In un bel documentario dal titolo «1512. La volta di Michelangelo nella Sistina compie 500 anni» mandato in onda, ieri, 31 ottobre 2012 (giorno dell’anniversario) su TV2000 alle ore 13.05 (e replicato alle 23.05) con Antonio Paolucci, Gianluigi Colalucci e cardinale Gianfranco Ravasi,
il cardinale dichiara, con la massima autorevolezza e con la massima ’innocenza’, che nella Volta della Sistina insieme alle figure centrali relative al testo del Genesi, ci sono i profeti e le sibille, e la presenza di "queste donne" è definita come "il più curioso" elemento della narrazione michelangiolesca.
Evidentemente, dopo 500 anni, per la teologia della Chiesa cattolico-romana, la loro presenza è decisamente ancora un problema, un grosso problema! (Federico La Sala, 01.11.2012)
Sul tema, per approfondimenti, mi sia consentito, si cfr.:
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.
La Volta Sistina compie 500 anni
di Antonio Paolucci (Il Sole-24 Ore, 28 ottobre 2012)
Ci sono date destinate a rimanere indimenticabili nella universale storia delle arti. Una di queste è il 1508. Quell’anno Giulio II della Rovere un vecchio papa che sembrava amare la politica, la diplomazia e la guerra più di quanto non amasse la pittura, chiama al suo cospetto due artisti. Uno è un ragazzo di appena venticinque anni, Raffaello Sanzio da Urbino, e a lui chiede di dipingergli ad affresco le pareti del suo appartamento privato, le Stanze più famose del mondo, quelle che da allora in poi tutti conosceranno come "di Raffaello".
L’altro è Michelangelo Buonarroti, giovane uomo di trentatré anni, celebre per i capolavori di scultura (la Pietà di San Pietro, il David di Piazza della Signoria) lasciati a Roma e a Firenze. A quest’ultimo affida la decorazione della volta nella "cappella magna" che quasi trent’anni prima (1481-83) il papa all’epoca regnante, lo zio Sisto IV, aveva fatto affrescare lungo le pareti dai grandi professionisti umbri e toscani di quegli anni; dal Ghirlandaio, dal Botticelli, dal Perugino, fra gli altri.
Incomincia così nel 1508 l’avventura della volta della Sistina, il duello, quasi il corpo a corpo di Michelangelo con gli oltre mille metri quadrati di intonaco da riempire di centinaia di figure. Il contratto è dell’8 Maggio 1508, l’inaugurazione della prima parte, dall’ingresso fino al centro, è del 15 agosto del 1511, del 31 ottobre 1512 la conclusione dei lavori.
Nel pomeriggio del 31 ottobre di Cinquecento anni fa, ai Vespri della vigilia di Ognissanti, il Papa (con «17 cardinali in cappa festiva» scrive il cronista) inaugurava la grande impresa. Da quei più di mille metri di pittura oggi sospesi sui cinque milioni di visitatori che ogni anno attraversano la Sistina, è precipitato sulla storia dell’arte italiana ed europea - scriverà il Wölfflin nel 1899 con una bella metafora - qualcosa di paragonabile a un «violento torrente montano portatore di felicità e al tempo stesso di devastazione».
Di fatto, dopo la volta della Sistina, nulla sarà più come prima. Incomincia da quel 31 ottobre del 1512 la stagione che i manuali chiamano del Manierismo. Al punto che Giorgio Vasari, in un passaggio famoso delle Vite, potrà scrivere: «questa opera è stata ed è veramente la lucerna dell’arte nostra, che ha fatto tanto giovamento e lume all’arte della pittura, che ha bastato a illuminare il mondo». In una trentina di parole tre volte con tre diversi vocaboli ("lucerna", "lume", "illuminare") il Vasari esalta il concetto di un’opera destinata a svelare e a guidare il destino delle arti nel tempo a venire. In un certo senso le cose sono andate proprio così, a tal punto grande è stata l’influenza che quegli affreschi hanno esercitato sugli artisti d’Italia e d’Europa.
La bibliografia sulla volta della Sistina è così vasta che basterebbe a riempire una biblioteca di medie dimensioni. Del resto l’immane sciarada teologico scritturale che Michelangelo dispiegò nel cielo della "cappella magna" offre di continuo occasioni di singolari interpretazioni e decodificazioni. Il formidabile genio mitopoietico del Buonarroti, la sua ineguagliata capacità di inventare situazioni iconografiche radicalmente nuove, spalancano praterie sterminate agli esegeti contemporanei, specie a quelli di scuola americana.
Per esempio. Di recente, qualcuno con una ipotesi certo fantasiosa e improbabile però suggestiva, ha voluto riconoscere nel gruppo di Dio Padre circondato dagli angeli che "crea" un Adamo già esistente e perfettamente formato, il profilo di un cervello umano. Quasi che quella scena fosse il manifesto di un Michelangelo creazionista precursore del "disegno intelligente".
Molte cose si sono dette e si diranno ancora sulla volta della Sistina. A me piace ricordare l’impresa della volta così come ce la racconta Michelangelo stesso in un celebre sonetto autocaricaturale il cui originale si conserva negli archivi di Casa Buonarroti a Firenze.
I’ho già fatto un gozzo in questo stento
come fa l’acqua a’ gacti in Lombardia
o ver d’altro paese che si sia,
ch’a forza ’l ventre appicco sotto l’mento
la barba al ciel, e la memoria sento
in sullo scrigno, e l’pecto fo d’arpia
e ’l pennel sopra ’l viso tuctavia
mel fa, gocciando, un ricco pavimento...
Il testo è grottesco, surreale, sulfureo. Parla di un uomo che il lavoro stravolge e disarticola, che non si sente adatto, da scultore, alla pratica della pittura a fresco, che prova rabbia, delusione, sconforto e che pure è capace di esaltare con due versi bellissimi («e ’l pennel sopra ’l viso tuctavia mel fa gocciando un ricco pavimento») la faticosa gloria dell’arte.
«1512. La volta di Michelangelo nella Sistina compie 500 anni» è il titolo del documentario realizzato da Nino Criscenti in onda il 31 ottobre (giorno dell’anniversario) su TV2000 alle ore 13.05 (replica 23.05) con Antonio Paolucci, Gianluigi Colalucci e cardinale Gianfranco Ravasi.
Lo stesso 31 ottobre, su Rai Storia (ore 23), va in onda il documentario «Michelangelo e la Sistina. Storia di un’opera d’arte» di Piero Badaloni e Nino Criscenti con Antonio Paolucci, Gianluigi Colalucci e Massimo Firpo.
MICHELANGELO E GHIBERTI. Una nota:
PROFETI E SIBILLE.LA PORTA DEL PARADISO: Forse deriva proprio dall’antico nome del luogo l’appellativo di "Porta del Paradiso", mentre Vasari fornì un versione diversa, attribuendo l’idea a Michelangelo, che osservando le due ante bronzee avrebbe pronunciato: «elle son tanto belle che elle starebbon bene alle porte del Paradiso».
FRANCESCO DI PAOLA (1416-1507) |
1512 - Giulio II, il 13 maggio, emana un breve con cui ordina di iniziare le indagini canoniche intorno alla vita, alle virtù e ai miracoli di frate Francesco [di Paola] per la sua canonizzazione.
1513 - Leone X, il 7 luglio, eleva Francesco all’onore dei beati. I frati possono ora celebrare la festa il 2 aprile.
1519 - Leone X, il 1° maggio, canonizza Francesco, iscrivendolo nel "Catalogo dei Santi Confessori", e stabilendo la celebrazione della festa in tutta la "Chiesa universale il giorno 2 aprile" (cfr.: Daniele Macris, Giuseppe Tallarico, La canonizzazione di san Francesco di Paola, Editore Pubblisfera, San Giovanni in Fiore, 2012, p. 31).
DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!!
Federico La Sala
PSICOANALISI DELLA SOCIETA’ CONTEMPORANEA: I GIGANTI SULLE SPALLE DEI BAMBINI E "LA SOCIETA’ SANA" ("THE SANE SOCIETY", 1955).
UNA NOTA SUL "TEMPO FUORI DAI CARDINI" E L’ANSIA DELLA "DE-GENERAZIONE" DELLO STORICO PRESENTE
SOCIOLOGIA, PEDAGOGIA, E PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE. SE DA MOLTI DECENNI I #PIFFERAI GIGANTI dei "mass-media" e dei "social media" (veri e propri "cavalieri dell’apocalisse"), a cui "abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi" (come denunciava McLuhan), si sono ormai seduti sulle spalle dei "#bambini" e degli stessi "#genitori", non è forse il caso di uscire, con Dante Alighieri, dal #letargo e dall’#inferno, e cercare di ripensare e chiarirsi le idee, con "Amleto" (III.2), sulla "trappola per topi" ("The Mousetrap"), e portare sulla scena il "giogo" del "pifferaio" dello "#stato di Danimarca" planetario"? Se non ora, quando?!
P.S. - IL #BAMBINO SULLE SPALLE DEL GIGANTE: SAN CRISTOFORO.
L’HAMLETICA QUESTIONE DELLA INTELLIGENZA, L’ALBA DELLA TERRA ("EARTHRISE"), L’ALBERO DEL "CERVELLO" (IL NOCE), E LA "NEXOLOGIA" CHIASMATICA DELLE "COSTRUZIONI NELL’ ANALISI" (S. FREUD, 1937). *
UNA "NOCE-PESCA", "IL "PESCA-NOCE" E UNA EPISTEMOLOGIA "GENESI-CA": LA MENTE ACCOGLIENTE. Una traccia per una #svolta_antropologica...
ANTROPOLOGIA E #PSICOANALISI. Sulla relazione mente-cervello, sull’#enigma dello #gnommero, dell’ ingarbugliatissimo gomitolo (nascosto all’interno della #testa dell’essere umano, della "noce" - a "drupa aperta"), forse, non è male tenere presente (ancora e) anche il contributo di uno dei suoi grandi "#pescatori", a partire dalle sue ricerche sull’#anguille (non sui "punti di #capitone" di #Lacan: il papà di #SigmundFreud era un #mercante di #lana, ma il figlio non faceva #materassi, per tutta la vita ha cercato la via delle "anguille" per il #mare dei #Sargassi, ed è riuscito a giungere a #Maresfield).
*
PIANETA TERRA (PROMESSA), ONU (=UNO), E "UmaNITÀ" ("HUMANITAS"):
PROFEZIA, ANTROPOLOGIA, E TEOLOGIA-POLITICA.
SE E’ VERO CHE "DA TEMPO I PROFETI PARLANO A UNA CITTA’ CHE NON LI VUOLE PIU’ ASCOLTARE!" (Nicola Fanizza), E’ ALTRETTANTO VERO CHE, DA #TEMPO, DA MOLTO TEMPO, nonostante tutta la #storia (già solo quella) dell’#arte e, in particolare, la grande lezione di #Michelangelo #Buonarroti, che sapeva anche di #anatomia e di "vecchio" e "nuovo" #testamento" , è anche colpa dei #PROFETI che hanno "silenziato" le #Sibille, hanno buttato via la #bilancia (Vermeer ), e vogliono continuare a "pesare" solo "l’ #oro"!!!
CON DANTE ALIGHIERI, GIORDANO BRUNO, GALILEO GALILEI, SPINOZA, FREUD, ED EINSTEIN, #OLTRE. Senza #Kant, solo milioni di milioni di "mille piani", vecchi "ritornelli", e "dotta ignoranza" (1440) a volontà.
NOTE:
ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA) E ARTE: UNA NOTA DI ANTROPOGENESI CHIASMATICA (NEXOLOGIA) E DI STORICHE COSTRUZIONI NELL’ ANALISI (S. FREUD, 1937).
I VEGGENTI E L’ IPOTESI DELLA NASCITA DELL’ESSERE UMANO (E DELLA SUA COSCIENZA) DI MICHELANGELO BUONARROTI.
IL "MESSAGGIO" DEI SETTE PROFETI E DELLE CINQUE SIBILLE NELLA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA E DEI "DUE PROFETI" E DELLE "DUE SIBILLE" DELLA SACRA FAMIGLIA DEL "TONDO DONI".
STORIA DELL’ ARTE, ANTROPOLOGIA, E TEOLOGIA:
IL PULPITO DELLA "CHIESA DI SANT’ANDREA" DI PISTOIA è il capolavoro di Giovanni Pisano. [...]
Iniziato nell’anno 1298 e terminato nel 1301 , vi si può misurare il rapporto con le analoghe opere scolpite dal padre (i pulpiti del Battistero di Pisa e del Duomo di Siena). Poche sono le testimonianze relative a quest’opera se non l’iscrizione in lingua latina che corre tra le arcatelle ed i parapetti in cui si testimoniano il committente Arnoldo, i tesorieri Andrea Vitelli e Tino di Vitale, e l’artista Giovanni Pisano, lodatissimo artefice che in questo pulpito "seppe superare il padre in sapienza".
[...] Il programma iconografico del pergamo riprende i modelli paterni, con Allegorie nel pennacchio degli archetti, Profezie (ovvero sei sibille per il mondo pagano e dieci profeti per il mondo giudaico) a figura intera, appoggiate sulle mensole dei capitelli, ed i cinque parapetti del pulpito con Storie della vita di Cristo:
[...] Le scene sono molto affollate, come nel pulpito di Siena, ma a paragone con la ritmica organizzazione dell’insieme di Nicola Pisano, qui le figure scolpite da Giovanni sembrano emergere improvvisamente dal background (altorilievo), con bruschi giochi di luce ed ombra che scaturiscono dal diverso livello di rilievo di ciascuna figura e dall’estrema ricerca di dinamismo. Uno dei riquadri più notevoli è quello del Massacro degli innocenti, dove è posto in scena un movimento vorticoso dei personaggi con accentuato espressionismo degli aspetti, deformati dalla pena, dalla paura, dalla costernazione. Inoltre c’è un virtuosismo nel contrapporre figure con dettagli preziosamente rifiniti e altre sbozzate, con effetti di contrasto drammatico. Mai fino ad ora un artista medioevale era riuscito a rendere così vivo un dramma. Pisano si ispirò a modelli tedeschi o alle scene più toccanti della Colonna Traiana.
Notevole è la novità anche in una delle sibille, che si volta con uno scatto quasi spaventato verso un angelo che da dietro le suggerisce le rivelazioni profetiche. [...]" (ripresa parziale, senza le immagini e senza le note).
ANTROPOLOGIA, STORIA, ARTE, E RINASCIMENTO:
A BILL VIOLA (New York, 25 gennaio 1951 - Long Beach, 12 luglio 2024), IN MEMORIA.
Alcuni appunti...
A). MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). DOPO 500 ANNI E PIù, LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA #CAPPELLASISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO.
B). "RINASCIMENTO ELETTRONICO" (Palazzo Strozzi, 10 marzo-23 luglio 2017"): "The #Greeting di #BillViola e la "Visitazione" del #Pontormo - Capolavori a confronto, di Arturo #Galansino (In occasione della mostra "#Bill Viola. Rinascimento elettronico").
C). Bill Viola.
Nota:
"BILDUNGSROMAN" E VIDEOGIOCHI: PERCHE’ "DANTE VS. RENZO TRAMAGLINO" STRAVINCE?!
UNA CARTINA DI TORNASOLE PER UNA QUESTIONE DI "ARCHEOLOGIA" LETTERARIA E FILOLOGIA DANTESCA E MANZONIANA.
IN UN BRILLANTE INTERVENTO, apparso su "Insula Europea", il 25 Luglio 2022, CON IL TITOLO «Salvare la “principessa” nei videogiochi: Dante vs. Renzo Tramaglino», l’autrice, Teresa Agovino così scrive:
CON DECISIONE E CHIAREZZA, L’AUTRICE HA FATTO LE DOMANDE GIUSTE, MA LA RISPOSTA NON RISOLVE E NON HA RISOLTO IL PROBLEMA: LA LINGUA CONTINUA A BATTERE DOVE IL DENTE DUOLE. CONTRARIAMENTE A QUANTO SI INSISTE A PENSARE DA 700 ANNI E PIU’, DANTE ALIGHIERI è GIA’ SPOSATO (SUA MOGLIE E’ GEMMA DONATI: nella "Commedia" la "persona" di "LUCIA"; e SUA MADRE, #BELLA, è la "persona" di "BEATRICE", la donna "beata", che va a sollecitare la "persona" di "Virgilio" a correre in aiuto del figlio); RENZO TRAMAGLINO, invece, e LUCIA MONDELLA sono "i promessi sposi", appunto.
SE QUESTA E’ LA "SITUAZIONE", QUI E ORA ("OGGI", E NON FRA MILLE ANNI), NON "SAREBBE, dunque, interessante - come scrive sempre l’autrice - aprire una prospettiva di condivisione tra il mondo accademico dei manzonisti e quello videoludico dei produttori/giocatori (come già ha in parte ben tentato di fare Toniolo) in favore di una nuova idea di gaming legata" (cit.) a una nuova prospettiva storiografica di lettura dell’una come dell’altra opera - e quella di "Dante" e quella di "Renzo Tramaglino"?!
STORIA E STORIOGRAFIA. E’ MAI POSSIBILE, che dopo più di 700 anni, si continui a pensare che Dante, nel mezzo del cammino della sua vita, perseveri nel suo sognare "Beatrice" come la sua "principessa"; e, ancora, che la figura della "Lucia" di Renzo non abbia alcun legame manzoniano con la "Lucia" di Dante?! Forse non è meglio svegliarsi dal sonno dogmatico filologico e cominciare a "mettere nuove carte in tavola" e fornire nuove coordinate storiografiche ai costruttori di videogiochi per far meglio "giocare" i ragazzi e le ragazze del tempestoso tempo presente sia nello spirito critico della "Divina Commedia" sia dei "Promessi Sposi"?! Così sia (per non arrossire)!
NOTA:
ANTROPOLOGIA FILOSOFIA, PSICOANALISI, E CIVILTA’ (KANT 2024): CRITICA DELLA COSMOTEANDRIA OCCIDENTALE.
RIATTIVARE IL "CIRCUITO DELLA PAROLE". Oltre il lacanismo (e il paolinismo), l’omaggio di Sigmund Freud a Marie Bonaparte:
"La grande domanda, alla quale nemmeno io ho saputo rispondere, è questa: che cosa vuole la donna?” (Freud 1933). *
PIANETA TERRA: ALLA LUCE DEL "CANTICO DEI CANTICI" (è "l’amor che move il sole e le altre stelle"), DOPO MILLENNI DI COLONIZZAZIONE DEL " LOGOS" (DIVENTATO UN "#LOGO"), e, dopo aver gettato in pasto all’algoritmo la "lingua" ("#langue" ) del "Corso di linguistica generale" di Ferdinand de #Saussure, forse, è ora di ri-attivare antropologicamente il "circuito della #parole", e, al contempo, fare chiarezza sulle #ideologie falloforiche nelle loro tragiche pretese androcentriche e platonizzanti e passare alla "commedia" (#DanteAlighieri): almeno dai lavori di #Michelangelo Buonarroti, per riflettere teologicamente sul tema, le Sibille camminano insieme ai #Profeti nella Volta della #CappellaSistina e l’ amore di ogni "Maria" e ogni "Giuseppe" cerca di illuminare non solo il cammino di ogni loro bambino e di ogni loro bambina ("Gesù"), ma anche le loro stesse comunicazioni e le loro stesse relazioni tra di loro e con tutti gli esseri umani (e non solo).
Note:
A CHE GIOCO GIOCHIAMO, IN REALTÀ?! LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA DEL DIVANO DI #FREUD E IL PERMANERE DEL COMPROMESSO "OLIMPICO" (PLATONICO E ARISTOTELICO) SUL PROBLEMA DEL "COME NASCONO I BAMBINI".
ANTROPOLOGIA E STORIA: #UNO (#ONU). Alla luce dell’eredità tragica di #Edipo (#Sofocle) e #Amleto (#Shakespeare), sulla questione antropologica (e cristologica) la cultura europea (e planetaria) ancora non è riuscita a fare chiarezza sulla dimensione "nexologica" (da "#nexus") e confonde ancora "nexuno", con "#nessuno", e non comprende nemmeno un semplice "nesso"!
PSICOANALISI ("L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI", 1899): "IL DIALOGO PSICOANALITICO" (Jean-Jacques #Abrahams, "Les Temps Modernes", 1969). A partire dal caso dell’«uomo dei topi» (Freud, 1909) e dell’«uomo con il magnetofono, dramma in un atto con grida d’aiuto di uno psicoanalista» (Jean-Jacques Abrahams, 1977), il problema è ancora sul divano di #SigmundFreud (non di #Lacan), e l’#enigma del "come nascono i bambini" non è stato ancora risolto... A gloria eterna della sollecitazione di "Sigismondo di Vindobona" e di Franca Ongaro Basaglia (cfr. "Così parlò Edipo a #Cuernavaca", "pM - Panorama mese", novembre 1982), che fare? Continuare i giochi "olimpici" di enigmistica nello spirito di Edipo e di cruciverba nello spirito di Amleto?
STORIA, STORIOGRAFIA E "DIVINA COMMEDIA" (#DANTE2021): L’IMMAGINARIO APOLLINEO E LA SOPRAVVIVENZA DELL’ #ALGORITMO DELLA TRAGEDIA. Se è vero, come è vero, che per la religione greca «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda» (#Eschilo, "Eumenidi"), è anche vero che dopo la nascita di Cristo e dopo la diffusione del Cristianesimo, come ha scritto Franca Ongaro Basaglia (1978), continua ad essere "possibile un’operazione #matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo".
NOTE:
QUESTIONE ANTROPOLOGICA (E CRISTOLOGICA) ED ENIGMA DELLA SFINGE (EGITTO E GRECIA):
CON SHAKESPEARE E FREUD, OLTRE LO "SCILLA E CARIDDI" DEL "MATRIARCATO" E DEL "PATRIARCATO.
La #question di Amleto (#Hamlet) è "BIBLICA" E "COSMICA". Si tratta di uscire dalla "preistoria" (#Marx), e di andare oltre la grande instaurazione di Zeus/Apollo/Atena, accettata e sopportata per compromesso "storico-olimpico" da Era/Giunone (Freud pone #Giunone nella "testa" della sua "Interpretazione dei sogni" (1899).
"The #Mousetrap", teatro nel teatro del mondo planetario terrestre, è per fare affiorare alla coscienza (quanto ha già capito Francesco d’Assisi e Dante Alighieri) e andare oltre "#Adamo ed #Eva": #Amleto ("Gesù") è Figlio del Re Amleto ("#Giuseppe") e della Regina Gertrude ("#Maria").
Ciò che dice Freud, in una nota del testo di "L’uomo dei #topi" [*] richiama un problema all’ordine del giorno dell’umanità: comporre in spirito di giustizia e amore la guerra tra #matriacato e #patriarcato, e, riprendere il cammino con tutte le "#sibille" e con tutti i "#profeti" (come da indicazione già di Michelangelo Buonarroti).
COSMOLOGIA, STORIA E LETTERATURA, (E DISAGIO DELLA) CIVILTA’: GIACOMO LEOPARDI, NELL’ORIZZONTE COPERNICANO DI KANT E DI FREUD. Una nota a sua memoria...
RICORDARE che Giacomo Leopardi (Recanati, 29 giugno 1798 - Napoli, 14 giugno 1837 ), a introduzione del testo della "Ginestra o il fiore del deserto" (1836), abbia premesso le parole riprese dall’evangelo di Giovanni (III,19) "Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἂνθρωποι/ μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς ("E gli uomini amarono/ piuttosto le tenebre che la luce" (Giovanni III, 19), è una valutazione radicale di denuncia della scelta fatta.
Il "giudizio" della "lenta ginestra" sull’umanità che ha amato (v. "ἠγάπησαν") le tenebre e non la luce, dice di una #negazione dell’ ἀγάπη, dello stesso «amore» cristiano, che in qualche modo richiama le considerazioni fatte da Kant nella "Fine di tutte le cose" ) e, al contempo, anche le riflessioni di Freud sulla svolta data da Paolo di Tarso nella "gestione" del messagio evangelico: "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori" (S. Freud, "Disagio della civiltà", 1929).
NOTE:
L’ ITALIA, METAFORA DEL GIARDINO: SIGMUND FREUD (E DANTE ALIGHIERI) ALLA RICERCA DELLA VIA D’USCITA DALL’ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA (E DELLA "CADUTA" LUCIFERINA ALL’INFERNO).
USCIRE DA SE’ PER CERCARE LA "ANTICA TERRA" E RI-TROVARE "I PROPRI #GENITORI". Come #DanteAlighieri, con #Virgilio ("dolcissimo patre"), così Sigmund #Freud, con più difficoltà edipiche (con il suo padre #Jakob): entrambi cercano "l’antica madre" (#Eneide, III, 116-117), il "sogno di una cosa" (K. #Marx), il "giardino dell’Impero" l’uno, la "Terra promessa" l’altro.
DANTE, MILTON, E FREUD. Alla fidanzata #Martha, il 7 agosto 1882, Sigmund Freud scrive che, nel "Paradiso perduto" (John Milton, 1667), «ancora di recente, in un momento in cui non mi sono sentito sicuro del tuo amore, ho trovato consolazione e conforto».
#AMARE L’ITALIA. Freud, confidando nell’amore di sua madre #Amalia (#Nathanson), come Dante, nell’amore di sua madre, la "#Bella e beata", "#Beatrice"), l’uno, come l’altro, affrontano un lungo cammino per risalire "salomonicamente" la corrente, e, finalmente, ritrovare al di là della dell’inferno e della tragedia, "l’antica matre" ("#Eva") e l’antico padre ("#Adamo"), e, finalmente, rigenerarsi nell’acqua viva dell’#amore "che muove il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145).
#COSMOLOGIA #POESIA E #LOGOS. Quando avremo sondato l’Universo alla ricerca della nostra incapacità di dominarlo e di capirlo, dovremo ritornare al Poeta e concludere che a muover il Sole e le altre stelle (a muoverle, ma non a spiegarle) è l’Amore. Allora la nostra fede non sarà più liberatrice, ma deduttiva, accettata per la nostra incapacità di andare oltre. Crederemo perché è evidente, non perché è assurdo." (#ENNIO #FLAIANO, "DIARIO DEGLI ERRORI", 1967).
* MARINA D’ANGELO, "I VIAGGI DI FREUD IN ITALIA. LETTERE E MANOSCRITTI INEDITI", BORINGHIERI 2024:
ANTROPOLOGIA, TEOLOGIA, ARTE E STORIA: IL PROGRAMMA ANTROPOLOGICO E TEOLOGICO DELL’UMANESIMO "PERDUTO":
"Le #Sibille, secondo lo schema varroniano, sono #dieci (cinque per ogni navata) e derivano il loro nome dai luoghi di pertinenza geografica: la Sibilla Persica, l’Ellespontica, l’Eritrea, la Frigia, la Samia, la Delfica per quanto riguarda il mondo orientale e greco; la Libica per l’Africa; e poi quelle occidentali (con riferimento all’Italia): la Cumea o Cimmeria, la Cumana (virgiliana) e la Tiburtina." (https://operaduomo.siena.it/pavimento/).
SIBILLE E PROFETI NEL REGNO DI NAPOLI, NEL PRIMO SEICENTO.
ARTE, #STORIA, E #ANTROPOLOGIA: LA LUNGA ONDA DEL RINASCIMENTO.
I profeti nella Certosa di San Martino: il genio di Ribera attratto dalla magia di Napoli
di Aurelio Musi (Corriere della Sera, 27 marzo 2024)
In uno di quei minuscoli libretti, che hanno fatto la storia dell’editore Colonnese, può essere racchiuso un intero universo, una civiltà, il mondo di segni di un’epoca. José Vicente Quirante Rives, con “Dodici araldi grinzosi. I profeti di Ribera nella certosa di San Martino” (Colonnese ed.), dedicato alla memoria di Giuseppe Galasso, accompagna il lettore fra terra e cielo, fra l’umano e il divino, fra passione e luce: “perché non vi sarà più notte”.
Nei dodici profeti di Ribera c’è la realtà quotidiana e precaria, c’è la vita dei vecchi, c’è Caravaggio, c’è la solitudine del profeta, la certosa come imitazione del deserto. I profeti, messaggeri che portano sulla superficie dei loro volti le profonde rughe, sedimenti di vita e di sapienza, ricevono la visione da Dio, la traducono in parole. Quirante fantastica sui certosini che entrano nell’ampia navata, fanno l’esegesi delle immagini, osservano le profezie realizzate, le inseriscono in una fittissima rete di relazioni, distendono il tempo tra passato, presente e futuro. Sopra i dodici profeti di Ribera i dodici apostoli di Lanfranco con i loro nomi. Dodici più dodici ventiquattro come gli anziani dell’Apocalisse, come la somma dell’Antico e Nuovo Testamento.
“Solo chi si reca a Napoli e visita nel Duomo la cappella di San Gennaro, con lo splendido dipinto di Ribera vicino a opere del Domenichino e del Lanfranco, e poi sale alla Certosa, contempla nella cappella del Tesoro la profonda e monumentale Pietà, e vede nella chiesa la Comunione degli Apostoli e i profeti nella navata centrale, è in grado di percepire tutta la sapienza pittorica, la profondità emotiva, la solidità compositiva e la monumentalità di Ribera, che si presenta come uno dei grandi del suo tempo” (p. 23).
Lo spagnolo autore di questo aureo libretto è un vero innamorato di Napoli, della sua civiltà artistica, della sua anima aristocratica. E’ capace di scoprirne tesori nascosti e illuminare ulteriormente aspetti e personaggi noti o meno noti della sua ricchissima storia: anche per questi motivi Quirante, ex direttore del “Cervantes”, si è guadagnato la cittadinanza onoraria di Napoli.
Quirante scrive un capitolo su Gustaw Herling, “che passerà più della metà della sua vita a Napoli come José de Ribera. Entrambi si sposeranno e fonderanno una famiglia, entrambi intrappolati nella città feroce e seducente come la formica nell’ambra” (p. 47).
Ribera arriva a Napoli nel 1616. Insieme col Lanfranco opera alla Corte del viceré Monterey. Firma le sue opere come “español”, ma non vorrebbe tornare in patria. Ribera e Quirante: l’autore e, forse, il suo consapevole o inconsapevole doppio.
USCIRE DALL’#INFERNO DELLA #RIPETIZIONE E DAL #LETARGO DI MILLENNI (Par. XXX, III, 94).
Storia, filosofia, filologia, #psicoanalisi: una nota su una "ignota" #svolta_antropologica in corso...
IL PROGRAMMA DI #DANTEALIGHIERI ALL’ORDINE DEL GIORNO (#25MARZO 2024: #Dantedì).
Riprendere il cammino di "#Ulisse" e portarsi oltre il "Convivio", il #Simposio, di #Platone e del suo "socratico" #amore (#Eros), avido e cupìdo, #figlio nato dalla astuta alleanza (#Metis) dell’#uomo-#Ingegno (gr. #Poros) e della #donna-#Povertà (gr. #Penia). La lezione di Platone appare essere la chiara codificazione di una fenomenologia dello spirito della #tragedia e la sua parola una versione della #Legge del #Figlio di Dio (#Zeus) , #Apollo: "«non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...» (#Eschilo, #Eumenidi, 657 ss.): : un ’#cattolicesimo’ platonico.
STORIAELETTERATURA, #FILOLOGIA E #CRITICA: #DIVINACOMMEDIA. Gianfranco #Contini: «[...] L’impressione genuina del postero, incontrandosi in Dante, non è d’imbattersi in un tenace e ben conservato sopravvissuto, ma di raggiungere qualcuno arrivato prima di lui» (cfr. "Un’interpretazione di Dante", in Id., G. Contini, "Un’idea di Dante. Saggi danteschi", Torino, Einaudi, 2001, I ed. 1970, pp. 110-11).
ARTE, #ANTROPOLOGIA, #FILOLOGIA E #TEOLOGIA:
MICHELANGELO BUONARROTI, I PROFETI E LE SIBILLE.
LA "STORICA" #LEZIONE ANTROPOLOGICA DELLA #CORNICE LIGNEA DEL #TONDODONI (E DELLA #NARRAZIONE DELLA #VOLTA DELLA #CAPPELLASISTINA: DUE PROFETI E #DUE SIBILLE "INDICANO" LO #SPAZIOTEMPO DELLA #NASCITA DEL #FIGLIO DI #MARIAEGIUSEPPE. Come mai gli esperti della #GalleriadegliUffizi "insistono" a sostenere che nella "cornice del Tondo [...] sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti"?!
ARTE RELIGIONE STORIA ANTROPOLOGIA E FILOLOGIA DEL RINASCIMENTO:
LORENZO LOTTO (1480-1556).
A MIO PARERE, LORENZO LOTTO MERITA ATTENZIONE CULTURALE E STORIOGRAFICA: LA LUNGA ONDA DELL’#INTERPRETAZIONE UMANISTICO-RINASCIMENTALE DEL MESSAGGIO EVANGELICO, COME DI UN #CAMMINO #PARALLELO DI #PROFETI E #SIBILLE, CHE ARRIVA MAGISTRALMENTE CON [MICHELANGELO BUONARROTI FINO IN CIMA ALLA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA, E, CON LORENZO LOTTO, GIUNGE CON I PROFETI E LE SIBILLE DELLA "CAPPELLA SUARDI", NELLE OPERE DEL "CICLO LAURETANO", ALLA SANTA CASA DI LORETO, ALLA CASA DI MARIA E GIUSEPPE, E ALLA "ADORAZIONE DEL BAMBINO".
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DANTEDI’, #STORIAELETTERATURA, E #FRANCOSTORIE:
LA "#STORIA POSTALE", I #MESSAGGI DELLE #SIBILLE (#MICHELANGELO, "VOLTA DELLA #CAPPELLA SISTINA",1512), IL #SERVIZIO POSTALE DELLA #FAMIGLIA DI #BERNARDO TASSO (1493-1569) E #TORQUATO TASSO (1544-1595), E LA MEMORIA DI #ANTONIO ROSMINI ( #24MARZO 1797 - 1 LUGLIO 1855).
ACCOGLIENDO LA SOLLECITAZIONE A RICORDARE ANTONIO ROSMINI SERBATI "(#Rovereto 1797 - #Stresa 1855), sacerdote e filosofo vissuto nella prima metà dell’Ottocento", forse, è possibile far emergere e mettere in evidenza un legame stretto con la cultura dell’#Europa del #Cinquecento, la "storia postale" e gli avvii dell’impresa dei #Tasso: degno di nota è il fatto che la tesi di laurea di Rosmini è una breve dissertazione sulle Sibille->https://media.agiati.org/page/attachments/01-pag-09-patricia-salomoni-antonio-rosmini-lettore-e-traduttore-dei-classici.pdf] (1822).
#Dantedi #25marzo 2024: vista e considerata la presenza nella "Casa natale di Antonio Rosmini" della #SibillaCumana, è bene riannodare il filo tra Dante e Rosmini e non far disperdere "al vento ne le foglie levi [...] la sentenza di #Sibilla." (#DanteAlighieri, Par. XXXIII, vv. 65-66).
LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO --- NEL VENTRE DELLA PAROLA. Inascoltato il bisogno di profezia... *
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NEL VENTRE DELLA PAROLA/1. Inascoltato il bisogno di profezia. Giona e il suo “invece".
di Luigino Bruni (Avvenire, 17 febbraio 2024)
La nostra generazione ha perso contatto con la profezia. Non la riconosce, non la stima, e così il posto che era dei profeti è stato prima lasciato vuoto poi subito occupato dai leader e dagli influencer; perché quando la domanda di profeti che sale dalla gente non incontra la profezia vera, entra in scena quella falsa con la sua grande efficienza e i suoi effetti speciali. La Bibbia ci dice che Dio ascolta il grido del povero, ma ci dice anche che i profeti sono amplificatori necessari di questo grido, perché possa giungere fino al cielo. Senza profezia il misero continua ad urlare, e non accade nulla. Ieri, oggi, forse sempre, anche se ogni generazione ha il dovere etico di creare le condizioni affinché i figli crescano in un mondo dove poter sperare che, finalmente, un profeta o qualcuno ascolterà davvero il grido dei poveri, e lo consoli.
La Bibbia non è l’unico luogo dove poter imparare la profezia, ma è certamente un ambiente privilegiato per la qualità e la quantità delle parole dei suoi profeti. Di tutti i profeti, persino di quei libri “profetici” che non sono stati scritti da profeti, come quello di Daniele. O come quello di Giona, di cui oggi iniziamo un commento che ci accompagnerà nelle prossime domeniche. «Fu rivolta a Giona, figlio di Amittài, questa parola di YHWH: “Àlzati, va’ a Ninive, la grande città, e in essa proclama che la loro malvagità è salita fino a me”» (Giona 1,1-2).
Tra coloro che hanno commentato Giona pochi hanno cercato in questo libro un insegnamento sulla profezia, tantomeno gli elementi per una grammatica profetica. Il libro stesso non chiama Giona “profeta”, anche se nel solo riferimento storico che nella Bibbia è associato al suo nome viene chiamato profeta: «Il profeta Giona, figlio di Amittài» (2 Re 14,25). Un profeta del Nord, al tempo del re Geroboamo II, quindi dell’VIII secolo. Un profeta nazionalista perché, dice il testo, quel re malvagio (2 Re 14,24) aveva riconquistato territori ad Israele, dal Libano fino all’Arabia, e lo aveva fatto «secondo la parola del Signore pronunciata per mezzo del suo servo, il profeta Giona» (2 Re 14,25).
Quando nella Bibbia leggiamo che qualcosa è accaduto “secondo la parola del Signore”, sappiamo che quei fatti o vittorie erano stati interpretati come una conseguenza di una parola-volontà di YHWH. Ed è quindi probabile che quell’antico profeta fosse un esponente della tradizione nazionalistica, al quale si opponeva un altro profeta, Amos, che non è da escludere indirizzasse proprio a Giona le sue critiche alle ambizioni e illusioni militari di Israele - ci sono sempre stati “profeti” che sostengono le guerre e altri profeti che le combattono. Forse, allora, il Giona del II libro dei Re fu un profeta non così marginale; e chissà se il Libro di Giona non fu scritto per correggere, secoli dopo, il nazionalismo di quell’antico primo Giona?!
Ma il protagonista del libro di Giona non ha nulla a che fare, sul piano storico, con quell’antico profeta del Nord. Ciò non significa però affermare che nel Libro di Giona non ci siano, sul piano teologico e narrativo, allusioni a quell’antico profeta Giona. Lo stesso significato del nome Giona, cioè Colomba, da Osea è usato per indicare Israele - «Èfraim è come un’ingenua colomba» (Os 7,11). I profeti del Nord, da Elia e Geremia, sono fondamentali per capire la vicenda di Giona e la sua misteriosa vocazione. La città di Ninive, poi, la co-protagonista del racconto di Giona, era la capitale dell’Assiria, il centro politico di quell’impero nemico che nell’VIII secolo conquistò Efraim e deportò le tribù del Nord in Mesopotamia, e non fecero più ritorno.
Anche del Libro di Giona sappiamo molto poco. Nulla del suo autore, nulla di certo su quando fu scritto: le ipotesi vanno dall’VIII secolo al II a.c. Non esiste poi un consenso neanche sul messaggio teologico principale del libro né sui quelli collaterali. La complessità e l’ambivalenza della storia di Giona le ritroviamo già nel famoso “segno di Giona”, al quale Luca (11,29) dà una interpretazione diversa da Matteo (12,39). Le letture cristologiche e allegoriche dei Padri ne hanno poi arricchita e complicata ulteriormente la comprensione. Ma, come ogni tanto succede, i controversi e misteriosi messaggi di Giona lo hanno reso molto generativo nei secoli, soprattutto nell’arte e nella letteratura, da Ariosto a Camus, fino a Master&Commander (il film di P. Weir).
Ho deciso di riprendere i miei commenti biblici su “Avvenire” con Giona perché innanzitutto è un racconto molto bello, un vero gioiello narrativo, breve, intenso e saporitissimo. Avevo in passato posticipato l’intrapresa cosciente che Giona fosse un testo bisognoso di una certa familiarità con i profeti biblici e con i libri storici, utili e forse necessari per provare ad accompagnare Giona nel suo viaggio nel ventre della parola. È poi difficile capire Giona senza Giobbe (i due racconti non si intrecciano soltanto in Moby-Dick), e forse senza Saul. È l’unico libro biblico che termina con una domanda, un finale aperto che ricorda quello della parabola del figliol prodigo - e noi ci chiediamo se il figlio maggiore entrò nel banchetto, e se Giona, o Dio?, si convertì davvero. Ma in Giona ci sono anche presenze bibliche improbabili e in genere non viste. Il nome “colomba” è nome femminile. Ci sono infatti tracce delle donne della Bibbia, del loro rapporto libero, dialettico, creativo con la parola di Dio, un’obbedienza più simile a quella delle figlie che a quella delle serve. Dell’obbedienza disubbidiente di Rut, di Ester, della sunammita, della siro-fenicia del vangelo, delle levatrici d’Egitto, di Tamar, di Mical, di Maria.
Il racconto di Giona è pieno di veloci colpi di scena. Il primo lo troviamo subito. Giona deve partire, deve andare nella grande città assira di Ninive, sulle rive del Tigri, una città antichissima - se ne hanno tracce a partire dal VI millennio a.c. Deve recarsi lì per svolgere una missione da ambasciatore di Dio: il profeta è anche questo, ma spesso diventa il messaggio che deve annunciare. Deve portare una parola dura, rivelare a quella città pagana che la loro malvagità è grande ed è quindi “salita” fino a Dio. Uno scenario che ci ricorda da vicino Sodoma e Gomorra, il cui grido di male «era giunto fino a me» (Gn 18,21).
«Giona invece si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore» (1,3). La prima decisiva svolta narrativa e spirituale del libro di Giona sta tutta in quell’invece, e buona parte del senso della sua storia sta in questo avverbio, che non è un avverbio della profezia. Dopo aver letto la prima frase e il comando di YHWH, tutta la Bibbia ci suggeriva una sola continuazione di quella prima frase: ...e Giona partì come gli aveva comandato il Signore. Nessun’altra storia di profeti ci racconta infatti di un comando divino ricevuto cui fa seguito un invece: alcuni hanno delle incertezze (Mosè, Geremia), qualcuno si sente schiantato e tramortito (Ezechiele), altri non riconoscono subito la voce (Samuele) ... ma nessuno disubbidisce. Nessuno, tranne Giona, che è l’unico profeta che conosce l’invece.
Sarebbe sufficiente solo questo avverbio iniziale per escluderlo dall’elenco dei profeti, e invece la Bibbia lo ha inserito tra Adbia e Michea, e nessuno ha mai pensato di toglierlo da lì. Quindi un primo compito che ci attende in questo commento a Giona è cercare di capire perché Giona resti un profeta biblico nonostante un incipit chiaramente non-profetico, nonostante un inizio che lo classificherebbe come un anti-profeta o, addirittura, un falso profeta. E invece, lo vedremo, Giona resta un profeta, un profeta vero. Ma può un profeta autentico disubbidire alla parola che lo chiama e gli affida un compito da svolgere? E che ruolo ha la disubbidienza nella vita dei profeti e in quella di tutti coloro - e sono tanti sulla terra - che hanno ricevuto una qualche vocazione, religiosa, artistica o laica? O magari la profezia inizia solo dopo la conversione di Giona e non si trova già in questo primo “invece”?
Il testo, in nessuna delle sue versioni (ebraica e greca) ci dà indizi sul perché Giona non obbedisca a YHWH. Né ci spiega un secondo dettaglio narrativo importante: perché oltre a non ubbidire Giona inizi un altro viaggio verso la misteriosa Tarsis? È un nome di città o di luogo che incontriamo molte volte nella Bibbia (25 volte), senza che si sia arrivati ad una ipotesi condivisa su dove si trovasse - le molte ipotesi vanno dall’Andalusia (che resta la più probabile) alla Sardegna, dalla Fenicia all’Asia Minore; lo storico ebreo Flavio Giuseppe confonde Tarsis con Tarso, e Gerolamo suggerisce persino l’India.
Avrebbe infatti potuto semplicemente non partire, restarsene a casa e lì starsene “lontano dal Signore”. E invece no, parte per un altro lungo viaggio, senza una meta ragionevole. Forse perché quando sappiamo che il viaggio buono è uno solo e noi non lo vogliamo fare, che la strada giusta ha una sola precisa destinazione che noi decidiamo di non imboccare, che il Signore si trova “lontano” da dove stiamo andando..., quasi sempre ci illudiamo che si possa sostituire il giusto destino-destinazione con un altro scelto da noi, che andare lontano non significhi allontanarsi dal Signore ma solo da un suo primo volto che non ci piace più - e lo pensiamo davvero, e qualche volta, paradossalmente, è anche vero.
Sappiamo, soprattutto lo sanno con certezza i profeti, che stare fermi di fronte alla chiamata al viaggio sarebbe la sconfitta totale. Perché ogni chiamata è una continuazione del primo “vattene” rivolto ad Abramo, un errare buono che salva e riscatta l’errare di Caino. Ecco perché il profeta parte, non può non partire, perché se davanti alla Voce che lo chiama non parte, semplicemente muore. Giona ci dice quindi che l’errore comune dei profeti e delle vocazioni profetiche non sta nel restare a casa, ma nel partire in una direzione sbagliata, ben sapendo che è sbagliata però illudendosi che il gesto del cammino possa curarne il finale. Giona, dopo l’ordine di Dio, partì. Non andò nella direzione giusta, ma partì. E quel partire sbagliato fu migliore del restare, perché sarà proprio lungo quella strada non-retta che troverà una misteriosa salvezza.
LA BILANCIA E LA NASCITA...
DIRITTO, DOVERE, E COSTITUZIONE: UNA QUESTIONE DI FILOLOGIA E DI ANTROPOLOGIA (DA PORRE ALL’ORDINE DEL GIORNO, PER EVITARE... UN ARROSSIMENTO GENERALE).
La #bilancia della #giustizia e l’urgenza epocale di una #equilibrazione del #rapportosociale di ri-#produzione: "un’operazione #matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (Franca Ongaro Basaglia, 1978).
#SAPEREAUDE! (#KANT2024). LIBERARE la #Giustizia dalla benda (v. allegato) è un programma di uscita dallo "stato di minorità" (#Kant, 1784), una sollecitazione antropologica a servirsi della propria facoltà di giudizio, di avere il coraggio di #apriregliocchi (ricordare la difficoltà di #Freud, a riguardo) e di non #giudicare né con gli occhi chiusi né con un solo occhio.
Riconoscere l’#identità e la #differenza di sé con sé, di sé con l’altro da sé, di sé con l’altra da sé, l’#uguaglianza e la #diversità, è proprio una questione di "equilibrazione", di bilancia: ne va della nostra stessa #nascita e della nostra stessa #vita.
"AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Ct. 8.6):
UNA INDICAZIONE DA GIUBILEO DI PAPA FRANCESCO E UNA PREMESSA FONDAMENTALE A UN’ ANTROPOLOGIA ALL’ALTEZZA DEL "CANTICO DEI CANTICI" (Ct. 8.6).
AMORE (#CHARITAS) E CASTITA’. L’’indicazione è premessa fondamentale al #riconoscimento giuridico e teologico dei "#dueSoli" (#DanteAlighieri), della #maternità piena di "#Maria" e della #paternità piena di "#Giuseppe" e alla ricostituzione della "FAMIGLIA" umana e divina: al di là del "giocastolaio" #incesto edipico (#SigmundFreud e #ThomasMann), la riconsiderazione (al di là delle pretese imperial-costantiniane e tebane di #SistoIV e di #GiulioII della Rovere) e la riaffermazione antropologica e "cosmicomica" della Relazione d’#Amore ("Charitas") tra #MariaeGiuseppe e #Gesù.
ARTE E "PROPAGANDA FIDE": #TONDODONI. Attenzione: nella cornice "raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti" (Galleria degli Uffizi)? Ma, per Michelangelo, non erano e non sono due #profeti e due #sibille?!
COSMOLOGIA, ANTROPOLOGIA (E CRISTOLOGIA), E PSICOANALISI. Con la ripresa dello spirito di Francesco di Assisi, di Giotto, e di Dante Alghieri, e la memoria del "Cantico dei cantici", a mio parere, è possibile comprendere "#Chiara-mente" che le radici della Terra non sono tragico-edipiche, ma "#Cosmicomiche" (come da lezione di Italo Calvino, Santiago de Las Vegas de La Habana, 15 ottobre 1923 - Siena, 19 settembre 1985).
DOTTA IGNORANZA (1440), "PACE DELLA FEDE" (1453), E RILANCIO DI UN "NUOVO" #PRESEPE "FRANCESCANO" (ALL’ORIGINE DELLA "#CAPPELLASISTINA"): #ARCHEOLOGIA, #FILOLOGIA, E #STORIAELETTERATURA ...
Un invito alla lettura di un "vecchio" lavoro di #ricerca di Arnalda Dallaj:
"#ORAZIONE E #PITTURA TRA «#PROPAGANDA» E #DEVOZIONE AL TEMPO DI #SISTOIV. [...] A proposito del dibattito sull’Immacolata Concezione e delle vivacissime forme che lo caratterizzarono tra l’ottavo decennio del #Quattrocento e gli inizi del #Cinquecento sono state utilizzate di recente espressioni come « mezzi pubblicitari » e «manifesti dottrinali» ponendo così l’accento sull’intensa ricerca, da parte delle istituzioni ecclesiastiche, di appropriati canali di comunicazione per ampliare il confronto sulla dottrina che, proprio in quel secolo, aveva conquistato basi più salde, anche se il definitivo assestamento maturerà solo nel 1854. Una data cardine fu il 1477, allorché il #papa #francescano Sisto IV autorizzò la celebrazione della festa e approvò l’Ufficio, appositamente composto da Leonardo Nogarolo, concedendo ampia indulgenza per la partecipazione alla liturgia. La tesi della « preservazione » di Maria dal peccato originale, pur trovando sempre maggiori consensi, continuò ad essere avversata soprattutto dai Domenicani. [...]" (cf. Arnalda DALLAJ: "IL CASO DELLA MADONNA DELLA MISERICORDIA DI GANNA").
Federico La Sala #ARCHEOLOGIA, #FILOLOGIA, E #STORIAELETTERATURA ...
Un invito alla lettura di un "vecchio" lavoro di #ricerca di Arnalda Dallaj:
"#ORAZIONE E #PITTURA TRA «#PROPAGANDA» E #DEVOZIONE AL TEMPO DI #SISTOIV. [...] A proposito del dibattito sull’Immacolata Concezione e delle vivacissime forme che lo caratterizzarono tra l’ottavo decennio del #Quattrocento e gli inizi del #Cinquecento sono state utilizzate di recente espressioni come « mezzi pubblicitari » e «manifesti dottrinali» ponendo così l’accento sull’intensa ricerca, da parte delle istituzioni ecclesiastiche, di appropriati canali di comunicazione per ampliare il confronto sulla dottrina che, proprio in quel secolo, aveva conquistato basi più salde, anche se il definitivo assestamento maturerà solo nel 1854. Una data cardine fu il 1477, allorché il #papa #francescano Sisto IV autorizzò la celebrazione della festa e approvò l’Ufficio, appositamente composto da Leonardo Nogarolo, concedendo ampia indulgenza per la partecipazione alla liturgia. La tesi della « preservazione » di Maria dal peccato originale, pur trovando sempre maggiori consensi, continuò ad essere avversata soprattutto dai Domenicani. [...]" (cf. Arnalda DALLAJ: "IL CASO DELLA MADONNA DELLA MISERICORDIA DI GANNA").
TEATRO E METATEATRO: "THE TIME IS OUT OF JOINT" (HAMLET, I.5).
Una nota a margine del lavoro in corso di Paul Adrian Fried (cfr. "Shepherds in Shakespeare, Oedipus, Hamlet, and the Bible", December 24, 2023):
IL "PRESEPE" NON MI PIACE (EDUARDO DE FILIPPO, "NATALE IN CASA CUPIELLO", 1931). SENZA PENSARE COL "SENNO DEL POI", STORIOGRAFICAMENTE E INDIPENDENTEMENTE DA FREUD, si può benissimo pensare che a Shakespeare il "presepe" dell’Europa "cattolico-spagnola" non piaccia e, al contempo, che egli, sul filo della tradizione umanistico-rinascimentale (e delle specifiche sollecitazioni della riforma protestante e della riforma anglicana, di Giordano Bruno, e alla presenza di Elisabetta I) collabori dentro a un ampio lavoro culturale del tempo alla ripresa della tradizione dei pastori dell’Arcadia e abbia consapevolmente sollecitato a riflettere su un programma teologico-politico di riforma storico-sociale epoca, di un "ritorno" al "Paradiso terrestre" (come già Dante Alighieri, "Monarchia"). Ieri, come oggi, non è bene riprendere il filo della sollecitazione ad uscire dal letargo?!
Antropologia, Presepe, e cosmoteandria: origine storica dell’antisemitismo "francescano" (contro ebrei e musulmani). La progressiva riduzione del messaggio evangelico e francescano, caduto nelle maglie della tradizione ecclesiastica (paolina-costantiniana), trova il suo momento culminante nell’incapacità di risolvere pacificamente il rapporto con l’ Islam nel 1453 ("caduta di Costantinopoli e e fallimento della teologia "ecumenica" della "pace della fede", il "De pace fidei" del cardinale Cusano) e nella decisione di innescare la marcia sull’Immacolata concezione (della Madre del Figlio di Dio) proprio da parte del papa "francescano" Sisto IV della Rovere, con la fondazione (1475-1478) del suo personale "presepe" (la "Cappella Sistina").
RIFLESSIONI SULL’OCULISTICA TEOLOGICO-POLITICA:
SVEGLIARSI DAL #SONNODOGMATICO (#KANT) E RICONSIDERARE IL PROGRAMMA DI RICERCA DI #WITTGENSTEIN: USCIRE DALLA #CAVERNA, DALLA TRAPPOLA POLIFEMICA DEL #CINEFORUM PLATONICO, E DALL’#INFERNO EPISTEMOLOGICO ...
IL #SOGGETTO "METAFISICO" ("TEOLOGICO-POLITICO") C’E’... MA NON SI VEDE!
«Il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo. ("Tractatus logico-philosophicus", 5. 632); «Ove, nel mondo, vedere un soggetto metafisico?. Tu dici che qui sia proprio così come nel caso dell’occhio e del campo visivo. Ma l’occhio, in realtà, tu non lo vedi. E nulla nel campo visivo fa concludere che esso sia visto da un occhio.» ("Tractatus logico-philosophicus", 5. 633).
#VISIONE, #DESIDERIO, E #ANTROPOLOGIA DELLA #COMUNICAZIONE: UNA "MEMORIA" DI #MARSHALLMCLUHAN. "[...] Fin quando resteremo legati a un atteggiamento narcisistico e considereremo le estensioni dei nostri corpi qualcosa di veramente esterno e indipendente da noi, non riusciremo ad affrontare le sfide della tecnologia se non con le piroette e gli afflosciamenti di una buccia di banana. Archimede disse una volta: "Datemi un punto di appoggio e solleverò il mondo". Oggi ci avrebbe indicato i nostri media elettrici dicendo: "M’appoggerò ai vostri occhi, ai vostri orecchi, ai vostri nervi e al vostro cervello, e il mondo si sposterà al ritmo e nella direzione che sceglierò io". Noi abbiamo ceduto questi "punti d’appoggio" a società private [...]" ( "Gli strumenti del comunicare", Milano, Il Saggiatore, 1967 ).
ARTE STORIA STORIOGRAFIA: RUBENS, LA SIBILLA PERSICA, E LA FINE DELLA LUNGA ONDA DEL RINASCIMENTO.
Una nota a margine di un evento...
A #NAPOLI, IL GIORNO 4 DICEMBRE 2023, Maura Sgarro con i suoi "Colloqui con quattordici artisti del Seicento europeo" (kimerik.it, 2023) e Aurelio Musi con la sua "Malinconia barocca" (Neri Pozza, 2023), faranno una doppia presentazione dei loro libri e, ad essa, come annuncia la dr.ssa Sgarro, «"sara’ presente" anche P. P. Rubens con il suo quadro "Le conseguenze della guerra" del 1638» (https://www.facebook.com/maura.sgarro.125/posts/pfbid0X5gFzPRc7MRdJTF2vsYEiDmQmM5GrP7KEpckAV9839aRxvfLUuXT2eydu7mQWdXxl). Approfittando dell’occasione, forse, è una buona idea richiamare l’attenzione su una opera giovanile di #Rubens, legata alla complessa storia del tema delle #Sibille, alla SibillaCumana, alle Sibille della #CappellaSistina, alla filosofia del Rinascimento, e allo stesso #Barocco (cfr. Giovan Battista Marino, "Dicerie Sacre", 1614; e "Adone", 1623).
"RUBENS. ALLEGORIA DELLA FEDE. LA SIBILLA PERSICA [...] L’Allegoria della Fede. La #SibillaPersica [...] È un capolavoro della prima maturità di Rubens (Siegen, 1577-Anversa, 1640), appena rientrato da Roma ad Anversa tra il 1611 e il 1614 [....] rappresenta l’Allegoria della Fede cristiana, come testimonia il libro aperto con il disegno dell’Immacolata Concezione sul quale la nobildonna punta l’indice. Nel monocolo la Vergine è colta nel suo ruolo di dominatrice del male. [...]
[...] Il dipinto impone il riconoscimento della Sibilla, non in una generica allegoria della fede, ma nella Sibilla Persica, associata alla profezia della nascita di Cristo dalla Vergine, sottomettendo la bestia demoniaca per la salvezza del genere umano [...]
La Persica viene per lo più rappresentata col capo coperto con veste damascata e ricami in oro così come appare nel presente dipinto, così come la scelta di rappresentare una sibilla non in vesti antiche o greco-romane o orientali è tipicamente fiamminga [...] Quasi nella posa di un’annunciata sorpresa durante la lettura, appare, diversamente da come ci si potrebbe attendere, per via dell’iscrizione circolare entro cui è racchiusa ancora giovane, con il volto non coperto dal velo o copricapo [...]
Un ritratto in veste sibillina di una donna di condizioni sociali elevate, dotata di virtù morali e intellettuali, di un’illuminazione mentale, assistita dal volere divino e alla qualità per eccellenza della profetessa, di età non avanzata, in opposizione alla vecchia lectio secondo la quale la Persica andava ritenuta la più vecchia delle sibille”. (Arte.it).
CIELO STELLATO E MALINCONIA BAROCCA. COSMOLOGIA, RIVOLUZIONE SCIENTIFICA E ARTISTICA, MA NON ANTROPOLOGICA: QUANDO L’ITALIA E L’EUROPA CADDERO IN UN VICOLO CIECO (1618-1648). Una sollecitazione a ripensare la #storiografia dei primi decenni del #Seicento...
Un omaggio al lavoro di Maura Sgarro ("Colloqui con quattordici artisti del Seicento europeo", Kimerik 2023) e di Aurelio Musi ("Malinconia barocca", Neri Pozza 2023).
MEMORIA E #STORIA: #ELSHEIMER E #RUBENS. "Adam #Elsheimer (Francoforte sul Meno, 16 settembre 1578 - Roma, 11 dicembre 1610): [...] Secondo i biografi, Elsheimer, che lavorava molto lentamente e che lasciò pochissime opere (oggi se ne contano una trentina), morì perciò quasi in povertà. Una famosa lettera, piena di dolore, di #Rubens a Johann Faber che lo informava da Roma della scomparsa dell’amico, è forse il miglior tributo fatto a questo artista. Fu sepolto nella chiesa di San Lorenzo in Lucina a Roma, dove nel 2010 è stata apposta una lapide-cenotafio con profilo in bronzo e l’iscrizione che ricorda tra l’altro: "Nel 1609 dipinse / il cielo stellato / osservandolo / con uno dei primi / telescopi".
ARTE E #SCIENZA: CIGOLI, GALILEO GALILEI, E LA LUNA. [...] Quella fra Galileo e il Cigoli è, semplicemente, l’amicizia di una vita. Ce ne resta la testimonianza attraverso 29 lettere di Cigoli a Galileo e solo due dello scienziato al pittore perché gli eredi dell’artista, con eccessivo zelo, ritennero di dover distruggere tutte le prove di un sodalizio compromettente dopo la condanna papale. [...]
Cigoli si trasferisce da Firenze a Roma nel 1604; Galileo all’epoca è ancora a Padova. Tornerà a Firenze nel 1610. [...]
RAGIONE E FEDE: GALILEO E LA CHIESA CATTOLICO-ROMANA. "[..." class="spip_out">Galileo e Ludovico Cigoli: la Luna e le #macchiesolari fra scienza ed arte
Nell’ottobre del 1610 Cigoli riceve da Papa Paolo V l’incarico di affrescare la cupola di Santa Maggiore Maggiore con l’Immacolata Concezione, Apostoli e Santi. La fatica è resa da questo passo nella lettera del 1° luglio 1611: “Nel resto, io attendo a salire 150 scalini a Santa Maria Maggiore et a tirare a fine allegramente, a questi caldi estivi che disfanno altrui; et ivi, senza esalare vento né punto di motivo di aria, tra il caldo e l’umido che contende, me la passerò tutta questa state”. Ma sui ponteggi e sulla cupola di Santa Maria Maggiore succedono cose bellissime. Succede, ad esempio (lettera del 23 marzo 2612), che Cigoli usi un cannocchiale galileiano per osservare le macchie solari: 26 osservazioni, disegnate appositamente per Galileo (fig. 3); [...] Succede poi che nell’ottobre del 1612, dopo oltre due anni di lavoro, l’affresco sia completato, e che l’Immacolata Concezione sia strutturata secondo un’iconografia del tutto nuova: una Madonna in piedi su una luna perfettamente galileiana (fig. 4) , la stessa luna (fig. 1) le cui fasi Galileo aveva dipinto all’acquerello in uno dei suoi studi (fig. 2). La testimonianza commovente di un amico fedele.
Su Cigoli si può contare, e Galileo non esita a chiederne l’aiuto in vista della pubblicazione dell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari, a cura dell’Accademia dei Lincei. Ad occuparsi della pubblicazione è direttamente Federico Cesi, il Principe dell’Accademia; ma per scegliere l’incisore che dovrà occuparsi della parte iconografica dell’opera sia Cesi sia Galileo concordano nel rivolgersi a Cigoli . Fu scelto poi l’incisore lussemburghese Matthias Greüter. [...]" (cfr. "
#Cosmicomiche #calvino100 #rinascimento #astronomia #barocco #8dicembre
LA TRAGEDIA DEL CD. "PATRIARCATO", OVVERO IL "COMPROMESSO DORICO" DELLA RAGIONE OLIMPICA (ELEUSIS2023).
Una nota a margine della "metafisica concreta" dell’Occidente... *
DOTTA IGNORANZA (CUSANO,1440) CONTRO FILOLOGIA (LORENZO VALLA, 1440):#COME NASCONO I BAMBINI...
STORIA #STORIOGRAFIA E #ANTROPOLOGIA. MASSIMO #CACCIARI, a mio parere, sta ancora a difendere, il #compromesso "dorico" della #tragedia tebana di #Giocasta ed #Edipo (e della #caduta biblica): con tutta la stima nei suoi confronti personali, ma la logica della sua metafisica concreta resta tutta dentro l’orizzonte del #paolinismo e della #cosmoteandria atea e devota! (Nicea, 325-2025).
#DANTE2021 #BOVILLUS #COSMICOMICHE (#calvino100)
ANTROPOLOGIA, PSICOANALISI ("INTERPRETAZIONE DEI SOGNI"), E LETTERATURA ("IL CASTELLO DEI DESTINI INCROCIATI").
DUE NOTE A MARGINE DELLA TRADIZIONE ICONOGRAFICA DEL BASTONE FIORITO DI SAN GIUSEPPE E DEL TEMA DELL’ANNUNCIAZIONE NELLA STORIA DELL’ARTE:
A. - LA STORIA DI UN’ANTICA MEMORIA CARMELITANA PROVENIENTE DAL SUSSEX...
"Bastone fiorito di San Giuseppe venerato a Napoli": [....] Sulla collina di San Potito a Napoli la Congregazione di San Giuseppe dei Nudi detiene una collezione di reliquie unica in Italia. Tra queste, la più importante si trova in un una bella teca di legno cedrino: il bastone fiorito appartenuto a san Giuseppe. Secondo la tradizione Giuseppe, come altri pretendenti (ciascuno munito di una verga), aveva chiesto a Dio un segno su chi dovesse sposare la Vergine Maria, e proprio il bastone di Giuseppe germogliò e fiorì miracolosamente. Venerato da quasi tre secoli, il bastone-reliquia è stato rubato in un convento di padri carmelitani del Sussex, in Inghilterra, dove si trovava esposto fin dal XIII secolo. Alla fine la reliquia si è fermata a Napoli nel 1712 come dono al cantante d’opera Giuseppe Grimaldi, detto Nicolino. Quest’ultimo acconciò a casa propria l’esposizione del bastone per la pubblica venerazione a partire dal 1714. Il 17 gennaio 1795, la reliquia fu definitivamente trasferita nella chiesa di San Giuseppe dei Nudi. (cfr. Marzena Wilkanowicz-Devoud, "Dove si trovano le reliquie di san Giuseppe?", Aleteia, 09.06.2021).
B - VITA E POESIA: LA NASCITA DI UN ESSERE UMANO. Un bastone fiorito in generale sembra plausibile, e particolarmente adatta al contesto di un’ Annunciazione? Certamente! A mio parere, tutto il tradizionale storico contesto iconografico sul tema dell’Annunciazione appare chiaramente collegato alla figura di Giuseppe e alla cosiddetta "radice Iesse" (Is., 11:1), all’albero di Jesse, alla "Casa di Davide" ("De Domo David") della tradizione ebraica e, al contempo, al senso stesso del messaggio evangelico ("eu-angelico"), al problema di tutti i problemi, al come nascono gli esseri umani, al "come nascono i bambini: vale a dire, alla lezione di Francesco di Assisi (1223), al presepe e alle sue figure fondamentali, memoria di Adamo ed Eva - e Caino, di Giuseppe e Maria - e Gesù.
#PROFETI, #SIBILLE, #QUESTIONEANTROPOLOGICA (#KANT,1800), E #FILOLOGIA:
ANTONIO #ROSMINI, LA "PRISCA THEOLOGIA", E LA "#CHARITAS".
Rileggere il testo della "BREVE DISSERTAZIONE DI ANTONIO ROSMINI SULLE SIBILLE" (#PatriciaSalomoni, "#RosminiStudies", 6, 2019). Che Rosmini abbia iniziato il suo percorso riflettendo sulle figure delle Sibille, è da considerarsi un fatto degno della massima attenzione - e, ovviamente, di ulteriore approfondimento!
La riflessione su tale tema, probabilmente, lo ha reso più vigile nel suo cammino e nella sua fedeltà alla lettera e allo spirito della "Charitas". Il "Kant italiano", infatti, iniziando il suo percorso con la tesi di laurea sulle Sibille (1822), non solo non ha perso il suo legame con la Grazia (Charis) e con le Grazie (Charites), ma - coerentemente - ha saputo custodire anche l’«h» della #Charitas! E ha cercato di tenere ferma la sua distanza dalla logica economica - sempre più dilagante - della "carità" del "mercato" ("caritas") e, al contempo, dalla politica di sostegno alla diffusione della "eu-carestia" - a tutti i livelli. Ma, alla fine, non è riuscito a coniugare - come voleva, in spirito di verità e carità - - il rapporto tra filosofia (sapienza pagana) e rivelazione (sapienza ebraica).
Già all’inizio del suo percorso, benché partito con buona volontà e - kantianamente ("Sapere aude!") - con gran coraggio, infatti, egli s’inchina all’autorità di sant’Agostino ("De Civitate Dei", XVIII, 47) e - pur rendendosi conto con lo stesso Agostino che "qualsiasi predizione su Cristo poteva essere dichiarata falsa dagli empi e soggiacere al medesimo discredito, sia che si trattasse degli oracoli delle Sibille o delle profezie degli Ebrei" - conclude con un "non è gradito a Lui stesso che, nelle dispute, noi dedichiamo troppe energie più a quelli che a queste" e attribuisce la palma della credibilità solo a "queste .. certissime, luminosissime, custodite dal popolo ebraico a noi assai ostile, e protette da ogni corruzione con incomparabile ed encomiabile cura nel corso di molti secoli" (P. Salomoni, cit, p. 227).
A partire da "queste" premesse (promesse già non mantenute!), ovviamente, accolta solo la parola dei "profeti" non si può che rinarrare e riscrivere la vecchia "storia dell’Amore" di Adamo ed Eva [...] E così, contravvenendo frettolosamente alle regole morali del suo stesso "metodo filosofico", il suo desiderio di lasciarsi guidare "in tutti i suoi passi dall’amore della verità", come dalla carità ("charitas") piena di grazia (charis), resta confinato nell’orizzonte della caduta e della minorità - e la presenza delle Sibille insieme ai Profeti nella Volta della #CappellaSistina è ancora un grosso problema! (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3...).
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"AD THEOLOGIAM PROMOVENDA" (L’Osservatore Romano, 03 novembre 2023). Per promuovere la teologia, nel paragrafo 7, è scritto che Rosmini considerava la #teologia una espressione sublime di “carità intellettuale” ... chiedeva che la ragione critica di tutti i saperi si orientasse all’Idea di #Sapienza e [sapesse stringere] interiormente in un “circolo solido” la Verità e la Carità insieme [...] (https://www.osservatoreromano.va/it/news/2023-11/quo-252/ad-theologiam-promovenda.html ).
FILOSOFIA, FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, POLITICA, E RELIGIONE E STORIA E LETTERATURA:
LA DIAGNOSI HAMLETICA DI SHAKESPEARE E LA DIALETTICA "NAPOLEONICA" DELLO SPIRITO DI HEGEL.
Una nota *
Il tramonto della cristianità
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 18 Settembre 2023)
La crisi della Chiesa è sotto gli occhi di tutti. Naturalmente preoccupa soprattutto i cristiani, ma non riguarda soltanto loro perché essa è l’effetto di una crisi sottostante, quella della civiltà cristiana che è la base delle nostre società. Per questo non riguarda soltanto la fede cristiana, ma la società contemporanea nel suo insieme.
In che modo e con quali conseguenze è l’argomento di un breve e interessante saggio della filosofa politica francese Chantal Delsol dal titolo esplicito, La fine della cristianità e il ritorno del paganesimo (ed. Cantagalli). Il punto di partenza della sua analisi è la constatazione che stiamo assistendo al tramonto della cristianità, la civiltà fondata sul cristianesimo che ha dominato l’Europa e il mondo Occidentale per sedici secoli. Il suo declino è certamente provocato «dal cedimento della base che ne sosteneva l’esistenza: la fede in una verità trascendente, in questo caso quella in un Dio unico venuto nel mondo», tuttavia non comporta necessariamente la fine del cristianesimo. Una religione, infatti, resta viva anche quando raccoglie un piccolo numero di credenti. Quanti e fino a quando, impossibile dirlo e, a questo punto, viene inevitabilmente alla memoria la frase forse più sconcertante pronunciata da Gesù, riportata nel Vangelo di Luca (18,8): «Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?»
La civiltà cristiana, invece, scrive Delsol, come tutte le costruzioni umane è «effimera, soggetta ai tempi e alle mode, ed eminentemente fragile, mortale». È del tutto ragionevole pensare che possa finire. Il suo inizio è convenzionalmente stabilito dagli storici nel 394 d.C., data della battaglia del fiume Frigido e della definitiva sconfitta del paganesimo. Da quel momento ha preso il sopravvento una civiltà nuova «ispirata, ordinata e guidata dalla Chiesa», con un nuovo «modo di vivere» e una nuova concezione del bene e del male. Il suo declino inizia molti secoli dopo, con il movimento culturale dell’Illuminismo e la Rivoluzione Francese che cercò di fare piazza pulita della Chiesa con abbondante uso della ghigliottina contro chierici e fedeli laici. Poi divenne sempre più rapido, fino ad assomigliare a una vera débâcle culturale a partire dagli anni Sessanta del Novecento, quando i movimenti della contestazione giovanile in tutto il mondo occidentale scompaginarono la società cambiando i costumi e affossando le tradizioni, e gettarono le basi del mondo odierno. Chantal Delsol pensa che quegli anni rappresentino il punto di non ritorno della crisi e che oggi all’orizzonte, a vista d’uomo, sia impossibile immaginare una rinascita della cristianità.
Già nel 1969 Joseph Ratzinger, allora giovane teologo e professore universitario, fece questa previsione sul futuro della Chiesa: «Diventerà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi... Poiché il numero dei suoi fedeli diminuirà, perderà anche gran parte dei privilegi sociali, ... non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la sinistra e ora con la destra» e diventerà più spirituale.
Il futuro papa immaginava che un processo lungo e difficile ma positivo l’avrebbe condotta a liberarsi della mondanità, della pomposità e del settarismo permettendole di essere di nuovo, come all’origine, l’assemblea (questo è il significato della parola chiesa) dei ‘piccoli’, termine con cui il linguaggio biblico chiama coloro che non cercano potere, riconoscimenti o ricchezze ma Dio, e a lui si affidano con semplicità e fiducia. Purificata dalla zavorra accumulata lungo i secoli del suo predominio, dopo grandi sommovimenti e una lunga crisi che, a suo parere, era appena cominciata sarebbe rimasta «non la Chiesa del culto politico, che è già morto, ma la Chiesa della fede... Conoscerà una nuova fioritura e apparirà come la casa dell’uomo, dove trovare vita e speranza oltre la morte» (Cfr. La profezia dimenticata di Ratzinger sul futuro della Chiesa, reperibile on line o nel libro Faith and Future, Ignatius Press, 2009). Una Chiesa nuova e antica capace di annunciare sempre lo stesso messaggio di speranza affidatole duemila anni fa. Per quale altro scopo se non per conoscerlo la gente dovrebbe avvicinarsi alla Chiesa, si domanda senza tergiversare il filosofo polacco Kolakowski in un breve saggio incompiuto solo ora tradotto in italiano: «Se non è Dio e Gesù che la gente cerca nella Chiesa, la Chiesa non ha alcun compito specifico da realizzare...è Dio che tutti vorrebbero trovare nel cristianesimo», non un’ideologia o una lobby politica (L. Kolakowski, Gesù. Saggio apologetico e scettico, ed. Le Lettere).
Fine del cristianesimo, dunque, fine della morale e trionfo dell’ateismo? Tutt’altro. Se il XXI secolo vedrà la fine della cristianità, scrive Delsol, non vedrà però la fine della moralità, come paventano alcuni cristiani convinti che i principi morali derivino solo dalla religione. Lo dimostrano le società pagane la cui moralità era determinata dai costumi, dalle leggi e dalle tradizioni. Allo stesso modo la società post-cristiana segue una morale che rispecchia i costumi condivisi dalla maggioranza dei cittadini e confermata dalle leggi dello Stato il quale provvede anche alle sanzioni a sua tutela non più affidate alla Chiesa.
Per quanto riguarda l’ateismo, Delsol è certa che non trionferà perché non ha presa sull’animo umano, portato piuttosto a riempire il vuoto provocato dalla fine del trascendente con altre forme di sacro. Le religioni e le filosofie orientali rispondono perfettamente alle nuove esigenze di spiritualità, perché «non brandiscono alcun Dio, alcun dogma, alcun obbligo» e il loro «sforzo per eliminare la sofferenza è molto simile alle sessioni di sviluppo personale, ed è proprio quello che i nostri contemporanei cercano». Anche l’ecologismo è perfetto per l’uomo di oggi. Egli non riconosce più gerarchie e separazioni tra uomo e natura, e nella ricerca di una sacralità senza divinità rigetta ogni monoteismo avvicinandosi piuttosto all’antico animismo; la sua visione è una sorta di cosmo-teismo «preoccupato più dello spazio che del tempo» perché non immagina niente al di sopra del mondo. La fede ecologista, inoltre, bilancia almeno in parte l’individualismo esasperato reintroducendo il concetto di responsabilità personale verso il futuro del pianeta e di chi lo abiterà. Forse, prospetta prendendo a prestito le riflessioni del filosofo tedesco Odo Marquard, dopo il regno di Dio e dopo quello dell’uomo è giunto il regno della natura.
Dall’analisi della Delsol, dalle parole di Ratzinger, dalle considerazioni di Kolakowski emergono pensieri convergenti, non pessimisti, che indicano una via percorribile per il futuro. La Chiesa può sopravvivere tornando all’essenza della sua missione, alla sua originaria ragione d’essere: l’annuncio e la testimonianza del messaggio di Gesù, semplicemente così come lo raccontano i Vangeli. La speranza di un amore che va oltre la morte, oltre le nostre fragilità, gli errori, le mancanze. La consapevolezza di condividere un destino che dovrebbe farci sentire responsabili gli uni degli altri e tutti del mondo. La perdita del potere politico, del riconoscimento sociale, della ricchezza potrebbe essere un beneficio piuttosto che una catastrofe, argomenta Chantal Delsol. Forse non deve essere la cristianità a lasciarci, ma potrebbero essere i cristiani ad abbandonarla rinunciando alla forza e all’ideologizzazione per tornare ad essere quello che devono essere: testimoni. «Non possiamo inventare un altro modo di essere se non quello dell’egemonia? La missione dev’essere necessariamente sinonimo di conquista?» E conclude: «Probabilmente sarebbe meglio se rimanessimo solamente dei testimoni silenziosi e, in fondo, degli agenti segreti di Dio».
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LA DIAGNOSI HAMLETICA DI SHAKESPEARE E LA DIALETTICA "NAPOLEONICA" DELLO SPIRITO DI HEGEL:
Nonostante Hegel sapesse che "The time is out of joint" (Shakespeare, "Hamlet", I.2), la visione COSMOTEANDRICA di Napoleone a cavallo a Jena (1806) in parte lo accecò e non poté più portarsi fuori dalla DIALETTICA della "strada di Damasco" (e "protestante" e "cattolica"). Con Amleto (e Marx), tuttavia non si può non ripetere: "Ben detto, vecchia talpa!" (I.5).
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, TECNOCRAZIA, E COSMOTEANDRIA: IL"NOVUM ORGANUM" (BACONE). L’ AVANZATA DEL GIGANTE, ormai, con i suoi stivali dalle sette leghe, è diventata inarrestabile: è un "golem-antico" progresso sulla strada aperta dal demiurgico sogno tragico dell’Accademia platonico-socratica, paolina, baconiana-hobbesiana, e schmittiana. "Il parto maschio del tempo ovvero la grande instaurazione del dominio dell’uomo sull’universo" è ormai a "buon" punto.
RINASCIMENTO, OGGI: TEMPO, FILOLOGIA E STORIOGRAFIA *
La Vergine delle Rocce tra i Templi di Agrigento
La Bottega di Leonardo - La Vergine delle rocce: verso Agrigento Capitale della Cultura italiana 2025.
di Mario Barbagallo *
[Foto] Particolare della Vergine delle rocce, versione Cheramy. Il centro del Mediterraneo si trova in una sala di Villa Aurea, non di certo per meriti geografici ma per una questione d’incontri.
Varcate le soglie del sentiero che porta all’ingresso del percorso espositivo, con gli occhi ancora pieni della maestosità delle colonne doriche, con le gambe cariche del piacevole peso della scoperta ma con la vista addolcita dal fluente divenire del paesaggio che si apre a sud verso il mare, si fa l’esperienza dell’incontro.
Una serie di opere provenienti dalla bottega di Leonardo accolgono il visitatore, comprendendo così quali novità l’artista abbia portato da Firenze e quali nuove soluzioni formali stesse sperimentando a Milano. Le opere di Cesare da Sesto, Marco d’Oggiorno, Giampietrino, Martino Piazza da Lodi, Bernardino Lanino, Bernardino de’ Conti mostrano una nuova attenzione al paesaggio, all’intensità dei corpi che si stagliano naturalisticamente sul cielo scuro: dipinti che invadono gli spazi della sala principale nella quale si confrontano, riprodotte in due schermi differenti, la versione della Vergine delle Rocce del Musée du Louvre di Parigi e quella della National Gallery di Londra.
[Foto] La riproduzione su schermo della Vergine delle rocce del Louvre. In un’atmosfera intima, creata da un’attenzione meticolosa nell’allestimento e avvalorata dalla scelta garbata dei direzionamenti dei fasci di luce, i quali accarezzano le morbidezze dei chiaroscuri e degli sfumati senza offenderne le figure, l’anima viaggia nei secoli cogliendo quel balzo temporale che dalla classicità greca arriva alle soglie del Rinascimento.
Percorrendo l’esposizione in senso orario si arriva alla piccola sala che custodisce gelosamente la perla della mostra: dischiudendo leggermente la tenda il Rinascimento viene svelato agli occhi e l’anima non può che cogliere gli elementi che il Divino ha manifestato sulla Terra.
[Foto] Leonardo e bottega (attr.), Vergine delle Rocce, versione Cheramy, olio su tavola trasportato su tela. La Vergine delle Rocce nella versione Cheramy, proveniente da una collezione privata e attribuita, come riportato dal cartiglio, allo stesso Leonardo con l’ausilio di collaboratori, nello specifico Boltraffio, esterna quella chiarissima discendenza dalla versione del Louvre di Parigi. È una di quelle opere che segna per sempre l’anima. L’occhio attento coglie le differenza che l’artista a livello iconografico mette in opera, sinonimo di un dibattito teologico che in quegli anni doveva essere particolarmente acceso. Ma non lascia dubbi all’occhio il resto: è Leonardo che parla.
La Vergine patrocina l’incontro. Maria è colei che sa e che fa da intermediaria per il piccolo Battista in atto di adorazione verso il Bambin Gesù mentre l’Angelo ci invita direttamente ad assistere con reverenza all’episodio con la stessa osservanza del Battista. Maria al centro della composizione con la mano “svolazzante” e tutta di scorcio all’altezza del viso dell’angelo, appena sopra la mano stessa dell’angelo e sul capo del piccolo Gesù in segno di protezione: un’immagine che viene fissata per l’eternità e nella quale Leonardo stesso si fa interprete di un’ iconografia unica che ne segnerà per sempre il proprio genio. Attorno alle figure le aspre rocce addolcite solo dal lento fluire delle acque e dai profumi estasianti delle piante in primo piano.
La scena deriverebbe, seppur con i necessari adattamenti derivanti dal dibattito teologico coevo, dai Vangeli Apocrifi, nello specifico il Protovangelo di Giacomo, conosciuto nella Firenze del Quattrocento in cui nell’episodio della “Fuga in Egitto” la Sacra Famiglia incontra il Battista già proiettato alla vita eremitica.
La roccia si irradia idealmente e, nonostante la propria natura aspra e desertica, si confronta con quella domata e plasmata appena fuori dalle sale, dove le colonne calcaree s’innalzano fino a toccare l’azzurro, slanciate sinuosamente tra la fertile campagna siciliana, dove i profumi dei fiori dei mandorli inebriano l’aria. In quel preciso istante il confronto diviene questione di sensi.
Akragas e la Milano della fine del XV secolo si trovano in contatto per la prima volta, fuori dal tempo ma non per questo in antitesi con la storia, soprattutto se questa è legata all’arte. In questi termini assume un maggior valore la scelta di una location d’eccezione dove il fil rouge è questione squisitamente “geologica”.
È un viaggio a ritroso nel tempo alla scoperta di una delle opere più importanti del Rinascimento, quella che permetterà a Leonardo di studiare quei meccanismi in grado di dare “moto e fiato” alle figure, di esprimere emozioni e stati psicologici che saranno visibili, di lì a poco, nel Cenacolo di Santa Maria delle Grazie.
Un dialogo inedito. Un confronto che parla espressamente di matericità, di ricerche verso una nuova monumentalità, di ambienti sacri che fanno da sfondo e accolgono chi porta dentro di sé la propria missione. In quella visione archetipica che Leonardo elabora nella propria mente, coadiuvato da una committenza attenta al dibattito teologico intorno alla Immacolata Concezione di Maria, si fa l’esperienza concreta della materia e di un silenzioso affaccio verso le braccia aperte della Vergine, dove terreno e ultraterreno s’incontrano verso una nuova ricerca di forme che Leonardo elabora a Milano e che segnerà, per citare Vasari, il raggiungimento della “Maniera Moderna”.
La mostra La Bottega di Leonardo - La Vergine delle rocce, visitabile dal 31 luglio al 31 dicembre 2023, a cura di Vittorio Sgarbi e Nicola Barbatelli è prodotta da Mediatica, Ellison, Samar e patrocinata dal Ministero della Cultura, dalla Regione Siciliana, dal Comune di Agrigento e dal Parco della Valle dei Templi di Agrigento. Una proposta espositiva alla portata di tutti che ben si configura come conoscenza storico artistica che ciascuno di noi dovrebbe inserire nel proprio bagaglio esperienziale e culturale.
[Foto] Veduta di Villa Aurea, Parco Archeologico Valle dei Templi. Un’occasione per staccarsi dalla contemporaneità e vivere l’eterno presente dell’opera d’arte. I templi custodi della memoria dello spirito dell’uomo divengono un tutt’uno con l’opera di Leonardo vivendo una raffinata simbiosi simbolo di manifestazione del Divino.
La presenza di Leonardo in Sicilia è un evento che riporta l’isola al centro del dibattito storico artistico in vista del 2025, quando Agrigento sarà capitale della Cultura Italiana. Un’occasione per respirare la storia, per ricordare a noi stessi che la cultura è dibattito, incontro e confronto.
* Fonte: Tota Pulchra News, 8 Settembre, 2023 (ripresa parziale - senza immagini).
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Nota:
RINASCIMENTO, OGGI. Antropologia, Filologia, Arte e Storia d’#Europa. Sul filo di #Eleusis2023 (e a ricordo della figura di #Demetra), una brillante indicazione (ed ’operazione’) per il Giubileo 2025 (Chiesacattolica, 2025) e per la #memoria di #Nicea2025.
UNA "OPERAZIONE" STRAORDINARIA E UN GRANDE OMAGGIO A #LEONARDODAVINCI E ALLA #CULTURA DELL’#UMANESIMO E DEL #RINASCIMENTO: C’E’ UNA #MEMORIA DA RITROVARE ( "W O ITALY", #Agrigento 1993) E, OLTRE #COSTANTINO (E #NICEA 2025), UNA #FILOLOGIA DA #RICOMINCIARE A STUDIARE (#LORENZOVALLA, 1440), E IL #CAMMINO DI #PROFETI E DI #SIBILLE DA RIPRENDERE... BUON LAVORO E ONORE AD #AGRIGENTO2025
FLS
ANTROPOLOGIA, ARTE, FILOLOGIA, E STORIOGRAFIA.
UNA “SOPRAVVIVENZA” DELLE “DICERIE SACRE” (G. B. MARINO, 1614) IN UN LAVORO IN CRETA DI ANTONO CANOVA (1757-1822). *
RI-LEGGENDO INSIEME LE “DICERIE SACRE” (1614) E IL POEMA “ADONE” (1623) di Giovan Battista Marino E RECUPERANDO (alla luce delle indicazioni date dal “professore con la rosa in mano”) il contesto ideologico del programma umanistico-rinascimentale della “prisca teologia” e della “docta religio”, e, AL CONTEMPO, RIPONENDO ATTENZIONE a un “modello in creta della dea Venere che abbraccia Adone morente”, realizzato da Antonio Canova, forse, non appare ("cum grano salis") ben visibile il filo che lega l’orizzonte storico-culturale di Michelangelo Buonarroti con quello di Giovan Battista Marino, e, infine, gli stessi Carmelitani scalzi di Contursi Terme (Salerno), che affrescano e dedicano (nel 1613) la loro Chiesa della Madonna del Carmine con la figure di 12 Sibille?
Qualche anno più tardi, dopo la morte di ShaKespeare, Cervantes, e Garcilaso El Inca de la Vega nel 1616, prenderà il via la Guerra dei Trentanni e tutti i sogni di una “pace della fede” (Niccolò Cusano, “De pace fidei”, 1453) vanno in fumo.
Storiografia e Sismografia alla Warburg:
FOLLIA
di Lavinia Mainardi (Passioni & Linguaggi, 1 luglio 2023)
Scrive James Hillman in L’anima dei luoghi. Conversazione con Carlo Truppi: «Nell’antica Grecia, luoghi quali crocevia, sorgenti, pozzi, boschi e simili avevano specifiche qualità e specifiche personificazioni: dei, demoni, ninfe, daimones, e se si era inconsapevoli di tutto questo, se si era disattenti alle figure che abitavano un incrocio o un bosco, se si era insensibili ai luoghi, si correva un grande pericolo. Si poteva esserne posseduti». Se come asseriva Servio nullus locus sine genio est proveremo a metterci alla ricerca di un daimon, di una ninfa e di un incrocio a svelarci la tentacolare pregnanza del genius di una di quelle che Michel Foucault definisce eterotopie, ovvero luoghi differenti, chiusi e rigidamente normati, che il filosofo francese ci descrive in maniera particolareggiata nella sua Storia della follia nell’età classica: «Una data può servire come punto di riferimento: 1656, decreto di fondazione dell’Hôpital géneral, a Parigi. A prima vista si tratta solo di una riforma: appena d’una riorganizzazione amministrativa. Diverse organizzazioni già esistenti sono raggruppate sotto un’unica amministrazione: la Salpêtrière, ricostruita sotto il regno precedente per mettere al coperto un arsenale; Bicêtre, che Luigi XIII aveva voluto dare alla commenda di Saint-Louis per farne una casa di riposo destinata agli invalidi dell’esercito [...] Tutto è destinato ai poveri di Parigi [...] si tratta di accogliere, di alloggiare e di nutrire [...] bisogna anche provvedere alla sussistenza, alla buona tenuta, all’ordine generale [...] questo incarico è affidato a direttori nominati a vita [...] L’Hôpital géneral - sottolinea Foucault - non è un’istituzione medica. È piuttosto una struttura semigiuridica [...] e al di fuori dei tribunali, decide, giudica ed esegue».
In quell’epoca foriera di trasformazioni, sospesa come un funambolo fra la sfrenata leggerezza della Belle Époque e la consapevolezza della finis imperii, in quell’atmosfera di imminente ma latente crisi che attenderà il nuovo secolo per esplodere, il direttore della Salpêtrière era il Professor Jean-Martin Charcot cui si deve quella che Georges Didi-Huberman sintetizza ineccepibilmente come “Invenzione dell’isteria”.
Un’invenzione di cui tenteremo di rintracciare le rizomatiche connessioni con gli altri saperi che in quegli anni stavano modificando il paradigma epistemologico della nascente sensibilità “contemporanea”, intrecciando alle certezze misurabili del Positivismo un serpeggiante affacciarsi delle componenti meno razionali del pensiero.
Ma prima torniamo per un momento ai nostri daimones. In La follia che viene dalle ninfe, Roberto Calasso ricorda come «il primo essere cui Apollo parlò sulla terra fu proprio una ninfa, depositaria di quella conoscenza oracolare cui il dio ambisce in un’era in cui il sapere è possessione e la metamorfosi lo “statuto normale della manifestazione”». Scrive Roberto Calasso: «L’immagine moderata della possessione dipende ancora in gran parte, seppure non lo si ammetta, dall’ occultismo ottocentesco. Sono bocche schiumanti o megere glossolaliche o bionde sataniste efferate i primi riferimenti che affiorano, se persino Eric Dodds, in The Greeks and the Irrational si sentì in dovere di dare finalmente cittadinanza alla letteratura parapsicologica accanto ai testi di Platone e degli Orfici». Per i Greci «la possessione fu una forma primaria della conoscenza [...] la mente era un luogo aperto, soggetto ad invasioni, incursioni [...] segnale di una metamorfosi [...] una conoscenza che è un pathos [...] ninfa è la materia mentale che fa agire e che subisce l’incantamento [...] ciò che gli alchimisti chiameranno prima materia».
Intorno al 1890, rammenta Calasso, «a Firenze il giovane Aby Warburg studiava Botticelli, in rapporto a quella che allora si chiamava “sopravvivenza” (Nachleben) e presto arrivò a una conclusione [...] l’antichità riaffiorava non tuttavia nelle winckelmanniane vesti di “nobile semplicità e quieta grandezza”, ma nell’improvviso intensificarsi del gesto». Ma fu una sorta di apparizione quella di una figura femminile arcaicizzante nell’affresco del Ghirlandaio in Santa Maria Novella La nascita di san Giovani Battista a far riemergere la ninfa proiettandola in un orizzonte problematico in cui la «mania è più bella della sōphrosynē »: l’orizzonte delle alienate della Salpêtrière.
Un orizzonte che a questo punto esige di essere meglio compreso alla luce di un prisma di influenze, relazioni, incontri, conoscenze accidentali, uno di quei crocevia insomma evocati da Hillman.
Nell’ottobre del 2018 il Musée d’art et d’histoire du Judaïsme di Parigi ha promosso la mostra Sigmund Freud, du regard à l’écoute , in cui si indagano i referenti meno conosciuti dell’iniziatore della psicanalisi attraverso un apparato iconografico eterogeneo che include quadri, disegni, incisioni, oggetti e dispositivi scientifici, in una sorta di Wunderkammer della patologia neurologica fin de siècle. Una sezione della mostra, nell’intento di far emergere la derivazione del pensiero freudiano anche dalla psichiatria francese, filiazione fin troppo emarginata, si sofferma sui rapporti con Charcot, in occasione di un giovanile viaggio di studio. Scrive Jean Clair in La Salpêtrière, magnétisme, hystérie et hypnose: «Durante l’inverno 1885-1886, Sigmund Freud, giovane medico, ottiene una borsa di studio per seguire a Parigi i corsi di Jean-Martin Charcot. Il celebre neurologo dirige la clinica delle malattie del sistema nervoso presso la Clinica ospedaliera della Salpêtrière, di cui ha inaugurato la cattedra. Le sue lezioni pubbliche, durante le quali pratica l’ipnosi su pazienti isteriche, sono dei rendez-vous mondani in cui si incontrano scienziati, scrittori ed artisti. Freud desidera vedere con i propri occhi queste controverse esperienze, incorniciate dall’aura del “meraviglioso” che si ricollegava precedentemente al magnetismo animale (teoria e pratica terapeutiche sviluppate nel XVIII secolo dal medico tedesco Franz Anton Mesmer, fondate sull’ipotesi dell’esistenza di un “fluido magnetico”), ma dove nessuno sospettava un eccesso di compiacenza da parte delle malate nei confronti dello sguardo dei medici. La teatralità delle sessioni e gli artefatti di questa proteiforme malattia “che sembra ignorarare l’anatomia”, qualificata come nevrosi, impressiona Freud che propone a Charcot di tradurre le sue Maladiès du système nerveux in tedesco. Questo insegnamento è stato immortalato dal quadro di André Brouillet Une leçon clinique à la Salpêtrière del 1887, di cui Freud acquisterà una riproduzione posizionata nel suo studio viennese».
Ma a cosa rapportare questa spettacolarizzazione del patologico, la rappresentazione fotografica della malattia (L’iconographie photographique de la Salpêtrière fornì un repertorio per molta arte visiva coeva, probabilmente anche per certe forzature espressionistiche della pittura di Egon Schiele come dimostra un recente studio di Federica Usai che ancora una volta collega Parigi a Vienna), la teatralità corporea di membra esibite a sguardi apparentemente clinici, quella che Georges Didi-Huberman definì nel suo primo lavoro datato 1982 L’invenzione dell’isteria, scritta due anni prima della scomparsa di Michel Foucault cui il lavoro deve molta della sua ispirazione. Scrive Didi-Huberman: «la Salpêtrière (fu) una grande macchina ottica volta a decifrare gli invisibili lineamenti di un cristallo: la grande macchina territoriale, sperimentale, magica dell’isteria. Il metodo “anatomo-clinico” promosso da Charcot aveva realizzato qualcosa di simile a un compromesso con l’obiettivo, fisiologico ed essenzialista, di studiare le malattie nervose. Sebbene non sia possibile vedere direttamente il funzionamento del cervello, si potranno tuttavia individuare i sintomi, visibili sul corpo, degli effetti provocati dalle alterazioni di tale funzionamento»: l’isteria è prima di tutto uno sguardo, un’immagine, anzi un repertorio di sintomi induttivamente ricondotti ad una tassonomia iconografica.
Se dunque da un lato il teatro dei martedì di Charcot si può ricondurre all’emergere di quella preminenza del visivo da cui verrà permeata tutta la cultura a posteriori, non si può eludere dal contemporaneo emergere, proprio nella seconda metà dell’Ottocento, epoca di dilagante positivismo, di una rivalutazione dei tratti più irrazionali in molteplici discipline, in primis la filologia, tendenza culminata con l’uscita nel 1872 de La Nascita della Tragedia di Friedrich Nietzsche, che portava a compimento un percorso che, forse nato con il ritrovamento nel gennaio del 1506 del gruppo scultoreo del Laocoonte con le sue torsioni e i suoi grovigli, continuato a scorrere fra i ruscelli carsici di certo anti-rinascimento e del manierismo più anti classico, riemerso in certe estetiche eterodosse del Romanticismo tedesco fra i filosofi di Heidelberg, Creuzer e Bachofen, venne amplificato anche dalla riscoperta di categorie retoriche quali quella del Sublime.
Una strada tortuosa che Didi-Huberman sembra voler ripercorrere, voltandosi ora con occhi diversi a guardare all’esperienza della Salpêtrière. In L’immagine insepolta, pubblicato nel 2002, il cui sottotitolo Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte tradisce i sentieri nel frattempo imboccati dallo storico dell’arte francese, viene compiuta una scrupolosa ricognizione del complesso orizzonte di situazione e dei referenti della Weltanschauung del critico tedesco, visione in cui Didi-Huberman rileva una metafora-chiave, quella del sismografo che capta «onde, tensioni, resistenze, sintomi, crisi».
Captatori furono Goethe di fronte al gruppo statuario del Laocoonte, captatori furono Nietzsche e Burckhardt nel riscoprire le radici dionisiache dell’antica civiltà greca, captatore fu Darwin con le sue rivoluzionarie teorie evoluzionistiche e captatore fu anche Charcot con il suo dinamografo che «ausculta il corpo isterico», operando così una sovrapposizione fra i corpi inarcati delle alienate della Salpêtrière e le cosiddette Pathosformeln, su cui è improntata la concezione di sopravvivenze dell’antico di Warburg.
«Le Pathosformeln - scrive Didi-Huberman - andranno comprese come le cristallizzazioni corporee della “dialettica del mostro”. Momenti-sintomi [...] le formule di pathos sono considerate da Warburg secondo il punto di vista dialettico della rimozione [...] e del ritorno del rimosso. L’immagine in movimento [...] non descrive altro che movimenti-sintomi. [...] In base a quale paradigma possiamo comprenderli? Più di qualsiasi altra cosa è la clinica dell’isteria trionfante e spettacolare in questa fine del XIX secolo che sembra dover fornire il modello sintomatologico più pertinente [...] Nel sintomo isterico si fondono le Pathosformeln espressive della crisi e il Nachleben di un trauma latente che fa ritorno nell’intensità dei movimenti prodotti. A quel punto - continua Didi-Huberman - sorge l’astro di Charcot, maestro e caposcuola indiscusso del funzionamento sintomatico, nonché indiscusso direttore del corpo di ballo dello spettacolo isterico alla fine del XIX secolo [...] Come non rimanere colpiti dall’analogia tra le figure dionisiache della Ninfa in Warburg e le figure dell’isteria disegnate da Richter alla Salpêtrière?»
Per un breve momento, dunque, quello che si è cercato di fissare in questa veloce rassegna, il genius loci di un ospedale barocco diretto da un enigmatico e ambizioso professore di neurologia, regista di performances ante litteram, permise ad arte e follia di incontrarsi, un incontro da cui l’estetica non ha più saputo svincolarsi.
L’ONDA LUNGA DEL RINASCIMENTO.
Una nota a margine della mostra al Museo e Real Bosco di Capodimonte sul tema “Gli Spagnoli a Napoli. Il Rinascimento meridionale” *
MEMORIA E STORIA: BASILICA DI SAN DOMENICO MAGGIORE (NAPOLI). NELLA CAPPELLA CON L’ALTARE dove c’è la “Madonna della Neve tra il Battista e S. Matteo”, a destra, c’è il cenotafio di Giambattista Marino (m. 1625), il famoso poeta secentista, con busto in bronzo, di Bartolomeo Viscontini (1682) e, a sinistra, il monumento sepolcrale di Bartolomeo e Girolamo Pepi (1580), illustri giureconsulti “da Contursi”, con una lapide su cui è scritto: “Bartholomaeo Pepi Iurisconsulto, qui claros gessit summa continentiae et æquitatis laude Magistratus, Parenti optvmo Hieronymoque germano fratri et nomini in omnibus vitæ partibus integerrimo. Marcus Antonius Pepi Dominus Contursii, Sancti Angeli Fasanellæ, Optati, Optatelli, et aliorum Benemerentibus. Anno Domini M.D.LXXX»”.
12 SIBILLE CON I CARMELITANI SCALZI NELLA TERRA (DEL PRINCIPE DI EBOLI E) DELLA FAMIGLIA PEPI. A CONTURSI, nell’ attuale Città di CONTURSI TERME (SA), una grande pala d’altare, collocata sull’altare della Chiesa della Madonna del Carmine, con pareti affrescate con le figure di 12 Sibille, fu commissionata e dedicata dal giureconsulto Paolo Pepi, alla memoria dello zio Paolo Antonio Pepi: «AD HONOREM SACRATISS. VIRGI DE MO/TE CARMELO, ET IN MEMORIA CELE/BERRI IUREC: D. PAULI ANTO. PEPI/... PAULUS PEPI IUREC: PRONEPOS/ / F/EC. ANNO DOMINI 1608/IACOBUS DE ANTORA NEAP. PNGB».
Per approfondimenti, mi sia lecito, si cfr.: A CONTURSI TERME (SALERNO), IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE).
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Il Perugino negli affreschi del Collegio del Cambio: il Rinascimento classico e cristiano
Capolavoro del Perugino, gli affreschi della Sala delle Udienze nel Collegio del Cambioa a Perugia sono uno dei vertici del Rinascimento, soprattutto per la commistione di temi classici e cristiani.
di Federico Giannini, Ilaria Baratta *
Girando per la Sala delle Udienze del Nobile Collegio del Cambio di Perugia, si potrà facilmente individuare, sulla parete verso l’entrata, un autoritratto dell’autore degli affreschi, il Perugino (Pietro Vannucci; Città della Pieve, 1450 circa - Fontignano, 1523), e subito sotto la sua effigie, che ce lo restituisce in maniera realistica come un cinquantenne un poco appesantito, si troverà un’iscrizione che recita: “Petrus Perusinus Egregius / Pictor / Perdita si fuerat pingendi / hic rettulit artem / Si nusquam inventa est / hactenus ipse dedit”, e cioè “Pietro Perugino pittore egregio: se l’arte del dipingere era perduta, egli la recuperò, e se mai fino ad allora era stata inventata, egli la creò”. A tutta prima potrebbe apparirci non proprio una dichiarazione di modestia, insomma, anche se non dobbiamo leggerla come un’incensazione di se stesso: l’iscrizione infatti, molto probabilmente, venne dettata dall’umanista che ideò il programma iconografico della sala, Francesco Maturanazio (Perugia, 1443 - 1518), che pescò dalla tradizione classica e umanistica (in particolare da Plinio e da Petrarca) per elevare l’artista allo status di pittore divino, dal momento che nella tradizione classica era prerogativa delle divinità l’insegnamento delle arti ai mortali.
E in effetti già anticamente gli affreschi della Sala delle Udienze del Collegio del Cambio erano ritenuti una delle opere migliori del Perugino, se non il suo capolavoro. Anche un detrattore del Perugino come Giorgio Vasari, nelle sue Vite, esprime un giudizio molto positivo nei confronti di questo ciclo di dipinti, rammentando come molti lo ritenessero il suo lavoro più importante: “Questa opera, che fu bellissima e lodata più che alcun’altra che da Pietro fusse in Perugia lavorata, è oggi dagl’uomini di quella città, per memoria d’un sì lodato artefice della patria loro, tenuta in pregio”. Il Perugino venne chiamato a decorare la Sala delle Udienze nel 1496. L’Arte del Cambio era una delle principali corporazioni professionali della Perugia quattrocentesca: era l’associazione che tutelava gli interessi dei cambiavalute (le banche, diremmo in termini contemporanei) e, assieme all’Arte della Mercanzia, era l’unica che aveva ricevuto il privilegio di poter aprire la propria sede direttamente dentro al Palazzo dei Priori, ovvero l’edificio simbolo delle virtù civiche della città, la sede del potere laico, il luogo che doveva rappresentare tutti i perugini.
I locali del Collegio del Cambio si trovano al pianterreno di Palazzo dei Priori e la Sala delle Udienze era il luogo in cui i membri della corporazione si riunivano, ricevevano, discutevano delle loro attività. Il contratto per l’incarico del Perugino, a lungo sconosciuto, è stato rinvenuto presso l’Archivio di Stato di Perugia e pubblicato nel 2013 sul Burlington Magazine da Alberto Maria Sartore: siglato nel 1496, il documento è stato fondamentale per chiarire la cronologia dei lavori e per avere contezza dei cambiamenti in corso d’opera, dal momento che a un certo punto il programma venne modificato. Non si tratta dell’accordo definitivo, ma di una bozza preliminare redatta in volgare dal notaio del Cambio, Pietro Paolo di ser Bartolomeo e reca la data dell’11 maggio 1496.
A rappresentare il Cambio erano due “uditori”, ovvero due funzionari di livello superiore, Amico Graziani e Mario Monaldi, che riferivano di aver avuto una riunione preliminare con il Perugino per definire i dettagli della decorazione (erano stati loro ad aver proposto al Cambio, nel mese di gennaio, il nome del pittore di Città della Pieve). Il documento comincia descrivendo gli elementi della volta, che doveva essere decorata con le immagini dei sette pianeti accompagnate da “animali” e altri “ornamenti”. Ognuno dei pianeti doveva essere dipinto in oro o argento, mentre gli “ornamenti” dovevano essere in “azzuro de la Magna”, ovvero in azzurrite tedesca. Il contratto descrive poi il programma delle quattro pareti partendo dalle due lunette della parete meridionale, ovvero quella opposta al monumentale “seggio” ligneo destinato a chi presiedeva le riunioni. In queste lunette il Perugino era chiamato a dipingere le quattro virtù cardinali e, sulla parete nord, le immagini di dodici personaggi illustri dell’antichità, senza che però fossero fornite ulteriori specifiche. Quanto alla parete occidentale, le indicazioni erano più precise: una Natività e una Trasfigurazione da eseguirsi a olio su tavola, con decorazioni in oro, in blu oltremare e in diversi altri preziosi pigmenti.
Per terminare il lavoro, il Cambio concedeva al Perugino un anno dalla stipula del contratto: per la precisione, sei mesi per il soffitto e gli affreschi sulle pareti, e altri sei mesi per le parti in olio su tavola. La somma pattuita era di 350 ducati: 50 subito, 50 al completamento degli affreschi, 50 all’inizio delle opere su tavola, e infine 50 per ogni anno fino a raggiungere la somma completa (i pagamenti, con questo sistema, sarebbero andati avanti sino al 1507). Si trattava insomma di un contratto “particolarmente svantaggioso per il pittore”, come ha scritto Sartore. “Non soltanto era obbligato a completare l’intero programma entro l’anno (un lasso di tempo irrealistico, date le dimensioni e la complessità del ciclo, senza calcolare gli altri impegni firmati dal Perugino), ma 200 dei 350 ducati promessi furono pagati in rate annuali fisse di 50 ducati spalmate su quattro anni solo dopo che gli affreschi furono terminati”. Inoltre evidentemente l’artista andò incontro ad alcune penali dal momento che ritardò la consegna del ciclo, e che dalla firma del contratto i pagamenti durarono per quasi dieci anni.
L’Arte del Cambio intendeva avvalersi dei servigi di uno dei più importanti artisti in circolazione all’epoca, all’apice della sua carriera, peraltro in un periodo in cui era appena tornato a Perugia da Firenze ed era oberato d’impegni: nello stesso periodo, per esempio, attendeva alla realizzazione della Madonna della Confraternita della Consolazione, del Polittico di San Pietro, del Gonfalone della Giustizia e di altre opere che punteggiano l’epoca del suo successo. L’artista, dal canto suo, era comunque ben lieto di rimanere in città, tanto che nel 1496 incaricò un suo uomo di fiducia di gestire i suoi affari a Firenze: il Perugino ebbe così modo di organizzare al meglio il lavoro, che poté ovviamente contare su un’ampia collaborazione della bottega.
Esiste peraltro un documento del 1496 che attesta l’affitto di un locale, a pochi passi dal Collegio del Cambio, da parte di un gruppo di artisti formato da Ludovico d’Angelo, Sinibaldo Ibi, Berto di Giovanni, Lattanzio di Giovanni ed Eusebio da San Giorgio: prima della scoperta del contratto per la Sala delle Udienze s’era parlato di una “società del 1496” fondata quasi per competere col Perugino, mentre a partire dal rinvenimento Sartore ha ipotizzato che in realtà non doveva trattarsi di un sodalizio che intendeva far concorrenza al maestro, ma forse era una “squadra di assistenti di cui il maestro necessitava per realizzare un ciclo così ambizioso”. Un ciclo che, come anticipato, subì delle modifiche in corso d’opera: la Natività e la Trasfigurazione, per esempio, furono infine dipinte ad affresco e non su tavola. Il Perugino comunque non cominciò subito a lavorare: trascorse infatti gran parte del 1497 tra Firenze e Fano, per dedicarsi in maniera intensiva alle pitture del Cambio a partire dal 1498. Il lavoro ebbe termine nel 1500, come attesta la data lasciata dall’artista sopra uno dei pilastri.
Come s’è visto, il contratto non approfondiva più di tanto il contenuto del ciclo. In effetti indicazioni più precise sarebbero giunte al pittore da una commissione incaricata di elaborare il tema iconografico: non si sa però se alla stipula del contratto il programma fosse già chiaro, oppure se fosse ancora in fase di discussione.
È comunque noto da tempo che il raffinato programma iconografico si debba a Maturanzio, che immaginò una commistione di temi sacri e temi pagani, ispirandosi al De officis e al De inventione di Cicerone (di cui l’umanista perugino possedeva un incunabolo, oggi conservato alla Biblioteca Augusta di Perugia con numero d’inventario 296, dove si vedono annotazioni dello stesso Maturanzio legate proprio al ciclo del Cambio).
In particolare, è nel De inventione che il grande oratore romano afferma che il diritto è espressione della ragione umana che trova accordo con la ragione naturale (ius naturale), e che la saggezza politica si fonda sull’esercizio delle virtù, definita da Cicerone (al libro II, capitolo 159) come “una disposizione della mente secondo natura e ragione”, formata da quattro parti, che coincidono con le virtù cardinali cristiane: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Altre fonti d’ispirazione per Maturanzio furono altri testi antichi come i Factorum et dictorum memorabilium libri di Valerio Massimo, ma anche opere moderne quali l’Astrolabium di Johann Engel (latinizzato in Johannes Angelus), pubblicato nel 1494, oppure forse la diretta fonte di quest’ultimo, il calendario astrologico di Baccio Baldini, pubblicazione all’epoca piuttosto popolare e stampata in diverse edizioni, che l’artista potrebbe preso a modello per la raffigurazione dei pianeti. Il Perugino comunque non fu un semplice esecutore: possiamo infatti immaginarlo a dialogo con Maturanzio sulla scelta delle soluzioni iconografiche (per esempio, lo studioso Rudolf Hiller von Gaertringen gli attribuisce l’invenzione della combinazione degli eroi con le virtù e le iscrizioni, nata probabilmente dal confronto con l’umanista). L’idea di fondo del ciclo, che doveva fornire una sorta di esempio a chiunque entrasse in questa sala, come ha scritto Pietro Scarpellini, è che in Cristo “si realizzano compiutamente le virtù cardinali, esemplate dagli uomini famosi, in particolare la Giustizia che deve regolare l’attività pubblica nell’Udienza del Cambio”. L’uomo che voglia dunque avvicinarsi all’esempio di Cristo dovrà seguire le virtù degli antichi illustri, e farsi guidare dalle virtù cristiane, che vengono tutte rappresentante negli affreschi della Sala delle Udienze. L’unitarietà simbolica del ciclo si esprime dunque nella solidità e nell’armonia dell’impianto compositivo, che “svela così una concezione unitaria, che si manifesta in forme compatte e coerenti”.
Perugino, Autoritratto (1498-1500; affresco; Perugia, Nobile Collegio del Cambio, Sala dell’Udienza) L’autoritratto con l’iscrizione Perugino, Catone Uticense (1498-1500; affresco; Perugia, Nobile Collegio del Cambio, Sala dell’Udienza)
A presiedere, per così dire, tutto il ciclo è la figura di Catone Uticense, simbolo di libertà (per il fatto che aveva preferito uccidersi piuttosto che accettare di vedere la repubblica sottomettersi a Giulio Cesare: questa è l’immagine dell’Uticense che ci è stata tramandata anche dalla Commedia di Dante Alighieri), figura storica apprezzata anche dal principale sostenitore del ciclo, Amico Graziani, che era peraltro amico di Maturanzio. È lui che introduce il visitatore alla lettura del ciclo, che può cominciare dalle pareti con le scene sacre: si parte dalla Trasfigurazione, l’episodio descritto nei vangeli di Matteo, Marco e Luca durante il quale Gesù, dopo aver condotto con sé i discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte Tabor, cambiò aspetto mostrandosi assieme ai profeti Mosè ed Elia in una luce soprannaturale.
Perugino dipinge Cristo in una mandorla, con uno schema collaudato: è al centro, i due profeti sono a fianco a lui in posizione simmetrica, inginocchiati su due nuvole, mentre il registro inferiore, che occupa una metà esatta della composizione, ospita i tre discepoli che osservano stupiti, con Giovanni che solleva una mano per ripararsi dal bagliore. Attorno alla figura di Cristo le scritte “Hic est filius meus dilectus” e “Domine bonum est nos hic esset”, ovvero “Questo è il figlio mio diletto” e “Signore, per noi è bene essere qui” (è la frase che avrebbe pronunciato Pietro dopo l’apparizione di Gesù tesa a mostrar loro un saggio della bellezza del paradiso, come si legge nel vangelo di Matteo).
La scena della Trasfigurazione allude, secondo l’interpretazione dello studioso Elvio Lunghi, alla Fede, mentre la Carità è rappresentata dalla Natività: i personaggi (la Vergine, Gesù Bambino e san Giuseppe) sono raffigurati sotto un’architettura classica dalle alte colonne, decorate con motivi a grottesca, e anche qui sono disposti simmetricamente, a riprendere l’impostazione della scena omologa che l’artista aveva dipinto nella Cappella Sistina (poi rimossa per far posto al Giudizio universale di Michelangelo).
Il Bambino è al centro, i genitori sono ai suoi lati, inginocchiati, mentre i pastori più indietro sono collocati a formare una piramide, con quello sulla sinistra che è controbilanciato, sul lato opposto, dal bue e dall’asinello. Dietro, la veduta si apre sul paesaggio umbro (intravediamo, in lontananza, l’onnipresente lago Trasimeno che il Perugino inseriva quasi sempre nei suoi scorci paesistici), dove compaiono tre angeli che intonano canti in lode a Cristo appena nato e, in basso sulla sinistra, osserviamo anche un pastore che sta conducendo il suo gregge.
La parete attigua vede una grande lunetta con l’immagine dell’Eterno tra gli angeli sopra un gruppo di profeti e sibille, insieme che simboleggia la Speranza, la terza virtù teologale. La figura del Padreterno appare in un circolo dorato attorniato da tutte le gerarchie angeliche (angeli, cherubini e serafini), e sotto di lui, in un altro paesaggio con le colline dell’Umbria, si vedono i personaggi identificati dai loro cartigli:
da sinistra a destra s’incontrano Isaia, Mosè, Daniele, Davide, Geremia e Salomone per il gruppo dei profeti, e poi le sibille Eritrea, Persica, Cumana, Libica, Tiburtina e Delfica. Tutti questi personaggi annunciano la venuta del figlio di Dio.
Una curiosità: è l’unica delle scene il cui disegno fu riportato su parete con la tecnica dell’incisione e non con quella dello spolvero.
Il Perugino negli affreschi del Collegio del Cambio: il Rinascimento classico e cristiano
Capolavoro del Perugino, gli affreschi della Sala delle Udienze nel Collegio del Cambio a Perugia sono uno dei vertici del Rinascimento, soprattutto per la commistione di temi classici e cristiani.
di Federico Giannini, Ilaria Baratta *
Le altre due scene sono raffigurate sulla parete di fronte. Entrambe seguono lo stesso schema: vi troviamo due delle quattro virtù cardinali assise in cielo, identificate, oltre che dai loro tipici attributi iconografici, dalle tavole sorrette da coppie di putti, e sotto di loro sei eroi dell’antichità. A sinistra, la Prudenza e la Giustizia (con i loro attributi: lo specchio e la spada) sono raffigurate sopra Fabio Massimo, Socrate, Numa Pompilio, Furio Camillo, Pittaco e Traiano, mentre a destra, la Fortezza e la Temperanza (scudo e bastone la prima, le due brocche per “temperare” l’acqua la seconda) compaiono sopra altri sei eroi, ovvero Lucio Siconio, Leonida, Orazio Coclite, Publio Scipione, Pericle e Cincinnato.
La prudenza (prudentia) è per Cicerone “la conoscenza delle cose buone e cattive” e si compone di tre parti: memoria, intelligenza e capacità di previsione, incarnate rispettivamente da Fabio Massimo, Socrate e Numa Pompilio. L’iscrizione suggerisce di non fare cose di cui ci si potrebbe pentire, e di cercare piuttosto la verità. La giustizia (iustitia) viene invece definita nel De inventione come un “abito mentale che tutela il bene comune”, e risulta dallo ius naturae (il diritto naturale, ovvero quello che non discende dall’opinione, ma da un istinto innato che è fondato su religio, pietas, gratia, vindicatio, observantia e veritas: lo ius naturae è impersonato da Furio Camillo), dalla consuetudine, che stabilisce le cose utili (Pittaco), e dalla legge scritta (Traiano). Nell’iscrizione si legge che se al mondo nascessero uomini come i tre che impersonano le tre qualità della giustizia, non ci sarebbero più azioni malvagie. La fortezza (fortitudo) è secondo Cicerone “la capacità di affrontare i pericoli e di sopportare la fatica”. Le sue parti sono magnificentia (magnanimità, generosità), fidentia (sicurezza e fiducia in se stessi) patientia (pazienza) e perseverantia (perseveranza). La magnificentia è rappresentata da Lucio Siconio, la fidentia da Leonida, la patientia e la perseverantia da Orazio Coclite. Nell’iscrizione si può leggere che chi pratica la fortezza non ha niente da temere. Infine, la temperanza (temperantia) è nel De inventione descritta come “il controllo fermo e moderato della ragione sulla lussuria e su altri impulsi impropri”. Si compone di continentia (continenza), clementia (clemenza) e modestia (modestia), valori ai quali corrispondono i personaggi di Scipione l’Africano, di Pericle e di Cincinnato. Nell’iscrizione, la temperanza è identificata come una “dea” che può insegnare il controllo di se stessi.
Secondo il summenzionato Elvio Lunghi, l’idea di interpretare gli affreschi come allusioni alle sette virtù cristiane potrebbe guardare al noto precedente dei dipinti che Sandro Botticelli e Piero del Pollaiolo eseguirono tra il 1469 e il 1470 per il Tribunale della Mercanzia di Firenze, l’istituto che giudicava i reati di carattere commerciale (ci si muove dunque nell’ambito in cui operava anche l’Arte del Cambio di Perugia), oggi tutti conservati agli Uffizi.
E si tratterebbe di un programma pienamente conforme, come ha ben riassunto Stefania Gialdroni nel suo saggio Perugino’s Justice. The Frescoes for the Collegio del Cambio between Legal History, Iconography, and Iconology del 2022, all’ideale di Maturanzio del christianus vir “che deve perseguire virtù sia cardinali che teologali, sulla base del presupposto che il cristianesimo ha mostrato al mondo la vera giustizia e ricostruito la vita umana sui due pilastri fondamentali della pietas e dell’humanitas”.
Secondo Gialdroni, il ciclo trasmette l’idea di giustizia dei banchieri perugini del Quattrocento: non tanto punire i delinquenti, quanto assicurare l’applicazione della legge in modo veloce e sulla base delle consuetudini mercantili e dell’equità. Lo Statuto del Cambio, approvato nel 1377, prevedeva infatti che i giudizi venissero applicati con rapidità, in maniera semplice e senza difficoltà (“summarie, simpliciter et de plano”) e secondo diritto, verità, equità e buone consuetudini (“de iure, veritate et equitate et secundum bonam consuetudinem”).
La figura di Catone era dunque funzionale a invitare i membri del Collegio a “lasciarsi alle spalle le passioni personali per seguire la retta via. Questo”, scrive Gialdroni, “è il messaggio che i mercanti volevano dare, questa è l’immagine del diritto mercantile e della giustizia che volevano proiettare: niente scene violente, niente punizioni, niente riferimenti ai ‘libri della legge’ (cioè allo ius commune), ma piuttosto una sorta di armonia, un invito alla moderazione, o meglio alla ‘temperanza’”.
Si rivolge infine lo sguardo verso l’alto a vedere le raffigurazioni dei sette pianeti, il cui influsso, secondo le credenze del tempo, poteva condizionare le attività umane. Nella raffigurazione dei pianeti, Hiller von Gaertringen, nel suo saggio pubblicato nel catalogo della mostra sul Perugino del cinquecentenario del 2023, ha ipotizzato la possibile presenza del Pinturicchio, che avrebbe collaborato alla realizzazione di queste immagini (e a suo avviso si potrebbe anche ravvisare l’aiuto del giovane Raffaello nel disegno della scena coi profeti e le sibille, che palesano posizioni più variate rispetto a quelle solite del Perugino, e un raggruppamento più denso: nei suoi collaboratori abituali non si riscontrano variazioni così marcate rispetto allo stile del maestro). Ecco dunque il Sole al centro (con il dio Apollo, associato a questo astro), Saturno, Giove e Marte sulla parete di fondo, e Mercurio, la Luna (con la dea Diana) e Venere che invece decorano la parte che sta sopra la finestra. Le divinità che presiedono i pianeti vengono tutte raffigurate su carri trainati da animali, come da una diffusa iconografia. Nelle cornici si dispiega inoltre tutta l’inventiva dell’artista che per gli “altri ornamenti” indicati dal contratto immaginò animali veri e fantastici, mascheroni, motivi vegetali, che tuttavia furono per la più parte eseguiti materialmente dai suoi collaboratori.
Il Perugino aveva terminato il suo lavoro impiegandoci più del tempo previsto, ma riuscì nell’impresa di dipingere uno dei più significativi lavori del Rinascimento, una delle opere che meglio incarnano l’idea umanistica di commistione tra elementi classici ed elementi cristiani, e seppe farlo senza offrire contributi particolarmente originali o novità dirompenti: dalla sua aveva la capacità di dar forma al pensiero più aggiornato del suo tempo con una pittura pacata, serena, elegante (i detrattori direbbero anche “ripetitiva”), tanto nelle figure quanto nel paesaggio, che non sconvolgeva né inquietava la sua clientela ma al contempo si dimostrava in linea con la modernità, grazie alla sua capacità, ha scritto Vittoria Garibaldi, “di trasporre i concetti letterari, umanistici e classici in immagini figurate, armoniche e pacate, fatte di silenzi ritmicamente alternati”.
Per questo un grande studioso come Lionello Venturi definì il Perugino, nel suo volume sugli affreschi del Collegio del Cambio, come “il più tradizionale tra i pittori moderni e il più moderno fra i pittori tradizionali”. Si torna dunque da dove si era partiti: all’autoritratto del pittore. Non è l’immagine di un artista pieno di sé che si autocelebra in un’opera da lui eseguita. Il Perugino, come ha osservato Laura Teza, diventa intanto simbolo del riscatto d’un’intera città, ruolo sostanzialmente inedito per un artista, almeno a Perugia.
Maturanzio, in una sua Oratio in qua laudes et origo Perusiae tractantur, presentava il Perugino “come celeberrimo esempio delle virtù intellettuali e fattive della patria perugina”, scrive Teza, “possibile exemplum per i sopiti ingegni della città, che non vive pienamente la sua grande stagione intellettuale perché inconsapevole del proprio valore”: l’artista diviene così, negli affreschi del Cambio, un “modello di virtù patria, la personificazione di un’arte ritrovata”, e ancora “espressione vivente di quelle virtù di sapienza, di forza, di dominio di sé necessarie all’esercizio del bene pubblico, richiamate all’attenzione di una città distratta”.
Inoltre, l’autoritratto va letto come la testimonianza più evidente dell’apprezzamento che l’Arte del Cambio riservò al ciclo, tanto che gli uditori evidentemente concessero al Perugino, a pitture ultimate, di lasciare la sua effigie, proprio perché erano estremamente soddisfatti di come l’artista aveva portato a termine l’opera. E avevano ragione: poche altre opere di Pietro Vannucci raggiungono i vertici toccati nella Sala delle Udienze. E pochi altri cicli affrescati del tempo riescono a trasmetterci con altrettanta precisione le idee, le conoscenze, le aspettative e le speranze degli uomini del Rinascimento.
* Fonte: Finestre sull’Arte, scritto il 27/05/2023 (ripresa parziale, senza immagini).
ALMANACCO QUOTIDIANO
di Almanacco quotidiano *
Nonostante l’anno di celebrazioni per il settimo centenario dantesco, il nome di Guido Vernani resta ai più sconosciuto. Perfino la sua Rimini sembra esserselo del tutto dimenticato, nel 2021 come del resto da sempre. Eppure Guido Ariminensis, o Vergnani, o Vernano o de Vergnano, fu l’ideologo dei più accaniti avversari del Sommo Poeta. Ma non si trattava di poesia, bensì di politica. E l’idea politica del fiorentino è condensata nel trattato De Monarchia.
La poesia rende immortali, la politica difficilmente ci riesce. Eppure la meravigliosa costruzione poetica di Dante voleva essere innanzi tutto politica e filosofica. Per i contemporanei, almeno i più potenti e istruiti nel latino in cui è scritto, il De Monarchia andava letto con attenzione ancora maggiore della Commedia.
Un’attenzione che per gli avversari politici di Dante si risolse in condanna totale. E fu così che nel 1329 - la data e nemmeno l’episodio hanno il conforto di prove certe, ma sono riferite pochi anni dopo da Bartolo da Sassoferrato e poi da Boccaccio, cui danno credito la maggioranza degli storici odierni - tutte le copie del De Monarchia che si riuscirono a rastrellare furono messe al rogo nella piazza di Bologna. A volere la condanna per heresia, il cardinale Bertrando del Poggetto, nonostante l’Autore, com’è noto, fosse morto già da 8 anni.
Il prelato avrebbe pure tentato di impadronirsi delle ossa di Dante per gettare fra le fiamme anche quelle; non vi riuscì solo per le risolute opposizioni del plenipotenziario di Firenze Pino della Tosa e di Ostasio Da Polenta signore di Ravenna. Oltre duecento dopo, nel 1559, il De Monarchia venne ritenuto ancora così pericoloso da essere inserito dal Sant’Uffizio nel primo Indice dei libri proibiti. Condanna confermata nelle successive edizioni dell’Indice sino alla fine del XIX secolo.
Nel 1329 Bertrand du Poujet, italianizzato in Bertrando del Poggetto, era da 10 anni Legato per la Provincia Romandiolæ (la Romagna più il Bolognese) e la Toscana per conto di papa Giovanni XXII, suo parente e protettore, che stava ad Avignone. Il Cardinal Legato conduceva, anche con le armi, la difficile lotta contro i Ghibellini, che avevano vieppiù rialzato la testa con la calata in Italia dell’imperatore Ludovico il Bavaro. Castruccio Castracani dalla sua Lucca controllava gran parte della Toscana paralizzando le guelfe Firenze e Siena; Visconti di Milano, Scaligeri di Verona e Bonaccolsi di Mantova dilagavano ormai in tutto il nord Italia e minacciavano la stessa Bologna. Qui Bertrando aveva stabilito la sua roccaforte, facendovi anche costruire il sontuoso palazzo-fortezza della Galliera.
Ma la penna ferisce più della spada. Per ribattere efficacemente agli imperiali non bastavano nè guerre nè roghi di manoscritti. Quel Dante che aveva esaltato l’Impero e negato potesse essere sottomesso a un Papa, andava debellato negli stessi campi in cui aveva voluto avventurarsi: giuridico, filosofico, teologico. Tanto più pericoloso in latino, quanto la sua Commedia in volgare lo stava rendendo sempre più popolare. Ed ecco che compare la “De Reprobatione Monarchiae compositae a Dante“. Autore: il frate domenicano Guido Vernano de Arimino.
Luigi Tonini nell’Ottocento rintracciò negli archivi tutte le scarne notizie che lo riguardano. Ipotizza l’orgine del cognome: dalla villa di Vernano, dipendente dalla pieve di Santa Paola di Roncofreddo, castello appartenente al Comune di Rimini sin dal 1197 e alla fine del Duecento a Gianciotto Malatesta. Vernano fa tutt’ora parte della diocesi riminese sebbene sia ricompresa nella provincia di Forlì-Cesena, comune di Sogliano al Rubicone. Nella località, raggiungibile percorrendo la ripidissima via Vernano-Montetiffi che poco a monte di Ponte Rosso lascia il fondovalle dell’Uso e la strada provinciale 88, esiste tuttora una chiesetta risalente al XII secolo dedicata a San Benedetto.
Il primo indizio sul nostro personaggio compare “in Atto del 10 maggio 1293, nel Codice Pandolfesco, fra i possessori adjacenti a certo terreno posto in curia Veruculi v’ha un Guido Vernanus. Se costui non fu un omonimo, potremo dire che il suo ingresso alla Religione fosse posteriore a quell’anno”. In quanto chi prendeva i voti non poteva detenere beni propri quale tal terreno a Verucchio, mentre Guido a un certo punto risulta far parte de’ Predicatori di S. Domenico. I frati mendicanti Domenicani avevano a Rimini il grande convento dedicato a San Cataldo. Una pergamena della Gambalunga datata 31 dicembre 1324 nomina “Fra Guido de Vernano” fra i fedecomissari di una permuta.
Ma la prima prova della sua attività di autorevolissimo predicatore è del 22 settembre 1325. “Quando - dice sempre il Tonini - Guido Rettore della Chiesa di S. Severo di Cesena, Vicario di Giovanni Vescovo di Rimini, pubblicò nella Cattedrale di S. Colomba la Bolla di Papa Giovanni XXII contro Ludovico il Bavaro, e contro Castruccio tiranno di Lucca, Fr. Guido de Vernano Ord. Praedicat. de Arimino vulgarizzavit et vulgariter exposuit dictas litteras Johis. XXII. Così il Garampi trovò notato nell’Archivio segreto Vaticano”. Tocca dunque a lui tradurre dal latino e spiegare al popolo riminese perchè il Papa scomunicava l’Imperatore e il principale capo ghibellino.
Un altro documento è del 7 maggio 1326, quando “in presentia fratris Guidonis Vernani, e di altri Religiosi Domenicani, Girolamo Vescovo di Rimini diede la Bolla per la fondazione del Monastero delle Monache di Santa Catterina fuori Porta S. Andrea”. Ancora, l’8 dicembre del 1329 tale Umizino di Fusolo della contrada di San Cataldo prospicente l’omonimo convento (all’incirca l’attuale via Raffaele Tosi) nel suo testamento lascia un legato di 25 lire a “Fratri Guidoni Vernano pro suis necessitatibus”. L’ultima notizia che lo dà vivente è del 20 gennaio 1344: è “sindaco” di San Cataldo e in quanto tale vende una casa, posta sempre nella contrada omonima, a tale Martino Tommasini per 30 lire di Ravenna.
Fin qui le carte riminesi che parlano del Vernani. Dalle altre risulta lettore nello Studium generale dell’ordine dei frati predicatori in Bologna tra il 1310 e il 1324; nel 1312 consulente per l’inquisitore diocesano presso il convento di San Domenico sempre a Bologna.
Di quanto Guido ha scritto di suo pugno restano tre opere. La prima è un commento alla bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII, quindi un trattato De Potestate summi pontificis del 1327. Sempre in ardente difesa della potestà assoluta del Papa, come si addiceva ai Domenicani allora in fierissima contesa con i Francescani, pure loro frati mendicanti e predicatori, ma schierati con l’Impero. Infine “un libello polemico che riguarda direttamente la fortuna di Dante nel Trecento: il De Reprobatione Monarchiae compositae a Dante, dedicato a Graziolo de’ Bambaglioli”, come annota Pier Giorgio Ricci nell’Enciclopedia Dantesca della Treccani (1970).
Graziolo era un insigne personaggio di Parte Guelfa, primo cancelliere di Bologna e “notaro alle spie” per il Cardinale del Poggetto: il che allora non significava essere il capo dei servizi segreti, ma comandante degli altrettanto preziosi esploratori militari. Scacciato da Bologna il Cardinale nel 1334 appena morto il Papa suo protettore, abbattuto a furor di popolo il forte della Galliera (dove oggi è il parco delle Montagnola), tutti i Bambaglioli furono esiliati e i loro beni confiscati. Quindi non stupisce che Guido dedichi la sua censura anti-dantesca e anti-imperiale a Graziolo, filo-papale quanto lui. Curioso invece che lo stesso Bambaglioli nel 1324, se non prima, sia stato uno dei primissimi a commentare e in termini entusiastici l’Inferno di Dante. Tanto potente fu da subito il fascino di quelle terzine, al di là delle appartenze politiche. Il De Reprobatione si ritiene scritto in contemporanea o subito dopo la condanna cardinalizia, che dovrebbe risalire al 1328.
Appaiono semmai più sconcertanti le considerazioni di storici e filologi italiani moderni sul conto del domenicano riminese. Lo stesso Tonini si rammarica nel constatare che “il nostro Fra Guido con la precisione della dialettica scolastica, sebbene in modo aspro oltre il bisogno, pone a sindacato ciascuna proposizione del Filosofo Poeta”. Addirittura, il già citato Pier Giorgio Ricci nel compilare la voce Vernani, Guido dell’Enciclopedia Dantesca, alla venerabile distanza di sette secoli sente il dovere di confutare lui quel frate medievale, facendo dire all’Alighieri quel che Egli non potè, essendo ormai defunto: “Con linguaggio acerbamente polemico il trattatello si studia di sottolineare i molti errori nei quali sarebbe incorso Dante, tacciato d’ignoranza e di stupidità, bollato come perverso ed eretico”; “Ma D. avrebbe potuto rispondere che il V. gli attribuiva affermazioni che nel testo della Monarchia non esistono, ovvero che male aveva inteso il suo pensiero”; “Ma ancora una volta D. avrebbe potuto rispondere che il V. non aveva inteso bene il suo pensiero”. E come si spiega quell’imbarazzante dedica dell’acerbissimo inquisitore al Bambaglioli, di ferma fede guelfa e tuttavia primigenio e appassionato commentatore dell’Inferno? Non si spiega, ma la solita Enciclopedia Dantesca (Aldo Vallone, 1963) ci tranquillizza: “Un avvenimento che non può lasciare ombre e perplessità sulla devozione del B. per Dante”.
Il che però non rende onore nè alla storia e tantomeno alla grandezza di Dante. Che viene invece colta in pieno in pagine di gran lunga più interessanti, ma scritte fuori dall’Italia. Come quelle di Ernst Hartwig Kantorowicz.
Nato a Poznań nel 1895, ebreo, volontario nella prima guerra mondiale e alla fine del conflitto nei Freikorps dell’ultra-destra in armi contro polacchi e comunisti, autore di una monumentale biografia di Federico II d Svevia, docente all’Università di Francoforte, autosospeso nel 1933 alle prime persecuzioni antisemite di Hitler, emigrato negli USA nel 1939, licenziato dall’università di Berkeley nel 1949 per aver rifiutato di prestare giuramento di anticomunismo, docente a Princeton fino alla morte nel 1963.
Kantorowicz per tutta la vita si interrogò sul potere. Da dove proviene? Nell’agognarlo come nel subirlo, gli uomini come se lo sono spiegato? Perchè riconoscono ad altri un’autorità? Insieme alla biografia dello “stupor mundi” l’altro capolavoro del medievista tedesco è -“I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia poltica medievale” (“The King’s Two Bodies. A Study in Mediaeval Political Theology”, 1957). Tutto il libro tende all’ultimo capitolo: dedicato a Dante. E inevitabilmente al suo antagonista dottrinale più stimolante, Guido Vernani.
Il De Monarchia per essere dato alle stampe in Italia attese la bellezza di quattro secoli. Vigente la condanna dell’Indice, il veneziano Pasquali che stava pubblicando l’opera omnia di Dante osò far gemere i torchi per il trattato anti-papale solo nel 1740 e premunendosi con false indicazioni sul frontespizio: Dantis Aligherii florentini Monarchia, Coloniae Allobrogum, apud Henr. Albert. Gosse & Soc. Il Tonini ci casca e ci informa che, “per essersi pubblicato in Colonia il libro De Monarchia che Dante ebbe scritto a’ tempi di Lodovico Bavaro contro la S. Sede, il P. Tommaso Ricchini Domenicano stimò opportuno la pubblicazione anche di essi”, cioè De Potestate e De Reprobatione di Vernani “i quali per ciò videro la luce per la prima volta in Bologna nel 1746 coi Tipi di S. Tommaso”.
Appena Dante si riaffacciava si rendeva necessario contrattaccare, con il predicatore riminese in testa e sempre partendo da Bologna.
Ma cosa aveva scritto Dante di tanto grave? Nel Purgatorio (XVI, 106) lo condensa così: “Soleva Roma, che l’buon mondo feo/ due soli aver, che l’una e l’altra strada/ facean vedere, e del mondo e di Deo”. E’ la “teoria dei due soli” che ogni liceale conosce e che nel De Monarchia è sviluppata compiutamente. In parole poverissime, papato e impero sono i due soli che illuminano il cammino del genere umano, il primo per condurre al paradiso celeste, il secondo al paradiso terrestre. Le due autorità supreme sono dunque alla pari. Così era nell’impero romano, nel quale Dio scelse di far nascere suo Figlio, fatto uomo quale suddito di Cesare.
Secondo Kantorowicz, “in effetti Dante ebbe una posizione chiave nelle discussioni politiche e intellettuali attorno al 1300 e se superficialmente il suo atteggiamento è stato spesso etichettato come reazionario, è solo la prevalenza dell’idea imperiale nelle sue opere per quanto differente essa fosse da quella dei secoli precedenti ad aver oscurato i caratteri assolutamente non convenzionali delle sue vedute politico-morali”.
Da una parte c’erano i “monisti” teocratici: “il potere del papa deriva da Dio, il potere dell’imperatore da quello del papa”, ovvero il sole è uno solo. Che invece i soli fossero due, che papa e imperatore derivassero entrambi i loro poteri da Dio, erano già in tanti a teorizzarlo fin dall’XII secolo. Con una spiacevole conseguenza per il papa: perchè l’imperatore potessere esercitare il suo potere gli era sufficiente essere eletto, senza bisogno dell’incoronazione pontificia. La pensavano così i “dualisti”. Ma Dante si spinge oltre.
“Due fini, adunque, cui tendere l’ineffabile Provvidenza pose dinanzi all’uomo: vale a dire la beatitudine di questa vita, consistente nell’esplicazione delle proprie facoltà e raffigurata nel paradiso terrestre; e la beatitudine della vita eterna, consistente nel godimento della visione di Dio, cui la virtù propria dell’uomo non può giungere senza il soccorso del lume divino, e adombra nel paradiso terrestre”. (De Monarchia, III, 16.14 sgg e 43 sgg.)
Glossa Kantorowicz: “Dante distingueva tra una perfezione «umana» e una «cristiana», due aspetti profondamente diversi della possibile felicità umana”. Aspetti destinati non a contrapporsi ma a sostenersi. “Gli autonomi diritti della società umana - per quanto dipendente dalla benedizione della Chiesa - erano con tanta forza esaltati che si può veramente dire che Dante ha «bruscamente e completamente mandato in frantumi» la concezione dell’indiscutibile unità tra temporale e spirituale”. “Dante non contrappose humanitas e christianitas, ma separò completamente l’una dall’altra; egli tolse l’«umano» dal campo cristiano e lo isolò come valore autonomo - forse il tributo più originale conseguito da Dante nell’ambito della teologia politica”. In effetti, un terremoto non da poco per un “reazionario”. Semmai qualcosa che anche nei termini odora già di “umanesimo”.
Ma non basta. “La sua humana universitas abbracciava non solo i cristiani o i membri della Chiesa romana, ma era concepita come la comunità universale di tutti gli uomini, cristiani o no. Essere «uomo», e non essere «cristiano», era il criterio per appartenere dalla comunità umana di questo mondo che, per il raggiungimento della pace, giustizia, libertà e concordia universale, doveva essere guidato dall’imperatore-filosofo alla propria autorealizzazione secolare nel paradiso terrestre“. “L’humana civitas di Dante comprendeva tutti gli uomini: gli eroi e i saggi pagani (greci e romani) come il sultano musulmano Saladino e i filosofi musulmani Avicenna e Averroè”
“E Dante, riprendendo un argomento tradizionale, poteva sostenere che il mondo fu nella condizione migliore quando venne guidato dal divo Augusto, che dopo tutto era un imperatore pagano, sotto il cui regno Cristo stesso scelse di farsi uomo e, perciò, cittadino romano“.
Ce n’era abbastanza per chi invece sosteneva che non vi era “nessun legittimo impero fuori dalla Chiesa”. Peggio, nessun imperatore pagano aveva esercitato un potere legittimo. E di qui parte il contrattacco di Guido Vernani: “Fra i pagani non vi fu mai vera res publica nè vero imperatore”, scrive il riminese.
Ancora Kantorowicz: secondo Dante “l’uomo qua uomo non necessitiava dell’assistenza della Chiesa per giungere alla felicità filosofica, alla pace, giustizia, libertà e concordia terrena, che erano alla sua portata grazie all’azione delle quattro virtù intellettuali. Questa idea fondamentale venne ben intesa non solo da contemporanei come Guido Vernani, che appassionatamente vi si oppose, ma anche da quegli esponenti del mondo della cultura che successivamente ripresero, per accoglierle, le posizioni dantesche”.
E qui lo studioso passa brillantemente ad illustrare gli affreschi del Perugino nella Sala dei Cinti Collegio del Cambio di Perugia: magnifico esempio dei postumi frutti danteschi.
Quindi, punto dopo punto, elenca le confutazioni del domenicano. Trovandole assai fondate. Dante si abbevera dal pagano Averroè: “Pur in modo superficiale, il suo avversario Guido Vernani aveva quindi ragione ad etichettare la dottrina filosofica del poeta pessimus error“. “Vernani - giustamente dal punto di vista tradizionale - partiva dall’anima intellectiva, dall’anima intellettuale, presupponendo quindi la tradizionale unità di intelletto e anima”. Anima e intelletto che invece Dante aveva separati.
“Guido Vernani poteva segnare ancora un punto a suo favore concludendo che «il monarca dell’intera razza umana prefigurato da Dante deve di necessità superare in virtù e saggezza l’intera razza umana». Vernani respingeva la tesi di Dante negando possibilità di esistenza ad un essere umano tanto perfetto. Con una riserva, tuttavia; egli affermava infatti che, stando alla stessa teoria dantesca, si poteva di fatto immaginare l’esistenza di un solo essere in cui fosse presente in atto tutta l’umanità: Cristo, l’unico vero monarca del mondo. Le considerazioni di Vernani coglievano nel segno”.
Dunque con quel “trattatello” il domenicano aveva capito benissimo che Dante non era nostalgico del tempo che fu, ma temibilissimo profeta di un futuro da combattere con le forze disponibili.
Ovviamente Kantorowicz sta dalla parte di Dante e lo adora. Proprio per questo riconosce a Vernani il massimo degli onori: quello di essere stato il contemporaneo che meglio ha saputo comprendere il poeta in tutte le sue enormi, sconvolgenti implicazioni. E quindi, in corerenza con le proprie idee, colui che meglio di tutti ha saputo stargli alla pari e controbatterlo.
* Fonte: Chiamamicitta.it, 10 Mag 2023 (ripresa parziale).
FILOLOGIA STORIA E TEOLOGIA-POLITICA: QUALE PROSPETTIVA PER LA CRISTOLOGIA DEL CRISTIANESIMO STORICO?
Quale ricapitolazione, quella antropologica ("ECCE HOMO") o, ancora, quella andrologica ("ECCE VIR")!?
DAI TEMPI DI ENRICO VIII, TOMMASO MORO, E CARLO V, RIPRESA DI UN FILO PER L’INCORONAZIONE DI CARLO III. L’arcivescovo di Westminster pregherà, per la prima volta dopo l’Act of Supremacy del 1534.
"INCORONAZIONE RE CARLO III. SARÀ PRESENTE ANCHE IL CARDINALE NICHOLS:
Il 06 maggio 2023 il Re Carlo III d’Inghilterra sarà incoronato. La cerimonia sarà presieduta da Sua Grazia Justin Welby, Arcivescovo di Canterbury. Come noto, il Re d’Inghilterra è anche il Capo della Chiesa Anglicana. [...]. Al rito di incoronazione prenderanno parte anche S.E.R. il Sig. Cardinale Arcivescovo di Westminster, l’arcivescovo greco-ortodosso di Thyateira e della Gran Bretagna, il moderatore della The Free Churches e il Segretario generale dell’organizzazione ecumenica “Churches Together in England”. Questi, insieme a Justin Welby e a Stephen Cottrell reciteranno anche una preghiera di benedizione.
L’arcivescovo di Westminster, pregherà, per la prima volta dopo l’Act of Supremacy del 3 novembre 1534, sul Re dicendo:
“Dio riversi su di voi le ricchezze della sua grazia, vi custodisca nel suo santo timore, prepararvi a un’eternità felice e vi accolga all’ultimo nella gloria immortale”.
A presiedere la cerimonia, però, sarà Sua Grazia Justin Welby, massima autorità spirituale della Anglicana Ecclesia (...)" ("Silere non possum", 30 aprile 2023 ).
ATTO DI SUPREMAZIA: La legge del Parlamento inglese (1534) con la quale il re Enrico VIII fu proclamato #capo #supremo della #Chiesa d’#Inghilterra, e assunse quindi tutti i poteri giuridici del #papa." (Treccani)
GIORNATA DELLA TERRA (2023), MESSAGGIO EVANGELICO E #CONCILIO DI #NICEA (325-2025): #ANTROPOLOGIA, #TEOLOGIA, E #STORIA. Una nota a margine del documento del Centro Orientamento Pastorale (*)
(*)
GIORNATA DELLA TERRA (2023) E MESSAGGIO EVANGELICO (2025).
Pastorale “generativa”? Certissimamente un paradigma interessante per la missione della Chiesa... Ma ad esso, unitamente allo spirito dei profeti, non manca anche e ancora lo spirito delle profetesse, delle sibille!? Non è bene, forse, ri-andare nella Cappella Sistina, guardare in alto, ri-meditare le indicazioni di Michelangelo, e ri-vedere e ri-pensare il “Tondo Doni”, con la sua cornice? Non è bene, dopo 1700 anni da Nicea 325, arrivare al 2025 rinnovando il paradigma e ri-diventare finalmente “bambini”, semplicemente esseri umani, cristiani adulti? Se non ora, quando? (Federico La Sala)
P. S. #COMENASCONOIBAMBINI E #FILOSOFIA (ENZO PACI, "SCUOLA DI MILANO") : "TONDO DONI". #Attenzione - Nella #cornice, è detto che sono"raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti" (Galleria degli Uffizi), ma, per Michelangelo, non sono due profeti e due sibille?!
STORIA E LETTERATURA, FILOLOGIA, E STORIOGRAFIA:
SISTO IV DELLA ROVERE (1471-1484), IL PAPA DELLA CAPPELLA SISTINA (1475 -1481), LA "CONFRATERNITA DELLA CONCEZIONE" DI MILANO E LEONARDO DA VINCI (1483). APPUNTI INTORNO A "IL SORRISO DI CATERINA" (CARLO VECCE):
A) "Leonardo a Milano, in un luogo segreto: la chiesa di S. Francesco Grande: [...] Nel 1477, in seguito all’istituzione della festa dell’Immacolata Concezione da parte del papa Sisto IV, viene dedicata qui una cappella [...], sotto la tutela della Confraternita della Concezione. E qui avviene la svolta per cui è ancora ricordata la chiesa che non c’è più. Leonardo da Vinci infatti, nel 1483 viene invitato a dipingere per questo luogo la tavola con la Vergine delle Rocce. [...]".
B) "[...] A Milano, dietro Sant’Ambrogio, nei lavori per la nuova sede dell’Università Cattolica, sta ricomparendo la cappella dell’Immacolata Concezione, quella della Vergine delle rocce dipinta da Leonardo: tornano alla luce il muro vicino all’altare, il pavimento della cripta, i frammenti del cielo stellato dipinto sulla volta dagli Zavattari. Confusi tra loro, resti umani di antiche sepolture. Forse anche quelli di Caterina, morta a Milano tra le braccia di suo figlio nel 1494, e sepolta in quello stesso luogo. "(Maria Pirro, «La madre di Leonardo da Vinci? Schiava, esule nel Mediterraneo», Il Mattino, 14.03.2023).
C) "La Vergine delle Rocce. La prima versione della Vergine delle Rocce è un dipinto a olio su tavola trasportato su tela (198x123 cm) [...], databile al 1483-1486 e conservato nel Musée du Louvre di Parigi, mentre la seconda versione è conservata alla National Gallery di Londra(...)".
La madre di Leonardo era schiava e straniera, del Caucaso. Trovato un documento che lo conferma
di Costanzo Gatta (Stile Arte, 14 Marzo 2023)
Un documento trovato nell’archivio di Stato di Firenze da parte del professor Carlo Vecce dell’Università di Napoli conferma le origini straniere di Caterina, la madre di Leonardo. La donna era una circassa, di origini Caucasiche, che fu portata a Firenze da un uomo di nome Donato. Il suo lungo viaggio, prima di arrivare alla capitale fiorentina, la portò, in stato di schiavitù, prima sul mare di Azov, in Russia, poi a Bisanzio, quindi a Venezia. Successivamente, Caterina fu acquistata dalla famiglia Da Vinci.
Il documento ritrovato riguarda un atto di affrancamento dalla servitù, emesso da Piero da Vinci, padre di Leonardo e compagno transitorio della donna. La rinunzia a Caterina come a un “oggetto di proprietà” avvenne sei mesi dopo la nascita del grande artista. Il ritrovamento conferma ciò che già indicavano le indagini sulle impronti digitali di Leonardo stesso, condotte nel passato. riproponiamo ora un’importante intervista.
di Costanzo Gatta
All’Università di Chieti, dopo anni di ricerche su oltre 200 impronte lasciate su 52 fogli leonardeschi è stata ricostruita, con sofisticate tecniche dattiloscopiche, l’impronta di un polpastrello del genio di Vinci, forse l’indice della mano sinistra. Il dermatoglifo rivela caratteristiche arabe, la struttura risulta tipica in due terzi della popolazione, per l’esattezza il 65%.
Stile aveva pubblicato in proposito due ampi servizi nel dicembre 2004, quando le ricerche erano agli inizi. “La trama dei polpastrelli - scrivevamo allora - avrebbe una tipologia orientale; ciò potrebbe confermare che la madre del pittore fosse una schiava venuta da lontano”.
Sangue mediorientale nelle vene di Caterina, madre di Leonardo? Da un pezzo lo si diceva, senza dar eccessivo credito alla storia. Ora c’è un motivo in più per tornare a parlare delle origini orientali di quella donna: non una contadinotta della campagna toscana ma una giovane levantina che avrebbe avuto una relazione con ser Pietro, il padre del futuro genio da Vinci.
Già molti anni fa si diceva che la mamma fosse una delle tante schiave che nel ’400 erano state portate a lavorare in Toscana: una poveraccia senza alcun diritto, senza un patronimico, forse appena convertita. Una serva chiamata come mille altre: Catharina. Uno studioso toscano aveva frugato negli archivi per cercare contratti d’acquisto di schiavi. Voleva raccapezzarsi in questo mistero. Aveva ripercorso i vari flussi migratori ipotizzando che la donna fosse ebrea, circassa, araba. A quei tempi i risultati furono negativi.
E così, ai tanti misteri della vita di Leonardo, si aggiunse anche questo della madre, la povera Caterina, con la quale il donnaiolo ser Pietro faceva bellamente all’amore, nonostante stesse per portare all’altare Albiera, figlia dell’Amadori, notaio.
La storia - prima della scoperta del 2023 - dice poco. Si sa solo che quando la serva fu mandata - secondo il costume dei paesi sulle colline toscane - a sgravarsi nel casale che ancora oggi esiste, era l’aprile del 1452. Una camera dal soffitto basso con pagliericcio, attaccata alla cucina col camino, poche nicchie nel muro per riporvi ramaiole, caldaie e il pennato: qui la giovane Catharina attese, assieme alla levatrice, che si rompessero le acque. Non era misteriosa la relazione del giovane ser Pietro, uno dei tanti borghesi di Vinci, la cui casata sfornava rampolli notabili che alternativamente venivano avviati alla carriera legale o alla vita ecclesiastica.
Per i casi della vita la nascita del genio venne messa - nero su bianco - da Antonio, il nonno. “Nachue (nacque) un mio nipote, figliuolo di ser Piero mio figliuolo, a dì 15 d’aprile (1452) in sabato a ore 3 di notte. Ebbe nome Lionardo...”. Il resto si può immaginare: quattro soldi di dote per mandar via Caterina contenta e poi il battesimo, senza nemmeno la mamma. Lo sappiamo ancora dal nonno, che ebbe a registrare con precisione i presenti attorno a quel fonte di pietra, tuttora intatto. “Battizzollo Piero di Bartolomeo da Vinci, in presenza di Papino di Nanni, Meo di Torino, Pier di Malvolto, Monna Lisa di Domenico di Brettone”. Insomma c’erano tutti: prete, testimoni e intimi. Mancava Caterina, che ritroveremo poi sposata a tale Antonio del Vacha, detto Accattabriga, soprannome che non prometteva nulla di buono. In gioventù doveva essere stato un soldataccio di ventura.
Nelle note del catasto di Vinci per l’anno 1457 si trova che nonno Antonio, di 85 anni, abitava nel popolo di Santa Croce, era marito di Lucia, di anni 64, e aveva per figli Francesco e Piero, d’anni 30, sposato ad Albiera, ventunenne. Convivente con loro era “Lionardo figliuolo di detto ser Piero non legiptimo nato di lui e della Chatarina, al presente donna d’Achattabriga di Piero del Vacca da Vinci, d’anni 5”. Albiera non poteva avere figli e Piero aveva accolto in casa l’illegittimo. Intanto Caterina lavorava con il marito un piccolo appezzamento di proprietà e i campi delle suore del convento di San Pier Martire. Nonno Antonio morì novantaseienne, nel 1468, e negli atti catastali di Vinci Leonardo, che ha diciassette anni, risulta suo erede insieme con nonna Lucia, il padre Piero, la matrigna e gli zii Francesco e Alessandra. L’anno dopo, la famiglia del padre, divenuto notaio della Signoria fiorentina, e quella del fratello Francesco, che era iscritto nell’Arte della seta, erano in una casa di Firenze, abbattuta già nel Cinquecento, nell’attuale via dei Gondi.
Madonna Litta Dell’Accattabriga si hanno invece notizie da un verbale di citazione durante un processo alla Curia vescovile di Pistoia. La data è il 26 settembre 1470, dopo i disordini verificatisi all’inizio del mese nella pieve di Santa Maria di Massa Piscatoria, nella palude di Fucecchio. Alcune persone, armate di lancia, capeggiate da due preti (uno della diocesi di Lucca, l’altro sotto la potestà del vescovo di Firenze) avevano disturbato la celebrazione durante la festa in onore della Madonna e interrotto la Messa. Antonio fu chiamato a testimoniare ma non si presentò.
Di Caterina si sa che fu donna prolifica, e da Accattabriga ebbe sicuramente almeno quattro femmine e un maschio. Rimasta sempre lontana da Leonardo, si ricongiungerà al figlio - pare certo - nel 1493 a Milano. E in una casa di Porta Vercellina, nel territorio della parrocchia dei Santi Nabore e Felice, morirà il 26 giugno 1494, dopo lunga malattia. Per le cure prima e poi per i funerali, Leonardo annotò le spese (eccessive per una servente, non certo per una madre): “Quattro chierici, cinque sotterratori, un medico, le candele...”. Oggi Caterina ritorna in scena. A parlarci di lei sono le impronte digitali del figlio, quei polpastrelli che hanno creato uno sfumato magico, inimitabile. Evocano la donna, quelle ditate rimaste fra il cielo e il fogliame che fa da sfondo al ritratto di Ginevra Benci o su un disegno della Battaglia di Anghiari, fra i capelli di Cecilia Gallerani o sulle pagine dei Codici voltate con mani sporche.
Gli studi sulle impronte di Leonardo sono stati illustrati da Luigi Capasso, direttore dell’Istituto di antropologia e del Museo di storia delle scienze biomediche dell’Università di Chieti e Pescara, e da Alessandro Vezzosi, direttore del Museo Ideale di Vinci.
STORIA E LETTERATURA, FILOLOGIA, E STORIOGRAFIA:
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E INFERNO EPISTEMOLOGICO.
LEONARDO, IL RINASCIMENTO E IL CODICE DA VINCI. Una nota del 30 marzo 2005:
"[...] Perché del “ Codice da Vinci”, di un’opera “tra realtà e fiction”, non tentiamo finalmente di spiegare le ragioni profonde del successo invece di ripetere quanto molti (in modo molto conformistico vanno ripetendo da tempo) hanno già detto? Perché il “ Codice da Vinci” è considerato allo stesso modo dell’opera di Salman Rushdie, Versetti Satanici? E perché in Libano è stata pronunciata una fatwa contro l’autore, Dan Brown?
La ragione principale, a mio parere, sta nel filo della storia d’amore che è sotteso a tutto il racconto e nei problemi che ad esso sono collegati. Una citazione (tanto) per cominciare:
Questo è il problema dei problemi - un tema, se si riflette bene, molto prossimo a quello affrontato nel Cantico dei Cantici. Leggere per credere - e credere per leggere! E allora cerchiamo di essere onesti con noi stessi (prima, leggiamo l’opera) e (poi, facciamo i ‘conti’) con lo stesso autoree il suo lavoro: vediamo quali sono i temi e il tema centrale del romanzo-thriller... e così forse possiamo capire un po’ di più le ragioni del suo planetario successo e un po’ di più anche il senso della cronaca (cfr. Anais Ginori, “Le donne imam cambieranno l’islam”. Una giornalista dietro lo “scisma” Usa: La Repubblica, 27.03.2005, p. 15) del nostro stesso tempo!!!
Non accodiamoci alle varie gerarchie: “Sàpere aude!” - cerchiamo di avere il coraggio di usare la nostra personale intelligenza e di co-noscere e di co-nascere.... finalmente, al di là delle fantasie e delle cecità teo-biologistiche e teo-razziste di una dis-umanità, zoppicante e moribonda." (Il "Codice da Vinci", come i “Versetti Satanici”. Due opere da leggere, che danno (tanto) da pensare!, "il dialogo, 30 marzo 2005).
#Earthrise #Metaphysics #Anthropology #Theology #Cosmology #Eleusis2023 #Roma2024
EUROPA, FILOSOFIA, ED ELEUSIS 2023:
METAPHYSICS ANTHROPOLOGY PSYCHOANALYS: APRIRE GLI OCCHI SUL SOCRATICO AMORE "CONVIVIALE" (EROS = CUPIDO), SUL DESIDERIO CIECO E VIOLENTO, E PORTARSI CON FREUD, FUORI DAL DISAGIO NELLA CIVILTA’, OLTRE LO STADIO DELLO SPECCHIO DEL TRAGICO PLATONISMO E PAOLINISMO ...
"SAPERE AUDE!". RICORDANDO, CON IL VENOSINO ORAZIO, LE INDICAZIONI DI KANT sul "coraggio di servirsi della propria intelligenza" e sulla necessità di reinterrogarsi sull’intero sapere, ripartendo dalla antropologia, dalla questione antropologica, forse, è il tempo opportuno uscire dal profondissimo letargo (Dante contava XXV secoli di sonno dogmatico) e re-interrogarsi non solo su "come nascono i sogni" e su "come nascono le idee", ma anche, e innanzitutto, come nascono i bambini, e soprattutto non continuare a ripetere vecchi e tragici ritornelli sull’amore di Platone: è una questione di filologia e di teologia-politica (Lorenzo Valla, "La falsa Donazione di Costantino", 1440).
"IL CREPUSCOLO DEGLI IDOLI" (NIETZSCHE). LA ’RISPOSTA’ DI DIOTIMA A SOCRATE: "Caro Socrate, tu sei come Eros - figlio di Ingegno (a sua voìta figlio di Metis. I’intelligenza astuta) e di Povertà - un perfetto #filosofo, perché non sei sapiente come gli dèi né del tutto ignorante come i comuni mortali: sei solo consapevole della tua ignoranza, ma tu sei cieco, cieco e brutto come un ... ciclope. Tu sai che non sai amare e vai in cerca di chi sa amare. Ma tu, caro Socrate. non capisci proprio nulla, né degli uornini, né delle donne. e neppure degli dei: tu sei solo cupìdo (un cieco saettante, avido e vioÌento). Come la rìsposta della Pizia, così la risposta di Diotima: eglì non capisce e va avanti ... a costringere chi ’solo il dio sa’ deve partorire. [...]" (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Roma 1991, p. 184).
CADUTA NELLA CAVERNA PLATONICA E COSMOTEANDRIA. Se non ci si sveglia e si continua a contrabbandare l’andrologia tragica di Socrate e Platone per antropologia e, dall’alto della "dotta ignoranza" (Niccolò Cusano,1440) dell’anatomia e della medicina, si spaccia #Vir per #Homo, dove si pensa di andare, se non all’inferno?!
ANATOMIA, ANTROPOLOGIA, E STORIOGRAFIA. Se si vuole ricominciare umana-mente e riprendere il cammino della rivoluzione copernicana e scientifica, bisogna ripartire quantomeno dalla sapienza di Michelangelo (riprendere il cammIno dei profeti e delle sibille del #TondoDoni, rilanciato alla grande nella narrazione della Volta della Cappella Sistina) e, poi, proseguire seguendo le lezioni di anatomia e di medicina di Realdo Colombo e, infine, leggendo il capitolo 15 del Libro III dell’ Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato “De Testicoli della Donna” (p. 91).
MEMORIA E STORIA DI LUNGA DURATA. APPUNTI SU PROBLEMI DI PATRIMONIO CULTURALE, ARTE, E ANTROPOLOGIA
A) SPAGNA: A 700 ANNI DALLA MORTE DI D. GONZALO RUIZ DI TOLEDO, "SEÑOR DE ORGAZ (1323-2023)", UNA BUONA OCCASIONE PER RI-ANALIZZARE L’OPERA DI "EL GRECO" ("LA SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ", TOLEDO 1586 -1588) ... E PER RIMEDITARE LO STRAORDINARIO IMPEGNO RIFORMATORE (CARICO DI TEORIA E DI FUTURO) DI TERESA D’AVILA (1515-1582).
B) TERESADAVILA (Avila 1515 - Alba de Tormes 1582): "[...] Teresa (Teresa Sánchez de Cepeda Ávila y Ahumada) nasce in una famiglia ricca; il padre era figlio di un ebreo convertito - dunque tTeresa fu di origini ebree. La madre trasmette alla figlia l’amore per i romanzi cavallereschi, ma muore quando Teresa ha solo 13 anni.
Diventa una donna determinata, affascinante e trascinatrice, estrema nelle sue scelte e insieme capace di amministrare i monasteri e di trattare con diplomazia coi grandi dell’epoca. Da ragazza convince il fratello a fuggire per andare a combattere contro gli infedeli. Sempre col fratello scrive un romanzo cavalleresco; manifesta, insomma, subito due grandi amori della sua vita: la fede e la scrittura.
È l’epoca della grande crisi della Chiesa, che all’apice della propria magnificenza è percorsa da profonde inquietudini, divisa dalla predicazione di #Lutero e Juan de Valdés, una ferita profonda e interna. Teresa ha trent’anni all’epoca del Concilio di Trento (1545-1563), tappa di quella “rifondazione” della chiesa cattolica, che si impegna tanto nella guida delle anime, con la fondazione di nuovi ordini religiosi e la promozione di una rinnovata austerità e spiritualità, quanto nel controllo delle stesse, imponendo nuove e più severe regole monastiche e potenziando i tribunali dell’#Inquisizione. In in Spagna in particolare, dopo il culmine della potenza raggiunto sotto il regno di Carlo V (1500-1558), suo figlio Filippo II (1527-1598) si fa paladino della ortodossia cattolica. [...]" (Cfr. Maria Rosa Panté, "Teresa d’Avila", Enciclopedia delle donne)
C) CARMELITANI SCALZI: L’ULTIMA LEZIONE DI TERESA D’AVILA. A CONTURSI TERME, IN PROVINCIA DI SALERNO, NELLA TERRA DEL "PRINCIPE DI EBOLI" (Rui Gomes da Silva), L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE (IN STATO DI PROGRESSIVO DEGRADO).
D) QUESTIONE ANTROPOLOGICA E PSICOANALISI: LA STORIA NON LA FANNO SOLO I PROFETI, MA ANCHE LE SIBILLE. Ricordando che l’interpretazione del messaggio evangelico di Teresa d’Avila è connessa alle "Meditazioni sul Cantico dei cantici" (e non all’androcentrismo della lettura paolina), ed è molto prossima a quella di Michelangelo Buonarroti e al suo "Tondo Doni" (e al suo Mosè), sollecita anche a riproblematizzare (Julia Kristeva, "Teresa, mon amour", 2009) il rapporto tra Freud e Lacan ("Encore", 1972-1973) ) e, infine, a portarsi oltre la logica del "superuomo" del cattolicesimo costantiniano!
ARTE STORIA E STORIOGRAFIA:
NELL’EUROPA DEL XVI SECOLO, DOPO LA RIFORMA PROTESTANTE (1517), IL CONCILIO DI TRENTO (1545-1563) E LA BATTAGLIA DI LEPANTO (1571), UNA ALLEANZA "CATTOLICISSIMA" TRA ALTARE E TRONO:
a) FILIPPO II, ALLA VIGILIA DELL’ATTACCO ALL’INGHILTERRA, VIENE "IMMORTALATO" NELLA CERIMONIA FUNEBRE DELLA ARTISTICA CELEBRAZIONE DELLA "SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ" DA EL GRECO (TOLEDO 1586-1588).
b) QUADRO INGLESE DELLA CELEBRAZIONE DELLA DISFATTA DELLA FLOTTA SPAGNOLA NEL1588. "Il cosiddetto Ritratto dell’Armada, dipinto dopo il 1588 per commemorare la disfatta dell’Invincibile Armata. Elisabetta tiene la mano sul globo, simbolo di autorità, mentre sullo sfondo è raffigurato l’evento."
EUROPA 2023: ARTE, STORIA, ANTROPOLOGIA.
A 700 ANNI DALLA MORTE DI D. GONZALO RUIZ DI TOLEDO, "SEÑOR DE ORGAZ (1323-2023)", UNA BUONA OCCASIONE PER RI-ANALIZZARE E RI-PENSARE L’OPERA DI "EL GRECO": "LA SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ" (1586-1588)... E ANCHE IL NASCERE (IN TERRA) E IL RINASCERE (IN TERRA E IN CIELO) - OGGI
NELLA SPAGNA DI FILIPPO II, IN UNA EUROPA, SEGNATA GIA’ DALLA RIFORMA PROTESTANTE (WITTENBERG, 1517), DALLA RIVOLUZIONE DEI "CORPI TERRESTRI" IN ANATOMIA (Realdo Colombo, amico di Michelangelo Buonarroti e professore alla Sapienza, 1448; Andrea Vesalio, medico di Carlo V prima e di Filippo II poi, 1553; e Juan Valverde de Hamusco, medico del cardinale Giovanni di Toledo, 1556/1560) E DEI "CORPI CELESTI" IN ASTRONOMIA (Niccolò Copernico, "De revolutionibus orbium coelestium,1543), E, DOPO I LAVORI DEL CONCILIO DI TRENTO (1545-1563), E DOPO GLI ANNI DELLO STRAORDINARIO IMPEGNO RIFORMATORE DI #TERESADAVILA (1515-1582), A TOLEDO, NEGLI ANNI 1586-1588, L’ARTISTA DOMENICO THEOTOKOPULOS, DETTO "EL GRECO", PORTA A COMPIMENTO IL SUO CAPOLAVORO.
#QUESTIONEANTROPOLOGICA (#FILOLOGIA E #CRISTOLOGIA ): SHAKESPEARE E NIETZSCHE.
La grande eroica ricerca di #Nietzsche è stata quella di rispondere alla domanda già di #Shakespeare , alla #question di Amleto, e portare il discorso oltre #Wittenberg (la #RiformaProtestante ), e chiarirsi e chiarire le idee relative all’ #essere degli esseri umani, figli e figlie del "#Re dei Re", di "Dio", e di andare oltre la tragica #logica del "sapere di non sapere" platonica, del #mentitore, e dell’ #adulterio e dell’#incesto ("Così parlò #Zarathustra ", parte IV). Egli, a mio parere, ha aperto la strada e dato indicazioni per sciogliere il nodo e non nella direzione del #supeuomo cosmoteandrico (cfr. Federico La Sala , "La #menteaccogliente. Tracce per una #svolta_antropologica ", Roma 1991).
#ANTROPOLOGIA O #ANDROLOGIA? #Gesù, chi era? Quello del "parto maschio del tempo" di san #Paolo e #Costantino (e #Bacone ), o quello del tempo di san #Francesco ("Cantico delle #Creature " o "Cantico di Frate #Sole ") e #DanteAlighieri ("l’amor che muove il sole e le altre stelle") e di ogni #essereumano nato di donna e di uomo nel pianeta Terra?
ANTROPOLOGIA, CONOSCENZA, E RINASCITA (OMAGGIO AD ELEUSI, CAPITALE EUROPEA DELLA CULTURA 2023).
IL FILO DI M-ARIANNA...
“Come un uomo potrebbe sapere che cosa sia una donna? La vita della donna è totalmente differente da quella degli uomini. Dio ha fatto così. L’uomo è sempre lo stesso sin dalla sua circoncisione fino alla sua vecchiaia. Egli è il medesimo prima del suo primo incontro con una donna e dopo. Il giorno in cui una donna conosce per la prima volta l’amore, spezza la sua vita in due. Quel giorno, essa diventa un’altra. L’uomo, dopo il suo primo amore, rimane quello che era prima. La donna, dopo il giorno del suo primo amore, è un’altra. E così rimane per tutta la vita. L’uomo passa la notte insieme con una donna e passa via. La sua vita e il suo corpo restano sempre gli stessi. La donna concepisce. Quale madre, essa è un’altra che la donna senza figli. Essa, innanzi tutto, porta per nove mesi nel proprio corpo le conseguenze di quella notte. Nella sua vita cresce qualcosa che non ne scomparirà più. Essa, infatti, è madre. Essa è e rimane madre anche se suo figlio, anche se tutti i suoi figli muoiono. Perché essa ha portato il bambino sotto il cuore. Dopo però, quando il bambino è già nato, lo porta entro il cuore. E dal cuore egli non uscirà più. Nemmeno quando sarà morto. Tutto questo l’uomo non lo conosce; egli non ne sa niente.
“Egli ignora la differenza che passa fra il tempo prima dell’amore e quello dopo l’amore, fra quello prima della maternità e quello dopo la maternità. Egli non può sapere niente. Soltanto una donna può sapere questo e parlare di questo. È perciò che noi non permettiamo nemmeno che i nostri mariti intervengano con le loro parole nelle nostre faccende. La donna può fare una sola cosa. Essa può stare attenta a sé. Essa può comportarsi decentemente. Essa deve essere sempre come è la sua natura. Essa deve sempre essere fanciulla o essere madre. Prima di ogni amore essa è fanciulla, dopo ogni amore essa è madre. Da questo puoi vedere se essa è una buona donna".
"Queste parole di una nobile donna abissina, riportate dal Frobenius in uno dei suoi più bei libri, Der Kopf als Schicksal , siano messe qui a titolo di motto, per preparare e confermare ciò che verrà esposto nello studio su Kore. Esse siano qui anche in ricordo di quel grande uomo, la cui opera di vita stimola lo studioso delle civiltà e delle mitologie a proseguirla e lo spinge a prendere posizione di fonte ad essa”.
* Cfr. CARL GUSTAV JUNG, KÁROLY KERÉNYI, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Bollati Boringhieri.
Maria “faccendiera del Paradiso” per una Chiesa sinodale
Un commento dei teologi Scarafoni e Rizzo
di PAOLO SCARAFONI E FILOMENA RIZZO (La Stampa, 06 Dicembre 2022)
Nel giorno dell’Immacolata prendiamo spunto dal bel contributo del compianto padre Stefano De Fiores, «L’immagine di Maria dal Concilio di Trento al Vaticano II (1563-1965)», dove si racconta Maria nelle pieghe della storia. La scoperta dell’America aveva spinto gli sguardi sulle terre emerse oltre i confini convenzionali. Durante il periodo barocco, a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, grazie a Galileo l’universo diventa più grande. Gli orizzonti si dilatano. Tutto acquisisce termini superlativi, anche nell’arte e nella spiritualità. Nel mondo cattolico Maria è qualificata con aggettivi che le attribuiscono una esaltazione spettacolare: trionfo, regalità, eminenza, e soprattutto privilegio. Sembra un’eresia chiamarla «sorella» e «serva» come fanno i carmelitani, avversati da autori come De Bérulle e Bellarmino che ritengono che la Madre di Dio superi in dignità e grazia tutte le creature in un ordine a parte tra Cristo e la Chiesa, fra il cielo e la terra. De Convelt la pone al di sopra dei Serafini, il cui amore «paragonato all’amore della Vergine non è amore infiammato, ma appare cenere e fuoco spento». C’è chi la chiama «un Dio creato; un finito infinito; un’onnipotente debolezza... Dio increaturito o creatura deificata». È il famoso padre Mostro, il domenicano Niccolò Riccardi, chiamato così per l’eccezionale obesità o per la grande eloquenza o forse per l’incredibile memoria. Viene ripresa la dottrina di San Bernardo sulla mediazione universale delle grazie da parte di Maria, in quanto «Cristo consegna a sua madre ogni grazia da distribuire agli altri».
Le immagini mariane acquistano un valore determinante. I gesuiti se ne fanno promotori. Francesco Borgia, il terzo generale della Compagnia, in una famosa sentenza, paragona le immagini alle spezie di un pasto, ovvero ciò che può stimolare il gusto. L’icona da lui preferita è quella presente nella Chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma, la Madonna Salus Populi Romani, che si riteneva dipinta da san Luca. Le sue accorate omelie mariane ottengono da Pio V il permesso di eseguirne una copia con uno stile leggermente diverso, sotto la supervisione di San Carlo Borromeo. Da quella poi ne vengono dipinte tante altre e inviate nei luoghi di missione, dal Brasile alla Persia.
Il trionfo di Maria non è oscurato dalla dea ragione nel secolo dei lumi. Lodovico Antonio Muratori, prete modenese, storico e letterato, invita a purificare, con buone intenzioni, le forme religiose popolari dalla superstizione pagana, e a far comprendere che non si possono mettere in competizione le varie immagini della Madonna, e che bisogna avere più fiducia nella messa che negli scapolari e nelle medaglie. Il suo sforzo non è accolto perché non nasce dalla coscienza comunitaria, ma dal mondo accademico.
Proprio durante l’Illuminismo si consolida la devozione del mese mariano, adottata immediatamente dal popolo perché legata al ciclo delle stagioni. Al primo trattato di mariologia risalente a Placido Nigido all’inizio del seicento, ne seguono ora altri: tra i più importanti quello di San Luigi Grignon de Monfort e quello di Sant’Alfonso Maria de Liguori. Per Monfort, Maria è lo «stampo di Dio, forma Dei», una madre viva e dinamica nella storia. La Vergine si trova nella categoria teologica della «relazione». Per lui è cristocentrica, e invita a correggere le espressioni tipiche del tempo: è meglio dire di essere «schiavi di Gesù attraverso Maria o in Maria», più che «schiavi di Maria». Sant’Alfonso sviluppa la teologia narrativa e orante, valorizzando il sensus fidelium per l’Immacolata Concezione. Maria «è la faccendiera del Paradiso, che continuamente sta in faccende di misericordia impetrando grazie a tutti, ai giusti e peccatori».
L’ancien régime, per sostenere la «restaurazione», rifiuta gli ideali rivoluzionari, specialmente la libertà e l’uguaglianza e ripropone le prerogative aristocratiche. Utilizza la figura di Maria. Il suo splendore mette in risalto la sua condizione eccezionale e i suoi privilegi. Ma Maria appartiene sempre al popolo, è il suo tesoro. Pio IX l’8 dicembre del 1854 definisce il dogma dell’Immacolata non tanto in favore dei privilegi aristocratici, ma piuttosto in sintonia con il sensus fidelium.
L’Italia barocca esalta Maria, la Francia dei lumi non riesce a offuscarla né la restaurazione a strumentalizzarla. L’Inghilterra romantica dipana il travaglio mariologico tra una devozione sana e una artificiale, grazie agli studi storici e patristici di San John Henry Newman, che attraverso il suo metodo peculiare si avvicina al sentire autentico della fede del popolo di Dio maturata nel tempo: «nella devozione cristiana si sono aperte due grandi correnti lungo i secoli: una centrata sul Figlio di Maria, l’altra sulla Madre di Gesù... non è necessario che l’una oscuri l’altra». Il popolo di Dio non ha mai visto Maria rivale, ma ministra del suo Figlio. Più ami Maria più ami Gesù.
Con il Concilio Vaticano II si pone fine a tutti gli iconoclasti e i mariolatri che falsano la figura della Madre di Dio. La mariologia è inserita nel cuore dell’ecclesiologia, esaltando il nesso tra la beata Vergine e il mistero della Chiesa. Lumen Gentium 53, in chiave antropologica, dichiara di lei che è la più vicina agli uomini perché è la più vicina a Dio, a Gesù Cristo: «Redenta in modo eminente in vista dei meriti del Figlio suo e a lui unita da uno stretto e indissolubile vincolo... quale discendente di Adamo, è congiunta con tutti gli uomini bisognosi di salvezza». L’unicità di Maria non la separa da noi. La sua eminenza è compresa come compenetrazione con il Figlio divino, e servizio nella missione agli altri.
Papa Francesco non nasconde il suo amore per Maria. È bello vederlo pregare davanti alla Salus populi romani, prima di partire e al ritorno dai suoi viaggi, per invocare il suo aiuto, affidarsi a lei e ringraziarla. L’identità sinodale della Chiesa richiede una riflessione teologica e antropologica sul ruolo della Madre di Dio. La sua presenza nelle comunità non soltanto ci invita a custodire, ma anche a continuare il cammino attraverso nuovi «cantieri». Ella è il modello di apertura, l’aurora che ci stimola alla «ri-recezione» della fede nel cambio epocale, «la faccendiera» che dal Paradiso ci aiuta a non aver timore di attualizzare e rendere più autentico il modo di vivere il Vangelo al servizio dell’umanità sofferente, per il Regno di Dio.
FILOLOGIA, STORIA, E INTERPRETAZIONE DEI SOGNI (E DEI SEGNI):
LA CADUTA DI COSTANTINOPOLI (1453), IL "DE PACE FIDEI" DI NICCOLO’ CUSANO (1453), E LA "MADONNA SALTING" DI ANTONELLO DA MESSINA (1460).
Un segnavia per "arrivare" a Eleusis nel prossimo 2023.
ARTE E SOCIETÀ: LA MADONNA SALTING. A mio parere, l’influenza maggiore sulla produzione della "Madonna #Salting" di Antonello da Messina appare decisamente essere di scuola fiamminga. Tuttavia, essendo Antonello originario di Messina, forse, è da riguardare con particolare attenzione il senso simbolico della melagrana già aperta in mano al Bambino e, insieme, del cinturino annodato intorno al corpo del Figlio con i due fiocchetti (due piccole "#melagrana"), messi in una zona di chiara evidenza, che rimandano decisamente ai frutti del melograno in via di maturazione e alla fecondità della Madre, tutta vestita e "punteggiata" da infiniti "chicchi".
IPOTESI: QUESTIONE CRISTOLOGICA (ANTROPOLOGICA). Dato che il quadro è del 1460 circa, forse, potrebbe essere una "indicazione" di un discorso ancora sul nascere, di un dibattito all’ordine del giorno sul problema del Figlio, cioè sul tema decisivo dell’epoca (la caduta di Costantinopoli è del 1453 e il cardinale Niccolò Cusano cerca la via della pace della fede, nel 1453)": il nodo è proprio quello del Figlio (... e del "Presepe", e del "Natale"), quello dell’interpretazione teologico e antropologica della figura di Cristo (un tema ancora all’ordine del giorno), in un’ottica ecumenica.
CONSIDERATO CHE la "Dotta Ignoranza" di Cusano (1440) è del tutto segnata dalla tradizione filosofica e scientifica aristotelico-platonica (come sarà ancora per gli aristotelici dell’epoca di Galileo Galilei), la figura e il tema del bambino-homunculus è la parola chiave per comprendere non solo la teologia e l’anatomia dell’epoca, ma anche l’arte e l’antropologia, forse, è OPPORTUNO "RIPENSARE COSTANTINO": "IN HOC SIGNO VINCES". Proprio la caduta di Costantinopoli (1453), infatti, porterà l’Europa a svegliarsi dal letargo, a muoversi militarmente, e a prendere sotto la guida della Spagna la strada della riconquista (Granada,1492), della cacciata dei Mori e degli Ebrei (1492), della conquista dell’America (1492), e dell’avvio della prima globalizzazione teologico-politica del Pianeta Terra.
A) ANTONELLO DA MESSINA, "MADONNA SALTING".
B) BOSCH (1453-1516), ALL’ESCORIAL (1593). "Il Giardino delle delizie (o Il Millennio) è un trittico a olio su tavola (220×389 cm) di Hieronymus Bosch, databile 1480-1490 circa e conservato nel Museo del Prado di Madrid.[...]".
C) ELEUSIS 2023. Una delle capitali europee della cultura del 2023 è Eleusi: una buona opportunità storica per ripensare la figura della Terra-Madre, Demetra, della figlia, Persefone, e del tema dei misteri eleusini, e, al contempo, anche del melograno, e della melagrana, dell’agricoltura, delle stagioni, ecc.
OPERA DI SANTA MARIA DEL FIORE (Firenze 1296)
Sibille, Profeti e Patriarchi nel Campanile di Giotto
Capolavori di statuaria gotica e del primo Rinascimento
Il Campanile ha una decorazione scultorea esterna che fu realizzata nell’arco di cento anni, 1334-1436, iconograficamente molto elaborata, ordinata su tre livelli per ognuno dei quattro lati. In un nostro precedente articolo abbiamo già raccontato dei primi due livelli di queste decorazioni, ovvero i rilievi trecenteschi di Andrea Pisano e della sua bottega raffiguranti le scienze umane e le potenze celesti che le governano. Il terzo livello è occupato da sedici nicchie cuspidate, all’interno delle quali furono collocate, quattro per ciascun lato, altrettante sculture in marmo in altissimo rilievo e a tutto tondo, raffiguranti sibille, profeti e patriarchi.
Intorno alla metà del Trecento lo stesso Andrea Pisano con il figlio Nino e altri collaboratori avevano collocato sul lato ovest, quello maggiormente visibile dalla piazza, le sculture (lavorate in realtà solo sul lato frontale, l’unico visibile), raffiguranti la Sibilla eritrea, che secondo la tradizione cristiana antica aveva preannunciato la Redenzione; la Tiburtina, che per la stessa tradizione avrebbe profetizzato la nascita del Salvatore; David, re di Gerusalemme, autore dei Salmi e antenato di Cristo e suo figlio e successore il Re Salomone, creatore del grande tempio di Gerusalemme e sovrano di insuperabile sapienza. Ancora, i due Pisano e altri collaboratori scolpirono, per ornare il lato meridionale, un Mosè con in mano le tavole della legge e altri profeti non meglio identificati rappresentati barbati e con grandi cartigli. Sono tutte queste figure, connotate dall’elegante linearità e dalla possanza volumetrica insegnata in pittura da Giotto, transumanate e ieratiche, eccezion fatta per le sibille, che esprimono una certa umana allegrezza.
Completati questi due fronti per alcuni anni restarono vuote le nicchie degli altri due, l’orientale e il settentrionale, ed è qui che tra il 1409 e il 1436 la maniera giottesca del Pisano cedette il passo al rinascimento e cioè alla novità dirompente del naturalismo classico di Donatello e del suo collaboratore Nanni di Bartolo, detto “il Rosso”.
Per il lato orientale Donatello scolpì due splendidi profeti, difficilmente riconoscibili, forse Malachia e Isaia, perciò chiamati per consuetudine uno l’"imberbe" per via dell’acconciatura e l’altro “il pensieroso”, a ragione della posa con la mano riflessiva al mento. Si tratta di due straordinarie rappresentazioni connotate da un naturalismo senza precedenti di uomini avanti con l’età, vestiti con tuniche all’antica. L’espressione dei loro volti, ogni membro del loro corpo e ogni lembo delle loro vesti esprime con potenza il loro turbamento interiore provocato da quanto Dio gli ha rivelato. A loro si aggiunsero un terzo profeta (forse Zaccaria) opera di Nanni, che sembra arringare il popolo con la fierezza di un senatore romano sollevando una mano e lo sguardo e poi, una quarta statua, una delle più celebri del Rinascimento: il Sacrificio di Isacco, che Donatello e Nanni di Bartolo scolpirono insieme. Abramo è anziano, con lunga barba ed è colto nel momento in cui si torce con espressione sconvolta verso il cielo, richiamato dalla voce dell’angelo, un attimo prima di affondare il coltello nella gola del figlio Isacco che è inginocchiato ai suoi piedi nudo (il primo nudo a dimensioni naturali dell’arte moderna).
Alla coppia di geniali scultori fu affidata l’esecuzione anche della restante quaterna di statue per le nicchie rivolte a settentrione, le meno visibili perché dirimpetto al fianco della Cattedrale.
Di nuovo Donato e Nanni realizzarono quattro capolavori assoluti. Nanni scolpì il profeta Abdia, giovane bello e vigoroso con lo sguardo concentrato e triste verso coloro a cui mostra, aprendolo, il testo profetico del proprio rotolo; e San Giovanni Battista, ultimo dei profeti e primo dei santi, anche lui un giovane di bell’aspetto che, con espressione malinconica, mostra il cartiglio con l’annuncio dell’Agnello di Dio.
Donatello superò il compagno: il suo Geremia, impegnato a meditare su quanto scritto nel proprio cartiglio, è vigoroso e vibrante di spirito, ha le fattezze di un uomo di mezza età trasandato e di umili condizioni, ma esprime la forza fisica e la dignità morale di un eroe classico.
Lo Zuccone poi (forse il profeta Abacuc, così soprannominato dai fiorentini per riferimento affettuoso al cranio calvo con cui fu immaginato) è un’opera semplicemente insuperabile: Donatello ha dato forma a un uomo sui quaranta, dal corpo asciutto e nervoso avvolto in un largo manto e in un camice, che sbarra gli occhi per fissare qualcosa davanti a sé e tiene la bocca socchiusa per stupore di ciò che vede o per proferire parola a qualcuno che gli è di fronte.
Queste ultime quattro sculture erano troppo belle per restare “nascoste” sul fronte nord e nel 1464 furono “scambiate” con quelle trecentesche poste a ovest, così da dare miglior ornamento al lato del Campanile affiancato alla facciata della Cattedrale.
Le sedici sculture rimasero al loro posto per mezzo millennio finché, nel Novecento, si provvide a mettere al riparo questi splendidi marmi dalle ingiurie del tempo. Tra il 1939 e il 1945 Romano Romanelli e Natale Binazzi realizzarono a mano le copie in marmo bianco dei quattro profeti del lato ovest: i più esposti alle intemperie e, forse, i più belli.
Quindi, nel 1973-76 Enzo Cardini eseguì in cemento e polvere di marmo i calchi delle restanti 12 statue.
Gli originali di questi capolavori si possono ammirare nella sala del Museo dell’Opera del Duomo dedicata alle sculture del Campanile, a una distanza ravvicinata che nella collocazione originaria era impossibile, ma su un piano abbastanza elevato da poterne godere le pose e le espressioni dalla corretta prospettiva dal sotto in su.
*Fonte: Duomo di Firenze. Opera Magazine, 17/02/2022 (ripresa parziale, senza immagini).
La Chiesa anglicana: la religiosità di Elisabetta, un lascito al suo popolo
Lealtà, servizio e umiltà, le qualità della Regina che hanno toccato i suoi sudditi. La Reverenda Jules Cave Bergquist: nei suoi messaggi parlava della sua fede e del conforto e del sostegno che offriva proprio a lei
di Francesca Sabatinelli - Città del Vaticano, 09 settembre 2022.
Il mondo anglicano vive il suo profondo dolore per la morte di Elisabetta II, capo della Chiesa d’Inghilterra. Ad esprimerlo, in tutta la sua interezza, è stato ieri nel suo messaggio di cordoglio l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, primate della comunione anglicana. “Abbiamo perso - aveva scritto Welby - una persona la cui lealtà irremovibile, capacità di servizio e umiltà ci ha aiutato a dare un significato a chi siamo attraverso decenni di straordinari cambiamenti nel nostro mondo e nella nostra società”. Lealtà, capacità di servizio e umiltà, doni spirituali che riconosce anche la Reverenda Jules Cave Bergquist, cappellano di Napoli, Bari, Sorrento e Capri e vicario per l’Italia del Vescovo anglicano per l’Europa:
Reverenda, l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, ha sottolineato nel suo messaggio di cordoglio per la morte di Elisabetta II, l’incrollabile lealtà, il servizio e l’umiltà della Regina, qualità che hanno segnato profondamente i sudditi, i fedeli del regno ...
Io credo che si possa capire tutto alla luce di qualcosa che la Regina ha detto in occasione del suo 21mo compleanno. Era in Sudafrica con la famiglia e ha parlato alla sua gente dicendo “Dichiaro davanti a voi tutti che tutta la mia vita sia lunga o corta sarà dedicata al servizio vostro e anche al servizio della nostra grande famiglia imperiale, alla quale noi apparteniamo tutti”. E quindi lei, già all’età di 21 anni, sapendo di divenire poi regina, ha dedicato la sua vita al servizio. E ha riferito a questo diversi momenti della sua vita. Trascorsi gli anni l’impero è diventato il Commonwealth, una famiglia di nazioni, molte delle quali sono indipendenti oggigiorno, tutte però con forti legami di una storia insieme, ma con rapporti aggiornati, e la Regina ha saputo gestire questo aggiornamento con intelligenza e spirito di servizio. Poteva fare questo soltanto con i doni spirituali della lealtà, verso la sua gente, dello spirito di servizio e dell’umiltà nel trasformare l’impero in un Commonwealth, una famiglia.
Qual è l’eredità di Elisabetta? Che cosa lascia al mondo anglicano? Quale segno della sua fede cristiana?
Lei è conosciuta per una fede molto forte e molto personale. Andava in chiesa ogni domenica e anche in altri momenti dell’anno, nelle cappelle dei palazzi reali di tutta Gran Bretagna. È anche vero che nei momenti in cui la Regina indirizzava un messaggio alla sua gente, tipo a Natale, oppure in momenti di crisi, non lasciava mai scappare l’opportunità di parlare della fede e del conforto e del sostegno che offriva proprio a lei. E credo anche che la sua eredità sia quella di aver saputo trasmettere l’importanza della fede ai suoi discendenti, e quindi anche a Carlo e a William, il rispetto per la fede e l’importanza dei titoli che loro erediteranno come lei ha ereditato, come quello di Defensor fidei, difensore della fede, o di suprema governatrice della Chiesa anglicana. Sono titoli personali ma devono essere radicati nella realtà dell’essere il responsabile spirituale di una Chiesa.
In molti hanno sottolineato la capacità di Elisabetta II di interpretare un ruolo che lei considerava una missione, lei è d’accordo?
Sì, certo. Come dicevo prima, a proposito del suo 21mo compleanno, è sempre stato importantissimo per Elisabetta. Essere monarca per lei era essere Difensor fidei. Sappiamo tutti che Difensor fidei è stato un titolo dato ad Enrico VIII dal Papa (Papa Leone X ndr) per aver scritto un libro sui sette sacramenti. È un titolo ereditato dalla Regina e poi anche dai re. Molte persone mi chiedono: “Ma la Regina è il capo della vostra Chiesa, della Chiesa di Inghilterra, della Chiesa anglicana?” Il capo della Chiesa nostra è Cristo, come per la Chiesa Cattolica. Il Papa per voi è il vicario di Cristo, per noi la Regina, così come i suoi successori, sono governatori supremi della Chiesa d’Inghilterra, significa che il ruolo comprende l’accertarsi che la sua Chiesa abbia i vescovi per essere governata, significa quindi invitare i vescovi ad assumere le responsabilità per il gregge. La Regina ha saputo aggiornare anche questa missione e tramandarla ai suoi discendenti. Era molto importante per lei, non solo la fede personale, ma anche guardare alla fede come una cosa da tramandare al suo popolo, ai suoi eredi.
Lei l’ha incontrata personalmente? Ne ha un ricordo?
No, non l’ho mai incontrata, ho conosciuto sua sorella, Margaret, anche lei donna di grande fede. Però ho incontrato il principe Carlo (Re Carlo III). Ero responsabile nazionale delle vocazioni e lui veniva ad un seminario anglicano a Oxford, quindi ho avuto l’opportunità di parlargli. È una persona molto interessante, è molto curioso di sapere, di incontrare, di agire per il bene. Perlopiù in Inghilterra è conosciuto come agricoltore biologico, sperimenta da decenni una agricoltura ecosostenibile. È appassionato, instancabile sostenitore dei movimenti per salvaguardare il creato, e credo che in questo andrà molto d’accordo con Papa Francesco, autore della Laudato si’. Però Carlo ha parlato anche del titolo di Difensor fidei, che sapeva un giorno avrebbe ereditato. A lui interessano molto anche le altre Chiese cristiane, così come le altre religioni presenti nel territorio. È conosciuto per avere conoscenza profonda dell’Islam, per esempio. Quindi, credo che nel futuro Carlo saprà salvaguardare la libertà della fede di tutti i suoi sudditi.
In molti leggeranno come una novità avere un Re che si interessa anche di altre religioni, ma non è vero, e la prova ne è il fatto che il nonno di Carlo, cioè il padre di Elisabetta (Re Giorgio VI, ndr) era ancora imperatore dell’Impero britannico quando fece costruire decenni fa la prima moschea in Inghilterra, a Londra, a St John’s Wood, su di un terreno della casa reale. Fece costruire questa moschea per i suoi sudditi musulmani, quindi già al tempo del padre della Regina la monarchia inglese voleva salvaguardare la possibilità di professare la propria fede e di avere i posti dove farlo. Io sono piena di speranza che la regina abbia saputo tramandare a Re Carlo III l’importanza della fede, nella vita sia della famiglia reale, sia dei suoi sudditi.
Nella Chiesa un processo che non potrà essere arrestato, dice Liviana Gazzetta, autrice di “Virgo et Sacerdos”
di Maria Rosaria De Rosa (Il paese delle donne on line - rivista,15 Febbraio 2021
Partiamo dall’attualità in questo incontro con Liviana Gazzetta, studiosa di storia delle donne - si è occupata dei movimenti femminili nell’Italia contemporanea - e autrice del libro appena pubblicato Virgo et Sacerdos. Idee di sacerdozio femminile tra Ottocento e Novecento, Edizioni Storia e Letteratura, Roma 2020.
Per la prima volta una donna parteciperà al Sinodo dei Vescovi non solo con funzioni consultive ma anche con diritto di voto. Il 6 febbraio papa Francesco ha nominato sottosegretaria del Sinodo suor Nathalie Becquart, religiosa saveriana, già direttrice del Servizio Nazionale per l’Evangelizzazione dei giovani e per le vocazioni della Conferenza dei Vescovi di Francia. A gennaio, il Papa ha aperto anche formalmente alle donne, nella liturgia cattolica, il Lettorato e l’Accolitato. Infine, per la prima volta, c’è una sottosegretaria di Stato, Francesca di Giovanni. E numerose sono le nomine di laici e di donne laiche in posti chiave, ad esempio la nomina di sei docenti universitarie e manager della finanza nel Consiglio per l’Economia Vaticana.
Perdonami se aggiungo al tuo elenco di fatti innovativi anche questo dato, che non è promosso dalla gerarchia, ma mi pare di grande rilievo: nel maggio del 2020 si è avuta la candidatura simbolica della teologa e biblista francese Anne Soupa (fondatrice del “Comité de la Jupe”) al ruolo di arcivescovo di Lione. Poi non dimenticherei l’incisiva lettera “Chiesa, chiedici scusa” firmata da centinaia e centinaia di credenti a vario titolo.
Nel merito della tua domanda, credo che all’interno della chiesa cattolica si sia aperto un processo che non potrà essere arrestato. Un processo che dal punto di vista storico si può leggere anche come riflesso di processi più ampi di crescita della soggettività femminile da cui il mondo cattolico non si difende più, come un tempo, secondo la logica intransigentistica. Dal punto di vista spirituale, poi, direi che questo processo dipende anche dalla ricchezza della ricerca femminile aperta tra teologhe, religiose, donne delle comunità: mentre il femminismo cosiddetto laico, a mio avviso, conosce le secche del materialismo e di una sostanziale mancanza di orizzonti, dentro la chiesa c’è invece una dinamicità intensa, spesso connessa alla contraddizione di fondo tra le grandi finalità universali della fede e le disparità di fatto ancora esistenti tra uomini e donne. Mi pare che, tenendo conto di questo, Bergoglio stia tentando di aprire lentamente, ma progressivamente, la chiesa a questa ricchezza, come parte di un tentativo più generale di riforma delle strutture ecclesiali.
In modo sintetico, e forse un po’ provocatorio, si potrebbe dire un po’ tutto e un po’ niente. Dal punto di vista sostanziale è diventato palese che le motivazioni legate all’impedimentum sexus non reggono assolutamente più. Nello stesso tempo pesa tutta la millenaria tradizione, che per il mondo cattolico gioca un ruolo molto importante (a differenza delle chiese evangeliche); pesa la posizione del Magistero, in particolare di papa Giovanni Paolo II con la sua “Ordinatio sacerdotalis”, che è stata presentata come sintesi definitiva (naturalmente negativa) sulla questione; pesa soprattutto il fatto che buona parte del potere effettivo nella chiesa è ancora nelle mani di uomini: la maggior parte dei quali non ha mosso un passo verso la comprensione di queste realtà.
Quello che emerge dalla mia ricerca, così come da parallele ricerche di Claude Langlois, è che è esistita una domanda femminile di sacerdozio che si è espressa ben prima del Concilio Vaticano II, presente anche in personalità che pure accettavano in toto la dottrina della chiesa o che addirittura erano su posizioni di intransigente opposizione al mondo moderno. La loro non era infatti una rivendicazione di diritto al ministero ordinato, ma una dedizione totale di sé, una forte vocazione che non trovava riconoscimento. Queste personalità manifestavano una sofferenza sottile ma profonda per la misoginia e il disprezzo che il clero mostrava nei confronti della loro ricerca spirituale. Era quindi l’identificazione con la Vergine, unita a una riflessione sul suo ruolo nel sacerdozio universale di Cristo (per questo l’appellativo di Virgo sacerdos), che consentiva di esprimere quel bisogno non riconosciuto.
La mia tesi è che il femminismo ha influito storicamente su entrambi i piani in cui è stata avanzata la domanda di sacerdozio. Il femminismo ha influito chiaramente sui processi di crescita della soggettività femminile che sono all’origine del piano rivendicativo al sacerdozio; ma ha influito anche indirettamente sul piano della vocazione: costituendo uno stimolo a pensare nuovi e più autonomi modi di vivere la femminilità, il movimento femminista ha per riflesso innescato processi di crescita anche in quelle donne cattoliche che, opponendosi alla domanda di diritti e libertà, finivano per cercare nuovi percorsi oltre i modelli tradizionali.
Il culto alla Virgo sacerdos (su cui il S. Uffizio pose una sorta di pietra tombale agli inizi del ‘900) ha avuto aspetti di originalità anche perché associata a una ricerca iconografica per accreditare forme di rappresentazione, appunto, sacerdotale della Madonna: una Vergine potente, mediatrice tra Dio e l’umanità, vestita con la pianeta dei preti, una Vergine come non l’abbiamo praticamente mai vista raffigurata nelle nostre chiese. Aggiungo che quasi tutte le famiglie religiose femminili che sono nate o hanno sviluppato una spiritualità legata al sacerdozio di Cristo (e la mia ricerca su questo si può dire solo agli inizi) hanno mostrato una grande consapevolezza delle insufficienze del clero maschile nello svolgimento del proprio ruolo e un’insospettata capacità di rielaborazione della tradizione teologica in un modo più favorevole alle donne.
Vorrei però citare come altrettanto inaspettate le reazioni dei teologi del S. Uffizio alla devozione di cui stiamo parlando: reazioni che mostrano un fastidio, un’insofferenza, una misoginia così profonde da far pensare a quanto poco i valori del cristianesimo dovessero aver permeato le loro vite...
Michelangelo ritratto in uno schizzo a margine di un’antica Divina Commedia: l’incredibile scoperta di James Hall *
06 Settembre 2022 *
Lo storico inglese James Hall lo sostiene con certezza: una vecchia edizione della "Divina Commedia" di Dante Alighieri recherebbe in calce un disegno nascosto che ritrae Michelangelo Buonarotti intento a scolpire. Il prezioso volume è custodito nella Biblioteca Vallicelliana di Roma e risale al XV secolo.
"Lo scultore, finora sconosciuto, può essere identificato con Michelangelo durante o poco dopo il suo trionfale successo nell’intaglio del David (1501-4)", scrive infatti il docente all’University of Southampton, che presenterà la sua ricerca in un volume intitolato "The Artist’s Studio: A Cultural History", che sarà pubblicato dall’editore Thames & Hudson il 21 ottobre in Gran Bretagna.
In un’intervista rilasciata a The Art Newspapers lo studioso ha sottolineato: "Durante una conferenza ho visto brevemente questo disegno straordinario. Mi sono chiesto se avrei potuto includerlo nel mio libro. Dopo alcuni mesi, ho improvvisamente pensato che molti dei pezzi del puzzle sembrano corrispondere a Michelangelo".
“Il disegno mostra un artista al lavoro per scolpire una testa colossale, brandendo un martello. Alle sue spalle si trova una statuetta senza braccia. Il disegno appare nel primo canto dell’Inferno, nel momento in cui Dante decide coraggiosamente di prendere la "via maestra" attraverso l’Inferno. Lo scultore ha abbandonato la statuetta più frivola per scolpire la testa colossale.”
"La testa sembra girarsi sulla spalla, con un sorriso. Credo che debba essere un fauno" spiega Hall, "Mi ricorda molto il fauno che si aggrappa alla gamba del Bacco di Michelangelo (1496-7).
I
noltre, sul soffitto della Sistina, ci sono putti decorativi fissati sull’architettura che fiancheggiano i profeti e le sibille, che sono simili, girando con espressioni sfacciate sui loro volti; sembra molto in quello spirito".
"Le teste hanno uno stile molto classico e questo si adatta anche al passo di Dante in cui, ancora esitante, dice: ’Non sono Enea, né San Paolo’. Quindi Dante sta dicendo che non sono una di queste grandi figure. Ma è quello che diventa quando entra nell’Inferno. Così come Michelangelo quando realizza opere immense che superano l’antichità".
"Si pensava che l’edizione di Dante appartenesse alla famiglia Sangallo, che era composta da architetti e scultori, principalmente di Firenze e Roma. Ma recentemente questa ipotesi è stata messa in discussione perché la grafia delle annotazioni sul libro non sembra corrispondere a quella dei Sangallo", aggiunge Hall intervistato da "The Art Newspaper". "Un artista toscano o anche un dilettante di talento potrebbe aver creato la raffigurazione di Michelangelo", aggiunge Hall.
*Fonte: Il Giornale d’Italia, 06.09.2022
ANTROPOLOGIA E STORIA...
𝐈𝐥𝐝𝐞𝐠𝐚𝐫𝐝𝐚 𝐃𝐢 𝐁𝐢𝐧𝐠𝐞𝐧, detta "la Sibilla del Reno", benché beatificata nel 1342, è stata proclamata “Dottore della Chiesa Universale” solo nel 2012: dopo la lezione antropologica ed ecumenica (1508-1512) di Michelangelo ("La Sacra Famiglia o TondoDoni" e il racconto immortalato nella Volta della Cappella Sistina), la Chiesa cattolica ha ancora grandi difficoltà a leggere la storia dell’umanità come un cammino di Profeti e di Sibille che vanno verso Betlemme.
Usa, la Corte Suprema sancisce la fine del diritto all’aborto: annullata la sentenza Roe v. Wade *
In America la sentenza che tutelava il diritto delle donne a interrompere una gravidanza non esiste più. Con una decisione che rovescia un diritto fondamentale radicato negli Stati Uniti da 50 anni, la Corte Suprema ha annullato la storica sentenza Roe v. Wade, con cui nel 1973 la stessa Corte aveva riconosciuto il diritto della texana Norma McCorvey di interrompere la gravidanza garanetendo a tutte le donne di poter abortire liberamente.
La decisione è stata presa da una Corte divisa, con 6 voti a favore dei giudici conservatori e 3 contrari, i giudici liberal Sonia Sotomayor, Elena Kagan e Stephen Breyer che hanno diffuso un comunicato per dissociarsi: "Tristemente, molte donne hanno perso oggi una tutela costituzionale fondamentale. Noi dissentiamo". Tutti e tre i giudici nominati dall’ex presidente Donald Trump, che ha perso nel voto popolare sia nelle elezioni del 2016 che in quelle del 2020, durante il suo mandato hanno votato per l’abolizione della sentenza. E infatti Trump è il primo a esultare: "È la volontà di Dio. La decisione vuol dire seguire la Costituzione e restituire i diritti", ha detto l’ex presidente americano.
Quello della Corte Suprema è stato un "tragico errore" e la sentenza emessa è il risultato di un’ "ideologia estrema", ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, nel discorso tenuto alla nazione nel pomeriggio di venerdì. La Corte suprema, ha detto il presidente, "ci ha riportato indietro di 150 anni, ora è a rischio la salute delle donne" e ha chiamato gli americani a una battaglia politica contro la sentenza: "Permettetemi di essere molto chiaro e inequivocabile - ha detto - l’unico modo in cui possiamo garantire il diritto di scelta di una donna (sull’aborto) è che il Congresso ripristini questi diritto con una legge federale. Non c’è nessuna azione esecutiva del presidente che possa farlo. Ma al momento al Congresso mancano i voti per farlo ora, dunque gli elettori alle elezioni di novembre devono far sentire la loro voce".
La decisione è stata presa nel caso "Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization", in cui i giudici hanno confermato la legge del Mississippi che proibisce l’interruzione di gravidanza dopo 15 settimane. A fare ricorso era stata l’unica clinica rimasta nello Stato a offrire l’aborto. Una bozza trapelata nelle scorse settimane (redatta dal giudice Samuel Alito, risalente a febbraio e confermata poi come autentica dalla corte) aveva indicato che la maggioranza dei ’saggì erano favorevoli a ribaltare la Roe v Wade, suscitando vaste polemiche e proteste negli Usa. Alito che scrive nel dispositivo "La Roe vs Wade è stata sbagliata fin dall’inizio in modo eclatante. Il suo ragionamento - aggiunge - è stato eccezionalmente debole, e la decisione ha avuto conseguenze dannose".
Ora quindi i singoli Stati saranno liberi di applicare le loro leggi in materia. Si torna agli anni precedenti alla sentenza, quando l’aborto negli Usa era disciplinato da ciascuno Stato. In oltre la metà l’aborto era considerato reato, quindi non poteva essere praticato in nessun caso. In oltre 10 Stati era legale solo se costituiva pericolo per la donna, in caso di stupro, incesto o malformazioni fetali.
Già prima della diffusione, poco dopo le 10 ora locale, della decisione ufficiale centinaia di persone, in maggioranza donne, si sono riunite per protestare di fronte all’edificio che ospita il massimo organismo giuridico americano. E le principali organizzazioni pro choice hanno diffuso un comunicato in cui denunciano "ogni tattica e minaccia di gruppi che usano la distruzione e le violenza come mezzo, non parlano per noi, i nostri sostenitori, le nostre comunità e il nostro movimento", si legge nella dichiarazione di Planned Parenthood, Naral Pro-Choice America e Liberate Abortion Campaign. "Siamo impegnati a proteggere ed espandere l’accesso all’aborto e alla libertà riproduttiva attraverso un attivismo pacifico e non violento", concludono. Diversa la reazione dei repubblicani. Il leader del gruppo alla Camera, Kevin McCarthy, plude alla decisione "che salva vite umane".
"Oggi la Corte suprema non solo ha annullato quasi 50 anni di precedenti, ha relegato la decisione più intensamente personale che qualcuno possa prendere ai capricci di politici e ideologi, attaccando le libertà essenziali di milioni di persone". Così Barack Obama in un tweet, sua prima reazione alla sentenza. La moglie l’ex presidente degli Stati Uniti. "Ho il cuore spezzato per gli americani che hanno perso il diritto fondamentale di assumere decisioni informate" in merito al loro corpo. Lo afferma Michelle Obama parlando di una "decisione orribile" da parte della Corte Suprema sull’aborto. "Avrà delle conseguenze devastanti", aggiunge. Durissima anche Hillary Clinton che bolla la decisione della Corte Suprema sull’aborto come un’"infamia", un "passo indietro per i diritti delle donne e i diritti umani".
Il presidente americano Joe Biden ha dato mandato al segretario alla salute di garantire l’accesso delle donne alla pillola abortiva e ad altri farmaci per "l’assistenza riproduttiva" approvati dalla Food and Drug Administration. Lo annuncia la Casa Bianca in una nota.
* Fonte: la Repubblica, 24 GIUGNO 2022 (ripresa parziale).
Exousia e cristologia femminista al seminario del Cti
Il rilancio delle teologhe
di VITTORIA PRISCIANDARO (L’Osservatore Romano, 04 giugno 2022)
Ci sono anche loro tra le firmatarie della articolata riflessione proposta ai “Fratelli vescovi” come contributo al cammino sinodale. Del documento “Ma lei gli replicò”, che fa riferimento «alla conversione di Gesù dopo lo straordinario dialogo con la donna siro-fenicia», il Coordinamento delle teologhe italiane (Cti) ha parlato anche durante il seminario del 7 maggio scorso, presso l’Antonianum di Roma. Perché partecipazione e autorità, discernere e decidere - i punti su cui è incentrata la riflessione proposta dalla rete sinodale delle donne - sono termini ampiamente risuonati all’incontro su “L’autorità teologica della donne. Pratiche di exousia”, che ha visto la presenza delle fondatrici del Cti, ma anche di giovanissime appassionate di teologia.
«L’autorità delle donne è un tema che viene dal femminismo storico, che si è domandato cosa significa avere una voce autorevole e come tramandarsi la forza di prendere la parola», spiega la presidente del Cti, Lucia Vantini. « La parola exousia esprime il fatto che l’esistenza delle cose e degli esseri viventi viene da fuori. Per i femminismi, questo riconoscimento di dipendenza da altro non è affatto una sottrazione, ma una forza che rende capaci di libertà. Sono i legami, infatti, a dare consistenza ed espressività a un soggetto. In questa prospettiva il potere si trova riconfigurato come potere-di-autorizzare altre e altri in una trama di parole, simboli, gesti e pratiche che mira alla condivisione anche quando inevitabilmente si aprono conflitti». Inoltre, aggiunge Vantini, «nel termine autorità c’è idea di far aumentare, di spingere, di sostenersi tra generazioni. La presenza di giovani teologhe al seminario è stato il segno della grande fecondità della vita teologica della donne. Il futuro passa per questo».
«Ai fratelli vescovi scriviamo che autorizzare deve significare difendere e non abusare del potere, perché nelle Chiese c’è un movimento di esclusione, di chiusure di spazi, casi di epurazione e di licenziamento», dice Cristina Simonelli, che ha tenuto la relazione di apertura del seminario “La teologia delle donne come pratica di autorità”, citando il documento della rete sinodale. «Noi donne abbiamo una memoria, un presente e una consegna di autorità che se esercitata crea stima, empowerment». Il cammino del Cti, nato nel 2003 dall’intuizione di Marinella Perroni - fare un’associazione in prospettiva di genere, ecumenica, pluri e multidisciplinare -, ha percorso strade che hanno portato a numerose pubblicazioni e, negli ultimi anni, alla serie Exousia, con la San Paolo, dove «ciascun volume ri-visita in prospettiva di genere gli ambiti teologici e si propone di attestare possibili circolarità ermeneutiche: tra discipline e temi, tra appartenenze confessionali, tra interessi e posizionamenti».
La serie, spiega Simonelli citando la presentazione che accompagna ogni volume, risponde a una necessità: «La teologia non va semplicemente aggiornata ma completamente riscritta. L’accesso delle donne alla Teologia non ha comportato un semplice aggiornamento degli schedari, ha piuttosto reso evidente l’urgenza di un ripensamento generale dei modelli». Condizione imprescindibile per questa svolta «è quella di accogliere la differenza, vagliando criticamente le prospettive acquisite, introducendo l’esplorazione di campi di indagine inediti, formulando categorie e paradigmi nuovi».
Al centro del seminario, dunque, l’ultimo volume della Collana, Percorsi di cristologia femminista, scritto da Milena Mariani e da Mercedes Navarro Puerto. «I quasi cinquant’anni di decostruzioni e ricostruzioni femministe dimostrano quanto nel discorso cristologico il cambiamento del punto di vista, grazie all’immissione della prospettiva di genere e femminista», ha spiegato nella sua relazione Milena Mariani, «consenta ripensamenti critici e approcci nuovi, illumini aspetti rimossi o prima ignorati dell’identità di Gesù, contribuisca a scongiurare le derive non solo sessiste e misogine, ma anche antigiudaiche, razziste, imperialiste, colonialiste che non appartengono soltanto al passato della tradizione cristologica». Le critiche femministe si sono soffermate, in particolare, su «l’uso strumentale della maschilità di Gesù per ribadire la superiorità del maschio e per rafforzare l’immaginario esclusivamente maschile di Dio». Un secondo nodo è stato indicato, fin dall’inizio, nelle teologie della croce accusate non solo di «veicolare l’immagine di un Dio sadico e indifferente, ma anche di esaltare le idee di sofferenza salvifica, di sacrificio vicario, di obbedienza passiva alla volontà divina, che hanno avuto ricadute storicamente rovinose sulla condizione delle donne e dei più umili nella scala sociale e sulle relazioni intessute dai paesi occidentali, di storia cristiana, con il resto del mondo».
Dalle conclusioni di Mariani viene fuori la centralità della testimonianza e dell’esperienza di fede delle donne, che «richiederebbe il riconoscimento di un’autorità che si trova legittimata sin dal principio dalla traccia pasquale alla base delle narrazioni evangeliche, impensabile senza la loro testimonianza». Un’esperienza che, allora come oggi, «si esprime con parole, idee, sensibilità e gesti propri, la cui piena fecondità e novità nel linguaggio e nella vita delle Chiese cristiane richiederebbe un “discepolato di uguali” che ancora attende di essere davvero realizzato».
di VITTORIA PRISCIANDARO
AMORE ("CHARITAS"):
LA FEDE DI DANTE, E DI SAN PIETRO,
E
LA FEDE DI SAN PAOLO.
Beatrice (Pd. XXIV, 34) chiede al "gran viro"(San Pietro) di verificare se Dante ha capito
la differenza tra la fede
in "Nostro Segnor" Gesù
(Ponzio Pilato: Ecce Homo, gr. «idou ho anthropos»)
oppure
nel "Nostro Signore" di San Paolo, l’Uomo (Vir):
"sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo,
e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»],
e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
GIORNATA DELLA TERRA (22 aprile 2022): SORGERE DELLA TERRA, ANTROPOLOGIA ("ECCE HOMO"), E CONCORDIA.
In memoria del "discorso sulla dignità dell’uomo" (1486) di Giovanni Pico della Mirandola...
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E FILOLOGIA. "Tutti dobbiamo contribuire a fermare la distruzione della nostra casa comune e ripristinare gli spazi naturali: governi, aziende e cittadini dobbiamo agire come fratelli e sorelle che condividono la Terra, la casa comune che Dio ci ha affidato" (Papa Francesco).
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS. Memoria di Anselmo d’Aosta (21 aprile): riprendere il lavoro sul "Cur Deus Homo" e portarlo oltre l’orizzonte della Dotta Ignoranza (1440) e della Scuola di Atene: meglio seguire l’indicazione di Michelangelo già presente nel Tondo Doni e ripensare il cammino delle Sibille e dei Profeti.
USCIRE DALLA TERRA (CAVERNA)... E, FINALMENTE, VEDERE DALLO SPAZIO, DALLA LUNA, IL SORGERE DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE DELLA CASA COMUNE DELL’INTERO GENERE UMANO: L’ALBA DELLA MERAVIGLIA.... E LA FINE DELLA CLAUSTROFILIA!
Federico La Sala
Donne protagoniste della loro storia di fede
A colloquio con la storica e teologa Adriana Valerio in occasione dell’8 marzo
di Sabina Baral (Chiesa Evangelica Valdese, Torre Pellice, 4 Marzo 2022)
Il cristianesimo e le donne, un rapporto difficile? A ridosso dell’8 marzo, giornata internazionale della donna, ne abbiamo parlato con Adriana Valerio, storica e teologa, già docente di storia del cristianesimo e delle chiese all’Università “Federico II” di Napoli.
Una ricerca ventennale, la sua, volta a ricostruire la presenza delle donne nella storia cristiana.
C’è urgenza di femminismo nella chiesa e se sì di quale femminismo?
Se per femminismo si intende la consapevolezza da parte delle donne della propria dignità e la richiesta di superare le condizioni di discriminazione, dobbiamo dire che è un’esigenza antica che si pone con continuità nella storia della Chiesa. Non volendo risalire alle posizioni espresse nel Rinascimento dalle donne impegnate in progetti di riforma evangelica (tanto cattolica quanto riformata), è dall’Ottocento che si levano dalle Chiese voci di denuncia e richieste di considerare diversamente i ruoli femminili all’interno delle comunità. Molti sono gli esempi a riguardo: dalle partecipanti all’anticoncilio del 1969 che, in polemica con il Concilio Vaticano I, chiedevano il superamento del clericalismo che opprimeva le donne, alle protagoniste del movimento modernista che auspicavano la riforma liturgica e una diversa interpretazione della Bibbia; dalle uditrici presenti al Vaticano II, che auspicavano una nuova visione antropologica, alle teologhe che propongono oggi la revisione delle discipline teologiche rilette in una chiave di genere.
Oggi le religioni sono tutte in difficoltà storica: un limite o un’opportunità per le donne?
Nelle crisi ci sono sempre opportunità e possibilità di sviluppo. La crisi che sta attraversando la chiesa cattolica con il calo delle vocazioni spinge, per esempio, a riflettere sul ruolo dei laici e sulla necessità di riconoscere il lavoro che le donne già svolgono, soprattutto in terra di missione, dove laiche e religiose hanno importanti mansioni pastorali. Le crisi, però, accentuano anche le paure e tanti nella gerarchia ecclesiastica, davanti al nuovo, hanno paura dei cambiamenti e temono di perdere sicurezze.
Veniamo al binomio donna e teologia. È giusto parlarne al singolare?
No, perché non è mai esistita un’unica elaborazione teologica, nemmeno tra gli uomini. Le donne pongono nuovi interrogativi e fanno emergere la necessità di portare alla luce esperienze femminili dimenticate, mettendo in discussione la costruzione androcentrica delle discipline teologiche e delle strutture ecclesiastiche scarsamente inclusive. Le teologhe si esprimono con modalità diverse anche in sintonia con i diversi contesti culturali nei quali vivono.
Ne è una prova il progetto internazionale, interconfessionale e interculturale «La Bibbia e le donne» che da 15 anni, in 4 lingue, pubblica volumi che studiano la Bibbia e la sua storia di ricezione, relativamente alle questioni di genere. All’interno di questi libri emergono scuole di pensiero che usano differenziati metodi di approccio. Troviamo così espresse la teologia narrativa accanto alla storico-critica, i queer studies accanto al femminismo post-coloniale espresso dai movimenti di liberazione del cosiddetto terzo mondo, in un mosaico variopinto di esperienze e proposte.
Nel suo libro «Le ribelli di Dio», lei ricorda le importanti personalità femminili presenti nella Scrittura, dimostrando il ruolo fondamentale svolto dalle matriarche dell’ebraismo, dalle profetesse e dalle testimoni cristiane. Chi sono oggi le “ribelli di Dio”?
Le forme di dissenso all’interno della Chiesa cattolica si giocano perlopiù intorno alla questione dei ministeri e, nei confronti delle donne, permane la strategia del silenzio, non dando risonanza alle posizioni della teologia femminista, che mette in discussione l’impostazione patriarcale e androcentrica dell’interpretazione biblica, della teologia e della tradizione, e soffocando qualunque istanza di partecipazione ecclesiale che apra all’ordine sacro.
Oggi, nonostante si cerchi di coprire con il silenzio casi scomodi, molte cattoliche in varie parti del mondo si preparano all’ordine sacro illegale o esercitano già il ministero presbiterale in comunità disposte ad accoglierle.
In Francia si è costituito il gruppo Toutes apôtres per aprire il ministero alle donne e la teologa francese Anne Soupa si è candidata alla guida come Vescova della sede vacante della Diocesi di Lione. Queste donne non accettano più di essere oggetto di riflessioni o di decisioni da parte del magistero, unico garante di verità e di ortodossia, ma, in opposizione, affermano di essere soggetti della propria vita di fede, di voler cambiare i canoni interpretativi aprendo le dottrine codificate a nuove prospettive. Verità ed errore, ortodossia ed eresia, in questa riscrittura teologica acquisiscono una diversa luce e il mio ultimo libro Eretiche (Il Mulino 2022) lo mette in evidenza.
PER LA VERITA’ E LA RICONCILIAZIONE. Per un "cambio di civiltà" - al di là del Regno di "Mammasantissima" (altro che "Patriarcato")!: l’alleanza edipica della Madre con il Figlio, contro il Padre, e contro tutti i fratelli e tutte le sorelle...
La ripresa c’è se sostantivo femminile e sostenibile
di Antonio Guterres (Avvenire, martedì 8 marzo 2022)
Mentre il mondo celebra la Giornata internazionale della Donna, l’orologio dei diritti delle donne sta andando indietro. Tutti noi ne stiamo pagando il prezzo. Come un effetto domino, le crisi degli ultimi anni e quelle che ci affliggono in questo momento hanno messo in luce quanto una leadership femminile sia di importanza cruciale. Le donne hanno fronteggiato eroicamente la pandemia da Covid-19, come dottoresse, infermiere e impiegate nella sanità pubblica e nell’assistenza sociale. Ma allo stesso tempo, donne e ragazze sono state le prime a perdere il posto di lavoro e a dover rinunciare all’istruzione, con lavori non retribuiti di assistenza e cura e dovendo fronteggiare un aumento vertiginoso dei casi di abuso domestico e di matrimoni infantili. La pandemia ha mostrato ancora di più una verità antica: le radici del patriarcato vanno in profondità. Viviamo in un mondo ancora prevalentemente maschile con una cultura maschilista.
Di conseguenza, sia nel bene che nel male, le donne sono più esposte alla povertà. La loro assistenza sanitaria viene sacrificata, l’istruzione e l’opportunità limitate. E nei Paesi in conflitto - dall’Etiopia all’Afghanistan e all’Ucraina - le donne e le ragazze sono le voci più fragili ma anche le più forti nel chiedere pace. Se guardiamo al futuro, una ripresa sostenibile e uguale per tutti è possibile solo se si tratta di una ripresa femminile - una che metta al centro il progresso per ragazze e donne. Abbiamo bisogno del progresso economico, con investimenti orientati all’istruzione, all’impiego, alla formazione e al lavoro dignitoso delle donne. Le donne dovrebbero essere le prime nella lista dei 400 milioni di posti di lavoro che siamo chiamati a creare entro il 2030. Abbiamo bisogno del progresso sociale, con investimenti in sistemi di protezione sociale e di economia sanitaria.
Essi producono, infatti, molti benefici, creando lavori ecosostenibili e, allo stesso tempo, sostenendo i membri delle nostre società che necessitano assistenza, compresi i bambini, gli anziani e i malati. Abbiamo bisogno del progresso finanziario, per riformare un sistema monetario globale moralmente fallimentare, cosicché tutti i Paesi possano investire in una ripresa economica pensata e realizzata al femminile. Ciò include aiuti economici e sistemi fiscali più favorevoli che trasferiscano a coloro che ne hanno più bisogno gli elevati guadagni del benessere mondiale. Abbiamo bisogno di un’azione urgente e rivoluzionaria per il clima, per invertire l’aumento sregolato di emissioni, e per la disparità di genere, che lascia ancora donne e ragazze eccessivamente vulnerabili. I Paesi sviluppati devono urgentemente mantenere i loro impegni di sostegno finanziario e tecnico per una corretta transizione dai combustibili fossili.
Le economie di successo e stabili del futuro saranno ecosostenibili e inclusive. Abbiamo bisogno di più donne al potere, nel governo e nel commercio, tra i ministri delle finanze e tra i grandi manager privati, che sviluppino e rendano effettive delle politiche ecologiche e sociali progressive che favoriscano tutti. Abbiamo bisogno del progresso politico che attraverso misure mirate assicuri alle donne pari opportunità e rappresentanza a tutti i livelli decisionali, attraverso quote di genere significative.
La disuguaglianza di genere è principalmente una questione di potere. Sradicare secoli di istanze patriarcali richiede un’equa condivisione del potere in ogni istituzione, a tutti i livelli. Nelle Nazioni Unite, abbiamo ottenuto - per la prima volta nella storia dell’organizzazione - la parità di genere ai vertici dirigenziali nei quartier generali e nel mondo.
Questo ha significativamente migliorato la nostra abilità di riflettere e rappresentare al meglio le comunità per le quali lavoriamo. A ogni tappa di questo percorso, possiamo trarre ispirazione dalle donne e dalle ragazze che premono per il progresso in ogni ambito e in ogni angolo del mondo. Le giovani attiviste per il clima sono al centro degli sforzi globali per spingere i governi a mantenere i loro impegni. Le attiviste per i diritti delle donne chiedono coraggiosamente uguaglianza e giustizia, e la costruzione di società più pacifiche in quanto mediatrici, pacificatrici e operatrici umanitarie anche in alcune delle zone più problematiche del mondo.
Nelle società in cui i movimenti per i diritti delle donne sono in fermento, le democrazie sono più forti. E quando il mondo si impegna per ampliare le opportunità di donne e ragazze, tutta l’umanità ne esce vittoriosa.
Per una questione di giustizia, uguaglianza, moralità e semplice buon senso, abbiamo bisogno di portare avanti l’orologio sui diritti delle donne. Abbiamo bisogno di una ripresa sostenibile, femminista, che ruoti attorno a - e che sia guidata da - donne e ragazze.
Segretario generale delle Nazioni Unite
PER LA VERITA’ E LA RICONCILIAZIONE. RIMEDITARE LA LEZIONE DI ESCHILO. Dalla storia di Clitennestra, si arriva anche a immaginare una nuova giustizia, all’interno di nuovi rapporti sociali e politici.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO. Rimeditare la lezione di Alessandro Manzoni
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Rimeditare la lezione di Franca Ongaro Basaglia.
Federico La Sala
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E MESSAGGIO EVANGELICO: UNA QUESTIONE DI "RICAPITOLAZIONE", SECONDO UMANITA’ ("ECCE HOMO") NON SECONDO VIRILITA’ ("ECCE VIR)! *
La “ricapitolazione” di tutte le cose in Cristo
di Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 14 febbraio 2001) *
1. Il disegno salvifico di Dio, “il mistero della sua volontà” (Ef 1,9) concernente ogni creatura, è espresso nella Lettera agli Efesini con un termine caratteristico: “ricapitolare” in Cristo tutte le cose, celesti e terrestri (cfr Ef 1,10). L’immagine potrebbe rimandare anche a quell’asta attorno alla quale si avvolgeva il rotolo di pergamena o di papiro del volumen, recante su di sé uno scritto: Cristo conferisce un senso unitario a tutte le sillabe, le parole, le opere della creazione e della storia.
A cogliere per primo e a sviluppare in modo mirabile questo tema della ‘ricapitolazione’ è sant’Ireneo vescovo di Lione, grande Padre della Chiesa del secondo secolo. Contro ogni frammentazione della storia della salvezza, contro ogni separazione tra Antica e Nuova Alleanza, contro ogni dispersione della rivelazione e dell’azione divina, Ireneo esalta l’unico Signore, Gesù Cristo, che nell’Incarnazione annoda in sé tutta la storia della salvezza, l’umanità e l’intera creazione: “Egli, da re eterno, tutto ricapitola in sé” (Adversus haereses III, 21,9).
2. Ascoltiamo un brano in cui questo Padre della Chiesa commenta le parole dell’Apostolo riguardanti appunto la ricapitolazione in Cristo di tutte le cose. Nell’espressione “tutte le cose” - afferma Ireneo - è compreso l’uomo, toccato dal mistero dell’Incarnazione, allorché il Figlio di Dio “da invisibile divenne visibile, da incomprensibile comprensibile, da impassibile passibile, da Verbo divenne uomo. Egli ha ricapitolato tutto in se stesso, affinché come il Verbo di Dio ha il primato sugli esseri sopracelesti, spirituali e invisibili, allo stesso modo egli l’abbia sugli esseri visibili e corporei. Assumendo in sé questo primato e donandosi come capo alla Chiesa, egli attira tutto in sé” (Adversus haereses III, 16,6). Questo confluire di tutto l’essere in Cristo, centro del tempo e dello spazio, si compie progressivamente nella storia superando gli ostacoli, le resistenze del peccato e del Maligno.
3. Per illustrare questa tensione, Ireneo ricorre all’opposizione, già presentata da san Paolo, tra Cristo e Adamo (cfr Rm 5,12-21): Cristo è il nuovo Adamo, cioè il Primogenito dell’umanità fedele che accoglie con amore e obbedienza il disegno di redenzione che Dio ha tracciato come anima e meta della storia. Cristo deve, quindi, cancellare l’opera di devastazione, le orribili idolatrie, le violenze e ogni peccato che l’Adamo ribelle ha disseminato nella vicenda secolare dell’umanità e nell’orizzonte del creato. Con la sua piena obbedienza al Padre, Cristo apre l’era della pace con Dio e tra gli uomini, riconciliando in sé l’umanità dispersa (cfr Ef 2,16). Egli ‘ricapitola’ in sé Adamo, nel quale tutta l’umanità si riconosce, lo trasfigura in figlio di Dio, lo riporta alla comunione piena con il Padre. Proprio attraverso la sua fraternità con noi nella carne e nel sangue, nella vita e nella morte Cristo diviene ‘il capo’ dell’umanità salvata. Scrive ancora sant’Ireneo: “Cristo ha ricapitolato in se stesso tutto il sangue effuso da tutti i giusti e da tutti i profeti che sono esistiti dagli inizi” (Adversus haereses V, 14,1; cfr V, 14,2).
4. Bene e male sono, quindi, considerati alla luce dell’opera redentrice di Cristo. Essa, come fa intuire Paolo, coinvolge tutto il creato, nella varietà delle sue componenti (cfr Rm 8,18-30). La stessa natura infatti, come è sottoposta al non senso, al degrado e alla devastazione provocata dal peccato, così partecipa alla gioia della liberazione operata da Cristo nello Spirito Santo.
Si delinea, pertanto, l’attuazione piena del progetto originale del Creatore: quello di una creazione in cui Dio e uomo, uomo e donna, umanità e natura siano in armonia, in dialogo, in comunione. Questo progetto, sconvolto dal peccato, è ripreso in modo più mirabile da Cristo, che lo sta attuando misteriosamente ma efficacemente nella realtà presente, in attesa di portarlo a compimento. Gesù stesso ha dichiarato di essere il fulcro e il punto di convergenza di questo disegno di salvezza quando ha affermato: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). E l’evangelista Giovanni presenta quest’opera proprio come una specie di ricapitolazione, un “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52).
5. Quest’opera giungerà a pienezza nel compimento della storia, allorché - è ancora Paolo a ricordarlo - “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28).
L’ultima pagina dell’Apocalisse - che è stata proclamata in apertura del nostro incontro - dipinge a vivi colori questa meta. La Chiesa e lo Spirito attendono e invocano quel momento in cui Cristo “consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza... L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa (Dio) ha posto sotto i piedi” del suo Figlio (1Cor 15,24.26).
Al termine di questa battaglia - cantata in pagine mirabili dall’Apocalisse - Cristo compirà la ‘ricapitolazione’ e coloro che saranno uniti a lui formeranno la comunità dei redenti, che “non sarà più ferita dal peccato, dalle impurità, dall’amor proprio, che distruggono o feriscono la comunità terrena degli uomini. La visione beatifica, nella quale Dio si manifesterà in modo inesauribile agli eletti, sarà sorgente perenne di gaudio, di pace e di reciproca comunione” (CCC, 1045).
La Chiesa, sposa innamorata dell’Agnello, con lo sguardofisso a quel giorno di luce, eleva l’invocazione ardente:“Maranathà” (1Cor 16,22), “Vieni, Signore Gesù!” (Ap 22,20).
* FONTE: VATICAN.VA, 14 FEBBRAIO 2001 (RIPRESA PARZIALE)
FLS
UNA QUESTIONE DI GIUSTIZIA E DI BILANCIA (di una "statera" non di una "statua").
Ipotesi per una rilettura della "Pesatrice di perle" di Johannes van der Meer *
NASCITA E "GIUDIZIO DI SALOMONE". Del dipinto Pesatrice di perle (o Donna con una bilancia) di Jan Vermeer (databile al 1664 e conservato nella National Gallery of Art di Washington), anche alla luce del fatto che dentro il quadro c’è rappresentato un altro quadro - un dipinto con un Giudizio Universale - c’è da pensare, probabilmente, che la figura della donna in avanzato stato di gravidanza rimandi alla figura della Sibilla Libica (raffigurata da tantissimi artisti e anche da Michelangelo nella Cappella Sistina) e al suo specifico annuncio del messaggio evangelico, e comunichi il rapporto che esiste tra la bilancia (la giustizia e l’equilibrio), il grembo (il concepimento), e la nascita di un bambino, una bambina - una maestra, un maestro di umanità...
A quanto pare, anche Jan Vermeer (1632- 1675), conosceva bene il tema delle Sibille e della Giustizia (di Astrea, della Virgo della IV Ecloga di Virgilio, Dante, e Michelangelo) e della bilancia (la parola esatta della profezia della Sibilla Libica)... ed è riuscito a dare un bel quadro del tema della nascita del Bambino, dell’implicito riferimento all’esemplare giudizio di Salomone sul comportamento delle due madri e, infine, allo stesso Giudizio Universale.!
Della Sibilla Libica, infatti, questo è il suo messaggio: «Uterus Matris erit statera cunctorum. L’utero della Madre sarà la bilancia di tutti gli esseri umani». Una bilancia ("statera"), non una "statua"!
Che re-fuso - e che confusione filologica e antropologica!
*
Federico La Sala
LA QUESTIONE DELL’ANTROPOCENTRISMO, IL RINASCIMENTO, E LA BIENNALE D’ARTE VENEZIA 2022...
ANTROPOLOGIA, STORIA, E FILOLOGIA. Per una messa in discussione critica dell’antropocentrismo rinascimentale (che ha matrici antiche, nella tradizione greco-romana), forse, sarebbe meglio ripartire dalla Trasfigurazione di Cristo del Beato Angelico del 1437-1446, e dall’opera di Lorenzo Valla, "Sulla Donazione di Costantino falsamente attribuita e falsificata" del 1440, e, infine, anche dall’uomo vitruviano (1490) e dal "bambino nel grembo materno" (del 1511) di Leonardo da Vinci.
PER RI-NASCERE, VEDERE DALLO SPAZIO IL SORGERE DELLA TERRA. Alla luce di questo capovolgimento di sguardo, si potrà osservare meglio il cammino della tentazione prometeica e faustiana dello stesso antropocentrismo del Rinascimento, fino ad arrivare alla hubris della tecnica, che si caratteriza per essere più un camuffato androcentrismo tragico (alla Socrate e alla Platone, come ha ben visto Nietzsche) che non un semplice antropocentrismo, antropologicamente fondato.
ARTE E SOCIETÀ. Piero di Cosimo è una figura-chiave del tempo: nel 1481 è a Roma col maestro Cosimo Rosselli, per lavorare nella Cappella Sistina (voluta da papa Sisto IV); e nel 1483 è a Firenze: del 1488 è la Sacra conversazione, ora nella Galleria dello Spedale degli Innocenti ("Era molto amico di Piero lo spedalingo de li Innocenti").
BAMBINI ABBANDONATI E ANDROCENTRISMO. Ricordato che anche Leonardo da Vinci era un figlio naturale e che il "presepe" era stato introdotto nella Firenze del ’400, nell’Ospedale degli Innocenti (l’Ospedale non ha la ruota ma una cappella aperta, il presepe, dove il bimbo veniva deposto tra le immagini di Gesù, nato povero e allevato nella carità), è da dire che il nodo di Ercole, il problema di come nascono i bambini, è ancora sciolto come la cosmoteandria tragica (Eschilo con Platone e Aristotele) comandava e, a metà 1500, con il Concilio di Trento "il matrimonio diventa un’istituzione obbligata, e l’ingresso dell’Ospedale viene chiuso da una grata; da luogo di accoglienza per i meno ricchi diviene rifugio per una sottospecie di infanzia, che nasce sotto il segno di una vergogna ereditata dalla madre" (Adriano Prosperi).
Federico La Sala
Cosmologia, antropologia, cristianesimo e civiltà.
"IL FIGLIO DELL’UOMO": UNA QUESTIONE ANTROPOLOGICA E FILOLOGICA...
COSMOLOGIA. “Da Copernico in poi l’uomo rotola dal centro verso una X”. Così Nietzsche, nel 1886. Ma, per un filosofo nato filologo e, per di più, uno dei grandi maestri del sospetto, contrariamente a quanto si è sempre ripetuto in modo "umano, troppo umano", non è bene tornare a interrogarlo e cercare di avere ulteriori dati sulla destinazione "ignota"?
ANTROPOLOGIA. Nel 1888 pubblica "Ecce homo. Come si diviene ciò che si è": un Urlo contro la paolina religione del "Vir Dei", una critica radicale della cosmoteandria faraonica, e un aut aut epocale.
LA PUNTA DI UN ICEBERG BIMILLENARIO: PUGLIA (12 FEBBRAIO 2022). "Ecce Vir": il "caso serio" del quadro intitolato "Sabinus vir Dei".
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana
SCIOGLIMENTO DEI GHIACCIAI E RINASCIMENTO, OGGI. Una ristrutturazione epocale e lo sgretolamento della cosmoteandria tradizionale (#cosmo, teologia/ #dio e #andrologia/uomo) è già da tempo in atto: la nascita di una antropologia annunciata già da Michelangelo nel suo "Tondo Doni", con le sue due sibille e i suoi due profeti - non "quattro profeti", come vuole la Galleria degli Uffizi, e da Galileo Galilei con il suo "Sidereus Nuncius" (1610), fondata sulla visione del sorgere della Terra, è già in cammino: un capovolgimento e una nuova ricapitolazione, una radicale inversione logico-storica!
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA E MESSAGGIO EVANGELICO: UNO SGUARDO NUOVO SULLA STORIA E SULL’ARTE...
L’evangelizzazione attraverso l’arte
Musei Vaticani, tour dell’anima con il direttore Barbara Jatta
di Elisa Calessi *
"[...] Andiamo, ora, alla Cappella Sistina. Ma non ci fermiamo davanti al Giudizio Universale. Barbara Jatta ci indica di guardare in alto, verso le Sibille. Maestose figure di donne, affrescate da Michelangelo Buonarroti tra il 1508 e il 1512. «Mi hanno sempre colpito perché sono annunciatrici del Verbo e sono imponenti. Se vogliamo, sembrano anche mascoline. La Delfica, la Libica, le ho sempre trovate figure meravigliose e molto incisive. Donne che parlano e vedono prima degli altri». Ci soffermiamo, in particolare, a osservare la Delfica. Ha in mano un rotolo, ma volge la testa dalla parte opposta, rispetto alla rotazione del corpo. Come se qualcosa o qualcuno l’avesse distratta, mentre era intenta a leggerlo.
Torniamo nella Pinacoteca. In una sala in fondo, l’ottava, il direttore dei Musei Vaticani ci mostra un dipinto di grandi dimensioni: è la Madonna di Foligno di Raffaello. «È una opera della maturità artistica, che guarda agli artisti veneti, ma anche alla plasticità di Michelangelo. Ha una dolcezza infinita. La trovo un’opera bellissima». Gli occhi le brillano. «È un grande privilegio del mio lavoro, una grande benedizione, essere attorniata da questa bellezza. Perché ti ricarica. Come mi ha detto poco tempo fa Papa Francesco, l’arte aiuta ad andare avanti. Le difficoltà ci sono, ovviamente. Ma sono ripagate. Questa bellezza ti dà la forza di continuare con passione, ma anche con devozione, con senso di responsabilità per questo ruolo così delicato e importante. Un ruolo di conservazione e condivisione di un patrimonio non solo di storia e di arte, ma anche di fede e di devozione cristiana».
Le chiediamo come si intrecciano l’arte e la fede. «Questi - spiega - sono Musei dove l’identità cristiana è talmente forte che l’attenzione all’aspetto di evangelizzazione è preminente. Io sono una storica dell’arte, ma in questo luogo le considerazioni sono e devono essere diverse. Le faccio un esempio: io faccio parte di un consesso di direttori di musei internazionali, Louvre, National Gallery, eccetera. Ma sento fortemente di essere portatrice di una identità diversa, che è quella cristiana. Quella che si fa qui è un’opera non solo di educazione artistica e storica, ma di evangelizzazione attraverso l’arte. Lo aveva capito Pio xi quando, all’indomani dei Trattati Lateranensi del 1929, istituì la commissione edilizia che permise di costruire la rampa dell’ingresso e il portone principale e che consentì di far entrare i visitatori direttamente dall’Italia. Dal 1932 chiunque può pagare un biglietto ed entrare facilmente. Prima, invece, dovevi entrare dal Palazzo. E i Musei erano aperti solo per diplomatici, accademici. Pio XI capì, da uomo di cultura e di fede, la straordinaria potenzialità di evangelizzazione racchiusa in queste collezioni».
E, in questo trionfo di bellezza, la donna è centrale. «Non c’è dubbio che le figure femminili sono notevoli in tutte le collezioni. La Vergine è la rappresentazione per eccellenza nell’arte cristiana. In alcuni casi, forse ancora di più del Cristo. Ma già nell’antichità la figura femminile è estremamente valorizzata nelle Veneri». Ce ne fa vedere due, in particolare. Si trovano nel Museo Pio Clementino, Gabinetto delle Maschere. La prima è una copia dell’Afrodite di Doidalsas. «Guardi il volto, la dolcezza dei movimenti». La seconda, nella stessa stanza, è una copia romana dell’Afrodite Cnidia di Prassitele. In piedi, le fattezze morbide, l’espressione seria.
«Ci sono tante Veneri meravigliose nel Museo Pio Clementino. E c’è una scultura femminile bellissima nel Museo Gregoriano Profano». È la Niobide Chiaramonti. La statua, una copia di età adrianea, raffigura una delle figlie di Niobe mentre tenta di fuggire dalle frecce di Apollo e Artemide. Manca la testa, è rimasto solo il corpo. «È una donna forte, ma in movimento. E ha un panneggio splendido, mosso dal vento», ci invita a osservare. Effettivamente, a guardarla, colpisce questo moto di tutto il corpo, come se lo scultore avesse catturato l’istante in cui fugge. «L’abbiamo messa al centro della sala. Del resto, anche la Niobide è una divinità».
C’è una continuità «tra l’arte antica e quella cristiana: la donna è espressione di un canone di dolcezza, di bellezza. Con il cristianesimo, poi, il soggetto femminile ha uno sviluppo esponenziale, per il ruolo che la Vergine ricopre nella vita».
Il nostro viaggio è finito, ci dirigiamo verso l’uscita. Non prima di aver dedicato un ultimo sguardo alla Niobide fuggente.
Barbara Jatta è direttore dei Musei Vaticani, nominata da Papa Francesco, dal 1 gennaio 2017. Cinquantanove anni, storica dell’arte, è la prima donna a ricoprire questa carica in cinquecento anni di storia delle collezioni pontificie. Nei Musei ogni giorno operano circa mille persone, tra dipendenti e collaboratori.
* L’Osservatore Romano, 05 febbraio 2022 (ripresa parziale).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Federico La Sala
#ANTROPOLOGIA E #ARTE. #Michelangelo insegna: la #storia non la fanno solo i #profeti, ma anche le #sibille. #Apriregliocchi sulla #cornice del quadro #TondoDoni (https://uffizi.it/opere/sacra-famiglia-detta-tondo-doni ) e la #CappellaSistina
Un esercizio audace e creativo per ispirare uno stile sinodale «dal basso».
Le Sibille e la narrazione sinodale.
di Paolo Scarafoni - Filomena Rizzo *
Il popolo di Dio torni a parlare nella Chiesa! Sembra che balbetti con problemi che vanno dalla afasia, potrebbe parlare ma non sa; alla disartria, saprebbe parlare ma non può. Lo sforzo iniziale del sinodo per recuperare il popolo di Dio sarebbe quello di una rieducazione alla comunicazione, magari con dei mediatori?
Papa Francesco raccomanda di non perdere il «filo rosso» del Convegno ecclesiale di Firenze, dove invitava a ricominciare «dal basso», «dalle piccole comunità, dalle piccole parrocchie» affinché «esca la saggezza del popolo di Dio». Si tratta di «porsi al servizio di questa grande opera di raccolta delle narrazioni delle persone: di tutte le persone, perché in ciascuno opera in qualche misura lo Spirito; anche in coloro che noi riterremmo lontani e distratti, indifferenti e persino ostili» (CEI 12.10.2021). La rieducazione è al contrario. È il nostro ascolto che si deve aprire a comprendere parole nuove. Il percorso sinodale di questo biennio nella dimensione della narrazione «è per sua natura alla portata di tutti, anche di coloro che non si sentono a loro agio con i concetti teologici» (CEI 29.09.2021).
È a noi cara la cittadina di Contursi Terme, in provincia di Salerno, dove trascorriamo parte dell’estate. La sua suggestiva chiesetta del Carmine ci ha stimolato a riconoscere alcuni percorsi di fede propri di quella comunità. È il nostro «caso serio», di Balthasariana memoria. È un esercizio audace di creatività che non vuole dettare un programma, ma ispirare uno stile sinodale «dal basso» per l’evangelizzazione (Evangelii gaudium 33).
Di fronte agli accomodamenti e alle storture che iniziavano ad attenuare la fiamma cristocentrica accesa dal Concilio, Von Balthasar scriveva della vergine e martire Cordula, modello della accoglienza della novità irrinunciabile di Cristo. Noi facciamo riferimento alle dodici vergini Sibille dipinte a tempera sulle pareti della «piccola cappella sistina» del Carmine, che sono patrimonio della vita di fede dei contursani. Sono percorsi meno ufficiali e linguaggi creativi, nei quali molti potrebbero riconoscersi come persone che si appartengono in ragione della chiamata di Dio e riscoprire l’identità della Chiesa particolare per aprire nuove prospettive e orizzonti, non soltanto in vista del contributo da inviare alla segreteria del sinodo.
I Padri della Chiesa hanno trovato alleate preziose nelle Sibille, grazie alle loro profezie, come lampade che illuminano il cammino dell’umanità pagana verso il cristianesimo. I profeti annunciavano il Messia al popolo d’Israele, le Sibille il Salvatore ai pagani.
Varrone e Lattanzio enumerarono dieci Sibille, per lo più collocate in oriente. Nel 1481 il domenicano Filippo Barbieri all’elenco ne aggiunge due, con il proposito di riequilibrare geograficamente la loro presenza nel mondo occidentale e raggiungere il numero simbolico di 12, segno di pienezza sacra nell’ebraismo e nel cristianesimo.
Nel 1608 un ignoto frate carmelitano, con l’aiuto di modesti artisti, «scrisse» pittoricamente un poema sulla «nascita della fede». Rappresentando le Sibille ha saputo raccogliere le istanze pietistico devozionali di quel tempo del popolo contursano, sensibile ai doni divini, circondato da bellezze naturali, con numerose e abbondanti sorgenti di acque benefiche e terapeutiche. Esse sono un patrimonio che attraversa le generazioni, in quella pietà popolare sana, nella consuetudine di stare con Dio.
Il popolo di Contursi Terme, molto attento e attivo riguardo alle problematiche civili, può attingere anche a questa ricchezza per cementare il senso di comunità. Le Sibille aiutano a pensare modelli ecclesiali più liberi, per riattivare la circolarità delle relazioni come nella Chiesa nascente, rispetto alla visione di un’armata, o di una istituzione ingessata d’altri tempi.
Le Sibille erano donne del Mediterraneo, libere, voci profetiche del paganesimo greco, del monoteismo giudaico, della religione politeista romana e del cristianesimo, in diretto collegamento con lo Spirito divino. Un importante esercizio narrativo, quando si partecipa «alle celebrazioni, alla preghiera, ai dialoghi, ai confronti, agli scambi di esperienze e ai dibattiti», sarebbe quello di ricordare le donne della comunità, non soltanto le più prestigiose, ma tutte quelle significative nelle singole famiglie e a livello di paese. Si tratta della memoria che penetra nel quotidiano e nei piccoli gesti, che costruiscono la vera santità comunitaria (Gaudete et exultate 16); ma non solo, sarebbe un esercizio che serve a tutti per superare una mentalità patriarcale, dare il giusto valore alle donne, costruttrici di quella comunità, ed educare a relazioni positive e paritarie, che non si prestino alla violenza di genere.
I nomi delle Sibille ricordano la fratellanza dei popoli perché sono derivati dal luogo che la tradizione assegna loro come patria, e rivelano il ruolo della loro missione nelle nazioni. La comunità potrebbe riflettere sull’accoglienza delle numerose famiglie di stranieri che ormai ne fanno parte e dei tanti turisti che ogni anno visitano le terme, per purificare stereotipi e pregiudizi. Aiuterebbe fare riferimento all’alleanza di Noè o dei popoli, alla quale è legata la Sibilla, spesso identificata con quella Cumana, che sarebbe salita sull’arca per essere salvata, quale moglie di uno dei figli del patriarca (Oracoli sibillini I, 211; III, 827).
Nella fratellanza e nell’accoglienza c’è sempre lo spezzare il pane insieme. La Sibilla Persica vaticinava che Cristo avrebbe moltiplicato il pane e i pesci per sfamare il popolo (Oracoli sibillini I,357; VI,15), a sostegno anche oggi della moltiplicazione di esperienze solidali, della cura per gli altri, che «viene dal basso e in piena gratuità».
Il territorio di Contursi è in prevalenza a vocazione agricola. Fa parte di quelle «aree interne» del Meridione d’Italia. Ora è seriamente minacciato dal dislocamento di industrie inquinanti. Le comunità della valle dei fiumi Sele e Tanagro sono chiamate ad intervenire con spirito libero e amore per il creato sul proprio futuro. La comunità sta reagendo con tante iniziative per diventare protagonista di una nuova stagione di sviluppo sostenibile.
Le Sibille superano la cultura maschilista del conflitto e del profitto perché hanno un aspetto cosmico messo in evidenza già da Plutarco: come donne sono legate alla vita, alla fertilità, la loro morte è una non morte. Il loro corpo insepolto valica i confini spazio-temporali, con «una sorta di metamorfosi del corpo, che si assimila alla terra, alle erbe, agli animali, anch’essi portatori dello pneuma profetico», ai quali dona capacità mantiche.
Ecco perché da sempre sono simbolo della «cura del creato» e della «forza dello Spirito». La loro presenza nelle nostre chiese, accolta nel tempo, avrebbe dovuto agevolare il processo di recezione dei contenuti del Sinodo sull’Amazzonia e degli appelli di Querida Amazonía, ed evitare polemiche sterili e pretestuose. Profondo è il collegamento con le culture amazzoniche, che presentano la Madre Terra, che mai potrebbe essere confusa con la Madre di Dio, alla quale proprio le Sibille dedicano tanti versi. Il più bello è forse quello della Libica o italica: «Uterus Matris erit statera cunctorum. L’utero della Madre sarà la bilancia dell’umanità».
Il magistero sul creato di Papa Francesco potrebbe rafforzare la consapevolezza della comunità locale per giungere a decisioni di bene comune per il proprio futuro. L’esercizio del «discernere insieme» proposto dalla Chiesa, potrebbe essere di aiuto e di ispirazione, senza invadere gli spazi e le competenze, in un reciproco scambio di doni eliminando definitivamente i vecchi schemi di contrapposizione ideologica. A sua volta il cammino sinodale locale si arricchirebbe di contributi a contatto con le problematiche reali che vive la comunità.
La Chiesa non rinunci ad essere un presidio, un «ospedale da campo». Il coinvolgimento civile, rispettoso e libero, da parte dei cristiani, che si sforzano di essere testimoni credibili, potrebbe risvegliare in molti il desiderio di conoscere Gesù e il ritorno ad una più autentica vita sacramentale: anche la tradizione liturgica è ricca di riferimenti alle Sibille. In pieno Medioevo, nella celebrazione della Vigilia di Natale, nell’elenco dei «Profeti di Cristo» (Ordo Prophetarum) era compresa anche la Sibilla Eritrea, chiamata ad annunciare con il canto il ritorno del Signore nel Giorno del Giudizio. Come non ricordare la devozione popolare che è confluita nella liturgia romana funebre con la sequenza Dies irae: «Dies irae, dies illa, Solvet seclum in favilla, Teste David cum Sibylla».
Le Sibille possiedono in germe i tre tratti dell’umanesimo cristiano «umiltà, disinteresse, beatitudine», che stentiamo ancora a riconoscere nella società e perfino nella Chiesa. Sono fortemente auspicati dal Concilio Vaticano II, e possiamo augurarci di ritrovarli seminati in mezzo al popolo. Quelle vergini non sono ossessionate dal «potere» e dalla ricchezza, hanno uno stile di vita sobrio. Non sono sacerdotesse, non vivono in templi ma in grotte e presso corsi d’acqua accessibili a chiunque. I loro vaticini non si rivolgono all’interesse dei singoli, dei potenti, ma riguardano tutti, l’intera comunità, non sono astratti né ideologici. Indicano un cammino che porta a Cristo, cambiamenti profondi nell’umanità, e mettono in guardia contro il male. Papa Francesco invita a ritrovare la gioia di «annunciare il Vangelo in un tempo di rigenerazione» partendo dalle realtà locali. È il momento favorevole per questo esercizio, possibile in tante piccole comunità cristiane in Italia, che de vono riscoprire il loro «caso serio», e trovare elementi di ispirazione per incarnare il Vangelo.
VITA "EXTRATERRESTRE" E SGUARDO NUOVO. Tracce per una svolta_antropologica...
IL PRESENTE. Come è possibile "guardare al futuro" se torniamo al passato? Grazie al "passato", siamo arrivati al "presente" ("futuro" del passato). Ma "un ritorno al passato", cosa può dirci di diverso da quanto già sappiamo, se ancora camminiamo e pensiamo come in "passato"?!
IL PASSATO. Un vento fortissimo viene dal passato e questo vento (ricordare Walter Benjamin) a noi, che siamo spinti sempre più avanti e che continuiamo a guardare ipnotizzati il "passato", quale "futuro" mostra? Un crescere oceanico di macerie e rifiuti...
Filosofia, Scienza, e DisagiodellaCiviltà (Freud, 1929). Il problema è proprio quello di liberare l’epistemologia dalla caverna platonica e ripartire da un ulteriore sguardo nel gorgo claustrofilico (Elvio Fachinelli, Claustrofilia, 1983) e soprattutto da un fatto inaudito e impensato: nascere, diventare un essere umano extraterrestre e aprire gli occhi sul ... SorgeredellaTerra.
Federico La Sala
MUSICA, MUSE, PROFETI E SIBILLE, ANTROPOLOGIA, E "MOS-ART" DI SALUTE E LIBERAZIONE:
DISAGIO DELLA CIVILTA’ (FREUD, 1929). Il problema, a mio parere, è che la ricerca e i risultati di Alfred A. Tomatis (Nizza, 1º gennaio1920 - Carcassonne, 25 dicembre2001) sono talmente innervati con la nostra non-volontà di sapere di sé che, pur comprendendo che già il solo "parlare è suonare il proprio corpo" (Alfred Tomatis), alle accademiche platoniche orecchie (cieche e sorde e zoppe, come quelle di Edipo) il messaggio non arriva o arriva assolutamente distorto.
DANTE 2021: MEMORIA DI APOLLO E DELLE MUSE
Roma. C’è Giuditta fra Caravaggio, Artemisia e gli altri
Una mostra affianca al capolavoro di Palazzo Barberini circa trenta opere sul tema dell’eroina biblica. Il confronto, come al solito, è con la figlia di Orazio Gentileschi
di Maurizio Cecchetti (Avvenire, giovedì 30 dicembre 2021)
Quando c’è di mezzo Caravaggio, è bene cercare sempre nel quadro un riflesso della sua vita interiore, della sua psicologia. Per un artista dal carattere rissoso e mosso da un forte sentimento competitivo, che a quanto riporta Gaspare Celio - pittore e trattatista seicentesco di cui qualche anno fa venne scoperta una copia del suo compendio alle Vite del Vasari - forse era fuggito da Milano ancora giovane per evitare processi per un omicidio non ben precisato, e che altri ne commetterà a Roma e altrove, si può pensare che mentre dipingeva il quadro Giuditta decapita Oloferne si ricordasse di ciò che aveva provato assistendo ad alcune esecuzioni capitali, riflettendo su se stesso («e se prima o poi dovesse capitare anche a me?). Nelle azioni drammatiche che dipingeva, spesso lui è dentro il quadro: nel Davide con la testa di Golia, è suo il volto del gigante. Nel Martirio di san Matteo, lui è ai margini della scena e si gira a guardare l’assassinio dell’evangelista; nella Cattura di Cristo è sulla destra che alza la testa per vedere sopra la fila dei soldati venuti per arrestare Gesù... Che cosa vede? Se l’immagine ha un senso, vede Giuda che sta per baciare il suo profeta disarmato mentre lo consegna alla giustizia romana: il quadro è un saggio di antropologia sul tradimento degli “amici”...
A voler stare ai fatti, non ci fu nessuna sfida fra Artemisia e Caravaggio. Tanto più che quando lui morì, nel 1610, ormai lontano da Roma da qualche anno, Artemisia aveva circa diciassette anni e aveva appreso gli strumenti della pittura attraverso il padre, nella cui bottega transitavano artisti di valore e notabili della Roma reduce, dopo il 1600, da uno dei giubilei più fastosi e più orientati al trionfalismo della Chiesa che stava da decenni contrastando l’avanzata protestante.
Se di sfida si può parlare riguardo ad Artemisia, l’unica degna di approfondimenti è quella con la pittura del padre Orazio. Ma di questo parlerò fra poco, perché è un altro il tema della mostra romana ordinata a Palazzo Barberini fino al 27 marzo da Maria Cristina Terzaghi, storica dell’arte con un nutrito carnet di saggi sul Caravaggio (anche lei fu tra i primi a rinvenire la mano del pittore nell’Ecce homo spuntato come un fungo dalla sera alla mattina a Madrid in un’asta, poi ritirato e finito nel caveau del Prado che lo sta facendo pulire per capire se è veramente di Caravaggio).
Il tema della mostra infatti è quello dell’episodio biblico di Giuditta e Oloferne, la cui interpretazione prima di Caravaggio non ebbe mai la stessa capacità di raffigurare un evento efferato e sacro come se stesse accadendo sotto i nostri occhi.
La mostra è accompagnata da un catalogo (Officina libraria) con le opere esposte e le schede per ogni dipinto, precedute da alcuni saggi storici che seguono percorsi iconografici, letterari, sociali, fino agli sviluppi psicoanalitici su “Donne e violenza nell’arte occidentale”. Ovviamente, la curatrice ha redatto un saggio ampio e ponderoso sulla storia del dipinto caravaggesco, a partire dal primo proprietario, il banchiere Ottavio Costa, che possedeva altre due opere del pittore, ma della Giuditta fu particolarmente “geloso” (forse, come pensa la Terzaghi, non voleva che qualcuno convincesse Caravaggio a farne un’altra versione, in realtà io credo che le ragioni fossero legate alla natura e qualità stessa del quadro: inaudita potenza visiva e conturbante bellezza sacra). Quando la tela venne scoperta dal restauratore romano Pico Cellini nel 1951, la retrospettiva del Caravaggio a Milano era stata già inaugurata. Longhi, strabiliato dalla bellezza dell’opera, fece prorogare la mostra di due mesi perché il quadro potesse venire esposto. Ci fu anche il tentativo di venderlo all’estero, ma la pronta notifica vincolò il quadro, che venne acquistato dallo Stato vent’anni dopo, nel 1971, per 250 milioni di lire. Non mi dilungo sugli accostamenti, già fatti nei decenni scorsi, con un fatto di cronaca che fece scalpore, la decapitazione di Beatrice Cenci nel 1599 per aver ucciso il padre che la maltrattava e la segregava. Secondo Gianni Papi, in realtà, l’opera sarebbe successiva, anche a quelle della Cappella Contarelli (ciclo di san Matteo). Un documento che attesta un pagamento del banchiere Costa datato 1602 per un quadro imprecisato, rafforzerebbe il dubbio sulla cronologia. -Segnalo i riferimenti che Terzaghi fa con alcune opere che potrebbero aver ispirato Caravaggio nel momento in cui escogitava l’opera (in particolare una incisione del 1540 di Giovan Battista Scultori derivata da una Giuditta decapita Oloferne di Giulio Romano, che potrebbe far pensare alle peregrinazioni del Merisi in quegli anni “vacanti” tra Milano e Roma, che lo portarono quasi certamente fino a Venezia); e tralascio gli spunti per l’identificazione della modella che prestò la sua bellezza a Giuditta (Longhi l’aveva definita una «Fornarina del naturalismo»), con ogni probabilità Fillide Melandroni, cortigiana senese a Roma fin da adolescente.
Con Artemisia si entra, invece, in un campo minato, perché la “premiata ditta Gentileschi”, «padre e figlia», in realtà è ancora coperta da ombre e da dissidi familiari da chiarire. Da tempo è in atto una ricerca che aspira a distinguere con chiarezza le opere che sono di Orazio e quelle di Artemisia. Non è facile, almeno tra quelle che precedono l’esodo della pittrice da Roma. Resta però, a mio parere, un elemento dirimente che possono negare soltanto quelli che si richiamano ancora al mito femminista di Artemisia - il libro di Anna Banti diede la stura a questa interpretazione da superare -: Orazio è un pittore più bravo di sua figlia. Ed è sulle qualità pittoriche che bisogna trovare un maggior accordo fra gli studiosi.
Il caso da manuale riguarda le due versioni della Giuditta decapita Oloferne attribuite ad Artemisia: quella di Capodimonte, esposta ora a Roma, e quella degli Uffizi: quasi identica l’impostazione, ma in realtà diversa nello spazio, perché quella di Firenze è più ampia e mostra le gambe di Oloferne, ma soprattutto il sangue che sprizza ovunque con una violenza che nel quadro di Capodimonte, seppur più ravvicinato, è attenuata. Quel sangue che imbratta, come uno stigma psicologico, fa pensare a una mano femminile. Nel quadro di Napoli l’eroina indossa un abito azzurro-blu, mentre a Firenze è del tipico giallo che ricorre spesso nella pittura di Artemisia. Orazio dipinge con maggior eleganza e raffinatezza, con una luce che esalta la bellezza “sartoriale” dei tessuti e congela i toni in una visione quasi metafisica (per esempio il bianco dei lenzuoli), come si vede anche nella tela Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne di Hartford.
Vi fu sempre un certo traffico di opere dallo studio di Orazio, dove anche la giovane Artemisia lavorava, e i documenti, che anche la Terzaghi ricorda, oggi insinuano il dubbio che il quadro di Capodimonte possa essere, come sostenevo fin dalla mostra del 1991 che rilanciò il mito di Artemisia, non suo ma di Orazio. Questo, francamente, rende un po’ superficiale il giudizio di Keith Christiansen secondo cui Orazio non badava troppo alla paternità dei suoi dipinti. Se fosse per amore verso la figlia non so, può anche darsi, ma il problema potrebbe invece essere che Artemisia aveva il “complesso di Elettra”, come direbbero gli psicoanalisti, cioè invidiava l’intesa fra Orazio e la sua pittura, vedendola come sostituta della madre. Ci sarebbe ben altro da aggiungere riguardo ai quadri esposti, fra cui figurano, tra i più straordinari, quelli del Valentin, di Cristofano Allori, di Cagnacci, di Manfredi, di Lavinia Fontana, di Pierfrancesco Foschi e del Tintoretto.
Mi limito a due appunti finali sull’impostazione della mostra: aver poco approfondito la diversa interpretazione del tema da parte di mani femminili, rispetto alla predominanza di quelle maschili. Questo è il classico tema su cui si possono indagare due psicologie, se non opposte, complementari.
La seconda riguarda il fatto biblico, rispetto al quale si offre una lettura poco puntuale per lo più vedendo la fortuna del tema in funzione antiprotestante. In sostanza, mi chiedo perché fra saggi storici molto curati, compreso quello del Giano bifronte Filippo Maria Ferro, grande studioso d’arte e psicoanalista, non abbia trovato posto il contributo di un teologo-biblista.
Chi vuole può compensare la carenza appoggiandosi all’ultimo numero di “La Civiltà Cattolica” (4114) dove i gesuiti Saverio Corradino e Giancarlo Pani offrono una propedeutica al tema, ovvero La teologia della storia nel Libro di Giuditta, che il testamento ebraico non ha accolto fra i canonici, ma che i due autori definiscono «a suo modo un midrash sull’intera storia della salvezza».
LETTERATURA E FILOSOFIA...
DANTE 2021: "IL BUON DIO STA NEL DETTAGLIO" (diceva Aby Warburg)!
ANTROPOLOGIA E "MISTICA". All’epoca di Miguel de Cervantes (1547-1616), «Dio cammina anche tra le pentole» (Fondazioni V,8): la cavalleria è finita e comincia l’avventura di una nuova fenomenologia dello spirito (già oltre la logica del Padrone e del Servo di Hegel), quella di Teresa d’Avila (1515-1582): sulle ali di Michelangelo (1475-1564) , ella sollecita a ripensare l’incarnazione e la sacra famiglia e comincia a indicare, con sibille e profeti, un cammino antropologico inedito - al di là della tragedia!
La storia non la fanno i soliti "quattro profeti" (si cfr. la scheda sul "Tondo Doni" della Galleria degli Uffizi e si osservino bene le figure nella cornice del quadro).
Federico La Sala
#MESSAGGIOEVANGELICO
E
#MAGISTERO ANTROPOLOGICO
A #FUTURAMEMORIA.
Per una #Cristologia
non andrologica,
lezione di #TeresadAvila,
#STORIA #ARTE #ARTERAPIA #FILOSOFIA #FILOLOGIA:
IL #QUADRO E LA #CORNICE DEL #TONDO DONI.
UNA #QUESTIONE DI #ANTROPOLOGIA E DI #PRESEPE ...
Ad #Arte? Se nella #cornice del #TondoDoni, "sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti" (Galleria degli Uffizi), e non quelle di #due profeti e di due #sibille, cosa si può capire dei #due soli di #Dante e del racconto della #Cappella Sistina?:
Michelangelo dipinse questa #SacraFamiglia per #AgnoloDoni, mercante fiorentino il cui prestigioso matrimonio nel 1504 con Maddalena Strozzi avvenne in un periodo cruciale per l’arte a #Firenze di inizio secolo. La compresenza in città di #Leonardo, #Michelangelo e #Raffaello apportò uno scatto di crescita al già vivace ambiente fiorentino, che nel primo decennio del secolo visse una stagione di altissimo fervore culturale.
(...) La #cornice del #tondo, probabilmente su disegno di Michelangelo è stata intagliata da Francesco del Tasso, esponente della più alta tradizione dell’intaglio ligneo fiorentino. Vi sono raffigurate la #testa di #Cristo e quelle di #quattro #profeti, circondate da grottesche e racemi, in cui sono nascoste, in alto a sinistra, delle mezze lune, insegne araldiche della famiglia Strozzi.
Federico La Sala
Santo del giorno: 21 novembre
Solennità di Cristo Re *
Il Papa Pio XI, istituendo nell’anno Giubilare 1925 la nuova solennità di Cristo Re, pubblicava la sapientissima enciclica «Quas primas». Ne riportiamo i punti principali.
«Avendo concorso quest’Anno Santo non in uno ma in più modi, ad illustrare il regno di Cristo, ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro apostolico ufficio, se, assecondando le preghiere di moltissimi Cardinali, Vescovi e fedeli fatte a Noi, sia da soli, sia collettivamente, chiuderemo questo stesso Anno coll’introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re. Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l’appellativo di Re, per il sommo grado di eccellenza che ha in modo sovraeminenie fra tutte le cose create. In tal modo infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini, non solo per l’altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è la Verità, ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da lui la verità. Similmente Egli regna nelle volontà degli uomini sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perchè con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra, in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori, per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità ».
La regalità di Gesù Cristo « consta di una triplice potestà: la prima è la potestà legislativa. È dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui essi debbono riporre la loro fiducia e nel tempo stesso come Legislatore, a cui debbono ubbidire. In secondo luogo egli ebbe dal padre la potestà di giudicare il cielo e la terra, non solo come Dio, ma ancora come uomo. Infine diciamo che Gesù Cristo ha pure il diritto di premiare o punire gli uomini anche durante la loro vita ».
Dove si trova il regno di N. S. Gesù Cristo? Di quali caratteri particolari è dotato? Come si acquista? Il regno di N. S. Gesù Cristo « ha principalmente carattere soprannaturale e attinente alle cose spirituali. Infatti quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, Egli cercò di togliere loro dal capo queste vane attese, e questa speranza ». Così pure quando la folla, presa da ammirazione per gli strepitosi prodigi da lui operati, voleva acclamarlo re, egli miracolosamente si sottrasse ai loro sguardi e si nascose: ed a Pilato che l’aveva interrogato sul suo regno rispose: « Il mio regno non è di questo mondo ». L’ingresso in questo regno soprannaturale, si attua mediante la penitenza e la fede, e richiede nei sudditi il distacco dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e la sete di giustizia ed inoltre il rinnegamento di se stessi per portare la croce dietro al Signore. Ecco il programma di ogni cristiano che vuole essere vero suddito di Gesù Cristo Re!
* Fonte: Santo del giorno, 21 novembre 2021 (ripresa parziale).
Note:
Martirologio Romano: Solennità di nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’Universo: a Lui solo il potere, la gloria e la maestà negli infiniti secoli dei secoli:
"[...] Questa festa fu introdotta da papa Pio XI, con l’enciclica “Quas primas” dell’11 dicembre 1925, a coronamento del Giubileo che si celebrava in quell’anno.
È poco noto e, forse, un po’ dimenticato. Non appena elevato al soglio pontificio, nel 1922, Pio XI condannò in primo luogo esplicitamente il liberalismo “cattolico” nella sua enciclica “Ubi arcano Dei”. Egli comprese, però, che una disapprovazione in un’enciclica non sarebbe valsa a molto, visto che il popolo cristiano non leggeva i messaggi papali. Quel saggio pontefice pensò allora che il miglior modo di istruirlo fosse quello di utilizzare la liturgia. Di qui l’origine della “Quas primas”, nella quale egli dimostrava che la regalità di Cristo implicava (ed implica) necessariamente il dovere per i cattolici di fare quanto in loro potere per tendere verso l’ideale dello Stato cattolico: “Accelerare e affrettare questo ritorno [alla regalità sociale di Cristo] coll’azione e coll’opera loro, sarebbe dovere dei cattolici”. Dichiarava, quindi, di istituire la festa di Cristo Re, spiegando la sua intenzione di opporre così “un rimedio efficacissimo a quella peste, che pervade l’umana società. La peste della età nostra è il così detto laicismo, coi suoi errori e i suoi empi incentivi”.
Tale festività coincide con l’ultima domenica dell’anno liturgico, con ciò indicandosi che Cristo Redentore è Signore della storia e del tempo, a cui tutti gli uomini e le altre creature sono soggetti. Egli è l’Alfa e l’Omega, come canta l’Apocalisse (Ap 21, 6). Gesù stesso, dinanzi a Pilato, ha affermato categoricamente la sua regalità. Alla domanda di Pilato: “Allora tu sei re?”, il Divino Redentore rispose: “Tu lo dici, io sono re” (Gv 18, 37).
Pio XI insegnava che Cristo è veramente Re. Egli solo, infatti, Dio e uomo - scriveva il successore Pio XII, nell’enciclica “Ad caeli Reginam” dell’11 ottobre 1954 - “in senso pieno, proprio e assoluto, ... è re”. [...]" (cfr. "Santi e beati": Francesco Patruno).
PIO XI, LETTERA ENCICLICA QUAS PRIMAS, 11 dicembre 1925
FLS
L’intervento del nunzio apostolico Pierre all’assemblea generale dei vescovi degli Stati Uniti
L’unità è il futuro di una Chiesa sinodale
di Amedeo Lomonaco (L’Osservatore Romano, 17 novembre 2021)
«Il cammino verso il futuro implica necessariamente l’unità. Una Chiesa divisa non sarà mai in grado di condurre gli altri all’unità più profonda voluta da Cristo». È quanto ha affermato, martedì 16 novembre, l’arcivescovo Christophe Pierre, nunzio apostolico negli Stati Uniti, nella giornata di apertura dell’assemblea generale della Conferenza dei vescovi cattolici del Paese (Usccb). L’appuntamento si svolge a Baltimora, nel Maryland, fino al 18 novembre, con la partecipazione di quasi 300 vescovi chiamati a riflettere sul tema dell’Eucaristia.
Il presule ha centrato il suo intervento sul tema della sinodalità, sulla scia del processo avviato da Papa Francesco in tutta la Chiesa. La sinodalità, ha detto, «non è un concetto astratto», ma aiuta ad affrontare «la realtà della nostra situazione attuale» come «una risposta alle sfide del nostro tempo e al confronto che minaccia di dividere questo Paese e che ha anche i suoi echi nella Chiesa. Sembra che molti non si rendano conto di essere impegnati in questo confronto, prendendo posizioni radicate in certe verità, ma isolate nel mondo delle idee e non applicate alla realtà dell’esperienza di fede, vissuta dal popolo di Dio nelle situazioni concrete».
Il nunzio ha ricordato «diverse questioni urgenti che la Chiesa deve affrontare oggi». Una di queste è la vita: «Non possiamo abbandonare la nostra difesa della vita umana innocente o della persona vulnerabile». Tuttavia, ha aggiunto, un approccio sinodale «sarebbe quello di capire meglio perché le persone cercano di interrompere le gravidanze», quali sono «le cause profonde delle scelte contro la vita» e quali sono i fattori che rendono queste scelte «così complicate per alcuni».
Sul tema dell’Eucaristia ha affermato che «le realtà sono più importanti delle idee. Possiamo avere tutte le idee teologiche sull’Eucaristia - e, naturalmente, ne abbiamo bisogno - ma nessuna di queste idee è paragonabile alla realtà del Mistero eucaristico, che ha bisogno di essere scoperto e riscoperto attraverso l’esperienza pratica della Chiesa, vivendo in comunione, particolarmente in questo tempo di pandemia. Possiamo diventare così concentrati sulla sacralità delle forme della liturgia che perdiamo il vero incontro con la Sua presenza reale. C’è la tentazione di trattare l’Eucaristia come qualcosa da offrire a pochi privilegiati piuttosto che cercare di camminare con coloro la cui teologia o discepolato è carente, aiutandoli a comprendere e apprezzare il dono dell’Eucaristia e aiutandoli a superare le loro difficoltà. Piuttosto che rimanere intrappolati in una “ideologia del sacro”, la sinodalità è un metodo che ci aiuta a scoprire insieme una via da seguire».
Dopo l’intervento del nunzio, ha preso la parola monsignor José Horacio Gómez, arcivescovo di Los Angeles e presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, che ha ricordato come la missione della Chiesa sia «la stessa in ogni tempo e in ogni luogo»: è quella di «proclamare Gesù Cristo e aiutare ogni persona a trovarlo e a camminare con Lui». Dio, ha sottolineato, ci chiama «a costruire il suo Regno» e a infondere nella società «i valori del Vangelo». «La sfida che abbiamo è quella di capire come la Chiesa dovrebbe svolgere la propria missione in un’America che ora è altamente secolarizzata».
Citando l’appello costante di Papa Francesco per una Chiesa missionaria, monsignor Gómez ha ricordato che ogni cattolico condivide la responsabilità per la missione:
sacerdoti,
diaconi,
seminaristi,
religiosi e consacrati,
uomini e donne laici:
siamo tutti battezzati per essere missionari».
Nonostante uno scenario difficile, reso ancora più critico dall’attuale pandemia, l’arcivescovo di Los Angeles afferma che ci sono segni di speranza: c’è «un risveglio spirituale» nel Paese e molti «sono alla ricerca» in un momento in cui «la società americana sembra perdere la sua storia, radicata in una visione biblica del mondo». «Stanno cercando una nuova storia che dia senso alla loro vita». Ma «non hanno bisogno - ha affermato monsignor Gómez - di una nuova storia». «Ciò di cui hanno bisogno è ascoltare la vera storia, la bellissima storia dell’amore di Cristo per noi, il suo morire e risorgere dalla morte per noi, e la speranza che egli porta alle nostre vite». Infine, ha parlato del piano pastorale per «una rinascita eucaristica». Si tratta di un progetto missionario che mira a portare le persone nel cuore del mistero della fede: l’Eucaristia - ha concluso - è «la chiave di accesso alla civiltà dell’amore che desideriamo creare».
"QUATTRO" ... QUATTRO PROFETI? IL "TONDO DONI" E LA TRACCIA PER UN’ALTRA "INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" DI MICHELANGELO E DEL SUO RACCONTO NELLA CAPPELLA SISTINA...
di Federico La Sala (Le parole e le cose, 9 novembre 2021)
AL FINE DI UN’INTERPRETAZIONE non riduttiva del "Tondo Doni" di Michelangelo è opportuno fare bene attenzione alla cornice lignea che sta intorno.
NELLA SCHEDA DELLA Galleria degli Uffizi, relativa alla Sacra famiglia, detta “Tondo Doni” di Michelangelo #Buonarroti è scritto:
"QUATTRO PROFETI": MA "COME NASCONO I BAMBINI"?!
Se il tema è quello della nascita di Cristo ("il Figlio dell’Uomo"), il discorso di Michelangelo è semplicemente chiaro e tondo e già anticipa alla grande il programma della Sistina: nella cornice vi sono raffigurate la testa di Cristo (in alto) e ai lati le teste di due profeti e due sibille e, al centro (il fuoco del cammino dell’intero genere umano), Gesù, il "Figlio dell’Uomo" ("Ecce Homo" - ogni essere umano, come da antropologia e filologia), con le figure dei genitori, il "profeta" Giuseppe e la "sibilla" Maria.
L’Uomo non è più un Lupo! L’uomo è per l’uomo un Dio ("Homo homini deus est"), come ricorderà Spinoza nella sua "Etica".
Sacra famiglia, detta “Tondo Doni”
Michelangelo Buonarroti (Caprese 1475 - Roma 1564) *
Michelangelo dipinse questa Sacra Famiglia per Agnolo Doni, mercante fiorentino il cui prestigioso matrimonio nel 1504 con Maddalena Strozzi avvenne in un periodo cruciale per l’arte a Firenze di inizio secolo. La compresenza in città di Leonardo, Michelangelo e Raffaello apportò uno scatto di crescita al già vivace ambiente fiorentino, che nel primo decennio del secolo visse una stagione di altissimo fervore culturale. Agnolo poté quindi celebrare le sue nobili nozze e la nascita della sua primogenita con alcune delle massime espressioni di questa eccezionale fioritura: i ritratti dei due coniugi dipinti da Raffaello, e il tondo di Michelangelo, che è l’unico dipinto certo su tavola del maestro.
Michelangelo aveva da poco studiato le potenzialità del formato circolare, molto apprezzato nel primo Rinascimento per gli arredi devozionali domestici, nei marmi del “Tondo Pitti” (Museo Nazionale del Bargello) e del “Tondo Taddei” (Royal Academy di Londra): in entrambi i casi la Madonna, il Bambino e San Giovannino occupano prepotentemente tutta la superficie del rilievo. Anche il “Tondo Doni” è concepito come una scultura, in cui la composizione piramidale del gruppo si impone su quasi tutta l’altezza e la larghezza della tavola. E’ stato notato che, nella sua compattezza, il gruppo ricorda la struttura di una cupola, tuttavia animata al suo interno dalle torsioni dei corpi e dalla concatenazione dei gesti per il passaggio delicatissimo del Bambino dalle mani di San Giuseppe a quelle della Vergine.
Questa composizione così articolata ed espressiva scaturisce dalla conoscenza e dallo studio da parte di Michelangelo dei grandi marmi del periodo ellenistico (III-I secolo a. C.), contraddistinti da movimenti serpentinati e forte espressività, che stavano emergendo dagli scavi delle ville romane. Alcuni di questi importanti ritrovamenti, come l’Apollo del Belvedere e il Laocoonte scavato nel gennaio 1506, sono citati puntualmente nel quadro fra le figure di nudi in piedi, appoggiati a una balaustra (rispettivamente a sinistra e a destra di San Giuseppe).
La presenza di Laocoonte permette di avanzare per il tondo una datazione che coincide con la nascita di Maria Doni (settembre 1507). I giovani nudi, la cui identificazione è complessa, sembrano rappresentare l’umanità pagana, separata dalla Sacra Famiglia da un basso muretto che rappresenta il peccato originale, oltre il quale c’è anche San Giovannino, che favorirebbe l’interpretazione battesimale del dipinto.
La cornice del tondo, probabilmente su disegno di Michelangelo è stata intagliata da Francesco del Tasso, esponente della più alta tradizione dell’intaglio ligneo fiorentino. Vi sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di quattro profeti, circondate da grottesche e racemi, in cui sono nascoste, in alto a sinistra, delle mezze lune, insegne araldiche della famiglia Strozzi.
* GLI UFFIZI, 11.11.2021 (ripresa parziale)
Anticipazione.
Lo spirito autentico dei Sinodi è nel sapersi mettere in gioco
di Antonio Spadaro (Avvenire, giovedì 4 novembre 2021)
L’avvio del Sinodo sulla sinodalità, avvenuto il 9 ottobre scorso, c’invita a porre la domanda su che cosa significa oggi essere Chiesa e quale sia il suo senso nella storia. E tale domanda è pure alla base del Cammino sinodale che la Chiesa italiana sta avviando, e di quello in corso o in fase di avvio in Germania, Australia e Irlanda. Chi ha seguito le Assemblee del Sinodo dei vescovi degli ultimi anni si è certamente reso conto di quanto sia emersa la diversità che plasma la vita della Chiesa cattolica. Se un tempo una certa latinitas o romanitas costituiva e modellava la formazione dei vescovi - i quali, tra l’altro, capivano almeno un po’ di italiano -, oggi emerge con forza la diversità a ogni livello: mentalità, lingua, approccio alle questioni. E ciò, lungi dall’essere un problema, è una risorsa, perché la comunione ecclesiale si realizza attraverso la vita reale dei popoli e delle culture. In un mondo fratturato come il nostro, è una profezia.
Non si deve immaginare la Chiesa come una costruzione di mattoncini Lego diversi che si incastrano tutti al punto giusto. Sarebbe questa un’immagine meccanica della comunione. Potremmo meglio pensarla come una relazione sinfonica, di note diverse che insieme danno vita a una composizione. Se dovessimo proseguire usando questa immagine, direi che non si tratta di una sinfonia dove le parti sono già scritte e assegnate, ma di un concerto jazz, dove si suona seguendo l’ispirazione condivisa nel momento. Chi ha fatto l’esperienza dei recenti Sinodi dei vescovi avrà percepito le tensioni che emergevano all’interno dell’Assemblea, ma anche il clima spirituale nel quale erano - per lo più - immerse. Il Pontefice ha sempre molto insistito sul fatto che il Sinodo non è un’assemblea parlamentare dove si discute e si vota per maggioranza e minoranza. Il protagonista, in realtà, è lo Spirito Santo, che «muove e attira», come scrive sant’Ignazio nei suoi Esercizi spirituali. Il Sinodo è un’esperienza di discernimento spirituale alla ricerca della volontà di Dio sulla Chiesa.
Che questa visione del Sinodo sia anche una visione della Chiesa, non è da mettere in discussione. C’è una ecclesiologia - maturata negli anni grazie al Concilio Vaticano II - che oggi si dispiega. Per questo c’è bisogno di grande ascolto. Ascolto di Dio, nella preghiera, nella liturgia, nell’esercizio spirituale; ascolto delle comunità ecclesiali nel confronto e nel dibattito sulle esperienze (perché è sulle esperienze che si può far discernimento e non sulle idee); ascolto del mondo, perché Dio vi è sempre presente, ispirando, muovendo, agitando: abbiamo l’opportunità di diventare «una Chiesa che non si separa dalla vita», ha detto Francesco salutando i partecipanti intervenuti all’inizio del percorso sinodale (9 ottobre). Il Pontefice ha quindi sintetizzato così: «Siete venuti da tante strade e Chiese, ciascuno portando nel cuore domande e speranze, e sono certo che lo Spirito ci guiderà e ci darà la grazia di andare avanti insieme, di ascoltarci reciprocamente e di avviare un discernimento nel nostro tempo, diventando solidali con le fatiche e i desideri dell’umanità». Mettere la Chiesa in stato sinodale significa renderla inquieta, scomoda, tesa perché agitata dal soffio divino, che certo non ama safe zones, aree protette: soffia dove vuole.
Il modo peggiore per fare sinodo allora sarebbe quello di prendere il modello delle conferenze, dei congressi, delle “settimane” di riflessione, e immaginare che così tutto possa procedere in modo ordinato, anche cosmeticamente. Altra tentazione è l’eccessiva premura per la «macchina sinodale», perché tutto funzioni come previsto. Se non c’è il senso della vertigine, se non si sperimenta il terremoto, se non c’è il dubbio metodico - non quello scettico -, la percezione della sorpresa scomoda, allora forse non c’è sinodo. Se lo Spirito Santo è in azione - una volta ha affermato Francesco -, allora «dà un calcio al tavolo». L’immagine è riuscita, perché è un implicito riferimento a Mt 21,12, quando Gesù «rovesciò i tavoli» dei mercanti del tempio.
Per fare sinodo occorre cacciare i mercanti e rovesciare i loro tavoli. Non sentiamo oggi il bisogno di un calcio dello Spirito, se non altro per svegliarci dal torpore? Ma chi sono oggi i «mercanti del tempio»? Solo una riflessione intrisa di preghiera potrà aiutarci a identificarli. Perché non sono i peccatori, non sono i «lontani», i non credenti, e neanche chi si professa anticlericale. Anzi, a volte essi ci aiutano a capire meglio il tesoro prezioso che conteniamo nei nostri poveri vasi di argilla. I mercanti sono sempre prossimi al tempio, perché lì fanno affari, lì vendono bene: formazione, organizzazione, strutture, certezze pastorali. I mercanti ispirano l’immobilismo delle soluzioni vecchie per problemi nuovi, cioè l’usato sicuro che è sempre un «rattoppo », come lo definisce il Pontefice. I mercanti si vantano di essere «al servizio » del religioso. Spesso offrono scuole di pensiero o ricette pronte all’uso e geolocalizzano la presenza di Dio che è «qui» e non «lì».
Fare sinodo allora implica essere umili, azzerare i pensieri, passare dall’«io» al «noi», aprirsi. Colpisce in questo senso, ad esempio, quanto ha detto il Relatore generale del Sinodo, cardinale Jean-Claude Hollerich, nel suo saluto il 9 ottobre durante l’inaugurazione: «Devo confessare che non ho ancora idea del tipo di strumento di lavoro che scriverò. Le pagine sono vuote, sta a voi riempirle». Occorre vivere il tempo sinodale con pazienza e attesa, aprendo bene occhi e orecchie. «Effatà cioè: “Apriti!”» (Mc 7,34) è la parola chiave del Sinodo. Roland Barthes - da esimio linguista e semiologo - aveva capito che gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola servono a creare un linguaggio di interlocuzione con Dio fatto di ascolto e parola. Occorre comprendere che il Sinodo, a suo modo, condivide questa natura linguistica, di creatore di linguaggio. Ed è per questo che è importante il metodo, cioè il modo e le regole del cammino, soprattutto in funzione del pieno coinvolgimento.
In definitiva, la dinamica che si sviluppa nel Sinodo può essere descritta come un «giocarsi», un «mettersi in gioco». E, ad esempio, giocare a calcio non significa soltanto tirare una palla, ma anche correrle dietro, «essere giocati» dalle situazioni che si verificano in campo. Infatti, «il gioco raggiunge il proprio scopo solo se il giocatore si immerge totalmente in esso», come scrive Gadamer nel suo celebre saggio “Verità e metodo”. Il soggetto del gioco, dunque, non è il giocatore, ma il gioco stesso, che prende vita attraverso i giocatori. E questo è, in fondo, lo spirito del Sinodo: mettersi finalmente davvero in gioco seguendo la dinamica animata dallo Spirito.
Direttore “La Civiltà Cattolica”
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E STORIA: IL MESSAGGIO EVANGELICO, "IL FIGLIO DELL’UOMO", E IL "DIO AMORE", IL "DEUS CHARITAS"... *
Il nuovo libro di Ravasi. In parole e in opere: così si racconta Gesù
Il cardinal Ravasi ricostruisce la “biografia” di Cristo in una traversata della Scrittura che fa dell’Incarnazione un principio storico e interpretativo
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, mercoledì 27 ottobre 2021)
Nessuno meglio del cardinale Gianfranco Ravasi conosce la complessità con la quale è chiamato a confrontarsi chi voglia ripercorrere la vicenda di Gesù. È una tradizione ricchissima, che risale perlomeno alla Vita Iesu Christi data alle stampe nel 1474 dal certosino Ludolfo di Sassonia, precoce best seller di età umanistica del quale si contano 88 edizioni. Ma anche prima, anche nella lunga stagione del Medioevo la storia del Figlio dell’Uomo era stata raccontata più volte, attraverso le immagini della Biblia Pauperum diffusa ovunque in Europa, nelle cattedrali più sfarzose come nelle più remote pievi di campagna. Per non parlare del Novecento, che è l’epoca di Giovanni Papini e di François Mauriac, di Norman Mailer e di José Saramago. Il «pensoso palpito» del Cristo di Ungaretti si percepisce chiaramente anche nel tempo dell’inquietudine e della secolarizzazione, secondo una traiettoria che lo stesso Ravasi ripercorre con la consueta precisione all’inizio di questa sua Biografia di Gesù. Secondo i Vangeli (Cortina, pagine 256, euro 19,00, in libreria dal 28 ottobre). A dispetto dell’apparente semplicità, titolo e sottotitolo meritano di essere esaminati con attenzione, perché comporre una biografia di Gesù “secondo i Vangeli” significa anche addentrarsi in una “biografia dei Vangeli”.
Forte della sua autorità di biblista, il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura segue appunto questa strada, che è quella di un’esegesi tanto ragionata quanto appassionata. Non per niente, la “vita di Gesù” che più di ogni altra somiglia a questa di Ravasi è l’estroso Volete andarvene anche voi? di Luigi Santucci, uno scrittore che dello stesso Ravasi è stato amico e perfino complice sul piano spirituale e intellettuale. In quel libro, anziché ricondurre l’esistenza terrena di Cristo a uno schema narrativo, Santucci trasceglieva alcuni brani o versetti salienti e li commentava con la sua sensibilità di narratore e credente. Il metodo di Ravasi è un altro, ma risponde alla medesima logica di aderenza al testo.
C’è una biografia dei Vangeli, dicevamo, che coincide con la scoperta e con la valorizzazione della loro dimensione storica. Ravasi, com’è noto, non ha mai considerato come dato dirimente l’antichità del singolo frammento, preferendo insistere sul principio di storicità interna che preside alla struttura del canone neotestamentario, a sua volta convalidato dalle attestazioni di ambito profano (su tutte, il celebre dispaccio di Plinio il Giovane all’imperatore Traiano e la controversa ma comunque sintomatica menzione da parte di Giuseppe Flavio). Radicati nella storia, i Vangeli non sono tuttavia resoconti storici in senso stretto, ricorda Ravasi. Fin dal principio nel racconto della vita di Gesù gli elementi di cronaca si mescolano con l’interpretazione da parte della comunità dei discepoli, che in questo modo si fa partecipe dell’Incarnazione: proprio perché si è fatto uomo, Cristo può essere fatto oggetto di racconto; proprio perché è Dio, non può essere raccontato se non nella consapevolezza del mistero.
A rigore, la biografia dei Vangeli comincia fuori dai Vangeli stessi. Ravasi indica come punto germinale la dichiarazione di fede che, nella Pasqua dell’anno 57, Paolo riproduce nella Prima lettera ai Corinzi: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e fu sepolto. È risorto il terzo giorno secondo le Scritture e apparve a Cefa e quindi ai Dodici». La novità buona del kerygma si colloca qui, nell’indissolubilità tra Passione, Risurrezione e testimonianza proclamata dall’annuncio originario. Questo è anche il fuoco prospettico dell’intera Biografia di Gesù, nella quale Ravasi non si limita a passare in rassegna i quattro Vangeli, registrando le peculiarità di ciascuno dei Sinottici e argomentando la singolarità del testo di Giovanni.
L’aspetto più coinvolgente della sua Biografia di Gesù sta nell’individuazione dei grandi nuclei tematici che si ripresentando nelle sequenze narrative maggiori. Quelle riferite alla morte e Risurrezione, anzitutto, ma anche i racconti dell’infanzia, nei quali l’intonazione letteraria si fa più evidente, senza per questo inficiare la consistenza del fatto storico. Particolarmente convincente, fino a imporsi come l’aspetto più originale del libro, è la scelta di concentrarsi in modo specifico sulle due componenti essenziali del linguaggio di Gesù. La parola efficace delle parabole e il gesto eloquente dei miracoli sono indagati da Ravasi in capitoli carichi di spunti per la meditazione personale. «Le mani di Gesù - scrive tra l’altro l’autore - toccano ripetutamente carni malate, operano su persone sofferenti, s’intrecciano con le sue parole di speranza. Piaghe, organi paralizzati, corpi devastati o inerti sono ininterrottamente sotto l’azione di quelle mani».
Così come non comincia nei Vangeli, il racconto della vita di Gesù non si esaurisce in essi. A fianco del canone si situa infatti la lussureggiante biblioteca degli apocrifi, alla quale nel corso del tempo hanno attinto con larghezza artisti, poeti e narratori. Molte immagini alle quali siamo abituati e non poche figure fatte segno di devozione provengono da questa zona che Ravasi non manca di attraversare nelle ultime pagine del libro. Ancora una volta, si ritorna all’essenziale, ai giorni fatidici della condanna a morte e della Pasqua. Ripercorriamo così le peripezie di Pilato, che da personaggio storico diventa nella narrazione degli apocrifi esempio morale. E ci imbattiamo nella “correzione” più struggente, quella che nel Vangelo di Gamaliele rimedia al mancato incontro tra Gesù e la Madre. Episodio poi carissimo alla devozione popolare, a conferma di come la storia «di un Dio che si fa crocifiggere sul Golgota» (è la geniale sintesi di Borges) non smetta mai di essere raccontata.
* NOTARE BENE:
MESSAGGIO EVANGELICO E FIGLIO DELL’UOMO [nel senso di "Adamo" ed "Eva", di "Giuseppe" e "Maria"! - "Allora la folla gli rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo [="Filius hominis" = "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου"] deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?»"(Gv. 12,34=C.E.I.]).
LEZIONE DI "ANDROLOGIA" DI PAOLO DI TARSO. Prima lettera ai Corinzi, 11, 1-3: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «aner, andròs - uomo»], e capo di Cristo è Dio" .
Federico La Sala
QUESTIONE ANTROPOLOGICA (NON ANDROLOGICA): "ECCE HOMO".
LA GIUSTIFICAZIONE PER FEDE E IL PROBLEMA CRISTOLOGICO: CHI E’ GESU?!? E CHI IL SUO E NOSTRO "PADRE"?!
Catechesi sulla Lettera ai Galati: 9. La vita nella fede *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Nel nostro percorso per comprendere meglio l’insegnamento di San Paolo, ci incontriamo oggi con un tema difficile ma importante, quello della giustificazione. Cos’è, la giustificazione? Noi, da peccatori, siamo diventati giusti. Chi ci ha fatto giusti? Questo processo di cambiamento è la giustificazione. Noi, davanti a Dio, siamo giusti. È vero, abbiamo i nostri peccati personali, ma alla base siamo giusti. Questa è la giustificazione. Si è tanto discusso su questo argomento, per trovare l’interpretazione più coerente con il pensiero dell’Apostolo e, come spesso accade, si è giunti anche a contrapporre le posizioni. Nella Lettera ai Galati, come pure in quella ai Romani, Paolo insiste sul fatto che la giustificazione viene dalla fede in Cristo. “Ma, io sono giusto perché compio tutti i comandamenti!”. Sì, ma da lì non ti viene la giustificazione, ti viene prima: qualcuno ti ha giustificato, qualcuno ti ha fatto giusto davanti a Dio. “Sì, ma sono peccatore!”. Sì sei giusto, ma peccatore, ma alla base sei giusto. Chi ti ha fatto giusto? Gesù Cristo. Questa è la giustificazione.
Cosa si nasconde dietro la parola “giustificazione”, che è così decisiva per la fede? Non è facile arrivare a una definizione esaustiva, però nell’insieme del pensiero di San Paolo si può dire semplicemente che la giustificazione è la conseguenza della «misericordia di Dio che offre il perdono» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1990). E questo è il nostro Dio, così tanto buono, misericordioso, paziente, pieno di misericordia, che continuamente dà il perdono, continuamente. Lui perdona, e la giustificazione è Dio che perdona dall’inizio ognuno, in Cristo. La misericordia di Dio che dà il perdono. Dio, infatti, attraverso la morte di Gesù - e questo dobbiamo sottolinearlo: attraverso la morte di Gesù - ha distrutto il peccato e ci ha donato in maniera definitiva il perdono e la salvezza. Così giustificati, i peccatori sono accolti da Dio e riconciliati con Lui. È come un ritorno al rapporto originario tra il Creatore e la creatura, prima che intervenisse la disobbedienza del peccato. La giustificazione che Dio opera, pertanto, ci permette di recuperare l’innocenza perduta con il peccato. Come avviene la giustificazione? Rispondere a questo interrogativo equivale a scoprire un’altra novità dell’insegnamento di San Paolo: che la giustificazione avviene per grazia. Solo per grazia: noi siamo stati giustificati per pura grazia. “Ma io non posso, come fa qualcuno, andare dal giudice e pagare perché mi dia giustizia?”. No, in questo non si può pagare, ha pagato uno per tutti noi: Cristo. E da Cristo che è morto per noi viene quella grazia che il Padre dà a tutti: la giustificazione avviene per grazia.
L’Apostolo ha sempre presente l’esperienza che ha cambiato la sua vita: l’incontro con Gesù risorto sulla via di Damasco. Paolo era stato un uomo fiero, religioso, zelante, convinto che nella scrupolosa osservanza dei precetti consistesse la giustizia. Adesso, però, è stato conquistato da Cristo, e la fede in Lui lo ha trasformato nel profondo, permettendogli di scoprire una verità fino ad allora nascosta: non siamo noi con i nostri sforzi che diventiamo giusti, no: non siamo noi; ma è Cristo con la sua grazia a renderci giusti. Allora Paolo, per avere una piena conoscenza del mistero di Gesù, è disposto a rinunciare a tutto ciò di cui prima era ricco (cfr Fil 3,7), perché ha scoperto che solo la grazia di Dio lo ha salvato. Noi siamo stati giustificati, siamo stati salvati per pura grazia, non per i nostri meriti. E questo ci dà una fiducia grande. Siamo peccatori, sì; ma andiamo sulla strada della vita con questa grazia di Dio che ci giustifica ogni volta che noi chiediamo perdono. Ma non in quel momento, giustifica: siamo già giustificati, ma viene a perdonarci un’altra volta.
La fede ha per l’Apostolo un valore onnicomprensivo. Tocca ogni momento e ogni aspetto della vita del credente: dal battesimo fino alla partenza da questo mondo, tutto è impregnato dalla fede nella morte e risurrezione di Gesù, che dona la salvezza. La giustificazione per fede sottolinea la priorità della grazia, che Dio offre a quanti credono nel Figlio suo senza distinzione alcuna.
Perciò non dobbiamo concludere, comunque, che per Paolo la Legge mosaica non abbia più valore; essa, anzi, resta un dono irrevocabile di Dio, è - scrive l’Apostolo - «santa» (Rm 7,12). Pure per la nostra vita spirituale è essenziale osservare i comandamenti, ma anche in questo non possiamo contare sulle nostre forze: è fondamentale la grazia di Dio che riceviamo in Cristo, quella grazia che ci viene dalla giustificazione che ci ha dato Cristo, che ha già pagato per noi. Da Lui riceviamo quell’amore gratuito che ci permette, a nostra volta, di amare in modo concreto.
In questo contesto, è bene ricordare anche l’insegnamento che proviene dall’apostolo Giacomo, il quale scrive: «L’uomo è giustificato per le opere e non soltanto per la fede - sembrerebbe il contrario, ma non è il contrario -. [...] Infatti come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta» (Gc 2,24.26). La giustificazione, se non fiorisce con le nostre opere, sarà lì, sotto terra, come morta. C’è, ma noi dobbiamo attuarla con il nostro operato. Così le parole di Giacomo integrano l’insegnamento di Paolo. Per entrambi, quindi, la risposta della fede esige di essere attivi nell’amore per Dio e nell’amore per il prossimo. Perché “attivi in quell’amore”? Perché quell’amore ci ha salvato tutti, ci ha giustificati gratuitamente, gratis!
La giustificazione ci inserisce nella lunga storia della salvezza, che mostra la giustizia di Dio: di fronte alle nostre continue cadute e alle nostre insufficienze, Egli non si è rassegnato, ma ha voluto renderci giusti e lo ha fatto per grazia, attraverso il dono di Gesù Cristo, della sua morte e risurrezione. Alcune volte ho detto com’è il modo di agire di Dio, qual è lo stile di Dio, e l’ho detto con tre parole: lo stile di Dio è vicinanza, compassione e tenerezza. Sempre è vicino a noi, è compassionevole e tenero. E la giustificazione è proprio la vicinanza più grande di Dio con noi, uomini e donne, la compassione più grande di Dio verso di noi, uomini e donne, la tenerezza più grande del Padre. La giustificazione è questo dono di Cristo, della morte e risurrezione di Cristo che ci fa liberi. “Ma, Padre, io sono peccatore, ho rubato...”. Sì, ma alla base sei un giusto. Lascia che Cristo attui quella giustificazione. Noi non siamo condannati, alla base, no: siamo giusti. Permettetemi la parola: siamo santi, alla base. Ma poi, con il nostro operato diventiamo peccatori. Ma, alla base, si è santi: lasciamo che la grazia di Cristo venga su e quella giustizia, quella giustificazione ci dia la forza di andare avanti. Così, la luce della fede ci permette di riconoscere quanto sia infinita la misericordia di Dio, la grazia che opera per il nostro bene. Ma la stessa luce ci fa anche vedere la responsabilità che ci è affidata per collaborare con Dio nella sua opera di salvezza. La forza della grazia ha bisogno di coniugarsi con le nostre opere di misericordia, che siamo chiamati a vivere per testimoniare quanto è grande l’amore di Dio. Andiamo avanti con questa fiducia: tutti siamo stati giustificati, siamo giusti in Cristo. Dobbiamo attuare questa giustizia con il nostro operato.
*UDIENZA GENERALE, Mercoledì, 29 settembre 2021 (ripresaparziale).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Federico La Sala
Il Canto della Sibilla
di Carlo Finocchietti *
Il “Canto della Sibilla” è un testo liturgico di genere apocalittico che descrive i segni della fine del mondo e il giudizio universale. La sua versione cantata si è diffusa nell’Italia centro-meridionale (per esempio ad Alghero) e nella penisola iberica (Castiglia, Catalogna e Baleari). L’Unesco ha voluto dichiararla, con una decisione del 2010, uno dei Capolavori del Patrimonio Orale e Immateriale dell’Umanità.
La versione premiata dall’Unesco è quella diffusa nell’isola di Maiorca, dove la popolarità del Canto è immensa: si può dire che ogni parrocchia lo canti in forma teatrale nella celebrazione della notte di Natale, per annunciare la venuta del Salvatore e il suo ritorno nel Giorno del Giudizio.
Il testo del canto è tratto dagli Oracoli Sibillini ed è stato utilizzato in un sermone dell’africano Quodvultdeus. Venerato come santo dalla Chiesa cattolica, Quodvultdeus (letteralmente “quello che Dio vuole”), è stato un vescovo berbero di Cartagine al tempo dell’invasione dei Vandali di Genserico e poi profugo a Napoli, dove è morto verso il 453. Ma è stato soprattutto il suo maestro e amico Agostino che ha reso celebre il testo inserendolo nella sua opera De Civitate Dei (La città di Dio), con il famoso incipit “Judicii signum tellus sudore madescet”.
La prefigurazione del Giorno del giudizio è contenuta nei testi di molti Profeti. Ma saranno anche le Sibille che proporranno questo genere di profezie. Le Sibille erano profetesse e sacerdotesse dotate di poteri divinatori e capaci di predire il futuro su ispirazione di divinità pagane. Le più conosciute erano l’Eritrea, la Cumana e la Delfica. Il mondo cristiano, basandosi sulle concordanze tra profezie bibliche e vaticini pagani, assimilerà progressivamente le Sibille e le porrà sullo stesso livello dei Profeti. Fino ad arrivare alla consacrazione finale in Vaticano, dove, nell’Appartamento Borgia, dodici Sibille sono affrescate in coppia con altrettanti Profeti.
Il Canto della Sibilla trova analogie con il Dies Irae, altro testo che ha avuto grande fortuna liturgica e musicale. Anche Tommaso da Celano si appoggia all’autorità della Sibilla: “Giorno dell’ira, quel giorno / che dissolverà il mondo terreno in cenere, / come annunciato da Davide e dalla Sibilla”.
Luca Signorelli fa spiegare dalla Sibilla Eritrea e dal profeta David i segni del “Finimondo” affrescato nella Cappella di San Brizio del Duomo di Orvieto. Andrea Milanesi ha scritto che il Canto della Sibilla continua a rinnovare la sua straordinaria impronta di teatrale drammaticità, esaltata dagli sconvolgenti riferimenti al giudizio finale e al caos degli elementi (fuoco celeste, tremore della terra, eclissi lunare e solare): Il portato drammatico e trascendentale evocato da queste straordinarie melodie e la vertigine apocalittica risvegliata dalle profezie e dagli oracoli pronunciati da queste misteriose figure sfociano nelle domande esistenziali e nelle riflessioni sul destino dell’uomo, che trovano risposta ultima nella speranza della nuova prospettiva di salvezza eterna inaugurata con la nascita di Gesù Cristo.
Leggiamo l’Oracolo sibillino citato da Sant’Agostino in una traduzione italiana.
Come segno del Giudizio la terra si bagnerà di sudore. / Dal cielo verrà il re che sarà nei secoli, certamente per giudicare con la sua presenza la carne e il mondo. / Perciò l’infedele e il fedele vedranno Dio in alto con i santi proprio alla fine del mondo. / Così appariranno con la carne le anime, che egli stesso giudica, quando la terra giace incolta tra densi roveti. / Gli uomini getteranno via gli idoli e ogni ricchezza; il fuoco brucerà la terra, il mare e il cielo e diffondendosi infrangerà le porte del tetro Averno. / Ma i corpi di tutti i santi saranno illuminati dalla luce della libertà, e una fiamma eterna brucerà i peccatori. / Allora, svelando le proprie azioni nascoste, ognuno manifesterà i suoi segreti, e Dio dischiuderà i cuori alla luce. / Allora vi sarà lutto e tutti faranno stridere i denti. / Si oscura lo splendore del sole e cessa la danza delle stelle. / Rotolerà il cielo e il chiarore lunare si spegnerà. / Abbasserà i colli, innalzerà dalla loro profondità le valli. / Tra le cose degli uomini non vi sarà più nulla di sublime o di alto. / Già i monti sono abbassati al livello dei campi e tutte le cerulee distese del mare scompariranno, / la terra ridotta in frantumi perirà: così parimenti fonti e fiumi sono seccati dal fuoco. / Ma allora dall’alto del cielo la tromba farà venir giù un suono lugubre, piangendo la miserabile catastrofe e i vari travagli, la terra spaccandosi farà vedere il caos infernale. / E qui dinanzi al Signore compariranno insieme i re e dal cielo ricadrà un fiume di fuoco e di zolfo.
* Fonte: "Visioni dell’Aldilà", 4 aprile 2019 (ripresa parziale, senza immagini).
22 febbraio - Ore 19.00: Il Canto della Sibilla è un testo liturgico con melodia gregoriana che ebbe una grande diffusione durante il Medioevo nel sud d’Europa e che si interpreta tradizionalmente durante la Messa della Vigilia di Natale nelle chiese di Maiorca (tra i quali spiccano quelli interpretati nel Monastero di Lluc e nella Cattedrale di Palma) e nella Cattedrale di Alghero in Sardegna.
Maiorca e Alghero sono gli unici due luoghi nei quali il canto rappresenta una tradizione che si protrae dal Basso Medioevo fino ai giorni nostri, essendo rimasta immune anche all’abolizione avvenuta nel Concilio di Trento (1545-1563) e a qualsiasi altra vicissitudine. Il 16 novembre 2010 fu dichiarato dall’UNESCO Patrimonio Immateriale dell’Umanità. Precedentemente era stato dichiarato Bene di Interesse Culturale (BIC) dal Consiglio Insulare di Maiorca il 13 dicembre 2004.
* Accademia di Spagna (ripresa parziale).]
FREUD E "PROFETI E SIBILLE" DI SIGNORELLI:
"[...] Sigmund Freud giungeva a Orvieto la sera dell’8 settembre 1897. La mattina dopo, «presto», annotava, per la moglie, le prime impressioni in una cartolina postale:
In quell’occasione, acquistava alcune fotografie, ancora oggi conservate nel Museo Freud di Londra: il panorama della città sotto la neve visto da Sud Ovest, alcuni particolari degli affreschi di Signorelli (Profeti e sibille, Empedocle, il particolare dei Dannati col diavolo alato che porta in volo sulle spalle una donna, la Resurrezione della carne), una panoramica delle tombe etrusche [...]"
(cfr. Lucio Riccietti, Sigmund Freud a Orvieto negli anni della scoperta e della dispersione del patrimonio storico artistico, Orvieto, 2017).
FLS
PSICOANALISI, ANTROPOLOGIA, E MATEMATICA. NOTE PER RISCRIVERE UN “ROMANZO FAMILIARE” NUOVO...
ACHERONTA MOVEBO. “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” (Se non potrò piegare gli Dei, muoverò Acheronte: Virgilio, Eneide, VII, 312). A partire da questa citazione virgiliana, volendo, è possibile tentare di "rileggere" l’intero percorso della ricerca di Freud. Ricordando con lo stesso Freud della "Psicopatologia della vita quotidiana" (1901), l’altra importante citazione sempre ripresa dall’Eneide (IV, 625 ) : "Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor" (che nasca un giorno dalle mie ceneri un vendicatore), si comincia a capire cosa c’è nel "coraggio degli inizi" (Rubina Giorgi, 1977) e in questa identificazione di Freud con Giunone/Era (non solo la moglie di "Zeus", ma anche la sua stessa madre) con Didone e con Annibale, il grande nemico di Roma.
IL PROBLEMA DEL LIBERATORE. L’esergo dell’Interpretazione "dichiara" semplicemente la "natura" teologico-politica del suo progetto: cercare di fermare il matrimonio di Enea e la nascita della nuova Troia (Roma)! Con la stessa determinazione di Giunone/Era (Virgilio), Freud lavora a portare alla luce della coscienza europea la struttura edipica del sogno del Dio greco e cattolico-romano (di Platone come di Paolo di Tarso), e venir fuori dall’orizzonte della tragedia (come Dante e lo stesso Nietzsche). Con l’aiuto di "Zeus/Giove"" e di "Era/Giunone", pur tra mille difficoltà, egli riesce a venir fuori dall’inferno e a "nascere, di nuovo"! Nel 1938 arriva a Londra e porta a compimento il suo ultimo lavoro "L’uomo Mosè e la religione monoteistica". Un grande respiro di sollievo! Morirà l’anno successivo.
ANTROPOLOGIA, MATEMATICA, E PSICHIATRIA. Pur avendo Freud dato già dal 1907 chiare indicazioni per lavorare congiuntamente a una nuova educazione civica e a una nuova educazione sessuale per una "società sana" (Erich Fromm, 1955), l’Italia (comel’Europa e l’intero Pianeta) naviga ancora in un oceano illuminato da una diffusa cosmoteandria.
"UNA VOCE” FUORI DAL CORO. Come ha scritto Franca Ongaro Basaglia ("Una voce. Riflessioni sulla donna", il Saggiatore, 1982), continuiamo a fare "un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" e a leggere per lo più e sempre il vecchio "romanzo familiare", quello edipico! Che dire?! Che fare?! Non è meglio uscire dal "sonnodogmatico"?!
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, MESSAGGIO EVANGELICO, COSTITUZIONE, E SIMBOLI.... *
I simboli e i singoli, laicità e buon senso.
Ma la libertà non è negativa
di Giuseppe Anzani (Avvenire, venerdì 10 settembre 2021)
Il crocifisso torna davanti ai giudici. È toccato alla Corte suprema di Cassazione a Sezioni unite dire se quel simbolo può stare appeso o no alle pareti di un’aula scolastica. Regolamenti, leggi, sentenze? L’orizzonte si apre a temi più grandi, irrompono parole come libertà religiosa, laicità dello Stato, cultura e tradizione e comune sentire e individuale dissentire; e infine sullo sfondo, volere o no, resta quel mistero immenso che due millenni fa ha spaccato in due la storia del mondo.
E dire che l’origine del caso è un episodio in apparenza banale: l’assemblea di classe degli studenti delibera l’esposizione del crocifisso nell’aula, un docente non lo vuole e lo stacca fisicamente durante le sue ore di lezione; riceve una sanzione disciplinare, la impugna. La causa percorre tutti i gradi e approda alle Sezioni unite, che decidono sostanzialmente così: l’aula può accogliere il crocifisso, quando la comunità scolastica decide in autonomia di esporlo; ciò non comporta discriminazione; il docente dissenziente non ha nessun potere di veto; deve tuttavia cercarsi una soluzione che rispetti la sua «libertà negativa di religione». Come a dire, in sottinteso, da ultimo: usate il buon senso.
L’avversione al crocifisso scoppia episodicamente per iniziativa solitaria di individui dei quali è difficile capire se soffrano di allergia al senso religioso altrui o perseguano un disegno demolitore. Sono casi rari, ma eclatanti.
Quello dello scrutatore elettorale, quello del giudice che rifiutava di tenere udienza, quello della donna atea che per far togliere il crocifisso dalla scuola portò il caso fino alla Corte europea dei Diritti umani (2011); e ne ebbe sentenza che l’esposizione del crocifisso «non è sufficiente a condizionare e comprimere la libertà di soggetti adulti e a ostacolare l’esercizio della funzione docente».
Bisognerà dunque riflettere sulla autenticità di simili dichiarate ’allergie’; la legge fondamentale sulla scuola (decreto legislativo n. 297/1994) garantisce ai docenti «autonomia didattica e libera espressione culturale», ma nel «rispetto della coscienza civile e morale degli alunni». Sono gli alunni, infatti, il corpo vivo della comunità scolastica; è in funzione di loro che si fanno cattedre, e non viceversa. Il gesto di togliere a forza, da sé, il crocifisso voluto dagli alunni non pare esattamente un atto educativo.
Libertà? Colpisce la frase «libertà negativa» usata dalla Corte. Se ne intuisce l’intento protettivo, ma il rispetto del ’negativo’ può imporre di azzerare ogni positivo? La libertà del no può annientare la libertà altrui del sì? Libertà è essenzialmente una dimensione positiva della persona umana, è un «agere licere».
La libertà è espressione, non compressione. Se ha un limite, esso è dato dalle contigue libertà, e il suo traguardo è l’armonia. Così la libertà religiosa trova presidio in un concetto di laicità che è tutto il contrario di una asfaltatura dei simboli religiosi per non turbare gli irreligiosi. Chi non s’intona al canto è libero di non cantare, ma non può pretendere di zittire il coro. Una laicità castrante non è nella nostra civiltà, non è nella nostra legge, non è nella nostra libertà. Ma infine, per chi ha fede, il nocciolo non è neppure il crocifisso-arredo. È il Crocifisso, il Vivente, e nessuno può toglierlo dal mondo, e nessuno ce lo stacca dal cuore.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
Federico La Sala
Il tema.
Una domanda, dieci tracce: ecco come le diocesi saranno coinvolte nel Sinodo
Nel Documento preparatorio per il Sinodo dei vescovi il "questionario" per la consultazione dal basso che vedrà protagoniste tutte le Chiese locali del mondo
di Giacomo Gambassi (Avvenire, martedì 7 settembre 2021)
Un’unica, impegnativa domanda. E poi dieci tracce per declinarla nel concreto e capire come ciascuna diocesi sia capace di “camminare insieme”. Ha i tratti di un esame di coscienza la grande consultazione “dal basso” di tutta la Chiesa che aprirà il processo sinodale voluto da papa Francesco e che sarà il primo tassello per giungere a celebrare il Sinodo dei vescovi sul tema “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione” in programma nell’ottobre 2023 a Roma.
L’ascolto delle diocesi del mondo è ai nastri di partenza e coinvolgerà ogni angolo del pianeta da ottobre ad aprile. Un’avventura inedita «con obiettivi di grande rilevanza per la qualità della vita ecclesiale», spiega il Documento preparatorio diffuso ieri che intende «mettere in moto le idee, le energie e la creatività di tutti coloro che parteciperanno all’itinerario».
Il testo è soprattutto una bussola per ogni territorio e per avviare la consultazione. A partire dall’interrogativo «fondamentale», come viene definito, a cui tutte le diocesi sono chiamate a rispondere: «Una Chiesa sinodale, annunciando il Vangelo, “cammina insieme”: come questo “camminare insieme” si realizza oggi nella vostra Chiesa particolare? Quali passi lo Spirito ci invita a compiere per crescere nel nostro “camminare insieme”?». L’intento è «raccogliere le esperienze di sinodalità vissuta, coinvolgendo i pastori e i fedeli a tutti i livelli». In particolare, specifica il Documento, verrà «richiesto il contributo degli organismi di partecipazione delle Chiese particolari, specialmente il Consiglio presbiterale e il Consiglio pastorale». E ogni diocesi dovrà fare una sintesi del «lavoro di ascolto e discernimento» in dieci pagine al massimo.
Per favorire il confronto, vengono proposte alcune serie di domande “pratiche” racchiuse all’interno di dieci ambiti tematici. Così, ad esempio, ogni diocesi dovrà riflettere su «chi cammina insieme» o chi sono i suoi «compagni di viaggio anche al di fuori del perimetro ecclesiale». Oppure valutare come «vengono ascoltati i laici, in particolare giovani e donne»; in che modo si recepisce «il contributo di consacrati o consacrate»; come si accoglie «la voce delle minoranze, degli scartati, degli esclusi». Ancora. Le Chiese locali sono invitate a capire se il proprio «stile comunicativo» è «libero e autentico, senza doppiezze e opportunismi», a promuovere «la partecipazione attiva di tutti i fedeli alla liturgia», ad analizzare «come la preghiera e la celebrazione orientino il “camminare insieme”» ma anche «le decisioni più importanti».
Poi c’è la sfida della missione che chiama chiunque. Da qui i quesiti su come ogni battezzato sia «protagonista» o in quale maniera i credenti impegnati nel sociale siano sostenuti dalla comunità. Quindi la necessità del dialogo nella Chiesa e con l’ambito civile: come vengono affrontate le divergenze di visione, i conflitti? come promuoviamo la collaborazione con le diocesi vicine? come la Chiesa impara da altre istanze della società: il mondo della politica, dell’economia, della cultura, i poveri?, sono alcune domande. Non manca il richiamo alla vicinanza ecumenica con le altre confessioni cristiane o alla formazione.
E fra gli interrogativi ci sono anche quelli sui “vertici” nella Chiesa: come viene esercitata l’autorità? come si promuove la partecipazione alle decisioni in seno a comunità gerarchicamente strutturate?
Ciò che al Papa sta a cuore è «una conversione sinodale» che consenta di «immaginare un futuro diverso per la Chiesa e per le sue istituzioni all’altezza della missione ricevuta». Del resto, dice il Documento citando san Giovanni Crisostomo, «Chiesa e Sinodo sono sinonimi».
ANTROPOLOGIA, TEOLOGIA, E CRISTIANESIMO. Michelangelo con Francesco d’Assisi e Dante o "con Agostino e Paolo nella mente"?!
CAPPELLA SISTINA
Il montaggio patetico della Salvezza
Giovanni Careri, Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina, Quodlibet: gli affreschi di Michelangelo in una lettura warburghiana, e eisensteiniana, che li restituisce quale organismo vivente attraversato da dialettiche «formule di pathos»
di Corrado Bologna *
«Il buon Dio vive nei dettagli», diceva Aby Warburg. Il suo progetto era di connettere dettagli e affinità, ombre delle idee fermate nei gesti delle opere d’arte, per edificare un atlante iconologico reticolare, capace di restituire un’intera morfologia della civiltà ricostruendo il gioco di energie e di opposizioni dinamiche che dà forma e senso alle immagini. S’innamorò della Ninfa riconoscendola nel movimento seducente della fanciulla che il Ghirlandaio aveva colto al volo come una farfalla nella Cappella Tornabuoni di Santa Maria Novella. Poi lo inseguì per anni, quel gesto, sui sarcofaghi, nei dipinti, in innumerevoli minuzie ricondotte genialmente a «far sistema» in un percorso mentale e culturale vastissimo.
Invece, di Michelangelo, il più grande allievo di Ghirlandaio, Warburg si occupò poco. Però almeno in due tavole dell’ormai celebre Atlante di Mnemosyne, la 53 e la 56, pose implicitamente in rapporto, accostandoli per esaltarne il dinamismo semantico, alcuni dettagli degli affreschi della Sistina, i giovanili Antenati di Cristo nelle lunette della volta (1511-’12) e il maturo Giudizio Universale (1535-’41). In essi intuì forse una traccia di quel maestoso, occulto progetto che Giovanni Careri definisce «fabbrica del corpo glorioso», ricostruendone la vicenda in un libro densissimo, di alto profilo culturale, elegantemente warburghiano nel metodo interpretativo e nell’ampiezza della documentazione (Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina, Quodlibet, pp. 293, € 28,00).
Questo libro affascinante, che «decostruisce» la Cappella smontandone il moto figurativo depositato lungo trent’anni di straordinaria concentrazione da uno dei più grandi artisti di ogni tempo, mi riporta alla memoria un piccolo capolavoro quasi dimenticato (e che conto di riproporre presto), La cattedrale come spazio dei tempi, pubblicato da Friedrich Ohly nel 1972. Ohly propose di «leggere» la Cattedrale di Siena come «immagine architettonica di storia della salvezza che parla attraverso le sue forme foggiate in gradi biblici al pari, su un altro piano, della cronaca universale nella letteratura e della rappresentazione del mondo figurata». Secondo la sua acuta interpretazione quello spazio sacro produce l’«inglobamento del passato e del futuro in un tutto che sta dinanzi agli occhi», recuperando l’effetto emozionale e devozionale di un «processo di visualizzazione» per cui «il fluire della storia diventa un bene stabile». Nella Cattedrale di Ohly, come nella Sistina di Careri, davvero «la storia del mondo si evolve in rappresentazione del mondo»: l’edificio si trasforma nello «spazio figurativo e temporale di una mappa mundi cosmica».
Nella Sistina, invece che la riproduzione dell’universo, il tema è la storia della Salvezza. Giovanni Careri dimostra con erudizione e sottigliezza ermeneutica quali energie spirituali, teologiche, ideologiche, si confrontano e si scontrano in quel luogo straordinario, in cui Michelangelo concentrò uno sforzo titanico, non solo artistico ma anche ermeneutico e teologico, depositandovi un pensiero nutrito dalla corrente degli Spirituali stretti intorno al cardinale Reginald Pole a Viterbo (con lui, a leggere il Beneficio di Cristo, c’erano anche Vittoria Colonna e Sebastiano dal Piombo).
Michelangelo raffigura in cifra, con Agostino e Paolo nella mente, «il passaggio dalla filiazione carnale alla filiazione divina dal punto di vista della storia cristiana, come pure la necessità antropologica di definire l’identità cristiana in rapporto al suo "altro"». Rappresenta così la salvezza dell’umanità che si staglia in un campo di tensione fra il tempo messianico e il paolino katéchon, la frenante forza d’inerzia con cui la temporalità storica incarnata negli Antenati, cioè insieme «gli ebrei "ostinati"» e «il cristiano negligente», ne ritarda l’adempimento. In questo senso la Cappella Sistina è attraversata da energie formidabili, e si trasforma in un teatro della memoria, in un dispositivo mnemotecnico di metamorfosi interiore simile a quello che Giulio Camillo ideò negli stessi anni: il percorso che lo spettatore compie nello spazio vivo, con il suo corpo e il suo sguardo, è un cammino iniziatico. L’«istanza del soggetto» coinvolge sia chi dipinge sia chi osserva, giacché «il corpo glorioso» dell’uomo può venir `fabbricato’ attraverso un’«inclusione» spirituale, che Careri definisce «conformazione per somiglianza» rispetto al corpo di Cristo.
Sono certo che a Warburg, e anche ad Ohly, sarebbe piaciuto questo Michelangelo segreto, colmo di straordinarie Pathosformeln, riportato alla luce da Giovanni Careri. Il metodo con cui è impostata la sua colta, molto documentata e originale «antropologia della Cappella Sistina», si fonda sull’«analisi cinematica della pittura» e sul riconoscimento di un «"montaggio" delle immagini messo a punto da Michelangelo stesso», che «il montaggio di Warburg non fa che riprendere e sviluppare». Questo montaggio è di fatto il cinema mentale dell’artista, che lo storico riporta in vita attraverso un’antropologia dell’immagine, e soprattutto del suo intrinseco dinamismo.
La Sistina è compresa come un organismo vivente, in cui le immagini invitano l’osservatore all’«attualizzazione del significato teologico e devozionale» che accennano, grazie al «montaggio patetico» con cui sono connesse. Proprio di un «montaggio patetico» che coinvolge le percezioni fisiche, le immagini mentali, gli affetti di chi entra nell’opera d’arte con il corpo e con la mente, Giovanni Careri parlava nel suo primo libro, Voli d’amore. Architettura, pittura e scultura nel «Bel composto» di Bernini. E anche allora si richiamava a quello che il grande regista russo Sergej Eizenstejn definiva «il montaggio delle attrazioni», «un’operazione estetica di scomposizione e ricomposizione di un molteplice eterogeneo che si compie nello spettatore».
Rimeditando l’intuizione di Eizenstejn, il quale come Warburg (probabilmente senza conoscerlo) parlava di «formule del pathos», Careri coglie, nel corpo vivente della Sistina, «la dinamica indotta dal passaggio da un sistema all’altro», e rilegge il Giudizio universale, accanto alle pareti di Perugino, Botticelli, Signorelli, Ghirlandaio, «come un’uscita dalle categorie visive della storicità umanista che regolano i cicli degli affreschi quattrocenteschi rispetto ai quali il grande affresco della parete di fondo viene non solo ad aggiungersi, bensì a "montarsi"».
Il Giudizio del Michelangelo maturo è in dialogo anche con la volta del Michelangelo trentenne: e Careri dimostra, con un’argomentazione serrata e molto solida, come gli Antenati, nelle lunette del soffitto, «incarnano il ruolo di contrappeso terreno al movimento d’ascensione e di caduta dei personaggi eroici», mentre il gesto possente del Cristo nel Giudizio, di fronte allo spettatore, diviene «il nucleo generativo di una serie di onde, espressione di una forza che attraversa i corpi, li lega fra loro e dà loro forma». Cristo, con «l’impulso dato dalla furia del movimento», nella serpentina del suo corpo immenso, non solo condanna i reprobi, ma accoglie e salva i giusti. Quel gesto costituisce un vortice ambivalente, fra parousia e terribilità, a cui gli astanti, nel dipinto e nello spazio della cappella, possono corrispondere compiendo l’«assunzione di somiglianza» che otterrà la loro «conformazione» gloriosa. Il tempo del Giudizio è quindi il paolino tempo che resta, «un tempo che si contrae e comincia a finire». E un’immagine dialettica, perfettamente benjaminiana: «corrisponde all’orizzonte temporale verso il quale gli affreschi delle pareti e quelli della volta dispiegavano le loro narrazioni e i loro annunci, ancor prima che il grande affresco della parete dell’altare venisse a dar figura visibile a questo punto di fuga del tempo, sino ad allora implicito». In una simile catastrofe il «punto di fuga del tempo della storia» si rovescia, messianicamente, «nel punto di vista privilegiato per comprenderla».
* Fonte: Quodlibet -«Alias - il manifesto», 25 aprile 2021
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
PER LA PACE PERPETUA. ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO....
MICHELANGELO PER UN RITRATTO A PROUST: UNA ILLUMINANTE INDICAZIONE DI WALTER BENJAMIN.
Federico La Sala
In cammino con Dante/20.
Raab e Cunizza, due donne generose nell’amore
Il IX canto del Paradiso ha come protagoniste la prostituta biblica che salvò Giosuè e la sorella di Ezzelino nota al suo tempo per i mariti e gli amanti: e Dante anticipa lo stupore di trovarle lassù
di Carlo Ossola ( Avvenire, domenica 1 agosto 2021)
Si direbbe che Dante, nella Commedia, abbia scelto di attestare il canone biblico femminile ricordato da Adam Scoto: «Eva, Sara, Rebecca, Lia, Rachel, Bala, Zelpha, Thamar, Raab, Debbora, Ruth, Anna, Bethsabee, Esther, Iudith, Elisabeth» (De tripartito tabernaculo, pars II, cap. VI, in PL, 198, 693B). Esse sono quasi tutte menzionate, spesso in Paradiso (o nel Paradiso Terrestre) e con ruoli eminenti: Lia e Rachele su tutte; nell’Empireo, al più alto grado, seggono Eva la progenitrice e Maria la rigeneratrice; e subito sotto, elette a far corona a Beatrice: «Ne l’ordine che fanno i terzi sedi, / siede Rachel di sotto da costei [Eva] / con Bëatrice, sì come tu vedi. / Sarra e Rebecca, Iudit e colei [Ruth] / che fu bisava al cantor che per doglia / del fallo disse: “Miserere mei”» (Par XXXII, 7-12).
Un rilievo speciale è dato, nel cielo di Venere, a Raab, la prostituta che diede ospitalità agli inviati di Giosuè, li nascose e li salvò dai nemici: «In seguito Giosuè, figlio di Nun, di nascosto inviò da Sittim due spie, ingiungendo: “Andate, osservate il territorio e Gerico”. Essi andarono ed entrarono in casa di una donna, una prostituta chiamata Raab, dove passarono la notte. Ma fu riferito al re di Gerico: “Ecco alcuni degli Israeliti sono venuti qui questa notte per esplorare il paese”. Allora il re di Gerico mandò a dire a Raab: “Fa’ uscire gli uomini che sono venuti da te e sono entrati in casa tua, perché sono venuti per esplorare tutto il paese”. Allora la donna prese i due uomini e, dopo averli nascosti, rispose: “Sì, sono venuti da me quegli uomini, ma non sapevo di dove fossero. Ma quando stava per chiudersi la porta della città al cader della notte, essi uscirono e non so dove siano andati. Inseguiteli subito e li raggiungerete”. Essa invece li aveva fatti salire sulla terrazza e li aveva nascosti fra gli steli di lino che vi aveva accatastato» (Giosuè, 2, 1-6).
In un Breviarium in Psalmos (attribuito a sant’Agostino e a san Girolamo; cfr. PL, 26, 1085A) si legge addirittura - tanta è la forza dell’exemplum biblico: «Ergo anima nostra illa Raab, illa meretrix, potest concipere, et parere Salvatorem» (Psalmus LXXXVI). Anche la nostra anima, prostituta essa stessa, avvinghiata al peccato, può dar ricetto e generare il Salvatore! È certamente questo il caso più evidente dell’efficacia delle opere, la sollecitudine dell’accoglienza già ricordata nel Vangelo (Mt 25, 34-40) e ribadita da san Paolo nella lettera agli Ebrei: «Per fede Raab, la prostituta, non perì con gl’increduli, avendo accolto con benevolenza gli esploratori» (11, 31); e ripetuta da Beda e da molti altri: «Denique Raab meretrix, nonne ex operibus iustificata est, suscipiens nuntios?» (“E infine Raab, la prostituta, non fu forse giustificata e salva per le sue opere, lei che accolse gli esploratori?”; Allegorica expositio in Samuelem, in PL, 91, 650C): secondo, del resto, il detto evangelico: «Non chiunque dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli » (Mt 7, 21). E Beatrice stessa per Dante non è forse nel poema - con splendida definizione - «opra di fede»? (Purg XVIII, 48).
Dopo tanti affanni, e desolazioni, e cautele e astuzie, finalmente Raab «si tranquilla» in Paradiso: il termine, accostato a “scintilla”, è una delle rime più affascinanti di tutta la Commedia, come ben vide il Tommaseo: «E non a caso, credo io, dice che la donna di Gerico in quel pianeta alla fine si tranquilla scintillando come raggio di sole in acqua limpida [113-115], si tranquilla dall’irrequieto dibattere delle fiamme e degli amori suoi vaghi» (DDP, ad locum). Non diversa è la storia - che precede nel canto IX del Paradiso - di Cunizza da Romano, figlia di Ezzelino II, morta a Firenze dopo il 1279, donna dai molti amori e di tanti pentimenti, della quale può valere il ritratto in versi che ci lascia Ezra Pound: «e sesta figlia Madonna Cunizza / dapprima sposa a Riccardo di San Bonifacio / e poi da Sordello sottratta al marito. / E con lui giacque in Treviso / finché lui non ne venne cacciato. / E lei scappò con Bonio che era un soldato / pazza d’amore / e andò da un posto all’altro / spassandosela assai / spendendo e spandendo / finché Bonio fu ucciso una domenica / e lei passò a un signore di Braganza / e infine mise su casa in Verona» (I Cantos, XXIX, trad., per questo passo, di Giovanni Giudici).
Più volte presente nei Cantos (VI, LXXIV, LXXVI, LXXVIII), Cunizza è, per Pound, l’esempio stesso di una gratuità totalmente spesa nell’amore, un amore così pieno che non lascia - nella letizia - traccia di rimorso: «Cunizza fui chiamata, e qui refulgo / perché mi vinse il lume d’esta stella; / ma lietamente a me medesma indulgo / la cagion di mia sorte, e non mi noia; / che parria forse forte al vostro volgo» (Par IX, 3236). Quell’«indulgere a sé» è davvero “forte” ma risponde, osserva nel suo commento Benvenuto da Imola, a un impulso naturale: «essa dice bene, dacché gli ignoranti si sorprendono che una famosa prostituta sia beata, non considerando che questo vizio è naturale, e comune e quasi necessario nei giovani». Egli fa eco, qui, a Boccaccio, che negli stessi termini si era espresso, nelle sue Esposizioni, quanto agli amori di Paolo e Francesca: «Sono adunque dannati in questo cerchio, come assai fu dichiarato leggendo la lettera, i lussuriosi; intorno al vizio de’ quali è da sapere che la lussuria è vizio naturale, al quale la natura incita ciascuno animale» (commento al canto V dell’Inferno). E con più profonda verità di fede il Tommaseo: «indulgo: perdono a me il mio fallire che mi fu perdonato».
Così infine Giovanni Giudici, che da Pound eredita, volle intitolare la sua “satura drammatica” del Paradiso Perché mi vinse il lume d’esta stella (1991), aggiungendo, ai versi di questi, il proprio toccante e sommesso congedo: «Perché di tanta pena / L’amore sia narrato / La quasi santità / Del nostro unico peccato».
#EDUCAZIONE CIVICA
#EDUCAZIONE SESSUALE.
#Memoria della
#Legge di #Apollo
(#Eschilo):
«non è la madre la #generatrice di quello che è chiamato suo figlio;
ella è la nutrice del germe in lei inseminato.
Il #generatore è colui che la feconda».
ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA. IL PROBLEMA DEL "DE DOMO DAVID" E DEL "COME NASCONO I BAMBINI", OGGI... *
DE DOMO DAVID. Gesù "Venne a Nàzaret, dove era cresciuto (..) Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?»
La fedeltà e il riscatto /16.
E il respiro divenne bambino
di Luigino Bruni *
«Così Boaz prese in moglie Rut. Egli si unì a lei e il Signore le accordò di concepire: ella partorì un figlio. E le donne dicevano a Noemi: "Benedetto il Signore, il quale oggi non ti ha fatto mancare uno che esercitasse il diritto di riscatto. Il suo nome sarà ricordato in Israele! Egli sarà il tuo consolatore e il sostegno della tua vecchiaia, perché lo ha partorito tua nuora, che ti ama e che vale per te più di sette figli"» (Rut 4,13-15). Tornano in scena le donne di Betlemme, come coro in una tragedia greca. Il libro di Rut è molte cose, tutte belle, ma bellissime sono le donne. Prima di iniziarne il commento sapevo che Rut era un libro al femminile; non pensavo però lo fosse così intensamente. Una grande sorpresa, ma anche un modo per onorare le donne che in questo tempo di pandemia hanno sorretto, con la loro cura, il mondo. Le donne donano, ancora una volta, parole meravigliose a Noemi, e a noi. L’ambiente della benedizione è ancora la reciprocità: Rut mette al mondo un bambino, le donne dicono che quel bambino riscatterà Noemi, amata da Rut, che per lei vale come molti figli. Una danza d’amore stupenda, una circolazione di hesed, di agape e di philia. Reciprocità diretta e indiretta, autentica protagonista del libro.
In un libro tutto centrato attorno alla grande figura-istituzione del goèl, il riscattatore-redentore, alla fine scopriamo che il goèl non è solo Boaz: l’altro goèl è il bambino. Quel bambino riscatterà le due donne, e sarà il loro consolatore, il loro hiphil, colui che, letteralmente, "fa tornare il respiro", colui che "ridona il fiato", il rianimatore.
È molto bella questa definizione del bambino di Rut come goèl e come rianimatore. Ogni giorno assistiamo nelle nostre famiglie all’arrivo di bambini che nascendo ridanno fiato a una madre, a un padre, a una nonna. Coppie stanche, famiglie sfiatate, ricominciano a respirare col bambino che nasce. Ogni bambino non porta con sé soltanto il fagotto di provvidenza, porta anche ossigeno per ricominciare a respirare, o per respirare tutti meglio. I bambini allungano la vita non solo perché fanno affacciare la nostra esistenza al di là di essa, ma perché estendono il nostro respirare, ci danno una gioia e una voglia di vivere che non avremo senza quel dono. I bambini forzano il nostro destino e ci donano giorni di vita extra, che decidiamo di vivere solo per poter rivedere un figlio o una nipote ancora domani. Ci insegnano a contare i nostri giorni con un’altra sapienza del cuore.
Il bambino di Rut è il riscattare di Noemi, è il suo secondo goèl. Boaz, il primo goèl, poteva riscattare solo il terreno e garantire una sussistenza materiale a Rut e a sua suocera; ma il libro ci ha continuamente detto che il vero riscatto di Rut e Noemi era un figlio. Questo riscatto non può essere garantito con atti giuridici e neanche con il matrimonio.
È solo e soltanto dono. Perché ogni bambino è dono, e non c’è dono più puro e grande di un figlio. Ogni figlio è qualcosa di più di un fatto naturale e necessario. Siccome nella natura esiste anche la sterilità, per l’arrivo di un figlio la natura non basta. E anche se la nostra cultura ha perso il senso religioso della generatività, un bambino che arriva è la gioia più grande perché porta iscritta in sé questa dimensione essenziale di libertà e di dono. Se un giorno il senso religioso dovesse scomparire dalla faccia della terra, potrà sempre rinascere insieme a un bambino.
«Noemi prese il bambino, se lo pose nel seno e gli fece da nutrice. Le vicine gli cercavano un nome e dicevano: "È nato un figlio a Noemi!"» (4,16-17). Il padre, Boaz esce di scena subito dopo aver svolto il suo compito - il midrash Leqah lo fa morire il giorno dopo le nozze ("Le leggende degli ebrei", vol. VI). -Il nome e lo svezzamento del bambino diventano una faccenda interamente femminile, anche perché lo sono davvero. Il monopolio femminile dei primi anni di vita dei bambini e delle bambine è stata una delle leggi auree non scritte delle civiltà. Fino alla generazione dei miei genitori gli uomini erano ospiti temporanei e provvisori dell’educazione primaria dei loro bambini. Si affacciavano ogni tanto sull’uscio, poi si ritraevano subito per mancanza di tatto e di competenze. In quel mondo i bambini erano i tesori delle donne (mamme, nonne, zie, sorelle), tesori fugaci e passeggeri, spesso le uniche gioie in vite difficili e ingiuste.
È nato un figlio a Noemi: il figlio era nato a Rut, ma ieri più di oggi ogni figlio che nasce a una figlia è anche figlio della madre di lei. Pochi amori sono più grandi di quello di una nonna per un/a nipote, impossibile da comparare a quello dei genitori, e se fossimo capaci di calcolarlo non lo scopriremmo minore, solo diverso. Ce ne accorgiamo, per contrasto drammatico, quando entra in campo la sofferenza per un nipote: quella dei nonni è una sofferenza aumentata, quella per il nipote moltiplicata per quella dei suoi genitori, un prodotto che sfiora l’infinito.
Inoltre, come unica volta nella Bibbia, il figlio viene attribuito a una donna e non a un uomo (per esempio: «A Set nacque un figlio, che chiamò Enos»: Gn 4,26). E Noemi non è più l’amara e la vuota, Dio l’ha riempita con un bambino. Lei diventa nutrice del bambino che a sua volta le darà respiro nella sua vecchiaia: ancora una faccenda di reciprocità. Le donne scelgono addirittura il nome per il bambino, anche qui unico caso nella Bibbia, perché non sono le vicine di casa né le donne del paese a scegliere il nome di un bambino. Qui invece le donne danno il nome al figlio di Rut-Noemi, forse per dirci qualcosa che le altre donne della Bibbia ci avrebbero detto se avessero potuto prendere più spesso la parola: un figlio non è un bene privato, è bene comune, è figlio di tutte, ed è l’intero villaggio a crescerlo. Nel presepe ci sono anche tutte queste donne di Betlemme, anche se non potevano saperlo.
«E lo chiamarono Obed. Egli fu il padre di Iesse, padre di Davide» (4,17). Ecco il nome che mancava al nostro mosaico, Davide, il nome più amato di tutti i nomi, che echeggia nell’aria fin dall’inizio della storia. E grazie a questo nome, che da solo racchiude tutta la Bibbia, capiamo un senso profondo del libro di Rut. La storia di Noemi, Rut e Boaz è il ponte che lega le storie della preistoria alla storia di Israele, Abramo e patriarchi con la monarchia, Davide con la tribù di Giuda e Gerusalemme. Quando Davide fa la sua comparsa nella storia di Israele (nel primo libro di Samuele), non viene menzionata la sua genealogia, arriva a Betlemme dal nulla. Il libro di Rut completa il filo d’oro della salvezza, spiega la trama della provvidenza. E così il libro di Rut riscatta la triste storia di Giuda, quell’incesto con Tamar, da cui nacque Peres, l’avo di Boaz, il nonno di Davide: «Questa è la discendenza di Peres: Peres generò Chesron, Chesron generò Ram, Ram generò Amminadàb, Amminadàb generò Nacson, Nacson generò Salmon, Salmon generò Boaz, Booz generò Obed, Obed generò Iesse e Iesse generò Davide» (4,18-22).
Tutto questo per dirci qualcosa di importante sulla logica della Bibbia, e della vita. Il tempo nella Bibbia si muove nelle due direzioni dell’asse. Per capire il senso pieno di un evento bisogna andare avanti e indietro nel tempo. Ciò che lo spiega non è solo quanto è accaduto prima, perché essenziale è anche quanto è accaduto dopo. Il matrimonio tra Boaz e Rut non illumina soltanto la persona e la storia di Davide (che verrà dopo), spiega anche la storia di Giuda e Tamar (avvenuta prima). Dà senso ai dolori e alle gioie che l’hanno preceduto e seguito.
Gesù di Nazareth non spiega solo il senso della storia di Giuda, Tamar, Rut e Davide, ma Giuda, Rut e Davide spiegano Gesù: ci fanno capire che nella sua carne e nel suo messaggio c’erano anche l’incesto di Giuda e l’omicidio di Davide, insieme alla grazia e alla fedeltà di Rut. E quindi che l’umanità di Cristo è vera anche perché raccoglie i peccati e le virtù disseminate lungo la sua genealogia. Ma se è così, allora nel suo corpo risorto ci sono anche Giuda, Davide, Rut, Noemi e tutte le donne di Betlemme, riscattati da un altro goèl.
Quando i primi cristiani fecero la coraggiosa e felicissima scelta di tenere legato l’Antico al Nuovo Testamento, allungarono, nei due sensi, l’asse dei goèl della storia della salvezza, la serie dei riscattatori e dei riscattati, moltiplicarono il dono del respiro dei bambini. Ma se guardiamo il mondo con occhi di Bibbia, ci accorgiamo che ogni volta che un bambino viene generato, con la sua storia spiegherà la storia dei suoi avi e illuminerà quella dei suoi discendenti. Quante volte la laurea di una nipote e la fedeltà di una nonna si spiegano e illuminano a vicenda? E qualche volta per capire veramente un grande dolore o una grande gioia bisogna aspettare i mille anni e oltre che separano i campi di orzo di Boaz dalla grotta di Maria. Nella lingua con cui sono scritte le frasi decisive della nostra vita il verbo è posto alla fine.
* Avvenire, sabato 17 luglio 2021 (ripresa parziale)
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
COME NASCONO I BAMBINI: EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
FLS
SCHEDA...*
VENEZIA:
LA CHIESA DI SANTA MARIA DI NAZARETH, O DEGLI SCALZI (E LA PRESENZA DI 12 SIBILLE).
La chiesa di Santa Maria di Nazareth, o chiesa degli Scalzi, è un edificio religioso della città di Venezia dei primi del XVIII secolo. Opera di Baldassarre Longhena ma con la facciata di Giuseppe Sardi, è situata nel sestiere di Cannaregio in prossimità della stazione ferroviaria di Venezia Santa Lucia.
La chiesa di Santa Maria di Nazareth deve la sua origine all’insediamento dei Carmelitani scalzi nella città lagunare.
Fu edificata da Baldassarre Longhena in un’unica navata, con due cappelle laterali, ognuna a sua volta affiancata da due cappelle minori. Dopo l’arco trionfale, l’aula si immette nel presbiterio, rialzato e dotato di una cupola. Nell’abside, si nota il coro dei frati.
Venne consacrata nel 1705, ma subì un importante restauro fra il 1853 e il 1862 da parte del governo austriaco. Al suo interno l’11 febbraio 1723 venne tumulato Ferdinando II Gonzaga, quinto e ultimo principe di Castiglione[1].
Oggi è monumento nazionale. Al suo interno marmi colorati e sfarzosi corinzi danno una sensazione di opulenza e di meraviglia al visitatore.
Presbiterio
L’altare maggiore è opera di Jacopo Antonio Pozzo (ovvero fra Giuseppe Pozzo) come anche il parato ligneo della sacrestia.[4] Il presbiterio è sovrastato da un baldacchino sorretto da colonne tortili. Il fastoso tabernacolo della mensa, vede la statua della Madonna con putto e profeti, proveniente dall’isola di Santa Maria di Nazareth, poi Lazzaretto.
Le statue di dodici Sibille, opera di Giuseppe Torretto, Giovanni Marchiori, Pietro Baratta, Giuseppe e Paolo Groppelli, stanno distribuite, cinque per parte, sulle pareti laterali e due giacenti sull’arco del baldacchino[5].
* Chiesa di Santa Maria di Nazareth (Venezia) (Wikipedia).
* Sulla presenza delle 12 Sibile nel "Presbiterio", in particolare, si cfr. anche il doc. su I Carmelitani Scalzi a Venezia. La chiesa di Santa Maria di Nazareth e il brolo del convento, Biblos Edizioni, 2015, pp. 22-26).
Scheda
Chi sono le Sibille?
di Ufficio Beni Culturali *
Con il termine Sibilla si indicava nell’antichità greco-romana una donna che possedeva la capacità di prevedere il futuro. Nel dizionario dell’Arte Medievale Treccani al termine Sibilla corrisponde la seguente definizione: "Nell’antichità classica, fin dal periodo arcaico della Grecia particolare tipo di veggente femminile [...] che profetizza quando e dove è ispirata, anche senza essere interrogata; la sua ispirazione è concepita come possessione divina, e per tale ragione la profetessa si mantiene vergine. Le Sibille divennero esseri leggendari; mediatrici tra dio e l’uomo, spesso concepite come figlie di divinità e di ninfe e dee esse stesse".
Pertanto le Sibille erano delle profetesse che, rivolgendosi alle comunità, alle città e ai regni, preannunciavano eventi e calamità naturali, esiti di battaglie e cantavano la storia delle città. Queste profetesse venivano anche consultate in occasioni di cerimonie, durante i periodi di carestia e al diffondersi di pestilenze, così da conoscere le cause e i rimedi ai mali che affliggevano il genere umano. Il dio che ispirava le Sibille è nella maggior parte delle attestazioni, Apollo, dio della poesia, della medicina, delle arti, della musica, della luce e della profezia. Minori sono le testimonianze che vedono Zeus, Giove o Dioniso quali ispiratori delle veggenti.
Le numerose profezie diffusesi in età classica spinsero gli studiosi antichi ad interrogarsi sul numero delle Sibille esistenti. Il primo autore che affrontò questa ricerca fu il filosofo greco Eraclide Pontico che individuò tre differenti Sibille: la Sibilla Marpessa o Ellespontica, la Sibilla Delfica e la Sibilla Eritrea. Solo in età romana, con lo studio dell’antiquario Varrone, si arrivò ad individuare dieci Sibille: la Sibilla Persica, la Libica, la Delfica, la Cimmeria, l’Eritrea, la Samia, la Cumana, l’Ellespontica, la Frigia e la Tiburtina. L’antiquario ordinò le profetesse in ordine cronologico e di ognuna fornì la fonte letteraria in cui era citata.
Con l’avvento della Religione Cristiana le Sibille non persero la loro importanza, anzi, al pari dei Profeti divennero annunciatrici della venuta di Cristo e del suo operato. Per questo motivo a partire dal Medioevo e durante tutto il Rinascimento le profetesse divennero soggetti nelle arti figurative italiane e nei testi letterari. Inizialmente le Sibille venivano rappresentate in forma singola ed accostate al ciclo dei Profeti, solo a partire dal Quattrocento vennero separate dai Profeti e costituirono un ciclo autonomo di dodici veggenti: le dieci del canone di Varrone più le due aggiunte da Filippo Barbieri nel 1481, l’Agrippea e l’Europea.
Nel contesto italiano l’apice della diffusione e considerazione delle Sibille si raggiunse con le raffigurazioni della Cappella Sistina nel 1508-1512 ad opera di Michelangelo Buonarrotti. In seguito, l’esaurirsi delle tensioni profetiche dalla metà del Cinquecento e i rigidi canoni controriformistici generarono una progressiva perdita di interesse, sia artistico che letterario, nei loro confronti. Ciò non si verificò nelle zone periferiche, dove le veggenti continuarono a rivestire un ruolo significativo sia in ambito religioso che privato.
È questo il caso della Provincia di Bergamo dove a partire dal XV secolo la presenza delle Sibille è osservabile nei contesti religiosi sottostanti alla Diocesi di Bergamo, e nell’ambito privato dell’Oratorio Suardi di Trescore Balneario.
* Ufficio diocesano dei Beni Culturali della diocesi di Bergamo
#EDUCAZIONE CIVICA
#TRAGEDIA
E
#DIVINA COMMEDIA
#oggi.
Dopo #Dante (1321)
e la #rivoluzione delle #sfere celesti
(#Copernico 1543)
e terrestri
(#Giovanni Valverde, #Anatomia 1560),
celebra ancora la
#dotta ignoranza
di
Socrate
e
Niccolò Cusano
"IL GIOCO DELLA PALLA", SECONDO LA LOGICA "ANDROLOGICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO...:
#DANTE2021
E
#ANTROPOLOGIA (#HOMO LUDENS):
IL #GIOCO DELLA #PALLA
(#De ludo globi) DI
#NICCOLO’ CUSANO
riguarda «un gioco scoperto da poco che tutti comprendono facilmente e giocano volentieri»
E
LA #DOCTA IGNORANTIA
#FILOLOGIA
E
#STORIA.
#PILATO
(#Ecce Homo gr.: «idou ho #anthropos»),
#SAN PAOLO
(1Cor. 11, 3: "di ogni #uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ]"),
#GIUSEPPEFLAVIO
("Egli era il #Cristo")
FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA. COME NASCONO I BAMBINI...*
È la nostra nascita il miracolo che salva il mondo
Quella postilla di Hannah Arendt che illumina i dati Istat sulla natalità
di Sergio Belardinelli (il Foglio, 24 apr 2021)
L’Istat ci ha comunicato di recente che, complice anche il Covid, in Italia nel 2020 i morti sono stati 746 mila e i nuovi nati 404 mila. Un dato agghiacciante nel suo significato sociale e culturale che a me, come una sorta di riflesso condizionato, richiama alla mente uno dei brani filosofici più intensi che abbia mai letto: “Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane dalla sua normale, naturale rovina è in definitiva il fatto della natalità in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. È in altre parole la nascita di nuovi uomini, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana, che l’antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo, che trova forse la sua gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la ‘lieta novella’ dell’avvento: ‘un bambino è nato per noi’”.
Con queste parole Hannah Arendt conclude il capitolo di Vita Activa dedicato all’azione. Si tratta di un brano che cito e commento ormai da quarant’anni, nel quale viene messo a tema un nesso, quello tra la libertà e la natalità, tra la libertà e la vita, col quale, che io sappia, soltanto la Arendt ha avuto l’acutezza e il coraggio di cimentarsi e che, a prima vista, può apparire persino paradossale. La vita infatti, almeno immediatamente, sembra richiamare non tanto la libertà, quanto piuttosto il gigantesco, immutabile ripetersi dei cicli naturali, l’ambito di quelli che il grande biologo Adolf Portmann, autore peraltro assai caro alla Arendt, definirebbe i “rapporti preordinati” - il contrario, quindi, di ciò che in genere intendiamo allorché parliamo di libertà. Quanto poi alla vita specificamente umana, essa, è certo impastata di libertà, ma è anche qualcosa che, a diversi livelli, non dipende da noi, qualcosa di cui, nonostante le tecnologie della riproduzione, non possiamo avere il completo controllo: la riceviamo semplicemente; non scegliamo i nostri genitori, né il luogo dove venire al mondo; dobbiamo fare continuamente i conti con gli altri, con le nostre passioni, i nostri istinti, le nostre inclinazioni, con quel coacervo di natura, ragione, sentimenti, usi e costumi che vanno a costituire appunto il “gran mare” della vita. La vita insomma pone una serie di condizioni e condizionamenti alla libertà che possono renderla persino impossibile. Eppure, rompendo in un certo senso questa grande catena, è proprio la libertà che dà sapore e specificità alla vita umana; solo la libertà impedisce che il mondo si riduca spinozianamente a “sostanza”, a qualcosa di omogeneo, a qualcosa come un continuo fluire; solo la libertà è capace di introdurre nel mondo un elemento di novità, qualcosa di imprevisto.
Pensieri non nuovi, si potrebbe dire. Ma proprio qui si inserisce la fondamentale postilla arendtiana, preziosa per leggere in una chiave forse inusuale ma certo illuminante anche i dati Istat sulla natalità in Italia da cui siamo partiti: è la stessa vita umana, il nostro venire al mondo, la nascita unica e irripetibile di ciascuno di noi, a rappresentare la prima e più immediata forma di novità, il primo scompaginamento, se così si può dire, della routine della vita.
La facoltà dell’azione, dice la Arendt, “è ontologicamente radicata” nel “fatto della natalità”. In entrambe le dimensioni - la libertà e la natalità - ritroviamo non a caso una costitutiva “novità”, un costitutivo essere insieme agli altri (non si nasce, né si agisce da soli), qualcosa che implica l’accettazione della realtà nella quale siamo e insieme fiducia nel futuro. In questo senso ogni bambino che nasce è un segno di speranza nel mondo; è l’irruzione nel mondo di una “novità”, la cui memoria, è il caso di dire, ritroviamo da adulti nell’esercizio della nostra libertà, nella nostra capacità di incominciare qualcosa che senza di noi non incomincerebbe mai.
Novità, pluralità (gli uomini, non l’uomo abitano la terra, ripete spesso Hannah Arendt) e speranza: questo ci schiude direttamente e in modo straordinario il discorso arendtiano sulla libertà radicata nella natalità. Ma indirettamente, specialmente oggi, tale discorso ci schiude molto di più. Ci fa capire, ad esempio, quale tragedia, anche simbolica, si consuma nel momento in cui un paese come l’Italia registra in un anno un saldo passivo tra morti e nuovi nati di 342 mila unità. È un po’ come se il mondo e la nostra libertà perdessero la speranza, ossia ciò che dà loro sapore, ciò che è insieme accettazione della realtà nella quale viviamo e fiducia nel futuro.
È vero, tutto passa. La vita non è altro che un eterno dissolversi nel gigantesco circolo della natura dove, propriamente, non esiste inizio né fine e dove tutte le cose e gli eventi si svolgono in un’immutabile ripetizione: la mors immortalis di cui parlava Lucrezio. Ma la Arendt non accetta questa mestizia, poiché a suo avviso “la nascita e la morte di esseri umani non sono semplici eventi naturali”; avvengono in un mondo dove vivono altri uomini; un mondo che acquista significato grazie alle loro azioni e ai loro discorsi; un mondo che per questo è sempre aperto alla novità.
Con la creazione dell’uomo, dice la Arendt, “il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso, e questo, naturalmente è solo un altro modo di dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo”. Di nuovo l’inizio, dunque, diciamo pure, la natalità.
È proprio perché, in quanto uomini, siamo initium, nuovi venuti, iniziatori, per virtù di nascita che secondo la Arendt, siamo indotti ad agire. La definizione che più si addice agli uomini non è quella di “mortali”, ma piuttosto quella di “coloro che nascono”. In questo modo, quasi per una sottile ironia della sorte, la categoria della natalità diventa fondamentale proprio nel pensiero di un’allieva (e anche qualcosa di più) di Martin Heidegger, l’inventore dell’essere per la morte. Non che la Arendt ovviamente trascuri che la morte rappresenta l’ineluttabile fine di ogni vita umana, solo che, a suo avviso, gli uomini, anche se debbono morire, non nascono per questo, bensì per incominciare. E siamo di nuovo al passo da cui siamo partiti: “Il miracolo che salva il mondo....”.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva
Federico La Sala
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA (2008) "NON CLASSIFICATA"!!!
SALUTE RIPRODUTTIVA
Fertilità femminile *
Le cellule riproduttive femminili (ovociti), a differenza di quelle maschili (spermatozoi), vengono prodotte prima della nascita, durante lo sviluppo degli organi genitali.
Nel corso della vita questa "riserva" si riduce poi progressivamente mensilmente fino ad esaurirsi del tutto (menopausa). Ogni donna nasce con 1-2 milioni di follicoli e alla pubertà ne rimangono 500.000. Solo 500 di questi escono dall’ovaio e gli altri si distruggono.
Il sistema riproduttivo femminile dipende dal ciclico reclutamento follicolare, dalla selezione di un unico follicolo dominante, dall’ovulazione e dalla formazione del corpo luteo. Se la fecondazione e di conseguenza l’impianto non avvengono, il corpo luteo scompare, l’endometrio si sfalda e compare la mestruazione.
Dalla pubertà alla menopausa, circa ogni mese, quindi, il corpo femminile si prepara ad un’eventuale gravidanza. Se questa non avviene, compare una nuova mestruazione. Il ciclo mestruale ha una durata variabile tra i 21 e i 35 giorni. Mediamente è di 28 giorni, ma nell’adolescente può essere spesso irregolare.
Dal secondo giorno dall’inizio delle mestruazioni, comincia la cosiddetta fase follicolare: i follicoli che portano a maturazione la cellula uovo si attivano nuovamente, sia per far maturare l’ovocita sia per provvedere alla sintesi degli ormoni (estrogeni e progesterone) necessari per ricostituire l’endometrio.
Intorno al 14° giorno avviene invece l’ovulazione, momento in cui possono avvenire la fecondazione e il concepimento. Il periodo fertile dura circa due giorni (durata in vita della cellula uovo).
Gli spermatozoi sopravvivono invece nel corpo femminile molto di più, anche fino a 4 giorni, per cui un rapporto sessuale avvenuto anche 3 o 4 giorni prima dell’ovulazione può portare alla fecondazione. Per tutto il periodo fertile, quindi, la fecondazione è possibile. Dopo l’uscita della cellula uovo il follicolo si trasforma nel corpo luteo, che produce progesterone, per predisporre l’utero a ricevere l’impianto della cellula uovo fecondata.
Questa fase del ciclo si chiama fase luteale o secretiva. In caso di mancata fecondazione l’uovo viene espulso con la mestruazione. La perfetta sincronia della fisiologia femminile è peraltro continuamente minacciata da insulti o da difetti ad esempio patologie endocrine ovariche od extraovariche che possono ad esempio inficiare l’ovulazione rendendo pertanto la donna infertile o subfertile.
Con l’aumentare dell’età, nella donna si verifica non solo una progressiva riduzione del patrimonio follicolare ma anche un aumento percentuale di ovociti con alterazioni cromosomiche, che mensilmente vengono messi a disposizione dell’ovaio stesso.
Anche l’utero subisce un deterioramento funzionale che riduce la capacità dell’endometrio di interagire con l’embrione e favorisce la possibilità di aborti spontanei; inoltre si registra un incremento dell’incidenza di patologie quali endometriosi e fibromi che ulteriormente riducono la fertilità.
FONTE: [MINISTERO DELLA SALUTE. Data ultimo aggiornamento 17 settembre 2020. (ripresa parziale, senza immagine).
SALUTE RIPRODUTTIVA
Fertilità maschile
Lo spermatozoo è la cellula riproduttrice dell’uomo, fondamentale per la sua fertilità, in quanto incontrandosi con l’ovocita femminile da origine all’embrione.
La spermatogenesi e la produzione di testosterone sono regolati da un sistema integrato di controllo. L’ipotalamo, attraverso la secrezione pulsatile dell’ormone rilasciante le gonadotropine (GnRH), controlla la secrezione ipofisaria dell’ormone follicolo-stimolante (FSH) e dell’ormone luteinizzante (LH) i quali a loro volta stimolano il testicolo a produrre rispettivamente gli spermatozoi e il testosterone.
Il testicolo è costituito da due compartimenti distinti, anche per funzioni: quello tubulare dove si trovano le cellule di Sertoli e gli spermatozoi in diversi stadi di maturazione, e quello interstiziale con le cellule di Leydig deputate alla produzione di testosterone. La spermatogenesi è un processo complesso che culmina con la produzione degli spermatozoi maturi e ha una durata di circa 74 giorni.
Le cellule di Sertoli sono importanti per il sostentamento delle cellule della linea seminale e per la loro normale maturazione.
Gli spermatozoi da stadi più immaturi progrediscono dalla base al centro del tubulo seminifero (lume) secondo i diversi stadi di maturazione (spermatogonio, spermatocita, spermatide e spermatozoo).
Gli spermatozoi lasciano i testicoli attraverso un sistema di dotti:
e raggiungono le vescichette seminali che, con le loro caratteristiche secrezioni, insieme alla prostata, contribuiscono alla formazione di gran parte del volume finale dell’eiaculato e fungono anche da contenitore tra un’eiaculazione e la successiva. Chiaramente una qualsiasi disfunzione o blocco della spermatogenesi o danno di queste strutture può comportare alterazioni della fertilità.
FONTE: [MINISTERO DELLA SALUTE. Data ultimo aggiornamento 17 settembre 2020. (ripresa parziale, senza immagine).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva....
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
VIVA L’ITALIA!!! Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
Federico La Sala
#ERMETISMO ED #ECUMENISMO RINASCIMENTALE:
#ERMETE TRISMEGISTO E LE #SIBILLE.
la #meraviglia
del
della Cattedrale di Siena
G20: Draghi, ad agosto summit ad hoc su emancipazione donne
’Sarà prima volta nella storia del vertice’
(ANSA) - ROMA, 21 GIU - "Il nostro governo vanta il numero più alto di sottosegretarie donne nella storia d’Italia. Abbiamo anche nominato una donna come capo dei servizi segreti per la prima volta in assoluto.
In ogni caso, questi sono solo dei primi passi.
Quest’anno l’Italia ha la presidenza del G20. Ad agosto terremo una conferenza ministeriale sull’emancipazione femminile per la prima volta nella storia del G20. Vogliamo aiutare le leader femminili in tutto il mondo a favorire l’emancipazione di altre donne."
Lo dice il premier Mario Draghi intervenendo, con un videomessaggio, al "Women Political Leaders Summit 2021". (ANSA).
L’Italia in cammino sinodale. Processo che parte dal basso
Su La Civiltà Cattolica il direttore si sofferma sull’avvio del percorso nazionale. «Chiaro il contesto: un incontro organizzato dai vescovi italiani». Il ruolo del laicato e l’unità della coscienza
di Antonio Spadaro *
Dal 24 al 27 maggio scorsi si è svolta la 74ª Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana. Essa è stata aperta dalla preghiera, presieduta da papa Francesco, e dal suo dialogo con i vescovi presenti. I lavori dell’Assemblea, sotto la guida del cardinale presidente Gualtiero Bassetti, hanno riguardato il tema: “Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita. Per avviare un cammino sinodale”. Tra l’altro, nella sua Introduzione, il cardinale Bassetti ha definito questo cammino come «quel processo necessario che permetterà alle nostre Chiese che sono in Italia di fare proprio, sempre meglio, uno stile di presenza nella storia che sia credibile e affidabile».
Il Pontefice ha esortato i pastori a riprendere le linee tracciate dal Convegno ecclesiale di Firenze, e a valorizzare un percorso che parta dal basso e metta al centro il popolo di Dio. Egli ha sempre lamentato una certa «amnesia» riguardo alle indicazioni che diede nel capoluogo toscano il 10 novembre 2015. Chiaro che la concomitanza tra l’indizione del Sinodo della Chiesa universale - del quale parleremo successivamente - e l’avvio del percorso sinodale della Chiesa italiana sarà un’occasione unica per sintonizzare i cammini.
L’Assemblea generale ha quindi votato la seguente mozione: «I vescovi italiani danno avvio, con questa Assemblea, al cammino sinodale secondo quanto indicato da papa Francesco e proposto in una prima bozza della Carta d’intenti presentata al Santo Padre». Il Consiglio permanente della Cei costituirà un gruppo di lavoro per armonizzarne temi, tempi di sviluppo e forme.
Le misurate parole della mozione riassumono e rilanciano un dibattito durato sei anni. Ad aprirlo fu il Papa a Firenze, suggerendo il metodo sinodale: «La nazione non è un museo, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose», disse Francesco. «Mi piace una Chiesa italiana inquieta - aggiunse - sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti».
Tutto rimase sottotraccia. All’inizio del 2019, “La Civiltà Cattolica” rilanciò la proposta di un Sinodo nazionale (cfr. A. Spadaro, “I cristiani che fanno l’Italia”, in Civ. Catt. 2019 I 250-252): ci parve la via più sicura da indicare a tutti, quella in grado di aiutarci a leggere a fondo la storia di oggi. Un luogo privilegiato di discernimento è infatti il processo sinodale, dove, se lo Spirito Santo è in azione, - come ha affermato Francesco - «dà un calcio al tavolo, lo butta e incomincia daccapo». E allora ecco la domanda: non sentiamo oggi il bisogno di un calcio dello Spirito? Se non altro per svegliarci dal torpore...
Alla nostra proposta fecero seguito interventi autorevoli di vescovi su “L’Osservatore Romano”, “Avvenire”, “Corriere della Sera”, e di teologi e studiosi su “Famiglia Cristiana”, “il Regno” e altra stampa cattolica e laica che, in generale, alimentarono il dibattito. Su “La Civiltà Cattolica” intervennero successivamente anche padre Bartolomeo Sorge e il sociologo Giuseppe De Rita.
«La sinodalità è una proposta che sentiamo di poter e dover fare a una società slabbrata come la nostra», puntualizzò il cardinale Bassetti il 1° aprile 2019. Il Pontefice ha poi effettivamente indicato il cammino sinodale alla Chiesa italiana, parlando ai vescovi del nostro Paese il successivo 20 maggio 2019, aprendo la 73ª Assemblea generale della Cei.
Il 21 gennaio scorso, la rotta è stata aggiornata. Andando «oltre le emergenze», ha detto il cardinale Bassetti, l’Italia deve ricomporre le quattro «fratture» (sanitaria, sociale, educativa, delle nuove povertà) che l’hanno piegata, con una capillare «opera di riconciliazione».
Il 30 gennaio Francesco, in un discorso in cui non a caso ha anche difeso con fermezza il Concilio Vaticano II («Chi non lo segue è fuori dalla Chiesa»), ha rilanciato la proposta in maniera decisa, affermando: «La Chiesa italiana deve tornare al Convegno di Firenze, e deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi: anche questo processo sarà una catechesi». Il contesto è chiaro: un incontro organizzato dai vescovi italiani. Chiaro il messaggio: la Chiesa italiana deve incominciare un processo di Sinodo nazionale. Chiaro, infine, il metodo: camminare a partire dal basso verso l’alto; comunità per comunità, diocesi per diocesi. «Il momento è adesso», ha scandito Francesco.
* * *
È necessaria un’«opera di riconciliazione» con la realtà e la storia - anche recente - del nostro Paese, ripensando uno «stile di presenza» della Chiesa italiana nella storia e nella vita del Paese, consapevoli del fatto che «la Chiesa è il cuore di Dio che batte nella storia» (monsignor Aldo Del Monte).
Le parole di Francesco alla Curia romana del 21 dicembre 2019 devono guidare il discernimento: «Non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale». Quindi occorre anche fare un discernimento sulle dinamiche interne della stessa Chiesa italiana, in particolare quella del «clericalismo».
Il Sinodo è un mare aperto, e noi - ha detto Francesco in piena pandemia - «siamo tutti sulla stessa barca». Oggi i credenti sono chiamati a remare con tutti, e a farlo con la consapevolezza di essere anche cittadini. E questa è pure una vera «sfida» culturale, che è molto di più che un progetto. Sarà necessario, dunque, parlare dell’annuncio del Vangelo e delle sue difficoltà in un mondo mutato dalla pandemia, dagli stili di vita mobili, fluidi, veloci, plurali, dalle verità «alternative» dei social network e da tanti altri cambiamenti.
I processi ecclesiali di rinnovamento sono un fatto sinodale, il cui protagonista è il popolo di Dio. La Chiesa italiana ha bisogno di ritrovarsi in condizione sinodale. La richiesta di un «Sinodo dal basso» ha già messo in moto la riflessione, le discussioni, il coinvolgimento delle comunità e di alcune diocesi. Il metodo del Sinodo è né più né meno che lo stesso modo di esistere della Chiesa.
In questo senso pensiamo sia da riprendere il «voto finale» che padre Bartolomeo Sorge espresse al Convegno ecclesiale del 1976 e registrato negli Atti. Egli, dopo aver affermato che «la risposta pastorale della Chiesa italiana non può essere più affidata alla stesura di un documento», postulava la necessità di «dar vita a strutture permanenti di consultazione e di collaborazione tra Vescovi, rappresentanti delle varie componenti della comunità ecclesiale ed esperti provenienti da tutti i movimenti di ispirazione cristiana operanti in Italia».
Padre Sorge intendeva indicare quel modo di procedere che oggi Francesco definisce come «popolo e pastori insieme» (cfr. Documento di Aparecida n. 371). Infatti - proseguiva padre Sorge - «è urgente offrire alla nostra comunità ecclesiale un luogo di incontro, di dialogo, di analisi e di iniziativa che [...] superi in radice l’impossibile divisione tra "Chiesa istituzionale" e "Chiesa reale"», e che è anche il rischio dell’oggi. Allora la proposta rimase senza esito. Oggi le condizioni per riprendere quel voto ci sono. E sappiamo che i frutti del cammino sinodale verranno per la grazia dello Spirito Santo. Il Sinodo, finalmente!
*
Antonio Spadaro è direttore de "La Civiltà Cattolica"
* Avvenire, giovedì 17 giugno 2021 (ripresa parziale).
Cristoforetti prima donna in Europa a guidare una stazione spaziale *
Nel 2022 Samantha sarà lanciata verso la "base" dalla Florida: "E’ un onore, coordinerò una squadra eccezionale"
L’astronauta Samantha Cristoforetti sarà la prima donna europea al comando della Stazione spaziale internazionale (ISS). E la terza al mondo dopo due americane: accadrà nel corso della Expedition 68 che la vedrà in orbita nel 2022. Lo annuncia l’Agenzia Spaziale Europea (ESA).
AstroSamantha si dice "onorata" della nomina. "Ritornare sulla Stazione spaziale internazionale per rappresentare l’Europa è un onore di per sé", afferma l’astronauta. "Sono onorata della mia nomina alla posizione di comandante e non vedo l’ora di attingere all’esperienza che ho acquisito nello spazio e sulla Terra per guidare una squadra molto competente in orbita".
Come membro dell’equipaggio "Crew-4" insieme agli astronauti NASA Kjell Lindgren e Bob Hines, nel 2022 Samantha sarà lanciata verso la Stazione Spaziale dalla Florida, USA, su un veicolo spaziale Crew Dragon di SpaceX. Questa sarà la seconda missione spaziale di Samantha. L’esperienza maturata in questi anni le sarà sicuramente utile per il suo nuovo ruolo.
Il Direttore Generale dell’ESA Josef Aschbacher ha spiegato che "la nomina di Samantha al ruolo di comandante della ISS è un’ispirazione per un’intera generazione che sta concorrendo per entrare nel corpo astronauti dell’ESA. Non vedo l’ora di incontrare i candidati finali e colgo l’occasione per incoraggiare ancora una volta le donne a farsi avanti".
* Fonte: la Repubblica, 28 Maggio 2021
#NiccoloCusano,
per indicare la #via alla
"#Visione di Dio" (1454),
si serve di
un quadro dell’artista Rogier Van der Wayden,
allievo di Robert #Campin,
autore del #TritticodiMerode
Con #Virgilio e #Beatrice (#dueSoli),
#NiccoloCusano,
(«Non è la madre che genera chi è chiamato figlio, ma solo nutrice è del seme gettato in lei»)
non esce dall’orbita
della #tragedia (#Eschilo).
LA "DOTTA IGNORANZA" E L’IMMAGINARIO DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA.... *
Dio secondo Stefano Levi Della Torre
Dal nostro lato
di Sergio Massironi *
«Colonizzazione immaginaria dell’inspiegato». Così Stefano Levi Della Torre definisce la religione in un piccolo volume dal titolo lapidario: Dio (Torino, Bollati Boringhieri, 2020, pagine 160, euro 12). Voce di un ebraismo laico, culturalmente ricco e poliedrico, l’autore non va oltre le convinzioni di Feuerbach e, pur muovendosi a suo agio nel Novecento scientifico e filosofico, rimane fermo nell’idea ottocentesca per cui Dio non è che proiezione degli uomini. E solo per questo interessante: «Dio rappresenta una domanda, anche se si vorrebbe fosse una risposta». A chi non provi fastidio per un agnosticismo dogmatico - inconfessato quanto rigoroso - il volume sarà di nutrimento, dal momento che dell’idea di Dio consente un’ampia recensione, lontana dall’inaccessibilità linguistica di molta teologia. Pagine che si divorano, nel dinamismo multidisciplinare con cui attraversano la tradizione occidentale. All’insegna, certo, di un criterio di lettura fermo e coerente, elemento di forza e insieme di debolezza del libro: «Che il mistero esista è una constatazione di cui fa fede la nostra ignoranza. Non l’ignoranza di ciò che ancora non sappiamo, ma che un giorno sapremo, bensì l’ignoranza inamovibile. L’ignoranza del perché del tutto, essendo il perché un interrogativo che si agita ma entro i limiti umani della nostra mente, preoccupata di dare al tutto un senso, cioè un movente e un fine».
Bonhoeffer e con lui la migliore teologia del secolo scorso hanno mostrato lo scarto tra il “Dio tappabuchi”, a cui Levi Della Torre non rileva alternativa, e un Dio al centro del mondo conosciuto, delle cose sapute, della vita vissuta: il Dio che in Cristo sospende le proiezioni umane e dice altrimenti di sé. Non lasciare che Dio parli chiude, prima che inizi, il riflettere “teo-logico”, ma ciò nonostante il volume tocca i nodi della modernità. Quest’ultima ha incorporato, spesso inconsapevolmente, molti effetti della novità cristiana. Primo fra tutti il valore del soggetto, nella sua autonomia e maturità che, per quanto opposte in senso emancipativo a un’idea di legge e a un’esperienza di potere troppo spesso eteronome, hanno una radice biblica. Dove biblica significa trascendente, destabilizzante le proiezioni umane, figlie a loro volta di una cultura e di un immaginario tutt’altro che a noi connaturati. Si tratta, insomma, di spingere più a fondo le intuizioni che legano il nostro autore alla sua genealogia ebraica: «Il Dio della Bibbia sa benissimo che il suo popolo cade a ogni passo nell’idolatria, ingannato dalle varie forme di essa in cui non sa ogni volta riconoscerla, dal fondamentalismo al nazionalismo. Dio sa di essere lui stesso una tentazione idolatrica, per questo dice: non pronunciate il mio Nome». Questa coscienza, che ha statura di conoscenza, oppone alle facili soluzioni agnostiche una via difficile e non idolatrica di incontro con l’Altro. Presente nel libro come un seme nascosto, può dal lettore essere coltivata.
Levi Della Torre offre in tale direzione, quasi suo malgrado, non pochi squarci che motivano e rimettono in cammino. La stima per il Lògos è più decisiva, infatti, delle conclusioni che l’autore presume logiche. Così, chi rifiuti di veder relegata la propria religiosità nei territori dell’irrazionale, apprezzerà e sosterrà il “dia-logo”, almeno interiore, che il volume innesca.
In effetti, secondo il Salmo 62, «una parola ha detto Elohim, due ne ho ascoltate: l’una è la Parola di Dio, l’altra la parola umana, a reciproca testimonianza». Di qui la complessità di ogni via anti-idolatrica. «Dal “suo lato” (mitisidò, in ebraico), dal lato cioè della sua essenza imperscrutabile, Dio è unico e unitario; dal “nostro lato” (mitsidenu, in ebraico), ci si presenta secondo diversi aspetti, secondo quanto ciascuno sappia intuire e interpretare, mentalmente e in pratica. E quando la voce del Roveto in Esodo 3, 14 dice ehijé asher ehijé e ne cogliamo la forma al futuro, potremmo tradurre “sarò Colui che sarò”. Alla luce di Esodo 15, secondo cui il Dio unico è inteso “dal nostro lato” secondo l’intendimento di ciascuno, potremo allora interpretare: “Sarò quello che tu saprai farmi essere per te”».
Questo approccio, che rappresenta una vera e propria postura, un modo rivoluzionario di abitare la realtà, è più fedele al Lògos e alla sua luce di quanto non si sperimenti sul binario morto in cui il volume conclude la sua corsa. L’approccio positivista, infatti, si conferma impossibilitato a tenere insieme ciò che l’autore sino all’ultimo contrappone: i Lumi della conoscenza e il buio dell’ignoranza, i territori sicuri della scienza (e della democrazia) e il caotico abisso che sospingerebbe alla fede. «Il prevalere del paradigma della proporzione tra causa ed effetto ha animato la secolarizzazione moderna. La sua intelligibilità, non solo scientifica, ma anche empirica, ha favorito la democratizzazione del sapere e lo sviluppo della coscienza individuale. [...] Paradossalmente, il paradigma fluido, che sembra quello più attuale a livello scientifico e filosofico, ha risvolti affini al modo antico di percepire il mondo. L’indeterminato, lo smisurato, la sproporzione, ispiravano in antico il senso del sacro, e quindi la religione per sua interpretazione, contenimento e riduzione alla misura umana. Oggi il non sapere, o l’eccesso di informazione in cui l’arbitrio dell’opinione si sente legittimato a prevalere sul sapere, il senso di andar perdendo il controllo cognitivo degli eventi e della propria vita ripropone forse l’inquietudine del sacro e quindi forme religiose e di fede, nuove o tradizionali, a suo rimedio».
E invece la via di Israele è quella di un luminoso conoscere che sospinge alla fede, come emblematicamente colto da un autore (troppo poco) citato: quel Nicolò Cusano che da gigante dell’Umanesimo mise le basi di un’altra modernità, ancora da esplorare. Una modernità che non separa, ma connette, che coglie in Cristo la coincidenza degli opposti e la leggibilità di un universo dai forti tratti d’imponderabilità. La via intravista dal cardinal Cusano, troppo ardita per la sua stessa Chiesa, coltivando approcci multidisciplinari e persino contraddittori radica in Dio dignità e responsabilità di ogni soggetto umano.
D’altra parte, Stefano Levi Della Torre intuisce come sin dalla prima pagina della Genesi (in ebraico bereshit) il discorso biblico disponga della chiave smarrita dalla moderna illusione di un sapere oggettivo. Seconda lettera dell’alfabeto ebraico, «la beth di bereshit ci avverte che quell’“in principio” non è proprio l’inizio, ma piuttosto un cambiamento di stato. Sottotraccia, è l’esito di una grande battaglia tra l’informe e la forma, tra il disordine e l’ordine, tra il tohu vavohu (massa tenebrosa, vorticosa, caotica) e l’intelletto divino, e quindi di quello umano, che è “a sua immagine e somiglianza”. Una battaglia mai finita; anzi, è sempre in atto, vi siamo immersi». Ecco la chiave che riapre le conclusioni del libro e impedisce di leggerci su un binario morto. Il Dio biblico non sta sul lato della massa tenebrosa e chiama alla sua somiglianza.
La chiave sta in un pronome bistrattato, cui sono legate le sorti della modernità e della stessa rivelazione biblica. «Se la seconda lettera, la beth, non designa un inizio assoluto, la prima lettera, l’alef, in qualità iniziale compare a un certo punto, nel mezzo della narrazione biblica con la parola anokhì, “io”. Una prima volta lo dice Adam di sé in Gen 3, 10; un’altra volta lo dice Dio sul Sinai, in apertura delle “Dieci Parole” [...]. Questo anokhì in cui sia l’uomo sia Dio riconoscono se stessi come soggettività [...] non nasce dall’inerzia, ma dallo sforzo di un distacco e di una nascita della coscienza di se stessi, a confronto con l’altro e col tu». La via difficile implica che “Dio” e “io” vivano solo insieme. In modo ben più serio e vertiginoso dell’essere l’uno illusione o proiezione dell’altro.
* Fonte: L’ Osservatore Romano, 04 febbraio 2021
Nota:
L’IMMAGINARIO MITOLOGICO DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA:
AL DI LA’ DELLA "DOTTA IGNORANZA" DEL CARDINALE CUSANO E DELLA "TEORIA" DEL "TRITTICO DI MERODE":
#MENSCHWERDUNG. - #Come nascono i bambini: ripartendo dal #sapere di non sapere,
Niccolò Cusano ricade nella #antropologia zoppa e cieca di #Aristotele
e propone nella #Docta Ignorantia (III, 5) del 1440 la visione (#teoria) del trittico di Merode (1427).
FLS
La prima radice
Il castigo ha sostituito il destino, ma le donne erano altro. Petrignani ri-legge Bompiani
di Sandra Petrignani (Il Foglio, 22 nov 2019)
Suggerisco di cominciare a leggere L’altra metà di Dio (Feltrinelli) dalla fine. Nel senso: suggerisco di leggere - per cominciare - l’ultimo capitolo dal titolo “Ri-epilogo” perché, appunto, è un epilogo ed è un riepilogo, che aiuterà a orientarsi nelle intenzioni dell’autrice, Ginevra Bompiani, e nelle tante storie che ri-legge e ri-racconta (quanti “ri”, giusti e necessari). Io l’ho letto alla fine, con enorme commozione, e poi ho anch’io riavvolto e ri-capito la messe delle storie.
Dice Ginevra: “Questo libro nasce dall’ansia”, non per le cose sue personali, ma per quel che ci tocca vivere nell’epoca in cui viviamo (e non solo noi donne). Spiega che ha diviso il testo in tre parti (Distruzione. Punizione. Mistificazione). Che ha voluto capire da dove è nata la “corsa suicida” che ci ha portato alla catastrofe del pianeta. Che il castigo ha sostituito il destino. Che l’Occidente (è sotto gli occhi di tutti) ha “definitivamente confuso la verità con la menzogna”.
Perché siamo a questo punto, è la grande domanda. Perché l’umanità si è data una storia così violenta, distruttiva e autodistruttiva? Avrebbe potuto andare diversamente? Volendo provare a rispondere, l’autrice si mette in marcia, e parte da lontano, da molto lontano, dalla silenziosa preistoria. Dall’inizio dei tempi, dal regno delle madri o matriarcato che dir si voglia, quando non c’erano ancora storie da leggere, ma solo da ascoltare, e poi dall’inizio delle storie scritte, almeno quelle che sono arrivate fino a noi.
Ma siccome “anche le storie hanno il loro inconscio”, Ginevra indaga nella loro misteriosa “primavoltità” (per citare con lei il neologismo di Bobi Bazlen), cerca l’ombra, la parte cancellata e orale che ha lasciato tracce delicate e sepolte, la parte lunare, quell’altra metà di Dio che è stata proditoriamente sottratta, “il femminile che non abbiamo ancora mai visto, affiancato a un maschile che non vediamo più”. Perché l’ipotesi (ma è molto più di un’ipotesi, ne restano tracce tangibili in tanti reperti archeologici e nel filo rosso che lega miti di civiltà diverse) è che “sia esistito un mondo in cui i valori maschili non sopraffacevano quelli femminili”, “un mondo vasto, splendido e mite” in cui regnavano le donne, che le armi non le conoscevano, non le costruivano, non le usavano e che dalle armi sarebbero state sopraffatte, sottomesse, ridotte al ruolo marginale di spose (nella migliore delle ipotesi).
E, dice Bompiani, “non vi è mistificazione più antica e più durevole, più tenace e silenziosa di quella che qualche migliaio di anni fa ha sostituito il mondo pacifico e egualitario delle società matriarcali con il patriarcato, facendo delle prime il grande rimosso della storia e dell’altro la nostra seconda natura”.
Non faccio che citare direttamente l’autrice perché il suo è un libro scritto in modo incantevole e preciso, dotto e visionario insieme, che convince e affascina nel suo stare saldo sui testi di riferimento, ma non per noiosamente chiosarli o non solo per interpretarli, bensì per interrogare senza fine l’immaginario umano: “Non cerco la Storia, ma le storie che ci hanno formati nel sonno”.
Che meraviglia. E così torniamo ad Adamo ed Eva, al sacrificio di Isacco, a Lot ridotta a statua di sale, alla Vergine Maria, cui non è concessa la divinità (nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: non dimentichiamo!), ma solo di essere “beata fra le donne”.
Man mano che si procede nella lettura viene un sentimento di rabbia e d’indignazione per la grande impostura che ci domina da sempre, per la vasta simbologia (non solo quella ebreo-cristiana sangue del nostro sangue. Bompiani va dritta alle origini risalendo all’ispirazione mesopotamica delle storie bibliche e della mitologia greca) che ci ha nutriti e resi quelli che siamo, mentre forse potevamo essere un’umanità diversa, materna, più somigliante in tutto al volto, così femminile, di Gesù Cristo, un figlio non a caso, figlio però di un padre dispotico e disposto a sacrificarlo (“riparando” al mancato sacrificio di Isacco che tragicamente lo annuncia) e di una madre dolorosa, completamente priva di potere.
La temeraria Ginevra si concede ogni tanto (spesso) il lusso di seguire libere associazioni e ci illumina sull’ispirazione di scrittori e filosofi amati (da Kafka a Wittgenstein, per citarne due soltanto) in una vertiginosa scorribanda culturale che non è mai schiacciante, voglio dire che non sopraffà il lettore, ma lo suggestiona, lo illumina e lo incanta, in una lingua di grande dolcezza, quella stessa lingua che fa dire a Franz Kafka, appunto: “Consideratemi un sogno”. Le cose viste “in sogno” dalla pizia Ginevra hanno la forza convincente del presagio cui non si sfugge, della verità intravista e terribile.
San Giuseppe e la trappola per topi
Il Trittico dell’Annunciazione di Robert Campin è una miniera di simboli mariani. Ma la cosa più curiosa è la bottega di San Giuseppe tutto intento a fabbricare una trappola per topi.
Doveva essere devotissimo di san Giuseppe il committente che sta all’origine della Pala di Robert Campin detta comunemente Pala di Mérode, dal nome della famiglia che la ospitava. Lo si vede, con la moglie, nel pannello di destra della pala. Non abbiamo la certezza circa l’identità dei due coniugi. Il Metropolitan Museum, dove risiede l’opera, identifica il committente con un ricco uomo d’affari del tempo, certo Jan Engelbrecht. Per altri era un mercante di stoffe di Colonia, prossimo alle nozze, Peter Inghelbrecht o Engelbrecht. Quel che rimane certo è il cognome: Engelbrecht che significa: breccia dell’Angelo.
Da qui si comprende il tema del pannello centrale: la rappresentazione dell’Annunciazione nel momento in cui, l’angelo, vero protagonista della scena, irrompe nella stanza di Maria.
La casa di Maria è una casa di pietra, sontuosa e solare, a dispetto della bottega di san Giuseppe, piuttosto piccola, raffigurata nel terzo pannello. Il contrasto è voluto e serve anche per mitigare la novità dell’ambientazione scelta per la Vergine annunciata. Se si confronta quest’opera con altre dello stesso periodo si nota come si fosse soliti rappresentare gli eventi dell’Infanzia del Salvatore, specie l’Annunciazione, dentro Chiese o Cattedrali, quasi a sottolineare la sacralità degli eventi. Qui Campin, per primo, registra invece l’assoluta normalità della casa di Maria.
San Giuseppe invece è presentato come un modesto artigiano, abile e capace, che lavora nel contesto di una città rispettabile. E ne vediamo chiaramente uno scorcio dalla finestra aperta. Anch’egli, del resto come si evince dal turbante, è uomo di tutto rispetto. Tra le altre opere di Robert Campin troviamo il ritratto di un anonimo signore facoltoso (e lo capiamo dall’abito foderato di pelliccia) che porta il medesimo turbante indossato da san Giuseppe. Solo il colore si differenzia: mentre nell’uomo ritratto, il copricapo è rosso, colore peraltro che designava l’alto rango, in San Giuseppe è blu, segno distintivo della diversa qualità del rango di San Giuseppe. Egli era nobile nello spirito e la sua dignità è da collocarsi appunto entro il mistero del piano divino. Insomma San Giuseppe è uomo voluto dal Cielo.
Nel XV secolo, molto prima quindi della proclamazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa universale (1621), ci fu un movimento popolare (analogo a quello legato al culto dell’Immacolata) che desiderava propagare il culto di San Giuseppe, collocando il Santo al pari degli Apostoli. Gli anni di punta di tale devozione furono proprio quelli in cui venne realizzata questa pala (tra il 1420 e il 1430).
Promotori di questo movimento giuseppino furono il Card Peter d’Ailly (1350-1425) vescovo di Cambrai e il suo pupillo John Gerson (1363-1429) che, nel concilio di Colonia (1416), proposero appunto di elevare San Giuseppe al livello degli apostoli.
Robert Campin ci permette di entrate nella bottega del Santo raccontandoci nei mini particolari il suo lavoro.
Il desco appare così inclinato, nella sua prospettiva, da dare l’impressione di volersi rovesciare. Siamo così costretti a guardare gli strumenti da lavoro di san Giuseppe: tenaglie, martello, chiodi. Sono chiari riferimenti alla croce, supplizio sopra il quale morirà quel Figlio che sta per essergli dato. Come si narra, appunto nel pannello centrale dell’Annunciazione della Vergine.
Sul desco di Giuseppe, però, c’è un oggetto, che pur riconoscendolo, fatichiamo a comprenderne il senso. Si tratta di una trappola per topi. A ben vedere ve ne sono due: una in via di costruzione e una seconda, in funzione, sul davanzale della finestra. Il senso di un simbolo tanto bizzarro lo spiega Sant’Agostino in uno dei suoi discorsi (256): «Il diavolo ha esultato quando Cristo è morto, ma per la morte di Cristo, il diavolo è stato vinto, come se avesse ingoiato l’esca nella trappola per topi. La croce del Signore era una trappola per il diavolo, l’esca con cui è stato catturato era la morte del Signore». Ecco, dunque, l’ignaro Giuseppe fabbricare quell’elemento che sarà per l’uomo simbolo di liberazione: «dov’è o morte la tua vittoria?». Ripete instancabilmente l’Apostolo: Cristo ci ha liberato. Anche Lorenzo Lotto, in una delle sue natività, colloca la propria firma sopra una trappola per topi.
Il topo, del resto, per la sua facilità riproduttiva e la rapidità del suo agire, è da sempre simbolo di lussuria e di disonestà. Fra il ricchissimo bestiario di Jeronimus Bosch, il topo compare sovente, proprio a significare l’ingannevole audacia del male. Mentre l’uomo si lascia ingannare dal tentatore, Cristo gioca il male sul suo stesso terreno. Il diavolo, infatti, ingannato dall’umanità del corpo di Cristo, addenta la preda, ma il veleno della vita, nascosto nella divinità di Cristo, lo ucciderà.
A questo significato attribuito alla trappola, in riferimento a Cristo e alla sua passione, concorrono altri elementi del pannello. Ai piedi di San Giuseppe c’è una sega, strumento che - secondo la predicazione del tempo - san Pietro usò per tagliare l’orecchio a Malco, nel giardino degli ulivi; mentre, più a lato, vediamo una scure piantata solidamente in un ceppo. «La scure è alle radici», proclama il Battista all’inizio della sua predicazione: di fronte alle malizie del male, cui l’uomo presta il fianco, c’è un giudizio inappellabile che si compie, quello della verità. Ora, con la venuta di Cristo e con la sua passione (come si vede nel pannello centrale dove Cristo raggiunge il grembo della Vergine imbracciando una piccola croce), si compie il tempo definitivo del giudizio sulla storia.
Non possiamo fare a meno di notare però che san Giuseppe è intento a tutt’altro lavoro che apparentemente poco ha a che fare con la trappola in fabbricazione collocata sul desco. San Giuseppe sta forando una tavola di legno con fori a intervalli regolari. Vediamo l’oggetto perfettamente compiuto nella casa di Maria, proprio dietro le sue spalle, Si tratta di un parafuoco. Il soggetto iconografico della Madonna del Fuoco o del parafuoco, è abbastanza frequente in quel secolo, lo stesso Campin ne realizza alcune, e vuole indicare la verginità della Vergine. Sia per il riferimento al roveto ardente che arde senza consumarsi, sia per il riferimento al fuoco della passione che rimase estranea alla Vergine e quindi anche al coniuge, san Giuseppe.
Allora comprendiamo il simbolo: san Giuseppe fu custode non solo del Redentore ma anche della castità di Maria. Il diavolo sapeva, per il versetto di Isaia 7,14, che Cristo sarebbe nato da una Vergine, ma mai si sarebbe immaginato che questa Vergine avrebbe contratto matrimonio. Sposando San Giuseppe e rimanendo illibata con lui nel matrimonio, il diavolo fu confuso e non comprese la natura divina del Cristo. Perciò, non solo Cristo fu trappola per il demonio, ma anche lo stesso San Giuseppe. La sua santità confuse le aberrate prospettive del Maligno, il quale è incapace di comprendere come le straordinarie vie di Dio possano intrecciarsi con l’ordinarietà della vita. Sì, una vita straordinariamente ordinaria quella di questo anziano Giuseppe che lavora placido accanto alla casa della sua futura sposa! Egli sa che il suo ruolo è quello di custode e si prepara, fabbricando quegli oggetti che più profondamente lo possono portare a identificarsi con il piano divino e ad aderirvi con tutta l’obbedienza del cuore.
* Fonte: Monache dell’Adorazione Eucaristica (Adoratrici.it, 15.03.2020 - ripresa parziale, senza immagini).
Albero di Jesse *
L’albero di Jesse (o Iesse) è un motivo frequente nell’arte cristiana tra l’XI e il XV secolo: rappresenta una schematizzazione dell’albero genealogico di Gesù a partire da Jesse, padre del re Davide, il quale è di particolare importanza nelle tre religioni abramitiche, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam.
Origine
Il tema iconografico trae spunto da un famoso annuncio messianico contenuto nel capitolo 11 del libro del profeta Isaia (11,1.10) [1] da cui ha origine il suo nome greco [2]. Gli artisti combinarono la frase con la genealogia di Gesù come appare nel vangelo secondo Matteo [3] o secondo il Vangelo di Luca (3, 23-38)[4], genealogie che tuttavia presentano vistose differenze.
La più antica rappresentazione conosciuta dell’albero di Jesse è datata 1086, e compare nel Codice Vissegradesi, vangelo dell’incoronazione di Vratislao II di Boemia[5].
Iconografia
Jesse viene solitamente rappresentato coricato, semi-coricato o nell’iconografia meno antica seduto[6][7]. Nell’arte romanica, solitamente, egli è rappresentato coricato all’aperto mentre in quella gotica appare più spesso dentro ad un letto riccamente adornato, come nelle vetrate della chiesa di Saint-Étienne a Beauvais che datano al 1520.
Spesso Jesse appare addormentato, la testa appoggiata su una mano. Questa posizione è, a volte, associata ad un sogno profetico concernente la discendenza del dormiente. Dal suo fianco o dal suo ventre o anche dal dorso[7] o più raramente dalla sua bocca, s’innalza un albero i cui rami sorreggono gli antenati di Gesù, in particolare Davide riconoscibile per la sua arpa, fino a Maria. Le vetrate della cattedrale di Chartres rappresentano, dal basso in alto Davide, Salomone, Roboamo, Abias ed infine Maria. Ogni artista, a seconda del testo che ha utilizzato, del proprio gusto e dello spazio che ha a disposizione, aggiunge altri personaggi dell’Antico Testamento, spesso i profeti che gli esegeti del Medioevo pensavano avessero annunciato la venuta di Cristo (sono quattordici sulle vetrate di Chartres). Alla sommità si trova Gesù, a volte in croce, a volte bambino, sulle ginocchia della madre.
Nel XIII secolo, l’albero si sviluppa verticalmente, ed è solo nel XV che comincia a ramificarsi lateralmente[6]. Ancora presente nell’iconografia cristiana del XV sec., il motivo declina nel XVI per scomparire con la Controriforma[6].
Esistono naturalmente anche altre forme di rappresentazione della genealogia di Gesù, che non utilizzano l’albero di Jesse, il più famoso è quello dipinto nelle lunette della Cappella Sistina da Michelangelo tratto dal Vangelo secondo Matteo[8].
I supporti
L’albero di Jesse è stato un motivo popolare in tutte le arti: si trovano esempi nei manoscritti miniati, le stampe, le vetrate, la scultura monumentale, gli affreschi, le tappezzerie o nei ricami[6].
Manoscritti
Il motivo appare in parecchie bibbie romane, ad esempio nella Bibbia di Lambeth, sotto forma di una B maiuscola decorata all’inizio del Libro di Isaia o del vangelo di Matteo. La bibbia di San Benigno, del XII secolo, una delle più antiche che ci sono pervenute, mostra Jesse e le sette colombe rappresentanti i sette doni dello Spirito Santo[9]. La bibbia dei Cappuccini (ultimo quarto del XII sec.) conservata nella Bibliothèque nationale de France ne è un altro esempio, l’albero di Jessi decora la L maiuscula del Liber generationis nel vangelo di Matteo[10].
Poiché il re Davide era considerato l’autore dei Salmi, i salteri erano sovente illustrati con un albero di Jesse, soprattutto i manoscritti inglesi, dove l’albero di Jesse s’arrotola attorno alla B maiuscola del testo latino Beatus Vir all’inizio del primo salmo. Uno dei primi esempi è il salterio di Huntingfield, della fine del XII secolo. La British Library possiede un bellissimo salterio del XIV sec., detto di Gorleston. In questi due esemplari Jesse è allungato ai piedi della lettera B. Si potrebbero citare ancora il salterio di Macclesfield (Fitzmuseum, Cambridge) ed il Salterio e le Ore del duca di Bedford [11].
Alcuni manoscritti consacrano una pagina intera al motivo, aggiungendovi personaggi, per esempio la sacerdotessa di Apollo Sibilla Cumana del salterio d’Ingeburg (inizio del XII sec.). Presso Colonia, in un lezionario di prima del 1164 si descrive un Jesse insolito, morto in una tomba o bara, da cui l’albero cresce[12].
Una prestigiosa rappresentazione dell’Albero di Jesse si trova nella cappella Roano (voluta dall’Arcivescovo Giovanni Roano), detta cappella del Crocifisso, sita all’interno del Duomo di Monreale in Sicilia.
Evoluzione
L’albero di Jesse, contaminato dalla popolarità del tema della parentela santa si modifica fino a diventare, a partire dal X secolo, il modello da cui deriveranno le successive rappresentazioni degli alberi genealogici[13] e in particolare per sintetizzare figurativamente la genealogia delle famiglie reali[14].
Per Tilde Giani Gallino l’albero di Jesse dell’abbazia di Saint-Denis rappresenta, dissimulato, un fallo di dimensioni sproporzionate. Questa rappresentazione è risultato dell’inconscia compensazione del suo ideatore, l’abate Sugerio, che - sfavorito dalla natura, causa imbecille corpusculum - proiettò, tramite quello che per lui era simbolo di forza e autorità, la sua «volontà di potenza».[15][16]
L’immagine dell’albero che nasce direttamente dal fianco di Jesse, affermatasi nei secoli XI-XII, ha una sconcertante analogia con la scena in cui si vede Brahmā seduto su un loto che esce dal ventre di Viṣṇu, secondo i testi sacri Veda. Nell’arte romanica i personaggi sono collocati direttamente sui rami e non nei calici dei fiori come avverrà dopo un paio di secoli, analogamente a quanto rappresentato nelle sculture buddhiste in Birmania, Cambogia, Cina ed altre parti dell’Estremo Oriente. Queste immagini si ritrovano a Worms, Issoudun (cappella dell’Ospedale), Rouen (cattedrale), Sens (cattedrale).[17]
* Fonte: Wikipedia (ripresa parziale, senza immagini e senza note).
Profeti e Sibille
di Rosanna Virgili (Avvenire, domenica 18 aprile 2021)
«Profeti, Sibille, Cassandra e Tiresia dal lato greco; Samuele, Isaia, Geremia ed Ezechiele da quello ebraico: con un futuro spettacoloso che li vede tutti insieme nella volta della Cappella Sistina per mano di Michelangelo. La profezia deriva da ispirazione divina: Cassandra da Apollo, Tiresia da Zeus; i profeti biblici da Dio. La chiamata di ciascuno di essi possiede una forza teologica e poetica formidabile». Così inizia un bell’articolo di Pietro Boitani dedicato ai “professionisti del futuro”.
Quelli cui ancora molti di noi chiedono lumi sui giorni a venire, cos’erano davvero anche nel mondo antico? Lo fa capire bene Boitani quando, a proposito della bella Cassandra, trova che nell’Iliade non faccia altro che constatare «la pura realtà» che ella coglie per prima, circa il cadavere di Ettore. «L’oracolo di Delfi - dice Eraclito - non dice e non nasconde: significa». Vede il futuro nelle pieghe del presente. Voce stessa di Dio, i profeti biblici, che riuscivano a capire quale sfacelo avrebbe fatto seguito alle testarde e reiterate violazioni della giustizia e della fraternità, con l’intelligenza della fede.
Gli antichi professionisti del futuro
Per quello che accadrà domani ci si è sempre rivolti a profeti, sibille e oracoli
di Pietro Boitani ("San Francesco", 19.04.2021).
Il futuro è insondabile: la scienza moderna riesce a prevedere i moti degli astri; i comportamenti delle particelle, le reazioni degli elementi chimici; e via via con minore precisione a inquadrare le combinazioni di cellule e l’ evoluzione degli organismi viventi; infine, a elaborare proiezioni economiche, sociologiche, politiche. Ma il nostro immaginario ancestrale è dominato da due tipi di futuro, quello della fama e quello di coloro che lo annunciano ab antiquo: profeti, Sibille, estensori di apocalissi.
Le figure maggiori sono Cassandra e Tiresia dal lato greco; Samuele, Isaia, Geremia ed Ezechiele da quello ebraico: con un "futuro" spettacoloso che li vede tutti insieme nella Volta della Cappella Sistina per mano di Michelangelo.
La profezia deriva da ispirazione divina: Cassandra da Apollo, Tiresia da Zeus o da Atena; i profeti biblici da Dio. La chiamata di ciascuno di essi possiede una forza teologica e poetica formidabile. Nel caso di Samuele, il testo gioca sulla ripetizione della "parola". Samuele, al servizio del vecchio sacerdote Eli, sente la Voce chiamarlo. Corre allora dal maestro: «Mi hai chiamato, eccomi!». Ma Eli: «Non ti ho chiamato, torna a dormire!». Il messaggio divino deve essere ripetuto ben tre volte, e il futuro che esso minaccia è il "piano" stesso di Dio, la sua giustizia.
In Eschilo, Cassandra "vede" l’ assassinio di Agamennone: la possiede, invasandola dopo aver desiderato invano di possederla fisicamente, Apollo, che la punisce per il suo rifiuto di darsi a lui con la condanna ad essere inascoltata. Ma nell’ Iliade Cassandra constata la pura realtà, scorgendo per prima il cadavere di Ettore che giunge a Troia, e chiamando tutti a contemplarlo. È il momento tremendo in cui la profezia si adempie. Al sorgere dell’ Aurora, Priamo e il suo araldo ritornano dalla tenda di Achille, tra grida e lamenti si avvicinano alla città. Non li vede nessuno, ma Cassandra, «bella come Afrodite d’ oro», sale sulla rocca e li avvista. C’ è qualcosa di infinitamente tragico nel contrasto tra la bellezza di Cassandra - «prima per bellezza delle figlie di Priamo», ripete Omero - e la morte che ella scorge e segnala. Lì, in quel cuneo del bello, sta la tragedia della profezia compiuta.
Altra tragedia, quella di Tiresia: «Ahi, ahi, com’ è terribile sapere», egli esclama nell’ Edipo re, «quando non giovi a chi sa! Io ne ero ben consapevole, ma l’ ho dimenticato; altrimenti non sarei venuto qui». Tiresia porta con sé il segreto del destino di Edipo: Tiresia, l’ uomo che ha sperimentato cosa voglia dire essere donna, colui che riceve il dono della profezia come compenso per la perdita della vista fisica: occhio per occhio, davvero.
Le profezie antiche sono enigmatiche e ambigue: «Il Signore di cui è l’ oracolo in Delfi», sostiene Eraclito, «non dice e non nasconde: significa». Solamente le previsioni di un Esiodo o di un Virgilio che legano astronomia e agricoltura sono chiare ed esatte, perché basate sull’ esperienza: «Quando le Pleiadi sorgono, dà inizio alla mietitura». Ma la durata più estesa del futuro che l’ antichità e le epoche successive riescono a concepire è quella fornita dalla fama: che non è la gloria, ma il parlar di qualcuno: Rumor, diceria. Per l’ immaginario del futuro che ha dominato l’ Occidente, è un concetto fondamentale almeno sino al Settecento. La rivoluzione scientifica del secolo XVII muta radicalmente il panorama. Il futuro porta ora il segno della precisione quantitativa: l’ ingresso della matematica e dello sperimentalismo nelle scienze fisiche altera definitivamente la previsione: non più profezia ma interpretazione di dati ed elaborazione di modelli. Su queste basi nascerà nel Novecento, seguendo germi antichi, la fantascienza, che elabora visioni del futuro fondate su previsioni scientifiche. C’ è chi immagina l’ apocalisse, come Walter Miller nel capolavoro Un cantico per Leibowitz; chi una successione di specie attraverso Anni senza fine, come Clifford Simak; e chi infine, come Stanley Kubrick in 2001: Odissea nello spazio, ricostruisce l’ intera storia dell’ umanità, dalla preistoria all’ oggi e poi al futuro remoto.
In Un cantico per Leibowitz la situazione di partenza è l’ olocausto nucleare (il «Diluvio di Fiamma») che ha avuto luogo sulla Terra nel XXI secolo e cui segue un nuovo Medioevo. All’ inizio dei secoli bui Isaac Edward Leibowitz trova rifugio in un monastero benedettino e fonda poi il proprio Ordine: il cui compito principale è quello di conservare i Memorabilia, gli scritti sopravvissuti al Diluvio di Fiamma. In effetti il primo protagonista del romanzo, Frate Francis Gerard dello Utah, ritrova antichissimi documenti che col tempo permettono lo sviluppo di una nuova scienza e di una nuova civiltà. Ancora una volta, però, l’ alta tecnologia conduce inevitabilmente al conflitto nucleare, e alla fine del romanzo i monaci sono costretti ad abbandonare la Terra su un’ astronave. Nel messaggio pessimista di Un cantico per Leibowitz ha una parte fondamentale l’ idea che un periodo di barbarie, di regresso della storia, sia necessario incubatore di una nuova civiltà. È un concetto cui pare accennare Dante quando enuncia la sua prima visione del futuro in Purgatorio XI: il celebre miniatore Oderisi da Gubbio parla dell’ umana vanità e, prima di mettere in scena i grandi artisti (Cimabue e Giotto, i due Guidi e Dante) che si succedono nel conquistare la gloria, enuncia la legge che governa il poco che l’ uomo può: quella della vana-gloria, che non dura se non seguita dalle «etati grosse». Le «etati grosse» sono appunto i periodi nei quali la civiltà viene meno e la barbarie impera. Gli uomini più grandi dell’ antichità non sarebbero famosi ora se non ci fosse stata tra loro e Dante una «etate grossa», un ...Medioevo.
Nel secondo grande classico, Anni senza fine di Simak, prevale invece il «tacito, infinito andar del tempo» (dall’ anno 2008 al milione) e il succedersi di specie diverse nel dominio sulla Terra: dotati di modifiche fondamentali al loro corpo o al loro habitat, i cani rimpiazzano l’ uomo - divenuto nel frattempo un mito da studiare filologicamente - e le formiche sostituiscono i cani, mentre la continuità è assicurata dal robot Jenkins, già maggiordomo della famiglia Webster e ora guardiano della cripta dove tutti i suoi membri giacciono in eterna ibernazione. «Una concezione della storia che voglia coprire la totalità delle cose umane», scriveva Karl Jaspers in Origine e senso della storia, «deve includere il futuro».
2001: Odissea nello spazio, il film iconico di Kubrick, ne provvede un altro. Il monolite nero piovuto da chissà dove segna qui, accompagnato dal rimbombare del Così parlò Zarathustra di Richard Strauss, le tappe fondamentali dell’ evoluzione umana: sulla Terra dà l’ impulso fondamentale alla trasformazione degli ominidi in homines sapientes; ritrovato sulla Luna nel 2001, spinge l’ uomo alla navigazione verso Giove e i suoi satelliti mentre il computer assassino HAL viene disattivato.
L’ unico astronauta superstite viene allora lanciato, dopo aver rinvenuto il monolite, in «folle volo» attraverso lo spazio e il tempo, sino a ritornare sulla Terra e morire sollevando l’ indice verso l’ Uovo Cosmico che contiene lo «Star-Child», il Puer Aeternus: come dichiara di nuovo la musica di Strauss, è l’ embrione del superuomo. Non esisterà più il tempo, recita il titolo di un bellissimo saggio di Riccardo Antonangeli, Eternità e trama nell’ arte del racconto (Roma, Studium).
Tramonto dell’ uomo o sua trasformazione: la fantascienza invita a porsi la domanda con la frase usata da Dante per immaginare noi, suoi posteri - coloro che, dice in Paradiso XVII parlando all’ antenato Cacciaguida e inventando il futuro, «questo (il suo) tempo chiameranno antico». L’ uomo diverrà una leggenda? Chi chiamerà il nostro tempo antico? I cani, le formiche, il superuomo?
ANTROPOLOGIA, MATEMATICA, E IL PROBLEMA DELL’UNO: "DOCTA IGNORANTIA", "COINCIDENTIA OPPOSITITORUM", E NUOVO PRINCIPIO DI CARITÀ (CHARITAS)! *
Maestri.
Ripartire da Cusano, il sapiente che sa di non sapere
Filosofo, teologo, diplomatico, cardinale, vescovo, umanista, un saggio di Massironi lo rilegge come modello di pensiero di fronte allo smarrimento culturale e spirituale del nostro tempo
di Simone Paliaga (Avvenire, giovedì 15 aprile 2021)
Tocca in sorte all’epoca attuale fare esperienza della crisi di configurazioni religiose, filosofiche, simboliche, giuridiche che per secoli hanno dato senso e ordine alla realtà circostante. Scollinare da una stagione all’altra non lascia indenni. Il passaggio di epoca comporta lo scacco di una ragione ormai diventata incapace di ritrovare le proprie tracce nel mondo. Il suo naufragio non è però un fenomeno isolato. Fa il paio con la soggettività che se ne faceva interprete, e che ormai fatica a riconoscersi nella realtà che la circonda. Lo spaesamento avviene perché una ragione calamitata dal finito è esposta all’irrompere dell’imprevedibile e l’uomo, alla stregua di una singolarità in costruzione, scopre che essere umano significa non restare identici in rapporto alla Verità.
Sono le sfide da fronteggiare quando a un’epoca di cambiamenti succede il cambiamento di un’epoca. Sembrerebbero questioni più attuali che mai in questo frangente storico. Ma non appartengono esclusivamente al nostro tempo. Lo conferma Sergio Massironi nel suo Il cardinale inquieto. La ripresa di Cusano in Italia come provocazione alla modernità (pagine 228, euro 22) appena pubblicato dalle edizioni Vita e Pensiero e che sarà presentato oggi alle ore 18 in un confronto online che vedrà l’autore discuterne con monsignor Sergio Ubbiali, docente di Teologia sistematica presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, e Silvano Petrosino, che insegna Antropologia religiosa e media all’Università Cattolica del Sacro Cuore, moderati da Sara Corna, del Collegio Villoresi di Monza. Il dibattito sarà trasmesso, in diretta, sul canale Youtube e profilo Facebook della casa editrice. Massironi nel suo lavoro mette in dialogo, con gran agio, la biografia intellettuale di Nicola da Cusa con alcune analisi critiche del suo pensiero condotte di recente in Italia.
Pur passando in rassegna le fatiche di Davide Monaco, Giovanni Gusmini, Cesare Catà, Gianluca Cuozzo e Marco Maurizi, lo studioso lombardo non rinuncia al confronto con figure come il filosofo Harald Schwaetzer sullo statuto del soggetto, con il teologo Ingolf U. Dalferth sul problema della ragione e il contributo dell’escatologia e con Jorge Bergoglio sui risvolti ecclesiologici-magisteriali.
Riannodare i fili tra presente e passato è una necessità perché «la crisi della modernità - avverte Massironi - ha provocato nel pensiero del Novecento una ripresa critica della parabola europea. Ciò ha offerto al cristianesimo l’opportunità di ripensarsi e di intervenire nuovamente con la propria proposta a indicare una traiettoria». Nicola da Cusa rappresenta, per usare in maniera impropria un’immagine a lui cara, uno speculum, uno specchio con cui compiere questo passo.
Il Cusano (1401-1464) è uno straordinario modello di riflessione per oggi perché percorre il crinale tra due mondi altrettanto delicato del nostro senza trovarsi impreparato dinanzi alle nuove sfide. Egli è di certo l’ultimo pensatore della stagione medioevale ma anche il primo riformatore nella fase moderna. Lo testimoniano sia la sua opera sia la sua biografia intellettuale. Filosofo, teologo, diplomatico, cardinale, vescovo, umanista, al tempo stesso quindi pastore di anime, politico, teoreta e uomo di fede oltreché grande collezionista di manoscritti, in perfetta sintonia con la passione umanistica delle fonti.
Nel corso dell’esistenza ha percorso più e più volte l’Europa, dalla natia Kues a Bisanzio, da Basilea a Parigi, da Colonia a Roma. Gli studi condotti a Padova gli hanno permesso di svincolarsi dai dibattiti frustri e desueti vissuti nel corso dei primi anni trascorsi all’università di Heidelberg dove si discuteva ancora della disputa degli universali, quasi un duecentesco déjà vu.
Ma i tempi erano ormai fuggiti in avanti. Infatti è il soggiorno italiano a consentire a Nicola da Cusa di nutrirsi della grande cultura umanistica che allora soffiava sulla penisola. Frequentare Vittorino da Feltre, Giuliano Cesarini e Lorenzo Valla, interloquire con Tommaso Parentuccelli, il futuro Niccolò V e con Enea Silvio Piccolomini, futuro papa Pio II, o ancora confrontarsi, durante la missione a Bisanzio, con Isidoro di Kiev, Giovanni da Ragusa, il cardinale Bessarione, Gemisto Pletone permettono al Cusano di non rinchiudersi tra le strette gole della scolastica ma di schiudere strategie di pensiero rivolte all’epoca nuova.
Mettendo a frutto il dispositivo della docta ignorantia, Nicola da Cusa comprende che il non sapere è il vero sapere e assume, nel De coniecturis, la natura prospettica della scienza umana che permette di conoscere, senza indulgere in alcun relativismo, la singola cosa come coincidentia oppositorum, un risultato che contrae il tutto in sé, punto nodale dell’intreccio di relazioni del reale, e capace di comprendere in sé il prima e dopo del passaggio d’epoca
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER LA PACE E IL DIALOGO, UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. GIUSEPPE dà a suo Figlio, GESU’ (= "Dio" salva), il NOME del Suo "Dio", e Gesù rivela che il Nome di "Dio" è "Amore" (Agape, Charitas)!!!
UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI: STORIA DELLE IDEE E DELLE IMMAGINI. A CONTURSI TERME (SALERNO), IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE ..... RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
#Come nascono i bambini:
ripartendo dal #saperedinonsapere,
Niccolò Cusano
ricade nella #antropologia zoppa e cieca di #Aristotele
e propone nella #Docta Ignorantia (III, 5) del 1440
la visione (#teoria) del trittico di Merode (1427)
La fedeltà e il riscatto.
Noemi la migrante si alzò
di Luigino Bruni ( Avvenire, sabato 3 aprile 2021)
«Al tempo dei giudici ci fu nel paese una carestia...» (Rt 1,1). Nei pochi versi del Libro di Rut ogni nome è un messaggio. Come in una miniatura medioevale, il capolavoro nasce dalla cura dei dettagli. Al tempo dei giudici... Il libro dei Giudici descrive un tempo di violenza e di soprusi, e si chiude con il racconto - tra i più tremendi della Bibbia - dell’omicidio perpetrato da uomini di Gadaa nei confronti di una donna di Betlemme (Gdc 19,29).
Il Libro di Rut inizia con un’altra donna di Betlemme: Noemi (o Naomi). La Bibbia va letta tutta insieme, perché, come nella vita, il senso di una parola lo si trova anche in un’altra, anche lontana. Ci fu nel paese una carestia. Nella Bibbia le carestie non sono soltanto eventi climatici. Sono anche teofanie, parole di Dio. Una carestia condusse Abramo in Egitto, un’altra ci portò i figli di Giacobbe e lì avvenne la grande riconciliazione con il loro fratello Giuseppe. Spesso una carestia è dolore che prepara una resurrezione. È un dolore che ci costringe a uscire da una terra che senza quel dolore non avremmo mai lasciato. Nella Bibbia qualche volta le persone partono inseguendo una voce; altre volte partono inseguendo acqua a pane. Per poi scoprire, ma solo alla fine, che dentro quel dolore che li aveva fatti fuggire di casa c’era lo stesso amore. Ma per capirlo c’è voluto tutta la vita, a volte quella di molte generazioni.
«E un uomo con la moglie e i suoi due figli emigrò da Betlemme di Giuda». Una famiglia emigra. Ancora non sappiamo i loro nomi, ma subito sappiamo il nome della città colpita dalla carestia: Betlemme. Quel nome però non sta facilmente accanto alla parola carestia.
Betlemme, lo sappiamo, significa "casa del pane". Quella famiglia per una carestia lascia la casa del pane, va a cercare il pane lontano dalla sua casa. Eccoci dentro un primo paradosso. Erano già dentro la casa del pane e la lasciano per il pane. Ma quella famiglia, diversamente dalle altre grandi migrazioni bibliche, non va in Egitto, dove il ciclo delle acque del Nilo era più forte delle carestie.
Va in un luogo improbabile, un nome quasi impronunciabile per gli ebrei del tempo: «nei campi di Moab». Va dai moabiti, che insieme agli ammoniti erano tra gli storici nemici di Israele. Un popolo, poi, che portava iscritto nella sua storia proprio il segno del pane e dell’acqua: «L’Ammonita e il Moabita non entreranno nella comunità del Signore... Non vi entreranno mai, perché non vi vennero incontro con il pane e con l’acqua nel vostro cammino, quando uscivate dall’Egitto» (Dt 23,4-5). Non vi vennero incontro con il pane: perché allora andare a cercare pane là dove il pane era stato negato? La tensione cresce...
«Quest’uomo si chiamava Elimélec, sua moglie Noemi e i suoi due figli Maclon e Chilion; erano Efratei, di Betlemme di Giuda. Giunti nei campi di Moab, vi si stabilirono" (Rt 1,2). Elimélec, cioè il mio Dio (Eli) è re (mélec). Anche qui un nome che parla: quell’uomo migrante porta con sé il legame con quel suo Dio diverso. I nomi dei suoi due figli maschi sono invece nefasti e cupi, traducibili come "malattia" e "tubercolosi" (o "esaurimento").
Nella Bibbia il numero due per i figli in genere non porta bene, a partire da Caino e Abele, passando per Isacco e Ismaele, Esaù e Giacobbe, Rachele e Lia, fino al rapporto tra il figliol prodigo e suo fratello - tanto che André Gide ha voluto immaginare, nella parabola di Luca, un terzo figlio minore, e una madre ("Il ritorno del figliol prodigo"). Due è anche il numero dell’invidia, della rivalità, del conflitto per ottenere il riconoscimento, per l’eredità e la primogenitura. Nella Bibbia il due non è ancora il numero della buona fraternità - e nessun numero lo è se la fraternità non genera un legame più grande di quello del sangue.
E vi si stabilirono. Vissero a Moab da "migranti". Il verbo gûr (emigrare) e il sostantivo ger (migrante) sono parole di casa nella Bibbia o, meglio, "di tenda". Vivere in un paese straniero da ger è una buona condizione. In Israele, ad esempio, il ger osservava il Sabato e partecipava alle principali feste. Non sappiamo come fosse la condizione giuridica del ger presso i moabiti, ma non è da escludere una condizione analoga a quella in Israele ("Rut", Donatella Scaiola, Paoline). Una parola, ger, che al lettore biblico ricorda poi direttamente Abramo: «Io sono uno straniero (ger) residente ospite in mezzo a voi» (Gn 23,4).
Abramo abitò la terra promessa da ger, a dirci che la condizione di migrante è la condizione umana, che nessuna terra promessa è per sempre.
Nella Bibbia ogni migrazione è continuazione di quella dell’arameo errante, che non ha mai smesso di errare, che ha sempre custodito una nostalgia spirituale profonda per quella casa nomade, libera e povera. Il libro di Rut è molte cose, ma è anche una grande riflessione sulla dimensione nomade della vita, che ci porta a cercar pane lontano dalla casa del pane, poi ci fa tornare, per ripartire ancora inseguendo, come la cerva, altre piste dell’unica vita, che è vera perché provvisoria.
«Poi Elimélec, marito di Noemi, morì ed essa rimase con i suoi due figli» (Rt 1,3). In quella nuova situazione di residenti-migranti a Moab accade un primo evento traumatico. Muore Elimélec. Nel morire viene definito "marito di Noemi". Prima era Noemi la "moglie di Elimélec", ora l’uomo è il marito di Noemi, un’espressione rarissima in quelle culture patriarcali, ma che sta bene in un libro al femminile. Il Midrash aggiunge una bella nota su questa definizione: «La morte di un uomo non è sentita da nessuno tranne che da sua moglie» (Midrash Rabbah del libro di Rut, Parashah Beth).
Non sappiamo come e perché morì il marito di Noemi. Ciò che è certo è che gli uomini iniziano, uno alla volta, a sparire. «I figli sposarono donne moabite: una si chiamava Orpa e l’altra Rut» (Rt 1,4). Sposare, per due ebrei, delle donne moabite non è un dettaglio secondario. La Legge di Mosè, lo abbiamo visto, non permetteva ai moabiti di diventare membri della comunità di Israele. Ancora il Midrash dà una sua lettura: «Moabita (maschile) ma non moabita (femminile)». Quel divieto allora non valeva per le donne?
Quel mondo patriarcale tutto incentrato sulla legge dei primogeniti maschi, aveva sviluppato delle norme che attenuavano e contrastavano questa legge ferrea. La storia della salvezza è infatti intersecata da primi figli non eletti (Caino, Esaù...) e da ultimi che vengono scelti (Giuseppe, Davide...).
E ora vediamo donne che riescono a violare addirittura la Torah di Mosè.
C’è una tipica trasgressione femminile. Accanto alle trasgressioni di tutti, maschi e femmine, c’è quella che si insinua nelle intercapedini delle leggi scritte da maschi, nei pertugi di regolamenti pensati e voluti da e per un mondo maschile. Le donne, quasi sempre ospiti di comunità non disegnate da loro, hanno dovuto imparare a sopravvivere infilandosi, spesso di nascosto, in quelle zone grigie e ambivalenti delle leggi, approfittando del non-detto e del non-esplicitato. E qualche volta togliendo quel sassolino dal muro per vedere oltre attraverso un foro, o gettando un seme tra le pietre di un muro a secco. Quel muro qualche volta poi crolla, magari senza averlo voluto - volevano solo vedere un altrove, solo piantare un fiore. C’è una sovversione discreta della legge, un "rovesciare i potenti dai troni" diverso, dove i potenti cadono quasi senza accorgersene.
«Abitarono in quel luogo per dieci anni. Poi morirono anche Maclon e Chilion, e la donna rimase senza i suoi due figli e senza il marito» (Rt 1,4-5). Rimase «come il resto dei resti dell’offerta del pasto» (Parashah Beth). Passano dieci anni (di matrimonio? o di residenza a Moab?), e poi muoiono anche i due figli di Noemi, per di più senza lasciarle nipoti - il testo non lo dice ma il contesto lo suggerisce, come suggerisce una sterilità delle due nuore: dieci anni fu il termine che portò Sara a far unire Abramo con la sua schiava Agar. La vita le lascia solo due vedove: Noemi ha una compagnia tutta femminile. L’economia del racconto ha eliminato i tre uomini dalla scena, e in un libro fatto quasi solo di dialoghi, quegli uomini sono entrati e usciti senza dire neanche una parola. Un campo sgombrato per far risaltare tre donne, tre vedove.
A questo punto, in questa condizione simile a un Giobbe femminile - ma cui restano accanto due vedove - Noemi riparte: «Allora lei si alzò con le sue nuore e fece ritorno dai campi di Moab» (Rt 1,6).
Noemi ritorna a casa, alla "casa del pane". Torna da sconfitta dalla vita. E noi non possiamo non pensare ai tanti emigrati che ripercorrono lo stesso cammino di Noemi, partiti per vivere, e tornati sconfitti da quella vita che li aveva fatti partire. Per le donne questo cammino a ritroso è ancora più triste e duro, prima durante e dopo.
Lei si alzò. Come Anna, la madre di Samuele, che dopo le umiliazioni e i pianti per la sua sterilità, «si alzò» (1 Sam 1,9). Come il figliol prodigo, che, un giorno, «si alzò» dal suo porcile, e quell’alzarsi fu il primo passo del ritorno a casa. Il libro non ci dice cosa accadde nell’anima di Noemi tra la morte dei figli e il suo alzarsi. Ma deve essere accaduto qualcosa di simile a quello che continuiamo a vedere in tanti uomini, e ancora più spesso in donne. Chissà quante parole le avranno detto Rut e Orpa - le donne sanno consolarsi solo con le parole, come Sharazad nelle "Mille e una notte" sconfiggono la morte parlando - quel logos che vince thànatos è donna.
«Si alzò» è la fine del lutto. Noemi non restò bloccata nel passato, fu capace di non morire anch’essa insieme ai suoi morti - il lutto è forse solo questo, ma lo abbiamo dimenticato. Si alzò, scelse di continuare a vivere. È la resurrezione di Noemi, la resurrezione di tante donne e uomini, ieri e oggi. Se quelle donne e poi gli uomini dell’antica Palestina furono capaci di riconoscere quella resurrezione diversa, è perché conoscevano le resurrezioni di Agar, di Anna, di Sara, di Noemi. Erano tutte lì, insieme, nel primo giorno tutto il sabato, a far festa per il Crocifisso che si era "rialzato". Buona Pasqua.
LA POCA SAGGEZZA DELLA FILOSOFIA, I “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO DI DANTE E LA PRESENTE STORICA CRISI DELLA CULTURA EUROPEA...
CONSIDERATO CHE UN FILOSOFO, “Anche quando sbaglia di grosso, se è un vero filosofo sbaglia con argomenti non banali, fino al punto che, grazie a lui, l’errore brilla della luce convincente della verità” (cf. S. Benvenuto, cit. - su), E VISTO CHE EGLI HA MESSO IL DITO NELLA PIEGA (e nella piaga) della storia della filosofia, nel gioco sofistico di Socrate: «Malgrado lo slogan “so di non sapere”, tutti ci rendiamo conto che Socrate in realtà sapeva tante cose. Ma il suo sapere squisitamente filosofico era proprio quello di non sapere, ovvero, il suo appello all’epistheme come “ricominciare tutto daccapo”» (op. cit. - su), VISTO IL PERSISTERE E , AL CONTEMPO, L’ESAURIRSI DELLA “GRANDE INSTAURAZIONE” ANTROPOLOGICA ED EPISTEMOLOLOGICA apollinea-socratica (su questo, si cfr. la grande analisi di Nietzsche!), forse, è bene e salutare riprendere alla radice (Marx!) la questione e, riaccogliendo l’indicazione di Sofocle, ripensare le «perversioni» di tremila e più anni (come sapeva Dante, meglio di Goethe), rileggere il cap. 15 del manuale di “Anatomia” (Roma, 1560) di Giovani Valverde, e ripensare l’«edipo completo», come voleva Freud e Fachinelli. Altro che continuare a menare la canna per l’aria. O no?!
Sul tema,nel sito, si cfr.:
Antropologia, Storia e Diritto. Donne e Uomini.... PER LA VERITA’ E LA RICONCILIAZIONE. RIMEDITARE LA LEZIONE DI ESCHILO. Dalla storia di Clitennestra, si arriva anche a immaginare una nuova giustizia, all’interno di nuovi rapporti sociali e politici
FLS
Giovedì la Lettera apostolica del Papa
Ravasi: «Dante, profeta di speranza»
Il cardinale illustra l’attualità anche religiosa dell’autore della Commedia. La Candor Lucis æternæ di Francesco, dedicata al Poeta, esce il 25 marzo, giorno di inizio del viaggio raccontato nel poema
di Gian Guido Vecchi *
«Dante è davvero un profeta di speranza, come lo considera Papa Francesco. Nel tempo della pandemia viviamo un periodo di dolore, paura, sconforto. Anche Dante ha vissuto un periodo così e ci ha mostrato come la grande poesia e la fede possano fiorire anche in un terreno devastato».
Il cardinale Gianfranco Ravasi sorride, «la Divina Commedia è un viaggio, un grande cammino che comincia il 25 marzo», e proprio giovedì sarà pubblicata la Lettera Apostolica Candor Lucis æternæ di Papa Francesco, dedicata a Dante Alighieri: il riferimento è al «candore de la etterna luce» che Dante, nel terzo trattato del Convivio, cita dal Libro della Sapienza.
Nella tradizione della Chiesa, il 25 marzo è il giorno dell’Annunciazione e anche della morte di Gesù, la data prossima all’equinozio di primavera che la dantistica indica (ma c’è chi opta per il Venerdì Santo del 1300, cioè l’8 aprile) come giorno d’inizio della Commedia. Il testo del Papa, come le iniziative programmate dal pontificio Consiglio della Cultura guidato dal cardinale Ravasi, mostra tutta l’attenzione della Santa Sede per Dante, nel settecentesimo anniversario di morte.
Eminenza, che cosa ci racconta, oggi, questo viaggio?
«Ciò che regge il cammino di Dante, il nostro cammino, è la speranza. Il viaggio comincia dall’Inferno, nel realismo del sottosuolo, nel fango della storia, la terra come «l’aiuola che ci fa tanto feroci» vista dall’alto del Paradiso, al canto XXII. Ma non è che finisca con il dolore irrimediabile di cerchi, gironi e bolge. Nel Purgatorio c’è la rappresentazione simbolica del passaggio dal peccato alla catarsi alla liberazione, dell’intreccio tra grazia divina e libertà umana. Ad esempio, quando nel canto terzo mette in scena la figura di Manfredi, che era stato trafitto da due colpi di spada...».
«...mentre che la speranza ha fior del verde».
«Proprio così. Manfredi, figlio illegittimo di Federico II, era stato scomunicato. E mentre sta morendo si rivolge a “quei che volontier perdona”, a Dio. Sono versi fondamentali: “Orribil furon li peccati miei;/ ma la bontà infinita ha sì gran braccia/ che prende ciò che si rivolge a lei”. Questa è la parabola del figliol prodigo: fino all’ultimo il Padre ti tende le “gran braccia”. Dante, oltre che poeta sommo, è un grande cristiano. Ed è di casa in Vaticano...».
In che senso?
«Nella Stanza della Segnatura, Raffaello lo rappresenta due volte. Nella cosiddetta Disputa del Santissimo Sacramento, sintesi della dottrina trinitaria, appare tra Agostino e Tommaso d’Aquino, come un teologo che annuncia la verità divina. La seconda immagine, col suo profilo segaligno, lo raffigura sul Parnaso come poeta, con Omero e Virgilio: la via pulchritudinis, la bellezza che parla anche a chi non crede. Interessante l’ interpretazione duplice: Dio gli ha dato il dono della poesia e lo ha incaricato di dire la verità. Il bello e il vero uniti».
Francesco è il terzo Papa a scrivere un testo ufficiale così importante su Dante.
«Sì, il primo fu Benedetto XV: nel 1921 compose un’enciclica, In Praeclara Summorum. Ma il Papa che in assoluto ha cantato più Dante è Paolo VI, che nel 1965 gli dedicò la Lettera Apostolica Altissimi cantus, un testo bellissimo. Da un lato scriveva “Dante è nostro”, non come trofeo ma per affermarne l’universalità e dire che vi si scoprono i tesori del pensiero e del sentimento cristiano. Dall’altra ammetteva: “Né rincresce ricordare che la voce di Dante si alzò sferzante e severa contro più d’un Pontefice romano, ed ebbe aspre rampogne per istituzioni ecclesiastiche e per persone che della Chiesa furono ministri e rappresentanti”».
In effetti nella «Commedia» abbondano i Papi all’inferno: nella terza bolgia dei simoniaci, ficcato a testa in giù in un pozzo occupato da svariati predecessori, Niccolò III si illude che Bonifacio VIII sia arrivato in anticipo e annuncia Clemente V...
«Sì, ci mette pure Papi ancora vivi! Del resto, negli anni del Concilio ero a Roma e ricordo che Paolo VI volle regalare a tutti i padri riuniti nelle Assise un’edizione della Divina Commedia...».
Sulla corruzione della Curia e della Chiesa è durissimo: «A la puttana e a la nova belva», scrive nel canto XXXII del Purgatorio. Forse non è un caso che i Papi ne abbiano scritto solo dopo la fine del potere temporale: imbarazzava la Chiesa?
«Probabilmente sì. Certo lo si celebrava: a chiamare Raffaello fu Giulio II, che magari Dante avrebbe messo, pure lui, all’inferno! Però lo si teneva un po’ a distanza. Era difficile elaborare la critica generale sulla corruzione della Chiesa: per questo fu molto significativo il dono di Paolo VI ai padri conciliari».
Dante è bellissimo da leggere, ma non facile...
«Michelangelo diceva di lui: “Simil uom né maggior non nacque mai”. Dispiega un’infinità di temi teologici, filosofici, astronomici, storici... Ci sarebbe un’infinità di cose da dire. Si pensi alla centralità delle figure femminili, Maria, Beatrice, Lucia...O alla visione della Trinità, al termine del Paradiso, che al centro “mi parve pinta de la nostra effige”: la nostra immagine, l’immagine del Cristo, il senso dell’essere nel volto umano...Chi non ha almeno una conoscenza essenziale della teologia non riesce a percorrere appieno questo viaggio. Inviterei la cultura contemporanea a non considerare la teologia come una cosa marginale, vecchia, decotta...».
Accade questo?
«Purtroppo sì. E invece qui vediamo la potenza di un pensiero che si fa poesia. In Dante si mostra quanto il pensiero cristiano sia importante nella cultura laica. Ed è drammatico il fatto che si tenda a insegnarlo in maniera superficiale, nelle scuole. Magari puoi scrivere note esplicative ma devi far capire la passione che animava Dante: un credente fervido e indefettibile. Non ti fa decollare dalla realtà: c’è l’inferno, tutti i vizi e le tragedie della storia le ha rappresentate. E poi c’è la forza della trasfigurazione, il “trasumanar” della redenzione cristiana. Lui è vissuto di quello».
Cosa dice Dante alla Chiesa, ancora oggi?
«L’autenticità del messaggio, senza compromessi mondani. E il coraggio della sincerità, anche nell’autocritica. -È la parresía che ci indica Francesco, segno di libertà interiore e di conversione».
Un poeta lo si celebra leggendolo. Che cosa direbbe per invitare a farlo?
«Le parole che confessava Jorge Luis Borges, grande poeta argentino che Francesco ha conosciuto, a proposito della Divina Commedia: “Nessuno ha il diritto di privarsi di questa felicità”».
TRANSIZIONE CULTURALE... *
Internazionale
Brasile, la profezia di Marielle Franco
Tre anni dopo. Resta senza mandanti l’omicidio della consigliera di Rio, avvenuto il 14 marzo 2018 per mano di due sicari. Ma alle ultime elezioni voti a valanga per 13 donne afrobrasiliane
di Glória Paiva (il manifesto, 14.03.2021)
Oggi il brutale omicidio della consigliera comunale brasiliana Marielle Franco e del suo autista Anderson Gomes compie tre anni. Militante, femminista, nera, residente a Favela da Maré e quinta consigliera più votata a Rio de Janeiro nel 2016, Marielle è diventata un simbolo mondiale della lotta antirazzista, per i diritti umani e lgbt+.
NONOSTANTE IL TEMPO trascorso, rimangono ancora domande sulle circostanze della sua morte. Perché le autorità locali e quelle nazionali non cooperano nella conduzione del caso? Qual è la conclusione dell’indagine relativa all’uso delle armi della polizia federale nel crimine? Chi ha spento le telecamere della strada in cui transitavano quella sera Marielle e Anderson? C’è stato un tentativo di depistaggio delle indagini? E la principale: chi ha ordinato l’omicidio di Marielle e perché?
Queste e altre questioni sono oggetto di un documento pubblicato dall’Istituto Marielle Franco, un’organizzazione creata dalla famiglia di Marielle per perpetuare la sua memoria. La famiglia chiede in modo costante risposte alle autorità di Rio de Janeiro che conducono le indagini. Tuttavia, si trovano spesso di fronte al silenzio: nell’ultima settimana, ad esempio, hanno cercato di incontrare il governatore dello stato, Cláudio Castro, e il procuratore generale, Luciano Mattos, ma non hanno avuto alcun riscontro, come ha riferito Anielle Franco, la sorella dell’attivista, in una conferenza stampa che si è tenuta venerdì 11 marzo.
FINORA, È NOTO SOLTANTO che Ronnie Lessa, poliziotto in pensione, e Élcio Queiroz, ex poliziotto, hanno aspettato l’auto di Marielle e Anderson nella Rua dos Inválidos, nel centro di Rio, prima di sparare contro il veicolo. Entrambi sono in un carcere di massima sicurezza e saranno sottoposti a un giudizio popolare, un processo in cui 25 cittadini, insieme al giudice, decideranno sulla colpevolezza o meno dell’imputato. L’ipotesi principale è che l’assassinio abbia avuto una motivazione politica e che vi abbiano partecipato delle milizie.
Secondo Jurema Werneck, direttrice esecutiva di Amnesty International in Brasile, i successivi cambiamenti negli organi responsabili delle indagini e la mancanza di trasparenza hanno ostacolato un’inchiesta rapida e imparziale. «In questi tre anni abbiamo avuto tre governatori, due procuratori generali, tre capi di polizia, tre pubblici ministeri. Nella pubblica sicurezza di Rio ci sono stati cinque cambi. Le autorità brasiliane non possono inviare un messaggio di impunità e di tolleranza rispetto alla violenza politica», dice Werneck. Che avverte: «Finché i mandanti sono liberi e sconosciuti, nessuno può sentirsi al sicuro».
«NON POSSIAMO ASPETTARE altri dieci anni prima che le donne nere vengano elette», aveva detto Marielle poche ore prima di essere uccisa. Il suo discorso è diventato una profezia: due anni dopo, nel 2020, alle ultime elezioni amministrative brasiliane, 13 donne nere sono state tra i candidati più votati nelle più grandi città del Brasile. Tra i consiglieri eletti, più di 70 si sono impegnati nella cosiddetta Agenda Marielle, che riunisce progetti di legge con pratiche e linee guida anti-razziste, femministe, lgbt + e popolari ispirate al lavoro svolto dall’attivista.
I politici sintonizzati su questi ideali, tuttavia, sono spesso a rischio. A Rio de Janeiro, le quattro donne nere elette con il Partito socialismo e libertà (Psol) hanno già registrato minacce di natura politica. «È necessario proteggere queste donne e inviare un messaggio a chi vuole mettere a tacere l’eredità di Marielle. Le persone che lottano per la giustizia, i diritti, la dignità devono essere protette perché sono un bene della società», dice Jurema Werneck.
Per il deputato federale Marcelo Freixo (Psol), amico ed ex compagno di lotta di Marielle, l’assassinio ha rivelato un lato brutale del Brasile. A cui il mondo ha reagito: «Le manifestazioni contro la morte di Marielle - osserva - mostrano la forza di ciò che lei ha rappresentato. Questa società capace di uccidere Marielle Franco non è la società che vogliamo»,
*
Il messaggio di Marielle Franco ha fatto il giro del mondo e ha raggiunto anche Firenze. Dal 15 marzo l’attivista sarà la prima donna brasiliana nera ad avere il suo nome in uno spazio pubblico in Italia, sulla terrazza della Biblioteca delle Oblate.
L’intitolazione è frutto della collaborazione tra la Cgil di Firenze e la Casa do Brasil a Firenze che hanno fatto specifica richiesta al Comune. «Questa terrazza non è uno spazio qualsiasi. Con vista sulla cupola del Brunelleschi, è un luogo simbolo del Rinascimento italiano. Possa la memoria di Marielle rinascere qui e offrire ai giovani la chance di riflettere su giustizia, diritti umani, diversità, tutto ciò che Marielle incarnava», commenta Ana Luiza Oliveira de Souza della Casa do Brasil a Firenze.
*SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria" del 2004.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
FLS
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Gianfranco Ravasi
Federico La Sala
In risposta:
#FILOLOGIA e #ARCHEOLOGIA. L’Uomo-#Sapienza di #Ruysbroec ("nel cuore di ogni uomo un #Ecco, cioè #Vedi, guarda"), il corteo "andrologico" dei #Magi (https://it.wikipedia.org/wiki/Cappella_dei_Magi), e l’«uomo» di #PonzioPilato («#Eccehomo»: gr. «idou ho #anthropos»), oggi... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5195 ...
in dialogo con il testo di Giorgiomaria Cornelio, Verumtamen in imagine pertransit homo, "Nazione Indiana".
FLS
MATEMATICA, ANATOMIA, E BAMBINI E BAMBINE. UNA QUESTIONE DI CIVILTÀ..
Parlare dell’embrione per dimenticare il mondo
risponde Luigi Cancrini (l’Unità, 28.02.2005, p. 27)
«Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo».
Così inizia il capitolo 15 dell’Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato «De Testicoli delle donne» (p. 91). Dopo queste timide e tuttavia coraggiose ammissioni, ci vorranno altri secoli di ricerche e di lotte: «(...) fino al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti, quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle società prepatriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano (...) che l’uomo emettesse con l’eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e sviluppava come l’humus fa crescere il seme» (Françoise D’Eaubonne). Oggi, all’inizio del terzo millennio dopo Cristo, nello scompaginamento della procreazione, favorito dalle biotecnologie, corriamo il rischio di ricadere nel pieno di una nuova preistoria: «l’esistenza autonoma dell’embrione, indipendente dall’uomo e dalla donna che hanno messo a disposizione i gameti e dalla donna che può portarne a termine lo sviluppo» spinge lo Stato (con la Chiesa cattolico-romana - e il Mercato, in una vecchia e diabolica alleanza) ad avanzare la pretesa di padre surrogato che si garantisce il controllo sui figli a venire. Se tuttavia le donne e gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni residui dichiarassero quale destino pare loro preferibile, se un’improbabile adozione, la distruzione o la donazione alla ricerca scientifica, con la clausola che in nessun modo siano scambiati per denaro o ne derivi un profitto, la vita tornerebbe rivendicata alle relazioni umane piuttosto che al controllo delle leggi, ne avrebbe slancio la presa di coscienza dei vincoli che le tecnologie riproduttive impongono e più consenso la difesa della “libertà” di generare.
Federico La Sala
Ho molto apprezzato la citazione di Valverde soprattutto per un motivo: perché dimostra, con grande chiarezza il modo timido e spaventato con cui da sempre gli uomini di scienza si sono accostati al tema della procreazione. Il problema di quello che era un tempo “l’anima” dell’essere umano, la sua parte più preziosa e più peculiare, quella cui le religioni affidavano il senso della memoria e dell’immortalità è stata sempre monopolio, infatti, dei filosofi e dei teologi che hanno difeso accanitamente le loro teorie (i loro “pregiudizi”: nel senso letterale del termine, di giudizi dati prima, cioè, del momento in cui si sa come stanno le cose) dalle conquiste della scienza. Arrendendosi solo nel momento in cui le verità scientifiche erano troppo evidenti per essere ancora negate e dimenticando in fretta, terribilmente in fretta, i giudizi morali e gli anatemi lanciati fino ad un momento prima della loro resa. Proponendo uno spaccato estremamente interessante del modo in cui il bisogno di credere in una certa verità può spingere, per un certo tempo, a non vedere i fatti che la contraddicono. Come per primo ha dimostrato, scientificamente, Freud.
Ragionevolmente tutto questo si applica, mi pare, alle teorie fra il filosofico e il teologico (come origine: i filosofi e teologi “seri” non entrano in polemiche di questo livello) per cui l’essere umano è tale, e tale compiutamente, dal momento del concepimento. Parlando di diritti dell’embrione tutta una catena ormai di personaggi più o meno qualificati per farlo (da Buttiglione a Schifani, da Ruini a La Russa) si riempiono ormai la bocca di proclami (sulla loro, esibita, profonda, celestiale moralità) e di anatemi (nei confronti dei materialistici biechi di una sinistra senza Dio e senza anima).
In nome dell’embrione sentito come una creatura umana, la cui vita va tutelata, con costi non trascurabili, anche se nessuno accetterà mai di impiantarli in un utero. Mentre milioni di bambini continuano amorire nel mondo e intorno a loro senza destare nessun tipo di preoccupazione in chi, come loro, dovendo predisporre e votare leggi di bilancio, si preoccupa di diminuire la spesa sociale del proprio paese (condannando all’indigenza e alla mancanza di cure i bambini poveri che nascono e/o vivono in Italia) e le spese di sostegno ai piani dell’Onu (mantenendo, con freddezza e cinismo, le posizioni che la destra ha avuto da sempre sui problemi del terzo mondo e dei bambini che in esso hanno la fortuna di nascere).
Si apprende a non stupirsi di nulla, in effetti, facendo il mestiere che faccio io. Quando un paziente di quelli che si lavano continuamente e compulsivamente le mani fino a rovinarle, per esempio, ci dice (e ci dimostra con i suoi vestiti e con i suoi odori) che lava il resto del suo corpo solo quando vi è costretto da cause di forza maggiore, ci si potrebbe stupire, se non si è psichiatri, di questa evidente contraddizione. Quello che capita di capire essendolo, tuttavia, è che i due sintomi obbediscono ad una stessa logica (che è insieme aggressiva e autopunitiva) e che il primo serve di facciata, di schermo all’altro che è il più grave e il più serio. E accade a me di pensare, sentendo Buttiglione e La Russa che parlano di diritti dell’embrione e ignorando nei fatti quelli di tanti bambini già nati, che il problema sia, in fondo, lo stesso. Quello di un sintomo che ne copre un altro. Aiutando a evitare il confronto con la realtà e con i sensi di colpa. All’interno di ragionamenti che dovrebbero essere portati e discussi sul lettino dell’analista, non nelle aule parlamentari.
Così va, tuttavia, il mondo in cui viviamo. Perché quello che accomuna la Chiesa di ieri e tanta destra di oggi, in effetti, è la capacità di far germogliare il potere proprio dalle radici confuse della superficialità e del pregiudizio. Perché essere riconosciuti importanti ed essere votati, spesso, è il risultato di uno sforzo, anch’esso a suo modo assai faticoso, “di volare basso”, di accarezzare le tendenze più povere, le emozioni e i pensieri più confusi di chi non ama pensare. Parlando della necessità di uno Stato che pensi per lui, che decida al suo posto quello che è giusto e quello che non lo è. Liberandolo dal peso della ragione e del libero arbitrio. Come insegnava a Gesù, nella favola immaginata da Dostojevskji, il Grande Inquisitore quando Gesù aveva avuto l’ardire di tornare in terra per dire di nuovo agli uomini che erano uguali e liberi e rischiava di mettere in crisi, facendolo, l’autorità di una Chiesa che per 16 secoli aveva lavorato per lui e agito nel suo nome.
Del tutto inimmaginabile, sulla base di queste riflessioni, mi sembra l’idea che Buttiglione e Ruini, Schifani e La Russa possano accettare oggi l’idea da te riproposta nell’ultima parte della tua lettera per cui «le donne, gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni» potrebbero/ dovrebbero essere loro a decidere quale destino pare loro preferibile.
Ragionando sui fatti con persone scelte liberamente da loro perché sentite come capaci di dare loro gli elementi necessari per la decisione più corretta. Affermando l’idea per cui gli uomini, le donne e le coppie possono e debbono essere i veri protagonisti di quella procreazione responsabile che è il passaggio più alto, più difficile, più esaltante e più faticoso della vita di tutti gli esseri umani. Quella che più fa paura a tanta parte della Chiesa e della destra, in fondo, è soprattutto la libertà della coscienza critica. Per ragioni, io torno qui sul mio ragionamento iniziale, che andrebbero discusse sul lettino dell’analista, però, non nelle aule parlamentari, sui manifesti o sulle pagine di un giornale.
Donna Sapienza
fin dal principio
di Marinella Perroni
Biblista, Pontificio Ateneo S. Anselmo *
Salomone lo conoscono più o meno tutti. Se non altro per quello stratagemma di voler far tagliare in due un bambino conteso tra due madri: una storia raccontata nel primo libro dei Re (3, 16-28). Forse, alcuni sanno anche che la saggezza del figlio di Davide e di Betsabea, l’adultera, è divenuta proverbiale perché il regno di Salomone ha assicurato a Israele non soltanto pace e stabilità, ma anche il contatto con le altre grandi culture del Vicino Oriente e, quindi, un tempo di grande vivacità culturale e di progresso civile. Per questo Israele ha attribuito al re Salomone tutta la riflessione sapienziale che sta alla base di alcuni libri della Bibbia, scritti in realtà in epoche diverse (dal secolo V al II prima di Cristo), che contengono sentenze, orientamenti e norme che hanno di mira una vita proficua e felice. Quasi nessuno però sa che quella sapienza che ha reso famoso Salomone è una raffigurazione che, accanto ad altre due figure, la Legge e il Messia, consente di capire perché, ma soprattutto come, Dio si fa presente nella storia del suo popolo. Ed è figura femminile.
Donna-Sapienza
Tra le tante cose degne di stupore emerse grazie al restauro della Cappella Sistina (1980-1994) una è, a mio avviso, tutt’altro che marginale. Nell’affresco della creazione, che occupa la volta, l’attenzione viene catturata dal vigore dell’Adamo e dalla grandiosa potenza espressiva con cui Michelangelo ha saputo rendere conto del rapporto di vicinanza e al contempo di distanza tra il creatore e la creatura fatta a sua immagine e somiglianza.
Eppure, il restauro ha fatto riemergere un particolare per troppi secoli rimasto del tutto oscurato: tra i putti che circondano e sostengono Dio nel suo atto creativo domina una figura femminile che Dio vincola a sé in un abbraccio. Eva? Inevitabile che in molti lo sostengano, anche se, in realtà, alla creazione di Eva il pittore dedica un riquadro specifico nelle storie della Genesi che corredano la volta.
Se gli storici dell’arte propendono per l’identificazione con Eva, i biblisti azzardano invece un’altra ipotesi, tutt’altro che fantasiosa perché molto ben accreditata dagli scritti sapienziali della Bibbia. Leggiamo nel libro dei Proverbi: «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. [...] Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, [...] io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo» (Proverbi 8, 22-31).
È la Sapienza stessa che si presenta come colei che presiede alla creazione, come la forza creativa che fa della creazione un’opera che - ce lo dice il racconto che apre il libro della Genesi - Dio considera una «cosa molto buona» (Genesi 1, 31). La reciprocità che Dio stabilisce con l’opera delle sue mani riflette, insomma, il rapporto ludico che intercorre tra Dio e la Sapienza. Il discorso sarebbe lungo: basti solo dire che, nonostante la struttura sociale di Israele fosse fortemente caratterizzata in senso patriarcale e nonostante ciò abbia spesso imposto alle donne anche pesanti restrizioni, nella letteratura biblica emergono invece, sia pure in modo carsico, attestazioni del ruolo decisivo giocato dalle donne nello sviluppo della storia di Dio con il suo popolo nonché riflessioni, spunti, allusioni che rivelano un immaginario religioso in cui la presenza femminile gioca un ruolo di primo piano. Al riguardo, gli scritti sapienziali sono una vera e propria miniera.
Il termine italiano “sapienza”, come quello greco sofia, possono ingenerare un fraintendimento rispetto a quello ebraico hochmah, che ha una storia molto antica e rimanda a una qualità superiore che alcune persone hanno e altre no, l’aspirazione presente nelle radici più antiche della nostra cultura a saper orientare i nostri atteggiamenti di fondo nel mestiere di vivere. La sapienza non si insegna, ma questo non significa che la sapienza non si impari: il significato più arcaico di hakam è l’uomo abile, l’artigiano, in particolare, l’orefice, colui che conosce bene un mestiere.
La sapienza biblica tradizionale non ha quindi la pretesa di essere frutto di una rivelazione divina, per questo è stata definita una sapienza laica. E i libri sapienziali non contengono racconti mitici e nemmeno sono opere filosofiche o speculative, come quelle dei grandi pensatori greci. Sono un distillato di sapere pratico e di riflessioni sulla realtà vissuta, non vi si trovano discorsi edificanti e tanto meno devote esortazioni. La sapienza non trasmette neppure un facile moralismo religioso, ma piuttosto richiede, e in termini molto esigenti dal punto di vista umano, di saper riflettere e prendere posizione nei confronti di insegnamenti a volte perfino tra loro contraddittori. Per questo il valore della sapienza è inestimabile.
Un esempio eloquente
La divisione del libro dei Proverbi in sette sezioni potrebbe richiamare la dichiarazione che apre il c. 9 «La sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne» e alludere così al fatto che, chi legge i proverbi e i discorsi di ammonimento contenuti nel libro, accoglie l’invito della sapienza a farsi ospitare nella sua casa.
Molto ci sarebbe da dire su indubbi tratti di misoginia presenti nel testo, ma non bisogna neppure dimenticare che, più ancora che nel testo, l’androcentrismo è stata una delle dominanti della storia della sua interpretazione. Da qui la forte diffidenza nei confronti soprattutto di un brano come l’elogio della donna forte (31, 10-31) che appariva come una vera e propria esaltazione della moglie ideale che vive solo in funzione del suo uomo e dei suoi figli.
Il capitolo è intitolato Parole di Lemuèl, re di Massa, «che egli apprese da sua madre» e si deve quindi supporre che si tratti di insegnamenti che la madre di un re trasmette a suo figlio. Non stupisce che per lungo tempo anche il ritratto della donna forte che suggella il libro sia stato interpretato come una raccolta di suggerimenti della madre al futuro re perché scelga una sposa appropriata.
A ben guardare, però, il poemetto si chiude chiamando in causa direttamente una tra le “molte figlie” e questo lascia lecitamente supporre che, se la prima parte del discorso della madre è rivolta al futuro re, l’ultima parte è invece l’elogio di una figlia che «ha compiuto cose eccellenti», a cui bisogna essere «riconoscenti per il frutto delle sue mani» e di cui va tessuta lode pubblica «alle porte della città».
Ben lungi dall’essere l’elogio di una futura nuora da parte di una suocera illustre, dunque, il brano contiene gli insegnamenti funzionali all’ideale di educazione del principe Lemuèl e di una principessa, di cui non si dice il nome, ma che viene interpellata direttamente.
Studi archeologici e storico-sociali hanno poi messo in luce che, all’epoca, le donne erano proprietarie terriere ed erano attive in tutti gli ambiti menzionati nel nostro testo, dal commercio alla produzione e alla vendita dei tessuti di lusso, ben lontane cioè dall’ideale casalingo che ne faceva le regine del focolare. Per non dire, infine, che i tessuti preziosi delle sue vesti (v. 22), il lino e la porpora, sono gli stessi che arredano l’arca che guida il popolo nel deserto o che vestono i sacerdoti del Tempio e che oltre a lei (v. 25), in tutta la Bibbia solo Yahweh veste di forza (Salmo 93, 1).
Descritta dunque con tratti caratteristici dell’epoca, la donna forte con cui l’autore del libro dei Proverbi suggella il suo scritto, è Donna-Sapienza, la personificazione della Sapienza di Dio. A lei deve legarsi il re, come mostra la straordinaria preghiera per ottenere la sapienza che, non a caso, viene attribuita a Salomone (Sapienza 9, 1-18). Non è la casalinga, ma colei che, costruita la sua casa, «ha imbandito la sua tavola. Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: “Chi è inesperto venga qui!”. A chi è privo di senno ella dice: “Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza” (Proverbi 9, 3-6).
I proverbi
Proverbi 31, 10-31
* Fonte: L’Osservatore Romano - 6 febbraio 2021 (ripresa parziale, senza immagini).
L’analisi.
Il mercato delle donne-donate tra eredità e prezzo sociale
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 27 febbraio 2021)
Il mercato delle doti è tra i fenomeni economici e sociali più rilevanti tra Medioevo e Modernità, che ci fa intuire l’alto prezzo pagato dalle donne, vittime sacrificali immolate sull’altare della società mercantile. La dote era la porzione di eredità paterna che una figlia riceveva al momento del matrimonio. Una volta ottenuta la sua dote, una donna non aveva più diritti sui beni della famiglia di origine. Quindi la dote era il prezzo per escludere le figlie dall’eredità paterna, stabilendo una linea successoria tutta maschile.
Il sistema della dote come estromissione delle donne dall’eredità viene stabilito dagli statuti cittadini italiani già nel Duecento, e il suo peso crebbe insieme alla ricchezza delle nuove famiglie di mercanti. Maritare le figlie divenne per le casate patrizie un problema sempre più serio, al punto che Dante rimpiangeva la Firenze pre-mercantile del suo avo Cacciaguida, quando «non faceva, nascendo, ancor paura la figlia al padre» (Pd XV, 103). Qui Dante racchiude in un solo verso l’essenza del fenomeno della dote nella sua Firenze, dove l’arrivo di una bambina era un futuro costo per i genitori. La discriminazione delle donne è sempre iniziata sul volto di donne, le levatrici, che dovevano dare la triste notizia a un’altra donna che aveva appena generato una femmina - esperienze e dolori che, grazie a Dio, non capiamo più e abbiamo dimenticato. Il celibato per i maschi era come un segno di nobiltà, il nubilato "civile" delle donne era invece socialmente stigmatizzato e scoraggiato.
Dalla fine del Trecento inizia in Italia un’inflazione di quello che era diventato il "prezzo delle figlie" per la nuova aristocrazia: a Venezia dagli 800 ducati di fine Trecento si passò ai 2.000 di inizio Cinquecento, e a Roma nel corso del Cinquecento le doti passarono da 1.400 a 4.500 scudi (Mauro Carboni, Le doti della "povertà", p.30). Un’inflazione dovuta soprattutto alla competizione posizionale tra famiglie ricche, che usavano le figlie come bene di status, in una dinamica oggi nota come "Dilemma del prigioniero", dove l’aumento del prezzo delle doti non avvantaggiava nessuno dei "competitori" - tranne, in alcuni casi, le mogli che videro crescere il loro peso economico all’interno della famiglia del marito.
Con il Rinascimento, poi, tra le famiglie patrizie italiane riprese piede l’istituto romano del fedecommesso, nelle sue varianti del "maggiorasco" e della "primogenitura". Le eredità venivano cioè lasciate interamente a un solo erede maschio, in genere il primogenito, il "maggiore". Ciò consentiva la conservazione dei patrimoni, che se frammentati tra molti eredi rischiavano di disperdersi.
Questa "innovazione" produsse però due grandi effetti collaterali. I figli maschi cadetti (cioè tutti tranne il primo) vennero via via scoraggiati dalle loro famiglie a sposarsi, tanto che nel secolo XVIII a questi figli era di fatto preclusa qualunque possibilità di contrarre matrimonio, e le due carriere che restavano loro erano quella militare e quella ecclesiastica. Il secondo effetto riguardava la sorte delle ricche figlie. La scarsità di maschi di pari grado faceva sì che la domanda di mariti eccedesse di gran lunga l’offerta. Ma se un padre patrizio dava sua figlia in sposa a un non-patrizio avrebbe disperso la sua dote e compromesso il buon nome della casata. Il "bene comune" della famiglia era anche qui troppo più importante del bene dei singoli individui, soprattutto di quello delle donne. Che fare allora?
Innanzitutto, le famiglie dovevano, quasi a ogni costo, dotare le figlie. Ecco allora che nel 1425 il Comune di Firenze creò un fondo per le ragazze "non dotate" (senza dote): il Monte delle doti. A questo fecero seguito molte altre istituzioni simili, tra cui il "Monte dei maritaggi" di Napoli (1578) e il "Monte del matrimonio" di Bologna (1583). Erano, a un tempo, istituzioni di credito e istituzioni di beneficenza, perché oltre a garantire interessi sui depositi gestivano anche lasciti e donazioni, private e pubbliche, a vantaggio di ragazze senza dote o con doti insufficienti.
A Firenze, tra il 1425 e il 1569, circa 30.000 ragazze furono iscritte al Monte delle doti. Il primo fiorentino che usufruì del Monte, Federigo di Benedetto di Como, depositò per sua figlia Diamante 200 fiorini; quando Diamante si sposò nel 1440 il fondo dotale che liquidò era diventato di 1.000 fiorini - e come non pensare alla fatica dei Francescani per far accettare alla Chiesa il pagamento del 5% annuo nei loro Monti di Pietà!? -Le famiglie che troviamo iscritte sui registri del Monte sono soprattutto le famiglie dei ricchi mercanti di Firenze - Acciauoli, Pazzi, Rucellai, Medici, Bardi, Strozzi -, che chiaramente ricorrevano al Monte per far fruttare meglio i propri investimenti. La metà delle ragazze ricche di Firenze aveva un titolo (un "libretto") al Monte, e questo non stupisce. Sorprende invece vedere molte figlie di artigiani modesti (per esempio, i padrenostrai) titolari di un conto. Un genitore con modesta ricchezza e povere origini faceva il possibile e l’impossibile per ottenere un conto dotale per sua figlia, perché sapeva che quel libretto poteva essere l’unica chance per darle un futuro migliore (Anthony Molho e Paola Pescarmona, «Investimenti nel Monte delle doti di Firenze», Quaderni storici, 21).
La nobildonna Alessandra Macinghi negli Strozzi così scriveva riguardo le prossime nozze di sua figlia Caterina: «Gli dò di dota fiorini mille; cioè cinquecento che ella ha da avere nel 1448 dal Monte [delle doti]; e gli altri cinquecento chi ho a dare, tra danari e donora [corredo], quando ne va a marito». E quindi aggiunge: «Però chi to’ donna [tòrre donna: prende moglie] vuol denari, e non trovavo chi volesse aspettare d’avere la dota fino nel 1448, e parte nel 1450: sicché dandogl’io questi cinquecento tra denari e donora, toccheranno a me, se ella viverà, quegli del 1450» (Lettere di una gentildonna fiorentina<, 1877, p.4). La liquidazione anticipata delle dote era infatti un rischio, perché in caso di morte dell’intestataria la somma restituita dal Monte si riduceva di molto.
Il valore economico della dote della sposa era dunque un indicatore del valore sociale della donna. La dote restava, formalmente, proprietà della moglie ma amministrata dal marito, e tornava in possesso della donna in caso di vedovanza. Una donna senza dote, perché la famiglia si era impoverita o caduta in disgrazia, era considerata "pericolante" ed esposta al vizio. Ecco allora la nascita di molte istituzioni di assistenza per donne senza dote, spesso intitolate a Maria Maddalena, per giovanette e/o per il recupero di donne cadute in peccato (per esempio, prostitute). "Conservatori" e "reclusori" che, mentre trattenevano in clausura forzata le donne a rischio, raccoglievano donazioni per garantire loro la dote al momento del fidanzamento - che avveniva per "tocco della mano" della donna di fronte a testimoni - o dell’entrata in convento (Luisa Ciammitti, «Quanto costa essere normali. La dote nel conservatorio femminile di Santa Maria del Baraccano (1630-1680)», Quaderni storici, 18).
Esiste, infatti, uno stretto rapporto tra il mercato delle doti e la vita religiosa. Cosa "fare" delle figlie che non si riusciva a "piazzare" nel mercato dei matrimoni? Rassegnarsi a un marito di rango sociale ed economico inferiore era un’umiliazione e un "costo" troppo alto che le famiglie patrizie non erano disposte ad accettare. Ecco allora che monasteri e conventi offrirono una soluzione.
Per le ricche famiglie la claustrazione di una figlia divenne la via maestra per «eliminare dal mercato matrimoniale le donne in eccesso collocandole in convento, rendendole istituzionalmente sterili» (Susanna Mantioni, Monacazioni forzate e forme di resistenza al patriarcalismo nella Venezia della Controriforma, 2013). Se un capitale troppo prezioso (una figlia aristocratica) non può essere allocato adeguatamente sul mercato deve essere distrutto con la monacazione. Perché è preferibile distruggere che svendere un asset così prezioso, poiché la sua svendita a una famiglia inadeguata avrebbe iniziato una decadenza sociale cumulativa dai costi imprevedibili. L’eliminazione tramite la clausura risultava la soluzione migliore. E poi il sacrificio di alcune figlie patrizie collocate in convento consentiva i convenienti matrimoni delle loro sorelle più fortunate.
Anche perché la dote monastica, o dote spirituale, era molto più economica di quella matrimoniale (fino a venti volte meno). Si spiega così sia la moltiplicazione dei conventi e monasteri femminile dopo il Quattrocento, e perché la quasi totalità delle monache e suore in età moderna provenissero da famiglie nobili o alto-borghesi, e perché più delle metà delle figlie di famiglie patrizie diventavano suore o monache.
Ma c’è di più. Le famiglie più ricche facevano costruire per la figlia celle private, dei veri e propri appartamenti all’interno dei monasteri, che restavano in uso esclusivo della monaca per tutta la sua vita. Queste monache gestivano spesso in proprio la dote, insieme a rendite su capitali di loro proprietà. Il che mette in luce un complesso rapporto tra vita comune, proprietà privata e uso simbolico dello spazio personale dentro i monasteri della prima età moderna (Silvia Evangelisti, «L’uso e la trasmissione delle celle nel monastero di S. Giulia di Brescia», Quaderni Storici, 30).
Bastano questi cenni per capire cosa significò la riforma della vita religiosa femminile di Teresa D’Avila.
Un’ultima considerazione. È molto significativo l’uso del registro semantico del dono per simili operazioni. Diceva riguardo le monache Giovanni Tiepolo, patriarca di Venezia: «Facendo della propria libertà un dono non solo a Dio, ma anco alla Patria, al Mondo, et alli loro più stretti parenti» (inizio del ’600).
Ma quale dono era in gioco, per quelle figlie che non sceglievano quale vita vivere? Innanzitutto era il dono del padre, non il loro dono. Era il dono che la famiglia e la società chiedeva a quelle donne per salvare l’ordine sociale e la casata. Era il dono simile a quello dei potlach delle isole del Pacifico studiati da Marcel Mauss (1925), dove il "dono" non aveva nulla di gratuità, ma era solo il linguaggio del potere politico e commerciale, che arriva fino alla distruzione dell’oggetto donato (potlach dissipativi), pur di affermare la propria superiorità.
Soltanto gli angeli conoscono il dolore di queste donne-donate, prezzi pagati alla società che stava nascendo. Oceani di sofferenza femminile, nei monasteri e dentro le case. Sono state queste lacrime la prima acqua con cui abbiamo impastato l’edificio della città moderna.
La sola, piccola, parziale ma non vana consolazione che ci resta è pensare che alcune, forse molte, di quelle suore e monache saranno state più grandi del loro destino. Come il loro "sposo" si sono ritrovate, senza volerlo, anch’esse inchiodate su una croce, e lì alcune hanno deciso di vivere quel dolore innocente e non scelto come dono, un dono diverso e finalmente libero. E qualche volta sono risorte. Se oggi molte donne possono vivere la loro vita nei conventi e nei monasteri come vero dono e come vera libertà, dietro questi doni e queste libertà ci sono anche quelle antiche resurrezioni.
Se dopo 700 anni
#Beatrice appare come un «manichino senza corpo»,
forse,
non è il caso di
osare un’altra ipotesi di lettura
della #DivinaCommedia e della #vita di #Dante?
FLS
MESSAGGIO EVANGELICO E LA "NUOVA ALLEANZA" DI "MARIA E GIUSEPPE". EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA.... *
La biblista francese. Pelletier: «Donne, Chiesa polifonica»
Per la studiosa occorre «ritrovare una struttura consonante a quanto presenta Paolo, cioè la Chiesa come corpo, dove l’istituzione si fonda su doni particolari assegnati agli uni e agli altri»
di Lorenzo Fazzini (Avvenire, mercoledì 27 gennaio 2021)
Anne-Marie Pelletier non è solo una sagace esegeta e una brillante docente universitaria. Già Premio Ratzinger per la teologia, l’intellettuale francese diventa anche una paladina delle donne, dentro e fuori la Chiesa, quando affronta il tema dell’odierna condizione femminile.
«Un club di uomini anziani, vestiti in modo strano, che dicono alla gente come si deve comportarsi a letto». Con questa sarcastica definizione Timothy Radcliffe illustra come, a suo dire, la gente vede la Chiesa. Perché non viene invece riconosciuto il grande apporto delle donne alla vita della Chiesa?
Le parole di Radcliffe sono impietose ma esprimono bene la realtà. La visibilità della Chiesa cattolica resta incontestabilmente quella della sua gerarchia, esclusivamente composta da uomini. E questa visione non è un effetto ottico.
È sufficiente aprire la porta di una chiesa durante una celebrazione per constatare che il presbiterio è uno spazio che appartiene agli uomini, in via maggioritaria se non esclusiva. Inoltre, l’autorità viene collegata al sacerdozio ministeriale. E per molti questo tipo di sacerdozio resta la chiave di volta del corpo ecclesiale. Anzi, passa l’idea che ne costituisca l’espressione suprema.
Da qui le reiterate denunce di clericalismo da parte di papa Francesco.
Cosa va perso in questa visione maschio-centrica?
Il dramma è che la verità della Chiesa viene nascosta. Infatti, la Chiesa non è innanzitutto la sua gerarchia, ma prima di tutto un corpo, che questa gerarchia ha la funzione di servire. Questo corpo è composto da uomini e donne che, nei loro diversi stati di vita, si riconoscono convocati dalla parola di Cristo. Questo popolo di battezzati dona carne e presenza al Vangelo nel mondo, spesso silenziosamente ma in modo autentico. E bisogna ammettere che le donne, in questo corpo, hanno un posto eminente, anzi dominante perché, in molti luoghi e circostanze, sono loro il volto e la mano della Chiesa per i nostri contemporanei. Io perdo un po’ la pazienza quando sento ripetere che ’bisogna fare spazio alle donne’ quando, invece, la prima cosa da fare è riconoscere il posto che esse occupano nelle parrocchie, nella catechesi, nelle missioni. Senza di loro, la Chiesa sarebbe già sparita.
Altrove lei ha sottolineato come l’attenzione della Chiesa con Francesco verso le donne non sia una questione nuova: da 50 anni i Papi prestano un’attenzione crescente al mondo femminile con diversi documenti. Allora è la Chiesa che ha fallito, rispetto all’uguaglianza uomo-donna, se ancora oggi viene percepita come maschile?
Si tratta di un dato impressionante. Dagli anni Sessanta il magistero ha prestato alle donne un’attenzione inedita. Non si era mai visto un elogio tale della donna da parte delle autorità della Chiesa. Eppure, nella Chiesa cattolica, le donne - in gran numero - hanno continuato a sentirsi emarginate, vedendosi assegnate a posti secondari, trattate con accondiscendenza, talvolta disprezzate da un mondo clericale che si arroga ogni decisione. Al punto da far sorgere l’opinione che molte poche cose sarebbero potute cambiare. Il problema di fondo non è semplicemente parlare delle donne, né parlare alle donne, ma lasciarle esistere, farle parlare a nome proprio nella Chiesa, far sì che siano esse a giudicare i problemi della vita e le questioni della fede, di cui hanno esperienza tanto quanto gli uomini.
In un suo testo su ’Vita e Pensiero’ lei scrive: «Il futuro dell’istituzione ecclesiale è intrinsecamente legato, nel cattolicesimo, a una riflessione polifonica ovvero alla condivisione della ricerca della verità, sempre più grande di quanto siamo capaci di cogliere». Può essere una riforma solo ’intellettuale’ sufficiente per far progredire il posto delle donne nella Chiesa? Oppure serve anche una riforma strutturale?
Per me è chiaro che una vera riforma della Chiesa deve incarnarsi nelle strutture della sua vita e nell’organigramma della sua governance. In questo senso non bastano tante belle parole. Il punto focale è che noi, uomini e donne, ci troviamo insieme nella responsabilità verso il Vangelo e nella missione della Chiesa. Rispetto al motu proprio recente, esso ritorna su un testo del 1972 che apriva il lettorato e il servizio di accolitato ai laici, a condizione che fossero uomini: in questo caso il magistero permette di metter fine ad un’aberrazione che squalifica la Chiesa. Resta il fatto che sarebbe troppo poco cercare solo di ridistribuire i poteri in una struttura immutata. Sono convinta che siamo in un momento cruciale in cui l’istituzione ecclesiale deve reinventarsi. Si deve tornare all’ecclesiologia. Non si significa fossilizzarsi su un’attività astrattamente intellettuale. Anzi, qui c’è la leva per un vero cambiamento di fondo. In questo senso mi piace comprendere la messa in guardia di papa Francesco di non attenersi alle semplici ’funzioni’. Per questo, mi trovo a disagio quando si pensa che l’accesso al sacerdozio femminile costituirebbe la soluzione della questione. Piuttosto vi constato un modo per ricondurre e confermare l’intero ordine ecclesiale al primato del sacerdozio ministeriale. Invece, penso che si debba uscire da questo schema per ritrovare una struttura consonante a quanto Paolo presenta, cioè la Chiesa come corpo, dove l’istituzione si fonda su doni particolari assegnati agli uni e agli altri per il servizio di tutti. E così la Chiesa si ridisegna come una comunità di battezzati, dove il sacerdozio battesimale, condiviso da tutti, ritorna ad essere il più importante.
Nel suo libro Una comunione di uomini e donne lei ha parlato di un «machismo diventato il marchio di fabbrica della Russia putiniana e dell’America trumpiana». Perché l’avversione all’emancipazione femminile è così forte nel sovranismo?
Le donne oggi si ritrovano ad essere sotto la minaccia di regimi autoritari che proliferano e che hanno un’aria di dejà vu, i cui leader sono esclusivamente uomini. La Russia vive sotto il comando di un dirigente che esalta la virilità brutale, che mostra mediaticamente i suoi muscoli e che porta avanti una repressione impietosa delle opposizioni: la guerra in Cecenia ne é un sinistro esempio. Non è un caso che una delle maggiori oppositrici di questa ideologia sia una donna, il premio Nobel Svetlana Aleksievic, che ha scritto un libro intitolato La guerra non ha volto di donna. -Quanto al populismo di Donald Trump o Jair Bolsonaro e altri, sappiamo bene come questi uomini disprezzino le donne, sia nei loro discorsi che nella loro vita privata. Non dimentichiamo che le più grandi manifestazioni nella storia degli Usa sono state quelle delle donne che denunciavano il machismo insolente di Donald Trump nel 2016.
I movimenti per l’emancipazione delle donne sono un segno dei tempi. Come far sì che diventino positivi per l’intera società e non restino relegati ad essere - per quanto giuste - solo proteste?
É indubbio che i femminismi, per natura, sono movimenti protestatari e militanti. Come stupirsi che, per denunciare le violenze che pesano di esse e gli asservimenti cui sono costrette, le donne scendano in piazza e brandiscano lo stendardo della rivolta? Ma l’obiettivo dovrebbe essere quello di uscire dalla guerra tra sessi, per arrivare ad un’auspicabile stima reciproca, fino a un’alleanza felice per la pienezza degli uni e delle altre. Non è certo quello che intendono quante oggi riesumano i testi di Valérie Solanas, l’intellettuale americana che sognava l’eliminazione del maschio dall’umanità. Un atteggiamento oltranzista, questo, che non opera per il bene delle donne ostaggio della miseria, delle povertà e del machismo che prospera su questo terreno.
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SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva
FLS
Dialogo interreligioso.
Ebrei e cristiani: l’amicizia è il segno dei profeti
È dedicato a Elia e ai suoi “colleghi” il secondo volume della “Bibbia dell’amicizia”, un commento del testo comune da parte di studiosi di entrambe le fedi
di Riccardo Maccioni ( Avvenire, domenica 17 gennaio 2021)
Le relazioni vere per crescere hanno bisogno di attenzione. E di rispetto. Non basta parlare, occorre imparare l’ascolto, il confronto con opinioni diverse, per così dire il “vocabolario” dell’incontro. Senza per questo rinunciare a quel che si è. Vale nel “privato” di ciascuno così come, fatte le debite differenze, per il dialogo tra le fedi, che spesso matura anche grazie ai rapporti personali, al tu per tu. Uno stile che è tra gli aspetti originali di La Bibbia dell’amicizia di cui è stato da poco pubblicato il secondo volume (San Paolo, pagine 384, euro 30,00) dedicato ai Neviim/Profeti.
Il progetto, avviato due anni fa, rappresenta una novità nel panorama italiano. E non solo. Si tratta di un commento alla Bibbia scritto insieme, a più mani, da ebrei e cristiani. Con lo scopo, non di arrivare a una lettura unificata, ma «di conoscersi meglio e di conoscere meglio le rispettive interpretazioni, accettando che possano essere diverse». La pubblicazione - hanno scritto i due curatori, Giulio Michelini e Marco Cassuto Morselli, (presidente della Federazione delle Amicizie ebraico-cristiane in Italia, già docente di filosofia ebraica e storia dell’ebraismo) - nasce «da due realtà: l’amore per il Davar (la parola di Dio) e l’amicizia tra ebrei e cristiani».
Per la prima volta, spiega padre Michelini ordinario di esegesi neotestamentaria e preside dell’Istituto teologico di Assisi, «si commentano insieme dei libri della tradizione ebraica e poi cristiana in modo così sistematico e rilevante. Finora avevamo pubblicazioni anche molto ricche a due voci, ma di un solo libro, mai era successo che nel complesso dei volumi (stiamo preparando il terzo) 150 tra ebrei e cristiani lavorassero insieme per commentare una tale mole di pagine». Nuovo anche lo stile. «La forma più tradizionale, quella di leggere a due voci lo stesso brano, avrebbe potuto dare un’idea di contrapposizione, abbiamo preferito una metodologia che desse spazio all’interpretazione dell’altro».
L’iniziativa è nata durante uno degli ormai tradizionali colloqui di Camaldoli. «L’idea è venuta a me, poi è andata avanti con Marco Cassuto Morselli. A darmi grande forza, a fare da volano, sono stati, oltre agli studi, in particolare un Master a Gerusalemme, gli esercizi spirituali tenuti al Santo Padre (nel 2017, ndr) che mi hanno permesso di avere credito presso i colleghi. Questo progetto infatti nasce nell’assoluta gratuità, i collaboratori non hanno chiesto e ricevuto nulla e anche grazie alla Cei che ha coperto parte delle spese».
Nessuno comunque si è tirato indietro. «Tutti quelli che abbiamo interpellato - aggiunge Michelini - hanno accettato e molti si sono offerti di collaborare anche al terzo volume. Perché hanno capito che non è solo un’operazione esegetica ma culturale, direi anche politica, da polis, nel senso di casa comune, in cui dobbiamo e possiamo vivere insieme, accettando l’interpretazione dell’altro». Il ventaglio dei commentatori è molto ampio. «Ci sono i maggiori studiosi italiani ma abbiamo voluto anche una selezione di accademici a livello internazionale. Così nel prossimo volume avremo un contributo della Notre Dame University, la più importante università cattolica degli Usa. L’operazione, ripeto, non è commerciale, chi scrive non guadagna niente, ma di servizio, per questo abbiamo avuto l’appoggio anche di diversi vescovi. Per esempio nel prossimo volume monsignor Nazzareno Marconi commenterà Qohelet, il libro al centro anche dell’odierna Giornata per il dialogo tra cattolici ed ebrei».
L’uscita del primo volume è stata salutata da un successo persino inatteso. «La considero un’opera che va al di là delle capacità mie e di Marco. Ci ha molto aiutato la prefazione al primo volume di papa Francesco, avere un contributo così significativo ci ha incoraggiati, testimonia che questo lavoro va avanti da sé».
I volumi, come detto, raccolgono pagine scelte, compongono un’antologia. In particolare in questa seconda pubblicazione cinquantadue studiosi si soffermano sui Neviim/Profeti, ossia sui libri storici e profetici. «Sì, secondo il modo degli ebrei di considerarli e di dividere la Bibbia, il che ci fa cogliere una prospettiva diversa che viene semplicemente dall’indice, si potrebbe dire». Una prospettiva che si cala perfettamente nel significato della Giornata del 17 gennaio. «“Bibbia dell’amicizia” vuol dire che per conoscersi meglio, bisogna fare cose insieme. Il progetto, se si vuole, nasce dal Convegno ecclesiale nazionale di Firenze, nel 2015, quando il Papa sottolineò che solo progettando e lavorando insieme si può costruire un dialogo con chi è diverso da noi. E non è facile. Nel nostro caso ogni decisione viene presa in due, da me e Marco, e possono esserci tensioni e discussioni. Si pensi alla questione, che ci ha preso ore e ore, del nome di Dio, su come scriverlo. Lavorare insieme però ci ha permesso di creare una relazione, ed è stato importante».
Se amicizia è la parola chiave, forse il concetto che meglio l’accompagna è ascolto, ascolto dell’altro. «Esatto, che non significa perdere la propria identità, perché non è che se leggo l’interpretazione dell’altro devo considerare sbagliata la mia. In questo senso insieme a un grande rispetto e a una grande apertura mentale c’è bisogno di una forte coscienza della propria identità. Non è tutto uguale, infatti. Basta leggere quello che scrive un amico rabbino, Jack Bemporad, sul servo sofferente, che per noi cristiani è Gesù Cristo mentre lui nella sua bella trattazione spiega che per gli ebrei è Israele. Cosa fare di fronte a una posizione così diversa dalla mia? Mi chiudo? O mi domando perché gli ebrei pensano così? Se scelgo la seconda possibilità imparo qualcosa senza per questo rinunciare alla mia posizione: io continuerò a vedere in quel servo sofferente Gesù Cristo. E gli ebrei il popolo di Israele».
LO SPIRITO DI ASSISI. LA LEZIONE DI GIOVANNI PAOLO II SULLA DONNA E SULL’UOMO E SU DIO... *
Papa: nuovi ruoli alle donne, apre a Lettorato e Accolitato
’Ma la Chiesa non può conferire loro l’ordinazione sacerdotale’
di Redazione ANSA *
CITTA DEL VATICANO. Papa Francesco ha stabilito con un Motu proprio che i ministeri del Lettorato e dell’Accolitato siano d’ora in poi aperti anche alle donne, in forma stabile e istituzionalizzata con un apposito mandato. Le donne che leggono la Parola di Dio durante le celebrazioni liturgiche o che svolgono un servizio all’altare in realtà già ci sono con una prassi autorizzata dai vescovi.
Fino ad oggi però tutto ciò avveniva senza un mandato istituzionale vero e proprio.
Aprire ufficialmente le porte alle donne nel Lettorato e nell’Accolitato non significa che potranno diventare sacerdoti. E’ quanto precisa lo stesso Papa facendo proprie le parole di Giovanni Paolo II: "Rispetto ai ministeri ordinati la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
* ANSA 11 gennaio 2021 - 19:06 (ripresa parziale).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FLS
Michelangelo e “La Linea della Bellezza e della Grazia”. La "forma serpentinata" ... *
Una macchina teologico-politica
Conversazione con Giovanni Careri in occasione dell’uscita di “Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina”.
di Francesco Zucconi *
Francesco Zucconi: Il visitatore dei Musei Vaticani arriva nella Cappella Sistina dopo aver attraversato straordinarie sale e corridoi. Nei pochi minuti che trascorre in questo ambiente immersivo, il suo sguardo è come incantato, si sente preso e sospinto. Ma i turni di visita sono troppo brevi per muovere consapevolmente lo sguardo tra i diversi cicli pittorici.
Tu hai trascorso molti anni a studiare gli affreschi realizzati da Michelangelo Buonarroti e la tua ricerca fornisce tanto una forma di orientamento nella Sistina quanto una serie di nuovi percorsi interpretativi. Prima di entrare nel merito di questo libro, appena pubblicato da Quodlibet, vorrei chiederti come nasce l’idea di lavorare su questo oggetto straordinario.
Giovanni Careri: Nel 2003 ho coordinato all’EHESS di Parigi un progetto di ricerca sulla temporalità delle immagini con un antropologo (Carlo Severi), uno storico (Jean-Claude Schmitt), e uno specialista della Grecia antica (François Lissarrague). Lo stimolo a occuparmi della Sistina non è arrivato dalla scoperta di nuove fonti o documenti, ma dalla domanda che avevamo posto a tutti i partecipanti al progetto: il rapporto tra le immagini e le temporalità che le attraversano, l’indagine sulle modalità del “tempo visivo” che le immagini stesse producono.
Il mio contributo riguardava il modo in cui il Giudizio Universale di Michelangelo costruisce un tempo dell’attesa e dell’imminenza, imminenza della fine del tempo della storia, ma anche della ricapitolazione e del bilancio della vita di ognuno. Mi sono in particolare interessato ai “libri della vita” che gli angeli aprono al centro dell’affresco per significare che il tempo del giudizio di sé è giunto per i personaggi rappresentati ma anche per lo spettatore.
Accanto agli angeli si trova un grande dannato, un “disperato” che porta la mano sul volto con un gesto che rinvia inequivocabilmente al dialogo interiore e a quella forma di autobiografia penitenziale che possiamo definire - con Michel Foucault - “soggettivazione”, per articolarla con l’altra determinazione che caratterizza il “soggetto moderno”, quella dell’assoggettamento.
Nella postura di questo monumentale personaggio, le due determinazioni coincidono: il disperato ha appena ammesso la sua colpevolezza nel dialogo con sé stesso mentre demoni e serpenti già lo avvolgono nelle loro spire, eseguendo l’ordine del Cristo Giudice. La condanna del “disperato” è esibita nel rapporto tra la sua situazione e quella di Minosse, il giudice infernale avvolto da un serpente che ne inibisce il movimento.
Il punto di partenza di questo mio lavoro sugli affreschi della Sistina è nel confronto tra le due posture, quella del dannato e quella di Minosse. Il dannato sta diventando simile al demonio, tra poco il suo corpo sarà stretto tra le spire del serpente come è già accaduto per il giudice infernale. In questo rapporto tra due figure e nella processualità del divenire Minosse ho ritrovato uno dei fili essenziali delle mie ricerche: quello della “conformazione” ovvero di un’economia mimetica che fonda la sua semiosi sull’assunzione e/o sulla perdita della somiglianza di un’attitudine o di un gesto.
A partire da tale osservazione, possiamo guardare il Giudizio come a una immensa coreografia: gli eletti e gli angeli si stanno facendo simili al Cristo, imitando e incorporando la sua “forma serpentinata”, mentre i dannati perdono per sempre la somiglianza al figlio di Dio per assumere una somiglianza invertita o “perversa” con Minosse, dove la figura serpentinata che libera il movimento delle figure si muta in un serpente costrittore.
F.Z.: All’interno della Sistina è sintetizzata in forma visiva l’intera storia spirituale dell’Umanità dal punto di vista cristiano: dalla Creazione al Peccato, dalla Redenzione al Giudizio. Il tuo libro si concentra in modo particolare sul Giudizio Universale e sul ciclo degli Antenati di Cristo. Per quale motivo ti sei interessato a queste parti e quale rapporto intercorre tra di loro?
G.C.: La storia dell’arte ha generalmente separato le tre parti che compongono gli affreschi sistini. Sono opere molto distanti nel tempo, realizzate da artisti di generazioni diverse per tre diversi Papi, ognuno dei quali aveva preoccupazioni e interessi particolari. Nel libro non solo ho voluto considerare le tre parti come un insieme, ma ho anche deciso di cominciare dall’analisi dal Giudizio, che è l’ultimo elemento aggiunto cronologicamente. L’ho fatto per varie ragioni. La principale è che le immagini si rispondono tra di loro se sono messe una accanto all’altra, indipendentemente dalla data della loro realizzazione. Quando il Giudizio viene aggiunto agli affreschi preesistenti si producono nuove relazioni e un nuovo senso, esattamente come quando si aggiunge un oggetto in un’istallazione di arte contemporanea.
Nel caso degli Antenati si può dire che la loro spossatezza era già evidenziata, per contrasto, con i corpi eroici e ispirati delle Sibille e dei Profeti. Ma il contrasto con il Giudizio fa apparire la loro fatica come una categoria dell’ideologia cristiana, in una prospettiva che stringe il nesso tra il tempo delle origini (ebraiche) e quello del compimento. Questa costruzione è coerente con il pensiero di san Paolo, senz’altro il più influente tra coloro che hanno immaginato la fine dei tempi, il quale insiste sul fatto che il senso della storia di un individuo come quello dell’umanità tutta intera si rivela solo a partire dalla fine.
F.Z.: Hai appena menzionato la spossatezza delle figure degli Antenati di Cristo, un tema centrale del tuo libro che porta a esiti sorprendenti.
G.C.: L’incongruità che ha subito attratto la mia attenzione davanti alle lunette degli Antenati è il rapporto tra la degna autorità dei nomi, scritti in lettere capitali e incorniciati in tavole di grandi dimensioni, e le figure che non hanno i tratti regali dei patriarchi e dei sovrani ai quali questi nomi si riferiscono. Vi si vedono giovani donne esauste intente a nutrire e accudire i loro bambini e vecchi padri buttati a terra o persi in melanconica meditazione. Di fronte a questa discrepanza, l’iconologia ha trovato soluzioni ingegnose ma fallimentari, come quella di tradurre in latino i nomi ebraici per poi cercare nella vulgata la presenza di tali nomi in situazioni comparabili a quelle che si vedono nelle lunette.
Considerando la lista dei nomi dal punto di vista dell’antropologia della parentela, sono arrivato alla conclusione che vadano mantenuti separati dalle figure o meglio articolati con esse secondo un principio di inclusione/esclusiva.
In altre parole, i nomi incorniciati nelle tavole si fanno carico di innestare la storia cristiana in quella degli ebrei e particolarmente in quella prestigiosa stirpe di Abramo alla quale apparteneva Giuseppe, marito di Maria, madre di Gesù.
Tuttavia, a questa funzione inclusiva si accompagna una funzione esclusiva della quale si fanno carico le figure stesse che esibiscono i tratti di “carnalità” che san Paolo attribuisce agli ebrei che non si convertono in seguaci di Cristo.
Tra questi, il più importante è l’ostinato rifiuto della Grazia di cui si possono riconoscere le conseguenze nelle lunette stesse: l’immersione in una vita limitata alle attività di sussistenza, la generazione e la cura dei figli, la pigrizia, l’avidità, l’erranza e persino la follia.
In breve: mentre i nomi esaltano la continuità tra la storia cristiana e quella degli ebrei, le immagini sono il luogo di produzione della differenza e di un’alterazione che si avvicina alla caricatura, affermando la crisi definitiva alla quale il modello genealogico di trasmissione del sangue da padre in figlio è stato sottoposto dall’inclusione di un figlio che è figlio di Dio e non di suo padre.
Questa rottura autorizza l’apertura della predicazione a tutte le nazioni, separando il “tempo scaduto” della storia veterotestamentaria da quello nuovo del messianismo cristiano. Si delinea così un paradosso che include la “storia genealogica” e al tempo stesso la esclude denunciandola come ormai superata.
F.Z.: Alcuni degli Antenati dipinti da Michelangelo recano i segni della stigmatizzazione antiebraica del XVI secolo. Questo anacronismo è passato inosservato alla storia dell’arte fino a pochi anni fa. Come ti spieghi questa cecità?
G.C.: Nel 2003 la storica dell’arte americana Barbara Wish ha pubblicato un articolo dove rivela la presenza di un segno circolare sulla tunica gialla di uno di personaggi della lunetta che porta il nome di Aminadab. Il restauro che ha reso visibile questo signum si era concluso quasi vent’anni prima e ci si può quindi chiedere cosa ne abbia impedito la visibilità per tutto questo tempo.
Penso che uno dei veli che hanno nascosto la marcatura sia lo statuto di “capolavoro” che la Sistina ha acquisito immediatamente e mai perduto nel corso dei secoli. L’opera di un artista distante da ogni forma di realismo non poteva esibire un tratto “documentario”, la testimonianza di una marcatura infamante. Non si poteva inoltre facilmente ammettere che Michelangelo condividesse con la cultura del suo tempo una precisa forma di antigiudaismo.
Un altro velo è di ordine epistemologico: si trova quello che si cerca. Per dirlo in modo meno meccanico, le domande orientano la ricerca, guidano lo sguardo e, dal dopoguerra fino al 2003, le domande sugli Antenati sono state essenzialmente orientate sul rapporto tra i nomi e le figure. Ho tuttavia incontrato alcuni testi che fanno apparire il carattere semitico delle figure. Tra i più interessanti, quello di Emile Zola che nel suo romanzo Rome (1896) descrive gli Antenati come “la razza punita”, frase che risuona con la sua denuncia dell’antisemitismo francese nell’affaire Dreyfus. Sydney Freedberg, dal canto suo, aveva scritto che in queste figure la dimensione domestica e quella semitica si incontrano e si sovrappongono.
Si trattava, insomma, di cambiare la domanda. Non più “chi sono questi personaggi”? Ma che ruolo assumono nel montaggio della storia che si realizza negli affreschi? Nel libro non pretendo di aver svelato il mistero degli Antenati, ma spero di aver fatto apparire qualcosa che non è spiegabile in rapporto a una fonte scritta: il dialogo che le strane iconografie di queste figure intraprendono con altre iconografie: quella della Santa Famiglia e di Giuseppe in particolare, quella della Madonna del latte, quelle dei cicli dei mesi del Palazzo della Ragione di Padova, quelle, altrettanto “paradigmatiche”, dell’albero di Jesse, ma anche quelle delle stampe antisemite di area germanica.
F.Z.: Negli ultimi anni, la filosofia italiana si è caratterizzata per la capacità di indagare i nessi tra teologia e politica. Penso in particolare ai lavori di Giorgio Agamben e a quelli di Roberto Esposito, citati anche all’interno del tuo libro. Al di là della ricerca filosofica propriamente detta, mi pare che Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina ci inviti ad assumere consapevolezza del “pensiero visuale” che trova espressione nelle opere stesse.
G.C.: Perché ancora un libro sulla Sistina? Per le stesse ragioni che spingono Agamben, Esposito e altri studiosi a rileggere le Lettere di san Paolo. Il paradigma teologico enunciato da san Paolo è corporativo, alla fine dei tempi tutti gli uomini giusti saranno incorporati in un unico corpo del quale il Cristo è la testa e i cristiani le membra.
Come nei miei lavori su Bernini e Caravaggio, anche in questo libro si trova la questione dell’efficacia dell’opera sullo spettatore, qui assoggettato dalla “terribilità” dell’affresco ma anche invitato a giudicare sé stesso, soggettivandosi. Si incontra inoltre, di nuovo, il paradigma della “conformazione”, un principio di “somiglianza” che è al fondamento della teoria cristiana dell’immagine ma che è stato quasi completamente ignorato dalla storia dell’arte. Nel suo Giudizio Universale, Michelangelo mostra la penultima tappa di questo processo di incorporazione attraverso l’assunzione di somiglianza.
Il portato politico di questo modello è considerevole e ancora attuale, se si estende la nozione di conformazione al di là del suo senso sacramentale sul piano della vita sociale e politica. L’idea della nazione come corpo è, d’altra parte, ancora oggi ben presente. Basta pensare ai nazionalismi e alle purificazioni etniche dove si tratta precisamente di espellere le impurità da un corpo collettivo omogeneo.
F.Z.: Si potrebbe dire che la tua ricerca porta alla luce le tracce del discorso antiebraico presente nel ciclo di affreschi e correlato al contesto storico del XVI secolo. Allo stesso tempo, mostri le tracce di una presa di distanza da parte di Michelangelo - o meglio di un’adesione al modello figurativo della “vita secondo la carne” - nei confronti del meccanismo teologico-politico che lui stesso ha contribuito a edificare.
G.C.: La condizione degli ebrei che vivono tra i cristiani all’epoca di Michelangelo è molto diversa da quella del XIX e nel XX secolo. Nel libro ho cercato di evitare ogni generalizzazione astorica: la situazione degli ebrei cambia e si aggrava con il papato di Paolo IV Carafa, ma già durante il Papato di Paolo III la conversione forzata degli ebrei viene presa in considerazione. Gli studi di Adriano Prosperi, di Kenneth Stow e di altri storici hanno rivelato che la “purificazione” della cristianità intensa come un corpo collettivo è sorta nell’ambito dei fautori della Riforma prima di essere messa in atto dai conservatori.
Nelle Storie di Mosè e di Cristo degli affreschi del Quattrocento, la posizione degli ebrei è determinata dal paradigma tipologico: le azioni di Mosè prefigurano quelle di Gesù. Nel ciclo degli Antenati, il paradigma tipologico viene abbandonato perché ad essi sono attribuiti i tratti degli ebrei che hanno rifiutato di convertirsi e non hanno dunque più nulla da annunciare. Nel Giudizio, infine, attorno al Cristo risorto si riconoscono figure di sapienti o profeti ebraici perché la conversione degli ebrei è uno dei segni dell’imminenza della fine dei tempi, insieme all’avvento dell’Anticristo. Questo schema deve pero essere “messo a lavoro”, montando tra di loro le varie parti per mostrare come nel passaggio tra l’una e l’altra non solo cambia il modo di raccontare la storia ma si descrive l’esplosione del modello tipologico e della spazialità prospettica.
La posizione di Michelangelo è davvero singolare, nel senso che riguarda direttamente la sua persona o, meglio, la costruzione sperimentale della propria immagine all’interno del grande costrutto storico-teologico degli affreschi. Non penso che l’artista esprima una distanza rispetto a quel costrutto, ma si serve della figura dell’ebreo per denunciare la tiepidezza della propria fede. Confrontando gli affreschi con i poemi penitenziali dove l’artista si attribuisce i tratti di “negligenza” che si ritrovano nelle figure delle lunette, ho avanzato l’ipotesi che si possa riconoscere sulla Volta sistina un’immagine sperimentale di Michelangelo come Antenato. Questa figure di sé come un ebreo - come anche quella che, nel Giudizio, lo mostra come una pelle scuoiata e pendente - esprime un’inquietudine profonda, percepibile se si associano queste due immagini di sé all’idea di una carnalità che non può essere “conformata”. Tuttavia, se leggiamo con attenzione i poemi di Michelangelo capiamo che l’autore desidera di essere conformato almeno quanto lo teme.
F.Z.: Al di là della Sistina, la mia impressione è che la storia e la teoria dell’arte debbano rendersi sensibili ai dibattiti emergenti, mirati a studiare e riflettere criticamente sulle asimmetrie politiche e visuali consolidatesi nei secoli. Anziché ignorare tali dibattiti o aderirvi superficialmente, quanti si occupano di arti e di immagini possono forse fornire (e mettere in discussione) i propri strumenti per fare in modo che il carattere politico delle rappresentazioni emerga in tutta la sua portata.
G.C.: Di che cosa e in che modo una grande opera del passato parla al nostro tempo? Per rispondere a questa difficile domanda, posta allo storico dell’arte da Walter Benjamin, ci vuole un’elaborazione lunga e complessa. Tra i principali motivi per cui è importante continuare a studiare opere del passato è che attraverso la loro analisi e interpretazione si parla anche dell’oggi.
Personalmente, non sono disposto a rinunciare a questa forma complessa di esegesi, che non ha nulla a che fare con la celebrazione della superiorità dell’Occidente. Tanto è vero che propongo appunto di esporre questo “capolavoro” a uno sguardo antropologico comparatista, sia sul piano del mito che su quello del rito, e pongo al centro dell’analisi la relazione con l’Altro.
Nessuno degli studi sulla Sistina prima del mio aveva considerato gli affreschi come formidabile appropriazione del “passato ebraico” da parte dei cristiani. Una prospettiva di ricerca che è evidentemente informata dai dibattitti contemporanei ai quali ti riferisci. Tuttavia, una volta assunto questo punto di vista, penso che sia importante capire in che modo questa appropriazione si produca tramite il “lavoro delle immagini”, piuttosto che limitarsi a una semplice condanna. L’antropologia si confronta da sempre con fenomeni di appropriazione - più o meno violenti e più o meno riusciti - costitutivi delle dinamiche culturali umane. Il fatto che oggi alcune comunità vogliano farsi carico e riappropriarsi della loro memoria e degli oggetti nei quali essa è depositata fa parte di questa dinamica e ne ridisegna i contorni. È tuttavia importante scongiurare il rischio di una deriva identitaria che, riservando ai soli membri di una comunità il diritto di occuparsi della propria memoria, proietti sugli oggetti culturali del passato un’idea di purezza.
Quanto al sapere depositato nella storia dell’arte, penso che andrebbe profondamente riformulato nel senso che ho indicato prima. Si tratta di mostrare che quel “patrimonio” resta sterile se non si fa apparire ciò che in lui “ci riguarda”. Senza per questo ridurre l’alterità del passato e delle diverse culture che caratterizzano il tempo presente.
* Fonte: Il lavoro culturale, 13 Novembre 2020 (ripresa parziale, senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE": IL "SOGNO" DI MICHELANGELO. Sibille e profeti: sulle tracce di Benjamin
FLS
PROFETI, SIBILLE, E MESSAGGIO EVANGELICO:
ANTONIO ROSMINI E LA "CHARITAS". Un invito a ...
Rileggere il testo della "BREVE DISSERTAZIONE DI ANTONIO ROSMINI SULLE SIBILLE" (Patricia Salomoni, "Rosmini Studies", 6, 2019). Che Rosmini abbia iniziato il suo percorso riflettendo sulle figure delle Sibille, è da considerarsi un fatto degno della massima attenzione - e, ovviamente, di ulteriore approfondimento!
La riflessione su tale tema, probabilmente, lo ha reso più vigile nel suo cammino e nella sua fedeltà alla lettera e allo spirito della "Charitas". Il "Kant italiano", infatti, iniziando il suo percorso con la tesi di laurea sulle Sibille (1822), non solo non ha perso il suo legame con la Grazia (Charis) e con le Grazie (Charites), ma - coerentemente - ha saputo custodire anche l’«h» della Charitas! E ha cercato di tenere ferma la sua distanza dalla logica economica - sempre più dilagante - della "carità" del "mercato" ("caritas") e, al contempo, dalla politica di sostegno alla diffusione della "eu-carestia" - a tutti i livelli. Ma, alla fine, non è riuscito a coniugare - come voleva, in spirito di verità e carità - - il rapporto tra filosofia (sapienza pagana) e rivelazione (sapienza ebraica).
Già all’inizio del suo percorso, benché partito con buona volontà e - kantianamente ("Sapere aude!") - con gran coraggio, infatti, egli s’inchina all’autorità di sant’Agostino ("De Civitate Dei", XVIII, 47) e - pur rendendosi conto con lo stesso Agostino che "qualsiasi predizione su Cristo poteva essere dichiarata falsa dagli empi e soggiacere al medesimo discredito, sia che si trattasse degli oracoli delle Sibille o delle profezie degli Ebrei" - conclude con un "non è gradito a Lui stesso che, nelle dispute, noi dedichiamo troppe energie più a quelli che a queste" e attribuisce la palma della credibilità solo a "queste .. certissime, luminosissime, custodite dal popolo ebraico a noi assai ostile, e protette da ogni corruzione con incomparabile ed encomiabile cura nel corso di molti secoli" (P. Salomoni, cit, p. 227).
A partire da "queste" premesse (promesse già non mantenute!), ovviamente, accolta solo la parola dei "profeti" non si può che rinarrare e riscrivere la vecchia "storia dell’Amore" di Adamo ed Eva:
E così, contravvenendo frettolosamente alle regole morali del suo stesso "metodo filosofico", il suo desiderio di lasciarsi guidare "in tutti i suoi passi dall’amore della verità", come dalla carità ("charitas") piena di grazia (charis), resta confinato nell’orizzonte della caduta e della minorità - e la presenza delle Sibille insieme ai Profeti nella Volta della Cappella Sistina è ancora un grosso problema!
Federico La Sala
Ad theologiam promovenda *
1. Per promuovere la teologia in avvenire non ci si può limitare a riproporre astrattamente formule e schemi del passato. Chiamata a interpretare profeticamente il presente e a scorgere nuovi itinerari per il futuro, alla luce della Rivelazione, la teologia dovrà confrontarsi con le profonde trasformazioni culturali, consapevole che: «Quello che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento d’epoca» (Discorso alla Curia Romana del 21 dicembre 2013).
2. La Pontificia Accademia di Teologia, sorta agli inizi del xviii secolo sotto gli auspici di Clemente xi, mio Predecessore, e da lui istituita canonicamente col breve Inscrutabili il 23 aprile 1718, nel corso della sua secolare esistenza ha costantemente incarnato l’esigenza di porre la teologia a servizio della Chiesa e del mondo, modificando quando necessario la propria struttura e ampliando le proprie finalità: da iniziale luogo di formazione teologica degli ecclesiastici in un contesto in cui altre istituzioni risultavano carenti e inadeguate a tale scopo, a gruppo di studiosi chiamati a indagare e approfondire temi teologici di particolare rilevanza. L’aggiornamento degli Statuti, voluto dai miei Predecessori, ha segnato e promosso tale processo: si pensi agli Statuti approvati da Gregorio xvi il 26 agosto 1838 e a quelli approvati da S. Giovanni Paolo ii con la Lettera Apostolica Inter munera Academiarum il 28 gennaio 1999.
3. Dopo quasi cinque lustri è giunto il momento di revisionare queste norme, per renderle più adatte alla missione che il nostro tempo impone alla teologia. A una Chiesa sinodale, missionaria ed “in uscita” non può che corrispondere una teologia “in uscita”. Come ho scritto nella Lettera al Gran Cancelliere dell’Università Cattolica di Argentina, rivolgendomi a professori e studenti di teologia: «Non accontentatevi di una teologia da tavolino. Il vostro luogo di riflessione siano le frontiere. [...] Anche i buoni teologi, come i buoni pastori, odorano di popolo e di strada e, con la loro riflessione, versano olio e vino sulle ferite degli uomini». L’apertura al mondo, all’uomo nella concretezza della sua situazione esistenziale, con le sue problematiche, le sue ferite, le sue sfide, le sue potenzialità, non può però ridursi ad atteggiamento “tattico”, adattando estrinsecamente contenuti ormai cristallizzati a nuove situazioni, ma deve sollecitare la teologia a un ripensamento epistemologico e metodologico, come indicato nel Proemio della costituzione apostolica Veritatis gaudium.
5. Questa dimensione relazionale connota e definisce, dal punto di vista epistemico, lo statuto della teologia, che è spinta a non chiudersi nell’autoreferenzialità, che conduce all’isolamento e all’insignificanza, ma a cogliersi come inserita in una trama di rapporti, innanzitutto con le altre discipline e gli altri saperi. È l’approccio della transdisciplinarità, cioè un’interdisciplinarità in senso forte, distinta dalla multidisciplinarità, intesa come interdisciplinarità in senso debole. Quest’ultima favorisce sicuramente una migliore comprensione dell’oggetto di studio considerandolo da più punti di vista, che tuttavia rimangono complementari e separati. La transdisciplinarità va invece pensata «come collocazione e fermentazione di tutti i saperi entro lo spazio di Luce e di Vita offerto dalla Sapienza che promana dalla Rivelazione di Dio» (Costituzione Apostolica Veritatis gaudium, Proemio, 4c). Ne deriva l’arduo compito per la teologia di essere in grado di avvalersi di categorie nuove elaborate da altri saperi, per penetrare e comunicare le verità della fede e trasmettere l’insegnamento di Gesù nei linguaggi odierni, con originalità e consapevolezza critica.
8. Si tratta del “timbro” pastorale che la teologia nel suo insieme, e non solo in un suo ambito peculiare, deve assumere: senza contrapporre teoria e pratica, la riflessione teologica è sollecitata a svilupparsi con un metodo induttivo, che parta dai diversi contesti e dalle concrete situazioni in cui i popoli sono inseriti, lasciandosi interpellare seriamente dalla realtà, per divenire discernimento dei “segni dei tempi” nell’annuncio dell’evento salvifico del Dio-agape, comunicatosi in Gesù Cristo. Perciò occorre che venga anzitutto privilegiato il sapere del senso comune della gente che è di fatto luogo teologico nel quale abitano tante immagini di Dio, spesso non corrispondenti al volto cristiano di Dio, solo e sempre amore. La teologia si pone al servizio della evangelizzazione della Chiesa e della trasmissione della fede, perché la fede diventi cultura, cioè ethos sapiente del popolo di Dio, proposta di bellezza umana e umanizzante per tutti.
9. Di fronte a questa rinnovata missione della teologia, la Pontificia Accademia di Teologia è chiamata a sviluppare, nella costante attenzione alla scientificità della riflessione teologica, il dialogo transdisciplinare con gli altri saperi scientifici, filosofici, umanistici e artistici, con credenti e non credenti, con uomini e donne di differenti confessioni cristiane e differenti religioni. Ciò potrà avvenire creando una comunità accademica di condivisione di fede e di studio, che intessa una rete di relazioni con altre istituzioni formative, educative e culturali e che sappia penetrare, con originalità e spirito d’immaginazione, nei luoghi esistenziali dell’elaborazione del sapere, delle professioni e delle comunità cristiane.
10. Grazie ai nuovi Statuti, la Pontificia Accademia di Teologia potrà così più facilmente perseguire le finalità che il tempo presente richiede. Accogliendo favorevolmente i voti che mi sono stati rivolti perché approvassi queste nuove norme, e assecondandoli, desidero che questa egregia sede di studi cresca in qualità e per questo approvo, in forza di questa Lettera Apostolica, ed in perpetuo, gli Statuti della Pontificia Accademia di Teologia, legittimamente elaborati e di nuovo revisionati e conferisco loro la forza dell’Apostolica approvazione.
Tutto ciò che ho decretato in questa Lettera Apostolica motu proprio data, ordino che abbia valore stabile e duraturo, nonostante qualsiasi cosa contraria.
Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 1°novembre dell’anno 2023,
Solennità di Tutti i Santi, undicesimo del Pontificato
Francesco
* Fonte: L’Osservatore Romano, 03 novembre 2023 (ripresa parziale).
DANTEDI’, #STORIAELETTERATURA, E #FRANCOSTORIE:
LA "#STORIA POSTALE", I #MESSAGGI DELLE #SIBILLE (#MICHELANGELO, "VOLTA DELLA #CAPPELLA SISTINA",1512), IL #SERVIZIO POSTALE DELLA #FAMIGLIA DI #BERNARDO TASSO (1493-1569) E #TORQUATO TASSO (1544-1595), E LA MEMORIA DI #ANTONIO ROSMINI ( #24MARZO 1797 - 1 LUGLIO 1855).
ACCOGLIENDO LA SOLLECITAZIONE A RICORDARE ANTONIO ROSMINI SERBATI "(#Rovereto 1797 - #Stresa 1855), sacerdote e filosofo vissuto nella prima metà dell’Ottocento", forse, è possibile far emergere e mettere in evidenza un legame stretto con la cultura dell’#Europa del #Cinquecento, la "storia postale" e gli avvii dell’impresa dei #Tasso: degno di nota è il fatto che la tesi di laurea di Rosmini è una breve dissertazione sulle Sibille->https://media.agiati.org/page/attachments/01-pag-09-patricia-salomoni-antonio-rosmini-lettore-e-traduttore-dei-classici.pdf] (1822).
#Dantedi #25marzo 2024: vista e considerata la presenza nella "Casa natale di Antonio Rosmini" della #SibillaCumana, è bene riannodare il filo tra Dante e Rosmini e non far disperdere "al vento ne le foglie levi [...] la sentenza di #Sibilla." (#DanteAlighieri, Par. XXXIII, vv. 65-66).
The Economy of Francesco.
«Generare» non solo produrre: l’economia del prendersi cura
Da Assisi la rivoluzione di un nuovo modello di sviluppo che pensi alle generazioni future. Le proposte di Magatti, Becchetti e Consuelo Corradi
di Cinzia Arena (Avvenire, venerdì 20 novembre 2020)
Uscire dal binomio produzione e consumo per realizzare un nuovo paradigma di economia circolare che metta al centro la persona, accompagni le nuove generazioni e tuteli l’ambiente. Una rivoluzione silenziosa partita da Assisi - sede reale e simbolica dell’evento voluto da papa Francesco che ha come protagonisti duemila giovani imprenditori ed economisti - che parla alle nostre coscienze in un momento storico così complesso e pieno di incertezze. «Generatività, beni relazionali ed economia civile» è il titolo del dibattito che ha aperto la seconda giornata di «The economy of Francesco».
Sabato ci sarà il video-messaggio del Pontefice e un arrivederci all’anno prossimo, in autunno, quando si spera si potrà proseguire in presenza il cammino intrapreso in questi tre giorni di dibattiti in streaming. Un concetto quello della "generatività", che i relatori, Mauro Magatti, ordinario di Sociologia all’università Cattolica, Consuelo Corradi, professore di Sociologia alla Lumsa e Leonardo Becchetti, ordinario di economia politica all’università Tor Vergata hanno cercato di rendere concreto. Un processo di relazioni che coinvolge tutta la comunità: dai cittadini, agli imprenditori alle istituzioni.
«Sino ad oggi il circuito della produzione e del consumo hanno regolato il nostro modello economico - ha detto Magatti - . Ma un’economia basata sulla quantità produce diseguaglianze ed è entropica con l’ambiente. Occorre fare un passo più in là come dice Pascal "conoscere le ragioni del cuore che la ragione non conosce". Produrre e consumare sono alla base della civiltà umana. Il problema nasce quando produzione e consumo pretendono di diventare assolute e di dare senso alle nostre vite, da qui nasce l’ossessione del controllo».
Al contrario il "generare" è un movimento antropologico basato sul prendersi cura. «È la condizione essenziale per capire chi siamo, è la circolazione della vita e della libertà attraverso e al di dà di quello che facciamo noi». Per questo Magatti ipotizza la necessità di una transizione su quattro fronti: formativa, organizzativa, comunitaria e ambientale. «L’idea di un’economia generativa riapre il futuro che ci sembra chiuso, ci permette di mettere al mondo, prendersi cura, accompagnare e lasciare andare».
Nel suo intervento Consuelo Corradi ha declinato il tema al femminile. Partendo dalla domanda sul come raggiungere la parità di genere, Corradi ha ipotizzato due risposte. La prima, passa per il concetto del "non ancora": in Italia ad esempio «non c’è ancora ancora un presidente Repubblica o un premier donna». Ma è la seconda risposta secondo Corradi ad essere la più interessante anche se presenta delle insidie. E consiste nel mettere al centro la diversità e il ruolo fondamentale delle donne alla generatività, concetto che travalica quello di maternità. «Le donne hanno una familiarità con le difficoltà. Hanno affinità con il dolore e la fatica: non a caso sono madri, infermiere, insegnanti. Hanno il piacere del prendersi cura degli altri, nelle famiglie così come nelle aziende e negli istituti di ricerca».
Tutti elementi che contrastano con l’individualismo estremo. «Se l’unica aspettativa delle donne diventa essere pari agli uomini, autonome efficienti e determinate, finiremo per dimenticare tale bio-diversità e questa sarà una grave perdita» ha concluso la professoressa.Becchetti ha parlato delle necessità di nuovi indicatori per le politiche economiche, un nuovo paradigma che «introduca i concetti di dono e fiducia al posto della massimizzazione del profitto». Dire basta alla logica del Pil basata sulla produzione di beni. «La politica economica deve passare da un modello a due mani, vale a dire mercato e istituzioni, ad un modello a quattro mani che includa anche cittadinanza attiva e impresa responsabile come previsto dal goal 12 dell’Agenda 2030». In questa direzione si può andare solo con un impegno collettivo, trasformando le nostre scelte di tutti i giorni, facendo acquisti ragionati, premiando le imprese sostenibili da punto di vista ambientale e soprattutto umano. «Il messaggio finale è non dobbiamo pensare che il mondo si cambi solo d’alto, lo cambiano le nostre scelte costruite dal basso: votiamo ogni volta che scegliamo un prodotto».
Svezia, i preti donna superano gli uomini
Sono il 50,2% dei ministri abilitati al servizio religioso. Ma nelle gerarchie della Chiesa evangelica luterana di Stoccolma contano ancora poco e guadagnano di meno
di Andrea Tarquini (la Repubblica, 22 Luglio 2020)
BERLINO - La Svezia è uno dei paesi all’avanguardia per la gender equality, la parità di diritti e opportunità tra donne e uomini. In ogni campo della vita sociale: dalla pubblica amministrazione all’economia, dalla cultura ai media, dalla polizia alle forze armate. Ora Stoccolma raggiunge un nuovo primato anche nel campo della fede: per la prima volta nella sua storia la Chiesa svedese, evangelica luterana, conta più pastori donne che non pastori uomini. Per l’esattezza il 50,2 per cento dei ministri evangelici abilitati a officiare il servizio religioso sono donne: 1.533 su un totale di 3.063 presuli. E nella rete di seminari da qualche anno ben il 70 per cento degli iscritti sono donne.
La notizia, data dalla chiesa protestante svedese stessa e anticipata dalla radio pubblica, ha però un rovescio della medaglia: gli uomini restano in maggioranza ai gradi alti della gerarchia ecclesiastica luterana del regno delle tre corone, per quanto essa sia più semplificata di quella cattolica. E non è tutto: a pari mansione, un pastore donna nella chiesa svedese resta meno retribuito di un pastore uomo. La differenza media è l’equivalente in corone di almeno 215 euro mensili.
"Nel 1990 avevamo previsto che cento anni più tardi, ovvero nel 2090, le donne-pastore sarebbero aumentate di numero fino ad arrivare alla metà del totale; la realtà si è rivelata molto piú veloce delle nostre prognosi", ha detto la portavoce ecclesiastica Christina Grenholm.
E’ dal 1958 che la chiesa protestante svedese ha accettato il sacerdozio femminile. E dal 2000, anno della totale separazione tra Chiesa e Stato, i corsi di teologia sono stati presi d’assalto dalle donne, che appunto sono attualmente circa il 70 per cento del totale degli studenti di teologia nel paese.
Un grande passo in avanti, ma appunto i problemi restano. La stessa chiesa evangelica svedese lo riconosce, notando che molte volte il servizio divino è officiato da un pastore uomo e da un pastore donna. E sottolineando che ai vertici la rappresentanza maschile resta superiore.
Come in economia, politica e forze armate la migliore metà del cielo svedese ha conseguito una vittoria importantissima anche nella fede, ma non ha ancora sfondato il tetto. E ci si può immaginare quanto sia probabilmente duro e umiliante scegliere di servire Dio e la Chiesa in nome della fede, e officiare accettando retribuzioni inferiori dei confratelli maschi. Anche la Svezia non è perfetta. Nelle chiese protestanti di molti paesi le donne sono ammesse al sacerdozio. In Germania una donna vescovo, Margot Kässmann, è stata persino presidente dei vescovi luterani.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ADAMO ED EVA, MARIA E GIUSEPPE UGUALI DAVANTI A DIO: L’ALLEANZA DI FUOCO. SI’ ALLE DONNE VESCOVO : LA CHIESA ANGLICANA SORPASSA LA CHIESA "CATTOLICA". Il cattolicismo "andropologico" romano è finito
FLS
PLATONE, KANT, E I SOGNI DI UN VISIONARIO....
Il Bene e il conveniente sono ciò che lega e tiene insieme l’universo. Platone (Tweet Filosofici)
Ma perché questa #idea, questa #novella (il "#Bene...tiene insieme l’#universo") possa essere e intendersi come una novella-buona, è necessario #verificare se non è una #FakeNews: se no, la #buona-novella (εὐ-αγγέλιον) può #velare il contrario, che #Tutto "Va-(i)n-gelo"! O no?! (Federico La Sala)
fls
Anticipazione.
Educare lo spettatore alla teologia del cinema
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, venerdì 13 novembre 2020)
Perché anche un film a esplicito soggetto religioso può risultare spiritualmente insignificante, e un film di tema e taglio profano può essere di di altissima impronta religiosa. La collana della FEdS
Era l’anno 1895 e per la prima volta i fratelli Louis-Jean e Auguste Lumière facevano scorrere alcune immagini in movimento, dando origine a quella che sarebbe stata pomposamente chiamata “la settima arte”, la cinematografia. Pochi sanno, però, che alcuni mesi dopo, il 26 febbraio 1896, un operatore, Vittorio Calcina, per conto dei fratelli Lumière, aveva ottenuto il permesso di varcare le soglie del Palazzo Apostolico con le sue apparecchiature destinate a filmare Papa Leone XIII nell’atto di benedire. Da lì a poco un collaboratore di Edison aveva potuto riprendere lo stesso vecchio pontefice mentre passeggiava nei Giardini Vaticani, a beneficio dei fedeli americani desiderosi di vedere il Papa “di persona”.
Nel 1897, sul candido lenzuolo che allora fungeva da schermo passava la prima trascrizione in immagini mobili de La passione di Albert K. Léhar, un’esperienza che nel 1899 ripeterà un più noto regista, Georges Méliès, col film cristologico Le Christ marchant sur les eaux, cui seguirà Jeanne d’Arc. Da quei momenti iniziali si snoderà un itinerario che attraverserà tutto il Novecento e tutte le nazioni del mondo e approderà alle incessanti produzioni filmiche, alle variazioni di genere introdotte dalla televisione, alle voragini abissali nel nadir delle perversioni, delle violenze, della pornografia, ma anche allo zenit dei capolavori di umanità e spiritualità, alle esaltazioni dei colossal fino alle inedite creazioni digitali attuali, alla valanga della retorica di certi film “biblici” e agiografici, al moltiplicarsi dei festival e così via.
Non è possibile né è nostro compito ora ricostruire questa storia, sia pure soffermandoci solo sulla filmografia che coinvolge la fede. Ci accontenteremo, perciò, di presentare una trilogia schematica, simile a un trittico mobile e di taglio impressionistico.
Nella prima scena abbozzeremo un essenziale cenno teorico e teologico; nel secondo quadro faremo salire sulla ribalta, in una sorta di galleria di ritratti minimi, alcuni protagonisti - anche inattesi - della dialettica tra cinema e fede. Infine ci rivolgeremo ai non molti ma significativi approcci pastorali ufficiali offerti dal Magistero, mentre la Chiesa era coinvolta vivacemente nella trionfale affermazione della “settima arte”.
La matrice del cinema si lega sostanzialmente a due categorie fondamentali anche nella teologia, l’immagine e la parola, colte nella loro dinamicità ed efficacia. Alla giusta reticenza aniconica del Decalogo che proibisce ogni rappresentazione di «ciò che è nel cielo, sulla terra e nelle acque sotto terra» (Esodo 20,4) per liberare il Dio persona da ogni forma oggettuale idolatrica, subentra la svolta neotestamentaria. -Nelle Scritture cristiane e nella Tradizione la domanda di fondo sulla rappresentabilità del sacro è subito evasa in senso favorevole, non solo perché il linguaggio teologico è per sua stessa natura simbolico e analogico - come per altro aveva già intuito il libro della Sapienza, convinto che «dalla bellezza e magnificenza delle creature analógôs [per analogia] si può ascendere al loro Autore» (13,5) - ma anche perché il cristianesimo ha nel suo cuore l’Incarnazione che vede nel volto umano di Gesù di Nazareth una eikôn, un’icona, un’immagine del Dio invisibile, come scriveva san Paolo ai Colossesi (1,15). In questa linea si illumina anche la scelta iconica della Chiesa che si opporrà con forza all’iconoclasmo nel Secondo Concilio di Nicea (787), generando e sostenendo quello straordinario patrimonio artistico che avrà il suo approdo necessario anche nella stessa cinematografia.
Non è secondario, poi, il fatto che i due linguaggi, il filmico e il religioso, sono per loro natura performativi. Pur con tutte le distanze e le differenze del caso, la “sacramentalità” dell’atto liturgico ha un’analogia nell’efficacia dell’ “azione” cinematografica che cerca di “attuare” nello spettatore ciò che rappresenta. Ci sono, infatti, nei film di autentica qualità artistica e spirituale alcune suggestioni irrevocabili che, dopo il congedo dallo spettacolo, continuano a vivere nell’interiorità e nella stessa esistenza dello spettatore.
L’altra componente che intreccia fede e film è la parola. Naturalmente non intendiamo solo il sostegno che il dialogo offre alla rappresentazione, ma il racconto visivo. Ora, si comprende che la Bibbia sia divenuta un soggetto appetibile dal cinema perché è per sua natura “storia della salvezza” e quindi narrazione.
È suggestivo un aforisma giudaico che afferma: «Dio ha creato gli uomini perché Egli - benedetto sia - ama i racconti ». Ci sono, così, pagine bibliche che sembrano già un soggetto cinematografico, come nel caso delle 35 principali parabole di Gesù. Altri testi si presentano quasi come una sceneggiatura pronta per le riprese: si provi a leggere, ad esempio, il celebre racconto dell’adulterio di Davide e dell’assassinio di Urìa presente nei cc. 11-12 del Secondo Libro di Samuele.
In quest’ottica si sono sviluppati alcuni capolavori come il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1964) ma anche una serie di colossal di grande impegno finanziario e tecnico ma di modesta qualità religiosa. Pensiamo alla Più grande storia mai raccontata di George Stevens (1965), a Il grande pescatore di Frank Borzage (1959) o al Re dei re di Cecil B. DeMille (1927) remake di Nicholas Ray nel (1961); quest’ultimo ebbe anche il merito di aver diretto un più significativo film divenuto un “classico” della cinematografia biblica, I dieci comandamenti (1956).
Non si badava a spese e a effetti, ma alla fine si otteneva un’iconografia enfatica e solo esteriormente religiosa, anzi, in alcuni casi destinata a rasentare il sadismo, come nell’esagitato, La Passione di Cristo (2004) di Mel Gibson (90 minuti di torture su 126 di film!). Né si devono escludere le non rare provocazioni blasfeme che attingevano la loro capacità di scandalo proprio nell’uso improprio del testo sacro ( L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese del 1988, in verità meno negativa di quanto sembrasse, divenne al riguardo un emblema. Anche per il cinema si può, comunque, riproporre l’antica querelle che ha tormentato critici e teologi riguardo alla definizione dell’arte sacra o dell’arte religiosa (che non sono necessariamente sinonimi). In realtà, bisognerebbe superare le classificazioni troppo rigide perché anche un film a esplicito soggetto religioso può risultare spiritualmente insignificante, e un film di tema e taglio profano può essere di altissima impronta religiosa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GELBISON, GIBSON E LA CHIESA CATTOLICA. DUE PAROLE, UN ’RIVELATIVO’ SEGNO DEI TEMPI.
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN : NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan
PLATONE, PLATONISMO PER IL POPOLO, E CROLLO DELLA MENTE DELL’UOMO TEORETICO ...
HANS BLUMENBERG CI SOLLECITA: "USCITE DALLA CAVERNA" !
FLS
Caro Papa Francesco.
Finché è ancora in tempo, per favore cambi il titolo della nuova encliclica. *
Quel ’Fratelli’ (senza sorelle) non si può usare nel 2020.
Lei ci ha insegnato il peso delle parole.
Il titolo si mangerà il contenuto.
L’altro nome di Francesco è Chiara.
(Luigino Bruni - Twitter, 23 settembre 2020).
*
IL SI’ DELLA «MEDIAZIONE MATERNA» (e .. quello della «mediazione paterna»?) , LA GLORIFICAZIONE DI MARIA (e... di Giuseppe?), E IL "SOGGETTIVO ATTIVO DELL’ASSUNZIONE"?
La Gloriosa
Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria
di Michele Giulio Masciarelli *
Il rapporto di Maria con la Trinità è continuo; tutti gli aspetti della sua esistenza appartengono a quel mistero: l’ideazione della sua singolare vocazione, la sua concezione immacolata, la sua perpetua condizione verginale, la sua divina maternità, la sua compagnia materna data al Figlio in ogni passaggio della sua missione messianica, la sua maternità ecclesiale. È certamente vero che nessuna creatura ha avuto né avrà tanta relazione con la Trinità. Ciascuna delle tre divine Persone ha posto sull’esistenza di Maria, in modo proprio, l’impronta della sua somiglianza.
Il Padre, come è all’origine di tutta l’opera salvifica, è anche all’inizio dell’avventura di grazia vissuta da Maria come madre messianica: la grazia di Maria viene dal Padre e porta al Padre, che la glorifica chiamandola vicino al Figlio che siede alla sua destra. Maria è stata assunta: non si è auto-elevata in cielo; non è ascesa al cielo per forza propria. Occorre perciò indicare il soggetto attivo dell’Assunzione, per comprendere e spiegare, nella fede, tale privilegio mariano. Quel soggetto attivo è il Padre. È lui che ha chiamato e portato in cielo la madre del Figlio.
Maria, con l’Assunzione, rivive in modo inverso, la grazia e la gioia dell’incarnazione; lei, per così dire, esperimenta un nuovo rapporto con Gesù, quasi una restituzione dell’amore che egli le riserba accogliendola in Cielo: «Così com’ella l’ha accolto nell’ambito delle cose umane, allo stesso modo egli ora la fa entrare nella sua vita divina ed eterna. Entrambi gli atti sono in sé completi ed includono globalmente l’uomo, l’anima e il corpo. [...] È un ciclo anche quello tra la Madre e il Figlio, in quanto come una volta la Madre ha pronunciato un sì nei riguardi del Figlio e di tutto ciò che lo riguarda, allo stesso modo è il Figlio che oggi pronuncia un grande sì verso la Madre» (A. von Speyr, L’ancella del Signore. Maria, Milano, Jaca Book, 1986, p. 145).
La glorificazione di Maria con l’Assunzione al cielo è, con ogni evidenza, tema immediatamente mariano, ma fondamentalmente essa è tema teologico, nel senso che è una delle iniziative del Padre su Maria. La Vergine riceve la grazia dell’Assunzione, come aveva ricevuto quelle dell’Immacolata concezione, dell’annunciazione, della maternità divina. Tenendo conto questo grande aspetto del mistero cristiano (l’attività di Dio e la passività della creatura), è proprio il caso di dire che il cosiddetto “autogiudizio”, su cui tanto s’insiste in questi anni, non si dà nel senso più serio in cui si deve dire dell’ultimo giudizio di Gesù sui singoli uomini e sulla storia. Il giudizio ultimo è l’estremo atto salvifico che Gesù, quale fratello necessario, porrà come Redemptor hominis e come Salvator mundi. In quanto iniziativa del Padre, l’Assunzione conferma in modo chiaro che nel cristianesimo non esiste l’auto-redenzione e, perciò, neppure l’auto-giudizio e l’auto-glorificazione. Maria non si è auto-redenta (è il senso dell’Immacolata concezione); perciò non si è neppure auto-glorificata (è il senso dell’Assunzione). Gesù salva lei e i suoi tre popoli: il popolo di Adamo di cui è la figlia migliore; il popolo d’Israele, di cui è il “resto santo”; il popolo della Chiesa, di cui è il beato inizio.
Fede escatologica e mariana
C’è una dimensione mariana nella vittoria redentiva di Cristo ottenuta nell’evento passato della Pasqua, che determina l’intero futuro? e se c’è, dov’è? Maria, profetizzata come uno dei soggetti della lotta contro Satana (cfr. Gn 3, 15), quale nuova Eva partecipa a tale lotta con la presenza attiva sotto la Croce.
I rapporti Adamo-Eva e Cristo-nuova Eva non possono non essere compresi nel contesto dell’evento staurologico: la Croce è il nuovo “albero della vita” sul quale (Cristo) e intorno al quale (Maria) ricomincia la storia della salvezza nel segno della fedeltà e dell’ubbidienza.
Maria, con il Sì della «mediazione materna», come san Giovanni Paolo II s’esprime nella terza parte della Redemptoris Mater, ha partecipato a escatologizzare la storia, prima permettendo l’ingresso in essa del Salvatore come causa escatologica, poi ha continuato la collaborazione all’opera messianica del Figlio, permanendo al fianco di lui fino all’apice della lotta messianica, ossia fin nel cuore del mistero dell’ora pasquale. La nostra fede escatologica è dunque anche mariana perché riguarda un futuro, la cui causa è stata posta in un passato (incarnazione e croce) nel quale Maria ha preso parte in modo attivo ed essenziale. Questo - non stupisca - esige anche che perfino la “teologia della storia” si connoti in modo mariano.
La partecipazione di Maria alla strutturazione della storia della salvezza, ossia alla sua escatologizzazione, è stata così profonda ed essenziale che la sua esistenza può essere considerata una «microstoria della salvezza» (S. De Fiores): essa ha infatti sintetizzato l’intero progetto di grazia che il Dio trinitario ha disegnato e realizzato per la famiglia umana. Nella sua esistenza si inverano, in modo essenziale e nuovo, i maggiori passaggi della storia di grazia: «Per la sua intima partecipazione alla storia della salvezza, riunisce per così dire e riverbera i massimi dati della fede» (Lumen gentium, n. 65). In particolare, nel suo mistero sfocia l’evento dei nostri primordi (è la “nuova Eva”); si concentra il mistero del primo Israele (è la “Figlia di Sion”); ha principio il mistero del secondo Israele (è la “Chiesa nascente”).
La connessione del mistero mariano col mysterium salutis è tale che l’esistenza della Vergine-Madre è segno di tutti i misteri cristiani: del mistero trinitario (per essere figlia eletta del Padre, madre santa del Figlio, sposa amorosa dello Spirito); del mistero dell’incarnazione (per la sua maternità divina); del mistero pasquale-pentecostale (per il suo essere stata “socia del Salvatore” sotto la croce e compagna degli apostoli nel cenacolo); del mistero della Chiesa (per essere sua madre e suo modello); del mistero della fine (per essere assunta nella gloria trinitaria ed essere glorificata come regina, divenendo in pienezza “La Gloriosa”).
La salvezza completa
Con la sua Assunzione Maria anzitutto ci presenta il cristianesimo come religione del futuro assoluto. Parla anche all’uomo contemporaneo, quasi ammonendolo, perché questi consuma la sua esistenza nel quotidiano e pone le sue scelte nella breve terra dell’oggi, senza pretendere che esse debbano scaturire da lontano (assenza della tradizione) o debbano portare lontano (assenza dell’apertura al futuro ultimo), restando così irretito nelle forre del presentismo.
D’altra parte, il presentismo non è il tempo buono per l’uomo del nostro “tempo debole”, né la storia, nel suo insieme, è adeguata risposta al radicalismo della tensione al futuro che è dentro il suo cuore: «L’istinto del cuore - afferma la Gaudium et spes - lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea [...] di un annientamento definitivo della sua persona» (n. 18). Perciò dice bene il filosofo Michele Federico Sciacca, quando afferma, con amabile ironia: «Io con la storia mi accendo la pipa» (Come si vince a Waterloo, Milano 1965, p. 12).
Purtroppo, l’uomo contemporaneo sembra farsi bastare quanto entra nelle strette stive di una “nave“ che solca un mare senza orizzonti lunghi. Al cristianesimo ciò non basta: l’Assunzione di Maria ricorda quanto esso pensa sul destino ultimo dell’uomo, che è chiamato a realizzarsi in pienezza e per sempre. È questo il senso della “gloria”, parola che Hans Urs von Balthasar ha genialmente scelto per dire tutto il cristianesimo nella sua monumentale teologia.
È un fatto che molti uomini d’oggi, come denunciava Benedetto XVI, sono scivolati dentro l’anello nero e soffocante del nichilismo, che è filosofia debole, ma che ha certamente la forza di stringere al collo la «bambina speranza», di cui parlava Péguy, e di soffocarla. Dinanzi al labirinto nichilistico che smarrisce l’uomo di oggi disarcionandolo dalle “grandi narrazioni”, inchiodandolo al solo presente, convincendolo che gli possano bastare i futuri brevi, allevandolo soprattutto alla malsana idea di una vita senza “giudizio ultimo”, il cristianesimo, preoccupato, s’impegna ad aiutare l’uomo della post-modernità a uscirne per evitare che finisca nelle fauci della tigre cinica.
Maria è imitabile sempre, lo è anche la sua Assunzione. Ma che cosa significa, oggi, essere «assunti» a imitazione di Maria? È presto detto: significa elevare, in un vortice aspirante di grazia, le nostre persone, le nostre «opere» e i nostri «giorni», la nostra vita cristiana ed ecclesiale, la nostra missione, la nostra animazione evangelica delle realtà temporali.
Dinanzi a Maria assunta in cielo il grido dei pellegrini verso la Patria trinitaria dev’essere più acuto e più radicale: l’intero tuo spirito diventi nostro. Il cristianesimo, anche con l’ostensione dell’“icona della Gloriosa”, dinanzi a un uomo, quello contemporaneo, che ama raccontarsi come un essere senza radici e senza promesse, invita a non aver paura del futuro, ma a riassumerlo con fiducia e serietà, a interrogarlo con radicale rigore.
Sfida alla gioia
C’è una vena di tristezza che connota la nostra ora storica, ed è così profonda da non poter essere nascosta dal frastuono del suo vitalismo. L’epoca contemporanea, nonostante tutto, è triste. La sua è una tristezza che ne segna vistosamente il volto fino a contraddistinguerla. La nostra epoca, fra l’altro, sarà ricordata come un tempo che ha conosciuto la tentazione della disperazione. C’è stato nell’Occidente del Novecento, il terribile “secolo breve”, una venatura amara nella vita privata, nella vita sociale e politica, e perfino nella cultura: Baudelaire, Mallarmé, Camus, Gide, Bernanos, Pavese, Tomasi di Lampedusa sono solo alcuni nomi di quel filone nerastro della sua letteratura che tinge di tristezza il frontespizio del tempio della cultura contemporanea.
Senza dire delle correnti malinconiche, tristi, disperanti della filosofia contemporanea, che in tanta parte è filosofia nichilista o comunque della crisi della ragione e dei comuni valori. Tristissimo, poi, è lo scenario se guardiamo all’ambito socio-politico su scala planetaria: sono vistosi i segni di tristezza causati dalla fame e dalla guerra sul volto dei popoli, specie su quello dei cosiddetti “popoli ultimi”, e dal terrorismo che rattrista e getta nel panico tutti con i suoi progetti di violenza e di morte.
C’è oggi una «difficoltà a dir di sì», affermava anni fa Johann Baptist Metz. Si constata una marcata indisponibilità alla gioia e, ciononostante, le ostentazioni vitalistiche del nostro tempo, e nonostante le grandi vittorie che l’uomo d’oggi indubbiamente si è date in campo scientifico e tecnologico. Paradossalmente, tanta parte della tristezza patita dall’uomo di oggi dipende proprio da quelle presunte e improprie “vittorie”: basti il solo cenno al guasto ecologico per intenderci.
La Chiesa osserva ed è preoccupata. Essa sa che nel lungo elenco dei «prodotti» dell’Homo faber d’oggi non si trova la gioia. Si constata anche una tacita confessione di debolezza e d’impotenza da parte di una civiltà che pure mostra di poter tanto; basti pensare all’incapacità di questa a fronteggiare serenamente la morte, intorno a cui non sa fare altro che organizzare una specie di congiura del silenzio. Scriveva Paolo VI: «La società tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare la gioia. Perché la gioia viene d’altronde. È spirituale» (Esort. ap. Gaudete in Domino [9.5.1975], i).
Ora, di fronte a questa profonda e vasta tristezza che permea dei suoi neri umori un’intera epoca, la Chiesa sente di dover reagire: presenta, anzitutto dinanzi ai suoi occhi, ma anche in faccia al mondo, un segno di speranza, ed è Maria Assunta (cfr. Lumen gentium, n. 68): «La solennità del 15 agosto celebra la gloriosa Assunzione di Maria al cielo: è, questa, la festa del suo destino di pienezza e di beatitudine, della glorificazione della sua anima immacolata e del suo corpo verginale, della sua perfetta configurazione a Cristo risorto; una festa che propone alla Chiesa e all’umanità l’immagine e il consolante documento dell’avverarsi della speranza finale: ché tale piena glorificazione è il destino di quanti Cristo ha fatto fratelli» (Paolo VI, Esort. ap. Marialis cultus, [2.2.1974], n. 6).
Nella vita della Chiesa
La presenza di Maria nella Chiesa non proviene solo dal passato (come se vi fosse solo ben ricordata), ma proviene anche dal futuro: l’attende nella gloria e realizza in essa una misteriosa presenza soprattutto come sua permanente madre. Maria, donna di futuro, è presente nella Chiesa da sempre, perché ne fa parte in modo costitutivo: senza di lei la Chiesa sarebbe una comunità religiosa senza prototipo e senza modello ispirativo, sarebbe un popolo pellegrino senza il segno di sicura speranza dinanzi ai suoi occhi, sarebbe una famiglia senza madre, ma non al modo di una famiglia restata senza madre (cosa che è possibile), ma al modo di una famiglia che non avrebbe avuto mai la madre (cosa che non riusciamo a concepire).
La Chiesa senza Maria dovrebbe spiegare diversamente le sue origini (è stata la Chiesa nascente), dovrebbe spiegare diversamente l’ingresso nel mondo del suo fondatore (Cristo è nato da donna: cfr. Gal 4, 4), dovrebbe spiegare diversamente la sua attuale unione con Cristo che rende salvifico il suo agire (è sacramento in Cristo, la cui sacramentalità è legata all’incarnazione del Verbo avvenuta nel seno della Vergine Madre).
Glorificazione regale
L’Assunzione non è l’ultimo mistero di Maria, che è già la sua glorificazione, ma ad essa segue un’altra forma di glorificazione, quella regale. Come si sa, Pio XII al termine dell’Anno mariano del 1954, dedicato al centenario alla definizione dommatica sull’Immacolata, l’11 ottobre pubblica l’enciclica Ad coeli reginam. In essa Papa Pacelli portava le motivazioni della nuova festa liturgica di Maria regina, fissandola a conclusione del mese di maggio, legandola perciò alla pietà popolare. Invece, nel riformato Calendario romano del 1969 la festa della regalità della Vergine viene spostata al 22 agosto, all’ottava dell’Assunta. In tal modo si fa una scelta teologica molto saggia e intelligente: infatti, è evidenziato il legame misterico che esiste fra Assunzione e glorificazione regale di Maria.
Questo legame è mostrato e reso esplicito dalla liturgia del 15 agosto, quando nell’antifona del Magnificat di quel giorno, così si canta: «Rallegratevi, perché Maria è salita nei cieli: / con Cristo regna per sempre». La “logica dei misteri” è evidente: il “salire in Cielo” e il “regnare in Cielo” si legano, come sono connessi l’ascendere di Gesù al Cielo e il suo regnare avendo ricevuto la glorificazione regale da parte del Padre. Con lucidità magisteriale Paolo VI afferma rispetto alla memoria mariana del 22 agosto: «La solennità dell’Assunzione ha un prolungamento festoso nella celebrazione della beata vergine Maria regina, che ricorre otto giorni dopo, nella quale si contempla colei che, assisa accanto al Re dei secoli, splende come Regina e intercede come Madre» (Esort. Ap. Marialis cultus, n. 6).
In questo testo pontificio non si afferma solo l’essenziale legame tra Assunzione e regalità di Maria, ma anche un ordine fra i due eventi della sua glorificazione. «Giustamente il testo sottintende che per la liturgia romana la solennità del 15 agosto costituisce, a rigor di termini, la celebrazione più piena della regalità di Maria: nella luce dell’Assunzione la festa del 22 agosto appare solo come un “prolungamento festoso” di essa come peculiare contemplazione di “colei che, assisa accanto al Re dei secoli, splende come Regina e intercede come Madre”» (D. M. Sartor, Le feste della Madonna. Note storiche e liturgiche per una celebrazione partecipata, Bologna, Dehoniane, 1987, p. 136).
Però, è anche vero che, in un’ottica teologica rigorosa, il culmine della glorificazione di Maria e, perfino il senso ultimo di essa, si ha nella sua glorificazione regale. È lì che lei diviene, in senso pienissimo, “La Gloriosa”.
* Fonte: L’Osservatore Romano, 13 agosto 2020
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SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA!!!
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE... Commenti a De Domo David. 49 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò
PER IL “futuro Simposio internazionale di studi su san Giuseppe, che si terrà tra due anni in Guatemala”. Alcuni “vecchi” appunti sul tema...
“GIUSEPPE”, L’ANELLO DI CONGIUNZIONE DEI “TRE” MONOTEISMI. Un importante studio di Massimo Campanini sul patriarca d’Israele e sul profeta del Corano. A quando la ri-considerazione e il riconoscimento da parte della Chiesa cattolica dell’altro Giuseppe, quello ev-angelico?! Freud e Pirandello aspettano ancora.
Federico La Sala
Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento, 1591, Bologna, 1666) *
Come scalare il Guercino
di Silvia Tomasi **
Conquistare una meta con fatica, la rende ancora più bella e apprezzata. Ecco: si può applicare questa piccola perla di saggezza per l’arrancata di 160 gradini, una vera salita in quota, nella Cattedrale di Santa Maria Assunta a Piacenza per godere a 27 metri di altezza il piacere di avere a distanza di pochi metri gli affreschi del Guercino, il pittore emiliano che, al culmine della fama, arriva a Piacenza nel 1626 per lasciare la straordinaria sequenza pittorica “a buono fresco” negli spicchi della cupola.
Per tutta la durata di Guercino tra sacro e profano, la rassegna piacentina dedicata al pittore centese aperta fino al 4 giugno (sito www.guercinopiacenza.com), i visitatori potranno inoltrarsi a piccoli gruppi negli stretti cunicoli di questa ascesa fra salite ardite e un arrotolarsi di scale a chiocciola con scalini larghi sì e no mezza suola di scarpa. Sembra quasi di trovarsi fra budella e diverticoli d’una colonscopia virtuale all’interno delle mura medievali della cattedrale, per approdare grazie a passerelle in legno, camminamenti provvisori ricavati nei sottotetti, a una “stazione” con una postazione multimediale. Finalmente poi si sguscia da un bassissimo ingresso, attenti alla testa, sul tamburo della cupola. Lì, in una regia di luci dovuta a Davide Groppi, si illuminano prima solo alcune vele della cupola e poi il flash con la visione globale di tutto il ciclo guercinesco, accompagnata in dissolvenza, per maggior coinvolgimento emozionale, dalla regale marcia musicale della Sarabande di Haendel. Poi il buio.
Ce n’è abbastanza per sentirsi in un piccolo Paradiso, o più profanamente in una full immersion percettiva di bellezza.
A portata d’occhio nerboruti profeti muscolari, Sibille curiose e sontuose, e poi gli episodi dell’infanzia di Cristo: nella lunetta della Fuga in Egitto, Giuseppe fra apprensione e affetto allunga il Bambin Gesù alla madre. Con tenerezza Maria porta la mano verso il seno come per dire: ma vuoi proprio la mamma?
Tutto ha un così caldo rispetto della dignità naturale... Anche se certo non manca il gusto teatrale: in Guercino si avverte una sorta di “recitar cantando” secondo le inflessioni del nuovo melodramma che avrebbe trionfato nel Settecento, «è un teatro dei sentimenti o degli affetti come si sarebbe detto allora» ribadisce Daniele Benati, curatore della mostra con Antonella Gigli (catalogo Skira). E prosegue: «Guercino è mal inquadrabile nelle comode griglie di naturalismo, classicismo o barocco: troppo naturale negli anni in cui andava affermandosi la pittura sbilanciata alla ricerca del bello ideale; troppo composto e recitato quando serviva l’estroversione barocca». È anche per questo che John Ruskin, dandy e raffinato critico, lo straccia senza appello nel 1846.
Ma un altro grande britannico, Denis Mahon, collezionista e critico d’arte, ci ha ridato nel Novecento il Guercino dopo secoli di oscuramento, dedicandogli studi per tutto l’arco della sua vita. È proprio a lui e al suo metodo di analisi che Benati dedica la mostra di Piacenza, rispettando nelle partiture della sezione di Palazzo Farnese, che fa da pendant all’incontro ravvicinato col Guercino della cupola, quello sviluppo di diverse “maniere” pittoriche che hanno caratterizzato il lungo percorso dell’artista. Gli «anni degli esordi», gli «anni della fama» e gli «anni della gloria» sono le tre sezioni allestite all’interno della Cappella ducale dello storico palazzo con un «numero di opere ridottissimo, appena una ventina, ma selezionatissime», spiegano i curatori Gigli e Benati.
A Guercino basta una gamma essenziale di colori come il bianco e il porpora, che stempera in tutte le delicate nuances del rosa e del latte, per creare La morte di Cleopatra del 1648, così umana nella sua bellezza ideale: si nota perfino il lieve flettersi del materasso sotto il corpo della regina d’Egitto che si abbandona alla morte.
E a Maria luccicano gli occhi mentre, china, tocca quel figlio risorto che abbassa lo sguardo su di lei nella tela Cristo risorto appare alla Madre del 1628.
Per mantenere le stimmate del mondo terreno - e qui siamo alla Immacolata concezione del 1656 - Guercino elimina dalla figura sacra di Maria gli attributi usuali, dalla corona di stelle alla mandorla in cui veniva racchiusa la sua figura sacra. La Madonna si staglia su un paesaggio marino al chiaro di luna, un ultimo spicchio su cui si eleva pudicissima in un’aurora quasi crepuscolare, mentre una lieve brezza increspa le onde. C’è un sentimento lancinante del luogo e del paesaggio. Un nuovo modello vivo di pittura perché, affermava un esperto come Cesare Gnudi, «il Guercino cercava la bellezza nella realtà».
* * THE LIVINGSTONE, 19/03/2017
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SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
FILIPPO BARBERI o BARBIERI (Philippus de Barberis o Philippus Siculus),"Discordantiae Sanctorum doctorum Hieronymi et Augustini, et alia opuscola", Roma, 1481: La Sibilla Tiburtina.
PROFETI E SIBILLE. Storia delle immagini... Filippo Barberi, "Discordantiae sanctorum doctorum Hieronymi et Augustini", 1481
Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento, 1591, Bologna, 1666)
Federico La Sala
Uscire dal letargo "teologico" e "filologico" e dalla notte «in cui tutte le vacche sono nere»! La mistica dell’Amore (Deus charitas est), o quella di "Mammasantissima" e di "Mammona" ("Deus caritas est")?! *
Spiritualità.
Mistica cristiana: le nozze di eros e caritas
I Meridiani pubblicano il primo di tre volumi dedicati alla mistica cristiana. L’incontro con Dio supera ogni limite, fisico e linguistico, e si configura come esperienza sensibile di un amore totale
di Rosita Copioli (Avvenire, mercoledì 1 luglio 2020)
La Mistica Cristiana (Mondadori, I Meridiani, pagine. LXXXVIII+1624, euro 70,00), è il primo dei tre volumi di una vastissima opera - estesa dalle origini ai nostri giorni - ideata dieci anni fa e curata da Francesco Zambon, su ’impulso’ di Pietro Citati. Questo libro, curato da Zambon con Marco Rizzi, Sabino Chialà, Boghos Levon Zekiyan, comprende la mistica tardogreca e bizantina, siriaca, armena, latina e italiana medievale; il secondo volume presenterà la mistica tedesca e fiamminga, francese, italiana moderna; il terzo la mistica iberica (spagnola, portoghese e catalana), inglese e americana, russa, svedese. Nessun progetto ha avuto la medesima ampiezza, né pari cura filologica e critica: nemmeno i Mistici occidentali curati da Elémire Zolla; e altre pregevoli sillogi sono parziali.
Le radici sono ebraiche - nel Cantico dei Cantici, il testo più ardente e complesso dell’amore umano e divino - e greche: nel Fedro e nel Simposio di Platone, dove la ricerca della conoscenza diviene quella del bene e del bello, l’intelletto sale verso il divino: la mente si unisce allo slancio erotico, la mania che porta all’estasi: invasa da una luce alla quale tenderà tutta la tradizione occidentale fino al Rinascimento, e oltre: da Plotino, per il quale la contemplazione è superiore all’azione poiché permette la visione del vero, a Proclo; da Apuleio a Tasso, i poeti barocchi, i romantici, Yeats, Ungaretti, Luzi, Milosz.
La potenza della vista interiore è previsione e profezia. Lo afferma già Esiodo, e poi Saffo e Platone, seguiti da sant’Agostino e Dante: il poeta sprofonda nella memoria bevendo l’acqua di vita di Oceano, e lascia che il soffio del dio spiri dentro di lui, investendolo del suo nume sconvolgente. «Entra nel petto mio, e spira tue / sì come quando Marsia traesti / de la vagina de le membra sue». È il solo modo per riceverne il barlume, per glorificarlo: «O divina virtù, se mi ti presti / tanto che l’ombra del beato regno / segnata nel mio capo io manifesti».
Il mistico ricapitola ogni passaggio del Verbo incarnato e dello Spirito Santo che permette - osano i più temerari - di diventare Dio, trascinando con sé l’intera creazione. La trasfigurazione, la passione, la morte sulla croce di Gesù, il suo corpo martoriato sono lo strumento-specchio per rivivere Gesù in anima-spirito-corpo, oltrepassando i ’sensi spirituali’. Francesco nutre nelle viscere il sole - Cristo. Dalle mani e dai piedi spuntano chiodi di carne, sul costato si apre la ferita di Cristo.
Angela da Foligno aderisce al Crocifisso con i sensi dell’eros totale: «Tu sei me e io sono te». La mente di Iacopone da Todi, «En Cristo trasformata, è quasi Cristo, /cun Deo conionta tutta sta devina». Chi osa tanto, non teme la sintassi, scardina ogni figura e senso. Se fa miracoli, sfida la gravità e si innalza dal suolo, come Doucelina di Digne, altri aboliscono gli intermediari con Dio nel linguaggio, come Caterina Fieschi: «Il mio Mi è Dio, io non conosco altro Mi che esso Dio mio».
I mistici non hanno paura di niente, né del pudore, né di “ardiri” che il volgo deride: come i patriarchi della Bibbia, variano la metafora del latte della sapienza, con una passione tenerissima. Nel II secolo in Siria, un’Ode di Salomone, e Clemente Alessandrino suggono i seni del Padre e le dolci mammelle di sposa di Gesù; nel X secolo Gregorio di Narek, autore di inni inarrivabili al Cristo glorioso, invoca «comunione che distilla latte»: siamo in Armenia, dove la teologia del sacerdozio di tutti i fedeli - i corpi sono templi e altari - renderà possibile il sacrificio dell’intero popolo: il “Martirio armeno”. Misakh Metzarents (1886-1908) ne è l’ultimo fiore: «Nella notte discende ancora il ruscello di luce, / una goccia di latte della tua santità divenuta un mare; / e vedi, o Madre di Dio, ecco sto diventando bambino».
Come diceva san Tommaso d’Aquino, la mistica è la Cognitio Dei experimentalis, che Jean Gerson esplica: «Theologia mistica est cognitio experimentalis habita de Deo per amoris unitivi complexum». Ma è la più abissale delle imprese gnoseologiche e amorose. Per la “teognosia” dell’ombra, che deriva da Plotino e si distanzia da seguaci di Gesù come Giovanni e Paolo, e Agostino, mai giungeremo a conoscere Dio. La sua trascendenza rispetto a ciò che è, e all’essere stesso, è superessentialis: Dio non può essere conosciuto, descritto, visto, nemmeno dagli angeli e dai santi. Di Dio non si può parlare né in forma positiva, né in forma negativa. Ma la forma negativa si avvicina di più al suo mistero. Lo si contempla tra luce e tenebra.
Scrive Zambon: «Anche nella vita beata, al termine del reditus di tutta la creazione nel seno del Verbo, Dio sarà conoscibile solo attraverso delle mediazioni, delle teofanie (in greco, “manifestazioni, immagini di Dio”)». La teofania segue i gradi della contemplazione, della deificazione (theosis), e coincide con l’unione mistica. Ricorre alle immagini, al loro fantasma, alla fantasia: l’“alta fantasia” di Dante. La docta ignorantia fa apparire Chi è superiore alla Luce come tenebra, caligine, nube: nella “notte oscura” di Giovanni della Croce.
Una rivoluzione accade in pieno XII secolo: Guglielmo di Saint-Thierry, Bernardo di Clairvaux, Aelredo di Rievaulx, Ivo, e Riccardo di San Vittore (di cui Zambon ha curato sapientemente i Trattati d’amore cristiani del XII secolo per Valla Mondadori) mostrano a quale fuoco di trasformazione può accendersi l’intelletto d’amore che guida fino a Dio, intrecciando eros platonico e caritas paolina. Come in Ildegarda di Bingen, il grande impeto d’amore dà le ali. Culminano la poesia della fin’amor dei trovatori, le storie di Tristano e Isotta, il romanzo cortese.
Con Beatrice davanti alla candida rosa dei beati, Bernardo invita Dante a fissare Dio, nel movimento rapidissimo che imprime al creato e a noi: la metamorfosi dell’anima in Dio, l’excessus mentis, avviene per opera divina in un solo istante: «ma già volgeva il mio disio e ’l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, / l’amor che move il sole e l’altre stelle». Riccardo di San Vittore è il più ardito. Amore terreno e carità hanno la stessa fonte, ma la carità non è mite. Ha la stessa struttura, manifestazioni e gradi della passione violenta. I Quattro gradi della violenta carità gridano in Iacopone da Todi: «Amor de caritate, perché m’ài ssì feruto? / Lo cor tutt’ho partuto, et arde per amore».
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus !!! O, meglio, che progetto!!!
Federico La Sala
AMARE NEL MARE DELLA VITA. Riprendere la navigazione ...
Una nota *
SE è VERO CHE “La ricerca del grande amore si fa ormai soltanto on line” (Laura Vasselli, "InLibertà", 29 giugno 2020), e, al contempo, che “La truffa esiste anche in danno della vita sentimentale” (L. V., "InLibertà", 10 giugno 2020), in una società “liquida” - dove non c’è più né un Giardino per Adamo ed Eva né una Itaca per Ulisse e Penelope - il problema su cui fare chiarezza e “chiudere l’argomento” è : “se è vero che nella vita è necessario amare innanzitutto sé stessi, come si fa a lasciare posto all’amore per qualcun altro ?”.
CONOSCER-SI: IN PRINCIPIO ERA LA “PAROLA” (IL “LOGOS”). RICORDATO CHE “Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima : così profondo è il suo lògos" (Eraclito, fr. 45), E, insieme, RIGUARDATA LA FOTO (vedi sopra: accanto al titolo, sul dito “indice” di “due persone” l’immagine di “due ancore”), RIPARTIRE PROPRIO DA QUI : DAll’ancoraggio di “due navi”, di “DUE PERSONE CHE DISCORRONO” (Ferdinand De Saussure). Mi sembra proprio una (bella riflessione e una) buona indicazione!
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan -
LA CONCESSIONE PIU’ GRANDE. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
FLS
ANCORA NON ABBIAMO TROVATO "LA GIUSTA DISTANZA" NEMMENO CON NOI STESSI... *
ABITARE LE PAROLE / Distanza.
Vedersi l’un l’altro stagliati nel cielo
DI NUNZIO GALANTINO (Il Sole-24 Ore, Domenica, 28.06.2020)
Distanza. Parola - non la sola, in verità! - che perde un po’ della sua evidenza semantica quando la si trova unita ad attributi particolari. Come capita, per esempio, nelle locuzioni: “distanza sociale”, “fisica”, “interpersonale”. Per coglierne la ricchezza, bisogna anzitutto evitare l’ambiguità - a volte, vera e propria confusione - ereditata dalle locuzioni inglesi social distancing (distanziamento sociale) e social distance (distanza sociale). In sociologia e in psicologia, sono espressioni che descrivono il livello di interazione o di rifiuto tra individui appartenenti a gruppi sociali, economici e culturali diversi. Non è corretto, quindi, ricorrervi per indicare la distanza di sicurezza interpersonale o la distanza necessaria per evitare contagi tra più persone.
Un’intensa considerazione di Rainer Maria Rilke ci aiuta a guardare con occhio diverso la distanza. «Una volta che si è accettato di capire che anche tra gli esseri umani più vicini continuano ad esistere infinite distanze, può crescere un meraviglioso affiatamento, se questi riescono ad amare la distanza che li separa, che rende possibile ad ognuno di vedersi reciprocamente, per intero, stagliati nel cielo».
Qui la parola distanza ha tutt’altro significato rispetto a quello che gli dà F. Nietzsche, quando parla di pathos della distanza. Questa espressione - nel filosofo tedesco e in parte anche nella ripresa di Italo Calvino - indica l’atteggiamento dell’aristocratico che, da una presunta posizione di superiorità, “tiene a distanza” e guarda da lontano quanti non gli sono pari.
Invece, “la distanza che rende possibile ad ognuno di vedersi reciprocamente, per intero, stagliati nel cielo”, è la “distanza giusta”. Quella che permette di stabilire e coltivare relazioni sane ed equilibrate, grazie alla modulazione e alla misurazione, non esclusivamente fisica, di vicinanza-lontananza, come nel «dilemma dei porcospini», evocato da A. Schopenhauer.
I porcospini, per ripararsi dal gran freddo, provano a farlo stringendosi l’un l’altro; ma, a causa dei loro aculei, sono costretti ad allontanarsi e a cercare comunque la distanza giusta, per riscaldarsi senza farsi male a vicenda. È, sostiene il filosofo tedesco, la stessa fatica che sono chiamati a far gli uomini. Anche loro hanno bisogno di stabilire tra loro una distanza giusta. Quella che fa passare messaggi e comunicare disposizioni interiori ed emozioni. Una distanza che può persistere, nonostante gesti di grande vicinanza fisica. Chi infatti può davvero decifrare i sentimenti e le autentiche intenzioni che accompagnano le relazioni intime, anche le più belle?
Lo ha capito bene René Magritte. Con stile surreale, il pittore belga, nelle due versioni (1928) di The Lovers, mostra di non avere dubbi: nonostante i gesti di grande tenerezza, i due amanti non possono guardarsi negli occhi, non possono penetrare la loro intimità. Ad impedirglielo è l’inevitabile distanza, non fisica, esistente tra loro, rappresentata dal telo che ne avvolge il volto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
FLS
FILOLOGIA E "ANDROLOGIA". DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE: "UN UOMO, TUTTI GLI UOMINI"?! *
La raccolta.
Ivano Dionigi tra parola, vita e smarrimenti
Uno sguardo sul nostro tempo e le sue emergenze partendo dalla lettura dei classici e dei testi biblici. Un estratto dall’ultimo libro di Dionigi che trae linfa dalla rubrica “Tu quis es” per Avvenire
di Ivano Dionigi (Avvenire, giovedì 25 giugno 2020)
La parola, lógos per i Greci, verbum per i Latini, è il miracolo per cui l’uomo da creatura diventa creatore: essa può affascinare (delectare), insegnare (docere), mobilitare le coscienze (movere). La parola può unire e dividere, consolare e affannare, salvare e uccidere. Non solo custodisce e veicola il pensiero, ma lo genera. La Parola divina, quel Logos con cui si aprono l’Antico e il Nuovo Testamento: la Genesi («In principio Dio disse») e il Vangelo di Giovanni («In principio era la Parola»). Il lógos di Eraclito: «così profondo che della sua anima, per quanto tu possa camminare e neppure percorrendo intera la via, mai potresti trovare i confini». La parola che con Gorgia tutto può: «spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione ». La parola della “democratica” Atene, che uccise Socrate prima e più della cicuta.
La parola che, usata male, secondo Platone oltre a essere una cosa brutta in sé fa male anche all’anima. La parola che con Aristotele ci caratterizza come uomini distinguendoci dagli animali. La parola che con Cicerone salva la res publica, se prerogativa degli eloquentes e sapientes; la manda in rovina, se prerogativa dei disertissimi homines, i demagoghi. La parola della ragione di Lucrezio, l’arma più efficace per debellare i nemici interiori della cupido e del timor. La parola terapeutica di Seneca che interiorizza e consola. La parola che con l’apostolo Giacomo ora benedice ora maledice. La parola che con Elias Canetti si fa antidoto alla guerra. La parola che con don Milani diviene «la chiave fatata che apre ogni porta». La parola che con Mario Luzi «vola alta» e profonda, e «tocca nadir e zenith».
Questa parola oggi non gode di buona salute: ridotta a chiacchiera e barattata come merce qualunque, ci chiede di abbassare il volume, di ricongiungerla alle cose, di imboccare la strada del rigore. Soprattutto in questo tempo di calamità, in cui ci apprestiamo a un lungo esodo e alla traversata del deserto, le parole note suonano inadeguate se non improprie. -Abbiamo bisogno di parole nuove per nominare questo presente imprevisto, inaudito, alieno. Uguale, eppure così frantumato; estraneo, eppure così invadente attorno a noi e dentro di noi.
Orfeo e Euridice
A Orfeo è concesso di riportare la dolce sposa dall’Ade sulla terra a patto di non girarsi a guardarla. Ma, racconta Virgilio (Georgiche, 4, 485 sgg.), lo sprovveduto amante uscendo dagli Inferi viene preso dalla follia d’amore e viola i patti (rupta foedera): «Quale furia d’amore ha portato me misera, ha portato te Orfeo, alla perdizione? » (4, 494 sg.: Quis et me [...] miseram et te perdidit, Orpheu, / quis tantus furor?), grida Euridice quando Orfeo si volta a guardarla. «Muto e impaziente» Orfeo, «mite nella sua pazienza» Euridice, dirà Rilke. Non è forse vero che non bisogna amarla troppo questa vita per non perderla? Come non è forse vero che non bisogna attaccarsi troppo a una persona per non soffocarla?
Se non sopportiamo il peso della privazione, il prezzo dell’attesa, il páthos della distanza, perdiamo coloro che amiamo e perdiamo noi stessi. Restiamo agli Inferi: nell’Inferno della nostra identità. Questa favola vale per la scuola come per la vita. -Penso al nostro modo di leggere i classici, oscillante fra due estremi malsani: o non cogliamo le interrogazioni dei testi e li consideriamo come fossili, muti, inanimati, cadaverici, oppure vi sovrapponiamo le nostre domande e li riduciamo a pretesti per le nostre ragioni. Non abbiamo forse pietrificato i classici tutte le volte che, affetti da miopia e incapaci di resistere all’impazienza e all’illusione del possesso, abbiamo anteposto le ragioni della vicinanza e della presenza, incuranti di ogni distanza passata e futura?
Parole per noi
Negata anche la pietas: non si può abbracciare né chi nasce né chi muore. Catastrofe, inferno, tragedia sono le parole giuste per questi giorni. Va pensata la genesi dopo l’apocalisse: la scienza medica deve curare e guarire, la politica provvedere e prevedere, con l’auspicio che i tanti eurobond siano affiancati da altrettanti neurobond. Avremo bisogno di Mosè, di tanti Mosè che ci guidino nella traversata del deserto. Non è l’ora delle nostre parole che suonano inutili o inopportune. Altro timbro possiedono le parole di coloro che hanno scritto per noi e di noi, che resistono al tempo e alle mode. Ci ricordano con il Prometeo di Eschilo e l’Antigone di Sofocle che l’uomo ha posto rimedio a tutti i mali ma non al suo destino mortale; con il Platone della Repubblica, che non si possono privatizzare i beni materiali ma neppure i sentimenti quali la gioia e il dolore, e che nella città al vertice dell’istruzione deve sedere il migliore; con l’Aristotele della Politica, che l’uomo dotato di norme civili e di senso del giusto è la migliore delle creature; con Lucrezio, che solo la scienza può rimuovere la paura, frutto dell’ignoranza e causa di tutti i mali; con Virgilio, che i vecchi valgono non meno dei giovani; con Seneca, che è cosa diversa vivere (vivere) dallo stare al mondo (esse); con Marco Aurelio, che ognuno di noi vale quanto la causa per cui lotta; con Agostino, che la qualità dei tempi dipende da quella degli uomini (Sermoni, 80, 8: Nos sumus tempora: quales sumus, talia sunt tempora).
Lucrezio lo aveva detto
La storia ama non solo sorprendere ma anche ripetersi. Si vada alla peste di Atene (430 a.C.) descritta da Lucrezio nel finale del suo poema: vi si troveranno consonanze raggelanti con i nostri giorni. Sotto scacco, la medicina allora mostrava tutta la sua incertezza e impotenza: silenziosa e timorosa esitava e balbettava (6, 1179: Mussabat tacito medicina timore). Parimenti disarmata e svilita la religione (vv. 1276-1277: Nec iam religio divum nec numina magni / pendebantur): i templi stipati di cadaveri accatastati (vv. 1272-1273: omnia sancta deum delubra replerat / corporibus mors) e impediti in città perfino i riti della sepoltura (v. 1278: nec mos ille sepulturae remanebat in urbe). Anche la pietà parentale era messa a dura prova: quanti erano accorsi al capezzale dei loro cari, incorrevano nel contagio (v. 1243: Qui fuerant autem praesto, contagibus ibant) e quanti si rifiutavano di portare soccorso morivano soli e abbandonati (vv. 1239 sgg.: Nam quicumque suos fugitabant visere ad aegros / [...] / poenibat [...] / desertos, opis expertis, incuria mactans).
Con i nostri occhi li abbiamo visti i medici supplire con la compassione alla carenza di terapie; le abbiamo viste le chiese diventate cimiteri, piazza San Pietro deserta e il Papa, solo, a testimoniare non la potenza del rito ma la passione della croce; li abbiamo visti negli ospedali i mariti separati dalle mogli, i fratelli dai fratelli, gli amici dagli amici. E morire senza potere prendersi la mano e neppure salutarsi.
Un uomo, tutti gli uomini
I rimedi per la ricostruzione del Paese dovranno essere proporzionati ai danni: incalcolabili. Ci vorranno braccia e menti, e una duplice chiamata: da un lato, quella dei migliori cervelli, in seduta permanente in una sorta di “cern” politico, economico, sociale, culturale per progettare il futuro; dall’altro, quella dei ventenni, perché siano i protagonisti della rinascita. Arrivati in un mondo fatto su misura dei loro padri, dovranno ora costruirne uno per i loro figli. A nulla valgono le retoriche consolatorie di questi giorni: il ricorso al patriottismo d’occasione, l’enfasi sull’eroismo dei medici oggi sull’altare e domani di nuovo nella polvere, l’illusione che ne usciremo migliori. I retti saranno ancora retti, gli acuti torneranno acuti, e gli ottusi resteranno ottusi. Più facile prevedere un indurimento degli animi, un ulteriore divario fra chi ha e chi non ha, un ripopolamento di umiliati e gregari che al riconoscimento delle istituzioni e alla rivendicazione dei diritti preferiranno panem et circenses. Avremo imparato che il mondo non è in equilibrio economico, ambientale, sanitario? Che sapere e potere, competenza e politica, cultura e amministrazione sono inseparabili? Che sarà il pronome noi a salvarci? Ce lo ricorda Borges: «Ciò che fa un uomo è come se lo facessero tutti gli uomini. Per questo non è ingiusto che una disobbedienza in un giardino contamini il genere umano; per questo non è ingiusto che la crocifissione di un solo giudeo basti a salvarlo» (La forma della spada).
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SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO.
FLS
RIPRENDERE IL LAVORO DI FREUD. IL MALE, L’AVVENIRE DI UN’ILLUSIONE ....
Nota a margine di "Il male, un’illusione? Intervento al Convegno Internazionale UNESCO” *
PRIMA DI FARE DICHIARAZIONI STORIOGRAFICHE DI GRANDE IMPEGNO A SOSTEGNO DELLE PROPRIE ARGOMENTAZIONI:
E PARLARE DI “divinizzazione retroattiva del marchese de Sade” è bene ricordare che l’associazione indebita di “Kant e Sade”, fatta da Lacan, nasce sulla base di una interpretazione edipico-hegeliana e di un vera e propria distruzione della kantiana “critica dell’idealismo”.
E, ancora, quando Freud richiama all’inizio del suo lavoro sulla “Interpretazione dei sogni” le parole di Giunone “flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” (Eneide, VII, 312), sa già (“sibillina-mente”) di che cosa sta parlando e di cosa c’è in gioco e, come Giunone (“Non mi sarà dato, ahimé, di impedirgli di regnare sui Latini e Lavinia, immutabile, resta sua sposa in forza del destino, ma ho il potere di tirare per il lungo, di imporre dei ritardi a eventi così grandi ...”: Eneide, VII, 312- 315 ), va avanti e ricordando-si di Napoli comincia capire cosa c’è dietro la questione “Didone” (Eneide, IV, 625 ) e la sua infatuazione per Annibale, per il vendicatore: la vittoria di Roma, dell’Amore sulla Morte. Fiducioso, continua il suo lavoro!
La “Horrenda Virgo” (Eneide XI, v. 507) , la “ragazza terribilmente bella”, come Giunone (e Freud), lo sa: deve cedere il passo ad un’altra “Virgo”, ad Astrea, alla Giustizia: «Già viene l’ultima era dell’oracolo di Cuma, / nasce di nuovo il grande ordine dei secoli. / Già ritorna la Vergine, ritornano i regni di Saturno, /già una nuova stirpe scende dall’alto del cielo.» (Ecloga IV, 4-7). La “Horrenda SYbilla” (Eneide VI, 11), ispirata da Apollo, il profeta di Delo, ha rivelato ad Enea tutto il futuro (Eneide VI, 11-12).
PERCHE’ HANNAH ARENDT, nella sua “Vita della mente” (alla luce di un inedito dialogo con Kant) richiama ancora e di nuovo Virgilio e Dante, e dal “Libro del malumore” di Goethe cita: “Chi di tremila anni / Non sa darsi conto, / Rimane all’oscuro inesperto, /Vuol vivere così di giorno in giorno”? Boh e bah?!
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Coronavirus. Francesca Dominici: «La scienza discrimina le donne»
Cervello in fuga e ai vertici di Harvard, denuncia la situazione delle ricercatrici: «Noi, giudicate per il tailleur. Il Covid? Ci ha costrette a casa. Gli studi a firma femminile sono crollati»
di Lucia Capuzzi (Avvenire, mercoledì 10 giugno 2020)
Ha strappato il velo. E al centro della scena è apparsa una presenza ingombrante, troppo a lungo rimossa dal dibattito pubblico: la discriminazione di genere tuttora vigente nel mondo, in apparenza neutro, della scienza. Perfino nei più prestigiosi centri di ricerca internazionali. «Il Covid ha acceso un potente riflettore sugli ostacoli aggiuntivi che ricercatrici e scienziate devono affrontare per tenere il passo rispetto ai colleghi maschi». Parola di Francesca Dominici, biostatistica di grido nonché direttrice della Data Science Iniziative di Harvard, università dove è arrivata appena 24enne e dove ha trascorso la sua vita accademica, fino ad arrivare ai vertici.
«È stata durissima. E, nonostante mio marito, tra l’altro pure lui scienziato, mi abbia sempre sostenuto, posso dire che non ce l’avrei mai fatta ad allevare mia figlia, che ora ha 14 anni, senza l’aiuto di mia madre. È stata lei ad accompagnarmi nei continui viaggi internazionali in tutto il mondo: teneva la bimba mentre io andavo ai congressi. Non vorrei essere nei panni delle giovani ricercatrici, costrette dal virus a conciliare famiglia e smart working. E non mi meraviglia che la produzione scientifica femminile sia calata negli ultimi mesi». A confermare quest’affermazione, le recenti ricerche di Megan Federickson, studiosa dell’Università di Toronto, e Cassidy Sugimoto, dell’Indiana University Bloomington. Entrambe hanno analizzato i server più utilizzati dalla comunità scientifica per diffondere i cosiddetti preprint, ricerche preliminari ancora da sottoporre alla revisione pre-pubblicazione. Si tratta, al momento, dell’unica fonte disponibile per avere il polso della situazione ancora in corso: per completare l’iter ci vogliono anni. Nei mesi di marzo e aprile, la produttività maschile è cresciuta a una velocità maggiore di diversi punti percentuali - a seconda del portale utilizzato anche il doppio - rispetto a quella delle colleghe. Lo stesso è accaduto nel campo delle ricerche sociali. Come sottolinea Noriko Amano-Patiño, dell’Università di Cambridge, le autrici di lavori sull’impatto del Covid sull’economia sono il 12 per cento del totale: otto punti percentuali in meno della media. «La ragione è intuitiva - sottolinea Dominici -. Sulle donne è gravato il peso maggiore dell’emergenza sanitaria e, soprattutto, delle misure di lockdown messe in atto per contenerla, in primis la chiusura delle scuole e dei centri per l’infanzia».
Ben prima dell’irruzione del virus, le faccende domestiche - il cosiddetto “lavoro non remunerato” - erano in mani femminili: queste vi dedicano una media di quattro ore al giorno secondo l’Ocse, più del doppio rispetto agli uomini. Perché il Covid è stato così importante?
Con la pandemia, le attività di gestione ordinaria sono cresciute enormemente: dalla cura dei figli impegnati nelle lezioni a distanza alle commissioni per i parenti più anziani e, dunque, vulnerabili all’infezione. Nel mentre, il ricorso ad aiuti esterni si è fatto più difficile a causa dell’isolamento. E ad occuparsene sono state le donne. Scienziate incluse. C’è, poi, un’altra questione, legata a una differenza di approccio maschile e femminile. Le ricercatrici tendono ad essere più caute e questo le porta ad essere meno presenti nei media.
In controtendenza lei, invece, è autrice capofila di un’importante ricerca che dimostra la relazione tra inquinamento e tasso di mortalità per il Covid.
Il virus attacca i polmoni. Abbiamo, dunque, analizzato come l’esposizione di questi al particolato sottile ne determini una maggiore vulnerabilità alla malattia. E siamo arrivati alla conclusione che più questa è prolungata maggiore è la capacità del Covid di uccidere. Anche un piccolo incremento del livello di inquinamento determina un incremento della mortalità dell’8 per cento.
Dove, in base alla sua esperienza, c’è più discriminazione di genere, in Italia o negli Usa?
Sono andata via dall’Italia al primo anno di dottorato, proprio a causa delle discriminazione. Ma l’ho ritrovata qui, anche se in forma meno palese. Un pregiudizio strisciante, forse ancor più difficile da individuare e combattere.
Può farmi qualche esempio?
Gliene faccio tre. A volte, per farti un complimento, qualcuno ti dice: «Mi piace molto il tuo tailleur. Peccato che ti copra troppo». Alle riunioni del comitato, tutto al maschile, della Data Science Initiative, di cui sono capo, spesso vengo ancora presentata come «la moglie di un brillante scienziato». Ai congressi, quando è il turno delle ricercatrici donne, gli uomini ne approfittano per fare la pausa caffè. Se ti arrabbi o smetti di parlare, dicono che hai un carattere difficile.
Perfino ad Harvard c’è discriminazione?
Le donne full professor, di cui faccio parte, sono il 15 per cento. Ai livelli iniziali di carriera siamo la metà. Poi, man mano che si va avanti, molte colleghe sono costrette a lasciare perché non riescono a conciliare con la vita familiare.
Che soluzione proporrebbe?
Mettere più donne ai vertici, con un sistema di quote, in modo da cambiare le regole e renderle più eque.
Che consiglio darebbe a un’aspirante ricercatrice?
Se vuole far carriera deve accettare il fatto che sarà criticata. Le direi di non badarci troppo e andare avanti.
UNA SORPRESA CHE SORPRENDE ....
Le Sibille: l’antico filo artistico che lega Contursi Terme a Serravalle di Chienti: “[...] in due piccole località italiane tra loro distanti di soli 500 chilometri, a seguito di restauri occasionati da eventi sismici in entrambi i casi, esistono straordinarie immagini di queste divine creature che sembrano essere tra loro collegate da un filo magico e invisibile: le Sibille del Rinascimento” (cfr. Laura Vasselli e Italo Mastrolia, "inLibertà", 31 Maggio 2020)... E CHE SOLLECITA AD ULTERIORI COLLEGAMENTI, a cominciare dalle Sibille degli affreschi di Lorenzo Lotto (maestro di Simone De Magistris) nella Cappella Suardi di Trescore Balneario in provincia di Bergamo e, passando da Ascoli Piceno per ammirare la novecentesca “Sibilla Appenninica” di Adolfo De Carolis, e arrivare alle Sibille presenti negli affreschi di Santa Maria di Casole a Copertino in provincia di Lecce. L’occasione potrebbe essere una ottima sollecitazione a compilare, finalmente, un “atlante” della loro presenza in tutto il territorio nazionale (e, possibilmente, in tutta l’Europa). Se non ora, quando?!
Giornata dell’Ambiente.
Il Papa: non possiamo fingerci sani in un mondo malato
La lettera di Francesco al presidente della Colombia, che ospita "virtualmente" la Giornata dell’Ambiente 2020: la casa comune va tutelata insieme
di Redazione Internet (Avvenire, venerdì 5 giugno 2020)
"Invertire la rotta", per un mondo "più vivibile" e una "società più umana". "Tutto dipende da noi, se lo vogliamo davvero". Lo scrive papa Francesco in una lettera, in spagnolo, al presidente della Repubblica di Colombia, Ivan Duque Marquez, in occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente che ricorre oggi e che quest’anno è ospitata virtualmente dalla Colombia sul tema della biodiversità.
IL TESTO INTEGRALE DELLA LETTERA
"Non possiamo pretendere di essere sani in un mondo malato. Le ferite causate alla nostra madre terra sono ferite che sanguinano anche in noi", denuncia il Papa. La cura degli ecosistemi, avverte, "ha bisogno di una visione del futuro. Il nostro atteggiamento verso il presente del pianeta dovrebbe impegnarci e renderci testimoni della gravità della situazione. Non possiamo tacere davanti al clamore quando verifichiamo i costi molto elevati della distruzione e dello sfruttamento dell’ecosistema".
Da qui il monito di Francesco: "Non è tempo di continuare a guardare dall’altra parte indifferenti ai segni di un pianeta che viene saccheggiato e violato, per l’avidità di profitto e in nome, molte volte, del progresso. È dentro di noi la possibilità di invertire la marcia e scommettere su un mondo migliore e più sano, per lasciarlo in eredità alle generazioni future. Tutto dipende da noi se lo vogliamo davvero".
Bergoglio ricorda il quinto anniversario dell’enciclica Laudato si’ appena celebrato e invita "a partecipare all’anno speciale" per il Creato. "E così, tutti insieme, per diventare più consapevoli delle cure e della protezione della nostra casa comune, così come dei nostri fratelli e sorelle più fragili e scartati nella società".
Infine Francesco incoraggia il presidente colombiano Marquez a deliberare "sempre a favore della costruzione di un mondo più vivibile e di una società più umana, in cui tutti abbiamo un posto e in cui nessuno sia lasciato indietro".
LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI COLOMBIA IN OCCASIONE DELLA GIORNATA MONDIALE DELL’AMBIENTE
A Sua Eccellenza Signor Iván Duque Márquez,
Presidente della Repubblica di Colombia
Signore Presidente,
Sono lieto di rivolgermi a lei, a tutti i membri organizzatori e ai partecipanti della Giornata Mondiale dell’Ambiente, che quest’anno si sarebbe dovuta celebrare in modo presenziale a Bogotá, ma che a causa della pandemia covid-19 si terrà in forma virtuale. È una sfida che ci ricorda che dinanzi all’avversità si aprono sempre nuovi cammini per stare uniti come grande famiglia umana.
La protezione dell’ambiente e il rispetto della “biodiversità” del pianeta sono temi che ci riguardano tutti. Non possiamo pretendere di essere sani in un mondo che è malato. Le ferite provocate alla nostra madre terra sono ferite che sanguinano anche in noi. La cura degli ecosistemi ha bisogno di uno sguardo di futuro, che non si limiti solo all’immediato, cercando un guadagno rapido e facile; uno sguardo che sia carico di vita e che cerchi la preservazione a beneficio di tutti.
Il nostro atteggiamento dinanzi al presente del pianeta dovrebbe impegnarci e renderci testimoni della gravità della situazione. Non possiamo rimanere muti di fronte al clamore quando comproviamo gli altissimi costi della distruzione e dello sfruttamento dell’ecosistema. Non è tempo di continuare a guardare dall’altra parte indifferenti dinanzi ai segni di un pianeta che si vede saccheggiato e violentato, per la brama di guadagno e in nome - molto spesso - del progresso. Abbiamo la possibilità d’invertire la marcia e puntare su un mondo migliore, più sano, per lasciarlo in eredità alle generazioni future. Tutto dipende da noi; se lo vogliamo veramente.
Abbiamo da poco celebrato il quinto anniversario della Lettera enciclica Laudato si’, che richiama l’attenzione sul grido che ci lancia la madre terra. Invito anche voi a essere partecipi dell’anno speciale che ho annunciato per riflettere alla luce di quel documento. E così, tutti insieme, prendere maggiormente coscienza della cura e della protezione della nostra Casa comune, come pure dei nostri fratelli e sorelle più fragili e scartati dalla società.
Infine, vi incoraggio in questo compito che avete intrapreso, affinché le vostre decisioni e conclusioni siano sempre a favore della costruzione di un mondo sempre più abitabile e di una società più umana, dove ci sia posto per tutti e dove nessuno sia di troppo.
E, per favore, vi chiedo di pregare per me. Che Gesù vi benedica e la Vergine Santa si prenda cura di voi.
Cordialmente,
Francesco
Vaticano, 5 giugno 2020
*L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLX, n. 128, 06/06/2020
Sondaggio, il mondo è d’accordo su una cosa : l’importanza della parità di genere
Secondo la ricerca dell’istituto statunitense Pew Research Center in 34 paesi, il 94% degli intervistati definisce “importante” che le donne abbiano gli stessi diritti degli uomini. Una percentuale che in Italia tocca il 95%
di STEFANIA DI LELLIS (la Repubblica, 30 aprile 2020)
Forse può sorprendere, ma una delle cose su cui la maggior parte del mondo è d’accordo è l’importanza della parità tra uomo-donna. A raccontarlo è l‘ultimo studio del Pew Research Center, un accreditato istituto americano di ricerche e sondaggi.
Pew ha contattato 38.426 persone in 34 paesi e il 94% degli intervistati ha definito “importante” che le donne abbiano gli stessi diritti degli uomini. Una percentuale che in Italia tocca il 95%. La maggioranza in 30 nazioni sostiene che la parità di diritti sia anzi “molto importante” : tra queste la Svezia dove a pensarlo è il 96%. In Italia però la percentuale delle persone convinte di ciò (ovvero che sia molto importante) è la più bassa nell’Europa occidentale : 74%
Più di metà (54%) degli intervistati nella maggior parte dei paesi Ue, negli Usa, in Giappone, Israele, Australia e Corea del Sud dice che gli uomini sono favoriti quando si tratta di occupare posizioni lavorative con stipendi alti. Una valutazione che in Italia è condivisa dal 63%.
La ricerca è stata condotta tra maggio e ottobre dello scorso anno e viene pubblicata solo oggi. Ma ci offre spunti di riflessione molto attuali : il 40% delle persone nella maggioranza dei paesi ascoltati ritiene che gli uomini debbano avere la precedenza sulle donne in caso di scarsità di posti di lavoro. In Italia la percentuale di uomini fautori di questa corsia preferenziale tocca il 46% contro il 34% della popolazione femminile.
L’ottimismo sulla parità futura è più maschile che femminile. In Italia il 71% delle donne ritiene che si arriverà al traguardo, contro l’84% degli uomini. E più di metà dei sondati in Italia, come in Francia, Grecia, Slovacchia, Giappone, Corea del Sud, Turchia, Israele, Libano Tunisia pensa che la strada delle donne verso la leadership politica sia decisamente più in salita rispetto a quella degli uomini.
Il pARTicolare.
Raffaello e la Madonna del Divino Amore
di Federica Maria Marrella [2018]*
Ci fu un saggio. Una volta.
Un saggio scritto che lessi con una voracità a me inconsueta, poiché la lentezza in realtà mi caratterizza, generalmente.
Eppure, quel saggio raccontava una storia bellissima. La storia di un dipinto simbolo e ritmo di perfezione.
Tondo in cui il tutto ha bisogno del singolo elemento, di ogni singolo particolare.
Verrà esposto a Torino nella Pinacoteca Agnelli, dal 17 marzo al 28 giugno, un dipinto di Raffaello Sanzio generalmente custodito a Napoli, nel museo di Capodimonte. L’opera è La Madonna del Divino Amore, realizzata nel periodo romano dell’artista, precisamente nel 1516 - 1518. Anni in cui la volta della cappella Sistina di Michelangelo Buonarroti era stata già compiuta. Anni in cui lo stile stesso di Raffaello si modifica, si espande nelle forme, nei tondi e negli angoli, come quella punta di ginocchio che tiene seduto il bambin Gesù.
Ma osserviamo l’opera.
Raffaello ritrae Maria, la madre Anna, Gesù e San Giovannino. Questo è il gruppo centrale, sapientemente ritratto e scolpito, poiché i corpi paion scolpiti, disegnati di sguardi, presentimenti, dettagli e silenziosi discorsi.
Maria e Anna, i capi leggermente appoggiati, sembrano sostenersi nell’osservare il miracolo di fronte a loro. Un sostegno muto e abbondante di sentimento. Lo stesso dialogo silenzioso e di sguardi realizzato nel cartone di Leonardo (Il Cartone di Sant’Anna, Louvre, Parigi). Quel cartone famoso, creato anche esso molti anni prima, nel 1499-1500, cartone in cui sant’Anna guarda, però, la figlia. E la figlia guarda il Cristo. E san Giovannino guarda anche egli il Cristo. E anche qui i corpi sono possenti. Entrambi gli artisti erano rimasti colpiti e, forse consciamente, forse inconsciamente ispirati dai corpi del Buonarroti. Quei corpi di scultura che si realizzano anche in pittura, nel disegno, nello studio della forma umana.
Le Conversazioni sono sempre materia molto complessa. Eppure la massa scultorea del cartone di Leonardo, i sentimenti umani concretizzati anche con la matita in uno sfumato misterioso, il movimento creato nella roccia umana, quel peso presente e concreto, tipico dell’umanesimo leonardesco che vedeva nell’uomo e nel suo corpo il più grande mistero di ogni tempo, ecco tutto questo in Raffaello sparisce. Questa possanza fisica, che si nota osservando ogni soggetto singolarmente, nel dialogo degli sguardi prende leggerezza, eleganza. Quella perfezione di cui parla Ernst H. Gombrich raccontando La madonna della seggiola (1514), altra opera di Raffaello. Quella perfezione e leggerezza che ha bisogno del tutto per esistere.
Eppure, il tutto nel dipinto di Raffaello, non si ferma al primo piano, al dialogo silenzioso ma serrato tra madre e figlia e tra i piccoli protagonisti. Il dialogo di fronte al mistero, pretende anche la solitudine del silenzio. Il distacco. La paura. Il disagio. madonna-del-divino-amore-dopo-il-restauro-img_5938
Queste parole sembrano così lontane dalla creazione di Raffaello Sanzio, il pittore che diede vita alla perfezione della natura, alla leggerezza, al tratto perfetto. All’armonia. Il pittore che, secondo le parole di Pietro Bembo, diede vita alla natura stessa. Raffaello invece, in questo dipinto, ritrae il dolore, la perplessità, la paura del mistero e dell’incomprensibile. Ritrae la pretesa e la ricerca di solitudine.
Eccolo, il pARTicolare.
Sullo sfondo, Giuseppe. San Giuseppe, perché ha già l’aureola. È già santo, anche nel suo tormento. Con le braccia conserte, ci sembra di vederlo che cammina avanti e indietro, su quel corridoio nascosto dalla luce perfetta che inonda il soggetto in primo piano. San Giuseppe, con la sua aureola, le sue braccia conserte, la sua mano tesa ad accartocciarsi il mantello, la sua testa confusa e i suoi pensieri legittimi, cammina, avanti e indietro. Crea un solco, su quel pavimento grigio.
Lo potremmo togliere, San Giuseppe, come ha giocato Gombrich sul dipinto de La Madonna con la seggiola. Il grande storico dell’arte aveva provato con la mano a coprire un elemento del dipinto e si è accorto che tutto il resto crollava.
La perfezione geometrica e l’armonia aveva bisogno del tutto.
E anche qui, senza san Giuseppe, questa conversazione crollerebbe.
Perché di fronte al miracolo, è concessa, anzi non solo concessa, è richiesta la paura. È da vivere il dubbio. Il dubbio che solca i pavimenti.
Che si stringe nel petto.
E che ci rende santi.
E quella distanza diventa unione nei colori. Il manto di Maria, azzurro, si unisce a quel cielo terso, in cui spicca il volto barbuto di San Giuseppe. Ogni elemento si unisce. Nel dialogo silenzioso, e dove non è possibile, nella Natura.
Federica Maria Marrella
* ArtSpeciallyDay, sabato 8 dicembre 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO" DI RAFFAELLO.
FLS
Le note spirituali della Civiltà Cattolica
“L’amore delle donne accompagna la passione di Gesù”.
di p. Giancarlo Pani S.I., vicedirettore de "La Civiltà Cattolica" *
Il Vangelo di Matteo presenta il racconto della passione di Gesù incorniciato tra due episodi che hanno come protagoniste alcune donne. La prima è una donna di Betania, che unge il capo di Gesù con un prezioso olio di nardo (Mt 26,6-13), le altre sono Maria di Magdala e le donne sul Calvario quando Gesù muore (27,55s) e, dopo il sabato, si recano al sepolcro alla prima luce dell’alba (28,1). Sono figure che illuminano il mistero.
Mancavano due giorni alla Pasqua. «Mentre Gesù si trovava a Betània, in casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo molto prezioso, e glielo versò sul capo mentre egli stava a tavola» (Mt 26,6s). È un momento di convivialità con la presenza del Signore.
Ad un certo punto compare una donna: chi sia, non si sa, non ha nome e non dice nemmeno una parola. Compie solo un gesto. Nella sala si spande la fragranza del profumo che suscita sdegno e proteste. Perché questo spreco? Si poteva venderlo per molto denaro e darlo ai poveri!
La donna tace, e Gesù afferma: «Perché infastidite questa donna? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me. Versando questo profumo sul mio corpo, lei lo ha fatto in vista della mia sepoltura» (vv.10-13). La donna - rivela Gesù - ha preparato il suo corpo per la morte.
Quello che gli apostoli non riescono a comprendere e che Gesù aveva detto più volte, lo ha compreso una donna: i capi dei sacerdoti e gli scribi volevano ucciderlo. In ogni caso, lei è l’unica ad aver capito che la vita di Gesù ha un esito preciso, la morte, e la morte viene perché Gesù ha donato la vita, perché si è fatto tutto a tutti. La donna lo ha veduto, lo ha ascoltato, custodisce le sue parole nel cuore, lo ha amato; e ora vuole essergli vicino con gratitudine. Risponde con amore all’amore di Gesù. Quel profumo è il suo dono, è tutto quello che ha, è tutta la sua vita. Perciò glielo versa fino in fondo, fino all’eccesso, che è la misura dell’amore che si dona senza misura.
La donna ha fatto un’azione buona, dice Gesù; in greco, alla lettera, «un’opera bella». È la bellezza di chi ama e che non bada a nulla per la persona amata. Lei ha compreso che la morte a cui Gesù va incontro è il frutto di un’intera vita donata ai fratelli. E lei, nella sua piccolezza, nella sua povertà, ha voluto esprimerlo con il suo gesto di amore. E Gesù lo accoglie, perché sa accogliere l’amore che gli diamo, che sia poco o tanto. Per lui non conta quello che si dona, ma il cuore con cui lo si dona.
Qui è una donna che dona e la donna sa bene che cosa comporta dare al mondo una vita; lei sa che dando la vita rischia di perdere la propria. Ma è il dono di un amore totale, che non teme il dolore, la sofferenza, la morte. È la profezia di quanto Gesù sta per vivere fino alla croce. La fragranza di quel profumo accompagnerà il Signore nella passione, nella morte, nella resurrezione. È un annuncio di vita e di gioia: è il profumo di Dio, il profumo del Vangelo. «Dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che lei ha fatto» (v. 13).
***
Sul Calvario, quando Gesù muore, ci sono le donne che lo accompagnano. Sono lì, nel dolore e nel pianto per il Signore che le ha amate e che loro hanno amato. Una presenza e un amore che sono un segno anche per noi. Quando la vita spesa per gli altri ci porta al calvario e alla croce, spesso la luce della risurrezione è talmente lontana da perdere ogni forza confortatrice. La sofferenza può essere così amara e così totalizzante da spingerci in una situazione di disperata solitudine, di fallimento senza rimedio: la forza del Vangelo per il quale abbiamo tentato di vivere ci si vanifica in mano.
Ai piedi della croce - nel Vangelo di Matteo - i discepoli non ci sono. Ai loro occhi Gesù che muore è il segno della fine di tutto, di una speranza delusa, di un drammatico fallimento. Singolare è allora la figura delle donne sotto la croce. Non è pensabile che ai loro occhi potessero esserci prospettive diverse. Anche per loro Gesù muore, anche per loro il domani è nelle tenebre. Ma c’è un amore più forte che, nel buio, le tiene ai piedi della croce: ed è a questo amore semplice ma pieno, piccolo ma autentico, che per primo si rivela la resurrezione di Gesù.
L’amore delle donne è una strada anche per noi: tante volte ci troviamo nel buio, nello sradicamento totale, nell’assurdo, nel silenzio di Dio. Ma come le donne sono rimaste ai piedi di Gesù che muore, così la nostra preghiera insistente e il nostro silenzio fedele di fronte a un Dio che sembra non rispondere, ha in sé il germe di una speranza: anche a noi, come alle donne, si manifesterà la gloria del Signore che risorge.
L’anniversario. Raffaello teologo nel segno dell’umanesimo
Acuto interprete di questioni teologiche Raffaello superò predecessori e posteri con la sua arte capace di donare all’immagine la forza dell’eternità. La riflessione del cardinal Ravasi
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, domenica 1 marzo 2020)
Per anni ho avuto la fortuna di vivere nello stesso palazzo della Biblioteca Ambrosiana ove si custodisce un imponente disegno a carboncino e biacca di ben 2,75 per 7,95 metri: è il cartone preparatorio che Raffaello ha elaborato di suo pugno per abbozzare l’affresco della Scuola di Atene che avrebbe poi dipinto in Vaticano nella cosiddetta Stanza della Segnatura. Come recita il titolo, l’opera rivela un Raffaello filosofo che convocava in quel dipinto Platone e Aristotele, Socrate, Epicuro, Eraclito e Pitagora, persino Diogene e Alcibiade, ma anche Averroè e Zoroastro. Tuttavia il lessico iconografico che dominò la breve, ma intensa, vita cronologica e artistica dell’Urbinate fu quello teologico.
Lungo sarebbe l’elenco e complessa l’analisi dell’immensa sequenza di soggetti biblici e religiosi che popolano le pareti del Palazzo Apostolico. Ad esempio, la Stanza di Eliodoro è così denominata da un murale che rappresenta la scena narrata dal Secondo Libro dei Maccabei (3,23-24), ove è appunto protagonista questo ministro siro. Ma nella stessa sala ecco la liberazione di san Pietro dal carcere, episodio narrato dagli Atti degli Apostoli (12,1-19), con uno straordinario gioco di luce e tenebra (indimenticabile è la luna che si affaccia in un cielo estivo velato di nubi lievi). Tra le altre scene, facciamo emergere il tema eucaristico, raffigurato nella cosiddetta Messa di Bolsena col celebrante boemo in crisi di fede che, nel 1236, alla consacrazione vede l’ostia sanguinare, miracolo che generò la festa del Corpus Domini. A lato di quell’evento Raffaello pone simbolicamente il “suo” papa, Giulio II che, inginocchiato, alza le mani giunte in preghiera, fissando in concentrazione il miracolo che sta compiendosi sull’altare, mentre le bionde guardie svizzere assistono anch’esse genuflesse nel loro sontuoso abbigliamento di velluto e raso con armature. [...]
Un apogeo della sua arte è la Trasfigurazione, tavola pensata come dono da inviare alla cattedrale francese di Narbonne, sede episcopale titolare di un nipote del pontefice di allora Leone X, il cardinale Giulio de’ Medici che sarebbe divenuto, un paio di anni dopo la morte dello zio, nel 1529, lui stesso papa col nome di Clemente VII. L’Urbinate compose su due registri la scena, seguendo il testo evangelico nella sua struttura a dittico. I tre evangelisti sinottici - Matteo (17,1-20), Marco (9,2-29) e Luca (9,28-43) - narrano, infatti, sia pure da angolature redazionali differenti, sia la “cristofania” della Trasfigurazione su un monte innominato, identificato nel Tabor da un’antica tradizione secolare, sia la guarigione di un ragazzo epilettico ai piedi di quel monte. Nella sua pala Raffaello alla luminosa “metamorfosi” (tale è la parola originaria greca per indicare la Trasfigurazione) di Cristo congiunge una vicenda così drammatica come quella del ragazzo epilettico, la cui sindrome era accuratamente delineata dagli evangelisti: «Uno spirito muto, dovunque lo afferrava, lo gettava a terra ed egli schiumava, digrignava i denti e si irrigidiva [...].
Alla vista di Gesù, subito lo spirito scosse con convulsioni il ragazzo che, piombato a terra, si rotolava schiumando ». Anzi, suo padre confessava a Gesù che quello spirito maligno - secondo l’antica concezione alcune malattie erano considerate come effetto di possessione diabolica - «spesso lo buttava nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo» (Marco 9,18-22). Due piattaforme sceniche sovrapposte animano, dunque, il dipinto di Raffaello. Esse, però, sono impostate prospetticamente a diversa gradazione. La Trasfigurazione è lassù, avvolta in un nimbo di luce trascendente, ove Cristo aleggia sospeso con le braccia aperte a croce, accompagnato ai bordi della mandorla luminosa da Mosè, simbolo della Legge, e da Elia, emblema della profezia, protesi in contemplazione, mentre ai piedi di Gesù, sul terreno della cima del monte, accecati e storditi sono accasciati a terra i tre apostoli testimoni Pietro, Giacomo e Giovanni.
Questa scena alta e sublime dovrebbe essere ammirata a distanza, come se fosse un’epifania che da lontano, dall’alto, quasi dall’infinito, si apre allo sguardo della contemplazione mistica. Una visione ravvicinata è, invece, richiesta dalla scena inferiore, mossa, tormentata, agitata da movimenti fortemente “carnali”: basti solo guardare il corpo in torsione e gli occhi sbarrati e stravolti del ragazzo epilettico. Eppure alcune mani si levano verso l’alto ove risplende circonfuso di luce il Cristo. Anzi, il giovane, con le sue braccia, il destro teso verso il Cristo trasfigurato e il sinistro rivolto a terra, crea una sorta di croce a cui la malattia lo inchioda. Raffaello, in tal modo, va oltre la lettera del racconto evangelico che suppone una sequenza temporale staccata tra i due eventi, e vede tra di essi un rapporto causale di natura squisitamente teologica. È, infatti, dal Cristo glorioso, centro della storia della salvezza, che fluisce la liberazione dal male. Per questo egli unisce trascendenza e immanenza, eternità e storia, luce e oscurità, grazia e sofferenza, assoluto e caducità, divinità e umanità. [...]
Questo dipinto fu in pratica l’ultimo a cui si dedicò il pennello di Raffaello tra il 1518 e il 1520, l’anno della sua morte. Egli era appena trentasettenne e il suo funerale è commemorato con una nota commossa da Giorgio Vasari nelle sue Vite. Le sue parole possono essere il suggello più efficace alla contemplazione di questo capolavoro. Scriveva, infatti, trent’anni dopo, nel 1550, quel pittore che fu uno dei primi storici e critici d’arte: «Gli misero alla morte al capo, nella sala dove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il cardinale de’ Medici, la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’animo di dolore a ognuno che quivi guardava».
Il fascino di Raffaello, più forte del virus
A Roma la più grande mostra di sempre, record assicurazioni 4 mld *
di Silvia Lambertucci *
ROMA. SCUDERIE DEL QUIRINALE - La qualità, prima di tutto, con un progetto scientifico che è il frutto di tre anni di lavoro e al quale ha collaborato un team di super esperti del settore, da Nicholas Penny a lungo direttore della National Gallery di Londra a Dominique Cordellier del Louvre, dalla direttrice dei Musei Vaticani Barbara Jatta al suo predecessore, ex soprintendente di Firenze ed ex ministro della cultura Antonio Paolucci. Ma anche la quantità, con un numero di opere del maestro urbinate, che "mai prima d’ora si erano viste tutte insieme".
Roma celebra i 500 anni dalla morte di Raffaello, pittore grandissimo, ma anche architetto e primo storico soprintendente ai beni culturali, e dopo la meraviglia degli arazzi esposti per una settimana nella Cappella Sistina è conto alla rovescia per la rassegna allestita alle Scuderie del Quirinale.
Epidemia da coronavirus permettendo , l’apertura al pubblico è prevista dal 5 marzo al 2 giugno, appuntamento "unico e irripetibile, senza nessuna possibilità di replica all’estero", sottolinea il presidente e ad di Ales Scuderie del Quirinale Mario De Simoni.
Lo sforzo del resto è stato titanico, ribadisce, con 54 istituzioni coinvolte nei prestiti, dai Musei Vaticani al Prado, dalla National Gallery alla Pinacoteca di Monaco, il Louvre, la National Gallery di Washington. E un valore assicurativo monstre di 4 miliardi di euro, per le 206 opere esposte (120 di Raffaello) più alto persino del Leonardo colossal appena andato in scena al Louvre.
Le prenotazioni sono già tantissime, oltre 70 mila i biglietti acquistati, duemila solo nelle ultime ventiquattrore a dispetto delle notizie sempre più allarmanti che arrivano dal nord Italia. Nessuna disdetta. "Confermate anche tutte le presenze per l’inaugurazione", sottolinea De Simoni, che pure non nasconde la preoccupazione per l’evolversi degli eventi legati alla salute pubblica: "E’ chiaro che faremo quello che le autorità ci dicono di fare", allarga le braccia il manager culturale. Nella peggiore delle ipotesi, spiega, si tenterà "uno spostamento temporale". Tant’è, per ora si va avanti, con il fascino di Raffaello più forte di tutto.
Concepito "a ritroso" con un racconto che parte proprio da una ricostruzione della tomba dell’artista al Pantheon, per poi ripercorrerne tutta l’avventura creativa da Roma a Firenze all’Umbria fino alle radici urbinati, il percorso si sofferma in particolare sul periodo romano, "undici fecondissimi anni" dal 1509 al 6 aprile 1520, data della sua morte improvvisa e prematura, avvenuta "dopo giorni di febbre continua e acuta", come scrisse il Vasari.
Sono gli anni dei papi mecenati, Giulio II prima Leone X poi, delle importantissime committenze, dalle Stanze dell’appartamento papale con la Segnatura, capolavoro dei suoi 25 anni, agli Arazzi, i lavori per il ricco banchiere Agostini Chigi e la sua Villa Farnesina. Ma è anche l’epoca dei dei dipinti più iconici, dalla Velata alla Fornarina, dal ritratto di Giulio II a quello di Innocenzo X (tutti in mostra) fino all’impegno di architetto per il cantiere di San Pietro.
Centrale in questo racconto, è la Lettera a Leone X , che Raffaello scrisse insieme a Baldassare Castiglione, una missiva destinata a diventare il fondamento stesso della idea italiana di tutela del patrimonio culturale, principio non a caso poi inserito nella Costituzione: le Scuderie ne espongono la preziosa minuta conservata nell’Archivio di Mantova e già questa è una emozione. Come emozionante sarà rivedere in Italia per la prima volta La Madonna d’Alba prestata dalla National Gallery di Washington o La Madonna della Rosa del Prado, la Madonna dei Tempi inviata dalla Pinacoteca di Monaco.
"E’ la mostra più imponente che avremo occasione di vedere dedicata a Raffaello, ma anche la più sensata perché basata su ricerche scientifiche e novità venute fuori dai restauri", fa notare il direttore degli Uffizi Eike Schmidt, a cui si deve peraltro l’idea di una grande rassegna romana. Due in particolare "il colore del ritratto di Leone X, restaurato dall’opificio delle Pietre Dure". Ma anche la "riscoperta, che si deve a due giovani ricercatrici Roberta Aliventi e Laura Darimbettina, di un frammento di un cartone preparatorio di un dipinto di Giulio Romano che si trova oggi a Padova" .
Uno sforzo, sottolinea Marzia Faietti curatrice insieme al direttore delle Scuderie Matteo Lafranconi , "Che è stato anche un ripercorrere le tappe di un percorso intellettuale, quello della nostra generazione". Alla ricerca, tra l’altro, dei messaggi che ancora oggi l’opera di Raffaello può dare. Uno su tutti, "il più moderno" secondo la studiosa, "è quello di pace" che viene ad esempio dalla Scuola di Atene "dove tante persone di diverse culture dialogano tra loro". Proprio in quegli anni, ricorda, usciva il pamphlet di Erasmo da Rotterdam contro la guerra: " E Raffaello, spirito aperto, era allineato con i grandi pensatori d’Europa, i più grandi pacifisti". Lunga vita a Raffaello. (ANSA).
* Fonte: Ansa, 24 febbraio 2020 (ripresa parziale).
La mostra.
Gli arazzi di Raffaello tornano nella Cappella Sistina
Per una settimana, dal 17 al 23 febbraio, i capolavori intessuti a Bruxelles su cartoni del "divino" tornano sotto gli affreschi di Michelangelo e Perugino, dove li volle Leone X
di Marco Busssagli (Avvenire, venerdì 7 febbraio 2020)
Dopo quasi quarant’anni gli arazzi disegnati dal grande artista per papa Leone X tornano per una settimana nel luogo per cui il pontefice li aveva voluti Raffaello, in questi giorni, inizia a far sentire la sua presenza in maniera sempre più insistente. In realtà, le iniziative hanno preso avvio già nel 2019, quando, proprio su queste pagine, abbiamo recensito la bella mostra (ancora in corso, fino al prossimo 17 marzo) dedicata a Giovanni Santi, il padre del grande artista.
Ora, i Musei Vaticani vogliono (e possono) stupire tutti, come ha annunciato il direttore Barbara Jatta, esibendo dal 17 al 23 febbraio, una delle opere di Raffaello meno note al grande pubblico: gli arazzi realizzati per Leone X Medici. Non basta, però, perché non si tratta di una semplice esposizione.
Gli arazzi saranno ricollocati nella Cappella Sistina, per la quale erano stati pensati. Si tratta di un evento raro che non avveniva dal 1983, quando il mondo celebrò il cinquecentenario della nascita del grande artista.
Quando papa Medici li fece appendere la prima volta, per coprire i finti velari ad affresco che appartengono alla prima decorazione della Cappella, quella voluta da Sisto IV Della Rovere che incaricò il Perugino di coordinare un manipolo di artisti stellari, da Botticelli a Luca Signorelli, passando per il Perugino stesso, non esisteva ancora il Giudizio Universale di Michelangelo che, però, aveva dipinto la volta. Allora, il desiderio di Leone X di lasciare la sua traccia nei Palazzi Pontifici lo spinse, forse già dal 1514, a commissionare i cartoni (oggi conservati al Victoria and Albert Museum di Londra) in modo da poter intervenire nella decorazione di uno dei luoghi che - già allora - era considerato il più prestigioso dei Palazzi Vaticani.
Realizzati, fra il 1515 e il 1519, gli arazzi furono tessuti nella bottega di Pieter van Aelst a Bruxelles e avrebbero pienamente assolto a questo compito. Per questo in occasione di cerimonie importanti, venivano appesi in Sistina, lungo le pareti dell’aula, dove avevano la funzione di completare il programma degli affreschi quattrocenteschi con gli episodi della vita di Mosè e di Cristo. Gli arazzi, infatti, focalizzavano l’attenzione sulle vicende di san Pietro e di san Paolo, cui si affiancava la scena del Martirio di santo Stefano, prima vittima del nuovo credo cristiano.
Divennero una sorta di scuola pittorica del mondo (si pensi a Guido Reni e Carracci) e, come manufatti, furono copiati dalle principali corti europee mentre, nel XVII secolo, furono imitati da Rubens a Poussin e dalla stessa Santa Sede, quando papa Urbano VIII pensò bene di farne realizzare altri con gli episodi della propria vita.
Dalla Pesca miracolosa, fino al bellissimo San Paolo in carcere (che prefigura, per certi versi, le soluzioni della Sala dei Giganti di Giulio Romano al Palazzo Te di Mantova), passando per la Punizione di Elima (Atti degli Apostoli 13) uno stregone che si era opposto alla predicazione di san Paolo, fino alla Predica di san Paolo, tanto per ricordare quelli dal maggior impatto visivo, gli arazzi sono una successione di capolavori di stoffa.
Si tratta di opere che hanno anche un profondo significato religioso e politico, come mostra, quello dedicato all’episodio evangelico della Guarigione dello storpio (Atti degli Apostoli, III, 1 ss.). Ogni giorno, a Gerusalemme, un uomo, storpio fin dalla nascita, chiedeva l’elemosina vicino al Tempio. Quando vide Pietro e Giovanni che si erano recati nella città, non mancò di chiederla anche a loro. Pietro, allora, gli rispose di non avere con sé oro né argento, ma di potergli donare solo la fede in Cristo e aggiunse: «...nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!». Raffaello ambienta la scena fra le colonne tortili del Tempio di Salomone che si riteneva fossero state portate a Roma dopo la distruzione operata dall’imperatore Tito. Esse, poi, avrebbero sorretto la pergola marmorea del San Pietro costantiniano. Non è un caso, però, che sia Pietro l’unico ad ergersi ritto in piedi a mo’ di colonna fra quelle del Tempio di Salomone. Infatti, è lui, la colonna del Tempio nuovo, quello fondato da Cristo. Ai lati (fra le quinte-navate laterali), si accalca la folla dei curiosi e dei fedeli. È il popolo della nuova Chiesa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RAFFELLO: AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO".
UNA "CAPPELLA SISTINA" IN ROVINA: BENI CULTURALI, SCUOLA, E TERRITORIO: CONTURSI TERME.
Federico La Sala
CAPIRE IL COMPORTAMENTO UMANO.
di Antonio Rainone *
Carità o empatia?
Esiste una tematica nella filosofia del linguaggio e nell’epistemologia di W. V. Quine che può apparire per molti versi atipica o sorprendente a chi abbia del celebre filosofo statunitense un’immagine limitata alle sue concezioni fisicalistiche e comportamentistiche, per non dire “scientistiche”, non di rado considerate le più caratteristiche della sua produzione filosofica. Si tratta della tematica dell’empatia, cioè della capacità di avanzare spiegazioni o interpretazioni del comportamento (linguistico e non) di altri soggetti “mettendosi nei loro panni” o “simulandone” la situazione cognitiva o, ancora, assumendone immaginativamente il ruolo.
L’empatia - anche indipendentemente da Quine - ha peraltro suscitato una particolare attenzione nella filosofia della mente degli ultimi trent’anni, dove ha dato vita a un ampio dibattito sul cosiddetto mindreading, incontrandosi inoltre con la teoria neuroscientifica dei cosiddetti neuroni specchio 1. I più recenti lavori sulla filosofia del linguaggio di Quine dedicano una particolare attenzione a tale tematica 2, anche perché Quine, pur accennandovi in Word and Object (1960), ne ha proposto una esplicita teorizzazione solo nella sua produzione più tarda.
A partire dagli anni Settanta, ma più esplicitamente negli anni Novanta, Quine ha considerato il metodo dell’empatia come il metodo fondamentale di traduzione nel celebre Gedankenexperiment della traduzione radicale (ovvero la traduzione di una lingua completamente sconosciuta), ma anche come una capacità naturale ai fini dell’acquisizione del linguaggio e dell’attribuzione di stati mentali intenzionali (ossia percezioni, credenze, desideri ecc.) ad altri. In effetti, l’empatia ha acquisito un rilievo così crescente in Quine che nei suoi due ultimi lavori sistematici, Pursuit of Truth (1992) e From Stimulus to Science (1995), essa appare come un nucleo centrale della sua filosofia del linguaggio e della mente.
È stato del resto lo stesso Quine a sottolineare la rilevanza dell’empatia nella sua filosofia del linguaggio, “retrodatandone”, per così dire, la teorizzazione agli anni Cinquanta. Così Quine si esprime in uno dei suoi ultimi interventi sulla questione:
Il brano qui citato da Quine, ripreso dall’importante The Problem of Meaning in Linguistics (1951b, p. 63) - una notevole anticipazione della problematica della traduzione radicale - non è privo di una certa ambiguità, prestandosi a una duplice lettura. È forse vero che in Word and Object alcune affermazioni di Quine potrebbero essere interpretate come la proposta di un metodo empatico, sostenuto comunque in modo non del tutto esplicito (cfr. Rainone, 1995), ma possono essere avanzati dei dubbi circa la difesa di tale metodo nel saggio del 1951. Se da un lato il concetto di proiezione sembra proporre il metodo dell’empatia nell’attività di traduzione di una lingua completamente sconosciuta da parte di un etnolinguista, dall’altro sembra in effetti riferirsi non tanto al metodo empatico, quanto, piuttosto, a quello che, grazie allo stesso Quine, e in seguito a Donald Davidson (cfr. Davidson, 1984), sarebbe diventato noto come «principio di carità» (principle of charity). Il linguista - asseriva infatti Quine - proietta sé stesso con la sua Weltanschauung nei panni del nativo che usa una lingua sconosciuta, presupponendo (o ipotizzando) così che il suo informatore si conformi ai suoi principi logici e abbia le sue stesse credenze (ritenute vere) riguardo alla realtà (sono questi, grosso modo, i principali tenet del principio di carità, che presuppone una comune natura razionale tra interprete/ traduttore e interpretato/parlante).
In Word and Object Quine avrebbe esplicitamente utilizzato - e teorizzato - il principio di carità riguardo alla traduzione dei connettivi logici e degli enunciati “ovvi”. L’esempio più pertinente, in merito, è rappresentato dal «caso estremo» di qualche nativo che accetti come veri enunciati traducibili nella forma “p e non-p” (per esempio, “piove e non piove”), una forma enunciativa che, violando il principio di non contraddizione, deporrebbe per Quine non a favore dell’irrazionalità dei parlanti - come riteneva Lévy-Bruhl con la sua teoria della «mentalità prelogica» - ma contro la correttezza della traduzione (Quine, 1960, p. 58).
Il medesimo argomento varrebbe inoltre per la traduzione di enunciati ovvi: una risposta negativa da parte del nativo alla domanda (nella lingua nativa) “sta piovendo?” fatta sotto la pioggia costituirebbe una prova di cattiva traduzione nella lingua nativa, non del fatto che il nativo non condivida con il traduttore la credenza in qualcosa di così evidente. In generale, nota Quine in un famoso passo di Word and Object, «quanto più assurde o esotiche sono le credenze attribuite a una persona tanto più sospetti abbiamo il diritto di essere nei confronti delle traduzioni; il mito dei popoli prelogici segna solo il caso estremo» (ivi, p. 68).
Difficilmente, pertanto, la «proiezione» del linguista nei «sandali» del nativo di cui Quine parlava nel saggio del 1951 potrebbe apparire come una forma di metodo empatico, dal momento che essa “imporrebbe” al nativo uno «schema concettuale» (quello del linguista) che, per quanto il linguista può saperne, potrebbe essergli del tutto estraneo. Questo è, in fondo, il problema sottostante a tutto il celebre secondo capitolo di Word and Object 3. Non vi sarebbe alcuna garanzia, infatti, secondo Quine, che i nativi condividano lo stesso schema concettuale (la stessa Weltanschauung) del linguista. Ma il linguista non può, d’altro canto, che fare affidamento sul proprio linguaggio (o schema concettuale), data la scarsa evidenza empirica di cui dispone nel tradurre la lingua sconosciuta. Basarsi sul proprio schema concettuale, proiettandolo sul «linguaggio della giungla», è una necessità pratica, che - asseriva Quine in Word and Object - investirebbe soprattutto l’elaborazione delle «ipotesi analitiche», ovvero le ipotetiche correlazioni tra le emissioni verbali olofrastiche dei nativi e le loro possibili traduzioni mediante cui il linguista deve stabilire quali frammenti di enunciati andranno considerati termini (singolari e generali), quali congiunzioni, quali articoli, quali desinenze per il plurale e quali pronomi, sulla cui base individuare un insieme plausibile di credenze ontologiche ed epistemiche. La scelta delle ipotesi analitiche, infatti, non è altro che un modo di «catapultarsi nel linguaggio della giungla utilizzando i propri modelli linguistici » (ivi, p. 70).
Per ricordare il celebre esempio di Quine, la traduzione del proferimento di “gavagai” con “coniglio” (invece che con alternative bizzarre quali “stadi di coniglio” o “sta conigliando”, per quanto ammissibili sulla base dell’evidenza osservativa) equipara l’emissione verbale nativa a un termine generale del linguaggio del linguista, ma nulla esclude che i nativi possano essere privi di un termine referenziale generale per designare i conigli, anche se il linguista ritiene ciò “caritatevolmente” improbabile.
Utilizzare i modelli del proprio linguaggio per tradurre un linguaggio alieno non equivale quindi ad applicare un metodo empatico di comprensione, trattandosi al massimo di un’ulteriore e più ampia applicazione del principio di carità. L’empatia sembra in realtà qualcosa di diverso dalla carità: a differenza di quest’ultima, l’empatia non presuppone necessariamente una condivisione di significati e stati cognitivi (credenze). Forse l’assunzione di un’analogia di stati cognitivi tra interprete e interpretato - il «ritrovamento dell’io nel tu», secondo la celebre formula di Wilhelm Dilthey (1927, trad. it. p. 293) - può apparire inevitabile ed efficace riguardo alle risposte verbali fenomenologiche direttamente connesse a stimolazioni elementari provenienti da eventi osservativi intersoggettivi del mondo esterno (la pioggia, il colore rosso, il caldo e il freddo ecc.): ci si aspetta infatti che i nativi, che presentano una conformazione neurofisiologica e neuropsicologica analoga alla nostra, non abbiano percezioni di tipo diverso dalle nostre, rispondendo linguisticamente a tali percezioni in modo analogo a come risponderemmo noi; in tal caso l’empatia sembrerebbe indistinguibile dalla carità interpretativa, in quanto fondata sull’assunzione dell’esistenza di meccanismi percettivi comuni ai soggetti coinvolti. Ma difficilmente tale analogia potrebbe essere presupposta allorché si tratti di tradurre il linguaggio o spiegare il comportamento di soggetti appartenenti a una cultura del tutto estranea a quella dell’interprete. In questo caso l’interprete dovrà in qualche modo “entrare”, per così dire, nella “mente” dei soggetti da interpretare per comprendere il loro peculiare punto di vista, le loro credenze sulla realtà e i significati delle loro parole.
In definitiva, la differenza tra carità ed empatia può essere intesa come la differenza tra imporre il proprio punto di vista all’altro e assumere il punto di vista dell’altro. La differenza è particolarmente rilevante nei casi di interpretazione di soggetti appartenenti a “mondi” radicalmente diversi da quello dell’interprete. Se così non fosse, difficilmente gli etnoantropologi avrebbero potuto attribuire credenze animistiche o culti religiosi atipici (come i celebri cargo cults) alle popolazioni studiate (in entrambi i casi si dovrebbe trattare, secondo un’interpretazione caritatevole, di errori di traduzione o interpretazione).
Non dovrebbe costituire motivo di sorpresa, allora, che David K. Lewis, in un saggio dedicato alla problematica davidsoniana dell’«interpretazione radicale», avesse dato una definizione del principio di carità che ingloba, per così dire, anche il procedimento empatico: un soggetto di interpretazione, asseriva Lewis, «dovrebbe credere ciò che crediamo noi, o forse ciò che avremmo creduto noi al suo posto; e dovrebbe desiderare ciò che desideriamo noi, o forse ciò che avremmo desiderato noi al suo posto» (Lewis, 1974, p. 336; corsivi aggiunti). In pratica, secondo questa definizione del principio di carità, si tratterebbe di assumere empaticamente il punto di vista dei soggetti interpretati, tenendo conto delle loro credenze (eventualmente false o strane) e della loro cultura di appartenenza, attribuendo a essi non le credenze e i desideri dell’interprete, ma le credenze e i desideri che l’interprete avrebbe se fosse “nei loro panni”. Si può aggiungere, a tale proposito, che l’empatia rappresenta una sorta di “correttivo” del principio di carità, tenendo conto del punto di vista dell’altro.
Ma forse c’è ancora qualcosa da dire: mentre la carità impone dei vincoli normativi sulla razionalità dei soggetti da interpretare - vincoli a priori basati sui principi logici e sulle norme di razionalità epistemica e pratica dell’interprete, ritenuti universali 4 -, l’empatia sembrerebbe invece un metodo descrittivo ed empirico, essendo subordinata all’acquisizione di un’ampia gamma di informazioni relative alle credenze, alla cultura e alle esperienze passate dei soggetti da interpretare (inutile aggiungere che non c’è accordo su quest’ultimo punto).
4. Si può ricordare, riguardo a questa presunta universalità, che Robert Nozick ha contestato il principio di carità in quanto assunzione di tipo «imperialistico», conferendo tale principio «un peso indebito alla posizione che accade di occupare a noi, alle nostre credenze e alle nostre preferenze» (Nozick, 1993, p. 153). Giustamente, Nozick fa notare che difficilmente questa sarebbe l’assunzione di un antropologo relativamente alle cosiddette società “primitive” (ivi, p. 154).
* Cfr. Antonio Rainone, "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia", Carocci editore, Roma, 2019, pp. 55-59, ripresa parziale.
NOTA:
USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO. Amore (Charitas) o Mammona (Caritas)?! Il «principio di carità» ("caritas"!), un assunzione di tipo «imperialistico» (Robert Nozick, "La natura della razionalità", 1995). Una storia di lunga durata...:
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA. Alcune note su un testo del Muratori
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
CREATIVITÀ E IMMAGINAZIONE COSMOTEANDRICA (cosmologia, teologia, e antropo-logia!). QUALE DIO: AMORE ("CHARITAS") O "MAMMONA"? QUALE MADRE: "MARIA-EVA" O "MARIA-MARIA"?!....*
SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
CAPPELLA PAPALE
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Mercoledì, 1° gennaio 2020
«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana!
Nel primo giorno dell’anno celebriamo queste nozze tra Dio e l’uomo, inaugurate nel grembo di una donna. In Dio ci sarà per sempre la nostra umanità e per sempre Maria sarà la Madre di Dio. È donna e madre, questo è l’essenziale. Da lei, donna, è sorta la salvezza e dunque non c’è salvezza senza la donna. Lì Dio si è unito a noi e, se vogliamo unirci a Lui, si passa per la stessa strada: per Maria, donna e madre. Perciò iniziamo l’anno nel segno della Madonna, donna che ha tessuto l’umanità di Dio. Se vogliamo tessere di umanità le trame dei nostri giorni, dobbiamo ripartire dalla donna.
Nato da donna. La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna. Le donne sono fonti di vita. Eppure sono continuamente offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che portano in grembo. Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità. Quante volte il corpo della donna viene sacrificato sugli altari profani della pubblicità, del guadagno, della pornografia, sfruttato come superficie da usare. Va liberato dal consumismo, va rispettato e onorato; è la carne più nobile del mondo, ha concepito e dato alla luce l’Amore che ci ha salvati! Oggi pure la maternità viene umiliata, perché l’unica crescita che interessa è quella economica. Ci sono madri, che rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone che hanno la pancia piena, ma di cose, e il cuore vuoto di amore.
Nato da donna. Secondo il racconto della Bibbia, la donna giunge al culmine della creazione, come il riassunto dell’intero creato. Ella, infatti, racchiude in sé il fine del creato stesso: la generazione e la custodia della vita, la comunione con tutto, il prendersi cura di tutto. È quello che fa la Madonna nel Vangelo oggi. «Maria - dice il testo - custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (v. 19). Custodiva tutto: la gioia per la nascita di Gesù e la tristezza per l’ospitalità negata a Betlemme; l’amore di Giuseppe e lo stupore dei pastori; le promesse e le incertezze per il futuro. Tutto prendeva a cuore e nel suo cuore tutto metteva a posto, anche le avversità. Perché nel suo cuore sistemava ogni cosa con amore e affidava tutto a Dio.
Nel Vangelo questa azione di Maria ritorna una seconda volta: al termine della vita nascosta di Gesù si dice infatti che «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (v. 51). Questa ripetizione ci fa capire che custodire nel cuore non è un bel gesto che la Madonna faceva ogni tanto, ma la sua abitudine. È proprio della donna prendere a cuore la vita. La donna mostra che il senso del vivere non è continuare a produrre cose, ma prendere a cuore le cose che ci sono. Solo chi guarda col cuore vede bene, perché sa “vedere dentro”: la persona al di là dei suoi sbagli, il fratello oltre le sue fragilità, la speranza nelle difficoltà; vede Dio in tutto.
Mentre cominciamo il nuovo anno chiediamoci: “So guardare col cuore? So guardare col cuore le persone? Mi sta a cuore la gente con cui vivo, o le distruggo con le chiacchiere? E soprattutto, ho al centro del cuore il Signore? O altri valori, altri interessi, la mia promozione, le ricchezze, il potere?”. Solo se la vita ci sta a cuore sapremo prendercene cura e superare l’indifferenza che ci avvolge. Chiediamo questa grazia: di vivere l’anno col desiderio di prendere a cuore gli altri, di prenderci cura degli altri. E se vogliamo un mondo migliore, che sia casa di pace e non cortile di guerra, ci stia a cuore la dignità di ogni donna. Dalla donna è nato il Principe della pace. La donna è donatrice e mediatrice di pace e va pienamente associata ai processi decisionali. Perché quando le donne possono trasmettere i loro doni, il mondo si ritrova più unito e più in pace. Perciò, una conquista per la donna è una conquista per l’umanità intera.
Nato da donna. Gesù, appena nato, si è specchiato negli occhi di una donna, nel volto di sua madre. Da lei ha ricevuto le prime carezze, con lei ha scambiato i primi sorrisi. Con lei ha inaugurato la rivoluzione della tenerezza. La Chiesa, guardando Gesù bambino, è chiamata a continuarla. Anch’ella, infatti, come Maria, è donna e madre, la Chiesa è donna e madre, e nella Madonna ritrova i suoi tratti distintivi. Vede lei, immacolata, e si sente chiamata a dire “no” al peccato e alla mondanità. Vede lei, feconda, e si sente chiamata ad annunciare il Signore, a generarlo nelle vite. Vede lei, madre, e si sente chiamata ad accogliere ogni uomo come un figlio.
Avvicinandosi a Maria la Chiesa si ritrova, ritrova il suo centro, ritrova la sua unità. Il nemico della natura umana, il diavolo, cerca invece di dividerla, mettendo in primo piano le differenze, le ideologie, i pensieri di parte e i partiti. Ma non capiamo la Chiesa se la guardiamo a partire dalle strutture, a partire dai programmi e dalle tendenze, dalle ideologie, dalle funzionalità: coglieremo qualcosa, ma non il cuore della Chiesa. Perché la Chiesa ha un cuore di madre. E noi figli invochiamo oggi la Madre di Dio, che ci riunisce come popolo credente. O Madre, genera in noi la speranza, porta a noi l’unità. Donna della salvezza, ti affidiamo quest’anno, custodiscilo nel tuo cuore. Ti acclamiamo: Santa Madre di Dio. Tutti insieme, per tre volte, acclamiamo la Signora, in piedi, la Madonna Santa Madre di Dio: [con l’assemblea] Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio!
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Federico La Sala
Natale*
Natale. Guardo il presepe scolpito,
dove sono i pastori appena giunti
alla povera stalla di Betlemme.
Anche i Re Magi nelle lunghe vesti
salutano il potente Re del mondo.
Pace nella finzione e nel silenzio
delle figure di legno: ecco i vecchi
del villaggio e la stella che risplende,
e l’asinello di colore azzurro.
Pace nel cuore di Cristo in eterno;
ma non v’è pace nel cuore dell’uomo.
Anche con Cristo e sono venti secoli
il fratello si scaglia sul fratello.
Ma c’è chi ascolta il pianto del bambino
che morirà poi in croce fra due ladri?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FLS
Manganelli: basta con il Natale!
di Marco Belpoliti (Doppiozero, 24.12.2015)
Basta con il Natale!, l’esclamazione prorompe dalle pagine de Il presepio (Adelphi 1992) che Giorgio Manganelli sta redigendo alla fine degli anni Settanta nella sua casa romana seduto alla macchina per scrivere. In verità nel dattiloscritto che esce dal rullo della macchina non dice proprio così. Manganelli è più sottile, meno greve, ma non per questo meno diretto o pesante: “La mia memoria dei Natali infantili è estremamente penosa”; e ancora: “I preparativi per il Natale hanno qualcosa di cupo, di tetro, per l’appunto come preparativi per tener testa ad una invasione, o ad una minaccia non precisa che si addensa sulle nostre indifendibili frontiere”. Cosa ha il Natale per sembrargli così pernicioso? Al Natale “non si dà fuga; in nessun modo”. Nessuno può evadere dal Natale.
Per questo Manganelli decide di immergersi nel Natale, lo fa affrontando una delle sue “istituzioni”: il presepe. Il testo che sta scrivendo ha come oggetto proprio questa “scena”, come la chiama Manganelli. Questo è il presepe. Se c’è una felicità natalizia - e chi la nega? - c’è però anche una certa “infelicità natalizia”, scrive chi ha redatto il risvolto di questo libro stampato postumo nel 1992, vent’anni dopo essere uscito dalla macchina del Manga. Come tutti coloro che riescono a vedere l’altra faccia delle cose, il luogo in ombra, oscuro, nascosto, egli coglie l’elemento pericoloso che il Natale reca con sé, quello stesso che lo rende davvero rischioso, difficile, grave.
Il Natale è la festa dei bambini, per i bambini. Anche gli adulti quel giorno diventano bambini. Ma se fa parte della galassia infantile, è anche vero che questo accade perché è uno dei “riti necessari alla produzione dei morituri”. Di più: con il Natale, e non solo con questo, si fa “moneta dell’infanzia per dilazionare il disastro del mondo”. Ritiene che sia un modo per procrastinare il disastro usando l’infanzia. Non c’è rimedio tuttavia a tutto questo, dal momento che se bastasse porre fine al Natale per scongiurare questo stato di cose, staremmo tutti meglio. Ma al Natale non si sfugge, ripete, ragione per cui non lo si può neppure abolire.
Cosa trova di così terribile Manganelli nel Natale? Il fatto che è uno spettacolo: messa in scena di una nascita; chiama tutti ad assistere a questo evento. Ma è proprio un evento? Ne dubita. Il presepe è la negazione della nascita. Nel presepe non nasce nessuno. Le statuine vengono poste lì per rappresentare. Non nasce nessun Bambino. Nel Natale convergono, e in parte si confondono, il Bambino, ovvero Gesù, il-già-nato, e il Vecchio, ovvero Babbo Natale, la vecchiezza come forma del Mondo. Forse si confondono anche le due coppie puer-senex e senex-puer; si tratta in definitiva dell’incontro tra due mitologie e due teologie.
Quello che disturba lo scrittore è che il Natale sia essenzialmente una rappresentazione. Tutto complotta per produrre le innocue lacrime del sentimentalismo che hanno il solo scopo di tenere a bada suicidio e omicidio, tutta la volgarità “contro cui preme la demenza”. Che sono poi i sintomi della condizione umana, profondamente umana. Scrive nelle prime pagine: “Quelle fragili fole natalizie erano terribilmente pertinenti la denuncia della mia, della nostra indecorosità; ero circondato da magie sarcastiche. Investiva le famiglie di una nobiltà sacerdotale che non poteva svelare l’odiosa, repulsiva tristizia dei conflitti coniugali e filiali. Erano, e sono, giorni, notti fitti di fantasie funerarie, anche delittuose; il tutto mescolato a pianti di verace compunzione, a teneri abbandoni, a propositi inani di riscatto, dopo naturalmente, quel delitto che per altro era impossibile”. E ancora: “mai come a Natale la demenza si lascia respirare ai dementi”.
Nel presepe, istituzione natalizia in cui Manganelli stesso si iscrive con un gesto proditorio, e anche felice, nonostante tutto, si manifesta l’infelicità stessa del Natale, “una infelicità esclusiva, viscida, serpentesca, e insieme calamitosa”. Nella sua visione apocalittica che gli fa vedere nel Natale una cigolante macchinazione cosmica, si produce uno spettacolo. Una rappresentazione che occulta ogni altra cosa e ci fa guardare le figurine di cartapesta del presepe. Eccole: la Madre, il Padre, i Pastori, la Vecchietta, il Ruscello, l’Asino e il Bue. E poi: gli Angeli, e persino i pipistrelli. Senza la Madre la rappresentazione stessa non sarebbe neppure pensabile, non prenderebbe avvio la macchina teatrale che include il Bambino. Lui, che ne sembrerebbe il protagonista, non lo è.
Il presepe “non ha fondali; dietro non c’è niente”. Che si tratti di una mangiatoia o di una spelonca, di una grotta o di una caverna, in ogni caso è un luogo di passaggio, un corridoio. Il presepe è collegato con l’Inferno, ne rappresenta, a detta di Manganelli, una delle porte d’ingresso. Da dove viene il presepe, dal Cielo o dal mondo ctonio? Com’è possibile che esca proprio dal basso? Perché è degli inferi la simulazione, si risponde. Dal buio della caverna sono usciti il Padre, la Madre, il Bambino. Altrimenti non si spiegherebbe la sua capacità di essere fonte purissima d’angoscia. Il Natale la suscita, questa angoscia.
Nelle pagine di questo dattiloscritto rinvenuto da Ebe Flamini tra le carte di Manganelli dopo la sua morte, sono due i personaggi che più colpiscono: l’asino e il bue. A sua detta si tratta degli unici esseri viventi dell’intera rappresentazione sacra: non somigliano per nulla alle statue taciturne, ai simulacri senza età. Loro non escono dalla caverna, non appartengono al mondo infero. La loro è una singolare alleanza. “Un errore li ha generati”, scrive. Sono due animali umili, percossi, e uno, il bue, poi, è castrato. Questo è poi un vero enigma. La mitezza del bue ha qualcosa di torvo. La sua natura è di essere appunto un castrato: era un toro poderoso, scrive Manganelli, e generante. La sua mitezza è il rovesciamento della forza. L’asino è la potenza del sesso, la sua forma furente, persino pericolosa. I due animali sono i veri padroni di casa - stalla, mangiatoia, caverna, antro, rifugio -, loro due, il castrato e il priapeo, sono quelli posti più vicini al Bambino. “Sono viventi che amano la noia”, scrive.
Seduto alla sua macchina per scrivere, questo teologo negativo batte furiosamente sui tasti producendo un delirio a-teologico, una sua macchina teologica (sia pure di teologia negativa) da opporre a quella delle figurine di cartapesta che giacciono nel presepe. La sua è una felicità del vanverare, del parlare a vuoto, che tuttavia coglie un elemento fondamentale: la natura infera di questa scena che colleghiamo all’avvento del Regno, alla Nascita del Salvatore, alla venuta di Gesù nel Mondo. Il Bambino c’è già, è lì. Non è nato, c’è.
Il libro si conclude con una scena. E non si sa dove Manganelli l’abbia trovata, in quale presepe l’abbia vista. Forse l’ha sognata? Forse. Eccola. La Vecchia, figura archetipica, cava dalla sua sacca una trottola e la lascia cadere nel buco: nel nulla, nell’antro infernale che si apre dentro il presepe. Dal buco è uscito il Natale stesso con la sua forma infera. “Per quel bel bambino”, dice la Vecchia. Poi getta la trottola policroma, oggetto magico, che “subito discende con un sibilo melodioso, infernale”. È fatta. Nessuno può più fuggire. Il Disastro è accaduto. Si dia inizio alla festa. Il Natale può cominciare. L’angoscia è al culmine, la catastrofe dispiegata. Sediamoci a tavola tranquilli e pranziamo. Viva il Natale!
L’udienza. Il Papa: il presepe è Vangelo domestico
Francesco all’udienza generale: porta il Vangelo nelle case, nelle scuole, nei luoghi di lavoro e di ritrovo, negli ospedali e nelle case di cura, nelle carceri, nelle piazze
di Redazione Internet (Avvenire, mercoledì 18 dicembre 2019)
«Fare il presepe è celebrare la vicinanza di Dio. Dio sempre è stato vicino al suo popolo, ma quando si è incarnato, è nato, è stato troppo vicino, molto vicino, vicinissimo: è riscoprire che Dio è reale, concreto, vivo e palpitante». Lo ha detto il Papa, che nella catechesi dell’udienza di oggi, sulla scorta della sua recente lettera apostolica e a una settimana dal Natale, ha ribadito che «il presepe infatti è come un Vangelo vivo»: «Porta il Vangelo nei posti dove si vive: nelle case, nelle scuole, nei luoghi di lavoro e di ritrovo, negli ospedali e nelle case di cura, nelle carceri e nelle piazze. E lì dove viviamo ci ricorda una cosa essenziale: che Dio non è rimasto invisibile in cielo, ma è venuto sulla Terra, si è fatto uomo, un bambino».
«Dio non è un signore lontano o un giudice distaccato, ma è amore umile, disceso fino a noi», ha fatto notare il Papa: «Il Bambino nel presepe ci trasmette la sua tenerezza. Alcune statuine raffigurano il Bambinello con le braccia aperte, per dirci che Dio è venuto ad abbracciare la nostra umanità. Allora è bello stare davanti al presepe e lì confidare al Signore la vita, parlargli delle persone e delle situazioni che abbiamo a cuore, fare con lui il bilancio dell’anno che sta finendo, condividere le attese e le preoccupazioni».
Preparasi al Natale facendo il presepe
«In questi giorni, mentre si corre a fare i preparativi per la festa, possiamo chiederci: "Come mi sto preparando alla nascita del Festeggiato?"», ha esordito il Papa. «Un modo semplice ma efficace di prepararsi è fare il presepe. Anch’io quest’anno ho seguito questa via: sono andato a Greccio, dove san Francesco fece il primo presepe, con la gente del posto. E ho scritto una lettera per ricordare il significato di questa tradizione. Cosa significa il presepe nel tempo di Natale».
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Facendo il presepe «possiamo anche invitare la Sacra Famiglia a casa nostra, dove ci sono gioie e preoccupazioni, dove ogni giorno ci svegliamo, prendiamo cibo e siamo vicini alle persone più care» ha detto il Papa.
«Accanto a Gesù vediamo la Madonna e san Giuseppe», l’immagine evocata da Francesco: «Possiamo immaginare i pensieri e i sentimenti che avevano mentre il Bambino nasceva nella povertà: gioia, ma anche sgomento».
«La parola presepe letteralmente significa mangiatoia, mentre la città del presepe, Betlemme, significa casa del pane», ha ricordato il Papa: «Mangiatoia e casa del pane: il presepe che facciamo a casa, dove condividiamo cibo e affetti, ci ricorda che Gesù è il nutrimento essenziale, il pane della vita. È Lui che alimenta il nostro amore, è Lui che dona alle nostre famiglie la forza di andare avanti e di perdonarci».
Il presepe del "lasciamo riposare mamma"
«Il presepe è attuale, è l’attualità di ogni famiglia» ha aggiunto Francesco "a bracci". «Ieri mi hanno regalato un’immaginetta di un presepe speciale, piccolina - ha raccontato - e si chiamava "lasciamo riposare mamma". E c’era la Madonna addormentata e Giuseppe col bambinello lì, facendolo addormentare. Quanti di voi dovete dividere la notte tra marito e moglie per il bambino o la bambina che piange, piange, piange! Lasciate riposare mamma: la tenerezza di una famiglia, del matrimonio».
Francesco ha sottolineato infine che «il presepe ci ricorda che Gesù viene nella nostra vita concreta». «E questo è importante - ha aggiunto -: fare un piccolo presepe a casa,sempre, perché è il ricordo che Dio è venuto da noi, nato da noi, ci accompagna nella vita, è uomo come noi, si è fatto uomo come noi. Nella vita di tutti i giorni non siamo più soli. Egli abita con noi. Non cambia magicamente le cose ma, se lo accogliamo, ogni cosa può cambiare».
«Vi auguro allora - ha concluso il Papa - che fare il presepe sia l’occasione per invitare Gesù nella vita. Quando noi facciamo il presepe a casa è come aprire la porta e dire "Entra Gesù". È fare concreta questa vicinanza, questo invito a Gesù perché venga nella nostra vita. Perché se lui abita la nostra vita, essa rinasce. E se la vita rinasce è davvero Natale. Buon Natale a tutti».
«Grazie per gli auguri» ricevuti nei giorni scorsi
Al termine dell’udienza Francesco ha ringraziato «quanti in questi giorni, da tante parti del mondo, mi hanno inviato messaggi augurali per il 50/o di sacerdozio e per il compleanno. Grazie soprattutto per il dono della preghiera».
Profezia è storia /27.
È uomo il nome del re
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 7 dicembre 2019)
Un padre giusto e un grande miracolo non sono una garanzia che i figli continueranno a scrivere una storia giusta e buona. Dopo Ezechia, re buono e fedele che salvò Gerusalemme per la sua fede in Dio, in Giuda si susseguono due re malvagi, Manasse e Amon (2 Re 21), che riedificano gli altari agli dèi stranieri, riprendono e riattivano gli antichi culti popolari cananei che non si erano mai spenti tra la gente. Dopo la bella parentesi di Ezechia, ritorna l’idolatria, l’antica malattia di Israele - e di tutti gli uomini, che sono costruttori infaticabili di idoli per divenirne adoratori: siamo consumatori di molte merci, ma prima e sopra tutto siamo consumatori di idoli.
Nel ciclo dell’alternanza del bene e del male, dopo Amon arriva Giosia, il nuovo Davide, amatissimo dalla Bibbia almeno quanto il suo avo Ezechia: «Quando divenne re, Giosia aveva otto anni; regnò trentun anni a Gerusalemme... Fece ciò che è retto agli occhi di YHWH» (2 Re 22, 1-2).
Giosia si presenta come un restauratore del tempio. Il testo descrive i lavori con parole molto simili a quelle che il capitolo 12 aveva utilizzato per i restauri del re Ioas. Di nuovo l’argento, raccolto dai "custodi della soglia" viene fuso, trasformato in monete e consegnato ai carpentieri e ai muratori. La descrizione della fabbrica del tempio si chiude con le stesse parole usate per il restauro di Ioas: «Non si controlli il denaro consegnato nelle loro mani, perché lavorano con onestà» (22, 7). -Le parole buone sull’onestà e sulla lealtà dei lavoratori non si devono mai tacere, soprattutto quando le incontriamo nella Bibbia; e soprattutto oggi, quando prima dei posti di lavoro abbiamo bisogno di parole buone sui lavoratori, di benedizioni del lavoro, senza le quali i posti di lavoro non ci sono o sono cattivi.
I lavori di restauro producono uno degli eventi più importanti della Bibbia: da quel cantiere emerge un libro: «Il sommo sacerdote Chelkia disse allo scriba Safan: "Ho trovato nel tempio di YHWH il libro della Legge (Sefer hat Torà)"» (22, 8). Un ritrovamento eccezionale. Non sappiamo quanto ci sia di storico in questa scoperta, essendo comune nella letteratura antica coeva poggiare una riforma religiosa sul ritrovamento di un testo, reale o immaginario, che diventava mito fondativo della nuova età. Si è scritto molto su questo ritrovamento. Per alcuni storici quel libro era una prima versione di quello oggi conosciuto come libro del Deuteronomio, o di quella sua parte che contiene la Legge di Mosè (Torà). Un muratore, o forse un gruppo di teologi, ritrovò nel tempio o nel mito una fondazione più antica della loro fede, su cui un gruppo di riformatori, in un tempo di corruzione religiosa fondò la sua riforma.
Non è raro che la minoranza profetica che vuole una riforma radicale basi la sua azione su qualcosa di più antico, perché in quell’antico c’è qualcosa di puro e genuino che nel tempo si è contaminato ed è decaduto. Qualche volta questo "qualcosa" è una tradizione dimenticata, alcune parole del fondatore cancellate dal tempo; altre volte è un testo, un libro, una lettera, un "vangelo" smarrito o considerato dai più apocrifo, che invece, per i riformatori, conteneva un messaggio autentico.
Nel mondo antico, inclusa la Bibbia, ciò che era più antico era anche più vero. In quella cultura c’era la convinzione che l’inizio contenesse il principio ideale, che lì vi fosse la promessa prima che arrivassero i nostri compromessi, il patto prima delle nostre infedeltà. C’era la certezza che per uscire dalla crisi del presente la principale e forse unica risorsa fosse un passato diverso, quella terra incontaminata e ancora fertile per generare futuro - «in principio non era così». Come quando, precipitati dentro un orizzonte accorciato e abbuiato, sentiamo che per ridonare nuova vita al nostro rapporto dobbiamo tornare ai giorni del primo amore, a quelle parole diverse capaci di pronunciare una speranza infinita. Capiamo che dobbiamo provare a rivedere il cuore dell’altro e il nostro come lo abbiamo conosciuto in quel primo patto, e poi fare in modo che quel passato risusciti il presente che appare morto.
Non è nostalgia, è il suo opposto: nella Bibbia si chiama memoria. In questi atti non si guarda indietro, si guarda solo avanti. Come Mosè, che dal Monte Nebo non guardava l’Egitto ma il Giordano. A volte quel testo antico lo si ritrova davvero dentro un "restauro" di un’opera, emerge come dono da un lavoro sulle fondamenta. Altre volte il libro si "crea’", nasce dall’ascolto del dolore della gente. La storia può essere "prodotta" oggi da un amore più grande, perché il libro può essere generato dalla carne e dal sangue di chi crede che quell’origine non sia persa per sempre e può risorgere. Le identità, individuali e collettive, sono sempre creazioni del presente, anche quando partono dal passato.
Il re giusto Giosia partì dal ritrovamento di un libro antico, e riformò il culto: distrusse gli altari pagani che popolavano la sua regione, eliminò dal tempio i prostituti sacri, cacciò i sacerdoti cananei, distrusse anche l’antico altare sacro di Betel (23, 4-14). Inoltre «Giosia rese impuro il Tofet, che si trovava nella valle di Ben-Innòm, perché nessuno vi facesse passare il proprio figlio o la propria figlia per il fuoco in onore di Moloc» (23, 10). Ogni buona riforma comincia non uccidendo più i bambini, smettendo di passarli per il fuoco per offrirli ai vari Moloc.
La riforma di Giosia fu un passaggio essenziale nella storia della salvezza. Perché segnò il passaggio dal tempio al libro, che divenne centro e "luogo" della fede. Un’operazione che si rivelò decisiva per il tempo dell’esilio che presto sarebbe arrivato. Israele riuscì a sopravvivere settant’anni senza tempio, perché Giosia e quella scuola di scribi e sacerdoti avevano spostato l’asse dal tempio al libro.
La Torà divenne il tempio mobile, la nuova Arca dell’alleanza che seguiva la carovana nel mondo e nel tempo, nelle mille diaspore e distruzioni. Quella distruzione di Giosia divenne la possibilità di conservare la fede dentro altre distruzioni devastanti e totali.
Colpisce in questi versetti la forza della distruzione creatrice di Giosia: «Il re comandò... di portare fuori dal tempio tutti gli oggetti fatti in onore di Baal, di Asera e di tutto l’esercito del cielo... Destituì i sacerdoti creati dai re di Giuda per offrire incenso sulle alture... e quanti offrivano incenso a Baal, al sole e alla luna, ai segni dello zodiaco e a tutto l’esercito del cielo» (23, 4-5). Senza il coraggio della distruzione non si porta a termine nessuna riforma seria, perché la corruzione consiste quasi sempre nell’accumulo - progressivo, continuo, non intenzionale - di cose, idee-ideologie-idoli, pratiche, tradizioni, che entrano poco a poco nel "tempio" della città e dell’anima; e così quel luogo nel quale all’inizio c’era "soltanto una voce", quella nudità parlante di infinito dove avevamo un giorno toccato il cielo, viene riempita di manufatti, fino a rendere impercettibile il suono della prima voce. Ma lo sgombero dei locali è molto costoso - noi e i nostri amici ci affezioniamo troppo ai manufatti sacri -, e così quasi tutte le riforme falliscono per l’incapacità di sostenere il dolore della distruzione. Perché la riforma è l’operazione di svuotamento per tornare al nudo tempio, e poi pregare e sperare che la voce torni a parlare. Non sempre la voce torna, perché il tempo delle voci è spesso quello della giovinezza; ma è preferibile un tempio vuoto e muto a un tempio pieno con voci finte, perché finché lo spazio resta disabitato possiamo sempre sperare di udire in quel silenzio una voce diversa, fosse anche la voce dell’ultimo angelo.
Importante, poi, in questo capitolo fondamentale, è l’entrata in scena di una delle profetesse nominate esplicitamente nella Bibbia: Hulda (o Culda). Giosia rimane scioccato dalle parole del libro ritrovato (quelle dove si annunciano le sventure del popolo dovute alle sue infedeltà), e vuole una prova dell’autenticità di quel libro. Nella Bibbia i "certificatori" della parola vera di YHWH erano i profeti: «Il sacerdote Chelkia, insieme con Achikàm, Acbor, Safan e Asaià, si recò dalla profetessa Culda, moglie di Sallum...; essi parlarono con lei» (22, 14).
La profetessa Hulda convalida quella parola come parola di YHWH, e profetizza che Giosia verrà risparmiato dalla distruzione di Gerusalemme. Hulda profetizza con parole molto simili a quelle di Geremia, che invece qui non viene nominato, sebbene in quel periodo (attorno al 620-622) fosse già attivo in città.
Perché viene consultata una profetessa, una donna, e per un parere di estrema importanza? Una domanda che si sono fatti in molti, già nei tempi antichi, ipotizzando qualche risposta. Non abbiamo dalla Bibbia