre vedove.
A questo punto, in questa condizione simile a un Giobbe femminile - ma cui restano accanto due vedove - Noemi riparte: «Allora lei si alzò con le sue nuore e fece ritorno dai campi di Moab» (Rt 1,6).
Noemi ritorna a casa, alla "casa del pane". Torna da sconfitta dalla vita. E noi non possiamo non pensare ai tanti emigrati che ripercorrono lo stesso cammino di Noemi, partiti per vivere, e tornati sconfitti da quella vita che li aveva fatti partire. Per le donne questo cammino a ritroso è ancora più triste e duro, prima durante e dopo.
Lei si alzò. Come Anna, la madre di Samuele, che dopo le umiliazioni e i pianti per la sua sterilità, «si alzò» (1 Sam 1,9). Come il figliol prodigo, che, un giorno, «si alzò» dal suo porcile, e quell’alzarsi fu il primo passo del ritorno a casa. Il libro non ci dice cosa accadde nell’anima di Noemi tra la morte dei figli e il suo alzarsi. Ma deve essere accaduto qualcosa di simile a quello che continuiamo a vedere in tanti uomini, e ancora più spesso in donne. Chissà quante parole le avranno detto Rut e Orpa - le donne sanno consolarsi solo con le parole, come Sharazad nelle "Mille e una notte" sconfiggono la morte parlando - quel logos che vince thànatos è donna.
«Si alzò» è la fine del lutto. Noemi non restò bloccata nel passato, fu capace di non morire anch’essa insieme ai suoi morti - il lutto è forse solo questo, ma lo abbiamo dimenticato. Si alzò, scelse di continuare a vivere. È la resurrezione di Noemi, la resurrezione di tante donne e uomini, ieri e oggi. Se quelle donne e poi gli uomini dell’antica Palestina furono capaci di riconoscere quella resurrezione diversa, è perché conoscevano le resurrezioni di Agar, di Anna, di Sara, di Noemi. Erano tutte lì, insieme, nel primo giorno tutto il sabato, a far festa per il Crocifisso che si era "rialzato". Buona Pasqua.
LA POCA SAGGEZZA DELLA FILOSOFIA, I “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO DI DANTE E LA PRESENTE STORICA CRISI DELLA CULTURA EUROPEA...
CONSIDERATO CHE UN FILOSOFO, “Anche quando sbaglia di grosso, se è un vero filosofo sbaglia con argomenti non banali, fino al punto che, grazie a lui, l’errore brilla della luce convincente della verità” (cf. S. Benvenuto, cit. - su), E VISTO CHE EGLI HA MESSO IL DITO NELLA PIEGA (e nella piaga) della storia della filosofia, nel gioco sofistico di Socrate: «Malgrado lo slogan “so di non sapere”, tutti ci rendiamo conto che Socrate in realtà sapeva tante cose. Ma il suo sapere squisitamente filosofico era proprio quello di non sapere, ovvero, il suo appello all’epistheme come “ricominciare tutto daccapo”» (op. cit. - su), VISTO IL PERSISTERE E , AL CONTEMPO, L’ESAURIRSI DELLA “GRANDE INSTAURAZIONE” ANTROPOLOGICA ED EPISTEMOLOLOGICA apollinea-socratica (su questo, si cfr. la grande analisi di Nietzsche!), forse, è bene e salutare riprendere alla radice (Marx!) la questione e, riaccogliendo l’indicazione di Sofocle, ripensare le «perversioni» di tremila e più anni (come sapeva Dante, meglio di Goethe), rileggere il cap. 15 del manuale di “Anatomia” (Roma, 1560) di Giovani Valverde, e ripensare l’«edipo completo», come voleva Freud e Fachinelli. Altro che continuare a menare la canna per l’aria. O no?!
Sul tema,nel sito, si cfr.:
Antropologia, Storia e Diritto. Donne e Uomini.... PER LA VERITA’ E LA RICONCILIAZIONE. RIMEDITARE LA LEZIONE DI ESCHILO. Dalla storia di Clitennestra, si arriva anche a immaginare una nuova giustizia, all’interno di nuovi rapporti sociali e politici
FLS
Giovedì la Lettera apostolica del Papa
Ravasi: «Dante, profeta di speranza»
Il cardinale illustra l’attualità anche religiosa dell’autore della Commedia. La Candor Lucis æternæ di Francesco, dedicata al Poeta, esce il 25 marzo, giorno di inizio del viaggio raccontato nel poema
di Gian Guido Vecchi *
«Dante è davvero un profeta di speranza, come lo considera Papa Francesco. Nel tempo della pandemia viviamo un periodo di dolore, paura, sconforto. Anche Dante ha vissuto un periodo così e ci ha mostrato come la grande poesia e la fede possano fiorire anche in un terreno devastato».
Il cardinale Gianfranco Ravasi sorride, «la Divina Commedia è un viaggio, un grande cammino che comincia il 25 marzo», e proprio giovedì sarà pubblicata la Lettera Apostolica Candor Lucis æternæ di Papa Francesco, dedicata a Dante Alighieri: il riferimento è al «candore de la etterna luce» che Dante, nel terzo trattato del Convivio, cita dal Libro della Sapienza.
Nella tradizione della Chiesa, il 25 marzo è il giorno dell’Annunciazione e anche della morte di Gesù, la data prossima all’equinozio di primavera che la dantistica indica (ma c’è chi opta per il Venerdì Santo del 1300, cioè l’8 aprile) come giorno d’inizio della Commedia. Il testo del Papa, come le iniziative programmate dal pontificio Consiglio della Cultura guidato dal cardinale Ravasi, mostra tutta l’attenzione della Santa Sede per Dante, nel settecentesimo anniversario di morte.
Eminenza, che cosa ci racconta, oggi, questo viaggio?
«Ciò che regge il cammino di Dante, il nostro cammino, è la speranza. Il viaggio comincia dall’Inferno, nel realismo del sottosuolo, nel fango della storia, la terra come «l’aiuola che ci fa tanto feroci» vista dall’alto del Paradiso, al canto XXII. Ma non è che finisca con il dolore irrimediabile di cerchi, gironi e bolge. Nel Purgatorio c’è la rappresentazione simbolica del passaggio dal peccato alla catarsi alla liberazione, dell’intreccio tra grazia divina e libertà umana. Ad esempio, quando nel canto terzo mette in scena la figura di Manfredi, che era stato trafitto da due colpi di spada...».
«...mentre che la speranza ha fior del verde».
«Proprio così. Manfredi, figlio illegittimo di Federico II, era stato scomunicato. E mentre sta morendo si rivolge a “quei che volontier perdona”, a Dio. Sono versi fondamentali: “Orribil furon li peccati miei;/ ma la bontà infinita ha sì gran braccia/ che prende ciò che si rivolge a lei”. Questa è la parabola del figliol prodigo: fino all’ultimo il Padre ti tende le “gran braccia”. Dante, oltre che poeta sommo, è un grande cristiano. Ed è di casa in Vaticano...».
In che senso?
«Nella Stanza della Segnatura, Raffaello lo rappresenta due volte. Nella cosiddetta Disputa del Santissimo Sacramento, sintesi della dottrina trinitaria, appare tra Agostino e Tommaso d’Aquino, come un teologo che annuncia la verità divina. La seconda immagine, col suo profilo segaligno, lo raffigura sul Parnaso come poeta, con Omero e Virgilio: la via pulchritudinis, la bellezza che parla anche a chi non crede. Interessante l’ interpretazione duplice: Dio gli ha dato il dono della poesia e lo ha incaricato di dire la verità. Il bello e il vero uniti».
Francesco è il terzo Papa a scrivere un testo ufficiale così importante su Dante.
«Sì, il primo fu Benedetto XV: nel 1921 compose un’enciclica, In Praeclara Summorum. Ma il Papa che in assoluto ha cantato più Dante è Paolo VI, che nel 1965 gli dedicò la Lettera Apostolica Altissimi cantus, un testo bellissimo. Da un lato scriveva “Dante è nostro”, non come trofeo ma per affermarne l’universalità e dire che vi si scoprono i tesori del pensiero e del sentimento cristiano. Dall’altra ammetteva: “Né rincresce ricordare che la voce di Dante si alzò sferzante e severa contro più d’un Pontefice romano, ed ebbe aspre rampogne per istituzioni ecclesiastiche e per persone che della Chiesa furono ministri e rappresentanti”».
In effetti nella «Commedia» abbondano i Papi all’inferno: nella terza bolgia dei simoniaci, ficcato a testa in giù in un pozzo occupato da svariati predecessori, Niccolò III si illude che Bonifacio VIII sia arrivato in anticipo e annuncia Clemente V...
«Sì, ci mette pure Papi ancora vivi! Del resto, negli anni del Concilio ero a Roma e ricordo che Paolo VI volle regalare a tutti i padri riuniti nelle Assise un’edizione della Divina Commedia...».
Sulla corruzione della Curia e della Chiesa è durissimo: «A la puttana e a la nova belva», scrive nel canto XXXII del Purgatorio. Forse non è un caso che i Papi ne abbiano scritto solo dopo la fine del potere temporale: imbarazzava la Chiesa?
«Probabilmente sì. Certo lo si celebrava: a chiamare Raffaello fu Giulio II, che magari Dante avrebbe messo, pure lui, all’inferno! Però lo si teneva un po’ a distanza. Era difficile elaborare la critica generale sulla corruzione della Chiesa: per questo fu molto significativo il dono di Paolo VI ai padri conciliari».
Dante è bellissimo da leggere, ma non facile...
«Michelangelo diceva di lui: “Simil uom né maggior non nacque mai”. Dispiega un’infinità di temi teologici, filosofici, astronomici, storici... Ci sarebbe un’infinità di cose da dire. Si pensi alla centralità delle figure femminili, Maria, Beatrice, Lucia...O alla visione della Trinità, al termine del Paradiso, che al centro “mi parve pinta de la nostra effige”: la nostra immagine, l’immagine del Cristo, il senso dell’essere nel volto umano...Chi non ha almeno una conoscenza essenziale della teologia non riesce a percorrere appieno questo viaggio. Inviterei la cultura contemporanea a non considerare la teologia come una cosa marginale, vecchia, decotta...».
Accade questo?
«Purtroppo sì. E invece qui vediamo la potenza di un pensiero che si fa poesia. In Dante si mostra quanto il pensiero cristiano sia importante nella cultura laica. Ed è drammatico il fatto che si tenda a insegnarlo in maniera superficiale, nelle scuole. Magari puoi scrivere note esplicative ma devi far capire la passione che animava Dante: un credente fervido e indefettibile. Non ti fa decollare dalla realtà: c’è l’inferno, tutti i vizi e le tragedie della storia le ha rappresentate. E poi c’è la forza della trasfigurazione, il “trasumanar” della redenzione cristiana. Lui è vissuto di quello».
Cosa dice Dante alla Chiesa, ancora oggi?
«L’autenticità del messaggio, senza compromessi mondani. E il coraggio della sincerità, anche nell’autocritica. -È la parresía che ci indica Francesco, segno di libertà interiore e di conversione».
Un poeta lo si celebra leggendolo. Che cosa direbbe per invitare a farlo?
«Le parole che confessava Jorge Luis Borges, grande poeta argentino che Francesco ha conosciuto, a proposito della Divina Commedia: “Nessuno ha il diritto di privarsi di questa felicità”».
TRANSIZIONE CULTURALE... *
Internazionale
Brasile, la profezia di Marielle Franco
Tre anni dopo. Resta senza mandanti l’omicidio della consigliera di Rio, avvenuto il 14 marzo 2018 per mano di due sicari. Ma alle ultime elezioni voti a valanga per 13 donne afrobrasiliane
di Glória Paiva (il manifesto, 14.03.2021)
Oggi il brutale omicidio della consigliera comunale brasiliana Marielle Franco e del suo autista Anderson Gomes compie tre anni. Militante, femminista, nera, residente a Favela da Maré e quinta consigliera più votata a Rio de Janeiro nel 2016, Marielle è diventata un simbolo mondiale della lotta antirazzista, per i diritti umani e lgbt+.
NONOSTANTE IL TEMPO trascorso, rimangono ancora domande sulle circostanze della sua morte. Perché le autorità locali e quelle nazionali non cooperano nella conduzione del caso? Qual è la conclusione dell’indagine relativa all’uso delle armi della polizia federale nel crimine? Chi ha spento le telecamere della strada in cui transitavano quella sera Marielle e Anderson? C’è stato un tentativo di depistaggio delle indagini? E la principale: chi ha ordinato l’omicidio di Marielle e perché?
Queste e altre questioni sono oggetto di un documento pubblicato dall’Istituto Marielle Franco, un’organizzazione creata dalla famiglia di Marielle per perpetuare la sua memoria. La famiglia chiede in modo costante risposte alle autorità di Rio de Janeiro che conducono le indagini. Tuttavia, si trovano spesso di fronte al silenzio: nell’ultima settimana, ad esempio, hanno cercato di incontrare il governatore dello stato, Cláudio Castro, e il procuratore generale, Luciano Mattos, ma non hanno avuto alcun riscontro, come ha riferito Anielle Franco, la sorella dell’attivista, in una conferenza stampa che si è tenuta venerdì 11 marzo.
FINORA, È NOTO SOLTANTO che Ronnie Lessa, poliziotto in pensione, e Élcio Queiroz, ex poliziotto, hanno aspettato l’auto di Marielle e Anderson nella Rua dos Inválidos, nel centro di Rio, prima di sparare contro il veicolo. Entrambi sono in un carcere di massima sicurezza e saranno sottoposti a un giudizio popolare, un processo in cui 25 cittadini, insieme al giudice, decideranno sulla colpevolezza o meno dell’imputato. L’ipotesi principale è che l’assassinio abbia avuto una motivazione politica e che vi abbiano partecipato delle milizie.
Secondo Jurema Werneck, direttrice esecutiva di Amnesty International in Brasile, i successivi cambiamenti negli organi responsabili delle indagini e la mancanza di trasparenza hanno ostacolato un’inchiesta rapida e imparziale. «In questi tre anni abbiamo avuto tre governatori, due procuratori generali, tre capi di polizia, tre pubblici ministeri. Nella pubblica sicurezza di Rio ci sono stati cinque cambi. Le autorità brasiliane non possono inviare un messaggio di impunità e di tolleranza rispetto alla violenza politica», dice Werneck. Che avverte: «Finché i mandanti sono liberi e sconosciuti, nessuno può sentirsi al sicuro».
«NON POSSIAMO ASPETTARE altri dieci anni prima che le donne nere vengano elette», aveva detto Marielle poche ore prima di essere uccisa. Il suo discorso è diventato una profezia: due anni dopo, nel 2020, alle ultime elezioni amministrative brasiliane, 13 donne nere sono state tra i candidati più votati nelle più grandi città del Brasile. Tra i consiglieri eletti, più di 70 si sono impegnati nella cosiddetta Agenda Marielle, che riunisce progetti di legge con pratiche e linee guida anti-razziste, femministe, lgbt + e popolari ispirate al lavoro svolto dall’attivista.
I politici sintonizzati su questi ideali, tuttavia, sono spesso a rischio. A Rio de Janeiro, le quattro donne nere elette con il Partito socialismo e libertà (Psol) hanno già registrato minacce di natura politica. «È necessario proteggere queste donne e inviare un messaggio a chi vuole mettere a tacere l’eredità di Marielle. Le persone che lottano per la giustizia, i diritti, la dignità devono essere protette perché sono un bene della società», dice Jurema Werneck.
Per il deputato federale Marcelo Freixo (Psol), amico ed ex compagno di lotta di Marielle, l’assassinio ha rivelato un lato brutale del Brasile. A cui il mondo ha reagito: «Le manifestazioni contro la morte di Marielle - osserva - mostrano la forza di ciò che lei ha rappresentato. Questa società capace di uccidere Marielle Franco non è la società che vogliamo»,
*
Il messaggio di Marielle Franco ha fatto il giro del mondo e ha raggiunto anche Firenze. Dal 15 marzo l’attivista sarà la prima donna brasiliana nera ad avere il suo nome in uno spazio pubblico in Italia, sulla terrazza della Biblioteca delle Oblate.
L’intitolazione è frutto della collaborazione tra la Cgil di Firenze e la Casa do Brasil a Firenze che hanno fatto specifica richiesta al Comune. «Questa terrazza non è uno spazio qualsiasi. Con vista sulla cupola del Brunelleschi, è un luogo simbolo del Rinascimento italiano. Possa la memoria di Marielle rinascere qui e offrire ai giovani la chance di riflettere su giustizia, diritti umani, diversità, tutto ciò che Marielle incarnava», commenta Ana Luiza Oliveira de Souza della Casa do Brasil a Firenze.
*SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria" del 2004.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
FLS
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Gianfranco Ravasi
Federico La Sala
In risposta:
#FILOLOGIA e #ARCHEOLOGIA. L’Uomo-#Sapienza di #Ruysbroec ("nel cuore di ogni uomo un #Ecco, cioè #Vedi, guarda"), il corteo "andrologico" dei #Magi (https://it.wikipedia.org/wiki/Cappella_dei_Magi), e l’«uomo» di #PonzioPilato («#Eccehomo»: gr. «idou ho #anthropos»), oggi... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5195 ...
in dialogo con il testo di Giorgiomaria Cornelio, Verumtamen in imagine pertransit homo, "Nazione Indiana".
FLS
MATEMATICA, ANATOMIA, E BAMBINI E BAMBINE. UNA QUESTIONE DI CIVILTÀ..
Parlare dell’embrione per dimenticare il mondo
risponde Luigi Cancrini (l’Unità, 28.02.2005, p. 27)
«Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo».
Così inizia il capitolo 15 dell’Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato «De Testicoli delle donne» (p. 91). Dopo queste timide e tuttavia coraggiose ammissioni, ci vorranno altri secoli di ricerche e di lotte: «(...) fino al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti, quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle società prepatriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano (...) che l’uomo emettesse con l’eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e sviluppava come l’humus fa crescere il seme» (Françoise D’Eaubonne). Oggi, all’inizio del terzo millennio dopo Cristo, nello scompaginamento della procreazione, favorito dalle biotecnologie, corriamo il rischio di ricadere nel pieno di una nuova preistoria: «l’esistenza autonoma dell’embrione, indipendente dall’uomo e dalla donna che hanno messo a disposizione i gameti e dalla donna che può portarne a termine lo sviluppo» spinge lo Stato (con la Chiesa cattolico-romana - e il Mercato, in una vecchia e diabolica alleanza) ad avanzare la pretesa di padre surrogato che si garantisce il controllo sui figli a venire. Se tuttavia le donne e gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni residui dichiarassero quale destino pare loro preferibile, se un’improbabile adozione, la distruzione o la donazione alla ricerca scientifica, con la clausola che in nessun modo siano scambiati per denaro o ne derivi un profitto, la vita tornerebbe rivendicata alle relazioni umane piuttosto che al controllo delle leggi, ne avrebbe slancio la presa di coscienza dei vincoli che le tecnologie riproduttive impongono e più consenso la difesa della “libertà” di generare.
Federico La Sala
Ho molto apprezzato la citazione di Valverde soprattutto per un motivo: perché dimostra, con grande chiarezza il modo timido e spaventato con cui da sempre gli uomini di scienza si sono accostati al tema della procreazione. Il problema di quello che era un tempo “l’anima” dell’essere umano, la sua parte più preziosa e più peculiare, quella cui le religioni affidavano il senso della memoria e dell’immortalità è stata sempre monopolio, infatti, dei filosofi e dei teologi che hanno difeso accanitamente le loro teorie (i loro “pregiudizi”: nel senso letterale del termine, di giudizi dati prima, cioè, del momento in cui si sa come stanno le cose) dalle conquiste della scienza. Arrendendosi solo nel momento in cui le verità scientifiche erano troppo evidenti per essere ancora negate e dimenticando in fretta, terribilmente in fretta, i giudizi morali e gli anatemi lanciati fino ad un momento prima della loro resa. Proponendo uno spaccato estremamente interessante del modo in cui il bisogno di credere in una certa verità può spingere, per un certo tempo, a non vedere i fatti che la contraddicono. Come per primo ha dimostrato, scientificamente, Freud.
Ragionevolmente tutto questo si applica, mi pare, alle teorie fra il filosofico e il teologico (come origine: i filosofi e teologi “seri” non entrano in polemiche di questo livello) per cui l’essere umano è tale, e tale compiutamente, dal momento del concepimento. Parlando di diritti dell’embrione tutta una catena ormai di personaggi più o meno qualificati per farlo (da Buttiglione a Schifani, da Ruini a La Russa) si riempiono ormai la bocca di proclami (sulla loro, esibita, profonda, celestiale moralità) e di anatemi (nei confronti dei materialistici biechi di una sinistra senza Dio e senza anima).
In nome dell’embrione sentito come una creatura umana, la cui vita va tutelata, con costi non trascurabili, anche se nessuno accetterà mai di impiantarli in un utero. Mentre milioni di bambini continuano amorire nel mondo e intorno a loro senza destare nessun tipo di preoccupazione in chi, come loro, dovendo predisporre e votare leggi di bilancio, si preoccupa di diminuire la spesa sociale del proprio paese (condannando all’indigenza e alla mancanza di cure i bambini poveri che nascono e/o vivono in Italia) e le spese di sostegno ai piani dell’Onu (mantenendo, con freddezza e cinismo, le posizioni che la destra ha avuto da sempre sui problemi del terzo mondo e dei bambini che in esso hanno la fortuna di nascere).
Si apprende a non stupirsi di nulla, in effetti, facendo il mestiere che faccio io. Quando un paziente di quelli che si lavano continuamente e compulsivamente le mani fino a rovinarle, per esempio, ci dice (e ci dimostra con i suoi vestiti e con i suoi odori) che lava il resto del suo corpo solo quando vi è costretto da cause di forza maggiore, ci si potrebbe stupire, se non si è psichiatri, di questa evidente contraddizione. Quello che capita di capire essendolo, tuttavia, è che i due sintomi obbediscono ad una stessa logica (che è insieme aggressiva e autopunitiva) e che il primo serve di facciata, di schermo all’altro che è il più grave e il più serio. E accade a me di pensare, sentendo Buttiglione e La Russa che parlano di diritti dell’embrione e ignorando nei fatti quelli di tanti bambini già nati, che il problema sia, in fondo, lo stesso. Quello di un sintomo che ne copre un altro. Aiutando a evitare il confronto con la realtà e con i sensi di colpa. All’interno di ragionamenti che dovrebbero essere portati e discussi sul lettino dell’analista, non nelle aule parlamentari.
Così va, tuttavia, il mondo in cui viviamo. Perché quello che accomuna la Chiesa di ieri e tanta destra di oggi, in effetti, è la capacità di far germogliare il potere proprio dalle radici confuse della superficialità e del pregiudizio. Perché essere riconosciuti importanti ed essere votati, spesso, è il risultato di uno sforzo, anch’esso a suo modo assai faticoso, “di volare basso”, di accarezzare le tendenze più povere, le emozioni e i pensieri più confusi di chi non ama pensare. Parlando della necessità di uno Stato che pensi per lui, che decida al suo posto quello che è giusto e quello che non lo è. Liberandolo dal peso della ragione e del libero arbitrio. Come insegnava a Gesù, nella favola immaginata da Dostojevskji, il Grande Inquisitore quando Gesù aveva avuto l’ardire di tornare in terra per dire di nuovo agli uomini che erano uguali e liberi e rischiava di mettere in crisi, facendolo, l’autorità di una Chiesa che per 16 secoli aveva lavorato per lui e agito nel suo nome.
Del tutto inimmaginabile, sulla base di queste riflessioni, mi sembra l’idea che Buttiglione e Ruini, Schifani e La Russa possano accettare oggi l’idea da te riproposta nell’ultima parte della tua lettera per cui «le donne, gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni» potrebbero/ dovrebbero essere loro a decidere quale destino pare loro preferibile.
Ragionando sui fatti con persone scelte liberamente da loro perché sentite come capaci di dare loro gli elementi necessari per la decisione più corretta. Affermando l’idea per cui gli uomini, le donne e le coppie possono e debbono essere i veri protagonisti di quella procreazione responsabile che è il passaggio più alto, più difficile, più esaltante e più faticoso della vita di tutti gli esseri umani. Quella che più fa paura a tanta parte della Chiesa e della destra, in fondo, è soprattutto la libertà della coscienza critica. Per ragioni, io torno qui sul mio ragionamento iniziale, che andrebbero discusse sul lettino dell’analista, però, non nelle aule parlamentari, sui manifesti o sulle pagine di un giornale.
Donna Sapienza
fin dal principio
di Marinella Perroni
Biblista, Pontificio Ateneo S. Anselmo *
Salomone lo conoscono più o meno tutti. Se non altro per quello stratagemma di voler far tagliare in due un bambino conteso tra due madri: una storia raccontata nel primo libro dei Re (3, 16-28). Forse, alcuni sanno anche che la saggezza del figlio di Davide e di Betsabea, l’adultera, è divenuta proverbiale perché il regno di Salomone ha assicurato a Israele non soltanto pace e stabilità, ma anche il contatto con le altre grandi culture del Vicino Oriente e, quindi, un tempo di grande vivacità culturale e di progresso civile. Per questo Israele ha attribuito al re Salomone tutta la riflessione sapienziale che sta alla base di alcuni libri della Bibbia, scritti in realtà in epoche diverse (dal secolo V al II prima di Cristo), che contengono sentenze, orientamenti e norme che hanno di mira una vita proficua e felice. Quasi nessuno però sa che quella sapienza che ha reso famoso Salomone è una raffigurazione che, accanto ad altre due figure, la Legge e il Messia, consente di capire perché, ma soprattutto come, Dio si fa presente nella storia del suo popolo. Ed è figura femminile.
Donna-Sapienza
Tra le tante cose degne di stupore emerse grazie al restauro della Cappella Sistina (1980-1994) una è, a mio avviso, tutt’altro che marginale. Nell’affresco della creazione, che occupa la volta, l’attenzione viene catturata dal vigore dell’Adamo e dalla grandiosa potenza espressiva con cui Michelangelo ha saputo rendere conto del rapporto di vicinanza e al contempo di distanza tra il creatore e la creatura fatta a sua immagine e somiglianza.
Eppure, il restauro ha fatto riemergere un particolare per troppi secoli rimasto del tutto oscurato: tra i putti che circondano e sostengono Dio nel suo atto creativo domina una figura femminile che Dio vincola a sé in un abbraccio. Eva? Inevitabile che in molti lo sostengano, anche se, in realtà, alla creazione di Eva il pittore dedica un riquadro specifico nelle storie della Genesi che corredano la volta.
Se gli storici dell’arte propendono per l’identificazione con Eva, i biblisti azzardano invece un’altra ipotesi, tutt’altro che fantasiosa perché molto ben accreditata dagli scritti sapienziali della Bibbia. Leggiamo nel libro dei Proverbi: «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. [...] Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, [...] io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo» (Proverbi 8, 22-31).
È la Sapienza stessa che si presenta come colei che presiede alla creazione, come la forza creativa che fa della creazione un’opera che - ce lo dice il racconto che apre il libro della Genesi - Dio considera una «cosa molto buona» (Genesi 1, 31). La reciprocità che Dio stabilisce con l’opera delle sue mani riflette, insomma, il rapporto ludico che intercorre tra Dio e la Sapienza. Il discorso sarebbe lungo: basti solo dire che, nonostante la struttura sociale di Israele fosse fortemente caratterizzata in senso patriarcale e nonostante ciò abbia spesso imposto alle donne anche pesanti restrizioni, nella letteratura biblica emergono invece, sia pure in modo carsico, attestazioni del ruolo decisivo giocato dalle donne nello sviluppo della storia di Dio con il suo popolo nonché riflessioni, spunti, allusioni che rivelano un immaginario religioso in cui la presenza femminile gioca un ruolo di primo piano. Al riguardo, gli scritti sapienziali sono una vera e propria miniera.
Il termine italiano “sapienza”, come quello greco sofia, possono ingenerare un fraintendimento rispetto a quello ebraico hochmah, che ha una storia molto antica e rimanda a una qualità superiore che alcune persone hanno e altre no, l’aspirazione presente nelle radici più antiche della nostra cultura a saper orientare i nostri atteggiamenti di fondo nel mestiere di vivere. La sapienza non si insegna, ma questo non significa che la sapienza non si impari: il significato più arcaico di hakam è l’uomo abile, l’artigiano, in particolare, l’orefice, colui che conosce bene un mestiere.
La sapienza biblica tradizionale non ha quindi la pretesa di essere frutto di una rivelazione divina, per questo è stata definita una sapienza laica. E i libri sapienziali non contengono racconti mitici e nemmeno sono opere filosofiche o speculative, come quelle dei grandi pensatori greci. Sono un distillato di sapere pratico e di riflessioni sulla realtà vissuta, non vi si trovano discorsi edificanti e tanto meno devote esortazioni. La sapienza non trasmette neppure un facile moralismo religioso, ma piuttosto richiede, e in termini molto esigenti dal punto di vista umano, di saper riflettere e prendere posizione nei confronti di insegnamenti a volte perfino tra loro contraddittori. Per questo il valore della sapienza è inestimabile.
Un esempio eloquente
La divisione del libro dei Proverbi in sette sezioni potrebbe richiamare la dichiarazione che apre il c. 9 «La sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne» e alludere così al fatto che, chi legge i proverbi e i discorsi di ammonimento contenuti nel libro, accoglie l’invito della sapienza a farsi ospitare nella sua casa.
Molto ci sarebbe da dire su indubbi tratti di misoginia presenti nel testo, ma non bisogna neppure dimenticare che, più ancora che nel testo, l’androcentrismo è stata una delle dominanti della storia della sua interpretazione. Da qui la forte diffidenza nei confronti soprattutto di un brano come l’elogio della donna forte (31, 10-31) che appariva come una vera e propria esaltazione della moglie ideale che vive solo in funzione del suo uomo e dei suoi figli.
Il capitolo è intitolato Parole di Lemuèl, re di Massa, «che egli apprese da sua madre» e si deve quindi supporre che si tratti di insegnamenti che la madre di un re trasmette a suo figlio. Non stupisce che per lungo tempo anche il ritratto della donna forte che suggella il libro sia stato interpretato come una raccolta di suggerimenti della madre al futuro re perché scelga una sposa appropriata.
A ben guardare, però, il poemetto si chiude chiamando in causa direttamente una tra le “molte figlie” e questo lascia lecitamente supporre che, se la prima parte del discorso della madre è rivolta al futuro re, l’ultima parte è invece l’elogio di una figlia che «ha compiuto cose eccellenti», a cui bisogna essere «riconoscenti per il frutto delle sue mani» e di cui va tessuta lode pubblica «alle porte della città».
Ben lungi dall’essere l’elogio di una futura nuora da parte di una suocera illustre, dunque, il brano contiene gli insegnamenti funzionali all’ideale di educazione del principe Lemuèl e di una principessa, di cui non si dice il nome, ma che viene interpellata direttamente.
Studi archeologici e storico-sociali hanno poi messo in luce che, all’epoca, le donne erano proprietarie terriere ed erano attive in tutti gli ambiti menzionati nel nostro testo, dal commercio alla produzione e alla vendita dei tessuti di lusso, ben lontane cioè dall’ideale casalingo che ne faceva le regine del focolare. Per non dire, infine, che i tessuti preziosi delle sue vesti (v. 22), il lino e la porpora, sono gli stessi che arredano l’arca che guida il popolo nel deserto o che vestono i sacerdoti del Tempio e che oltre a lei (v. 25), in tutta la Bibbia solo Yahweh veste di forza (Salmo 93, 1).
Descritta dunque con tratti caratteristici dell’epoca, la donna forte con cui l’autore del libro dei Proverbi suggella il suo scritto, è Donna-Sapienza, la personificazione della Sapienza di Dio. A lei deve legarsi il re, come mostra la straordinaria preghiera per ottenere la sapienza che, non a caso, viene attribuita a Salomone (Sapienza 9, 1-18). Non è la casalinga, ma colei che, costruita la sua casa, «ha imbandito la sua tavola. Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: “Chi è inesperto venga qui!”. A chi è privo di senno ella dice: “Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza” (Proverbi 9, 3-6).
I proverbi
Proverbi 31, 10-31
* Fonte: L’Osservatore Romano - 6 febbraio 2021 (ripresa parziale, senza immagini).
L’analisi.
Il mercato delle donne-donate tra eredità e prezzo sociale
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 27 febbraio 2021)
Il mercato delle doti è tra i fenomeni economici e sociali più rilevanti tra Medioevo e Modernità, che ci fa intuire l’alto prezzo pagato dalle donne, vittime sacrificali immolate sull’altare della società mercantile. La dote era la porzione di eredità paterna che una figlia riceveva al momento del matrimonio. Una volta ottenuta la sua dote, una donna non aveva più diritti sui beni della famiglia di origine. Quindi la dote era il prezzo per escludere le figlie dall’eredità paterna, stabilendo una linea successoria tutta maschile.
Il sistema della dote come estromissione delle donne dall’eredità viene stabilito dagli statuti cittadini italiani già nel Duecento, e il suo peso crebbe insieme alla ricchezza delle nuove famiglie di mercanti. Maritare le figlie divenne per le casate patrizie un problema sempre più serio, al punto che Dante rimpiangeva la Firenze pre-mercantile del suo avo Cacciaguida, quando «non faceva, nascendo, ancor paura la figlia al padre» (Pd XV, 103). Qui Dante racchiude in un solo verso l’essenza del fenomeno della dote nella sua Firenze, dove l’arrivo di una bambina era un futuro costo per i genitori. La discriminazione delle donne è sempre iniziata sul volto di donne, le levatrici, che dovevano dare la triste notizia a un’altra donna che aveva appena generato una femmina - esperienze e dolori che, grazie a Dio, non capiamo più e abbiamo dimenticato. Il celibato per i maschi era come un segno di nobiltà, il nubilato "civile" delle donne era invece socialmente stigmatizzato e scoraggiato.
Dalla fine del Trecento inizia in Italia un’inflazione di quello che era diventato il "prezzo delle figlie" per la nuova aristocrazia: a Venezia dagli 800 ducati di fine Trecento si passò ai 2.000 di inizio Cinquecento, e a Roma nel corso del Cinquecento le doti passarono da 1.400 a 4.500 scudi (Mauro Carboni, Le doti della "povertà", p.30). Un’inflazione dovuta soprattutto alla competizione posizionale tra famiglie ricche, che usavano le figlie come bene di status, in una dinamica oggi nota come "Dilemma del prigioniero", dove l’aumento del prezzo delle doti non avvantaggiava nessuno dei "competitori" - tranne, in alcuni casi, le mogli che videro crescere il loro peso economico all’interno della famiglia del marito.
Con il Rinascimento, poi, tra le famiglie patrizie italiane riprese piede l’istituto romano del fedecommesso, nelle sue varianti del "maggiorasco" e della "primogenitura". Le eredità venivano cioè lasciate interamente a un solo erede maschio, in genere il primogenito, il "maggiore". Ciò consentiva la conservazione dei patrimoni, che se frammentati tra molti eredi rischiavano di disperdersi.
Questa "innovazione" produsse però due grandi effetti collaterali. I figli maschi cadetti (cioè tutti tranne il primo) vennero via via scoraggiati dalle loro famiglie a sposarsi, tanto che nel secolo XVIII a questi figli era di fatto preclusa qualunque possibilità di contrarre matrimonio, e le due carriere che restavano loro erano quella militare e quella ecclesiastica. Il secondo effetto riguardava la sorte delle ricche figlie. La scarsità di maschi di pari grado faceva sì che la domanda di mariti eccedesse di gran lunga l’offerta. Ma se un padre patrizio dava sua figlia in sposa a un non-patrizio avrebbe disperso la sua dote e compromesso il buon nome della casata. Il "bene comune" della famiglia era anche qui troppo più importante del bene dei singoli individui, soprattutto di quello delle donne. Che fare allora?
Innanzitutto, le famiglie dovevano, quasi a ogni costo, dotare le figlie. Ecco allora che nel 1425 il Comune di Firenze creò un fondo per le ragazze "non dotate" (senza dote): il Monte delle doti. A questo fecero seguito molte altre istituzioni simili, tra cui il "Monte dei maritaggi" di Napoli (1578) e il "Monte del matrimonio" di Bologna (1583). Erano, a un tempo, istituzioni di credito e istituzioni di beneficenza, perché oltre a garantire interessi sui depositi gestivano anche lasciti e donazioni, private e pubbliche, a vantaggio di ragazze senza dote o con doti insufficienti.
A Firenze, tra il 1425 e il 1569, circa 30.000 ragazze furono iscritte al Monte delle doti. Il primo fiorentino che usufruì del Monte, Federigo di Benedetto di Como, depositò per sua figlia Diamante 200 fiorini; quando Diamante si sposò nel 1440 il fondo dotale che liquidò era diventato di 1.000 fiorini - e come non pensare alla fatica dei Francescani per far accettare alla Chiesa il pagamento del 5% annuo nei loro Monti di Pietà!? -Le famiglie che troviamo iscritte sui registri del Monte sono soprattutto le famiglie dei ricchi mercanti di Firenze - Acciauoli, Pazzi, Rucellai, Medici, Bardi, Strozzi -, che chiaramente ricorrevano al Monte per far fruttare meglio i propri investimenti. La metà delle ragazze ricche di Firenze aveva un titolo (un "libretto") al Monte, e questo non stupisce. Sorprende invece vedere molte figlie di artigiani modesti (per esempio, i padrenostrai) titolari di un conto. Un genitore con modesta ricchezza e povere origini faceva il possibile e l’impossibile per ottenere un conto dotale per sua figlia, perché sapeva che quel libretto poteva essere l’unica chance per darle un futuro migliore (Anthony Molho e Paola Pescarmona, «Investimenti nel Monte delle doti di Firenze», Quaderni storici, 21).
La nobildonna Alessandra Macinghi negli Strozzi così scriveva riguardo le prossime nozze di sua figlia Caterina: «Gli dò di dota fiorini mille; cioè cinquecento che ella ha da avere nel 1448 dal Monte [delle doti]; e gli altri cinquecento chi ho a dare, tra danari e donora [corredo], quando ne va a marito». E quindi aggiunge: «Però chi to’ donna [tòrre donna: prende moglie] vuol denari, e non trovavo chi volesse aspettare d’avere la dota fino nel 1448, e parte nel 1450: sicché dandogl’io questi cinquecento tra denari e donora, toccheranno a me, se ella viverà, quegli del 1450» (Lettere di una gentildonna fiorentina<, 1877, p.4). La liquidazione anticipata delle dote era infatti un rischio, perché in caso di morte dell’intestataria la somma restituita dal Monte si riduceva di molto.
Il valore economico della dote della sposa era dunque un indicatore del valore sociale della donna. La dote restava, formalmente, proprietà della moglie ma amministrata dal marito, e tornava in possesso della donna in caso di vedovanza. Una donna senza dote, perché la famiglia si era impoverita o caduta in disgrazia, era considerata "pericolante" ed esposta al vizio. Ecco allora la nascita di molte istituzioni di assistenza per donne senza dote, spesso intitolate a Maria Maddalena, per giovanette e/o per il recupero di donne cadute in peccato (per esempio, prostitute). "Conservatori" e "reclusori" che, mentre trattenevano in clausura forzata le donne a rischio, raccoglievano donazioni per garantire loro la dote al momento del fidanzamento - che avveniva per "tocco della mano" della donna di fronte a testimoni - o dell’entrata in convento (Luisa Ciammitti, «Quanto costa essere normali. La dote nel conservatorio femminile di Santa Maria del Baraccano (1630-1680)», Quaderni storici, 18).
Esiste, infatti, uno stretto rapporto tra il mercato delle doti e la vita religiosa. Cosa "fare" delle figlie che non si riusciva a "piazzare" nel mercato dei matrimoni? Rassegnarsi a un marito di rango sociale ed economico inferiore era un’umiliazione e un "costo" troppo alto che le famiglie patrizie non erano disposte ad accettare. Ecco allora che monasteri e conventi offrirono una soluzione.
Per le ricche famiglie la claustrazione di una figlia divenne la via maestra per «eliminare dal mercato matrimoniale le donne in eccesso collocandole in convento, rendendole istituzionalmente sterili» (Susanna Mantioni, Monacazioni forzate e forme di resistenza al patriarcalismo nella Venezia della Controriforma, 2013). Se un capitale troppo prezioso (una figlia aristocratica) non può essere allocato adeguatamente sul mercato deve essere distrutto con la monacazione. Perché è preferibile distruggere che svendere un asset così prezioso, poiché la sua svendita a una famiglia inadeguata avrebbe iniziato una decadenza sociale cumulativa dai costi imprevedibili. L’eliminazione tramite la clausura risultava la soluzione migliore. E poi il sacrificio di alcune figlie patrizie collocate in convento consentiva i convenienti matrimoni delle loro sorelle più fortunate.
Anche perché la dote monastica, o dote spirituale, era molto più economica di quella matrimoniale (fino a venti volte meno). Si spiega così sia la moltiplicazione dei conventi e monasteri femminile dopo il Quattrocento, e perché la quasi totalità delle monache e suore in età moderna provenissero da famiglie nobili o alto-borghesi, e perché più delle metà delle figlie di famiglie patrizie diventavano suore o monache.
Ma c’è di più. Le famiglie più ricche facevano costruire per la figlia celle private, dei veri e propri appartamenti all’interno dei monasteri, che restavano in uso esclusivo della monaca per tutta la sua vita. Queste monache gestivano spesso in proprio la dote, insieme a rendite su capitali di loro proprietà. Il che mette in luce un complesso rapporto tra vita comune, proprietà privata e uso simbolico dello spazio personale dentro i monasteri della prima età moderna (Silvia Evangelisti, «L’uso e la trasmissione delle celle nel monastero di S. Giulia di Brescia», Quaderni Storici, 30).
Bastano questi cenni per capire cosa significò la riforma della vita religiosa femminile di Teresa D’Avila.
Un’ultima considerazione. È molto significativo l’uso del registro semantico del dono per simili operazioni. Diceva riguardo le monache Giovanni Tiepolo, patriarca di Venezia: «Facendo della propria libertà un dono non solo a Dio, ma anco alla Patria, al Mondo, et alli loro più stretti parenti» (inizio del ’600).
Ma quale dono era in gioco, per quelle figlie che non sceglievano quale vita vivere? Innanzitutto era il dono del padre, non il loro dono. Era il dono che la famiglia e la società chiedeva a quelle donne per salvare l’ordine sociale e la casata. Era il dono simile a quello dei potlach delle isole del Pacifico studiati da Marcel Mauss (1925), dove il "dono" non aveva nulla di gratuità, ma era solo il linguaggio del potere politico e commerciale, che arriva fino alla distruzione dell’oggetto donato (potlach dissipativi), pur di affermare la propria superiorità.
Soltanto gli angeli conoscono il dolore di queste donne-donate, prezzi pagati alla società che stava nascendo. Oceani di sofferenza femminile, nei monasteri e dentro le case. Sono state queste lacrime la prima acqua con cui abbiamo impastato l’edificio della città moderna.
La sola, piccola, parziale ma non vana consolazione che ci resta è pensare che alcune, forse molte, di quelle suore e monache saranno state più grandi del loro destino. Come il loro "sposo" si sono ritrovate, senza volerlo, anch’esse inchiodate su una croce, e lì alcune hanno deciso di vivere quel dolore innocente e non scelto come dono, un dono diverso e finalmente libero. E qualche volta sono risorte. Se oggi molte donne possono vivere la loro vita nei conventi e nei monasteri come vero dono e come vera libertà, dietro questi doni e queste libertà ci sono anche quelle antiche resurrezioni.
Se dopo 700 anni
#Beatrice appare come un «manichino senza corpo»,
forse,
non è il caso di
osare un’altra ipotesi di lettura
della #DivinaCommedia e della #vita di #Dante?
FLS
MESSAGGIO EVANGELICO E LA "NUOVA ALLEANZA" DI "MARIA E GIUSEPPE". EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA.... *
La biblista francese. Pelletier: «Donne, Chiesa polifonica»
Per la studiosa occorre «ritrovare una struttura consonante a quanto presenta Paolo, cioè la Chiesa come corpo, dove l’istituzione si fonda su doni particolari assegnati agli uni e agli altri»
di Lorenzo Fazzini (Avvenire, mercoledì 27 gennaio 2021)
Anne-Marie Pelletier non è solo una sagace esegeta e una brillante docente universitaria. Già Premio Ratzinger per la teologia, l’intellettuale francese diventa anche una paladina delle donne, dentro e fuori la Chiesa, quando affronta il tema dell’odierna condizione femminile.
«Un club di uomini anziani, vestiti in modo strano, che dicono alla gente come si deve comportarsi a letto». Con questa sarcastica definizione Timothy Radcliffe illustra come, a suo dire, la gente vede la Chiesa. Perché non viene invece riconosciuto il grande apporto delle donne alla vita della Chiesa?
Le parole di Radcliffe sono impietose ma esprimono bene la realtà. La visibilità della Chiesa cattolica resta incontestabilmente quella della sua gerarchia, esclusivamente composta da uomini. E questa visione non è un effetto ottico.
È sufficiente aprire la porta di una chiesa durante una celebrazione per constatare che il presbiterio è uno spazio che appartiene agli uomini, in via maggioritaria se non esclusiva. Inoltre, l’autorità viene collegata al sacerdozio ministeriale. E per molti questo tipo di sacerdozio resta la chiave di volta del corpo ecclesiale. Anzi, passa l’idea che ne costituisca l’espressione suprema.
Da qui le reiterate denunce di clericalismo da parte di papa Francesco.
Cosa va perso in questa visione maschio-centrica?
Il dramma è che la verità della Chiesa viene nascosta. Infatti, la Chiesa non è innanzitutto la sua gerarchia, ma prima di tutto un corpo, che questa gerarchia ha la funzione di servire. Questo corpo è composto da uomini e donne che, nei loro diversi stati di vita, si riconoscono convocati dalla parola di Cristo. Questo popolo di battezzati dona carne e presenza al Vangelo nel mondo, spesso silenziosamente ma in modo autentico. E bisogna ammettere che le donne, in questo corpo, hanno un posto eminente, anzi dominante perché, in molti luoghi e circostanze, sono loro il volto e la mano della Chiesa per i nostri contemporanei. Io perdo un po’ la pazienza quando sento ripetere che ’bisogna fare spazio alle donne’ quando, invece, la prima cosa da fare è riconoscere il posto che esse occupano nelle parrocchie, nella catechesi, nelle missioni. Senza di loro, la Chiesa sarebbe già sparita.
Altrove lei ha sottolineato come l’attenzione della Chiesa con Francesco verso le donne non sia una questione nuova: da 50 anni i Papi prestano un’attenzione crescente al mondo femminile con diversi documenti. Allora è la Chiesa che ha fallito, rispetto all’uguaglianza uomo-donna, se ancora oggi viene percepita come maschile?
Si tratta di un dato impressionante. Dagli anni Sessanta il magistero ha prestato alle donne un’attenzione inedita. Non si era mai visto un elogio tale della donna da parte delle autorità della Chiesa. Eppure, nella Chiesa cattolica, le donne - in gran numero - hanno continuato a sentirsi emarginate, vedendosi assegnate a posti secondari, trattate con accondiscendenza, talvolta disprezzate da un mondo clericale che si arroga ogni decisione. Al punto da far sorgere l’opinione che molte poche cose sarebbero potute cambiare. Il problema di fondo non è semplicemente parlare delle donne, né parlare alle donne, ma lasciarle esistere, farle parlare a nome proprio nella Chiesa, far sì che siano esse a giudicare i problemi della vita e le questioni della fede, di cui hanno esperienza tanto quanto gli uomini.
In un suo testo su ’Vita e Pensiero’ lei scrive: «Il futuro dell’istituzione ecclesiale è intrinsecamente legato, nel cattolicesimo, a una riflessione polifonica ovvero alla condivisione della ricerca della verità, sempre più grande di quanto siamo capaci di cogliere». Può essere una riforma solo ’intellettuale’ sufficiente per far progredire il posto delle donne nella Chiesa? Oppure serve anche una riforma strutturale?
Per me è chiaro che una vera riforma della Chiesa deve incarnarsi nelle strutture della sua vita e nell’organigramma della sua governance. In questo senso non bastano tante belle parole. Il punto focale è che noi, uomini e donne, ci troviamo insieme nella responsabilità verso il Vangelo e nella missione della Chiesa. Rispetto al motu proprio recente, esso ritorna su un testo del 1972 che apriva il lettorato e il servizio di accolitato ai laici, a condizione che fossero uomini: in questo caso il magistero permette di metter fine ad un’aberrazione che squalifica la Chiesa. Resta il fatto che sarebbe troppo poco cercare solo di ridistribuire i poteri in una struttura immutata. Sono convinta che siamo in un momento cruciale in cui l’istituzione ecclesiale deve reinventarsi. Si deve tornare all’ecclesiologia. Non si significa fossilizzarsi su un’attività astrattamente intellettuale. Anzi, qui c’è la leva per un vero cambiamento di fondo. In questo senso mi piace comprendere la messa in guardia di papa Francesco di non attenersi alle semplici ’funzioni’. Per questo, mi trovo a disagio quando si pensa che l’accesso al sacerdozio femminile costituirebbe la soluzione della questione. Piuttosto vi constato un modo per ricondurre e confermare l’intero ordine ecclesiale al primato del sacerdozio ministeriale. Invece, penso che si debba uscire da questo schema per ritrovare una struttura consonante a quanto Paolo presenta, cioè la Chiesa come corpo, dove l’istituzione si fonda su doni particolari assegnati agli uni e agli altri per il servizio di tutti. E così la Chiesa si ridisegna come una comunità di battezzati, dove il sacerdozio battesimale, condiviso da tutti, ritorna ad essere il più importante.
Nel suo libro Una comunione di uomini e donne lei ha parlato di un «machismo diventato il marchio di fabbrica della Russia putiniana e dell’America trumpiana». Perché l’avversione all’emancipazione femminile è così forte nel sovranismo?
Le donne oggi si ritrovano ad essere sotto la minaccia di regimi autoritari che proliferano e che hanno un’aria di dejà vu, i cui leader sono esclusivamente uomini. La Russia vive sotto il comando di un dirigente che esalta la virilità brutale, che mostra mediaticamente i suoi muscoli e che porta avanti una repressione impietosa delle opposizioni: la guerra in Cecenia ne é un sinistro esempio. Non è un caso che una delle maggiori oppositrici di questa ideologia sia una donna, il premio Nobel Svetlana Aleksievic, che ha scritto un libro intitolato La guerra non ha volto di donna. -Quanto al populismo di Donald Trump o Jair Bolsonaro e altri, sappiamo bene come questi uomini disprezzino le donne, sia nei loro discorsi che nella loro vita privata. Non dimentichiamo che le più grandi manifestazioni nella storia degli Usa sono state quelle delle donne che denunciavano il machismo insolente di Donald Trump nel 2016.
I movimenti per l’emancipazione delle donne sono un segno dei tempi. Come far sì che diventino positivi per l’intera società e non restino relegati ad essere - per quanto giuste - solo proteste?
É indubbio che i femminismi, per natura, sono movimenti protestatari e militanti. Come stupirsi che, per denunciare le violenze che pesano di esse e gli asservimenti cui sono costrette, le donne scendano in piazza e brandiscano lo stendardo della rivolta? Ma l’obiettivo dovrebbe essere quello di uscire dalla guerra tra sessi, per arrivare ad un’auspicabile stima reciproca, fino a un’alleanza felice per la pienezza degli uni e delle altre. Non è certo quello che intendono quante oggi riesumano i testi di Valérie Solanas, l’intellettuale americana che sognava l’eliminazione del maschio dall’umanità. Un atteggiamento oltranzista, questo, che non opera per il bene delle donne ostaggio della miseria, delle povertà e del machismo che prospera su questo terreno.
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SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva
FLS
Dialogo interreligioso.
Ebrei e cristiani: l’amicizia è il segno dei profeti
È dedicato a Elia e ai suoi “colleghi” il secondo volume della “Bibbia dell’amicizia”, un commento del testo comune da parte di studiosi di entrambe le fedi
di Riccardo Maccioni ( Avvenire, domenica 17 gennaio 2021)
Le relazioni vere per crescere hanno bisogno di attenzione. E di rispetto. Non basta parlare, occorre imparare l’ascolto, il confronto con opinioni diverse, per così dire il “vocabolario” dell’incontro. Senza per questo rinunciare a quel che si è. Vale nel “privato” di ciascuno così come, fatte le debite differenze, per il dialogo tra le fedi, che spesso matura anche grazie ai rapporti personali, al tu per tu. Uno stile che è tra gli aspetti originali di La Bibbia dell’amicizia di cui è stato da poco pubblicato il secondo volume (San Paolo, pagine 384, euro 30,00) dedicato ai Neviim/Profeti.
Il progetto, avviato due anni fa, rappresenta una novità nel panorama italiano. E non solo. Si tratta di un commento alla Bibbia scritto insieme, a più mani, da ebrei e cristiani. Con lo scopo, non di arrivare a una lettura unificata, ma «di conoscersi meglio e di conoscere meglio le rispettive interpretazioni, accettando che possano essere diverse». La pubblicazione - hanno scritto i due curatori, Giulio Michelini e Marco Cassuto Morselli, (presidente della Federazione delle Amicizie ebraico-cristiane in Italia, già docente di filosofia ebraica e storia dell’ebraismo) - nasce «da due realtà: l’amore per il Davar (la parola di Dio) e l’amicizia tra ebrei e cristiani».
Per la prima volta, spiega padre Michelini ordinario di esegesi neotestamentaria e preside dell’Istituto teologico di Assisi, «si commentano insieme dei libri della tradizione ebraica e poi cristiana in modo così sistematico e rilevante. Finora avevamo pubblicazioni anche molto ricche a due voci, ma di un solo libro, mai era successo che nel complesso dei volumi (stiamo preparando il terzo) 150 tra ebrei e cristiani lavorassero insieme per commentare una tale mole di pagine». Nuovo anche lo stile. «La forma più tradizionale, quella di leggere a due voci lo stesso brano, avrebbe potuto dare un’idea di contrapposizione, abbiamo preferito una metodologia che desse spazio all’interpretazione dell’altro».
L’iniziativa è nata durante uno degli ormai tradizionali colloqui di Camaldoli. «L’idea è venuta a me, poi è andata avanti con Marco Cassuto Morselli. A darmi grande forza, a fare da volano, sono stati, oltre agli studi, in particolare un Master a Gerusalemme, gli esercizi spirituali tenuti al Santo Padre (nel 2017, ndr) che mi hanno permesso di avere credito presso i colleghi. Questo progetto infatti nasce nell’assoluta gratuità, i collaboratori non hanno chiesto e ricevuto nulla e anche grazie alla Cei che ha coperto parte delle spese».
Nessuno comunque si è tirato indietro. «Tutti quelli che abbiamo interpellato - aggiunge Michelini - hanno accettato e molti si sono offerti di collaborare anche al terzo volume. Perché hanno capito che non è solo un’operazione esegetica ma culturale, direi anche politica, da polis, nel senso di casa comune, in cui dobbiamo e possiamo vivere insieme, accettando l’interpretazione dell’altro». Il ventaglio dei commentatori è molto ampio. «Ci sono i maggiori studiosi italiani ma abbiamo voluto anche una selezione di accademici a livello internazionale. Così nel prossimo volume avremo un contributo della Notre Dame University, la più importante università cattolica degli Usa. L’operazione, ripeto, non è commerciale, chi scrive non guadagna niente, ma di servizio, per questo abbiamo avuto l’appoggio anche di diversi vescovi. Per esempio nel prossimo volume monsignor Nazzareno Marconi commenterà Qohelet, il libro al centro anche dell’odierna Giornata per il dialogo tra cattolici ed ebrei».
L’uscita del primo volume è stata salutata da un successo persino inatteso. «La considero un’opera che va al di là delle capacità mie e di Marco. Ci ha molto aiutato la prefazione al primo volume di papa Francesco, avere un contributo così significativo ci ha incoraggiati, testimonia che questo lavoro va avanti da sé».
I volumi, come detto, raccolgono pagine scelte, compongono un’antologia. In particolare in questa seconda pubblicazione cinquantadue studiosi si soffermano sui Neviim/Profeti, ossia sui libri storici e profetici. «Sì, secondo il modo degli ebrei di considerarli e di dividere la Bibbia, il che ci fa cogliere una prospettiva diversa che viene semplicemente dall’indice, si potrebbe dire». Una prospettiva che si cala perfettamente nel significato della Giornata del 17 gennaio. «“Bibbia dell’amicizia” vuol dire che per conoscersi meglio, bisogna fare cose insieme. Il progetto, se si vuole, nasce dal Convegno ecclesiale nazionale di Firenze, nel 2015, quando il Papa sottolineò che solo progettando e lavorando insieme si può costruire un dialogo con chi è diverso da noi. E non è facile. Nel nostro caso ogni decisione viene presa in due, da me e Marco, e possono esserci tensioni e discussioni. Si pensi alla questione, che ci ha preso ore e ore, del nome di Dio, su come scriverlo. Lavorare insieme però ci ha permesso di creare una relazione, ed è stato importante».
Se amicizia è la parola chiave, forse il concetto che meglio l’accompagna è ascolto, ascolto dell’altro. «Esatto, che non significa perdere la propria identità, perché non è che se leggo l’interpretazione dell’altro devo considerare sbagliata la mia. In questo senso insieme a un grande rispetto e a una grande apertura mentale c’è bisogno di una forte coscienza della propria identità. Non è tutto uguale, infatti. Basta leggere quello che scrive un amico rabbino, Jack Bemporad, sul servo sofferente, che per noi cristiani è Gesù Cristo mentre lui nella sua bella trattazione spiega che per gli ebrei è Israele. Cosa fare di fronte a una posizione così diversa dalla mia? Mi chiudo? O mi domando perché gli ebrei pensano così? Se scelgo la seconda possibilità imparo qualcosa senza per questo rinunciare alla mia posizione: io continuerò a vedere in quel servo sofferente Gesù Cristo. E gli ebrei il popolo di Israele».
LO SPIRITO DI ASSISI. LA LEZIONE DI GIOVANNI PAOLO II SULLA DONNA E SULL’UOMO E SU DIO... *
Papa: nuovi ruoli alle donne, apre a Lettorato e Accolitato
’Ma la Chiesa non può conferire loro l’ordinazione sacerdotale’
di Redazione ANSA *
CITTA DEL VATICANO. Papa Francesco ha stabilito con un Motu proprio che i ministeri del Lettorato e dell’Accolitato siano d’ora in poi aperti anche alle donne, in forma stabile e istituzionalizzata con un apposito mandato. Le donne che leggono la Parola di Dio durante le celebrazioni liturgiche o che svolgono un servizio all’altare in realtà già ci sono con una prassi autorizzata dai vescovi.
Fino ad oggi però tutto ciò avveniva senza un mandato istituzionale vero e proprio.
Aprire ufficialmente le porte alle donne nel Lettorato e nell’Accolitato non significa che potranno diventare sacerdoti. E’ quanto precisa lo stesso Papa facendo proprie le parole di Giovanni Paolo II: "Rispetto ai ministeri ordinati la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
* ANSA 11 gennaio 2021 - 19:06 (ripresa parziale).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FLS
Michelangelo e “La Linea della Bellezza e della Grazia”. La "forma serpentinata" ... *
Una macchina teologico-politica
Conversazione con Giovanni Careri in occasione dell’uscita di “Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina”.
di Francesco Zucconi *
Francesco Zucconi: Il visitatore dei Musei Vaticani arriva nella Cappella Sistina dopo aver attraversato straordinarie sale e corridoi. Nei pochi minuti che trascorre in questo ambiente immersivo, il suo sguardo è come incantato, si sente preso e sospinto. Ma i turni di visita sono troppo brevi per muovere consapevolmente lo sguardo tra i diversi cicli pittorici.
Tu hai trascorso molti anni a studiare gli affreschi realizzati da Michelangelo Buonarroti e la tua ricerca fornisce tanto una forma di orientamento nella Sistina quanto una serie di nuovi percorsi interpretativi. Prima di entrare nel merito di questo libro, appena pubblicato da Quodlibet, vorrei chiederti come nasce l’idea di lavorare su questo oggetto straordinario.
Giovanni Careri: Nel 2003 ho coordinato all’EHESS di Parigi un progetto di ricerca sulla temporalità delle immagini con un antropologo (Carlo Severi), uno storico (Jean-Claude Schmitt), e uno specialista della Grecia antica (François Lissarrague). Lo stimolo a occuparmi della Sistina non è arrivato dalla scoperta di nuove fonti o documenti, ma dalla domanda che avevamo posto a tutti i partecipanti al progetto: il rapporto tra le immagini e le temporalità che le attraversano, l’indagine sulle modalità del “tempo visivo” che le immagini stesse producono.
Il mio contributo riguardava il modo in cui il Giudizio Universale di Michelangelo costruisce un tempo dell’attesa e dell’imminenza, imminenza della fine del tempo della storia, ma anche della ricapitolazione e del bilancio della vita di ognuno. Mi sono in particolare interessato ai “libri della vita” che gli angeli aprono al centro dell’affresco per significare che il tempo del giudizio di sé è giunto per i personaggi rappresentati ma anche per lo spettatore.
Accanto agli angeli si trova un grande dannato, un “disperato” che porta la mano sul volto con un gesto che rinvia inequivocabilmente al dialogo interiore e a quella forma di autobiografia penitenziale che possiamo definire - con Michel Foucault - “soggettivazione”, per articolarla con l’altra determinazione che caratterizza il “soggetto moderno”, quella dell’assoggettamento.
Nella postura di questo monumentale personaggio, le due determinazioni coincidono: il disperato ha appena ammesso la sua colpevolezza nel dialogo con sé stesso mentre demoni e serpenti già lo avvolgono nelle loro spire, eseguendo l’ordine del Cristo Giudice. La condanna del “disperato” è esibita nel rapporto tra la sua situazione e quella di Minosse, il giudice infernale avvolto da un serpente che ne inibisce il movimento.
Il punto di partenza di questo mio lavoro sugli affreschi della Sistina è nel confronto tra le due posture, quella del dannato e quella di Minosse. Il dannato sta diventando simile al demonio, tra poco il suo corpo sarà stretto tra le spire del serpente come è già accaduto per il giudice infernale. In questo rapporto tra due figure e nella processualità del divenire Minosse ho ritrovato uno dei fili essenziali delle mie ricerche: quello della “conformazione” ovvero di un’economia mimetica che fonda la sua semiosi sull’assunzione e/o sulla perdita della somiglianza di un’attitudine o di un gesto.
A partire da tale osservazione, possiamo guardare il Giudizio come a una immensa coreografia: gli eletti e gli angeli si stanno facendo simili al Cristo, imitando e incorporando la sua “forma serpentinata”, mentre i dannati perdono per sempre la somiglianza al figlio di Dio per assumere una somiglianza invertita o “perversa” con Minosse, dove la figura serpentinata che libera il movimento delle figure si muta in un serpente costrittore.
F.Z.: All’interno della Sistina è sintetizzata in forma visiva l’intera storia spirituale dell’Umanità dal punto di vista cristiano: dalla Creazione al Peccato, dalla Redenzione al Giudizio. Il tuo libro si concentra in modo particolare sul Giudizio Universale e sul ciclo degli Antenati di Cristo. Per quale motivo ti sei interessato a queste parti e quale rapporto intercorre tra di loro?
G.C.: La storia dell’arte ha generalmente separato le tre parti che compongono gli affreschi sistini. Sono opere molto distanti nel tempo, realizzate da artisti di generazioni diverse per tre diversi Papi, ognuno dei quali aveva preoccupazioni e interessi particolari. Nel libro non solo ho voluto considerare le tre parti come un insieme, ma ho anche deciso di cominciare dall’analisi dal Giudizio, che è l’ultimo elemento aggiunto cronologicamente. L’ho fatto per varie ragioni. La principale è che le immagini si rispondono tra di loro se sono messe una accanto all’altra, indipendentemente dalla data della loro realizzazione. Quando il Giudizio viene aggiunto agli affreschi preesistenti si producono nuove relazioni e un nuovo senso, esattamente come quando si aggiunge un oggetto in un’istallazione di arte contemporanea.
Nel caso degli Antenati si può dire che la loro spossatezza era già evidenziata, per contrasto, con i corpi eroici e ispirati delle Sibille e dei Profeti. Ma il contrasto con il Giudizio fa apparire la loro fatica come una categoria dell’ideologia cristiana, in una prospettiva che stringe il nesso tra il tempo delle origini (ebraiche) e quello del compimento. Questa costruzione è coerente con il pensiero di san Paolo, senz’altro il più influente tra coloro che hanno immaginato la fine dei tempi, il quale insiste sul fatto che il senso della storia di un individuo come quello dell’umanità tutta intera si rivela solo a partire dalla fine.
F.Z.: Hai appena menzionato la spossatezza delle figure degli Antenati di Cristo, un tema centrale del tuo libro che porta a esiti sorprendenti.
G.C.: L’incongruità che ha subito attratto la mia attenzione davanti alle lunette degli Antenati è il rapporto tra la degna autorità dei nomi, scritti in lettere capitali e incorniciati in tavole di grandi dimensioni, e le figure che non hanno i tratti regali dei patriarchi e dei sovrani ai quali questi nomi si riferiscono. Vi si vedono giovani donne esauste intente a nutrire e accudire i loro bambini e vecchi padri buttati a terra o persi in melanconica meditazione. Di fronte a questa discrepanza, l’iconologia ha trovato soluzioni ingegnose ma fallimentari, come quella di tradurre in latino i nomi ebraici per poi cercare nella vulgata la presenza di tali nomi in situazioni comparabili a quelle che si vedono nelle lunette.
Considerando la lista dei nomi dal punto di vista dell’antropologia della parentela, sono arrivato alla conclusione che vadano mantenuti separati dalle figure o meglio articolati con esse secondo un principio di inclusione/esclusiva.
In altre parole, i nomi incorniciati nelle tavole si fanno carico di innestare la storia cristiana in quella degli ebrei e particolarmente in quella prestigiosa stirpe di Abramo alla quale apparteneva Giuseppe, marito di Maria, madre di Gesù.
Tuttavia, a questa funzione inclusiva si accompagna una funzione esclusiva della quale si fanno carico le figure stesse che esibiscono i tratti di “carnalità” che san Paolo attribuisce agli ebrei che non si convertono in seguaci di Cristo.
Tra questi, il più importante è l’ostinato rifiuto della Grazia di cui si possono riconoscere le conseguenze nelle lunette stesse: l’immersione in una vita limitata alle attività di sussistenza, la generazione e la cura dei figli, la pigrizia, l’avidità, l’erranza e persino la follia.
In breve: mentre i nomi esaltano la continuità tra la storia cristiana e quella degli ebrei, le immagini sono il luogo di produzione della differenza e di un’alterazione che si avvicina alla caricatura, affermando la crisi definitiva alla quale il modello genealogico di trasmissione del sangue da padre in figlio è stato sottoposto dall’inclusione di un figlio che è figlio di Dio e non di suo padre.
Questa rottura autorizza l’apertura della predicazione a tutte le nazioni, separando il “tempo scaduto” della storia veterotestamentaria da quello nuovo del messianismo cristiano. Si delinea così un paradosso che include la “storia genealogica” e al tempo stesso la esclude denunciandola come ormai superata.
F.Z.: Alcuni degli Antenati dipinti da Michelangelo recano i segni della stigmatizzazione antiebraica del XVI secolo. Questo anacronismo è passato inosservato alla storia dell’arte fino a pochi anni fa. Come ti spieghi questa cecità?
G.C.: Nel 2003 la storica dell’arte americana Barbara Wish ha pubblicato un articolo dove rivela la presenza di un segno circolare sulla tunica gialla di uno di personaggi della lunetta che porta il nome di Aminadab. Il restauro che ha reso visibile questo signum si era concluso quasi vent’anni prima e ci si può quindi chiedere cosa ne abbia impedito la visibilità per tutto questo tempo.
Penso che uno dei veli che hanno nascosto la marcatura sia lo statuto di “capolavoro” che la Sistina ha acquisito immediatamente e mai perduto nel corso dei secoli. L’opera di un artista distante da ogni forma di realismo non poteva esibire un tratto “documentario”, la testimonianza di una marcatura infamante. Non si poteva inoltre facilmente ammettere che Michelangelo condividesse con la cultura del suo tempo una precisa forma di antigiudaismo.
Un altro velo è di ordine epistemologico: si trova quello che si cerca. Per dirlo in modo meno meccanico, le domande orientano la ricerca, guidano lo sguardo e, dal dopoguerra fino al 2003, le domande sugli Antenati sono state essenzialmente orientate sul rapporto tra i nomi e le figure. Ho tuttavia incontrato alcuni testi che fanno apparire il carattere semitico delle figure. Tra i più interessanti, quello di Emile Zola che nel suo romanzo Rome (1896) descrive gli Antenati come “la razza punita”, frase che risuona con la sua denuncia dell’antisemitismo francese nell’affaire Dreyfus. Sydney Freedberg, dal canto suo, aveva scritto che in queste figure la dimensione domestica e quella semitica si incontrano e si sovrappongono.
Si trattava, insomma, di cambiare la domanda. Non più “chi sono questi personaggi”? Ma che ruolo assumono nel montaggio della storia che si realizza negli affreschi? Nel libro non pretendo di aver svelato il mistero degli Antenati, ma spero di aver fatto apparire qualcosa che non è spiegabile in rapporto a una fonte scritta: il dialogo che le strane iconografie di queste figure intraprendono con altre iconografie: quella della Santa Famiglia e di Giuseppe in particolare, quella della Madonna del latte, quelle dei cicli dei mesi del Palazzo della Ragione di Padova, quelle, altrettanto “paradigmatiche”, dell’albero di Jesse, ma anche quelle delle stampe antisemite di area germanica.
F.Z.: Negli ultimi anni, la filosofia italiana si è caratterizzata per la capacità di indagare i nessi tra teologia e politica. Penso in particolare ai lavori di Giorgio Agamben e a quelli di Roberto Esposito, citati anche all’interno del tuo libro. Al di là della ricerca filosofica propriamente detta, mi pare che Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina ci inviti ad assumere consapevolezza del “pensiero visuale” che trova espressione nelle opere stesse.
G.C.: Perché ancora un libro sulla Sistina? Per le stesse ragioni che spingono Agamben, Esposito e altri studiosi a rileggere le Lettere di san Paolo. Il paradigma teologico enunciato da san Paolo è corporativo, alla fine dei tempi tutti gli uomini giusti saranno incorporati in un unico corpo del quale il Cristo è la testa e i cristiani le membra.
Come nei miei lavori su Bernini e Caravaggio, anche in questo libro si trova la questione dell’efficacia dell’opera sullo spettatore, qui assoggettato dalla “terribilità” dell’affresco ma anche invitato a giudicare sé stesso, soggettivandosi. Si incontra inoltre, di nuovo, il paradigma della “conformazione”, un principio di “somiglianza” che è al fondamento della teoria cristiana dell’immagine ma che è stato quasi completamente ignorato dalla storia dell’arte. Nel suo Giudizio Universale, Michelangelo mostra la penultima tappa di questo processo di incorporazione attraverso l’assunzione di somiglianza.
Il portato politico di questo modello è considerevole e ancora attuale, se si estende la nozione di conformazione al di là del suo senso sacramentale sul piano della vita sociale e politica. L’idea della nazione come corpo è, d’altra parte, ancora oggi ben presente. Basta pensare ai nazionalismi e alle purificazioni etniche dove si tratta precisamente di espellere le impurità da un corpo collettivo omogeneo.
F.Z.: Si potrebbe dire che la tua ricerca porta alla luce le tracce del discorso antiebraico presente nel ciclo di affreschi e correlato al contesto storico del XVI secolo. Allo stesso tempo, mostri le tracce di una presa di distanza da parte di Michelangelo - o meglio di un’adesione al modello figurativo della “vita secondo la carne” - nei confronti del meccanismo teologico-politico che lui stesso ha contribuito a edificare.
G.C.: La condizione degli ebrei che vivono tra i cristiani all’epoca di Michelangelo è molto diversa da quella del XIX e nel XX secolo. Nel libro ho cercato di evitare ogni generalizzazione astorica: la situazione degli ebrei cambia e si aggrava con il papato di Paolo IV Carafa, ma già durante il Papato di Paolo III la conversione forzata degli ebrei viene presa in considerazione. Gli studi di Adriano Prosperi, di Kenneth Stow e di altri storici hanno rivelato che la “purificazione” della cristianità intensa come un corpo collettivo è sorta nell’ambito dei fautori della Riforma prima di essere messa in atto dai conservatori.
Nelle Storie di Mosè e di Cristo degli affreschi del Quattrocento, la posizione degli ebrei è determinata dal paradigma tipologico: le azioni di Mosè prefigurano quelle di Gesù. Nel ciclo degli Antenati, il paradigma tipologico viene abbandonato perché ad essi sono attribuiti i tratti degli ebrei che hanno rifiutato di convertirsi e non hanno dunque più nulla da annunciare. Nel Giudizio, infine, attorno al Cristo risorto si riconoscono figure di sapienti o profeti ebraici perché la conversione degli ebrei è uno dei segni dell’imminenza della fine dei tempi, insieme all’avvento dell’Anticristo. Questo schema deve pero essere “messo a lavoro”, montando tra di loro le varie parti per mostrare come nel passaggio tra l’una e l’altra non solo cambia il modo di raccontare la storia ma si descrive l’esplosione del modello tipologico e della spazialità prospettica.
La posizione di Michelangelo è davvero singolare, nel senso che riguarda direttamente la sua persona o, meglio, la costruzione sperimentale della propria immagine all’interno del grande costrutto storico-teologico degli affreschi. Non penso che l’artista esprima una distanza rispetto a quel costrutto, ma si serve della figura dell’ebreo per denunciare la tiepidezza della propria fede. Confrontando gli affreschi con i poemi penitenziali dove l’artista si attribuisce i tratti di “negligenza” che si ritrovano nelle figure delle lunette, ho avanzato l’ipotesi che si possa riconoscere sulla Volta sistina un’immagine sperimentale di Michelangelo come Antenato. Questa figure di sé come un ebreo - come anche quella che, nel Giudizio, lo mostra come una pelle scuoiata e pendente - esprime un’inquietudine profonda, percepibile se si associano queste due immagini di sé all’idea di una carnalità che non può essere “conformata”. Tuttavia, se leggiamo con attenzione i poemi di Michelangelo capiamo che l’autore desidera di essere conformato almeno quanto lo teme.
F.Z.: Al di là della Sistina, la mia impressione è che la storia e la teoria dell’arte debbano rendersi sensibili ai dibattiti emergenti, mirati a studiare e riflettere criticamente sulle asimmetrie politiche e visuali consolidatesi nei secoli. Anziché ignorare tali dibattiti o aderirvi superficialmente, quanti si occupano di arti e di immagini possono forse fornire (e mettere in discussione) i propri strumenti per fare in modo che il carattere politico delle rappresentazioni emerga in tutta la sua portata.
G.C.: Di che cosa e in che modo una grande opera del passato parla al nostro tempo? Per rispondere a questa difficile domanda, posta allo storico dell’arte da Walter Benjamin, ci vuole un’elaborazione lunga e complessa. Tra i principali motivi per cui è importante continuare a studiare opere del passato è che attraverso la loro analisi e interpretazione si parla anche dell’oggi.
Personalmente, non sono disposto a rinunciare a questa forma complessa di esegesi, che non ha nulla a che fare con la celebrazione della superiorità dell’Occidente. Tanto è vero che propongo appunto di esporre questo “capolavoro” a uno sguardo antropologico comparatista, sia sul piano del mito che su quello del rito, e pongo al centro dell’analisi la relazione con l’Altro.
Nessuno degli studi sulla Sistina prima del mio aveva considerato gli affreschi come formidabile appropriazione del “passato ebraico” da parte dei cristiani. Una prospettiva di ricerca che è evidentemente informata dai dibattitti contemporanei ai quali ti riferisci. Tuttavia, una volta assunto questo punto di vista, penso che sia importante capire in che modo questa appropriazione si produca tramite il “lavoro delle immagini”, piuttosto che limitarsi a una semplice condanna. L’antropologia si confronta da sempre con fenomeni di appropriazione - più o meno violenti e più o meno riusciti - costitutivi delle dinamiche culturali umane. Il fatto che oggi alcune comunità vogliano farsi carico e riappropriarsi della loro memoria e degli oggetti nei quali essa è depositata fa parte di questa dinamica e ne ridisegna i contorni. È tuttavia importante scongiurare il rischio di una deriva identitaria che, riservando ai soli membri di una comunità il diritto di occuparsi della propria memoria, proietti sugli oggetti culturali del passato un’idea di purezza.
Quanto al sapere depositato nella storia dell’arte, penso che andrebbe profondamente riformulato nel senso che ho indicato prima. Si tratta di mostrare che quel “patrimonio” resta sterile se non si fa apparire ciò che in lui “ci riguarda”. Senza per questo ridurre l’alterità del passato e delle diverse culture che caratterizzano il tempo presente.
* Fonte: Il lavoro culturale, 13 Novembre 2020 (ripresa parziale, senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE": IL "SOGNO" DI MICHELANGELO. Sibille e profeti: sulle tracce di Benjamin
FLS
PROFETI, SIBILLE, E MESSAGGIO EVANGELICO:
ANTONIO ROSMINI E LA "CHARITAS". Un invito a ...
Rileggere il testo della "BREVE DISSERTAZIONE DI ANTONIO ROSMINI SULLE SIBILLE" (Patricia Salomoni, "Rosmini Studies", 6, 2019). Che Rosmini abbia iniziato il suo percorso riflettendo sulle figure delle Sibille, è da considerarsi un fatto degno della massima attenzione - e, ovviamente, di ulteriore approfondimento!
La riflessione su tale tema, probabilmente, lo ha reso più vigile nel suo cammino e nella sua fedeltà alla lettera e allo spirito della "Charitas". Il "Kant italiano", infatti, iniziando il suo percorso con la tesi di laurea sulle Sibille (1822), non solo non ha perso il suo legame con la Grazia (Charis) e con le Grazie (Charites), ma - coerentemente - ha saputo custodire anche l’«h» della Charitas! E ha cercato di tenere ferma la sua distanza dalla logica economica - sempre più dilagante - della "carità" del "mercato" ("caritas") e, al contempo, dalla politica di sostegno alla diffusione della "eu-carestia" - a tutti i livelli. Ma, alla fine, non è riuscito a coniugare - come voleva, in spirito di verità e carità - - il rapporto tra filosofia (sapienza pagana) e rivelazione (sapienza ebraica).
Già all’inizio del suo percorso, benché partito con buona volontà e - kantianamente ("Sapere aude!") - con gran coraggio, infatti, egli s’inchina all’autorità di sant’Agostino ("De Civitate Dei", XVIII, 47) e - pur rendendosi conto con lo stesso Agostino che "qualsiasi predizione su Cristo poteva essere dichiarata falsa dagli empi e soggiacere al medesimo discredito, sia che si trattasse degli oracoli delle Sibille o delle profezie degli Ebrei" - conclude con un "non è gradito a Lui stesso che, nelle dispute, noi dedichiamo troppe energie più a quelli che a queste" e attribuisce la palma della credibilità solo a "queste .. certissime, luminosissime, custodite dal popolo ebraico a noi assai ostile, e protette da ogni corruzione con incomparabile ed encomiabile cura nel corso di molti secoli" (P. Salomoni, cit, p. 227).
A partire da "queste" premesse (promesse già non mantenute!), ovviamente, accolta solo la parola dei "profeti" non si può che rinarrare e riscrivere la vecchia "storia dell’Amore" di Adamo ed Eva:
E così, contravvenendo frettolosamente alle regole morali del suo stesso "metodo filosofico", il suo desiderio di lasciarsi guidare "in tutti i suoi passi dall’amore della verità", come dalla carità ("charitas") piena di grazia (charis), resta confinato nell’orizzonte della caduta e della minorità - e la presenza delle Sibille insieme ai Profeti nella Volta della Cappella Sistina è ancora un grosso problema!
Federico La Sala
Ad theologiam promovenda *
1. Per promuovere la teologia in avvenire non ci si può limitare a riproporre astrattamente formule e schemi del passato. Chiamata a interpretare profeticamente il presente e a scorgere nuovi itinerari per il futuro, alla luce della Rivelazione, la teologia dovrà confrontarsi con le profonde trasformazioni culturali, consapevole che: «Quello che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento d’epoca» (Discorso alla Curia Romana del 21 dicembre 2013).
2. La Pontificia Accademia di Teologia, sorta agli inizi del xviii secolo sotto gli auspici di Clemente xi, mio Predecessore, e da lui istituita canonicamente col breve Inscrutabili il 23 aprile 1718, nel corso della sua secolare esistenza ha costantemente incarnato l’esigenza di porre la teologia a servizio della Chiesa e del mondo, modificando quando necessario la propria struttura e ampliando le proprie finalità: da iniziale luogo di formazione teologica degli ecclesiastici in un contesto in cui altre istituzioni risultavano carenti e inadeguate a tale scopo, a gruppo di studiosi chiamati a indagare e approfondire temi teologici di particolare rilevanza. L’aggiornamento degli Statuti, voluto dai miei Predecessori, ha segnato e promosso tale processo: si pensi agli Statuti approvati da Gregorio xvi il 26 agosto 1838 e a quelli approvati da S. Giovanni Paolo ii con la Lettera Apostolica Inter munera Academiarum il 28 gennaio 1999.
3. Dopo quasi cinque lustri è giunto il momento di revisionare queste norme, per renderle più adatte alla missione che il nostro tempo impone alla teologia. A una Chiesa sinodale, missionaria ed “in uscita” non può che corrispondere una teologia “in uscita”. Come ho scritto nella Lettera al Gran Cancelliere dell’Università Cattolica di Argentina, rivolgendomi a professori e studenti di teologia: «Non accontentatevi di una teologia da tavolino. Il vostro luogo di riflessione siano le frontiere. [...] Anche i buoni teologi, come i buoni pastori, odorano di popolo e di strada e, con la loro riflessione, versano olio e vino sulle ferite degli uomini». L’apertura al mondo, all’uomo nella concretezza della sua situazione esistenziale, con le sue problematiche, le sue ferite, le sue sfide, le sue potenzialità, non può però ridursi ad atteggiamento “tattico”, adattando estrinsecamente contenuti ormai cristallizzati a nuove situazioni, ma deve sollecitare la teologia a un ripensamento epistemologico e metodologico, come indicato nel Proemio della costituzione apostolica Veritatis gaudium.
5. Questa dimensione relazionale connota e definisce, dal punto di vista epistemico, lo statuto della teologia, che è spinta a non chiudersi nell’autoreferenzialità, che conduce all’isolamento e all’insignificanza, ma a cogliersi come inserita in una trama di rapporti, innanzitutto con le altre discipline e gli altri saperi. È l’approccio della transdisciplinarità, cioè un’interdisciplinarità in senso forte, distinta dalla multidisciplinarità, intesa come interdisciplinarità in senso debole. Quest’ultima favorisce sicuramente una migliore comprensione dell’oggetto di studio considerandolo da più punti di vista, che tuttavia rimangono complementari e separati. La transdisciplinarità va invece pensata «come collocazione e fermentazione di tutti i saperi entro lo spazio di Luce e di Vita offerto dalla Sapienza che promana dalla Rivelazione di Dio» (Costituzione Apostolica Veritatis gaudium, Proemio, 4c). Ne deriva l’arduo compito per la teologia di essere in grado di avvalersi di categorie nuove elaborate da altri saperi, per penetrare e comunicare le verità della fede e trasmettere l’insegnamento di Gesù nei linguaggi odierni, con originalità e consapevolezza critica.
8. Si tratta del “timbro” pastorale che la teologia nel suo insieme, e non solo in un suo ambito peculiare, deve assumere: senza contrapporre teoria e pratica, la riflessione teologica è sollecitata a svilupparsi con un metodo induttivo, che parta dai diversi contesti e dalle concrete situazioni in cui i popoli sono inseriti, lasciandosi interpellare seriamente dalla realtà, per divenire discernimento dei “segni dei tempi” nell’annuncio dell’evento salvifico del Dio-agape, comunicatosi in Gesù Cristo. Perciò occorre che venga anzitutto privilegiato il sapere del senso comune della gente che è di fatto luogo teologico nel quale abitano tante immagini di Dio, spesso non corrispondenti al volto cristiano di Dio, solo e sempre amore. La teologia si pone al servizio della evangelizzazione della Chiesa e della trasmissione della fede, perché la fede diventi cultura, cioè ethos sapiente del popolo di Dio, proposta di bellezza umana e umanizzante per tutti.
9. Di fronte a questa rinnovata missione della teologia, la Pontificia Accademia di Teologia è chiamata a sviluppare, nella costante attenzione alla scientificità della riflessione teologica, il dialogo transdisciplinare con gli altri saperi scientifici, filosofici, umanistici e artistici, con credenti e non credenti, con uomini e donne di differenti confessioni cristiane e differenti religioni. Ciò potrà avvenire creando una comunità accademica di condivisione di fede e di studio, che intessa una rete di relazioni con altre istituzioni formative, educative e culturali e che sappia penetrare, con originalità e spirito d’immaginazione, nei luoghi esistenziali dell’elaborazione del sapere, delle professioni e delle comunità cristiane.
10. Grazie ai nuovi Statuti, la Pontificia Accademia di Teologia potrà così più facilmente perseguire le finalità che il tempo presente richiede. Accogliendo favorevolmente i voti che mi sono stati rivolti perché approvassi queste nuove norme, e assecondandoli, desidero che questa egregia sede di studi cresca in qualità e per questo approvo, in forza di questa Lettera Apostolica, ed in perpetuo, gli Statuti della Pontificia Accademia di Teologia, legittimamente elaborati e di nuovo revisionati e conferisco loro la forza dell’Apostolica approvazione.
Tutto ciò che ho decretato in questa Lettera Apostolica motu proprio data, ordino che abbia valore stabile e duraturo, nonostante qualsiasi cosa contraria.
Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 1°novembre dell’anno 2023,
Solennità di Tutti i Santi, undicesimo del Pontificato
Francesco
* Fonte: L’Osservatore Romano, 03 novembre 2023 (ripresa parziale).
DANTEDI’, #STORIAELETTERATURA, E #FRANCOSTORIE:
LA "#STORIA POSTALE", I #MESSAGGI DELLE #SIBILLE (#MICHELANGELO, "VOLTA DELLA #CAPPELLA SISTINA",1512), IL #SERVIZIO POSTALE DELLA #FAMIGLIA DI #BERNARDO TASSO (1493-1569) E #TORQUATO TASSO (1544-1595), E LA MEMORIA DI #ANTONIO ROSMINI ( #24MARZO 1797 - 1 LUGLIO 1855).
ACCOGLIENDO LA SOLLECITAZIONE A RICORDARE ANTONIO ROSMINI SERBATI "(#Rovereto 1797 - #Stresa 1855), sacerdote e filosofo vissuto nella prima metà dell’Ottocento", forse, è possibile far emergere e mettere in evidenza un legame stretto con la cultura dell’#Europa del #Cinquecento, la "storia postale" e gli avvii dell’impresa dei #Tasso: degno di nota è il fatto che la tesi di laurea di Rosmini è una breve dissertazione sulle Sibille->https://media.agiati.org/page/attachments/01-pag-09-patricia-salomoni-antonio-rosmini-lettore-e-traduttore-dei-classici.pdf] (1822).
#Dantedi #25marzo 2024: vista e considerata la presenza nella "Casa natale di Antonio Rosmini" della #SibillaCumana, è bene riannodare il filo tra Dante e Rosmini e non far disperdere "al vento ne le foglie levi [...] la sentenza di #Sibilla." (#DanteAlighieri, Par. XXXIII, vv. 65-66).
The Economy of Francesco.
«Generare» non solo produrre: l’economia del prendersi cura
Da Assisi la rivoluzione di un nuovo modello di sviluppo che pensi alle generazioni future. Le proposte di Magatti, Becchetti e Consuelo Corradi
di Cinzia Arena (Avvenire, venerdì 20 novembre 2020)
Uscire dal binomio produzione e consumo per realizzare un nuovo paradigma di economia circolare che metta al centro la persona, accompagni le nuove generazioni e tuteli l’ambiente. Una rivoluzione silenziosa partita da Assisi - sede reale e simbolica dell’evento voluto da papa Francesco che ha come protagonisti duemila giovani imprenditori ed economisti - che parla alle nostre coscienze in un momento storico così complesso e pieno di incertezze. «Generatività, beni relazionali ed economia civile» è il titolo del dibattito che ha aperto la seconda giornata di «The economy of Francesco».
Sabato ci sarà il video-messaggio del Pontefice e un arrivederci all’anno prossimo, in autunno, quando si spera si potrà proseguire in presenza il cammino intrapreso in questi tre giorni di dibattiti in streaming. Un concetto quello della "generatività", che i relatori, Mauro Magatti, ordinario di Sociologia all’università Cattolica, Consuelo Corradi, professore di Sociologia alla Lumsa e Leonardo Becchetti, ordinario di economia politica all’università Tor Vergata hanno cercato di rendere concreto. Un processo di relazioni che coinvolge tutta la comunità: dai cittadini, agli imprenditori alle istituzioni.
«Sino ad oggi il circuito della produzione e del consumo hanno regolato il nostro modello economico - ha detto Magatti - . Ma un’economia basata sulla quantità produce diseguaglianze ed è entropica con l’ambiente. Occorre fare un passo più in là come dice Pascal "conoscere le ragioni del cuore che la ragione non conosce". Produrre e consumare sono alla base della civiltà umana. Il problema nasce quando produzione e consumo pretendono di diventare assolute e di dare senso alle nostre vite, da qui nasce l’ossessione del controllo».
Al contrario il "generare" è un movimento antropologico basato sul prendersi cura. «È la condizione essenziale per capire chi siamo, è la circolazione della vita e della libertà attraverso e al di dà di quello che facciamo noi». Per questo Magatti ipotizza la necessità di una transizione su quattro fronti: formativa, organizzativa, comunitaria e ambientale. «L’idea di un’economia generativa riapre il futuro che ci sembra chiuso, ci permette di mettere al mondo, prendersi cura, accompagnare e lasciare andare».
Nel suo intervento Consuelo Corradi ha declinato il tema al femminile. Partendo dalla domanda sul come raggiungere la parità di genere, Corradi ha ipotizzato due risposte. La prima, passa per il concetto del "non ancora": in Italia ad esempio «non c’è ancora ancora un presidente Repubblica o un premier donna». Ma è la seconda risposta secondo Corradi ad essere la più interessante anche se presenta delle insidie. E consiste nel mettere al centro la diversità e il ruolo fondamentale delle donne alla generatività, concetto che travalica quello di maternità. «Le donne hanno una familiarità con le difficoltà. Hanno affinità con il dolore e la fatica: non a caso sono madri, infermiere, insegnanti. Hanno il piacere del prendersi cura degli altri, nelle famiglie così come nelle aziende e negli istituti di ricerca».
Tutti elementi che contrastano con l’individualismo estremo. «Se l’unica aspettativa delle donne diventa essere pari agli uomini, autonome efficienti e determinate, finiremo per dimenticare tale bio-diversità e questa sarà una grave perdita» ha concluso la professoressa.Becchetti ha parlato delle necessità di nuovi indicatori per le politiche economiche, un nuovo paradigma che «introduca i concetti di dono e fiducia al posto della massimizzazione del profitto». Dire basta alla logica del Pil basata sulla produzione di beni. «La politica economica deve passare da un modello a due mani, vale a dire mercato e istituzioni, ad un modello a quattro mani che includa anche cittadinanza attiva e impresa responsabile come previsto dal goal 12 dell’Agenda 2030». In questa direzione si può andare solo con un impegno collettivo, trasformando le nostre scelte di tutti i giorni, facendo acquisti ragionati, premiando le imprese sostenibili da punto di vista ambientale e soprattutto umano. «Il messaggio finale è non dobbiamo pensare che il mondo si cambi solo d’alto, lo cambiano le nostre scelte costruite dal basso: votiamo ogni volta che scegliamo un prodotto».
Svezia, i preti donna superano gli uomini
Sono il 50,2% dei ministri abilitati al servizio religioso. Ma nelle gerarchie della Chiesa evangelica luterana di Stoccolma contano ancora poco e guadagnano di meno
di Andrea Tarquini (la Repubblica, 22 Luglio 2020)
BERLINO - La Svezia è uno dei paesi all’avanguardia per la gender equality, la parità di diritti e opportunità tra donne e uomini. In ogni campo della vita sociale: dalla pubblica amministrazione all’economia, dalla cultura ai media, dalla polizia alle forze armate. Ora Stoccolma raggiunge un nuovo primato anche nel campo della fede: per la prima volta nella sua storia la Chiesa svedese, evangelica luterana, conta più pastori donne che non pastori uomini. Per l’esattezza il 50,2 per cento dei ministri evangelici abilitati a officiare il servizio religioso sono donne: 1.533 su un totale di 3.063 presuli. E nella rete di seminari da qualche anno ben il 70 per cento degli iscritti sono donne.
La notizia, data dalla chiesa protestante svedese stessa e anticipata dalla radio pubblica, ha però un rovescio della medaglia: gli uomini restano in maggioranza ai gradi alti della gerarchia ecclesiastica luterana del regno delle tre corone, per quanto essa sia più semplificata di quella cattolica. E non è tutto: a pari mansione, un pastore donna nella chiesa svedese resta meno retribuito di un pastore uomo. La differenza media è l’equivalente in corone di almeno 215 euro mensili.
"Nel 1990 avevamo previsto che cento anni più tardi, ovvero nel 2090, le donne-pastore sarebbero aumentate di numero fino ad arrivare alla metà del totale; la realtà si è rivelata molto piú veloce delle nostre prognosi", ha detto la portavoce ecclesiastica Christina Grenholm.
E’ dal 1958 che la chiesa protestante svedese ha accettato il sacerdozio femminile. E dal 2000, anno della totale separazione tra Chiesa e Stato, i corsi di teologia sono stati presi d’assalto dalle donne, che appunto sono attualmente circa il 70 per cento del totale degli studenti di teologia nel paese.
Un grande passo in avanti, ma appunto i problemi restano. La stessa chiesa evangelica svedese lo riconosce, notando che molte volte il servizio divino è officiato da un pastore uomo e da un pastore donna. E sottolineando che ai vertici la rappresentanza maschile resta superiore.
Come in economia, politica e forze armate la migliore metà del cielo svedese ha conseguito una vittoria importantissima anche nella fede, ma non ha ancora sfondato il tetto. E ci si può immaginare quanto sia probabilmente duro e umiliante scegliere di servire Dio e la Chiesa in nome della fede, e officiare accettando retribuzioni inferiori dei confratelli maschi. Anche la Svezia non è perfetta. Nelle chiese protestanti di molti paesi le donne sono ammesse al sacerdozio. In Germania una donna vescovo, Margot Kässmann, è stata persino presidente dei vescovi luterani.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ADAMO ED EVA, MARIA E GIUSEPPE UGUALI DAVANTI A DIO: L’ALLEANZA DI FUOCO. SI’ ALLE DONNE VESCOVO : LA CHIESA ANGLICANA SORPASSA LA CHIESA "CATTOLICA". Il cattolicismo "andropologico" romano è finito
FLS
PLATONE, KANT, E I SOGNI DI UN VISIONARIO....
Il Bene e il conveniente sono ciò che lega e tiene insieme l’universo. Platone (Tweet Filosofici)
Ma perché questa #idea, questa #novella (il "#Bene...tiene insieme l’#universo") possa essere e intendersi come una novella-buona, è necessario #verificare se non è una #FakeNews: se no, la #buona-novella (εὐ-αγγέλιον) può #velare il contrario, che #Tutto "Va-(i)n-gelo"! O no?! (Federico La Sala)
fls
Anticipazione.
Educare lo spettatore alla teologia del cinema
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, venerdì 13 novembre 2020)
Perché anche un film a esplicito soggetto religioso può risultare spiritualmente insignificante, e un film di tema e taglio profano può essere di di altissima impronta religiosa. La collana della FEdS
Era l’anno 1895 e per la prima volta i fratelli Louis-Jean e Auguste Lumière facevano scorrere alcune immagini in movimento, dando origine a quella che sarebbe stata pomposamente chiamata “la settima arte”, la cinematografia. Pochi sanno, però, che alcuni mesi dopo, il 26 febbraio 1896, un operatore, Vittorio Calcina, per conto dei fratelli Lumière, aveva ottenuto il permesso di varcare le soglie del Palazzo Apostolico con le sue apparecchiature destinate a filmare Papa Leone XIII nell’atto di benedire. Da lì a poco un collaboratore di Edison aveva potuto riprendere lo stesso vecchio pontefice mentre passeggiava nei Giardini Vaticani, a beneficio dei fedeli americani desiderosi di vedere il Papa “di persona”.
Nel 1897, sul candido lenzuolo che allora fungeva da schermo passava la prima trascrizione in immagini mobili de La passione di Albert K. Léhar, un’esperienza che nel 1899 ripeterà un più noto regista, Georges Méliès, col film cristologico Le Christ marchant sur les eaux, cui seguirà Jeanne d’Arc. Da quei momenti iniziali si snoderà un itinerario che attraverserà tutto il Novecento e tutte le nazioni del mondo e approderà alle incessanti produzioni filmiche, alle variazioni di genere introdotte dalla televisione, alle voragini abissali nel nadir delle perversioni, delle violenze, della pornografia, ma anche allo zenit dei capolavori di umanità e spiritualità, alle esaltazioni dei colossal fino alle inedite creazioni digitali attuali, alla valanga della retorica di certi film “biblici” e agiografici, al moltiplicarsi dei festival e così via.
Non è possibile né è nostro compito ora ricostruire questa storia, sia pure soffermandoci solo sulla filmografia che coinvolge la fede. Ci accontenteremo, perciò, di presentare una trilogia schematica, simile a un trittico mobile e di taglio impressionistico.
Nella prima scena abbozzeremo un essenziale cenno teorico e teologico; nel secondo quadro faremo salire sulla ribalta, in una sorta di galleria di ritratti minimi, alcuni protagonisti - anche inattesi - della dialettica tra cinema e fede. Infine ci rivolgeremo ai non molti ma significativi approcci pastorali ufficiali offerti dal Magistero, mentre la Chiesa era coinvolta vivacemente nella trionfale affermazione della “settima arte”.
La matrice del cinema si lega sostanzialmente a due categorie fondamentali anche nella teologia, l’immagine e la parola, colte nella loro dinamicità ed efficacia. Alla giusta reticenza aniconica del Decalogo che proibisce ogni rappresentazione di «ciò che è nel cielo, sulla terra e nelle acque sotto terra» (Esodo 20,4) per liberare il Dio persona da ogni forma oggettuale idolatrica, subentra la svolta neotestamentaria. -Nelle Scritture cristiane e nella Tradizione la domanda di fondo sulla rappresentabilità del sacro è subito evasa in senso favorevole, non solo perché il linguaggio teologico è per sua stessa natura simbolico e analogico - come per altro aveva già intuito il libro della Sapienza, convinto che «dalla bellezza e magnificenza delle creature analógôs [per analogia] si può ascendere al loro Autore» (13,5) - ma anche perché il cristianesimo ha nel suo cuore l’Incarnazione che vede nel volto umano di Gesù di Nazareth una eikôn, un’icona, un’immagine del Dio invisibile, come scriveva san Paolo ai Colossesi (1,15). In questa linea si illumina anche la scelta iconica della Chiesa che si opporrà con forza all’iconoclasmo nel Secondo Concilio di Nicea (787), generando e sostenendo quello straordinario patrimonio artistico che avrà il suo approdo necessario anche nella stessa cinematografia.
Non è secondario, poi, il fatto che i due linguaggi, il filmico e il religioso, sono per loro natura performativi. Pur con tutte le distanze e le differenze del caso, la “sacramentalità” dell’atto liturgico ha un’analogia nell’efficacia dell’ “azione” cinematografica che cerca di “attuare” nello spettatore ciò che rappresenta. Ci sono, infatti, nei film di autentica qualità artistica e spirituale alcune suggestioni irrevocabili che, dopo il congedo dallo spettacolo, continuano a vivere nell’interiorità e nella stessa esistenza dello spettatore.
L’altra componente che intreccia fede e film è la parola. Naturalmente non intendiamo solo il sostegno che il dialogo offre alla rappresentazione, ma il racconto visivo. Ora, si comprende che la Bibbia sia divenuta un soggetto appetibile dal cinema perché è per sua natura “storia della salvezza” e quindi narrazione.
È suggestivo un aforisma giudaico che afferma: «Dio ha creato gli uomini perché Egli - benedetto sia - ama i racconti ». Ci sono, così, pagine bibliche che sembrano già un soggetto cinematografico, come nel caso delle 35 principali parabole di Gesù. Altri testi si presentano quasi come una sceneggiatura pronta per le riprese: si provi a leggere, ad esempio, il celebre racconto dell’adulterio di Davide e dell’assassinio di Urìa presente nei cc. 11-12 del Secondo Libro di Samuele.
In quest’ottica si sono sviluppati alcuni capolavori come il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1964) ma anche una serie di colossal di grande impegno finanziario e tecnico ma di modesta qualità religiosa. Pensiamo alla Più grande storia mai raccontata di George Stevens (1965), a Il grande pescatore di Frank Borzage (1959) o al Re dei re di Cecil B. DeMille (1927) remake di Nicholas Ray nel (1961); quest’ultimo ebbe anche il merito di aver diretto un più significativo film divenuto un “classico” della cinematografia biblica, I dieci comandamenti (1956).
Non si badava a spese e a effetti, ma alla fine si otteneva un’iconografia enfatica e solo esteriormente religiosa, anzi, in alcuni casi destinata a rasentare il sadismo, come nell’esagitato, La Passione di Cristo (2004) di Mel Gibson (90 minuti di torture su 126 di film!). Né si devono escludere le non rare provocazioni blasfeme che attingevano la loro capacità di scandalo proprio nell’uso improprio del testo sacro ( L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese del 1988, in verità meno negativa di quanto sembrasse, divenne al riguardo un emblema. Anche per il cinema si può, comunque, riproporre l’antica querelle che ha tormentato critici e teologi riguardo alla definizione dell’arte sacra o dell’arte religiosa (che non sono necessariamente sinonimi). In realtà, bisognerebbe superare le classificazioni troppo rigide perché anche un film a esplicito soggetto religioso può risultare spiritualmente insignificante, e un film di tema e taglio profano può essere di altissima impronta religiosa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GELBISON, GIBSON E LA CHIESA CATTOLICA. DUE PAROLE, UN ’RIVELATIVO’ SEGNO DEI TEMPI.
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN : NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan
PLATONE, PLATONISMO PER IL POPOLO, E CROLLO DELLA MENTE DELL’UOMO TEORETICO ...
HANS BLUMENBERG CI SOLLECITA: "USCITE DALLA CAVERNA" !
FLS
Caro Papa Francesco.
Finché è ancora in tempo, per favore cambi il titolo della nuova encliclica. *
Quel ’Fratelli’ (senza sorelle) non si può usare nel 2020.
Lei ci ha insegnato il peso delle parole.
Il titolo si mangerà il contenuto.
L’altro nome di Francesco è Chiara.
(Luigino Bruni - Twitter, 23 settembre 2020).
*
IL SI’ DELLA «MEDIAZIONE MATERNA» (e .. quello della «mediazione paterna»?) , LA GLORIFICAZIONE DI MARIA (e... di Giuseppe?), E IL "SOGGETTIVO ATTIVO DELL’ASSUNZIONE"?
La Gloriosa
Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria
di Michele Giulio Masciarelli *
Il rapporto di Maria con la Trinità è continuo; tutti gli aspetti della sua esistenza appartengono a quel mistero: l’ideazione della sua singolare vocazione, la sua concezione immacolata, la sua perpetua condizione verginale, la sua divina maternità, la sua compagnia materna data al Figlio in ogni passaggio della sua missione messianica, la sua maternità ecclesiale. È certamente vero che nessuna creatura ha avuto né avrà tanta relazione con la Trinità. Ciascuna delle tre divine Persone ha posto sull’esistenza di Maria, in modo proprio, l’impronta della sua somiglianza.
Il Padre, come è all’origine di tutta l’opera salvifica, è anche all’inizio dell’avventura di grazia vissuta da Maria come madre messianica: la grazia di Maria viene dal Padre e porta al Padre, che la glorifica chiamandola vicino al Figlio che siede alla sua destra. Maria è stata assunta: non si è auto-elevata in cielo; non è ascesa al cielo per forza propria. Occorre perciò indicare il soggetto attivo dell’Assunzione, per comprendere e spiegare, nella fede, tale privilegio mariano. Quel soggetto attivo è il Padre. È lui che ha chiamato e portato in cielo la madre del Figlio.
Maria, con l’Assunzione, rivive in modo inverso, la grazia e la gioia dell’incarnazione; lei, per così dire, esperimenta un nuovo rapporto con Gesù, quasi una restituzione dell’amore che egli le riserba accogliendola in Cielo: «Così com’ella l’ha accolto nell’ambito delle cose umane, allo stesso modo egli ora la fa entrare nella sua vita divina ed eterna. Entrambi gli atti sono in sé completi ed includono globalmente l’uomo, l’anima e il corpo. [...] È un ciclo anche quello tra la Madre e il Figlio, in quanto come una volta la Madre ha pronunciato un sì nei riguardi del Figlio e di tutto ciò che lo riguarda, allo stesso modo è il Figlio che oggi pronuncia un grande sì verso la Madre» (A. von Speyr, L’ancella del Signore. Maria, Milano, Jaca Book, 1986, p. 145).
La glorificazione di Maria con l’Assunzione al cielo è, con ogni evidenza, tema immediatamente mariano, ma fondamentalmente essa è tema teologico, nel senso che è una delle iniziative del Padre su Maria. La Vergine riceve la grazia dell’Assunzione, come aveva ricevuto quelle dell’Immacolata concezione, dell’annunciazione, della maternità divina. Tenendo conto questo grande aspetto del mistero cristiano (l’attività di Dio e la passività della creatura), è proprio il caso di dire che il cosiddetto “autogiudizio”, su cui tanto s’insiste in questi anni, non si dà nel senso più serio in cui si deve dire dell’ultimo giudizio di Gesù sui singoli uomini e sulla storia. Il giudizio ultimo è l’estremo atto salvifico che Gesù, quale fratello necessario, porrà come Redemptor hominis e come Salvator mundi. In quanto iniziativa del Padre, l’Assunzione conferma in modo chiaro che nel cristianesimo non esiste l’auto-redenzione e, perciò, neppure l’auto-giudizio e l’auto-glorificazione. Maria non si è auto-redenta (è il senso dell’Immacolata concezione); perciò non si è neppure auto-glorificata (è il senso dell’Assunzione). Gesù salva lei e i suoi tre popoli: il popolo di Adamo di cui è la figlia migliore; il popolo d’Israele, di cui è il “resto santo”; il popolo della Chiesa, di cui è il beato inizio.
Fede escatologica e mariana
C’è una dimensione mariana nella vittoria redentiva di Cristo ottenuta nell’evento passato della Pasqua, che determina l’intero futuro? e se c’è, dov’è? Maria, profetizzata come uno dei soggetti della lotta contro Satana (cfr. Gn 3, 15), quale nuova Eva partecipa a tale lotta con la presenza attiva sotto la Croce.
I rapporti Adamo-Eva e Cristo-nuova Eva non possono non essere compresi nel contesto dell’evento staurologico: la Croce è il nuovo “albero della vita” sul quale (Cristo) e intorno al quale (Maria) ricomincia la storia della salvezza nel segno della fedeltà e dell’ubbidienza.
Maria, con il Sì della «mediazione materna», come san Giovanni Paolo II s’esprime nella terza parte della Redemptoris Mater, ha partecipato a escatologizzare la storia, prima permettendo l’ingresso in essa del Salvatore come causa escatologica, poi ha continuato la collaborazione all’opera messianica del Figlio, permanendo al fianco di lui fino all’apice della lotta messianica, ossia fin nel cuore del mistero dell’ora pasquale. La nostra fede escatologica è dunque anche mariana perché riguarda un futuro, la cui causa è stata posta in un passato (incarnazione e croce) nel quale Maria ha preso parte in modo attivo ed essenziale. Questo - non stupisca - esige anche che perfino la “teologia della storia” si connoti in modo mariano.
La partecipazione di Maria alla strutturazione della storia della salvezza, ossia alla sua escatologizzazione, è stata così profonda ed essenziale che la sua esistenza può essere considerata una «microstoria della salvezza» (S. De Fiores): essa ha infatti sintetizzato l’intero progetto di grazia che il Dio trinitario ha disegnato e realizzato per la famiglia umana. Nella sua esistenza si inverano, in modo essenziale e nuovo, i maggiori passaggi della storia di grazia: «Per la sua intima partecipazione alla storia della salvezza, riunisce per così dire e riverbera i massimi dati della fede» (Lumen gentium, n. 65). In particolare, nel suo mistero sfocia l’evento dei nostri primordi (è la “nuova Eva”); si concentra il mistero del primo Israele (è la “Figlia di Sion”); ha principio il mistero del secondo Israele (è la “Chiesa nascente”).
La connessione del mistero mariano col mysterium salutis è tale che l’esistenza della Vergine-Madre è segno di tutti i misteri cristiani: del mistero trinitario (per essere figlia eletta del Padre, madre santa del Figlio, sposa amorosa dello Spirito); del mistero dell’incarnazione (per la sua maternità divina); del mistero pasquale-pentecostale (per il suo essere stata “socia del Salvatore” sotto la croce e compagna degli apostoli nel cenacolo); del mistero della Chiesa (per essere sua madre e suo modello); del mistero della fine (per essere assunta nella gloria trinitaria ed essere glorificata come regina, divenendo in pienezza “La Gloriosa”).
La salvezza completa
Con la sua Assunzione Maria anzitutto ci presenta il cristianesimo come religione del futuro assoluto. Parla anche all’uomo contemporaneo, quasi ammonendolo, perché questi consuma la sua esistenza nel quotidiano e pone le sue scelte nella breve terra dell’oggi, senza pretendere che esse debbano scaturire da lontano (assenza della tradizione) o debbano portare lontano (assenza dell’apertura al futuro ultimo), restando così irretito nelle forre del presentismo.
D’altra parte, il presentismo non è il tempo buono per l’uomo del nostro “tempo debole”, né la storia, nel suo insieme, è adeguata risposta al radicalismo della tensione al futuro che è dentro il suo cuore: «L’istinto del cuore - afferma la Gaudium et spes - lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea [...] di un annientamento definitivo della sua persona» (n. 18). Perciò dice bene il filosofo Michele Federico Sciacca, quando afferma, con amabile ironia: «Io con la storia mi accendo la pipa» (Come si vince a Waterloo, Milano 1965, p. 12).
Purtroppo, l’uomo contemporaneo sembra farsi bastare quanto entra nelle strette stive di una “nave“ che solca un mare senza orizzonti lunghi. Al cristianesimo ciò non basta: l’Assunzione di Maria ricorda quanto esso pensa sul destino ultimo dell’uomo, che è chiamato a realizzarsi in pienezza e per sempre. È questo il senso della “gloria”, parola che Hans Urs von Balthasar ha genialmente scelto per dire tutto il cristianesimo nella sua monumentale teologia.
È un fatto che molti uomini d’oggi, come denunciava Benedetto XVI, sono scivolati dentro l’anello nero e soffocante del nichilismo, che è filosofia debole, ma che ha certamente la forza di stringere al collo la «bambina speranza», di cui parlava Péguy, e di soffocarla. Dinanzi al labirinto nichilistico che smarrisce l’uomo di oggi disarcionandolo dalle “grandi narrazioni”, inchiodandolo al solo presente, convincendolo che gli possano bastare i futuri brevi, allevandolo soprattutto alla malsana idea di una vita senza “giudizio ultimo”, il cristianesimo, preoccupato, s’impegna ad aiutare l’uomo della post-modernità a uscirne per evitare che finisca nelle fauci della tigre cinica.
Maria è imitabile sempre, lo è anche la sua Assunzione. Ma che cosa significa, oggi, essere «assunti» a imitazione di Maria? È presto detto: significa elevare, in un vortice aspirante di grazia, le nostre persone, le nostre «opere» e i nostri «giorni», la nostra vita cristiana ed ecclesiale, la nostra missione, la nostra animazione evangelica delle realtà temporali.
Dinanzi a Maria assunta in cielo il grido dei pellegrini verso la Patria trinitaria dev’essere più acuto e più radicale: l’intero tuo spirito diventi nostro. Il cristianesimo, anche con l’ostensione dell’“icona della Gloriosa”, dinanzi a un uomo, quello contemporaneo, che ama raccontarsi come un essere senza radici e senza promesse, invita a non aver paura del futuro, ma a riassumerlo con fiducia e serietà, a interrogarlo con radicale rigore.
Sfida alla gioia
C’è una vena di tristezza che connota la nostra ora storica, ed è così profonda da non poter essere nascosta dal frastuono del suo vitalismo. L’epoca contemporanea, nonostante tutto, è triste. La sua è una tristezza che ne segna vistosamente il volto fino a contraddistinguerla. La nostra epoca, fra l’altro, sarà ricordata come un tempo che ha conosciuto la tentazione della disperazione. C’è stato nell’Occidente del Novecento, il terribile “secolo breve”, una venatura amara nella vita privata, nella vita sociale e politica, e perfino nella cultura: Baudelaire, Mallarmé, Camus, Gide, Bernanos, Pavese, Tomasi di Lampedusa sono solo alcuni nomi di quel filone nerastro della sua letteratura che tinge di tristezza il frontespizio del tempio della cultura contemporanea.
Senza dire delle correnti malinconiche, tristi, disperanti della filosofia contemporanea, che in tanta parte è filosofia nichilista o comunque della crisi della ragione e dei comuni valori. Tristissimo, poi, è lo scenario se guardiamo all’ambito socio-politico su scala planetaria: sono vistosi i segni di tristezza causati dalla fame e dalla guerra sul volto dei popoli, specie su quello dei cosiddetti “popoli ultimi”, e dal terrorismo che rattrista e getta nel panico tutti con i suoi progetti di violenza e di morte.
C’è oggi una «difficoltà a dir di sì», affermava anni fa Johann Baptist Metz. Si constata una marcata indisponibilità alla gioia e, ciononostante, le ostentazioni vitalistiche del nostro tempo, e nonostante le grandi vittorie che l’uomo d’oggi indubbiamente si è date in campo scientifico e tecnologico. Paradossalmente, tanta parte della tristezza patita dall’uomo di oggi dipende proprio da quelle presunte e improprie “vittorie”: basti il solo cenno al guasto ecologico per intenderci.
La Chiesa osserva ed è preoccupata. Essa sa che nel lungo elenco dei «prodotti» dell’Homo faber d’oggi non si trova la gioia. Si constata anche una tacita confessione di debolezza e d’impotenza da parte di una civiltà che pure mostra di poter tanto; basti pensare all’incapacità di questa a fronteggiare serenamente la morte, intorno a cui non sa fare altro che organizzare una specie di congiura del silenzio. Scriveva Paolo VI: «La società tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare la gioia. Perché la gioia viene d’altronde. È spirituale» (Esort. ap. Gaudete in Domino [9.5.1975], i).
Ora, di fronte a questa profonda e vasta tristezza che permea dei suoi neri umori un’intera epoca, la Chiesa sente di dover reagire: presenta, anzitutto dinanzi ai suoi occhi, ma anche in faccia al mondo, un segno di speranza, ed è Maria Assunta (cfr. Lumen gentium, n. 68): «La solennità del 15 agosto celebra la gloriosa Assunzione di Maria al cielo: è, questa, la festa del suo destino di pienezza e di beatitudine, della glorificazione della sua anima immacolata e del suo corpo verginale, della sua perfetta configurazione a Cristo risorto; una festa che propone alla Chiesa e all’umanità l’immagine e il consolante documento dell’avverarsi della speranza finale: ché tale piena glorificazione è il destino di quanti Cristo ha fatto fratelli» (Paolo VI, Esort. ap. Marialis cultus, [2.2.1974], n. 6).
Nella vita della Chiesa
La presenza di Maria nella Chiesa non proviene solo dal passato (come se vi fosse solo ben ricordata), ma proviene anche dal futuro: l’attende nella gloria e realizza in essa una misteriosa presenza soprattutto come sua permanente madre. Maria, donna di futuro, è presente nella Chiesa da sempre, perché ne fa parte in modo costitutivo: senza di lei la Chiesa sarebbe una comunità religiosa senza prototipo e senza modello ispirativo, sarebbe un popolo pellegrino senza il segno di sicura speranza dinanzi ai suoi occhi, sarebbe una famiglia senza madre, ma non al modo di una famiglia restata senza madre (cosa che è possibile), ma al modo di una famiglia che non avrebbe avuto mai la madre (cosa che non riusciamo a concepire).
La Chiesa senza Maria dovrebbe spiegare diversamente le sue origini (è stata la Chiesa nascente), dovrebbe spiegare diversamente l’ingresso nel mondo del suo fondatore (Cristo è nato da donna: cfr. Gal 4, 4), dovrebbe spiegare diversamente la sua attuale unione con Cristo che rende salvifico il suo agire (è sacramento in Cristo, la cui sacramentalità è legata all’incarnazione del Verbo avvenuta nel seno della Vergine Madre).
Glorificazione regale
L’Assunzione non è l’ultimo mistero di Maria, che è già la sua glorificazione, ma ad essa segue un’altra forma di glorificazione, quella regale. Come si sa, Pio XII al termine dell’Anno mariano del 1954, dedicato al centenario alla definizione dommatica sull’Immacolata, l’11 ottobre pubblica l’enciclica Ad coeli reginam. In essa Papa Pacelli portava le motivazioni della nuova festa liturgica di Maria regina, fissandola a conclusione del mese di maggio, legandola perciò alla pietà popolare. Invece, nel riformato Calendario romano del 1969 la festa della regalità della Vergine viene spostata al 22 agosto, all’ottava dell’Assunta. In tal modo si fa una scelta teologica molto saggia e intelligente: infatti, è evidenziato il legame misterico che esiste fra Assunzione e glorificazione regale di Maria.
Questo legame è mostrato e reso esplicito dalla liturgia del 15 agosto, quando nell’antifona del Magnificat di quel giorno, così si canta: «Rallegratevi, perché Maria è salita nei cieli: / con Cristo regna per sempre». La “logica dei misteri” è evidente: il “salire in Cielo” e il “regnare in Cielo” si legano, come sono connessi l’ascendere di Gesù al Cielo e il suo regnare avendo ricevuto la glorificazione regale da parte del Padre. Con lucidità magisteriale Paolo VI afferma rispetto alla memoria mariana del 22 agosto: «La solennità dell’Assunzione ha un prolungamento festoso nella celebrazione della beata vergine Maria regina, che ricorre otto giorni dopo, nella quale si contempla colei che, assisa accanto al Re dei secoli, splende come Regina e intercede come Madre» (Esort. Ap. Marialis cultus, n. 6).
In questo testo pontificio non si afferma solo l’essenziale legame tra Assunzione e regalità di Maria, ma anche un ordine fra i due eventi della sua glorificazione. «Giustamente il testo sottintende che per la liturgia romana la solennità del 15 agosto costituisce, a rigor di termini, la celebrazione più piena della regalità di Maria: nella luce dell’Assunzione la festa del 22 agosto appare solo come un “prolungamento festoso” di essa come peculiare contemplazione di “colei che, assisa accanto al Re dei secoli, splende come Regina e intercede come Madre”» (D. M. Sartor, Le feste della Madonna. Note storiche e liturgiche per una celebrazione partecipata, Bologna, Dehoniane, 1987, p. 136).
Però, è anche vero che, in un’ottica teologica rigorosa, il culmine della glorificazione di Maria e, perfino il senso ultimo di essa, si ha nella sua glorificazione regale. È lì che lei diviene, in senso pienissimo, “La Gloriosa”.
* Fonte: L’Osservatore Romano, 13 agosto 2020
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SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA!!!
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE... Commenti a De Domo David. 49 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò
PER IL “futuro Simposio internazionale di studi su san Giuseppe, che si terrà tra due anni in Guatemala”. Alcuni “vecchi” appunti sul tema...
“GIUSEPPE”, L’ANELLO DI CONGIUNZIONE DEI “TRE” MONOTEISMI. Un importante studio di Massimo Campanini sul patriarca d’Israele e sul profeta del Corano. A quando la ri-considerazione e il riconoscimento da parte della Chiesa cattolica dell’altro Giuseppe, quello ev-angelico?! Freud e Pirandello aspettano ancora.
Federico La Sala
Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento, 1591, Bologna, 1666) *
Come scalare il Guercino
di Silvia Tomasi **
Conquistare una meta con fatica, la rende ancora più bella e apprezzata. Ecco: si può applicare questa piccola perla di saggezza per l’arrancata di 160 gradini, una vera salita in quota, nella Cattedrale di Santa Maria Assunta a Piacenza per godere a 27 metri di altezza il piacere di avere a distanza di pochi metri gli affreschi del Guercino, il pittore emiliano che, al culmine della fama, arriva a Piacenza nel 1626 per lasciare la straordinaria sequenza pittorica “a buono fresco” negli spicchi della cupola.
Per tutta la durata di Guercino tra sacro e profano, la rassegna piacentina dedicata al pittore centese aperta fino al 4 giugno (sito www.guercinopiacenza.com), i visitatori potranno inoltrarsi a piccoli gruppi negli stretti cunicoli di questa ascesa fra salite ardite e un arrotolarsi di scale a chiocciola con scalini larghi sì e no mezza suola di scarpa. Sembra quasi di trovarsi fra budella e diverticoli d’una colonscopia virtuale all’interno delle mura medievali della cattedrale, per approdare grazie a passerelle in legno, camminamenti provvisori ricavati nei sottotetti, a una “stazione” con una postazione multimediale. Finalmente poi si sguscia da un bassissimo ingresso, attenti alla testa, sul tamburo della cupola. Lì, in una regia di luci dovuta a Davide Groppi, si illuminano prima solo alcune vele della cupola e poi il flash con la visione globale di tutto il ciclo guercinesco, accompagnata in dissolvenza, per maggior coinvolgimento emozionale, dalla regale marcia musicale della Sarabande di Haendel. Poi il buio.
Ce n’è abbastanza per sentirsi in un piccolo Paradiso, o più profanamente in una full immersion percettiva di bellezza.
A portata d’occhio nerboruti profeti muscolari, Sibille curiose e sontuose, e poi gli episodi dell’infanzia di Cristo: nella lunetta della Fuga in Egitto, Giuseppe fra apprensione e affetto allunga il Bambin Gesù alla madre. Con tenerezza Maria porta la mano verso il seno come per dire: ma vuoi proprio la mamma?
Tutto ha un così caldo rispetto della dignità naturale... Anche se certo non manca il gusto teatrale: in Guercino si avverte una sorta di “recitar cantando” secondo le inflessioni del nuovo melodramma che avrebbe trionfato nel Settecento, «è un teatro dei sentimenti o degli affetti come si sarebbe detto allora» ribadisce Daniele Benati, curatore della mostra con Antonella Gigli (catalogo Skira). E prosegue: «Guercino è mal inquadrabile nelle comode griglie di naturalismo, classicismo o barocco: troppo naturale negli anni in cui andava affermandosi la pittura sbilanciata alla ricerca del bello ideale; troppo composto e recitato quando serviva l’estroversione barocca». È anche per questo che John Ruskin, dandy e raffinato critico, lo straccia senza appello nel 1846.
Ma un altro grande britannico, Denis Mahon, collezionista e critico d’arte, ci ha ridato nel Novecento il Guercino dopo secoli di oscuramento, dedicandogli studi per tutto l’arco della sua vita. È proprio a lui e al suo metodo di analisi che Benati dedica la mostra di Piacenza, rispettando nelle partiture della sezione di Palazzo Farnese, che fa da pendant all’incontro ravvicinato col Guercino della cupola, quello sviluppo di diverse “maniere” pittoriche che hanno caratterizzato il lungo percorso dell’artista. Gli «anni degli esordi», gli «anni della fama» e gli «anni della gloria» sono le tre sezioni allestite all’interno della Cappella ducale dello storico palazzo con un «numero di opere ridottissimo, appena una ventina, ma selezionatissime», spiegano i curatori Gigli e Benati.
A Guercino basta una gamma essenziale di colori come il bianco e il porpora, che stempera in tutte le delicate nuances del rosa e del latte, per creare La morte di Cleopatra del 1648, così umana nella sua bellezza ideale: si nota perfino il lieve flettersi del materasso sotto il corpo della regina d’Egitto che si abbandona alla morte.
E a Maria luccicano gli occhi mentre, china, tocca quel figlio risorto che abbassa lo sguardo su di lei nella tela Cristo risorto appare alla Madre del 1628.
Per mantenere le stimmate del mondo terreno - e qui siamo alla Immacolata concezione del 1656 - Guercino elimina dalla figura sacra di Maria gli attributi usuali, dalla corona di stelle alla mandorla in cui veniva racchiusa la sua figura sacra. La Madonna si staglia su un paesaggio marino al chiaro di luna, un ultimo spicchio su cui si eleva pudicissima in un’aurora quasi crepuscolare, mentre una lieve brezza increspa le onde. C’è un sentimento lancinante del luogo e del paesaggio. Un nuovo modello vivo di pittura perché, affermava un esperto come Cesare Gnudi, «il Guercino cercava la bellezza nella realtà».
* * THE LIVINGSTONE, 19/03/2017
*
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
FILIPPO BARBERI o BARBIERI (Philippus de Barberis o Philippus Siculus),"Discordantiae Sanctorum doctorum Hieronymi et Augustini, et alia opuscola", Roma, 1481: La Sibilla Tiburtina.
PROFETI E SIBILLE. Storia delle immagini... Filippo Barberi, "Discordantiae sanctorum doctorum Hieronymi et Augustini", 1481
Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento, 1591, Bologna, 1666)
Federico La Sala
Uscire dal letargo "teologico" e "filologico" e dalla notte «in cui tutte le vacche sono nere»! La mistica dell’Amore (Deus charitas est), o quella di "Mammasantissima" e di "Mammona" ("Deus caritas est")?! *
Spiritualità.
Mistica cristiana: le nozze di eros e caritas
I Meridiani pubblicano il primo di tre volumi dedicati alla mistica cristiana. L’incontro con Dio supera ogni limite, fisico e linguistico, e si configura come esperienza sensibile di un amore totale
di Rosita Copioli (Avvenire, mercoledì 1 luglio 2020)
La Mistica Cristiana (Mondadori, I Meridiani, pagine. LXXXVIII+1624, euro 70,00), è il primo dei tre volumi di una vastissima opera - estesa dalle origini ai nostri giorni - ideata dieci anni fa e curata da Francesco Zambon, su ’impulso’ di Pietro Citati. Questo libro, curato da Zambon con Marco Rizzi, Sabino Chialà, Boghos Levon Zekiyan, comprende la mistica tardogreca e bizantina, siriaca, armena, latina e italiana medievale; il secondo volume presenterà la mistica tedesca e fiamminga, francese, italiana moderna; il terzo la mistica iberica (spagnola, portoghese e catalana), inglese e americana, russa, svedese. Nessun progetto ha avuto la medesima ampiezza, né pari cura filologica e critica: nemmeno i Mistici occidentali curati da Elémire Zolla; e altre pregevoli sillogi sono parziali.
Le radici sono ebraiche - nel Cantico dei Cantici, il testo più ardente e complesso dell’amore umano e divino - e greche: nel Fedro e nel Simposio di Platone, dove la ricerca della conoscenza diviene quella del bene e del bello, l’intelletto sale verso il divino: la mente si unisce allo slancio erotico, la mania che porta all’estasi: invasa da una luce alla quale tenderà tutta la tradizione occidentale fino al Rinascimento, e oltre: da Plotino, per il quale la contemplazione è superiore all’azione poiché permette la visione del vero, a Proclo; da Apuleio a Tasso, i poeti barocchi, i romantici, Yeats, Ungaretti, Luzi, Milosz.
La potenza della vista interiore è previsione e profezia. Lo afferma già Esiodo, e poi Saffo e Platone, seguiti da sant’Agostino e Dante: il poeta sprofonda nella memoria bevendo l’acqua di vita di Oceano, e lascia che il soffio del dio spiri dentro di lui, investendolo del suo nume sconvolgente. «Entra nel petto mio, e spira tue / sì come quando Marsia traesti / de la vagina de le membra sue». È il solo modo per riceverne il barlume, per glorificarlo: «O divina virtù, se mi ti presti / tanto che l’ombra del beato regno / segnata nel mio capo io manifesti».
Il mistico ricapitola ogni passaggio del Verbo incarnato e dello Spirito Santo che permette - osano i più temerari - di diventare Dio, trascinando con sé l’intera creazione. La trasfigurazione, la passione, la morte sulla croce di Gesù, il suo corpo martoriato sono lo strumento-specchio per rivivere Gesù in anima-spirito-corpo, oltrepassando i ’sensi spirituali’. Francesco nutre nelle viscere il sole - Cristo. Dalle mani e dai piedi spuntano chiodi di carne, sul costato si apre la ferita di Cristo.
Angela da Foligno aderisce al Crocifisso con i sensi dell’eros totale: «Tu sei me e io sono te». La mente di Iacopone da Todi, «En Cristo trasformata, è quasi Cristo, /cun Deo conionta tutta sta devina». Chi osa tanto, non teme la sintassi, scardina ogni figura e senso. Se fa miracoli, sfida la gravità e si innalza dal suolo, come Doucelina di Digne, altri aboliscono gli intermediari con Dio nel linguaggio, come Caterina Fieschi: «Il mio Mi è Dio, io non conosco altro Mi che esso Dio mio».
I mistici non hanno paura di niente, né del pudore, né di “ardiri” che il volgo deride: come i patriarchi della Bibbia, variano la metafora del latte della sapienza, con una passione tenerissima. Nel II secolo in Siria, un’Ode di Salomone, e Clemente Alessandrino suggono i seni del Padre e le dolci mammelle di sposa di Gesù; nel X secolo Gregorio di Narek, autore di inni inarrivabili al Cristo glorioso, invoca «comunione che distilla latte»: siamo in Armenia, dove la teologia del sacerdozio di tutti i fedeli - i corpi sono templi e altari - renderà possibile il sacrificio dell’intero popolo: il “Martirio armeno”. Misakh Metzarents (1886-1908) ne è l’ultimo fiore: «Nella notte discende ancora il ruscello di luce, / una goccia di latte della tua santità divenuta un mare; / e vedi, o Madre di Dio, ecco sto diventando bambino».
Come diceva san Tommaso d’Aquino, la mistica è la Cognitio Dei experimentalis, che Jean Gerson esplica: «Theologia mistica est cognitio experimentalis habita de Deo per amoris unitivi complexum». Ma è la più abissale delle imprese gnoseologiche e amorose. Per la “teognosia” dell’ombra, che deriva da Plotino e si distanzia da seguaci di Gesù come Giovanni e Paolo, e Agostino, mai giungeremo a conoscere Dio. La sua trascendenza rispetto a ciò che è, e all’essere stesso, è superessentialis: Dio non può essere conosciuto, descritto, visto, nemmeno dagli angeli e dai santi. Di Dio non si può parlare né in forma positiva, né in forma negativa. Ma la forma negativa si avvicina di più al suo mistero. Lo si contempla tra luce e tenebra.
Scrive Zambon: «Anche nella vita beata, al termine del reditus di tutta la creazione nel seno del Verbo, Dio sarà conoscibile solo attraverso delle mediazioni, delle teofanie (in greco, “manifestazioni, immagini di Dio”)». La teofania segue i gradi della contemplazione, della deificazione (theosis), e coincide con l’unione mistica. Ricorre alle immagini, al loro fantasma, alla fantasia: l’“alta fantasia” di Dante. La docta ignorantia fa apparire Chi è superiore alla Luce come tenebra, caligine, nube: nella “notte oscura” di Giovanni della Croce.
Una rivoluzione accade in pieno XII secolo: Guglielmo di Saint-Thierry, Bernardo di Clairvaux, Aelredo di Rievaulx, Ivo, e Riccardo di San Vittore (di cui Zambon ha curato sapientemente i Trattati d’amore cristiani del XII secolo per Valla Mondadori) mostrano a quale fuoco di trasformazione può accendersi l’intelletto d’amore che guida fino a Dio, intrecciando eros platonico e caritas paolina. Come in Ildegarda di Bingen, il grande impeto d’amore dà le ali. Culminano la poesia della fin’amor dei trovatori, le storie di Tristano e Isotta, il romanzo cortese.
Con Beatrice davanti alla candida rosa dei beati, Bernardo invita Dante a fissare Dio, nel movimento rapidissimo che imprime al creato e a noi: la metamorfosi dell’anima in Dio, l’excessus mentis, avviene per opera divina in un solo istante: «ma già volgeva il mio disio e ’l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, / l’amor che move il sole e l’altre stelle». Riccardo di San Vittore è il più ardito. Amore terreno e carità hanno la stessa fonte, ma la carità non è mite. Ha la stessa struttura, manifestazioni e gradi della passione violenta. I Quattro gradi della violenta carità gridano in Iacopone da Todi: «Amor de caritate, perché m’ài ssì feruto? / Lo cor tutt’ho partuto, et arde per amore».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus !!! O, meglio, che progetto!!!
Federico La Sala
AMARE NEL MARE DELLA VITA. Riprendere la navigazione ...
Una nota *
SE è VERO CHE “La ricerca del grande amore si fa ormai soltanto on line” (Laura Vasselli, "InLibertà", 29 giugno 2020), e, al contempo, che “La truffa esiste anche in danno della vita sentimentale” (L. V., "InLibertà", 10 giugno 2020), in una società “liquida” - dove non c’è più né un Giardino per Adamo ed Eva né una Itaca per Ulisse e Penelope - il problema su cui fare chiarezza e “chiudere l’argomento” è : “se è vero che nella vita è necessario amare innanzitutto sé stessi, come si fa a lasciare posto all’amore per qualcun altro ?”.
CONOSCER-SI: IN PRINCIPIO ERA LA “PAROLA” (IL “LOGOS”). RICORDATO CHE “Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima : così profondo è il suo lògos" (Eraclito, fr. 45), E, insieme, RIGUARDATA LA FOTO (vedi sopra: accanto al titolo, sul dito “indice” di “due persone” l’immagine di “due ancore”), RIPARTIRE PROPRIO DA QUI : DAll’ancoraggio di “due navi”, di “DUE PERSONE CHE DISCORRONO” (Ferdinand De Saussure). Mi sembra proprio una (bella riflessione e una) buona indicazione!
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan -
LA CONCESSIONE PIU’ GRANDE. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
FLS
ANCORA NON ABBIAMO TROVATO "LA GIUSTA DISTANZA" NEMMENO CON NOI STESSI... *
ABITARE LE PAROLE / Distanza.
Vedersi l’un l’altro stagliati nel cielo
DI NUNZIO GALANTINO (Il Sole-24 Ore, Domenica, 28.06.2020)
Distanza. Parola - non la sola, in verità! - che perde un po’ della sua evidenza semantica quando la si trova unita ad attributi particolari. Come capita, per esempio, nelle locuzioni: “distanza sociale”, “fisica”, “interpersonale”. Per coglierne la ricchezza, bisogna anzitutto evitare l’ambiguità - a volte, vera e propria confusione - ereditata dalle locuzioni inglesi social distancing (distanziamento sociale) e social distance (distanza sociale). In sociologia e in psicologia, sono espressioni che descrivono il livello di interazione o di rifiuto tra individui appartenenti a gruppi sociali, economici e culturali diversi. Non è corretto, quindi, ricorrervi per indicare la distanza di sicurezza interpersonale o la distanza necessaria per evitare contagi tra più persone.
Un’intensa considerazione di Rainer Maria Rilke ci aiuta a guardare con occhio diverso la distanza. «Una volta che si è accettato di capire che anche tra gli esseri umani più vicini continuano ad esistere infinite distanze, può crescere un meraviglioso affiatamento, se questi riescono ad amare la distanza che li separa, che rende possibile ad ognuno di vedersi reciprocamente, per intero, stagliati nel cielo».
Qui la parola distanza ha tutt’altro significato rispetto a quello che gli dà F. Nietzsche, quando parla di pathos della distanza. Questa espressione - nel filosofo tedesco e in parte anche nella ripresa di Italo Calvino - indica l’atteggiamento dell’aristocratico che, da una presunta posizione di superiorità, “tiene a distanza” e guarda da lontano quanti non gli sono pari.
Invece, “la distanza che rende possibile ad ognuno di vedersi reciprocamente, per intero, stagliati nel cielo”, è la “distanza giusta”. Quella che permette di stabilire e coltivare relazioni sane ed equilibrate, grazie alla modulazione e alla misurazione, non esclusivamente fisica, di vicinanza-lontananza, come nel «dilemma dei porcospini», evocato da A. Schopenhauer.
I porcospini, per ripararsi dal gran freddo, provano a farlo stringendosi l’un l’altro; ma, a causa dei loro aculei, sono costretti ad allontanarsi e a cercare comunque la distanza giusta, per riscaldarsi senza farsi male a vicenda. È, sostiene il filosofo tedesco, la stessa fatica che sono chiamati a far gli uomini. Anche loro hanno bisogno di stabilire tra loro una distanza giusta. Quella che fa passare messaggi e comunicare disposizioni interiori ed emozioni. Una distanza che può persistere, nonostante gesti di grande vicinanza fisica. Chi infatti può davvero decifrare i sentimenti e le autentiche intenzioni che accompagnano le relazioni intime, anche le più belle?
Lo ha capito bene René Magritte. Con stile surreale, il pittore belga, nelle due versioni (1928) di The Lovers, mostra di non avere dubbi: nonostante i gesti di grande tenerezza, i due amanti non possono guardarsi negli occhi, non possono penetrare la loro intimità. Ad impedirglielo è l’inevitabile distanza, non fisica, esistente tra loro, rappresentata dal telo che ne avvolge il volto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
FLS
FILOLOGIA E "ANDROLOGIA". DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE: "UN UOMO, TUTTI GLI UOMINI"?! *
La raccolta.
Ivano Dionigi tra parola, vita e smarrimenti
Uno sguardo sul nostro tempo e le sue emergenze partendo dalla lettura dei classici e dei testi biblici. Un estratto dall’ultimo libro di Dionigi che trae linfa dalla rubrica “Tu quis es” per Avvenire
di Ivano Dionigi (Avvenire, giovedì 25 giugno 2020)
La parola, lógos per i Greci, verbum per i Latini, è il miracolo per cui l’uomo da creatura diventa creatore: essa può affascinare (delectare), insegnare (docere), mobilitare le coscienze (movere). La parola può unire e dividere, consolare e affannare, salvare e uccidere. Non solo custodisce e veicola il pensiero, ma lo genera. La Parola divina, quel Logos con cui si aprono l’Antico e il Nuovo Testamento: la Genesi («In principio Dio disse») e il Vangelo di Giovanni («In principio era la Parola»). Il lógos di Eraclito: «così profondo che della sua anima, per quanto tu possa camminare e neppure percorrendo intera la via, mai potresti trovare i confini». La parola che con Gorgia tutto può: «spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione ». La parola della “democratica” Atene, che uccise Socrate prima e più della cicuta.
La parola che, usata male, secondo Platone oltre a essere una cosa brutta in sé fa male anche all’anima. La parola che con Aristotele ci caratterizza come uomini distinguendoci dagli animali. La parola che con Cicerone salva la res publica, se prerogativa degli eloquentes e sapientes; la manda in rovina, se prerogativa dei disertissimi homines, i demagoghi. La parola della ragione di Lucrezio, l’arma più efficace per debellare i nemici interiori della cupido e del timor. La parola terapeutica di Seneca che interiorizza e consola. La parola che con l’apostolo Giacomo ora benedice ora maledice. La parola che con Elias Canetti si fa antidoto alla guerra. La parola che con don Milani diviene «la chiave fatata che apre ogni porta». La parola che con Mario Luzi «vola alta» e profonda, e «tocca nadir e zenith».
Questa parola oggi non gode di buona salute: ridotta a chiacchiera e barattata come merce qualunque, ci chiede di abbassare il volume, di ricongiungerla alle cose, di imboccare la strada del rigore. Soprattutto in questo tempo di calamità, in cui ci apprestiamo a un lungo esodo e alla traversata del deserto, le parole note suonano inadeguate se non improprie. -Abbiamo bisogno di parole nuove per nominare questo presente imprevisto, inaudito, alieno. Uguale, eppure così frantumato; estraneo, eppure così invadente attorno a noi e dentro di noi.
Orfeo e Euridice
A Orfeo è concesso di riportare la dolce sposa dall’Ade sulla terra a patto di non girarsi a guardarla. Ma, racconta Virgilio (Georgiche, 4, 485 sgg.), lo sprovveduto amante uscendo dagli Inferi viene preso dalla follia d’amore e viola i patti (rupta foedera): «Quale furia d’amore ha portato me misera, ha portato te Orfeo, alla perdizione? » (4, 494 sg.: Quis et me [...] miseram et te perdidit, Orpheu, / quis tantus furor?), grida Euridice quando Orfeo si volta a guardarla. «Muto e impaziente» Orfeo, «mite nella sua pazienza» Euridice, dirà Rilke. Non è forse vero che non bisogna amarla troppo questa vita per non perderla? Come non è forse vero che non bisogna attaccarsi troppo a una persona per non soffocarla?
Se non sopportiamo il peso della privazione, il prezzo dell’attesa, il páthos della distanza, perdiamo coloro che amiamo e perdiamo noi stessi. Restiamo agli Inferi: nell’Inferno della nostra identità. Questa favola vale per la scuola come per la vita. -Penso al nostro modo di leggere i classici, oscillante fra due estremi malsani: o non cogliamo le interrogazioni dei testi e li consideriamo come fossili, muti, inanimati, cadaverici, oppure vi sovrapponiamo le nostre domande e li riduciamo a pretesti per le nostre ragioni. Non abbiamo forse pietrificato i classici tutte le volte che, affetti da miopia e incapaci di resistere all’impazienza e all’illusione del possesso, abbiamo anteposto le ragioni della vicinanza e della presenza, incuranti di ogni distanza passata e futura?
Parole per noi
Negata anche la pietas: non si può abbracciare né chi nasce né chi muore. Catastrofe, inferno, tragedia sono le parole giuste per questi giorni. Va pensata la genesi dopo l’apocalisse: la scienza medica deve curare e guarire, la politica provvedere e prevedere, con l’auspicio che i tanti eurobond siano affiancati da altrettanti neurobond. Avremo bisogno di Mosè, di tanti Mosè che ci guidino nella traversata del deserto. Non è l’ora delle nostre parole che suonano inutili o inopportune. Altro timbro possiedono le parole di coloro che hanno scritto per noi e di noi, che resistono al tempo e alle mode. Ci ricordano con il Prometeo di Eschilo e l’Antigone di Sofocle che l’uomo ha posto rimedio a tutti i mali ma non al suo destino mortale; con il Platone della Repubblica, che non si possono privatizzare i beni materiali ma neppure i sentimenti quali la gioia e il dolore, e che nella città al vertice dell’istruzione deve sedere il migliore; con l’Aristotele della Politica, che l’uomo dotato di norme civili e di senso del giusto è la migliore delle creature; con Lucrezio, che solo la scienza può rimuovere la paura, frutto dell’ignoranza e causa di tutti i mali; con Virgilio, che i vecchi valgono non meno dei giovani; con Seneca, che è cosa diversa vivere (vivere) dallo stare al mondo (esse); con Marco Aurelio, che ognuno di noi vale quanto la causa per cui lotta; con Agostino, che la qualità dei tempi dipende da quella degli uomini (Sermoni, 80, 8: Nos sumus tempora: quales sumus, talia sunt tempora).
Lucrezio lo aveva detto
La storia ama non solo sorprendere ma anche ripetersi. Si vada alla peste di Atene (430 a.C.) descritta da Lucrezio nel finale del suo poema: vi si troveranno consonanze raggelanti con i nostri giorni. Sotto scacco, la medicina allora mostrava tutta la sua incertezza e impotenza: silenziosa e timorosa esitava e balbettava (6, 1179: Mussabat tacito medicina timore). Parimenti disarmata e svilita la religione (vv. 1276-1277: Nec iam religio divum nec numina magni / pendebantur): i templi stipati di cadaveri accatastati (vv. 1272-1273: omnia sancta deum delubra replerat / corporibus mors) e impediti in città perfino i riti della sepoltura (v. 1278: nec mos ille sepulturae remanebat in urbe). Anche la pietà parentale era messa a dura prova: quanti erano accorsi al capezzale dei loro cari, incorrevano nel contagio (v. 1243: Qui fuerant autem praesto, contagibus ibant) e quanti si rifiutavano di portare soccorso morivano soli e abbandonati (vv. 1239 sgg.: Nam quicumque suos fugitabant visere ad aegros / [...] / poenibat [...] / desertos, opis expertis, incuria mactans).
Con i nostri occhi li abbiamo visti i medici supplire con la compassione alla carenza di terapie; le abbiamo viste le chiese diventate cimiteri, piazza San Pietro deserta e il Papa, solo, a testimoniare non la potenza del rito ma la passione della croce; li abbiamo visti negli ospedali i mariti separati dalle mogli, i fratelli dai fratelli, gli amici dagli amici. E morire senza potere prendersi la mano e neppure salutarsi.
Un uomo, tutti gli uomini
I rimedi per la ricostruzione del Paese dovranno essere proporzionati ai danni: incalcolabili. Ci vorranno braccia e menti, e una duplice chiamata: da un lato, quella dei migliori cervelli, in seduta permanente in una sorta di “cern” politico, economico, sociale, culturale per progettare il futuro; dall’altro, quella dei ventenni, perché siano i protagonisti della rinascita. Arrivati in un mondo fatto su misura dei loro padri, dovranno ora costruirne uno per i loro figli. A nulla valgono le retoriche consolatorie di questi giorni: il ricorso al patriottismo d’occasione, l’enfasi sull’eroismo dei medici oggi sull’altare e domani di nuovo nella polvere, l’illusione che ne usciremo migliori. I retti saranno ancora retti, gli acuti torneranno acuti, e gli ottusi resteranno ottusi. Più facile prevedere un indurimento degli animi, un ulteriore divario fra chi ha e chi non ha, un ripopolamento di umiliati e gregari che al riconoscimento delle istituzioni e alla rivendicazione dei diritti preferiranno panem et circenses. Avremo imparato che il mondo non è in equilibrio economico, ambientale, sanitario? Che sapere e potere, competenza e politica, cultura e amministrazione sono inseparabili? Che sarà il pronome noi a salvarci? Ce lo ricorda Borges: «Ciò che fa un uomo è come se lo facessero tutti gli uomini. Per questo non è ingiusto che una disobbedienza in un giardino contamini il genere umano; per questo non è ingiusto che la crocifissione di un solo giudeo basti a salvarlo» (La forma della spada).
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SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO.
FLS
RIPRENDERE IL LAVORO DI FREUD. IL MALE, L’AVVENIRE DI UN’ILLUSIONE ....
Nota a margine di "Il male, un’illusione? Intervento al Convegno Internazionale UNESCO” *
PRIMA DI FARE DICHIARAZIONI STORIOGRAFICHE DI GRANDE IMPEGNO A SOSTEGNO DELLE PROPRIE ARGOMENTAZIONI:
E PARLARE DI “divinizzazione retroattiva del marchese de Sade” è bene ricordare che l’associazione indebita di “Kant e Sade”, fatta da Lacan, nasce sulla base di una interpretazione edipico-hegeliana e di un vera e propria distruzione della kantiana “critica dell’idealismo”.
E, ancora, quando Freud richiama all’inizio del suo lavoro sulla “Interpretazione dei sogni” le parole di Giunone “flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” (Eneide, VII, 312), sa già (“sibillina-mente”) di che cosa sta parlando e di cosa c’è in gioco e, come Giunone (“Non mi sarà dato, ahimé, di impedirgli di regnare sui Latini e Lavinia, immutabile, resta sua sposa in forza del destino, ma ho il potere di tirare per il lungo, di imporre dei ritardi a eventi così grandi ...”: Eneide, VII, 312- 315 ), va avanti e ricordando-si di Napoli comincia capire cosa c’è dietro la questione “Didone” (Eneide, IV, 625 ) e la sua infatuazione per Annibale, per il vendicatore: la vittoria di Roma, dell’Amore sulla Morte. Fiducioso, continua il suo lavoro!
La “Horrenda Virgo” (Eneide XI, v. 507) , la “ragazza terribilmente bella”, come Giunone (e Freud), lo sa: deve cedere il passo ad un’altra “Virgo”, ad Astrea, alla Giustizia: «Già viene l’ultima era dell’oracolo di Cuma, / nasce di nuovo il grande ordine dei secoli. / Già ritorna la Vergine, ritornano i regni di Saturno, /già una nuova stirpe scende dall’alto del cielo.» (Ecloga IV, 4-7). La “Horrenda SYbilla” (Eneide VI, 11), ispirata da Apollo, il profeta di Delo, ha rivelato ad Enea tutto il futuro (Eneide VI, 11-12).
PERCHE’ HANNAH ARENDT, nella sua “Vita della mente” (alla luce di un inedito dialogo con Kant) richiama ancora e di nuovo Virgilio e Dante, e dal “Libro del malumore” di Goethe cita: “Chi di tremila anni / Non sa darsi conto, / Rimane all’oscuro inesperto, /Vuol vivere così di giorno in giorno”? Boh e bah?!
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Coronavirus. Francesca Dominici: «La scienza discrimina le donne»
Cervello in fuga e ai vertici di Harvard, denuncia la situazione delle ricercatrici: «Noi, giudicate per il tailleur. Il Covid? Ci ha costrette a casa. Gli studi a firma femminile sono crollati»
di Lucia Capuzzi (Avvenire, mercoledì 10 giugno 2020)
Ha strappato il velo. E al centro della scena è apparsa una presenza ingombrante, troppo a lungo rimossa dal dibattito pubblico: la discriminazione di genere tuttora vigente nel mondo, in apparenza neutro, della scienza. Perfino nei più prestigiosi centri di ricerca internazionali. «Il Covid ha acceso un potente riflettore sugli ostacoli aggiuntivi che ricercatrici e scienziate devono affrontare per tenere il passo rispetto ai colleghi maschi». Parola di Francesca Dominici, biostatistica di grido nonché direttrice della Data Science Iniziative di Harvard, università dove è arrivata appena 24enne e dove ha trascorso la sua vita accademica, fino ad arrivare ai vertici.
«È stata durissima. E, nonostante mio marito, tra l’altro pure lui scienziato, mi abbia sempre sostenuto, posso dire che non ce l’avrei mai fatta ad allevare mia figlia, che ora ha 14 anni, senza l’aiuto di mia madre. È stata lei ad accompagnarmi nei continui viaggi internazionali in tutto il mondo: teneva la bimba mentre io andavo ai congressi. Non vorrei essere nei panni delle giovani ricercatrici, costrette dal virus a conciliare famiglia e smart working. E non mi meraviglia che la produzione scientifica femminile sia calata negli ultimi mesi». A confermare quest’affermazione, le recenti ricerche di Megan Federickson, studiosa dell’Università di Toronto, e Cassidy Sugimoto, dell’Indiana University Bloomington. Entrambe hanno analizzato i server più utilizzati dalla comunità scientifica per diffondere i cosiddetti preprint, ricerche preliminari ancora da sottoporre alla revisione pre-pubblicazione. Si tratta, al momento, dell’unica fonte disponibile per avere il polso della situazione ancora in corso: per completare l’iter ci vogliono anni. Nei mesi di marzo e aprile, la produttività maschile è cresciuta a una velocità maggiore di diversi punti percentuali - a seconda del portale utilizzato anche il doppio - rispetto a quella delle colleghe. Lo stesso è accaduto nel campo delle ricerche sociali. Come sottolinea Noriko Amano-Patiño, dell’Università di Cambridge, le autrici di lavori sull’impatto del Covid sull’economia sono il 12 per cento del totale: otto punti percentuali in meno della media. «La ragione è intuitiva - sottolinea Dominici -. Sulle donne è gravato il peso maggiore dell’emergenza sanitaria e, soprattutto, delle misure di lockdown messe in atto per contenerla, in primis la chiusura delle scuole e dei centri per l’infanzia».
Ben prima dell’irruzione del virus, le faccende domestiche - il cosiddetto “lavoro non remunerato” - erano in mani femminili: queste vi dedicano una media di quattro ore al giorno secondo l’Ocse, più del doppio rispetto agli uomini. Perché il Covid è stato così importante?
Con la pandemia, le attività di gestione ordinaria sono cresciute enormemente: dalla cura dei figli impegnati nelle lezioni a distanza alle commissioni per i parenti più anziani e, dunque, vulnerabili all’infezione. Nel mentre, il ricorso ad aiuti esterni si è fatto più difficile a causa dell’isolamento. E ad occuparsene sono state le donne. Scienziate incluse. C’è, poi, un’altra questione, legata a una differenza di approccio maschile e femminile. Le ricercatrici tendono ad essere più caute e questo le porta ad essere meno presenti nei media.
In controtendenza lei, invece, è autrice capofila di un’importante ricerca che dimostra la relazione tra inquinamento e tasso di mortalità per il Covid.
Il virus attacca i polmoni. Abbiamo, dunque, analizzato come l’esposizione di questi al particolato sottile ne determini una maggiore vulnerabilità alla malattia. E siamo arrivati alla conclusione che più questa è prolungata maggiore è la capacità del Covid di uccidere. Anche un piccolo incremento del livello di inquinamento determina un incremento della mortalità dell’8 per cento.
Dove, in base alla sua esperienza, c’è più discriminazione di genere, in Italia o negli Usa?
Sono andata via dall’Italia al primo anno di dottorato, proprio a causa delle discriminazione. Ma l’ho ritrovata qui, anche se in forma meno palese. Un pregiudizio strisciante, forse ancor più difficile da individuare e combattere.
Può farmi qualche esempio?
Gliene faccio tre. A volte, per farti un complimento, qualcuno ti dice: «Mi piace molto il tuo tailleur. Peccato che ti copra troppo». Alle riunioni del comitato, tutto al maschile, della Data Science Initiative, di cui sono capo, spesso vengo ancora presentata come «la moglie di un brillante scienziato». Ai congressi, quando è il turno delle ricercatrici donne, gli uomini ne approfittano per fare la pausa caffè. Se ti arrabbi o smetti di parlare, dicono che hai un carattere difficile.
Perfino ad Harvard c’è discriminazione?
Le donne full professor, di cui faccio parte, sono il 15 per cento. Ai livelli iniziali di carriera siamo la metà. Poi, man mano che si va avanti, molte colleghe sono costrette a lasciare perché non riescono a conciliare con la vita familiare.
Che soluzione proporrebbe?
Mettere più donne ai vertici, con un sistema di quote, in modo da cambiare le regole e renderle più eque.
Che consiglio darebbe a un’aspirante ricercatrice?
Se vuole far carriera deve accettare il fatto che sarà criticata. Le direi di non badarci troppo e andare avanti.
UNA SORPRESA CHE SORPRENDE ....
Le Sibille: l’antico filo artistico che lega Contursi Terme a Serravalle di Chienti: “[...] in due piccole località italiane tra loro distanti di soli 500 chilometri, a seguito di restauri occasionati da eventi sismici in entrambi i casi, esistono straordinarie immagini di queste divine creature che sembrano essere tra loro collegate da un filo magico e invisibile: le Sibille del Rinascimento” (cfr. Laura Vasselli e Italo Mastrolia, "inLibertà", 31 Maggio 2020)... E CHE SOLLECITA AD ULTERIORI COLLEGAMENTI, a cominciare dalle Sibille degli affreschi di Lorenzo Lotto (maestro di Simone De Magistris) nella Cappella Suardi di Trescore Balneario in provincia di Bergamo e, passando da Ascoli Piceno per ammirare la novecentesca “Sibilla Appenninica” di Adolfo De Carolis, e arrivare alle Sibille presenti negli affreschi di Santa Maria di Casole a Copertino in provincia di Lecce. L’occasione potrebbe essere una ottima sollecitazione a compilare, finalmente, un “atlante” della loro presenza in tutto il territorio nazionale (e, possibilmente, in tutta l’Europa). Se non ora, quando?!
Giornata dell’Ambiente.
Il Papa: non possiamo fingerci sani in un mondo malato
La lettera di Francesco al presidente della Colombia, che ospita "virtualmente" la Giornata dell’Ambiente 2020: la casa comune va tutelata insieme
di Redazione Internet (Avvenire, venerdì 5 giugno 2020)
"Invertire la rotta", per un mondo "più vivibile" e una "società più umana". "Tutto dipende da noi, se lo vogliamo davvero". Lo scrive papa Francesco in una lettera, in spagnolo, al presidente della Repubblica di Colombia, Ivan Duque Marquez, in occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente che ricorre oggi e che quest’anno è ospitata virtualmente dalla Colombia sul tema della biodiversità.
IL TESTO INTEGRALE DELLA LETTERA
"Non possiamo pretendere di essere sani in un mondo malato. Le ferite causate alla nostra madre terra sono ferite che sanguinano anche in noi", denuncia il Papa. La cura degli ecosistemi, avverte, "ha bisogno di una visione del futuro. Il nostro atteggiamento verso il presente del pianeta dovrebbe impegnarci e renderci testimoni della gravità della situazione. Non possiamo tacere davanti al clamore quando verifichiamo i costi molto elevati della distruzione e dello sfruttamento dell’ecosistema".
Da qui il monito di Francesco: "Non è tempo di continuare a guardare dall’altra parte indifferenti ai segni di un pianeta che viene saccheggiato e violato, per l’avidità di profitto e in nome, molte volte, del progresso. È dentro di noi la possibilità di invertire la marcia e scommettere su un mondo migliore e più sano, per lasciarlo in eredità alle generazioni future. Tutto dipende da noi se lo vogliamo davvero".
Bergoglio ricorda il quinto anniversario dell’enciclica Laudato si’ appena celebrato e invita "a partecipare all’anno speciale" per il Creato. "E così, tutti insieme, per diventare più consapevoli delle cure e della protezione della nostra casa comune, così come dei nostri fratelli e sorelle più fragili e scartati nella società".
Infine Francesco incoraggia il presidente colombiano Marquez a deliberare "sempre a favore della costruzione di un mondo più vivibile e di una società più umana, in cui tutti abbiamo un posto e in cui nessuno sia lasciato indietro".
LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI COLOMBIA IN OCCASIONE DELLA GIORNATA MONDIALE DELL’AMBIENTE
A Sua Eccellenza Signor Iván Duque Márquez,
Presidente della Repubblica di Colombia
Signore Presidente,
Sono lieto di rivolgermi a lei, a tutti i membri organizzatori e ai partecipanti della Giornata Mondiale dell’Ambiente, che quest’anno si sarebbe dovuta celebrare in modo presenziale a Bogotá, ma che a causa della pandemia covid-19 si terrà in forma virtuale. È una sfida che ci ricorda che dinanzi all’avversità si aprono sempre nuovi cammini per stare uniti come grande famiglia umana.
La protezione dell’ambiente e il rispetto della “biodiversità” del pianeta sono temi che ci riguardano tutti. Non possiamo pretendere di essere sani in un mondo che è malato. Le ferite provocate alla nostra madre terra sono ferite che sanguinano anche in noi. La cura degli ecosistemi ha bisogno di uno sguardo di futuro, che non si limiti solo all’immediato, cercando un guadagno rapido e facile; uno sguardo che sia carico di vita e che cerchi la preservazione a beneficio di tutti.
Il nostro atteggiamento dinanzi al presente del pianeta dovrebbe impegnarci e renderci testimoni della gravità della situazione. Non possiamo rimanere muti di fronte al clamore quando comproviamo gli altissimi costi della distruzione e dello sfruttamento dell’ecosistema. Non è tempo di continuare a guardare dall’altra parte indifferenti dinanzi ai segni di un pianeta che si vede saccheggiato e violentato, per la brama di guadagno e in nome - molto spesso - del progresso. Abbiamo la possibilità d’invertire la marcia e puntare su un mondo migliore, più sano, per lasciarlo in eredità alle generazioni future. Tutto dipende da noi; se lo vogliamo veramente.
Abbiamo da poco celebrato il quinto anniversario della Lettera enciclica Laudato si’, che richiama l’attenzione sul grido che ci lancia la madre terra. Invito anche voi a essere partecipi dell’anno speciale che ho annunciato per riflettere alla luce di quel documento. E così, tutti insieme, prendere maggiormente coscienza della cura e della protezione della nostra Casa comune, come pure dei nostri fratelli e sorelle più fragili e scartati dalla società.
Infine, vi incoraggio in questo compito che avete intrapreso, affinché le vostre decisioni e conclusioni siano sempre a favore della costruzione di un mondo sempre più abitabile e di una società più umana, dove ci sia posto per tutti e dove nessuno sia di troppo.
E, per favore, vi chiedo di pregare per me. Che Gesù vi benedica e la Vergine Santa si prenda cura di voi.
Cordialmente,
Francesco
Vaticano, 5 giugno 2020
*L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLX, n. 128, 06/06/2020
Sondaggio, il mondo è d’accordo su una cosa : l’importanza della parità di genere
Secondo la ricerca dell’istituto statunitense Pew Research Center in 34 paesi, il 94% degli intervistati definisce “importante” che le donne abbiano gli stessi diritti degli uomini. Una percentuale che in Italia tocca il 95%
di STEFANIA DI LELLIS (la Repubblica, 30 aprile 2020)
Forse può sorprendere, ma una delle cose su cui la maggior parte del mondo è d’accordo è l’importanza della parità tra uomo-donna. A raccontarlo è l‘ultimo studio del Pew Research Center, un accreditato istituto americano di ricerche e sondaggi.
Pew ha contattato 38.426 persone in 34 paesi e il 94% degli intervistati ha definito “importante” che le donne abbiano gli stessi diritti degli uomini. Una percentuale che in Italia tocca il 95%. La maggioranza in 30 nazioni sostiene che la parità di diritti sia anzi “molto importante” : tra queste la Svezia dove a pensarlo è il 96%. In Italia però la percentuale delle persone convinte di ciò (ovvero che sia molto importante) è la più bassa nell’Europa occidentale : 74%
Più di metà (54%) degli intervistati nella maggior parte dei paesi Ue, negli Usa, in Giappone, Israele, Australia e Corea del Sud dice che gli uomini sono favoriti quando si tratta di occupare posizioni lavorative con stipendi alti. Una valutazione che in Italia è condivisa dal 63%.
La ricerca è stata condotta tra maggio e ottobre dello scorso anno e viene pubblicata solo oggi. Ma ci offre spunti di riflessione molto attuali : il 40% delle persone nella maggioranza dei paesi ascoltati ritiene che gli uomini debbano avere la precedenza sulle donne in caso di scarsità di posti di lavoro. In Italia la percentuale di uomini fautori di questa corsia preferenziale tocca il 46% contro il 34% della popolazione femminile.
L’ottimismo sulla parità futura è più maschile che femminile. In Italia il 71% delle donne ritiene che si arriverà al traguardo, contro l’84% degli uomini. E più di metà dei sondati in Italia, come in Francia, Grecia, Slovacchia, Giappone, Corea del Sud, Turchia, Israele, Libano Tunisia pensa che la strada delle donne verso la leadership politica sia decisamente più in salita rispetto a quella degli uomini.
Il pARTicolare.
Raffaello e la Madonna del Divino Amore
di Federica Maria Marrella [2018]*
Ci fu un saggio. Una volta.
Un saggio scritto che lessi con una voracità a me inconsueta, poiché la lentezza in realtà mi caratterizza, generalmente.
Eppure, quel saggio raccontava una storia bellissima. La storia di un dipinto simbolo e ritmo di perfezione.
Tondo in cui il tutto ha bisogno del singolo elemento, di ogni singolo particolare.
Verrà esposto a Torino nella Pinacoteca Agnelli, dal 17 marzo al 28 giugno, un dipinto di Raffaello Sanzio generalmente custodito a Napoli, nel museo di Capodimonte. L’opera è La Madonna del Divino Amore, realizzata nel periodo romano dell’artista, precisamente nel 1516 - 1518. Anni in cui la volta della cappella Sistina di Michelangelo Buonarroti era stata già compiuta. Anni in cui lo stile stesso di Raffaello si modifica, si espande nelle forme, nei tondi e negli angoli, come quella punta di ginocchio che tiene seduto il bambin Gesù.
Ma osserviamo l’opera.
Raffaello ritrae Maria, la madre Anna, Gesù e San Giovannino. Questo è il gruppo centrale, sapientemente ritratto e scolpito, poiché i corpi paion scolpiti, disegnati di sguardi, presentimenti, dettagli e silenziosi discorsi.
Maria e Anna, i capi leggermente appoggiati, sembrano sostenersi nell’osservare il miracolo di fronte a loro. Un sostegno muto e abbondante di sentimento. Lo stesso dialogo silenzioso e di sguardi realizzato nel cartone di Leonardo (Il Cartone di Sant’Anna, Louvre, Parigi). Quel cartone famoso, creato anche esso molti anni prima, nel 1499-1500, cartone in cui sant’Anna guarda, però, la figlia. E la figlia guarda il Cristo. E san Giovannino guarda anche egli il Cristo. E anche qui i corpi sono possenti. Entrambi gli artisti erano rimasti colpiti e, forse consciamente, forse inconsciamente ispirati dai corpi del Buonarroti. Quei corpi di scultura che si realizzano anche in pittura, nel disegno, nello studio della forma umana.
Le Conversazioni sono sempre materia molto complessa. Eppure la massa scultorea del cartone di Leonardo, i sentimenti umani concretizzati anche con la matita in uno sfumato misterioso, il movimento creato nella roccia umana, quel peso presente e concreto, tipico dell’umanesimo leonardesco che vedeva nell’uomo e nel suo corpo il più grande mistero di ogni tempo, ecco tutto questo in Raffaello sparisce. Questa possanza fisica, che si nota osservando ogni soggetto singolarmente, nel dialogo degli sguardi prende leggerezza, eleganza. Quella perfezione di cui parla Ernst H. Gombrich raccontando La madonna della seggiola (1514), altra opera di Raffaello. Quella perfezione e leggerezza che ha bisogno del tutto per esistere.
Eppure, il tutto nel dipinto di Raffaello, non si ferma al primo piano, al dialogo silenzioso ma serrato tra madre e figlia e tra i piccoli protagonisti. Il dialogo di fronte al mistero, pretende anche la solitudine del silenzio. Il distacco. La paura. Il disagio. madonna-del-divino-amore-dopo-il-restauro-img_5938
Queste parole sembrano così lontane dalla creazione di Raffaello Sanzio, il pittore che diede vita alla perfezione della natura, alla leggerezza, al tratto perfetto. All’armonia. Il pittore che, secondo le parole di Pietro Bembo, diede vita alla natura stessa. Raffaello invece, in questo dipinto, ritrae il dolore, la perplessità, la paura del mistero e dell’incomprensibile. Ritrae la pretesa e la ricerca di solitudine.
Eccolo, il pARTicolare.
Sullo sfondo, Giuseppe. San Giuseppe, perché ha già l’aureola. È già santo, anche nel suo tormento. Con le braccia conserte, ci sembra di vederlo che cammina avanti e indietro, su quel corridoio nascosto dalla luce perfetta che inonda il soggetto in primo piano. San Giuseppe, con la sua aureola, le sue braccia conserte, la sua mano tesa ad accartocciarsi il mantello, la sua testa confusa e i suoi pensieri legittimi, cammina, avanti e indietro. Crea un solco, su quel pavimento grigio.
Lo potremmo togliere, San Giuseppe, come ha giocato Gombrich sul dipinto de La Madonna con la seggiola. Il grande storico dell’arte aveva provato con la mano a coprire un elemento del dipinto e si è accorto che tutto il resto crollava.
La perfezione geometrica e l’armonia aveva bisogno del tutto.
E anche qui, senza san Giuseppe, questa conversazione crollerebbe.
Perché di fronte al miracolo, è concessa, anzi non solo concessa, è richiesta la paura. È da vivere il dubbio. Il dubbio che solca i pavimenti.
Che si stringe nel petto.
E che ci rende santi.
E quella distanza diventa unione nei colori. Il manto di Maria, azzurro, si unisce a quel cielo terso, in cui spicca il volto barbuto di San Giuseppe. Ogni elemento si unisce. Nel dialogo silenzioso, e dove non è possibile, nella Natura.
Federica Maria Marrella
* ArtSpeciallyDay, sabato 8 dicembre 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO" DI RAFFAELLO.
FLS
Le note spirituali della Civiltà Cattolica
“L’amore delle donne accompagna la passione di Gesù”.
di p. Giancarlo Pani S.I., vicedirettore de "La Civiltà Cattolica" *
Il Vangelo di Matteo presenta il racconto della passione di Gesù incorniciato tra due episodi che hanno come protagoniste alcune donne. La prima è una donna di Betania, che unge il capo di Gesù con un prezioso olio di nardo (Mt 26,6-13), le altre sono Maria di Magdala e le donne sul Calvario quando Gesù muore (27,55s) e, dopo il sabato, si recano al sepolcro alla prima luce dell’alba (28,1). Sono figure che illuminano il mistero.
Mancavano due giorni alla Pasqua. «Mentre Gesù si trovava a Betània, in casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo molto prezioso, e glielo versò sul capo mentre egli stava a tavola» (Mt 26,6s). È un momento di convivialità con la presenza del Signore.
Ad un certo punto compare una donna: chi sia, non si sa, non ha nome e non dice nemmeno una parola. Compie solo un gesto. Nella sala si spande la fragranza del profumo che suscita sdegno e proteste. Perché questo spreco? Si poteva venderlo per molto denaro e darlo ai poveri!
La donna tace, e Gesù afferma: «Perché infastidite questa donna? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me. Versando questo profumo sul mio corpo, lei lo ha fatto in vista della mia sepoltura» (vv.10-13). La donna - rivela Gesù - ha preparato il suo corpo per la morte.
Quello che gli apostoli non riescono a comprendere e che Gesù aveva detto più volte, lo ha compreso una donna: i capi dei sacerdoti e gli scribi volevano ucciderlo. In ogni caso, lei è l’unica ad aver capito che la vita di Gesù ha un esito preciso, la morte, e la morte viene perché Gesù ha donato la vita, perché si è fatto tutto a tutti. La donna lo ha veduto, lo ha ascoltato, custodisce le sue parole nel cuore, lo ha amato; e ora vuole essergli vicino con gratitudine. Risponde con amore all’amore di Gesù. Quel profumo è il suo dono, è tutto quello che ha, è tutta la sua vita. Perciò glielo versa fino in fondo, fino all’eccesso, che è la misura dell’amore che si dona senza misura.
La donna ha fatto un’azione buona, dice Gesù; in greco, alla lettera, «un’opera bella». È la bellezza di chi ama e che non bada a nulla per la persona amata. Lei ha compreso che la morte a cui Gesù va incontro è il frutto di un’intera vita donata ai fratelli. E lei, nella sua piccolezza, nella sua povertà, ha voluto esprimerlo con il suo gesto di amore. E Gesù lo accoglie, perché sa accogliere l’amore che gli diamo, che sia poco o tanto. Per lui non conta quello che si dona, ma il cuore con cui lo si dona.
Qui è una donna che dona e la donna sa bene che cosa comporta dare al mondo una vita; lei sa che dando la vita rischia di perdere la propria. Ma è il dono di un amore totale, che non teme il dolore, la sofferenza, la morte. È la profezia di quanto Gesù sta per vivere fino alla croce. La fragranza di quel profumo accompagnerà il Signore nella passione, nella morte, nella resurrezione. È un annuncio di vita e di gioia: è il profumo di Dio, il profumo del Vangelo. «Dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che lei ha fatto» (v. 13).
***
Sul Calvario, quando Gesù muore, ci sono le donne che lo accompagnano. Sono lì, nel dolore e nel pianto per il Signore che le ha amate e che loro hanno amato. Una presenza e un amore che sono un segno anche per noi. Quando la vita spesa per gli altri ci porta al calvario e alla croce, spesso la luce della risurrezione è talmente lontana da perdere ogni forza confortatrice. La sofferenza può essere così amara e così totalizzante da spingerci in una situazione di disperata solitudine, di fallimento senza rimedio: la forza del Vangelo per il quale abbiamo tentato di vivere ci si vanifica in mano.
Ai piedi della croce - nel Vangelo di Matteo - i discepoli non ci sono. Ai loro occhi Gesù che muore è il segno della fine di tutto, di una speranza delusa, di un drammatico fallimento. Singolare è allora la figura delle donne sotto la croce. Non è pensabile che ai loro occhi potessero esserci prospettive diverse. Anche per loro Gesù muore, anche per loro il domani è nelle tenebre. Ma c’è un amore più forte che, nel buio, le tiene ai piedi della croce: ed è a questo amore semplice ma pieno, piccolo ma autentico, che per primo si rivela la resurrezione di Gesù.
L’amore delle donne è una strada anche per noi: tante volte ci troviamo nel buio, nello sradicamento totale, nell’assurdo, nel silenzio di Dio. Ma come le donne sono rimaste ai piedi di Gesù che muore, così la nostra preghiera insistente e il nostro silenzio fedele di fronte a un Dio che sembra non rispondere, ha in sé il germe di una speranza: anche a noi, come alle donne, si manifesterà la gloria del Signore che risorge.
L’anniversario. Raffaello teologo nel segno dell’umanesimo
Acuto interprete di questioni teologiche Raffaello superò predecessori e posteri con la sua arte capace di donare all’immagine la forza dell’eternità. La riflessione del cardinal Ravasi
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, domenica 1 marzo 2020)
Per anni ho avuto la fortuna di vivere nello stesso palazzo della Biblioteca Ambrosiana ove si custodisce un imponente disegno a carboncino e biacca di ben 2,75 per 7,95 metri: è il cartone preparatorio che Raffaello ha elaborato di suo pugno per abbozzare l’affresco della Scuola di Atene che avrebbe poi dipinto in Vaticano nella cosiddetta Stanza della Segnatura. Come recita il titolo, l’opera rivela un Raffaello filosofo che convocava in quel dipinto Platone e Aristotele, Socrate, Epicuro, Eraclito e Pitagora, persino Diogene e Alcibiade, ma anche Averroè e Zoroastro. Tuttavia il lessico iconografico che dominò la breve, ma intensa, vita cronologica e artistica dell’Urbinate fu quello teologico.
Lungo sarebbe l’elenco e complessa l’analisi dell’immensa sequenza di soggetti biblici e religiosi che popolano le pareti del Palazzo Apostolico. Ad esempio, la Stanza di Eliodoro è così denominata da un murale che rappresenta la scena narrata dal Secondo Libro dei Maccabei (3,23-24), ove è appunto protagonista questo ministro siro. Ma nella stessa sala ecco la liberazione di san Pietro dal carcere, episodio narrato dagli Atti degli Apostoli (12,1-19), con uno straordinario gioco di luce e tenebra (indimenticabile è la luna che si affaccia in un cielo estivo velato di nubi lievi). Tra le altre scene, facciamo emergere il tema eucaristico, raffigurato nella cosiddetta Messa di Bolsena col celebrante boemo in crisi di fede che, nel 1236, alla consacrazione vede l’ostia sanguinare, miracolo che generò la festa del Corpus Domini. A lato di quell’evento Raffaello pone simbolicamente il “suo” papa, Giulio II che, inginocchiato, alza le mani giunte in preghiera, fissando in concentrazione il miracolo che sta compiendosi sull’altare, mentre le bionde guardie svizzere assistono anch’esse genuflesse nel loro sontuoso abbigliamento di velluto e raso con armature. [...]
Un apogeo della sua arte è la Trasfigurazione, tavola pensata come dono da inviare alla cattedrale francese di Narbonne, sede episcopale titolare di un nipote del pontefice di allora Leone X, il cardinale Giulio de’ Medici che sarebbe divenuto, un paio di anni dopo la morte dello zio, nel 1529, lui stesso papa col nome di Clemente VII. L’Urbinate compose su due registri la scena, seguendo il testo evangelico nella sua struttura a dittico. I tre evangelisti sinottici - Matteo (17,1-20), Marco (9,2-29) e Luca (9,28-43) - narrano, infatti, sia pure da angolature redazionali differenti, sia la “cristofania” della Trasfigurazione su un monte innominato, identificato nel Tabor da un’antica tradizione secolare, sia la guarigione di un ragazzo epilettico ai piedi di quel monte. Nella sua pala Raffaello alla luminosa “metamorfosi” (tale è la parola originaria greca per indicare la Trasfigurazione) di Cristo congiunge una vicenda così drammatica come quella del ragazzo epilettico, la cui sindrome era accuratamente delineata dagli evangelisti: «Uno spirito muto, dovunque lo afferrava, lo gettava a terra ed egli schiumava, digrignava i denti e si irrigidiva [...].
Alla vista di Gesù, subito lo spirito scosse con convulsioni il ragazzo che, piombato a terra, si rotolava schiumando ». Anzi, suo padre confessava a Gesù che quello spirito maligno - secondo l’antica concezione alcune malattie erano considerate come effetto di possessione diabolica - «spesso lo buttava nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo» (Marco 9,18-22). Due piattaforme sceniche sovrapposte animano, dunque, il dipinto di Raffaello. Esse, però, sono impostate prospetticamente a diversa gradazione. La Trasfigurazione è lassù, avvolta in un nimbo di luce trascendente, ove Cristo aleggia sospeso con le braccia aperte a croce, accompagnato ai bordi della mandorla luminosa da Mosè, simbolo della Legge, e da Elia, emblema della profezia, protesi in contemplazione, mentre ai piedi di Gesù, sul terreno della cima del monte, accecati e storditi sono accasciati a terra i tre apostoli testimoni Pietro, Giacomo e Giovanni.
Questa scena alta e sublime dovrebbe essere ammirata a distanza, come se fosse un’epifania che da lontano, dall’alto, quasi dall’infinito, si apre allo sguardo della contemplazione mistica. Una visione ravvicinata è, invece, richiesta dalla scena inferiore, mossa, tormentata, agitata da movimenti fortemente “carnali”: basti solo guardare il corpo in torsione e gli occhi sbarrati e stravolti del ragazzo epilettico. Eppure alcune mani si levano verso l’alto ove risplende circonfuso di luce il Cristo. Anzi, il giovane, con le sue braccia, il destro teso verso il Cristo trasfigurato e il sinistro rivolto a terra, crea una sorta di croce a cui la malattia lo inchioda. Raffaello, in tal modo, va oltre la lettera del racconto evangelico che suppone una sequenza temporale staccata tra i due eventi, e vede tra di essi un rapporto causale di natura squisitamente teologica. È, infatti, dal Cristo glorioso, centro della storia della salvezza, che fluisce la liberazione dal male. Per questo egli unisce trascendenza e immanenza, eternità e storia, luce e oscurità, grazia e sofferenza, assoluto e caducità, divinità e umanità. [...]
Questo dipinto fu in pratica l’ultimo a cui si dedicò il pennello di Raffaello tra il 1518 e il 1520, l’anno della sua morte. Egli era appena trentasettenne e il suo funerale è commemorato con una nota commossa da Giorgio Vasari nelle sue Vite. Le sue parole possono essere il suggello più efficace alla contemplazione di questo capolavoro. Scriveva, infatti, trent’anni dopo, nel 1550, quel pittore che fu uno dei primi storici e critici d’arte: «Gli misero alla morte al capo, nella sala dove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il cardinale de’ Medici, la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’animo di dolore a ognuno che quivi guardava».
Il fascino di Raffaello, più forte del virus
A Roma la più grande mostra di sempre, record assicurazioni 4 mld *
di Silvia Lambertucci *
ROMA. SCUDERIE DEL QUIRINALE - La qualità, prima di tutto, con un progetto scientifico che è il frutto di tre anni di lavoro e al quale ha collaborato un team di super esperti del settore, da Nicholas Penny a lungo direttore della National Gallery di Londra a Dominique Cordellier del Louvre, dalla direttrice dei Musei Vaticani Barbara Jatta al suo predecessore, ex soprintendente di Firenze ed ex ministro della cultura Antonio Paolucci. Ma anche la quantità, con un numero di opere del maestro urbinate, che "mai prima d’ora si erano viste tutte insieme".
Roma celebra i 500 anni dalla morte di Raffaello, pittore grandissimo, ma anche architetto e primo storico soprintendente ai beni culturali, e dopo la meraviglia degli arazzi esposti per una settimana nella Cappella Sistina è conto alla rovescia per la rassegna allestita alle Scuderie del Quirinale.
Epidemia da coronavirus permettendo , l’apertura al pubblico è prevista dal 5 marzo al 2 giugno, appuntamento "unico e irripetibile, senza nessuna possibilità di replica all’estero", sottolinea il presidente e ad di Ales Scuderie del Quirinale Mario De Simoni.
Lo sforzo del resto è stato titanico, ribadisce, con 54 istituzioni coinvolte nei prestiti, dai Musei Vaticani al Prado, dalla National Gallery alla Pinacoteca di Monaco, il Louvre, la National Gallery di Washington. E un valore assicurativo monstre di 4 miliardi di euro, per le 206 opere esposte (120 di Raffaello) più alto persino del Leonardo colossal appena andato in scena al Louvre.
Le prenotazioni sono già tantissime, oltre 70 mila i biglietti acquistati, duemila solo nelle ultime ventiquattrore a dispetto delle notizie sempre più allarmanti che arrivano dal nord Italia. Nessuna disdetta. "Confermate anche tutte le presenze per l’inaugurazione", sottolinea De Simoni, che pure non nasconde la preoccupazione per l’evolversi degli eventi legati alla salute pubblica: "E’ chiaro che faremo quello che le autorità ci dicono di fare", allarga le braccia il manager culturale. Nella peggiore delle ipotesi, spiega, si tenterà "uno spostamento temporale". Tant’è, per ora si va avanti, con il fascino di Raffaello più forte di tutto.
Concepito "a ritroso" con un racconto che parte proprio da una ricostruzione della tomba dell’artista al Pantheon, per poi ripercorrerne tutta l’avventura creativa da Roma a Firenze all’Umbria fino alle radici urbinati, il percorso si sofferma in particolare sul periodo romano, "undici fecondissimi anni" dal 1509 al 6 aprile 1520, data della sua morte improvvisa e prematura, avvenuta "dopo giorni di febbre continua e acuta", come scrisse il Vasari.
Sono gli anni dei papi mecenati, Giulio II prima Leone X poi, delle importantissime committenze, dalle Stanze dell’appartamento papale con la Segnatura, capolavoro dei suoi 25 anni, agli Arazzi, i lavori per il ricco banchiere Agostini Chigi e la sua Villa Farnesina. Ma è anche l’epoca dei dei dipinti più iconici, dalla Velata alla Fornarina, dal ritratto di Giulio II a quello di Innocenzo X (tutti in mostra) fino all’impegno di architetto per il cantiere di San Pietro.
Centrale in questo racconto, è la Lettera a Leone X , che Raffaello scrisse insieme a Baldassare Castiglione, una missiva destinata a diventare il fondamento stesso della idea italiana di tutela del patrimonio culturale, principio non a caso poi inserito nella Costituzione: le Scuderie ne espongono la preziosa minuta conservata nell’Archivio di Mantova e già questa è una emozione. Come emozionante sarà rivedere in Italia per la prima volta La Madonna d’Alba prestata dalla National Gallery di Washington o La Madonna della Rosa del Prado, la Madonna dei Tempi inviata dalla Pinacoteca di Monaco.
"E’ la mostra più imponente che avremo occasione di vedere dedicata a Raffaello, ma anche la più sensata perché basata su ricerche scientifiche e novità venute fuori dai restauri", fa notare il direttore degli Uffizi Eike Schmidt, a cui si deve peraltro l’idea di una grande rassegna romana. Due in particolare "il colore del ritratto di Leone X, restaurato dall’opificio delle Pietre Dure". Ma anche la "riscoperta, che si deve a due giovani ricercatrici Roberta Aliventi e Laura Darimbettina, di un frammento di un cartone preparatorio di un dipinto di Giulio Romano che si trova oggi a Padova" .
Uno sforzo, sottolinea Marzia Faietti curatrice insieme al direttore delle Scuderie Matteo Lafranconi , "Che è stato anche un ripercorrere le tappe di un percorso intellettuale, quello della nostra generazione". Alla ricerca, tra l’altro, dei messaggi che ancora oggi l’opera di Raffaello può dare. Uno su tutti, "il più moderno" secondo la studiosa, "è quello di pace" che viene ad esempio dalla Scuola di Atene "dove tante persone di diverse culture dialogano tra loro". Proprio in quegli anni, ricorda, usciva il pamphlet di Erasmo da Rotterdam contro la guerra: " E Raffaello, spirito aperto, era allineato con i grandi pensatori d’Europa, i più grandi pacifisti". Lunga vita a Raffaello. (ANSA).
* Fonte: Ansa, 24 febbraio 2020 (ripresa parziale).
La mostra.
Gli arazzi di Raffaello tornano nella Cappella Sistina
Per una settimana, dal 17 al 23 febbraio, i capolavori intessuti a Bruxelles su cartoni del "divino" tornano sotto gli affreschi di Michelangelo e Perugino, dove li volle Leone X
di Marco Busssagli (Avvenire, venerdì 7 febbraio 2020)
Dopo quasi quarant’anni gli arazzi disegnati dal grande artista per papa Leone X tornano per una settimana nel luogo per cui il pontefice li aveva voluti Raffaello, in questi giorni, inizia a far sentire la sua presenza in maniera sempre più insistente. In realtà, le iniziative hanno preso avvio già nel 2019, quando, proprio su queste pagine, abbiamo recensito la bella mostra (ancora in corso, fino al prossimo 17 marzo) dedicata a Giovanni Santi, il padre del grande artista.
Ora, i Musei Vaticani vogliono (e possono) stupire tutti, come ha annunciato il direttore Barbara Jatta, esibendo dal 17 al 23 febbraio, una delle opere di Raffaello meno note al grande pubblico: gli arazzi realizzati per Leone X Medici. Non basta, però, perché non si tratta di una semplice esposizione.
Gli arazzi saranno ricollocati nella Cappella Sistina, per la quale erano stati pensati. Si tratta di un evento raro che non avveniva dal 1983, quando il mondo celebrò il cinquecentenario della nascita del grande artista.
Quando papa Medici li fece appendere la prima volta, per coprire i finti velari ad affresco che appartengono alla prima decorazione della Cappella, quella voluta da Sisto IV Della Rovere che incaricò il Perugino di coordinare un manipolo di artisti stellari, da Botticelli a Luca Signorelli, passando per il Perugino stesso, non esisteva ancora il Giudizio Universale di Michelangelo che, però, aveva dipinto la volta. Allora, il desiderio di Leone X di lasciare la sua traccia nei Palazzi Pontifici lo spinse, forse già dal 1514, a commissionare i cartoni (oggi conservati al Victoria and Albert Museum di Londra) in modo da poter intervenire nella decorazione di uno dei luoghi che - già allora - era considerato il più prestigioso dei Palazzi Vaticani.
Realizzati, fra il 1515 e il 1519, gli arazzi furono tessuti nella bottega di Pieter van Aelst a Bruxelles e avrebbero pienamente assolto a questo compito. Per questo in occasione di cerimonie importanti, venivano appesi in Sistina, lungo le pareti dell’aula, dove avevano la funzione di completare il programma degli affreschi quattrocenteschi con gli episodi della vita di Mosè e di Cristo. Gli arazzi, infatti, focalizzavano l’attenzione sulle vicende di san Pietro e di san Paolo, cui si affiancava la scena del Martirio di santo Stefano, prima vittima del nuovo credo cristiano.
Divennero una sorta di scuola pittorica del mondo (si pensi a Guido Reni e Carracci) e, come manufatti, furono copiati dalle principali corti europee mentre, nel XVII secolo, furono imitati da Rubens a Poussin e dalla stessa Santa Sede, quando papa Urbano VIII pensò bene di farne realizzare altri con gli episodi della propria vita.
Dalla Pesca miracolosa, fino al bellissimo San Paolo in carcere (che prefigura, per certi versi, le soluzioni della Sala dei Giganti di Giulio Romano al Palazzo Te di Mantova), passando per la Punizione di Elima (Atti degli Apostoli 13) uno stregone che si era opposto alla predicazione di san Paolo, fino alla Predica di san Paolo, tanto per ricordare quelli dal maggior impatto visivo, gli arazzi sono una successione di capolavori di stoffa.
Si tratta di opere che hanno anche un profondo significato religioso e politico, come mostra, quello dedicato all’episodio evangelico della Guarigione dello storpio (Atti degli Apostoli, III, 1 ss.). Ogni giorno, a Gerusalemme, un uomo, storpio fin dalla nascita, chiedeva l’elemosina vicino al Tempio. Quando vide Pietro e Giovanni che si erano recati nella città, non mancò di chiederla anche a loro. Pietro, allora, gli rispose di non avere con sé oro né argento, ma di potergli donare solo la fede in Cristo e aggiunse: «...nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!». Raffaello ambienta la scena fra le colonne tortili del Tempio di Salomone che si riteneva fossero state portate a Roma dopo la distruzione operata dall’imperatore Tito. Esse, poi, avrebbero sorretto la pergola marmorea del San Pietro costantiniano. Non è un caso, però, che sia Pietro l’unico ad ergersi ritto in piedi a mo’ di colonna fra quelle del Tempio di Salomone. Infatti, è lui, la colonna del Tempio nuovo, quello fondato da Cristo. Ai lati (fra le quinte-navate laterali), si accalca la folla dei curiosi e dei fedeli. È il popolo della nuova Chiesa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RAFFELLO: AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO".
UNA "CAPPELLA SISTINA" IN ROVINA: BENI CULTURALI, SCUOLA, E TERRITORIO: CONTURSI TERME.
Federico La Sala
CAPIRE IL COMPORTAMENTO UMANO.
di Antonio Rainone *
Carità o empatia?
Esiste una tematica nella filosofia del linguaggio e nell’epistemologia di W. V. Quine che può apparire per molti versi atipica o sorprendente a chi abbia del celebre filosofo statunitense un’immagine limitata alle sue concezioni fisicalistiche e comportamentistiche, per non dire “scientistiche”, non di rado considerate le più caratteristiche della sua produzione filosofica. Si tratta della tematica dell’empatia, cioè della capacità di avanzare spiegazioni o interpretazioni del comportamento (linguistico e non) di altri soggetti “mettendosi nei loro panni” o “simulandone” la situazione cognitiva o, ancora, assumendone immaginativamente il ruolo.
L’empatia - anche indipendentemente da Quine - ha peraltro suscitato una particolare attenzione nella filosofia della mente degli ultimi trent’anni, dove ha dato vita a un ampio dibattito sul cosiddetto mindreading, incontrandosi inoltre con la teoria neuroscientifica dei cosiddetti neuroni specchio 1. I più recenti lavori sulla filosofia del linguaggio di Quine dedicano una particolare attenzione a tale tematica 2, anche perché Quine, pur accennandovi in Word and Object (1960), ne ha proposto una esplicita teorizzazione solo nella sua produzione più tarda.
A partire dagli anni Settanta, ma più esplicitamente negli anni Novanta, Quine ha considerato il metodo dell’empatia come il metodo fondamentale di traduzione nel celebre Gedankenexperiment della traduzione radicale (ovvero la traduzione di una lingua completamente sconosciuta), ma anche come una capacità naturale ai fini dell’acquisizione del linguaggio e dell’attribuzione di stati mentali intenzionali (ossia percezioni, credenze, desideri ecc.) ad altri. In effetti, l’empatia ha acquisito un rilievo così crescente in Quine che nei suoi due ultimi lavori sistematici, Pursuit of Truth (1992) e From Stimulus to Science (1995), essa appare come un nucleo centrale della sua filosofia del linguaggio e della mente.
È stato del resto lo stesso Quine a sottolineare la rilevanza dell’empatia nella sua filosofia del linguaggio, “retrodatandone”, per così dire, la teorizzazione agli anni Cinquanta. Così Quine si esprime in uno dei suoi ultimi interventi sulla questione:
Il brano qui citato da Quine, ripreso dall’importante The Problem of Meaning in Linguistics (1951b, p. 63) - una notevole anticipazione della problematica della traduzione radicale - non è privo di una certa ambiguità, prestandosi a una duplice lettura. È forse vero che in Word and Object alcune affermazioni di Quine potrebbero essere interpretate come la proposta di un metodo empatico, sostenuto comunque in modo non del tutto esplicito (cfr. Rainone, 1995), ma possono essere avanzati dei dubbi circa la difesa di tale metodo nel saggio del 1951. Se da un lato il concetto di proiezione sembra proporre il metodo dell’empatia nell’attività di traduzione di una lingua completamente sconosciuta da parte di un etnolinguista, dall’altro sembra in effetti riferirsi non tanto al metodo empatico, quanto, piuttosto, a quello che, grazie allo stesso Quine, e in seguito a Donald Davidson (cfr. Davidson, 1984), sarebbe diventato noto come «principio di carità» (principle of charity). Il linguista - asseriva infatti Quine - proietta sé stesso con la sua Weltanschauung nei panni del nativo che usa una lingua sconosciuta, presupponendo (o ipotizzando) così che il suo informatore si conformi ai suoi principi logici e abbia le sue stesse credenze (ritenute vere) riguardo alla realtà (sono questi, grosso modo, i principali tenet del principio di carità, che presuppone una comune natura razionale tra interprete/ traduttore e interpretato/parlante).
In Word and Object Quine avrebbe esplicitamente utilizzato - e teorizzato - il principio di carità riguardo alla traduzione dei connettivi logici e degli enunciati “ovvi”. L’esempio più pertinente, in merito, è rappresentato dal «caso estremo» di qualche nativo che accetti come veri enunciati traducibili nella forma “p e non-p” (per esempio, “piove e non piove”), una forma enunciativa che, violando il principio di non contraddizione, deporrebbe per Quine non a favore dell’irrazionalità dei parlanti - come riteneva Lévy-Bruhl con la sua teoria della «mentalità prelogica» - ma contro la correttezza della traduzione (Quine, 1960, p. 58).
Il medesimo argomento varrebbe inoltre per la traduzione di enunciati ovvi: una risposta negativa da parte del nativo alla domanda (nella lingua nativa) “sta piovendo?” fatta sotto la pioggia costituirebbe una prova di cattiva traduzione nella lingua nativa, non del fatto che il nativo non condivida con il traduttore la credenza in qualcosa di così evidente. In generale, nota Quine in un famoso passo di Word and Object, «quanto più assurde o esotiche sono le credenze attribuite a una persona tanto più sospetti abbiamo il diritto di essere nei confronti delle traduzioni; il mito dei popoli prelogici segna solo il caso estremo» (ivi, p. 68).
Difficilmente, pertanto, la «proiezione» del linguista nei «sandali» del nativo di cui Quine parlava nel saggio del 1951 potrebbe apparire come una forma di metodo empatico, dal momento che essa “imporrebbe” al nativo uno «schema concettuale» (quello del linguista) che, per quanto il linguista può saperne, potrebbe essergli del tutto estraneo. Questo è, in fondo, il problema sottostante a tutto il celebre secondo capitolo di Word and Object 3. Non vi sarebbe alcuna garanzia, infatti, secondo Quine, che i nativi condividano lo stesso schema concettuale (la stessa Weltanschauung) del linguista. Ma il linguista non può, d’altro canto, che fare affidamento sul proprio linguaggio (o schema concettuale), data la scarsa evidenza empirica di cui dispone nel tradurre la lingua sconosciuta. Basarsi sul proprio schema concettuale, proiettandolo sul «linguaggio della giungla», è una necessità pratica, che - asseriva Quine in Word and Object - investirebbe soprattutto l’elaborazione delle «ipotesi analitiche», ovvero le ipotetiche correlazioni tra le emissioni verbali olofrastiche dei nativi e le loro possibili traduzioni mediante cui il linguista deve stabilire quali frammenti di enunciati andranno considerati termini (singolari e generali), quali congiunzioni, quali articoli, quali desinenze per il plurale e quali pronomi, sulla cui base individuare un insieme plausibile di credenze ontologiche ed epistemiche. La scelta delle ipotesi analitiche, infatti, non è altro che un modo di «catapultarsi nel linguaggio della giungla utilizzando i propri modelli linguistici » (ivi, p. 70).
Per ricordare il celebre esempio di Quine, la traduzione del proferimento di “gavagai” con “coniglio” (invece che con alternative bizzarre quali “stadi di coniglio” o “sta conigliando”, per quanto ammissibili sulla base dell’evidenza osservativa) equipara l’emissione verbale nativa a un termine generale del linguaggio del linguista, ma nulla esclude che i nativi possano essere privi di un termine referenziale generale per designare i conigli, anche se il linguista ritiene ciò “caritatevolmente” improbabile.
Utilizzare i modelli del proprio linguaggio per tradurre un linguaggio alieno non equivale quindi ad applicare un metodo empatico di comprensione, trattandosi al massimo di un’ulteriore e più ampia applicazione del principio di carità. L’empatia sembra in realtà qualcosa di diverso dalla carità: a differenza di quest’ultima, l’empatia non presuppone necessariamente una condivisione di significati e stati cognitivi (credenze). Forse l’assunzione di un’analogia di stati cognitivi tra interprete e interpretato - il «ritrovamento dell’io nel tu», secondo la celebre formula di Wilhelm Dilthey (1927, trad. it. p. 293) - può apparire inevitabile ed efficace riguardo alle risposte verbali fenomenologiche direttamente connesse a stimolazioni elementari provenienti da eventi osservativi intersoggettivi del mondo esterno (la pioggia, il colore rosso, il caldo e il freddo ecc.): ci si aspetta infatti che i nativi, che presentano una conformazione neurofisiologica e neuropsicologica analoga alla nostra, non abbiano percezioni di tipo diverso dalle nostre, rispondendo linguisticamente a tali percezioni in modo analogo a come risponderemmo noi; in tal caso l’empatia sembrerebbe indistinguibile dalla carità interpretativa, in quanto fondata sull’assunzione dell’esistenza di meccanismi percettivi comuni ai soggetti coinvolti. Ma difficilmente tale analogia potrebbe essere presupposta allorché si tratti di tradurre il linguaggio o spiegare il comportamento di soggetti appartenenti a una cultura del tutto estranea a quella dell’interprete. In questo caso l’interprete dovrà in qualche modo “entrare”, per così dire, nella “mente” dei soggetti da interpretare per comprendere il loro peculiare punto di vista, le loro credenze sulla realtà e i significati delle loro parole.
In definitiva, la differenza tra carità ed empatia può essere intesa come la differenza tra imporre il proprio punto di vista all’altro e assumere il punto di vista dell’altro. La differenza è particolarmente rilevante nei casi di interpretazione di soggetti appartenenti a “mondi” radicalmente diversi da quello dell’interprete. Se così non fosse, difficilmente gli etnoantropologi avrebbero potuto attribuire credenze animistiche o culti religiosi atipici (come i celebri cargo cults) alle popolazioni studiate (in entrambi i casi si dovrebbe trattare, secondo un’interpretazione caritatevole, di errori di traduzione o interpretazione).
Non dovrebbe costituire motivo di sorpresa, allora, che David K. Lewis, in un saggio dedicato alla problematica davidsoniana dell’«interpretazione radicale», avesse dato una definizione del principio di carità che ingloba, per così dire, anche il procedimento empatico: un soggetto di interpretazione, asseriva Lewis, «dovrebbe credere ciò che crediamo noi, o forse ciò che avremmo creduto noi al suo posto; e dovrebbe desiderare ciò che desideriamo noi, o forse ciò che avremmo desiderato noi al suo posto» (Lewis, 1974, p. 336; corsivi aggiunti). In pratica, secondo questa definizione del principio di carità, si tratterebbe di assumere empaticamente il punto di vista dei soggetti interpretati, tenendo conto delle loro credenze (eventualmente false o strane) e della loro cultura di appartenenza, attribuendo a essi non le credenze e i desideri dell’interprete, ma le credenze e i desideri che l’interprete avrebbe se fosse “nei loro panni”. Si può aggiungere, a tale proposito, che l’empatia rappresenta una sorta di “correttivo” del principio di carità, tenendo conto del punto di vista dell’altro.
Ma forse c’è ancora qualcosa da dire: mentre la carità impone dei vincoli normativi sulla razionalità dei soggetti da interpretare - vincoli a priori basati sui principi logici e sulle norme di razionalità epistemica e pratica dell’interprete, ritenuti universali 4 -, l’empatia sembrerebbe invece un metodo descrittivo ed empirico, essendo subordinata all’acquisizione di un’ampia gamma di informazioni relative alle credenze, alla cultura e alle esperienze passate dei soggetti da interpretare (inutile aggiungere che non c’è accordo su quest’ultimo punto).
4. Si può ricordare, riguardo a questa presunta universalità, che Robert Nozick ha contestato il principio di carità in quanto assunzione di tipo «imperialistico», conferendo tale principio «un peso indebito alla posizione che accade di occupare a noi, alle nostre credenze e alle nostre preferenze» (Nozick, 1993, p. 153). Giustamente, Nozick fa notare che difficilmente questa sarebbe l’assunzione di un antropologo relativamente alle cosiddette società “primitive” (ivi, p. 154).
* Cfr. Antonio Rainone, "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia", Carocci editore, Roma, 2019, pp. 55-59, ripresa parziale.
NOTA:
USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO. Amore (Charitas) o Mammona (Caritas)?! Il «principio di carità» ("caritas"!), un assunzione di tipo «imperialistico» (Robert Nozick, "La natura della razionalità", 1995). Una storia di lunga durata...:
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA. Alcune note su un testo del Muratori
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
CREATIVITÀ E IMMAGINAZIONE COSMOTEANDRICA (cosmologia, teologia, e antropo-logia!). QUALE DIO: AMORE ("CHARITAS") O "MAMMONA"? QUALE MADRE: "MARIA-EVA" O "MARIA-MARIA"?!....*
SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
CAPPELLA PAPALE
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Mercoledì, 1° gennaio 2020
«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana!
Nel primo giorno dell’anno celebriamo queste nozze tra Dio e l’uomo, inaugurate nel grembo di una donna. In Dio ci sarà per sempre la nostra umanità e per sempre Maria sarà la Madre di Dio. È donna e madre, questo è l’essenziale. Da lei, donna, è sorta la salvezza e dunque non c’è salvezza senza la donna. Lì Dio si è unito a noi e, se vogliamo unirci a Lui, si passa per la stessa strada: per Maria, donna e madre. Perciò iniziamo l’anno nel segno della Madonna, donna che ha tessuto l’umanità di Dio. Se vogliamo tessere di umanità le trame dei nostri giorni, dobbiamo ripartire dalla donna.
Nato da donna. La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna. Le donne sono fonti di vita. Eppure sono continuamente offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che portano in grembo. Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità. Quante volte il corpo della donna viene sacrificato sugli altari profani della pubblicità, del guadagno, della pornografia, sfruttato come superficie da usare. Va liberato dal consumismo, va rispettato e onorato; è la carne più nobile del mondo, ha concepito e dato alla luce l’Amore che ci ha salvati! Oggi pure la maternità viene umiliata, perché l’unica crescita che interessa è quella economica. Ci sono madri, che rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone che hanno la pancia piena, ma di cose, e il cuore vuoto di amore.
Nato da donna. Secondo il racconto della Bibbia, la donna giunge al culmine della creazione, come il riassunto dell’intero creato. Ella, infatti, racchiude in sé il fine del creato stesso: la generazione e la custodia della vita, la comunione con tutto, il prendersi cura di tutto. È quello che fa la Madonna nel Vangelo oggi. «Maria - dice il testo - custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (v. 19). Custodiva tutto: la gioia per la nascita di Gesù e la tristezza per l’ospitalità negata a Betlemme; l’amore di Giuseppe e lo stupore dei pastori; le promesse e le incertezze per il futuro. Tutto prendeva a cuore e nel suo cuore tutto metteva a posto, anche le avversità. Perché nel suo cuore sistemava ogni cosa con amore e affidava tutto a Dio.
Nel Vangelo questa azione di Maria ritorna una seconda volta: al termine della vita nascosta di Gesù si dice infatti che «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (v. 51). Questa ripetizione ci fa capire che custodire nel cuore non è un bel gesto che la Madonna faceva ogni tanto, ma la sua abitudine. È proprio della donna prendere a cuore la vita. La donna mostra che il senso del vivere non è continuare a produrre cose, ma prendere a cuore le cose che ci sono. Solo chi guarda col cuore vede bene, perché sa “vedere dentro”: la persona al di là dei suoi sbagli, il fratello oltre le sue fragilità, la speranza nelle difficoltà; vede Dio in tutto.
Mentre cominciamo il nuovo anno chiediamoci: “So guardare col cuore? So guardare col cuore le persone? Mi sta a cuore la gente con cui vivo, o le distruggo con le chiacchiere? E soprattutto, ho al centro del cuore il Signore? O altri valori, altri interessi, la mia promozione, le ricchezze, il potere?”. Solo se la vita ci sta a cuore sapremo prendercene cura e superare l’indifferenza che ci avvolge. Chiediamo questa grazia: di vivere l’anno col desiderio di prendere a cuore gli altri, di prenderci cura degli altri. E se vogliamo un mondo migliore, che sia casa di pace e non cortile di guerra, ci stia a cuore la dignità di ogni donna. Dalla donna è nato il Principe della pace. La donna è donatrice e mediatrice di pace e va pienamente associata ai processi decisionali. Perché quando le donne possono trasmettere i loro doni, il mondo si ritrova più unito e più in pace. Perciò, una conquista per la donna è una conquista per l’umanità intera.
Nato da donna. Gesù, appena nato, si è specchiato negli occhi di una donna, nel volto di sua madre. Da lei ha ricevuto le prime carezze, con lei ha scambiato i primi sorrisi. Con lei ha inaugurato la rivoluzione della tenerezza. La Chiesa, guardando Gesù bambino, è chiamata a continuarla. Anch’ella, infatti, come Maria, è donna e madre, la Chiesa è donna e madre, e nella Madonna ritrova i suoi tratti distintivi. Vede lei, immacolata, e si sente chiamata a dire “no” al peccato e alla mondanità. Vede lei, feconda, e si sente chiamata ad annunciare il Signore, a generarlo nelle vite. Vede lei, madre, e si sente chiamata ad accogliere ogni uomo come un figlio.
Avvicinandosi a Maria la Chiesa si ritrova, ritrova il suo centro, ritrova la sua unità. Il nemico della natura umana, il diavolo, cerca invece di dividerla, mettendo in primo piano le differenze, le ideologie, i pensieri di parte e i partiti. Ma non capiamo la Chiesa se la guardiamo a partire dalle strutture, a partire dai programmi e dalle tendenze, dalle ideologie, dalle funzionalità: coglieremo qualcosa, ma non il cuore della Chiesa. Perché la Chiesa ha un cuore di madre. E noi figli invochiamo oggi la Madre di Dio, che ci riunisce come popolo credente. O Madre, genera in noi la speranza, porta a noi l’unità. Donna della salvezza, ti affidiamo quest’anno, custodiscilo nel tuo cuore. Ti acclamiamo: Santa Madre di Dio. Tutti insieme, per tre volte, acclamiamo la Signora, in piedi, la Madonna Santa Madre di Dio: [con l’assemblea] Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio!
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Federico La Sala
Natale*
Natale. Guardo il presepe scolpito,
dove sono i pastori appena giunti
alla povera stalla di Betlemme.
Anche i Re Magi nelle lunghe vesti
salutano il potente Re del mondo.
Pace nella finzione e nel silenzio
delle figure di legno: ecco i vecchi
del villaggio e la stella che risplende,
e l’asinello di colore azzurro.
Pace nel cuore di Cristo in eterno;
ma non v’è pace nel cuore dell’uomo.
Anche con Cristo e sono venti secoli
il fratello si scaglia sul fratello.
Ma c’è chi ascolta il pianto del bambino
che morirà poi in croce fra due ladri?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FLS
Manganelli: basta con il Natale!
di Marco Belpoliti (Doppiozero, 24.12.2015)
Basta con il Natale!, l’esclamazione prorompe dalle pagine de Il presepio (Adelphi 1992) che Giorgio Manganelli sta redigendo alla fine degli anni Settanta nella sua casa romana seduto alla macchina per scrivere. In verità nel dattiloscritto che esce dal rullo della macchina non dice proprio così. Manganelli è più sottile, meno greve, ma non per questo meno diretto o pesante: “La mia memoria dei Natali infantili è estremamente penosa”; e ancora: “I preparativi per il Natale hanno qualcosa di cupo, di tetro, per l’appunto come preparativi per tener testa ad una invasione, o ad una minaccia non precisa che si addensa sulle nostre indifendibili frontiere”. Cosa ha il Natale per sembrargli così pernicioso? Al Natale “non si dà fuga; in nessun modo”. Nessuno può evadere dal Natale.
Per questo Manganelli decide di immergersi nel Natale, lo fa affrontando una delle sue “istituzioni”: il presepe. Il testo che sta scrivendo ha come oggetto proprio questa “scena”, come la chiama Manganelli. Questo è il presepe. Se c’è una felicità natalizia - e chi la nega? - c’è però anche una certa “infelicità natalizia”, scrive chi ha redatto il risvolto di questo libro stampato postumo nel 1992, vent’anni dopo essere uscito dalla macchina del Manga. Come tutti coloro che riescono a vedere l’altra faccia delle cose, il luogo in ombra, oscuro, nascosto, egli coglie l’elemento pericoloso che il Natale reca con sé, quello stesso che lo rende davvero rischioso, difficile, grave.
Il Natale è la festa dei bambini, per i bambini. Anche gli adulti quel giorno diventano bambini. Ma se fa parte della galassia infantile, è anche vero che questo accade perché è uno dei “riti necessari alla produzione dei morituri”. Di più: con il Natale, e non solo con questo, si fa “moneta dell’infanzia per dilazionare il disastro del mondo”. Ritiene che sia un modo per procrastinare il disastro usando l’infanzia. Non c’è rimedio tuttavia a tutto questo, dal momento che se bastasse porre fine al Natale per scongiurare questo stato di cose, staremmo tutti meglio. Ma al Natale non si sfugge, ripete, ragione per cui non lo si può neppure abolire.
Cosa trova di così terribile Manganelli nel Natale? Il fatto che è uno spettacolo: messa in scena di una nascita; chiama tutti ad assistere a questo evento. Ma è proprio un evento? Ne dubita. Il presepe è la negazione della nascita. Nel presepe non nasce nessuno. Le statuine vengono poste lì per rappresentare. Non nasce nessun Bambino. Nel Natale convergono, e in parte si confondono, il Bambino, ovvero Gesù, il-già-nato, e il Vecchio, ovvero Babbo Natale, la vecchiezza come forma del Mondo. Forse si confondono anche le due coppie puer-senex e senex-puer; si tratta in definitiva dell’incontro tra due mitologie e due teologie.
Quello che disturba lo scrittore è che il Natale sia essenzialmente una rappresentazione. Tutto complotta per produrre le innocue lacrime del sentimentalismo che hanno il solo scopo di tenere a bada suicidio e omicidio, tutta la volgarità “contro cui preme la demenza”. Che sono poi i sintomi della condizione umana, profondamente umana. Scrive nelle prime pagine: “Quelle fragili fole natalizie erano terribilmente pertinenti la denuncia della mia, della nostra indecorosità; ero circondato da magie sarcastiche. Investiva le famiglie di una nobiltà sacerdotale che non poteva svelare l’odiosa, repulsiva tristizia dei conflitti coniugali e filiali. Erano, e sono, giorni, notti fitti di fantasie funerarie, anche delittuose; il tutto mescolato a pianti di verace compunzione, a teneri abbandoni, a propositi inani di riscatto, dopo naturalmente, quel delitto che per altro era impossibile”. E ancora: “mai come a Natale la demenza si lascia respirare ai dementi”.
Nel presepe, istituzione natalizia in cui Manganelli stesso si iscrive con un gesto proditorio, e anche felice, nonostante tutto, si manifesta l’infelicità stessa del Natale, “una infelicità esclusiva, viscida, serpentesca, e insieme calamitosa”. Nella sua visione apocalittica che gli fa vedere nel Natale una cigolante macchinazione cosmica, si produce uno spettacolo. Una rappresentazione che occulta ogni altra cosa e ci fa guardare le figurine di cartapesta del presepe. Eccole: la Madre, il Padre, i Pastori, la Vecchietta, il Ruscello, l’Asino e il Bue. E poi: gli Angeli, e persino i pipistrelli. Senza la Madre la rappresentazione stessa non sarebbe neppure pensabile, non prenderebbe avvio la macchina teatrale che include il Bambino. Lui, che ne sembrerebbe il protagonista, non lo è.
Il presepe “non ha fondali; dietro non c’è niente”. Che si tratti di una mangiatoia o di una spelonca, di una grotta o di una caverna, in ogni caso è un luogo di passaggio, un corridoio. Il presepe è collegato con l’Inferno, ne rappresenta, a detta di Manganelli, una delle porte d’ingresso. Da dove viene il presepe, dal Cielo o dal mondo ctonio? Com’è possibile che esca proprio dal basso? Perché è degli inferi la simulazione, si risponde. Dal buio della caverna sono usciti il Padre, la Madre, il Bambino. Altrimenti non si spiegherebbe la sua capacità di essere fonte purissima d’angoscia. Il Natale la suscita, questa angoscia.
Nelle pagine di questo dattiloscritto rinvenuto da Ebe Flamini tra le carte di Manganelli dopo la sua morte, sono due i personaggi che più colpiscono: l’asino e il bue. A sua detta si tratta degli unici esseri viventi dell’intera rappresentazione sacra: non somigliano per nulla alle statue taciturne, ai simulacri senza età. Loro non escono dalla caverna, non appartengono al mondo infero. La loro è una singolare alleanza. “Un errore li ha generati”, scrive. Sono due animali umili, percossi, e uno, il bue, poi, è castrato. Questo è poi un vero enigma. La mitezza del bue ha qualcosa di torvo. La sua natura è di essere appunto un castrato: era un toro poderoso, scrive Manganelli, e generante. La sua mitezza è il rovesciamento della forza. L’asino è la potenza del sesso, la sua forma furente, persino pericolosa. I due animali sono i veri padroni di casa - stalla, mangiatoia, caverna, antro, rifugio -, loro due, il castrato e il priapeo, sono quelli posti più vicini al Bambino. “Sono viventi che amano la noia”, scrive.
Seduto alla sua macchina per scrivere, questo teologo negativo batte furiosamente sui tasti producendo un delirio a-teologico, una sua macchina teologica (sia pure di teologia negativa) da opporre a quella delle figurine di cartapesta che giacciono nel presepe. La sua è una felicità del vanverare, del parlare a vuoto, che tuttavia coglie un elemento fondamentale: la natura infera di questa scena che colleghiamo all’avvento del Regno, alla Nascita del Salvatore, alla venuta di Gesù nel Mondo. Il Bambino c’è già, è lì. Non è nato, c’è.
Il libro si conclude con una scena. E non si sa dove Manganelli l’abbia trovata, in quale presepe l’abbia vista. Forse l’ha sognata? Forse. Eccola. La Vecchia, figura archetipica, cava dalla sua sacca una trottola e la lascia cadere nel buco: nel nulla, nell’antro infernale che si apre dentro il presepe. Dal buco è uscito il Natale stesso con la sua forma infera. “Per quel bel bambino”, dice la Vecchia. Poi getta la trottola policroma, oggetto magico, che “subito discende con un sibilo melodioso, infernale”. È fatta. Nessuno può più fuggire. Il Disastro è accaduto. Si dia inizio alla festa. Il Natale può cominciare. L’angoscia è al culmine, la catastrofe dispiegata. Sediamoci a tavola tranquilli e pranziamo. Viva il Natale!
L’udienza. Il Papa: il presepe è Vangelo domestico
Francesco all’udienza generale: porta il Vangelo nelle case, nelle scuole, nei luoghi di lavoro e di ritrovo, negli ospedali e nelle case di cura, nelle carceri, nelle piazze
di Redazione Internet (Avvenire, mercoledì 18 dicembre 2019)
«Fare il presepe è celebrare la vicinanza di Dio. Dio sempre è stato vicino al suo popolo, ma quando si è incarnato, è nato, è stato troppo vicino, molto vicino, vicinissimo: è riscoprire che Dio è reale, concreto, vivo e palpitante». Lo ha detto il Papa, che nella catechesi dell’udienza di oggi, sulla scorta della sua recente lettera apostolica e a una settimana dal Natale, ha ribadito che «il presepe infatti è come un Vangelo vivo»: «Porta il Vangelo nei posti dove si vive: nelle case, nelle scuole, nei luoghi di lavoro e di ritrovo, negli ospedali e nelle case di cura, nelle carceri e nelle piazze. E lì dove viviamo ci ricorda una cosa essenziale: che Dio non è rimasto invisibile in cielo, ma è venuto sulla Terra, si è fatto uomo, un bambino».
«Dio non è un signore lontano o un giudice distaccato, ma è amore umile, disceso fino a noi», ha fatto notare il Papa: «Il Bambino nel presepe ci trasmette la sua tenerezza. Alcune statuine raffigurano il Bambinello con le braccia aperte, per dirci che Dio è venuto ad abbracciare la nostra umanità. Allora è bello stare davanti al presepe e lì confidare al Signore la vita, parlargli delle persone e delle situazioni che abbiamo a cuore, fare con lui il bilancio dell’anno che sta finendo, condividere le attese e le preoccupazioni».
Preparasi al Natale facendo il presepe
«In questi giorni, mentre si corre a fare i preparativi per la festa, possiamo chiederci: "Come mi sto preparando alla nascita del Festeggiato?"», ha esordito il Papa. «Un modo semplice ma efficace di prepararsi è fare il presepe. Anch’io quest’anno ho seguito questa via: sono andato a Greccio, dove san Francesco fece il primo presepe, con la gente del posto. E ho scritto una lettera per ricordare il significato di questa tradizione. Cosa significa il presepe nel tempo di Natale».
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Facendo il presepe «possiamo anche invitare la Sacra Famiglia a casa nostra, dove ci sono gioie e preoccupazioni, dove ogni giorno ci svegliamo, prendiamo cibo e siamo vicini alle persone più care» ha detto il Papa.
«Accanto a Gesù vediamo la Madonna e san Giuseppe», l’immagine evocata da Francesco: «Possiamo immaginare i pensieri e i sentimenti che avevano mentre il Bambino nasceva nella povertà: gioia, ma anche sgomento».
«La parola presepe letteralmente significa mangiatoia, mentre la città del presepe, Betlemme, significa casa del pane», ha ricordato il Papa: «Mangiatoia e casa del pane: il presepe che facciamo a casa, dove condividiamo cibo e affetti, ci ricorda che Gesù è il nutrimento essenziale, il pane della vita. È Lui che alimenta il nostro amore, è Lui che dona alle nostre famiglie la forza di andare avanti e di perdonarci».
Il presepe del "lasciamo riposare mamma"
«Il presepe è attuale, è l’attualità di ogni famiglia» ha aggiunto Francesco "a bracci". «Ieri mi hanno regalato un’immaginetta di un presepe speciale, piccolina - ha raccontato - e si chiamava "lasciamo riposare mamma". E c’era la Madonna addormentata e Giuseppe col bambinello lì, facendolo addormentare. Quanti di voi dovete dividere la notte tra marito e moglie per il bambino o la bambina che piange, piange, piange! Lasciate riposare mamma: la tenerezza di una famiglia, del matrimonio».
Francesco ha sottolineato infine che «il presepe ci ricorda che Gesù viene nella nostra vita concreta». «E questo è importante - ha aggiunto -: fare un piccolo presepe a casa,sempre, perché è il ricordo che Dio è venuto da noi, nato da noi, ci accompagna nella vita, è uomo come noi, si è fatto uomo come noi. Nella vita di tutti i giorni non siamo più soli. Egli abita con noi. Non cambia magicamente le cose ma, se lo accogliamo, ogni cosa può cambiare».
«Vi auguro allora - ha concluso il Papa - che fare il presepe sia l’occasione per invitare Gesù nella vita. Quando noi facciamo il presepe a casa è come aprire la porta e dire "Entra Gesù". È fare concreta questa vicinanza, questo invito a Gesù perché venga nella nostra vita. Perché se lui abita la nostra vita, essa rinasce. E se la vita rinasce è davvero Natale. Buon Natale a tutti».
«Grazie per gli auguri» ricevuti nei giorni scorsi
Al termine dell’udienza Francesco ha ringraziato «quanti in questi giorni, da tante parti del mondo, mi hanno inviato messaggi augurali per il 50/o di sacerdozio e per il compleanno. Grazie soprattutto per il dono della preghiera».
Profezia è storia /27.
È uomo il nome del re
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 7 dicembre 2019)
Un padre giusto e un grande miracolo non sono una garanzia che i figli continueranno a scrivere una storia giusta e buona. Dopo Ezechia, re buono e fedele che salvò Gerusalemme per la sua fede in Dio, in Giuda si susseguono due re malvagi, Manasse e Amon (2 Re 21), che riedificano gli altari agli dèi stranieri, riprendono e riattivano gli antichi culti popolari cananei che non si erano mai spenti tra la gente. Dopo la bella parentesi di Ezechia, ritorna l’idolatria, l’antica malattia di Israele - e di tutti gli uomini, che sono costruttori infaticabili di idoli per divenirne adoratori: siamo consumatori di molte merci, ma prima e sopra tutto siamo consumatori di idoli.
Nel ciclo dell’alternanza del bene e del male, dopo Amon arriva Giosia, il nuovo Davide, amatissimo dalla Bibbia almeno quanto il suo avo Ezechia: «Quando divenne re, Giosia aveva otto anni; regnò trentun anni a Gerusalemme... Fece ciò che è retto agli occhi di YHWH» (2 Re 22, 1-2).
Giosia si presenta come un restauratore del tempio. Il testo descrive i lavori con parole molto simili a quelle che il capitolo 12 aveva utilizzato per i restauri del re Ioas. Di nuovo l’argento, raccolto dai "custodi della soglia" viene fuso, trasformato in monete e consegnato ai carpentieri e ai muratori. La descrizione della fabbrica del tempio si chiude con le stesse parole usate per il restauro di Ioas: «Non si controlli il denaro consegnato nelle loro mani, perché lavorano con onestà» (22, 7). -Le parole buone sull’onestà e sulla lealtà dei lavoratori non si devono mai tacere, soprattutto quando le incontriamo nella Bibbia; e soprattutto oggi, quando prima dei posti di lavoro abbiamo bisogno di parole buone sui lavoratori, di benedizioni del lavoro, senza le quali i posti di lavoro non ci sono o sono cattivi.
I lavori di restauro producono uno degli eventi più importanti della Bibbia: da quel cantiere emerge un libro: «Il sommo sacerdote Chelkia disse allo scriba Safan: "Ho trovato nel tempio di YHWH il libro della Legge (Sefer hat Torà)"» (22, 8). Un ritrovamento eccezionale. Non sappiamo quanto ci sia di storico in questa scoperta, essendo comune nella letteratura antica coeva poggiare una riforma religiosa sul ritrovamento di un testo, reale o immaginario, che diventava mito fondativo della nuova età. Si è scritto molto su questo ritrovamento. Per alcuni storici quel libro era una prima versione di quello oggi conosciuto come libro del Deuteronomio, o di quella sua parte che contiene la Legge di Mosè (Torà). Un muratore, o forse un gruppo di teologi, ritrovò nel tempio o nel mito una fondazione più antica della loro fede, su cui un gruppo di riformatori, in un tempo di corruzione religiosa fondò la sua riforma.
Non è raro che la minoranza profetica che vuole una riforma radicale basi la sua azione su qualcosa di più antico, perché in quell’antico c’è qualcosa di puro e genuino che nel tempo si è contaminato ed è decaduto. Qualche volta questo "qualcosa" è una tradizione dimenticata, alcune parole del fondatore cancellate dal tempo; altre volte è un testo, un libro, una lettera, un "vangelo" smarrito o considerato dai più apocrifo, che invece, per i riformatori, conteneva un messaggio autentico.
Nel mondo antico, inclusa la Bibbia, ciò che era più antico era anche più vero. In quella cultura c’era la convinzione che l’inizio contenesse il principio ideale, che lì vi fosse la promessa prima che arrivassero i nostri compromessi, il patto prima delle nostre infedeltà. C’era la certezza che per uscire dalla crisi del presente la principale e forse unica risorsa fosse un passato diverso, quella terra incontaminata e ancora fertile per generare futuro - «in principio non era così». Come quando, precipitati dentro un orizzonte accorciato e abbuiato, sentiamo che per ridonare nuova vita al nostro rapporto dobbiamo tornare ai giorni del primo amore, a quelle parole diverse capaci di pronunciare una speranza infinita. Capiamo che dobbiamo provare a rivedere il cuore dell’altro e il nostro come lo abbiamo conosciuto in quel primo patto, e poi fare in modo che quel passato risusciti il presente che appare morto.
Non è nostalgia, è il suo opposto: nella Bibbia si chiama memoria. In questi atti non si guarda indietro, si guarda solo avanti. Come Mosè, che dal Monte Nebo non guardava l’Egitto ma il Giordano. A volte quel testo antico lo si ritrova davvero dentro un "restauro" di un’opera, emerge come dono da un lavoro sulle fondamenta. Altre volte il libro si "crea’", nasce dall’ascolto del dolore della gente. La storia può essere "prodotta" oggi da un amore più grande, perché il libro può essere generato dalla carne e dal sangue di chi crede che quell’origine non sia persa per sempre e può risorgere. Le identità, individuali e collettive, sono sempre creazioni del presente, anche quando partono dal passato.
Il re giusto Giosia partì dal ritrovamento di un libro antico, e riformò il culto: distrusse gli altari pagani che popolavano la sua regione, eliminò dal tempio i prostituti sacri, cacciò i sacerdoti cananei, distrusse anche l’antico altare sacro di Betel (23, 4-14). Inoltre «Giosia rese impuro il Tofet, che si trovava nella valle di Ben-Innòm, perché nessuno vi facesse passare il proprio figlio o la propria figlia per il fuoco in onore di Moloc» (23, 10). Ogni buona riforma comincia non uccidendo più i bambini, smettendo di passarli per il fuoco per offrirli ai vari Moloc.
La riforma di Giosia fu un passaggio essenziale nella storia della salvezza. Perché segnò il passaggio dal tempio al libro, che divenne centro e "luogo" della fede. Un’operazione che si rivelò decisiva per il tempo dell’esilio che presto sarebbe arrivato. Israele riuscì a sopravvivere settant’anni senza tempio, perché Giosia e quella scuola di scribi e sacerdoti avevano spostato l’asse dal tempio al libro.
La Torà divenne il tempio mobile, la nuova Arca dell’alleanza che seguiva la carovana nel mondo e nel tempo, nelle mille diaspore e distruzioni. Quella distruzione di Giosia divenne la possibilità di conservare la fede dentro altre distruzioni devastanti e totali.
Colpisce in questi versetti la forza della distruzione creatrice di Giosia: «Il re comandò... di portare fuori dal tempio tutti gli oggetti fatti in onore di Baal, di Asera e di tutto l’esercito del cielo... Destituì i sacerdoti creati dai re di Giuda per offrire incenso sulle alture... e quanti offrivano incenso a Baal, al sole e alla luna, ai segni dello zodiaco e a tutto l’esercito del cielo» (23, 4-5). Senza il coraggio della distruzione non si porta a termine nessuna riforma seria, perché la corruzione consiste quasi sempre nell’accumulo - progressivo, continuo, non intenzionale - di cose, idee-ideologie-idoli, pratiche, tradizioni, che entrano poco a poco nel "tempio" della città e dell’anima; e così quel luogo nel quale all’inizio c’era "soltanto una voce", quella nudità parlante di infinito dove avevamo un giorno toccato il cielo, viene riempita di manufatti, fino a rendere impercettibile il suono della prima voce. Ma lo sgombero dei locali è molto costoso - noi e i nostri amici ci affezioniamo troppo ai manufatti sacri -, e così quasi tutte le riforme falliscono per l’incapacità di sostenere il dolore della distruzione. Perché la riforma è l’operazione di svuotamento per tornare al nudo tempio, e poi pregare e sperare che la voce torni a parlare. Non sempre la voce torna, perché il tempo delle voci è spesso quello della giovinezza; ma è preferibile un tempio vuoto e muto a un tempio pieno con voci finte, perché finché lo spazio resta disabitato possiamo sempre sperare di udire in quel silenzio una voce diversa, fosse anche la voce dell’ultimo angelo.
Importante, poi, in questo capitolo fondamentale, è l’entrata in scena di una delle profetesse nominate esplicitamente nella Bibbia: Hulda (o Culda). Giosia rimane scioccato dalle parole del libro ritrovato (quelle dove si annunciano le sventure del popolo dovute alle sue infedeltà), e vuole una prova dell’autenticità di quel libro. Nella Bibbia i "certificatori" della parola vera di YHWH erano i profeti: «Il sacerdote Chelkia, insieme con Achikàm, Acbor, Safan e Asaià, si recò dalla profetessa Culda, moglie di Sallum...; essi parlarono con lei» (22, 14).
La profetessa Hulda convalida quella parola come parola di YHWH, e profetizza che Giosia verrà risparmiato dalla distruzione di Gerusalemme. Hulda profetizza con parole molto simili a quelle di Geremia, che invece qui non viene nominato, sebbene in quel periodo (attorno al 620-622) fosse già attivo in città.
Perché viene consultata una profetessa, una donna, e per un parere di estrema importanza? Una domanda che si sono fatti in molti, già nei tempi antichi, ipotizzando qualche risposta. Non abbiamo dalla Bibbia molti altri elementi su Hulda. Da Ezechiele sappiamo dell’attività di profetesse in Gerusalemme, da lui condannate per aver «disonorato YHWH» (Ez 13, 19). Secondo alcuni studiosi è possibile che in quel tempo difficile del pre-esilio e poi dell’esilio vi fosse un conflitto tra profeti, e Hulda fosse stata esclusa dalla narrazione ufficiale in quanto sconfitta da profeti più potenti e famosi. -Secondo un recente e controverso studio di Preston Kavanagh (Huldah: The Prophet Who Wrote Hebrew Scripture, 2012), Hulda fu invece una figura fondamentale nella Bibbia (addirittura scrisse o influenzò un terzo delle scritture ebraiche). Il suo nome, anagrammato, comparirebbe 1.773 volte nella Bibbia, poiché, secondo Kavanagh, gli «scrittori biblici usavano l’anagramma come gli scrittori moderni usano il corsivo per sottolineare un punto» (p.12). Una tesi estrema, difficilmente difendibile (es: i nomi biblici che nella Bibbia si possono formare come anagramma di Huldah sono molti), che comunque ci ricorda l’importanza delle profetesse e delle donne nell’umanesimo biblico; un’importanza che fu maggiore di quello, già notevole, che la Bibbia attesta. Perché tutti sappiamo che c’è una grande affinità tra donna e profezia.
Hulda in ebraico significa donnola (o martora), nome che, secondo il Talmud, si meritò per avere osato chiamare il re semplicemente "uomo" («Dì all’uomo che ti ha mandato a me»; 22, 15).
Le profetesse riescono a chiamare i re per nome. Le donne, più dei maschi, sanno che i potenti sono uomini, come tutti. Lo ricordano a loro, lo ricordano a noi, a partire dalle mure domestiche. È questo un dono immenso per i potenti e per tutti. Dono delle donne, dono delle profetesse, dono della profezia. Senza profezia i capi fanno i re sempre e ovunque. Non sperimentano mai la reciprocità tra uguali, quindi non conoscono la felicità. Vivono tristi nella loro solitudine dorata, circondati da adulatori e ruffiani. E alla lunga, non riuscendo a essere uomini come tutti, diventano disumani. Anche per questo la profezia è risorsa essenziale della terra.
VERSO "BARI 2020" E "NICEA 2025": MESSAGGIO EVANGELICO, FILOLOGIA, ED ECUMENISMO. Quale "carità" (Kapitas o Xapitas, caritas o charitas)?! *
Nicola. Protettore del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 6 dicembre 2018)
La carità è il "miracolo" più grande che nasce dalla fede: prendersi cura degli ultimi, del prossimo in genere, oggi è il messaggio più profetico e rivoluzionario che ci lascia san Nicola. Nato tra il 250 e il 260 a Patara, nella Licia, divenne vescovo di Mira in un tempo di persecuzione e dovette affrontare anche la prigionia: si salvò grazie alla libertà di culto concessa dall’Editto di Costantino nel 313.
Difensore dell’ortodossia, forse partecipò al Concilio di Nicea nel 325. La tradizione gli attribuisce un’attenzione particolare nei confronti dei bisognosi, come le due giovani ragazze che poterono sposarsi solo grazie al dono da parte del vescovo di una dote. Morto attorno all’anno 335, nel 1087 le sue reliquie arrivarono a Bari, dove è venerato come patrono e considerato un protettore anche del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente.
Altri santi. Santa Asella di Roma, vergine (IV sec.); san Pietro Pascasio, vescovo e martire (1227-1300).
Letture. Is 26,1-6; Sal 117; Mt 7,21.24-27.
Ambrosiano. Ger 7,1-11; Sal 106; Zc 8,10-17; Mt 16,1-12.
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Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Commenti a Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano (Fondazione Terra d’Otranto).
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL.
Federico La Sala
LETTERA APOSTOLICA
Admirabile signum
DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
SUL SIGNIFICATO E IL VALORE DEL PRESEPE *
1. Il mirabile segno del presepe, così caro al popolo cristiano, suscita sempre stupore e meraviglia. Rappresentare l’evento della nascita di Gesù equivale ad annunciare il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio con semplicità e gioia. Il presepe, infatti, è come un Vangelo vivo, che trabocca dalle pagine della Sacra Scrittura. Mentre contempliamo la scena del Natale, siamo invitati a metterci spiritualmente in cammino, attratti dall’umiltà di Colui che si è fatto uomo per incontrare ogni uomo. E scopriamo che Egli ci ama a tal punto da unirsi a noi, perché anche noi possiamo unirci a Lui.
Con questa Lettera vorrei sostenere la bella tradizione delle nostre famiglie, che nei giorni precedenti il Natale preparano il presepe. Come pure la consuetudine di allestirlo nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri, nelle piazze... È davvero un esercizio di fantasia creativa, che impiega i materiali più disparati per dare vita a piccoli capolavori di bellezza. Si impara da bambini: quando papà e mamma, insieme ai nonni, trasmettono questa gioiosa abitudine, che racchiude in sé una ricca spiritualità popolare. Mi auguro che questa pratica non venga mai meno; anzi, spero che, là dove fosse caduta in disuso, possa essere riscoperta e rivitalizzata.
2. L’origine del presepe trova riscontro anzitutto in alcuni dettagli evangelici della nascita di Gesù a Betlemme. L’Evangelista Luca dice semplicemente che Maria «diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (2,7). Gesù viene deposto in una mangiatoia, che in latino si dice praesepium, da cui presepe.
Entrando in questo mondo, il Figlio di Dio trova posto dove gli animali vanno a mangiare. Il fieno diventa il primo giaciglio per Colui che si rivelerà come «il pane disceso dal cielo» (Gv 6,41). Una simbologia che già Sant’Agostino, insieme ad altri Padri, aveva colto quando scriveva: «Adagiato in una mangiatoia, divenne nostro cibo» (Serm. 189,4). In realtà, il presepe contiene diversi misteri della vita di Gesù e li fa sentire vicini alla nostra vita quotidiana.
Ma veniamo subito all’origine del presepe come noi lo intendiamo. Ci rechiamo con la mente a Greccio, nella Valle Reatina, dove San Francesco si fermò venendo probabilmente da Roma, dove il 29 novembre 1223 aveva ricevuto dal Papa Onorio III la conferma della sua Regola. Dopo il suo viaggio in Terra Santa, quelle grotte gli ricordavano in modo particolare il paesaggio di Betlemme. Ed è possibile che il Poverello fosse rimasto colpito, a Roma, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, dai mosaici con la rappresentazione della nascita di Gesù, proprio accanto al luogo dove si conservavano, secondo un’antica tradizione, le tavole della mangiatoia.
Le Fonti Francescane raccontano nei particolari cosa avvenne a Greccio. Quindici giorni prima di Natale, Francesco chiamò un uomo del posto, di nome Giovanni, e lo pregò di aiutarlo nell’attuare un desiderio: «Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello».[1] Appena l’ebbe ascoltato, il fedele amico andò subito ad approntare sul luogo designato tutto il necessario, secondo il desiderio del Santo. Il 25 dicembre giunsero a Greccio molti frati da varie parti e arrivarono anche uomini e donne dai casolari della zona, portando fiori e fiaccole per illuminare quella santa notte. Arrivato Francesco, trovò la greppia con il fieno, il bue e l’asinello. -La gente accorsa manifestò una gioia indicibile, mai assaporata prima, davanti alla scena del Natale. Poi il sacerdote, sulla mangiatoia, celebrò solennemente l’Eucaristia, mostrando il legame tra l’Incarnazione del Figlio di Dio e l’Eucaristia. In quella circostanza, a Greccio, non c’erano statuine: il presepe fu realizzato e vissuto da quanti erano presenti.[2]
È così che nasce la nostra tradizione: tutti attorno alla grotta e ricolmi di gioia, senza più alcuna distanza tra l’evento che si compie e quanti diventano partecipi del mistero.
Il primo biografo di San Francesco, Tommaso da Celano, ricorda che quella notte, alla scena semplice e toccante s’aggiunse anche il dono di una visione meravigliosa: uno dei presenti vide giacere nella mangiatoia Gesù Bambino stesso. Da quel presepe del Natale 1223, «ciascuno se ne tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia».[3]
3. San Francesco, con la semplicità di quel segno, realizzò una grande opera di evangelizzazione. Il suo insegnamento è penetrato nel cuore dei cristiani e permane fino ai nostri giorni come una genuina forma per riproporre la bellezza della nostra fede con semplicità. D’altronde, il luogo stesso dove si realizzò il primo presepe esprime e suscita questi sentimenti. Greccio diventa un rifugio per l’anima che si nasconde sulla roccia per lasciarsi avvolgere nel silenzio.
Perché il presepe suscita tanto stupore e ci commuove? Anzitutto perché manifesta la tenerezza di Dio. Lui, il Creatore dell’universo, si abbassa alla nostra piccolezza. Il dono della vita, già misterioso ogni volta per noi, ci affascina ancora di più vedendo che Colui che è nato da Maria è la fonte e il sostegno di ogni vita. In Gesù, il Padre ci ha dato un fratello che viene a cercarci quando siamo disorientati e perdiamo la direzione; un amico fedele che ci sta sempre vicino; ci ha dato il suo Figlio che ci perdona e ci risolleva dal peccato.
Comporre il presepe nelle nostre case ci aiuta a rivivere la storia che si è vissuta a Betlemme. Naturalmente, i Vangeli rimangono sempre la fonte che permette di conoscere e meditare quell’Avvenimento; tuttavia, la sua rappresentazione nel presepe aiuta ad immaginare le scene, stimola gli affetti, invita a sentirsi coinvolti nella storia della salvezza, contemporanei dell’evento che è vivo e attuale nei più diversi contesti storici e culturali.
In modo particolare, fin dall’origine francescana il presepe è un invito a “sentire”, a “toccare” la povertà che il Figlio di Dio ha scelto per sé nella sua Incarnazione. E così, implicitamente, è un appello a seguirlo sulla via dell’umiltà, della povertà, della spogliazione, che dalla mangiatoia di Betlemme conduce alla Croce. È un appello a incontrarlo e servirlo con misericordia nei fratelli e nelle sorelle più bisognosi (cfr Mt 25,31-46).
4. Mi piace ora passare in rassegna i vari segni del presepe per cogliere il senso che portano in sé. In primo luogo, rappresentiamo il contesto del cielo stellato nel buio e nel silenzio della notte. Non è solo per fedeltà ai racconti evangelici che lo facciamo così, ma anche per il significato che possiede. Pensiamo a quante volte la notte circonda la nostra vita. -Ebbene, anche in quei momenti, Dio non ci lascia soli, ma si fa presente per rispondere alle domande decisive che riguardano il senso della nostra esistenza: chi sono io? Da dove vengo? Perché sono nato in questo tempo? Perché amo? Perché soffro? Perché morirò? Per dare una risposta a questi interrogativi Dio si è fatto uomo. La sua vicinanza porta luce dove c’è il buio e rischiara quanti attraversano le tenebre della sofferenza (cfr Lc 1,79).
Una parola meritano anche i paesaggi che fanno parte del presepe e che spesso rappresentano le rovine di case e palazzi antichi, che in alcuni casi sostituiscono la grotta di Betlemme e diventano l’abitazione della Santa Famiglia. Queste rovine sembra che si ispirino alla Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varazze (secolo XIII), dove si legge di una credenza pagana secondo cui il tempio della Pace a Roma sarebbe crollato quando una Vergine avesse partorito. Quelle rovine sono soprattutto il segno visibile dell’umanità decaduta, di tutto ciò che va in rovina, che è corrotto e intristito. Questo scenario dice che Gesù è la novità in mezzo a un mondo vecchio, ed è venuto a guarire e ricostruire, a riportare la nostra vita e il mondo al loro splendore originario.
5. Quanta emozione dovrebbe accompagnarci mentre collochiamo nel presepe le montagne, i ruscelli, le pecore e i pastori! In questo modo ricordiamo, come avevano preannunciato i profeti, che tutto il creato partecipa alla festa della venuta del Messia. Gli angeli e la stella cometa sono il segno che noi pure siamo chiamati a metterci in cammino per raggiungere la grotta e adorare il Signore.
«Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» (Lc 2,15): così dicono i pastori dopo l’annuncio fatto dagli angeli. È un insegnamento molto bello che ci proviene nella semplicità della descrizione. -A differenza di tanta gente intenta a fare mille altre cose, i pastori diventano i primi testimoni dell’essenziale, cioè della salvezza che viene donata. Sono i più umili e i più poveri che sanno accogliere l’avvenimento dell’Incarnazione. A Dio che ci viene incontro nel Bambino Gesù, i pastori rispondono mettendosi in cammino verso di Lui, per un incontro di amore e di grato stupore. È proprio questo incontro tra Dio e i suoi figli, grazie a Gesù, a dar vita alla nostra religione, a costituire la sua singolare bellezza, che traspare in modo particolare nel presepe.
6. Nei nostri presepi siamo soliti mettere tante statuine simboliche. Anzitutto, quelle di mendicanti e di gente che non conosce altra abbondanza se non quella del cuore. Anche loro stanno vicine a Gesù Bambino a pieno titolo, senza che nessuno possa sfrattarle o allontanarle da una culla talmente improvvisata che i poveri attorno ad essa non stonano affatto. I poveri, anzi, sono i privilegiati di questo mistero e, spesso, coloro che maggiormente riescono a riconoscere la presenza di Dio in mezzo a noi.
I poveri e i semplici nel presepe ricordano che Dio si fa uomo per quelli che più sentono il bisogno del suo amore e chiedono la sua vicinanza. Gesù, «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), è nato povero, ha condotto una vita semplice per insegnarci a cogliere l’essenziale e vivere di esso. Dal presepe emerge chiaro il messaggio che non possiamo lasciarci illudere dalla ricchezza e da tante proposte effimere di felicità. Il palazzo di Erode è sullo sfondo, chiuso, sordo all’annuncio di gioia. -Nascendo nel presepe, Dio stesso inizia l’unica vera rivoluzione che dà speranza e dignità ai diseredati, agli emarginati: la rivoluzione dell’amore, la rivoluzione della tenerezza. Dal presepe, Gesù proclama, con mite potenza, l’appello alla condivisione con gli ultimi quale strada verso un mondo più umano e fraterno, dove nessuno sia escluso ed emarginato.
Spesso i bambini - ma anche gli adulti! - amano aggiungere al presepe altre statuine che sembrano non avere alcuna relazione con i racconti evangelici. Eppure, questa immaginazione intende esprimere che in questo nuovo mondo inaugurato da Gesù c’è spazio per tutto ciò che è umano e per ogni creatura. Dal pastore al fabbro, dal fornaio ai musicisti, dalle donne che portano le brocche d’acqua ai bambini che giocano...: tutto ciò rappresenta la santità quotidiana, la gioia di fare in modo straordinario le cose di tutti i giorni, quando Gesù condivide con noi la sua vita divina.
7. Poco alla volta il presepe ci conduce alla grotta, dove troviamo le statuine di Maria e di Giuseppe. Maria è una mamma che contempla il suo bambino e lo mostra a quanti vengono a visitarlo. La sua statuetta fa pensare al grande mistero che ha coinvolto questa ragazza quando Dio ha bussato alla porta del suo cuore immacolato. All’annuncio dell’angelo che le chiedeva di diventare la madre di Dio, Maria rispose con obbedienza piena e totale. Le sue parole: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38), sono per tutti noi la testimonianza di come abbandonarsi nella fede alla volontà di Dio. Con quel “sì” Maria diventava madre del Figlio di Dio senza perdere, anzi consacrando grazie a Lui la sua verginità. Vediamo in lei la Madre di Dio che non tiene il suo Figlio solo per sé, ma a tutti chiede di obbedire alla sua parola e metterla in pratica (cfr Gv 2,5).
Accanto a Maria, in atteggiamento di proteggere il Bambino e la sua mamma, c’è San Giuseppe. In genere è raffigurato con il bastone in mano, e a volte anche mentre regge una lampada. San Giuseppe svolge un ruolo molto importante nella vita di Gesù e di Maria. Lui è il custode che non si stanca mai di proteggere la sua famiglia. Quando Dio lo avvertirà della minaccia di Erode, non esiterà a mettersi in viaggio ed emigrare in Egitto (cfr Mt 2,13-15). E una volta passato il pericolo, riporterà la famiglia a Nazareth, dove sarà il primo educatore di Gesù fanciullo e adolescente. Giuseppe portava nel cuore il grande mistero che avvolgeva Gesù e Maria sua sposa, e da uomo giusto si è sempre affidato alla volontà di Dio e l’ha messa in pratica.
8. Il cuore del presepe comincia a palpitare quando, a Natale, vi deponiamo la statuina di Gesù Bambino. Dio si presenta così, in un bambino, per farsi accogliere tra le nostre braccia. Nella debolezza e nella fragilità nasconde la sua potenza che tutto crea e trasforma. Sembra impossibile, eppure è così: in Gesù Dio è stato bambino e in questa condizione ha voluto rivelare la grandezza del suo amore, che si manifesta in un sorriso e nel tendere le sue mani verso chiunque.
La nascita di un bambino suscita gioia e stupore, perché pone dinanzi al grande mistero della vita. Vedendo brillare gli occhi dei giovani sposi davanti al loro figlio appena nato, comprendiamo i sentimenti di Maria e Giuseppe che guardando il bambino Gesù percepivano la presenza di Dio nella loro vita.
«La vita infatti si manifestò» (1 Gv 1,2): così l’apostolo Giovanni riassume il mistero dell’Incarnazione. Il presepe ci fa vedere, ci fa toccare questo evento unico e straordinario che ha cambiato il corso della storia, e a partire dal quale anche si ordina la numerazione degli anni, prima e dopo la nascita di Cristo.
Il modo di agire di Dio quasi tramortisce, perché sembra impossibile che Egli rinunci alla sua gloria per farsi uomo come noi. -Che sorpresa vedere Dio che assume i nostri stessi comportamenti: dorme, prende il latte dalla mamma, piange e gioca come tutti i bambini! Come sempre, Dio sconcerta, è imprevedibile, continuamente fuori dai nostri schemi. Dunque il presepe, mentre ci mostra Dio così come è entrato nel mondo, ci provoca a pensare alla nostra vita inserita in quella di Dio; invita a diventare suoi discepoli se si vuole raggiungere il senso ultimo della vita.
9. Quando si avvicina la festa dell’Epifania, si collocano nel presepe le tre statuine dei Re Magi. Osservando la stella, quei saggi e ricchi signori dell’Oriente si erano messi in cammino verso Betlemme per conoscere Gesù, e offrirgli in dono oro, incenso e mirra. Anche questi regali hanno un significato allegorico: l’oro onora la regalità di Gesù; l’incenso la sua divinità; la mirra la sua santa umanità che conoscerà la morte e la sepoltura.
Guardando questa scena nel presepe siamo chiamati a riflettere sulla responsabilità che ogni cristiano ha di essere evangelizzatore. Ognuno di noi si fa portatore della Bella Notizia presso quanti incontra, testimoniando la gioia di aver incontrato Gesù e il suo amore con concrete azioni di misericordia.
I Magi insegnano che si può partire da molto lontano per raggiungere Cristo. Sono uomini ricchi, stranieri sapienti, assetati d’infinito, che partono per un lungo e pericoloso viaggio che li porta fino a Betlemme (cfr Mt 2,1-12). Davanti al Re Bambino li pervade una gioia grande. Non si lasciano scandalizzare dalla povertà dell’ambiente; non esitano a mettersi in ginocchio e ad adorarlo. Davanti a Lui comprendono che Dio, come regola con sovrana sapienza il corso degli astri, così guida il corso della storia, abbassando i potenti ed esaltando gli umili. E certamente, tornati nel loro Paese, avranno raccontato questo incontro sorprendente con il Messia, inaugurando il viaggio del Vangelo tra le genti.
10. Davanti al presepe, la mente va volentieri a quando si era bambini e con impazienza si aspettava il tempo per iniziare a costruirlo. Questi ricordi ci inducono a prendere sempre nuovamente coscienza del grande dono che ci è stato fatto trasmettendoci la fede; e al tempo stesso ci fanno sentire il dovere e la gioia di partecipare ai figli e ai nipoti la stessa esperienza. Non è importante come si allestisce il presepe, può essere sempre uguale o modificarsi ogni anno; ciò che conta, è che esso parli alla nostra vita. Dovunque e in qualsiasi forma, il presepe racconta l’amore di Dio, il Dio che si è fatto bambino per dirci quanto è vicino ad ogni essere umano, in qualunque condizione si trovi.
Cari fratelli e sorelle, il presepe fa parte del dolce ed esigente processo di trasmissione della fede. A partire dall’infanzia e poi in ogni età della vita, ci educa a contemplare Gesù, a sentire l’amore di Dio per noi, a sentire e credere che Dio è con noi e noi siamo con Lui, tutti figli e fratelli grazie a quel Bambino Figlio di Dio e della Vergine Maria. E a sentire che in questo sta la felicità. Alla scuola di San Francesco, apriamo il cuore a questa grazia semplice, lasciamo che dallo stupore nasca una preghiera umile: il nostro “grazie” a Dio che ha voluto condividere con noi tutto per non lasciarci mai soli.
Dato a Greccio, nel Santuario del Presepe, 1° dicembre 2019, settimo del pontificato.
FRANCESCO
* Fonte: Lettera apostolica. Papa Francesco a Greccio: ecco il vero significato del presepe di Mimmo Muolo, Avvenire, 30.11.2019 (ripresa parziale).
Scienza. La Luna vista da Leonardo
Pochi hanno messo in connessione i 50 anni dell’Apollo 11 con i 500 anni del genio da Vinci che tra i primi studiò e disegnò il fenomeno della ’luce cinerea’
di Flavia Marcacci (Avvenire, martedì 19 novembre 2019)
Signora dell’anno 2019 è la Luna: si celebrano i 50 anni della conquista del suo suolo. Eventi e pubblicazioni si stanno succedendo rapidamente, ricordando quanto avvenne in quel frenetico 1969, che tra la protesta di Jan Palach e la nascita del progenitore di Internet Arpanet fu fitto di molti fatti decisivi per la grande e piccola storia. Eppure, il 20 luglio i passi silenziosi di Neil Armstrong e Buzz Aldrin sulla Luna ebbero il potere di fermare ogni altro vocio e ogni altra preoccupazione.
Il potere di vedere (video) a distanza (tele) promesso dallo strumento che stava cambiando la società, la televisione, giungeva a un impensabile lontano: la potenza della tecnica veniva consacrata, quasi riscattando i timori che era andata suscitando dopo l’esperienza atomica.
La nostra Terra deve molto alla Luna, e non a caso essa è stata nei secoli un oggetto privilegiato per la scienza, la filosofia e l’arte. Il nostro satellite è stato il più vicino tra gli oggetti lontanissimi, la porta d’accesso al cielo deputato invalicabile e tramite esso finalmente accessibile. La luna fu scrutata da Leonardo da Vinci (1452-1519), altro protagonista del 2019, poiché del genio toscano ricorrono i 500 anni dalla morte. Pochi hanno notato la convergenza tra le due ricorrenze.
Leonardo aveva disegnato il satellite terrestre, dando nota del fenomeno della ’luce cinerea’ nel Codice Leicester (foglio 2 r), come ricordava fin dagli anni Settanta il noto studioso Carlo Pedretti (1928-2018). Il fenomeno si osserva tra novilunio e prima fase e nell’ultima fase: può capitare così che la luce del Sole venga riflessa dalla Terra e vada a illuminare una piccola porzione in ombra del satellite, in modo da renderlo visibile anche all’alba. Per lo stesso fenomeno, Armstrong e Aldrin dalla Luna avrebbero potuto osservare un bel ’chiaro di Terra’, con il nostro pianeta stabile nel cielo lunare (altezza in dipendenza dalla latitudine).
A completare la spiegazione della luce cinerea fu Galileo Galilei, chiamandola anche «candore lunare» a intendere le sfumature grigiastre, talvolta tendenti al verde o all’azzurro e capaci di conferire una leggerezza impercettibile al corpo celeste. Il Pisano diede alla Luna l’altro grande merito di segnare l’inizio dell’astronomia in senso moderno (ovvero usando strumenti), quando con il ’perspicillo’ (il telescopio, da perspicio, guardare in profondità) ne scoprì cavità e valli nel 1609 poi riprodotte nei famosi disegni pubblicati nel Sidereus nuncius (1610): da allora in poi, la scienza non sarebbe più tornata indietro.
Si avviò così la pratica di descrivere la Luna: la selenografia vantò tra i suoi adepti molti italiani, che raramente trovano un posto nelle storie italiane della scienza destinate al grande pubblico. Solo dopo Galileo il noto gesuita Cristoph Scheiner, docente a Roma tra il 1624 e il 1633, propose una delle prime mappe lunari (1614); dopo di lui fu la volta del confratello Giuseppe Biancani (1620).
Furono però soprattutto il bolognese Francesco Maria Grimaldi e il ferrarese Giovanni Battista Riccioli, entrambi ancora gesuiti, ad avere il merito di produrre gran parte della nomenclatura lunare che usiamo tutt’oggi. Il loro lavoro fu pubblicato nell’Almagestum novum ( 1651) e si dice che fu merito essenzialmente di Grimaldi, il quale compì la maggior parte delle osservazioni. I diritti d’autore sono però difficili da stabilire, essendo i due strettissimi collaboratori e Grimaldi una sorta di allievo di Riccioli. Ciò che conta è che sul suolo lunare essi impressero nomi celebri, molti dei quali già adoperati poco tempo prima dagli astronomi Michael F. van Langren e Johannes Hevelius (Jan Heweliusz): i due studiosi italiani ripresero le prime nomenclature per renderle più sistematiche e razionali. I crateri, le terre e i mari lunari furono battezzati con il nome di personaggi antichi, nell’emisfero nord, e moderni, nell’emisfero sud.
Per questo motivo oggi sulle mappe lunari troviamo memoria di astronomi (da Tolomeo e Ipparco a Copernico e Biancani), di santi e sante (da san Teofilo e san Cirillo a santa Caterina da Siena), di filosofi (da Anassimandro a Platone).
Guardare alla luna, però, non era utile solo per descriverla. Si cercava di comprendere la natura dei cieli (cf. La Lune aux XVIIe et XVIIIe siècles, edited by C. Grell and S. Taussig, Brepols, Turnhout, 2013). Nel Seicento alcuni pensavano, ad esempio, che il termine ’luna’ derivasse da lucuna (lux, luce e una, una) a intendere che la Luna fosse l’unica a essere sempre illuminata dal Sole. La Luna aveva anche un ruolo sociale rilevante, perché i suoi ritmi mensili andavano calcolati insieme a quelli del Sole per ottenere il calendario: fu proprio la sfasatura tra essi che portò alla grande riforma di papa Gregorio XIII.
Oltre alla cosmologia e alla scienza calendrica, il satellite della Terra stimolava anche il mito e la poesia. Gli appellativi del nostro satellite erano così tanti che è difficile elencarli: dal greco Selene a indicarne lo splendore, all’ebraico Lebana a richiamarne la bianchezza; da Artemide, Selene ed Ecate, dee che custodivano il grembo del corpo celeste nelle sue varie fasi, fino alla dea ’triforme’ citata da Cleomede e Virgilio.
La Luna non andava soltanto descritta, ma scritta. La ricchezza delle fantasie lunari di Luciano di Samosata (II sec. d.C.) ebbe una certa fortuna in epoca rinascimentale, probabilmente avvantaggiata dalla diffusione del fascino per i mirabilia e i fatti immaginati e prodigiosi: l’Icaromenippo proponeva il viaggio di Menippo sulla Luna, per giungere da lì fino alla casa degli dei. Su tutti non si può evitare di pensare all’Astolfo sulla Luna di Ludovico Ariosto, fino alle ipotesi di John Wilkins protese all’eventualità di abitanti sulla Luna (The discovery of a world in the moone, 1638).
La Luna era in grado di evocare fantasie, sentimenti ed emozioni, attingendo da ciò che nell’essere umano vi è di più profondo. Probabilmente ne tennero conto coloro che volevano solo descriverla fino a intravedere sul suo suolo i luoghi esistenziali della crisi, della siccità, della tranquillità, della serenità e della fecondità. Per questo nelle sue regioni si trovano la ’Terra della sterilità’ e la ’Terra della Vita’, il ’Mare della Crisi’ e il ’Mare della Tranquillità’.
Dai tempi di Leonardo e della selenografia torniamo così ai nostri tempi. Proprio il Mare della Tranquillità divenne famoso cinquant’anni fa, quando allunarono nei suoi pressi gli uomini della Missione Apollo 11. La Luna, lontana, scrutata, sognata era stata raggiunta. Il satellite forniva all’umanità l’ennesimo servizio, facendosi solcare da da orme umane sui luoghi della Tranquillità, forse proprio quelli a cui ambisce più profondamente ogni anima e dove la scienza dovrebbe contribuire ad avvicinarsi.
Ildegarda di Bingen, la «Sibilla del Reno».... *
ll disco e il tour.
Branduardi in cammino con l’anima di Ildegarda
Da stasera il nuovo, coraggioso lavoro. E a febbraio festeggerà i 70 anni con una trilogia in vinile (da Futuro Antico a Francesco a Ildegarda) e un mega-concerto
di Massimo Iondini (Avvenire, sabato 16 novembre 2019)
Dall’etere al palcoscenico. Ildegarda di Bingen tocca terra e dal disco con cui Angelo Branduardi l’ha riportata a vibrare e a far vibrare le anime, la monaca, mistica, santa, musicista, scrittrice e molto altro da stasera prenderà anche forma. Quella sua musica orizzontale (ai tempi non esisteva l’armonia) ma verticale nella portata spirituale e nel suo ascendere verso le vette della contemplazione, proverà infatti a sfidare con la verticalità dell’armonizzazione che ne ha fatto Branduardi l’orizzontalità di questi nostri tempi assuefatti al disincanto. Dopo la data zero di giovedì a Castelraimondo, nel Maceratese, stasera ci sarà il debutto ufficiale in tour di questo nuovo coraggioso album di Branduardi al Teatro Galleria di Legnano. -Diviso idealmente in due parti, il concerto si aprirà proprio con i brani de Il cammino dell’anima. Con lui sul palco, uniti ad Angelo anche nei cori, Fabio Valdemarin (tastiere e chitarra), Antonello D’Urso (chitarre), Stefano Olivato (basso e contrabbasso elettrico, chitarra, armonica) e Davide Ragazzoni (batteria e percussioni). «Essendo una suite - spiega Branduardi - ci sono molti complessi agganci tra un pezzo e l’altro. Essermi immerso nel mondo spirituale e musicale di Ildegarda è stato tanto faticosa quanto profondamente appagante. Incredibile, ma vero, questo disco di musica sacra si sta rivelando un successo simile a quello su san Francesco. Forse significa che c’è un grande bisogno di alzare lo sguardo».
Ildegarda definì “Sinfonia” il ciclo lirico delle sue opere composte nel XII secolo. Per lei l’anima è infatti “sinfonica” e trova la sua espressione nell’accordo segreto di spirito e corpo sublimati nell’atto musicale, nell’armonia prodotta dal suono degli strumenti e dalla voce umana, nell’armonia celeste e nell’accordo misterioso che viene dall’anima. Tradotti dal latino e rielaborati da Luisa Zappa (moglie di Branduardi e sua storica sodale artistica in veste di paroliera) i testi e le musiche sono tratti dall’opera Ordo Virtutum, dramma liturgico di Ildegarda in cui le personificazioni delle Virtù seguono trepidanti i passi incerti dell’Anima tentata dal Demonio.
Colpisce ascoltare Branduardi impersonare Satana tentatore con una suadente e nel contempo minacciosa voce (resa grave e cavernosa) mentre avverte le Virtù: «Non avete nulla da dare a chi vi segue, voi tutte non sapete nemmeno chi siete, voi non siete niente! E tu, anima, chi sei, da dove vieni? Tu eri avvinghiata ed io con me ti ho sollevata. Ora sono adirato per il tuo tradimento, ma combatterò e di nuovo ti avrò!» Ecco, dunque, il cammino dell’anima. Tra atmosfere cupe e a tratti radiose. A cui Branduardi conferisce ritmo da danza.
«Ci si potrebbe chiedere cosa c’entra la danza, ma nell’anno mille durante le cerimonie si danzava. E Ildegarda ha proprio scritto alcune danze per le monache che rappresentavano la sua opera, assolutamente originale e moderna». «Fuggi, fuggi, il passo del serpente è dietro di te!» avvertono in coro le Virtù mentre il ritmo incalza e si preannuncia la parte musicalmente più stupefacente e melodiosa dell’opera di Ildegarda. «Io non sono un teologo - dice Branduardi spiegando la parte finale dell’opera che si conculde con i brani L’estasi - La Donna e L’estasi il Figlio -, ho solo seguito esattamente il percorso spirituale di Ildegarda che sfocia in due meravigliose Ave Maria che sono da brivido. Ma ancor più è il testo in cui si rivolge alla Madonna definendola “generosa”: questo è genio puro, poesia alla potenza ennesima». A Branduardi, invece, il merito e il coraggio di questo ulteriore cammino. Anche verso i suoi 70 anni che festeggerà il 12 febbraio. Ci sarà un concerto pubblico e uscirà la trilogia in vinile che partendo da Futuro Antico, attraverso L’Infinitamente piccolo su San Francesco arriva a Ildegarda di Bingen.
ANGELO BRANDUARDI /
L’intervista: “Io, Ildegarda e Franco Battiato”
Angelo Branduardi pubblica un disco interamente dedicato all “sinfonie” della monaca benedettina dell’anno Mille Santa Ildegarda, Il cammino dell’anima
di Paolo Vites (Il Sussidiario, 29.09.2019)
La birra che magari state bevendo mentre leggete queste righe non esisterebbe se una donna dell’anno Mille, il profondo Medioevo, quello che a tanti studiosi piace definire “epoca buia”, non avesse pensato di aggiungere il luppolo in quel miscuglio di spezie che era fino ad allora quella bevanda. Ma è la cosa più banale che Ildegarda di Bingen (1098-1179) ha fatto tra le tantissime.
Scrittrice, drammaturga, poetessa, musicista, filosofa, linguista, naturalista e soprattutto la prima donna a cui papi e imperatori permisero di parlare in pubblico, chiedendole anche di far loro da consigliere politico. Per questo la futura santa, dichiarata dottore della Chiesa nel 2012, negli anni 70 era diventata il simbolo di molte femministe. Non male per una persona che viveva nel “periodo buio”, che forse così buio non fu.
A lei Angelo Branduardi ha dedicato il suo nuovo disco, il primo dopo sei anni di silenzio, che idealmente entra a far parte della sua trilogia “spirituale”, cominciata con le musiche dei nativi americani, proseguita con San Francesco e che qui trova l’aspetto più fortemente musicale: “Ildegarda era un genio musicale” ci ha detto in questa intervista “avanti dal punto di vista tecnico e compositivo di almeno 300 anni”.
Monaca benedettina, mistica e profetessa, cosmologa, guaritrice, è probabilmente la prima donna musicista e compositrice nella storia cristiana: “E dato che a volte, ascoltando una melodia, un essere umano spesso sospira, e geme, circondandosi della natura dell’armonia celeste, il profeta Davide, considerando sottilmente la profonda natura dello spirito, e sapendo che l’anima dell’uomo è sinfonica (Symphonialis) ci esorta nel suo salmo a proclamare il Signore sul liuto e a suonare per lui sulla cetra a dieci corde” scrisse.
In uscita il prossimo 4 ottobre,”Il cammino dell’anima” di Angelo Branduardi è un disco fascinoso e misterioso, in cui il musicista insieme alla moglie Luisa Zappa che si è occupata della parte testuale, ha saputo rendere moderna e attuale la lezione di questa donna straordinaria.
Un disco musicalmente ricchissimo. Da sempre sei definito “musicista colto”: è una etichetta che ti fa piacere o ti infastidisce?
Io sono un musicista colto poi motivi inerenti al destino e alla vita in cui mi sono detto “voglio fare qualcosa di mio” mi hanno fatto allontanare dalla carriera classica. Non mi ritengo colto e classico, so di esserlo, sono diplomato al violino al conservatorio, però operazioni come questo disco le definirei cross over, termine strabusato, perché non è musica classica, non è musica leggera, forse è più musica sacra.
Non è la prima volta che che ti approcci alla musica sacra. La musica è nata con la religione, hai detto una volta. In un disco come questo un credente troverà tante cose, ma c’è un aspetto che unisce i credenti e i non credenti, un aspetto superiore per entrambi, che è la musica stessa, come la definisce Ildegarda: “un accordo segreto tra corpo e anima, l’armonia prodotta dal suono degli strumenti e dalla voce umana, nell’armonia celeste e nell’accordo misterioso che viene dal profondo del nostro io”. Sei d’accordo?
Assolutamente, musica come visione. Anche la cosiddetta musica leggera se fatta con il cuore esprime una visione. Come dice il mio amico Ennio Morricone, la musica essendo l’arte più astratta, è la più vicina all’assoluto. E’ una cosa che mi ha segnato sin da quando ero bambino. Che la musica fosse spirito me lo dicevano quando avevo 5 anni. E se guardo indietro già dall’inizio della mia carriera ci sono evidenti riferimenti alla spiritualità. C’è uno solo che mi assomiglia tra i miei colleghi, ed è Franco Battiato.
Come ti sei imbattuto nella figura di questa donna così affascinante?
La definirei una marziana. E’ difficile pensare a una figura umana in una epoca storica come quella che scrive una quantità di musica incredibile, aveva visioni che sapeva trascrivere, che fu inventrice della birra, idolo delle femministe degli anni 70. Nè io e né mia moglie Luisa possiamo dire di essere degli esperti della sua figura, ma quando ne ho sentito parlare abbiamo approfondito rimanendo senza parole.
Come hai scelto il repertorio da musicare?
Ho scelto a mio gusto e piacere. Ci sono cose che ho arrangiato con musica verticale o orizzontale, armonizzazioni, un po’ di ritmiche, ho cercato di fare qualcosa di accessibile, come feci con San Francesco.
Come si può definire la musica di Ildegarda paragonata a quella della sua epoca?
E’ avanti di 300 anni. Direi anche di più, ha anticipato i trovatori, la musica verticale, le progressioni che lei anche se in modo nascosto, sapeva già fare.
La parte musicale del disco è ricchissima, c’è anche il Coro della Basilica Ortodossa di Mosca. Come mai hai usato proprio quel coro?
Perché nessuno trovava un inizio, nemmeno io. Poi mi è venuta in mente la musica ortodossa i cui cori sono bellissimi. Li ho rallentati tantissimo e ci ho suonato sopra, per cui ne è uscita una strana commistione di elettronica e coro vero, che è il coro più grande di tutta la Russia. Credo di aver ottenuto un bell’inizio che mette nelle condizioni di ascoltare, una sorta di anticipazione di quello che succede dopo.
In un certo senso questo disco, per usare una parola molto anni 70, “è un concept album”, sei d’accordo?
Ah... non uso la parola concept album da tanti anni, ma è bello, io amo molto gli anni 70.
Nel disco in alcuni pezzi appare Cristiano De André: come mai hai scelto proprio lui?
Fa la parte del profeta. Ho scelto lui perché è figlio di un profeta.
Molto suggestivo è lo strumentale Gerusalemme, aperto e chiuso da percussioni alquanto inquietanti, come nasce?
Il brano musicalmente è di Ildegarda, io ho aggiunto le percussioni. E’ il titolo che diede lei a quel pezzo. In genere lei chiamava i suoi brani “sinfonie”, in quel caso lì c’è proprio scritto Jerusalem.
Ne Il cammino dell’anima n. 2 interpreti il diavolo. Anche quel testo è di Ildegarda?
Sì, tradotto da mia moglie. Dal punto di vista letterario è una traduzione fedelissima. E’ stato un lavoro molto difficile tradurlo, ma sono comunque tutte parole di Ildegarda, che come sai sin dagli 8 anni di età aveva visioni e vedeva cose che solo lei poteva vedere.
Insomma, un lavoro che, come quello di San Francesco, visti i personaggi, le storie, la trama, potrebbe anche essere uno spettacolo teatrale, che ne dici?
Ma lo diventerà infatti. Adesso partiremo per un tour europeo che in realtà sono una serie di date che, visto il successo di alcuni recenti concerti, ci hanno chiesto di replicare in luoghi più grandi. Poi arriveremo in Italia dal 16 novembre con il primo concerto italiano a Legnano ed eseguiremo proprio questo disco per un anno intero, più naturalmente alcuni classici del mio repertorio. E’ previsto anche un grande evento di cui al momento non posso dire nulla (il 12 febbraio 2020 Angelo compie 70 anni, immaginiamo che l’evento sia legato a questa data... nda).
A proposito di date internazionali, tu sei stato il primo della tua generazione a fare tour in europa, il primo ad avere successo all’estero. Cosa significò al tempo e perché pensi che il pubblico europeo ti ami così tanto?
Io faccio musica molto particolare e anche di nicchia, a tratti è sfuggita nel mainstream piazzando grandi successi. Una musica, la mia che non assomiglia a quella di nessuno. Come disse il tuo collega Marco Mangiarotti anni fa, la mia musica è come l’aglio, un gusto unico e riconoscibile che piace o fa schifo. Io divido il pubblico, ho un pubblico che mi ama e un pubblico che mi odia.
Gli artisti infatti, almeno i veri artisti, devono dividere, non accontentare il pubblico. Oggi va molto di moda la figura di San Francesco, forse perché abbiamo un papa che si ispira a lui. Tu hai cantato il santo di Assisi in tempi non sospetti, come accadde?
Ogg c’è una spiritualità di moda perché è un momento difficile e ciò che non si vede, che sta sopra di noi, ci calma l’ansia. Mi fu chiesto dai frati francescani di occuparmi di San Francesco, io dubitavo tantissimo di farlo. Loro mi dissero che doveva essere una cosa cristologica, e io risposi, ma perché scegliete un peccatore? Perché Dio sceglie i peggiori, risposero.
Fu un successo clamoroso.
Pensa che un dirigente della casa discografica mi disse: avrai 20 spettatori. La sera della prima ce ne erano 2mila in sala e 500 rimaste fuori.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
DON MARIANO ARCIERO, ILDEGARDA DI BINGEN, E UNA "CAPPELLA SISTINA" IN ROVINA.
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Alla fiera dell’est - Angelo Branduardi*:
Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino mio padre comprò
Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino mio padre comprò
E venne il gatto, che si mangiò il topo, che al mercato mio padre comprò
E venne il gatto, che si mangiò il topo, che al mercato mio padre comprò
Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino mio padre comprò
E venne il cane, che morse il gatto, che si mangiò il topo
Che al mercato mio padre comprò
Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino mio padre comprò
E venne il bastone, che picchiò il cane, che morse il gatto
Che si mangiò il topo, che al mercato mio padre comprò
Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino mio padre comprò
E venne il fuoco, che bruciò il bastone, che picchiò il cane
Che morse il gatto, che si mangiò il topo
Che al mercato mio padre comprò
Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino mio padre comprò
E venne l’acqua, che spense il fuoco, che bruciò il bastone, che picchiò il cane
Che morse il gatto, che si mangiò il topo, che al mercato mio padre comprò
Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino mio padre comprò
E venne il toro, che bevve l’acqua, che spense il fuoco
Che bruciò il bastone, che picchiò il cane
Che morse il gatto, che si mangiò il topo
Che al mercato mio padre comprò
Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino mio padre comprò
E venne il macellaio, che uccise il toro, che bevve l’acqua
Che spense il fuoco, che bruciò il bastone, che picchiò il cane
Che morse il gatto, che si mangiò il topo, che al mercato mio padre comprò
E l’angelo della morte, sul macellaio, che uccise il toro, che bevve l’acqua
Che spense il fuoco, che bruciò il bastone, che picchiò il cane
Che morse il gatto, che si mangiò il topo, che al mercato mio padre comprò
Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino mio padre comprò
E infine il Signore, sull’angelo della morte, sul macellaio
Che uccise il toro, che bevve l’acqua, che spense il fuoco
Che bruciò il bastone, che picchiò il cane, che morse il gatto
Che si mangiò il topo che al mercato mio padre comprò
E infine il Signore, sull’angelo della morte, sul macellaio
Che uccise il toro, che bevve l’acqua, che spense il fuoco
Che bruciò il bastone, che picchiò il cane, che morse il gatto
Che si mangiò il topo, che al mercato mio padre comprò
Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino mio padre comprò
* Fonte: Rockol.it
“Alla fiera dell’est”: tutti conoscono la canzone, ma non il vero significato del testo di Branduardi
dii Redazione *
“E venne il cane, che morse il gatto, che si mangiò il topo...” e così via sulle note della canzone “Alla fiera dell’est” di Angelo Branduardi.
Si tratta di un brano senza tempo, che generazioni e generazioni di bambini hanno imparato e continuano ad imparare a memoria grazie a genitori e insegnanti. Ma i personaggi raccontati nel testo, che si annientano a vicenda come in una sorta di “matrioska lirica”, sono semplicemente se stessi o rappresentano qualcos’altro?
Branduardi, il “menestrello” della musica italiana, è noto per la profondità storica e culturale che c’è dietro i suoi lavori. Basti pensare all’album ispirato alla vita di San Francesco, in cui l’autore racconta le vicende del poverello di Assisi basandosi sulle Fonti Francescane.
Ebbene, in questo senso, la canzone “Alla fiera dell’est” non fa eccezione.
Il brano, infatti, è liberamente ispirato al canto pasquale ebraico del Chad Gadya. Un testo che viene recitato al termine della Haggadah shel Pesach (Narrazione della Pasqua) durante la cena pasquale.
Le dieci strofe del canto narrano le vicende non di un topolino ma di un capretto, che ricorda l’agnello pasquale col cui sangue gli israeliti marchiarono le loro porte per salvarsi dallo sterminio dei primogeniti in Egitto.
Il testo è una lunga metafora che, tramite personaggi che simboleggiano figure chiave della storia biblica, ripercorre la storia dell’Israele antico narrata nella Bibbia.
“Un capretto che mio padre comprò per due susim (denari)”. Così comincia il canto, con il Padre a rappresentare il Dio unico e il capretto a rappresentare il patriarca Abramo.
“E venne il gatto, che mangiò il capretto, che mio padre comprò per due susim”, prosegue il canto. Con il gatto a rappresentare il re di Babilonia Nimrod, un monarca che odiava il Dio unico tanto da sbattere Abramo in una fornace ardente, da cui uscì però miracolosamente illeso.
“Il cane” simboleggia il dominio dei faraoni d’Egitto, che superarono la potenza del “gatto” babilonese - specialmente nel periodo ramesside - senza però sconfiggerlo in battaglia. In questo senso il cane “morse” il gatto, senza ucciderlo.
“Il bastone” è quello che Dio donò a Mosè come strumento per realizzare i prodigi che avrebbero liberato gli israeliti dalla schiavitù d’Egitto (il cane).
“Il fuoco”, che bruciò il bastone, rappresenta le fiamme che divorarono Gerusalemme nel 586 a.C ad opera del regno neo-babilonese di Nabucodonosor. Gli ebrei - dei regni di Giuda e Israele - vennero deportati in Babilonia, specialmente i maggiorenti e la classe sacerdotale.
Finchè, però, non sopraggiunse “l’acqua”, cioè il regno di Persia e Media retto da Ciro il Grande, il sovrano che sconfisse Babilonia consentendo agli israeliti di tornare in Palestina (libri di Esdra e Neemia).
“Il bue”, anche se sarebbe più corretto dire “il toro”, rappresenta la dominazione ellenistica sopraggiunta con la conquista di Alessandro Magno. Un periodo raccontato in modo critico dalla tradizione ebraica posteriore, specialmente dal Talmud, secondo cui i greci cercarono di oscurare la vista degli ebrei con una mentalità nuova e distorta.
“Il macellaio” che uccise il bue, rappresenta la conquista della Palestina da parte dei romani, che scalzarono i successori di Alessandro. Il rosso del sangue, intrinseco nella figura del macellaio, è il tratto distintivo della potenza bellica di Roma.
“L’angelo della morte” che uccise il macellaio, rappresenta i tumulti che annunciano l’arrivo del Messia, l’Unto di Dio destinato a liberare Israele dall’oppressione.
E venne il Signore, definito “l’Unico” nel testo originario, che uccise l’angelo della morte, riportando la canzone - con una struttura ad anello - verso il punto di partenza. Il Padre, che ha “acquistato” alla fede il patriarca Abramo, ritorna alla fine dei tempi per adempiere le sue promesse.
* Fonte: *Oggi Scuola, 14/01/2019 (ripresa parziale).
IL MITO DELLE ORIGINI FAVOLOSE E IL PECCATO ORIGINALE... *
Arte e sacro. Che cosa c’era sul leggio di Maria?
Nelle raffigurazioni dell’Annunciazione il libro su cui legge Maria compare tardi, dal IX secolo. Il filologo Michele Feo va a caccia delle tante ipotesi sul contenuto del volume
di Rosita Copioli (Avvenire, sabato 19 ottobre 2019)
La storia della Madonna è un meraviglioso romanzo per immagini. Più misteriosa tra tutte l’Annunciazione perché è il mistero stesso di Maria. Ma anche la più rivoluzionaria nella storia dell’umanità, perché fonda il mondo dopo Adamo: il mondo da Gesù Cristo, origine del nostro tempo. E poi perché racchiude tutto il turbamento, anzi lo sconvolgimento, e insieme la concentrata tenerezza della Vergine prima che concepisca e nel suo stesso istante: l’anticipazione dell’aurora, prima che irrompa il giorno in lei, in ognuno di noi.
Le scarne parole di Luca e Matteo non sono prive di immagini potenti, anzi assolute: per Alberto Magno l’ombra non è l’oscurità - che non viene dalla somma luce - ma l’immagine specchiata dell’onnipotenza; tuttavia solo i Vangeli apocrifi ci mostrano le scene, gli oggetti, i simboli, che i pittori prediligono. In essi Maria è alla fonte, al pozzo con la brocca, poi in casa, intenta a filare scarlatto e porpora (colori della regalità) accanto a un vaso dove fiorisce il giglio di Gesù; più tardi ha con sé un libro aperto e talora lo legge.
Sono queste le raffigurazioni che si susseguono dovunque nei secoli, in molteplici varianti. Soprattutto impone infinite riflessioni la presenza del libro, che compare tardi, dal IX secolo, su un cofanetto d’avorio francese dall’aria regale. Perché quella ragazza umile e il libro, che fu strumento di distinzione, non solo per la sapienza, ma nelle classi sociali? E significava soprattutto autorevolezza, garanzia di verità? E cosa era scritto nel libro di Maria, oltre alle parole dei profeti, dei salmi, dei Vangeli, del Magnificat?
Si può rispondere che Maria stessa è un libro, contiene il passato e soprattutto il futuro: un libro profetico al massimo grado. Ma c’è quella commistione di realtà e di sentimenti, che colpisce nel profondo, e non si accontenta di spiegazioni teologiche. In Maria il mistero teologico è reale e carnale, attraversa la vita quotidiana, gli affetti delle madri nelle famiglie, tutte le forme reali e immaginarie, che le madri quotidiane e le divinità femminili hanno mostrato in ogni tempo e spazio.
Michele Feo, filologo e acutissimo investigatore dei testi, ne è stato così commosso e catturato, da inventariarne le immagini per uno studio colto e appassionato (Cosa leggeva la Madonna; Polistampa, pagine 304, euro 20,00). Ma non dobbiamo pensare che l’indagine di Feo si limiti a un excursus erudito che riguarda soltanto l’abbinamento con il libro. Si estende a ogni riflessione che tocca Maria, con una condivisione totale e sottile della femminilità e dei suoi valori più profondi.
Mentre segue nei secoli e nelle contestualizzazioni delle opere le Annunciazioni, decifrando e commentando le iscrizioni e le composizioni, Feo non dimentica mai l’origine. Chi è veramente Maria? Cosa accade nel momento in cui riceve l’annuncio traumatico dell’angelo che ha sconvolto lei fino a noi stessi? Perché l’Annunciazione non è un evento che si conclude, ma un progetto che ci riguarda inesorabilmente? Come sono diventati lontani nei secoli i sensi originari? Come tutto è diventato infinitamente indecifrabile, sebbene continuino a colpirci quegli atti e quei gesti e quelle mani della ragazza non ancora madre, che talora si specchiano nelle mani dell’angelo, o - come nella Vergine Annunciata palermitana di Antonello da Messina - emergono in assoluta eloquenza fuori dal quadro?
La ricchezza di questo libro sta anche nella presentazione di testi preziosi che accompagnano la figura dell’Annunciazione; non solo quelli sacri, o Dante, o Petrarca (di cui Feo è massimo studioso), che nel cammino dell’amore che nobilita attraverso la donna, compie la «rivoluzionaria e decisiva collocazione della Vergine a chiusura dei Rerum vulgarium fragmenta». Feo ci traduce molti testi straordinari: ora popolari, ora dei più sofisticati umanisti che intrecciano la Vergine con le divinità greco-latine, ora di mistici ottocenteschi, ora di teologi moderni. Il valore del libro sta anche nel sapiente dialogo che Feo intrattiene tra culture diverse.
Vorrei aggiungere una testimonianza, che ha origine da due antiche tradizioni romagnole. Esse hanno riscontri nei calendari popolari e nel Tempio malatestiano di Rimini, dove compaiono le due porte che le anime passano: nel segno del Capricorno abbandonano la carne attraverso la porta degli dèi e dell’immortalità; nel segno del Cancro si incarnano. Nell’Annunciazione (e incarnazione) del 25 marzo, nell’equinozio di primavera, Maria è seduta, intenta a filare il lino “marzuolo”. In questa immagine, che riprende il protovangelo di Giacomo, Maria è l’umile donna antica, attenta alla rocca, al fuso, al telaio. Ma rievoca anche archetipi: Elena che in Omero tesse una tappezzeria di porpora con le lotte di Greci e Troiani in cui lei è al centro; Cloto che fila lo stame della vita.
La vigilia di Natale, a Ravenna, in una filastrocca che inizia con l’invocazione «Levati, levati mio sole / con il raggio del Signore», tre angeli donano a Maria tre forcine o tre falci d’oro: lei le porge al Signore, e Lui con queste mette in moto la ruota del cosmo: è la nascita di Gesù e del tempo: il compimento dell’Annunciazione avviene nel solstizio d’inverno, sotto il segno del Capricorno. In sintonia con tradizioni immemoriali, raccolte da quelle platoniche, Maria tra primavera ed estate incarna, mentre nel cuore dell’inverno, con il “sole invitto” libera dalla carne, verso l’eternità.
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Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
Michele Feo, Mio nonno era un re , "Il grande vetro".
Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni".
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Religione.
L’Africa animista riletta col Vangelo
Cosa significa essere animisti, ma soprattutto cosa vuol dire arrivare al cattolicesimo dalla religione degli antenati. Il lucido sguardo di un africano, teologo gesuita, alla luce di papa Francesco
di Agbonkhianmeghe E. Orobator (Avvenure, martedì 17 settembre 2019)
"Animismo’ è stato ed è tuttora un’etichetta peggiorativa e dispregiativa. Nel passato e nel presente ha fornito a sociologi, storici e teologi uno strumento utile per interpretare e codificare la religione del-l’altro, in questo caso quella africana. È dimostrato che questo esercizio di interpretazione e codificazione ritrae il suo referente come primitivo e pagano. Non c’è dubbio che questo approccio sia irrazionale e riduttivo. Semplifica una realtà molto complessa. Tuttavia, accettando l’etichetta ’animista’, si può portare avanti un discorso e analizzare l’esperienza religiosa africana basata su un incontro diretto piuttosto che su stereotipi e pregiudizi. Mi interessa particolarmente esprimere un giudizio critico, ma rispettoso dei valori insiti nella religione africana, pur restando al tempo stesso fedele al Vangelo come principale depositario del messaggio cristiano.
Com’è davvero essere animista? Nel rispondere a questa domanda, lo scopo principale è delineare i fondamenti di un immaginario, di una pratica e una coscienza religiosi solitamente denigrati dai seguaci delle cosiddette religioni del mondo. Dai miei ricordi, e mentre continuo a trarre ispirazione da questa tradizione, emerge come fondamentale per l’intero sistema religioso in Africa una fede profonda nella vitalità del creato. In altre parole, questa tradizione rappresenta una profonda e intensa convinzione che nulla è privo di vita nel mio ambiente naturale, e che «esiste un potere invisibile insito in qualsiasi cosa in ogni momento». Trasposto nelle parole di papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’. Sulla cura della casa comune, ciò significa che «ogni creatura ha una funzione e nessuna è superflua [...] Suolo, acqua, montagne, tutto è carezza di Dio» (n. 84).
Dall’albero ancestrale, chiamato ikhinmwin ( Newbouldia laevis), che sorgeva al centro della nostra proprietà, al fiume che scorreva a est della città e al turbine di vento che spesso credevamo trascinasse le persone nel mondo degli spiriti, tutto nell’immediato ambiente naturale della mia formazione trasudava forza, energia e vitalità. Difficilmente c’era qualcosa che non incutesse un certo grado di rispetto, e tutto aveva uno scopo. L’albero ancestrale era oggetto di reverenza e contrassegnava lo spazio sacro e il luogo di culto e delle pratiche rituali per la nostra fattoria.
Il premio Nobel Wangari Maathai avvalora questa credenza nell’affermare che alberi come questo sono «riconosciuti dalle comunità come punti nodali che connettono il mondo celeste con quello terrestre [...] luoghi dove risiedono gli antenati e/o i loro spiriti. Era così che consideravamo e ci riferivamo al sempreverde ikhinmwin. Una stanza delle medicine non è semplicemente la stanza di una casa, un albero non è soltanto un albero.
Non c’è da stupirsi, dunque, che oltre a collegare due mondi, costituisca uno spazio di riunione e comunione per famiglie e comunità in cui le differenze vengono messe da parte per ristabilire rapporti e connessioni fondamentali. La sua importanza sta anche nel fatto che facilita la fondamentale capacità di relazione delle dimensioni orizzontale e verticale dell’esistenza. Anche il fiume esigeva rispetto, era oggetto di venerazione da parte degli adoratori della dea dell’acqua. Il turbine di vento incuteva religioso timore.
Non era un vento come gli altri, era lo strumento degli dei. Quando successivamente sono venuto a conoscenza della dottrina della creazione nel cristianesimo e della sacralità presente nel cattolicesimo, aveva senso pensare al ’vento’, all’’alito’ o allo ’spirito’ di Dio che aleggiava sulle acque, accarezzando l’universo e risvegliando la natura alla vita all’alba della creazione (Gen 1,1). La mia visione del dominio «su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gen 1,28) acquista significato da questa formazione religiosa. Da convertito al cristianesimo cattolico, come milioni di altri africani ho compiuto una transizione dalla mia fede ancestrale alla fede cristiana.
Non è un passaggio facile. Sarebbe pretenzioso sostenere che ho compiuto una rottura netta col mio passato, penso che ciò sia praticamente impossibile. Il presente è sempre impregnato del passato; da qui deriva la mia predilezione per termini come viaggio, percorso, traiettoria e pellegrinaggio quando parlo della mia esperienza religiosa. Forse sarebbe stato più facile tagliare il legame col passato se fosse consistito semplicemente in credenze, dottrine e dogmi sostituibili. Invece, era e continua a essere uno stile di vita.
E, per citare un proverbio africano, «per quante volte un leopardo attraversi il fiume, non perderà mai le macchie». Ho resistito e continuo a opporre resistenza alla concezione secondo cui il mio stile di vita africano, radicato nella fede di mio padre e animato dallo spirito di mia madre, non sia altro che una ricerca irrazionale di Dio «nelle ombre e sotto le immagini», per ricorrere a un’altra espressione negativa del documento del Vaticano II Lumen gentium( n. 16).
Il modo di vivere dei miei genitori si basava su immagini per facilitare l’incontro con un regno del mistero luminoso e tangibile; irradiava energia ed evocava mistero e rispetto, piuttosto che ombre. Allo stesso modo, non mi sento lacerato fra due tradizioni religiose. E mi rifiuto di accettare l’etichetta di ’schizofrenia della fede’ o di ’doppia mentalità religiosa’ che certi teologi regolarmente impongono agli africani che credono che Dio continui a parlare attraverso il loro stile di vita ancestrale, nonostante egli si sia rivelato in Gesù Cristo. È un’esperienza di tensione piuttosto che di divisione, di ispirazione anziché di disperazione. È una ricerca di integrazione e armonia piuttosto che un’esperienza di alienazione e conflitto.
Per questa ragione, mi sono di immenso conforto le parole di Paolo VI quando afferma che «l’africano, quando diviene cristiano, non rinnega se stesso, ma riprende gli antichi valori della tradizione ’in spirito e verità?’». Non è mia pretesa lasciar intendere che la religione africana sia un’oasi incontaminata di purezza etica. Soltanto, ritengo che etichettarla per quello che non è distorce e limita l’esperienza religiosa di milioni di persone. Sostengo quindi che la religione africana, esperienza religiosa vitale e immaginario spirituale ancora attivo in molte parti dell’Africa, possieda un vero talento in grado di rinnovare la comunità globale dei credenti.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Dal film "Amistad", l’arringa davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti di John Quincy Adams.
Da molto abbiamo rinunciato a chiedere ai nostri antenati di assisterci
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. La lezione di Nelson Mandela.
Federico La Sala
Celio Secondo Curione...
L’ ELOGIO DEL RAGNO NELLA LETTERATURA RELIGIOSA DEL CINQUECENTO
di Luigi D’Ascia *
Tra il marmo e il legno dorato dei soffitti e le sontuose volte affrescate, che pascono l’occhio dei signori rinascimentali di mitologia e simbolismo, c’è spazio anche per un ospite umile ma necessario, che nasconde infinite virtù dietro un’apparenza insignificante: il ragno. Pur abituati a maestosi animali araldici, i potenti interlocutori laici ed ecclesiastici di Celio Secondo Curione - piccolo nobile della frontiera piemontese che si proietta con il suo brillante talento oratorio sul grande teatro dell’Italia settentrionale eternamente contesa fra le potenze europee - non si sentono infastiditi dalla presenza di quel minuscolo intruso che aspira a diventare il nume tutelare della casa. Partecipano anche loro - non solo Guillaume Pellicier vescovo di Montpellier, ambasciatore francese a Venezia e destinatario dell’Elogio del ragno - gli illustri protettori che a Pavia (dove poté appoggiarsi all’eminente famiglia Sfondrati), a Ferrara e a Venezia assicurarono a Curione quell’impunità di cui aveva vitale bisogno dopo le sue disavventure con l’Inquisizione cisalpina, di quella tensione religiosa, preparata dalla mistica quattrocentesca e in Italia dalla controversa figura di Pico, che invitava a cercare nel piccolo l’infinitamente grande e nell’allegoria l’unico modo appropriato di avvicinarsi al mistero divino.
Sono quindi disposti a tacitare i ‘cani del Signore’, quegli inquisitori domenicani che fanno la guardia ai palazzi dove si nascondono gli eterodossi e che, per arrivare ai soffitti dove il rinnovamento religioso tesse laboriosamente le proprie ragnatele, non esitano a cambiare il loro aspetto di mastini con quello più spregevole di servi armati di scopa, pronti a ripulire gli spazi loro affidati da qualsiasi contaminazione eretica. Il ragno che si cela sotto il soffitto è metafora del non conformista religioso che dissimula la propria presenza ma intanto resta pronto a catturare qualsiasi preda spirituale venga a cadere nella sua sottile ragnatela propagandistica.
Curione insomma nella sua prima opera a stampa, pubblicata a Venezia nel 1540 senza indicazione d’editore e poi ristampata a Basilea nel 1544 con il titolo Araneus sive de providentia Dei, fa del ragno l’emblema di quell’atteggiamento che in anni successivi verrà detto nicodemismo, dal nome dell’evangelico Nicodemo, che per paura dei farisei si recava a visitare Gesù soltanto di notte, e che implicava la diffusione di un messaggio certamente eterodosso in modi ‘coperti’, simbolici e allusivi, evitando di ‘trarre le illazioni’ che avrebbero sconfessato esplicitamente l’autorità ecclesiastica. [...]
Nel caso dell’Elogio del ragnoil messaggio religioso velato dalla ‘dissimu-lazione onesta’ di un linguaggio complesso e allusivo implicava un attacco a fondo alla base filosofica del concetto fondamentale di una mediazione istituzionale fra uomo e Dio, da cui discendevano culto dei santi, purgatorio e altre credenze della religiosità tardo-medioevale. Curione nega infatti l’esistenza di cause seconde, riconducendo ogni effetto fenomenico all’universale causalità divina.
Per arrivare a questa osservazione sviluppa un’argomentazione fortemente originale prendendo le mosse dal problema aperto dell’intelligenza animale, che rappresenta una sfida alla facile contrapposi-zione fra istinto e ragione, e la identifica con una forma oscura e incosciente dell’onnipotenza divina. Dentro il ragno, l’essere minuscolo e disprezzato, c’è Dio. Tale paradosso era già stato anticipato da Erasmo quando nella sua polemica con Lutero sul libero arbitrio aveva menzionato fra i sublimi misteri teologici da non divulgare al popolo la circostanza che da un certo punto di vista le sfere celesti e l’antro dello scarabeo - equivalente funzionale del ragno di Curione - fossero ugualmente partecipi dell’essenza divina.
L’infinità in potenza della materia collosa che il ragno produce da se stesso per tessere i fili della ragnatela presuppone l’infinità in atto dell’essere divino. La sua posizione al centro della ragnatela che si allarga verso l’esterno, aumentando continuamente lo spazio fra un perimetro e quello successivo, allude chiaramente a un universo teocentrico retto dalla provvidenza. Ma ciò che vale per il ragno vale per la natura nel suo complesso: non esistono cause seconde, cioè processi relativamente autonomi dall’intervento divino, e il principio delnatura non facit saltus, con la sua successione ordinata di cause che si accorda così bene con una visione gerarchica della società cristiana, cede alla libertà dello spirito divino che, essendo operoso, si manifesta dove e quando vuole. [...]
In ogni caso Curione dimostra una notevole capacità di attualizzare, nel contesto teologico della Riforma, una tradizione di teologia simbolica che si presentava strettamente intrecciata alla fortuna del genere letterario del detto pitagorico, inaugurata da Leon Battista Alberti e sviluppata da Ficino e da altri. Risulta agevole sintetizzare l’intero componimento di Curione in un ipotetico ma assai verisimile precetto «araneum incolam ne respuito», invito a non rifiutare la presenza del ragno nelle pie e dotte magioni [...] La figura di Pitagora, la cui rappresentazione deve molto al XV libro delle Metamorfosi ovidiane, è centrale nell’Elogio del ragno e non solo per l’evidente influsso di Zwingli, ma anche e soprattutto per la vicinanza di Curione a quelle fonti italiane cui si era abbeverato lo stesso teologo svizzero. [...]
Il pitagorismo ben interpretato è peraltro parte integrante di una theologia poetica che legge nella mitologia la chiave allegorica di una sapienza comune a tutte le religioni rivelate, facendo confluire sincretisticamente ermetismo e cabalismo nel contesto di un cristianesimo ispirato e profetico. Il riferimento ovidiano alla gara di tessitura fra Aracne e Minerva, che si conclude con la disfatta della prima e la sua trasformazione in ragno, diventa dunque parte integrante della ‘lettura’ del fenomeno della realtà naturale. Il concetto greco di hybris viene assimilato in maniera piuttosto prevedibile a quello di peccato originale, ma ciò che realmente interessa allo scaltrito propagandista della Riforma è ‘far passare’ una distinzione di stampo melantoniano fra il valore sociale e civile delle opere buone e la loro inutilità ai fini della salvezza eter-na, accettando in pieno l’idea di una giustizia divina arbitraria perché onni-potente che dal punto di vista umano diventa giustificazione per sola fede. Ribadire questo punto risulta così importante per l’eterodosso piemontese da indurlo ad accettare una certa incoerenza simbolica del protagonista animale dell’operetta: la condizione del ragno cambia completamente di significato e decade da dimostrazione della provvidenza divina a emblema della degenerazione animale dell’essere umano dimentico della propria dignitas originaria.
L’interpretazione biblica del mito di Aracne illustra la tendenza del Curione a conferire speciale rilevanza alla componente ebraica della sua costruzione sincretistica in quanto scaturigine di un linguaggio simbolico poi ripreso dai filosofi e divulgato dai poeti pagani, come illustra fra l’altro la caratteristica designazione di Salomone come «quel celebre Platone degli Ebrei». Del resto l’idea che «tutto è pieno di Cristo», già chiaramente enunciata nell’Elogio del ragno, si tradurrà nella ‘teologia politica’ del De amplitudine beati regni Dei in un’energica riaffermazione della salvezza finale degli Ebrei solo provvisoriamente privati della loro condizione di popolo eletto. Questo motivo ‘filosemita’ risulta decisamente preponderante rispetto al fugace accenno alla conversione finale dei musulmani e degli abitanti delle regioni recentemente scoperte del Nuovo Mondo. Nell’ambiente veneziano del 1540 dove vede la luce l’Elogio del ragno, contrassegnato da una presenza israelita cospicua e socialmente significativa, è lecito supporre un intrecciarsi di tradizioni profetiche ebraiche e cristiane che proiettano la pacificazione religiosa su uno sfondo escatologico. [...]
Nell’ Elogio del ragno si osserva la fermentazione di una dottrina sincretistica e vagamente esoterica non priva di punti di contatto con la speculazione di Bruno, che nella Cena delle ceneri mette in discussione, non diversamente dal Curione, la categoria di «istinto» animale e che pagò un duro scotto in termini processuali per il suo attaccamento alla dottrina della metempsicosi, che l’eretico piemontese aveva ritenuto potesse conciliarsi con i dati della rivelazione cristiana. [...]"
* CFR. CELIO SECONDO CURIONE, ARANEUS SEU DE PROVIDENTIA DEI, Edizione, traduzione e commento a cura di DAMIANO MEVOLI, Avvertenza di ANGELO ROMANO, Prefazione di LUCA D’ASCIA, Postfazione di LOTHAR VOGEL, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2019, pp. IX-XIX - ripresa parziale).
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025) ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Federico La Sala
Il Tondo Doni di Michelangelo: origini e significato di uno dei più grandi capolavori della storia dell’arte
Un approfondimento dedicato al Tondo Doni, capolavoro di Michelangelo Buonarroti realizzato tra il 1506 e il 1507 e conservato agli Uffizi.
di Finestre sull’Arte, scritto il 27/06/2019 *
È l’unica opera su supporto mobile che si possa assegnare con certezza a Michelangelo Buonarroti (Caprese, 1475 - Roma, 1564): è il Tondo Doni, il capolavoro conservato alla Galleria degli Uffizi e nato per volontà di uno dei più ricchi mercanti fiorentini d’inizio Cinquecento, Agnolo Doni, che nel 1504 aveva preso in moglie Maddalena Strozzi, anch’ella esponente di una delle famiglie più in vista della Firenze del tempo. A rivelarci il nome del committente è Giorgio Vasari (Arezzo, 1511 - Firenze, 1574), che nelle sue Vite (sia nell’edizione torrentiniana, sia in quella giuntina) descrive l’opera con una precisione tale da non lasciar dubbî sulla sua identificazione, e presentandola inoltre come un frutto della passione per le “cose belle” del ricco committente: “venne volontà ad Agnolo Doni, cittadino fiorentino amico suo, sì come quello che molto si dilettava aver cose belle, così d’antichi come di moderni artefici, d’avere alcuna cosa di mano di Michele Agnolo, perché gli cominciò un tondo di pittura ch’è dentrovi una Nostra Donna, la quale, inginocchiata con amendua le gambe, alza in su le braccia un putto e porgelo a Giuseppo che lo riceve. Dove Michele Agnolo fa conoscere, nello svoltare della testa della madre di Cristo e nel tenere gli occhi fissi nella somma bellezza del Figliuolo, la maravigliosa sua contentezza e lo affetto del farne parte a quel santissimo vecchio. Il quale con pari amore, tenerezza e reverenzia lo piglia, come benissimo si scorge nel volto suo, senza molto considerarlo. Né bastando questo a Michele Agnolo per mostrar maggiormente l’arte sua esser grandissima, fece nel campo di questa opera molti ignudi appoggiati, ritti et a sedere; e con tanta diligenzia e pulitezza lavorò questa opera, che certamente delle sue pitture in tavola, ancora che poche siano, è tenuta la piú finita e la piú bella che si truovi”. Secondo Vasari è dunque Maria che porge il Bambino a san Giuseppe, mentre secondo gli storici dell’arte moderni è vero l’esatto contrario (anche per il fatto che ci si aspetterebbe che il piccolo rivolga lo sguardo alla destinazione piuttosto che verso la partenza): una possibile allusione simbolica all’unione tra Cristo e la sua Chiesa, simboleggiata dalla Madonna. Inoltre, l’aretino non menziona la presenza del piccolo san Giovanni Battista, che vediamo sulla destra, in secondo piano.
Vasari riferisce anche la trattativa sul pagamento: dato il suo carattere un po’ comico e quasi grottesco (e sicuramente molto caricato) appare del tutto lecito domandarsi quanto l’aneddoto possa essere veritiero. Pare cioè che Michelangelo volesse settanta ducati per il dipinto, una cifra considerevole per l’epoca: si consideri che, quando Michelangelo entrò giovanissimo nel giardino di San Marco, il circolo di artisti sostenuto da Lorenzo il Magnifico, l’artista, allora adolescente, sempre stando a Vasari percepiva lo stipendio di cinque ducati al mese. Doni ritenne eccessivamente esoso il prezzo richiesto da Michelangelo, e gli offrì quaranta ducati: Michelangelo, sdegnato, avrebbe rifiutato, e ne avrebbe chiesti a questo punto ben cento. Il mercante acconsentì dunque di pagare i settanta ducati chiesti inizialmente e l’artista, sentendosi preso in giro, rispose facendo sapere a Doni che avrebbe ceduto l’opera soltanto per il doppio del prezzo inizialmente preventivato: centoquaranta ducati. Vasari racconta dunque che Doni, per avere il suo tondo, non poté far altro che sborsare l’enorme somma richiesta da Michelangelo.
Sappiamo per certo che verso il 1540, periodo di stesura del manoscritto noto come l’Anonimo Magliabechiano, conservato alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, il dipinto era ancora conservato in casa Doni: nel testo dell’anonimo si legge infatti di un “tondo di Nostra Donna in casa Agnolo Doni”. Non sappiamo però in quali circostanze sia stato realizzato. -Inizialmente si pensava fosse stato dipinto in occasione del matrimonio tra Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, celebrato nel 1504 (nell ricca cornice eseguita dall’intagliatore Francesco del Tasso, che è ancora quella originaria, figurano infatti le tre mezzelune dello stemma della famiglia Strozzi), ma negli anni Novanta si è invece diffusa la convinzione secondo la quale l’opera, con tutta probabilità, dovette esser stata commissionata per celebrare la nascita della figlia primogenita della coppia, Maria, avvenuta l’8 settembre 1507.
A spingere verso questa ipotesi, ha spiegato lo studioso Antonio Natali, erano state le “allusioni alla nascita e al battesimo che c’è parso di rilevare nell’orditura iconologica del dipinto”, che pertanto, tenendo per buona una datazione al 1507, precederebbe di poco la volta della Cappella Sistina, stilisticamente affine al Tondo Doni. “Non v’è dubbio infatti”, sottolineava Antonio Natali nel suo studio del 1995, “che l’androgina Vergine Doni appartenga alla medesima stirpe eroica e possente delle Sibille sistine, alle quali Maria s’imparenta anche per via d’una somiglianza fisionomica; quantunque le fattezze di lei, rapportate ai tratti somatici della Delfica e della Libica, appaiono più gentili”. La stretta vicinanza tra il Tondo Doni e gli affreschi della Cappella Sistina è testimoniata anche da un disegno, conservato a Casa Buonarroti, su cui la critica s’è divisa tra chi lo considera uno studio preparatorio per la Vergine del Tondo Doni, e chi invece è portato a ritenerlo un’idea per il volto del profeta Giona nella Cappella Sistina.
È stato poi individuato un ulteriore dettaglio che concorre a sostenere l’ipotesi di una datazione del Tondo Doni successiva al 1506. Dietro alla Sacra Famiglia (protagonisti del dipinto sono infatti la Vergine, san Giuseppe e Gesù Bambino) compaiono dei nudi classici (sul cui significato si tornerà tra poco): uno di questi, quello che vediamo subito a fianco della spalla di san Giuseppe, sembrerebbe citare in maniera pressoché letterale il celeberrimo gruppo scultoreo del Laocoonte, lo straordinario marmo romano copia d’un originale ellenistico che oggi è conservato ai Musei Vaticani e che fu rinvenuto in un campo a Roma nel gennaio del 1506. Michelangelo, che aveva da poco allacciato i rapporti con papa Giulio II, fu tra coloro che assistettero allo scavo del Laocoonte: è quindi del tutto lecito immaginare che la statua gli avesse fornito uno spunto importante per il suo dipinto. Non è tuttavia questa l’unica citazione classica che caratterizza il Tondo Doni. Il personaggio che compare vicino al braccio destro della Madonna si mostra in una posa del tutto simile a quella dell’Apollo del Belvedere, la scultura classica, anch’essa oggi ai Musei Vaticani, scoperta a fine Quattrocento in un terreno dei della Rovere (l’opera faceva parte della collezione personale di papa Giulio II, al secolo Giuliano della Rovere, e a seguito della sua elezione al soglio pontificio fu trasferita nel Palazzo Vaticano). Il primo dei nudi classici, invece, parrebbe ripreso in maniera quasi pedissequa dall’Apollo seduto oggi agli Uffizi, marmo romano del I secolo dopo Cristo che replica un originale ellenistico del III o II secolo avanti Cristo. L’ultimo sulla destra, quello con le gambe incrociate, richiama l’Amore con arco oggi esposto nella Tribuna degli Uffizi. E ancora: nel 1985, sempre Antonio Natali ipotizzò che il capo della Vergine fosse da mettere in relazione con una testa marmorea anch’essa di età ellenistica. Si tratta di un tritone che fuoriesce dall’acqua, che tuttavia in epoca rinascimentale fu interpretato come un Alessandro Magno morente, e con tale identificazione la scultura è oggi nota. L’opera, a metà Cinquecento, era parte della raccolta del cardinale Pio da Carpi, e sarebbe entrata nelle collezioni medicee solo nel 1574.
Il rapporto tra il cosiddetto “Alessandro Magno morente” e la Madonna del Tondo Doni è ora esplicitato dall’allestimento della nuova sala 41 del Corridoio di Ponente degli Uffizi, inaugurato nel 2018 con le opere di Michelangelo, Raffaello, fra’ Bartolomeo: il marmo ellenistico e il Tondo Doni sono stati sistemati l’uno a fianco all’altro per rendere evidenti questi possibili rapporti di dipendenza (dalla parte opposta della sala figurano invece i ritratti dei coniugi Doni, eseguiti da Raffaello attorno al 1506). L’allestimento precedente, ideato da Antonio Natali e aperto nel 2012, leggeva invece in altro modo l’evidente rapporto del Tondo Doni con la statuaria classica. Al centro della sala era stata posta una scultura raffigurante un’Arianna, e nota anche come Cleopatra sempre per via d’un’errata interpretazione d’epoca rinascimentale: la cosiddetta Cleopatra è citata da Giorgio Vasari nel proemio della terza parte delle sue Vite, nell’edizione giuntina del 1568. L’argomento è il grado dell’evoluzione che, secondo il celebre storico dell’arte e artista aretino, le arti avevano raggiunto prima che sorgessero astri come Leonardo da Vinci, Giorgione, Correggio, Bramante, Raffaello e, ovviamente, Michelangelo. Pur riconoscendo ai loro predecessori (come il Verrocchio e il Pollaiolo) la capacità di eseguire “figure più studiate, e che ci apparisse dentro maggior disegno, con quella imitazione più simile e più a punto alle cose naturali”, Vasari sottolineava la mancanza di una “fine et una estrema perfezzione ne’ piedi, mani, capegli, barbe”, e di quelle “minuzie dei fini” che avrebbero dato “una gagliardezza risoluta nell’opere loro e ne sarebbe conseguito la leggiadria et una pulitezza e somma grazia, che non ebbono, ancora che vi sia lo stento della diligenzia, che son quelli che dànno gli stremi dell’arte nelle belle figure, o di rilievo o dipinte”. Quella finezza e quella sicurezza che, secondo Vasari, la generazione che precedette quella di Michelangelo non poteva avere, furono invece ottenute dagli artisti più giovani che poterono “veder cavar fuora di terra certe anticaglie, citate da Plinio delle più famose: il Lacoonte, l’Ercole et il Torso grosso di Bel Vedere, così la Venere, la Cleopatra, lo Apollo et infine altre: le quali nella lor dolcezza e nelle lor asprezze con termini carnosi e cavati dalle maggior bellezze del vivo, con certi atti che non in tutto si storcono, ma si vanno in certe parti movendo e si mostrano con una graziosissima grazia”. Queste scoperte consentirono agli artisti di superare “una certa maniera secca e cruda e tagliente” che a giudizio di Vasari aveva caratterizzato la produzione di artisti come Botticelli, Piero della Francesca, Giovanni Bellini, Andrea Mantegna, Luca Signorelli. Per Vasari, la scoperta dell’antico fu all’origine della cosiddetta terza maniera, quella “moderna”, nella quale si sarebbe raggiunto il massimo grado di minuzia e di imitazione della natura.
Per Michelangelo il discorso però si fa ancora più complesso, secondo Vasari. Il Buonarroti è infatti, a suo avviso, l’artista che detenne il primato in tutte le tre arti principali (pittura, scultura e architettura). “Costui”, leggiamo sempre nel proemio, “supera e vince non solamente tutti costoro, ch’hanno quasi che vinto già la natura, ma quelli stessi famosissimi antichi, che sì lodatamente fuor d’ogni dubbio la superarono: et unico si trionfa di quegli, di questi e di lei, non imaginandosi appena quella cosa alcuna sì strana e tanto difficile, ch’egli con la virtù del divinissimo ingegno suo, mediante l’industria, il disegno, l’arte, il giudizio e la grazia, di gran lunga non la trapassi”. Il paragone con gli antichi era uno dei principali temi del dibattito artistico della metà del Cinquecento: per Vasari, Michelangelo era stato in grado di superare in sicurezza, grazia e perfezione tutte le statue dell’antichità. Statue a cui Michelangelo seppe guardare per produrre opere in grado non soltanto di rivaleggiare con l’antico (si pensi che, all’epoca, la perfezione della statuaria classica era modello a cui aspirare), ma anche di rivelarsi migliori di quanto greci e romani avevano saputo creare. Giudizio che fu poi fatto proprio anche da Benedetto Varchi (Montevarchi, 1503 - Firenze, 1565) che, nell’orazione funebre per Michelangelo, recitata dallo stesso umanista toscano, arrivò ad affermare che il valore artistico del David era più alto di tutte le statue antiche di Roma messe assieme.
Merita poi un ulteriore approfondimento il gruppo della Sacra Famiglia in primo piano, che occupa in verticale l’intera composizione (Luciano Berti scrisse che “quella scatola cranica” di san Giuseppe “con poco potrebbe urtare sul margine superiore della cornice, e risuonerebbe”): le loro ardite contorsioni (la Vergine, seduta sulle ginocchia in primo piano secondo un’iconografia che rimanda alle Madonne dell’Umiltà della pittura medievale, con le braccia sollevate tiene il piccolo Gesù, a sua volta col corpo in torsione, mentre lo riceve da san Giuseppe che è invece inginocchiato dietro: un’impaginazione che non ha precedenti nella storia dell’arte antecedente) portarono Roberto Longhi a definirla la “divina famiglia di giocolieri”. Il gruppo dei tre protagonisti si sviluppa in senso piramidale, secondo modalità che non appaiono così distanti da quelle che talvolta sperimentò Leonardo da Vinci e che caratterizzarono diverse sue composizioni, mentre il movimento a spirale innescato dalle loro torsioni scaturisce anch’esso dall’ammirazione che Michelangelo nutriva nei confronti dell’arte ellenistica. Il Tondo Doni, peraltro, sviluppa ulteriormente un percorso su questo formato che Michelangelo aveva da alcuni anni avviato in scultura, realizzando capolavori in marmo come il Tondo Pitti o il Tondo Taddei: negli anni Ottanta, lo studioso Roberto Salvini, che fu anche direttore degli Uffizi, rilevò come i tre “tondi” fossero frutto di un confronto con l’arte di Leonardo da Vinci che lo portò a una maggior presa di coscienza del problema dell’inserimento delle figure nello spazio, lui che invece prima, scriveva Salvini, aveva “rifiutato la concezione prospettica dello spazio” giungendo al contrario a una “esaltazione della solitudine delle immagini umane, drammaticamente proiettate in un primo piano senza sfondo”. Il confronto con Leonardo modifica tali preferenze, come avrebbe poi confermato anche Berti evidenziando come il Tondo Doni fosse “conforme agli assiomi di Leonardo con un’evidenza che non ha bisogno di commenti”. Il vinciano aveva scritto, nella parte terza del suo Trattato della pittura, che le figure lontane devono essere “solamente accennate e non finite”, altrimenti il rischio sarebbe stato di produrre un effetto non in linea con ciò che l’occhio vede nella realtà: e anche se Michelangelo, contrariamente alle prescrizioni di Leonardo, eseguì con certa definitezza i nudi sullo sfondo, non mancò di rifarsi alla lezione della prospettiva aerea leonardiana sfocando leggermente i contorni delle figure a mezza distanza (e ancor più quelli dei monti sullo sfondo), e allo stesso modo si attenne alla cosiddetta prospettiva di colore col risultato che i nudi classici presentano una colorazione “più sintetica e chiaroscurata per masse piuttosto che per tornitura plastica, col contrasto che avviene anche in molte sculture tra parti anteriori ‘finite’ e parti più distanti ‘non finite’”.
Lo sperimentalismo di Michelangelo investe anche pienamente le cromie dei tre protagonisti: i colori delle loro vesti sono algidi e cangianti (il rosso sbiadito della veste della Vergine, il giallo spento della tunica di san Giuseppe, l’azzurro quasi glaciale del manto della Madonna) e anticipano le cifre cromatiche che saranno proprie della pittura manierista. Il grande storico dell’arte Cesare Brandi ha offerto con icastica precisione una spiegazione della scelta di queste tonalità da parte di Michelangelo: “è chiaro che Michelangelo ha inteso neutralizzare il colore per concentrare la forza della espressione spaziale, con una plastica nitida come è nitida una scultura. E basterebbe confrontare le pieghe delle vesti con quelle della Pietà di San Pietro, di poco precedente, per vedere la stretta parentela: uguale intensità plastica, uguale indipendenza dal colore. Nella Pietà il bianco del marmo ha lo stesso valore degli azzurri, dei rossi, dei giallo del Tondo Doni. Ossia questi colori non hanno valore in sé, ma solo subordinatamente alla forma su cui affiorano”.
Per introdurre il significato del Tondo Doni è intanto opportuno chiarire che l’idea d’inserire alcuni nudi classici dietro la Sacra Famiglia non è originale: l’idea di Michelangelo ha qualche debito nei confronti della Madonna dell’umiltà (o Madonna Medici) di Luca Signorelli (Cortona, 1450 circa - 1523), anch’essa conservata agli Uffizi, dove i due protagonisti, la Madonna e il Bambino, appaiono in primo piano mentre dietro di loro si scorgono quattro pastorelli ignudi sullo sfondo d’un paesaggio aperto (probabilmente Michelangelo conobbe l’opera, realizzata in ambito mediceo, durante la sua frequentazione del Giardino di San Marco). La lettura più frequente ch’è stata data per i pastori che compaiono dietro Gesù e Maria nella tavola di Signorelli vuole che la loro presenza sia simbolo dell’umanità ante legem, ovvero prima che Dio dettasse a Mosè le tavole della Legge (un’interpretazione che sembrerebbe esser confortata anche dalla presenza delle rovine alle loro spalle, che alluderebbero ai templi degli dèi pagani), mentre Gesù, a contrasto, diverrebbe simbolo dell’età della grazia. Sulla base di tale presupposto, sono state fornite letture simili anche per il Tondo Doni: i nudi rappresenterebbero l’umanità ante legem, Maria e Giuseppe l’umanità sub lege (quindi dopo la Legge di Mosè), e Gesù Bambino il mondo sub gratia, ovvero dalla rivelazione di Cristo in poi, con san Giovannino, che sbuca di fianco ai protagonisti, a rappresentare la connessione tra il mondo pagano e il mondo cristiano (questo almeno secondo la famosa lettura di Charles de Tolnay per il quale tuttavia, è necessario ricordare per ragioni di completezza, i pastori di Signorelli non sarebbero stati personaggi antichi, bensì i pastori del Nuovo Testamento: ipotesi però scartata da molti altri critici). Secondo altri, i pastori di Signorelli potrebbero anche essere quelli che nella quarta Egloga di Virgilio annunciano la venuta di un puer, ovvero di un bambino, che porterà una nuova età dell’oro (Cristo, secondo gli esegeti medievali).
Il Tondo Doni di Michelangelo: origini e significato di uno dei più grandi capolavori della storia dell’arte
Un approfondimento dedicato al Tondo Doni, capolavoro di Michelangelo Buonarroti realizzato tra il 1506 e il 1507 e conservato agli Uffizi.
di Finestre sull’Arte, scritto il 27/06/2019 *
I nudi di Michelangelo sono però diversi: intanto vige una differenza fondamentale, ovvero non hanno attributi che possano identificarli come pastori, e soprattutto sono completamente nudi, a differenza di quelli che invece compaiono nel dipinto di Signorelli. È pertanto evidente che il loro significato debba essere leggermente diverso. William Page, a fine Ottocento, pensò si trattassero di angeli senz’ali, interpretazione poi seguita da altri anche nel Novecento inoltrato. Altri invece fecero proprie le teorie di de Tolnay, magari aggiungendo ulteriori livelli di lettura: Colin Eisler, per esempio, suggerì d’identificare i nudi come atleti simbolo di virtù. Altri ancora fecero riferimento al clima culturale della Firenze di fine Quattrocento vedendo nei nudi un’allegoria dell’amore platonico. Di recente è stata proposta un’altra lettura, molto calzante: la studiosa Chiara Franceschini, in particolare, ha concentrato la propria attenzione sulla figura del san Giovannino, che non solo è collegata al sacramento del battesimo avvalorando dunque l’ipotesi che l’opera potesse essere stata realizzata per celebrare la nascita della figlia primogenita di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, ma nella composizione occupa fisicamente lo spazio che raccorda la Sacra Famiglia e i nudi dietro di loro. In un suo saggio del 2010, Franceschini cita un paio di studi di Frederick Hartt, nei quali si faceva riferimento a una lettera di Ugo Procacci, che a sua volta comunicava ad Hartt di conoscere fonti documentarie che riportavano di come i Doni, prima di Maria, avessero avuto alcuni figli, tutti chiamati Giovanni Battista, e tutti morti poco dopo la nascita. Non sono stati trovati riscontri a sostegno di questa informazione, ma dal momento che passarono quasi quattro anni tra la data delle nozze e la nascita di Maria, si tratta di un’evenienza del tutto plausibile, dato che le coppie del tempo tendevano a mettere al mondo il primo figlio poco dopo il matrimonio. Evenienza che ci porterebbe anche a supporre che questi bambini non sopravvissero abbastanza a lungo per essere battezzati. E che i Doni volessero fortemente un figlio, come ha notato anche Antonio Natali, è testimoniato anche dal fatto che nel retro dei ritratti eseguiti da Raffaello (e ora visibile grazie all’allestimento inaugurato nell’estate del 2018) compaiono le raffigurazioni di due episodî del mito di Deucalione e Pirra, attribuiti al cosiddetto Maestro di Serumido (in particolare, nel retro del ritratto di Maddalena compaiono Deucalione e Pirra che ripopolano la terra dopo il diluvio scatenato da Giove).
All’epoca, alla scomparsa precoce dei neonati si accompagnava la preoccupazione per la sorte della loro anima, nel caso fossero morti prima d’essere battezzati. Questo destino era argomento dei dibattiti teologici del tempo: il domenicano Antonino Pierozzi (Firenze, 1389 - Montughi, 1459), rielaborando spunti da Tommaso d’Aquino, immaginava che i non battezzati fossero destinati al limbo per poi risorgere con corpi di uomini di trentatré anni, senza tuttavia provare né il dolore dell’Inferno, né la gloria del Paradiso. Secondo altri teologi, ai non battezzati sarebbe stato destinato, dopo il Giudizio Universale, il mondo terreno, dove avrebbero trascorso momenti felici. A Firenze queste dottrine si diffusero anche grazie ad alcuni scritti di Savonarola ed è probabile, sottolinea Franceschini, che sia Michelangelo sia i Doni le conoscessero, in quanto ben diffuse in Firenze dai frati del convento di San Marco (del resto sappiamo da Ascanio Condivi, primo biografo di Michelangelo, che l’artista aveva ben presenti i sermoni di Savonarola, e che lesse anche alcuni suoi scritti). La studiosa ipotizza dunque che i nudi potrebbero essere i non battezzati risorti, anche per il fatto che la bellezza e la nudità sono due caratteristiche collegate al tema della resurrezione. Inoltre, al contrario di san Giovannino che guarda verso la Sacra Famiglia (volgendo peraltro le spalle ai personaggi dietro di lui, come a dire che non sono stati battezzati), i nudi si guardano tra loro (una possibile allusione al fatto che non sarebbero stati toccati dalla grazia di Cristo). Franceschini suggerisce dunque che il celeberrimo tondo degli Uffizi “possa alludere a una speranza di vita futura per coloro che sono morti senza battesimo”.
D’una certa attenzione è meritevole anche un’ulteriore interpretazione, di Antonio Natali, che fa riferimento ai testi del Nuovo Testamento, e in particolare alla lettera di san Paolo agli Efesini, nella quale il santo si rivolge a quanti un tempo furono pagani e, a seguito della conversione, hanno abbracciato Gesù Cristo, evidenziando che “voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli edei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Gesù Cristo. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo del Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito”. Secondo Natali il Tondo Doni è probabilmente un’illustrazione di questo passo: la nudità dei giovani sullo sfondo rappresenta la liberazione dal peccato, e il muro cui s’appoggiano sarebbe simbolo di quel “tempio Santo” che ognuno di loro concorre a formare e che allude alla Chiesa di Cristo. Il tutto si collegherebbe all’evento della nascita di Maria Doni in quanto è per mezzo del battesimo (che è uno dei temi della lettera di san Paolo) che s’entra nella comunità cristiana.
Quanto alla storia del Tondo Doni, sappiamo che verso la fine del Cinquecento gli eredi di Agnolo Doni avevano conosciuto un calo delle loro fortune, e fu forse per tali circostanze che l’opera venne venduta, anche se non sappiamo con certezza quali fossero i motivi. Così, il 3 giugno del 1595, dalla casa di Giovanni Battistaa Doni (figlio di Agnolo) l’opera fu prelevata per essere condotta nella residenza del suo acquirente, il granduca di Toscana Ferdinando I de’ Medici, che la appese nella sua camera da letto in Palazzo Pitti (si legge in una nota di pagamento: “addì 3 di giugno d. quattro [...] a Piero di Bernardo con due compagni fachini granducali et sono per aver portato di casa il Doni nel Corso de’ Tintori a Pitti in camera di S.A. un quadro d’una vergine grande di Michelagnolo Buonaruoti”). Nel corso del diciassettesimo secolo, il dipinto fu smontato dalla cornice di Francesco del Tasso per essere montato su di una cornice rettangolare più in accordo con il gusto dell’epoca: solo nel 1902 il Tondo Doni fu riunito alla sua cornice originaria, che era in deposito presso la Galleria degli Uffizi. La riscoperta per la cornice, peraltro, fugò tutti i dubbî in merito alla destinazione privata dell’opera, e riaccese l’interesse della critica nei confronti del Tondo Doni.
E anche se la celeberrima tavola michelangiolesca conobbe alcuni periodi di sfortuna critica, non v’è più dubbio, almeno a partire dal primo Novecento, che rappresenti, al contrario, uno dei testi più alti di tutta la storia dell’arte: Cesare Brandi, addirittura, scrisse che “non c’è forse pittura al mondo più alta e pregnante del Tondo Doni di Michelangiolo”. Dipinto modernissimo, è alla base della pittura di tutto il Cinquecento, e fu fonte d’ispirazione anche per i più grandi. Si pensi solo a uno dei vertici della produzione di Raffaello, la Deposizione Borghese, scomparto centrale della smembrata Pala Baglioni. E si provi a immaginare da dove derivi la posizione della terza delle pie donne, quella inginocchiata sulla destra, che sorregge il corpo della Vergine cui vengono a mancare le forze alla vista del figlio trascinato verso il sepolcro.
Antonio Natali, Michelangelo. Agli Uffizi, dentro e fuori, Maschietto Editore, 2014
Cesare Brandi, Scritti d’arte, Bompiani, 2013
Chiara Franceschini, The nudes in Limbo: Michelangelo’s “Doni Tondo” reconsidered in Journal of the Warburg and Courtauld Institute, vol. 73 (2010), pp. 137-180
Cristina Acidini Luchinat, Michelangelo pittore, 24 Ore Cultura, 2007
Antonio Natali, La piscina di Betsaida: movimenti nell’arte fiorentina del Cinquecento, Maschietto Editore, 1995
Silvia Meloni (a cura di), Il Tondo Doni di Michelangelo e il suo restauro, Centro Di, 1985
Alessandro Parronchi, Opere giovanili di Michelangelo, Leo S. Olschki, 1981
Roberto Salvini, Michelangelo, Mondadori, 1981
* Finestre sull’Arte, scritto il 27/06/2019 (ripresa parziale - senza immagini).
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DELL’IMPERO SU CUI NON TRAMONTA MAI IL SOLE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Costituzione dogmatica della chiesa "cattolica"... e costituzione dell’Impero del Sol Levante. Un nota sul “disagio della civiltà”
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
VERSO IL "PARADISO TERRESTRE" (DANTE, 2021):
DALLA TRINITA’ DI ADAMO ED EVA ALLA TRINITA’ DI GIUSEPPE E MARIA. Al di là della Trintà edipica....*
Trinità, il mistero che abita dentro noi
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 13 giugno 2019)
Memoria emozionante della Trinità, dove il racconto di Dio diventa racconto dell’uomo. Dio non è in se stesso solitudine: esistere è coesistere, per Dio prima, e poi anche per l’essere umano. Vivere è convivere, nei cieli prima, e poi sulla terra. I dogmi allora fioriscono in un concentrato d’indicazioni vitali, di sapienza del vivere. Quando Gesù ha raccontato il mistero di Dio, ha scelto nomi di casa, di famiglia: abbà, padre... figlio, nomi che abbracciano, che si abbracciano. Spirito, ruhà, è un termine che avvolge e lega insieme ogni cosa come libero respiro di Dio, e mi assicura che ogni vita prende a respirare bene, allarga le sue ali, vive quando si sa accolta, presa in carico, abbracciata da altre vite. Abbà, Figlio e Spirito ci consegnano il segreto per ritornare pienamente umani: in principio a tutto c’è un legame, ed è un legame d’amore.
Allora capisco che il grande progetto della Genesi: «facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza», significa «facciamolo a immagine della Trinità», a immagine di un legame d’amore, a somiglianza della comunione. La Trinità non è una dottrina esterna, è al di qua, è dentro, non al di là di me. Allora spirituale e reale coincidono, verità ed esistenza corrispondono. E questo mi regala un senso di armoniosa pace, di radice santa che unifica e fa respirare tutto ciò che vive.
In principio c’è la relazione (G. Bachelard). «Quando verrà lo Spirito di verità, vi guiderà... parlerà... dirà... prenderà... annunzierà». Gesù impiega tutti verbi al futuro, a indicare l’energia di una strada che si apre, orizzonti inesplorati, un trascinamento in avanti della storia. Vi guiderà alla verità tutta intera: la verità è in-finita, «interminati spazi» (Leopardi), l’interezza della vita. E allora su questo sterminato esercito umano di incompiuti, di fragili, di incompresi, di innamorati delusi, di licenziati all’improvviso, di migranti in fuga, di sognatori che siamo noi, di questa immensa carovana, incamminata verso la vita, fa parte Uno che ci guida e che conosce la strada. Conosce anche le ferite interiori, che esistono in tutti e per sempre, e insegna a costruirci sopra anziché a nasconderle, perché possono marcire o fiorire, seppellire la persona o spingerla in avanti.
La verità tutta intera di cui parla Gesù non consiste in concetti più precisi, ma in una sapienza del vivere custodita nell’umanità di Gesù, volto del Padre, respiro dello Spirito: una sapienza sulla nascita e sulla morte, sulla vita e sugli affetti, su me e sugli altri, sul dolore e sulla infinita pazienza di ricominciare, che ci viene consegnata come un presente, inciso di fessure, di feritoie di futuro.
(Letture: Proverbi 8,22-31; Salmo 8; Romani 5,1-5; Giovanni 16,12-15)
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. In memoria di Kurt H. Wolff.
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MARGINI della filosofia. Intervento libero. In memoria di Jacques Derrida...
Siccome orientarsi nell’infinito è un problema meta-fisico e costituzionale, e - dopo Kant e la sua "rivoluzione copernicana" - non sappiamo ancora distinguere "dewey"anamente tra "prima di Cristo" e "dopo Cristo", tra Tolomeo e Copernico, tra il tutto e la parte, tra [antropologia e andrologia - e ginecologia->http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3539], tra Italia e "Italia", tra Costituzione e Partito, tra forza Italia e "Forza Italia", mi è sembrato opportuno fornire un piccolo banale (comune!) elemento per uscire dal sonnambulismo e dalla confusione! Siamo o non siamo "Dopo Dewey"!? O no?!
P. S. - SUL TEMA, MI SIA CONSENTITO, SI CFR.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
Federico La Sala
8 marzo, verso la prima passeggiata spaziale di sole donne
Protagoniste due astronaute e una donna controllore di volo
di Redazione ANSA *
La giornata della donna quest’anno ha un sapore particolare sulla Stazione spaziale internazionale (Iss) perché fervono i preparativi per la prima passeggiata spaziale della storia completamente al femminile: programmata per venerdì 29 marzo, avrà come protagoniste due astronaute della Nasa, Anne McClain e Christina Koch, che usciranno dalla Stazione spaziale per circa sette ore supportate da Terra da Kristen Facciol, controllore di volo donna dell’agenzia spaziale canadese Csa, pronta a seguire le operazioni dal Johnson Space Center della Nasa a Houston. Lo ha rivelato lei stessa con un tweet.
"Ho appena scoperto che sarò alla console per dare supporto alla prima passeggiata spaziale tutta al femminile con @AstroAnnimal e @Astro_Christina e non posso trattenere la mia eccitazione!!!!", ha scritto ai suoi follower.
La prima attività extraveicolare (Eva) di sole donne cadrà a quasi 35 anni di distanza dalla prima passeggiata spaziale al femminile: fu compiuta il 25 luglio 1984 dalla russa Svetlana Savitskaya, uscita dalla stazione spaziale sovietica Salyut 7 per tre ore e 35 minuti. Da allora diverse donne hanno camminato nello spazio, compresa l’astronauta dei record Peggy Wilson, che nella sua lunga carriera ha condotto ben dieci Eva.
Entrambe le sue ’eredi’, McClain e Koch, arrivano dalla classe di candidati astronauti selezionata dalla Nasa nel 2013 e composta per metà proprio da donne. McClain è già a bordo della Iss da dicembre per la spedizione 58, mentre la collega Koch arriverà il 14 marzo.
Lo strano caso del crocifisso eretico
Nel Museo del Colle del duomo di Viterbo un quadro “censurato” dalla Controriforma è l’ultima traccia dei tormenti religiosi della cerchia di Buonarroti
di Antonio Rocca (la Repubblica, 05/01/2019)
La Crocifissione del Museo del Colle del duomo di Viterbo appartiene a una fortunata serie, di ascendenza michelangiolesca e nasconde un mistero. L’iconografia consueta prevede il Cristo vivo in uno sfondo oscuro, al contrario in questa variante il Salvatore è morto e i tre crocifissi sono immersi in un paesaggio luminoso. La tavoletta è caratterizzata da intriganti anomalie e da una complessiva discontinuità stilistica. Il paesaggio è pregevole, così come la resa dei corpi dei crocifissi, il volto del Cristo è invece troppo piccolo e quasi giustapposto. Inoltre i ladroni sembrano abbandonati ai lati della composizione, mentre la Maddalena s’inserisce goffamente tra la Vergine e la croce. Anomalo è poi il perizoma, rosa festoso, del Redentore. Infine stupisce che, in contrasto con il Vangelo, i ladroni siano ritratti vivi e persino scalcianti, laddove in Giovanni è scritto che i soldati romani gli spezzarono le gambe prima di colpire Cristo. Date tali incongruenze e le cadute stilistiche, la critica più attenta all’estetica e all’attribuzionismo ha archiviato il dipinto tra le stanche repliche del modello michelangiolesco, senza prestargli eccessiva attenzione.
Era invece proprio la serrata trama delle anomalie a suggerire aperture su scenari inediti, ma a quella crocifissione andava riconsegnato un preciso orizzonte culturale. Premesso che l’analisi del supporto e dei pigmenti aveva fornito risultati compatibili con la datazione alla metà del XVI secolo, e dopo aver assunto come termine di partenza i disegni preparatori delle crocifissioni realizzati da Michelangelo intorno al 1540, si trattava di chiudere la forchetta temporale stabilendo un termine ultimo. Il primo passo di questa ricerca è stato fornito dal paesaggio.
Nella campagna viterbese sono riconoscibili le terme romane del Bacucco, più volte disegnate da Michelangelo. Alle spalle dei crocifissi sono visibili le cinque colonne che Alessandro Farnese fece dislocare prima del 1570. Questa traccia di partenza è stata corroborata da un altro dettaglio, che aiuta a ridurre il range temporale. Nel 1564 Andrea Gilio nei suoi famigerati quanto influenti Dialoghi, fondamento teorico dell’intervento che emenda i nudi del Giudizio, chiede che i ladroni siano raffigurati inchiodati alla croce e non legati con funi, come ancora appaiono nella Crocifissione viterbese. Non erano prove, ma indizi convergenti utili a orientare la direzione delle indagini.
Sottoposto a una scansione tridimensionale, il dipinto ha evidenziato una superficie pittorica discontinua che monta in corrispondenza della Maddalena, mentre recede all’altezza del volto di Cristo. La Maddalena risultava quindi una figura posticcia, presumibilmente realizzata dallo stesso mediocre pittore che aveva ridipinto il volto del Cristo. Come dimostrato da una radiografia la depressione registrata in quest’area è determinata dall’assenza dello stato di preparazione. Il volto originario era stato raschiato e quindi malamente ridipinto.
La lettura di questi elementi ci spinge a pensare che un originario Cristo vivo sia stato modificato e che la Maddalena sia stata aggiunta per ricentrare la composizione, marginalizzando i due ladroni.
Per quale motivo? Siamo in periodo conciliare, il tema della giustificazione per opere o per fede è rovente anche in casa cattolica, all’interno della quale due fazioni si confrontano apertamente. La prima guidata da Gian Pietro Carafa, il cardinale che ha ripristinato la Santa Inquisizione, è schierata su posizioni rigidissime; la seconda, guidata da sir Reginald Pole, ha elaborato un manifesto dialogante, il Beneficio di Cristo.
Nel Beneficio, pubblicato a Venezia nel 1543 ma redatto a Viterbo nel 1542, si tenta di aggirare la dicotomia tra opere e fede facendo perno sulla virtù salvifica della Passione. Il cristiano è salvo in quanto ha fede nella potenza redentrice del Beneficio di Cristo. Dato il contesto si spiega perché Carafa, divenuto pontefice nel 1555, già nell’anno successivo decretò che i crocifissi non si dipingessero vivi. Il Cristo che si rivolge al ladrone buono, salvandolo per sola fede, era divenuto un’icona insopportabile per lo zelante inquisitore. Se Paolo IV non poteva emendare Giovanni, poteva però inibire la riproposizione di quel tema, e così fece. Il valore salvifico e aurorale attribuito alla Passione dà allora ragione anche di quel perizoma rosa. Quell’elemento è uno stendardo, quasi un sole nell’alba di una nuova era. La Passione è prefigurazione della perfetta letizia o, per usare le parole di Vittoria Colonna, “arra” dell’estremo riso. Versi che ben testimoniano il clima che si respirava nel cenacolo radunatosi attorno al cardinale Pole negli anni che precedono il concilio. Il sogno che preannuncia la catastrofe.
La giustificazione per fede fu condannata nel 1546, Vittoria Colonna morì nel 1547, nel conclave del 1549 Pole mancò l’elezione per un soffio. Da quel momento l’Inquisizione cancellò ogni traccia dell’Ecclesia viterbiensis, comunità che vantava tra i suoi membri Michelangelo e Marcantonio Flaminio. Questa piccola tavola, sopravvissuta grazie a un intervento censorio, è tutto ciò che resta di una stagione ricca di speranze.
CRISTO ED EDIPO: LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Un omaggio al lavoro del prof. Romeo De Maio ...
Recensioni editoriali
Enigma per due: si dice Sfinge, si pensa a Cristo *
È molto presente e non se ne fa accorgere. Sta nelle cattedrali, sui frontespizi degli edifici delle istituzioni, nei dipinti e nelle sculture, nelle illustrazioni dei codici, della Bibbia, nei poemi, nell’inafferrabilità delle migliori musiche. È la Sfinge, questo essere che noi umani chiamiamo mostruoso perché ha artigli al posto delle mani e lo sguardo non sfuggente. Ti guarda, lei, trapassandoti in un attimo, ti consegna al mistero, ai suoi abissi che si fanno domanda, e probabilmente fu proprio quell’attimo che, dieci anni fa, colse lo storico Romeo De Maio nella cattedrale di Bari quando, per la prima volta, si accorse della Sfinge rappresentata sulla finestra absidale del Duomo. C’era stato molte volte, lì, non l’aveva scorta mai. Dietro di lei, raffigurata sopra un carro, i simboli dell’eucarestia. Fu una folgore. Che cosa univa il pagano al sacro? E perché?
Cominciò in quel momento, per lui, “un’esperienza molto simile al poeta Theodor Däubler, che andò in Egitto per la Sfinge e le trovò Cristo accanto”. I risultati di quell’esperienza sono il libro “Cristo e la Sfinge - la storia di un enigma” (Mondadori, 350 pagine), in libreria. Negli ultimi dieci anni De Maio è andato in giro per il mondo (occidentale soprattutto) alla ricerca delle testimonianze che affiancano la Sfinge al Cristianesimo.
Perché? ” Il motivo fu l’impressionante creazione-incisione di Nicolas Poussin, pittore francese dimorato a Roma, per la copia della Bibbia destinata al re di Francia, nel 1642. Il pittore la intitolò “Chiesa e Sinagoga”, e raffigura il Dio Padre che benedice il Vecchio e il Nuovo Testamento. Sulla Bibbia tenuta in mano dal Vecchio c’è, distesa, una Sfinge che guarda da tutt’altro lato, verso est, dove sorge il sole”.
È solo un esempio dei migliaia ritrovati dall’autore. Testimonianze che non si riferiscono all’ufficialità dei documenti nel senso di rogiti, nel senso di carte bollate, nel senso di trattati con le firme apposte in calce. È questo uno dei rari casi in cui si elevano a documento storico, e dunque attendibili come una data con sopra il timbro dell’ufficialità, le espressioni degli artisti. Pittori, scultori, architetti, poeti. Teologi. Musicisti. Dicono la Storia, i suoi limiti, le sue possibilità. Le fanno i connotati.
Donatello, Bernini, Michelangelo, Klimt, De Chirico, Purcell, Giovanbattista Marino, Oscar Wilde, Mantegna, Stravinskij, Kirker, Pico della Mirandola, Cocteau, Mozart, l’abate Kirker, Flaubert. “L’artista - dice De Maio - ha la visione, l’intuizione al pari del Vate. Queste sono indispensabili, fondamentali per la conoscenza. Io ho sottoposto le creazioni artistiche alle regole della filologia e al rispetto dell’esperienza mistica”. In loro la Sfinge non è mai elemento ornamentale. Sia essa alla base di un trono gestatorio, sia riferimento poetico, sia nella scenografia di una rappresentazione teatrale. Così le madonne vegliate dalla Sfinge, da essa protette, i volti spesso uguali: i rimandi poetici, le allusioni cromatiche, la disposizione degli elementi. “Quando gli artisti la dipingono, anche su commissione papale, è per far aprire gli occhi agli ecclesiastici. Per svolgere un mistero, avviare una conoscenza non dogmatica”.
Più di tremila testimonianze ha trovato De Maio, ignorate dalla Chiesa in questi tremila anni. Come dire: volutamente non considerate. Perché è pericoloso ammettere quelle che oggi il linguaggio contemporaneo definirebbe contaminazioni. Perché il Potere Temporale, la sua Legge, non ammette altro Dio. Come avrebbe mai potuto accettare la presenza, accanto al figlio del Padre, accanto alla Madre del Figlio, lo sguardo misterioso e definitivo del simbolo pagano per eccellenza, che ha ispirato il mito tra i più antichi dell’uomo ed esplorati dalla psicanalisi nel secolo appena trascorso, con Freud che ha posto Edipo, e la profezia che a lui fece la Sfinge, tra noi e la vita che conduciamo?
De Maio considera “rivoluzionario” questo lavoro, questo lavoro, il suo “testamento anticipato. Lo avrei potuto anche intitolare “Cristo prima del Cristianesimo”. La Sfinge ci porta verso l’aspetto mistico dell’uomo, di Cristo; aspetto non considerato dal Potere Istituzionale Ecclesiastico nella sua nuda verità”. È un nuovo senso, una nuova possibilità vista da altro punto di vista. Una visione allargata e non ristretta. Senza inquisizioni. Che si apre alla domanda. Basta questa, vuole dirci De Maio, per avere la risposta.
*
Fonte: Esonet.org, 14.05.2010
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL PROBLEMA MOSE’ E LA BANALITA’ DEL MALE: FREUD NELLA SCIA DI KANT (MA NON DEL TUTTO).
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Federico La Sala
Dopo 500 anni il convento chiude e il priore si sposa
di Giampaolo Visetti (la Repubblica, 10.10.2018)
Il suo convento, dopo quasi 500 anni, ha chiuso. L’ex priore ci ha pensato per cinque anni e giovedì scorso, festa di San Francesco, ha sposato Martina. Ieri l’annuncio su Facebook, subito preso d’assalto da amici e fedeli: centinaia i messaggi d’affetto e di nostalgia.
Fra Dino Pistore, 49 anni, ha lasciato il saio, ma prima di tutto il segno. Sui social ha pubblicato una foto: le mani sue e della sposa, intrecciate e con le fedi in vista, offrono una cosmea viola. «Grazie a tutti - si legge - proprio a tutti. In questi giorni abbiamo raccolto un bene immenso, una benedizione dolce da parte di tanti cuori».
A Schio, nel Vicentino, nessuno dimentica il giorno dell’addio. Era l’8 settembre del 2013. Dopo cinque secoli il convento dei cappuccini, che teneva aperta la chiesetta di San Nicolò dal 1536, è rimasto vuoto. Scelta, sofferta, della diocesi: anche nel Veneto "bianco" i giovani con la vocazione sono rarità, i seminari chiudono, le parrocchie vengono assegnate a volontari laici, sacerdoti e frati ormai sono vecchi.
Non è solo la crisi della Chiesa cattolica. È la fine di un mondo, il tramonto della civiltà silenziosa che ha costruito l’Europa. Fra Dino però, assieme al suo popolo delle Valli del Pasubio, aveva cercato di resistere, protestato, accusato. Inutile opporsi all’indifferenza di un’evoluzione.
L’ultimo giorno, in duomo, aveva chiesto solo di dire due parole. Si è avvicinato al pulpito e, lentamente, si è tolto il saio. È rimasto lì in t-shirt e pantaloni corti grigi, i sandali ai piedi: come San Francesco ad Assisi nel 1200, però al contrario. Molta gente aveva pianto. Un conto è accettare che il convento secolare che ha giustificato la città, come tanti altri in tutto l’Occidente, venga chiuso perché le celle sono deserte.
Tutt’altro vedere il priore che lascia cadere a terra il saio, saluta commosso e scende per sempre dall’altare. Anche per chi non crede, è come un pugno e fa male. Fra Dino, il giorno dopo, era scomparso.
Spiegazione ufficiale: «Periodo di riflessione al di fuori della vita ecclesiastica per motivi di carattere personale». Lo ha trascorso a Terzolas, in Trentino, in un convento di montagna che pure nel frattempo ha chiuso, trasformato in albergo. La sua provvidenza però gli ha donato l’amore per Martina. Dopo il sì in municipio, la festa in trattoria, sempre con la gente di Valli. Adesso fa il giardiniere: fiori diversi, un’altra felicità, ma quel certo senso per la vita resta lo stesso.
Corpi celestiali e altre ossessioni
di Michele Emmer (Alfabeta-2, 30.09.2018)
Grande mostra e grande successo di pubblico al Metropolitan Museum di New York. La mostra si intitola Heavenly Bodies. Fashion and the Catholic Imagination (Corpi celestiali) ed è una esposizione, volendo molto riassumere, di moda. Ispirata alla chiesa cattolica romana e all’arte sacra italiana. È divisa in due sezioni che sono anche fisicamente separate, distanti tra loro e questa è stata una richiesta esplicita di una delle istituzioni che partecipano alla mostra: la chiesa cattolica, probabilmente del Papa in persona.
Per spiegare il senso della esposizione sono citate all’inizio le frasi di un sociologo:
“I cattolici vivono in un mondo incantato, un mondo di statue e acqua santa, vetrate e candele votive, santi e medaglie religiose, rosari e immagini sacre. Ma questi armamentari cattolici sono semplici accenni a una più profonda e pervasiva sensibilità religiosa che spinge i cattolici a vedere il Santo in agguato nella creazione”.
E i curatori aggiungono:
“Heavenly Bodies presenta il lavoro di designer che per la maggior parte sono cresciuti nella tradizione cattolica romana. La gran parte di loro, pur nei diversi rapporti che hanno avuto con il cattolicesimo, riconosce la influenza permanente della chiesa cattolica sulla loro immaginazione. In superficie, questa influenza si esprime attraverso l’esplicito immaginario cattolico e il simbolismo, nonché i riferimenti a indumenti specifici indossati dal clero e dagli ordini religiosi. A un livello più profondo, si manifesta come una dipendenza dallo storytelling, e in particolare dalla metafora. Dall’immaginario cattolico".
Con una non poca parte di malizia il curatore della mostra Andrew Bolton aggiunge:
“Il Papa indossa Prada. La rivista Newsweek ha proclamato nel novembre 2005 in un articolo che descrive le inclinazioni sartoriali di Benedetto XVI. Papa Benedetto XVI è a dir poco un’icona della moda religiosa, che cavalca la Papamobile con mocassini rossi di Prada sotto la tonaca e le tonalità Gucci". Nel giro di due anni, però, il pontefice ha aggiunto una lista di abiti migliori quando le sue scarpe rosse sono state nominate da Esquire il miglior accessorio dell’anno 2007. In effetti, le scarpe rosse di Benedetto, realizzate da Adriano Stefanelli a Novara, che realizzò altre versioni per Giovanni Paolo II, appartengono a una tradizione papale che risale a secoli fa. Il loro colore significa il sangue della Passione di Cristo e dei martiri cattolici, così come il fuoco dello Spirito Santo a Pentecoste, che segna la nascita della chiesa.”
La prima sezione è dedicata alla moda pontificia, sono in mostra paramenti sacri, indumenti indossati dal clero e dai Papi, diademi, veri e propri gioielli. Tutte queste cose sono esposte nel sottosuolo all’interno della sezione Egizia del museo. Al piano di sopra nel grande corridoio di fronte all’entrata che porta all’antico chiostro medioevale trasferito interamente all’interno del Metropolitan ci sono modelli di vestiti di anni diversi dei più grandi stilisti di ieri e di oggi, tra gli altri Alaïa, Balenciaga, Capucci, Chanel, Ann Demeulemeester, Sorelle Fontana, Dolce & Gabbana, John Galliano, Gattinoni, Jean Paul Gaultier, Craig Green, Valentino, Versace.
È in mostra anche una sequenza del film di Fellini Roma con la famosa sfilata di modelli ispirati ai vestiti di monache ed ecclesiastici. Tutti i manichini che indossano i vestiti ritraggono donne, tranne due, e hanno gli occhi rigorosamente chiusi. Vengono anche ricostruiti dipinti rinascimentali e tutti i manichini dei personaggi raffigurati hanno indosso vestiti ispirati ai dipinti.
Un enorme successo della mostra, folla di visitatori, già superato il milione di visitatori. Sperano di arrivare al milione e mezzo prima della chiusura l’8 ottobre 2018.
Catalogo diviso rigidamente in due parti, in uno dei due volumi la mostra del Vaticano, nell’altro la mostra degli stilisti. La copertina è rigidamente bianca e i due volumi separati sono uniti sul dorso dal titolo della mostra che è tagliato esattamente a metà in modo tale che inserendo i due cataloghi in un cofanetto il dorso delle due parti unite compone il titolo della mostra. Diabolicamente sublime. I testi sono oltre che del curatore della mostra di Barbara Drake Boehm, Marzia Cataldi Gallo, C. Griffith Mann, David Morgan, Gianfranco Cardinal Ravasi, and David Tracy. Peraltro il catalogo ha avuto pessime recensioni per la scarsa attenzione alle immagini.
Una delle sezioni più interessanti della Biennale di Architettura di Venezia del 2018 è quella del Vaticano, nel piccolo bosco dell’isola di san Giorgio. È stato chiesto a 10 famosi architetti di realizzare una cappella ma senza legame alcuno con la tradizione, con le regole degli edifici religiosi. Ne è venuta fuori una grande varietà di realizzazioni di forme, materiali, una grande creatività che il tema ha evidentemente stimolato. Con un catalogo del tutto esaustivo e di grande interesse.
La esposizione delle cappelle ispirate dal Vaticano è stata praticamente affiancata, per il primo periodo della Biennale almeno, a una mostra intitolata CRUOR: sangue sparso di donna, di Renata Rampazzi. Analogamente la mostra del Vaticano al Metropolitan non solo era contigua a quella degli stilisti alcuni ovviamente provocatori, ma anche con una altra mostra, opportunamente ospitata nella sezione distaccata del Metropolitan, il Metropolitan Brauer, a qualche isolato di distanza, dove erano esposti i disegni erotici, alcuni quanto mai espliciti ed provocatori, di Klimt, Schiele e Picasso. Il titolo Obsessions, si riferisce non solo alle ossessioni sessuali dei tre artisti, in particolare per il sesso femminile, ma anche del collezionista, Scofield Thayer, un ricco mecenate Usa che aveva acquistato quei disegni negli anni venti tra Parigi e Vienna, dove era stato in cura da Freud, che lo aveva liquidato considerandolo incurabile dalle sue ossessioni.
Insomma il Vaticano non ha esitato, volutamente o meno, a confrontarsi con la laicità, con il sesso, quello femminile in particolare, mettendosi in gioco, in qualche misura. Chissà come l’hanno presa quei prelati Usa che stanno tramando per disfarsi del papa.
Obsessions. Nudes by Klimt, Schiele and Picasso from the Scofield Thayer Collection
S. Rewald & J. Demsey, eds
The Metropolitan Museum, New Yor, 2018
sino al 7 ottobre.
Heavenly Bodies: Fashion and the Catholic Imagination
A. Bolton, ed.
The Metropolitan Museum, New York, 2018
sino al 8 ottobre
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO.
PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" ... *
L’effetto Matilda raccontato da Ben Barres, scienziato transgender
Un’attivista per i diritti delle donne vissuta alla fine dell’Ottocento, una storica della scienza e un importante neurobiologo. Il filo rosso che collega queste tre persone si chiama effetto Matilda.
di Simone Petralia (OggiScienza, 16 agosto 2018)
IPAZIA - Matilda Joslyn Gage è stata una femminista e una libera pensatrice statunitense. Nel corso della sua vita ha lottato per il suffragio femminile, per i diritti dei nativi americani e per l’abolizione della schiavitù. “Woman as inventor”, un suo breve saggio del 1870, è al tempo stesso un elogio dell’inventiva femminile e una denuncia lucida e argomentata delle discriminazioni e delle disparità di trattamento a causa delle quali il talento delle donne è spesso calpestato o non riconosciuto.
L’effetto Matilda: cos’è
La comunità scientifica, si sa, non è esente da pregiudizi. A parità di abilità e conoscenze, per esempio, uno scienziato famoso godrà di maggior credito rispetto a un ricercatore poco noto. Nel 1968, il sociologo Robert K. Merton ha definito questa forma di discriminazione “effetto san Matteo”, dal verso attribuito all’evangelista: “a chiunque ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha” (Mt 13, 12). Prendendo spunto dal lavoro di Merton e dal saggio di Matilda Joslyn Gage, nel 1993 la storica della scienza Margaret W. Rossiter ha sviluppato il concetto di “effetto Matilda”.
L’effetto Matilda indica la tendenza a sottovalutare o a sminuire i risultati scientifici conseguiti dalle donne. È stato dimostrato che le ricerche condotte da scienziate suscitano in media meno interesse e vengono citate con minor frequenza rispetto a lavori analoghi realizzati da uomini; quando l’importanza di una scoperta compiuta da una donna è innegabile, invece, questa viene spesso attribuita a un collega maschio. L’effetto Matilda ha segnato la carriera di molte grandi scienziate - da Nettie Stevens a Rosalind Franklin, da Cecilia Payne Gaposchkin a Wu Jianxiong - le quali spesso si sono viste negare un premio Nobel che sarebbe spettato loro di diritto; ma a subirne gli effetti sono state e sono tuttora anche migliaia di ricercatrici sconosciute che vedono il loro lavoro ignorato o svilito a causa di questo pregiudizio.
Il punto di vista di Ben Barres
“Ho vissuto nei panni di una donna e in quelli di un uomo. Questo mi ha dato la possibilità di riflettere sulle barriere che le donne devono affrontare”. Sono parole di Ben Barres, neurobiologo americano. Morto prematuramente nel dicembre del 2017, Barres è ricordato soprattutto per le sue importanti ricerche sul modo in cui le cellule gliali contribuiscono alla formazione e allo sviluppo dei neuroni. È stato uno scienziato di successo, ma - da uomo transgender - anche un alfiere della causa LGBTQ+, sempre in prima linea per il raggiungimento della parità dei diritti di tutte le minoranze.
Barres ha effettuato la transizione dal genere femminile a quello maschile nel 1997, quando aveva 42 anni e lavorava già da tempo alla Stanford University. Nel corso della sua vita ha avuto quindi la possibilità di toccare con mano le piccole e grandi differenze nel modo in cui solitamente ci si relaziona a un altro essere umano, a seconda che lo si percepisca come un uomo o come una donna. Soprattutto ha vissuto sulla sua pelle, per anni, ciò che per la maggior parte degli uomini è pura teoria: l’effetto Matilda.
Nel corso di una conferenza tenutasi nel gennaio del 2005, Lawrence Summers - importante economista, all’epoca presidente della Harvard University - aveva sostenuto che la scarsa presenza femminile in certi ambiti scientifici, come la matematica o l’ingegneria, è da imputare a una caratteristica innata delle donne, la mancanza di una attitudine intrinseca alla scienza. Poco tempo dopo anche lo psicologo cognitivo Steven Pinker e il biologo Peter Lawrence avevano formulato ipotesi analoghe. Quella del determinismo sessuale è un’idea che, in forme e con sfumature differenti, viene riproposta periodicamente. Alcuni scienziati e intellettuali - tra cui il nostro Piergiorgio Odifreddi - sostengono ancora oggi che la difficoltà che le donne hanno a emergere in certe discipline, come la matematica, sia dovuta al fatto che non sono biologicamente portate per l’astrazione.
Nel luglio del 2006, a distanza di alcuni mesi dalle esternazioni Summers e degli altri studiosi, esce su Nature un lungo articolo in cui Barres espone il suo punto di vista sulla questione. La domanda a cui cerca di rispondere è evidente sin dal titolo: “Does gender matter?”, il genere condiziona davvero le performance in ambito scientifico? La risposta è molto chiara: sì. Il genere conta, dice Barres, non tanto perché le donne abbiano caratteristiche innate che le rendono meno capaci degli uomini, quanto piuttosto per l’assunzione sociale che le donne siano per natura meno capaci. In altre parole, a condizionare i risultati scientifici femminili è proprio l’effetto Matilda.
Barres ha la possibilità di replicare alle affermazioni di Summers e degli altri sostenitori dell’innatismo biologico non da un punto di vista puramente teorico, ma rifacendosi alle sue esperienze personali. Avendo vissuto la prima parte della sua vita da donna, ha toccato con mano il sessismo strisciante e ha poi potuto paragonarlo al trattamento successivo riservatogli in quanto uomo. Quando studiava al MIT, racconta, era stata l’unica persona della sua classe - composta soprattutto da ragazzi - a risolvere un complesso problema matematico; il professore, non si sa se per gioco o sul serio, le aveva detto che a risolverlo doveva essere stato il suo fidanzato. Durante il dottorato ad Harvard aveva fatto domanda per un posto all’università; i candidati erano solo due: lei, che all’attivo aveva sei importanti pubblicazioni, e un uomo che aveva pubblicato un solo paper. Venne scelto il candidato maschile. Poco dopo la transizione, un membro della facoltà che aveva assistito a un seminario di Barres non sapendo che fosse transgender, aveva detto che le sue ricerche erano con ogni evidenza superiori a quelle della sorella. Aveva letto le pubblicazioni precedenti di Barres, firmate col nome femminile, senza capire che si trattava della stessa persona; il solo fatto che a scriverle fosse stata una donna era bastato a modificare, in peggio, la sua percezione sulla qualità complessiva del lavoro.
Nel suo articolo, oltre a raccontare episodi legati alla sua storia personale, Barres dimostra la pervasività dell’effetto Matilda ricorrendo anche ai dati. Numerose statistiche, infatti, dimostrano come il pregiudizio di genere sia un potente bias, una vera e propria distorsione cognitiva che condiziona il modo in cui si giudicano le persone. Questo avviene in tutti gli ambiti, anche in un contesto apparentemente evoluto e razionale come quello scientifico. Le donne che fanno domanda di finanziamento per le loro ricerche, per esempio, devono essere 2.5 volte più produttive degli uomini per essere considerate egualmente competenti.
Altri studi sulle minoranze
Altri studi dimostrano come il pregiudizio riguardi, oltre che le donne, anche tutte le persone appartenenti a minoranze di qualche tipo, sia etniche che legate all’orientamento sessuale o all’identità di genere. Sembra che l’unico modo per tenersi al riparo da questo bias sia essere maschi, bianchi, cisgender - cioè non transgender - e ovviamente eterosessuali. “La gente che non sa che sono transgender”, scrive Barres nel suo articolo, “mi tratta con molto più rispetto. Posso persino completare un’intera frase senza essere interrotto da un uomo”. Le persone riconosciute come transgender, invece, devono affrontare pregiudizi analoghi a quelli delle donne, soprattutto coloro che affrontano un percorso di transizione contrario rispetto a quello di Barres, ovvero dal genere maschile a quello femminile; passaggio percepito da molti, in maniera più o meno inconscia, come una sorta di “declassamento sociale”.
Tornando all’effetto Matilda, Barres nota come siano in pochi ad ammettere che si tratti di un problema reale del mondo scientifico. Non solo quasi tutti gli uomini sono inconsapevoli dei loro privilegi, ma anche molte donne sembrano essere riluttanti a riconoscere il peso reale della discriminazione di genere. Questo per varie ragioni, tra cui un fenomeno noto come “rifiuto dello svantaggio personale”, per cui le donne confrontano i loro risultati solo con quelli ottenuti da altre donne, escludendo gli uomini e inserendosi implicitamente in una categoria a parte.
Sono molte le cose che si potrebbero fare per contrastare l’effetto Matilda. In primo luogo, sostiene Barres, evitare di far sentire le ragazze - a scuola, in famiglia e in qualsivoglia contesto - non all’altezza dei loro coetanei maschi o non adatte a intraprendere una carriera scientifica; a lanciare segnali di questo tipo sono, in maniera il più delle volte inconsapevole, gli stessi genitori o gli insegnanti. Occorre poi che la comunità scientifica lavori per migliorare l’equità nei processi di selezione e per dare sempre più posizioni di leadership alle donne e a persone appartenenti a minoranze. “La diversità fornisce un punto di vista più ampio, più sensibilità e maggior rispetto per le diverse prospettive, valori inestimabili in qualsiasi ambito”. Serve, infine, riconoscere che il problema esiste. Non voltarsi dall’altra parte, ma parlare, esporsi, raccontare quello che si è subito e non vergognarsi - mai - di essere chi si è. Seguire, insomma, l’esempio di Ben Barres.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
CREATIVITÀ E CARITÀ ("CHARITAS"). ADAMO ED EVA, MARIA E GIUSEPPE UGUALI DAVANTI A DIO. Il cattolicismo "andropologico" romano è finito...*
Risorsa famiglia.
Così lo sguardo femminile può cambiare l’economia
di Luigino Bruni (Avvenire, giovedì 23 agosto 2018)
Economia è una parola greca che rimanda direttamente alla casa ( oikos nomos, regole per gestire la casa), quindi alla famiglia. Eppure l’economia moderna, e ancor più quella contemporanea, si è pensata come un ambito retto da principi diversi, distinti e per molti versi opposti ai principi e ai valori che hanno sempre retto e continuano a reggere la famiglia. Un principio fondante la famiglia, forse il primo e quello sottostante gli altri, è quello di gratuità, che è quanto è di più distante dall’economia capitalistica, che conosce surrogati della gratuità (sconti, filantropia, saldi) che svolgono al funzione di immunizzare i mercati dalla gratuità vera.
La famiglia, infatti, è il principale luogo dove apprendiamo, per tutta la vita e in un modo tutto speciale da bambini, quella che Pavel Florensky chiamava ’l’arte della gratuità’. E lì che soprattutto da bambini impariamo anche a lavorare, perché non c’è lavoro ben fatto senza gratuità. La nostra cultura, però, associata la gratuità al gratis, al gadget, allo sconto, alla mezza ora in più al lavoro non remunerata, al prezzo zero (San Francesco ci ha invece detto che la gratuità è un prezzo infinito: non si può né comprare né vendere perché è impagabile).
In realtà la gratuità è qualcosa di molto serio, come ci ha spiegato con estrema chiarezza anche la Caritas in veritate, che rivendica alla gratuità anche lo statuto di principio economico. Gratuità è charis, grazia, ma è anche l’agape, come ben sapevano i primi cristiani, che traducevano la parola greca agape con l’espressione latina charitas (con l’h), proprio ad indicare che quella parola latina traduceva ad un tempo l’agape ma anche la charis, e per questo quell’amore diverso non era né solo eros né solo philia (amicizia). La gratuità, questa gratuità, allora, è un modo di agire e uno stile di vita che consiste nell’accostarsi agli altri, a se stesso, alla natura, a Dio, alle cose non per usarli utilitaristicamente a proprio vantaggio, ma per riconoscerli nella loro alterità e nel loro mistero, rispettarli e servirli.
Dire gratuità significa dunque riconoscere che un comportamento va fatto perché è buono, e non per la sua ricompensa o sanzione. La gratuità ci salva così dalla tendenza predatoria che c’è in ogni persona, ci impedisce di mangiare gli altri e noi stessi. E’ ciò che distingue la preghiera dalla magia, la fede dall’idolatria, che ci salva dal narcisismo, che è la grande malattia di massa del nostro tempo, per assenza di gratuità.
Se la famiglia vuole, e deve, coltivare l’arte della gratuità, deve fare molta attenzione a non importare dentro casa la logica dell’incentivo che oggi vige ovunque. Guai, ad esempio, ad usare la logica dell’incentivo all’interno delle dinamiche familiari. Il denaro in famiglia, soprattutto nei confronti dei bambini e dei ragazzi (ma con tutti), va usato molto poco, e se usato deve essere usato come un premio o riconoscimento dell’azione ben fatta per ragioni intrinseche, e mai usato come prezzo. Uno dei compiti tipici della famiglia è proprio formare nelle persone l’etica del lavoro ben fatto, un’etica che nasce proprio dal principio di gratuità. Se, invece, si inizia a praticare anche in famiglia la logica e la cultura dell’incentivo, e quindi il denaro diventa il ’perché’ si fanno e non si fanno compiti e lavoretti di casa, quei bambini da adulti difficilmente saranno dei buoni lavoratori, perché il lavoro ben fatto di domani poggia sempre su questa gratuità che si apprende soprattutto nei primi anni di vita, e soprattutto a casa.
L’assenza del principio di gratuità nell’economia dipende anche, e molto, dall’assenza dello sguardo femminile. La casa, l’oikos, è sempre stato il luogo abitato e governato dalle donne. Ma , paradossalmente, l’economia è stata, e continua ad essere, una faccenda tutta giocata sul registro maschile. Anche i maschi hanno sempre avuto a che fare con la casa, e molto. Il loro sguardo si è però concentrato sul provvedere i mezzi per il sostentamento, sul lavoro esterno, sui beni, sul denaro. E quando l’economia è uscita dalla vita domestica ed è diventata politica, sociale e civile, lo sguardo e il genio femminile è rimasto dentro casa, e quello maschile è rimasta la sola prospettiva della prassi e soprattutto della teoria economica e manageriale.
Le donne guardano alla casa e all’economia vedendo prima di tutto il nesso di rapporti umani che si svolge in esse. I primi beni che vedono sono quelli relazionali e i beni comuni, e dentro a questi vedono anche i beni economici. Non è certo un caso che l’Economia di comunione sia nata da uno sguardo di una donna (Chiara Lubich), né che la prima teorica dei beni comuni è stata Katherine Coman (nel 1911), e che Elinor Ostrom sia stata insignita (unica donna finora) del premio Nobel in economia proprio per il suo lavoro sui beni comuni. E ci sono due donne (Martha Nussbaum e Carol Uhlaner) all’origine della teoria dei beni relazionali. Quando manca lo sguardo femminile sull’economia, le sole relazioni viste sono quelle strumentali, dove non è la relazione ad essere il bene, ma dove i rapporti umani e con la natura sono mezzi usati per procurarsi i beni.
Se lo sguardo e il genio femminile della oikoscasa fossero stati presenti nella fondazione teorica dell’economia moderna, avremmo avuto una economia più attenta alle relazioni, alla redistribuzione del reddito, all’ambiente e forse alla comunione. È, infatti, la comunione una grande parola che dalla famiglia può passare all’economia di oggi. E qui si apre un discorso specifico per i cristiani.
La chiesa oggi è chiamata ad essere sempre più profezia, se vuole salvarsi e salvare. La profezia è anche una parola della famiglia. La maggior parte dei profeti biblici erano sposati, e molte parole e gesti profetici della bibbia sono parole di donne. Isaia chiamò suo figlio Seariasùb, che significa ’un resto tornerà’, che uno dei grandi messaggi della sua profezia.
Non trovò modo migliore per lanciare quel suo messaggio profetico di farlo diventare il nome del figlio. Ogni figlio è un messaggio profetico, perché dice con il solo suo esserci che la terra avrà ancora un futuro, e che potrà essere migliore del presente. La profezia della famiglia oggi, per essere credibile, deve prendere la forma dei figli e la forma dell’economia, e quindi della condivisione, dell’accoglienza e della comunione. Perché sia i figli che l’economia non sono altro che la vita ordinaria di tutti e di ciascuno, che è il solo luogo dove la profezia si nutre e cresce.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
ESTETICA (E NON SOLO) E DEMOCRAZIA. PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" (KANT).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
EUROPA: Edith Stein. Ebrea, atea, cristiana...
Teresa Benedetta della Croce.
Dall’ateismo al Carmelo una storia europea di santità
di Matteo Liut giovedì 9 agosto 2018
Solo la ricerca di Dio conta, perché solo in lui la storia ha senso e solo lui trasforma la sofferenza in una strada verso la luce vera. Oggi la compatrona del nostro Continente, santa Teresa Benedetta della Croce (al secolo Edith Stein), offre all’Europa uno spunto per continuare a guardare al futuro. La sua storia è fatta di dolore e speranza, di ricerca e di dono: sono gli "ingredienti" dai quali può nascere una società più giusta.
Era nata nel 1891 a Breslavia in una famiglia di ebrei ma a 14 anni scelse l’ateismo. Si mise a cercare la verità nella filosofia (fu assistente di Husserl) ma nel 1921 leggendo la vita di santa Teresa d’Avila capì che il senso sta nella ricerca di Dio. Nel 1922 si fece battezzare e nel 1934 entrò tra le Carmelitane a Colonia. Arrestata dalla Gestapo in Olanda, morì nel 1942 nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau.
Altri santi. San Romano, martire (III sec.); santa Candida Maria di Gesù Cipitria, religiosa (1845-1912).
Letture. Os 2,16.17.21-22; Sal 44; Mt 25,1-13.
Ambrosiano. Os 2,15f-16.17b.21-22; Sal 44; Eb 10,32-38; Mt 25,1-13.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CARMELITANI SCALZI ED ECUMENISMO: STORIA E MEMORIA. Ritrovato nel salernitano "file" perduto del tardo Rinascimento
IL PROBLEMA DELLA GENESI, LA CRISI DELLE SCIENZE EUROPEE, E LA FENOMENOLOGIA TRASCENDENTALE....
HUSSERL CONTRO L’HOMUNCULUS: LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI). Una ’traccia’ dal "Diario fenomenologico")
PIAZZA SAN PIETRO: LA "TEOLOGIA" DELL’ELLISSE (DEI "DUE SOLI") E LE ILLUSIONI DELLA "TEOLOGIA" DEL "CERCHIO INCANTATO" (DELLA SCOLASTICA "CATTOLICA" E DELLA "SAPIENZA" RATZINGERIANA). IL DARSI DELLE COSE: LA LEZIONE DI HUSSERL.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
FILOLOGIA E TEOLOGIA
LUCE DELLA FEDE ("LUMEN FIGEI"): "CHARITAS" O "CARITAS"?!
PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI ... *
CONSTITUTIO DOGMATICA DE ECCLESIA
LUMEN GENTIUM (21 novembre 1964):
A) Testo latino
1. Lumen gentium cum sit Christus [...]
42. "Deus caritas est, et qui manet in caritate, in Deo manet, et Deus in eo" (1 Io 4,16). Deus autem caritatem suam in cordibus nostris diffudit per Spiritum Sanctum qui datus est nobis (cf. Rom 5,5); ideoque donum primum et maxime necessarium est caritas, qua Deum super omnia et proximum propter Illum diligimus. Ut vero caritas tamquam bonum semen in anima increscat et fructificet, unusquisque fidelis debet verbum Dei libenter audire Eiusque voluntatem, opitulante Eius gratia, opere complere, sacramentis, praesertim Eucharistiae, et sacris actionibus frequenter participare, seseque orationi, sui ipsius abnegationi, fraterno actuoso servitio et omnium virtutum exercitationi constanter applicare. Caritas enim, ut vinculum perfectionis et plenitudo legis (cf. Col 3,14; Rom 13,10), omnia sanctificationis media regit, informat ad finemque perducit(132). Unde caritate tum in Deum tum in proximum signatur verus Christi discipulus.
PAULUS EPISCOPUS
SERVUS SERVORUM DEI
UNA CUM SACROSANCTI CONCILII PATRIBUS
AD PERPETUAM REI MEMORIAM
B) Testo italiano
COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA
LUMEN GENTIUM (21 novembre 1964):
1. Cristo è la luce delle genti [...]
42. « Dio è amore e chi rimane nell’amore, rimane in Dio e Dio in lui » (1 Gv 4,16). Dio ha diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr. Rm 5,5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di lui. Ma perché la carità, come buon seme, cresca e nidifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e con l’aiuto della sua grazia compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all’eucaristia, e alle azioni liturgiche; applicarsi costantemente alla preghiera, all’abnegazione di se stesso, all’attivo servizio dei fratelli e all’esercizio di tutte le virtù. La carità infatti, quale vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr. Col 3,14; Rm 13,10), regola tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine [132]. Perciò il vero discepolo di Cristo è contrassegnato dalla carità verso Dio e verso il prossimo.
* PAOLO VESCOVO
SERVO DEI SERVI DI DIO
UNITAMENTE AI PADRI DEL SACRO CONCILIO
A PERPETUA MEMORIA
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CAMBIARE REGISTRO: "TERTIUS IN CHARITATE" (Gioacchino da Fiore)!!! Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno Papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
L’ACQUA DI FRANCESCO E IL MULINO DI BENEDETTO XVI: MA QUALE FEDE?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
KANT, FREUD, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Firenze
I Doni di Michelangelo e Raffaello
di Antonio Paolucci (Il Sole-24 ore, Domenica, 11 giugno 2018)
Se l’obiettivo primario di un museo di arte antica è quello di essere didattico, di spiegare cioè con quanta possibile efficacia attraverso una opportuna selezione di opere, la storia delle arti figurative, allora bisogna riconoscere che l’ultima redazione della Sala di Michelangelo agli Uffizi, voluta dal direttore Eike Schmidt e messa in opera da Antonio Godoli, è esemplare.
Entrare nella nuova Sala di Michelangelo e collocarsi al centro di uno spazio giocato nei toni del bianco e del grigio, con i dipinti incastonati in parete protetti da cristalli che permettono la visione a distanza ravvicinata, significa essere nel cuore di una vera e propria “rosa dei venti”.
La rosa dei venti è quello strumento nautico che permette di leggere la direzione delle correnti atmosferiche. Fuor di metafora, essere dentro questa nuova sala degli Uffizi, fra Michelangelo, Raffaello e Fra’ Bartolomeo, significa capire una volta per tutte, per non dimenticarle mai più, le linee fondamentali che hanno attraversato la storia dell’arte in Italia e in Europa. C’è il Tondo Doni di Michelangelo e noi sappiamo - la sentenza è di Giorgio Vasari - che l’arte del Buonarroti è stata come una lampada destinata ad illuminare le future generazioni dei pittori e degli scultori.
Sostiamo di fronte ai capolavori del periodo fiorentino di Raffaello (i due ritratti di Agnolo Doni e di Maddalena Strozzi, i committenti del tondo, la Madonna del cardellino) e possiamo capire, ancora con il Vasari, quello che accadde al ragazzo Raffaello nei suoi anni fiorentini che si collocano fra il 1504 e il 1508. Sono gli anni che vedono Michelangelo e Leonardo confrontarsi sui ponteggi del Salone dei Cinquecento per dipingere rispettivamente con la Battaglia di Cascina e la Battaglia di Anghiari, le glorie militari della Repubblica fiorentina.
Raffaello con quella sua straordinaria felicità mimetica che lo aveva caratterizzato fin dalle primissime prove, guarda all’uno e all’altro e al secondo (allo sfumato aereo, alla intelligenza speculativa, all’umanesimo totale di Leonardo) più che al primo. Guarda alle “fatiche dei moderni” ma guarda anche a quelle “de’ maestri vecchi”, come scriverà Giorgio Vasari. Guarda a Michelangelo e a Leonardo e insieme guarda ai pittori della Scuola di San Marco, a quell’ideale di “bellezza virtuosa” che, nel solco della eredità spirituale di Girolamo Savonarola, aveva i suoi alfieri in Mariotto Albertinelli e in Fra’ Bartolomeo (rappresentato nella Sala con opere significative) e poi guarda al Masaccio del Carmine, al Beato Angelico, a Donatello, al fulgore bianco e azzurro delle Madonne di Luca della Robbia.
Capire questo significa capire anche (ecco la “rosa dei venti”) come tutto questo abbia fruttificato nella storia a venire delle arti; con Annibale Carracci, con Guido Reni, con il Poussin, con David, con Ingres, con Canova, fino al Picasso del periodo classico. Perché tutte le volte che un artista ha guardato al Vero visibile sotto il segno dell’ordine, dell’armonia, della bellezza, dello splendore, lì è in qualche misura all’opera l’eredità di Raffaello.
Si può rimanere ore di fronte ai ritratti Doni, la coppia di sposi più celebre di quegli anni. Sul retro che ’’attuale allestimento ha reso visibile, un maestro di primo Cinquecento da identificare nel cosiddetto «Maestro di Serumido» (Zeri, 1962) ha illustrato, con storie del mito, il tema bene augurante della fertilità coniugale.
L’idea (a ben guardare è ancora viva la memoria del Dittico dei duchi di Piero della Francesca, già nel Palazzo Ducale di Urbino ed oggi agli Uffizi) è quella di stagliare i due ritrattati, non di profilo come in quel caso, ma frontalmente, contro un vasto paese fatto di alti cieli, di nuvole che si dissolvono nell’azzurro, di prospettivi infinitamente slontananti a cogliere ogni fremito dell’immenso creato. L’omaggio alla Gioconda di Leonardo è bene evidente nella positura di Maddalena Strozzi, ma l’occhio del pittore scruta con sensibilità fiamminga ogni dettaglio della acconciatura, il calmo fulgore della perla, la tessitura dei panni, le trasparenze della seta, il riflesso della luce sul raso marezzato del corpetto. È qui evidente la memoria dei maestri neerlandesi (Jan van Eyck, Rogier van der Weiden, Giusto di Gand) che Raffaello adolescente aveva potuto studiare a Urbino nella Galleria del Duca.
Che i due ritratti Doni stiano accanto al Tondo che i loro denari hanno permesso di realizzare, è una idea espositiva che non può non trovare consenso. Così come era giusto collocare accanto al capolavoro del giovane Buonarroti, la Testa di Alessandro morente, scultura del tardo ellenismo, forse di scuola pergamena, collocata su un magnifico rocco di colonna in alabastro fiorito di Frigia, una delle pietre policrome più rare e costose dell’antichità, donata agli Uffizi, per questa occasione, da Detlef Heikamp.
Si tratta di un collegamento storico e stilistico particolarmente felice perché è a questo Antico (naturalistico, ultraespressivo, ispirato a pathos, tipico delle scuole plastiche di Pergamo e di Rodi) che Michelangelo ha guardato; lui che un giorno d’inverno del 1506, a Roma, aveva visto emergere dalla terra di scavo il Laocoonte che oggi sta nel Cortile Ottagono dei Musei Vaticani, in Belvedere.
Michelangelo il genio vero che amava realizzare falsi
Lettere, versi e una nuova biografia ricostruiscono la vita del maestro del Rinascimento e la sua passione per le sculture invecchiate ad arte
di Pietro Citati (la Repubblica, 25.06.2018)
Michelangelo Buonarroti nacque, non sappiamo esattamente se nel Casentino o a Chiusi, il 6 marzo 1475, verso le due di mattina. Mercurio e Venere - così si diceva - lo proteggevano dall’alto dei cieli. Insisté sempre, più del giusto, di essere un cittadino di antichissima nobiltà costretto dalla vita a maneggiare scalpelli e pennelli. Ancora bambino venne portato alla scuola di grammatica di Francesco di Giovanni da Urbino: ma «non si poteva tenere da non correre a disegnare». Più volte ripeté con violenza di aver rinunciato alla letteratura (sebbene scrivesse bellissime Rime), per abbracciare con passione soltanto le arti. Non imparò mai il latino: cosa molto singolare per l’epoca. Molto presto lavorò nella bottega di Domenico Ghirlandaio, anche se per tutta la vita detestò le botteghe d’arte e persino l’idea di bottega.
Erano gli ultimi anni di Lorenzo de’ Medici: il quale esercitò un’immensa influenza sull’arte e la vita di quel tempo. «Redeunt Saturnia regna... surget gens aurea mundo», si diceva.
Michelangelo lavorò da giovane nel giardino dei Medici a San Marco, come raccontò nel 1553 Ascanio Condivi nella sua bellissima vita ed ora, in un libro molto ricco e informato, Giulio Busi ( Michelangelo. Mito e solitudine del Rinascimento, Mondadori). Il giardino era «adornato di varie statue antiche e figure». Lorenzo «accarezzava», accendeva e spronava Michelangelo: lo chiamava molte volte al giorno, mostrandogli le sue pitture, le sue sculture e i suoi cammei, le meduse e le sfingi. Quell’epoca d’oro finì.
Preceduto da un fulmine sulla cupola di Santa Maria del Fiore, nella notte dell’8 aprile 1492, alle quattro di mattina, Lorenzo morì, e ciò fu, per Michelangelo una sciagura personale: «per molti giorni non potette fare cosa alcuna». «Fu denotata questa morte - scrisse Guicciardini - come di momento grandissimo da molti presagi: era apparita poco innanzi la cometa, erasi udito urlare lupi: una donna di Santa Maria Novella infuriata avea gridato che un bue con le corna di fuoco ardeva la città; eransi azzuffati insieme alcuni leoni, e uno bellissimo era stato morto dagli altri».
Michelangelo aveva diciassette anni. Come racconta Ascanio Condivi, «non era tanto alto, da giovane ammalato e cagionevole, la testa un po’ grande, e due occhi piccoli macchiati di scintille gaiette ed azzurre». Aveva le spalle larghe: ma il resto del corpo e specialmente le labbra, sottili. Secondo gli amici, sino alla fine della vita, anche in anni gravi e difficili, fu un eccellente e divertente conversatore, sebbene non si confidasse volentieri.
Come scrisse l’Aretino, amava il mistero e il silenzio. Aveva una memoria tenacissima: tanto - diceva agli amici - che «avendo dipinto tante finzioni, non ne ho fatta mai una che somigliasse ad un’altra». Amava ogni cosa bella: un bel cavallo, un bell’uomo, una bella montagna; e «le ammirava con meravigliosa attenzione, come l’ape raccoglie il miele da tutti i fiori». La più antica statua di Michelangelo che ci sia giunta è la Zuffa de’ centauri che gli venne ispirata da Angelo Poliziano.
Studiò l’anatomia come forse nessuno nella sua epoca: scorticava i corpi, per studiare i muscoli e le vene. Come racconta Edgar Wind in un bellissimo libro ( Misteri pagani del Rinascimento, Adelphi) amava i falsi: statue che sembrassero antiche; le tingeva e le invecchiava col fumo, in modo che si credesse che appartenevano all’età classica.
Proprio per questo amava l’incompiuto - l’incompiuto che risveglia in chi vede il senso dell’indefinito e dell’infinito. «Si conosce nell’imperfezzione della bozza - scrive stupendamente il Vasari - la perfezzione dell’opera... Ha avuto l’immaginativa tale e sì perfetta, che le cose propostosi nella idea sono state tali che con le mani, per non poter esprimere sì grandi e terribili concetti, ha spesso abbandonato l’opere sue, così come ne ha guaste molte... io so che innanzi di morire abbruciò gran numero di disegno, acciò nessun vedesse la fatica durata da lui».
Forse, per far dimenticare di non essere vittima nemmeno dell’incompiuto, dipinse la famosissima Madonna del Tondo Doni; che Roberto Longhi giudicò “il capolavoro assoluto di Michelangelo”; dove sembra inseguire da vicino l’impossibile perfezione.
Quando, nell’agosto 1501 i responsabili dell’Opera di Santa Maria del Fiore gli commissionarono il David, dovette trarre una nuova figura da un blocco di marmo già malamente abbozzato; e cercò, e riuscì, a trovare la perfezione nell’imperfetto e nell’impossibile. «Certo fu miracolo - commentò Vasari - di far risuscitare uno che era morto». Andava a Carrara a scegliere i marmi; e un giorno gli sembrò che doveva scolpire l’intera collina, assoggettando tutta la natura alla forza delle proprie mani. Passava mesi a cercare i marmi che gli si adattavano: Carrara era la sua vera patria. Amava il danaro: amava i papi sopratutto perché erano mecenati generosi: coltivò Giulio II, Clemente VI, che parlava di lui “con un’infinita affezione” e voleva che dipingesse solo per la chiesa; e Paolo III, che veniva a trovarlo mentre dipingeva la Cappella Paolina, arrampicandosi su una scala a pioli. Nel 1513 ebbe una grande visione: «essendo una notte al sereno, ed elevando gli occhi su al cielo, vide apparire in cielo un mirabile segno triangolare fuora dell’ordine e similitudine di ogni cometa consueta: era di un color splendente e rilucente, come una verga d’argento pulitissima o una spada brunita. La coda del segno si estendeva verso Firenze tutta di color di fuoco e nella sommità era biforcata e così lunga da raggiungere Firenze».
Nell’ultimo periodo della vita abitò a Roma, nella casa di Macel de’ Corvi, a piazza Venezia, dove ora sorge il palazzo delle Assicurazioni Generali. «È un caseggiato, con palchi, sale, chamere, terreno, orto, pozzo»: comodo per stiparvi i marmi e dedicarsi a diverse opere contemporaneamente. In quegli anni, Michelangelo lavorò moltissimo, quasi al di sopra delle forze umane: ci sembra impossibile che abbia immaginato e realizzato tanti progetti, come se, da solo, volesse costruire l’intera città di Roma. «Sono tanto ocupato - scriveva al nipote il 25 agosto 1541 ( Rime e lettere, a cura di Antonio Corsaro e Giorgio Masi, Bompiani) - che io non ho’ tempo di badare a voi, e ogni altra piccola cosa m’è grandissimo fastidio». Ora era lento, ora velocissimo. La pittura «non era la sua professione: ma la scultura»: o, meglio, non era mai «pictore né scultore né architetto, ma quel che voi volete»: chissà cosa. In ogni caso «si dipinge col cervello e non con le mani; e chi non può avere il cervello seco si vitupera». La pittura era «la fiamma del fuoco; la quale è più atta al movimento di tutte le cose». Era vecchio, diceva: «ogni ora potrebbe essere l’ultima mia»: «era - scrive Vasari - alle ventiquattro ore, e non nasceva pensiero in lui che non vi fusse sculpita la morte»; affascinato ed atterrito dalla morte. Nell’ottobre 1556 andò pellegrino: si avviò verso Loreto; ma si stancò e tornò a Roma con un compagno. Era solo, si sentiva solo e si lamentava di essere solo, sebbene volesse vivere da solo, nella sola compagnia delle arti.
Spesso era stizzito, irritato, furibondo, non sappiamo mai di che cosa. A volte era stanchissimo: poi, all’improvviso recuperava le forze. Gli pareva impossibile affrontare la grande impresa della Cappella Paolina. Nel giugno 1544 era malato grave, sebbene dicesse che sperava «di vivere ancora qualche anno». Aveva il male della pietra e beveva moltissima acqua. Non riusciva a dormire.
Era sporco. Come racconta Condivi, portava «di continovo stivali di pelle di cane sopra lo ignudo i mesi interi, che quando li voleva cavare, poi nel tirarli ne veniva spesso la pelle». Come scrive D’Annunzio, «era incurvato, corrugato, col naso rencagnito, col gozzo sotto la barba caprina, e le unghie cresciute fuori dal tomaio degli stivali, con la fronte sudicia di colore». Scolpiva la Pietà Rondanini, una settimana prima di morire. «Fece testamento di tre parole, che lasciava l’anima su nelle mani di Dio, il suo corpo alla terra, e la roba ai parenti più prossimi». Dopo cinque giorni di malattia “due levato al fuoco e tre in letto”, morì mezz’ora prima dell’Ave Maria il 18 febbraio 1564. Il 10 marzo fu portato a Firenze, «vestito con un robone di damasco nero, e con gli stivali e gli sproni in gambe ed in capo un cappello di seta all’antica col pelo lungo di felpa nera».
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE....
"Le donne non possono essere prete": lo stop di Ladaria
Il cardinale prefetto dell’ex Sant’Uffizio: "La dottrina è definitiva, sbagliato creare dubbi tra i fedeli. Cristo conferì il sacramento ai 12 apostoli, tutti uomini"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 maggio 2018)
CITTÀ DEL VATICANO - Si tratta "di una verità appartenente al deposito della fede", nonostante sorgano "ancora in alcuni paesi delle voci che mettono in dubbio la definitività di questa dottrina". A ribadire il "no" del Vaticano all’ipotesi dell’ordinazione presbiterale femminile è il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il neo-cardinale gesuita Luis Ladaria, in un lungo e argomentato articolo pubblicato sull’Osservatore Romano. Intitolato "Il carattere definitivo della dottrina di ’Ordinatio sacerdotalis’", il testo è scritto per fugare "alcuni dubbi" in proposito.
Evidentemente, il ritorno di proposte aperturiste circa le donne-prete avanzate soprattutto in alcuni paesi sudamericani in vista del Sinodo dei vescovi di ottobre dedicato all’Amazzonia, ha allarmato la Santa Sede che attraverso la sua massima autorità gerarchica ha voluto ribadire ciò che anche per Francesco sembra essere assodato: "Sull’ordinazione di donne nella Chiesa l’ultima parola chiara è stata data da Giovanni Paolo II, e questa rimane", ha detto Papa Bergoglio tornando nel novembre del 2016 dal suo viaggio lampo in Svezia.
Durante il Sinodo sull’Amazzonia uno dei temi centrali sarà quello della carenza di preti. Come superare il problema? In proposito, da tempo, si parla dell’opportunità di ordinare i cosiddetti viri probati, uomini sposati di una certa età e di provata fede che possano celebrare messa nelle comunità che, appunto, hanno scarsità di sacerdoti e dove è difficile che un prete possa recarsi con regolarità. Altri uomini di Chiesa fanno altre proposte: propongono, come ad esempio ha recentemente fatto monsignor Erwin Krautler della prelatura territoriale di Xingu in Amazzonia, che oltre ai viri probati si proceda con l’ordinazione delle diaconesse. Mentre altri ancora, invece, hanno parlato direttamente di donne-prete.
Ladaria ricorda che "Cristo ha voluto conferire questo sacramento ai dodici apostoli, tutti uomini, che, a loro volta, lo hanno comunicato ad altri uomini". E che per questo motivo la Chiesa si è riconosciuta "sempre vincolata a questa decisione del Signore", la quale esclude "che il sacerdozio ministeriale possa essere validamente conferito alle donne".
Già Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994, disse che "la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa". Mentre la Congregazione per la dottrina della fede, in risposta a un dubbio sull’insegnamento di Ordinatio sacerdotalis, ha ribadito che "si tratta di una verità appartenente al deposito della fede".
Chi vuole le donne-prete argomenta che la dottrina in merito non è stata definita ex cathedra e che, quindi, una decisione posteriore di un futuro Papa o concilio potrebbe rovesciarla. Dice, tuttavia, Ladaria che "seminando questi dubbi si crea grave confusione tra i fedeli" perché, Denzinger-Hünermann alla mano (l’autorevole volume che raccoglie simboli di fede, decisioni conciliari, provvedimenti di sinodi provinciali, dichiarazioni e scritti dottrinali dei Pontefici dalle origini del cristianesimo all’epoca contemporanea) la Chiesa riconosce che l’impossibilità di ordinare delle donne appartiene alla "sostanza del sacramento" dell’ordine. Una sostanza, dunque, che la Chiesa non può cambiare. "Se la Chiesa non può intervenire - dice ancora Ladaria - è perché in quel punto interviene l’amore originario di Dio".
Ladaria parla anche dell’infallibilità e del suo significato. Essa non riguarda solo pronunciamenti solenni di un concilio o del Papa quando parla ex cathedra, "ma anche l’insegnamento ordinario e universale dei vescovi sparsi per il mondo, quando propongono, in comunione tra loro e con il Papa, la dottrina cattolica da tenersi definitivamente". A questa infallibilità si è riferito Giovanni Paolo II in "Ordinatio sacerdotalis?, un testo che Wojtyla scrisse dopo un’ampia consultazione portata avanti a a Roma "con i presidenti delle conferenze episcopali che erano seriamente interessati a tale problematica". "Tutti, senza eccezione - ricorda Ladaria - hanno dichiarato, con piena convinzione, per l’obbedienza della Chiesa al Signore, che essa non possiede la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Teologia
Guido Bartolucci (Paideia) analizza l’opera di uno dei maggiori esponenti del filone umanista fiorentino
E Marsilio Ficino recuperò la spiritualità ebraica
di Marco Rizzi (Corriere della Sera, 12.04.2018)
È ormai diventato un luogo comune l’affermazione secondo cui le radici della civiltà europea sarebbero, al tempo stesso, greco-latine, cristiane ed ebraiche.
È anche possibile individuare il momento preciso in cui si è costituita questa triplice eredità nella forma in cui ancora oggi la conosciamo. Essa è infatti il frutto della riscoperta, accanto a quella dei classici, della tradizione ebraica ad opera degli umanisti fiorentini del XV secolo, tra cui spicca il pensatore Marsilio Ficino. È costui, infatti, che per primo propone la conciliazione non solo tra la filosofia greca, specie quella platonica, e il cristianesimo, ma anche con il più antico strato della sapienza ebraica risalente ai patriarchi, che Ficino ritiene di ritrovare in alcuni elementi della qabbalah medievale.
L’interesse di Marsilio, osserva Guido Bartolucci nel libro Vera religio (Paideia), nasceva dal tentativo di ripensare la tradizione teologica e spirituale cristiana, di cui si avvertivano nitidamente i segni di una crisi destinata ad esplodere drammaticamente nel secolo successivo. Al momento, però, prevaleva ancora l’idea che un rinnovamento della Chiesa fosse possibile e che a questo fine la dimensione intellettuale potesse risultare decisiva.
Così, di lì a poco sarà Pico della Mirandola a sviluppare appieno l’idea di una originaria sapienza (la prisca theologia) di cui il cristianesimo rappresenta certo il culmine, ma cui a buon diritto appartengono anche ebraismo e classicità.
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI
Federico La Sala
NUOVE FRONTIERE
Il Rinascimento qui e ora
di Alberto Orioli (Il Sole-24 Ore, 26 marzo 2018)
Ci volevano un sudafricano professore a Oxford, ex economista della Bers (Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo), e un canadese, anch’egli professore a Oxford, curioso del mondo e capace di parlare il mandarino, per scuoterci dall’ottundimento quotidiano in questa Italia illividita e rancorosa, prigioniera di una formidabile narrativa della paura. Ed è merito di Ian Goldin e Chris Kutarna se diventa proponibile l’approccio a un altro paradigma, un glorioso amarcord verso un nuovo Rinascimento, collettivo e individuale, nuova utopia del possibile. Anzi già in atto, secondo i due studiosi, se solo volessimo avere occhi per vederlo.
La 390 pagine della Nuova età dell’oro sono un concentrato di entusiasmo e di ingenuità. È la meraviglia di chi vede il David di Michelangelo dopo averne sentito narrare il mito a 10mila chilometri di distanza. È la positività frutto di stupore genuino, tuttavia retaggio fanciullesco se osservato con gli occhi nostri, di chi il David ce l’ha dentro e lo rimira tutti i giorni in Piazza della Signoria o in qualche luogo dell’anima. Il fatto che la scultura simbolo del Rinascimento faccia parte del nostro paesaggio interiore, e sia quasi un déjà vu del vissuto giornaliero, non ci esime dal rammentare come quella statua - per dirla con il critico d’arte - rappresenti «il potenziale umano nella sua forma più vitale», icona dello sforzo di raccolta del pensiero e dell’energia che precede di poco l’atto. E che atto, quella fiondata destinata a cambiare il pensiero dell’umanità intera.
Sostituite Zuckerberg a Gutenberg, i lanci su Marte ai viaggi di Colombo, Savonarola ai leader populisti, abbinateli ai progressi scientifici nella sanità, agli sforzi per la redistribuzione delle risorse, per la connessione globale, all’aumento dell’aspettativa di vita, alle scoperte di nuovi pianeti sempre più simili alla terra. Ne avrete la fotografia di questa nostra tumultuosa contingenza così simile a quell’epoca mitica, pur se punteggiata da shock e sorprese. E forse l’ultimo è proprio lo scandalo Facebook con il mercimonio dei big data e il rischio della grande disillusione “social”. Ovviamente Goldin e Kutarna non lo potevano prevedere, ma poco cambierebbe nella loro analisi: per loro comunque il nostro tempo è il migliore della storia, un mantra non discosto da certe asserzioni popperiane. Ne risulta un tempo sospeso in cerca di una prospettiva per mettere in sequenza questa inimitabile quotidianità e delineare la rotta del nuovo Rinascimento, futuro che è già presente.
Siamo noi il David, ci dicono i due economisti, un’umanità in tensione tra la decisione e l’azione: «Le forze che 500 anni fa confluirono in Europa per scatenare il genio e sovvertire l’ordine sociale sono nuovamente presenti nella nostra vita. Solo che sono più forti e globali». Il senso del libro è tutto qui: c’è una corrente globale che porta al riscatto dell’intelligenza, a maggior gloria dell’umanità stessa.
Il resto è una cavalcata narrativa - dottrina e aneddoti popolari stile wikipedia al cubo - per dimostrare il lato buono e bello di ciò che spesso percepiamo come oscuro e nemico, quello sviluppo globale fatto di schegge all’apparenza impazzite, di egoismi e di generosità, di collaborazioni di massa e di nuove guerre. Quello schermo quotidiano definito da milioni di pixel della contraddizione e del paradosso.
La Nuova età dell’oro diventa così un manuale sovversivo e radicale, soprattutto contro l’antropologia negativa che tanta parte ha nel dibattito pubblico della contemporaneità, a partire da quello politico. Un racconto positivo dell’oggi globale non discosto dalla narrativa di Steven Pinker, il paladino della guerra comunicativa contro la società del rancore. Il libro provoca: siamo in bilico nella sfida tra la fioritura del genio e la fioritura del rischio.
Sta a noi scegliere l’opzione giusta. O meglio, l’azzardo. Sta a noi - ci dicono Goldin e Kutarna - accettare di far roteare la nostra fionda fiduciosi che il futuro sarà radioso. Il refrain è sempre lo stesso: il nuovo Rinascimento è adesso. La scoppiettante rassegna che rilegge la vulgata del cammino fatto dall’umanità nelle sue diverse accezioni culturali (dalla scienza alla filosofia, dalla medicina alla comunicazione, dall’arte alla genetica) sfocia in un sincopato manifesto programmatico, una sorta di abbecedario pre-politico.
Vi si parla della necessità di recuperare il mecenatismo statale per finanziare dall’arte alla scienza (perché anche la novità del crowdfunding da sola non basta) o ancora del valore pedagogico del fallimento, unica strada per raggiungere obiettivi davvero ambiziosi, nel momento in cui i costi individuali e collettivi, grazie alle tecnologie, stanno crollando.
Il capitolo si avventura anche in un’ipotesi di riforma fiscale pur se con un enunciato assai generico e debole (spostare la base imponibile verso l’alto e usare le tasse per scoraggiare i mali pubblici); tratta l’urgenza di rafforzare la rete di sicurezza sociale allargando (senza spiegare come) la possibilità di accedere ai sussidi anche ai lavori eccessivamente precari o ancora la necessità di riequilibrare le tutele della proprietà intellettuale, declinate però secondo un programma tutto anti-industriale. Se poi si individuano i luoghi del nuovo sviluppo - le nuove Firenze, probabilmente oggi localizzabili più in Cina che in Europa - e vi si concentrano i migliori cervelli, il gioco è fatto e il Rinascimento vive.
Facile no? Facile. Ancora di più per chi usi schemi semplificati: basta avere fiducia nello spirito del cambiamento e abbinarlo al nuovo anelito verso la virtù e l’onestà (va detto che, finalmente, due economisti teorizzano e dimostrano il valore di utilità collettiva del rispetto delle regole, la convenienza pubblica e privata dell’essere onesti al di là di ogni valore etico). Nello schema semplificato è previsto anche l’uso di una dose di audacia, la più antica delle virtù da legare indissolubilmente alla dignità.
A lettura terminata si finisce col sorridere delle ingenuità e della lontananza rispetto alla comune realtà (vera, percepita?) dei due estasiati autori di questa Guida a un secondo rinascimento economico e culturale. Ma è quel sorriso che ti scava dentro. Perché tanto entusiasmo vitale diventa l’antidoto all’assuefazione del cinismo, vero cancro di una modernità solo sprezzante perché tutto sa e tutto ha già visto.
Tanto sfrontato ottimismo invece induce a riflettere su quanto siano necessari i sogni, soprattutto se ci rendiamo conto che altro non sono se non i progetti, veri e concreti o concretizzabili, di quel David che siamo noi, proteso verso un futuro che è sfida. Pico della Mirandola è il mentore dei due autori: «Ci afferri l’animo una santa ambizione di non contentarci delle cose mediocri, ma di anelare alle più alte e sforzarci con ogni vigore di raggiungerle dal momento che, volendo, è possibile».
E il sorriso scettico si fa via via complicità, fino al perdono di quell’eccessivo candore narrativo. Perché quelle energie, quelle tossine positive da orgoglio della virtù sono ciò che rimane a libro chiuso. E ciascuno così si sente più pronto ad affrontare il suo Golia.
USCIAMO DAL SILENZIO: UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE. Basta - con la connivenza all’ordine simbolico della madre!!!
Sana rivolta verso una sessualità miserrima
Habemus Corpus. Un appunto e una considerazione sulle parole di Papa Francesco sulla prostituzione
di Mariangela Mianiti (il manifesto, 20.03.2018)
«Chi va con le prostitute è un criminale. Questo non è fare l’amore, questo è torturare una donna. È uno schifo! Alcuni governi cercano di fare pagare multe ai clienti. Ma il problema è grave, grave, grave. E qui in Italia, parlando di clienti, è verosimile che il 90% siano battezzati, cattolici. Vorrei che voi giovani lottaste per questo. Se un giovane ha questa abitudine la tagli. La tratta e la prostituzione sono crimini contro l’umanità, delitti che nascono da una mentalità malata secondo cui la donna va sfruttata».
Così ha parlato Papa Francesco, ieri, durante il colloquio con i giovani nella riunione pre-Sinodo al pontificio collegio internazionale Maria Mater Ecclesiae di Roma. Più chiaro di così non poteva essere e questo vale sia per chi sogna di cancellare la legge Merlin, sia per chi vorrebbe regolamentare la prostituzione, magari copiando la legge approvata in Germania nel 2002 dal governo guidato dal socialdemocratico Gerhard Shröder. Tuttavia, a Francesco è scappata una frase piuttosto infelice quando ha detto: «Non c’è femminismo che sia riuscito a togliere questa mentalità dalla coscienza maschile, dall’immaginario collettivo».
Benché io sia atea, stimo questo Papa che in tanti ritengono ormai l’unico in Italia, e non solo, a dire cose di sinistra, laddove per sinistra si intende ragionare in termini di bene comune e non solo di interesse individuale. Proprio in virtù di questa stima, mi permetto di sottolineare che, se la prostituzione è così viva e vegeta, non è per debolezza del femminismo. Non sono state le donne ad avere inventato, introdotto e alimentato la pratica del sesso a pagamento, ma gli uomini. Sono gli uomini che hanno incrementato, e incrementano, la domanda.
Sono gli uomini a volere pagare per avere a disposizione dei pezzi di corpo femminile. Ora, dire che nessuna forma di femminismo è mai riuscita a sradicare questa mentalità, è un po’ come affermare che le donne, nonostante ci abbiano provato, non sono riuscite a eliminare il problema della prostituzione. Qui bisogna fare un appunto e una considerazione.
L’appunto. Visto che il commercio del sesso esiste perché esiste una domanda maschile, perché dovrebbero essere le donne a farsi carico di tutto il lavoro di rieducazione e lotta? Perché non si chiede agli uomini di farsi un esame di coscienza sul perché hanno bisogno di pagare una donna per poter infilare il loro pene in un orifizio? Per quale ragione il maschio non deve interrogarsi sulla sua idea di desiderio, eros, piacere? Perché non si domanda, e non gli si domanda, dove mai stia la soddisfazione nel comprare sesso? E poi, che cosa sanno del proprio corpo? Che cosa capiscono del corpo altrui? Provano, sentono qualcosa? O sono solo dei poveracci in cerca di un contenitore eiaculatorio?
Se è così, come è molto probabile, gli uomini che pagano per avere sesso soffrono di una malattia gravissima che si chiama Miseria Sessuale.
La considerazione. Nel suo libro Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi e nella sua intervista concessa di recente a Caterina Peroni per il blog Studi sulla questione criminale, Ida Dominijanni spiega molto bene come il movimento #MeToo, e prima ancora le denunce delle escort contro Berlusconi, abbiano svelato un dispositivo sessuale poverissimo, lo scambio di potere per briciole di sesso, che il «fare sesso adesso è proprio un fare, è un fare una cosa, è molto neoliberale, un’attività!», e come «dal MeToo trapeli una sana rivolta contro una sessualità miserrima». Caro Francesco, il femminismo è vivo, vegeto e lotta. Sono certi maschi a essere molto arretrati.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta ... sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
La storia
Bisanzio brucia nella crociata dimenticata
Nel 1204, due secoli prima di cadere in mano turca, Costantinopoli fu presa dai “fratelli” latini. Parte del suo patrimonio di arte e cultura passò a Venezia. Ora nuovi studi ricostruiscono quell’episodio drammatico
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 17.03.2018)
Il 13 aprile 1204, in una fredda giornata di primavera, una colonna di profughi dall’aspetto di fantasmi si incamminò fuori dalla grande città di Costantinopoli. Era “gente vestita di stracci, emaciata dal digiuno, trascolorata, cadaverica, con gli occhi così rossi che parevano colare sangue anziché lacrime”.
Erano stati torturati, depredati delle loro case e dei loro beni, avevano visto rapite le loro mogli, violentate le loro figlie. Non erano stati i turchi a compiere quello scempio, come sarebbe accaduto due secoli e mezzo dopo, nel 1453.
Erano stati i crociati occidentali. E non era contro gli infedeli che lo avevano portato, ma contro i loro correligionari, i bizantini.
La ferocia di quella singolare guerra santa ebbe tra i suoi testimoni oculari il più acuto, spregiudicato e disincantato degli osservatori politici dello Stato più prospero del medioevo: lo storico Niceta Coniata, massimo intellettuale della sua generazione, segretario del basileus fino a poco prima in trono ma anche suo indomabile critico, pensatore indipendente e non certo corifeo del potere, della cui opera è ora stata completata dalla Fondazione Lorenzo Valla l’edizione italiana (Grandezza e catastrofe di Bisanzio - Narrazione cronologica, traduzione di A. e F. Pontani, testo greco a cura di J.-L. van Dieten, introduzione di G. Cavallo, Fondazione Valla Mondadori, tre volumi).
Come ha scritto Steven Runciman, le crociate furono “le ultime invasioni barbariche”. I “barbari”, nelle frasi di Niceta, non sono gli islamici, che anzi i bizantini difesero strenuamente quando fu attaccata la locale moschea, ma quell’“accozzaglia di stirpi oscure e disperse” che erano gli eserciti latini, quei “precursori dell’Anticristo” che “portavano la croce cucita sulle spalle” e che in quei giorni di aprile del 1204 avevano devastato la culla stessa dell’impero romano cristiano, la città che ne custodiva da nove secoli l’identità religiosa oltre che l’eredità artistica, culturale, bibliografica così come la vocazione politica: un modello di Stato multietnico, meritocratico e sostanzialmente egualitario, dotato di una struttura diplomatica rivolta, come l’aquila bicipite, tanto a oriente quanto a occidente.
I profughi che si incamminavano “come una colonia di formiche” stanata dal fuoco avevano assistito al “più grande saccheggio della storia del mondo”, come lo definì lo stesso cronista francese Goffredo di Villehardouin che vi aveva partecipato al seguito di Bonifacio di Monferrato. Le atrocità perpetrate dai cavalieri della quarta crociata sono testimoniate non solo dagli storici bizantini ma anche dai cronisti occidentali, nonché dal papa che l’aveva indetta, Innocenzo III, inorridito nel suo epistolario.
La Città traboccava di capolavori d’arte e di inestimabili libri. Ma ad attrarre gli incolti latini era il fatto che, secondo i loro calcoli, contenesse i due terzi delle ricchezze del mondo conosciuto. Portarono “abominio e desolazione” nel Sacro Palazzo del Boukoleon, coprirono di sterco i marmi policromi della Grande Chiesa di Santa Sofia. Si precipitavano furiosi e urlanti per le strade distruggendo ogni cosa non apparisse trasportabile, fermandosi solo per trucidare gli abitanti e per spalancare le cantine e dissetarsi con il loro vino. Non risparmiarono monasteri, né chiese, né antichi monumenti, lasciarono bruciare gli archivi e le biblioteche. Una parte dei classici greci oggi perduti sarebbe arrivata fino a noi, non fosse stato per quella vandalica insipienza. Nel viaggio degli antichi testi la presa di Costantinopoli del 1204 segnò un naufragio paragonabile all’incendio della biblioteca di Alessandria.
Ciò che i veneziani non portarono a casa i francesi distrussero. I cavalli di bronzo dorato dell’Ippodromo sono oggi noti come Cavalli di San Marco, altre inestimabili opere d’arte formano il ricco bottino oggi conosciuto come Tesoro di San Marco. Ma le altre antiche statue bronzee dell’Ippodromo e quelle del Foro di Costantino furono fatte a pezzi e fuse. Nella stessa Santa Sofia si potevano vedere soldati ubriachi saccheggiare le reliquie, strappare i paramenti, svellere le suppellettili, calpestare i libri sacri e le icone, dilaniare gli arazzi.
L’orrore continuò per giorni, finché la capitale dell’ortodossia fu ridotta, scrivono i testimoni, a un macello. Perfino i saraceni, annotò Niceta, sarebbero stati più misericordiosi: “Dalla gente latina, ora come allora, Cristo è stato di nuovo spogliato e deriso, e le sue vesti sono state spartite, e il fiume del Sangue Divino ha di nuovo inondato la terra”, lamenta alla fine della sua opera.
La presa latina di Costantinopoli del 1204 è l’esempio più notevole di quella cruda verità economica delle crociate di cui, al di là dell’ideologia o della retorica confessionale, un libro dello storico oxfordiano Christopher Tyerman, in uscita in traduzione italiana, spiega in dettaglio mentalità, pragmatismo, finalità materiale e obiettivi strategici (C. Tyerman, Come organizzare una crociata, Utet). Si parla di “deviazione” della Quarta Crociata, quasi fosse stata un’idea repentina e non un preciso piano di conquista, già prospettato da Federico Barbarossa e da Enrico VI. Ben prima di entrare a Costantinopoli gli alleati avevano minuziosamente discusso e patteggiato tra loro, e soprattutto con Venezia, la spartizione dell’impero che avrebbero sostituito a quello bizantino, istituendo anche una gerarchia ecclesiastica cattolica al posto di quella ortodossa e insediando sul soglio patriarcale un veneziano.
L’alleanza della Realpolitik dei papi di Roma con l’Europa dei traffici, del protocapitalismo delle repubbliche mercantili, portò, con il successivo aiuto dei turchi, alla distruzione di una realtà politica che aveva garantito per secoli benessere e pace governando i conflitti fra le diverse etnie in un immenso territorio unificato dalla lingua greca, dalla religione cristiana, dal diritto romano, dominato da un formidabile sistema di pubblica istruzione e di cooptazione nelle burocrazie che assicurava il dinamismo delle élite e il loro costante ricambio sociale.
Per cinque giorni Niceta, la moglie incinta e il loro gruppo di amici dell’intelligencija costantinopolitana rimasero nascosti. Poi anche loro dovettero sfollare strisciando per i vicoli, i bambini piccoli in spalla, il viso delle ragazze mimetizzato col fango, in direzione della Porta d’Oro. Appena superate le sue torri, Niceta si gettò a terra e inveì contro le grandi mura di Teodosio: perché si reggevano ancora dritte in piedi? non vedevano che la civiltà che custodivano era finita? Poi, “gettando lacrime come semi” lungo la loro strada, si incamminarono per ricongiungersi al resto degli esuli e al governo in esilio insediato a Nicea, in Asia Minore.
Ma quella che Niceta, partito da Costantinopoli con in mano solo il suo manoscritto, pianse come un’irrimediabile fine si rivelò un inizio. Per più di cinquant’anni l’impero di Nicea coltivò non solo la resistenza politica ma anche quella culturale, ricreando un sistema scolastico e universitario, proseguendo la produzione libraria. Quegli intellettuali avevano imparato una lezione: i barbari esistevano. Non erano i popoli che si diceva avessero fatto cadere l’impero romano d’occidente, diversamente da quello d’oriente, che era stato invece capace di assimilarli e accoglierli nella sua classe dirigente.
Erano i figli del feudalesimo, che il sistema statale di Bisanzio aveva sempre combattuto, e di quel “satanico spirito del commercio”, per citare Baudelaire, da sempre incompatibile con la mentalità bizantina, dove la diffidenza dei cittadini verso il mercato e il rifiuto delle premesse etiche della mercatura espresso dagli intellettuali si univa alla condanna teologica del profitto e del lucro.
Anche dopo la riconquista del 1261 e l’insediamento della nuova dinastia dei Paleologhi, la guerra tra banchieri - genovesi e veneziani - continuerà a devastare economicamente e militarmente Bisanzio, a scarnificare quell’istmo culturale e strategico tra oriente e occidente. Ma per quanto cieche possano essere le strategie finanziarie e belliche, gli intellettuali possono sempre, discretamente, mobilitarsi.
Sempre di più si affermerà, tra i protagonisti della cosiddetta rinascenza paleologa, la coscienza dell’insopprimibilità di un’arma incruenta: la cultura. Il duello dei governanti, il risentimento delle masse, lo scontro delle chiese saranno trascesi da una simmetrica e inversa, silenziosa e superiore solidarietà tra umanisti orientali e occidentali. Sarà l’inizio di quella sempre più fitta circolazione di maestri e libri, liberamente scambiati dall’internazionale dei dotti, che darà vita a ciò che chiamiamo “il” rinascimento.
L’antica cultura oltraggiata dai crociati conquisterà la loro stessa patria, la loro stessa curia, la stessa repubblica di Venezia, dove sorgerà, per volere di un umanista bizantino, Bessarione, la prima biblioteca pubblica della storia occidentale moderna. Da Bisanzio verranno e si metteranno all’opera, alacri, i copisti. Nascerà la stampa e non uno ma dieci, cento, mille libri sorgeranno sulle ceneri di quelli distrutti, insieme alle vite dei loro possessori, nella primavera del 1204.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL. Un’intervista a John Chryssavgis di Chiara Santomiero
Federico La Sala
Il Vangelo dalla parte della Maddalena
Escono in un libro gli esercizi spirituali che il cardinale Carlo Maria Martini tenne in Israele tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007. Sono dedicati alla figura della santa peccatrice
di Vito Mancuso (la Repubblica, 16.03.2018)
La simpatia del cardinal Martini per Maria Maddalena appare evidente dalla prima all’ultima parola degli esercizi spirituali da lui tenuti in Israele tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007, come evidente è la sua simpatia per le consacrate dell’Ordo Virginum della diocesi di Milano per le quali aveva preparato gli esercizi e alle quali diceva: «Vi riconosco nella vostra bellezza interiore ed esteriore, perché quando l’anima rimane nella sua costante proposta di servizio a Dio, rimane bella e questa bellezza si diffonde».
Io penso sia proprio così, e penso che Martini sia stato a sua volta un esempio di questa misteriosa connessione tra etica ed estetica avvertita già dagli antichi greci con l’ideale della kalokagathía, perché il morbo di Parkinson contro cui già allora combatteva, e che l’avrebbe portato alla morte il 31 agosto 2012, non giunse mai a privarlo della sua originaria e nobile bellezza.
Cosa siano gli esercizi spirituali lo spiega lo stesso Martini dicendo che non sono un corso di aggiornamento, né una lettura spirituale della Bibbia, né un’occasione di preghiera; sono invece “un ministero dello Spirito Santo”, nel senso che “è lo Spirito Santo che parla al mio cuore per dirmi ciò che vuole da me adesso”.
Gli esercizi spirituali sono quindi un tempo di ascolto e di raccoglimento per capire la propria situazione qui e ora, e come tali prevedono «un silenzio assoluto a tavola e anche negli altri momenti», perché, avverte Martini, «soltanto una parola detta qua e là disturba tutti».
Maria Maddalena è «il segno dell’eccesso cristiano, il segno dell’andare al di là del limite, il segno del superamento»: nell’eccedere della sua vita travagliata ma sempre dominata dall’amore, si dà per Martini la chiave privilegiata per «essere introdotti nel cuore di Dio».
Il cuore di Dio. Mediante la storia della Maddalena, Martini giunge a parlare di Dio, e parlando di Dio giunge a illuminare la logica e il ritmo dell’essere, cogliendo nell’amore il suo segreto più profondo: «Dio è tutto dono, è tutto al di là del dovuto e questo è il segreto della vita».
Individuare “il cuore di Dio” significa quindi per Martini individuare “il segreto della vita”. In questa prospettiva egli illumina magistralmente il paradosso dell’esistenza segnalando la dinamica profonda secondo cui ci si compie superandosi, ci si arricchisce svuotandosi, si raggiunge l’equilibrio perdendolo.
È la pazzia evangelica. La quale però, in quanto verità dell’essere, è universale, e quindi è avvertita anche al di là del cristianesimo, per esempio già da Platone che coglieva la medesima logica di eccedenza scrivendo che «la mania che proviene da un dio è migliore dell’assennatezza che proviene dagli uomini» ( Fedro 244 d). Maniaca in senso platonico, la Maddalena è definita da Martini “amante estatica”, cioè letteralmente “fuori di sé” e in questo modo è indicata quale via privilegiata per accedere al cuore di Dio.
Per lui è infatti evidente che «non può comprendere Dio chi cerca solo ragioni logiche», mentre lo può comprendere «chi vive qualche gesto di uscita da sé, di dedizione al di fuori di sé, al di fuori del dovuto», perché Dio, simbolo concreto del mistero dell’essere, “è uscita da sé”, “dono di sé”.
In questa prospettiva la Maddalena, perfetta esemplificazione della logica evangelica, fa capire che “solo l’eccesso salva”. Per “eccesso” Martini intende “uno squilibrio dell’esistenza”. E proprio questo è il punto: che la vita si alimenta di tale squilibrio. Il nostro universo non viene forse da un eccesso, cioè dalla rottura di simmetria all’origine del Big Bang? E la vita non è a sua volta squilibrio, essendo la morte, come disse Erwin Schrödinger nelle lezioni al Trinity College di Dublino, “equilibrio termico”? E cosa sono l’innamoramento e le passioni di cui si nutre la nostra psiche, se non, a loro volta, squilibrio?
Afferma Martini: «Quando definisco me stesso, mi definisco di fronte al mistero di Dio e mi definisco come qualcuno che è destinato a trovarsi nel dono di sé... e tutto questo si dà perché Dio è dono di sé». Prosegue dicendo che molti non capiscono Dio perché non lo collegano a questa dinamica di uscita da sé, visto che «soltanto quando accettiamo di entrare in questa dinamica della perdita, del dare in perdita, possiamo metterci in sintonia con il mistero di Dio».
In questa prospettiva Martini giunge a parlare di Dio secondo una teologia della natura che avrebbe fatto felice il confratello gesuita Pierre Teilhard de Chardin, riferendosi a «quella forza che potremmo dire trascendente, perché è in tutta la natura fisica, morale, spirituale ed è la forza che tiene insieme il mondo... la forza che si può concepire come una lotta continua contro l’entropia e il raffreddamento».
Anche il voto di verginità delle consacrate alle quali rivolgeva i suoi esercizi appare a Martini un segno di quell’eccesso di amore che fa sì che nel mondo non vi sia solo la forza di gravità che tira verso il basso, ma anche «una forza che tira verso l’alto, verso la trasparenza, la complessità e anche verso una comprensione profonda di sé e degli altri fino ad arrivare a quella trasparenza che è la rivelazione di ciò che saremo». Ovvero, conclude Martini, “la vita eterna”.
La categoria dell’eccesso
Maria Maddalena secondo il cardinale Martini *
L’eccesso è per Martini la “categoria” che ci consente non solo di comprendere il mistero di Dio adombrato nella passione, morte e risurrezione di Gesù, ma ciò che esprime il senso profondo dell’essere cristiano, della maturità cristiana.
Ancora una volta è attraverso i personaggi di Giovanni che Martini costruisce questa sua visione, in particolare è Maria di Magdala a guidarci in questo ultimo tratto di cammino. «Maria di Magdala è una figura particolarmente importante nei Vangeli, è il prototipo della persona che accede alla fede nel Risorto. Se gli altri due episodi narrati da Giovanni rappresentano piuttosto una comunità che accoglie il mistero della Risurrezione, l’episodio che ha per protagonista la Maddalena è piuttosto dedicato al singolo credente o meglio al non credente che diventa credente».
Chi è Maria Maddalena? Tutti i vangeli la annoverano tra le donne che si recano al sepolcro. Forse, dice Martini, tale menzione indica «una qualche funzione di leadership», ma non abbiamo elementi sufficienti. Compare inoltre nei racconti della passione e nella vita pubblica di Gesù, dove è messa «sullo stesso piano dei discepoli». La sua figura però si può comprendere anche grazie al confronto con altre figure femminili presenti nel vangelo. Per esempio la peccatrice in casa di Simone, le «Marie di Betania» e, infine, la sposa del Cantico; come lei, la Maddalena «ha cercato Gesù con una passione inesausta, con una perseveranza invincibile e di conseguenza è una figura della ricerca di Gesù e del Signore risorto». Tutte rimandano in qualche modo a un «eccesso d’amore».
Nel testo si legge che il primo giorno dopo il sabato Maria si reca al sepolcro «di buon mattino», quando era ancora buio. Un atteggiamento inusuale e anche un po’ rischioso, che la dipinge fin da subito come una «donna che supera le convenzioni». Esce di casa perché non si dà pace e non si preoccupa di ciò che può capitarle o di ciò che può pensare la gente. Quando arriva al sepolcro ha una prima intuizione degli eventi, ma ancora parziale, distorta. -Sconvolta, va da Simon Pietro e dagli altri discepoli, ma, fa notare Martini, riferisce una sua versione dei fatti. In fondo cosa ha visto? La pietra ribaltata e il sepolcro vuoto; su questi elementi costruisce una storia; il corpo di Gesù è stato rubato. L’inquietudine di non sapere dove lo hanno portato non le dà pace.
* L’Osservatore Romano, 17 luglio 2017
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA .... DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO. Materiali sul tema, per approfondimenti
Federico La Sala
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Michelangelo precursore di Copernico ...
Michelangelo precursore di Copernico
di Antonio Rocca (la Repubblica, 15.01.2018)
Alcuni studi attestano che nel dipingere il Cristo del “Giudizio universale” Buonarroti abbia offerto una figurazione dell’eliocentrismo. E ciò anche per iniziativa del papa Clemente VII
Trovatosi a constatare la stringente analogia tra la rivoluzione copernicana e la rivoluzione iconografica con la quale Michelangelo impone un Cristo-Apollo nel cuore del Giudizio sistino, Charles de Tolnay scrive che il Buonarroti «giunge a una visione dell’universo curiosamente anticipante quella del suo contemporaneo Copernico. L’idea della composizione di Michelangelo precede di sette anni la pubblicazione dell’astronomo di Thorn (uscita a stampa nel 1543)».
Mancano documenti ad attestare un rapporto diretto tra l’astronomo e l’artista, pertanto Tolnay è costretto a utilizzare il termine “curiosamente”, ma il legame è evidente e con l’intento di colmare tale lacuna si è mossa Valerie Shrimplin. La studiosa britannica ha ricostruito il quadro che tiene assieme i due, sottolineando l’importanza di un episodio del 1533.
In giugno Clemente VII invita Albert Waldstadt affinché, nei giardini del Vaticano e di fronte a un ristretto cenacolo di cardinali, gli illustri il modello copernicano.
Quella visione eliocentrica, disposta nel solco del neoplatonismo fiorentino, appassionò il Medici che donò al Waldstadt un prezioso manoscritto. Secondo la Shrimplin il papa maturò allora la decisione di realizzare il Giudizio.
La commissione al Buonarroti si concretizzò già alla fine dell’estate del 1533 e la morte del pontefice non bloccò il progetto, che fu immediatamente ripreso da Paolo III Farnese.
La memoria dei processi a Giordano Bruno e Galileo Galilei sembra gettare un’ombra sulla possibilità che due papi potessero concepire la realizzazione di un colossale manifesto eliocentrico nel cuore della cristianità, tuttavia dobbiamo ricordare che siamo negli anni trenta del ‘500 e che la difesa del sistema tolemaico s’impone solo nel secolo successivo. Il De revolutionibus orbium coelestium fu messo all’Indice nel 1616. Avversione peraltro incerta come dimostrano le simpatie per Galilei del cardinal Barberini, divenuto in seguito Urbano VIII, e l’affresco di Andrea Sacchi in palazzo Barberini, che all’eliocentrismo allude.
Ipotesi antica, quella eliocentrica, che aveva conosciuto una fase di svolta con la pubblicazione del De Sole di Marsilio Ficino. Riprendiamola da questo momento, osservandola dalla prospettiva dei protagonisti della nostra storia, allora solo tre ragazzi. È il 1493, Copernico ha vent’anni e studia astronomia a Cracovia, il De Sole è libro di testo; Michelangelo gode della protezione di Piero de’ Medici, cui il De Sole è dedicato; Alessandro Farnese, già studente di Ficino, si appresta a diventare cardinale.
Il trattato esprime pochi concetti con grande chiarezza: il sole, immagine di Dio, occupa una posizione centrale nell’universo e rappresenta la giustizia divina. «La giustizia, regina di tutte le cose», scrive Ficino, «si diffonde attraverso il tutto a partire dal trono del Sole, e tutto dirige, quasi sia il Sole a guidare tutte le cose».
Copernico prese allora a cercare una via per allineare matematica, astronomia e platonismo. Nel corso del suo pluridecennale lavoro non ottenne risultati decisivi perché i suoi calcoli furono inficiati da assiomi interni al platonismo. Così, a dispetto di ogni dato empirico, il polacco non intese mai rinunciare alla perfetta circolarità delle orbite planetarie.
Concetti pitagorici che Copernico insegnava nelle sue lezioni romane del 1500, cui pare partecipassero anche Michelangelo e Alessandro Farnese. Col senno di poi, sapendo che Paolo III sarà il committente finale del Giudizio e che a lui è dedicato il De revolutionibus, si è portati a ritenere che sin da allora, sin dal principio del secolo, tra i tre si fossero instaurati dei rapporti diretti. Troppo stretti i giri, nella Roma agostiniana e neoplatonica, per immaginare che simili personaggi s’ignorassero, tuttavia ciò che qui interessa è osservare come l’artista, lo scienziato e l’uomo di chiesa, abbiano saputo inverare concetti astratti appresi in gioventù.
Diventati anziani uomini di successo, il Farnese, Michelangelo e Copernico declinarono i principi ficiniani, attribuendogli sostanza e creando un panorama culturale coerente. Intanto, però, tutto era cambiato. Il Giudizio e il De revolutionibus sono inattuali, nascono già vecchi o pregni di un futuro che li rende incomprensibili. Nel presentare il suo lavoro, Ficino aveva scritto che il libro andava letto in modo allegorico e anagogico, non dogmatico. La traduzione in immagine di quel testo vedeva la luce nel momento in cui la chiesa di Roma puntava a bandire modelli di lettura figurale, a vantaggio di una precisa rappresentazione dei dogmi formulati a Trento.
Il conflitto era inevitabile, sia sul piano formale che su quello del merito. Michelangelo aveva posto tra i beati una donna che esibisce un copricapo ebreo, due indios e una coppia d’infedeli, afferrati da un angelo per mezzo di un rosario a cento grani, tipico dei musulmani. Decisamente troppo per Paolo IV, il pontefice del ghetto, dell’indice dei libri proibiti e dell’Inquisizione.
Fortunatamente l’affresco restò intatto, seppure dovette subire qualche limitato intervento censorio. Integro ma incompreso, reso opaco e preso a tenaglia da pedanti cattolici e dalle favole protestanti di una Roma pagana, nella quale gli idoli greci avevano preso il posto di Dio. Del resto cosa poteva apprezzare un uomo come Lutero, vagamente iconoclasta e avversario di Copernico?
Ma ciò che ha fatto più danno è stata la Modernità o, meglio, la ricostruzione apologetica delle origini della Rivoluzione scientifica. Progresso scientifico e anticlericalismo col tempo presero a divenire quasi sinonimi.
Si ricostruì la narrazione di una faticosa e costante riemersione alla luce ottenuta per mezzo della lotta contro l’oscurantismo cattolico, fatto di libri proibiti, processi, abiure, torture e condanne.
Episodi reali, ma infilati su di un percorso unilineare nel quale sono trascurati l’eliocentrismo del vescovo Cusano, del sacerdote Ficino e l’ortodossia del canonico agostiniano Copernico. Tutti loro, come il domenicano Bruno, osservavano la volta celeste perché, come recita il Salmo 18, «i cieli narrano la gloria del Signore». Oltre la Modernità, dopo aver preso congedo dai miti solari di ogni Illuminismo, è più facile riconoscere che il Giudizio non è un’incongrua esaltazione della bellezza pagana e che Copernico non era un precursore del libero pensiero.
Leggiamo nel De revolutionibus: «La macchina dell’universo è stata creata per noi dal migliore e più perfetto artefice (...) E in mezzo a tutto sta il Sole.
Chi infatti, in tale splendido tempio, disporrebbe questa lampada in un altro posto o in un posto migliore, da cui poter illuminare contemporaneamente ogni cosa? Non a sproposito quindi taluni lo chiamano lucerna del mondo, altri mente, altri regolatore. Trismegisto lo definisce il dio visibile, l’Elettra di Sofocle colui che vede tutte le cose. Così il Sole, sedendo in verità come su un trono regale, governa la famiglia degli astri che gli fa da corona». La Cappella Sistina, che ha le stesse dimensioni del tempio di Gerusalemme, è quel tempio.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO.
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. In memoria di Kurt H. Wolff.
Andrei Konchalovsky: "Porto sullo schermo la vita di Michelangelo"
L’arte nel cinema: il regista alle prese con l’allestimento del set nelle cave di marmo: "È iniziato un viaggio di ricostruzione"
di ARIANNA FINOS (la Repubblica, 14 agosto 2017)
ROMA - Andrei Konchalovsky festeggerà l’ottantesimo compleanno il 20 agosto. Panama calato sugli occhi, il fisico agile indifferente alla calura, il regista russo fa base tra le cave del Monte Altissimo per le riprese di Il peccato. Una visione, film dedicato a a Michelangelo che 500 anni fa, a Seravezza, trovò la materia prima ideale per le sue opere d’arte. Spiega Konchalovsky, 55 anni di carriera, un Leone d’argento Venezia lo scorso anno con Paradise (e un altro nel 2014 per Le notti bianche del postino): "Stiamo finendo di visionare i luoghi, poi ricostruiremo al dettaglio il processo di estrazione del marmo senza i mezzi moderni, così com’era nel Rinascimento".
Il film è una coproduzione con la Russia, che ha stanziato l’ottanta per cento del budget, l’altro venti arriva dalla Jean Vigo di Elda Ferri (con Raicinema): "La parte più difficile - sospira il cineasta - è sempre trovare i finanziamenti. Sono stato fortunato ad avere tanto entusiasmo dalla Russia. Mi ha stupito invece la difficoltà ad avere il riconoscimento di interesse da parte del Ministero dei beni culturali italiano". Le riprese del film inizieranno il 28 agosto tra Carrara, Montepulciano, Arezzo, Caprarola, Firenze, Roma.
Konchalovsky, perché un film su Michelangelo?
"Amo la scultura - E fui folgorato, 50 anni fa, dalla sceneggiatura di Tarkovskij sul pittore Andrej Rublev. Ho sempre coltivato l’idea di raccontare un artista e il suo periodo storico. La scintilla è scattata leggendo il sonetto che Michelangelo invia a Strozzi, ’Caro m’è ’l sonno e più l’esser di sasso, mentre che ’l danno e la vergogna dura...’. Queste due parole, il tradimento e la vergogna mi hanno dato la voglia di capire perché Michelangelo era così pessimista nei confronti del suo periodo storico. È iniziato un viaggio di ricostruzione, degli intrighi politici e storici, della sua vita e del mondo in cui è immerso. Non sono un regista che abbraccia il romanticismo cinematografico, sono più interessato all’odore: dove non c’è odore, non c’è vita. E così mi sono immerso nei fantastici colori, odori, animali, abiti, abitudini per restituire la vita vera di quei tempi durissimi e crudeli".
Non sarà un biopic vero e proprio, quindi.
"No, seguiamo momenti diversi della vita di Michelangelo. Il film l’ho chiamato ’visione’ proprio per riallacciarmi a quel genere così popolare in quel tempo. L’esempio di maggiore successo ne è la Divina Commedia, Dante non racconta una storia del mondo, ma segue la sua visione/ispirazione, mette all’inferno gente ancora viva. Sì, la sua Commedia è il migliore esempio che ho seguito per il film e Dante è anche il riferimento di Michelangelo".
La sfida di questo film?
"Ogni film è un sfida, ogni volta cerchi l’invisibile oltre il visibile. Per me si è trattato di una scelta naturale: dopo Paradise mi sono finalmente sentito pronto. Poesia a parte, la sfida, come le dicevo, è stata economica ma anche etica: voglio ricordare al mondo l’importanza della figura di Michelangelo. Voglio ricordarlo ai giovani di oggi che hanno la memoria corta. Come scriveva Umberto Eco, oggi nessuno vuole ricordare nulla perché tutto è su internet".
Il film sarà girato in italiano.
"Sì. Volevo portare la mia visione della cultura italiana e non potevo che farlo nella vostra lingua. Sarebbe stato ridicolo un Michelangelo che parlasse inglese. Oggi un Charlton Heston non funzionerebbe".
Alberto Testone sarà Michelangelo, Umberto Orsini il Marchese Malaspina, Massimo De Francovich Papa Giulio II.
"Sì. Pochi attori, nel film ci sarò soprattutto gente presa dalla strada. Metà del cast arriva da Carrara: facce fantastiche, personalità forti. I carraresi vivono nelle montagne senza mescolarsi agli altri, producono marmo da oltre duemila anni. Sono uno dei primi esempi di proletariato: sono una società che è una classe. Non dimentichiamo che l’anarchia sindacalista è nata qui e che qui i partigiani lottarono con grande forza contro fascisti e nazisti. Questi luoghi hanno una storia di indipendenza e facce meravigliose. E poi è un piacere avere a che fare non con attori ma con gente che lavora davvero il marmo: scalpellini, marmisti...".
Quella di Michelangelo e della Pietà è una storia di lotta.
"Senza lotta non c’è arte. Le opere di Michelangelo per me sono esempi di capolavori che non sono creati in libertà. Oggigiorno non si fa che parlare di quanto sia importante la libertà di espressione nell’arte. Ma io dico che non é vero. La maggior parte di capolavori sono stati creati sotto la censura. Michelangelo non ha mai lavorato liberamente, ma sotto la supervisione dei mecenati, del papa, dello stato. La libertà non crea capolavori".
Il suo rapporto con l’Italia è longevo.
"Sono russo, e per noi il vostro paese è sempre stato il paradiso. Per il clima, per la vostra capacità di essere felici, per il modo in cui, come noi russi, lasciate prevalere il lato emotivo della vita su quello razionale. Ma il mio è anche un amore artistico. Cinquant’anni fa girai i primi extra per I girasoli di De Sica. Nel 1962 arrivai alla Mostra con un mio piccolo film e vennero a vederlo i vostri maestri: Pasolini, Antonioni, Rossellini. Quando si è giovani si è ingenuamente sicuri di se stessi. Oggi non so se saprei reggere per l’emozione di quel confronto".
Com’è cambiata l’Italia in questi cinquant’anni?
"Il ricordo più forte che ho del suo Paese è legato agli anni Settanta, quando c’era l’illusione della società perfetta e del socialismo. Quando si pensava che il mondo potesse vivere in pace e la vostra cultura era in piena esplosione. Oggi la cultura europea non esplode più. Nelle vostre città vedo troppi film americani. È la globalizzazione e, come dicono gli inglesi, non è la mia ’tazza di te’".
Andrei Konchalovsky
“La cecità umana crea l’Inferno in Terra”
L’Olocausto. Julia Vysotskaya: la principessa russa che salva due bambini ebrei
di Federico Pontiggia (Il Fatto, 25.01.2018)
Regista scomodo e potente insieme, l’ottantenne maestro russo Andrei Konchalovsky col suo ultimo lavoro, Paradise, ha vinto il Leone d’Argento di Venezia 2016. Girato in bianco e nero, ambientato tra Terzo Reich e Vichy, rastrellamenti nei ghetti e campi di sterminio, ha per protagonisti un poliziotto francese collaborazionista (Philippe Duquesne); una principessa russa arrestata per aver protetto due bambini ebrei (Julia Vysotskaya); un alto ufficiale delle SS (Christian Clauß). Konchalovsky li inquadra frontalmente, a mezzo busto, come per un interrogatorio al cospetto dell’umanità tutta.
Konchalovsky, il suo Paradise arriva oggi nelle nostre sale. La Giornata della Memoria è alle porte, ma perché l’ennesimo film sull’Olocausto?
Devo correggerla: ‘Andrei, perché fai un film sul male e la morte?’. Il male c’è da sempre, esiste in ogni momento, l’Olocausto ne è stata una manifestazione molto peculiare: il male estremo della Shoah è venuto dalla domanda puntuale, dall’esigenza precisa, dal sogno di una società perfetta cullato dai nazisti. Una società che avrebbe contemplato la sola razza ariana, e dalla quale gli ebrei avrebbero dovuto essere espunti, eliminati. Una società perfetta, nelle loro criminali intenzioni, che al contrario di umano avrebbe avuto solo qualche frammento: l’inferno in terra.
Dunque, qual è il focus?
Non faccio un film sull’Olocausto o la Seconda guerra mondiale, ma come d’abitudine un’opera sulla condizione dell’essere umano. Per citare il celebre libro di André Malraux, La condition humaine, il tema a me più caro, e - almeno dovrebbe esserlo - il più importante per ciascuno di noi, non è la storia, ma la ragione stessa della nostra esistenza.
Ma il nazismo non si può eludere.
In quella situazione estrema capisci bene come poche menti malate, paranoiche, sadiche abbiano spinto persone cosiddette normali a creare l’inferno terrestre. Paradise va oltre: il mio nazista, propugnatore della Soluzione Finale, è intelligente, affascinante, ma la sua è solo una devastante illusione. Sì, la relatività è una cosa tremenda.
Si spieghi, Konchalovsky.
I miei tre protagonisti, o almeno due di loro, sono persone terribili, ma io li amo nonostante tutto, perché capisco la tragedia della loro cecità. Purtroppo, non poi così tanto è cambiato: quante disgrazie sono accadute anche di recente, penso all’Iraq o alla Libia, nella miope illusione di esportare la democrazia?
Torniamo all’Olocausto, l’antisemitismo appartiene solo al passato?
Macché, è presente ancora oggi: in ogni forma di odio e intolleranza razziale è l’inferno che fa capolino. Consapevoli o meno, viviamo nel desiderio di dimenticare il passato, e negare l’Olocausto non è che una logica conseguenza. Al contrario, dobbiamo cercare in ogni modo di non dimenticare: se non conosciamo il passato non abbiamo futuro.
L’antisemitismo c’è oggi in Europa?
Ah, certo, in Francia è molto importante.
E in Russia?
Direi proprio di no, è residuale. E grazie all’operato del presidente Putin, che ogni anno incontra i responsabili della comunità ebraica. Proprio per Paradise di recente sono stato premiato dalla federazione delle comunità ebraiche russe, e ho potuto appurare come la loro vita sia molto buona.
Da Homer & Eddie a Tango & Cash ha avuto anche un’importante parentesi americana. Oggi a Hollywood si parla più di molestie sessuali che di film.
Non ho parole, tranne una: ridicolo. Primo, trovo ridicolo che donne molestate 25 anni fa si rivolgano ora alla stampa. Secondo, ridicolo che nella lista dei molestatori non ci sia Bill Clinton. Terzo, trovo ridicola, e insieme molto pericolosa, questa società di stampo orwelliano, questa paranoia per abusi e molestie sessuali di tre decenni or sono. È la manifestazione ultra-reazionaria della politica liberal, è tutto molto triste.
Parlando di cinema-cinema, Loveless del suo connazionale Andrey Zvyagintsev è entrato nella cinquina Oscar del miglior film straniero.
L’ho visto, è molto interessante e spero possa vincere. Sarebbe molto importante, se non altro contribuirebbe a mitigare la russofobia che oggi impera nel mondo: soprattutto per gli americani, la Russia oggi è un posto orribile, ma è solo propaganda. Confido di sorprendermi, che Loveless la spunti.
A dirla tutta non dà un ritratto molto positivo del suo Paese.
Ma perché dovrebbe farlo? E poi la Russia non c’entra, inquadra un problema di civiltà, potrebbe essere benissimo girato in Svezia. A proposito di Svezia, The Square di Ruben Ostlund, altro candidato agli Academy Awards, è molto più duro.
In cantiere lei ha Il Peccato. Protagonista Michelangelo Buonarroti, riprese e co-produzione italiana: che cosa dobbiamo aspettarci?
Non solo l’artista, ma l’essere umano: un genio senza tregua, un peccatore conscio di come la bellezza eccedesse le sue capacità artistiche. E il suo rapporto col potere.
Qualche rimando autobiografico?
Beh, fortunatamente sì: lui aveva Lorenzo il Magnifico, io ho altri mecenati che finanziano i miei film.
Dove lo vedremo?
Mi piacerebbe Venezia, se finisco in tempo.
PIANETA TERRA. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
Il tabù delle mestruazioni: quello che le donne ora dicono
Un evento naturale che è da sempre circondato da imbarazzi e superstizioni. Ma dall’Europa al Nepal le cose stanno cambiando. Abbiamo cercato di capire quanto
di Silvia Bencivelli *
Questo articolo parla di mestruazioni. Non di “cose”, fiori, zie, marchesi, baroni rossi, visite da Roma, cardinali, nature, giacomine e caterine varie. Tantomeno di impurità, immondizie, affari schifosi, mostruosi e oscuri. Parla semplicemente di mestruazioni: quell’evento poco meno che mensile che tra il menarca (la prima volta) e la menopausa (l’ultima) segna senza particolari patemi la vita delle donne in età fertile.
Oggi, tolti di mezzo i pudori, sappiamo che la segna senza macchiarla, per circa 2.400 giorni nel corso di una vita. E sappiamo anche perché avvenga, cioè perché quattro o cinque giorni ogni ventotto le donne in età fertile perdano sangue dalla vagina. Lo si trova persino nei libri di terza media: è il ciclo mestruale, che dipende dall’equilibrio tra alcuni ormoni che regolano la produzione di una cellula uovo al mese. Se questa non viene fecondata (ed è la cosa largamente più frequente) l’epitelio dell’interno dell’utero, che era pronto ad accogliere l’embrione, si sfalda, quindi si ha il sanguinamento e cioè la mestruazione.
Prima di capirlo, però, consideravamo quei giorni un momento spaventosamente misterioso. Così le vite delle nostre antenate, delle nostre nonne, delle nostre madri, e un po’ anche le nostre, sono state afflitte da leggende secondo le quali in quei giorni facevamo appassire i fiori e impazzire la maionese, mandavamo il vino in aceto e rendevamo acida la conserva di pomodoro.
Ce lo ricordano due libri che raccontano superstizioni e tabù di un passato non troppo passato. Il primo è di Marinella Manicardi, attrice e regista che sulle mestruazioni ha fatto uno spettacolo teatrale dal titolo Corpi impuri per il Festival della Filosofia di Modena, e oggi ha scritto un libro dallo stesso titolo per la casa editrice Odoya. Il secondo è in uscita per Einaudi: Questo è il mio sangue, della giornalista francese Élise Thiébaut, che sarà in libreria dal 23 gennaio.
L’idea di fondo dei due libri è simile: di mestruazioni non si parla, e questo ha contribuito, e contribuisce ancora, alla discriminazione di genere. Thiébaut annuncia una prossima e necessaria “rivoluzione mestruale”, che darà alle donne consapevolezza del proprio corpo e della propria identità. Manicardi parte invece dalla letteratura: Anna Karenina non ha mai le mestruazioni e non le ha mai neppure Emma Bovary. -C’è un’unica eccezione: Margherita, la signora delle camelie. Ma era una prostituta. E la ragione per cui, ogni mese, le sue camelie erano cinque giorni rosse e gli altri bianche Alexandre Dumas la lascia solo intuire. «Se i tempi sono cambiati? Beh, mica tanto» dice Manicardi. Quanto alla nuova pubblicità in cui il sangue viene finalmente rappresentato da un liquido di colore rosso, invece dell’azzurro alieno degli spot precedenti, c’è poco da festeggiare. «È la prima, appunto, e siamo nel 2017».
Oltre agli spot e ai libri, ci sono però anche le provocazioni artistiche, come quella della tedesca Elone, che ha riempito le vie di Karlsruhe di assorbenti con scritte frasi contro la violenza sulle donne, o quella della portoghese Joana Vasconcelos, che ha costruito un lampadario con 14 mila assorbenti interni. E soprattutto ci sono le provocazioni politiche, come il movimento free bleeding, che propone di non usare assorbenti e di lasciare che il sangue si mostri.
Nel 2015 l’attivista statunitense di origine indiana Kiran Gandhi ha corso così la maratona di Londra (quindi 42 chilometri), e ha spiegato: «L’ho fatto per le mie sorelle che non hanno accesso agli assorbenti e per quelle che li nascondono». In India, infatti, una ragazza su dieci considera il ciclo una malattia e una su quattro al raggiungimento della pubertà è costretta a lasciare la scuola. Mentre in Nepal solo ad agosto di quest’anno è approvata una legge che punisce la pratica millenaria del chhaupadi, cioè la reclusione delle donne mestruate in capanne isolate, in cui non mangiano e non bevono, e possono essere morse dai serpenti.
Anche da noi il pregiudizio antimestruazioni è antico: «Dai tempi di Ippocrate in poi il corpo femminile è sempre stato considerato la versione imperfetta di quello maschile» racconta Francesco Paolo de Ceglia, storico della scienza all’Università di Bari. «Gli organi della generazione sono introflessi, e il tutto viene descritto come umido, molle». Questa “umidità” femminile si credeva destinata a nutrire il bambino, «e si diceva che venisse espulsa con le mestruazioni, una specie di liberatorio salasso naturale». L’idea dell’impurità arriva dalla religione. Ma, prosegue de Ceglia, «la scienza la assorbe. Così si giunge al concetto per cui le mestruazioni sono un po’ come escrementi».
Però poi la scienza è avanzata, vero? «Sì, certo» concede Carlo Flamigni, ginecologo, scrittore e saggista, «ma mica tanto tempo fa». Sono solo sessant’anni che conosciamo la questione dell’utero e dell’ovaio. Flamigni si è laureato nel 1959 e racconta che anche nei libri universitari su cui ha studiato «le mestruazioni servivano a espellere le sostanze tossiche accumulate nel corpo femminile, e segnatamente una che si chiamava menotossina». Quindi, aggiunge, «se il tabù esiste ancora, credo che per superarlo debba scomparire un’intera generazione, la mia».
Solo sessant’anni significa che le nostre nonne venivano considerate così pericolosamente instabili da non avere accesso alla magistratura. Fino al 1963 lo diceva proprio la legge italiana, nero su bianco: «Fisiologicamente tra un uomo e una donna ci sono differenze nella funzione intellettuale, e questo specie in determinati periodi della vita femminile». Indovinate quali.
Alla fine della fiera è difficile dire se qualcosa degli antichi pregiudizi rimanga anche nelle nostre teste, o se siamo vicini alla fine del tabù. «Che io sappia non ci sono dati o rilevazioni affidabili che ci permettano di esprimerci sull’esistenza del tabù» commenta Paola Borgna, sociologa dell’Università di Torino. Ognuno potrà avere le proprie impressioni: «La mia è che il tabù a sfondo religioso sia stato sostituito dalla medicalizzazione. Ed è un aspetto di un processo di medicalizzazione del corpo e delle società più generale, che dà origine a nuove forme di controllo delle nostre vite».
Un dato di fatto è che, oltre alle donne giudice, oggi possiamo avere le donne astronauta, come Samantha Cristoforetti, che considera gli assorbenti l’ultima delle sue preoccupazioni, terrestri ed extraterrestri: «Se mi chiedono come si viva con le mestruazioni nello spazio? A dire il vero non tanto spesso». Un giorno però Carla ha mandato la domanda al suo blog avamposto42, e Samantha ha risposto così: «Beh, non vorrei fare a cambio con la necessità di radermi il viso tutte le mattine in assenza di peso!». Come dire: l’età adulta e gli ormoni della fertilità propongono modeste seccature. Per i maschi si tratta di farsi
barba e baffi più o meno ogni mattina. Le femmine in fondo se la cavano con quattro o cinque giorni al mese, e nel 2017 non devono più nemmeno fare la fatica di inventarsi giri di parole: sono mestruazioni, semplicemente mestruazioni.
* la Repubblica, 15 dicembre 2017
SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
Federico La Sala
Salviamo il convento di San Marco (Firenze) dal nuovo provvedimento di chiusura
Al Maestro Generale dell’Ordine Domenicano Bruno Cadoré
Dopo quattro anni la situazione è tornata al punto di partenza: il Capitolo Provinciale dei Frati Domenicani dell’Italia Centrale ha nuovamente deciso, nel luglio 2017, di chiudere il Convento di San Marco a Firenze; rimarrà aperta la parte del convento che è Museo statale e la chiesa, ma non ci sarà più una comunità di frati e un convento senza frati non è più un vero convento.
Dopo la grande mobilitazione - di popolo, di artisti, di intellettuali - per salvare il convento, concretizzata in varie iniziative e soprattutto nella Petizione su www.change.org l’arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori e il Maestro Generale dell’Ordine Domenicano, Padre Bruno Cadoré, avevano stipulato un accordo che impegnava i domenicani a tenere aperto il convento almeno fino al termine del processo di beatificazione di Giorgio La Pira, celebre sindaco di Firenze, legato per tanti motivi al convento di San Marco.
Ma la Provincia Domenicana, incurante di questo accordo, ha domandato al Generale di chiudere il convento, proprio come quattro anni fa. Il cardinale Betori ha cercato di rimediare contattando il Generale Cadoré, è nato un dialogo da cui è emersa la disponibilità del Generale a non chiudere il convento. Tale disponibilità però non si è tradotta in decisioni concrete e il convento (e i frati che vi risiedono) permane in una situazione di incertezza totale.
Domandiamo al Generale di trovare quanto prima una soluzione, affinché nel convento di San Marco risieda una comunità con un congruo numero di frati, in grado di valorizzare ed incrementare le sue attività.
Ricordiamo qui l’importanza unica del convento: San Marco dal XV secolo fa parte integrante della storia e dell’identità di Firenze, San Marco è il convento domenicano più famoso al mondo e uno dei più ricchi di opere d’arte, uno dei principali centri del Rinascimento, un laboratorio dove si sono fecondate a vicenda la religione cattolica, la cultura e l’arte.
Nel corso di quasi sei secoli moltissimi personaggi illustri (nella santità, nella cultura, nell’arte, nella politica) hanno abitato il convento oppure lo hanno frequentato assiduamente. Ancora oggi, benché rimasto con pochi frati, il convento è un punto di riferimento per le tante persone che desiderano un contatto con l’Ordine Domenicano, per gli studiosi di religione e arte che frequentano la chiesa, la biblioteca di spiritualità e le conferenze organizzate dai frati.
Firenze, 20 dicembre 2017
Il testo completo della petizione può essere letto su questa pagina di change.org.
*fonte: marcovannini
Claudio Moreschini,
Rinascimento cristiano. Innovazioni e riforma religiosa nell’Italia del Quindicesimo e Sedicesimo secolo,
Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2017 *
INDICE DEL VOLUME
Prefazione ................................................................................................ VII
Parteprima
Difesa del Cristianesimo
I. Gianfrancesco Pico della Mirandola tra Savonarola e Giovanni Pico........................3
II. Francesco Zorzi: Teologia e cosmogonia .............................................................71
III. L’autenticità del Corpus Dionysianum: contestazioni e difese........................95
Parte Seconda
Aspetti della poesia cristiana
I. La poesia ermetica e cristiana di Ludovico Lazzarelli: i Fasti Christianae Religionis.....143
II. La poesia di Gian Francesco Pico della Mirandola ........................ 163
III. La riscrittura cristiana di un testo ‘poetico’: Francesco Zorzi e il Cantico dei Cantici..... 219
Parte terza
Le tradizioni teosofiche antiche si inverano nella religione cristiana
I. Cristianesimo e tradizione ermetica .............................................................. 231
II. La tradizione caldaica ..................................................................................265
III. La tradizione (neo)platonica ..........................................................................295
Appendice
Ioannes Francisci Pici Mirandulae domini Concordiaeque Com. Hymnus ad Sanctiss. Trinitatem. Con traduzione a fronte ..... 344
Indice dei nomi .......................................................................................365
* SCHEDA EDITORIALE. - STORIA E LETTERATURA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. il sogno del "regno di dio" in un solo Paese è finito... *
Nel nuovo “Credo” la chiesa del dialogo
Al patriarca Bartholomeos verrà donata oggi una diversa traduzione della preghiera che supera le divisioni fra Occidente e Oriente
di Alberto Melloni (la Repubblica, 13.09.2017)
Mancano otto anni (sembra tanto, ma è il tempo dedicato all’attesa del grande giubileo) al centenario del concilio di Nicea del 325. Il primo detto “ecumenico”. Quello che con la sua “esposizione della fede” (“il Credo” diciamo noi) ha segnato la storia cristiana facendo della sinodalità una esperienza che certo non appartiene alla “essenza” della Chiesa, ma è lo strumento con cui essa cerca di restare fedele al Vangelo nel tempo.
Quel concilio doveva garantire a Costantino l’unità dottrinale dell’impero e sedare un conflitto teologico lacerante sul modo di pensare Dio e dunque sul modo di pensare la natura del potere. La teologia di Ario, infatti, affermava una ineguaglianza fra il Padre e il Figlio: non era una quisquilia per teologi, ma la tesi che avrebbe permesso ad ogni potere di sacralizzare il proprio sistema discendente di dominazione come specchio dell’ordine divino. Il concilio, invece, fece la scelta più difficile: e disse che al cuore del mistero di Dio vi è la relazione e fece della dottrina trinitaria il cuore della fede cristiana.
La «esposizione della fede dei 316 padri» approvata a Nicea fu ampliata nel successivo concilio di Costantinopoli ed è diventata parte della vita liturgica di tutte le chiese cristiane fino ad oggi. Essa ha assorbito una questione che ha pesato come un macigno nei rapporti fra Oriente e Occidente. Il simbolo niceno-costantinopolitano, infatti, non ammetteva ritocchi. La sua immobilità segnalava un paradosso: per dire ciò che è essenzialissimo alla fede di e in Gesù servono parole e organi (il credo e il concilio) a lui ignote.
Ciò nonostante l’Occidente introdusse nella versione latina del Credo, le parole “e dal Figlio” - il Filioque - là dove i padri costantinopolitani aveva detto che lo Spirito si avventura (l’ekporesis è il cammino di chi lascia una città) procedendo “dal Padre”. Una addizione d’origine iberica che l’Occidente difese spiegando che significava “attraverso il Figlio”, lasciando dunque intatta la fede nicena. E che invece molti Orientali considerarono o considerano intollerabile: fino a giudicare i patriarchi che hanno abbracciato il papa come troppo indulgenti verso “l’eretico di Roma”.
Fatto sta che il Filioque è stato oggetto di conflitto, ora attutito ora riacutizzato: ma è anche un’occasione per chiedersi come l’Occidente tradurrebbe oggi nelle lingue vive il testo greco del simbolo. Non certo per illudersi di aggirare l’ostacolo della divisione con una furbizia filologica, ma per chiedersi quale sia il nesso che esiste fra il male del mondo, condannato dalle chiese con giusta energia, e la loro divisione, troppo spesso derubricata a questione tecnico-teologica. Così diciotto secoli dopo, il Credo domanda alle chiese se hanno memoria o meno dell’unità di fede - premessa che decide della celebrazione comune dell’eucarestia - che quel testo enunciava.
L’Occidente infatti s’è legato a una traduzione latina, che ha il Filioque e che soprattutto organizza in strofe a cui il canto aggiunge un po’ di trionfalismo tonale. Ma non ha mai perso il testo greco, con una metrica interna tutta diversa e del quale la Chiesa cattolica ha sempre riconosciuto, da ultimo con un atto del 1995 della Santa Sede, la intangibilità.
L’Occidente dunque ha conservato il diritto di recitare il Credo in greco (lo hanno fatto anche i papi) e anche quello di tradurlo: specie ora, in una liturgia fatta di lingue vive, che nascono da traduzioni sulle quali il papa ha ridato da pochi giorni alle conferenze episcopali e ai vescovi i poteri che loro competono.
Da questa constatazione deriva l’ipotesi o l’esperimento di una traduzione - che come insegna Tullio Gregory è il ponte da cultura a cultura - del Credo: una traduzione nuova, “dal basso”, e come si vedrà, desiderosa di conservare in una sola parola ciò che il greco dice in una parola, anche a costo di alterare la memorizzazione oggi più diffusa. È stata confezionata in occasione della visita che il Patriarca Ecumenico Bartholomeos farà oggi a Bologna, e alla fondazione dove Giuseppe Alberigo e Giuseppe Dossetti hanno seminato l’amore per lo studio e per i concili: non è una proposta, è un dono.
Ruminata per molto tempo fra alcuni dotti, discussa con una filologa del calibro di Silvia Ronchey, nota a pochissime ma autorevoli figure delle chiese d’Oriente e d’Occidente, questa traduzione lascia il Credo latino alla sua storia: e cerca di far rivivere le rime nascoste della fede comune e il battere di quell’“uno” che sembra un ritornello: il Dio uno, il Figlio uno, la chiesa una, il battesimo uno.
A otto anni dal centenario di Nicea si contenta di dire che scoprire l’unità della fede vissuta dalle chiese e la sinodalità che ha permesso loro di conservare la fedeltà al vangelo sono ancora lì, come un eredità, come un traguardo, come un seme di pace di cui il mondo battuto dalla violenza attende i germogli.
Crediamo in un Dio Uno Padre, Onnipotente, Fattore del cielo e della terra, dei visibili e degli invisibili
E [crediamo] in un Signore Uno, Gesù Cristo, il Figlio di Dio, l’Unigenito, il Generato dal Padre prima di tutti i secoli, [Dio da Dio], luce da luce, Dio vero da Dio vero generato non fatto, consustanziale al Padre per mezzo del quale tutto fu creato.
Lui [che] per noi, gli uomini, e per la salvezza nostra discese dai cieli e s’incarnò di Spirito Santo e da Maria Vergine s’inumanò.
Il Crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, Lui [che] morì e fu sepolto e risorse il terzo giorno, secondo le Scritture e ascese nei cieli, e intronizzato alla destra del Padre e di nuovo tornerà nella gloria giudicante i vivi e i morti, Lui, il cui Regno non avrà fine.
E [ crediamo] nello Spirito Santo il Signore e il Vivificante che si diparte dal Padre e con il Padre e il Figlio il Conadorato e Conglorificato il Parlante per mezzo dei Profeti.
[Crediamo] la chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica
Confessiamo un battesimo Uno per la remissione delle colpe, attendiamo la resurrezione dei morti e la vita del secolo futuro
Amen.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA .... *
All’anima di Michelangelo
Un libro indaga la complessa religiosità michelangiolesca, e allarga il campo a iconografia e Riforma
di Giulio Busi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 03.09.2017)
È nell’orto di casa, la notte è serena. Prega. Quando alza gli occhi, nel cielo c’è una stella. Grande, enorme, con tre code. Il raggio d’oriente ha colore dell’argento. O forse è una spada lucente, torta alla sommità come un uncino? L’altro raggio, quello che si proietta su Roma, è vermiglio come il sangue. Il terzo strale s’incunea tra settentrione e occidente. È così lungo che arriva di sicuro fino a Firenze. In cima si biforca, ed è infuocato. Lui corre in casa, prende un foglio, torna fuori nell’orto, butta giù un’immagine. Disegnare è il suo mestiere.
Vorreste vederlo, questo schizzo misterioso? Il frate Benedetto Luschini, che ha raccontato tutta la storia, ci indica dove andare: «Se pure tu ti contenti di vederlo, va et truova el decto scultore, che al presente si truova et lavora in Firenze. Et lui benignamente ti mostrerrà la cosa, et humilmente ti dirà la verità del tucto, et così resterai satisfacto et troverrai che io non t0ho decto alcuno mendacio». Chi è lo scultore? Ha un nome facile da ricordare. Michelangelo.
Frate domenicano, grande sostenitore di Girolamo Savonarola, Luschini ha avuto guai con la giustizia. Mentre scrive, s’è già fatto un bel po’ d’anni di prigione per un omicidio, sembra preterintenzionale. È autentica la storia della stella, e il disegno, lo ha visto davvero? Sappiamo così poco, sul mondo interiore di Michelangelo, soprattutto durante la giovinezza e la prima maturità, che ogni indizio è prezioso.
Attese e paura di punizione celeste, speranze di trasformazione epocale. Le prediche dell’ossuto Savonarola, Michelangelo le ha sentite con le proprie orecchie, prima di partire per l’Urbe nel giugno 1496. Come quasi tutti i fiorentini, ne è rimasto impressionato, esaltato, turbato. Un’esaltazione di cui ancora si ricorderà nella vecchiaia, ma che non gli ha impedito di starsene al sicuro a Roma, e di lavorare per cardinali e banchieri, proprio mentre la stella di Savonarola, tanto più fragile della cometa celeste, sale al dominio della città e poi cade a precipizio, fino alla morte sul rogo.
La religione di Michelangelo è un tema profondo e contradditorio come tutto l’uomo. Generoso e taccagno, idealista e crudamente pragmatico, malinconico e ironico. Della sua tendenza a dar credito a profezie e attese millenariste si fanno beffe i familiari. E lui, permaloso, si risente: «Io non vo drieto a favole e non sono però pazzo afacto chome voi credete», scrive polemico, nel 1515, al fratello Buonarroto, che lo ha accusato di lasciarsi prendere da «frati e favole».
Favole - se le vogliamo chiamare così - ma quali? Al voluminoso dossier sulla religiosità michelangiolesca, Ambra Moroncini aggiunge ora un’indagine su poesia, iconografia e Riforma. La triade del titolo disegna il percorso di tutto il libro. Spirituali, evangelici, luterani, eretici: le possibili sfumature lessicali e storiche sono molte, ma il significato di fondo è univoco. È la ricerca di un Michelangelo che, nascostamente, fra amici - Vittoria Colonna, innanzitutto - o dietro il velo simbolico delle proprie opere, è in polemica con la Chiesa del potere e della pompa ed è lambito, o preso in pieno, dal grande vento che ha cominciato a soffiare a Wittenberg, il 31 ottobre 1517, quando Lutero ha deciso di proporre alla discussione pubblica le sue 95 tesi sulle indulgenze.
E poiché le date, per i visionari, contano, eccovi una coincidenza importante. Il 31 ottobre 1541, per i vespri alla vigilia d’Ognissanti, papa Paolo III inaugura, nella Cappella Sistina, il Giudizio Universale di Michelangelo. Ottobre è il più crudele dei mesi? No, il più eretico.
Secondo Moroncini, dietro l’apoteosi di santi e dannati, tutti egualmente svestitissimi, sotto la procace galassia di corpi che vortica attorno al Cristo risorto del Giudizio sistino, vi sono le simpatie evangeliche di Michelangelo, la sua polemica anti-ecclesiastica. Sulla scorta del commento al Vecchio e Nuovo Testamento del luterano Antonio Brucioli, s’ipotizza nel volume che i nudi vogliano rappresentare la condizione di peccato, dal quale la sola fede può salvare e non l’umana ipocrisia e le cerimonie esteriori della Chiesa.
Vien da chiedersi se sia questa l’unica spiegazione possibile per la fastosa, e provocatoria, nudità del Giudizio. Che l’esibizione di carni desse ad alcuni subito fastidio, è risaputo, giacché le prime critiche sono dello stesso 1541, e provengono dall’ambiente di due potenti cardinali e futuri papi, Marcello Cervini (Marcello II) e Gian Pietro Carafa (Paolo IV). Alla fine, ma solo più d’un ventennio più tardi, la revanche copritiva avrà la meglio, e all’ottimo allievo e amico di Michelangelo, Daniele da Volterra, detto poi il Braghettone, verrà affidato il compito di stendere pietose pennellate pudiche.
Non ci voleva però la Riforma protestante per far dipingere sodi e sensuali corpi al Buonarroti. Già qualche anno dopo l’affrescatura michelangiolesca sul soffitto della Sistina, papa Adriano VI aveva storto il suo naso fiammingo, e aveva definito la Volta, proprio per quelle pudende bene in vista, «una stufa d’ignudi», o bagno termale che dir si voglia.
Perché, allora, i nudi? E perché proprio nella cappella pontificia? È domanda religiosa d’importanza. Quali le ragioni, oltre, naturalmente, alla coerenza dell’artista, che comincia a scolpire nudi da ragazzo, nella Zuffa dei centauri, e mai si ferma per tutta la sua lunghissima vita? Credo carnis resurrectionem, dice il catechismo cattolico. Carnis, della carne, e non in tunica e camicia. Ma anche a voler azzardare qualche fonte più particolare, basta prendere una predica, tenuta nel Duomo di Firenze durante l’Avvento del 1493 (Michelangelo è quel giovanotto in fondo, tra la folla?) e poi pubblicata in volgare: «Nella resurrettione noi saremo nudi et semplici, cioè spogliati di queste superfluità del mondo». Chi è il predicatore? Ha un nome facile da ricordare. Savonarola.
SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO.
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL.
IN MEMORIA DI SANT’AGOSTINO (E IN ONORE DEL LAVORO DELLA FONDAZIONE "TERRA D’OTRANTO").
Considerazioni a margine dell’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò (elevata a Basilica minore nel 1980, da papa Giovanni Paolo II, durante l’episcopato di Antonio Rosario Mennonna)
Lode a Marcello Gaballo per questa bellissima e preziosa nota su "L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/#_ftn1) - e il lavoro di De Giorgi: la sua trascrizione della scritta sul cartiglio (ormai scomparsa) "iuste/et cas/te viv/ere et/ xarita(te)" - contrariamente alla protervia che ha portato allo "sproposito maiuscolo" e alla brutta abitudine instauratasi almeno a partire da Ludovico A, Muratori di una "caritas" latina! - conserva ancora la memoria del legame della tradizione dell’evangelo (non: "vangelo"!) con la lingua greca ("charis", "charites"... "charitas").
FILOLOGIA E FILOSOFIA/TEOLOGIA. Giambattista Vico ("De constantia iurisprudentis", 1721) giustamente e correttamente e onestamente così pensava e scriveva: "Solo la carità cristiana insegna la prassi del Bene metafisico"("Boni metaphysici praxim una charitas christiana docet"). Sapeva che Gesù ("Christo") aveva cacciato i mercanti FUORI dal tempio, e non aveva autorizzato i sacerdoti a vendere a "caro-prezzo" (lat.: "caritas") la "grazia" (gr.: "Xapis", lat.: "Charis") di Dio (lat.: "Charitas")!!! Due padroni: Dio "Charitas" o dio "Caritas"?!, Dio Amore o dio Mammona?! In questo bivio ("X") ancora siamo, oggi - e ancora non sappiamo sciogliere l’incognita (""x")!
Sul tema, mi sia consentito, si cfr. la seguente nota:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori.
MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
ALLA LUCE DEL lavoro di ARMANDO POLITO e MARCELLO GABALLO SU "SANTA MARIA DI CASOLE E LE SUE SIBILLE" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/24/santa-maria-casole-copertino-le-sue-sibille/), all’affresco di Sant’Agostino (databile forse più precisamente nella seconda metà del sec. XV), mi augurerei una rinnovata e maggiore attenzione non solo a tutta la figura dell’affresco ma, in particolare, all’immagine del bastone-pastorale con i suoi DUE SERPENTI. Essa richiama, con chiarezza, non solo la figura di Mosè ma anche e soprattutto la figura di ERMETE TRISMEGISTO con il suo caducèo (e, con essa, della Sibilla Pizia, di Apollo, e di Delfi).
L’affresco di Sant’Agostino nella cattedrale di Nardò, a mio parere, è un luminosissimo segno "manifesto" della diffusione della concezione umanistico-rinascimentale nella Terra d’Otranto e, insieme, del grande lavoro che porterà infine la Chiesa e Michelangelo a celebrare le Sibille (5) insieme ai Profeti (7) nella Volta della Cappella Sistina: ovvero, dice chiaramente del ruolo "giocato" dalla figura di Agostino nella costruzione dell’ orizzonte ecumenico umanistico e rinascimentale.
Sul tema, si cfr., unitamente al già citato lavoro di A. Polito e M. Gaballo, la mia nota sul
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
NEL LIBRO DI Marcello Gaballo e Armando Polito, "Santa Maria di Casole a Copertino (Lecce) ed altri repertori di Sibille" (Fondazione Terra d’Otranto 2017), è ripreso l’intero capitolo 23 del Libro XVIII del "De civitate Dei" (per eventuali approfondimenti, si cfr. sant’Agostino, "La città di Dio": http://www.augustinus.it/italiano/cdd/index2.htm)
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
LA CHIESA ANGLICANA SORPASSA LA CHIESA "CATTOLICA". Il cattolicismo "andropologico" romano è finito:
Antonio (non più don) Potenza si è sposato a Westminster
di Alessio Porcu - 8 luglio 2017
Togliamoci subito di mezzo la notizia di gossip. Antonio (non più don) Potenza si è sposato. L’ex segretario del chiacchierato 191mo abate di Montecassino Pietro Vittorelli si è unito in matrimonio con Celeste, la ragazza di Cassino che aveva conosciuto nell’archivio del museo dell’abazia. E per la quale ha lasciato: la tonaca di benedettino, la carica di segretario dell’abate, nonché la carriera spianata verso i vertici dell’Ordine.
Il matrimonio è stato celebrato nel pomeriggio all’interno della cattedrale di Westminster a Londra, direttamente dal dean John Hall che è il decano di Westminster. Il rito è stato quello anglicano. Officiato in un giorno particolare: quello del compleanno della sposa. Tra le foto è possibile riconoscere con sicurezza l’assessore comunale e già cerimoniere abbaziale Benedetto Leone nonché l’avvocato Gianrico Ranaldi. Sono seduti l’uno accanto all’altro nell’immagine che li vede nel chiostro di Westminster Abbey durante il concerto per violino che si è tenuto al termine della cerimonia religiosa.
Puntare sul pettegolezzo, di fronte ad una notizia così sarebbe un grave limite.
Perché Antonio (non più don) Potenza poteva convolare a nozze ovunque gli fosse garbato. Ma farlo a Westminster ha un significato molto profondo e particolare. Il suo matrimonio rappresenta un segnale forte alla Chiesa di Roma ed a Papa Francesco. E’ un messaggio con il quale sollecitare a rimettere nell’agenda il tema del celibato dei preti.
Non è un caso che il rito sia stato celebrato dal dean John Hall: non è solo il decano di Westminster. In quanto tale, è anche il capo del capitolo dell’abbazia. Che è prelatura personale della Corona. Quindi il dean risponde direttamente alla Regina (che è il capo della Chiesa anglicana) non al Vescovo di Londra come ordinario, né all’arcivescovo di Canterbury come metropolita. L’abate Pietro Vittorelli ed il suo segretario Antonio Potenza avevano lavorato molto sui rapporti tra Chiesa di Roma e Anglicani. Avevano cercato di favorire il dialogo ecumenico. Più volte erano stati a Londra ed avevano ospitato a Montecassino i vertici della chiesa di Sua Maestà.
Antonio Potenza in questo momento è formalmente un exclaustrato. E’ cioè un monaco che non conduce più vita monastica ed ha lasciato l’ordine. L’iter lo aveva avviato a gennaio 2016, presentando la domanda e trasferendosi quasi subito a Londra. Ma avendo preso i voti monastici resta sempre un consacrato: il sacramento è per sempre e in nessun modo può essere tolto.
Il suo matrimonio celebrato a Westminster può essere un modo per tentare di accelerare i meccanismi di dialogo che in qualche modo erano stati attivati proprio dai due vertici dell’abazia di Montecassino negli anni scorsi.
«E’ la visione di una Chiesa pre Tridentina - analizza il filosofo Biagio Cacciola - in quanto a quel tempo era prevista la possibilità dell’unione matrimoniale pur conservando il sacerdozio. Soltanto dopo il secolo XI con papa Gregorio VII, Ildebrando di Soana, ci fu il radicamento del celibato. Che era però legato soprattutto ad una questione di convenienza. Infatti, il papato era egemone sotto il profilo territoriale ed avere figli, essendo sacerdoti, avrebbe tolto alla Chiesa strutture e terreni»
Il tema è aperto. In Puglia esiste una diocesi di rito Bizantino Orientale che è incardinata nella Chiesa di Roma. Non è di rito Ortodosso. E prevede l’istituto dell’uxoriato cioè i sacerdoti sono sposati.
Quel matrimonio, celebrato a Westminster, paradossalmente è anche una risposta ai preti sposati anglicani passati al Cattolicesimo, motivo di attrito tra Chiesa Anglicana e Cattolica, cinque anni fa.
In questo periodo Antonio (non più don) Potenza lavora per anglicani in una delle loro strutture di Londra. Alcuni sostengono trattarsi di un hotel nel cuore della City. Formalmente, potrebbe rivendicare il titolo di don. Ma per ora, tolti i formalismi farisaici, per i fedeli di Roma non lo è. Le prossime settimane, con i successivi passi, diranno come stanno le cose.
L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!!:
Lettere
Quanto è atavica la mentalità maschile
La donna che non genera è esposta a un dubbio logorante.
Ed è guardata ancora con sospetto
Risponde Umberto Galimberti *
Alla parità tra maschi e femmine non si arriverà mai, perché, non essendo in grado di generare, i maschi capiscono del mondo femminile unicamente quello che loro ritengono sia proprio della donna, e precisamente ciò che per natura a loro non è concesso. Svincolati dai ritmi della natura, i maschi, per occupare il tempo e non morire d’inedia nell’ozio, hanno inventato la storia, e in questa storia hanno inserito la donna come generatrice, madre dei loro figli, prostituta per le loro soddisfazioni sessuali e, a sentire Lévi-Strauss, il più grande antropologo del ’900, come merce di scambio nei loro traffici.
Un altro antropologo, Bronislaw Malinowski, riferisce che gli abitanti delle numerose tribù da lui visitate ignoravano il ruolo maschile nella generazione, e pur tuttavia, le donne da lui interrogate, rispondevano che tutti i figli assomigliano al padre, mentre la madre, genitrice riconosciuta dai suoi figli, non ha con essi alcuna somiglianza. La coppia parentale, "paritetica" nella riproduzione sessuale, diventa "gerarchica" nella rappresentazione sociale. A questo schema non sfugge neppure Aristotele per il quale "la femmina offre la materia e il maschio la forma", e neanche il mito cristiano di Maria Vergine, che con il suo corpo mette al mondo il figlio di Dio che di sé dice: "Io e il Padre siamo una sola cosa" (Gv. 10,30).
Questo impianto ideologico, che affonda negli abissi del tempo e della storia, governa ancora la mentalità maschile, che da qui prende spunto per esercitare il suo potere sul mondo femminile ridotto al rango di "materia", a proposito della quale Aristotele scrive: "La femmina desidera il maschio come la materia desidera la forma, il brutto desidera il bello".
A questo punto il dominio dell’uomo sulla donna appare come perfettamente "naturale", perché non c’è niente di più naturale e di più evidente del suo corpo fatto apposta per la generazione. Ebbene, proprio nella differenza tra il corpo dell’uomo e il corpo della donna si trova la prova inconfutabile del dominio del primo sulla seconda, di cui sono convinti non solo gli uomini, ma anche le donne che per secoli hanno trovato naturale il dominio esercitato su di loro da parte dell’uomo. Com’è noto, infatti, il potere non sta tanto nell’esercizio della sua forza, ma nel consenso dei dominati alla propria subordinazione.
È da questo consenso, quello dei subordinati, che lei si deve liberare. E liberandosi potrà persuadere la mente di qualche uomo e di qualche donna che la donna non è solo materia per la generazione e i piaceri sessuali, ma al pari dell’uomo può generare anche a un altro livello, quale può essere la realizzazione di sé nel mondo lavorativo, in quello culturale, persino in quello sessuale senza doversi ridurre alla pura e semplice opacità della materia. E se sente sopra di sé la disapprovazione di molti tra quanti le stanno intorno, sappia che dobbiamo fare a meno di mezzo mondo per poter generare il nostro mondo, che non è deciso solo dalla biologia al servizio della specie, perché la specie, come sappiamo, è interessata agli individui unicamente per la sua sopravvivenza. E dopo che hanno generato, nella sua crudeltà innocente, li destina alla morte, perché altri individui, nascendo e generando, le assicurino la sua vita.
IL COLLOQUIO. Parla Monsignor Ravasi: fede e scienza devono allearsi per battere la superficialità del momento
“La tecnica corre troppo e ci cambierà l’anima”
di Elena Dusi (la Repubblica, 25.06.2017)
ROMA. «La tecnologia corre e ci propone nuovi mezzi con una velocità che la teologia e gli altri canali della conoscenza umana non riescono a seguire». Il cardinale Gianfranco Ravasi, 74 anni, teologo, biblista, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, non è però uomo che si dia per vinto. Con il “Cortile dei Gentili” e il “Tavolo permanente per il dialogo fra scienza e religione” sta cercando “alleati” fra coloro che hanno ancora fiducia nell’uomo e nel suo pensiero. «Atei, scienziati, persino chi ancora crede nelle ideologie. Non è più tempo di contrapposizioni ma di dialogo». Nell’ultimo incontro del “Tavolo” si è parlato di intelligenza artificiale e del rapporto fra umani e umanoidi.
Perché questo dialogo fra fede e scienza?
«Religione e scienza sono spesso considerati magisteri indipendenti, due rette parallele. E dal punto di vista del metodo è giusto che sia così. Ma condividono lo stesso soggetto e lo stesso oggetto. Non possono non incontrarsi, prima o poi».
Scienza e fede sono due tonalità di una stessa musica?
«La conoscenza del mondo da parte dell’uomo avviene attraverso molti canali: la scienza e la razionalità, ma anche la teologia, l’estetica, l’amore, l’arte, il gioco, il simbolismo, che è poi il primo modo di conoscere che abbiamo da bambini. Perderli o semplificarli vuol dire impoverirsi. E purtroppo è quello che sta avvenendo oggi».
Per colpa della scienza?
«No, per colpa dell’ignoranza. Stiamo vivendo una globalizzazione della cultura contemporanea dominata solo dalla tecnica o dalla pura pratica. C’è, ad esempio, una sovrapproduzione di gadget tecnologici di fronte alla quale non riusciamo a elaborare un atteggiamento critico equilibrato. Ci ritroviamo in un’epoca di bulimia dei mezzi e atrofia dei fini. La formazione scolastica e universitaria si occupa troppo poco degli aspetti relativi all’antropologia generale. Così, l’insegnamento di arte, letteratura, greco e latino, filosofia viene progressivamente ridotto».
Con quali conseguenze?
«Ci ritroviamo spesso appiattiti, schiacciati su un’unica dimensione. Un certo uso della scienza e della tecnologia hanno prodotto in noi un cambiamento che non è solo di superficie. Se imparo a creare robot con qualità umane molto marcate, se sviluppo un’intelligenza artificiale, se intervengo in maniera sostanziale sul sistema nervoso, non sto solo facendo un grande passo avanti tecnologico, in molti casi prezioso a livello terapeutico medico. Sto compiendo anche un vero e proprio salto antropologico, che tocca questioni come libertà, responsabilità, colpa, coscienza e se vogliamo anima».
La scienza corre troppo?
«Non tanto la scienza, quanto la tecnologia: corre e ci propone nuovi mezzi con una velocità che la teologia e gli altri canali della conoscenza umana non riescono a seguire. Per questa via si può finire in una civiltà mediatica e digitale che sta diventando totalizzante. Parliamo di transumanesimo come una delle paure del futuro, ma per certi versi è già iniziato. I nativi digitali sono funzionalmente diversi rispetto agli uomini del passato. Capovolgono spesso sia il rapporto fra reale e virtuale, sia il modo tradizionale di considerare vero e falso. È come se si ritrovassero dentro a un videogioco. Inoltre, l’uomo, che è sempre stato un contemplatore e custode della natura, oggi è diventato una sorta di con-creatore. La biologia sintetica, la creazione di virus e batteri che in natura non esistono sono un’espressione di questa tendenza. Tutte queste operazioni hanno implicazioni etiche e culturali che devono essere considerate».
Scienza e fede come possono collaborare?
«Fra spiritualità e razionalità, tra fede e scienza, può instaurarsi una tensione creativa. Diceva Giovanni Paolo II che la scienza purifica la religione dalla superstizione e la religione purifica la scienza dall’idolatria e dai falsi assoluti».
L’ecologia è un altro terreno di incontro?
«Gli accordi di Parigi sono ora in difficoltà. Anche molti “laici” si riconoscono invece nella Laudato si’ di papa Francesco, che mi pare stia diventando il punto di riferimento della questione ecologica. D’altronde è scritto nei primi passi della Genesi che Dio ha affidato la Terra all’uomo per “coltivarla” ma anche per “custodirla”».
I suoi incontri con i laici ormai proseguono da qualche anno. Qual è il suo bilancio?
«Il fondatore del cristianesimo, Gesù di Nazaret, era un laico, non un sacerdote ebraico. Egli non ha esitato a formulare un principio capitale: “Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. La contrapposizione fra clericali e anticlericali ormai è sorpassata. Alcuni aspetti della laicità ci accomunano tutti e la teologia ha smesso da tempo di considerare la filosofia e la scienza solo come sue ancelle. I problemi piuttosto sono altri. Semplificazione, indifferenza, banalità, superficialità, stereotipi, luoghi comuni.
Una metafora del filosofo Kierkegaard mi sembra adatta ai tempi di oggi: la nave è finita in mano al cuoco di bordo e ciò che dice il comandante con il suo megafono non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani. È indispensabile riproporre da parte di credenti e non credenti, i grandi valori culturali, spirituali, etici come shock positivo contro la superficialità ora che stiamo vivendo una svolta antropologica e culturale complessa e problematica, ma sicuramente anche esaltante».
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
Le sei ragazze italiane delle stelle: "Così abbiamo conquistato la Nasa"
Per la prima volta l’Agenzia spaziale pubblica uno studio firmato da sole donne. Tra i 27 e i 46 anni, hanno svelato i segreti dei buchi neri nati dopo il Big bang. Ma solo una di loro ha un contratto stabile
di MATTEO MARINI *
Sei astrofisiche, tutte italiane, formano un team di "archeologhe delle stelle" che ha attirato l’attenzione della Nasa. Cinque di loro hanno un contratto da "precaria della ricerca" e tre di loro non hanno ancora compiuto 30 anni. Il loro studio sui buchi neri dell’Universo primordiale è stato pubblicato a gennaio sul Monthly notices of royal astronomical society. Edwige Pezzulli, Rosa Valiante, Maria Orofino, Raffaella Schneider, Simona Gallerani e Tullia Sbarrato, così tante scienziate, tutte insieme, che firmano una ricerca così importante: anche per la Nasa è una cosa nuova. L’Agenzia spaziale americana ha deciso di pubblicare una "press release" e invitare una delle studiose a collaborare al blog, per raccontare cosa è successo nei primi milioni di anni dopo il Big bang.
Edwige, Raffaella e Rosa fanno parte del team di First, finanziato dallo European Research Council, che studia la formazione di stelle e galassie quando l’Universo era appena nato. L’indagine che, assieme alla storia di una squadra tutta al femminile, ha "conquistato" la Nasa è uno dei frutti di questo progetto. La loro non è stata forse una rivoluzione, come quella raccontata nel film Il diritto di contare, la storia di tre donne afroamericane che hanno conquistato un ruolo di grande responsabilità nella Nasa negli anni 60. Ma è comunque un grande riconoscimento per la ricerca italiana al femminile.
Delle sei, solo Raffaella non è "in scadenza", perché è professoressa associata alla Sapienza. A inizio carriera, più di 20 anni fa, è stata in qualche modo una pioniera: "Ho avuto il primo figlio durante il dottorato, era il 1996. Fui la prima in Italia a poter congelare la borsa per un anno per la maternità. Si poteva fare per il servizio militare ma non era previsto per una ricercatrice mamma".
Edwige Pezzulli, 29 anni, è dottoranda presso la Sapienza, Istituto nazionale di astrofisica e Tor Vergata. Ma nella sua storia controcorrente c’è un anche passato da thai boxer e rugbista a Roma nelle All Reds e nelle Red and Blue di Valmontone.
Rosa, 38 anni, ha lavorato tenendo in braccio la sua bambina. Aurora è nata un anno e mezzo fa: "Nelle notti e nei weekend di lavoro, quelli decisive prima dell’uscita dello studio, mi si addormentava in braccio, così scrivevo e rispondevo a mail e chat con le colleghe usando una mano sola - racconta - ma questo impegno è ripagato: proprio grazie al progetto First ho avuto il rinnovo del contratto per un altro anno".
Alle teoriche di First, che studiano modelli, si sono aggiunte le conoscenze sperimentali delle colleghe Maria Orofino e Simona Gallerani della Scuola Normale superiore di Pisa e Tullia Sbarrato del dipartimento di Fisica all’Università di Milano Bicocca, per interpretare i dati delle osservazioni. "Solo al momento di inviare il lavoro ci siamo accorte che le firme erano tutte quante di donne. Non ci avevamo fatto nemmeno caso" commenta sorridendo Raffaella Schneider, che è principal investigator del progetto First. "Vent’anni fa mi capitava di andare a convegni nei quali le donne si potevano contare sulle dita di una mano. Ora è molto diverso".
E sulla "eccezionalità" del loro team di archeologhe delle stelle anche Edwige ha un’idea chiara: "Sono convinta che la chiave del progresso risieda nella diversità e nel confronto tra più punti di vista. Non solo differenza di genere, dunque, ma anche occhi e culture diversi. In questo senso abbiamo portato la sguardo femminile su un problema sempre affrontato da uomini".
Per il loro studio sono partite da un quasar (una sorgente molto lontana e luminosa associata ai buchi neri), a 13 miliardi di anni luce da noi, per risalire ai suoi "progenitori", come per tracciarne l’albero genealogico. I "black holes" primordiali, appunto, che però sembrano non essere dove dovrebbero. "Abbiamo usato le osservazioni dello Sloan digital sky survey e del telescopio spaziale Chandra per osservare le attività di buchi neri quando l’Universo aveva meno di 800 milioni di anni - spiega Edwige Pezzulli - guardando lontano infatti è come se guardassimo indietro nel tempo". Le sei ricercatrici hanno così spiegato una dinamica fondamentale su cosa succedeva poco tempo dopo il Big bang e perché è tanto difficile scoprire quei buchi nello spazio-tempo formatisi quando l’Universo era ancora giovanissimo: "Non riusciamo a vederli perché il loro accrescimento, il periodo in cui aumentano di dimensioni divorando materia ed emettendo radiazioni, è molto rapido e si spegne in fretta".
* la Repubblica,31 maggio 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA...
Maghe, streghe, sciamane, guaritrici: le artiste alla Biennale d’Arte di Venezia 2017
Aperta ai Giardini e all’Arsenale la 57esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, diretta dalla francese Christine Macel
inserito da Flavia Matitti *
Sono maghe, streghe, sciamane, guaritrici. Consolano, curano, condividono, ma quando svelano ansie e minacce dei nostri giorni diventano perturbanti. Appaiono così le artiste presenti alla 57esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, aperta ai Giardini e all’Arsenale dal 13 maggio al 26 novembre 2017.
L’edizione 2017 della Biennale di Venezia, del resto, conta su una marcata presenza femminile. A cominciare dalla direzione artistica, affidata alla storica dell’arte parigina Christine Macel (n.1969), curatrice capo al Centre Pompidou, convinta che: “L’arte di oggi, di fronte ai conflitti e ai sussulti del mondo, testimonia la parte più preziosa dell’umanità, in un momento in cui l’umanesimo è messo in pericolo”. Nella sua mostra intitolata “Viva Arte Viva” (una programmatica dichiarazione di fiducia nel potere rigenerante dell’arte) Christine Macel ha inserito oltre quaranta artiste su un totale di 120 nominativi.
Tra queste vi sono alcune figure leggendarie come Maria Lai (1919-2013), sarda, custode del bagaglio culturale della sua isola, autrice di poetici lavori incentrati sull’uso del filo. Qui è rievocata anche la performance collettiva “Legarsi alla montagna”, realizzata dall’artista con gli abitanti del suo paese, Ulassai, l’8 settembre del 1981, un esempio di come l’arte possa innescare un processo di partecipazione e condivisione.
Singolare la coincidenza con il lavoro della coreografa americana Anna Halprin (n.1920), attiva dalla fine degli anni ’30, che nel 1981, in seguito allo shock provocato dall’assassinio di sette donne sui sentieri del Monte Tamalpais, vicino San Francisco, sviluppa una danza rituale di gruppo, per riconciliare la montagna con la comunità, poi divenuta la “Planetary Dance”, una danza per la pace che viene ripetuta annualmente ed eseguita in mostra nei giorni del vernissage.
Tra i tanti lavori esposti spicca ai Giardini la bella sala dedicata a Kiki Smith (n.1954), popolata di sculture e delicati disegni a inchiostro su carta nepalese, mentre all’Arsenale si segnalano la vivace installazione, fatta di balle colorate, dell’americana Sheila Hicks (n.1934), che ama definire le sue opere “tessiture senza pregiudizi” e il lavoro della polacca Alicja Kwade (n.1979), attiva a Berlino, una raffinata installazione che sfida le nostre capacità percettive.
Numerose sono anche le artiste chiamate a rappresentare il loro Paese attraverso progetti individuali concepiti appositamente per i rispettivi padiglioni nazionali, che quest’anno sono 86, sparsi tra i Giardini, l’Arsenale e il resto della città. Per il Padiglione della Germania, ad esempio, Anne Imhof (n. 1978) ha ideato “Faust”, un lavoro cupo sul tema del controllo e della sicurezza, col quale il padiglione tedesco si è aggiudicato il Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale.
L’artista ha trasformato lo storico edificio ai Giardini in un bunker recintato e sorvegliato all’esterno da guardie accompagnate da cani feroci, mentre l’interno appare come un carcere, in cui un team di performer mette in scena episodi di arbitrio e autorità, resistenza e libertà.
La sensazione di trovarsi in un luogo minaccioso si avverte anche nel Padiglione del Brasile (premiato con una menzione speciale), dove Cinthia Marcelle (n.1974) ha realizzato il progetto “Hunting Ground”, sostituendo al pavimento delle grate metalliche disposte secondo piani inclinati.
Il Padiglione della Gran Bretagna appare invece invaso da sculture informi e colorate, festose e inquietanti, secondo il progetto “Folly” di Phyllida Barlow (n.1944).
Kirstine Roepstorff (n.1972) vorrebbe al contrario rassicurare e dal Padiglione della Danimarca invita, tramite un’esperienza immersiva, ad accettare la precarietà, l’ignoto e la trasformazione come componenti naturali del processo di crescita. L’artista ha allestito un teatro nel quale il visitatore si impegna a trascorrere mezz’ora, al buio, in un’oscurità mistica evocatrice dell’utero materno, del cosmo o dell’aldilà, mentre una voce sussurra: “Hai tutto dentro di te, devi essere disposto a cambiare completamente dal vecchio sistema di orientamento al nuovo: l’oscurità è il vuoto gravido da cui sorge e nasce ogni cosa”. -Tracey Moffatt (n.1960), la prima artista indigena a rappresentare l’Australia con una mostra individuale, presenta il progetto “My Horizon”, che attraverso fotografie, filmati e video affronta, tra realtà e finzione, il tema dei migranti e dello spaesamento quale condizione esistenziale.
Tra l’altro si può vedere un vecchio filmato (Tracey Moffatt dice di averlo recentemente riscoperto) girato dai popoli indigeni australiani nel 1788, quando le prime navi della flotta britannica entrarono nel porto di Sidney.
La Romania dedica per la prima volta a una donna, Geta Brătescu (n.1926), una mostra individuale, offrendo così l’occasione per conoscere il lavoro di quest’artista, che attraverso disegni, collage, fotografie, oggetti e film conduce una riflessione affascinante sulla soggettività femminile.
Vale la pena ricordare, infine, Jesse Jones (n.1978) col suo progetto video “Tremble, tremble” per il Padiglione dell’Irlanda in cui recupera, con la straordinaria performer Olwen Fouéré, la figura della strega quale archetipo femminista ed elemento di rottura in grado di trasformare la realtà. Il titolo riprende lo slogan delle femministe italiane degli anni ’70 “Tremate, tremate, le streghe son tornate!” e invoca una trasformazione dei rapporti tra Chiesa e Stato nell’Irlanda di oggi.
Spesso anche la direzione artistica dei padiglioni nazionali è donna, come nel caso del Padiglione Italia, senza dubbio uno dei migliori di questa edizione. Da notare che la curatrice, Cecilia Alemani, ha voluto richiamare il tema della magia fin dal titolo della sua mostra - “Il mondo magico” (dal libro di Ernesto de Martino) - un tema che i tre artisti invitati (Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey) hanno declinato magnificamente, ciascuno a suo modo.
Su proposta di Christine Macel, inoltre, il Leone d’oro alla carriera è andato quest’anno all’americana Carolee Schneemann (n.1939), pioniera della performance femminista fin dagli anni ’60. “Schneemann - si legge nella motivazione - ha utilizzato il corpo nudo come forza primitiva e arcaica in grado di unificare le energie”.
Come sempre, durante la Biennale, sono innumerevoli gli eventi organizzati in città, ma sulle artiste si segnalano in particolare: la piccola mostra-dossier sulla pittrice surrealista danese Rita Kernn-Larsen (1904-1998), una riscoperta promossa dalla Collezione Peggy Guggenheim (fino al 26/6); l’esposizione “The Home of My Eyes”, che presenta 26 fotografie e il toccante video “Roja” (2016) dell’iraniana Shirin Neshat al Museo Correr (fino al 26/11); i raffinati progetti site specific realizzati da Marzia Migliora, in collaborazione con la Fondazione Merz, per le sale di Ca’ Rezzonico (fino al 26/11) e da Elisabetta Di Maggio (fino al 24/9) e Maria Morganti per gli spazi della Querini Stampalia.
Da non perdere, infine, la mostra collettiva “Intuition” a Palazzo Fortuny (fino al 27/11), che spazia da Hilma af Klint a Marina Abramovic, e “Future Generation Art Prize@Venice 2017” a Palazzo Contarini Polignac (fino al 13/8).
In quest’ultima spiccano la misteriosa installazione rituale dell’artista sudafricana Dineo Seshee Bopape, vincitrice di questa quarta edizione del premio istituito dal mecenate ucraino Victor Pinchuk, e la fiabesca opera multisensoriale “Mutumia” (donna in Kikuyu) dell’artista kenyota Phoebe Boswell, vincitrice del premio speciale.
Biennale di Venezia 2017- didascalie
1. Sheila Hicks, Scalata al di là dei terreni cromatici, 2016-17, Arsenale, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva (Photo Flavia Matitti)
2. Alicja Kwade, WeltenLinie, 2017, Arsenale, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva (Photo Flavia Matitti)
3.Tracey Moffatt, Madre con bambino, dalla serie Traversata, 2017, Padiglione dell’Australia, Giardini, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia (Photo courtesy the Artist, Australia Council for the Arts).
4. Una veduta esterna del Padiglione della Germania trasformato da Anne Imhof, Giardini, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia (Photo by Flavia Matitti).
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LA BIENNALE DI VENEZIA - Noi Donne, 15 Maggio 2017 (ripresa parziale).
GUERCINO A PIACENZA.
Gli affreschi della cupola *
Alla realizzazione degli splendidi affreschi che dominano la cupola contribuì generosamente il vescovo Giovanni Linati (1620-1627). Le figure di Davide e Isaia sono di Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, che chiamato a dipingere i Profeti nel 1625, morì ultimati i primi due spicchi.
Nel 1626 gli subentrò il Guercino, che completò entro l’anno gli altri sei scomparti dei profeti (Aggeo, Osea, Zaccaria, Ezechiele, Michea, Geremia), nel 1627 le lunette in cui si alternano episodi dell’infanzia di Gesù a otto affascinanti Sibille e il fregio del tamburo, per la parte a grisaille di aiuti. -Tra 1688 e 1689, il bolognese Marcantonio Franceschini affrescò i pennacchi e gli spazi preludenti alla galleria: rimane il Sogno di San Giuseppe esposto nel transetto destro. (...)
* PER IMMAGINI E TESTO. CFR.:
http://www.marcostucchi.com/Articoli/GuercinoPiacenza/GuercinoPiacenza_Affreschi.html
Mappe mentali
Arte, Rete e cartografia del mondo interiore
di ALEJANDRINA SOLARES *
L’umanità prima ha percepito lo spazio e poi lo ha rappresentato. Ogni civiltà ha mostrato la volontà di rappresentare, almeno la parte del mondo nella quale ha svolto la propria storia.
Anche se siamo abituati alle carte geografiche fin da quando cominciamo ad andare a scuola e oggi la tecnologia con l’uso dei media informatici offre ad ogniuno di noi la possibilità di vedere con precisione tutto, anche il più piccolo pezzo di mondo e avere coordinate spazio-temporali precise grazie ai sistemi satellitari e al uso del web. Nonostante ciò ci troviamo nella dificolta di rapresentare il mondo contemporaneo. Nella complessa realtà attuale traspare il predominio del simulacro sulla realta, attualmente la carta geografica è sostituita da spazio e tempo - di fatto confondiamo la carta con il territorio.
Una pretesa illuminista era quella di ridurre la complessità del mondo a una mappa e tutt’ora fatichiamo a scrollarci questa illusione. La mappa perfetta non esiste, perché in realtà non esiste un punto di vista assoluto su cui centrare la mappa, nella sfera terrestre non vi sono limiti né di spazio né di tempo. Il fenomeno della globalizzazione ha accentuato la difficoltà, oggi un pensiero nuovo come quello della Rete offre una inedita chiave di lettura, creando connessioni tra i diversi livelli di realtà.
Il pensiero della “Rete” fatto di connessioni è uno strumento di lettura e interpretazione del mondo, veicola la produzione di una cartografia di spazi físici e mentali in cui ogni osservazione genera una nuova esperienza dello sguardo, una esplorazione che porta ad scoprire luoghi sconosciuti o individuare nuove caratteristiche di un luogo già noto. Un’estensione della “mappa del mondo interiore”, segni e tracie rendono conto che la nostra visione non è una semplice immagine di ciò che si trova fuori di noi, ma viene determinata anche dal nostro “mondo interiore”, dai processi mentali ed emozionali attraverso i quali osserviamo e costruiamo il reale.
Aspetti simili al pensiero della “Rete” lo troviamo nelle “mind maps”, sviluppate negli anni sessanta da Tony Buzan, “le mappe mentali” sono una tecnica dove le parole-chiave si irradiano dal centro alla periferia attraverso una struttura radiale e una logica associazionistica. Queste mappe servono ad organizzare graficamente il proprio pensiero per elaborare nuove idee, creare connessioni tra argomenti diversi, prendere appunti, realizzare report e brainstorming.
Le mappe mentali si basano sulla capacità della mente umana di associare idee e pensieri in maniera non lineare, in queste mappe si crea una geografia personale che si sviluppa in uno spazio multidimensionale, molto simile a quello della rete. Nelle mappe mentali come nelle mappe immaginarie, i pensieri e le emozioni sono rappresentati geograficamente attraverso il movimento nello spazio.
Nella storia molti artisti hanno sovvertito il linguaggio della mappatura: come nel mappa mondo dei surrealisti; nelle mappe mentali, di Lewis Carroll ad Erik Beltran; nei diversi concetti di spazio, in lavori che sono una reazione contestazione-critica al potere come nelle cartografie di: Allighiero Boetti, Thomas Hirschhorn, Francis Alÿs e Marcel Broodthaers. Nelle cartografie corporee di Yves Klein e di Ana Mendieta. Sono in molti gli artisti che hanno indagato aspetti legati alla cartografia come: Richard Hamilton, Mona Hatoum, Saul Steinberg, Damien Hirst, Gilbert & George, Guy Debord, Richard Long, Louise Bourgeois, Matthew Barney, Salvador Dalí, Marcel Duchamp, Matthew Barney, Yoko Ono, Giovanni Anselmo, Christian Boltanski, Anish Kapoor, El Lissitzky, Félix González-Torres, Robert Smithson, On Kawara, William Kentridge, Paul Klee, Gordon Matta-Clark, Hiroshi Sugimoto, Adolf Wölfli, Gerhard Richter, Ed Ruscha, Carolee Schneemann; solo per citarne alcuni.
Nella storia sono state create opere dove l’arte e la cartografia si sono più volte incontrate, dando vita ad ibridazioni e mutamenti della visione. Nel passato pittore e cartografo potevano coincidere ma ora si sono aggiunti parametri scientifici rilevanti: tutto è misurato. In occidente abbiamo riconosciuto il sistema di Tolomeo come l’unico sistema scientificamente valido di trasferire il globo terrestre su un piano, anche se ci sono degli errori, altri popoli avevano adottato altri sistemi.
Di seguito accenno ad alcune opere nate da suggestione cartografica:
Le Mappe Canistris sono un’eccezione della cartografia dell’inizio del Trecento. Opicinus De Canitris era un prete italiano, che proiettava il proprio mondo interiore attraverso la realizzazione di carte geografiche, sulla carta disegnava personaggi appartenenti alla sua vita immaginativa. La serie di mappe s’ispiro a carte nautiche medievali anche se lo scopo di queste mappe era ovviamente non geografica o di navigazione, ma semplicemente un affascinante mezzo per il trasporto di un insieme di idee. Le mappe Canistris sono fantasiose prospettive antropomorfe di geografia, cartografia e religione, Canitris crea uno stile che sarebbe diventato una forma popolare di critica sociale e politica nei XXVII e IXX secolo.
Una mappa che cambiò corso alla cartografia immaginaria e divenne un punto di riferimento è la “Mappa del paese della Tenerezza”, (Carte du Pays de la Tendre) creata da Madaleine de Scudèry e incisa da François Chauveau (1654). Questa è una mappa immaginaria dove è disegnato un percorso emozionale ma come un paesaggio, Questa mappa è anche la visualizzazione intima dello spazio interiore di una donna che assume una forma di topografia, va vista quindi anche come una rappresentazione del corpo che allude all’organo femminile, il paesaggio assomiglia ad un utero e attraverso i fiumi e i mari suggerisce il viaggio dei liquidi corporei femminili.
La mappatura di Madaleine è un racconto che viene identificato geograficamente, il punto di partenza del viaggio è in basso a destra dove quattro figure sostano accanto a grandi alberi. Lungo il tragitto si possono scegliere diversi itinerari, che sono la rappresentazione spaziale degli stadi dell’amore. Questa mappa divenne un punto di riferimento per la “nuova mappatura delle emozioni”, creando un vero e proprio genere.
Una carta che esplora i territori del sentire e il tempo fu pubblicata nel 1777. La mappa immaginaria disegnata da Johann Gottlob Immanuel Breitkopf ( Das Reich der Liebe) L’impero dell’Amore, era accompagnarla con un breve testo esplicativo. La mappa rappresenta il percorso possibile dei giovani che partono dalla Terra della Giovinezza, dove si trovano le sorgenti dei fiumi Gioia e Desiderio, per affacciarsi all’età adulta in cui vivranno in uno dei sei paesi rappresentati e descritti (Terra del Risposo, Terra dell’Amore Luttuoso con il deserto della malinconia e il fiume di lacrime, Terra della Perdizione-desiderio al di là si trova la terra di nessuno che contiene le città di separazione e odio, Terra dell’Amore Felice, Terra dell’Apprendimento, Terra delle Ossessioni).
Dieci anni dopo, nel 1787 l’intellettuale francese Luigi Lagrange, da la definizione di carta geografica: è una rappresentazione ridotta, approssimata e simbolica della superficie terrestre o di una parte di essa. Più tardi con le fondamentale coordinate di distanza dall’equatore e dal meridiano, venne danno il sistema di lettura di tutte le carte.
Nel 1917 l’artista russo Kasimir Malevic scrive a Matjusin:
Nell’Opuscolo “suprematista” (1920), Malevic parla di voli interplanetari e di satelliti orbitali sui quali potrà vivere l’umanità. Malevic realizza una serie di disegni (planimetrie) i Planiti e una serie di plastici gli Architectonen si tratta di progetti per architetture immaginarie di abitazioni ed edifici collocati in sospensione nell’aria, atte ad ospitare l’uomo nello spazio. Queste opere sono una testimonianza di una precoce preoccupazione per una umanità sospesa nello spazio, una bella sintesi di fantasia, poesia, fiducia nel futuro e preveggenza sulle possibili applicazioni tecnologiche.
L’arte dalla fine degli anni Sessanta presenta un ampio spettro di trasmutazioni del segno, le idee si evolvono, si ibridano, le forme “mutano”.
Mona Hatoum, “Hot Spot III 2009”. L’opera è un globo in acciaio composto come una griglia, sono riprodotti i continenti, il globo presenta una inclinazione simile all’angolo della Terra, ha la dimensione circa di una persona che ha le braccia tese. I continenti sulla sua superficie sono descritti in neon rosso, la scelta cromatica può suggerire un riferimento ai pericoli del riscaldamento globale ma anche che il mondo intero è un hot-spot politico coinvolto in conflitti e disordini.
Artisti, scrittori, architetti, cineasti e scienziati, esplorano la visione percezione della realtà - paesaggio che gli circonda, si delinea una “cartografia alternativa” che si colloca tra sogni o mondi immaginari, visioni parallele della realtà e stratigrafie del quotidiano.
La cartografía elaborata dagli artisti del ventessimo e ventunesimo secolo pone delle domande sul sistema di rapresentazione. Si pone come un basto campo d’indagine, dal quale nascono “approfondimenti artistici cartografici” che affrontano temi quali: il corpo come strumento di percezione del mondo, lo spazio mentale (dal pensiero ai sogni), lo spazio fisico (ma anche politico, economico, militante), dando vita ad opere realizzate con moltissime tecniche come: il disegno, la realizzazione di teche tridimensionali, il collage fotografico e non, la danza, il video, la scultura, ecc. In altre occasioni la produzione artistica ha indagato e visualizzato sistemi di orientamento nello spazio “oggettivi”, utilizzando come “materiale d’arte” le cartine geografiche di antica e recente data, i sistemi di geolocalizzazione attuali, tutti materiali cartografici, misurabili e comparabili che entrano a far parte delle opere.
Quindi mappa non solo come rappresentazione geografica dello spazio, ma anche come strategia di rappresentazione soggettiva di noi stessi in specifici luoghi, partendo dal nostro situarci nel mondo. Ogni uno di noi possiede un personale approccio al mondo, che incrocia la geografia fisica a quella interiore, che determina il modo in cui ci interroghiamo sul come attraversiamo il nostro spazio.
Fin dalla nascita tutti noi possediamo “carte mentali” perché tutti abbiamo delle rappresentazioni mentali dello spazio, in realtà esiste in ogni persona un paesaggio interiore (come fu definito da Eugenio Montale). Ora questo paesaggio “interiore” è un’immagine indelebile che si è creata dentro di noi, che non deve coincidere necessariamente con “quel luogo” in cui si è nati o si è vissuti ma ovunque ci troveremmo scriveremo o parleremmo sempre della stessa piazza, strada e casa che costituiscono quel paesaggio intimo.
Le cartografie sono state, e sono ancora, ampiamente usate perché sono il modo con cui l’uomo illustra il proprio posizionamento nel mondo in un rapporto tra reale-virtuale, per farlo tiene conto dell’esperienza di vita e delle relazioni con gli altri nel tempo. Creare una mappa è un’esplorazione interiore, un racconto di un viaggio che si concretizza nei ricordi e nei racconti intimi, mettendoci in contatto con i mondi interiori e i paesaggi mentali. La pratica artistica di “Cartografare il presente” è uno dei modi per interpretare la complessità del mondo contemporaneo e un mezzo per l’artista di comunicare il proprio punto di vista su di esso. Una mappa può rappresentare qualsiasi cosa.
Infondo, la mappa è un insieme astratto di segni grafici che non trovano corrispettivo nel mondo reale.
*
Solares Alejandrina è un’artista che esplora e analizza un tema profondo e unitario: le forme che la vita assume nel suo dilatarsi e organizzarsi attraverso argomenti quali la sofferenza umana, il dolore fisico e la precarietà della vita. Tra i suoi obiettivi: lo studio di aspetti del quotidiano che normalmente sono trascurati o percepiti solo in parte. Profilo completo.
* http://wsimag.com/it/arte/10546-mappe-mentali (ripresa parziale, senza immagini).
Michela Murgia contro la Bibbia per ragazzi e per ragazze: “Cos’è anche la Bibbia è gender”?
di Redazione (LezPop.it, 15/03/2017)
Michela Murgia e il suo spazio all’interno di “Quante Storie” è diventato uno degli appuntamenti culturali più educativi, sfidanti e illuminanti della nostra tv.
In questo mercoledì della stroncatura la Murgia se la prende niente di meno che con la Bibbia! O meglio con la Bibbia edita dalle Paoline, che ha creato due “Nuove” Bibbie, una per ragazzi e una per ragazze. La prima racchiude tutte le storie maschili dell’opera sacra del cristianesimo e la seconda tutte quelle femminili. Peccato che come nota la Murgia stessa il protagonista principale, Gesù, non abbia un utero, ma ovviamente non è stato omesso dal tomo per ragazze.
Provocatoriamente, ma nemmeno troppo, la Muriga chiede: “Cos’è anche la Bibbia è troppo gender per voi? Non ne abbiamo bisogno, andava benissimo quella che insegna che davanti a Dio siamo tutti uguali”. Standing ovation e parole sante (per restare in tema).
San Giuseppe, tra il culto e i paradossi
di Arnaldo Casali *
Ogni 19 marzo la Festa del papà rende omaggio al papà meno padre della storia della paternità.
È solo uno dei tanti paradossi sviluppati nel corso del Medioevo dalla Chiesa cattolica. Che al culto di San Giuseppe, peraltro, ci arriva lentamente e quasi con fatica.
Il padre-non padre di Gesù è in effetti una figura difficile, imbarazzante; e anche sfuggente. Perché di lui i Vangeli parlano pochissimo: tutto ciò che sappiamo è che faceva il falegname e che discendeva dalla famiglia di Davide, cosa che renderebbe Gesù stesso un erede del Re di Israele. Se non fosse che in realtà Giuseppe, padre di Gesù, non lo è affatto.
Almeno secondo due dei quattro evangelisti: Luca e Matteo - gli unici a interessarsi delle origini di Cristo - raccontano la sua nascita in modo completamente diverso ma una delle pochissime cose su cui concordano è il fatto che sia stato concepito senza rapporti sessuali.
Un dato squisitamente teologico che serve a dimostrare che niente è impossibile a Dio e non ha alcuna valenza morale (la verginità non era un valore nella cultura ebraica) e non è nemmeno connesso alla divinità di Cristo: non a caso il Vangelo che insiste di più su Gesù come “verbo divino” è quello di Giovanni, che non fa alcun cenno al suo concepimento verginale.
Sarà invece la cultura pagana in cui il cristianesimo si innesterà in occidente a recepire Cristo, su modello della mitologia greca, come una sorta di uomo-Dio figlio di una donna “inseminata” dal divino.
Il concepimento di Gesù raccontato nei Vangeli ha, tuttavia, una qualche base storica: se gli stessi farisei durante uno scontro con Cristo sottolineano che “noi non siamo nati da prostituzione” (Giovanni 8,41) evidentemente qualche tipo di pettegolezzo, sul fatto che Gesù fosse un figlio illegittimo, circolava già durante la sua vita, e i racconti di Matteo e Luca potrebbero essere serviti proprio a dissipare le malelingue.
D’altra parte la discendenza di Gesù da Davide ha una valenza squisitamente letteraria: Matteo, fortemente influenzato dal giudaismo, è interessato a dimostrare che Cristo è il Messia atteso dagli ebrei e non è certo preoccupato di una ricostruzione storicamente attendibile né tanto meno di una coerenza di natura biologica.
Per il resto, Giuseppe è completamente assente nella vita adulta di Cristo (per questo se ne deduce che sia morto quando era ancora adolescente) e, spodestato di ogni autorità paterna, si è dovuto accontentare sin dai primi secoli del cristianesimo del ruolo di “custode” di Gesù.
I Vangeli apocrifi - scritti all’alba del Medioevo - lo hanno trasformato poi in un vecchietto che vince una sorta di bando (viene sottoposto ad una prova insieme ad altri pretendenti e ha la meglio perché il suo bastone fiorisce miracolosamente) per aggiudicarsi la custodia della giovanissima Maria che, arrivata alla pubertà, non può più continuare a vivere nel tempio dove è stata allevata.
C’è bisogno di aggiungere che nella religione ebraica non esistono bambine consacrate a Dio e allevate nel tempio e che il racconto (ripreso anche da Fabrizio De André nell’album La Buona Novella) è inventato di sana pianta e privo di qualsiasi attendibilità storica?
Gli apocrifi, peraltro, si premurano di sottolineare che al momento del matrimonio Giuseppe avrebbe avuto oltre novant’anni di età. Più un bisnonno che un marito, quindi, per la giovane Maria. Una precisazione che mira a mettere la Sacra Famiglia al riparo da qualsiasi tentazione sessuale.
D’altra parte se il Vangelo non parla mai di una castità perpetua della coppia e al contrario dà per scontato che dopo la nascita di Gesù i due abbiano avuto normali rapporti sessuali (Marco e Matteo citano quattro fratelli di Gesù - Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda - e diverse sorelle di cui non vengono fatti i nomi) già i padri della Chiesa cercano in ogni modo di dimostrare che Giuseppe non ha mai “profanato” la Vergine Maria, divenuta dopo il concepimento di Gesù un vero e proprio santuario di Dio intoccabile.
Così, da finto padre, Giuseppe diventa anche marito fasullo. Secondo la dottrina cattolica, infatti, il matrimonio non consumato non è valido e può essere annullato.
La Sacra Famiglia, dunque - presunto modello della famiglia cristiana - diventa una comunità piuttosto anomala basata su un matrimonio di facciata e un figlio illegittimo.
Figlio che peraltro, essendo (sempre secondo i Vangeli apocrifi) perfettamente sapiente e consapevole della propria divinità sin dalla nascita, non ha assolutamente nulla da imparare dai propri genitori e non può quindi essere in alcun modo educato, ma solo rispettosamente venerato.
Quando arriva al Medioevo, dunque, Giuseppe non è più né un vero padre né un vero marito: è il “custode” di Gesù e il “castissimo sposo” di Maria.
La sua principale virtù è quella di resistere alle tentazioni sessuali, il grande merito quello di aver salvato la moglie dalla pubblica infamia “coprendo” col suo nome la nascita irregolare di Gesù.
In compenso viene sempre più apprezzato come lavoratore; ché il lavoro, almeno quello, non era solo di facciata e Giuseppe il falegname l’ha fatto davvero.
Non a caso a rinverdire il suo culto - così sbiadito ai primordi del cristianesimo - ci pensano i promotori dell’ora et labora, e cioè i monaci benedettini. Sono proprio loro, infatti, i primi a celebrare la memoria di San Giuseppe nel 1030.
La data del 19 marzo, ovviamente, è puramente convenzionale, visto che di solito i santi vengono celebrati nel giorno della morte e della morte di Giuseppe non si sa assolutamente nulla. Convenzionale ma non casuale: come il giorno di Natale e quello di San Valentino anche la festa di San Giuseppe ha radici antichissime: si colloca infatti alla vigilia dell’equinozio di primavera e veniva solennizzata con baccanali e riti dionisiaci volti alla propiziazione della fertilità e alla purificazione agraria.
Rituali di cui è rimasta traccia nella tradizione - ancora oggi diffusa in molte regioni italiane - dei falò con cui si bruciano i residui del raccolto dell’anno precedente come auspicio di una buona stagione.
Il culto di san Giuseppe, intanto, con il tempo si va sempre più allargando: dal 1324 la festa viene recepita anche dai Servi di Maria (ordine mendicante fondato a Firenze nel 1233) mentre i francescani la adottano nel 1399.
Ci vorrà ancora qualche decennio, però, prima che la ricorrenza venga istituzionalizzata e celebrata da tutti i cristiani; nel calendario romano, infatti, ci entrerà solo nel XV secolo, e sarà estesa formalmente a tutta la Chiesa solo nel 1621 da Gregorio XV, mentre bisognerà aspettare addirittura il 1870 perché Pio IX dichiari San Giuseppe “Patrono della Chiesa universale” riscattandolo definitivamente da quel ruolo ombra cui gli apocrifi lo avevano relegato.
La sua resta comunque una festa primaverile strettamente legata al lavoro della terra, dunque festa del lavoro e dei lavoratori.
Niente ha invece a che fare, nel Medioevo, con la festa del papà; associazione che avverrà più tardi e non in tutto il mondo: ancora oggi, infatti, nei Paesi anglosassoni la festa del papà viene celebrata la terza domenica di giugno e senza alcun carattere religioso.
In compenso in Italia il padre di Gesù, costretto a far nascere suo figlio in una stalla e poi a fuggire all’estero, da profugo, per metterlo in salvo, viene onorato anche come protettore dei poveri.
Di qui l’usanza presente in alcune regioni di organizzare il 19 marzo il “Banchetto di San Giuseppe”. Ed è per questo che un elemento importante legato alla festa è il pane, che ricorre spesso soprattutto nel contesto siciliano, deposto sugli altari.
I falò e le tavole imbandite si ritrovano anche nel Salento, dove la festa è celebrata all’insegna degli elementi fondamentali del pellegrinaggio e dell’ospitalità, mentre a Roma nella Chiesa di San Giuseppe dei Falegnami al Foro, la confraternita dei falegnami organizzava solenni festeggiamenti e banchetti a base di frittelle e bignè.
Esemplare è poi il dolce napoletano, che prende il nome di zeppola di San Giuseppe seguendo una tradizione secondo cui, dopo la fuga in Egitto con Maria e Gesù, Giuseppe dovette vendere frittelle per poter mantenere la famiglia. In Toscana e in Umbria è diffuso come dolce tipico la frittella di riso, preparata con riso cotto nel latte e aromatizzato con spezie e liquori e poi fritta.
Nell’Italia del nord, invece, dolce tipico della festività è la raviola: un piccolo involucro di pasta frolla o pasta di ciambella richiuso sopra una cucchiaiata di marmellata, crema o altro ripieno, poi cotta al forno o fritta. Alla salute di Giuseppe.
Arnaldo Casali
* FESTIVAL DEL MEDIOEVO (RIPRESA PARZIALE - SENZA IMMAGINI).
Pianeta Terra. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
Lo sciopero dell’8 marzo: «non saremo una di meno»
Dallo storico NiUnaMenos argentino fino alla Women’s March, il movimento delle donne si mobilita per uno sciopero che, in 40 Paesi, porterà, come dice Lea Melandri, una «seconda rivoluzione culturale, a un ’68 delle donne»
di Benedetta Verrini *
«Strabiliata da queste ragazze» dice Lea Melandri, femminista storica, giornalista e fondatrice della Libera Università delle Donne, ammirando le giovani donne che stanno animando e si preparano all’8 marzo più combattivo degli ultimi decenni. Dallo storico NiUnaMenos argentino fino alla Women’s March, che negli States ha visto molte donne riaggregarsi e trovare voce contro l’elezione alla presidenza di Donald Trump, Non Una Di Meno è un movimento femminile nato come un’onda sismica, scatenato dal trauma della violenza sulle donne - fisica, economica, sociale - che accomuna l’Italia a tutti i Paesi del mondo.
Il risultato, in occasione della Festa della Donna, sarà una manifestazione globale, con uno sciopero proclamato in contemporanea in quaranta Paesi per una «seconda rivoluzione culturale, un ’68 delle donne, in cui vedo forza di intenti e contenuti, orgoglio, radicalità, intelligenza» commenta Melandri. «Ho assistito a quarant’anni di femminismo, ma questa generazione è diversa, ha un potenziale inatteso. Sono giovanissime, universitarie e anche liceali, e in molti casi non conoscono molto delle battaglie del femminismo storico, eppure hanno saputo farle proprie con un vigore e una prospettiva completamente nuova. La nostra era stata una battaglia “contro”: contro le generazioni delle nostre madri, contro gli uomini su un terreno privato di sessualità e ruoli. Queste giovani si sono invece riappropriate del femminismo senza cliché, rinnovandolo dall’interno, portando il tema della parità in tutti gli ambiti sociali, dalla salute riproduttiva alla libertà di movimento delle migranti, dalla formazione a un nuovo modello di economia, che ci affranchi da quella forma di “patriarcato” che è il capitalismo».
Per l’8 marzo NonUnaDiMeno ha proposto a tutte le organizzazioni sindacali uno sciopero, sia del settore pubblico che privato. Diverse realtà del sindacalismo di base lo hanno accolto e proclamato formalmente. «Si tratta di uno sciopero di 24 ore perché l’esperienza della violenza si propaga in tutta la giornata di una donna» spiega Simona Ammerata, di NonUnaDiMeno Roma.
Lo strumento dello sciopero arriva anche alle tante che sperimentano la precarietà lavorativa? «Lo sciopero è internazionale, si svolgerà in 40 diversi Paesi e mette dolorosamente in luce la difficoltà attuale di tante donne che non hanno un rapporto di lavoro stabile, che sono precarie o autonome. Stiamo organizzando delle casse di solidarietà per le precarie che desiderano aderire alla giornata ma non possono permetterselo» aggiunge. «E abbiamo organizzato spazi di nursery e chiesto agli uomini di mettersi a disposizione per accudire i bambini nel tempo in cui le donne saranno in assemblea o in corteo».
Oltre allo sciopero lavorativo, sottolineano le organizzatrici, è possibile aderire anche trovando un momento della giornata per partecipare agli eventi della città, oppure non esercitando, a titolo esemplificativo, una delle tante attività domestiche o di cura che non vengono riconosciute né retribuite.
La manifestazione dell’8 marzo arriva dopo un cammino durato circa otto mesi, con un’assemblea a Bologna in cui, i primi di febbraio, oltre duemila donne hanno sviluppato diversi tavoli di discussione: dal tema della violenza di genere a quello della salute riproduttiva, dal gender pay gap alla formazione. Per l’8 marzo, queste elaborazioni sono culminate in otto punti di discussione. «L’obiettivo è stato quello di impegnarsi a elaborare un Piano femminista antiviolenza che racchiuda ogni aspetto della vita di una donna» conclude Ammerata. «Come dicevo, il tema della violenza è trasversale: è troppo facile, anche sul piano politico, affrontarlo in modo settoriale».
«Le donne affrontano la violenza maschile in ogni momento e in ogni situazione: dai banchi di scuola alle pareti di casa, dal luogo di lavoro a quel luogo virtuale che sono i social» aggiunge Carlotta Cossutta, del Collettivo Ambrosia e di NonUnaDiMeno Milano. «Stiamo mettendo tutte le nostre energie, intelligenze, passione a cambiare per sempre questa situazione, in ogni contesto e in tutti i Paesi del mondo. Non siamo sole, la nostra rete è già attraversata da molti uomini che condividono questa battaglia: ciò che domandiamo loro è di mettersi in ascolto e appoggiare il cambiamento”.
L’8 marzo sono previsti presidi, mobilitazioni, flash mob in tante città italiane, con una convergenza oraria dei cortei intorno alle ore 18. A Roma il corteo inizia invece alle ore 17, appuntamento al Colosseo. La Casa delle Donne di Milano organizza, con il patrocinio del Comune, una performance artistica presso l’Ottagono della Galleria Vittorio Emanuele: a partire dalle 15 sarà realizzato un gigantesco Mandala a rappresentare un momento di meditazione, condivisione, aggregazione femminile.
Per conoscere tutti i luoghi e gli appuntamenti: https://nonunadimeno.wordpress.com
L’invisibilità delle donne
di Chiara Saraceno (Il Mulino, 13 febbraio 2017)
Quando le mie figlie avevano cinque anni mi chiesero di aiutarle a scrivere una lettera alla Rai perché si erano accorte che «al telegiornale parlano solo uomini e nei cartoni le donne o sono cattive o devono essere salvate da un uomo». A quasi quarant’anni di distanza le cose non sembrano cambiate di molto, nonostante oggi ci siano molte più giornaliste, anche nei telegiornali. L’ultimo esempio viene dall’iniziativa di un grande giornale nazionale.
Per festeggiare i propri 150 anni «La Stampa» ha chiesto a 51 «personalità di rilievo internazionale» di scrivere come vedono il futuro.
La prima cosa che balza all’occhio è che tra questi magnifici 51 solo quattro sono donne: le «ovvie» Angela Merkel e Hillary Clinton più Lindsey Vonn e Bebe Vio, due politiche e due sportive. Punto. Nessuna giornalista, scrittrice, economista, filosofa, scienziata, imprenditrice.
È normale che la scelta di chi selezionare per questo compito sia largamente discrezionale e guidata da criteri di notorietà. Meno normale è che ancora nel 2017, quando si individua tra «le personalità» cui vale la pena dar voce su come va o dovrebbe andare il mondo, si «vedano» pressoché solo uomini. Come se nulla fosse mutato in questi anni, come se le donne, salvo qualche rara eccezione, fossero sempre e solo in cucina o a fare i bassi servizi o la spalla a uomini potenti. Come se non avessero nulla da dire su questo mondo che, questo sì, è ancora troppo governato da uomini, con risultati certamente non ottimi.
Me lo ha fatto rilevare indignata una mamma che avrebbe voluto utilizzare l’inserto per parlarne con i suoi bambini, un maschio e una femmina, e si rifiuta di proporre loro una immagine in cui quasi solo uomini sono presentati come importanti, e perciò degni di ascolto. Eppure non mancano donne «di rilievo internazionale» che potrebbero dire e dicono cose interessanti su molti aspetti del presente e del futuro: da Fabiola Gianotti ed Elena Cattaneo per la scienza, a Martha Nussbaum e Seyla Benhabib per la filosofia e la politologia, Christine Lagarde, Melania Mazzuccato e Loretta Napoleoni per l’economia, Svetlana Aleksievic e Alice Munro per la letteratura, Marissa Mayer e Sheryl Sandberg per il settore del digitale, Inge Feltrinelli per l’editoria - per fare solo alcuni nomi ovvi. Ma la lista sarebbe lunga.
Non si tratta di un banale infortunio. Piuttosto è la dimostrazione di quanto persista nel nostro Paese l’invisibilità delle donne nella scena pubblica quando si tratta di fornire analisi e dare opinioni. Chi controlla la comunicazione e quindi contribuisce alla narrazione e all’immagine della società è ancora in larga misura di sesso maschile. Anche se il 48% dei conduttori dei Tg in prima serata è donna, come documenta l’ultimo rapporto dell’Osservatorio di Pavia, le direttrici delle news si contano sulla punta delle dita e così le conduttrici di talk show non di intrattenimento. E uno dei ruoli in cui le donne sono meno visibili è proprio quello degli opinionisti, nonché dei portavoce di associazioni e partiti. Ad esempio, il 30% di donne in Parlamento scende al 17% di presenza in televisione. La figura dell’esperto resta un appannaggio quasi esclusivamente maschile. Solo come vittime o come rappresentanti dell’«opinione comune» (la «casalinga di Voghera») le donne trovano ampio spazio nella narrazione pubblica e in pubblico: sono il 51% fra le persone interpellate come voce dell’opinione popolare, il 45% dei narratori di esperienze personali, il 42% dei testimoni di eventi, e appaiono come vittime più del doppio degli uomini (16% rispetto al 7% degli uomini, nei Tg).
Va detto che l’Italia è in buona compagnia. Secondo i dati dell’Osservatorio di Pavia anche in Inghilterra, Francia e Germania le cose non vanno molto bene, ma stanno migliorando più in fretta che in Italia, dove la situazione sembra invece in stallo. Del resto, è passato del tutto sotto silenzio il fatto che l’AgCom, che dovrebbe controllare la correttezza dell’informazione, è composta esclusivamente da uomini. Difficile che si accorgano dello squilibrio di genere non solo in chi comunica ciò che avviene in società, ma in che cosa è comunicato.
Del resto, anche tra gli studiosi le cose non vanno molto meglio. Nell’Accademia dei Lincei le donne sono pochissime ed entrano con il contagocce. Non molto diversa la situazione nelle Accademie delle Scienze. Quando di tratta di riconoscere il merito e la qualità della ricerca, i guardiani dei cancelli sono sempre singolarmente ciechi rispetto al genere. Non perché non ne tengano conto, ma perché vedono quasi solo il proprio.
Per quella mamma indignata, come per me quarant’anni fa, la strada per comunicare ai suoi figli una visione diversa delle donne è ancora molto in salita.
"GUERCINO A PIACENZA". Fulcro di tutta la manifestazione sarà ovviamente la Cattedrale, con lo straordinario ciclo di affreschi realizzato da Guercino tra il 1626 e il 1627 ...
Il ’600 di Guercino tra Sacro e Profano
Dal 4/3 a Piacenza si visiteranno anche affreschi cupola Duomo
di Nicoletta Castagni *
PIACENZA - Una mostra dei suoi capolavori a Palazzo Farnese e la possibilità di poter ammirare da vicino, per la prima volta, il ciclo di affreschi della cupola della Cattedrale: dal 4 marzo Piacenza celebra Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino, e il suo sublime ’600, di cui, tra immagini sacre e raffigurazioni profane, il pittore di Cento fu uno degli indiscussi protagonisti. Fino al 4 giugno, la rassegna presenterà infatti una ventina di opere tra oli e disegni, mentre una serie d’iniziative di grande suggestione e rilevanza storico-artistica accompagneranno l’ascesa all’interno della cupola decorata dal maestro emiliano con le storie dall’Antico e Nuovo Testamento.
Intitolato ’Guercino a Piacenza’, il progetto espositivo è stato promosso dalla Fondazione Piacenza e Vigevano, dalla Diocesi di Piacenza-Bobbio e dal comune di Piacenza, con il patrocinio della Regione Emilia Romagna, del Mibact e col contributo della Camera di Commercio di Piacenza, Apt Servizi Regione Emilia Romagna, Iren (main sponsor Credit Agricole Cariparma). Fulcro di tutta la manifestazione sarà ovviamente la Cattedrale, con lo straordinario ciclo di affreschi realizzato da Guercino tra il 1626 e il 1627 e che si presenterà in tutta la sua bellezza grazie alla nuova illuminazione realizzata da Davide Groppi.
Tra i vertici assoluti della sua arte, le pitture della cupola sono suddivise in sei scomparti raffiguranti le immagini dei profeti Aggeo, Osea, Zaccaria, Ezechiele, Michea, Geremia. Nelle le lunette ecco dunque alcuni episodi dell’infanzia di Gesù (Annuncio ai Pastori, Adorazione dei pastori, Presentazione al Tempio e Fuga in Egitto) che si alternano alle immagini di otto Sibille e il fregio del tamburo.
Chiamato per primo a dipingere i Profeti nella volta della Cattedrale, fu nel 1625 Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, che ne realizzò due, Davide e Isaia, ma morì appena ultimati i primi due spicchi, notevoli per cromia e impianto. Quindi, nel 1626 gli subentrò il Guercino, che completò entro l’anno successivo gli altri sei scomparti della cupola e le lunette.
Per preparare all’ascesa della cupola, il visitatore sarà invitato, come prima tappa del percorso espositivo, all’interno delle sagrestie superiori della Cattedrale, dove verrà allestita una sala multimediale circolare che conterrà un grande videowall di oltre 10 m di lunghezza.
Il filmato di impatto spettacolare, condurrà virtualmente nella storia, al momento in cui il Vescovo Linati invita Guercino a Piacenza per decorare la cupola secondo i canoni imposti dal Concilio. Grazie all’impiego delle più attuali tecnologie, a una base scientifica che poggia su documenti d’archivio e disegni preparatori, alle foto ad altissima risoluzione del ciclo pittorico, lo spettatore potrà comprendere i tempi, le tecniche di lavorazione e le difficoltà riscontrate nella realizzazione di quello che la critica ha definito uno dei maggiori capolavori del maestro di Cento.
Sempre dal 4 marzo, la Cappella ducale di Palazzo Farnese ospiterà la bella mostra curata da Daniele Benati e Antonella Gigli, che insieme (e con il supporto di un comitato scientifico composto da Antonio Paolucci, Fausto Gozzi e David Stone) hanno selezionato 20 capolavori del Guercino, capaci di restituire la lunga parabola creativa che lo ha portato a divenire uno degli artisti del ’600 italiano più amati a livello internazionale. I dipinti scelti, infatti, testimonieranno la ’poetica degli affetti’ con cui il pittore, lungo l’arco cronologico della sua operosa attività artistica, ha realizzato sia i temi sacri sia quelli profani.
Tra i capolavori esposti ci saranno in prevalenza pale d’altare, ma non mancheranno i quadri ’da stanza’ a soggetto profano, in modo da scoprire il vero volto di Guercino e apprezzarne la straordinaria qualità e le prerogative messe a punto prima e dopo la grande impresa della volta piacentina. Il percorso espositivo illustrerà quindi le prime esperienze pittoriche a Cento, paese natale, svolte nel segno di una romantica adesione al linguaggio di Ludovico Carracci e indagherà la sua maturazione artistica avvenuta durante i lunghi soggiorni a Bologna e quindi a Roma. Fino ad arrivare all’ultima fase, quando, pur rimanendo inconfondibile, il suo linguaggio si apre a nuove sollecitazioni di tipo classicheggiante, incontrando il favore dei più illustri committenti.
IL “PARADISO IN TERRA”, LA “MEMORIA” DI ABY WARBURG, E LA LEZIONE DI WALTER BENJAMIN. *
C’ERA UNA VOLTA IL PARADISO SEGNATO SULLE CARTE. “Il paradiso in terra. Mappe del giardino dell’Eden”, (Bruno Mondadori, Milano, 2007) di Alessandro Scafi è per molti versi un’opera sorprendente - soprattutto per l’essere il lavoro di un “Lecturer in Medieval and Renaissance Cultural History” presso il Warburg Institute di Londra.
Muovendo dalla storica acquisizione che la “gran parte delle mappe medievali contengono un riferimento visivo al giardino dell’Eden”, egli cerca di rispondere alla domanda su quali siano state “le condizioni che hanno reso possibile la cartografia del paradiso”. Lo scopo del suo libro, infatti, è quello di “visitare il nostro passato come si fa con un paese straniero, tentando di effettuare la visita con la massima apertura mentale e il massimo rispetto” e cercare di esplorare e scoprire - premesso che “chi metteva il paradiso su una carta aveva le sue buone ragioni” - queste “buone ragioni” (p.7).
Se è vero - come egli stesso sostiene - che “ieri segnare il paradiso su una carta significava una confessione dei limiti della ragione una dichiarazione di fede in un Dio che interveniva nell’arena geografica della storia”, e, altrettanto, che “oggi una mappa che tra le ragioni del mondo comprenda anche il paradiso sembra dover richiedere uno slancio di fantasia o uno sforzo di immaginazione”, è da pensare che l’Autore - alla luce del suo percorso e, ancor di più, delle sue stesse conclusioni - ha trovato molte e grandi difficoltà e che - per dirlo “con una parola-chiave dell’orizzonte di Aby Warburg - che la Memoria (“Mnemosyne”) gli ha giocato un brutto scherzo!
Nell’ Epilogo, con il titolo “Paradiso allora, paradiso ora”, dopo aver premesso in esergo la seguente citazione:
Scafi così comincia: “Per cercare di capire la cartografia del paradiso abbiamo compiuto un lungo viaggio nel tempo. Siamo partiti dagli albori del cristianesimo e, passando attraverso il Medioevo, il Rinascimento e la Riforma, siamo arrivati ai giorni nostri. Abbiamo incontrato il paradiso terrestre in una grande varietà di forme, sia descritto a parole sia sagomato dalle linee di una carta”.
E ormai stanco del percorso fatto, nello sforzo di non farsi accecare dalla varietà delle forme e di (farci!) cogliere l’essenziale (il “dio”) che nei “dettagli” si “nasconde”, così ricorda e prosegue: “Come si è visto, localizzare il paradiso terrestre descritto dalla Genesi non era soltanto un problema geografico, e tutti coloro che hanno voluto interpretare il racconto del peccato di Adamo si sono trovati di fronte ai grandi interrogativi sul destino ultimo dell’uomo”. E, a chiusura del discorso e a esclusione di ulteriori domande in questa nebbiosa direzione metafisica ed escatologica, così precisa: “Non c’è meravigliarsi, allora, che le risposte offerte da tanti secoli di tradizione cristiana siano state formulate e riformulate, con il passare del tempo, in maniera così diversa”!
LA RINASCITA DELLA “HYBRIS” ANTICA: I MODERNI. L’attenzione di Scafi, nonostante ogni buona intenzione, è conquistata da altro: “Quello che colpisce, invece, è il modo in cui, a partire dal Rinascimento e dalla Riforma, ogni autore che si sia cimentato sull’argomento si è sempre industriato a ridicolizzare le teorie dei suoi predecessori. Scrivere sul paradiso sembrava richiedere sempre una carrellata preliminare sulle stravaganze precedenti, per bollare come insostenibili tutte le teorie pregresse e quindi proporre la propria soluzione, che si auspicava definitiva”. E così sintetizza e generalizza: “L’abitudine di presentare, in un’ironica rassegna, le assurdità e gli errori del passato è diventata così un topos che è durato fino ad oggi”; e, ancora, precisa: “A ben vedere, si possono rintracciare già nella tarda antichità le avvisaglie di questa pratica post-rinascimentale”(p. 306).
Colpito da questa “evidenza” e da questa “scoperta”, egli prosegue con l’antica e moderna ‘tracotanza’ (il “folle volo”) a narrare la sua “odissea”, aggiorna il numero della “varietà delle forme” delle mappe del giardino dell’Eden, e, senza alcun timore e tremore, completa la sua personale “ironica rassegna”, - con una “carrellata” sulle ultime e ultimissime “stravaganze”, su quelle degli artisti russi Ilya ed Emilia Kabakov, coi loro “progetti singolari e fantasiosi” (in particolare, “Il paradiso sotto il soffitto”), che Scafi così commenta:
“MAPPING PARADISE”. Questa è la conclusione di "A History of Heaven on Earth”: per dirla in breve, una pietra tombale sull’idea stessa del “paradiso in terra”, e non solo sulle “carte” dei Kabakov, anche se “i due artisti russi sembrano condividere il pensiero dei teologi e dei cartografi medievali”.
Che a questo “destino” dovesse approdare tutta la ricerca, nonostante le apparenze del percorso, Scafi l’aveva già ‘annunciato’, come in una “profezia che si auto-adempie”, in un breve paragrafo dedicato a Dante e alla “Commedia”, intitolato “Un volo poetico in paradiso”, dove - separata “poesia” e “non poesia” - così pontifica:
Fin qui, niente di speciale: il suo punto di approdo è lo stesso di “chi scrive di storia per il grande pubblico” e degli “storici di professione”(p. 7)! E la sua “storia dell’arte” cartografica del “paradiso in terra” di “oggi”, alla fin fine, potrebbe benissimo essere collocata, in una possibile ristampa, nel “Dictionary of the Bible” di “ieri” (1863).
LA SCALA DEGLI INDIANI PUEBLO E LA “MEMORIA” DEL PARADISO DI ABI WARBURG. Per “ironia della sorte”, quasi cento anni prima della mostra dei Kabokov a Londra (1998), nel 1896, Aby Warburg è nel Nuovo Messico e in Arizona, incontra gli indiani Pueblo e - come poi racconterà e cercherà di descrivere con disegni e foto nel 1923 (cfr. “Il rituale del serpente”, Adelphi, Milano, 2005) - conosce elementi della loro cosmologia, un universo “concepito come una casa”, con il tetto con “le falde a forma di scala”, una “casa-universo identica alla propria casa a gradini, nella quale si entra per mezzo di una scala”, e comprende quanto è importante per l’uomo “la felicità del gradino”, il salire (“l’excelsior dell’uomo, il quale dalla terra tende al cielo”). E, al contempo, sempre nel 1896 (il 26 giugno), ad un suo amico, così scrive:
Warburg rimase persuaso di ciò sino alla fine. Ma se fu questo suo atteggiamento ad allontanarlo dagli esteti e anche dagli storici dell’arte, fu il suo intenso interesse - come cita, scrive, e commenta Ernst H. Gombrich (cfr. Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Feltrinelli, Milano, 2003, pp 274) - per le questioni psicologiche fondamentali ad avvicinarlo a una generazione che aveva assimilato la lezione di Freud e si rendeva sempre più conto dell’immensa complessità della mente umana. E qui la fama di Warburg non si basa certo su un fraintendimento.
IL PARADISO E L’ANGELO DELLO STORIA. LA LEZIONE DI WALTER BENJAMIN:
"Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo "come propriamente è stato". Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo [...] In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere"(Tesi di filosofia della storia).
*
Allegato:
“LIBER PARADISUS” (BOLOGNA, 1257):
Dio onnipotente piantò un piacevole Paradiso (giardino) e vi pose l’uomo, il cui corpo ornò di candida veste donandogli una libertà perfettissima ed eterna. Ma l’ uomo, misero, immemore della sua dignità e del dono divino, gustò del frutto proibito contro il comando del Signore. Con questo atto tirò se stesso e i suoi posteri in questa valle di lagrime e avvelenò il genere umano legandolo con le catene della schiavitù al Diavolo; cosi l’ uomo da incorruttibile divenne corruttibile, da immortale mortale, sottoposto a una gravissima schiavitù. Dio vedendo tutto il mondo perito (nella schiavitù) ebbe pietà e mandò il Figlio suo unigenito nato, per opera dello Spirito Santo, dalla Vergine madre affinché con la gloria della Sua dignità celeste rompesse i legami della nostra schiavitù e ci restituisse alla pristina libertà. Assai utilmente agisce perciò chi restituisce col beneficio della manomissione alla libertà nella quale sono nati, gli uomini che la natura crea liberi e il diritto delle genti sottopone al giogo della schiavitù.
Considerato ciò, la nobile città di Bologna, che ha sempre combattuto per la libertà, memore del passato e provvida del futuro, in onore del Redentore Gesù Cristo ha liberato pagando in danaro, tutti quelli che ha ritrovato nella città e diocesi di Bologna astretti a condizione servile; li ha dichiarati liberi e ha stabilito che d’ora in poi nessuno schiavo osi abitar nel territorio di Bologna affinché non si corrompa con qualche fermento di schiavitù una massa di uomini naturalmente liberi.
Al tempo di Bonaccorso di Soresina, podestà di Bologna, del giudice ed assessore Giacomo Grattacello, fu scritto quest’ atto, che deve essere detto Paradiso, che contiene i nomi dei servi e delle serve perché si sappia quali di essi hanno riacquistato la libertà e a qual prezzo: dodici libbre per i maggiori di tredici anni, e per le serve: otto libbre bolognesi per i minori di anni tredici (...).
Silenziata la manifestazione contro la violenza sulle donne: una brutta pagina dell’informazione
di Elisabetta Addis *
Sabato 26 novembre, un corteo allegro, ironico, di popolo, guidato dalle donne e formato da uomini e donne di tutte le età, ha sfilato per le vie di Roma per dire basta alla violenza di genere. Tra le centomila e le duecentomila persone. Chiedevano un cambiamento di prospettiva e di cultura, chiedevano politiche attive, e quindi denaro pubblico per creare reti di assistenza, educazione dei giovani e delle giovani al problema, strumenti giuridici nuovi e adeguati.
Una manifestazione che riempie Via Cavour dalla Stazione Termini ai Fori Imperiali, senza staccare vetrine e senza bruciare cassonetti, che non ha dietro nessuno sponsor, totalmente autofinanziata, in grado di fare proposte politiche, di interloquire con i governi e le autorità, non si improvvisa. È il frutto del lavoro che migliaia di persone in maggior parte donne hanno fatto negli ultimi anni in tutta Italia.
Lavoro in particolare sul femminicidio e sulla violenza di genere, e più in generale sui temi della eguaglianza di diritti e di risorse tra le persone dei due sessi. La violenza nasce anche dalla persistente svalorizzazione delle donne, dalla loro mancanza di reddito e risorse, di politiche sociali adeguate e di reti di sostegno.
Questa è la dimostrazione di una crescita politica sana, non corrotta, non chiusa nei palazzi, non solo parolaia, non gridata ma presente nel quotidiano. Una cosa, insomma, molto importante.
Bene. Peccato che per i principali media questa manifestazione non c’è stata. Come dice il comunicato firmato da Non Una di Meno e dalle altre organizzazioni che avevano indetto la manifestazione, "il TgUno, che appena il 25 novembre condannava la violenza sulle donne, ieri sera ha intervistato solo la Ministra Boschi e poi, come per caso, è stata data la notizia che migliaia di donne avevano sfilato a Roma per dire no alla violenza. RaiDue ha mostrato un papà con un bambino sullo sfondo del Colosseo e della manifestazione, sembrava una festa per famiglie. La7 non si è accorta di niente".
E là dove se ne è parlato, se ne è parlato dopo la morte di Castro, dopo il maltempo, dopo la giornata della raccolta alimentare, e soprattutto, dopo aver parlato molto più a lungo della manifestazione per il no, che ha raccolto un centesimo delle persone, ma aveva alla testa un comico rabbioso, e di un altro evento molto meno frequentato sul si al referendum, tenutosi sempre nella capitale.
Perché evidentemente sarebbe una gran notizia che a una settimana dal referendum tutte e due le parti facciano eventi. Ma le donne in piazza no, anche nel servizio pubblico, non sono notizia. Sono velate, nascoste, sono invisibili, sono ascose, non sono importanti, non rilevano, ah già che vuoi che facciano le donne? Per tutto il giorno precedente abbiamo detto che, a una a una, si fanno massacrare, bruciare, attaccare con l’acido, picchiare, stuprare, che il loro destino da grandi è di finire all’ospedale picchiate dal marito.
Come facciamo ora a descriverle insieme, forti organizzate, allegre, ironiche, coi loro figli e coi loro compagni, con una loro azione e un loro pensiero politico?
È anche per via di un sistema informativo che non sa fare il suo mestiere, che blandisce i potenti di turno e i loro eventi e non informa sulla realtà, che ci ritrova poi con le élites politiche incapaci di capire quel che succede veramente nelle teste e nei cuori della gente, e con la gente che crede che la politica sia solo teatrino di palazzo. Questa è una pagina vergognosa del servizio pubblico e dell’informazione italiana, i responsabili se ne dovrebbero almeno scusare.
* Elisabetta Addis
Economista, di Se Non Ora Quando
Quando Gesù rese libera la Donna
Censurata per secoli dalla Chiesa la parabola dell’adultera rivela tutta la misericordia divina. Perché Cristo difende anche la figura femminile dalla violenza del mondo maschile
di Enzo Bianchi priore della comunità monastica di Bose *
Gesù andò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio, e tutto il popolo veniva da lui; e sedutosi, insegnava loro. Ora, gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala in mezzo, gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora, Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu dunque che ne dici?».
Dicevano questo per metterlo alla prova, per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi giù, scriveva per terra con il dito. Ma poiché continuavano a interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma essi, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Ora, Gesù, alzatosi, le disse:
«Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ella disse: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno. Va’ e d’ora in poi non peccare più».
Questo brano ha conosciuto una sorte particolarissima, che attesta il suo carattere scandaloso e imbarazzante: è stato infatti “censurato” dalla Chiesa!
È assente nei manoscritti più antichi, è ignorato dai padri latini fino al IV secolo, per cinque secoli non è stato proclamato nella liturgia e non ci sono commenti a esso da parte dei padri greci del primo millennio. Al termine di un lungo e travagliato migrare tra i manoscritti è stato inserito nel vangelo secondo Giovanni, dopo il settimo capitolo e prima del versetto 15 dell’ottavo.
Non è una scena insolita: spesso i vangeli annotano che gli avversari di Gesù tentano di metterlo in contraddizione con la Legge di Dio, per poterlo accusare di bestemmia, di disobbedienza al Dio vivente. A quegli scribi e farisei, in realtà, non importava nulla della donna, per loro era importante trovare motivi di condanna contro Gesù: non volevano lapidare l’adultera, ma far lapidare Gesù! Questi uomini religiosi fanno irruzione nell’uditorio di Gesù, portano davanti a lui una donna sorpresa in flagrante adulterio, la collocano in mezzo a tutti e si affrettano a dichiarare: «Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa».
Tale dichiarazione sembra formalmente ineccepibile, perché cita la Legge; a uno sguardo attento, però, si coglie che il loro ricorso alla Torah è parziale. La Legge, infatti, prevedeva la pena di morte per entrambi gli adulteri e attestava la stessa pena, mediante lapidazione, mentre se erano già sposati allora si ricorreva allo strangolamento. Resta però altamente significativo che solo lei sia stata catturata e portata davanti a Gesù, mentre l’uomo che ha commesso adulterio con lei, e secondo la Legge è colpevole come lei, non risulta né imputato né condotto in giudizio!
Cerchiamo di sostare per un momento su questa scena. Ci sono alcuni che hanno portato a Gesù una donna, perché sia condannata. Ma Gesù inizia a rispondere agli accusatori parlando con il corpo, non con parole: si china, abbassandosi, rompe il cerchio della «violenza mimetica » (René Girard), spezza il faccia a faccia con quei farisei e si mette a scrivere per terra, in assoluto silenzio.
Dalla posizione di chi è seduto passa a quella di chi si china verso terra; di più, in questo modo si inchina di fronte alla donna che è in piedi davanti a lui! Poiché però gli accusatori insistono nell’interrogarlo, dopo quel lungo e per loro fastidioso silenzio riempito solo dal suo mimo profetico, Gesù si alza e non risponde direttamente alla questione postagli, ma fa un’affermazione che contiene in sé anche una domanda: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei».
Poi si china di nuovo e torna a scrivere per terra. Così una parola di Gesù, una parola sola ma incisiva (al punto da essere divenuta proverbiale) e autentica, una di quelle domande che ci scuotono e ci fanno leggere in profondità noi stessi, impedisce a quegli uomini di fare violenza in nome della Legge. Solo Dio, e quindi solo Gesù, potrebbe condannare quella donna.
Ebbene, qui Gesù - mi si permetta di dire - “evangelizza” Dio, cioè rende Dio Vangelo, buona notizia per quella donna. Gesù, l’unico uomo che ha raccontato in pienezza di Dio, che ne è stato l’esegesi vivente, afferma che di fronte al peccatore, alla peccatrice, Dio ha un solo sentimento: non la condanna, non il castigo, ma il desiderio che si converta e viva. Gesù, inviato da Dio «non per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» anche qui agisce come aveva annunciato all’inizio del suo ministero: «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».
Solo quando tutti se ne sono andati egli si alza in piedi e sta di fronte alla donna. Lei, posta lì in piedi in mezzo a tutti, ora è finalmente restituita alla sua identità di donna e vede Gesù in piedi davanti a sé: così è possibile l’incontro vero.
Infine, Gesù conclude questo incontro con un’affermazione straordinaria: «Neanch’io ti condanno. Va’ e d’ora in poi non peccare più». Sono parole assolutamente gratuite e unilaterali. Ecco la gratuità di quella assoluzione: Gesù non condanna, perché Dio non condanna, ma con questo suo atto di misericordia preveniente offre a quella donna la possibilità di cambiare.
Non sappiamo se questa donna perdonata dopo l’incontro con Gesù abbia cambiato vita; sappiamo solo che, affinché cambiasse vita e tornasse a vivere, Dio, che non vuole la morte del peccatore, l’ha perdonata attraverso Gesù e l’ha inviata verso la libertà: «Va’, va’ verso te stessa e non peccare più»... Le persone religiose vorrebbero che a questo punto Gesù avesse detto alla donna: «Ti sei esaminata? Sai cosa hai fatto? Ne comprendi la gravità? Sei pentita della tua colpa? La detesti? Prometti di non farlo più? Sei disposta a subire la giusta pena?». Queste omissioni nelle parole di Gesù scandalizzano ancora, oggi come ieri!
Nessuna condanna, solo misericordia: qui sta la grandezza e l’unicità di Gesù. Questo incontro tra Gesù e la donna sorpresa in adulterio non ci rivela solo la misericordia di Gesù, ma anche la sua capacità di difendere la donna da un cerchio di uomini, sempre pronti a giustificare se stessi e a condannare le donne. Purtroppo tutta la storia dei credenti, dell’antica come della nuova alleanza, testimonierà questo «occhio spione, esigente e condannante» degli uomini religiosi nei confronti delle donne, ritenute colpevoli per la loro condizione - dicono gli uomini - di creature sempre tentatrici e facili alla tentazione. Questo esempio di Gesù sarà poco compreso e ancor meno vissuto, ma sarà comunque memorizzato nel vangelo e vi saranno sempre lettori che vi troveranno una buona notizia.
* la Repubblica, 08.11.2016
Papa in Svezia a commemorare 500 anni Riforma Lutero
Bergoglio partito da Fiumicino, per il 17.mo viaggio internazionale del pontificato
di Redazione ANSA *
Papa Francesco è partito per la Svezia. L’airbus A321 di Alitalia è decollato alle 8.25 dall’aeroporto di Fiumicino. L’arrivo è previsto per le 11 all’aeroporto internazionale di Malmoe.
Il Papa parte per il 17.mo viaggio internazionale del pontificato che lo porta in Svezia: è stato invitato dalla Federazione luterana mondiale (LWF) a partecipare alla cerimonia di commemorazione dei 500 anni della Riforma di Martin Lutero. Il viaggio ha questa forte connotazione ecumenica, e quando papa Francesco ha accolto il desiderio della piccola comunità cattolica svedese e dei paesi vicini, di celebrare una messa, ha voluto che avvenisse in un altro giorno e in un altro luogo rispetto alle celebrazioni ecumeniche, proprio per rimarcare l’importanza e la specificità di queste.
Oggi dunque avrà due incontri ecumenici - un rito nella cattedrale di Lund e un evento con testimonianze nella Malmo Arena - e domani, festa di Ognissanti, celebrerà la messa presso lo stadio di Malmo, alla quale sono invitati anche gli esponenti della LWF. Durante il viaggio in Svezia il Papa pronuncerà quattro interventi pubblici, tra omelie, discorsi e Angelus, ed è previsto che parli in spagnolo.
La Svezia ha già accolto un papa nel 1989, quando Giovanni Paolo II ha compiuto un viaggio in Scandinavia. Papa Francesco dunque, arriverà alle 11 all’aeroporto di Malmo, dove ci sarà l’accoglienza ufficiale ai piedi della scaletta, da parte del premier svedese, Stefan Lofven e del ministro della Cultura, signora Alice Bah-Kuhnke. Ci saranno anche altre autorità e alcuni membri della LWF. L’accoglienza è semplice e non ci saranno discorsi. Subito dopo, nella sezione Vip dell’aeroporto, papa Bergoglio incontrerà privatamente il premier e il ministro della Cultura.
Subito dopo, trasferimento in macchina per circa 42 chilometri a Igelosa, dove presso una grande struttura di ricerca medica che ha già ospitato gli incontri della Conferenza episcopale svedese, papa Francesco alloggerà durante questo viaggio. Percorsi circa dieci chilometri in automobile, il Pontefice raggiungerà Lund, dove presso il Palazzo Reale renderà alle 13,35 una visita di cortesia al re Carlo Gustavo XVI e alla regina Silvia. Con i reali, poi, il Papa percorrerà i centro metri che separano la Residenza reale dalla cattedrale di Lund.
Qui alle 14,30 ci sarà la preghiera ecumenica comune comune, e sia il Papa che il presidente della LWF, Munib Younan, pronunceranno un discorso. Alla fine, percorrendo in pullmino 28 chilometri, i leader religiosi si recheranno alla Malmo Arena, dove, introno alle 16,40, è previsto un evento ecumenico con l’ascolto di quattro testimonianze di impegno comune tra LWF e Caritas internationalis.
Prima dell’evento, i leader religiosi si incontreranno nella Green Room della Arena. Alle 18,10 nella Malmo Arena, poi, il Papa e il segretario generale della LWF, Martin Junge e il presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, card. Kurt Koch, saluteranno individualmente i 30 capi delle delegazioni cristiane presenti alla commemorazione dei 500 anni della Riforma. Alle 19 papa Francesco sarà a Igelosa, per la cena e la notte.
Domattina l’arrivo allo stadio di Malmo per la messa è fissato alle 9,15 e, dopo la messa e l’Angelus papa Francesco ripartirà dall’aeroporto di Malmo alle 12,45, e l’arrivo a Roma Ciampino è previsto intorno alle 15,30.
*
Il Papa in Svezia, per i 500 anni dalla riforma di Martin Lutero
Appello di Bergoglio ai media: ’Viaggio importante, fate che la gente capisca’
di Redazione ANSA *
Il Papa è in Svezia per partecipare alla cerimonia di commemorazione dei 500 anni della Riforma di Martin Lutero.
"Questo viaggio è importante perché è un viaggio ecclesiale, molto ecclesiale nel campo dell’ecumenismo. Il vostro lavoro aiuterà tanto a capire, che la gente capisca bene. Grazie tante", ha detto Bergoglio ai giornalisti.
Si deve "riconoscere" con "onestà" "che la nostra divisione si allontanava dal disegno originario del popolo di Dio" "ed è stata storicamente perpetuata da uomini di potere di questo mondo più che per la volontà del popolo fedele", ha detto il papa nella omelia per la preghiera ecumenica nella cattedrale di Lund. "L’esperienza spirituale di Lutero ci interpella e ci ricorda che non possiamo fare nulla senza Dio. ’Come posso avere un Dio misericordioso?’, questa la domanda che costantemente tormentava Lutero" e la "questione del giusto rapporto con Dio è la questione decisiva della vita". [...]
* ANSA 01 novembre 20160 0:13 (ripresa parziale).
Il Papa apre ai luterani, imparare da loro: Riforma e Scrittura
Alla vigilia del viaggio in Svezia: ’E’ un passo di vicinanza’
di Redazione ANSA *
"Riforma e Scrittura" sono le due "parole" che vengono in mente al Papa, interpellato da C. Cattolica su cosa i cattolici potrebbero imparare dalla tradizione luterana". "All’inizio quello di Lutero era un gesto di riforma in un momento difficile per la Chiesa". E "Lutero ha fatto un grande passo per mettere la Parola di Dio nelle mani del popolo". E nelle "Congregazioni prima del conclave la richiesta di una riforma" è stata "sempre viva e presente".
"Mi vengono in mente - ha risposto il Papa a Civiltà cattolica - due parole: ’riforma’ e ’Scrittura’. Cerco di spiegarmi. -La prima è la parola ’riforma’. All’inizio quello di Lutero era un gesto di riforma in un momento difficile per la Chiesa. Lutero voleva porre un rimedio a una situazione complessa. Poi questo gesto - anche a causa di situazioni politiche, pensiamo anche al ’cuius regio eius religio’ (la norma per cui i popoli dovevano professare la stessa confessione dei loro principi, ndr) - è diventato uno ’stato’ di separazione, e non un ’processo’ di riforma di tutta la Chiesa, che invece è fondamentale, perché la Chiesa è ’semper reformanda’.
La seconda parola - ha proseguito papa Francesco - è ’Scrittura’, la Parola di Dio. Lutero ha fatto un grande passo per mettere la Parola di Dio nelle mani del popolo. Riforma e Scrittura sono le due cose fondamentali che possiamo approfondire guardando alla tradizione luterana. Mi vengono in mente adesso - ha aggiunto - le Congregazioni Generali prima del Conclave e quanto la richiesta di una riforma sia stata viva e presente nelle nostre discussioni".
Il Papa invita a proseguire sulla strada del dialogo teologico, e per i cattolici che vivono in Svezia (alla vigilia del viaggio nel Paese) pensa a ’una sana convivenza, dove ognuno può vivere la propria fede ed esprimere la propria testimonianza vivendo uno spirito aperto ed ecumenico’.
Anniversari storici (1517 - 2017)
Annus lutheranus
L’incontro di papa Francesco con il vescovo (donna) primate di Svezia apre le celebrazioni della riforma di Lutero
di Gianfranco Ravasi (Il Sole-24 ore, Domenica, 30.10.2016)
Domani papa Francesco varcherà la soglia della chiesa più antica e importante di Svezia, la Domkyrkan della città di Lund, sede della prestigiosa università verso la quale era diretto il vecchio professor Isaac Borg per ricevere il premio a suggello della sua carriera, come ricordano tutti coloro che hanno visto e amato Il posto delle fragole, lo stupendo film che Bergman girò nel 1957. All’interno di quel capolavoro dell’architettura romanica nordica - che i turisti ammirano soprattutto per il trecentesco orologio astronomico della facciata con la sua sfilata di Magi a ogni battere d’ora - ad accogliere il papa sarà l’arcivescovo di Uppsala, primate luterano di Svezia, che attualmente è una donna, Antje Jackelén. Precedentemente questa teologa occupò proprio la sede episcopale di Lund ove era anche docente presso la già citata università: io stesso ho avuto occasione di incontrarla varie volte e di svolgere con lei un importante dialogo nell’Accademia delle Scienze di Stoccolma.
Come è noto, la data scelta per questo atto ecumenico è legata a quel mercoledì 31 ottobre 1517 quando Martin Lutero affisse (secondo una tradizione non strettamente documentata) le celebri 95 tesi alle porte della chiesa del castello di Wittenberg, cittadina sull’Elba in Sassonia, ideale manifesto del protestantesimo. In realtà, come dice il titolo dell’editio princeps, quelle asserzioni ruotavano attorno alla questione dibattuta delle indulgenze, Disputatio pro declaratione virtutis indulgentiarum, ma già vi si intravedevano i germi della futura Riforma.
Col gesto ecumenico di papa Francesco si apre l’anno dedicato a Lutero e alla sua opera, ma si manifesta in modo incisivo la distanza che intercorre rispetto alla tensione e alla divisione che imperavano cinquecento anni fa e nel prosieguo dei secoli successivi.
Naturalmente avremo occasione di rievocare ancora questo centenario che domani ha il suo avvio. Ci accontentiamo ora solo di qualche segnalazione bibliografica recente, per certi versi marginale. Una particolare sottolineatura merita subito il breve saggio di un cardinale tedesco noto teologo, Walter Kasper, che fu per più di un decennio a capo del dicastero vaticano per la promozione dell’unità dei cristiani. Il suo è un ritratto di Lutero in “prospettiva ecumenica”, posto all’insegna del dialogo: infatti, «abbiamo bisogno di un ecumenismo accogliente, in grado di imparare gli uni dagli altri» e non di esorcizzarci a vicenda, frapponendo subito il muro delle differenze dottrinali ed ecclesiali che pure devono essere riconosciute.
Proprio per questo è necessaria un’opera di contestualizzazione perché Lutero è intimamente intrecciato nei fili aggrovigliati di un’epoca storica ove religione e politica si arruffavano e si azzuffavano, un grembo oscuro ma fecondo dal quale sarebbe nata la modernità. Il grande riformatore, perciò, si rivela certamente rivestito degli abiti consunti di un passato ormai remoto, ma al tempo stesso svela un’attualità intima profonda, anche perché egli «con inaudita energia pone al centro la più centrale di tutte le questioni, la questione su Dio» e, di conseguenza, «la questione teologica decisiva del rapporto tra teonomia e autonomia». Il suo impulso primario non era quello di fondare una Chiesa separata ma di rinnovare la cristianità, riportandola alla sua matrice, cioè la gloria e la grazia di Dio e la fede dell’uomo.
Come scrive Kasper, al di là della vis polemica, di cui pure non difettava, e delle derive a cui fu costretto dal contesto socio-politico e dall’infausta e dura reazione cattolica, «il vangelo per Lutero ... era un messaggio vivo che interpella esistenzialmente la persona, un incoraggiamento e una promessa pro me et pro nobis. Era il messaggio della croce, il solo che dona pace».
Per cogliere questa temperie spirituale radicale di un uomo dal fascino magnetico, che talora era persino rozzo e brutale ma che sapeva essere anche mistico e delicato, può essere utile - all’interno dell’immensa sua produzione teologica - ritagliare alcune sue preghiere. È ciò che hanno fatto un teologo valdese, Fulvio Ferrario, e una funzionaria consolare, Berta Ravasi, con una suggestiva selezione di invocazioni che coprono l’arco intero dei momenti spirituali e liturgici della giornata dall’alba alla sera, della contemplazione e della tentazione, del peccato e del perdono, del matrimonio e della famiglia, della vita ecclesiale e di quella civile, per approdare all’ultima ora, quando la morte, spesso evocata, verrà abbracciata perché essa conduce all’incontro con l’amato Signore e alla sua pace infinita.
Certo, la Riforma protestante va oltre il suo primo artefice e si rivela più complessa e non sempre facilmente accessibile. Un docente di storia di un’università americana, Glenn S. Sunshine, propone allora un profilo un po’ “impressionistico” della Riforma «per chi non ha tempo», puntando soprattutto su quella traiettoria storica dalle mille ramificazioni che giunge alla pace di Vestfalia quando, il 24 ottobre 1648, tutte le potenze europee coinvolte nell’aspra guerra politico-religiosa dei Trent’anni giunsero a un accordo, facendo calare il sipario sul Sacro Romano Impero.
Il percorso, necessariamente semplificato, accompagnato dalle vignette un po’ grossolane di Ron Hill, è delineato da un’angolatura protestante ma sostanzialmente equilibrata e lineare e si allarga a tutto l’orizzonte europeo comprendendo perciò lo scisma di Enrico VIII, le scelte radicali di Zwingli, l’opera di Calvino e anche quella Svezia da cui siamo partiti (nella imponente cripta della cattedrale di Lund, sorretta da 28 colonne, riposa l’ultimo arcivescovo cattolico, Birger, morto nel 1519 e artefice del restauro di quel tempio), mentre un’appendice di Carlo Papini si interessa anche del protestantesimo italiano.
Un protestantesimo minoritario costretto a confrontarsi, spesso aspramente, con la prevalente cattolicità. Senza voler entrare in questo territorio accidentato, vorremmo proporre solo un curioso documento recentemente pubblicato dal Comitato Edizioni Gobettiane. Si tratta di un breve saggio sulla Rivoluzione protestante (e il titolo è significativo) di un amico di Gobetti, il noto pensatore antifascista sostenitore di un liberalismo progressista: è il calabrese Giuseppe Gangale (1898-1978), prima cattolico, poi ateo, successivamente massone e infine convertito al protestantesimo, con un forte impegno intellettuale e sociale e un’esperienza di esilio in paesi protestanti.
Ebbene, la sua analisi lo conduce ad assumere, tra l’altro, una delle componenti della visione protestante, il richiamo alla coscienza individuale, per abbozzare una “rivoluzione” da far serpeggiare nel terreno sociale italiano, contaminato da quella sorta di zizzania che era ai suoi occhi il cattolicesimo, definito senza esitazione «il male d’Italia». Si propone, così, come osserva uno dei nostri maggiori teologi protestanti, Paolo Ricca, nella sua puntuale postfazione critica, una religione (e una concezione civile) in cui «l’uomo è sacerdote a se stesso e l’autorità non è più esteriore ma interiore, fondata sulla coscienza autonoma e non più eteronoma». Da queste pagine si riesce a intuire per contrasto quanto sia complesso ma necessario un serio dialogo in tutte le sue forme, per evitare fraintendimenti e stereotipi, semplificazioni ed equivoci, ma scoprire anche coincidenze e valori comuni.
La Bibbia si fa in quattro
La Sacra Scrittura in ebraico masoretico e l’antica versione greca dei Settanta, accompagnate dall’italiano
di Gianfranco Ravasi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 23.10.2016)
Forse esagerava ma non aveva del tutto torto Karl Kraus quando nei suoi Detti e contraddetti affermava che «il linguaggio è la madre, non l’ancella del pensiero». E continuava: «Il linguaggio dev’essere la bacchetta del rabdomante che scopre sorgenti di pensiero». Proprio per questo lo studio di una lingua permette di leggere un testo - anche (e soprattutto) sacro - nella sua matrice originaria tematica e culturale, impedendo che - attraverso la versione - accada quello che Cervantes segnalava per ogni traduzione: «è come contemplare un arazzo dal retro». Si spiega, così, il moltiplicarsi di strumenti che favoriscono l’approccio diretto al testo originale, anche attraverso i supporti informatici. Ad esempio, la società texana Silver Mountain Software già dal 1999 ha approntato le Bible Windows che si affacciano su tre orizzonti: l’analisi grammaticale dell’ebraico e del greco biblico; il dizionario ebraico-inglese e greco-inglese; la concordanza dei termini con un filtro grammaticale.
Se, invece, vogliamo fermarci alla carta stampata e a strumenti più “testuali” diretti, dobbiamo segnalare l’impresa messa in cantiere dalle edizioni Dehoniane di Bologna in una collana destinata a coprire tutti i 73 libri di cui si compone la Bibbia e intitolata suggestivamente “Doppio verso”, anche perché si hanno due copertine con testi rispettivamente capovolti. L’uno è riservato all’originale ebraico o greco di un libro biblico nel quale ogni parola ha la sua versione italiana interlineare quasi a ricalco letterale; l’altra sezione del volume offre, invece, una traduzione dello stesso libro biblico in modo continuo secondo la versione della Conferenza Episcopale Italiana (2008), accompagnata dall’apparato di introduzioni e di note desunte dalla ormai famosa “Bibbia di Gerusalemme”. Ad eseguire con pazienza certosina questa impresa è Roberto Reggi, un teologo che ha consacrato anni a questa operazione di fedeltà alla Parola sacra espressa nelle parole umane.
Ora, ha messo in cantiere un nuovo modulo analitico intitolato “La Bibbia quadriforme” e l’ha applicato a due libri biblici tra i più usati nella storia giudaica e cristiana, cioè la Genesi e i Salmi. La tetralogia che regge le doppie pagine di questa opera è facilmente comprensibile: al testo ebraico masoretico (cioè approntato dalla tradizione rabbinica con la vocalizzazione e altri segni di lettura), accompagnato sempre dall’interlineare italiano, si appaia l’antica versione greca detta dei “Settanta”, anch’essa sostenuta dall’interlineare italiano; infine, in calce si offrono la versione latina dei Salmi - secondo la cosiddetta Neovulgata, elaborata sulla base della celebre Vulgata di s. Girolamo, dopo il Concilio Vaticano II - e naturalmente la citata traduzione CEI.
In sintesi, nei bifogli vivono in armonia e, in alcuni casi in contrappunto, i testi ebraico, greco, latino, italiano. È questa una via per venir incontro al desiderio di molti di avere un approccio diretto alle Scritture, scoprendone le matrici primigenie in modo accurato e filologico, un desiderio - e lo affermo per esperienza personale - che sboccia anche in molti “laici” che, pur non considerando la Bibbia un testo “ispirato” da Dio, sono consapevoli della sua realtà di “grande codice” della cultura occidentale.
Ovviamente questi sussidi linguistici sono fondamentali per la teologia e, attraverso essi, si spera di superare quel vuoto indotto da una scuola superiore sempre più incline a soffocare le radici umanistiche classiche, un vuoto che, conseguentemente, si ripercuote sulle stesse scuole teologiche i cui alunni sono spesso estranei al contatto coi testi originali sacri ed ecclesiali. La giovanissima carmelitana s. Teresa di Lisieux (1873-97), in un’epoca in cui gli studi teologici erano preclusi al mondo femminile, confessava: «Se io fossi stata prete, avrei studiato a fondo l’ebraico e il greco così da conoscere il pensiero divino come Dio si degnò di esprimerlo nel nostro linguaggio umano».
Per fortuna ora c’è un manipolo molto fitto e qualificato di teologhe ed esegete che possono, ad esempio, elaborare quel commentario ai quattro Vangeli pubblicato dall’editrice Ancora di Milano lo scorso anno (del quale abbiamo dato conto su queste pagine), accompagnandolo con la battuta “Le donne prendono la Parola” con evidente doppio senso... Inoltre si deve segnalare che paradossalmente questa fedeltà paziente e amorosa alla lettera è un antidoto al fondamentalismo letteralista, quello che san Paolo bollava con la frase lapidaria: «La lettera uccide, lo Spirito invece dà vita» (2 Corinzi 3,6).
Infatti, l’accurata definizione delle singole parole svela non solo la necessità di coordinarle in un contesto, ma ne mostra anche la molteplicità delle iridescenze semantiche che le versioni cercano di recuperare e, quindi, suggeriscono la necessità dell’interpretazione. Questo processo è ignorato dai movimenti fondamentalistici di ogni religione che usano le parole sacre come pietre avulse dal contesto e dalla loro complessità strutturale e le scagliano come aeroliti sacrali contro gli altri (talora anche in senso fisico e non solo metaforico).
Proprio per questo la collana “Doppio verso”, dopo aver puntato l’obiettivo sulle singole parole vedendole come cellule viventi di un textus, cioè di un tessuto di significati specifici che si aprono a un significato globale, propone la versione unitaria commentata, cioè interpretata nella sua totalità. Aveva ragione Victor Hugo quando dichiarava che le mot est un être vivant, una realtà vivente che non può essere scarnificata dal corpo in cui è inserita e non può essere isolata dalla vitalità che sparge attorno a sé. Infine, per stare ancora nell’orizzonte della letteratura francese, dobbiamo riconoscere che on a boulversé la terre avec des mots, come scriveva Alfred de Musset. Sì, attraverso le parole è stata ed è spesso sconvolta la terra e insanguinata la storia, come purtroppo sperimentiamo nella cronaca odierna; ma con la potenza delle parole si è anche trasformata, fecondata, trasfigurata la vicenda di tanti uomini, donne e popoli.
CRUCIVERBA ed ENIGMISTICA.
"Dal metodo non nasce niente": un omaggio a Edipo, "Il mancino zoppo" (Michel Serres)
Pur sapendo a quali "pericoli" ("So benissimo...") andava incontro, il prof. Polito, ha aggiunto CORAGGIOSAMENTE al "mosaico sempre in fieri" (vale a dire, in cammino!) una "tessera" e, pur sapendo di ERMETE TRISMEGISTO, ha aperto - SENZA VOLERLO - non solo (come ha fatto alla fine dell’articolo) la porta della CATTEDRALE DI SIENA, ma anche la porta della CAPPELLA SISTINA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5195)!!!
CON un semplice ANAGRAMMA ("Serpente? Presente!": http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/04/serpente-presente/) ha sollecitato a riconsiderare e a riguardare tutte le tessere del MOSAICO. A questo punto, però, non è più solo un "gioco di parole"! Ora, non si sono solo Apollo, Pitone, le Sibille, e le Muse, c’è anche MOSÈ e MICHELANGELO - e FREUD ("L’uomo Mosè e la religione monoteistica": http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829).
C’è il richiamo a tutto l’immaginario biblico e, in particolare, alla interpretazione di Michelangelo della vicenda del SERPENTE DI BRONZO, racchiuso nel "pennacchio" della Volta della Cappella Sistina - https://it.wikipedia.org/wiki/Serpente_di_bronzo_(Michelangelo): il richiamo a un ALTRO serpente, "all’amico serpente" - "al sulfureo amico" -"all’amico ritrovato"!!!
ENIGMI: CRUCI-VERBA!!! A MEMORIA, e ad evitare EQUIVOCI, è BENE ricordare che i "verba volant"!!! Se, e solo se, le parole, i "VERBA" sono agganciati alla croce ("CRUCI"), al "palo", al "bastone" - alla "colonna vertebrale" della propria persona, diventano "scripta", parole scritte, parole degne di essere ricordate - scrittura, Scrittura!!! Altrimenti, sono solo parole al vento di serpenti impazziti - in un mare di sabbia!!!
Federico La Sala
***
Aby Warburg
Il rituale del serpente
Una relazione di viaggio *
Aby Warburg è stato forse l’uomo che più ha influenzato, in questo secolo, la nostra visione della storia dell’arte. Attraverso i suoi studi egli ha indicato la via che consente di ritrovare nelle arti figurative la concrezione di una intera civiltà, con tutte le sue oscure tensioni psichiche. Ma lo stesso Warburg, mentre sviluppava la sua opera grandiosa, era periodicamente colpito da crisi nervose, che lo obbligavano a prolungati soggiorni in clinica.
Nel 1923, al termine di uno di questi soggiorni, per dimostrare la propria guarigione, egli tenne ai pazienti e ai medici della casa di cura di Kreuzlingen un «discorso d’addio» - la celebre conferenza sul Rituale del serpente, apparsa poi nel 1939 sul «Journal» del Warburg Institute con una pudibonda nota che la diceva pronunciata per la prima volta «davanti a un pubblico non specialistico». Di fatto, quel discorso era insieme una confessione e un testamento.
In poche pagine, prendendo spunto da una sua spedizione presso gli indiani Pueblo, Warburg risale alle origini del paganesimo e della magia. E illumina il potere stesso - innanzitutto psichico - delle immagini, il loro potere di ferire e di guarire, stabilendo così un circuito fulmineo fra il serpente dell’arcaico rito dei Pueblo e quello che Mosè invitava a innalzare nel deserto.
Per comprendere un testo fondamentale come Il rituale del serpente occorre considerarne in ogni dettaglio la genesi e le allusioni: compito che qui assolve il prezioso saggio di Ulrich Raulff.
* SCHEDA EDITORIALE: ADELPHI (Risvolto - copertina).
L’antropologo Warburg e la vendetta degli indiani Hopi
di Maurizio Cecchetti (Avvenire, 16 luglio 2014)
Nel febbraio di quest’anno [16 luglio 2014, fls] era prevista a Boudler, nel Museo d’arte dell’Università del Colorado, una mostra di studio sul viaggio nel Sud-Ovest americano di Aby Warburg tra il 1895 e il 1896. Il titolo suonava così: «Incontrando culture: il viaggio di Aby Warburg nel Sud-Ovest americano».
Ma questa mostra non ha mai visto la luce, e la notizia rimbalza da noi grazie al mensile «Il giornale dell’arte» che nel numero in edicola spiega, con un lungo articolo di Davide Stimilli, docente in Colorado e cocuratore dell’esposizione, le ragioni per cui non si è fatta, sebbene già dall’ottobre scorso fossero arrivati dal Warburg Institute di Londra tutti i materiali della mostra.
Come vedremo, le ragioni si radicano in una oggi più che mai accesa disputa fra colonizzatori e colonizzati (spesso depredati o sterminati), così che i Paesi ex coloniali si vedono ogni tanto presentare il conto dalle vittime, nei modi più vari: dalla restituzione dei beni o le reliquie loro sottratti (vedi il caso dei Maori), alla richiesta di un risarcimento morale per la violazione delle loro tradizioni e delle loro credenze religiose.
Chi era Warburg? Morto nel 1929, rampollo di una famiglia di banchieri tedeschi di origine ebraica, fu uno dei grandi storici delle immagini a cavallo tra Otto e Novecento, che con le sue ricerche aprì la strada a quella che oggi molti conoscono col nome di «iconologia », una disciplina che lui non teorizzò mai (qualcuno, per questo, l’ha anche definita una «disciplina senza nome»), che ha trovato un assetto teorico grazie a un altro storico dell’arte tedesco, Erwin Panofsky, il quale peraltro ha forzato molto la mano a Warburg, attribuendo al suo metodo di studio una sistematicità che non ebbe mai. Warburg fu uno sciamano delle immagini, un rabdomante che si faceva guidare da fluidi mentali che, forse, presero anche una direzione visionaria a causa della instabilità psicologiche dello studioso (come si dice in questi casi: il sintomo del genio saturnino). A Panofsky Warburg avrebbe potuto rispondere: la méthode c’est moi, il metodo sono io, e lo dimostra il suo grande progetto incompiuto, l’atlante delle immagini Mnemosyne.
Che ci faceva Warburg nel Sud-Ovest americano? Quello che facevano molti altri intellettuali come lui dotati di una formazione da antropologi, che spaziavano dalla filosofia all’arte, dall’antropologia alla religione: guardavano le altre culture con una mentalità per così dire eurocentrica. Oggi l’incontro delle culture sembra quasi una trita ovvietà dopo decenni di martellante discussione sui diritti dell’altro.
Il martello batte dove il dente duole? L’Occidente, sia pure in posizione dominante, ha da tempo capito di essere uno dei mondi possibili fra i tanti che si affrontano nella globalizzazione: parlare dell’altro, difenderne le specificità, considerare il dialogo come un ragionare ponendosi dalla parte dell’interlocutore, fino a farsi paladini della sua diversità rispetto alla nostra (diversità), è una sapiente, quanto necessaria, forma retorica per tenere il punto.
E qual è il punto? Il punto è che dietro la filosofia dell’altro, nella propaganda geopolitica si celano spesso nuove forme di colonialismo. Nel momento in cui ci s’impanca difensori dei diritti dell’altro, in qualche modo si dice che noi glieli riconosciamo. È una sottile prevaricazione, che può riservare brutte sorprese.
La mostra dell’Università di Boulder (una ridente cittadina di circa centomila abitanti, posta a 1.700 metri sopra il livello del mare, all’incrocio tra le Montagne Rocciose e le Grandi pianure), è una di queste docce fredde che il mondo occidentale - democratico, pari opportunità, politicamente corretto, e chi ne più ne metta -, subisce quando tenta di spacciare come neutrale operazione di studio qualcosa che è ancora materia di «scuse» quasi mai ricevute dalle vittime di un colonialismo che ha derubato i popoli sottomessi anche della loro cultura e della loro storia.
Wole Soyinka, in un suo saggio breve, ma durissimo sulla questione della riconciliazione in Sudafrica, ricordava che la violenza maggiore sui popoli colonizzati non furono quelle fisiche e morali sui singoli (con orrori imperdonabili), ma quelle che depredarono la memoria di quei popoli e le loro testimonianze culturali. Restituiteci l’identità che ci avete rubato, diceva Soyinka. Intendeva: lasciate che siamo noi a chiedervi giustizia, non siete voi che ce la rendete, ma noi che la pretendiamo. Qualcosa del genere ascoltai qualche anno fa a Mantova anche dalla bocca del grande Edouard Glissant.
Warburg, che era arrivato alla fine del 1895 a New York per partecipare al matrimonio del fratello, disgustato da quella società opulenta aveva deciso di spingersi verso l’Ovest, in quella terra mitica abitata da tribù indiane come quella degli Hopi. Questa esperienza di Warburg si compie - scrive Stimilli - nel «groviglio straordinario di progresso e arcaicità che è la storia degli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento». E Warburg? Warburg era guidato dall’interesse per un rituale degli Hopi: quello del serpente, che era per lui l’occasione di comparare il paganesimo originario della Grecia arcaica verificandolo de visu su una «sopravvivenza» attuale (lasciamo stare, qui, l’errore sostanziale di questo comparatismo diacronico).
Come si comporta Warburg con gli Hopi? Come gli antropologi depositari di una mentalità coloniale: preleva, senza troppe remore, i loro oggetti, i loro simboli, persino
la loro immagine attraverso la fotografia.
Stimili ricorda che gli Hopi, una tribù indiana dei Pueblos, erano spaventati dalla macchina fotografica, perché credevano che potesse rubare loro l’anima. Così non erano contenti di essere fotografati, mentre Warburg, nota Stimilli analizzando una foto celebre, dà prova di una certa violenza costringendo l’indiano a starsene fermo accanto a lui mentre lo tiene per un braccio perché, evidentemente, era restio a farsi fotografare.
Ed è proprio questa la ragione per cui la mostra è saltata: alcuni docenti all’Università del Colorado, appartenenti alle diverse tribù indiane, si sono opposti all’intenzione degli organizzatori di esporre materiali che ancora oggi creano problemi morali e spirituali agli eredi degli indigeni di un secolo fa.
Il Museo, intimorito dalle promesse di boicottaggio e dalle polemiche sui giornali, ha abbandonato il progetto. Se lo stesso caso si fosse verificato in Europa forse gli organizzatori avrebbero tenuto duro, giustificando tutta l’operazione come un modo per capire e rendere le scuse alle vittime di quella mentalità: è l’obiezione implicita nel discorso di Stimilli; ma, appunto, è in America che si svolge questa storia, dove la violazione delle nuove convenzioni linguistiche ed etiche nel rapporto fra le culture e i popoli, può anche costare a un docente la carriera universitaria.
Stimilli, mettendosi il cuore in pace, conclude: «Sono, a ragion veduta, sinceramente felice che la mostra non sia avvenuta». Possibile, mi chiedo, che tutto il buon senso che oggi apprezza, e che nasce da una consapevolezza etica, non lo avesse nemmeno sfiorato quando preparava quella mostra? Come si dice in questi casi: si deve far buon viso a cattiva sorte.
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI --- LE SIBILLE, I PROFETI, E IL SERPENTE DI BRONZO: MICHELANGELO, ABY WARBURG, E UN ANAGRAMMA!!!
NOTE A MARGINE DI UN RICCO E BRILLANTISSIMO LAVORO di ARMANDO POLITO:
SERPENTE? PRESENTE! Proprio un brillantissimo (http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/04/serpente-presente/) excursus!!! In segno di ringraziamento, mi permetto di rendere onore a Ermete Trismegisto (cfr. note al seguente art.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/06/10/iapige-fantomatico-progenitore-salentini/) e di aggiungere - a questa del prof. Polito - un’altra tessera al "mosaico sempre in fieri".
RICORDANDO CHE "l’abitudine non può rendere insipida la varietà infinita della bellezza" - prodotta dalla LUCE - e, RENDENDO OMAGGIO alla "Analisi della Bellezza" di Hogarth, metto a disposizione della riflessione alcune note di "epistimologia geneSica" (dove la "S", maiuscola, sta a dire proprio della "serpentina" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5794) e della necessità di aprire gli occhi e saper distinguere (cfr. note all’art.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/26/la-terra-dotranto-mappa-delleuropa-del-secolo-xvi/) tra la "serpentina" di "Salomone" e le "serpentine" di salsicce di "Salamone".
*
I MIEI PIù VIVI COMPLIMENTI ALL’AMICO SERPENTE, AL PROF. ARMANDO POLITO, E AL LAVORO DELLA FONDAZIONE!!!
Federico La Sala
CRUCIVERBA ed ENIGMISTICA.
"Dal metodo non nasce niente": un omaggio a Edipo, "Il mancino zoppo" (Michel Serres)
Pur sapendo a quali "pericoli" ("So benissimo...") andava incontro, il prof. Polito, ha aggiunto CORAGGIOSAMENTE al "mosaico sempre in fieri" (vale a dire, in cammino!) una "tessera" e, pur sapendo di ERMETE TRISMEGISTO, ha aperto - SENZA VOLERLO - non solo (come ha fatto alla fine dell’articolo) la porta della CATTEDRALE DI SIENA, ma anche la porta della CAPPELLA SISTINA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5195)!!!
CON un semplice ANAGRAMMA ("Serpente? Presente!": http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/04/serpente-presente/) ha sollecitato a riconsiderare e a riguardare tutte le tessere del MOSAICO. A questo punto, però, non è più solo un "gioco di parole"! Ora, non si sono solo Apollo, Pitone, le Sibille, e le Muse, c’è anche MOSÈ e MICHELANGELO - e FREUD ("L’uomo Mosè e la religione monoteistica": http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829).
C’è il richiamo a tutto l’immaginario biblico e, in particolare, alla interpretazione di Michelangelo della vicenda del SERPENTE DI BRONZO, racchiuso nel "pennacchio" della Volta della Cappella Sistina - https://it.wikipedia.org/wiki/Serpente_di_bronzo_(Michelangelo): il richiamo a un ALTRO serpente, "all’amico serpente" - "al sulfureo amico" -"all’amico ritrovato"!!!
ENIGMI: CRUCI-VERBA!!! A MEMORIA, e ad evitare EQUIVOCI, è BENE ricordare che i "verba volant"!!! Se, e solo se, le parole, i "VERBA" sono agganciati alla croce ("CRUCI"), al "palo", al "bastone" - alla "colonna vertebrale" della propria persona, diventano "scripta", parole scritte, parole degne di essere ricordate - scrittura, Scrittura!!! Altrimenti, sono solo parole al vento di serpenti impazziti - in un mare di sabbia!!!
Federico La Sala
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Aby Warburg
Il rituale del serpente
Una relazione di viaggio *
Aby Warburg è stato forse l’uomo che più ha influenzato, in questo secolo, la nostra visione della storia dell’arte. Attraverso i suoi studi egli ha indicato la via che consente di ritrovare nelle arti figurative la concrezione di una intera civiltà, con tutte le sue oscure tensioni psichiche. Ma lo stesso Warburg, mentre sviluppava la sua opera grandiosa, era periodicamente colpito da crisi nervose, che lo obbligavano a prolungati soggiorni in clinica.
Nel 1923, al termine di uno di questi soggiorni, per dimostrare la propria guarigione, egli tenne ai pazienti e ai medici della casa di cura di Kreuzlingen un «discorso d’addio» - la celebre conferenza sul Rituale del serpente, apparsa poi nel 1939 sul «Journal» del Warburg Institute con una pudibonda nota che la diceva pronunciata per la prima volta «davanti a un pubblico non specialistico». Di fatto, quel discorso era insieme una confessione e un testamento.
In poche pagine, prendendo spunto da una sua spedizione presso gli indiani Pueblo, Warburg risale alle origini del paganesimo e della magia. E illumina il potere stesso - innanzitutto psichico - delle immagini, il loro potere di ferire e di guarire, stabilendo così un circuito fulmineo fra il serpente dell’arcaico rito dei Pueblo e quello che Mosè invitava a innalzare nel deserto.
Per comprendere un testo fondamentale come Il rituale del serpente occorre considerarne in ogni dettaglio la genesi e le allusioni: compito che qui assolve il prezioso saggio di Ulrich Raulff.
* SCHEDA EDITORIALE: ADELPHI (Risvolto - copertina).
SERPENTE? PRESENTE! - UN ANAGRAMMA, IL SERPENTE DI BRONZO, E LO SDOGANAMENTO DI SATANA.
Lo sdoganamento di Satana
Dalla Polonia al Bataclan, invocare Lucifero sta diventando normale
Gli adoratori del demonio hanno aperto un tempio a Salem dove una volta s’impiccavano le streghe
Il loro obiettivo è essere riconosciuti e legittimati come ogni altra religione
di Marco Ventura (Corriere della Sera, La Lettura, 09.10.2016)
Una tipica casa vittoriana di Salem, nella contea di Essex, sulla baia del Massachusetts. Tetto scuro a punta, pareti d’assi orizzontali in legno bianco, portico con colonne. Sul cartello nero, la scritta «The Satanic Temple». Il Tempio di Satana. È qui il quartier generale mondiale di un’organizzazione che vanta 40 mila aderenti nei soli Stati Uniti, la maggior parte a Detroit. Appena inaugurato. Per chi subisce il fascino del diavolo, per chi è contro la religione dei più, Salem è la città giusta.
La sede del Tempio di Satana si trova a un chilometro da Gallows Hill, dove a fine Seicento morirono sul patibolo in 19, i più sfortunati tra i quasi 300 inquisiti e imprigionati per stregoneria. Nella Salem puritana della caccia alle streghe, dove apparivano ancora impensabili l’Illuminismo, le rivoluzioni francese e americana, la tolleranza e la libertà, il diavolo era il nemico della comunità e se ne sapeva riconoscere la presenza.
Ereditava un lungo passato, la gente di Salem che trascinava gli amanti del demonio sulla collina del patibolo. Per secoli di storia cristiana, gli adoratori di Satana sono stati l’antitesi del credente. Il diavolo combattuto dai cristiani riassumeva in sé tutte le divinità nemiche dell’unico vero Dio. Gli idoli dei popoli nemici di Israele, il vitello d’oro degli Ebrei fedifraghi, il culto dell’imperatore di Roma, le statuine sugli altari privati dei Romani, le divinità naturali di Britanni e Germani. Sbaragliati i quali, l’Inquisizione aveva ritrovato il nemico di sempre in eretici e streghe: diverse le forme d’espressione, identica l’impronta della Bestia.
Nel lungo percorso verso la tolleranza, la mappa era ancora cambiata. Il diavolo papista e il satana luterano erano divenuti, l’uno per l’altro, sempre meno diabolici. Poco a poco, i cristiani avevano smesso di vedere lo zampino del demonio nelle difformi dottrine di altri battezzati.
Satana si spostava nei territori di missione, nelle colonie. Uscito dal corpo di cattolici e luterani, era entrato nelle statue dei templi taoisti e nel ghigno rosso fuoco di una delle tante facce del Buddha; nelle maschere ancestrali del Congo e nell’inferno del Punjab; nelle possessioni degli schiavi neri di Bahia. Lo riconoscevamo, sempre spaventoso, sempre temibile, in quelle nuove forme. Sono diavoli dalla pelle scura, sulla stampa britannica, gli indiani che ammazzano migliaia di inglesi nell’ammutinamento del 1857.
Pensavamo che grazie a noi, alla nostra civilizzazione, anche i popoli del mondo potessero riconoscere la potenza diabolica, abbandonare la superstizione e abbracciare la nostra fede nell’unico Dio. Invece no. Proprio allora, quando tutto sembrava di nuovo chiaro, il diavolo si rimetteva in viaggio. Per tenere le colonie, gli occidentali imparavano ad accettare le braccia di Kali e il sorriso del Bodhisattva, a leggere i Veda e la Gita. Ne beneficiò Gandhi, che a Londra comprese la religione dell’India e incontrò il nuovo avatar di Satana: sul marciapiede di una stazione, quel giorno di gennaio del 1891, quando vide un sacerdote aggredito da militanti atei.
Dall’altra parte dell’Atlantico era appena stata costruita la casa di Salem in cui oggi ha sede il Satanic Temple; dopo due anni, a Chicago, si sarebbe riunito per la prima volta il Parlamento mondiale delle religioni. A Gandhi il diavolo era sembrato farsi ateo, ma durante la lotta moderna tra i credenti e i materialisti il principe delle tenebre parve piuttosto eclissarsi. Se era morto Dio, perché non sarebbe dovuto morire il suo Nemico? Poi vennero Khomeini e Wojtyla, i mujaheddin pagati dai protestanti americani cacciarono i sovietici. Tirammo giù il muro; e dietro le macerie c’era lui.
Fin dagli anni Sessanta il diavolo era apparso anzitutto ai cristiani che ritrovavano la fede antica e popolare, spronati dall’energia carismatica. Per tanti nuovi battezzati il demonio non apparteneva più a una religiosità negativa e isterica, da riscattare nella modernità cristiana positiva e razionale. L’inferno esisteva davvero, e non era certo vuoto. Il ritorno del diavolo divise i cristiani buoni da quelli che militavano per i diritti gay, le donne prete e il dialogo ecumenico, quelli che facevano guerra alla verità e al matrimonio, quelli, appunto, che non credevano più a Belzebù, agli inferi, all’Apocalisse.
Il ritorno del diavolo, tuttavia, fu molto più ampio. Fiorì l’interesse per il demonio di teologi e letterati. Sadik al-Azm scrisse fin da metà anni Sessanta che il rinnovamento religioso islamico dipendeva da una rilettura del rapporto tra Satana e Allah basata su fonti sufi. Salman Rushdie pubblicò i suoi dirompenti Versi satanici. Vi fu poi la protesta generazionale di chi percorreva all’inverso le scale verso il paradiso dei Led Zeppelin, ascoltava i Black Sabbath, simpatizzava con il diavolo dei Rolling Stones. Crebbe inoltre il pubblico interessato all’occultismo e alla magia. Per l’opinione pubblica tutto si esauriva nel settarismo satanista, nei suoi riti blasfemi e nei suoi atti criminali. Eppure le sette sataniche erano solo un pezzetto di un fenomeno molto più grande.
L’occasione per comprenderlo capita il 13 novembre 2007. Al club Ucho di Gdynia, a nord di Danzica, si esibiscono i Behemoth, band metal polacca affascinata dal diavolo. Il leader Adam Darski, noto come Nergal, canta il suo pezzo più celebre, Lucifero, poi straccia una Bibbia e ne getta frammenti al pubblico. È un libro di bugie, grida, è sterco, ipocrisia, la Chiesa cattolica è la religione più assassina del pianeta. Ne nasce un caso che tiene occupati i giudici polacchi fino al 2012, quando la Corte suprema risparmia la condanna a Darski per ragioni procedurali. Non è un caso eccentrico, isolato. Come tanti altri, Nergal usa il diavolo per aggredire il cattolicesimo nazionalista e conservatore. E usa la denuncia del cattolicesimo retrivo di Radio Maryja e dei fratelli Kaczynski per costruire intorno al diavolo un credo polimorfo. C’è identità, visibilità mediatica, politica, commercio. C’è il collegamento con pezzi di società. C’è la resistenza in tribunale che si tramuta in indiretto riconoscimento.
Stentiamo a crederci, ma è proprio così. Stanno diventando una religione i seguaci del demonio. Imparano da chi negli ultimi decenni ha fatto la stessa strada: da chi era un’associazione criminale, e poi non riconosciuta, e gode ora dello statuto di religione. Come i mormoni, i testimoni di Geova, i seguaci di Scientology e, quasi quasi, gli atei. Come il movimento Wicca dei neo-pagani e delle neo-streghe.
Anche il satanismo sta diventando una delle tante religioni organizzate che lottano per la propria legittimità, e persino per il proprio diritto a essere eguali alle altre. La società è propizia. I satanisti organizzati seguono il flusso della corrente che porta al mare sempre più vasto delle organizzazioni di religione o di credo. Mitigano gli eccessi, si mostrano socialmente impegnati, propugnano il dialogo, curano la comunicazione, proclamano i diritti dell’uomo, si compromettono col mercato.
Cambia di conseguenza la percezione della dimensione criminale del fenomeno satanico. Non c’è differenza, per il giudice, tra il bambino di Satana che stupra un’adolescente e un prete reo di pedofilia. Per i gruppi satanici, come per la Chiesa di Scientology e la Santa Sede, l’importante non è non delinquere, in ogni organizzazione c’è un delinquente, ma è schivare l’accusa di associazione a delinquere.
Il Tempio satanico di Salem, come gran parte del satanismo americano rifugiatosi sotto l’ombrello della libertà religiosa, è l’esempio perfetto. I cittadini di Salem non hanno niente da temere, sostengono i rappresentanti «della maggiore organizzazione satanista al mondo», hanno anzitutto da guadagnare da un’associazione di gente onesta, dedita all’interesse sociale, all’emancipazione dall’oscurantismo, alla libertà individuale, al pluralismo e al progresso. La corrente trascina i gruppi satanici verso il mare della religione.
Adorare il diavolo può catalizzare significati diversissimi, e al contempo avere senso per molti. La prova più significativa, e più drammatica, viene la notte del 13 novembre 2015. Al Bataclan di Parigi, la nostra migliore gioventù canta «bacia il diavolo» in un gesto di libertà, di evasione, di sfogo, di energia, e viene ammazzata dalla peggiore gioventù islamica, nichilista e omicida, persuasa che non meriti altro chi inneggia a Satana. Si è capovolto l’ordine di un tempo.
Il Tempio del Massachusetts non è un’americanata, Salem e Parigi sono connesse. Si è allargato il mare delle religioni e del credere: c’è spazio per tutti, e per ogni contraddizione; per far festa col diavolo, e per morirne. Parigi e Salem si chiamano. Anche in Europa, tra pochi giorni, si celebra Halloween. A Salem si preparano le zucche: in 250 mila visiteranno la città dove per il diavolo si finiva impiccati.
IL “PARADISO IN TERRA”, LA “MEMORIA” DI ABY WARBURG, E IL DESTINO ULTIMO DELL’UOMO *
C’ERA UNA VOLTA IL PARADISO SEGNATO SULLE CARTE. “Il paradiso in terra. Mappe del giardino dell’Eden”, (Bruno Mondadori, Milano, 2007) di Alessandro Scafi è per molti versi un’opera sorprendente - soprattutto per l’essere il lavoro di un “Lecturer in Medieval and Renaissance Cultural History” presso il Warburg Institute di Londra.
Muovendo dalla storica acquisizione che la “gran parte delle mappe medievali contengono un riferimento visivo al giardino dell’Eden”, egli cerca di rispondere alla domanda su quali siano state “le condizioni che hanno reso possibile la cartografia del paradiso”. Lo scopo del suo libro, infatti, è quello di “visitare il nostro passato come si fa con un paese straniero, tentando di effettuare la visita con la massima apertura mentale e il massimo rispetto” e cercare di esplorare e scoprire - premesso che “chi metteva il paradiso su una carta aveva le sue buone ragioni” - queste “buone ragioni” (p.7).
Se è vero - come egli stesso sostiene - che “ieri segnare il paradiso su una carta significava una confessione dei limiti della ragione una dichiarazione di fede in un Dio che interveniva nell’arena geografica della storia”, e, altrettanto, che “oggi una mappa che tra le ragioni del mondo comprenda anche il paradiso sembra dover richiedere uno slancio di fantasia o uno sforzo di immaginazione”, è da pensare che l’Autore - alla luce del suo percorso e, ancor di più, delle sue stesse conclusioni - ha trovato molte e grandi difficoltà e che - per dirlo “con una parola-chiave dell’orizzonte di Aby Warburg - che la Memoria (“Mnemosyne”) gli ha giocato un brutto scherzo!
Nell’ Epilogo, con il titolo “Paradiso allora, paradiso ora”, dopo aver premesso in esergo la seguente citazione:
“Sarebbe difficile trovare un qualsiasi argomento in tutta la storia delle idee che abbia invitato a formulare così tante ipotesi, per poi smentirle tutte e renderle assolutamente inutili, come ha fatto il giardino dell’Eden (...) Sono state proposte teorie dopo teorie, ma non è stata trovata nessuna veramente convincente (...) Il luogo dell’Eden sarà sempre classificato, insieme alla quadratura del cerchio e all’interpretazione della profezia non avverata, tra quei problemi irrisolti - forse insolubili - che esercitano un fascino così pieno di mistero” (William A. Wright, Eden, in Smith, Dictionary of the Bible, 1863),
Scafi così comincia: “Per cercare di capire la cartografia del paradiso abbiamo compiuto un lungo viaggio nel tempo. Siamo partiti dagli albori del cristianesimo e, passando attraverso il Medioevo, il Rinascimento e la Riforma, siamo arrivati ai giorni nostri. Abbiamo incontrato il paradiso terrestre in una grande varietà di forme, sia descritto a parole sia sagomato dalle linee di una carta”. E ormai stanco del percorso fatto, nello sforzo di non farsi accecare dalla varietà delle forme e di (farci!) cogliere l’essenziale (il “dio”) che nei “dettagli” si “nasconde”, così ricorda e prosegue: “Come si è visto, localizzare il paradiso terrestre descritto dalla Genesi non era soltanto un problema geografico, e tutti coloro che hanno voluto interpretare il racconto del peccato di Adamo si sono trovati di fronte ai grandi interrogativi sul destino ultimo dell’uomo”. E, a chiusura del discorso e a esclusione di ulteriori domande in questa nebbiosa direzione metafisica ed escatologica, così precisa: “Non c’è meravigliarsi, allora, che le risposte offerte da tanti secoli di tradizione cristiana siano state formulate e riformulate, con il passare del tempo, in maniera così diversa”!
LA RINASCITA DELLA “HYBRIS” ANTICA: I MODERNI. L’attenzione di Scafi, nonostante ogni buona intenzione, è conquistata da altro: “Quello che colpisce, invece, è il modo in cui, a partire dal Rinascimento e dalla Riforma, ogni autore che si sia cimentato sull’argomento si è sempre industriato a ridicolizzare le teorie dei suoi predecessori. Scrivere sul paradiso sembrava richiedere sempre una carrellata preliminare sulle stravaganze precedenti, per bollare come insostenibili tutte le teorie pregresse e quindi proporre la propria soluzione, che si auspicava definitiva”. E così sintetizza e generalizza: “L’abitudine di presentare, in un’ironica rassegna, le assurdità e gli errori del passato è diventata così un topos che è durato fino ad oggi”; e, ancora, precisa: “A ben vedere, si possono rintracciare già nella tarda antichità le avvisaglie di questa pratica post-rinascimentale”(p. 306).
Colpito da questa “evidenza” e da questa “scoperta”, egli prosegue con l’antica e moderna ‘tracotanza’ (il “folle volo”) a narrare la sua “odissea”, aggiorna il numero della “varietà delle forme” delle mappe del giardino dell’Eden, e, senza alcun timore e tremore, completa la sua personale “ironica rassegna”, - con una “carrellata” sulle ultime e ultimissime “stravaganze”, su quelle degli artisti russi Ilya ed Emilia Kabakov, coi loro “progetti singolari e fantasiosi” (in particolare, “Il paradiso sotto il soffitto”), che Scafi così commenta:
“Per la nostra mentalità moderna, l’unico vero paradiso, per usare le parole di Proust, è sempre quello che abbiamo perduto. I Kabakov invece negano questa visione pessimistica, anche se non parlano di un paradiso celeste che ci aspetta alla fine dei tempi. Quando alzano lo sguardo verso il soffitto per superare il pessimismo di chi immagina paradisi solo remoti e inaccessibili e scoraggiare la pericolosa idolatria di chi insegue paradisi artificiali, invitandoci a vedere il cielo in una stanza, i due artisti russi sembrano condividere il pensiero dei teologi e dei cartografi medievali. Anche per loro il paradiso perduto porta sempre con sé la promessa di un paradiso ritrovato, e anche per loro questo paradiso è accessibile in qualunque momento. Basta soltanto prendere una scala, e salirne i gradini. Qui e ora” (p. 314).
“MAPPING PARADISE”. Questa è la conclusione di "A History of Heaven on Earth”: per dirla in breve, una pietra tombale sull’idea stessa del “paradiso in terra”, e non solo sulle “carte” dei Kabakov, anche se “i due artisti russi sembrano condividere il pensiero dei teologi e dei cartografi medievali”.
Che a questo “destino” dovesse approdare tutta la ricerca, nonostante le apparenze del percorso, Scafi l’aveva già ‘annunciato’, come in una “profezia che si auto-adempie”, in un breve paragrafo dedicato a Dante e alla “Commedia”, intitolato “Un volo poetico in paradiso”, dove - separata “poesia” e “non poesia” - così pontifica:
“L’interesse dei teologi e dei filosofi naturali per la geografia era condiviso da Dante Alighieri, che aveva una grande varietà di interessi e che nella sua Commedia (c. 1305-20) raccontava, come è noto, la sua esperienza attraverso i tre regni dell’inferno, del purgatorio e del paradiso. Il celebre poema era un’opera letteraria che esprimeva la conoscenza geografica e cosmografica del tempo (...) Per Dante la geografia era sempre subordinata alla poesia. Nel canto XXVI dell’Inferno, il poeta si riferisce al “folle volo” di Ulisse. La morale della storia del marinaio ed eroe greco che oltrepassò le colonne d’Ercole e che da lontano riuscì a gettare solo uno sguardo verso la montagna del paradiso, prima di vedersi sbarrata la strada da una tremenda tempesta, era che l’uomo non poteva penetrare, solo con le sue forze e senza il sostegno della rivelazione divina, il mistero del paradiso terrestre” (p.153).
Fin qui, niente di speciale: il suo punto di approdo è lo stesso di “chi scrive di storia per il grande pubblico” e degli “storici di professione”(p. 7)! E la sua “storia dell’arte” cartografica del “paradiso in terra” di “oggi”, alla fin fine, potrebbe benissimo essere collocata, in una possibile ristampa, nel “Dictionary of the Bible” di “ieri” (1863).
LA SCALA DEGLI INDIANI PUEBLO E LA “MEMORIA” DEL PARADISO DI ABI WARBURG. Per “ironia della sorte”, quasi cento anni prima della mostra dei Kabokov a Londra (1998), nel 1896, Aby Warburg è nel Nuovo Messico e in Arizona, incontra gli indiani Pueblo e - come poi racconterà e cercherà di descrivere con disegni e foto nel 1923 (cfr. “Il rituale del serpente”, Adelphi, Milano, 2005) - conosce elementi della loro cosmologia, un universo “concepito come una casa”, con il tetto con “le falde a forma di scala”, una “casa-universo identica alla propria casa a gradini, nella quale si entra per mezzo di una scala”, e comprende quanto è importante per l’uomo “la felicità del gradino”, il salire (“l’excelsior dell’uomo, il quale dalla terra tende al cielo”). E, al contempo, sempre nel 1896 (il 26 giugno), ad un suo amico, così scrive:
“Non permetto che mi si trascini attraverso l’Inferno se non a colui che confido sappia anche portarmi attraverso il Purgatorio fino al Paradiso. Ma proprio di ciò difettano i moderni. Non dico un Paradiso dove tutti cantino salmi avvolti in bianche tuniche e privi di genitali, dove le care pecorelle si aggirino in compagnia dei bei leoni fulvi senza desideri carnali - ma disprezzo chi perde di vista l’ideale dell’homo victor”.
Warburg rimase persuaso di ciò sino alla fine. Ma se fu questo suo atteggiamento ad allontanarlo dagli esteti e anche dagli storici dell’arte, fu il suo intenso interesse - come cita, scrive, e commenta Ernst H. Gombrich (cfr. Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Feltrinelli, Milano, 2003, pp 274) - per le questioni psicologiche fondamentali ad avvicinarlo a una generazione che aveva assimilato la lezione di Freud e si rendeva sempre più conto dell’immensa complessità della mente umana. E qui la fama di Warburg non si basa certo su un fraintendimento.
IL PARADISO E L’ANGELO DELLO STORIA. LA LEZIONE DI WALTER BENJAMIN:
"Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo "come propriamente è stato". Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo [...] In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere"(Tesi di filosofia della storia).
*
Federico La Sala
Il santo dei serpari
di Antonella Bazoli (*)
Da non confondere con l’omonimo fondatore dei frati domenicani, san Domenico da Foligno è noto nel centro Italia con l’appellativo di “santo dei serpari”.
Non tutti sanno però che il santo in questione, il cui simulacro viene portato in processione ricoperto di serpenti ogni primo giovedì di maggio a Cocullo, era in realtà un eremita di origini umbre.
Domenico nacque nel 951 a Capodacqua di Foligno, anche se oggi la sua figura è venerata soprattutto nel Lazio e in Abruzzo, dove si tiene il tradizionale “rito dei serpari”.
L’evento, di estremo interesse storico, folklorico e antropologico, attira ogni anno nel paesino montano della Marsica una moltitudine di fedeli, pellegrini, fotografi e studiosi.
Eppure, fatta eccezione per Cocullo e pochi altri centri del Lazio e dell’Abruzzo, la figura di san Domenico da Foligno rimane pressoché sconosciuta nel resto d’Italia.
Persino in Umbria, sua patria d’origine, Domenico sembra essere stato dimenticato. Solo nel piccolo centro di Capodacqua (suo paese natio, situato a pochi chilometri da Foligno) il santo patrono viene ancora oggi venerato e ricordato dai devoti, che celebrano la sua festa il 22 di gennaio, giorno in cui si commemora la sua morte.
Della vita del santo non sappiamo molto: probabilmente trascorse l’ infanzia nel monastero di San Silvestro presso Foligno, ma ben presto lasciò la comunità benedettina, preferendo la vita eremitica a quella cenobitica. Partito da Foligno si diresse verso sud, lungo la catena dell’Appennino centrale, dove visse per lungo tempo tra i monti del Lazio, del Molise e dell’Abruzzo.
La sua leggenda agiografica narra che in quei luoghi montuosi, impervi e selvaggi, l’eremita abbia fondato vari monasteri e abbia operato molti miracoli.
il particolare è nella lunetta del portale della chiesa di San Domenico a Capodacqua di Foligno, dove il santo protettore dai morsi dei serpenti viene celebrato il 22 di gennaio
Da sempre la figura di san Domenico abate è stata invocata contro i morsi dei cani idrofobi e dei serpenti velenosi, ma anche contro piogge e tempeste, oltre che per curare la malaria e far passare il mal di denti!
Oggi il culto di questo santo taumaturgo, vissuto nel X secolo, si lega soprattutto alla tradizionale festa religiosa che si svolge a Cocullo ogni primo giovedì di maggio.
Protagonisti dello spettacolare corteo di Cocullo sono i serpenti, catturati dagli abitanti del paese nelle settimane che precedono la festa, quindi offerti al santo durante la processione del primo giovedì di maggio.
Alla fine della festa i rettili vengono riportati sani e salvi presso le stesse tane dalle quali erano stati prelevati, a dimostrazione del grande rispetto che i serpari di Cocullo hanno per i loro amici striscianti.
La festa di san Domenico ha antichissime origini e sembra affondare le proprie radici nell’arcaica cultura dei Marsi, popolo di guerrieri italici divenuti famosi per la loro abilità nell’ incantare i serpenti, estrarne i veleni e utilizzarli a scopo terapeutico.
Antenati degli odierni serpari di Cocullo, i Marsi vivevano in villaggi presso il lago Fucino (oggi prosciugato), sulle cui sponde un tempo sorgevano un santuario federale e un’importante città di oprigine italica, divenuta poi municipio romano col nome di Anxa Angitia (l’antica città oggi corrisponde all’attuale Luco dei Marsi).
Toponimi che derivano dal bosco sacro alla dea Angizia , quel lucus di cui parlò anche Virgilio nell’Eneide, a testimonianza della venerazione per questa dea della fertilità, strettamente legata ai culti ofidici, all’arte fitoterapeutica e all’abilità nella preparazione di antidoti e veleni.
Per queste loro abilità terapeutiche i Marsi furono sempre considerati dai Romani abili maghi e guaritori, oltre che imbattibili guerrieri e coraggiosi gladiatori.
Antonella Bazzoli - 15 aprile 2008 (aggiornamento 20 gennaio 2017)
Per approfondimenti:
“Il ritorno dei serpari” di A. Bazzoli, Medioevo, maggio 2010
“Scritti rari” di A. M. di Nola Rivista abruzzese ed. Amaltea 2000
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Fonte: "Evus", 20 gennaio 2017 (senza foto).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
Maddalena
Storia e leggenda dell’apostola degli apostoli
Fu Gregorio Magno a identificarla come una ex prostituta convertita. Ma i Vangeli non la descrivono così
di Vito Mancuso (la Repubblica, 31.08.2016)
Da sempre icona della predicazione ascetica e della storia dell’arte, ai nostri giorni è diventata protagonista anche della fiction cinematografica (Martin Scorsese) e della letteratura d’evasione (Dan Brown). Eppure Maddalena è citata solo dodici volte nei vangeli canonici e mai da san Paolo e dagli altri agiografi neotestamentari: ma quei pochi versetti evangelici sono stati sufficienti per scatenare l’immaginazione di teologi, predicatori, padri spirituali, eretici, pittori, romanzieri, registi, costruendo un mito che acquista sempre più vigore.
A tale potenziamento ha contribuito di recente nel modo più autorevole un decreto della Congregazione per il culto divino del 3 giugno scorso mediante cui la celebrazione di Maria Maddalena, fino ad allora solo “memoria” viene elevata al grado di “festa”, il medesimo riservato ai dodici apostoli.
Il motivo di questa decisione, dietro cui ovviamente c’è l’esplicito volere di papa Francesco, è indicato dallo stesso documento: «La decisione si inscrive nell’attuale contesto ecclesiale, che domanda di riflettere più profondamente sulla dignità della donna, la nuova evangelizzazione e la grandezza del mistero della misericordia divina». Si tratta, in altri termini, di una mossa per rafforzare il ruolo delle donne nella Chiesa. C’è quindi da sperare che tale promozione della Maddalena possa ispirare più importanti cambiamenti nella struttura ecclesiale aprendo la via nell’immediato al diaconato femminile: se infatti una donna è stata apostola, perché altre non possono diventare per lo meno diaconesse?
In realtà, per quanto il titolo di “apostola” sia stato assegnato alla Maddalena già da Tommaso d’Aquino che la definisce “apostola degli apostoli”, è sufficiente un’occhiata alla vastissima iconografia per rendersi conto che mai tale qualifica ha trovato finora un’applicazione reale nella concreta struttura ecclesiastica. I dipinti infatti non la ritraggono mai nell’atto di annunciare agli apostoli rinchiusi per paura l’avvenuta risurrezione di Cristo, ma in altre ben più tradizionali fattezze: piangente ai piedi della croce, al sepolcro con il vasetto di mirra, mentre è tenuta a distanza dal Risorto che le dice “Noli me tangere”, in estasi, in meditazione e soprattutto in veste di penitente con i lunghi capelli disciolti e buona parte del corpo scoperto. Per la tradizione occidentale infatti, e ancora oggi per molte persone, Maria Maddalena è la prostituta che bagna i piedi di Gesù con le sue lacrime e li asciuga con i suoi capelli.
I 12 versetti evangelici che ne parlano non consentono però tale identificazione, risalente a una scorretta interpretazione di papa Gregorio Magno nel VI secolo e divenuta poi pressoché canonica. Come si legge in Luca 8,2-3, si deve piuttosto ritenere che Maria, detta Magdalena in quanto originaria della cittadina galilaica di Magdala, fosse una donna benestante assuntasi il compito insieme ad altre di sostenere Gesù e i discepoli con i suoi beni come riconoscenza per essere stata guarita da una grave malattia a cui il vangelo accenna dicendo che da lei «erano usciti sette demoni ».
Da allora la Maddalena seguì sempre Gesù, fino ai piedi della croce. E di certo Gesù ebbe con lei un rapporto privilegiato, che ai nostri giorni ha scatenato una serie di improbabili fantasie ma che già nel II secolo aveva portato un vangelo apocrifo di tradizione gnostica a scrivere: «La compagna del Figlio è Maria Maddalena. Il Signore amava Maria più di tutti i discepoli e spesso la baciava sulla bocca» (Vangelo di Filippo, 64). Anche a prescindere da tale intimità, la vicinanza di Gesù alla Maddalena è comprovata dal fatto che in tutti i quattro Vangeli canonici lei è sempre nominata per prima tra i pochi testimoni cui apparve il Risorto.
Il quarto vangelo giunge a dedicarle una scena tutta sua, nello struggente dialogo della mattina di Pasqua in cui Gesù risorto per farsi riconoscere la chiama per nome: “Maria!” (Giovanni 20,16); e poi la manda ad annunciare la risurrezione agli apostoli consacrandola per l’appunto “apostola degli apostoli”.
Quelle antiche parole di Gesù attendono ancora di diventare vita concreta all’interno della Chiesa, ma forse qualcosa si sta davvero muovendo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
La Pietà Rondanini sotto al cielo stellato di Mario Cresci *
Un unico blocco di pietra, denso, avvolgente, dai dettagli a volte appena sbozzati, altri dolcemente rifiniti, dove le figure della Madonna e di Cristo si confondono: è la Pietà Rondanini, l’ultima opera di Michelangelo alla quale lo scultore ha lavorato fino al 1564, pochi giorni prima di morire. Oggi questo capolavoro è reinventato dalla macchina fotografica di Mario Cresci (Chiavari, Genova, 1942) in un percorso esposto a Milano, nelle Sale dell’Antico Ospedale Spagnolo del Castello Sforzesco (dove l’opera risiede dal 2 maggio 2015), dal titolo Mario Cresci in aliam figuram mutare. Interazioni con la Pietà Rondanini di Michelangelo (fino al 25 settembre).
Il progetto di Mario Cresci è intitolato all’auxilium (l’aiuto) e gravita intorno alla luce come creazione del cosmo, al movimento e alla materia che è scabra, spezzata e tenue, materia che diventa figura. Nella chiave di lettura di Cresci l’auxilium, la misericordia di questa nuova Pietà, va oltre ed è rivolta ad altri volti fotografati e coperti da luccicanti coperte termiche, quelle con cui si avvolgono i naufraghi: sono i visi coperti dei migranti a cui dovrebbe andare tutta la nostra pietas e il nostro auxilium. Per noi. Per tutta l’umanità.
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Su «la Lettura» #246, numero speciale di Ferragosto in edicola dal 13 al 21 agosto, un articolo di ARTURO CARLO QUINTAVALLE racconta la mostra al Castello Sforzesco.
In questo percorso per immagini (a cura di Jessica Chia) alcuni scatti di Mario Cresci esposti a Milano
“Storia delle donne filosofe”
di Alessandra Pigliaru *
Ragionatrice sottile e maestra d’eloquenza, sono alcune delle espressioni che si ritrovano nel Menesseno di Platone e nel quarto libro degli Stromati di Clemente Alessandrino riferibili ad Aspasia di Mileto che insegnò retorica a Pericle e filosofia a Socrate.
Ciò nonostante, simili appellativi venivano assai raramente utilizzati per il suo sesso; così segnala Gilles Ménage in un libro piccolo quanto fondamentale dal titolo Mulierum philosopharum historia, scritto in prima istanza nel 1690 e ampliato due anni dopo.
Arrivato in Italia solo 11 anni fa grazie alla traduzione e cura di Alessia Parolotto per le edizioni ombre corte, Storia delle donne filosofe (pp. 115, euro 9) viene ora rieditato per essere letto, studiato e sgranato con curiosità.
L’introduzione di Chiara Zamboni colloca acutamente la figura di Ménage, l’abate francese che oltre a essere stato un grande latinista e grammatico fu precettore di madame de Sévigné e madame de Lafayette.
Le sue relazioni in quegli anni straordinari, dai salotti delle Preziose all’immersione in quella che Benedetta Craveri ha poi chiamato e descritto nel suo La civiltà della conversazione, possono essere lette come il frutto di un’attenzione rara nei confronti di 70 pensatrici dell’antichità classica.
L’esercizio di Ménage, senza precedenti, rimane un isolato e pur tuttavia importante censimento filosofico, esito di una erudizione raffinata e rigorosa che fa avere fiducia sullo stato dei documenti consultati - seppure non tutti di immediato reperimento. Setacciare trattati, lessici, opere filosofiche è servito così a imbastire un ritratto a più voci.
Le fonti di riferimento utilizzate da Ménage sono quasi tutte maschili e, come sottolinea Zamboni nella introduzione, l’insistenza sul legame tra biografia e pensiero era in linea con la tradizione del suo tempo.
Accanto alle più note Ipazia e Diotima, maestre di eccellenza e amore per la sapienza, altre si fanno avanti e vengono per la prima volta suddivise per appartenenza di scuola - là dove se ne possa avere in qualche modo conferma. Di scuola incerta infatti restano ancora tante che vanno a comporre la prima parte del volumetto di Ménage.
Così accanto al nome di Aspasia risuonano quello di Cleobulina, Panfila, Giulia Domna, Eudocia, Novella e altre. E poi Temistoclea (nella Suda - lessico enciclopedico compilato intorno al 1000 - viene chiamata Teoclea), sorella di Pitagora a cui già Diogene Laerzio attribuisce la maggior parte dei precetti morali del più noto filosofo. Insieme alle pitagoriche, che sono anche le più numerose, sono presenti Epicuree, Ciniche, Stoiche, Accademiche, Peripatetiche, Platoniche, Cirenaiche.
E seppure di tutte le filosofe non resti quasi niente in termini di scritti, il lavoro di Gilles Ménage non si riduce a un contributo elenchico criticamente muto; bensì concorre a delineare una fisionomia storico-filosofica che anni dopo verrà decostruita e fatta definitivamente saltare dal femminismo.
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Alessandra Pigliaru
* http://pigiotto.blog.tiscali.it/2016/08/19/storia-delle-donne-filosofe/?doing_wp_cron - Venerdì, 19 Agosto 2016
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITà. --- ’Histoire des femmes philosophes’. Se ci si chiede chi sia l’autore, Gilles Ménage, si scopre che viveva nel diciassettesimo secolo, era un latinista precettore di Madame de Sévigné e di Madame de Lafayette e il suo libro, apparso nel 1690, s’intitolava ’Mulierum philosopharum historia’ (di Umberto Eco - Filosofare al femminile).
I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!!
Per volere di papa Francesco il 22 luglio, per la prima volta, si celebra la festa di santa Maria Maddalena, che sino a oggi era memoria obbligatoria. La storia di questa donna nelle parole dei Vangeli e nei commenti di Gianfranco Ravasi, Carlo Maria Martini, Cristiana Dobner e Timothy Verdon
Lo scorso 3 giugno la Congregazione per il Culto Divino ha pubblicato un decreto con il quale, «per espresso desiderio di papa Francesco», la celebrazione di santa Maria Maddalena, che era memoria obbligatoria, viene elevata al grado di festa. Il Papa ha preso questa decisione «per significare la rilevanza di questa donna che mostrò un grande amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata», ha spiegato il segretario del Dicastero, l’arcivescovo Arthur Roche. Ma chi era Maria Maddalena, che Tommaso d’Aquino definì «apostola degli apostoli»?
Magdala
Nei Vangeli si legge che era originaria di Magdala, villaggio di pescatori sulla sponda occidentale del lago di Tiberiade, centro commerciale ittico denominato in greco Tarichea (Pesce salato). Qui, negli anni Settanta del Novecento è stata condotta un’estesa campagna di scavi dai francescani dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme: è venuta alla luce una vasta porzione del tessuto urbano comprendente, fra gli altri, una grande piazza a quadriportico, una villa mosaicata e un completo complesso termale. Con successivi scavi i francescani hanno riportato alla luce anche importanti resti di strutture portuali. In un’area adiacente, di proprietà dei Legionari di Cristo, una campagna di scavi avviata nel 2009 ha invece permesso di rinvenire la sinagoga cittadina, una delle più antiche scoperte in Israele: per la sua posizione, sulla strada che collega Nazaret e Cafarnao, si ritiene che probabilmente sia stata frequentata da Gesù.
Gli equivoci sull’identità
Maria Maddalena fa la sua comparsa nel capitolo 8 del Vangelo di Luca: Gesù andava per città e villaggi annunciando la buona notizia del regno di Dio e c’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità e li servivano con i loro beni. Fra loro vi era «Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni». Come ha scritto il cardinale Gianfranco Ravasi, «di per sé, l’espressione [sette demoni] poteva indicare un gravissimo (sette è il numero della pienezza) male fisico o morale che aveva colpito la donna e da cui Gesù l’aveva liberata. Ma la tradizione, perdurante sino a oggi, ha fatto di Maria una prostituta e questo solo perché nella pagina evangelica precedente - il capitolo 7 di Luca - si narra la storia della conversione di un’anonima “peccatrice nota in quella città”, che aveva cosparso di olio profumato i piedi di Gesù, ospite in casa di un notabile fariseo, li aveva bagnati con le sue lacrime e li aveva asciugati coi suoi capelli». Così, senza nessun reale collegamento testuale, Maria di Magdala è stata identificata con quella prostituta senza nome.
Ma c’è un ulteriore equivoco: infatti, prosegue Ravasi, l’unzione con l’olio profumato è un gesto che è stato compiuto anche da Maria, la sorella di Marta e Lazzaro, in una diversa occasione (Gv 12,1-8). E così, Maria di Magdala «da alcune tradizioni popolari verrà identificata proprio con questa Maria di Betania, dopo essere stata confusa con la prostituta di Galilea».
La liberazione dal male
Afflitta da un gravissimo male, di cui si ignora la natura, Maria Maddalena appartiene dunque a quel popolo di uomini, donne e bambini in molti modi feriti che Gesù sottrae alla disperazione restituendoli alla vita e ai loro affetti più cari. Gesù, nel nome di Dio, compie solo gesti di liberazione dal male e di riscatto della speranza perduta. Il desiderio umano di una vita buona e felice è giusto e appartiene all’intenzione di Dio, che è Dio della cura, mai complice del male, anche se l’uomo (fuori e dentro la religione) ha sempre la tentazione di immaginarlo come un prevaricatore dalle intenzioni indecifrabili.
Sotto la croce
Maria Maddalena compare ancora nei Vangeli nel momento più terribile e drammatico della vita di Gesù. Nel suo attaccamento fedele e tenace al Maestro Lo accompagna sino al Calvario e rimane, insieme ad altre donne, ad osservarlo da lontano. È poi presente quando Giuseppe d’Arimatea depone il corpo di Gesù nel sepolcro, che viene chiuso con una pietra. Dopo il sabato, al mattino del primo giorno della settimana - si legge al capitolo 20 del Vangelo di Giovanni - torna al sepolcro: scopre che la pietra è stata tolta e corre ad avvisare Pietro e Giovanni, i quali, a loro volta, correranno al sepolcro scoprendo l’assenza del corpo del Signore.
L’incontro con il Risorto
Mentre i due discepoli fanno ritorno a casa, lei rimane, in lacrime. E ha inizio un percorso che dall’incredulità si apre progressivamente alla fede. Chinandosi verso il sepolcro scorge due angeli e dice loro di non sapere dove sia stato posto il corpo del Signore. Poi, volgendosi indietro, vede Gesù ma non lo riconosce, pensa sia il custode del giardino e quando Lui le chiede il motivo di quelle lacrime e chi stia cercando, lei risponde: «“Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”» (Gv 20,15-16).
Il cardinale Carlo Maria Martini al riguardo commentava: «Avremmo potuto immaginare altri modi di presentarsi. Gesù sceglie il modo più personale e il più immediato: l’appellazione per nome. Di per sé non dice niente perché “Maria” può pronunciarlo chiunque e non spiega la risurrezione e nemmeno il fatto che è il Signore a chiamarla. Tutti però comprendiamo che quell’appellazione, in quel momento, in quella situazione, con quella voce, con quel tono, è il modo più personale di rivelazione e che non riguarda solo Gesù, ma Gesù nel suo rapporto con lei. Egli si rivela come il suo Signore, colui che lei cerca».
Il dialogo al sepolcro prosegue: Maria Maddalena, «si voltò e gli disse in ebraico: “Rabbunì!”, che significa: “Maestro!”. Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Maria di Magdala andò ad annunziare ai discepoli: “Ho visto il Signore!” e anche ciò che le aveva detto» (Gv 20, 16-18).
La maternità della Maddalena
«La Maddalena è la prima fra le donne al seguito di Gesù a proclamarlo come Colui che ha vinto la morte, la prima apostola ad annunciare il gioioso messaggio centrale della Pasqua», osserva la teologa Cristiana Dobner, carmelitana scalza. «Ella esprime la maternità nella fede e della fede ossia quella attitudine a generare vita vera, una vita da figli di Dio, nella quale il travaglio esistenziale comune ad ogni uomo trova il suo destino nella risurrezione e nell’eternità promesse e inaugurate dal Figlio, «primogenito» di molti fratelli (Rom 8,29). Con Maria Maddalena si apre quella lunga schiera, ancor oggi poco conosciuta, di madri che, lungo i secoli, si sono consegnate alla generazione di figli di Dio e si possono affiancare ai padri della Chiesa: insieme alla Patristica esiste anche, nascosta ma presente, una Matristica.
La decisione di Francesco è un dono bello, espressione di una rivoluzione antropologica che tocca la donna e investe l’intera realtà ecclesiale. L’istituzione di questa festa, infatti, non va letta come una rivincita muliebre: si cadrebbe stolidamente nella mentalità delle quote rosa. Il significato è ben altro: comprendere che uomo e donna insieme e solo insieme, in una dualità incarnata, possono diventare annunciatori luminosi del Risorto».
Nella storia dell’arte: la mirofora
Maria Maddalena, nel corso dei secoli, è stata raffigurata principalmente in quattro modi: «Anzitutto - afferma monsignor Timothy Verdon, docente di storia dell’arte alla Stanford University e direttore del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze - è spesso ritratta come una delle mirofore, le pie donne che la mattina di Pasqua si recarono al sepolcro portando gli unguenti per il corpo del Signore. Fra loro la Maddalena è riconoscibile per il fatto che, a partire dalla fine del Medioevo, viene raffigurata con lunghi capelli sciolti, spesso biondi: questo fa capire che gli artisti, secondo una tradizione affermatasi in Occidente (e non condivisa nell’Oriente cristiano), la identificavano con la donna peccatrice che aveva asciugato i piedi di Gesù con i propri capelli. I capelli lunghi sono quindi un’allusione a questo intimo contatto e alla condizione di prostituta: le donne per bene non andavano in giro con i capelli sciolti».
La penitente
Nell’arte del tardo Medioevo Maria Maddalena compare anche come penitente perché - spiega Verdon - secondo una leggenda ella era una grande peccatrice che, dopo la conversione e l’incontro con il Risorto, era andata a vivere come romitessa nel sud della Francia, vicino a Marsiglia, dove annunciava il vangelo: «Il culto della Maddalena penitente ha affascinato molti artisti, che l’hanno considerata il corrispettivo femminile di Giovanni Battista. In genere viene raffigurata con abiti simili a quelli del Battista oppure è coperta solo dai capelli. La bellezza esteriore l’ha abbandonata, il volto è segnato dai digiuni e dalle veglie notturne in preghiera, ma è illuminata dalla bellezza interiore perché ha trovato pace e gioia nel Signore. La statua della Maddalena penitente di Donatello, scolpita per il Battistero di Firenze, è un autentico capolavoro».
L’addolorata
Sovente la Maddalena è ritratta anche ai piedi della croce: una delle opere più significative, a giudizio di Verdon, è un piccolo pannello di Masaccio (esposto a Napoli) nel quale la Maddalena è ritratta di spalle, sotto la croce, le braccia protese a Cristo, i lunghi capelli biondi che cadono quasi a ventaglio su un enorme mantello rosso: «Un’immagine di forte drammaticità. Non di rado il dolore composto della Vergine è stato contrapposto a quello della Maddalena, quasi senza controllo. Si pensi ad esempio, alla Pietà di Tiziano, nella quale la donna avanza come volesse chiamare il mondo intero a riconoscere l’ingiustizia della morte di Gesù, che giace fra le braccia di Maria; oppure si pensi al celebre gruppo scultoreo di Niccolò dell’Arca, nel quale fra le molte figure la più teatrale è proprio quella della Maddalena che si precipita con la forza di un uragano verso il Cristo morto».
Chiamata per nome
Vi sono inoltre molte raffigurazioni dell’incontro con il Risorto: «Esemplari e magnifiche sono quelle di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni, e del Beato Angelico nel convento di san Marco», conclude Verdon. «Maria Maddalena ha vissuto un’esperienza di salvezza profonda per opera di Gesù: quando si sente chiamata per nome in lei si accende il ricordo dell’intera storia vissuta con Lui: c’è tutto questo nell’iconografia della scena che chiamiamo “Noli me tangere”».
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fonte: Vatican Insider, articolo di Cristina Uguccioni del 20/07/2016 (senza foto)
DALL’ECO DELLE SIBILLE, LA VOCE DELLA PROFEZIA
di Chiara Magaraggia*
Sono le creature più misteriose della storia della salvezza: non sono nominate nella Bibbia, non sappiamo quante siano,vengono dalla notte dei tempi, vengono dai quattro angoli del mondo allora conosciuto, vengono da quei confini inconoscibili in cui storia e leggenda si fondono, in cui mondo pagano e mondo cristiano si saldano. Sono donne, sono sapienti e sono la voce del Verbo. La loro parola è capace di scrutare segni di secoli remoti e leggerli in un’ottica di salvezza futura; la loro immagine è da sempre legata al rotolo o al libro, in cui questa parola un tempo oscura e misteriosa si imprime, diventando finalmente chiara solo nella pienezza dei tempi.
Creature affascinanti, le Sibille: un tempo vergini dotate di virtù profetiche ispirate dal dio Apollo, nel mondo cristiano le profetesse di Cristo, le facce femminili della profezia.
E’ vero che la Sacra Scrittura ci presenta alcune profetesse: Maria sorella di Mosè, Debora, Anna. Nessuna di loro, però, ha conseguito la popolarità delle Sibille, né ha avuto la loro fortuna. L’arte cristiana si è impossessata di loro a piene mani, la poesia e la musica hanno loro riservato una posizione privilegiata in pagine rimaste immortali.
“Dies irae, dies illa / solvet saeculum in favilla / teste Davide cum Sibylla”. La celebre sequenza duecentesca attribuita a Tommaso di Celano, in cui, con immagini di forte impatto emotivo e figurativo, viene rappresentata la grandiosa scena del Giudizio Universale - il terribile giorno in cui il mondo e il tempo saranno ridotti in cenere - collega la profezia biblica di Davide con quella di origine classica delle Sibille: pagani e cristiani, uomini e donne, ovunque abbia alitato lo spirito di Dio, hanno profetizzato “dies illa”, quel giorno. Dalla musica raccolta degli antichi monasteri alla sublime solennità dell’ultimo Mozart fino alla travolgente grandiosità di Verdi, ovunque il Requiem con la sequenza del “Dies irae” ha scandito la colonna musicale di secoli e secoli, così che, come scrive Dante nell’ultimo canto del Paradiso “al vento nelle foglie lievi si perde la sentenza di Sibilla” (Par. 33, vv. 65-66).
Amatissime nell’arte di ogni tempo, con i loro volti dai mille lineamenti a seconda dei luoghi, delle epoche, dei contesti, della sensibilità degli artisti, fanno capolino dai posti più impensati. Potremmo quasi affermare che le mutevoli Sibille incarnino l’immagine stessa della donna, che si trasforma senza sosta per rendere continuamente nuova l’antica attesa dell’avvento di Dio nel mondo. Ci vengono incontro leggiadre e piene di grazia in un luogo veramente particolare: il Collegio del Cambio di Perugia, affrescato, negli ultimi anni del Quattrocento dal pittore umbro Perugino, forse con la collaborazione del giovane allievo Raffaello.
Un luogo davvero inconsueto: la sede ufficiale dei cambiavalute perugini, in cui si stabiliva il valore delle monete del tempo per renderle più competitive negli scambi commerciali e in cui si tentava di controllare la diffusione del prestito ad usura. Una piccola Borsa rinascimentale. Ma perché proprio qui, nel tempio degli affari, si sono dipinte le Sibille?
La lunetta peruginesca della Sala dell’Udienza (la stanza in cui si prendevano le decisioni più importanti), sullo sfondo di un verde, luminoso paesaggio umbro ci mostra due distinti gruppi di personaggi: da un lato sei Profeti (Isaia, Mosè, Daniele, Geremia, Davide, Salomone) dal volto grave e ispirato, dall’altro le sei Sibille (Eritrea, Persica, Cumana, Libica, Tiburtina, Delfica) dai visi dolci, botticelliani e gli sguardi assorti di chi più che sul presente, è concentrato sul futuro; i capelli sono acconciati secondo i dettami del tempo, gli abiti leggeri, sobri, dalle delicate sfumature cromatiche, i piedi atteggiati a passo di danza, le mani dai gesti “parlanti”. Profeti e Sibille sono avvolti da filatteri con brani allusivi alla prima e all’ultima venuta di Cristo. Il Padre Eterno benedicente, circonfuso da una mandorla dorata, sovrasta i due gruppi.
Nella parete opposta della Sala, Perugino dipinge le Virtù di cui uomini e donne devono rivestirsi: la venuta di Cristo, dunque, dovrà originare nuove creature, dotate di quelle virtù che sole possono guidarci nella realizzazione concreta del progetto divino.
In questo affresco, dipinto in pieno Umanesimo, è celebrata la dignità dell’uomo: il pittore l’ha qui rappresentato così come Dio l’ha creato, maschio e femmina, senza distinzioni di provenienza, biblica o pagana, anche nella profezia. Ognuno è inserito nel progetto divino, ne è non solo testimone, ma attore e responsabile in prima persona. Sembrano riecheggiare qui le splendide parole con cui in questi stessi anni Giovanni Pico della Mirandola ha tessuto forse il più bell’elogio alla dignità e al libero arbitrio dell’essere umano: “Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale perché sia tu stesso, quasi libero e sovrano, a plasmarti secondo la tua libera decisione: potrai annullarti in terra come le creature brute, potrai sollevarti fino alle cose più alte che sono divine”. Così un mestiere come quello del cambiavalute, inviso nel Medioevo perché a contatto col denaro considerato materiale impuro e ora rivalutato nell’ottica dei nuovi tempi e delle profonde trasformazioni, esercitato con prudenza, con giustizia, con sobrietà, guidato dalla fede, dalla speranza, dalla carità, sarà nella società strumento di cambiamento positivo per tutti e perciò degno della benedizione divina.
Dal centro dell’Italia alla ricca città di Gand. Siamo nelle Fiandre del primo Quattrocento, una delle aree più ricche dell’Europa: i mercanti, i banchieri, i borghesi attivi nei piccoli liberi centri stanno creando un mercato economico dove transitano merci di ogni tipo, con investimenti e profitti che segnano l’alba del capitalismo europeo. Fasto e splendore in breve rendono splendide Bruges, Gand, Anversa. E proprio a Gand opera il maggiore pittore del Rinascimento nordico: Jan Van Eyck. Per la cattedrale di San Bavone egli realizza un grandioso polittico in 20 pannelli in legno di quercia, in cui, attraverso 250 figure dai colori squillanti, sviluppa la storia della Redenzione dal peccato originale al trionfo finale di Cristo. E lì, sopra la scena dell’Annunciazione, avvolta in vesti sontuose, la Sibilla Cumana dà il suo vaticinio: “Verrà il tuo Re dei secoli futuri”. Parole che precedono e sottolineano il sottostante annuncio dell’angelo a Maria. Ciò che colpisce nella Sibilla fiamminga è lo splendido copricapo trapuntato da una reticella di candide perle e il verde mantello di pesante velluto con le maniche e il collo di preziosa pelliccia. E’ la moda con cui le ricche dame del nord si riparavano dai geli invernali. Colpiscono quel volto intenso e meditativo, quelle mani dai gesti così femminili: una sul grembo, come farà Maria, a sottolineare che quel Re verrà proprio da un corpo di donna, l’altra sorregge l’abito, nel gesto di alzarsi in piedi, stupita, ancora una volta come Maria, da un annuncio tanto solenne. Eppure la Sibilla sembra comunicarci dell’altro col suo viso pensoso: quel re non nascerà avvolto in velluti e pellicce, né sarà coccolato da banchieri e mercanti. Chi lo accoglierà? E come?
Il dialogo dai quattro confini del mondo si fa stringente e drammatico. Le risposte ci riportano ancora in Italia, nella città di Siena. La Cattedrale dedicata all’Assunta domina la città del Palio dal colle più alto. Ci accoglie con la facciata dai bianchi marmi, ci apre la porta guidando gli occhi verso la splendida vetrata multicolore con cui Duccio di Buoninsegna celebra Maria. Ma ciò che subito attira l’attenzione è lo straordinario pavimento, che in 56 grandi tarsìe di marmi bianchi, neri, colorati compone con un originale programma teologico la storia del tempo, dell’uomo, della salvezza. E’ come se il fedele si mettesse lui stesso in cammino per arrivare, col suo fardello di dolori, di speranze, di errori a Cristo che dall’altare tutti accoglie, sotto la luminosa custodia di Maria. Può qui mancare la voce delle Sibille? Le loro figure occupano i 10 riquadri delle navate laterali, con un effetto di bianche statue classicheggianti, ciascuna con la propria profezia. Ma, sorpresa, la prima Sibilla, quella Libica “di cui parla Euripide” ha il viso, le mani, i piedi neri. L’immagine è di assoluta novità: è una delle prime raffigurazioni di un personaggio femminile di pelle nera nella storia della salvezza e nell’arte in senso generale. Da una donna nera viene una delle profezie più drammatiche, che risponde in modo spiazzante ai dubbi della Sibilla fiamminga. Mostra nelle pagine del volume aperto alla sua destra la scritta latina che annuncia: “Ricevendo pugni tacerà”, che si collega alla tabella sorretta da un vaso fiorito a cui s’attorcigliano due serpenti: “Capiterà in mani malvagie. Daranno a Dio schiaffi a piene mani. Misero e vergognoso recherà speranza ai miseri”. Che sia proprio una donna nera, da sempre negletta, da sempre umiliata e battuta, a pronunciare la profezia della Passione è un fatto sconvolgente. E’ un’immagine che perfora i secoli e che per noi, oggi, assume un significato ulteriormente nuovo. Nella certezza consolante che dopo la Passione c’è la Resurrezione.
Certo, fra tutte le Sibille, l’immaginario di tutti non può non volare a Roma, nella Cappella Sistina, lo scrigno del genio di Michelangelo. Come i cicli in mosaico delle antiche basiliche, quello della Sistina è l’esempio più alto dell’arte al servizio della parola: un credo per immagini capace di tradurre in forme concrete, comprensibili a tutti, le verità che per tanto tempo erano appannaggio solo dei sapienti. Occorreva però che, accanto ad artisti pur grandi (Perugino, Botticelli, ecc.) che avevano affrescato le pareti laterali se ne aggiungesse un altro capace di imprimere unità e organicità al ciclo. Siamo nel 1508: Michelangelo riceve da papa Giulio II l’incarico di affrescare la volta, un lavoro immane (680 mq di superficie). Sette anni di lavoro massacrante, solo con i suoi tormenti e la sua immaginazione, con i pennelli e i colori ad ideare le nove scene della Genesi, dalla Separazione delle tenebre dalla luce al Diluvio e all’Ebbrezza di Noè, simbolo di un’umanità ineluttabilmente schiava degli istinti, degli errori, della perdizione. Occorreva far irrompere la speranza, riecheggiando le parole di Paolo: Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo trionfo?
Ed ecco, nel cornicione che affianca le nove scene, le figure dei Profeti e delle Sibille: tutti ispirati da Dio, ma in modo diverso, hanno il presentimento della Redenzione: se i primi la prevedevano con certezza, le Sibille, dal confuso orizzonte del mondo pagano, hanno saputo farsi interpreti del perpetuo anelito al rinnovamento dell’uomo, al di là delle tenebre. Sembrano compresse in troni troppo piccoli, le Sibille di Michelangelo, esponenti di un’umanità quasi asessuata, primordiale, colta nel momento di un improvviso risveglio, quasi una faticosa percezione della profezia, che suscita faticose, titaniche torsioni, in uno sforzo immane per uscire da una materia che sembra opprimerle: lo sforzo tutto michelangiolesco di una verità nascosta, di uno spirito incatenato che si dibatte per liberarsi e sprigionarsi.
La Sibilla Cumana della Sistina è agli antipodi della ricca signora dipinta da Van Eyck: non c’è grazia, non c’è femminilità in quelle forme gigantesche e mascoline della corporatura, in quel braccio poderoso che sorregge il libro, che sembrano contrastare con i tratti marcati e rugosi di un volto di vecchia. Le vesti sono disadorne, essenziali, spoglie; una sacca appesa al sedile sembra suggerire che non è propria dell’uomo la stabilità, che siamo tutti eterni pellegrini nel tempo della salvezza. Eppure, a questa donna così fuori dai canoni della femminilità ideale, è affidata, partendo dalle parole del poeta latino Virgilio, la profezia della nascita di un bambino generato da una vergine, che avrebbe aperto agli uomini un’era di pace e di felicità. Virgilio, primo secolo avanti Cristo, si salda idealmente alle parole del più antico Isaia, che, non a caso, Michelangelo ha affrescato proprio accanto alla Cumana: “Ecco, la Vergine concepirà e partorirà un figlio che si chiamerà Emmanuele”.
La grazia di Perugino, l’eleganza pensosa di Van Eyck, la pelle nera di Siena, la vecchiaia quasi deforme di Michelangelo: ritratti di donne di mondi diversi, capaci di andare oltre, di guardare lontano... in ognuna di esse possiamo trovare qualcosa di noi. Tanti accordi che si uniscono in un’unica grande voce. La voce delle Sibille capace di vincere di mille secoli il silenzio.
* Chiara Magaraggia
*FONTE. Congregazione delle Suore Orsoline del Sacro cuore di Maria (ripresa parziale - senza immagini).
MOZART, Requiem (K 626):
DIES IRAE (Coro)
(dal "Requiem")
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
"Non vogliamo fare i preti, solamente contare di più"
Parla suor Carmen Sammut, paladina della richiesta di diaconato femminile.
"Dal Papa una scossa alla Chiesa maschilista"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 14 maggio 2016)
CITTÀ DEL VATICANO. "Ma lei ha mai riflettuto sull’Ultima cena?".
In che senso, madre?
"Nelle raffigurazioni fatte anche da grandi artisti quasi mai ci sono donne. Le pare possibile? Una cena senza donne? Eppure questa visione di una comunità ecclesiale senza donne, di una Chiesa nei suoi vertici solo maschile, ci è entrata dentro, l’abbiamo interiorizzata. Credo sia arrivato il momento di liberarcene e di dare il giusto peso alla presenza femminile nella Chiesa". Suor Carmen Sammut, presidente della Uisg (Unione internazionale superiore generali), ha raccolto insieme ad altre sorelle le domande fatte ieri a Francesco. Minuta, occhi svegli, in una pausa dei lavori del raduno delle 800 religiose all’Hotel Ergife a Roma ammette: "In ogni caso, che botta!".
Come, scusi?
"La risposta di Francesco sul diaconato femminile, una bella botta salutare. È ora che della cosa s’inizi a parlare".
Se ne parla troppo poco?
"Beh, è evidente. Non solo la Chiesa a Roma, ma la Chiesa in tutto il mondo ha eluso il problema. Invece molte di noi sono chiamate a svolgere un servizio che nei fatti è già un diaconato. Per questo abbiamo posto la domanda al Papa: ci sembra giusto che il diaconato ci venga riconosciuto perché ci siamo rese conto che la gente a cui siamo mandate ci guarda così. Il diaconato in questo senso può portare molto frutto".
Diceva dell’ultima cena. Gesù come discepoli ha scelto dodici uomini...
"Sì, guardi, ma con le donne nei Vangeli ha fatto cose scandalose, mi si passi il termine, per quell’epoca. Si faceva avvicinare, potevano toccarlo, stargli vicino. Le sembra poco? Poi purtroppo è stata la Chiesa a dividere uomini e donne, una divisione disastrosa".
Un Papa, Albino Luciani, ha anche parlato di Dio come madre.
"Dio non è pensabile semplicemente come padre, come uomo. Lo Spirito, del resto, è sempre stato visto al femminile".
Che impressione ha avuto dal Papa, è favorevole al diaconato oppure no?
"Ci ha detto che anche per lui dovrebbero esserci più donne nei posti di comando della Chiesa. E che questi posti vanno sganciati dall’idea che possono occuparli soltanto dei preti. In virtù del nostro battesimo possiamo contribuire al momento decisionale della Chiesa stessa. Sarebbe un valore per tutti".
E sul diaconato?
"Intanto non ha eluso la domanda, che gli è stata fatta perché da diverse parti del mondo ci è stato chiesto di porla. Gli abbiamo inviato le domande prima e ha accettato di rispondere a tutte. Anche a una dedicata al denaro, che era stata espunta. In ogni caso, la disponibilità a studiare il diaconato è un passo importante. Non vogliamo fare i preti e nemmeno i vescovi, per carità, ma che venga riconosciuto il nostro diaconato come servizio perché è utile per la gente".
Perché ritiene le donne importanti per i processi decisionali della Chiesa?
"Noi donne abbiamo un’altra visuale sui problemi. Senza la nostra visuale le decisioni sono monche, manca loro una parte. Donne e uomini devono lavorare insieme".
La Chiesa è troppo maschile?
"Secondo me nei suoi vertici sì".
Al Sinodo avete avuto spazio?
"Beh, troppo poco. C’erano delle donne, ma poche. Ma davvero non credo che sia solo un problema di Roma. È un problema della Chiesa in generale. A un certo punto si è iniziato a fare così e questa usanza è divenuta prassi".
Il cardinale Piero Parolin ha detto che di per sé una donna potrebbe diventare Segretario di Stato.
"Segretario di Stato non lo so. Ma andare alla guida di dicasteri sì, certo. Francesco l’ha ribadito ieri: si devono separare le funzioni, i ruoli nella Chiesa dai "sacramenti". Dunque, una donna può essere messa in qualsiasi ruolo. E poi ha detto un’altra cosa molto forte".
Quale?
"Ha parlato del codice di diritto canonico. E ha spiegato che se una cosa è vietata dal codice non significa che debba rimanere vietata per sempre. Il codice racchiude delle leggi, ma le leggi si possono cambiare".
L’urgenza di una riforma
di Vito Mancuso (la Repubblica, 13.05.2016)
FORSE ci troviamo al cospetto della prima significativa mossa di quella che potrebbe essere una rivoluzione davvero epocale. Credo la più importante tra tutte le meritorie iniziative di riforma intraprese finora dal pontificato di Francesco. Se c’è una via privilegiata infatti per il rinnovamento di cui la Chiesa cattolica ha oggi un immenso bisogno, essa è la via femminile.
PIÙ della riforma della curia, più dell’ecumenismo, più della riforma della morale sessuale, più della libertà di insegnamento nelle facoltà teologiche, più di molte altre cose, l’ingresso delle donne nella struttura gerarchica della Chiesa cattolica avrebbe l’effetto di trasformare in modo irreversibile tale veneranda e anche un po’ acciaccata istituzione.
Prendendo atto dell’emancipazione femminile ormai giunta a compimento in Occidente in tutti gli ambiti vitali, Giovanni Paolo II aveva prodotto una serie di documenti altamente elogiativi verso ciò che egli definiva “genio femminile”, si pensi alla lettera apostolica Mulieris dignitatem del 1988 e alla specifica Lettera alle donne del 1995. Né in questi testi né altrove però il papa polacco definì mai cosa intendesse realmente con tale espressione, usata in seguito più di una volta anche da Benedetto XVI nei suoi interventi in materia. Anche papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium del 2013 ha parlato di “genio femminile”. Ieri però, con l’apertura al diaconato femminile, parlando davanti a oltre ottocento suore superiore, questa ermetica espressione papale ha ricevuto finalmente la possibilità di passare da edificante proclamazione retorica a concreto sentiero istituzionale.
Forse a breve non si parlerà più di genio femminile, ma di geni femminili, perché le singole donne avranno finalmente la possibilità di tornare a donare a pieno titolo il loro patrimonio genetico all’intero organismo di madre Chiesa, la quale ora nella sua mente è femminile unicamente quanto alla grammatica, mentre quanto al diritto canonico è esclusivamente maschile (e da qui le deriva l’attuale sterilità, perché anche la vita spirituale, oltre a quella biologica, ha bisogno di cromosomi y e di cromosomi x).
Ho usato l’espressione “tornare a donare” perché l’apertura al diaconato femminile da parte di Francesco non è una novità assoluta, già nel Nuovo Testamento si parla di diaconesse. Anzi, tale apertura papale può comportare la rivoluzione epocale di cui parlavo proprio perché rimanda a una doppia fedeltà: a una fedeltà al presente, al fine di rendere la Chiesa cattolica all’altezza di tempi in cui l’emancipazione femminile è almeno in Occidente un processo pressoché compiuto, e a una fedeltà al passato, al fine di recuperare la straordinaria innovazione neotestamentaria quanto al ruolo delle donne.
Se si leggono i Vangeli infatti si vede come Gesù, in modo del tutto discontinuo rispetto alla prassi rabbinica del tempo, ricercasse e incoraggiasse la presenza femminile. Luca per esempio scrive che nel suo ministero itinerante «c’erano con lui i Dodici e alcune donne», dando anche i nomi delle stesse: Maria Maddalena, Giovanna, Susanna e aggiunge «molte altre», espressione da cui è lecito inferire un numero di seguaci donne più o meno pari a quello dei seguaci uomini.
Non deve sorprendere quindi che la Chiesa primitiva conoscesse le diaconesse, come appare da san Paolo che scrive: «Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è diaconessa della chiesa di Cencre» (Romani 16,1; il testo ufficiale della Cei purtroppo è infedele all’originale perché traduce il greco diákonon con “al servizio”! Ben diversa la Bible de Jérusalem che traduce correttamente “ diaconesse de l’Église”).
Che esito avrà l’istituenda commissione di studio sul diaconato femminile? Quanto tempo passerà prima che sia effettivamente al lavoro? Quanto prima che consegni i risultati? E questi che sapore avranno? Sono domande a cui al momento non è possibile rispondere, di certo però la riforma al femminile di papa Francesco è un’urgenza da cui la Chiesa non si può più esimere. Si tratta semplicemente di giustizia: quando si entra in una qualunque chiesa per la messa le donne sono sempre in netta maggioranza, com’è possibile che nessuna di esse possa commentare il Vangelo dall’altare? Il diaconato femminile metterebbe fine a questa ingiustizia e aprirà molte nuove strade.
È un sogno destinato ad avverarsi? Nessuno lo sa, certamente però il successo della riforma al femminile di papa Francesco dipenderà dalla capacità di saper mostrare la doppia fedeltà che vi è in gioco: fedeltà alle donne di oggi e fedeltà al Maestro di duemila anni fa, fedeltà all’attualità e fedeltà a quell’eterno principio di parità emerso al momento della creazione: «E Dio creò l’essere umano a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Genesi 1,27).
«Contributo vero» *
Donne non solo cattoliche, non solo credenti, non solo italiane e non solo europee. Ci sono mondi diversi nella Consulta solo femminile chiamata, per la prima volta in un Dicastero della Santa Sede, a costituirsi come organismo permanente e con il compito di «consigliare e arricchire l’orizzonte» delle iniziative del Pontificio Consiglio della Cultura e proporne di nuove.
Il progetto incoraggiato da papa Francesco e promosso dal cardinale Gianfranco Ravasi, presidente dello stesso «ministero» è stato formalizzato giovedì scorso con la consegna delle lettere di incarico al gruppo di 34 donne.
La Consulta, che si avvarrà di una rete di corrispondenti in tutto il mondo, ha affidato il coordinamento alla sociologa Consuelo Corradi, pro rettore alla Lumsa, affiancata in questo compito da Emma Madigan, Ambasciatore d’Irlanda presso la Santa Sede. «Il senso della vostra presenza qui non è quello di colorare di rosa questo Dicastero, ma di offrire un punto di vista diverso e un contributo vero», ha insistito Ravasi aprendo i lavori.
L’invito del Cardinale segue le riflessioni avviate nelle prime due sedute informali del gruppo promosso dopo la Plenaria sulle culture femminili del Pontificio Consiglio. La strada è tracciata e la sfida «non più rinviabile» per dirla con papa Francesco.
«Non saremo chiuse in una riserva, un recinto. Qui si tratta di incidere su tutte le attività del Dicastero, a partire dal nostro punto di vista specifico» ha osservato Corradi. «La Consulta - prosegue - si riunirà tre volte all’anno, ma tra i gruppi di lavoro lo scambio sarà continuo. Ci incontreremo qui al Pontificio Consiglio e saremo in contatto telematico con chi è lontana».
Con il vescovo Paul Tighe, segretario aggiunto del Pontificio, e con monsignor Thomas Traguy , responsabile del dipartimento Fede e Scienza, Ravasi ha illustrato alla consulta la traccia della Plenaria in preparazione per l’autunno del 2017 dedicata alle «Nuove sfide antropologiche».
Scienziati ed esperti di fama internazionale discuteranno di scienze della vita, genetica e cultura digitale, partendo però da una questione antropologica, appunto, che riguarda la ricerca di una definizione su cosa significhi essere persone umane.
L’obiettivo è duplice: da una parte porre al centro la questione etica, che qualche volta viene trascurata dalla scienza; dall’altra avviare un dibattito che coinvolga la Chiesa in queste tematiche. La Consulta ha cominciato a dare il proprio contributo. Nel frattempo, sta riflettendo sulla modalità per essere presente nell’anno giubilare della Misericordia. Con uno sguardo femminile che porti ricchezza, competenza e modernità.
* Corriere della Sera, 04.04.2016
Nel 2016 ne sentirete parlare: Samantha Cristoforetti, lo spazio e i confini dell’Umanità
di Giorgia Furlan ("Left", dicembre 29th, 2015)
Questo 2015 è indubbiamente stato l’anno dello spazio, siamo andati al cinema a vedere Interstellar e abbiamo seguito Matt Damon sopravvissuto in The Martian. Incollati allo schermo abbiamo guardato le nuove foto di Plutone, assistito alla scoperta dell’acqua, e quindi della potenziale vita, su Marte. Soprattutto abbiamo sentito parlare di Samantha Cristoforetti. Samantha, classe 1977, passerà alla storia perché è la prima donna italiana ad essere andata nello spazio e vi ha trascorso ben 220 giorni, anche questo un record.
La rivista Time ha voluto assolutamente intervistarla: «con equipaggi ancora prevalentemente maschili, rimane solo un soffitto di cristallo tra la Terra e l’ orbita, e sono le donne, non gli uomini, a doverlo sfondare» scriveva Jonathan D. Woods il 10 agosto di quest’anno presentando l’astronauta italiana. Il Financial Times addirittura la indica, unica italiana insieme alla scrittrice Elena Ferrante, nella lista delle donne del 2015, forse proprio per quel record di permanenza nello spazio conquistato sulla Stazione Internazionale. Lei che per arrivare lassù ha superato una selezione fra altri 8500 candidati. Lei che volente o no, quest’anno, tra un tweet dal suo account @AstroSamantha e un altro, sempre mentre era ancora in orbita, è diventata un simbolo nazional popolare tanto da essere stata ospite in collegamento dalla Iss durante il Festival di Sanremo. Tanto da essere invitata da Matteo Renzi - uno che alle cose che hanno anche solo un sentore di nazional popolare non sa resistere - alla Leopolda 6. Invito a quanto pare rispedito al mittente dall’ingegnere trentina.
Sicuramente quella della Cristoforetti è una storia che ci piace raccontare perché parla di un’Italia fatta di eccellenza e meritocrazia, ma Astrosamantha è anche qualcosa di più. È un simbolo, inconsapevole, che in qualche modo racchiude in sè i desideri, le aspirazioni e le difficoltà dell’anno appena trascorso.
Lanciare una navicella nel buio lassù ci entusiasma e ci galvanizza, è il trionfo dell’illuminismo, un piccolo passo per un uomo, enorme per una donna, sicuramente: “un grande passo per l’Umanità”
Samantha Cristoforetti non ci ha appassionato così tanto perché eravamo consci dell’importanza scientifica della sua missione, ma perché per noi la sua era un’impresa epica, un viaggio oltre il confine dell’atmosfera che su di noi, poveri profani rimasti con i piedi sulla terra, ha avuto lo stesso fascino della conquista del West. Ha mostrato la possibilità concreta di pensare come valicabile un confine che sembrava invalicabile. “Sfondare il soffitto di cristallo” di cui parla Jonathan D. Woods sulle pagine di Time.
Se, infatti, indubbiamente questo è stato l’anno dello spazio, altrettanto indubbiamente, è stato anche quello dei confini. E lo stesso spazio è questione di confini, limiti tecnici e fisici, che vengono superati (pensate all’atmosfera o alla gravità). Lanciare una navicella nel buio lassù ci entusiasma e ci galvanizza per questo, è il trionfo dell’illuminismo, un piccolo passo per un uomo, enorme per una donna - dopo tutto che saranno mai 8.500 concorrenti - sicuramente: “un grande passo per l’umanità”.
L’umanità, ecco, un’altra cosa che, soprattutto quest’anno, ha avuto a che fare con i confini. Quelli segnati dal filo spinato varcati dai rifugiati; quelli liquidi del Mediterraneo solcati dai migranti; quelli rivendicati dai kurdi impegnati nella resistenza contro Daesh; quelli che, dopo Charlie Hebdo e gli attentati di Parigi, le destre populiste hanno tentato di tracciare tra noi e “loro”, come se la vita fosse un film hollywoodiano dove esistono solo buoni e cattivi.
Quest’anno ha avuto a che fare con i confini europei - quelli di un’Unione che vorrebbe essere forte, ma spesso si dimostra fragile - per cui la Grecia doveva essere dentro o fuori. E con le “frontiere” ambientali discusse a Parigi che, più che confini, sono limiti da rispettare e traguardi a cui tendere. Infine, quest’anno ha appunto avuto a che fare con la linea di confine tracciata dall’idea di spazio dove è finita Samantha Cristoforetti e che, forse per una banale questione metaforica di micro e macro o per il fatto altrettanto simbolico che in tutte quelle foto il globo lo vediamo dall’alto e per intero, potrebbe includere tutti quanti gli altri. Quasi si trattasse di un monito e di un memento.
A dicembre, nell’ultimo numero di Left abbiamo inserito uno degli scatti di Samantha nel nostro portfolio di fine anno e abbiamo titolato l’immagine così: “Se da lassù a guardarci è una donna”.
Ecco, “se da lassù a guardarci è una donna”, forse si finirebbe con il pensare che no, non è vero che l’Umanità ha dei confini. Che dividere il mondo in noi e loro è solo una questione di prospettiva, ridotta. Che per questo 2016 dovremmo impegnarci a guardare il mondo dalla prospettiva di AstroSamantha.
In fondo: «Visto da lassù il Mediterraneo è una pozzanghera. Non ha senso barricarsi» parola di astronauta.
Il sorpasso in magistratura, ci sono più donne che uomini
Il procuratore generale della Cassazione: hanno raggiunto il 50,7 per cento. Il cambiamento più significativo nelle nomine agli incarichi direttivi
di FRANCESCO GRIGNETTI (La Stampa, 29/01/2016)
ROMA Alla notizia non è stata data l’enfasi che meritava, eppure è possibile leggerla nella relazione del procuratore generale della Cassazione, sua eccellenza Pasquale Ciccolo: «Rispetto agli anni precedenti - scrive - nella popolazione dei magistrati in servizio si ribalta il rapporto tra uomo e donna, pur rimanendo attorno alla parità: 50,7% di donne, e 49,3% di uomini».
È una piccola grande rivoluzione. Alle donne, come ricordava qualche tempo fa a un convegno la presidente dell’Associazione donne magistrato italiane, Carla Marina Lendaro, è stato aperto l’accesso in magistratura appena 50 anni fa. Perciò fecero una festa in Cassazione «per ricordare quelle prime otto temerarie - diceva Lendaro - che affrontarono, vincendolo, il duro primo concorso del 1965».
Molta acqua nel frattempo è passata sotto i ponti. Da qualche anno, al concorso per magistratura le donne stracciano regolarmente gli uomini. È una donna il capo dell’ufficio degli ispettori ministeriali, Elisabetta Cesqui. Ci sono due donne nel consiglio direttivo della Scuola superiore della magistratura. Sono molte le donne ai vertici delle correnti della magistratura associata. Ed è lontano il tempo in cui le (poche) donne che entravano in magistratura finivano confinate nella riserva indiana della giustizia minorile.
LA SVOLTA
Delle 252 nomine fatte dal Consiglio superiore della magistratura negli ultimi 15 mesi sotto l’impulso del vicepresidente Giovanni Legnini, se si guarda agli incarichi direttivi si vede che 101 sono uomini e 25 sono donne; se si esaminano i vicedirettivi, 83 sono uomini e 43 sono donne. Il cambiamento dei vertici della magistratura è in effetti una mezza rivoluzione. «Un passaggio storico e un’autentica palingenesi», lo definisce Legnini.
Il cambio di rotta - più donne, più giovani, più attenzione al merito - ha del clamoroso per un mondo tradizionalista come quello delle toghe. Diceva ieri il ministro Andrea Orlando intervenendo all’inaugurazione dell’Anno giudiziario: «Si sta rompendo il tetto di cristallo che impediva alle donne l’accesso alla guida degli uffici giudiziari. Dobbiamo andare avanti su questa strada partendo dal dato che vede ormai un sostanziale equilibrio di genere nella composizione della magistratura».
Evidentemente stanno meritando i loro successi, le donne in toga. C’è un’altra statistica fondamentale nella relazione del procuratore generale, in una materia che gli compete strettamente: se uomini e donne in magistratura sono in numero pressoché uguale, salta però agli occhi che i magistrati oggetto di procedimenti disciplinare sono al 69,2% uomini e 30,8% donne. A controprova di come sia aumentato il peso specifico femminile in magistratura, però, c’è anche un caso negativo. È una donna, infatti, anche la protagonista della vicenda più dolorosa che la magistratura sta vivendo: l’ex presidente delle Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, indagata dai colleghi di Caltanissetta per un uso spregiudicato dei beni confiscati alla mafia, sospesa dal Csm. Guarda caso, ha trascinato nello scandalo anche due prefette, amiche sue. Uno scandalo, quello di Palermo, tutto in rosa.
La svolta sulla Riforma
Il Papa sarà in Svezia all’anniversario di Lutero
Per i 500 anni scelta ecumenica di cattolici e protestanti
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 26.01.2016)
CITTÀ DEL VATICANO L’inizio della Riforma è considerato il 31 ottobre del 1517, l’affissione delle 95 tesi sul portone della chiesa di Wittenberg, ma il momento più drammatico è quando il monaco Martin Lutero parlò alla Dieta di Worms, 18 aprile 1521, per dire «non confido né nel Papa né nel solo Concilio, poiché è certo che essi hanno spesso errato e contraddetto loro stessi» e affidarsi alla sola scriptura e alla propria coscienza «prigioniera della Parola di Dio».
Bisogna partire da qui, per misurare la portata del gesto epocale del Papa, mezzo millennio più tardi: Francesco parteciperà a una cerimonia congiunta fra la Chiesa cattolica e la Federazione luterana mondiale per commemorare il cinquecentesimo anniversario della Riforma. In un comunicato congiunto, si spiega che la «commemorazione ecumenica» si svolgerà il 31 ottobre di quest’anno nella città svedese di Lund, e sarà presieduta dal pontefice assieme al vescovo Munib A. Younan e al reverendo Martin Junge, presidente e segretario generale della Federazione luterana mondiale.
«Sono profondamente convinto che adoperandoci per la riconciliazione fra Luterani e Cattolici operiamo per la giustizia, la pace e la riconciliazione in un mondo lacerato dai conflitti e dalla violenza», spiega il reverendo Junge. Il cardinale Kurt Koch ha spiegato che la commemorazione ecumenica sarà possibile «concentrandosi insieme sulla centralità della questione di Dio e su un approccio cristocentrico».
Il cammino di riavvicinamento prosegue dal Concilio. Un momento importante è stata la «Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della giustificazione» che nel 1999 superò secoli di dispute teologiche. Resta memorabile il gesto di Benedetto XVI a Erfurt, il 23 settembre 2011, nella chiesa dell’ex convento degli agostiniani dove Lutero si formò dal 1505 al 1511: l’elogio di Lutero e della sua «passione profonda, molla della sua vita e dell’intero suo cammino» per «la questione su Dio» e le considerazioni di Ratzinger sul «pensiero» e la «spiritualità del tutto cristocentrica» del padre della Riforma, «la sua scottante domanda: come mi trovo davanti a Dio?, deve diventare di nuovo, e certo in forma nuova, anche la nostra domanda».
Il cammino è ancora lungo. Ma non a caso l’annuncio è arrivato, ieri, alla fine della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. «Mentre siamo in cammino verso la piena comunione tra noi, possiamo già sviluppare molteplici forme di collaborazione per favorire la diffusione del Vangelo. E camminando e lavorando insieme, ci rendiamo conto che siamo già uniti nel nome del Signore», ha detto ieri Francesco durante i Vespri celebrati nella basilica di San Paolo fuori le Mura con i rappresentanti delle altre confessioni cristiane. Francesco, la sera dell’elezione nella Sistina, si presentò come vescovo della Chiesa di Roma «che presiede nella carità tutte le Chiese»: una citazione di Ignazio di Antiochia, Padre della Chiesa indivisa del II secolo, come segnale a tutti i cristiani.
Le parole di Bergoglio hanno richiamato ieri sera i mea culpa di Wojtyla: «In questo Anno giubilare straordinario della Misericordia, teniamo ben presente che non può esserci autentica ricerca dell’unità dei cristiani senza un pieno affidarsi alla misericordia del Padre. Chiediamo anzitutto perdono per il peccato delle nostre divisioni, una ferita aperta nel Corpo di Cristo. Come vescovo di Roma e pastore della Chiesa cattolica, voglio invocare misericordia e perdono per i comportamenti non evangelici tenuti da parte di cattolici nei confronti di cristiani di altre Chiese. Allo stesso tempo, invito tutti i fratelli e le sorelle cattolici a perdonare se, oggi o in passato, hanno subito offese da altri cristiani». Il Papa ha concluso: «Non possiamo cancellare ciò che è stato, ma non vogliamo permettere che il peso delle colpe passate continui a inquinare i nostri rapporti. La misericordia di Dio rinnoverà le nostre relazioni».
Il dilemma su opere e fede
di Giuseppe Galasso (Corriere della Sera, 26.01.2016)
È difficile non percepire il rilievo storico della partecipazione di papa Francesco all’avvio nel prossimo ottobre, a Lund, delle celebrazioni in vista del cinquecentesimo anniversario di quell’affissione delle 95 Tesi di Lutero alla porta della chiesa del castello di Wittenberg (31 ottobre 1517), che è stata da sempre assunta come data di nascita della Riforma protestante. Molti colloqui tra protestanti e cattolici vi furono nei primissimi tempi della Riforma, e puntò le sue carte su una loro conciliazione Carlo V come sovrano del Sacro romano impero.
Nel 1541 si tenne l’incontro sostanzialmente decisivo di questi ripetuti tentativi. Vi fu presente per i cattolici il cardinale Gasparo Contarini, noto esponente dell’ala moderata della Curia romana. Da parte protestante vi parteciparono Filippo Melantone e Martin Bucer, personalità eminenti del campo opposto.
L’incontro si arenò del tutto sulla questione della Dottrina della giustificazione del cristiano (solo per la fede, come per Lutero, o per la fede e per le opere, come per la Chiesa cattolica?), che implicava quella del ruolo della Chiesa nella vita dei fedeli e nel mondo, nonché quella della posizione e del ruolo del papa nella Chiesa.
In seguito il solco tra cattolici e protestanti si fece molto più largo e profondo di quanto si sarebbe mai potuto pensare fra credenti che si rifacevano tutti al nome e alla parola del Cristo, con conseguenze sanguinose e devastanti nella storia d’Europa e all’interno di ciascuna delle due confessioni cristiane, di cui l’una considerava l’altra come l’impero del male.
Tranne poche eccezioni, un diverso orizzonte si aprì solo col Concilio Vaticano II e con i papi Giovanni XXIII e Paolo VI. Dal Concilio uscì una dottrina dell’ecumenismo come dimensione essenziale della condizione di una vera confessione cristiana, cui si accompagnò pure l’istituzione di un Segretariato vaticano per la ricerca dell’unità fra i cristiani. Sono due prospettive diverse. L’ecumenismo va molto oltre i confini tra i cristiani e abbraccia tutte le altre maggiori religioni.
Quanto a protestanti e cattolici, si è svolto dopo il Concilio un lavoro intensissimo, che giunse nel 1999 a una dichiarazione congiunta sul punto dottrinario di maggiore contrasto, quello della giustificazione. Il documento è, peraltro, più una registrazione sinottica delle due diverse posizioni che una loro effettiva mediazione. Nel frattempo si sono moltiplicate le cerimonie comuni, le concelebrazioni, gli incontri e le altre iniziative che attestano il grande miglioramento del clima dei rapporti fra le due confessioni.
La presenza del Papa a Lund - una novità assoluta, si dica pure gigantesca, del tutto imprevedibile fino a ieri - potrà significare o portare a qualcosa di diverso? Il peso di un passato non casuale né immotivato rende difficile pensare a una totale vanificazione di contrasti di idee che ebbero ragioni profonde e per nulla pretestuose. Ma neppure si pensava che dal Concilio Vaticano II si giungesse fin dove ora si è giunti. Il passato ammonisce anche, infatti, a essere molto prudenti nelle previsioni.
La replica del capolavoro realizzata con l’impiego di tecniche antiche e moderne. L’opera finanziata da un’associazione di magnati internazionali
di Marco Gasperetti *
FIRENZE - Mai copia fu così attesa, mai replica così blasonata. Basta guardare le foto e il video che pubblichiamo in anteprima per comprendere questo primato. Dopo 40 mila ore e 4 anni di lavoro, 3,5 tonnellate di bronzo cesellato finemente come l’oro con arte antica e modernissime tecnologie e 50 mila metri cubi di gas per accendere il forno di cottura, la copia della Porta Nord del Battistero di Firenze (l’originale del Ghiberti, capolavoro del Rinascimento, è custodito al museo dell’Opera del Duomo) sarà svelata per la prima volta il 23 gennaio a Firenze. E’ un evento. Replica e restauro sono stati realizzati grazie a 4,2 milioni di euro dell’Opera di Santa Maria del Fiore e della Guild of the Dome, associazione formata da magnati internazionali presieduta dall’imprenditore Enrico Marinelli.
La Porta Nord è la seconda delle tre porte del Battistero di San Giovanni a Firenze e, capolavoro nel capolavoro, è composta da 28 formelle dedicate a Nuovo Testamento, Evangelisti e Dottori della Chiesa. «E’ stata restaurata per la prima volta dopo sei secoli dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze - spiegano all’Opera di Santa Maria del Fiore - e durante i lavori è riemersa la meravigliosa doratura originale presente nei rilievi scultorei delle formelle, nelle testine di Profeti e Sibille e nel bellissimo fregio a motivi vegetali brulicante di piccoli animali». Insomma, un monumento che già troneggia nel museo dell’Opera del Duomo. Adesso la sua replica la sostituirà con tutta la sua opulenza.
I numeri della sua costruzione, in quattro anni di lavoro, sono anch’essi da capolavoro di modernità. I costruttori hanno impiegato 6 mesi di studio per apprendere le tecniche con la quale Ghiberti costruì la Porta Nord. Sono state realizzate 56 formelle (28 per la replica ad arte e 28 per i donatori). Sono state impiegate 15 persone a tempo pieno e 350 sono le ore spese di cesello per ognuno dei 28 pannelli. Sono stati utilizzati 1 tonnellata di silicone per poter fare i calchi dei pannelli e dei fregi della cornice, 400 chili di cera per realizzare gli stampi, 3,5 tonnellate di bronzo, 15 tonnellate di materiale refrattarii e 50.000 metri cubi di gas per accendere il forno di cottura.
L’Associazione Guild of the Dom, che insieme all’Opera di Santa Maria del Fiore ha finanziato l’opera, è stata fondata da imprenditori di tutto il mondo. «Che hanno in comune il desiderio di supportare I valori universali artistici, sociali ed etici alla base del complesso monumentale della Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze. - spiega Enrico Marinelli, il presidente -. La Guild si propone di operare con lo stesso intento che animava le Arti o Corporazioni fiorentine che finanziarono la costruzione della complesso oltre sette secoli fa».
* Corriere della Sera, 17 gennaio 2016 (ripresa parziale).
"Corrotti perdono pudore e dignità, provino vergogna"
Esce libro. "Mai emarginare i gay, ogni creatura è amata da Dio"
di Fausto Gasparroni (Ansa, 12 gennaio 2016)
ROMA "Sì, io credo che questo sia il tempo della misericordia". E’ quasi un vademecum per il Giubileo il libro-intervista di papa Francesco con Andrea Tornielli, "Il nome di Dio è misericordia" (Piemme, pp. 120, 15.00 euro), uscito oggi in 86 Paesi e presentato a Roma con ospiti come Roberto Benigni e il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin. "La Chiesa mostra il suo volto materno, il suo volto di mamma, all’umanità ferita - vi afferma Bergoglio -. Non aspetta che i feriti bussino alla sua porta, li va a cercare per strada, li raccoglie, li abbraccia, li cura, li fa sentire amati".
Nell’agile volume c’è tutta la visione di Francesco sulla misericordia, vero balsamo per "l’umanità ferita" del terzo millennio, cui ha voluto dedicare l’Anno Santo straordinario ponendola al centro della stessa idea di cristianesimo: "la misericordia è la carta d’identità del nostro Dio. Dio di misericordia. Dio misericordioso. Per me questa è davvero la carta d’identità del nostro Dio". Rivelando tra l’altro come una prima idea dell’Anno giubilare l’ebbe in embrione in una tavola rotonda tra teologi ai tempi di Buenos Aires: "si discuteva su che cosa il Papa potesse fare per avvicinare la gente, di fronte a tanti problemi che sembravano senza soluzione. Uno di loro disse: ’Un giubileo del perdono’. Questo mi è rimasto in mente". Forte l’accento posto dal Papa sul valore del sacramento della penitenza, sui confessori che devono avere "tenerezza" e "non allontanare" la gente che "soffre". E se, da una parte, "andare a confessarsi non è come andare a portare il vestito in tintoria", dall’altra i confessionali "non devono mai essere stanze di tortura". "A volte desidererei poter entrare in una chiesa e sedermi ancora in confessionale", confida Francesco. La stessa giustizia terrena "è più giusta, realizza davvero se stessa", se attuata "con la misericordia". Ecco quindi la crescita nella coscienza mondiale del "rifiuto della pena di morte". Bene anche "quanto si sta cercando di fare per il reinserimento sociale dei carcerati". La misericordia divina, insomma, "contagia l’umanità".
Tuttavia le parole più forti del Pontefice sono ancora sulla piaga della corruzione, un peccato che "viene elevato a sistema, diventa un abito mentale, un modo di vivere". "Il corrotto - denuncia Francesco - è così chiuso e appagato nella soddisfazione della sua autosufficienza che non si lascia mettere in discussione da niente e da nessuno. Ha costruito un’autostima che si fonda su atteggiamenti fraudolenti: passa la vita in mezzo alle scorciatoie dell’opportunismo, a prezzo della sua stessa dignità e di quella degli altri". Per il Papa, "il corrotto ha sempre la faccia di chi dice: ’Non sono stato io!’. Quella che mia nonna chiamava ’faccia da santarellino’". Il corrotto, in altre parole, "è quello che s’indigna perché gli rubano il portafoglio e si lamenta per la scarsità di sicurezza che c’è nelle strade, ma poi truffa lo Stato evadendo le tasse e magari licenzia i suoi impiegati ogni tre mesi per evitare si assumerli a tempo indeterminato oppure sfrutta il lavoro in nero. E poi si vanta pure con gli amici di queste sue furbizie". E’ quello "che magari va a messa ogni domenica, ma non si fa alcun problema nello sfruttare la sua posizione di potere pretendendo il pagamento di tangenti". La corruzione, insomma, "fa perdere il pudore", mentre "il corrotto spesso non si accorge del suo stato, proprio come chi ha l’alito pesante e non se ne rende conto". Il Papa lo ripete più volte: "peccatori sì, corrotti no!", perché nell’animo dei secondi non c’è il pentimento e la richiesta di perdono. "Dobbiamo pregare in modo speciale, durante questo Giubileo - aggiunge -, perché Dio faccia breccia anche nei cuori dei corrotti donando loro la grazia della vergogna, la grazia di riconoscersi peccatori bisognosi del Suo perdono".
Bergoglio torna con chiarezza anche sul tema dei gay: "persone omosessuali", vuole che le si chiami, perché "prima c’è la persona, nella sua interezza e dignità. E la persona non è definita soltanto dalla sua tendenza sessuale: non dimentichiamoci che siamo tutti creature amate da Dio, destinatarie del suo infinito amore". "Puoi consigliare loro la preghiera, la buona volontà, indicare la strada, accompagnandole", risponde a una domanda sulla sua esperienza di confessore. E a proposito della sua celebre frase "Chi sono io per giudicare?" afferma: "Avevo detto in quella occasione: se una persona è gay, cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla? Avevo parafrasato a memoria il Catechismo della Chiesa cattolica, dove si spiega che queste persone vanno trattate con delicatezza e non si devono emarginare".
Inciviltà di genere
Colonia. Donne vittime e profittatori maschi dello scontro di civiltà
di Giuliana Sgrena (il manifesto, 10.01.2016)
Se fosse stato un attacco preordinato - ma non c’è nessuna prova per sostenerlo - sarebbe stato perfetto. Mentre tutta l’Europa si prepara militarmente e psicologicamente ad affrontare attentati terroristici la maggiore destabilizzazione arriva nella notte di capodanno in piazza. In diverse piazze della Germania - Colonia, Amburgo, Stoccarda - ma anche Zurigo ed Helsinki.
Una massa incontrollabile di maschi - di origini arabe o musulmane, forse anche richiedenti asilo, ma ci sono anche occidentali, ubriachi, armati di bottiglie, anche qualche molotov, coltelli e forza bruta - aggrediscono le donne, tutte quelle che si trovano di fronte, sulla strada, le picchiano, feriscono, stuprano, perfino derubano, la polizia non può, non sa, non ha i mezzi per intervenire. Tanto che ad Amburgo sono i buttafuori dei locali notturni a salvare le donne aprendo le porte dei locali che proteggono.
È un attacco molto diverso da quello che è avvenuto a Parigi - al quale è stato da alcuni media paragonato - non sono locali di musica, ristoranti o la sede di un giornale satirico - i simboli della laicità francese - ad essere colpiti, ma la piazza come luogo di incontro di tutti e le donne, che simbolizzano il nemico - il diavolo verrebbe da dire - per i sostenitori di una cultura misogina e patriarcale.
Non solo tra i musulmani, la barbarie è ovunque. Aggredire, violentare le donne vuol dire colpire un genere nella sua più profonda identità e intimità, vuol dire usare strumenti che sono purtroppo diventati usuali nelle guerre e non solo moderne.
Un attacco di questo tipo non spinge a uscire per dimostrare di essere ancora presenti - anche se c’è chi lo fa - nonostante le bombe e i kamikaze, si può rischiare una pallottola ma andare incontro a uno stupro è diverso.
Eppure ieri le donne sono scese di nuovo coraggiosamente in piazza contro le violenze subite e contro la destra anti-islam e i neonazisti, pronte ad accusare «i nemici, uguali dappertutto, del sessismo e del fascismo». Nonostante la gente resti attonita e, colpita psicologicamente, cancella la partecipazione al famoso carnevale di Colonia.
Se fosse stato un atto terroristico sarebbe riuscito perfettamente. Ma anche se fosse stato organizzato dalle bande naziste e xenofobe, del resto i terroristi - anche quelli dell’Isis - non hanno forse la stessa ideologia fascista? La destra tedesca vedrebbe in questi atti confermata la sua previsione: verranno i barbari e stupreranno le nostre donne. E anche se non è così, la destra più estrema ne sta già approfittando. Ma anche tutta quella che vuole il respingimento dei migranti e Angela Merkel pagherà sicuramente - in termini elettorali - la sua politica di accoglienza, anche se finora era riuscita a contenere le opposizioni. La sua reazione a questi fatti è stata infatti molto dura.
Le reazioni sono state ritardate dai rapporti edulcorati della polizia che ha peccato oltre che per il mancato intervento anche per l’eccesso di politically correct: i temi della migrazione, dei profughi, dell’islam e la violenza sono tabù in Germania.
È chiaro che se tra le bande che hanno attaccato le donne ci fossero stati anche profughi o richiedenti asilo saranno loro a pagare il prezzo più alto o comunque lo saranno soprattutto i prossimi profughi che cercheranno di approdare sul territorio europeo. Lo vediamo anche in Italia dove la legge per l’abolizione del reato di clandestinità - che doveva passare tra breve in parlamento - sarà con ogni probabilità rinviata, con il beneplacito di tutti, a non si sa quando.
Ancora una volta possiamo dire che le donne sono state le vittime di questo criminale assalto ma saranno i maschi sostenitori dello scontro di civiltà ad approfittarne.
MARIA MANTELLO -L’8 dicembre, l’Immacolata Concezione, tra paganesimo e controllo sociale *
Apuleio, nelle Metamorfosi ci presenta questa apparizione:
È Iside che appare al protagonista Lucio, al momento della sua iniziazione-rinascita, ma la descrizione potrebbe tranquillamente riferirsi alle tante raffigurazioni di Maria, la madre del dio fatto uomo, La Vergine dall’Immacolata Concezione.
L’inno di s. Ambrogio
Nel suo inno di Natale, s. Ambrogio loda Il Redentore che ha fecondato Maria col suo "mistico soffio": «Veni, Redemptor Gentium, / Ostende partum virginis/ ...Non ex virili semine/ Sed mystico spiramine/ Verbum Dei factum est caro/ Fructusque ventris floruit» (Vieni Salvatore delle Genti, Rivelaci il parto verginale... non da seme umano/ ma da soffio mistico/ il Verbo di Dio si è fatto carne/ e il Frutto del ventre maturò). Si tratta del mito della fecondazione attraverso l’orecchio ("conceptio per aurem") usata dai padri della Chiesa per spiegare la verginità della Madonna e che richiama il mito pagano dove si credeva che la donnola, fosse fecondata attraverso l’orecchio. E questo molto probabilmente, come ha osservato uno dei più grandi esperti di mitologia, Karoly Kerenyi, suggerì ai padri della Chiesa che Maria fosse stata fecondata da dio attraverso le parole dell’angelo annunciatore.
Simone Martini, nella sua celebre "Annunciazione" conservata agli Uffizi, fa spiccare sul fondo oro della tavola, su cui si stagliano le figure dell’Angelo e della Madonna, le parole del versetto del Vangelo di Luca: Ave gratia plena, Dominus tecum, che si dipartono dalla bocca dell’angelo fino all’orecchio di Maria. E ancora, in un’altra celebre "Annunciazione" del 1486 di Carlo Crivelli (conservata alla National Gallery di Londra), c’è un raggio che dal cielo si dirige all’orecchio della Madonna.
Dalla Dea madre alla Madre di Cristo
La grande dea madre, che simboleggiava la nascita della natura tutta, con Maria, diviene la piena di grazia, l’ancella del Signore, la madre "puro spirito" di un figlio "puro spirito".
Tuttavia, nella società contadina dove la fertilità era considerata un valore primario, Maria sostituisce questi culti, prendendo il posto di Demetra, nel caso della madonna del frumento a Milano o quella del melograno di Pestum, al pari di tante altre Madonne sparse nel mondo dall’evangelizzazione cattolica.
A Capo Colonna, vicino Crotone, su una scogliera che domina il Golfo di Taranto, si ergeva un maestoso tempio dedicato ad Era Lacinia, protettrice dei matrimoni. Qui nel mese di maggio le donne di Crotone si recavano in processione per chiedere grazie alla dea. Oggi questa stessa processione si svolge, ma in onore di Maria Theotokos, la Madre di Dio.
Nell’"Apocalisse", Maria è la donna rivestita del sole, con la luna sotto i piedi e una corona di stelle sul capo. E così è raffigurata nella stragrande maggioranza dell’iconografia che ha accompagnato fino ai nostri giorni il suo culto.
Una divinità lunare, dunque, come anche s. Bonaventura nei Proverbi la definiva: «che bella luna deve essere stata Maria quando quell’eterno Sole fu da lei pienamente ricevuto e in lei concepito (7.20)». Le divinità lunari, per la relazione della luna con le maree, erano associate al mare, ma anche alle stelle, come guida nella navigazione, impresa certamente non facile nell’antichità.
E Maria diviene la Stella maris, che guida nelle tempeste, e nel buio della notte del peccato (d’ogni fedel nocchier fidata guida, come la definì anche Petrarca), ma anche la protettrice dei marinai.
Originariamente, stella del mare (stella maris) era Afrodite, la prima a comparire sul far della sera, e la prima a scomparire alle prime luci dell’alba. Al Vespro era detta Espero, e all’alba Fosforo. Un canto mariano assai noto ne conserva la memoria nella metabolizzazione della stella Maria: De l’aurora tu sorgi più bella, coi tuoi raggi a far lieta la terra. E fra gli astri che il cielo rinserra/ Non vi è stella più bella di te...
Attraverso Maria, la piena di grazia, quindi, i simboli cosmici della fertilità della terra e delle acque, legati alle dee madri continuano a veicolare.
A ricordo della vita cosmica, l’Immacolata Concezione conserva sul suo mantello il colore azzurro del cielo e del mare; il serpente sotto i suoi piedi. Il serpente cosmico, da simbolo di perenne vitalità e di conoscenza, è stato però trasformato dal cattolicesimo in emblema di peccato, e, primo su tutti, quel peccato originale di cui tutta l’umanità sarebbe macchiata, e sul quale si è costruita e incentrata l’ideologia del riscatto attraverso la grazia del cattolicesimo (cfr: Maria Mantello, Sessuofobia e caccia alle streghe nella storia della chiesa, in "Lettera Internazionale", n°69).
Ecco allora, che alla Vergine Maria si fa schiacciare il serpente, il peccato di unione sessuale. Ma nello schiacciare la vita concreta terrena, tuttavia, sono proprio quei simboli evocativi così carnali, che continuano a veicolare.
L’Immacolato concepimento della Madonna e di Cristo...
Il peccato originale, com’è noto, costituisce la base e il punto di partenza del Cristianesimo. Il sacrificio sulla croce del Dio-uomo, infatti, sarebbe inconcepibile sul piano dottrinario senza la presupposizione di un tale peccato, che quel sacrificio giustifica ai fini della salvezza escatologica di un’umanità “macchiata” e altrimenti condannata dal Dio padre alla dannazione eterna.
Poiché “il peccato” imbratta ogni nato bisogna che Cristo, il Dio-uomo, che proprio al riscatto da quella colpa originaria è stato preposto ne deve essere assolutamente immune.
Teologi ed ecclesiastici si preoccupano, allora, che sia concepito in un grembo immacolato.
Così in suo Decretale del 392 scriveva Papa Siricio: «Gesù non avrebbe deciso di nascere da una vergine, se non fosse stato certo della sua assoluta castità: che il suo grembo, in cui il corpo del Signore si sarebbe formato, dominio dell’Eterno Re, fosse stato insudiciato da seme maschile. Chi sostenesse questo non penserebbe in modo difforme dai perfidi ebrei».
Il concepimento ebraico narrato nella Bibbia da Isaia, dove «una giovane donna concepirà e partorirà un figlio e lo chiamerà Emmanuele» (7,14) è pertanto, trasformato dalla Chiesa in parto virginale.
Il mito pagano della partenogenesi lo si trova anche nel mondo classico e serviva a conferire una sorta di eccezionalità a personaggi illustri: si pensi a Platone (fonte: Diogene Laerzio) e ad Augusto (fonte: Svetonio) figli di Apollo, o ad Alessandro figlio del fulmine (fonte: Plutarco). Ma il cristianesimo, spogliatolo d’ogni significato metaforico, lo assume come fatto biologico reale.
La giovane donna fertile, l’alma della narrazione ebraica d’Isaia, diverrà allora Vergine: prima, durante e dopo il parto.
In tanta ossessione virginale, però, si trascura, ad esempio, che il vangelo di Marco, scritto attorno agli ultimi trenta anni del I secolo, parli esplicitamente di fratelli e sorelle di Gesù: «Non è costui il falegname, il figliuolo di Maria, e il fratello di Giacomo e di Giosè, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?» ( Marco, 6.3).
Del resto il vangelo di Matteo, non escluderebbe rapporti matrimoniali tra Maria e Giuseppe, ma rinviarli semmai a dopo la nascita di Gesù: «ma egli (Giuseppe, ndr.) non ebbe con lei rapporti coniugali, finché ella ebbe partorito il suo figlio primogenito, al quale pose nome Gesù. » (Matteo, I. 25). Ma per la Chiesa romana, la madre del Cristo sarà la sempre vergine, secondo la definizione della Volgata di s. Gerolamo (morto nel 420 ca.), dove gli originari termini ebraici di fratelli e sorelle sono opportunamente sostituiti con quelli di cugini e cugine.
L’ossessione della castità e il fiat mariano
La difesa della castità nella terrena famiglia del Gesù cristiano è talmente importante per la dottrina cattolica che la stessa Vergine Maria si vuole concepita senza macchia e lo stesso Giuseppe, suo sposo, è fatto vergine, nonostante il protovangelo di Giacomo (del II secolo), seppure allo scopo di salvaguardare inviolato l’imene della Madonna, parli di fratellastri di Gesù (evidentemente, i figli avuti da Giuseppe da precedenti nozze).
Ma la madre del Redentore non è solo la Vergine, è anche l’Ancilla Domini.
Mentre in tutti gli altri casi il “miracolo” creazionistico, il “dono divino” della vita avviene, infatti, servendosi di un maschio, nel caso di Gesù esso è realizzato direttamente da dio.
Anzi, il dio-maschio evidenzia tutta la sua forza di dominio e d’onnipotenza proprio in virtù di questo concepimento virginale, dove la partecipazione all’evento della “prescelta Maria” è risolta nella comunicazione del fatto avvenuto e, per giunta, attraverso terzi: l’angelo. Alla donna-Maria, allora, non resta che far pronunciare il famoso fiat.
Un fiat ed una verginità che percorrono tutta la dottrina cattolica, e che ai giorni nostri in particolare papa Wojtyla ha riaffermato con forza con l’enciclica Redemptoris Mater.
Il dualismo Eva la strega - Maria la santa
Il mito dell’Incarnazione e della Madre Vergine, risponde ad un ben preciso criterio d’economicità asessuata: sostituire e contrapporre alla prima donna, Eva, una nuova prima donna, Maria.
Assai esplicite, già nel III secolo, le affermazioni in tal senso.
Ad esempio, s. Ireneo (morto intorno al 202) dichiara: «Come la razza umana fu condannata alla dannazione per colpa di una vergine (Eva, ndr.) [...] l’astuzia del serpente fu vinta dalla semplicità di una colomba». (Adversus Haereses, I, 5-19).
Ma è tutto il mito dell’incarnazione cristiana per il riscatto dell’umanità dal peccato originale a strutturarsi su una sorta d’incontaminata purezza: con la casta Maria, che si contrappone alla peccatrice Eva; col casto Cristo, il nuovo capostipite di un’umanità redenta, che già s. Paolo aveva sostituito ad Adamo per la fondazione della primigenia eternità cristologia (cfr: I Corinzi 15-22; II Corinzi 5-17; Romani 5-14).
Un uomo nuovo ed una donna nuova, dunque, servono per riscrivere il Genesi ed annunciare il Verus Israel. Solo così il cristianesimo può porsi come Verità superiore, Eterna, Rivelata, Unica ed Universale, quindi Cattolica, da kata olou (katà òlou) che significa “in tutto”, “su tutto”.
Come nasce il dogma della Madre di Dio immacolata
La questione dell’incarnazione divina di Cristo ha lacerato il mondo cristiano fin dai primi secoli. Tra il IV e V secolo, sulle controversie cristologiche si giocano non solo le lotte di potere dei vescovi, ma anche quelle per la superiorità del cristianesimo sull’ebraismo e sul mondo pagano. E’ in questo contesto che Maria prende il posto delle Grandi Dee della classicità e, seppure tra forti contrasti teologici, diventa la madre di Dio.
Nel V secolo il vescovo di Costantinopoli, Nestorio, faceva notare come Maria non potesse essere generatrice di Dio, ma solo madre dell’uomo: anqrwpotòkos (anthropotòkos). Affermare il contrario avrebbe significato, infatti, negare la preesistenza di Dio all’evento e, quindi, la Sua stessa eternità. Una questione non soltanto logica ma inerente alla sostanza dell’unico dio: «se dio avesse una madre - scriveva Nestorio al Vescovo di Roma Celestino I - la vera fede non ne risentirebbe? Maria non ha messo al mondo una divinità perché l’essere creato non può essere madre di colui che l’ha creato».
Come andò a finire è cosa nota: il Concilio di Efeso, nel 431, condannò come assurde ed eretiche le posizioni di Nestorio. L’artefice di tutta l’operazione era stato il patriarca di Alessandria, s.Cirillo. Questi si era distinto nella persecuzione contro gli ebrei: in Egitto si era impadronito di tutte le sinagoghe e aveva scacciato più di 100.000 ebrei da Alessandria, era stato il mandante dell’assassinio della filosofa Ipazia, violentata e fatta a pezzi dai suoi monaci analfabeti... E che adesso voleva affermare la sua supremazia tra le chiese d’Oriente e, pertanto, si affannava ad organizzare le sue orde di monaci fanatici, tutori della “pubblca morale” e processioni di fedeli osannanti alla Madonna, quella Vergine Maria che, proprio ad Efeso, la capitale del culto di Artemide, verrà proclamata madre di Dio: qeotòkos (theotòkos).
La questione della Verginità, però, non si chiudeva ad Efeso, giacché il V Concilio ecumenico di Costantinopoli del 553 si preoccupava ancora di onorare Maria col titolo di "sempre vergine" e il Concilio Lateranense del 649 ne sanciva infine il dogma. Qualche secolo dopo, di fronte alla rivoluzione della Riforma protestante, Paolo IV, nel 1555, anno in cui egli istituisce anche gli obbligatori ghetti per gli ebrei, riaffermava con forza la verginità di Maria (ante partum, in partu, post partum).
Del resto, di fronte a fermenti rivoluzionari che pongono in crisi il cattolicesimo e i suoi poteri, non ci sarà sempre una Madonna, magari piangente, posta a vestale di Controriforme e Restaurazioni?
La purezza della Vergine Maria come potente baluardo per la riaffermazione della dommatica cattolica!
Per le donne, un modello di castità cui conformarsi che la mitologia cattolica amplifica nella moltiplicazione di sante, quasi sempre vergini e, comunque, in lotta contro il “peccato della carne” al quale non cedono, a costo di torture e sofferenze tremende.
Pio XII e Santa Maria Goretti
Da quest’ampia schiera citiamo s. Maria Goretti anche perché riproposta ai nostri giorni da Wojtyla, nonché dalla televisione pubblica italiana che alla vicenda della giovinetta, forse in omaggio al Vaticano, ha dedicato una propria produzione filmica.
La poveretta, morta nel 1902 sotto i colpi del pugnale del seduttore a cui non aveva ceduto, veniva santificata nel 1950 da Pio XII con queste parole: “Dio è meraviglioso nei suoi santi...Egli ha dato alle giovani del nostro mondo crudele e degradato un modello e una protettrice, la piccola vergine Maria che ha santificato l’inizio del secolo col suo sangue innocente”.
Maria Goretti era continuamente portata ad esempio - come papa Pacelli voleva - e la visita alla sua casa era considerata una tappa importante per la formazione di una ragazza perbene.
Erano gli anni dell’avanzata delle sinistre e della partecipazione delle donne alla politica, “una deriva di degradazione” a cui la Chiesa cercava di contrapporre come deterrente il modello virginale mariano di cui la povera Maria Goretti rappresentava un fulgido esempio.
Pio IX l’Immacolata Concezione, Pio XII l’Assunzione in cielo della sempre Vergine
Del resto, circa un secolo prima, quando il processo risorgimentale italiano stava ponendo irreversibilmente in crisi la teocrazia pontificia, un altro papa oggi santo, Pio IX, non aveva utilizzato anch’egli ad efficace fortilizio il mito della purezza mariana, stabilendo nel 1854 il dogma dell’Immacolata Concezione della Madonna?
Pertanto, rientra perfettamente nella logica ecclesiale che Pio XII, nello stesso anno della santificazione di Maria Goretti, si sia preoccupato anche di definire il dogma dell’Assunzione della Madre di Cristo in cielo: “Era necessario che il corpo di colei, che anche nel parto aveva mantenuto la verginità, rimanesse incorrotto anche dopo la morte”. (Munifecentissimus Deus, definizione del dogma dell’Assunzione in anima e corpo alla gloria dei cieli di Maria, Vergine Madre di Dio)
Così la Madonna, che aveva avuto la patente del Concepimento Virginale, di essere rimasta sempre Vergine, di essere stata essa stessa generata senza contaminazione sessuale (Immacolata Concezione), proprio per la garanzia di castità sua e familiare, aveva assicurato anche il dogmatico lasciapassare d’incorruzione corporea per il cielo.
Maria Mantello
Violenza donne? Per un giovane su 3 è fatto privato coppia.
25 novembre Giornata internazionale
Rapporto ’Rosa shocking 2’, violenza su donne è realtà culturalmente strutturata
(di Angela Abbrescia)
(ANSA) - La violenza domestica? Un fatto privato della coppia. Così la pensa quasi un giovane su tre in Italia, secondo quanto emerge da un sondaggio contenuto nel secondo Rapporto sulla violenza contro le donne e gli stereotipi di genere ’Rosa shocking 2’ curato da WeWorld Onlus insieme a Ipsos, con il Patrocinio della Camera e del Dipartimento per le Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio.
Nel sondaggio, l’obiettivo è capire come le nuove generazioni si posizionino su questi temi. In particolare, aumenta la percentuale, dal 19% al 22%, di chi dichiara che quello che accade in una coppia non deve interessare gli altri. Il 32% dei ragazzi tra i 18 e i 29 anni, poi, afferma che gli episodi di violenza vanno affrontati all’interno della mura domestiche. Non solo: l’aspetto istintivo legato alla violenza e il raptus momentaneo è per il 25% di questa fascia d’età giustificato e legittimato dal "troppo amore", oppure da una motivazione legata al preconcetto che le donne siano abili a ’esasperare’ gli uomini e che gli abiti succinti siano troppo provocanti, attribuendo, quindi, alle donne la responsabilità di far scaturire la violenza.
Nel rapporto si ricordano le dimensioni del fenomeno nel nostro Paese, i cui numeri continuano oggi ad essere allarmanti: sono 6 milioni 788 mila le donne che hanno subito, nel corso della propria vita, una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Di queste solo l’11,8% denuncia gli abusi subiti. Secondo l’analisi del Rapporto sugli investimenti in prevenzione nel biennio 2012-2014, è necessario continuare a promuovere investimenti che portino ad una miglioramento della capacità di prevenzione del fenomeno.
Nel 2013 infatti c’è stato un investimento di 16,1 milioni (il picco più alto mai registrato), anche frutto di una forte campagna mediatica, mentre nel 2014 ci si attesta intorno ai 14,4 milioni. Un calo che evidenzia, secondo la onlus, la necessità di continuare a lavorare con determinazione nella sensibilizzazione di uomini, donne e giovani soprattutto.
Dal rapporto emergono anche segnali timidamente positivi: per la prima volta quando si parla di prevenzione e diritti delle donne inizia a emergere l’immagine di una donna vincente, non più solo vittima, di cui si valorizzano le capacità psicologiche e morali, una figura forte e vincente capace di essere esempio di riscatto per le altre donne. Emblematici in questo senso gli episodi di cronaca riconducibili a Lucia Annibali, Rosaria Aprea e Jessica Rossi, che però restano ancora casi isolati.
Il 25 novembre è la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne e WeWorld Onlus, la ONG che si occupa in Italia e nel Sud del Mondo di garantire i diritti dei bambini e delle donne più vulnerabili, chiama le Istituzioni ad un’approfondita consapevolezza e reale presa di coscienza su come nel nostro Paese la violenza contro le donne non sia un fenomeno occasionale quanto, piuttosto, una realtà culturalmente strutturata e, al tempo stesso, ad una maggiore conoscenza degli aspetti economici e sociali, che tale fenomeno provoca, facendosi promotore del varo di politiche efficaci e preventive e, nel medio e lungo termine, a conseguire ad una contrazione del peso economico sulla comunità e del costo umano che tale situazione produce.
Negli occhi della Sibilla
Cappella Sistina. Nel libro «Io e Michelangelo», il restauratore Gianluigi Colalucci racconta la straordinaria relazione che nacque in quattordici anni di «vicinanza fisica» con il capolavoro del Buonarroti. Una passione che venne avversata e fu oggetto di roventi polemiche
di Antonio Forcellino (il manifesto, 18.11.2015)
È arrivato in libreria un volume che molti aspettavano, Io e Michelangelo, di Gianluigi Colalucci (Edizioni Musei Vaticani-24Ore Cultura, pp. 255, euro 19), nel quale l’uomo che per quattordici anni ha lavorato al restauro degli affreschi della Cappella Sistina, ha deciso di confessare «quello che non si può e non si scrive nei saggi scientifici, sentimenti, esaltazioni, angosce, riflessioni vissute per anni e anni sotto la volta, a tu per tu con quegli eterni giganti». Proprio grazie a questa disposizione d’animo che, in altre pagine, Colalucci attribuisce ironicamente all’età e alla perdita dei freni inibitori, ma che meglio sarebbe attribuire all’estrema libertà raggiunta con il tempo, l’autore rende finalmente comprensibili a tutti, cosa è veramente un restauro.
Furie americane
Il libro racconta una vicenda che è innanzitutto una vicenda umana e, come tale, godibile da ogni tipo di lettore. Lo fa con una scrittura asciutta, a tratti ironica, con i tempi narrativi che creano suspence in molti punti e suscitano fortissime emozioni in altri.Colalucci narra con i toni della sceneggiatura di un film neorealista la Roma dei suoi esordi e la notizia del suo ingaggio in Vaticano, con la bella immagine della moglie ad aspettarlo in camice bianco (anche lei restauratrice) sulla soglia dell’Istituto Centrale del Restauro, un ingaggio che metteva fine al suo esilio palermitano (pure ricordato con tenerezza in altri momenti) e restituisce in tutta la sua drammaticità la polemica che per quindici anni lo ha preso di mira con attacchi insensati e violenti, alimentati più dalla smania di apparire nei media di molti detrattori, che da motivate problematiche conservative.
Il racconto assume toni teatrali quando l’autore ricorda il brutale attacco subito a New York, in un elegante Club della Fifth Avenue, orchestrato da «un uomo sulla sessantina, ma ne dimostrava di più. Alto , corporatura imponente e pesante, aveva una voce calda e scura e capelli tinti, portava occhiali che in parte confondevano le due borse sotto gli occhi», e da un suo amico documentarista che sosteneva come gli affreschi non avessero bisogno di pulitura perché al di sopra di uno strato di fumo fermo a mezz’aria nella Cappella Sistina (gli anelli di Mercurio?) i dipinti apparivano in perfetto stato, e lui lo poteva testimoniare.
È su queste basi tanto «scientifiche» che la potenza e l’arroganza dei media americani riuscirono a montare una polemica su cui si inserirono in Italia gli interessi di ambienti che erano diversamente coinvolti e tentavano di ostacolare quel restauro: interessi tutti con chiarezza individuati e raccontati nel libro. Questo aspetto umano e sentimentale della vicenda offre materia emozionante al lettore, ma la vera sorpresa di questo volume è la capacità di affrontare temi ben più seri con la leggerezza dell’ affabulazione bonaria. Uno degli argomenti più interessanti riguarda la consapevolezza di non poter semplificare una procedura, qual è quella del restauro, che viene qui finalmente rivendicato apertamente come opera critica creativa e individuale: «La tecnologia e le indagini scientifiche molto avanzate dei giorni nostri permettono di ridurre al minimo i margini d’errore, ma sostanzialmente, che piaccia o no, il risultato di una pulitura sta nelle mani di chi opera (...). Da qui i lunghi momenti di riflessione in attesa dell’arrivo di quella corrente magnetica che deve legare l’opera alla mente del restauratore, in una fase che io considero il momento ’creativo’ del restauro».
Solo considerando questo impegno creativo e intellettuale del restauratore ci si potrà spiegare in che modo Colalucci abbia potuto portare a termine, insieme ad altre figure professionali, ai quali generosamente riconosce grandi meriti, un’impresa così difficile per l’estensione dei dipinti e la complessità del loro stato di conservazione e, oltretutto, in una condizione psicologica di prostrazione originata dalle continue aggressioni mediatiche. Ma che l’impegno sia stato soprattutto intellettuale lo dimostrano i passi bellissimi attraverso i quali Colalucci ci guida nella pittura di Michelangelo. Lo fa con modestia, rivelando senza paura di sembrare ingenuo - «quando facevo questa manovra sembravo un pazzo tranquillo» - i suoi tentativi di ripercorrere l’iter esecutivo di Michelangelo, riproducendone le pennellate una per una, intingendo l’inesistente colore in un’immaginaria ciotola di pigmento, per capire come e in quanto tempo l’artista aveva dipinto le figure delle lunette.
Da questa relazione sensuale e fisica con l’opera d’arte che finalmente viene rivelata in tutta la sua felicità, nasce quella comprensione così approfondita del dipinto che è condizione necessaria al suo buon restauro. Ma sono anche altri i problemi affrontati da Colalucci: sono i dogmi accademici contro i quali si è dovuto battere per portare a termine - e bene - il suo lavoro. Il più ottuso era quello che sosteneva una radicale diversità tra il Michelangelo pittore del Tondo Doni e il Michelangelo pittore della Volta Sistina, «la sua pittura su tavola, cromaticamente molto simile agli affreschi puliti, come il Tondo Doni, non era considerata valida dagli storici dell’arte per stabilire un nesso con la Sistina per via della diversità delle due tecniche pittoriche». Come se un artista cambiasse forme e colori, e in definitiva trasformasse il proprio «stile» a seconda del supporto su cui dipingeva.
Un’operazione meccanica?
Ma se queste «rigidità» possono apparire innocue divagazioni retoriche in un’aula universitaria, diventano pregiudizi pieni di conseguenze pratiche quando bisogna portare a termine un restauro di cui si sente tutto il peso e la responsabilità. Il contributo che questo libro porta alla Storia dell’arte italiana forse non è inferiore a quello dato da Gianluigi Colalucci con il restauro degli affreschi sistini perché - in modo straordinariamente efficace - si spiega non solo cosa sia un restauro, ma si rivela quanto acume critico e quanta intelligenza ci siano dietro un processo che per molti rimane banalmente un processo manuale e meccanico. Scorrendo le sue pagine, si capisce - meglio che in qualsiasi manuale accademico - che è solo grazie a questo acume e alle conoscenze accumulate con un training formativo d’eccellenza, quale è stato quello nell’Istituto Centrale del Restauro di Roma, che si è potuto raggiungere un risultato così rilevante.
Colalucci dopo averci regalato un Michelangelo che per la prima volta dopo secoli somiglia a Michelangelo (con buona pace dei pittori romantici d’America e d’Italia) ci regala con questo suo libro una testimonianza straordinaria su cosa sia il restauro delle opere d’arte, chiarendone la complessità, la natura, i lati oscuri e quella felicità del contatto amoroso con l’opera stessa che lo lascia, suo malgrado, dolorante quando la relazione con Michelangelo si interrompe e lui non è preparato all’abbandono. «Era come perdere all’improvviso una persona cara, un amico. Solo in quei momenti ti rendi conto di tutto quello che è finito con la sua morte e di quanto la sua presenza contasse per te». Sono parole semplici, che faranno sorridere gli spiriti sofisticati, ma che si voglia o no è questo il rapporto del restauratore con l’opera d’arte e, finalmente, qualcuno a cui dobbiamo molta riconoscenza lo ha detto per tutti.
L’augurio è che su questo libro riflettano soprattutto le istituzioni italiane che sembrano impegnate in ogni loro articolazione, soprintendenze, università, centri di Ricerca a fare del restauro una procedura meccanica da affidare alle ditte e non agli uomini. In questo panorama desolante è d’obbligo sottolineare la diversità dell’Istituzione Vaticana, e di Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani che ha voluto fortemente questo libro come scrive nella sua presentazione, e che da anni ormai testimonia quasi in solitudine la rara consapevolezza di cosa sia veramente il restauro.
La querelle alle spalle
Infine, qualcosa va detto per i più giovani lettori che stenteranno a capire la violenza delle polemiche scatenate negli anni ottanta e novanta, a livello mondiale, sul delicato lavoro che riguardava la Cappella Sistina. Fu una guerra feroce nella quale fummo ingaggiati tutti in un modo o nell’altro. Anche a me, che avevo relazioni epistolari con James Beck, venne richiesto di firmare appelli e manifesti contro questo restauro e quando rifiutai di essere assoldato nella campagna diffamatoria vidi svanire immediatamente la relazione con il professore della Columbia University. Ma quella veemenza oggi è passata per fortuna e Colalucci può godersi i risultati meravigliosi del suo lavoro. Sentiamo dunque di dovergli le stesse parole che gli rivolse in fretta su un aereo un’anonima signora che, come spesso capita, grazie alla sua sincera passione per l’arte, aveva capito di quella vicenda molto più di molti addetti ai lavori «Grazie per quel che ha fatto per noi».
38285 CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. Per quanto possa sembrare paradossale, le donne sono le grandi assenti dal Sinodo dei vescovi per la famiglia in corso in Vaticano. E la necessità di una loro presenza e di un rilancio del loro ruolo, nella Chiesa in primo luogo, è stata espressa ed avvertita acutamente non solo all’esterno dell’evento sinodale, ma anche durante gli interventi.
Scalpore ha suscitato, infatti, la proposta avanzata dal vescovo canadese di Gatineau (Québec), già presidente della Conferenza episcopale, mons. Paul-André Durocher, che non solo nel corso della prima conferenza stampa del Sinodo aveva mostrato di volersi dissociare dall’analisi conservatrice e chiusa dell’ungherese card. Péter Erdö, ma nel suo intervento, nel corso della I Congregazione generale, ha ipotizzato per le donne l’accesso al diaconato e all’omelia. E ancora: sottolineando l’attuale situazione di violenza domestica di cui le donne sono vittime, ha auspicato una parola forte del Sinodo sul tema.
«Le statistiche più recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità - ha detto - rivelano questo fatto sconvolgente: ancora oggi, circa un terzo delle donne nel mondo sono vittime di violenze coniugali». A partire da questi dati, ha proseguito, è necessario che «questo Sinodo affermi chiaramente che un’interpretazione corretta delle Scritture non permette mai di giustificare il dominio dell’uomo sulla donna. In particolare, questo Sinodo dovrebbe affermare che i passaggi in cui San Paolo parla della sottomissione della donna al marito non possono giustificare il dominio dell’uomo sulla donna, e ancor meno la violenza nei suoi riguardi».
Ma bisogna andare più lontano, ha affermato il vescovo canadese. Per manifestare la pari dignità di donne e uomini nella Chiesa, Durocher propone al Sinodo tre «piste di azione»: in primo luogo, «che questo Sinodo consideri la possibilità di consentire a uomini e donne sposati, ben formati e accompagnati, di prendere la parola alle omelie della Messa, al fine di testimoniare il legame fra la Parola proclamata e la loro vita di sposi e di genitori»; poi, «che al fine di riconoscere l’uguale capacità delle donne di assumere posizioni decisionali nella Chiesa, questo Sinodo raccomandi di nominare delle donne ai posti che possano occupare nella Curia romana e nelle nostre Curie diocesane». Infine, «riguardo al diaconato permanente, che questo Sinodo raccomandi l’avvio di un processo che possa eventualmente aprire alle donne l’accesso a questo ordine che, come dice la tradizione, non è orientato al sacerdozio, ma al ministero».
Un approccio analogo è quello di mons. Claude Rault, vescovo di Laghouat-Ghardaia (Algeria, Paese rappresentato al Sinodo da mons. Jean-Paul Vesco, vescovo di Orano), il quale, intervistato da Il Regno (9/10) sui temi sinodali in occasione del tour di presentazione del suo ultimo libro, ha sottolineato che «fintantoché la donna nella Chiesa non avrà accesso ai luoghi nei quali si prendono le decisioni, la Chiesa sarà solo a metà».
Le proposte di Durocher hanno incontrato il consenso della Women Ordination Conference (Woc), che da anni si batte per il sacerdozio femminile. «Applaudiamo l’arcivescovo per aver avanzato la proposta [del diaconato] ad un organismo votante composto di soli uomini e per aver sottolineato il legame tra la “degradazione” delle donne nella Chiesa e nella società e la violenza contro le donne nel mondo », è il commento della Woc. Il “dominio” sulle donne «non è mai accettabile e finché le donne non saranno trattate come pari la nostra Chiesa perpetuerà una disuguaglianza contraria al Vangelo».
L’inclusione delle donne nel diaconato, prosegue la Woc, non è nulla di nuovo ed è «un atto più che dovuto da tempo»: rappresenterebbe un ritorno della Chiesa «alle sue antiche radici, quando vi erano diaconi uomini e donne. E se in alcune parti della Chiesa orientale il diaconato femminile è vivo anche oggi, sappiamo che in Occidente fu soppresso solo sulla base dei pregiudizi contro le donne».
Tra le mura vaticane, invece, una certa freddezza: «Donne diacono? È da vedere, perché c’è di mezzo la sacramentalità», ha detto a RepTv, il canale video de La Repubblica (8/10), l’arcivescovo di Ancona-Osimo card. Edoardo Menichelli. «Per il resto, la collocazione nella vita della Chiesa è invece più che auspicabile, ma è già cominciata. Se si pensa che in una Congregazione della Santa Sede il Sottosegretario, cioè la terza autorità, è una donna, credo che questa sia già una buona risposta».
Dove sono le donne?
Sull’assenza delle donne all’interno del Sinodo e nella Chiesa cattolica si è pronunciato anche p. Tony Flannery, redentorista irlandese, tra i fondatori dell’Association of Catholic Priests. In un appello pubblicato sul suo blog (5/10) ha infatti invitato ad aprire una discussione sulla questione del sacerdozio femminile, chiedendo ai sacerdoti che condividono questa idea di farsi avanti (scrivendogli all’indirizzo flannerytony@gmail.com).
E anche dai valdesi arriva qualche critica. «Il Sinodo che si occuperà dei temi della famiglia vede un soggetto del tutto assente: le donne», ha scritto la teologa valdese Letizia Tomassone in un editoriale pubblicato su Nev. «Solo 13 presenze, di cui tre religiose nominate e non elette, e tutte senza possibilità di voto». «È necessario che le diversità siano ascoltate e non messe a tacere o demonizzate e che costituiscano la base e la linfa del magistero cattolico».
Un’assenza che riguarda anche la rappresentanza delle Chiese non cattoliche al Sinodo, come evidenziato dal pastore metodista Tim Macquiban (Nev, 8/10): «È una spiacevole ed evidente realtà che tutti i votanti siano uomini e riflette il triste sbilanciamento di genere della leadership delle Chiese in generale, sia cattoliche che non cattoliche». L’anno scorso al Sinodo straordinario, rileva Macquiban, c’era almeno una donna tra i rappresentanti non cattolici.
Di estrema attualità, dunque, la recentissima pubblicazione del libro che raccoglie 40 interventi scritti da altrettante teologhe di ogni provenienza geografica - dal titolo Catholic Women Speak: Bringing Our Gifts to the Table (v. Adista Notizie n. 33/15) - che costituisce il primo frutto di un progetto che ha visto confrontarsi centinaia di donne cattoliche da ogni parte del mondo grazie a un forum online (www.catholicwomenspeak. com).
(ludovica eugenio)
* ADISTA Notizie, 17 ottobre 2015 - n. 35
Pianeta Terra, 2015. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
Papa Francesco: "Donna tentatrice è luogo comune"
Bergoglio: "Famiglie combattano la subordinazione dell’etica alla logica del profitto" *
CITTA’ DEL VATICANO - "Esistono molti luoghi comuni, alcuni anche offensivi, sulla donna tentatrice", "invece c’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa generazione di Dio". Lo ha detto il Papa, dopo aver affermato che "la donna, ogni donna, porta una segreta e speciale benedizione per la difesa della sua creatura dal maligno, come la donna dell’Apocalisse che corre a difendere il figlio dal drago e lo protegge".
"Il mondo creato è affidato all’uomo e alla donna: quello che accade tra loro dà l’impronta a tutto", ha detto Bergoglio concludendo un ciclo di catechesi sulla famiglia. "Cristo è nato da una donna ha aggiunto il Papa di fronte a oltre 25mila fedeli in Piazza San Pietro - "e questa è la creazione di Dio sulle nostre piaghe, sui nostri peccati, ci ama come siamo e vuole portarci avanti con questo progetto, e la donna è la più forte nel portare avanti questo progetto".
"La famiglia ci salva da tanti attacchi, distruzioni e colonizzazioni, come quella del denaro o quelle ideologiche che minacciano il mondo", ha detto Francesco, "la famiglia - ha affermato - è la base per difendersi" e contrastare quanti "dispongono di mezzi ingenti e di un appoggio mediatico enorme".
Secondo Bergoglio, "l’attuale passaggio di civiltà appare segnato dagli effetti a lungo termine di una società amministrata dalla tecnocrazia economica" e dunque il nemico da combattere è "la subordinazione dell’etica alla logica del profitto". "In questo scenario - ha scandito - una nuova alleanza dell’uomo e della donna deve ritornare ad orientare la politica, l’economia e la convivenza civile! Essa decide l’abitabilità della terra, la trasmissione del sentimento della vita, i legami della memoria e della speranza". "La famiglia ci salva dalla colonizzazione del denaro", ha poi aggiunto.
"Di questa alleanza - ha continuato - la comunità coniugale-famigliare dell’uomo e della donna è la grammatica generativa, il ’nodo d’oro’, potremmo dire. La fede la attinge dalla sapienza della creazione di Dio: che ha affidato alla famiglia non la cura di un’intimità fine a sè stessa, bensì l’emozionante progetto di rendere domestico il mondo".
Le sfide del cristianesimo, la minaccia dell’Is, il ruolo femminile e il pontificato di Francesco.
Intervista al priore di Bose che da oggi ospita il Convegno Ecumenico di spiritualità ortodossa dedicato a "Misericordia e perdono"
La chiesa del futuro
Enzo Bianchi: "Critichiamo l’Islam, ma poi emarginiamo le donne".
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 9 settembre 2015)
«Il papa ha lanciato l’allarme già due anni fa, dopo la visita a Lampedusa. È rimasto inascoltato e credo che anche questo suo nuovo appello lo sarà. Il fastidio di un certo clero verrà magari dissimulato dall’ipocrisia religiosa, che è la più bieca e spaventosa di tutte». Siamo a Bose, alla vigilia dell’apertura dell’annuale convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, e il priore Enzo Bianchi commenta l’esortazione di Bergoglio ad accogliere nelle parrocchie i rifugiati del grande movimento di popoli di cui quest’estate, con i suoi avvenimenti sconvolgenti, sembra avere cambiato la percezione generale. «Un mese fa il vescovo di Crema ha chiesto di ospitare i rifugiati in locali adiacenti a una scuola cattolica, è stato contestato dalle famiglie. La situazione italiana è una vergogna, soprattutto nelle regioni tradizionalmente più cattoliche, il Veneto e la Lombardia».
Il rifiuto è più sociale o più confessionale?
«Quello confessionale l’hanno gridato a suo tempo il cardinal Biffi e il vescovo Maggiolini, secondo cui bisognava eventualmente accogliere solo i cristiani. Ma il problema è la vera e propria fabbrica di paura dei barbari, edificata da forze politiche attente solo all’interesse locale, forze che prima di Francesco la chiesa italiana ha assecondato, anche se all’inizio sembravano assumere riti pagani, precristiani, quelli sì barbarici. Ora si proclamano cattolici ma io li chiamo cristiani del campanile. Il grande silenzio di una chiesa complice li ha aiutati a iniettare nel tessuto sociale del territorio il veleno della xenofobia».
Guardiamo gli eventi nella misura dei millenni di storia anche ecclesiastica, parliamo del V secolo, quando alle cosiddette invasioni barbariche si è affiancata l’assunzione del cristianesimo a religione di stato.
«Quando con Teodosio il cristianesimo è diventato religione dello stato imperiale la furia dei monaci - lo dico con dolore, mi strappa il cuore - ha distrutto i templi pagani, fatto uno scempio di opere d’arte non diverso da quello dell’Is, ma ben più vasto. È il motivo per cui san Basilio non ha mai usato nei suoi scritti la parola "monaco": designava integralisti violenti, i talebani del momento. Guardando i secoli mi permetto di dire, pur con tutte le differenze: vediamo che altri rifanno a noi quello che abbiamo fatto».
Come ad Alessandria d’Egitto, quando fu distrutto il Serapeo e i parabalani del vescovo Cirillo assassinarono Ipazia. Nel "Libro dei testimoni", lo straordinario martirologio ecumenico di Bose, questa martire pagana potrebbe trovare posto?
«Sì, come tutti coloro che - da Buddha a Savonarola, da Rumi a Gandhi - in qualunque religione o anche all’esterno hanno perseverato in una posizione di umanità e di tolleranza. La dottrina cattolica del Vaticano II ribadisce con chiarezza che la coscienza prevale su qualsiasi autorità, anche su quella papale».
Torniamo ai movimenti di popoli della cosiddetta fine dell’antichità.
«Con saggezza papa Gregorio Magno chiese accoglienza per i barbari in arrivo dando un’unica dignità a stranieri e latini, che si espresse nel monachesimo benedettino e fece fiorire il cristianesimo, allora esangue soprattutto in occidente. La storia serve da un lato a non stupirci dell’intolleranza, dall’altro a spegnerla richiamandoci alla razionalità, che oggi significa mostrare ai popoli dell’oriente postcoloniale che gli riconosciamo soggettività, dignità, diritto di sedere alla tavola delle genti, anziché continuare a sfruttarli economicamente».
La memoria storica ecclesiastica, la conoscenza delle ere passate di cui si nutre, non ha anche il dovere di ricordare a tutti l’onda lunga della tolleranza islamica?
«Al tempo della conquista musulmana i cristiani del Medio Oriente hanno aperto le porte delle loro città agli arabi che portavano libertà di culto e affrancavano dalle angherie economiche del governo imperiale cristiano. La convivenza di cristiani, ebrei e musulmani nel corso del medioevo islamico ha fatto fiorire momenti di cultura straordinari, come nel mondo sufita, che conosco bene. L’islam è una religione di pace e mitezza con una mistica di forza pari a quella cristiana. Se nel Corano ci sono testi di violenza, non sono molto diversi da quelli che troviamo nella Bibbia e che ci fanno inorridire. La lettura integralista della Bibbia può rendere integralisti quanto quella del Corano. L’esegesi storico-critica delle scritture, cui il cristianesimo è approdato con fatica e subendo terribili condanne dell’autorità ecclesiastica, è il primo passo di un lungo cammino che aspetta anche i musulmani. Nel frattempo servono ascolto, dialogo, seri studi universitari per dissipare la propaganda ideologica che attecchisce sull’ignoranza: non è vero che l’islam è una religione della violenza e della jihad, affermarlo serve solo a giustificare la nostra nei suoi confronti».
Dai Buddha di Bamyan al tempio di Bel a Palmira, il nostro secolo assiste ad atti islamisti di cancellazione del passato dal contenuto altamente simbolico. Ma non è chiaro quanta parte effettiva vi abbia la religione o la religiosità.
«Una parte minima. Il problema non è religioso, è sociale ed economico. Gli integralisti islamici, anche abbattendo una chiesa, non mirano tanto a offendere la fede cristiana quanto a colpire l’occidente. Un pacifico abitante di Palmira mi ha detto: "Voi occidentali, piangendo la distruzione di templi etichettati dall’Unesco, date l’idea di averli più cari della nostra popolazione. Cosi li fate diventare una protesi dell’occidente nella nostra terra". Mostrando di tenere così tanto a un pezzo di colonna - giustamente, perché è segno di un cammino di umanizzazione - ma facendo saltare in aria le persone nelle guerre da noi scatenate in Iraq, in Siria, in Libia, finiamo per apparire mostruosi. Certo le distruzioni dell’Is sono crimini contro l’umanità oltre che contro la cultura e la dignità dei monumenti va difesa, ma abbiamo la stessa forza nel difendere le popolazioni perché non soccombano alle nostre armi o non trovino vie di morte nella migrazione?».
I popoli sono in marcia e un’ibridazione, che la si voglia o no, dovrà avvenire, perché questa è la storia. Il che pone anche specifici problemi sociali come quello del ruolo della donna: l’islam impone il velo, ma non trovi che anche nella chiesa cristiana ci sia un ritardo?
«Si dice sbrigativamente che certi musulmani siano ancora nel medioevo. Ma il velo completo per le suore di clausura è stato abolito solo nel 1982. È molto recente la presa di coscienza della pari dignità della donna e dell’uomo nel cristianesimo, che non ha ancora nemmeno il linguaggio per esprimerla. La soggezione delle donne agli uomini è un retaggio scritturale nell’islam, ma è presente anche nelle nostre scritture: san Paolo afferma che le donne non devono assolutamente parlare nell’assemblea della chiesa e devono stare a capo coperto. Di nuovo, serve una rilettura storico-critica di tutti i libri sacri, per scorgerne l’intenzione e non le forme. Nella chiesa c’è buona volontà ma poi della donna si hanno immagini irreali: il modello di Maria, vergine e madre, che non può essere il riferimento per una promozione della donna nella chiesa; l’idea, insinuata per moda, che la Madonna sia più importante di San Pietro, idea insipiente come dire che la ruota in un carro è più importante del volano... Non siamo ancora capaci di prendere sul serio l’uguaglianza indubbia tra uomini e donne. Il cammino per la chiesa è ancora lunghissimo perché ovunque ci sia un esercizio di comando restano gli uomini, mentre le donne sono confinate al servizio umile».
Il convegno che si apre oggi è dedicato a "Misericordia e perdono": sono istanze che, dall’ambito ecclesiale cui appartengono, possono suggerire prassi anche giuridiche e sociali?
«Declinare la giustizia con il perdono, anche a livello politico, è un’esigenza che già Giovanni Paolo II aveva evocato con forza in un suo messaggio per la Giornata della pace. L’insistenza di papa Francesco sulla pratica della misericordia, vissuta nei secoli da tanti cristiani d’oriente e d’occidente anche in controtendenza rispetto alla mentalità dominante, dischiude percorsi fecondi nella faticosa purificazione della memoria cui non ci possiamo più sottrarre, pena l’abbrutimento di ogni nostra relazione».
Quando le ateniesi scoprirono l’arma del sesso
Mentre la città assiste alla prima della Lisistrata due giovani vengono brutalmente violentate: un affresco crudo e avvincente della Grecia nel 411 a. C. con le donne che combattono per la giustizia e la democrazia contro gli oligarchi
di Mirella Serri (La Stampa/TuttoLibri, 05.09.2015)
«La Grecia antica sembra molto lontana, ma non è così. E’ stata il laboratorio delle più scottanti questioni politiche che ancora adesso dominano lo scenario internazionale, dalla gestione della democrazia ai governi dittatoriali. Al tempo della guerra del Peloponneso si protestava contro gli oligarchi ateniesi e ora, analogamente, lo scontro avviene con i vertici della finanza internazionale. Nel mondo classico Atene era il cuore dell’Impero, forte e straricca. Attualmente proprio la piccola e marginale patria di Alexis Tsipras ha infastidito e messo in crisi le capitali mondiali in cui si concentrano risorse economiche e potere». Grecia di ieri e di oggi: lo storico e narratore Alessandro Barbero, di cui è in uscita l’avvincente romanzo Le Ateniesi, individua nel passato uno specchio della nostra complicata modernità. E lo fa raccontando una vicenda dura e coinvolgente, un terribile abuso sessuale di gruppo che avviene mentre tutta Atene è sugli spalti per assistere alla prima della Lisistrata, la commedia in cui Aristofane, scandalizzando un contesto sociale in cui le donne non avevano alcuna autonomia, immagina una netta presa di posizione femminile di fronte al protrarsi del conflitto.
Medievista per formazione e traditore per vocazione - ha ambientato, per esempio, in epoca napoleonica Bella vita e guerre altrui di mr. Pyle, gentiluomo, con cui ha vinto il premio Strega - l’autore torinese, adesso, si è trasformato in un «viaggiatore incantato» di periodi più remoti. A spingerlo in quest’esplorazione è stata la lettura dei libri di Luciano Canfora e il desiderio di confrontarsi con il «sistema democratico ateniese - spiega Barbero - che assicurava il voto a tutti e offriva anche forme di sussistenza e di reddito garantito per i più poveri». Il prologo delle Ateniesi si apre al suono dei flauti che accompagnano gli spartani in guerra: quella musica ammaliante nella battaglia di Mantinea irretisce e intrappola due opliti ateniesi, Polemone e Trasillo, che finiscono sotto le spade nemiche e vengono feriti ma non a morte. Sette anni dopo l’epico scontro, i due ex combattenti, nonché genitori di due graziose fanciulle, assistono alla rappresentazione della Lisistrata dove le consorti, stanche di essere lasciate sole dai loro mariti, fanno lo sciopero del sesso e occupano l’Acropoli. Grandi protagoniste del romanzo di Barbero, che si svolge alla fine dell’inverno del 411 a.C., sono dunque le donne, al contempo vittime ed eroine.
La violenza sulle due figlie di Polemone e Trasillo si verifica mentre i cittadini di Atene sono a teatro: questa simultaneità degli eventi, l’abuso sessuale e la rivolta femminile, ha un valore simbolico?
«Lo stupro è la manifestazione del profondo disagio degli uomini di fronte al desiderio di emanciparsi delle mogli. Non confondiamo però Lisistrata con le progressiste pacifiste e “di sinistra” dei nostri giorni: l’astinenza tra le lenzuola da lei promossa coincide con il desiderio di pace degli oligarchi che, al contrario della plebe e della gran massa della popolazione, non vedevano nel conflitto un’occasione di guadagno. Nei capitoli in cui narro la rappresentazione teatrale della Lisistrata - che ho personalmente ritradotto dal greco - ho cercato di dar vita alle emozioni degli spettatori, alle urla d’indignazione, ai berci e alle discussioni che accompagnarono lo spettacolo».
Ma il vero e più cruento show si svolge altrove, fuori dal teatro, nella sontuosa magione dove le ragazze, attirate con un inganno, vengono torturate e ridotte in fin di vita da Cimone e dai suoi amici: in queste pagine al lettore sembra di rivivere il massacro compiuto al Circeo dai tre pariolini, esponenti della Roma bene. Era nelle sue intenzioni?
«Ogni generazione conserva la memoria indelebile di qualche eccidio. Mio padre non dimenticò mai la strage di Villarbasse in Piemonte del 1945 in cui dieci persone vennero bastonate e gettate vive in una cisterna. A 16 anni mi s’impresse come un marchio il delitto del Circeo in cui i violentatori erano tali anche per affermare la loro superiorità sociale ed economica».
I ricchi che abusano delle fanciulle sono gli stessi aristocratici che vogliono abbattere le istituzioni democratiche?
«Quello ateniese era un governo del popolo che, è necessario ricordarlo, aveva anche un volto assolutamente spietato. Quando gli abitanti di Melos scelsero di essere neutrali, i combattenti di Atene sgozzarono gli uomini e ridussero in schiavitù donne e bambini. Ho affidato a Crizia, politico, filosofo e scrittore, il compito di organizzare un putsch pacifista con altri nobili riuniti nelle Eterie, le sette segrete che praticavano la lettura di opere poetiche, la pederastia come forma di educazione per i giovani e l’abitudine del simposio esclusivamente maschile».
Nel suo libro i sussulti antidemocratici si risvegliano quando si percepisce una diffusa fragilità. Un altro richiamo alla contemporaneità?
«Mentre scrivevo non pensavo ai nostri giorni più recenti ma al Novecento, all’avvento del fascismo, agli sconvolgimenti dittatoriali che hanno segnato il Sudamerica. Crizia poi diventerà il capo dei Trenta Tiranni e instaurerà il terrore condannando a morte i suoi avversari, cacciando via i meno abbienti dal governo della città, privandoli del voto e di ogni trattamento umano».
In Italia ora, però, non si sente per fortuna alcun tintinnar di sciabole. Cosa ci insegna il mondo classico?
«Stiamo vivendo in un momento di svuotamento e di profonda trasformazione delle istituzioni. La democrazia anche quella moderna è una conquista che non è data una volta per tutte, è instabile e mutevole e va tutelata, questa la lezione dell’antichità, dai soprusi dei più facoltosi e potenti».
Il Rinascimento perduto, ma non solo
Mauro Bonazzi, (Il Mulino, 29 luglio 2015) *
Ci sono libri che offrono molto più di quanto il titolo prometta. Così, il lettore che aprisse lo studio di Celenza (Il Rinascimento perduto. La letteratura latina nella cultura italiana del Quattrocento, Carocci, 2014) potrebbe attendersi una dotta disquisizione sulla produzione letteraria in lingua latina tra Quattro e Cinquecento. Che è ovviamente quello che troverebbe. Ma insieme troverà altro ed è questo che fa la differenza: una riflessione complessiva su cosa sono Umanesimo e Rinascimento e su cosa essi significano per noi - o meglio una discussione sulle ragioni del crescente oblio che sta avvolgendo quel periodo della nostra storia, e una spiegazione dei rischi che questo comporta.
Nessuno lo nega: Umanesimo e Rinascimento costituiscono per tutti una pagina gloriosa della storia umana, una vetta dello spirito, che ha prodotto opere meravigliose. Ma una pagina gloriosa di cui, una volta che gli si è tributato l’omaggio di convenienza, ci si dimentica in fretta, presi come si è da problemi più seri. Si potrebbe pensare che questo sia il destino inevitabile che attende tutte le epoche del passato; e magari è così. Ma almeno dovrebbe essere chiaro che questo avviene non per ineluttabili leggi naturali, bensì in conseguenza di decisioni umane, decisioni su cui è giusto riflettere, almeno per chi resista alla mistica dell’hegelismo, per cui quello che accade è giusto per il semplice fatto che accade. Di queste decisioni tratta il libro di Celenza.
Una prima questione riguarda le politiche accademiche. Sintetizzando al massimo, il problema del Rinascimento è in effetti semplice e concreto: questo periodo non ha uno spazio disciplinare ben definito e questo significa che chi ad esso si dedica ha sempre meno possibilità di trovare un posto in università. Il che innesca un circolo vizioso deleterio, dalle conseguenze facilmente prevedibili. Celenza parla del sistema americano, ma le cose da noi non vanno troppo diversamente. Data l’importanza di questo periodo per la nostra storia, quello che sta succedendo dovrebbe dunque suggerire qualche riflessione. Si arriva così al punto più importante.
Il problema saliente non è infatti la denuncia accorata dei rischi a cui va incontro una disciplina accademica. Quello su cui è interessante riflettere sono le ragioni teoriche che stanno alla base di questa tendenza. Il Rinascimento è ormai associato alla storia dell’arte (e ci mancherebbe!), a qualche capolavoro letterario e allo studio di argomenti sempre suggestivi come ad esempio la magia. Ma tutti questi fenomeni, per quanto importanti, erano visti dai contemporanei come sviluppi di un problema più sostanziale. Un problema sostanziale che è la filosofia. Per i contemporanei, la novità del Rinascimento è una novità che ha a che fare con una nuova concezione della filosofia, intesa come un sapere eminentemente pratico e politico, che si contrappone al sapere speculativo della scolastica medievale. Chi, ai giorni nostri, sarebbe d’accordo con questa idea di un Rinascimento eminentemente filosofico? Ma il punto è proprio questo: il problema del Rinascimento è un problema filosofico.
La marginalizzazione dello studio del Rinascimento è infatti il risultato di una storia di lungo corso: dipende da una concezione della filosofia che si è progressivamente imposta nel sistema universitario tedesco nell’Ottocento e che da lì si è diffusa negli altri Paesi.
Naturalmente, i motivi che hanno prodotto un simile risultato sono molteplici, e non vanno sottovalutati. L’importanza che nell’Ottocento veniva accordata alle lingue nazionali cospirava contro il modello rinascimentale che si fondava su una lingua franca come il latino: per chi era convinto che la lingua esprimesse «il genio di un popolo», è evidente che la scelta di scrivere in una lingua estranea aveva di fatto impedito lo sviluppo di una cultura autonoma e capace di parlare dei problemi reali; il mondo degli umanisti è eine Welt des Scheines, aveva scritto il filologo Georg Voigt, «un mondo di apparenze», in cui gli umanisti si muovevano come «meri sofisti, persuasi che il mondo che avevano fondato con il linguaggio fosse il proprio mondo reale» (p. 34). Più in generale, non bisogna poi dimenticare, sottotraccia, il ruolo non indifferente giocato dalla graecomania tipica del mondo tedesco e protestante; anche questo ha giocato contro una valutazione equilibrata della cultura umanistica latina.
Ma la vera ragione della marginalizzazione di Umanesimo e Rinascimento come campo disciplinare autonomo ha a che fare in ultima istanza con la filosofia. L’appiattimento progressivo dei saperi umani sul modello dei saperi scientifici ha imposto con forza crescente una nozione di filosofia intesa come "scienza rigorosa" e teoretica, con la conseguente esclusione di autori e periodi che in questo schema non potevano rientrare. Ecco spiegato il problema del Rinascimento - lo sfasamento di prospettiva tra come noi valutiamo quel periodo e come esso fosse valutato dai suoi protagonisti.
Naturalmente, l’obiettivo di Celenza non è quello di preconizzare un improbabile ritorno ai bei tempi che furono. Piuttosto si tratta di prendere coscienza del fatto che il sapere umano segue un percorso meno lineare, e dunque molto più interessante, di cui vale la pena essere consapevoli. Tra Quattro e Cinquecento la filosofia è esperienza di vita più che sistema dottrinale; s’interessa più alle tecniche argomentative, alla retorica, che ai problemi epistemologici; ha una dimensione pratica, etica e politica, dominante, che la conduce al continuo confronto con lo studio della storia (cfr., ad esempio, pp. 83 e 117).
A partire dall’età moderna a contare sempre di più sarà invece la philosophia naturalis, vale a dire il confronto con la scienza: è una lunga ondata che ancora produce i suoi effetti e che oggi, di fronte ai progressi immensi della ricerca scientifica, rischia di togliere tutto il terreno sotto i piedi della filosofia. Negare l’importanza, storica e teorica, del confronto con le scienze sarebbe ridicolo; ma non meno ridicolo è dimenticarsi che la filosofia non è necessariamente solo questo. L’interesse della polemica di Celenza è in fondo tutta qui: in questo invito a ricordarci che la filosofia è una disciplina più ricca, più ambigua, più complicata, di come spesso si tende a credere. E questo suggerisce qualche considerazione su di noi.
Il contributo che lo studio del pensiero rinascimentale può offrire a una concezione più ricca della filosofia diventa infatti particolarmente significativo proprio se consideriamo il caso italiano. In fondo, se si accetta una nozione teoretica e sistematizzante della filosofia, è forte la tentazione di concludere che non ha molto senso parlare di una filosofia italiana, così come invece si parla di filosofia tedesca, francese, inglese o americana.
Ma non si tratterebbe di un giudizio affrettato? Un giudizio che riflette inconsapevolmente una nozione parziale, troppo ristretta, della filosofia, di cui sarebbe ormai ora di liberarsi? Che la tradizione dell’Italian thought offra strumenti interessanti per pensare la complessità del mondo contemporaneo, proprio in virtù della sua vocazione non sistematica e pratico-politica, è opinione sempre più condivisa, confermata dal successo di numerosi autori italiani all’estero. Quello che vale la pena di ricordare in questa occasione è che è proprio sulla radice rinascimentale che si sono sviluppati questi rampolli moderni.
È una convinzione espressa con chiarezza negli studi recenti di Roberto Esposito, in particolare in Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana del 2010, che trova ora una conferma, dotta e ben articolata, in uno studio recentemente pubblicato in America. In The Other Renaissance. Italian Humanism between Hegel and Heidegger (University of Chiacago Press, 2014) Rocco Rubini (assistant professor all’Università di Chicago) ricostruisce il dibatitto sul Rinascimento che si sviluppò intorno agli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, mostrandone la rilevanza filosofica: non si trattava semplicemente di dibattiti storiografici, ma della rinnovata difesa di una concezione del sapere capace di conseguenze pratiche.
In questo contesto un ruolo di primo piano spetta senza ombra di dubbio a L’umanesimo italiano di Eugenio Garin, inizialmente pubblicato in tedesco nel 1947 presso l’editore Francke di Berna in una collana curata da Ernesto Grassi, insieme - come a farne da contrappunto - alla Lettera sull’umanesimo di Martin Heidegger.
Non si potrebbe dare dimostrazione più plastica di due modi diversi, probabilmente incompatibili, ma entrambi legittimi e interessanti, di intendere la filosofia (e non si potrebbe trovare un esempio più illuminante dell’opposizione culturale tra la Germania “grecomane” e l’Italia rinascimentale e latina).
E se la tradizione metafisica di cui Heidegger, volente o nolente, fa parte è nota, non sarebbe ora di tornare a occuparci anche della tradizione alternativa, secondo cui la filosofia non è più ricerca di verità assolute e intemporali, ma anche «tempo e memoria, e senso della creazione umana e dell’opera terrena e della responsabilità», come scriveva Garin? Integrare Heidegger (ma anche i metafisici analitici contemporanei) con Coluccio Salutati e Leonardo Bruni, i due cancellieri che nella filosofia di Platone e Aristotele avevano trovato un pensiero capace di guidarli nell’amministrazione di Firenze? Perché no, perché non interessarsi anche a una concezione "romana" della filosofia, in una linea di pensiero che dall’umanesimo ci condurrebbe ad esempio all’illuminismo?
* http://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:2919
Pontificia commissione biblica*
Sull’ordinazione delle donne
Lo storico parere della Pontificia commissione biblica (1976):
* A seguito dei numerosi riferimenti fatti da papa Francesco alla necessità di ripensare il ruolo della donna nella Chiesa, pubblichiamo la prima (e nostra) traduzione italiana del documento di lavoro elaborato nella primavera del 1976 dalla Pontificia commissione biblica sul ruolo delle donne nella Scrittura, apparso in inglese in appendice al vol. di A. Swidler, L. Swidler (a cura di), Women Priests, Paulist Press, New York 1977, 338-346.
Il testo porta la firma, oltre che del presidente della Commissione e prefetto della Congregazione per la dottrina della fede card. Franjo Seper, e del segretario, mons. Albert Deschamps, vescovo titolare di Tunisi, dei membri che facevano allora parte della Commissione: Jose Alonso-Diaz, Jean-Dominique Barthelemy, Pierre Benoit, Raymond Brown, Henri Cazelles, Alfons Deissler, Ignace de la Potterie, Jacques Dupont, Salvatore Garofalo, Joachim Gnilka, Pierre Grelot, Alexander Kerrigan, Lucien Legrand, Stanislas Lyonnet, Carlo Maria Martini, Antonio Moreno Casamitjana, Ceslas Spicq, David Stanley, Benjamin Wambacq, Marino Maccarelli (segretario tecnico).
Sono noti anche i risultati delle votazioni: su 20 membri erano presenti in 17; non sono noti i nomi dei tre assenti.
Le 3 questioni sottoposte a voto, tutte approvate, erano: 1) il Nuovo Testamento non afferma in modo chiaro se le donne possono diventare prete (voto unanime); 2) i motivi scritturistici non sono sufficienti da soli a escludere la possibilità dell’ordinazione delle donne (12 a 5); 3) il piano di Cristo non sarebbe violato con l’ordinazione delle donne (12 a 5). La dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede circa la questione dell’ammissione delle donne al sacerdozio ministeriale Inter insignores, che porta la data del 15 ottobre 1976 - firmata a nome della Congregazione dal card. Seper -, non tenne conto di questo documento (ndr).
* FONTE: IL REGNO - 15/04/2015
Papa Francesco: "Donne che guadagnano meno degli uomini è puro scandalo"
Il Santo Padre fa appello alla "uguale retribuzione" tra uomo e donna: "Perché si dà per scontato che debbano essere pagate di meno?". Il cristianesimo "non può essere maschilista": "Il Vangelo ha sconfitto la cultura del ripudio abituale, quando un marito poteva imporre il divorzio anche con i motivi più pretestuosi" *
CITTA’ DEL VATICANO - "La disparità di retribuzione tra uomo e donna è uno scandalo. Serve uguale retribuzione per uguale lavoro". Così Papa Francesco durante l’udienza generale del mercoledì in piazza San Pietro. Papa Francesco: "Donne che guadagnano meno degli uomini è puro scandalo"
"Perché per le donne è scontato che devono guadagnare di meno degli uomini? No, lo stesso diritto! La disparità è un puro scandalo". Per il Papa, "nello stesso tempo, riconoscere come ricchezza sempre valida la maternità delle donne e la paternità degli uomini, a beneficio soprattutto dei bambini. Ugualmente, la virtù dell’ospitalità delle famiglie cristiane riveste oggi un’importanza cruciale, specialmente nelle situazioni di povertà, di degrado, di violenza familiare".
Papa Francesco ha denunciato ancora una volta i danni che compie il maschilismo nella nostra società, partendo dal luogo comune per il quale la crisi della famiglia tradizionale e la diminuzione dei matrimoni, è colpa dell’emancipazione femminile. "Questa - ha scandito il Pontefice - è anche un ingiuria, ed è una forma di maschilismo: l’uomo che sempre vuol dominare". "Così - ha affermato - facciamo la brutta figura di Adamo, che per giustificarsi di aver mangiato la mela ha risposto al Signore: ’Lei me l’ha data’".
Secondo Bergoglio, e il cristianesimo non può essere maschilista: "Il Vangelo - infatti - ha sconfitto la cultura del ripudio abituale, quando un marito poteva imporre il divorzio anche con i motivi più pretestuosi e umilianti". "Dobbiamo difendere le donne!", ha commentato Francesco mentre la folla applaudiva.
Davanti a oltre 20mila persone in piazza San Pietro, Bergoglio, a partire dal racconto delle nozze di Cana, - dove Gesù secondo il Vangelo trasformò l’acqua in vino durante una festa di nozze in cui il vino non era sufficiente - ha parlato della bellezza del matrimonio cristiano, annunciando che ne parlerà anche nella prossima udienza generale. In questo periodo, come noto, papa Francesco svolge delle catechesi sulla famiglia, in preparazione al sinodo del prossimo autunno, e spesso svolge ogni "capitolo" in due "puntate".
"Dai tempi delle nozze di Cana - ha osservato - tante cose sono cambiate ma quel segno di Cristo contiene un messaggio sempre valido: oggi sembra non facile parlare del matrimonio come di una festa che si rinnova nel tempo, nelle diverse stagioni". "E’ un fatto - ha detto ancora - che le persone che si sposano sono sempre di meno, questo è un fatto, i giovani non vogliono sposarsi, in molti paesi aumenta invece il numero delle separazioni mentre diminuisce il numero dei figli".
"La difficoltà a restare insieme sia come coppia che come famiglia - ha commentato il Pontefice - porta a rompere i legami con sempre maggiore frequenza e rapidità, e i figli sono i primi a portarne le conseguenze", "le vittime, le vittime più importanti, le vittime che soffrono di più in una separazione sono i figli, e se sperimenti fin da piccolo che il matrimonio è un legame a tempo determinato, inconsciamente per te sarà così, e infatti molti giovani sono portati a rinunciare al progetto stesso di un legame stabile e di una famiglia duratura. Dobbiamo riflettere - ha invitato papa Francesco - sul perché tanti giovani non si sentono di sposarsi, c’è questa cultura del provvisorio, tutto è provvisorio, niente è definitivo, è una delle preoccupazione di oggi, perché non si sposano? perché preferiscono una convivenza e tante volte anche una convivenza a responsabilità limitata, e tanti, anche battezzati, hanno poca fiducia nel matrimonio e nella famiglia? E’ importante - ha rimarcato il Papa - capire perché non hanno fiducia nella famiglia".
Questioni fondamentali
Il difficile viaggio nella natura umana
Tramontata la metafisica aristotelica e dissolta la ragione kantiana, si è alla ricerca di un concetto condiviso di “natura” antropologica
di Gianfranco Ravasi s.j. (Il Sole-24 Ore, Domenica. 26.04.2015)
Anche chi non ha una grande assuefazione alla filologia intuisce che il vocabolo «natura» sboccia dal verbo latino nascor: è, quindi, legato a quell’evento radicale che è la nascita. Ora, come osserva Jean-Michel Maldamé, un filosofo della scienza francese ma nato ad Algeri, «in una nascita ci sono due aspetti: il primo è l’inizio della vita, il secondo è che la nascita manifesta un’identità permanente. La nozione di «natura» passa, allora, dalla designazione di un momento della vita iscritto nel tempo [la data di nascita, lo stato anagrafico e civile] a ciò che caratterizza il vivente come tale nella sua identità che trascende il tempo». Questa duplicità si riflette anche nel greco physis che è, sì, la natura essenziale, strutturale, metafisica di un essere, ma che è anche il suo inizio nell’esistenza, dato che la base verbale del termine è phyein, «generare, metter fuori, produrre». Tra l’altro, nelle 14 volte in cui risuona nel Nuovo Testamento il termine physis, entrambi i significati sono attestati, ma a prevalere è la semantica filosofica, quindi, il concetto ontologico di «natura».
Siamo partiti ab ovo - curiosa e pertinente locuzione oraziana che rimanda alle radici storiche della vicenda omerica - perché in questi ultimi tempi attorno a una tale categoria antropologica basilare si è abbattuta una bufera che ne ha scosso le fondamenta: basti solo pensare al «politeismo dei valori» registrato da Weber o al soggettivismo applicato alla nozione di «verità», o anche al puro e semplice pluralismo culturale. Accade, perciò, spesso anche a un uomo di Chiesa come me, proteso al dialogo in quell’ideale «Cortile dei Gentili» ove si confrontano credenti e non credenti, di sentirmi interpellato sulla possibilità o meno di avere una piattaforma comune di incontro. Ritorna, così, il discorso sulla «natura» umana nel senso metafisico sopra accennato, per non rassegnarsi alla mera proceduralità sociale, spoglia però di implicazioni etiche.
La domanda, allora, è questa: è possibile recuperare un concetto condiviso di «natura» antropologica che impedisca di scivolare nelle sabbie mobili del relativismo (so che è sgradito tale termine, ma lo adotto come simbolo di una molteplicità sfaldata e babelica)? Dobbiamo rassegnarci al massimo alla convinzione di Montaigne che nei suoi Saggi considerava la natura come «una poesia enigmatica»? Nella riflessione occidentale su questa categoria possiamo individuare due grandi fiumi ermeneutici, dotati di tante anse, affluenti e ramificazioni ma ben identificabili nel loro percorso. Il primo ha come sorgente ideale il pensiero aristotelico che per formulare il concetto di natura umana ha attinto alla matrice metafisica dell’essere. La base è, perciò, oggettiva, iscritta nella realtà stessa della persona, e funge da stella polare necessaria per l’etica.
Questa concezione dominante per secoli nella filosofia e nella teologia è icasticamente incisa nel motto della Scolastica medievale Agere sequitur esse, il dover essere nasce dall’essere, l’ontologia precede la deontologia. Questa impostazione piuttosto granitica e fondata su un basamento solido ha subìto in epoca moderna una serie di picconate, soprattutto quando - a partire da Cartesio e dal riconoscimento del rilievo della soggettività (cogito, ergo sum) - si è posta al centro la libertà personale. Si è diramato, così, un altro fiume che ha come sorgente il pensiero kantiano: la matrice ora è la ragione pratica del soggetto col suo imperativo categorico, il «tu devi». Al monito della «ragione», della legge morale incisa nella coscienza, si unisce la «pratica», cioè la determinazione concreta dei contenuti etici, guidata da alcune norme generali, come la “regola d’oro” ebraica e cristiana («non fare all’altro ciò che non vuoi sia fatto a te» e «fa’ all’altro ciò che vuoi ti si faccia») o come il principio “laico” del non trattare ogni persona mai come mezzo bensì come fine.
Frantumata da tempo la metafisica aristotelica, si è però assistito nella contemporaneità anche alla dissoluzione della ragione universale kantiana che pure aveva una sua “solidità”. Ci si è trovati, così, su un terreno molle, ove ogni fondamento si è sgretolato, ove il “disincanto” ha fatto svanire ogni discorso sui valori, ove la secolarizzazione ha avviato le scelte morali solo sul consenso sociale e sull’utile per sé o per molti, ove il multiculturalismo ha prodotto non solo un politeismo religioso ma anche un pluralismo etico. Al dover essere che era stampato nell’essere o nel soggetto si è, così, sostituita solo una normativa procedurale o un’adesione ai mores dominanti, cioè ai modelli comuni esistenziali e comportamentali di loro natura mobili.
È possibile reagire a questa deriva che conduce all’attuale delta ramificato dell’etica così da ricomporre un nuovo fenotipo di «natura» che conservi un po’ delle acque dei due fiumi sopra evocati senza le rigidità delle loro mappe ideologiche? Molti ritengono che sia possibile creare un nuovo modello centrato su un altro assoluto, la dignità della persona, còlta nella sua qualità relazionale. Si unirebbero, così, le due componenti dell’oggettività (la dignità) e della soggettività (la persona) legandole tra loro attraverso la relazione all’altro, essendo la natura umana non monadica ma dialogica, non cellulare ma organica, non solipsistica ma comunionale. È questo il progetto della filosofia personalistica (pensiamo ai contributi di Lévinas, Mounier, Ricoeur, Buber).
La natura umana così concepita recupera una serie di categorie etiche classiche che potrebbero dare sostanza al suo realizzarsi. Proviamo a elencarne alcune. Innanzitutto la virtù della giustizia che è strutturalmente ad alterum e che il diritto romano aveva codificato nel principio Suum cuique tribuere (o Unicuique suum): a ogni persona dev’essere riconosciuta una dignità che affermi l’unicità ma anche l’universalità per la sua appartenenza all’umanità. Nella stessa linea procede la cultura ebraico-cristiana col Decalogo che evoca i diritti fondamentali della persona alla libertà religiosa, alla vita, all’amore, all’onore, alla libertà, alla proprietà. Nella stessa prospettiva si colloca la citata “regola d’oro”.
In sintesi, l’imperativo morale fondamentale si dovrebbe ricostruire partendo da un’ontologia personale relazionale, dalla figura universale e cristiana del «prossimo» e dalla logica dell’amore nella sua reciprocità ma anche nella sua gratuità ed eccedenza. Per spiegarci in termini biblici a tutti noti: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (reciprocità), ma anche «non c’è amore più grande di chi dà la vita per la persona che ama» (donazione). Inoltre, in senso più completo, nel dialogo «io-tu» è coinvolto - come suggeriva Ricoeur - anche il «terzo», cioè l’umanità intera, anche chi non incontro e non conosco ma che appartiene alla comune realtà umana. Da qui si giustifica anche la funzione della politica dedicata a costruire strutture giuste per l’intera società. La riflessione attorno a questi temi è naturalmente più ampia e complessa e dovrebbe essere declinata secondo molteplici applicazioni, ma potrebbe essere fondata su un dato semplice, ossia sulla nostra più radicale, universale e atemporale identità personale dialogica.
CRISI DELLA CIVILTA’: FINE DEL "ROMANZO FAMILIARE" EDIPICO DELLA CULTURA CATTOLICO-ROMANA:
Papa Francesco contro la teoria del gender: "Espressione di frustrazione”
Nel corso dell’udienza in Piazza San Pietro, Bergoglio sottolinea le differenze e la complementarietà tra uomo e donna. Ed evidenzia anche l’importanza del legame matrimoniale e familiare “non solo per i credenti”
di Francesco Antonio Grana (Il Fatto, 15 aprile 2015)
“La teoria del gender espressione di frustrazione e rassegnazione che mira a cancellare la differenza sessuale”. Papa Francesco, nella catechesi dell’udienza generale del mercoledì in piazza San Pietro, ha attaccato la teoria secondo cui la distinzione tra maschi e femmine non è data dal fattore biologico, ma dalla singola sensibilità del soggetto. “La cultura moderna e contemporanea - ha affermato Bergoglio - ha aperto nuovi spazi, nuove libertà e nuove profondità per l’arricchimento della comprensione delle differenze tra uomo e donna. Ma ha introdotto anche molti dubbi e molto scetticismo. Per esempio mi domando se la cosiddetta teoria del gender non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione, che mira a cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa. Sì, - ha aggiunto il Papa - rischiamo di fare un passo indietro. La rimozione della differenza, infatti, è il problema, non la soluzione”.
Parole che si ricollegano a quelle espresse più volte dal presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Angelo Bagnasco, che ha sostenuto che “il gender edifica un ‘transumano’ in cui l’uomo appare come un nomade privo di meta e a corto di identità”. Ma il porporato ha anche puntato il dito più volte contro “i libri dell’Istituto A.T. Beck, dal titolo accattivante ‘Educare alla diversità a scuola’ e ispirati alla teoria del gender” bollandoli come “colonizzazione ideologica”. Da qui l’invito del presidente della Cei ai genitori a esercitare “il diritto di astenere i propri figli da quelle ‘lezioni’ senza incorrere in nessuna forma, né esplicita, né subdola, di ritorsione, come sta invece accadendo in qualche Stato vicino a noi”.
Nella sua catechesi sulla famiglia, dedicata alla complementarietà tra l’uomo e la donna, il Papa ha sottolineato che la differenza tra i due generi “non è per la contrapposizione, o la subordinazione, ma per la comunione e la generazione, sempre a immagine e somiglianza di Dio”. Per Francesco, infatti, “per conoscersi bene e crescere armonicamente l’essere umano ha bisogno della reciprocità tra uomo e donna. Quando ciò non avviene, se ne vedono le conseguenze. Siamo fatti per ascoltarci e aiutarci a vicenda. Possiamo dire che senza l’arricchimento reciproco in questa relazione, nel pensiero e nell’azione, negli affetti e nel lavoro, anche nella fede, i due non possono nemmeno capire fino in fondo che cosa significa essere uomo e donna”.
Bergoglio ha sottolineato anche l’importanza del legame matrimoniale e familiare “non solo per i credenti”. “Vorrei esortare gli intellettuali - è stato l’appello del Papa - a non disertare questo tema, come se fosse diventato secondario per l’impegno a favore di una società più libera e più giusta”. Infine, l’invito a “fare molto di più in favore della donna, se vogliamo ridare più forza alla reciprocità fra uomini e donne. È necessario, infatti, - ha aggiunto Francesco - che la donna non solo sia più ascoltata, ma che la sua voce abbia un peso reale, un’autorevolezza riconosciuta, nella società e nella Chiesa. È una strada da percorrere con più creatività e più audacia per valorizzare il genio femminile”.
Il confessionale
Dalle tette ai neuroni
La “crociatina” di Ravasi
di Daniela Ranieri (il Fatto, 04.02.2015)
Nell’occhio del ciclone-Bergoglio, il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura, scopre le “culture femminili” (che sono cosa ben diversa dalla culturatout court) e indìce un’assemblea plenaria per celebrarle.
A fare da testimonial invita l’attrice Nancy Brilli, con la quale incappa nella polemica sulla chirurgia estetica, definita nel documento preparatorio dell’incontro, con un’espressione “pertinente anche se sferzante”, “burqa di carne”.
La Brilli fa notare che se la chirurgia serve a sentirsi meglio non bisogna demonizzarla, e poi lei è moglie di chirurgo estetico “che si occupa prevalentemente di ricostruzione post-cancro”.
IN SOSTANZA potremmo serenamente infischiarcene, se non fosse che la vicenda apre a paradossali considerazioni. Non stupisce che il Vaticano dia spazio alle donne (grazie!) purché corrispondano al ritratto della femminilità che reputa ammissibile - da qui la valorizzazione e la sanzione, l’encomio e i distinguo.
Conta che il raffinato e colto prelato si riferisse alle donne che aderiscono a un “modello estrinseco” di bellezza, essendo egli, come immaginiamo, non tanto interessato al seno femminile (anche se disapprova le diciottenni che se lo gonfiano) quanto alle neuroscienze; infatti, “quando si inizia a intervenire sulla interconnessione neuronale siamo di fronte a ambiti che hanno ridondanze delicate sul piano etico”.
E si sa come funziona, si parte dalle tette e si arriva ai neuroni. A parte che non avremmo niente da ridire sul trapianto cerebrale di molti, questo artificio retorico è un vecchio trucco. Girato per il verso giusto, il discorso rivela la sua piega implicita: la vecchia ossessione della Chiesa per il sesso.
La donna che si “corregge” il corpo che Dio le ha dato lo fa inequivocabilmente per piacere di più agli uomini e quindi accoppiarsi di più. Lo fa perché, a differenza dell’uomo, è incapace di comprendere da sola il valore del corpo femminile autentico e non adulterato, ben chiaro ai detentori del potere biopolitico che per secoli hanno messo le mani negli organi delle donne e oggi le vedono decidere senza il loro permesso.
“Il corpo delle donne”, specie di panda in via di estinzione a causa di una cultura maschilista, diventa così - ma a sua tutela! - oggetto di torsione etica. Come fosse un bene comune, del demanio, un monumento dentro le mura vaticane da proteggere e tutelare, anche a scapito, se occorre, della stessa volontà delle donne.
SAREBBE facile dare torto a quegli oscurantisti di preti, sennonché quella del “burqa di carne” non è una loro invenzione: viene dal mondo “femminista”. Dal movimento Se non ora quando, ad esempio, nel cui film-manifesto Il corpo delle donne una galleria di maschere botulinizzate viene inanellata a illustrazione dei nuovi mostri.
Ai tempi delle intemperanze di Berlusconi, il giudizio sulla chirurgia estetica assurgeva a epitome di una più estesa disapprovazione del modo in cui le donne sono rappresentate sui media e nella società occidentale, ed era severissimo: il ritocco nascondeva il “vero” volto delle ragazze delle Tv e delle case dell’ex premier, le spogliava della loro libertà come fa il burqa, e induceva innocenti adolescenti a imitarle.
Così il “femminismo moralista” disapprova la donna-oggetto anche qualora fosse ella stessa soggetto di questa reificazione, e riconosce dignità solo a una femminilità “vera” e “decente”, in pericolosa consonanza con quella ammessa o imposta dalle destre e dalla morale cattolica.
Colpisce quanto questo giudizio condiviso con la Chiesa contro l’“obbrobrioso mercato delle carni” promuova un’etica della moderazione, della riservatezza se non dell’invisibilità che è molto più affine al fondamentalismo di quanto lo sia l’abuso di botulino.
PERUGINO E FRANCESCO MATURANZIO. NOTE SUL "COLLEGIO DEL CAMBIO" DI PERUGIA:
Collegio del Cambio
Decorazione della Sala dell’Udienza
Eroi, saggi, profeti e sibille: l’impresa decorativa del Collegio del Cambio *
Il collegio del Cambio è la sede dell’arte dei cambiavalute di Perugia. Il 26 gennaio 1496 l’assemblea dei soci si riunì per discutere quale aspetto dare alla sala maggiore, se dovesse essere decorata dappertutto o in parte e se l’eventuale incarico dovesse essere affidato a Pietro Perugino, allora presente in città, o a qualche altro pittore.
All’unanimità fu presa la decisione di far comunque decorare la sala dell’Udienza, con dipinti o in qualsiasi altro modo, purché l’opera riuscisse bellissima, e fu nominata una commissione che provvedesse a fissare le caratteristiche dei lavori da eseguire, scegliesse il pittore e lo pagasse direttamente. Il primo progetto prevedeva la collocazione di una tavola dipinta in mezzo agli arredi lignei già eseguiti, come nella sede del collegio dei Notai, per la cui fattura il 25 febbraio 1498 furono pagati 5 fiorini ad un falegname locale, ma ben presto maturò la decisione di ricoprire interamente le pareti della sala con una decorazione ad affresco, su consiglio dell’umanista perugino Francesco Maturanzio.
Nel febbraio 1499 sono registrati i primi pagamenti a Pietro Perugino, che vi lavorò con continuità per tutto il corso dell’anno, conducendo a termine l’opera nell’anno 1500, data segnata sulla parasta centrale di destra.
Nel pilastro opposto Perugino dipinse il proprio autoritratto, accompagnato da un’iscrizione laudativa:
“PETRUS PERUSINUS EGREGIUS / PICTOR / PERDITA SI FUERAT PINGENDI / HIC RETTULIT ARTEM / SI NUSQUAM INVENTA EST / HACTENUS IPSE DEDIT”.
Pietro perugino, pittore insigne. Se era stata smarrita l’arte della pittura, egli la ritrovò. Se non era ancora stata inventata egli la portò fino a questo punto"
Il programma iconografico delle pareti è ispirato al trionfo delle Virtù, additate a modello da Catone l’Uticense: le quattro Virtù Cardinali - Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza - incarnate da figure esemplari tratte dalla storia greca e romana, e le tre Virtù Teologali - Fede, Carità, Speranza - rappresentate dalla Trasfigurazione di Cristo, dalla Natività e da Profeti e Sibille. Sulla volta è raffigurato il trionfo dei Pianeti, allusivi alla fortuna. Questi affreschi sono il capolavoro della pittura umanistica italiana, superato soltanto dalla decorazione delle Stanze Vaticane di Raffaello.
* A cura di Vittoria Garibaldi e Francesco Federico Mancini (http://www.perugino.it/canale.asp?id=288)
Pregare lo Spirito per «superare facili accomodamenti mondani»
di Andrea Tornielli (La Stampa, Vatican Insider, 11/01/2015)
Il Figlio di Dio «lo possiamo incontrare realmente presente nei sacramenti, specialmente nell’eucaristia. Lo possiamo riconoscere nel volto dei nostri fratelli, in particolare nei poveri, nei malati, nei carcerati, nei profughi: essi sono carne viva del Cristo sofferente». Dopo aver celebrato i battesimi nella Sistina, Francesco ha recitato l’Angelus e ha invitato i fedeli presenti in piazza San Pietro a pregare lo Spirito Santo, il «grande dimenticato» nelle orazioni dei cristiani, e a ricordare «con gioia» la data del proprio battesimo.
«Nel momento in cui Giovanni Battista conferisce il battesimo a Gesù, il cielo si apre. È così finito il tempo dei “cieli chiusi”, che stanno ad indicare la separazione tra Dio e l’uomo, conseguenza del peccato», ha detto Francesco. «Così la terra è diventata la dimora di Dio fra gli uomini e ciascuno di noi ha la possibilità di incontrare il Figlio di Dio, sperimentandone tutto l’amore e l’infinita misericordia. Lo possiamo incontrare realmente presente nei sacramenti, specialmente nell’eucaristia. Lo possiamo riconoscere nel volto dei nostri fratelli, in particolare nei poveri, nei malati, nei carcerati, nei profughi: essi sono carne viva del Cristo sofferente e immagine visibile del Dio invisibile».
Dopo aver ricordato che la discesa dello Spirito Santo, «consente a Cristo, il Consacrato del Signore, di inaugurare la sua missione salvifica per tutti noi», Papa Bergoglio ha aggiunto a braccio: «Lo Spirito Santo, il grande dimenticato nelle nostre preghiere: noi spesso preghiamo Gesù, preghiamo il Padre, nel Padre Nostro, ma non tanto frequentemente preghiamo lo Spirito Santo. È il dimenticato e abbiamo bisogno di chiedere il suo aiuto, la sua fortezza, la sua ispirazione...».
«Porre sotto l’azione dello Spirito Santo la nostra vita di cristiani e la missione, che tutti abbiamo ricevuto in virtù del Battesimo - ha continuato Francesco - significa ritrovare coraggio apostolico necessario per superare facili accomodamenti mondani. Un cristiano e una comunità “sordi” alla voce dello Spirito Santo, che spinge a portare il Vangelo agli estremi confini della terra e della società, diventano anche un cristiano e una comunità “muti” che non parlano e non evangelizzano».
«Ricordatevi questo: pregare spesso lo Spirito Santo perché ci aiuti, ci dia la forza, l’ispirazione per andare avanti», ha ribadito Francesco. Dopo l’Angelus, il Papa ha chiesto ai fedeli dello Sri Lanka e delle Filippine che sono a Roma, di pregare per lui, alla vigilia del viaggio che da domani sera compirà in Asia. E ha invitato tutti i presenti a cercare «la data del battesimo, per ricordare con gioia» quel giorno.
Discussioni. L’erede intellettuale di Marshall McLuhan racconta come, mutando il linguaggio, muta la nostra psicologia
Fine dell’uomo rinascimentale
Le tecnologie cambiano la percezione del mondo. De Kerckhove: anziché guardare, siamo immersi
di Massimo Sideri *
Derrick de Kerckhove, considerato l’erede intellettuale di Marshall McLuhan, con il quale ha lavorato a lungo, oggi ha 70 anni e vive tra Toronto e Roma. Una scelta non solo estetica: proprio qui in Italia per de Kerckhove tutto ha avuto inizio in termini di strategia cognitiva. Un tutto che però, con l’avvento della cultura digitale, sta cambiando: per il sociologo dell’arte che ha diretto tra il 1983 e il 2008 il McLuhan Program in Culture and Technology siamo di fronte alla fine dell’uomo rinascimentale.
«Quello che io chiamo il “punto di essere” - spiega a “la Lettura” - è la risposta al punto di vista del Rinascimento: quest’ultima era la definizione del rapporto tra corpo e spazio, un rapporto nel quale il corpo si trovava al di fuori e lo spazio era l’ambito di osservazione. Tutto questo viene capovolto con la realtà virtuale: invece di trovarci fuori dallo spettacolo penetriamo al suo interno proprio come nel film Avatar. È la sensazione del posto dove si trova il mio corpo a prevalere, una dimensione tattile, ma anche paradossale: è complicato cogliere la dimensione tattile dell’elettricità. Eppure esiste».
Il suo «punto di essere» ricorda lo strano mondo degli squali che vivono di percezioni elettriche assorbite da sensori sottocutanei. La virtualità può essere considerata un nuovo «sesto senso»? Non solo, dunque, un mondo che abbiamo costruito all’interno delle macchine, ma un modo del tutto nuovo di percepire dell’essere umano?
«Sì certamente. Ma non direi un sesto senso quanto un senso generale, come l’esternalizzazione del senso comune, una situazione totalmente nuova. Il punto di vista è quello che abbiamo normalmente come strategia di conoscenza: siamo sempre, mentalmente o fisicamente, di fronte a qualcosa da giudicare. Tutto questo è nato nel Rinascimento. Certo, c’era anche prima, ma è stato teorizzato nel Rinascimento da artisti come Masaccio».
Ora quell’uomo rinascimentale sta morendo?
«Per arrivare al “punto di essere” immaginate che la vostra fonte di esperienza nel mondo, invece che nella vostra testa e negli occhi, sia nel corpo. È una percezione che abbiamo perso perché obnubilati dal punto di vista. Il trompe-l’oeil ha represso gli altri sensi. Ora, la realtà virtuale è già passata di moda ma continua ad avere un impatto epistemologico, fa vedere che penetriamo nello spettacolo invece di essere buttati fuori. È simbolica della nostra presenza immersiva nella globalità dell’informazione. Dal telegrafo ai Big Data il nuovo inconscio si è trasformato: non è più quello di Freud ma è un inconscio digitale dal quale siamo bagnati continuamente. Pensate ai nostri smartphone, con i quali siamo seguiti e ricordati da qualche parte online. È un’ombra elettronica che ci precede: se voglio sapere qualcosa di te vado su Google prima di vederti».
La tecnologia touch screen che usiamo ormai senza pensarci, in qualche maniera ci ha permesso di riscoprire il tatto, la centralità della mano nell’esperienza umana?
«Sì e no, perché è un’esperienza paradidossale: il tatto sta prendendo nuove proprietà».
Nei suoi libri e nelle sue ricerche emerge la passione per l’alfabeto. Oggi siamo, per certi versi, già nell’era della post-scrittura. Le tecnologie touch screen nascondono percorsi che a noi possono apparire misteriosi ma che per dei bambini di 5-6 anni non hanno segreti. Siamo di fronte a una generazione per cui la scrittura non è così centrale. Noi se non leggevamo non imparavamo. Loro sembrano potere imparare senza leggere...
«Questo può essere parte dei problemi che derivano dalle nuove tecnologie. L’immaginario e le strutture cognitive dipendono molto dalle tecnologie che trasmettono il linguaggio. È quella che io chiamo psicotecnologia, perché il modo con cui arriva il linguaggio determina anche le competenze per usarlo. Nella cultura orale il linguaggio era fuori dai corpi ed era fatto di comandi, rapporti condivisi. Nel momento in cui l’alfabeto ha portato il linguaggio fuori dal corpo facendolo diventare silenzioso ce ne siamo riappropriati. Non siamo più servitori, ma controllori del destino privato: posso scrivere anche solo una lista delle cose da comprare nel negozio, ma in realtà sto scrivendo il mio destino. Ma che cosa succede oggi? Condividiamo un linguaggio elettronico incredibilmente veloce e creativo, un matrimonio tra il massimo della velocità, quella della luce, e il massimo della complessità, quella del linguaggio, iniziato già con il telegrafo. Ora però questo linguaggio elettronico è di nuovo fuori e porta con sé anche l’aspetto privato, costringendoci a immaginare un’etica della trasparenza: come comportarsi quando si sa tutto su di te? Comunque - per tornare ai bambini - è vero: la nostra conoscenza di adulti passa più attraverso la lettura».
Le abitudini cambiano anche in altre fasce di età: nel campus di Google si chatta pur trovandosi uno di fronte all’altro. Per la nostra cultura è quasi un gesto di maleducazione.
«È quasi maleducato, sì, ma è pertinente per una cultura che ha messo il linguaggio dentro il sistema di comunicazione elettronico. Il nuovo linguaggio si riduce: è molto più facile parlare con 140 caratteri perché a un certo livello il linguaggio si organizza diversamente. In Snapchat il linguaggio sparisce, non lascia traccia. I ragazzi con questa applicazione vogliono dare una certa oralità al discorso scritto».
Soprattutto vogliono nascondere le prove di cosa hanno fatto o detto...
«Sì, e fanno questo perché siamo nell’era del “capitale reputazionale”. Più importante del denaro e della conoscenza, la reputazione oggi diventa la vecchia vergogna del mondo orale, da cui viene il senso di colpa. Si parla già oggi di una nuova aristocrazia, l’aristocratico è una persona per bene dal momento che si può sapere tutto su di noi. La reputazione può essere usata come moneta di scambio».
È dunque una nuova struttura economica: non è solo l’evoluzione, grazie al digitale, del capitalismo.
«Sì, come nel crowdfunding: non ho soldi ma ho gli amici che possono vedere il progetto e raccomandarlo. Il capitale degli amici si può trasformare in denaro. Funziona perché è un’economia nuova, personale. L’investimento è anche emozionale. Un altro esempio di nuova economia è quello della stampante 3D. Consiglio di regalarne una ai figli per Natale. Come il crowdfunding redistribuisce le fonti dell’economia, la stampante 3D redistribuisce le fonti delle manifatture e le ridemocratizza. È un dono cognitivo, il passaggio dal punto di vista al “punto di essere”, dove la sensibilità 3D già precede la possibilità del 3D».
Massimo Sideri
*
Regno Unito, Libby Lane nominata primo vescovo donna anglicano *
LONDRA - La Chiesa anglicana ha nominato il suo primo vescovo donna, scegliendo per la sede di Stockport, nell’Inghilterra settentrionale, la reverenda Libby Lane. Lo storico annuncio è stato dato un mese dopo che il Sinodo generale ha formalmente riconosciuto una legislazione che permette alle donne di diventare vescovo. La nomina ha ribaltato così una tradizione secolare e mettendo fine a una ’querelle’ su cui si era profondamente divisa.
Come accennato, dopo un dibattito prolungato e spesso dai toni accesi, il Sinodo generale della Chiesa Anglicana aveva votato a luglio di consentire alle donne di diventare vescovo; e il 17 novembre ha formalmente adottato la decisione con la modifica della legge canonica, ultimo passaggio nel processo legislativo per mettere fine a secoli di monopolio maschile. Le donne possono essere sacerdoti della Chiesa d’Inghilterra dal 1994.
"E’ un giorno straordinario per me e -io ritengo- un giornata storica per la Chiesa", ha detto il vescovo Lane, subito dopo l’investitura. Lane, che ha 48 anni, è pastore dal 2007 nelle chiese di St. Peter, a Hale, e St. Elizabeth, ad Ashley, nella diocesi di Chester.
* la Repubblica, 17 dicembre 2014 (ripresa parziale).
SVOLTA
Chiesa inglese, via libera alle donne vescovo
Il sinodo ha approvato formalmente la normativa. Le prime ordinazioni dal 2015. *
Via libera dalla Chiesa d’Inghilterra alle donne vescovo. Il sinodo generale, riunito alla Church House di Westminster, il 17 novembre ha dato infatti la sua approvazione formale alla normativa già approvata dal parlamento in ottobre che consente le prime ordinazioni di donne vescovo già dal 2015. L’emendamento è stato approvato con alzata di mano al sinodo generale.
L’Arcivescovo di Canterbury Justin Welby ha commentato il risultato come l’inizio di «un nuovo modo di essere per la Chiesa», ha riferito l’edizione online della Bbc. Ma nonostante il via libera, le divisioni tra anglicani restano: tra coloro che sentono tale svolta come un cambiamento coerente con la loro fede e i tradizionalisti che restano in disaccordo.
UN CAMMINO LUNGO ANNI. Il voto del 17 novembre segna la conclusione di un lungo e sofferto cammino che andava avanti da anni il cui risultato era sfumato ancora una volta nel novembre 2012, per soli sei voti. L’Inghilterra arriva con ampio ritardo sugli altri Paesi: ci sono già donne vescovo anglicane negli Stati Uniti, in Australia, Canada, e in Irlanda. La chiesa inglese ha invece ordinato le prime donne prete nel 1994, che ora rappresentano un terzo del clero.
* LETTERA 43, 17 Novembre 2014
“Apriamo la Chiesa alle donne sacerdote”
Parla Padre d’Ors scrittore e consigliere di Papa Francesco
“Il Pontificio Consiglio ha chiesto una relazione sul ruolo femminile. Ormai i tempi sono maturi”
“Rousseau e Einstein erano capaci di esperienze spirituali profonde anche senza Dio”
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 5.11.2014)
MADRID «PERCHÉ mi ha scelto papa Francesco? Un mistero. Forse avrà chiesto: qual è il prete più marginale di Madrid?». Pablo d’Ors scoppia in una risata mentre s’inerpica nella sua casa del quartiere Tetuán, una specie di torre su quattro piani che sarebbe piaciuta a Montaigne. È qui, tra il piano della biblioteca dove d’Ors compone i suoi romanzi e la cappella su in alto dove recita messa, che sta maturando un’altra rivoluzione del pontificato di Bergoglio. Finora se n’è parlato poco, anzi per niente. E per scoprirla bisogna venire a trovare questo outsider delle lettere e del sacerdozio che emana una vitalità allegra.
Davvero inclassificabile, padre d’Ors. «Scrittore mistico, erotico e comico», così lui si presenta rivelando la sua vocazione al paradosso. I suoi primi bellissimi racconti del Debutto si prendevano beffa delle letteratura mondiale, narrando le gesta di una signora slovacca che fa l’amore con i più grandi scrittori del Novecento. Pagine sorprendenti in cui si possono leggere riflessioni del genere: «Pessoa è lo scrittore che ha dormito di meno in tutta la letteratura mondiale».
Cresciuto in una famiglia colta - il nonno era Eugenio d’Ors, un monumento della cultura spagnola - Pablo s’è sempre nutrito di parole, per poi approdare alla Biografia del silenzio , un manifesto della meditazione che è diventato un caso editoriale in Spagna (tradotto da Vita e Pensiero). Non più giovanissimo, a 27 anni, dopo una vita ricca di amori, letture, viaggi anche spericolati, ha scelto il sacerdozio: ora nell’ospedale Ramón y Cajal accompagna i malati a morire.
Quest’anno è stato chiamato dal Pontificio Consiglio della Cultura presieduto dal cardinal Ravasi, dove a febbraio porterà il suo mattone per la costruzione di un nuovo immenso edificio. Che incarico le è stato affidato?
«Sono uno dei trenta consiglieri nominati in tutto il mondo. Ci hanno chiesto di presentare una relazione sul ruolo della donna nella Chiesa. Ormai sono maturi i tempi per percorrere nuove strade».
Si parlerà dell’apertura del sacerdozio alle donne?
«Non posso dire apoditticamente di sì, ma penso che dietro la prossima riunione plenaria ci sia questa impostazione».
Lei è favorevole?
«Assolutamente sì, e non sono da solo. Che la donna non possa essere prete per il fatto che Gesù era un uomo e che avesse scelto solo uomini è un argomento molto debole. È una ragione culturale, non metafisica».
Cosa porterebbero le donne?
«La vita. E tanta ricchezza. Il cambiamento è necessario, anche perché si tratta di una discriminazione inaccettabile. Per preparare il mio lavoro ho parlato con moltissime donne di diversa estrazione sociale e culturale, cristiane e non cristiane: con una sola eccezione, tutte si sono mostrate favorevoli».
C’è ancora molta resistenza?
«Sì, non solo nella curia ma anche nella base. La novità fa sempre paura. Invece un criterio importante per misurare la vitalità spirituale di una persona è la sua disponibilità al cambiamento. Resistere alla vita è un peccato perché la vita è svolgimento continuo».
Questo vale anche per la Chiesa?
«Soprattutto per la Chiesa».
Lei che tipo di sacerdote è?
«Sono un prete felice. Ho sentito una voce interiore. E quando vivi la vita come risposta a una vocazione provi la felicità. Questo non significa che non ci siano stati momenti difficili ». Il fatto di aver molto vissuto prima di prendere i voti... «... anche ora vivo intensamente».
Sì, ma il fatto di aver avuto molte storie d’amore la rende un sacerdote migliore?
«Conoscere l’amore umano aiuta a conoscere meglio l’amore divino. Oggi posso dire che mi ha aiutato, mentre nel momento in cui lo vivevo avevo l’impressione che mi facesse male. Bisogna avere il tempo per elaborare l’esperienza».
I suoi rapporti con le gerarchie vaticane non sono stati sempre sereni.
«Si riferisce ad Antonio Maria Rouco Varela, ex vescovo di Madrid? Avevamo due modi molto diversi di intendere la presenza cristiana nel mondo. Potrei sintetizzarlo in due parole: alternativa oppure dialogo. L’alternativa ti porta a una visione chiusa del cristianesimo, separato da un mondo visto come sentinella di tutti i vizi. Il dialogo significa riconoscere nel mondo anche la bellezza e il bene. Dunque non ti impongo la mia verità assoluta, ma ti invito a metterti in dialogo con me per trovare insieme la verità. Francesco è un vero pontefice perché crea ponti intorno a sé».
Oggi lei lavora nell’ospedale di Ramón y Cajal. Come si accompagna una persona a morire?
«Ascoltando veramente ciò che dice, senza giudicare intellettualmente o caricare emotivamente. Ascoltare e basta, dimenticando se stessi, che è la cosa più difficile ».
Lei ha detto che morire da cristiani non comporta meno angosce che morire da laici.
«Un momento. Se sei davvero un credente ti aiuta. Non ti aiuta quando sei cristiano di nome ma non di cuore».
Ma si può vivere una buona vita senza Dio?
«Certo che si può vivere senza un Dio. Non si vive bene senza contatto con la fonte della pienezza, si chiami Dio, essere o vita. Persone come Einstein o Rousseau non erano credenti, ma capaci di esperienze spirituali profondissime».
Lei perché scrive romanzi? Pensava a sé quando fa dire a Pessoa: “Non scrivo ciò che penso, ma scrivo per pensare”?
«Uno ritiene ingenuamente che la scrittura serva per comunicare, ma questo vorrebbe dire che io so già cosa devo dire. In realtà la scrittura è rivelazione, nel senso che rivela a te stesso quello che devi scrivere. Non è un fatto solo intellettuale, ma più profondo, direi viscerale».
Ma perché poi lei è approdato all’elogio del silenzio? Non c’è un aspetto paradossale, ossimorico, nel biografare il silenzio?
«Solo in apparenza. Parola e silenzio sono le due facce di una stessa medaglia. Le parole vere, quelle che hanno la possibilità di toccare l’altro, nascono dal silenzio, ossia dall’intimità con se stessi. E approdano al silenzio perché la cosa più bella, quando leggi un libro, è il bisogno di ricreare tu stesso quello che hai letto. In fondo la letteratura è un invito a tacere».
Il silenzio come l’unica etica possibile. Lei lo fa dire a Thomas Bernhard.
«Sì, per me è stato fondamentale. È Bernhard a teorizzare che tutto è citazione. La letteratura nasce dalla letteratura. Anche i miei romanzi nascono ai margini dei libri altrui».
Lei si definisce scrittore erotico, mistico e comico. Ma cosa tiene unite cose così diverse?
«L’ironia è lo stile, misticismo ed erotismo sono i contenuti. Sia la mistica che l’eros cercano l’unità: ricompongono la separazione nell’unione dello spirito e dei corpi. Quanto alla leggerezza, è quella che genera l’allegria del lettore».
A proposito di leggerezza, ne Il debutto fa a pezzi Kundera e molti altri. Grandi scrittori, ma piccoli uomini.
«L’ironia ha anche una funzione liberatoria. Quasi una dichiarazione di principio: ecco i miei maestri, ma non voglio restare schiacciato sotto queste bestie della letteratura ».
Ma perché introdurre il tema corporale: l’organizzatrice slovacca che si lascia possedere da tutti i grandi intellettuali?
«Ho voluto mostrare un inganno. Noi ci illudiamo di possedere libri e persone. Ma, dal momento che non è possibile padroneggiare tutta la letteratura, la cosa più facile è accedere al corpo degli scrittori».
La sua critica ricorrente verso gli scrittori è di preferire la scrittura alla vita.
«Per molti la letteratura è un modo vicario di vivere la realtà. Credo invece che ciascuno dovrebbe fare un’opera d’arte non solo della scrittura, ma anche dalla propria vita. Thomas Mann l’ha capito benissimo. Proust e Kafka, al contrario, hanno sacrificato le loro esistenze alla letteratura».
Primum vivere. Ma i sacerdoti vivrebbero meglio con una donna al loro fianco?
«I tempi sono maturi anche per questa svolta, ma è solo una mia opinione personale. E nel Pontificio Consiglio, no, di questo non si parlerà».
Cappella Sistina, il respiro della luce
Simbolo di bellezza. Per 20 anni restauro luce e aria rinnovate
Ancora qualche giorno e tutto sarà pronto: la Cappella Sistina, simbolo universale di bellezza e luogo identitario della Chiesa Cattolica, tornerà a respirare un’aria nuova, restituendo nel contempo i colori delle sue pitture nel loro splendore originario.
Merito degli impianti di climatizzazione e illuminazione di ultima generazione che saranno inaugurati a fine mese, nel duplice anniversario dei 20 anni dal restauro della Volta e del Giudizio Universale e dei 450 anni dalla morte di Michelangelo: per l’occasione il 30 e il 31 ottobre verrà organizzato, presso l’Auditorium della Conciliazione, il convegno internazionale "La Cappella Sistina venti anni dopo. Nuovo respiro nuova luce" nel quale si farà il punto sui lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria (compresi i nuovi impianti) portati avanti dai Musei Vaticani per tutelare il monumento. ANSA
La Sistina cambia luce e aria
di Antonio Paolucci (Il Sole-24 Ore, 26 ottobre 2014)
Si può rischiare il collasso anche per eccesso di buona salute. È il caso della Cappella Sistina, percorsa ogni anno da quasi 6 milioni di visitatori, con punte di ventimila al giorno in certi periodi di particolare affluenza.
La "Cappella Magna" dei Palazzi Apostolici, oggi attrazione massima per chiunque varchi l’ingresso dei Musei Vaticani, ha dimensioni imponenti. È una "scatola" rettangolare coperta da 2.500 metri quadrati di affreschi (Michelangelo sopra tutti ma anche Botticelli e Perugino, anche Ghirlandaio e Cosimo Rosselli, anche Luca Signorelli e Bartolomeo della Gatta. È un ambiente lungo 40 metri, largo 13, alto al culmine più di 20. Tuttavia anche uno spazio di queste misure subisce le conseguenze di quella che chiamiamo la pressione "antropica". Perché la gente che entra incessantemente in Sistina, porta con sé polveri dall’esterno ed è conduttrice di umidità, di temperatura, di anidride carbonica. Tutto ciò produce un mix inquinante in grado di attivare, nei tempi lunghi, derive pericolose per la corretta conservazione degli affreschi.
Di questo rischio era ben consapevole lo storico direttore dei Musei Vaticani Carlo Pietrangeli il quale nel 1994, a conclusione del grande restauro diretto da Fabrizio Mancinelli e realizzato da Gianluigi Colalucci, volle mettere in opera un impianto di climatizzazione e ricambio d’aria affidato alla multinazionale Carrier, già allora azienda leader nel settore del condizionamento degli interni.
Nel tempo quell’impianto ha dimostrato i suoi limiti, per naturale usura e obsolescenza tecnologica ma soprattutto perché era stato tarato per una affluenza di pubblico pari a un terzo di quella attuale.
Era necessario sostituirlo con uno di nuova progettazione e di ultimissima generazione. È quello che abbiamo fatto. Dopo un lavoro di studi e di simulazioni durato tre anni che ha visto coinvolti Vittoria Cimino e Ulderico Santamaria, rispettivamente responsabili dell’Ufficio del Conservatore dei Musei e del Laboratorio di Ricerche Scientifiche insieme ai consulenti Cnr Mauro Matteini e Paolo Mandrioli e con il supporto dei Servizi Tecnici Vaticani guidati da P. Rafael della Serrana Villalobos con Roberto Mignucci - su progetto di Michel Grabon ingegnere capo della Carrier - oggi la Cappella Sistina ha un nuovo impianto di climatizzazione in grado di abbattere polveri e inquinanti e di contenere entro rassicuranti parametri temperatura, umidità ed emissioni di anidride carbonica.
"Nuovo respiro" quindi per la Cappella Sistina, come recita in epigrafe il Convegno che il 30 Ottobre prossimo presenterà nell’Auditorium di via della Conciliazione alla stampa e alla cultura internazionali, il nuovo impianto di climatizzazione.
"Nuovo respiro" ma anche "nuova luce" perché, finanziato dalla Osram che ha studiato e prodotto una tecnologia Led fortemente innovativa, la Sistina avrà su progetto di Marco Frascarolo - "lighting designer" e partecipe di un team interuniversitario europeo - l’impianto da lungo tempo atteso.
Finalmente i capolavori di Michelangelo (la Volta e il Giudizio) ma anche i murali mirabili che Sisto IV della Rovere affidò a Botticelli, a Perugino e agli altri maestri del Quattrocento, avranno l’illuminazione diffusa, quieta, totale, in grado di svelare la Sistina in ogni dettaglio e in tutta la sua complessità storica, iconografica, stilistica.
È giusto ricordare che i due impianti, quello di ricambio d’aria e quello illuminotecnico, per un costo superiore ai 3 milioni, sono stati offerti dalla Carrier e dalla Osram alla Santa Sede a titolo di pura liberalità.
Sono passati venti anni dal grande restauro Mancinelli-Colalucci che Giovanni Paolo II inaugurò l’8 Aprile del 1994; un restauro che provocò le furibonde polemiche, i dissensi, le perplessità che molti ricorderanno ma che oggi è da tutti considerato impeccabile ed esemplare, probabilmente il più felice del Novecento. Perché così vanno le cose a questo mondo. Il tempo è galantuomo e restituisce giustizia e verità.
A venti anni da quel celebre restauro e a 450 dalla morte di Michelangelo, avvenuta nel 1564 i Musei Vaticani hanno risposto al duplice anniversario nel modo che io ritengo migliore. Avremo potuto onorare quelle ricorrenze con una grande mostra dedicata al Michelangelo vaticano e sistino. Abbiamo preferito consegnare al capolavoro pittorico del Buonarroti un provvedimento durevole, non effimero perché la Sistina, luogo identitario della Chiesa di Roma e "Cappella del mondo", possa vivere nelle condizioni migliori per il tempo più lungo.
Né si pensi che abbiamo progettato e messo in opera un’operazione così complessa e costosa, per fare entrare ancora più gente in Sistina. A questo punto, ormai alle soglie dei 6 milioni annuali di visitatori, i Musei Vaticani invocano la crescita zero. Tarato sui massimali di oggi, il nuovo impianto di climatizzazione non prevede ulteriori aumenti di flusso. È semmai prevedibile - è l’impegno per il prossimo futuro - l’estensione degli impianti di climatizzazione ad altri settori particolarmente vulnerabili dei Musei Vaticani, quali le "Stanze" di Raffaello, la Galleria degli Arazzi, la Pinacoteca.
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Morire per la libertà. Ma uccidere? Bruto e la domanda impossibile di Tomaso Montanari (il Fatto, 06.10.2014)
Michelangelo non voleva farli, i ritratti. Gli pareva che non fosse così importante ricordare per sempre la faccia di qualcuno: quando gli fecero notare che una sua statua non assomigliava al principe che avrebbe dovuto rappresentare, rispose: «A chi importerà tra mille anni?».
Forse proprio per questo Michelangelo accettò invece di fare il ritratto di Bruto, un uomo vissuto quasi milleseicento anni prima. Bruto non è una figura facile, da amare: perché uccise il suo padre adottivo, Giulio Cesare, quando questi voleva uccidere la repubblica e farsi re. Per secoli ci si era chiesti: si può uccidere un tiranno? La libertà di tutti vale la vita del nemico di questa libertà? Il poeta che Michelangelo amava di più, Dante, aveva scritto che la libertà è così dolce che gli uomini sono disposti a morire pur di non perderla. A morire: ma anche ad uccidere?
Eppure Michelangelo volle scolpirlo, questo ritratto di Bruto. Perché ai suoi giorni il verso di Dante sulla libertà era scritto sulle bandiere verdi di chi combatteva per la libertà di Firenze, mortalmente minacciata da un nuovo Cesare: Cosimo I de’ Medici, insieme magnifico signore e terribile tiranno.
Nel 1538 si uccise in prigione Filippo Strozzi, il capo della resistenza che combatteva contro Cosimo. Egli lasciò una lettera bellissima e terribile, bagnata dal suo stesso sangue. E in quella lettera Filippo chiamava Cosimo con il nome del tiranno ucciso da Bruto: «E te, Cesare, prego con ogni reverenza t’informi meglio dei modi della povera città di Firenze, riguardando altrimenti al bene di quella, se già il fine tuo non è di rovinarla».
Michelangelo, che pure era cresciuto in casa Medici, la pensava come Filippo Strozzi: amava la libertà e la Repubblica, e quando toccò a lui la difese sul serio, lavorando a rafforzare le mura di Firenze. E quando, infine, fu chiaro che la partita era persa per sempre, non volle rimetter più piede nella sua Firenze ridotta in schiavitù.
Non aveva un carattere facile, Michelangelo. E anche il suo Bruto è difficile: con il suo collo taurino, lo sguardo duro, i capelli irrisolti come il nostro giudizio su di lui e sul suo gesto terribile. Non ci guarda negli occhi, Bruto: e di questo gli siamo grati. Così come siamo grati di essere nati in una delle rare epoche della storia umana in cui la libertà dobbiamo difenderla non con la forza del pugnale, ma con quella delle parole e delle idee. Le idee di Bruto: che saranno vive in questo marmo anche tra mille anni.
La luce cristiana sul Tondo Doni
L’opera del 1504 anticipa la volta della Cappella Sistina
Anche qui Michelangelo racconta la storia della salvezza
di Arturo Carlo Quintavalle (Corriere della Sera, 04.09.2014)
È difficile vedere opere troppo note, quasi consumate dalla riproduzione dei media. Ma, per vedere serve informazione, servono dati, elementi sicuri su cui costruire un discorso. Certo, anche così, la strada non è facile e lo dimostra proprio l’analisi del Tondo Doni il cui significato è da scavare, strato dopo strato.
Il dipinto, che conserva la cornice originale, è stato realizzato per il matrimonio di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, 3 gennaio 1504 ma, e qui cominciano i problemi, potrebbe essere stato realizzato per la nascita della figlia nel 1507 (Natali).
Dunque come mai la forma tonda? Per via di una tradizione, quella dei «deschi da parto» che, coi cassoni nuziali, sono a Firenze tanto diffusi? No, il dipinto appare proporre un discorso molto più complesso e proprio la cornice, con in alto scolpito il Cristo e, sotto, due Profeti e due Sibille, sembra alludere a un più articolato racconto.
Vediamo lo stile, il modo del dipingere. Il blocco delle figure in primo piano, Madonna, Bambino, San Giuseppe, incombe sullo spettatore, quasi sporge dal filo della cornice; dietro, un paesaggio deserto e le rocce semicircolari su cui posano figure maschili e femminili nude; a destra, oltre un striscia netta come un segnale prospettico, il San Giovannino.
Due dipinti ora alla National Gallery di Londra, ambedue incompiuti, sono gli antecedenti di questo: la Madonna Manchester e il Trasporto di Cristo. Il primo pezzo, da confrontare con la Madonna di Bruges scolpita agli inizi del secolo XVI, mostra il dialogo con la scultura antica, fa capire che Michelangelo guarda sì a Luca Signorelli, quello che dipinge attorno al 1490 una forte Sacra Famiglia agli Uffizi, e guarda anche al Botticelli dagli anni 90, ma il dialogo con l’antico è il tema portante. Anche il Trasporto di Cristo , che si data attorno al 1501, mostra il corpo del Redentore riverso come un esangue Meleagro, e anche le due figure che lo reggono mostrano un’attenzione precisa per l’arte romana.
Torniamo al tondo degli Uffizi: prima di tutto colpisce la torsione delle figure che non può essere casuale, Cristo scende dall’alto, Giuseppe lo porge alla Madonna protesa, le figure unite dal gesto staccano dai personaggi di fondo.
Uno sguardo più attento ci fa capire che il blocco in primo piano è scorciato dal basso, le figure dietro hanno un punto di vista in asse, a mezza altezza: perché? Charles De Tolnay suggerisce il senso del dipinto: confronto fra le due età, quella del Vecchio Testamento, i nudi al fondo, e quella del Nuovo con le tre figure in primo piano e San Giovanni come mediatore fra le due età. Conforta questa tesi la cornice con Profeti e Sibille e, in alto, in asse sulla Sacra Famiglia, la testa del Cristo che, di per sé, suggerisce la rappresentazione di un meta-tempo: Cristo bambino che scende in terra e, proprio sopra, scolpito nella cornice, il Cristo adulto che sceglierà il sacrificio.
Michelangelo ha avuto un periodo di formazione, fino al 1492, sulle raccolte di antichità romane degli Orti Medicei, ma per lui è stata altrettanto importante la scultura di Donatello, come anche quella di Bartolomeo Bellano; significativa poi è stata anche l’attenzione alla pittura di Masaccio, a lungo disegnato alla cappella Brancacci, e la ricerca di Luca Signorelli, con quegli spazi vuoti, quei paesaggi senza storia, gli stessi che vediamo nel tondo Doni e negli altri dipinti.
La forma tonda ha un significato particolare per Michelangelo: è una premessa a questa composizione il Tondo Taddei, ora a Londra, incompiuto, datato attorno al 1502: ancora una volta un primo piano della Madonna di profilo, il blocco sporgente, il Bambino che evoca una scultura antica e, a sinistra, il San Giovannino.
Certo, Michelangelo evoca spesso lo stiacciato di Donatello ma le sue sculture hanno un significato simbolico più complesso, come la Madonna della Scala di Casa Buonarroti dove la scala rappresenta la salvezza e la prospettiva, ancora una volta, è diversa per la Madonna e Bambino e per la rampa vista di scorcio.
Un quadro è anche colore, ma qui siamo davanti a qualcosa di diverso dalla analitica moltiplicazione dei toni di Botticelli, di Ghirlandaio, o degli altri maestri contemporanei, salvo forse Pollaiolo; qui i colori sono il rossiccio delle carni affocate, l’azzurro del manto della Madonna, il giallo della luce che domina ovunque e il bruno; gli stessi colori che Michelangelo utilizzerà fra breve per la volta della Sistina e che sono probabilmente allusivi ai quattro elementi, terra aria acqua e fuoco. Insomma il dipinto sembra assumere un significato complesso che unisce cornice, forme dipinte, colori.
Ma perché queste scelte così articolate e nuove? Secondo la riflessione neoplatonica, mediata a Firenze dalla Teologia Platonica di Marsilio Ficino (1482), il mondo è imperfezione, la Luce divina lo penetra e illumina in gradi diversi, una luce qui diffusa ovunque; anche le espressioni dei volti, il racconto del quotidiano deve essere sublimato; così lo spazio vuoto di eventi pone il segno della venuta del Cristo fuori del tempo.
Michelangelo, con la sua tagliente definizione delle forme, si contrappone allo sfumato leonardesco e, a riprova, si pensi alla distanza dal cartone della Madonna e Sant’Anna del pittore di Vinci (1505 c.). Del resto proprio con Leonardo, a Palazzo Vecchio chiamato a dipingere la Battaglia di Anghiari (1503-1504 c.), si confronterà Michelangelo che sceglie di rappresentare, per la Battaglia di Cascina ,(1504-1506), una proda scoscesa dove i soldati fiorentini si stanno bagnando, una proda che sembra echeggiare proprio questa del Tondo Doni. Raffaello, che nel 1507 dipinge la Deposizione per Malatesta Baglioni, cita nella predella proprio Michelangelo ma, nel quadro, sceglie una messa in scena drammatica, descrivendo analiticamente volti, figure e il naturale.
Come Raffaello anche Michelangelo nel 1508 è chiamato da Papa Giulio II a Roma dove dipingerà dal 1508 al 1512 la volta della Sistina continuando il racconto che, nel Tondo Doni, ha prefigurato come cosmico confronto sulla salvezza dell’uomo. Appunto il tondo, simbolo di una salvezza che si pone fuori del tempo e della storia.
Le donne e la Chiesa
Le vie del Papa per la questione femminile
di Carlo Marroni (Il Sole-24 Ore, 09.07.2014)
«La Madonna è più importante degli apostoli, la Chiesa è femminile, è sposa, è madre, e il ruolo della donna nella Chiesa non solo deve finire come mamma, come lavoratrice... limitata. No, è un’altra cosa!!!». Così esclamava un anno fa papa Francesco durante il viaggio di ritorno dal Brasile, interpellato sul ruolo delle donne nella Chiesa. Un tema ricorrente nell’apostolato del papa argentino, che più volte ha messo la donna al centro dell’attenzione. Qualcosa sta cambiando? Il tema è affrontato e analizzato da Papa Francesco e le donne, un bel libro pubblicato dal Sole 24 Ore in collaborazione con l’Osservatore Romano, in edicola da oggi e per un mese insieme al quotidiano. *
Il libro raccoglie tutti i testi in cui il Pontefice ha parlato della "questione femminile" nella Chiesa. Testi efficaci, profondi, sorprendenti, che hanno suscitato attenzione e che sono introdotti da due saggi di Giulia Galeotti e della storica Lucetta Scaraffia, firme di punta del quotidiano della Santa Sede, diretto da Giovanni Maria Vian, che da due anni pubblica un inserto mensile femminile.
«In un contesto di emancipazione femminile realizzato, quale è quello dei Paesi occidentali, l’atteggiamento della Chiesa sembra invece rovesciarsi. Soprattutto in una cultura in cui l’emancipazione delle donne è misurata sul libero accesso agli anticoncezionali e sulla legalizzazione dell’aborto, la Chiesa viene percepita come una nemica dell’emancipazione. A questo conflitto culturale si aggiunge - scrive Lucetta Scaraffia - l’assenza di donne nelle sfere decisionali della Chiesa, benché le religiose siano, almeno per ora, molto più numerose dei religiosi. Inoltre, esse sono in genere relegate in ruoli di sottoposte con compiti subalterni".
Gli ultimi dati disponibili, risalenti al 2012, dicono che le religiose cattoliche nel mondo sono 702.529, i religiosi (esclusi i sacerdoti) 55.314: a livello mondiale i maschi costituiscono il 7% della comunità religiosa cattolica. Le proporzioni cambiano se ai maschi religiosi sommiamo i vescovi (5.133) e i sacerdoti (414.313): in questo caso il peso femminile risulta ridimensionato, ma le donne rappresentano comunque il 60% della Chiesa consacrata, quindi un’ampia maggioranza. "Le donne nella Chiesa ci sono - scrive Giulia Galeotti - sono molte e fanno tantissimo (...) Eppure non contano. È incredibile la discrasia tra il reale impegno femminile nella Chiesa a tutti i livelli e il misero spazio che è loro lasciato ai vertici (...) Davvero - si chiede Galeotti a proposito degli uomini di Chiesa - non vedono oppure torna loro più comodo fingere di non vedere?".
Emblematiche appaiono le parole di suor Viviana Ballarin, che in passato ha guidato l’organismo da cui dipendono gli ordini femminili italiani: "È ancora raro che nella Chiesa siano affidati alle donne ruoli a più ampio respiro, di responsabilità, di decisionalità". La causa? Per Ballarin alla fine il nodo è un influsso culturale che "influenza e condiziona anche la Chiesa degli uomini. Ma non la Chiesa di Cristo". Parole coraggiose in un contesto "gerarchico" come quello ecclesiastico, che testimoniano come il dibattito sul tema sia franco e aperto, con prese di posizione decise.
In questo contesto sono provvidenziali le posizioni di Francesco che denuncia con una sincerità e un coraggio nuovi la condizione di subalternità in cui si trovano oggi le donne nella Chiesa. Dal libro emerge anche un’ansia di fondo, il timore che la straordinaria apertura del papa, per quanto forte e autorevole, da sola non sia sufficiente per un cambio strutturale e duraturo, che richiede una riflessione profonda a tutti i livelli.
E infatti l’ultimo capitolo del libro si intitola "Un cantiere aperto", "un cantiere - scrive Scaraffia - di cui il Papa indica sempre più nettamente le caratteristiche. Cominciare ad affrontare la situazione dal punto di vista teologico significa muoversi in una direzione ben lontana da quella auspicata da chi pensa semplicemente che la Chiesa si debba adeguare al mondo, introducendo donne a tutti i livelli di potere di decisione".
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“La donna per la Chiesa è imprescindibile” Il rivoluzionario pensiero di Papa Bergoglio sulle donne
Papa Francesco e le donne
Edizioni Il Sole 24 Ore,
Dal 9 luglio in edicola a 9,90 euro
«Papa Francesco, rivoluzionario per tanti aspetti, lo è anche per quanto riguarda la questione delle donne nella vita della Chiesa. Bergoglio denuncia con una sincerità e un coraggio veramente nuovi la condizione di subalternità in cui si trovano oggi le donne nella Chiesa, e chiede uno studio teologico approfondito per motivare una loro presenza più autorevole. Un approfondimento necessario non solo per risolvere la questione femminile, ma anche per riformare la Chiesa facendone il luogo dell`accoglienza, della compassione, dell`amore fraterno».
Sebben che siamo donne non ci fa paura la filosofia
Il «pensiero femminile» è socialmente discriminato: un condizionamento negativo
La “rabbia” di una filosofa americana del Mit: in questo campo siamo discriminate, molte di noi costrette a lasciare
di Franca D’Agostini (La Stampa, 25.03.2012)
Sally Haslanger è una delle più brillanti filosofe americane: in un articolo su Hypathia confessa che da quanto è arrivata al Mit, nel ’98, si è più volte domandata se non fosse il caso di lasciare la filosofia “C’ è in me una rabbia profonda. Rabbia per come io sono stata trattata in filosofia. Rabbia per le condizioni ingiuste in cui molte altre donne e altre minoranze si sono trovate, e hanno spinto molti a lasciare. Da quando sono arrivata al Mit, nel 1998, sono stata in costante dialogo con me stessa sull’eventualità di lasciare la filosofia. E io sono stata molto fortunata. Sono una che ha avuto successo, in base agli standard professionali dominanti». S’inizia così «Changing the Ideology and Culture of Philosophy», un articolo di Sally Haslanger, una delle più brillanti filosofe americane, apparso su Hypathia .
C’è un problema, che riguarda le donne e la filosofia: inutile negarlo. «Nella mia esperienza è veramente difficile trovare un luogo in filosofia che non sia ostile verso le donne e altre minoranze», scrive Haslanger. E se capita così al Mit, potete immaginare quel che succede in Italia. È facile vedere che, mentre in tutte le facoltà le donne iniziano a essere presenti (anche se rimane il cosiddetto «tetto di cristallo», vale a dire: ai gradi accademici più alti ci sono quasi esclusivamente uomini), in filosofia la presenza femminile scarseggia.
Non sarà forse che le donne sono refrattarie alla filosofia, non la capiscono, non la apprezzano? Stephen Stich e Wesley Buchwalter, in «Gender and Philosophical Intuition» (in Experimental Philosophy, vol. 2), hanno riproposto il problema, esaminandolo nella prospettiva della filosofia sperimentale: una tendenza filosofica emergente, che mette in collegamento le tesi e i concetti filosofici con ricerche di tipo empirico (statistico, neurologico, sociologico, ecc). La prima conclusione di Stich e Buchwalter è che effettivamente sembra esserci una «resistenza» del «pensiero femminile» di fronte ad almeno alcuni importanti problemi filosofici. Stich e Buchwalter si chiedono perché, e avanzano alcune ipotesi, ma non giungono a una conclusione definitiva.
Le femministe italiane di Diotima avrebbero pronta la risposta: la filosofia praticata nel modo previsto da Stich e compagni è espressione estrema del «logocentrismo» maschile, dunque è chiaro che le donne non la praticano: sono interessate a qualcosa di meglio, coltivano un «altro pensiero». Ma qui si presenta un classico problema: in che cosa consisterebbe «l’altro pensiero» di cui le donne sarebbero portatrici? Se si tratta per esempio di «pensiero vivente», attento alle emozioni e alla vita, come a volte è stato detto, resta sempre da chiedersi: perché mai questo pensiero sarebbe proprio delle donne? Kierkegaard, che praticava e difendeva una filosofia di questo tipo, era forse una donna?
Forse si può adottare un’altra ipotesi. Come spiega Miranda Fricker in Epistemic Injustice (Oxford University Press, 2007) le donne subiscono spesso ciò che Ficker chiama ingiustizia testimoniale, vale a dire: ciò che pensano e dicono viene sistematicamente sottovalutato e frainteso. Un’osservazione fatta da una donna che gli uomini non capiscono, per ignoranza o per altri limiti, viene all’istante rubricata come errore, o come vaga intuizione. Fricker cita Il talento di Mr. Ripley: «Un conto sono i fatti, Marge, e un conto le intuizioni femminili», dice il signor Greenleaf. Ma Marge aveva ottime ragioni nel sostenere che Ripley aveva ucciso il figlio di Greeenleaf.
In questa prospettiva il quadro muta. Consideriamo la rilevazione dell’attività cerebrale di un ragazzo e una ragazza che svolgono una prestazione intellettuale «di livello superiore», ossia risolvono per esempio un’equazione difficile. A quanto pare, mentre il cervello del ragazzo si illumina in una sezione molto circoscritta dell’emisfero frontale, il cervello della ragazza si illumina in modo diffuso, diverse zone dell’encefalo sono coinvolte. Ecco dunque la differenza emergere dai fatti cerebrali: le donne - così si dice - avrebbero un’intelligenza aperta e «diffusa». Naturalmente, questa diffusività è un limite: è appunto la ragione per cui le prestazioni intellettuali femminili sarebbero meno rapide ed efficaci. L’ipotesi differenzialista a questo punto ribatte: attenzione, l’intelligenza diffusa è un pregio, ed è il mondo che privilegia rapidità ed efficacia a essere sbagliato.
Ma l’altra ipotesi - che tanto Haslanger quanto Fricker indirettamente sostengono - sembra più ragionevole: se c’è un «pensiero femminile», la sua prima caratteristica consiste nell’essere un pensiero socialmente discriminato, che subisce sistematicamente ingiustizie testimoniali. Il cervello discriminato è coinvolto sul piano emotivo, a causa del grande quantitativo di ingiustizia che ha dovuto subire. E a questo punto il mistero è risolto: provate voi a risolvere un difficile problema filosofico in un ambiente in cui tutto vi dice che non sapete risolverlo. Provate, in più, avendo dentro di voi la rabbia descritta da Haslanger: quella che vi viene dal conoscere questa ingiustizia, che riguarda voi ma anche altre persone, e altre minoranze discriminate (anche tra i neri non ci sono molti filosofi). Poi vedete un po’ se non vi si illumina tutto il cervello.
Il depistaggio di Erasmo
Scrisse il libello su Papa Giulio II cacciato dal Paradiso poi finse di investigare per scoprire l’autore dell’opera
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 13.04.14)
Anna Peeters, protagonista del romanzo di Simenon Chez les Flamands (1932: La casa dei Fiamminghi), convoca nel suo paesino sul confine del Belgio, Givet, da Parigi, il commissario Maigret perché indaghi sulla uccisione di Germaine Piedboeuf. Anna è in realtà colei che ha ucciso la ragazza: per stornare i sospetti che nel paese si indirizzano verso i Peeters, ricchi e poco amati fiamminghi, Anna promuove essa stessa la caccia all’assassino. Maigret lo capirà dopo un bel po’, ma, non essendo in missione ufficiale, non denuncerà la donna. Ripartirà per Parigi di umore nero.
Un grande fiammingo, Erasmo da Rotterdam, adottò, in una situazione delicata, la stessa tattica di Anna Peeters. Autore - come Silvana Seidel Menchi ha definitivamente dimostrato - della feroce satira postuma contro il terribile Pontefice Giulio II (Giulio , Einaudi, pp. CXLIV+168, e 28), Erasmo, non appena il libello cominciò a circolare suscitando clamore, fu lui stesso ad ostentare zelo nel dare la caccia all’autore. «Molto presto - scrive la dotta curatrice - fu lui a guidare la caccia». «Illustrò la difficoltà del problema. Avanzò congetture riguardo al luogo di nascita dell’opuscolo: la terra d’origine, suggerì, doveva essere la Francia, dove queste quisquilie circolavano con sfrenata licenza, oppure la Spagna. Sulla identità dell’autore avallò molteplici e contraddittorie congetture».
Il libello era suo. E l’autrice di questa eccellente edizione dimostra in modo ferreo che a lungo era sopravvissuto e aveva circolato l’autografo, indubitabilmente di pugno di Erasmo. Il che rende comico il perbenismo dei molti studiosi, anche grandi, che si sono affannati, nei secoli, a negare la paternità erasmiana del libello.
Qual è il contenuto di questa satira in elegante latino e in forma di dialogo? Il Papa, appena passato nel mondo dei più, si reca in Paradiso con un imponente seguito di armigeri e accompagnato però anche da un sardonico «Genius» - il suo Genio! - che gli fa il controcanto. Le chiavi di San Pietro, che ha con sé, non gli funzionano: La porta del Paradiso è sbarrata e San Pietro, guardiano guardingo, si guarda bene dal farlo entrare. Tra i due si intreccia un dialogo via via più aspro. Pietro interpreta P.M. (Pontifex Maximus ) come Pestis Maxima.
Le allusioni ai molti vizi del Pontefice abbondano, ma soprattutto il nucleo dello scontro sta nel fatto che tutto ciò che Giulio II adduce come argomenti a proprio favore, che dovrebbero legittimare il suo ingresso trionfale in Paradiso (potenza mondana, violenza, guerre, ambizione sfrenata), appare a Pietro come fondamento certo per escludere Giulio II dal cielo.
In tal modo viene ripercorsa l’intera parabola di quel pontificato simoniaco e ultrapolitico. Quello che al Papa appare come trionfo della Chiesa è invece per Pietro l’infamia in cui la Chiesa è stata da lui ridotta.
Al termine - ed è conclusione lievemente ambigua - Pietro suggerisce a Giulio di andare altrove a edificare un paradiso tutto suo, nel quale avrà stanza anche il suo esercito: «Costruisciti un nuovo paradiso, ma ben fortificato, che non possa essere espugnato dai diavoli». E Giulio si allontana minacciando: tornerà con un esercito ancora più grande, composto dai moltissimi morti delle guerre che sulla terra continuano incessanti. (Macabra ironia che fa pensare alla carducciana Sacra di Enrico Quinto ).
Lo spunto per l’invenzione della trama - un sovrano, il Pontefice, scacciato dal cielo, dove sembrava ovvio dovesse approdare - venne ovviamente a Erasmo dalla grande novità del momento: la appena edita (agosto 1513) Apocolocintosi di Seneca. Giulio II era morto nel febbraio, ed Erasmo, come la Seidel Menchi ha dimostrato, si mette a scrivere nel maggio 1514.
Del resto Erasmo si era già ispirato esplicitamente alla Apocolocintosi anche nell’Adagio 201 («Re o stolti si nasce »). In quel libello fulminante, Seneca immaginava che l’imperatore Claudio, appena morto, e perciò fatto dio secondo una prassi instaurata da Augusto, salisse al cielo ma, a seguito di un acceso dibattito, nel concilio degli dei, ne venisse scacciato soprattutto per l’efficace, vibrante invettiva di Augusto contro di lui. Nel corso della quale, il fondatore del principato, tracciava un profilo feroce del governo di Claudio e delle sua tare. Lo stesso accade nel Giulio , nel corso del dialogo tra Giulio II e San Pietro.
Erasmo aveva avuto tra mano l’editio princeps della satira di Seneca e l’aveva riedita nel 1515 stampandola insieme all’Elogio della follia, nel cui capitolo 59 c’è già il nucleo della satira contro Giulio II. Sia consentito dire che Seneca fu più breve e più efficace.
Alle fonti ispiratrici di Erasmo io credo si debbano aggiungere anche i Cesari dell’imperatore Giuliano (volgarmente detto l’Apostata). Satira, anche questa, culminante nella finale cacciata dall’Olimpo di un altro sovrano: Costantino («detto dai preti il Grande» diceva Engels), inviso a Giuliano come a tutti i seguaci delle antiche fedi religiose e filosofiche. Costantino viene distrutto, nell’esame che vien fatto della sua criminosa carriera, e alla fine scacciato dall’Olimpo, accompagnato dalla Mollezza e dalla Débauche. Giuliano, sferzante, fa dire conclusivamente a Ermes che Gesù ha l’impudenza di cancellare i peccati: àncora di salvezza per un cattivo soggetto come Costantino.
Che Erasmo conoscesse questo testo, la cui edizione a stampa fu molto ritardata (1577), è probabile, se solo si considera che il Marciano greco 366 (manoscritto del «tesoro di Bessarione» = nr. 75 dell’inventario del 1474) può averlo visto a Venezia durante l’anno (1507-1508) in cui vi soggiornò in stretto contatto con Aldo Manuzio, curando la stampa degli Adagia . Non va dimenticato inoltre che il più importante codice giulianeo, il Vossiano greco F 77, aveva circolato tra Giovanni Crisolora e Gemisto Pletone, per giungere poi a Padova e infine, dopo molto, a Isaac Vossius.
La stampa senza nome d’autore, a cura di Hutten, luterano verace, del Giulio ebbe un successo enorme. Erasmo si spaventò e si consacrò a fabbricare le false piste di cui s’è detto in principio.
Anche Hutten, del resto, pubblicò anonime le sue Lettere di uomini oscuri , ferocemente antipapali, rivolte soprattutto contro Leone X e la sua corte. La questione che si presenta è dunque quella della prudenza e della doppiezza: due doti tipiche degli umanisti, non solo di quei tempi. Si può dire che in Hutten si rileva la prudenza, in Erasmo la doppiezza.
Erasmo, un Sileno per l’Europa
Il ritratto di Carlo Ossola del grande uomo del Rinascimento, maestro di saggezza e di equilibio nel secolo dei conflitti religiosi
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22.02.2015)
Frutto di un corso tenuto al Collège de France nel 2012-13 e pubblicato nel 2014 in francese, il saggio di Carlo Ossola - illustre collaboratore di questo supplemento - offre una rivisitazione di alcuni nodi del pensiero erasmiano nel solco della riflessione che sul grande umanista fiammingo si svolse nel «notturno d’Europa», e cioè nel cupo entre-deux-guerre dominato dai totalitarismi nazi-fascisti.
Non una sintesi del pensiero erasmiano, e tantomeno una biografia, ma pensieri e suggestioni su Erasmo e i suoi rapporti con altri grandi protagonisti dell’età sua: Lutero, Rabelais, Machiavelli. Pochi anni, per esempio, separano il Principe (1513) dall’Institutio principis christiani (1516), ma un vero e proprio abisso separa la spregiudicata teorizzazione politica del primo dall’umanesimo cristiano del secondo, anche perché l’uno scriveva nell’Italia «più stiava che li Ebrei, più serva ch’e’ Persi, più dispersa che li Ateniensi, sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa», e l’altro per Carlo V d’Asburgo che si accingeva a cingere la corona imperiale e diventare signore di mezzo mondo.
Eppure molto probabilmente fu dagli Adagia del grande umanista fiammingo, la celebre antologia di detti e proverbi degli antichi, che Machiavelli desunse l’immagine della «golpe» e del «lione» quali metafora della forza e dell’astuzia che i detentori del potere devono imparare a usare e dosare, senza farsi troppi scrupoli sulla loro liceità. Ma anche riflessioni e suggestioni sulla eredità di Erasmo, sugli usi (e talora abusi) tra Cinquecento e Ottocento del suo immenso lascito intellettuale e, non senza vivaci spunti polemici, sulla storiografia novecentesca.
Scritte in punta di penna, attraversando con elegante disinvoltura secoli e frontiere della cultura europea, le pagine di Ossola sono tutt’altro che neutrali nel presentare un Erasmo non solo maestro inarrivabile di sapere, di erudizione, di moralità desunta da una tradizione classica profondamente introiettata, ma anche maestro di equilibrio, di saggezza, di moderazione, di «riservatezza, sobrietà, armonia» (p. 14) di fronte alle drammatiche fratture religiose che si stavano aprendo sotto i suoi occhi e che in un breve volgere di anni avrebbero diviso la res publica christiana (l’universo cosmopolita nel quale egli si muoveva a proprio agio) e innescato guerre, controversie, conflitti destinati a durare per secoli all’insegna del fanatismo e dell’odio teologico.
Invano nel 1533, tre anni prima di morire, egli avrebbe scritto il De amabili Ecclesiae concordia, un accorato appello all’unità dei cristiani, nonostante in passato egli fosse stato il critico più severo dei frati accidiosi e corrotti, dei prelati di curia insensibili a ogni istanza riformatrice, dei pontefici impegnati a combattere con le armi in pugno invece che a predicare il vangelo, di un cattolicesimo superstizioso fatto di gesti ripetitivi e pratiche simoniache.
Ma al tempo stesso non aveva mancato di rinfacciare a Martin Lutero gli sconquassi che stava causando e di attaccarlo sulla questione del libero arbitrio in cui a suo avviso si radicavano la dignità e responsabilità morale della natura umana. Fu lo stesso riformatore sassone, nelle sue rabbiose risposte, a dargli atto di aver affrontato una questione ben più significativa di quelle dei tanti controversisti cattolici che insistevano su temi secondari e a riconoscere che solo Erasmo era stato «il lupo capace di morderlo alla gola».
Erede di una tradizione che proprio al Collège de France ha avuto predecessori illustri come Augustin Renaudet, autore tra l’altro di un Erasme et l’Italie, e Marcel Bataillon, cui si deve quell’Erasme et l’Espagne ormai diventato un classico della storiografia, ma anche di Pierre de Nolhac, di Johan Huizinga, di Stephan Zweig, Ossola addita in Erasmo un grande maestro della cultura occidentale e della moderna identità europea proprio nella misura in cui nell’età sua egli fu sconfitto, aspramente attaccato e talora deriso dai protestanti come un traditore del vangelo e un infingardo opportunista, ma anche condannato senza appello e messo all’Indice dall’ortodossia romana. Per questo lo affianca spesso ad altre figure d’eccezione, come il suo amico Tommaso Moro (evocato anche nel titolo dell’Elogio della pazzia, in latino Moriae encomium) o Michel de Montaigne.
Ne scaturisce il profilo di «un Rinascimento critico che li pone al di sopra della querelle della Riforma» (p. 11), di «un Cinquecento che non si lasciò irretire dalle contese religiose, che tolse all’eredità classica i paludamenti aulici e alla tradizione patristica i tratti apologetici per andare a fondo nell’esame della condizione umana» (p. 13), nutrito della consapevolezza che la verità si manifesta «in progresso di tempo, vive nella e attraverso la storia» (p. 22) e si basa sulla filologia, la discussione libera e franca, il rispetto reciproco, il «rovesciamento costante della doxa nel paradosso» (p. 47), e non su incontrovertibili certezze dogmatiche e ottusa intolleranza. Per questo Erasmo piacerà a Voltaire, impegnato nella strenua battaglia contro l’infâme delle conversioni forzate e delle persecuzioni religiose.
È un’immagine classica di Erasmo, non a caso affermatasi soprattutto negli anni più cupi della storia dell’Europa novecentesca, quando all’autore del Lamento della pace e del Dolce è la guerra a chi non la conosce si poteva guardare come a un faro della civiltà che rischiava di essere travolta da brutali tirannie e aberranti ideologie destinate inevitabilmente a precipitare in guerre atroci e devastanti.
Ma ad essa occorre affiancare anche un’altra immagine, quella cui rinvia uno degli emblemi di Erasmo, i Sileni, le mitiche divinità silvestri che nascondevano sotto sembianze grottesche tesori di saggezza, riprodotte nell’antichità in piccole raffigurazioni scultoree che potevano essere aperte per scoprire al loro interno immagini divine. Una sorta di metafora della doppiezza, del segreto, dell’andare oltre la scorza delle cose per indagare verità più profonde, e perciò stesso più inquietanti ed eversive, da trasmettere e divulgare con cauta prudenza.
Lo stesso Cristo - scriveva Erasmo - era stato uno «straordinario Sileno» (p. 33). Sotto la silenica maschera erasmiana fatta di moderazione ed equilibrio, infatti, si cela anche un pensatore radicale, che nel condannare le astiose controversie teologiche insinuava il dubbio che le certezze religiose per cui si combatteva e si ammazzava alla fin fine fossero di scarsa rilevanza e poco avessero a che fare con il vangelo di Gesù Cristo. Lasciava intendere insomma che il fondamento della fede risiede solo e soltanto nella coscienza del credente e che la sua autenticità si misura sull’amore del prossimo e non sull’obbedienza a un codice immutabile di verità dottrinali e alle gerarchie ecclesiastiche che nei diversi contesti si attribuiscono il diritto di esserne gli unici e supremi custodi.
Il cartello dei sessisti
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 11.03.2014)
NON è passata l’alternanza uomo-donna nelle liste elettorali. La curiosa neutralità del governo e del decisionista Renzi su questo punto e il voto segreto hanno lasciato libero il campo al “cartello” che da sempre e trasversalmente difende strenuamente la quota azzurra. Anche parte del Pd, in contrasto con lo statuto e le dichiarazioni ufficiali, si è schierata a difesa del mantenimento dello status quo.
Una situazione che lascia alla discrezione delle segreterie dei partiti se e quante donne mettere in condizione di essere elette di fatto proteggendo lo status quo in cui gli uomini sono maggioranza. Perché solo di questo si tratta. È un errore, infatti, parlare di quote rosa ogni volta che si cerca di scalfire il monopolio maschile, di ridurre le “quote azzurre”, che molti uomini (ed anche qualche donna) continuano a ritenere un naturale diritto divino in tutti i luoghi di potere politico ed economico.
Sarebbe molto più corretto parlare di norme antimonopolistiche, che impediscano la formazione di un “cartello” basato sul sesso. Sarebbe più chiaro qual è la posta in gioco e chi sta difendendo che cosa. E forse molte donne smetterebbero di sentirsi in colpa, o “panda” ,ogni volta che si chiede una correzione. Perché la categoria (auto-) protetta, molto strenuamente, è quella degli uomini, che sono riusciti a far passare come ovvia e meritevole la loro presenza, mentre quella delle donne è sempre frutto o di usurpazione indebita, o di graziosa concessione, non di meccanismi che consentano di correre alla pari.
Renzi ha dichiarato che la “vera parità” c’è quando le donne che fanno lo stesso lavoro degli uomini sono pagate come loro. Ma questa è solo una parte del problema. La questione è che le donne, nel lavoro come in politica partecipano a corse con handicap. Non mi riferisco solo al peso del doppio lavoro, ma proprio al fatto che sono corse truccate da chi detiene le chiavi di ingresso e dagli arbitri.
Che di “cartello” si tratti è evidente ovunque, che si tratti di consigli di amministrazione delle società quotate in borsa, di Corte costituzionale, di presidenze e membership nelle Authority, di presidenze dei vari enti pubblici e parapubblici, in generale di nomine nei posti che contano, chiunque sia chi ha il potere di nomina. È ancora più evidente nel caso delle liste bloccate. Perché, esattamente come era nel Porcellum, nulla è lasciato al caso e tanto meno alla scelta degli elettori (con in più la beffa delle candidature multiple).
L’elezione o meno di un numero congruo di donne non dipende né dalla disponibilità degli elettori a votarle, né dalla disponibilità di un numero adeguato di donne con le competenze e riconoscibilità necessarie. Dipende esclusivamente dalla posizione in cui saranno in lista. Solo perché il Pd alle ultime elezioni ha messo molte donne in posizione alta nelle proprie liste, la percentuale di donne oggi presente in Parlamento è la più alta di sempre. Bene che ne siano diventate consapevoli anche molte parlamentari di altri partiti.
Meno, apparentemente, le neo-ministre, stranamente silenti sul punto, come se la cosa non le toccasse e non ne sentissero alcuna responsabilità e con loro gran parte dellevecchie e nuove “renziane”. Sosterranno che pur di far passare l’Italicum si possono anche sacrificare le “quote rosa”, senza rendersi conto di difendere così quella azzurra e in ogni caso di aver contribuito ad ulteriormente indebolire la credibilità del loro partito, sempre più inaffidabile nella difesa dei propri principi, quanto disposto a tutti i compromessi sulle richieste altrui (si veda anche l’accettazione delle candidature multiple). Chi si è opposto all’alternanza uomo-donna in lista non ha fatto altro che difendere la quota maschile, che, nel caso di alcuni partiti (ad esempio la Lega), può arrivare al cento per cento.
Certo, ci sono molte altre cose discutibili in questa nuova legge elettorale dal punto di vista della democrazia e della rappresentanza. La democrazia non si risolve con una presenza equilibrata di uomini e donne nelle liste elettorali. Le donne come tali, inoltre, non sono necessariamente meglio degli uomini come tali.
Allargare il pool degli eleggibili, tuttavia, potrebbe, chissà, persino far riflettere un po’ meglio sulle caratteristiche necessarie, mettere in moto dinamiche differenti, dentro e fuori i partiti e nella definizione delle priorità nelle cose da fare. Diverse ricerche hanno mostrato che una presenza consistente di donne nei consigli di amministrazione migliora la performance delle aziende. Perché non dare questa chance anche alla gestione del Paese?
Il volto femminile di Dio
di Ludovica Eugenio (“Leggendaria”, gennaio 2014)
Durante il volo di ritorno dalla Giornata mondiale della Gioventù, svoltasi a Rio de Janeiro nel luglio del 2013, papa Francesco, rispondendo alle domande dei giornalisti, ha affermato di voler «lavorare più duramente per sviluppare una profonda teologia della donna». Che cosa questo significhi concretamente lo si vedrà in futuro, ma quello che è certo è che queste parole lasciano trasparire la mancanza di un riconoscimento della strada che la teologia femminile, vitale e creativa, ha compiuto nel corso di tanti anni. Concetto, questo, espresso limpidamente dalla teologa brasiliana Ivone Gebara in un articolo per Brasil de fato (2 agosto 2013): «Come può papa Francesco semplicemente ignorare la forza del movimento femminista e la sua espressione nella teologia femminista cattolica?», ha scritto.
Sottolineando come l’abbondante e innovativa produzione teologica femminista continui a risultare «inadeguata per la razionalità teologica maschile» e a rappresentare «una minaccia al potere maschile dominante nelle Chiese», Ivone Gebara denuncia come «la maggior parte degli uomini di Chiesa e dei fedeli» consideri la teologia «una scienza eterna basata su verità immutabili e insegnata soprattutto da uomini», oppure, e in seconda battuta, dalle stesse donne ma «secondo la scienza maschile prestabilita». Si ha qui una rappresentazione plastica, di fatto, delle coordinate da cui ha preso le mosse ed entro cui si è sviluppato il pensiero teologico femminile. Così come nella società, infatti, anche nella Chiesa le donne hanno avuto un ruolo fondamentalmente marginale, nonostante l’affermazione solenne, nella Lettera di San Paolo ai Galati , che con il Battesimo non vi sono più distinzioni di etnia, di condizione sociale, di genere (Gal 3,28).
In un mondo teologico storicamente e tradizionalmente maschile, in cui sono sempre stati gli uomini a creare dottrina, morale, leggi, spiritualità, a celebrare i sacramenti e a trasmettere il Vangelo, la sapienza femminile è rimasta inespressa, complice anche una misoginia - strisciante ma non troppo - di cui la teologia maschile si è fatta portatrice (l’autore della prima Lettera a Timoteo, ma anche Tertulliano, nel II secolo, e persino Agostino e Tommaso d’Aquino, fino a Martin Lutero).
Sulla ricchezza della donna sono state le donne stesse a riflettere. E hanno cominciato a farlo in tempi piuttosto recenti, da quando cioè, negli anni Sessanta e Settanta, hanno assunto consapevolezza della loro condizione di “secondo sesso” dando il via alla lotta per la propria emancipazione; questa riflessione è approdata anche al mondo religioso, a partire dalla convinzione che il volto delle donne potesse essere un riflesso del volto femminile di Dio e che tale dimensione, oscurata nel corso di quasi due millenni, dovesse andare recuperata.
Con molti percorsi diversi, e a partire da contesti differenti, le donne hanno cominciato a cercare nuovi modi di esprimere il divino e modelli di spiritualità che tenessero conto dell’identità femminile, schiacciata nei secoli da una cultura e da una società fondamentalmente patriarcali. È stato così che, a livello planetario, l’analisi della subalternità della donna e l’elaborazione di una strada che portasse a un cambiamento e a un recupero delle ricchezze spirituali femminili nella Chiesa hanno cominciato a prendere corpo in forme diverse, con una critica profonda condotta in nome delle verità evangeliche storicamente tradite: in tutti i continenti si sono sviluppati gruppi di riflessione, con un accento diverso a seconda del contesto; dalla connotazione più spirituale e di supporto al ministero dell’Europa, a quella di preghiera e lettura politica del Nordamerica, a quella comunitaria dell’America Latina, a quella solidaristica dell’Asia e impegnata nel settore dell’assistenza sanitaria dell’Africa. Lentamente le donne hanno preso coscienza dell’emarginazione di cui erano state vittime nella Chiesa e hanno voluto vedere riconosciuta la loro dignità calpestata da na cultura ecclesiastica sessista, maschilista e patriarcale.
Hanno preso in mano il Vangelo, senza altra mediazione che la loro sapienza e la loro esperienza, e hanno compreso il loro valore altissimo agli occhi di Dio, a fronte di quanto per secoli erano state abituate ad ascoltare e che avevano interiorizzato. In questa nuova e radicale presa di coscienza, l’affermazione del sé femminile è passata, per le religiose, attraverso l’abbandono dell’abito - simbolo del potere maschile che le aveva schiacciate - o attraverso una forte critica dall’interno, con uno spirito di riforma.
La teologia femminile, nata nel Nordamerica, ed espressa in lingua inglese a partire da un’identità di matrice europea, è da subito teologia femminista, declinata secondo una molteplicità di orientamenti: da quello radicale a quello sociale, culturale, della liberazione, tutti accomunati, tuttavia, da un medesimo punto di partenza, quello del racconto del libro della Genesi, in cui uomo e donna sono creati, entrambi, a immagine e somiglianza di Dio. I diversi filoni filosofico-politici hanno generalmente un altro elemento comune: quello della solidarietà di Dio nei confronti della donna nella sua lotta per la dignità e del rifiuto di un’immagine prettamente maschile di Dio.
Ne sono una imprescindibile espressione le prime opere della teologia femminista, da Mary Daly e il suo Al di là di Dio Padre. Verso una filosofia della liberazione delle donne a Rosemary Radford Ruether e il suo saggio Sexism and the God-Talk. Toward a Feminist Theology , che riprende la figura di Dio come liberatore, quale era stata trasmessa dalla tradizione profetica biblica, a Elisabeth Schüssler Fiorenza, il cui notissimo In memoria di lei. Una ricostruzione femminista delle origini cristiane dà particolare risalto al simbolo biblico di Sophia. Caratteristica dell’opera teologica femminista è il rifiuto delle interpretazioni maschili e patriarcali o androcentriche riguardanti società e Chiesa, e una ridefinizione in termini positivi delle coordinate della comunità, concepita come luogo di uguaglianza, di parità di generi, etnie e di reciprocità nel rapporto dell’essere umano con la natura, con un forte orientamento all’azione concreta.
Rispetto alla teologia femminista statunitense di origine anglo-europea, quella nata nel contesto afro americano aggiunge alla riflessione un ulteriore tassello della storia dell’emarginazione femminile con il dato del pregiudizio razziale e della classe sociale. Le teologhe nere degli Stati Uniti - un nome tra tutti, quello di Alice Walker - danno vita alla teologia womanist che contempla la liberazione per ogni persona vittima di oppressione a causa della razza, del genere o della classe sociale.
Analoga è l’esperienza delle donne statunitensi di origine ispanica (la loro teologia, denominata a volte “latina”, porterà anche l’etichetta mujerista ), la cui riflessione teologica contempla il radicamento all’interno di una comunità in cui forte è la rilevanza di una religione tradizionalmente e culturalmente marcata da tratti popolari, mentre quelle di origine asiatiche porteranno con sé, nella propria elaborazione teologica, il segno forte della compresenza e convivenza di diverse tradizioni religiose. Ne emerge, in tutti i casi, un forte legame con la prassi della vita quotidiana, campo di battaglia dell’identità femminile, e con la comunità di appartenenza, legami indissolubili nella lotta quotidiana per l’affermazione della dignità femminile. E questo, l’affermazione della dignità femminile, è il perno attorno al quale ruota tutta la riflessione e la produzione teologica al di fuori dei confini degli Stati Uniti.
È la lotta delle donne africane - Teresia Hinga, in Kenya, parla delle molteplici reti di oppressione di cui le donne sono vittime, aggiungendo alle diverse forme di oppressione già analizzate quelle del militarismo e del colonialismo. In tale contesto, non si tratta di cercare un’integrazione delle donne in un sistema che è “sbagliato”, e in cui le donne dovrebbero adattare le proprie doti e ricchezze a un mondo androcentrico, quanto di trasformare quel sistema ridefinendone le coordinate, in modo da raggiungere una reciprocità totale tra uomo e donna.
Le donne traggono forza da una verità inconfutabile: il Dio che ha resuscitato Gesù dai morti vuole che esse abbiano vita in pienezza, le ama e desidera che trovino la loro realizzazione, e le accompagna giorno dopo giorno nelle loro fatiche. È tuttavia evidente che, in questa ritrovata relazione d’amore, la teologia femminile abbia trovato difficoltà nell’attribuire al Dio che le ama le immagini e i simboli esclusivamente maschili della tradizione, simbolo ed espressione di una concezione gerarchica dei rapporti tra uomo e donna che via via, da un punto di vista sociale, viene superata. Nel momento in cui l’uomo non è più signore, anche l’immagine di un Dio maschile e potente che chiede obbedienza come un padrone perde terreno. Dio è un Dio d’amore e di compassione che sta accanto a chi soffre, ma è soprattutto - e questo è un elemento di grande novità - qualcuno con il quale si dispiega una sostanziale relazione di reciprocità, un fluire di sentimenti che vanno in entrambe le direzioni, da Dio alla donna e viceversa. Il modello è quello del Cantico dei Cantici (Dio lo sposo), ma Dio è anche spirito vitale che risiede dentro la donna.
L’amore di Dio rende le donne libere di agire nella storia, forti, senza più bisogno di un Dio che viene in aiuto ma consapevoli di un Dio che è dentro di loro, sempre, come forza creatrice e di trasformazione che non può essere contenuta in nessuna immagine tradizionale. Di qui, un altro grande interrogativo che le donne si pongono nel loro fare teologia: se, cioè, e in che misura, e in che modo, l’essere femminile possa essere segno e sacramento della realtà divina e della sua azione.
Detto in modo più semplice: Dio può essere espresso al femminile? La risposta è lineare: sì, se le donne riescono a riprendersi la propria identità di esseri amati da Dio. È questo meccanismo che rende possibile alle donne dare a Dio nomi femminili, sottraendolo all’abitudine più che consolidata (degli uomini di Chiesa, in quanto detentori dell’autorità) di attribuirgli tratti esclusivamente maschili e riferiti al potere maschile (come dimostra l’arte pittorica di secoli), abitudine che ha provocato, nella storia, effetti devastantanti.
In primo luogo, la riconduzione esclusiva dell’immagine di Dio a una lettura letterale, che ne fa un idolo, e totalmente interno a parametri umani, cosa che cancella il tratto di mistero santo. La preghiera e la catechesi sono impregnati di questa immagine maschile dominante di Dio.
In secondo luogo, il linguaggio del potere maschile condiziona pesantemente l’immaginario sociale, definendo le dinamiche di un patriarcato che si esprime e si riflette nella società e nella Chiesa (il Re dei Re), divinizzando, allo stesso modo, la figura maschile: secondo le parole di Mary Daly, «se Dio è maschio, il maschio è Dio». Ne consegue che se il maschile è la realtà più vicina a Dio, il femminile se ne distanzi. Ciò ha provocato l’effetto di convincere le donne di non poter essere degne di fronte a Dio nella loro identità femminile, ma solo nella propria dimensione spirituale, negando a se stesse, dunque, il proprio valore di esseri determinati e sessuati, e creando una dipendenza sempre più marcata rispetto agli uomini, veri e legittimi detentori di un rapporto privilegiato con Dio.
Ecco, dunque, che trovare il volto femminile di Dio significa anche eliminare l’idolo nonché scalzare il potere patriarcale rendendo possibile immaginare Dio al di fuori dei limitanti parametri umani: come dire che Dio è un “lui”, è una “lei”, e allo stesso tempo - e proprio per questo - va molto al di là di tutto ciò. Ecco poste le basi per il rispetto della differenza e per la possibilità di pari diritti, nella società e nella Chiesa.
D’altra parte, un’immagine femminile di Dio è particolarmente evocativa: quella della madre, simbolo di origine della vita, amore, cura, nutrimento. Si tratta di un’immagine di cui è ricca la Bibbia (una per tutte, Is 49,15, «Si dimentica forse una donna del suo bambino...», a proposito del rapporto che Dio ha con il suo popolo).
Tale immagine, tuttavia, ha un carattere ambivalente perché, se assunta come unico modello di realizzazione della donna - come accaduto nella società patriarcale, che ha fatto della maternità un’istituzione - risulta limitante. Senza dire che non per tutti o per tutte l’immagine materna è necessariamente un’immagine positiva e che, soprattutto, l’immagine materna può ricondurre a un ruolo passivo. In linea generale, tuttavia, la possibilità di parlare di Dio come di una madre affettuosa e amorevole consente di aggiungere all’immagine del rapporto tra Dio e essere umano la dimensione unica della relazione con una realtà piena di mistero che dà la vita e che ama la sua creatura e ne ha compassione.
Importante, a questo proposito, l’ “esperimento mentale” portato avanti da Sally McFague sul modello di Dio come madre ( Models of God. Theology for an Ecological, Nuclear Age ), in cui stabilisce un nesso profondo tra maternità e giustizia (la madre come essere d’amore che dà la vita e che desidera la realizzazione e il benessere dei suoi figli, secondo uno spirito di equità e di attenzione ai più bisognosi). In questo senso, Dio è madre. Ma Dio è anche molto altro. È sophia , sapienza, ossia - come afferma Elisabeth Schüssler Fiorenza - Dio nella sua forza redentrice nel mondo. Questa immagine è utilizzata nei libri sapienziali, ma anche dai Vangeli e da Paolo per identificare Cristo. Ancora, dunque, un’immagine femminile per esprimere il mistero di Dio, che si affianca a quella della colomba per rappresentare lo Spirito, a quella di Dio come la donna che cerca la moneta perduta (Lc 15,8-10).
Questa ricerca delle immagini femminili di Dio, tuttavia, non deve indurre nella tentazione di veicolare una concezione dualistica e biologica di un Dio con due volti, uno maschile e uno femminile, ripetendo l’associazione stereotipata del tratto maschile con tutto ciò che è forte e attivo e di quello femminile con l’aspetto passivo e accogliente. Ciò infatti non sarebbe che un ritorno al mondo patriarcale cui si intendeva sottrarre l’immagine di Dio, con un ruolo nuovamente subalterno della donna.
Guardando a questo ricchissimo e composito patrimonio di riflessione individuale e corale delle donne, quale futuro si prospetta, oggi, per la teologia femminile?
Se le parole apparentemente incoraggianti, ricordate all’inizio, con cui papa Francesco sottolinea la necessità di dare risalto alla teologia femminile concedono spazio alla speranza di un rinnovato rispetto e di un più ampio spazio per il volto plurale della Chiesa - e in questo orizzonte ampio, dunque, anche per le donne - molte sono le teologhe che esprimono un certo disincanto.
Come Patricia Paz, che nel suo blog sul portale Religiòn Digital contesta una sorta di “ghettizzazione” del pensiero teologico femminile: «Mi risulta inaccettabile - afferma - continuare a sentir parlare delle donne come se fosse un gruppo di persone immature incapaci di assumere decisioni e che hanno bisogno che altri, gli uomini, dicano loro cosa possono o non possono fare. È ora di iniziare a parlare con le donne e non delle donne».
* Ludovica Eugenio , laureata in Storia delle origini cristiane, è da più di vent’anni redattrice presso il settimanale di informazione religiosa Adista . Alla professione giornalistica affianca la passione per la traduzione. Di recente ha pubblicato insieme al giornalista Mauro Castagnaro, Il dissenso soffocato. Un’agenda per papa Francesco (Meridiana, Bari, 2013)
Il potere delle donne che non hanno potere
di Giancarla Codrignani (“confronti”, marzo 2014)
N on si era ancora visto un libro sulla Bibbia e le donne che fosse insieme teologico, storico e politico. Adriana Valerio è una docente di Storia del cristianesimo che da quarant’anni si dedica con passione e coraggio a questa tematica e da ultimo ha progettato, insieme con tre bibliste europee (Irmtraud Fisher, Mercedes Navarro e Jorunn Oekland) una ricerca in 21 volumi assolutamente scientifica.
In questo nuovo libro non ha solamente ripreso la memoria delle personalità femminili presenti nella Scrittura o verificato l’antropocentrismo della tradizione esegetica delle Chiese, ma ha dimostrato che le matriarche dell’ebraismo, le profete e le testimoni cristiane hanno di fatto agito sulla «storia che conta», a prescindere dalla damnatio memoriae che ha discriminato le «madri della Chiesa».
Una Rut, di malvista etnia moabita, vedova come la suocera ebrea, non torna alla sua casa cercando protezione e nuove nozze, ma segue Noemi, lavora per la sopravvivenza di entrambe, seduce Booz e gli chiede oltre che per sé anche per Noemi il riscatto che la legge imponeva solo al fratello del morto. Innova ancora la legge ebraica dedicando il primo figlio non al marito morto (secondo la prescrizione del levirato) né a Booz, ma alla suocera. Con lei accade che l’impurità dello straniero non impedisca ad una moabita di essere l’antenata di Davide e, secondo l’evangelista Matteo, di Gesù: ha reso universale la Legge. È il potere delle «donne che non hanno potere», ma che hanno intelligenza, intuito strategico, che usano per attraversare i conflitti, in questo caso senza ricorrere alla violenza. Così sono state donne le autrici della liberazione dalla schiavitù in Egitto, anche se l’esegesi tradizionale ha messo i riflettori su Mosè senza domandarsi chi ha fatto sì che sopravvivesse.
Sono le donne all’origine della fondazione sia di Israele sia degli Arabi, non solo perché Sara e Agar sono madri di Isacco e Ismaele, ma perché Abramo, certo non esemplare quando ha ceduto la bellissima moglie al Faraone, ha comperato per darle sepoltura il campo che «costituirà il diritto di cittadinanza nella terra promessa» e perché Agar si salva da sola per fede.
È un ribaltamento copernicano della visione patriarcale secondo cui la donna è inferiore fisiologicamente (è impura), moralmente (è inadeguata), giuridicamente (è inferiore), visione che per secoli è stata sacralizzata dall’autorità religiosa di un clero rigorosamente maschile che ha confermato il potere monocratico di un solo genere.
Le donne l’hanno sempre saputo. Le cristiane avevano trovato nelle parole di Gesù una verità incompresa anche dai discepoli e tradita da Paolo che, pur dicendo «non c’è più né uomo né donna», negava loro l’autonomia del corpo e il diritto di parola. Le donne argomentavano la superiorità di Eva per la sua sete di conoscenza (le eretiche montaniste), il favore di Dio non verso la forza virile, ma la debolezza femminile incarnata nel Cristo (Ildegarda), la creazione di Adamo dal fango inferiore a quella di Eva da materia organica (Lucrezia Marinella): il clero leggerà sempre la Scrittura a propria immagine e somiglianza.
Le donne avevano anche accusato, come Margherita di Navarra nel 1564: «Quelli che dicono che non è da donna guardare i Sacri Scritti son uomini malvagi ed empi, seduttori e anticristi. Ah, mie donne, le vostre povere anime non lasciate in balia di tali demoni abominevoli che vi fanno dannare». Ma l’interpretazione escludente persiste e lascia come sola via di fuga la lettura «altra», con un altro Dio (padre che non è mai padrone), un altro Gesù (che risana l’impurità assoluta della donna che soffre di perdite di sangue), un’altra Maria: non sottomessa, ma «sovversiva», non imprigionata in un ruolo, «la donna dello Spirito» dall’Annunciazione alla Pentecoste, «la serva del Signore» secondo il Magnificat.
Nessuna donna è mai andata ad attaccare tesi sulle porte di un tempio; ma è configurabile da sempre un protestantesimo femminile che percorre tutte le confessioni e le religioni. Oggi sono tutte in difficoltà storica: forse il genere escluso può diventare necessario per riforme indilazionabili. Occorre però capire chi sono state (e sono) davvero «le ribelli di Dio».
Per Gennaro Sasso nell’opera del grande fiorentino la lotta del principe con la fortuna esprime un senso acuto della precarietà che caratterizza il potere politico. E la stessa condizione umana
Machiavelli come Sartre: un esistenzialista
di Antonio Carioti (Corriere/La Lettura, 22.12.2013)
L’interesse di Gennaro Sasso per Niccolò Machiavelli risale ai tempi del liceo. Il primo libro sul grande autore fiorentino lo pubblicò trentenne, nel 1958. Mentre termina un 2013 di celebrazioni un po’ retoriche per i cinque secoli del Principe , la sua lettura spicca per il richiamo alla radicalità di un pensiero che, da giovane, ha approfondito in parallelo a filosofi di tutt’altro genere, gli esistenzialisti.
«All’università - racconta Sasso - leggevo con passione Karl Jaspers e Jean-Paul Sartre, autori che insistono sulla precarietà di una condizione umana esposta alla contingenza. Suggestioni che mi sono servite per intendere meglio un motivo centrale in Machiavelli: la contestualizzazione estrema dell’azione politica in quella che lui chiama la fortuna, cioè gli accadimenti che non si controllano. Il dramma del principe è appunto la lotta con la fortuna, l’esigenza di sfruttare opportunità che non dipendono da lui».
Fronteggiare l’imponderabile, continua Sasso, diventa così la priorità assoluta: «Il destino dello Stato è sempre incerto. E bisogna difenderlo, perché ne va della vita di chi ne fa parte. Sono i venti della fortuna che spingono a usare i mezzi più utili nella situazione concreta, anche se malvagi. Perciò per Machiavelli bontà e cattiveria non contano. Lui stesso se ne duole, ma osserva che rimanere sempre fedeli ai valori etici nell’agire politico non produrrebbe alcun bene, perché causerebbe la rovina dello Stato».
Ma come si concilia tale crudo realismo con la chiusa del Principe , l’appello a liberare l’Italia dagli stranieri? «Il capitolo finale si riallaccia al sesto, dove si parla dell’azione salvifica svolta da individui eccezionali, come Mosè o Teseo, in situazioni che richiedevano una particolare virtù politica. In fondo proprio il realismo induce a ritenere che tempi terribili esigano personalità provvidenziali. Qui Machiavelli unisce acutezza di analisi e capacità d’immaginazione».
Tuttavia è ben lontano dall’affidarsi solo ai capi carismatici: «Machiavelli - osserva Sasso - esalta la virtù individuale del principe, ma la sua preferenza va a una repubblica in cui la solidità dello Stato risieda negli ordini, cioè nel quadro istituzionale. Nei principati c’è il problema spinoso della successione personale al potere, mentre nelle repubbliche la continuità è assicurata da un intreccio di forze diverse che, garantendo se stesse, tutelano anche il complesso dello Stato, in modo che non dipenda dall’autorità di un solo individuo. Machiavelli considera un modello ideale la tripartizione della repubblica romana: consoli, senato, plebe. E vede il perno della garanzia istituzionale nel coinvolgimento del popolo».
Eppure Machiavelli descrive un volgo infido e credulone. «Ma si riferisce al popolo dell’Italia di allora, abbandonato alla sua vena deteriore. Invece il popolo romano, con i tribuni della plebe, era un soggetto politicamente attivo. Le buone istituzioni servono appunto a fare in modo che le cattive inclinazioni umane non provochino troppi danni. Del resto Machiavelli è uno scrittore pagano, estraneo al senso cristiano del peccato. Per lui l’uomo non è malvagio in sé, ma perché è un essere a rischio, sempre in lotta per la sopravvivenza: un altro punto di consonanza con l’esistenzialismo ateo».
La religione gli importa solo come fattore politico: «Nell’Arte della guerra Machiavelli narra che, quando aveva cercato di arruolare contadini nella milizia fiorentina, si era trovato di fronte individui “venuti su per li bordelli”, ben poco affidabili. E si era chiesto su quale Dio farli giurare per trasformarli in soldati. Insomma, per lui la religione serve a creare un legame sacrale tra i cittadini e lo Stato. A tal fine si può usare anche il Dio cristiano, ma così lo si paganizza.
Per Machiavelli il messaggio caritatevole del Vangelo ha “effeminato il mondo”: quando evoca il fallimento dei profeti disarmati, non si riferisce solo a Girolamo Savonarola, ma allo stesso Gesù. A suo avviso la venuta di Cristo non ha migliorato i costumi degli uomini, semmai li ha rammolliti».
Un altro tema centrale in Machiavelli è appunto la decadenza: «Pensa che la caduta dell’impero romano abbia aperto una lunga fase di declino. L’Italia dei suoi tempi sta rinnovando i fasti dell’antichità quanto a splendore artistico e letterario, ma sul piano politico è in ginocchio, percorsa dagli eserciti di popoli barbari e rozzi. Machiavelli disprezza francesi e spagnoli: lo tormenta il fatto che la forza militare consenta a quelle genti incivili di straziare la sua terra».
Nel motivo della decadenza Sasso coglie aspetti attuali: «Nei Discorsi Machiavelli si chiede che fare quando un sistema politico va in crisi e nulla funziona più. Se le istituzioni sono a pezzi, non possono risanarsi da sole. Servirebbero uomini adatti a restaurare i princìpi originari dello Stato, ma è difficile che nascano in un’era di corruzione. L’Italia di oggi mi pare in condizioni del genere: necessita di governanti seri, con le idee chiare, e non sa dove trovarli».
Qualcuno vede il presidente Giorgio Napolitano come un aspirante principe. «Non capisco perché da tante parti si spari sul capo dello Stato. Non credo che, alla sua età, nutra ambizioni monarchiche: se può aver ecceduto i limiti costituzionali, è perché siamo nel caos e i vuoti vanno riempiti. Chiede solo che si faccia una legge elettorale, per mandare il Paese alle urne con qualche speranza che ne esca un governo stabile».
Forse il principe del XXI secolo dovrebbe avere una dimensione europea: «Invocherei piuttosto un legislatore capace di dare all’Europa consistenza politica. Oggi, con la crisi dell’euro, l’Unione è al tempo stesso una casa da cui sarebbe folle uscire, ma anche una gabbia soffocante. Del resto l’Ue è un’entità indefinibile dal punto di vista giuridico. Ci vorrebbe un punto di riferimento forte per andare oltre la visione angusta, monetarista e burocratica dell’Europa, per trasformarla in un vero Stato federale».
Quella rivoluzione dottrinale che spaventa la gerarchia
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 16 dicembre 2013)
È spiazzante nella comunicazione pastorale. E non mette mai in forse la correttezza dottrinale. Papa Bergoglio è suggestivo nel suo stile personale di esprimersi, ma controllato, persino sofisticato, nel mantenere le posizioni tradizionali su punti controversi. Prendiamo uno dei passaggi più ironici, breve ma significativo, della sua intervista alla Stampa: «Le donne nella Chiesa devono essere valorizzate, non clericalizzate, facendole magari cardinali».
L’arguzia dell’affermazione evade la sostanza di un problema dottrinale irrisolto. Mi sarei atteso che Papa Francesco dicesse: la donna collocata in posti decisionali e in ruoli istituzionali essenziali, potrà de-clericalizzare la Chiesa così come è oggi. Perché non ha detto così? Si tratta di un limite personale o del timore che una autentica innovazione su questo tema (che implica una seria rivisitazione storico-dottrinale) sarebbe intollerabile per molti esponenti della gerarchia? Papa Francesco non è un ingenuo. È consapevole di muoversi su un crinale fragilissimo: la sua innovazione espressiva nella pastorale non è un “aggiornamento” vecchia maniera. Molte delle sue parole hanno un potenziale innovatore che entusiasma ed emoziona - in modo confuso - ampi strati di popolazione, fedeli credenti e fedeli critici o disillusi. Ma contemporaneamente inquieta molta parte della gerarchia che non sa decifrare l’esito di questa emozione collettiva .
Ma il Pontefice non vuole affatto creare tensioni o divisioni all’interno della Chiesa. Al contrario, come nessun altro dei suoi predecessori intende valorizzare al massimo le forme di collegialità esistenti. Prende molto sul serio il fatto che la problematica, apparentemente minore della comunione ai credenti divorziati risposati, e quella assai più impegnativa di una riflessione sulla famiglia, sia affidata alla risoluzioni del Sinodo del 2014. Non alla autorevolezza della sua parola ma a processi di convincimento della comunità dei fedeli sotto la guida dei suoi pastori.
E’ una prospettiva interessante, anche se non credo che verranno fuori novità. Ma sarà già importante che a livello di società civile, di dibattito pubblico e soprattutto di normative giuridiche sparisca lo spirito falsamente militante (legato all’uso e abuso della formula dei “valori non negoziabili”) a favore di un confronto più maturo e ragionevole fra tutti i cittadini, credenti e non credenti.
Come si lega tutto questo alle suggestive parole di Papa Bergoglio sulla “tenerezza” e “la speranza” che è la parte centrale del suo discorso? Sarebbe facile considerare questa parte una edificante predica natalizia, meno concreta ad esempio delle puntualizzazioni con cui respinge il presunto marxismo della sua posizione, rivendicando l’anticapitalismo della dottrina sociale della Chiesa. Ma l’affermazione «quando i cristiani si dimenticano della speranza e della tenerezza, diventano una Chiesa fredda che non sa dove andare e si imbroglia», introduce considerazioni di sapore mistico che sono tipiche dello stile di Francesco. Non solo la quasi palpapile «tenerezza di Dio che ti accarezza» ma anche la dimensione opposta, dura, di Dio che non parla davanti al perché della sofferenza «Lui non spiega niente. Ma sento che mi guarda. Tu non me lo dici, ma mi guardi».
Il dramma antico dell’ inspiegabilità del dolore, che omologa credente e non credente, trova qui la sua via di fuga. Che un Papa sappia trovare le parole giuste in una intervista ad un giornale e più in generale padroneggiando con perizia il circuito mediatico, fa parte della personalità di Bergoglio. Che questa sia la strada per evitare una “Chiesa fredda” è tutto da verificare.
Donne nella luce dell’amore
di Gianfranco Ravasi (Il Sole-24 Ore, 8 dicembre 2013)
C’è anche la foto dell’ultimo scritto, una cartolina indirizzata a una sua giovane insegnante e poi amica, Christine van Nooten, una studiosa di letteratura classica che morirà nel 1998: Etty Hillesum il 7 settembre 1943 la getterà dal carro merci che sta conducendo lei e i suoi genitori al lager di Auschwitz, ove tre settimane dopo - il 30 settembre - entrerà nella camera a gas. Scriveva: «Apro a caso la Bibbia e trovo questo: "Il Signore è il mio alto rifugio". Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa (suo fratello) sono alcuni vagoni più avanti... Abbiamo lasciato il campo (di Westerbork, ove era prima detenuta) cantando... Arrivederci da noi quattro».
Questo "arrivederci" straziante ovviamente non si compirà e la vita di questa donna ebrea olandese, bella, straordinariamente intelligente e dotata di un’anima mistica, delicata e forte, verrà brutalmente spenta dalla bestialità nazista a soli 29 anni. Abbiamo già presentato la riedizione adelphiana del suo Diario; ora vogliamo solo invitare i nostri lettori a non perdere la raccolta delle Lettere, scritte in gran parte dal lager di Westerbork ove Etty (Ester) di sua volontà si era autoreclusa per gettare un seme d’amore e una scintilla di luce nell’"inferno degli altri". La fede, la Bibbia, la poesia (in particolare Rilke), il cielo solare o nuvoloso o stellato saranno il cuore spirituale di quei giorni, umanamente tenebrosi, che avvolgevano gli internati rendendoli cupi, rancorosi e infelici.
Sarà abusata l’immagine, ma Etty è come un angelo che irradia luce, senza però perdere il realismo di un’esistenza umiliata in un campo recintato all’interno di una brughiera sul quale s’abbattono folate di sabbia. Un realismo che conosce i piccoli egoismi delle stesse vittime e la brutalità dei carcerieri, ma anche la gioia di un pacco viveri, dell’arrivo e dell’invio di un biglietto o di un’amicizia che sboccia. Ogni commento a queste lettere della Hillesum o a lei indirizzate, che non sia quello necessario storico-critico (offerto in questa edizione), risulta dissonante e fin sgraziato. La lettura basta a se stessa.
È per questo che non aggiungiamo altro se non una citazione tra le tante possibili. "La miseria che c’è qui è veramente terribile. Eppure, la sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce - non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare - e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo".
Ad Auschwitz un anno prima, nel 1942, veniva avviata nelle stesse camere a gas un’altra donna di straordinaria intelligenza, un’ebrea tedesca convertitasi al cattolicesimo, Edith Stein, discepola prediletta del filosofo Edmund Husserl. Battezzata a 31 anni nel 1922, entrata nel Carmelo di Colonia nel 1933 col nome di Teresa Benedetta della Croce, verrà proclamata santa da Giovanni Paolo II nel 1997.
Alla vasta bibliografia di lei e su di lei si aggiunge ora un particolare ritratto spirituale disegnato da una sua "consorella" attuale, la carmelitana Cristiana Dobner, che si è da tempo dedicata allo studio di Edith-Teresa Benedetta. Il profilo viene tracciato secondo tre lineamenti, usando altrettante testimonianze che intarsiano tutte le pagine del suo volumetto.
C’è innanzitutto il racconto autobiografico della donna col suo itinerario personale spesso travagliato, segnato da "indici di contrasti", e alla fine collocato all’insegna della luce di Cristo e della tenebra della Shoah. C’è, poi, il filo sia della riflessione filosofica fenomenologica, la prima sua patria ideale (la sua opera maggiore sarà, al riguardo, Endliches und ewiges, l’Essere finito ed eterno"), sia dell’esperienza spirituale, elaborata attraverso scritti di appassionata attestazione mistica (e qui brilla la Kreuzeswissenschaft, una "scienza della croce" che è anche adesione esistenziale).
Infine nelle pagine della Dobner occhieggiano le parole di coloro che hanno incrociato la vita di Edith a diverso titolo e nelle differenti tappe della sua vicenda personale. Suggestiva la testimonianza della nipote, Susanne Batzdorff-Biberstein: «Chi fosse veramente, come abbia vissuto e sia morta, rimarrà per sempre il suo segreto». Tutto converge appunto verso il mistero della morte, soglia apparentemente oscura, in realtà aperta su un roveto ardente di una fiamma divina.
Concludiamo questa recensione al femminile con una vera e propria galleria di ritratti di "tenacemente donne". Sono dodici, molto diverse tra loro, convocate da due giornaliste, la lombarda Alessandra Buzzetti e la siciliana Cristiana Caricato. Che cosa può unire tra loro Clara, la figlia del famoso genetista Lejeune, ascesa al vertice della General Electric France, e l’operaia romagnola part-time Cristina con tre figli e un marito disoccupato? Oppure Jocelyne, comandante delle milizie femminili dell’Esercito libanese, e Nasreen, missionaria francescana in Pakistan? O ancora la giornalista Costanza Miriano con Marcella volontaria in una casa di accoglienza? O Nancy, analista finanziaria della Walt Disney, e una giovane madre romana, Chiara Corbella Petrillo, morta di cancro?
La risposta la si scopre lasciandosi condurre da questi dodici racconti biografici, vere e proprie "storie di vita" nel senso più alto del termine: sfogliando le pagine di questo libro - per usare un’immagine poetica rilkiana - le dita rimarranno segnate dalla polvere di luce dell’amore, come quando si afferrano le ali di una farfalla. L’enfasi della metafora è smitizzata però, dal realismo di queste vicende femminili che si confrontano tutte col respiro di sofferenza, di miseria, di necessità del prossimo, mettendo in gioco successo personale, carriera e la stessa vita. E su tutte sembrano echeggiare le parole pronunciate da Gesù l’ultima sera della vita terrena: «Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per gli amici» (Giovanni 15,13).
David, gigante più grande di Golia
di Tomaso Montanari (il Fatto Quotidiano, 18 novembre 2013)
Uno. Uno solo. E colossale: un gigante. Come quelli che si leggevano nelle storie degli antichi, se erano vere.
Ci avevano provato lungo un secolo intero, senza riuscirci. E non in astratto: quel pezzo di marmo era arrivato a Firenze proprio a quello scopo, quarant’anni prima. Ma niente: l’avevano mezzo rovinato, senza riuscire a tirarci fuori nulla.
Poi arriva lui: Michelangelo. Avrà sì e no venticinque anni: fallirà come tutti, dicono i fiorentini. Sempre gli stessi.
E invece no. Lui ci riesce. E da quel marmo sciancato salta fuori il Gigante. L’uno per eccellenza: l’uno unico. La singola figura umana più perfetta che mai fosse stata concepita. La forza, la potenza, la giustizia fatte corpo. Un corpo. Uno solo.
È David, che guarda lontano, verso Golia: senza paura, con la fionda pronta, e gli occhi fissi in quelli del gigante filisteo. È un’arte nuova: moderna. Che guarda fino a noi. È un’idea dell’uomo così sovrumana da metter quasi paura.
Tanto perfetto che si decise di non issarlo sulle guglie del Duomo (per una delle quali era nato), ma di metterlo in Piazza. E lo decise una commissione eccezionale, dove sedevano tipetti come Botticelli, Filippino Lippi, Perugino, Leonardo: il Gigante aveva vinto anche l’invidia.
Sopravvissuto ai fulmini e alle sommosse popolari, l’unica battaglia che ha perso è stata quella con il tempo. E così nel 1873 il Gigante fu fatto prigioniero, e trasportato in un Museo. E l’Uno subì l’onta di diventare due, anzi tre. Una copia di marmo fu messa in Piazza, una di bronzo al Piazzale dedicato a Michelangelo.
E lui in gabbia: come al circo, o al luna park. Buono per far pagare i biglietti ai turisti. Peggio: serve per vendere il prosciutto crudo, con sotto scritto «prodotto toscano». Per stamparlo sui grembiuli da cucina. Per moltiplicarne il pisello su milioni di cartoline per cretini perfetti. Per accapigliarsi sul fiume di quattrini che produce.
Per farci le cene intorno, tutti eleganti, col calice di bollicine in mano e il sorriso da dementi. Ed eccolo circondato di tavoli imbanditi: peggio che in catene.
È così che ha perso la sua forza, quell’unico Gigante. Perfino la sua dignità, ha perso. Non riesce più a difendere la Piazza e il Palazzo Vecchio: sarà per questo che laddove regnava la Florentina Libertas, la libertà di Firenze, oggi si celebra il dominio del Dio Mercato. E lui sta in gabbia: venghino, signori, venghino.
Ma è impossibile pensare che un giorno, magari tra mille, quella fionda inizierà a girare, quei muscoli prenderanno a muoversi. Quel giorno, non ci sarà Golia che tenga.
Lettera a Papa Francesco sulla posizione delle donne nella Chiesa
di Giancarla Codrignani *
Da: GIANCARLA CODRIGNANI
RENDO PUBBLICA LA LETTERA INVIATA A PAPA FRANCESCO: SONO STATA SOLLECITATA DALL’ INTERESSE CHE DIMOSTRA PER RIFORMARE LA POSIZIONE DELLE DONNE NELLA CHIESA. ALCUNI INDIZI (divieto al sacerdozio femminile, intervento ai convegno dei ginecologi, scomunica di un prete americano favorevole all’ordinazione delle donne) E DALLA NOTIZIA, FORNITA DA "EL PAIS" E RIPRESA DA "FAMIGLIA CRISTIANA", CHE ANTICIPA L’IPOTESI DELL’INSERIMENTO DI UNA DONNA NEL COLLEGIO CARDINALIZIO. SE FOSSE VERO, PAPA FRANCESCO OTTERREBBE UN GRANDE SUCCESSO MEDIATICO, MA NON INCONTREREBBE IL FAVORE DELLE DONNE, CHE NON CHIEDONO UN POSTO NELLA GERARCHIA CHE LE OMOLOGHI AL MODELLO MASCHILE ANCHE NELLA CHIESA, MA IL RICONOSCIMENTO DELLA LORO SOGGETTIVITA’ AUTONOMA.
HO ALLEGATO ALLA LETTERA UN DOCUMENTO DI CARLO MARIA MARTINI CHE, INTERVENENDO AD UN CONVEGNO NEL 1981, ESPRESSE IN MODO STRAORDINARIAMENTE EFFICACE IL SENSO CHE DEVE AVERE IL TARDIVO RICONOSCIMENTO DELLA POSIZIONE DELLE DONNE NELLA CHIESA.
LA LETTERA NON E’ PIU’ RISERVATA
Caro Papa Francesco,
come non provare sentimenti di amicizia e di fraternità nei suoi confronti e non solidarizzare con i segnali che viene lanciando attraverso l’infittirsi di relazioni con persone più o meno note della società italiana? Non intendo accrescere il numero dei corrispondenti che incomincia, forse, a farsi molesto; ma sono indotta a interpellarla dopo la notizia del suo intento di pronunciarsi sullo spazio da assegnare alle donne nella Chiesa. Presumo sia anche per lei un dato di realtà che non i disegni di Dio, bensì i ruoli gerarchicamente diversi che uomini e donne hanno storicamente assunto comportano differenze che non vanno sottovalutate, soprattutto se si ricercano nuovi equilibri.
Essendo anche lei un uomo come gli altri, sa bene che difficilmente agli uomini capita di dire parole adeguate quando parlano con noi, soprattutto se pensano di parlare "per" noi. Anche la Chiesa ci conosce solo attraverso una convenzione che non corrisponde alla nostra ermeneutica, di credenti e di non credenti: senza una donna non ci sarebbe stata nascita, senza un’altra donna non ci sarebbe stato annuncio (sarebbero mai arrivati al sepolcro vuoto gli apostoli senza Maria di Magdala?). Come "genere" siamo meno sensibili alle ambizioni di potere che sono incoerenti, almeno nella Chiesa, anche per un uomo. Tuttavia non siamo così stolte da non esser state sempre consapevoli che, anche se in dottrina non si ritrovano giustificazioni alla discriminazione, la Chiesa è rimasta maschile fin da quando la tradizione dei primi secoli ha trasmesso gli scritti dei "padri" della Chiesa e non delle madri, menzionate solo in quanto viri dimidiati.
Carlo Maria Martini fin dal 1981 ha posto l’urgenza di un nuovo riconoscimento della presenza femminile nella Chiesa, ma non ne sono seguite innovazioni. Anzi l’attribuzione al nostro genere di uno speciale "genio femminile" è rimasto nel tradizionalismo e non sono sembrate amicali le misure adottate dal suo predecessore per accertare l’ortodossia della Federazione delle suore americane (LCWR).
Per questo sono certa della sua informazione previa sull’ormai imponente letteratura specifica di teologhe e filosofe e dell’ opinione femminil-femminista (uso l’aggettivo, anche se riprovato da rappresentanti della gerarchia poco attenti alle dinamiche sociali) del popolo di DIo e anche della condivisione delle idee con donne religiose e laiche cattoliche (ma non solo).
Tuttavia oso esprimerle la mia preoccupazione: in tempi in cui la Chiesa soffre abbandoni "di genere", le donne si aspettano di ottenere non rappresentanza, ma riconoscimento di soggettività. Non le deluda. Perdoni la confidenza nella sua disponibilità. La ricordo con sentimenti di fiducia e affetto
G.C.
Perché, si chiede ad esempio la donna, identificare l’immagine di Dio con quella trasmessaci da una cultura maschilista? Quale l’annuncio kerigmatico per lei, non rinchiuso in una visione moralistica? Quali indicazioni per un cammino spirituale e di santità che la stimolino adeguatamente? Quali indicazioni per una rinnovata prassi pastorale, per un cammino vocazionale per il matrimonio, per la consacrazione religiosa, la famiglia, in considerazione della nuova coscienza di sé che la donna ha acquisito? Quali indicazioni per un linguaggio globale, anche liturgico, che non faccia sentire esclusa, nella sua elaborazione, la donna?
Perché così poche e inadeguate risposte alla valorizzazione del proprio corpo, dell’amore fisico, dei problemi della maternità responsabile?
Perché la pur grande presenza delle donne nella Chiesa non ha inciso nelle sue strutture? E nella prassi pastorale perché attribuire alla donna solo quei compiti che lo schema ideologico e culturale della società le attribuiva, e perché non esplicitare i suoi carismi "opera dello Spirito Santo"?
I ruoli ecclesiali affidati alle donne sono allora secondo i carismi di una Chiesa condotta dallo Spirito oppure ancora frutto di una mentalità maschile?
Le donne si chiedono tutto questo. Non sempre lo esprimono. Sentono ancora timore a infrangere una “iconografia” della donna cristiana, dentro la quale peraltro stentano a riconoscersi e non riescono più ad adattarsi.
La Chiesa deve porsi in ascolto. Deve lasciarle esprimere da protagoniste. Il loro modo di leggere, interpretare la vita ha una rilevanza che deve segnare un cammino pastorale che non può vedere le donne perennemente soggette o brave e fedeli esecutrici, quasi vergognose o timide di fronte alla forza che potrebbero esprimere in novità.
I ministeri, carismi, servizi, sono doni per la comunità ed esigono una profonda e attenta rilettura che apra nuove vie alla comprensione del ruolo delle donne nella Chiesa.
La filosofia e la teologia nelle loro varie branche, l’esegesi biblica, la pastorale hanno un compito urgente da svolgere con gli strumenti che a loro sono propri.
Le scienze umane aprono loro ampi spazi di documentazione e di fondazione. Ma anche la vita delle donne, anzi, dalla loro vita parte un richiamo fortissimo di novità. Le più mature non esprimono vane rivendicazioni di false parità: chiedono di costruire in pienezza e con coraggio, mettendo in discussione se stesse, la società e la Chiesa.
* Il Dialogo, Mercoledì 30 Ottobre,2013
Michelangelo e le donne
Quelle Sibille così maschili a immagine di Dio
Nuovi studi analizzano l’iconografia della Sistina alla luce dell’influenza di Agostino e della riforma
di Carlo Alberto Bucci (la Repubblica, 25.05.2013)
Le parti femminili nel teatro furono per molti secoli interpretate esclusivamente da attori maschi. Le donne non erano giudicate all’altezza di quel podio. Ma nella scena pittorica della Genesi, liberamente e magistralmente ribaltata sulla volta della Sistina cancellando nel 1508 il vecchio cielo stellato, che necessità aveva Michelangelo di dare alle Sibille e alle altre eroine dell’Antico Testamento il corpo muscoloso di un “palestrato”? Le ragioni della mascolinità del femminino michelangiolesco, addirittura esibita nella cappella dei conclavi in Vaticano, non sfuggono all’immagine caricaturale di un mondo tutto virile quasi fosse imposto a Buonarroti dalla propria omosessualità. Come se l’immenso artista toscano non fosse stato in grado di contemplare e rappresentare anche una bellezza altra da sé e dall’amato Tommaso Cavalieri. Di fronte all’evidente, conturbante machismo della sibilla Cumana, e che si riscontra anche già nelle straordinarie braccia virili (per la prima volta nude) della Madonna nel Tondo Doni, si è parlato di «marchio della cultura patriarcale del Rinascimento» (Yael Even) ; di «passione fisica (omoerotica) per il corpo maschile» (Howard Hibbard) ; di «misoginia» (Gill Sauders).
C’è però anche un motivo più profondo per cui la splendida sibilla Libica o la possente, anziana Persica, ma anche Caterina e le altre sante presenti nel Giudizio Universale affrescato dal 1536 sulla parete d’altare della Sistina, hanno il corpo muscoloso dei ragazzi spogliati e presi a modello da Michelangelo nella sua bottega. E si spiega col pensiero di sant’Agostino, attraverso uno dei suoi massimi esegeti del tempo, Egidio da Viterbo: teologo e predicatore caro alla corte di papa Giulio II ma anche interprete nel pensiero neoplatonico al quale si era abbeverato Michelangelo negli anni della formazione fiorentina. «La chiave di volta nell’interpretazione della Sistina è l’imago Dei nell’interpretazione del vescovo di Ippona», dice Costanza Barbieri, che lunedì, alla giornata di studi organizzata dall’Università Europea di Roma, per i 500 anni (1512-2012) della Sistina, terrà un intervento dal titolo Un uomo in una donna, anzi uno dio per la sua bocca parla: sant’Agostino e le donne mascoline di Michelangelo.
La prima parte del titolo è tratta da una poesia scritta dal Buonarroti per una donna, quella Vittoria Colonna che il maestro frequentò a partire dalla seconda metà degli anni Trenta. «In questo sonetto - spiega Barbieri - l’artista rivolge all’amica poetessa un complimento inaspettato. La paragona a un uomo. Di più: a “uno dio” che “per sua bocca parla”, quasi una sibilla. E stare a sentirla è fonte per Michelangelo di una illuminazione così intensa che il maestro si dichiara conquistato: “ond’io per ascoltarla/ son fatto tal, che ma’ più sarò mio».
Questa visione “maschia” delle donne non è una prerogativa di Buonarroti. «No, è un topos letterario. Molti umanisti esaltano la donna colta e letterata trasfor-mandone l’identità sessuale. Ad esempio, Lauro Querini si rivolge con queste parole all’umanista veronese Isotta Nogarola: “Tu sei vittoriosa sulla tua stessa natura perché con singolare zelo e impegno hai ricercato la vera virtù, che è essenzialmente maschile”».
Come le Vergini affettuose di Raffaello, le Madonne materne di Leonardo, per non parlare delle carnosissime Veneri di Tiziano, anche Michelangelo aveva in gioventù - certo, a suo modo - reso femmine le donne. «Infatti, la mascolinizzazione non avviene sistematicamente - interviene Barbieri - e, prima della Sistina, abbiamo figure femminili assolutamente graziose quali la Vergine della Pietà di San Pietro, la Madonna con il Bambino di Bruges o la stessa Eva della Sistina. Ma nella Volta avviene una metamorfosi», precisa la studiosa di iconologia, autrice nel 2004 di un’importante mostra e di un saggio sulla Pietà di Viterbo dipinta, fra il 1512 e il 1516, da Sebastiano del Piombo con l’aiuto di Michelangelo, e su commissione dell’agostiniano Giovanni Botonti.
La città dei Papi è anche il luogo dove dal 1541 Vittoria Colonna visse per tre anni dando vita, con il cardinale inglese Reginald Pole e il protonotario apostolico Pietro Carnesecchi, a quel cenacolo che fu protagonista di un progetto di rinnovamento interno alla Chiesa e che venne tuttavia accusato d’eresia per la contiguità con tesi della la riforma protestante.
Ma torniamo agli anni della Sistina, al 1508 quando papa Giulio II Della Rovere distolse a forza Michelangelo dall’incarico di scolpirgli la tomba per impegnarlo per quattro anni ad affrescare la Volta, e quando Martin Lutero non aveva ancora affisso a Wittemberg le sue clamorose 95 tesi. «Anche Lutero era un agostiniano, e l’agostinianesimo informa le istanze rinnovatrici, e non eretiche, del circolo di Viterbo. Però certo - precisa Barbieri - sant’Agostino è presente nella Sistina, attraverso Michelangelo, in un’altra veste. Secondo Esther Gordon Dotson e Maurizio Calvesi, agostiniana è l’impalcatura teologica che sottende alla Sistina e, possiamo aggiungere, anche la ragione profonda dei mascolinizzati corpi femminili, in una visione che contempla anche la bellezza secondo il pensiero dei platonici».
Al centro di tutto c’è il Dio che ha creato Adamo “a sua immagine e somiglianza” e, attraverso suo Figlio, si è incarnato in un uomo.
«Per san Paolo esiste una sostanziale incompatibilità tra la divinità e la femminilità» spiega Barbieri. Tale da precludere alle donne la resurrezione poiché, secondo l’apostolo, i risorti “saranno conformi all’immagine del Figlio di Dio”, ossia a un maschio. «Sant’Agostino però è convinto che le donne nel giorno del Giudizio risorgeranno conservando la loro identità di genere. Questo elemento cruciale è stato affrontato da Kari Elisabeth Borresen, la prima teologa cattolica a coniugare i gender studies con l’esegesi. Il vescovo d’Ippona risolve il dilemma di san Paolo teorizzando che, mentre l’uomo riflette il suo creatore anima e corpo, la donna è duplice e, mentre rispecchia l’imago dei nell’anima razionale, se ne discosta nel corpo. Come è possibile che le donne - si interroga il dottore della Chiesa - perdano il loro sesso una volta risorte? No, non lo perderanno, ma si conformeranno a una nuova immagine. Per visualizzare questa nuova immagine di una donna più vicina all’immagine di Dio, Michelangelo escogita un corpo femminile mascolinizzato in quanto spiritualizzato, più conforme al Figlio, che aumenta in virilità con l’età e con la saggezza».
Ed è la predicazione di Egidio da Viterbo «ad affrontare all’inizio del ’500 i temi della dignità dell’uomo, della bellezza e armonia del corpo maschile, specchio del suo creatore, in sermoni di fronte alla corte papale».
Alla luce dell’agostinianesimo e del neoplatonismo di Marsilio Ficino sintetizzati dal predicatore agostiniano, Michelangelo trova la giustificazione teologica alla sua visione della centralità della perfetta immagine del maschile, rispecchiamento di quella divina. «E le sue figure femminili - chiosa la studiosa romana - sono infatti tanto più mascolinizzate quanto più si avvicinano spiritualmente a Dio».
Lunedì dalla mattina giornata di studi alla Università Europea di Roma Michelangelo e la Sistina, l’arte e l’esegesi biblica, a cura di Costanza Barbieri e Lucina Vattuone. Interventi di Antonio Paolucci, Silvia Danesi Squarzina, P. Heinrich Pfeiffer, Timothy Verdon, Maurizio Calvesi, Gianluigi Colalucci oltreché di Barbieri e Vattuone.
Padre Roy Bourgeois è stato espulso dalla società Maryknoll e ridotto allo stato laicale
di APIC
in “www.catholink.ch” del 21 novembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Padre Roy Bourgeois, militante per la pace e figura di contestatore dei missionari di Maryknoll, negli Stati Uniti, è stato canonicamente espulso dalla Società delle missioni estere cattoliche d’America. Questa decisione della Congregazione per la dottrina della fede è stata resa pubblica il 20 novembre 2012 dalla società missionaria americana. Ridotto allo stato laicale e scomunicato, Roy Bourgeois è stato destituito dallo stato clericale.
Padre Roy Bourgeois è conosciuto da anni a livello internazionale per la sua lotta a favore della chiusura della “Scuola delle Americhe” - un centro di addestramento dei militari latino-americani situato a Fort Benning, nello stato americano della Georgia.
Il prete, che apparteneva ai missionari di Maryknoll da quarant’anni, aveva partecipato il 9 agosto 2008 ad una cerimonia di ordinazione organizzata dal movimento delle donne prete cattoliche romane (Roma Catholic Womenpriests). Si trattava dell’ordinazione sacerdotale di Janice Sevre- Duszynska, un’ordinazione illecita non riconosciuta dalla Chiesa cattolica, in cui non ci sono donne prete.
Il religioso è stato punito per la sua partecipazione a questo simulacro di ordinazione che si è svolto in una chiesta appartenente alla “Unitarian Universalist Church” a Lexington, nel Kentucky. In seguito a questo atto illecito, padre Bourgeois aveva ricevuto una lettera dal Vaticano nel 2008 che lo minacciava di scomunica latae sententiae (cioè automatica) se non avesse ritrattato.
All’epoca era stato convocato alla sede della sua congregazione, a Maryknoll (New York), dove era stato ricevuto dal superiore generale di allora, Padre John Sivalon, e da altri due membri del Consiglio generale. Nel giugno scorso era stato ricevuto dall’attuale superiore generale, Padre Edward Doucherty. In quell’occasione non si era parlato della sua espulsione. Il giornale americano “National Catholic Reporter”, citando il padre domenicano Tom Doyle, “specialista di diritto canonico e difensore di Padre Bourgeois, scrive che la decisione romana è stata presa uniteralmente il 4 ottobre 2012.
L’ex prete di Maryknoll ha rifiutato piegarsi alla richiesta esplicita di Roma di rinunciare al suo sostegno all’ordinazione delle donne ed è rimasto fermo sulle sue posizioni. Ha risposto al Vaticano affermando di ritenere che Dio chiami al sacerdozio sia gli uomini che le donne e che, per lui, dichiarare una cosa diversa a questo proposito e ritrattare per salvare il suo sacerdozio o la sua pensione equivarrebbe ad una menzogna.
“Sono giunto alla convinzione che le donne possano essere ordinate anche nella nostra Chiesa cattolica”, aveva dichiarato il giorno dopo quella cerimonia controversa. In questi ultimi anni ha ovunque militato contro gli insegnamenti della Chiesa cattolica relativi al non accesso delle donne al sacerdozio.
In un comunicato, la società di Maryknoll si dice rattristata dal fallimento del tentativo di riconciliazione con la Chiesa cattolica voluto sia dalla congregazione che da Roma. La società missionaria “ringrazia calorosamente padre Bourgeois per il suo servizio alla missione, e tutti i membri gli augurano il meglio nella sua vita personale”. In spirito di equità e di carità, sottolinea la società, “Maryknoll assisterà Bourgeois in questa transizione”.
Ancora il solito ritornello sulle donne, in diretta dal pianeta Marte
di Estelle R.
in “www.comitedelajupe.fr” del 9 novembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Ci sono giorni in cui mi chiedo davvero se certi prelati della Chiesa cattolica siano uomini che vivono su questo pianeta, tanto il loro sguardo sul mondo è fuori dalla realtà. L’ultimo esempio ci viene dai vescovi riuniti nel sinodo dal 7 al 28 ottobre scorso sul tema “nuova evangelizzazione.
Hanno votato una lista di 58 proposte presentate alla fine a Benedetto XVI. La proposta 46 riguarda la “Collaborazione fra uomini e donne nella Chiesa”.
Proposta 46: Collaborazione fra uomini e donne nella Chiesa
La chiesa apprezza l’eguale dignità, nella società, fra uomini e donne fatti ad immagine di Dio, e nella Chiesa, per la loro vocazione comune di battezzati in Cristo. Il pastori della Chiesa hanno riconosciuto le capacità specifiche delle donne, come la loro attenzione agli altri e i loro doni per l’educazione (nutrimento) e la compassione, particolarmente nella loro vocazione di madre. Le donne sono testimoni con gli uomini del Vangelo della vita per la loro dedizione nella trasmissione della vita nella famiglia. Insieme aiutano a mantenere viva la fede. Il sinodo riconosce che oggi le donne (laiche e religiose) contribuiscono con gli uomini alla riflessione teologica a tutti i livelli e partecipano delle responsabilità pastorali con loro in nuove modi portando avanti così la nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede.
Possiamo apprezzare il primo paragrafo che ricorda (e per fortuna!) l’eguale dignità tra uomini e donne nella Chiesa, ma il secondo e il terzo paragrafo sono semplicemente nauseabondi. Non è nauseante leggere che questi signori credono ancora alle “capacità specifiche delle donne”!!! Apparentemente, hanno perso tutto il periodo (di almeno un secolo, tra l’altro!) in cui le donne non sono più limitate a posti di lavoro di infermiera o insegnante, mestieri in cui possono dispiegare tutta la panoplia dei loro talenti innati in materia di amore del prossimo, di compassione e di maternità. Non si devono neppure esser accorti che Margaret Thatcher era una donna.
Scrivere e votare tali enormità è sicuramente rivoltante per le donne, ma talmente degradante per gli uomini! Significa che qualsiasi uomo, qualunque cosa faccia, non sarà mai all’altezza della sua compagna nell’educazione dei figli e in generale nell’amore per il prossimo, perché, non essendo geneticamente programmato per dare la vita, in fondo è solo un grande handicappato nell’altruismo e nella compassione.
Ma sono cose che non stanno né in cielo né in terra!!! Questi signori non guardano mai attorno a sé? Ad esempio, non hanno fratelli, cugini, nipoti che hanno quell’istinto paterno, forte quanto quello della madre, che ad esempio fa sì che siano presenti e tengano la mano della moglie mentre lei partorisce? E che dire degli uomini e delle donne che non possono dare la vita ma sono disposti, con l’adozione, ad accogliere un bambino? Sono meno atti alla vocazione della famiglia?
Riparliamone, della vocazione! Il massimo dell’assurdità e della stupidaggine torna ancora con la menzione di “vocazione di madre”. Ah, la sacrosanta vocazione di madre! Ah, il modello della Santa Vergine Maria! Oltre al peso (e agli stereotipi che questo mette sulle spalle delle donne), ancora una volta, questo è degradante per gli uomini. E la loro specifica vocazione di padre? È unicamente materiale? Grazie di portare a casa i soldi per nutrire la famiglia ed eventualmente di dare un bacio ai bambini prima di metterli a letto, e basta?
E, andando oltre, questo rinvia una volta ancora al problema globale delle “vocazioni”: ciascuno nella sua casella, e non facciamo confusione. Perché, insomma, le donne sono pregate di fare figli... con chi, ce lo domandiamo, dato che gli uomini hanno la vocazione al presbiterato, come ci ricorda ogni anno la giornata delle vocazioni.
Ma come può la Chiesa cattolica, ancora ai nostri giorni, votare testi che rinchiudono in questo modo gli esseri umani? Come ci si può applicare coscientemente e coscienziosamente ad innalzare muri tra le persone, a determinare così la loro vita e le loro azioni apostoliche? Come si possono convalidare tali sciocchezze e dirsi eredi di un Cristo che ha fatto cadere tante e tante barriere? Quindi no, cento volte no, come uomini e come donne non possiamo accettare in pace questa proposizione del sinodo.
(Se non sono amareggiata al cento per cento, è perché apprezzo molto il fatto che il sinodo riconosca che le donne partecipano alla riflessione teologica e possono avere responsabilità pastorali.)
Il papiro della moglie di Gesù non è falso. A un passo dalla verità*
In risposta all’Osservatore Romano e a Voyager, la rivista Fenix pubblica un dossier su Maria Maddalena come possibile moglie di Gesù e una serie di prove sull’autenticità della pergamena. Il ritrovamento del papiro in cui Gesù parla di una moglie, ha scatenato lo scorso settembre una bomba mediatica senza precedenti.
Non ci è voluto molto perché venisse prontamente smentito e ridiscusso, per inserirlo in quel limbo di incertezza in cui si trova tutto ciò che può disturbare i solidi dogmi della Chiesa. Eppure la figura di Maria Maddalena, l’ipotetica moglie di Gesù, ha sempre condotto con sé un alone di interrogativi; perché viene data tanta importanza ad una donna comune alle altre discepole ?
La rivista Fenix di novembre 2012 rivela in esclusiva le verità nascoste di Maria Maddalena come presunta moglie di Gesù.
“L’esistenza di tale documento, se confermato nella sua autenticità, dimostrerebbe che una setta cristiana nel II secolo credeva in questa unione. Una scoperta la cui smentita del Vaticano tramite i mass media sembra essere solo stata orchestrata ad arte per le difficoltà che questo frammento, se autentico, genererebbe” con queste parole la giornalista Elisa Bosco avvia il dossier interamente dedicato alla donna che sta emergendo come nuova Dea della cristianità. Nell’articolo della Bosco vengono coinvolti insigni professori quali il prof. Shisha-Halevy, Robert Bagnall direttore dell’Istituto per il Mondo Antico di NY e James Tabor della North Carolina University, di cui è riportata una sua lunga dichiarazione, a favore dell’autenticità del documento.
“Dato il particolare contenuto, abbiamo preso in seria considerazione l’analisi per stabilire se si trattasse di frammento autentico o di un falso.” dichiara in maniera obiettiva Karen King, la scopritrice del papiro “Sinceramente ritengo che sarebbe stato molto difficile riprodurre volontariamente il tipo di danneggiamento tipico da insetti, o il grado di umidità che il materiale present o il danneggiamento dell’inchiostro. Inoltre, vi sono anche altri fattori che porterebbero a propendere per la sua autenticità.” Dichiarazioni queste prontamente smentite da testate come l’Osservatore Romano che, senza accettare ulteriori prove scientifiche, hanno dichiarato il documento come “falso, in ogni caso”, ovvero falso qualsiasi sia il risultato. Ed invece le prime analisi propendono per il contrario, il papiro presenta proprietà a favore della sua autenticità, elencate nell’articolo della Bosco.
Il dossier su Maria Maddalena prosegue con l’articolo di Isabella Dalla Vecchia di luoghimisteriosi.it in cui vengono elencati i luoghi italiani della presenza segreta di Maria Maddalena. Non solo quadri, ma angoli di passaggio e tutto ciò che riguarda colei che da sempre viene identificata con una donna particolarmente vicina a Gesù. Una figura irraggiungibile perché nessuno sa dove si trovi, eppure ella è accanto a noi, in ogni angolo del nostro bellissimo Paese. “Sopra il portale del Duomo dell’isola de La Maddalena campeggia un’epigrafe le cui prime parole sono Divae Magdalene, che significano “Dea Maddalena”, - scrive la ricercatrice Isabella Dalla Vecchia - davvero singolare l’attribuzione della Santa all’appellativo di Dea. Questo a riprova della figura di Maria come incarnazione umana della Sophia, compagna e sposa universale di Cristo, la vera Dea del Cristianesimo e, guarda caso, si trova proprio nel luogo dove soggiornò e dove si trova il suo tesoro”.
Oltre alla figura della donna accanto a Gesù nelle ultime cene identificata con Maria Maddalena, vengono elencate le opere in cui si narra della vita apocrifa della Santa, dall’altare a lei dedicato nel Duomo di Bari, la chiesa per eccellenza legata alla presenza del Graal, fino alla testimonianza del suo passaggio in terra sarda.
Adriano Forgione, direttore del giornale, invece parla in esclusiva della simbologia nascosta della Santa, presentando un’immagine semplice ma estremamente ricca di significato incisa nei luoghi più legati a Maria e ai Templari. “Il segno della Maddalena è l’indizio di quanto la sua figura sia associabile alla Grande Dea Madre primordiale e sia frutto di una tradizione antica quanto la civiltà in relazione al “parto” o alla “nascita” di un erede divino.” dichiara Adriano Forgione nel suo approfondimento a chiusura dell’intero dossier. “Da questa porta pare farsi strada la figura di quella Dea Madre universale che giustificherebbe la definizione di “Dea Maddalena”.
E’ proprio la nuova Dea del Cristianesimo a divenire protagonista in un momento particolare che affronteremo a breve, quello del 21 dicembre 2012, quello definito come il “momento di passaggio in un’era illuminata”. Saremo proprio noi, con tali forti interrogativi, a contribuire a questo grande cambiamento?
Altre info su
http://www.luoghimisteriosi.it/collaborazioni-fenix.html
http://www.xpublishing.it/
Isabella Dalla Vecchia
Sergio Succu
Luoghi Misteriosi
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Il sito dei Luoghi Misteriosi
Anne Soupa: “La Chiesa ha una visione distorta delle donne”
intervista a Anne Soupa,
a cura di Philippe Clanché
in “www.temoignagechretien.fr” del 4 ottobre 2012
(traduzione: www.finesettimana.org)
In “Dieu aime-t-il les femmes?” (Dio ama le donne?) la biblista Anne Soupa afferma che la visione delle donne da parte della Chiesa sarebbe nata da un equivoco nell’interpretazione della Genesi e da un rifiuto di rielaborare tale interpretazione.
Come è giunta ad interessarsi del problema dello status delle donne nella Bibbia?
È un problema a cui penso da molto tempo. Sono convinta che la Chiesa abbia una visione distorta delle donne e che sia necessario rettificarla. Ho voluto affrontare il problema partendo dalla Bibbia, perché non sopporto la manipolazione di cui sono oggetto le Scritture, semplicemente per giustificare scelte culturali che non hanno niente a che vedere con la fede.
E pensa che tutto derivi da un errore di interpretazione di un passo della Genesi?
Nei due racconti della Genesi della creazione dell’uomo, Dio crea prima l’ha’adam, fatto d’argilla, l’essere umano generico. Il commentatore maschio - perché storicamente è un uomo - , vi si è rispecchiato e si è appropriato di questo essere umano generico per dire che si trattava di lui. Quello è l’errore originale. I lettori medioevali ne hanno tratto la conclusione che la donna fosse una creazione seconda, nel tempo e per importanza, e soprattutto che fosse un aiuto per l’uomo. Ma se l’uomo maschio non esiste ancora, come potrebbe la donna essere il suo aiuto? Eppure, è proprio su questa lettura sbagliata di Genesi 2, 18-24 che si è basato il magistero cattolico. Non si tratta di un problema di vocabolario. La lingua tedesca, che pure dispone di due termini diversi (Mensch, l’essere umano, e Mann, l’uomo) conserva questa confusione... Bisognerebbe ormai compiere un percorso ufficiale per far sì che vengano distinti l’essere umano e l’uomo maschio.
E tuttavia, la creazione divina si struttura sulla differenza dei sessi?
Dio ha effettivamente creato la differenza dei sessi, ma il testo della Genesi non dà alcun contenuto oggettivo a questa differenza. Per ciascuno e ciascuna, essa sorge dall’esperienza. Dio non dice che la donna è frivola, seducente, segreta, regina della casa e che l’uomo è potente, razionale, inquisitore. Dio non ha creato né il femminile, né il maschile, che sono invece caratteristiche culturali.
In senso più ampio, come considera le donne l’Antico Testamento?
Certe donne sono vittime di violenze terribili, come la concubina del levita violentata fino alla morte. Ma la Bibbia denuncia tali atti. Non dimentica mai che la donna è creatura di Dio. Nel progetto biblico, le donne hanno un ruolo decisivo: dicono che Dio prospetta percorsi insospettati. Si scopre ora il contributo importante delle donne profetesse nella Bibbia. Naturalmente, come in ogni società patriarcale, le loro funzioni sono legate alla vita familiare.
Nel Vangelo, lei presenta un Gesù con caratteristiche “femminili” (non violenza, tenerezza, ascolto) e, allo stesso tempo, innamorato delle donne.
Gesù ha mandato all’aria i codici culturali della sua epoca. È stato libero rispetto al “maschile” del suo tempo. Ha ridato alle donne uno spazio. Ed è da uomo che le considera. Tutte le nostre relazioni umane sono caratterizzate dalla sessualità. In Gesù e nelle sue interlocutrici, c’è una innegabile parte di sessualità passiva. Inoltre, il desiderio di Dio, a partire dai profeti, viene evocato con la metafora delle nozze, della vita amorosa. Nulla di sorprendente che alcuni abbiano creduto di vedervi una relazione scandalosa tra Cristo e Maria Maddalena. È il campo d’azione della vita spirituale: è una relazione amorosa sublimata.
Femminile, maschile... il “genere” è un aspetto da tener presente della relazione con Dio?
I grandi spirituali hanno insistito sulla femminilità dell’anima che accoglie Dio. Ne hanno certo diritto: il femminile, come il maschile, appartengono a tutti. Ma in questo modo, in una società a dominanza maschile come quella del Medio Evo, si sono per di più arrogati il femminile. E, stando così le cose, ne hanno quasi privato le “vere” donne, che finiscono per non essere più necessarie! L’interpretazione del Cantico dei cantici mostra chiaramente questa “espropriazione”. La storia d’amore che racconta è stata intesa da quasi tutti i commentatori cristiani come un’immagine dell’amore tra l’essere umano e Dio. Ma così l’Amata del Cantico scompare in quanto vera donna, non è altro che l’icona di colui che desidera Dio.
Ed è proprio a partire dal Cantico dei Cantici che l’assimilazione tra l’Amata del testo e il popolo dei fedeli fa nascere l’espressione “Chiesa, sposa di Cristo”?
Sono soprattutto i profeti che hanno sviluppato questo tema del popolo-sposa di Dio (e Dio viene così mascolinizzato). E, sfruttando questo filone, anche i teologi, Paolo per primo, hanno sviluppato il tema della Chiesa sposa di Cristo. Ma quella che era solo un’immagine, ed anche una richiesta di maggiore fedeltà a Dio, è diventata una norma che regge i veri rapporti dei veri uomini e delle vere donne nella Chiesa. Ed è su questo che si basa la Chiesa per escludere le donne dal sacramento dell’ordine. Le donne, dice, non possono esprimere il Cristo sposo. Ecco come si fa di una metafora uno strumento di esclusione.
Nei primi secoli del cristianesimo, però, le donne esercitavano dei ministeri. Sotto un ritratto nella chiesa di Santa Prassede a Roma, si legge: Theodora episcopa(il vescovo Theodora). Perché lei situa la svolta al momento della riforma gregoriana (XI-XII secolo)?
La riforma gregoriana affida ai soli preti le tre funzioni tradizionali nella Chiesa: governare, insegnare, santificare. Le donne (come i laici uomini) ne sono quindi escluse, fino ad oggi. E inoltre, nel XIII secolo, la Chiesa inizia la guerra contro i preti sposati. Quella decisione suscita molte resistenze, che generano, in risposta, vere campagne di discredito nei confronti delle donne. Sermoni e rappresentazioni iconografiche associano la donna al serpente della Genesi, come sull’architrave della cattedrale di Autun, ad esempio. Allora, le donne occupano altri spazi. Come ogni popolazione minacciata che fugge verso le montagne o i deserti, le donne si rifugiano nel misticismo o nell’avventura coloniale, in Canada, ad esempio.
In quale momento la Chiesa ha creato la vocazione della donna-madre, della donna-ventre che si realizza innanzitutto nella maternità?
Questa concezione è antica, abbiamo visto che la Bibbia ne riconosce la nobiltà. Ma la maternità non dice tutto di un essere umano. Non definisce un’identità. Nel XX secolo, la promozione della donna nelle società civili ha obbligato Roma a prendere posizione. Ma il Vaticano si è limitata a riprendere il discorso delle società patriarcali, senza vedere che l’emancipazione femminile la chiamava ad un discorso nuovo. Tanto ha sostenuto un tempo la causa delle donne, altrettanto frena oggi la corrente di emancipazione che arriva fino a lei, senza dubbio perché non ci sono abbastanza donne al suo interno per aiutarla a prendere coscienza dell’importanza di questa liberazione. Ad esempio, Roma continua a prendere alla lettera la maledizione della Genesi: Dio moltiplicherà il dolore delle gravidanze della donna e l’uomo dovrà lavorare la terra col sudore della fronte. Per la donna, la maternità diventa ontologica per la donna. Ma agli uomini Roma non chiede di tornare ad essere agricoltori... Oggi siamo in una situazione “folle”: il Magistero parla al posto delle donne e non dà loro la parola. Si arroga il diritto di assegnare loro una vocazione specifica che non ha l’equivalente per i maschi.
Abbiamo parlato del rifiuto di Roma del presbiterato al femminile. Perché lei non ne fa un asse portante della sua richiesta?
Il ministero presbiterale è in crisi. Deve innanzitutto risolvere i suoi problemi. Ordinare delle donne non serve a niente se il quadro è sbilenco. Invece, è importante aprire alle donne la possibilità della predicazione e dell’assunzione di funzioni di responsabilità nella Chiesa. È urgente che si senta la loro voce. Essendo diretta solo dal clero, la Chiesa si priva di sangue nuovo. Si devitalizza.
Quale ruolo svolgono le femministe cattoliche?
Hanno riflettuto soprattutto sugli aspetti teologici ed ecclesiologici, in particolare sui ministeri. Una generazione di esegete comincia a pubblicare. Questo è bene, perché è a partire da una lettura nuova della Scrittura che le cose possono cambiare. Si può anche immaginare un sinodo delle donne, idea che propongo alla fine del mio libro. In tale circostanza potrebbero emergere delle mozioni specificamente femminili e, perché no, dei voti che uniscono uomini e donne. Ho lanciato l’idea, resto in attesa di che cosa ne pensa il pubblico. La questione delle donne è talmente scottante! Non si può restare in silenzio davanti ad una negazione così grave del messaggio evangelico.
*
Anne Soupa, Dieu aime-t-il les femmes?, Médiaspaul, p. 144, € 19
Biblista e militante
Anne Soupa ha studiato teologia all’Institut de pédagogie de l’Enseignement religieux (Iper) di Lione, poi nelle facoltà cattoliche di Lione e di Parigi. Ha lavorato come biblista, in particolare dirigendo la rivista Biblia presso la casa editrice Cerf. È diventata famosa come promotrice, insieme all’editrice e saggista Christine Pedotti, del Comité de la Jupe e della Conférence catholique des baptisé-e-s francophones, che hanno l’obiettivo di difendere la dignità delle donne e la dignità dei battezzati e delle battezzate. Insieme hanno raccontato queste avventure nel libro Les pieds dans le bénitier, Presses de la Renaissance, 2009.
Il Papa: “La cappella Sistina? E’ illuminata dalla luce di Dio”
Benedetto XVI , 500 anni dopo, ripete la liturgia inaugurale seguita da Giulio II per gli affreschi di Michelangelo
di redazione *
Roma. «È la luce di Dio quella che illumina questi affreschi e l’intera Cappella Papale». Così Benedetto XVI ha parlato questo pomeriggio degli affreschi della Cappella Sistina, durante la celebrazione dei Vespri in occasione del cinquecentenario della volta dipinta da Michelangelo. Il Pontefice ha voluto ripetere lo stesso rito con cui il 31 ottobre del 1512 papa Giulio II Della Rovere, alla vigilia della festa di Tutti i Santi, inaugurò la volta affrescata da Michelangelo in quattro anni, dal 1508 al 1512.
«Il grande artista - ha detto Ratzinger nell’omelia -, già celebre per capolavori di scultura, affrontò l’impresa di dipingere più di mille metri quadrati di intonaco, e possiamo immaginare che l’effetto prodotto su chi per la prima volta la vide compiuta dovette essere davvero impressionante».
«Da questo immenso affresco è precipitato sulla storia dell’arte italiana ed europea - dirà il Woelfflin nel 1899 con una bella e ormai celebre metafora - qualcosa di paragonabile a un ’violento torrente montano portatore di felicità e al tempo stesso di devastazione”: nulla rimase più come prima», ha osservato il Papa, che ha ricordato anche le parole di Giorgio Vasari, in un passaggio delle “Vite”: «Questa opera è stata ed è veramente la lucerna dell’arte nostra, che ha fatto tantogiovamento e lume all’arte della pittura, che ha bastato a illuminare il mondo».
«Lucerna, lume, illuminare - ha sottolineato Benedetto XVI -: tre parole del Vasari che non saranno state lontane dal cuore di chi era presente alla Celebrazione dei Vespri di quel 31 ottobre 1512. Ma non si tratta solo di luce che viene dal sapiente uso del colore ricco di contrasti, o dal movimento che anima il capolavoro michelangiolesco, ma dall’idea che percorre la grande volta: è la luce di Dio quella che illumina questi affreschi e l’intera Cappella Papale». «Quella luce - ha aggiunto il Pontefice - che con la sua potenza vince il caos e l’oscurità per donare vita: nella creazione e nella redenzione».
E secondo Ratzinger, «la Cappella Sistina narra questa storia di luce, di liberazione, di salvezza, parla del rapporto di Dio con l’umanità». «Con un’intensità espressiva unica - ha proseguito -, il grande artista disegna il Dio Creatore, la sua azione, la sua potenza, per dire con evidenza che il mondo non è prodotto dell’oscurità, del caso, dell’assurdo, ma deriva da un’Intelligenza, da una Libertà, da un supremo atto di Amore. In quell’incontro tra il dito di Dio e quello dell’uomo, noi percepiamo il contatto tra il cielo e la terra; in Adamo Dio entra in una relazione nuova con la sua creazione, l’uomo è in diretto rapporto con Lui, è chiamato da Lui, è a immagine e somiglianza di Dio».
Secondo Benedetto XVI, infine, «vent’anni dopo, nel Giudizio Universale, Michelangelo concluderà la grande parabola del cammino dell’umanità, spingendo lo sguardo al compimento di questa realtà del mondo e dell’uomo, all’incontro definitivo con il Cristo Giudice dei vivi e dei morti»
SARONNO. Santuario della Beata Vergine dei Miracoli
LE SIBILLE NELL’ARTE *
Le raffigurazioni delle Sibille nell’arte sacra appaiono nel tardo Medioevo e diventa-no frequenti nel Rinascimento, ma in seguito gradualmente cessarono. Le Sibille ven-gono sempre raffigurate come profetesse spesso in corrispondenza a profeti biblici. Di solito sono raffigurate con un libro o un cartiglio nella mano, analoghi a quelli dei profeti.
Sembra che la più antica Sibilla raffigurata nell’arte sacra sia quella Persica, dipinta nel sec. XI tra la serie dei profeti in un pennacchio della chiesa di S. Angelo in For-mis. Una Sibilla appare scolpita in bassorilievo nel pulpito di Sessa Aurunca (sec. XII-XIII). La più notevole raffigurazione delle Sibille del tardo medioevo è dovuta a Giovanni Pisano, che adornò con esse sia il pulpito della cattedrale di Pisa, che quello della chiesa di S. Andrea a Pistoia, collocandole al disopra dei capitelli delle colonni-ne che reggono i pulpiti stessi.
Agli albori del Rinascimento il Beato Angelico dipinse la Sibilla Eritrea da sola in mezzo all’intera serie dei profeti nell’incorniciatura della grande scena della Crocifis-sione di Gesù, affrescata nella sala capitolare del Convento di S. Marco a Firenze.
Di Andrea del Castagno si ha contemporaneamente la vigorosa Sibilla Cumana, af-frescata per la Villa Pandolfini a Legnaia ed ora conservata nel convento di S. Apol-lonia a Firenze. Quattro graziose statuette di Sibille si vedono intercalate con quelle dei profeti nei fregi verticali della magnifica porta del Battistero di Firenze, opera di Lorenzo Ghiberti.
Nello splendido pavimento del duomo di Siena, decorato di graffiti in marmo, dieci Sibille sono raffigurate nelle navate laterali.
Domenico Ghirlandaio affrescò nel 1484 quattro Sibille negli spartimenti triangolari della volta della cappella Sassetti nella chiesa della SS. Trinità a Firenze.
Sono opera del Pinturicchio e della sua scuola le Sibille affrescate nell’Appartamento Borgia in Vaticano (tra il 1492-1494): le Sibille sono affiancate ai Profeti in questo ordine:
Geremia e la Sibilla Frigia
Mosè e la Sibilla Delfica
Daniele e la Sibilla Eritrea
Baruc e la Sibilla Samia
Zaccaria e la Sibilla Persica
Abdia e la Sibilla Libica
Aggeo e la Sibilla Cumana
Amos e la Sibilla Europea
Geremia e la Sibilla Agrippina
Isaia e la Sibilla Ellespontica
Michea e la Sibilla Tiburtina
Ezechiele e la Sibilla Cimneria.
Ma la più famose Sibille sono quelle di Michelangelo dipinte sulla volta del-la Cappella Sistina. Vi troviamo cinque Sibille alternate a sette Profeti (1509):
Sibilla Delfica
Sibilla Eritrea
Sibilla Cumana
Sibilla Persica
Sibilla Libica.
Nello stesso periodo, caratterizzato dalla riscoperta e dalla valorizzazione della cultu-ra classica e dell’Umanesimo, alla sommità delle sue due grandi scene della Presenta-zione di Gesù al Tempio e dell’Adorazione dei Magi (1525) Bernardino Luini ha dipinto rispettivamente la Sibilla Persica e quella Libica, la Sibilla Delfica e quella Chimica, ciascuna con rispettivo cartiglio profetico. Le due scene evangeliche, infatti, vogliono illustrare il significato della Nascita del Redentore, che è Messia di tutti; e-gli è sì di discendenza israelitica, ma è pure “luce delle genti” ed è stato subito rico-nosciuto dai Magi, espressione del mondo pagano.
Quando si trattò di comporre la magnifica decorazione della cupola Gaudenzio Ferra-ri espose il suo progetto e volle collocare nelle nicchie appaiate sui dodici lati del tamburo i Profeti affiancati dalle Sibille. Le 22 statue lignee vennero intagliate da Giulio Oggiono da Varese e decorate da Al-berto da Lodi tra il 1539 e il 1544. A detta di Padre Sevesi, nel suo volume “Il santua-rio di Saronno” (1926), secondo i cartigli attribuiti le statue lignee risultavano così collocate in successione, guardando alla destra della Madonna Assunta:
Davide e Sibilla Cumana
Baruch e Sibilla Delfica
Michea e Sibilla Tiburtina
Isaia e Sibilla Persica
Abacuc e Sibilla Libica
(Aggeo e Sibilla Eritrea)
Abdia e Sibilla Ellespontica
Geremia e Sibilla Europea
Osea e sibilla Chimica
Daniele e Sibilla Frigia
Ezechiele e Sibilla Samia (mancando i cartigli questa attribuzione risultava incerta).
Attualmente in Santuario sono presenti solo 10 coppie, perché le statue del profeta Aggeo e della Sibilla Eritrea sono state trafugate intorno agli anni ’50 del sec. scorso e sono attualmente irreperibili.
* TESTO RIPRESO DA: SARONNO: PROFETI E SIBILLE IN SANTUARIO
* SANTUARIO DI SARONNO: Restauri 2011 - 2012. Le statue lignee della meravigliosa cupola del Santuario di Saronno
Un racconto per credenti e laici
I sette giorni che fecero il mondo
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 12 novembre 2012)
«In principio Dio creò il cielo e la terra», l’incipit di Genesi 1 è l’inizio per antonomasia, «Bereshît», l’arché alla quale ogni uomo (nel senso di essere umano: «maschio e femmina li creò») è di continuo richiamato non appena sollevi lo sguardo oltre le grane quotidiane. C’è una narrazione alla quale tutti, credenti o no, consapevoli o meno, siamo ricondotti come a un fondamento. E a Roma la Chiesa del Gesù - «chiesa madre» del gesuiti, dov’è sepolto il fondatore Sant’Ignazio di Loyola - è colma di persone mentre il cardinale biblista Gianfranco Ravasi spiega come la creazione biblica non sia la classica cosmogonia orientale, il frutto di una «lotta intradivina», ma stia «tutta in una frase: "Dio disse: sia la luce!, e la luce fu". Come si legge nel salmo 19, "i cieli narrano la gloria di Dio", la narrano perché il creato è frutto di una parola, è in sé parola...».
E così il direttore del «Corriere» Ferruccio de Bortoli cita Michelangelo e Nietzsche, Blake e Haydn, i tanti geni che hanno alimentato i propri linguaggi alla fonte biblica, «un testo che probabilmente, sotto il profilo esclusivamente storico, è una raccolta di miti, leggende, racconti orali poi casualmente ordinati nei secoli» e tuttavia «assume alla fine una forma perfetta». Per questo «anche chi non è disposto ad ammettere la presenza di un grande autore, di un grande narratore, non può sottrarsi allo stupore della creazione, interrogarsi su cosa c’era prima di quel principio...».
Intorno a questa narrazione il pontificio consiglio della Cultura, presieduto da Gianfranco Ravasi, ha organizzato un ciclo di sei incontri, uno al mese («In principio Dio creò... Alle origini della vita. Alle radici della fede»), tra personalità ecclesiastiche e laiche - fra gli altri, due grandi firme del «Corriere» come Massimo Franco e Sergio Rizzo -, sei dialoghi moderati dal professor Rosario Salamone ed inaugurati ieri dal primo racconto della creazione. Con il cardinale Ravasi impegnato a mostrare l’aspetto letterario, cosmologico, filosofico, teologico, antropologico, escatologico e mistico del testo, sette elementi esegetici come settenario è non a caso il ritmo del testo ebraico: «Sette giorni. Sette formule usate per costruire ogni giorno. Sette volte il verbo barà, "creare". Ventun volte, sette per tre, le parole terra e cielo. Trentacinque volte, sette per cinque, la parola Eelohîm, Dio. Il primo verso di sette parole, il secondo di quattordici. Una sorta di cabala mistica che ha una finalità: mostrare che l’essere è armonico, che l’universo è frutto di un progetto e non del caos».
La stessa domanda, le stesse emozioni ci accompagnano oggi, ricorda de Bortoli: «Sono sicuro che le abbiano provate, indipendentemente dalla loro fede, anche gli scopritori del bosone di Higgs, denominato avventurosamente la "particella di Dio", quando hanno avuto la sensazione o la presunzione di toccare con mano, attraverso la loro ricerca, il principio di tutte le cose. E si saranno chiesti, magari senza confessarlo ai colleghi: che cosa c’era, prima?». Il cardinale Ravasi, alla fine, ha citato una frase di Isaac Newton: «Non so che immagine avrà il mondo di me. Io mi vedo come un bambino che gioca sulla riva del mare e di tanto in tanto si diverte a scoprire un ciottolo un po’ più levigato o una conchiglia un po’ più bella del solito. Ma davanti a me si stende ancora, inesplorato, l’immenso oceano dell’universo e della verità».
Ebraismo.
La Genesi di Manachem da Recanati, qabbalista italiano
Pubblicata la prima parte del Commento alla Torà del mistico ebreo medievale nato a Recanati. Una lettura esoterico-teologica in una visione di unità fra il cielo e la terra
di Massimo Giuliani (Avvenire, martedì 6 luglio 2021)
Esistono miriadi di interpretazioni del libro della Genesi, ma quella del mistico ebreo Manachem (da) Recanati è diversa. Facendo un balzo nella seconda metà del XIII secolo e immergendosi nella lettura, non facile ma affascinante, del suo Commento alla Torà, ci troviamo in un mondo totalmente altro rispetto alle decostruzioni storico-filologiche dell’esegesi odierna. In questo enciclopedico testo ogni parola ebraica, ogni versetto e ogni pericope sono rami di un immenso albero che collega la terra al cielo (e viceversa) e chi ha la forza di arrampicarvisi arriva a conoscenze segrete e sublimi, a quei ’segreti della Torà’ che hanno fatto la delizia di una schiera di qabbalisti. Nello scorcio di quel tardo medioevo la qabbalà o mistica ebraica era al suo apice: circolava in manoscritti ricercatissimi e costosi, copiati e ricopiati in continuazione, non raramente tradotti in latino per quei qabbalisti cristiani, come Pico della Mirandola e il cardinal Egidio da Viterbo, che ne erano affascinati e vi cercavano (addirittura) la prova provata dei dogmi cristiani.
Menachem figlio di Beniamino fu probabilmente il maggior qabbalista italiano e il suo commento è diverso perché raccoglie e organizza, in una vasta architettura letteraria, un po’ tutte le correnti di pensiero esoterico-teologico che chiamiamo qabbalà. Un assaggio di questo complesso mondo di idee e di visioni, di rivelazioni segrete e di illuminazioni religiose è ora offerto dalla traduzione italiana dei primi tre capitoli della Genesi, in ebraico Bereshit ossia ’In principio’, compiuta da Maria Tiziana Mayer (edizioni La vita felice, prefazione di Joseph Blaha, pagine 388) uscita da poco con il titolo Commento alla Genesi.
Ma chi era davvero questo grande qabbalista? Ben poco si sa di lui, e per molto tempo è stato identificato, persino dallo storico rumeno-israeliano Moshe Idel, con un copista romano, a sua volta di nome Menachem ben Benjamin; ma il nostro Giulio Busi, illustre ebraista oggi all’università di Berlino, lo ha più correttamente identificato come membro della benestante famiglia Finzi, residente a Recanati, da dove il giovane potè coltivare intensi rapporti col mondo ebraico sefardita. Da qui la sua profonda conoscenza dei testi mistici che, soprattutto in Catalogna, venivano composti nella forma di commenti alla Bibbia, come lo stesso Sefer ha-zohar che è il più noto tra quei commenti (scritto in un aramaico letterario, venne stampato la prima volta a Cremona nel 1558).
Nella penisola iberica erano attivi alla fine del XIII secolo i più grandi qabbalisti di sempre, come Joseph Gikatilla e Moshe de Leon, ai quali risale buona parte del materiale confluito nello Zohar, e come Shlomò ben Adret ed Ezra ben Todros, che fecero da ponte tra Spagna e Italia nella trasmissione di quelle scuole esoteriche. Nessuna sorpresa che il rampollo dei recanatesi Finzi abbia beneficiato di tanta ricchezza esegetico-spirituale e l’abbia fatta confluire nel suo grande commentario ai libri biblici.
Come annota la traduttrice, è riduttivo tuttavia considerare Menachem un mero epigono di quei grandi studiosi sefarditi, a conferma del giudizio che, a suo tempo, ne diede proprio Giulio Busi: «Menachem (da) Recanati è stato un bibliografo paziente, che accumulava decine di fonti prima di azzardare un teoria personale. Allo stesso tempo fu un teorico brillante, capace di cogliere i legami metaforici che uniscono il mondo fisico al sistema delle emanazioni divine». Già, perché in queste dottrine mistiche l’albero che unisce cielo e terra è quello sefirotico, aggettivo che viene da ’sefirà’, termine polisemico che in ebraico significa sia numero sia narrazione, da cui anche libro, e nel quale risuona persino il greco ’sfera’. Fissate nel numero canonico di dieci, queste ’sfere’ sarebbero a un tempo gli attributi del Divino e le sue emanazioni, intese come canali che portano nel mondo terrestre l’energia superna e che costituiscono altrettanti ’rami’ per salire (e scendere) dall’albero sefirotico. Evidenti gli influssi neoplatonici di questa dottrina mistica.
Il Commento alla Torà di Menachem (da) Recanati intreccia questa struttura esoterico-metafisica con interpretazioni rabbiniche più tradizionali, ad esempio la spiegazione della trasgressione di Adamo ed Eva che mangiarono un fico, e non una mela, come volle una più tarda tradizione cristiana (Michelangelo è al corrente di quest’identificazione ebraica dell’albero proibito e nella Cappella Sistina ritrae un fico, non un melo). Il fico è, simbolicamente, l’albero della ricerca della verità. Ma il punto non è che sia un fico o un melo, ma che i protogenitori abbiano ceduto alla lusinga dell’astuto serpente facendosi un’immagine sbagliata di Dio: la loro colpa, ossia il peccato originale, altro non fu che un peccato di idolatria.
Il qabbalista visualizza questa trasgressione come un atto di sradicamento dell’albero stesso, perché ’tagliare l’albero’ significa sconnettersi dalla fonte della vita e della conoscenza, privarsi del mezzo per salire verso Dio al fine di «vedere il volto del Re» e «mangiare dei frutti squisiti» della sua sapienza. Il commento ebbe un’enorme fortuna, ben intuibile dal fatto che esso venne stampato già nel 1523, a Venezia (praticamente in contemporanea con il Talmud Babilonese), e conobbe molte riedizioni succe ssive.
Tanta fortuna si deve probabilmente alla capacità di questo autore di tenere insieme le correnti mistiche più diverse che allora attraversavano il mondo ebraico: quelle imperniate sull’interpretazione del testo, anzitutto, ma anche le correnti estatiche, che prediligevano l’ascesi e la mortificazione (dello stesso Menachem si narra che facesse lunghi digiuni), e persino quelle tendenze religiose che invece preferivano esplorare i testi sacri con metodi più razionali, filosofici, come indicato dal maggior pensatore del giudaismo medievale, Maimonide. L’influenza filosofica è innegabile, ad esempio, in questo passo del mistico recanatese: «La verità è che il Creatore benedetto è la Cagione delle cagioni, la Causa delle cause, né gli si può attribuire mutamento alcuno né alcuna cosa che faccia pensare alla sua molteplicità».
Altri esempi si potrebbero portare dell’intreccio tra filosofia e qabbalà, a dimostrazione di quanto erronea sia l’idea che la mistica ebraica nacque come correzione spirituale agli accessi razionalisti della filosofia ebraica, influenzata com’era dall’aristotelismo arabo (averroistico soprattutto). La mistica, nel giudaismo, è antica quanto il giudaismo stesso e certamente si intreccia con alcune scuole neoplatoniche, ma nel medioevo, come si evince proprio dall’opera di Menachem (da) Recanati, non disdegnò di combinarsi e spesso di fondersi con l’approccio filosofico più razionalista.
Qabbalà e filosofia sono le due grandi forme che, a partire dal XII-XIII secolo, il giudaismo intraprese per rinnovarsi e, non da ultimo, per dialogare con le culture in cui viveva: l’islam mutazilita nel bacino afro-mediorientale e il cristianesimo platonizzante in Spagna e in Italia, all’alba di un nuovo umanesimo. Anche grazie ad autori come il qabbalista recanatese, l’umanesimo e poi il rinascimento riscoprirono non solo il greco ma anche l’ebraico e cercarono di scalare l’albero qabbalistico ovvero una sapienza ritenuta ancor più antica della filosofia.