MICHELANGELO, PER UN RITRATTO A PROUST: UNA ILLUMINANTE INDICAZIONE DI WALTER BENJAMIN. Materiali sul tema - di Federico La Sala
I. I tredici volumi della Recherche di temps perdu di Marcel Proust sono il risultato di una sintesi impossibile, in cui lo sprofondarsi del mistico, l’arte del prosatore, la verve del satirico, il sapere del dotto e l’ossessione del monomane convergono in un’opera autobiografica. È stato detto giustamente che tutte le grandi opere della letteratura fondano un genere o lo dissolvono, e cioè costituiscono un caso a sé. Ma tra di esse questa è una delle più difficili da determinare. A cominciare dalla struttura, dove sono insieme rappresentate la libera invenzione, la memoria, il commentario, fino alla sintassi di frasi senza sponde (il Nilo del linguaggio, che qui trabocca a fecondare i campi della verità), tutto è fuori dalla norma. Che questo grande caso unico della poesia rappresenti nello stesso tempo la sua massima opera negli ultimi decenni, è la prima, istruttiva conoscenza a cui perviene l’osservatore. E le condizioni che stavano alla base di quest’opera sono malsane in sommo grado. Una malattia insolita, ricchezza non comune e una disposizione anormale. Non tutto in questa vita è esemplare, ma tutto ha valore di esempio. Essa mostra che oggi l’opera letteraria superiore ha la sua sede nel cuore dell’impossibilità, al centro e insieme nel punto d’indifferenza di tutti i pericoli, e contrassegna questa grande realizzazione dell’«opera di tutta una vita» [Lebenswerk] come l’ultima per molto tempo. L’immagine di Proust è l’estrema espressione fisiognomica che potesse assumere l’incessantemente crescente discrepanza di poesia e vita. È questa la morale che giustifica il tentativo di rievocarla.
Si sa che Proust nella sua opera non ha descritto una vita così com’è stata, ma una vita quale la ricorda colui che l’ha vissuta. Ma ci siamo espressi in modo ancora impreciso e troppo grossolano. Poiché qui, per l’autore che ricorda, la parte principale non è affatto svolta da ciò che egli ha vissuto, ma dal lavoro del suo ricordo, dalla tela di Penelope della sua memoria. O non sarebbe meglio dire dalla tela di Penelope del suo oblio? La «memoria involontaria» di Proust non è forse assai più vicina all’oblio che a ciò che comunemente si chiama ricordo? E quest’opera della memoria spontanea, in cui il ricordo è la trama e l’oblio l’ordito, non è forse il contrario dell’opera di Penelope, piuttosto che la sua copia? Poiché qui il giorno disfà ciò che aveva fatto la notte. Ogni mattino, quando ci svegliamo, teniamo in mano, per lo più debolmente, solo per qualche frangia il tappeto dell’esistenza vissuta, quale l’ha tessuto in noi l’oblio. Ma ogni giorno disfà il tessuto, gli ornamenti dell’oblio con l’agire pratico, e, ancor di più, con il ricordare legato alla prassi. È per questo che Proust alla fine ha trasformato i suoi giorni in notti, per dedicare tutte le sue ore all’opera, indisturbato, nella stanza buia, alla luce artificiale, per non lasciarsi sfuggire nessuno degli intricati arabeschi. (...).
III. Nel secolo scorso c’era a Grenoble un’osteria che si chiamava «Au temps perdu» (non so se ci sia ancora). Anche da Proust noi siamo avventori che sotto l’insegna oscillante varchiamo una soglia oltre la quale ci attendono l’eternità e l’ebbrezza. (...) Ma questa eternità non è affatto platonica o utopistica (...) L’eternità di cui Proust dischiude degli aspetti non è il tempo illimitato, ma il tempo intrecciato. Ciò che veramente gli importa è il corso del tempo nella sua forma più reale, e cioè intrecciata con lo spazio, che in nessun altro luogo domina così inalterata come nel ricordo, interiormente, e nella senescenza, esternamente. Seguire il contrappunto di senescenza e ricordo significa penetrare nel cuore del mondo di Proust, nell’universo dell’intreccio.
È il mondo nello stato dell’analogia, e in esso dominano le «corrispondenze», che colse per primo il romanticismo e con la massima profondità Baudelaire, ama che Proust fu il solo a saper evidenziare nella nostra vita vissuta. È l’opera della memoria involontaria, della forza del ringiovanimento che non è inferiore all’inesorabile invecchiare. Dove ciò che è stato si rispecchia nel nuovo, immacolato «istante», un doloroso choc di ringiovanimento lo afferra ancora una volta così irresistibilmente come la direzione di Guermantes si intrecciò per Proust con la direzione di Swann, quando (nel tredicesimo volume) egli percorre per l’ultima volta la contrada di Combray e scopre l’intreccio delle due vie. Nell’istante il paesaggio muta direzione come un bambino. «Ah, come è grande il mondo alla luce delle lampade, come è piccolo agli occhi del ricordo!» - Proust ha realizzato l’impresa inaudita di far invecchiare, nell’istante, tutto il mondo di un’intera vita umana. Ma proprio questa concentrazione in cui fulmineamente si consuma ciò che altrimenti soltanto appassisce e si spegne lentamente, si chiama ringiovanimento.
A la recherche du temps perdu è il continuo tentativo di caricare un’intera vita della suprema presenza dello spirito. Non è già la riflessione, ma la presentificazione che è il procedimento di Proust.
Egli è dominato dalla verità che noi tutti non abbiamo tempo di vivere i veri drammi dell’esistenza che ci è destinata. Per questo invecchiamo - non per altro. Le rughe e le grinze sul nostro volto sono i biglietti da visita delle grandi passioni, dei vizi, delle conoscenze che passarono da noi -, ma noi, i padroni di casa, non c’eravamo.(...)
E del resto, quanto sia stata profonda la simbiosi di questa determinata creatività e di questa determinata sofferenza è dimostrato con la massima evidenza dal fatto che Proust non giunge mai a quell’eroica ribellione con cui altri uomini dotati di forza creativa insorgono contro le loro sofferenze. E, quindi si può dire, d’altro lato, che una così profonda complicità con il corso del mondo e con l’esistenza come quella di Proust avrebbe dovuto infallibilmente portare a una soddisfazione pigra e volgare, se si fosse fondata su una qualsiasi altra base che quella di una sofferenza così profonda e costante. Ma in tal modo questa sofferenza era destinata a farsi indicare il suo posto nel grande processo dell’opera da un furore senza desideri e senza pentimenti.
Per la seconda volta è stata eretta un’impalcatura come quella di Michelangelo, su cui l’artista, con la testa arrovesciata, dipingeva la creazione nel soffitto della Sistina: il letto di malato, dove Marcel Proust ha dedicato alla creazione del suo microcosmo gli innumerevoli fogli che egli ricopriva con la sua scrittura, nell’aria”.
(Walter Benjamin, “Per un ritratto di Proust”, in “Avanguardia e rivoluzione”, Torino, Einaudi, 1973, pp. 27-41).
SUL CONCETTO DI PRESENTE STORICO.Note per le “Tesi di filosofia della storia” di Walter Benjamin pdf (Federico La Sala).
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO. Materiali sul tema, per approfondimenti
UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI: STORIA DELLE IDEE E DELLE IMMAGINI. A CONTURSI TERME (SALERNO), IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA, E STORIA. UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI...
"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE": IL "SOGNO" DI MICHELANGELO. Sibille e profeti: sulle tracce di Benjamin - di Nicola Fanizza
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala (15.02.2018)
STORIA E LETTERATURA, TEOLOGIA-POLITICA, E MEMORIA DELLA TERRA PROMESSA, DEL PARADISO TERRESTRE:
WALTER BENJAMIN, LA MUSICA DEGLI ANGELI (E DELLE SIRENE), E LA METASTORIA "COSMICOMICA".
MEMORIA COSMICOMICA DI ITALO CALVINO E DANTE ALIGHIERI. STORIA, LETTERATURA E ANTROPOLOGIA:
USCIRE DALLA CADUTA "COSMOLOGICA", DALL’ ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA, DALL’INFERNO (DIVINA COMMEDIA),
CON RAPIDITA’ (ITALO CALVINO):
"FESTINA LENTE ("Lezioni americane"), "NATI A FORMAR L’ANGELICA FARFALLA (Purg. X, 125).
"O superbi cristian, miseri lassi,
che, de la vista de la mente infermi,
fidanza avete ne’ retrosi passi,
non v’accorgete voi che noi siam vermi
nati a formar l’angelica farfalla,
che vola a la giustizia sanza schermi?"
(Dante Alighieri, Purg., 121-126).
L’ULTIMO RESPIRO DI BERGOTTE
di Marcel Proust *
«Seppi che quel giorno era avvenuta una morte che mi procurò molto dolore, quella di Bergotte. È noto che la sua malattia durava da molto tempo. Non, evidentemente, quella di cui aveva sofferto inizialmente e che era naturale. La natura sembra capace di dare soltanto malattie piuttosto brevi. Ma la medicina si è arrogata l’arte di prolungarle. I rimedi, la remissione che essi procurano, il malessere che la loro interruzione fa rinascere, compongono un simulacro di malattia che l’abitudine del paziente finisce col rendere stabile, con lo stilizzare, allo stesso modo che i bambini tossiscono regolarmente in maniera convulsa molto tempo dopo esser guariti dalla pertosse. Poi i rimedi agiscono di meno, se ne aumenta la dose, essi non fanno più alcun bene, ma hanno cominciato a fare del male grazie a quell’indisposizione durevole. La natura non avrebbe concesso loro una così lunga durata. È molto stupefacente che la medicina, quasi eguagliando la natura, possa forzare a restare a letto, a continuare, pena la morte, l’uso di un farmaco. Da quel momento, la malattia innestata artificialmente ha messo radice, è divenuta una malattia secondaria ma vera, con la sola differenza che le malattie naturali guariscono, ma mai quelle create dalla medicina, perché essa ignora il segreto della guarigione.
Da anni Bergotte non usciva più di casa. D’altronde, non aveva mai amato la mondanità, o l’aveva amata un giorno solo, per disprezzarla poi come tutto il resto e nella maniera che gli era propria, cioè non disprezzando perché non si può ottenere, ma non appena si è ottenuto. Viveva così modestamente che nessuno sospettava quanto fosse ricco, e se anche si fosse saputo, ci si sarebbe ancora ingannati, perché allora lo avrebbero creduto avaro mentre nessuno fu mai così generoso. Lo era soprattutto con certe donne, certe ragazzine per meglio dire, e che si vergognavano di ricevere tanto per così poco. Egli si scusava con se stesso perché sapeva che non avrebbe potuto produrre mai tanto bene se non in un’atmosfera amorosa. L’amore, è dir troppo, il piacere un po’ radicato nella carne, giova al lavoro letterario perché elimina gli altri piaceri, per esempio i piaceri mondani, quelli che sono gli stessi per tutti. E anche se quest’amore porta con sé delle delusioni, almeno agita anche in questo modo la superficie dell’anima, che altrimenti rischierebbe di diventare stagnante. Il desiderio non è dunque inutile per lo scrittore, innanzitutto per allontanarlo dagli altri uomini e dal pericolo di conformarsi a loro, poi per rimettere un po’ in movimento una macchina spirituale che, passata una certa età, ha tendenza ad immobilizzarsi. Non si arriva ad essere felici ma si fanno delle osservazioni sulle ragioni che impediscono di esserlo e che ci sarebbero restate invisibili senza quei bruschi spiragli della delusione. I sogni, beninteso, non sono realizzabili, lo sappiamo; non ne faremmo forse senza il desiderio, e invece è utile farne per vederli fallire e perché il loro fallimento ci serva d’insegnamento. Così Bergotte si diceva: “Spendo più dei multimilionari per delle ragazzine, ma i piaceri o le delusioni che mi danno mi fanno scrivere un libro che mi frutta denaro”. Economicamente questo ragionamento era assurdo, ma evidentemente trovava un certo gusto nel trasmutare così l’oro in carezza e le carezze in oro. E poi abbiamo visto, in occasione della morte di mia nonna, che la sua vecchiaia stanca amava il riposo. Ora nella vita mondana non c’è che la conversazione. Essa è stupida, ma ha il potere di sopprimere le donne, che si riducono ad essere solo domande e risposte. Fuori della società le donne ridiventano quel che è così riposante per il vecchio affaticato, un oggetto di contemplazione.
Ad ogni modo, adesso, non si trattava più di nulla di tutto questo. Ho detto che Bergotte non usciva più da casa, e quando si alzava per un’ora nella sua camera, era tutto avvolto in scialli, plaid, in tutto ciò con cui ci si copre al momento di affrontare un gran freddo e un viaggio in ferrovia. Se ne scusava con i rari amici che lasciava penetrare sino a sé, e mostrando i suoi tàrtan, le sue coperte, diceva allegramente: “Che volete, mio caro, Anassàgora l’ha detto, la vita è un viaggio”. Egli si andava così raffreddando progressivamente, piccolo pianeta che offriva un’immagine anticipata degli ultimi giorni di quello grande, quando, a poco a poco, il calore si ritirerà dalla Terra, e poi la vita. Allora la resurrezione avrà avuto termine, perché, per quanto oltre nelle generazioni future possono brillare le opere degli uomini, bisogna comunque che ci siano degli uomini. Se certe specie animali resistono più a lungo al freddo invasore, quando non ci saranno più uomini, e supponendo che la gloria di Bergotte sia durata sino a quel giorno, bruscamente si spegnerà per sempre. Non saranno certo gli ultimi animali a leggerlo, perché è poco probabile che, come gli apostoli il giorno della Pentecoste, possano comprendere il linguaggio dei diversi popoli umani senza averlo imparato.
Nei mesi che precedettero la sua morte, Bergotte soffriva d’insonnia, e, peggio ancora, non appena si addormentava, di incubi che, se si svegliava, facevan sì che egli evitasse di riaddormentarsi. Per lungo tempo aveva amato i sogni, anche i brutti sogni, perché grazie ad essi, grazie al contrasto che presentano con la realtà che si ha davanti a sé nello stato di veglia, essi ci danno, al più tardi sin dal risveglio, la sensazione profonda che abbiamo dormito. Ma gli incubi di Bergotte non erano di questo genere. Quando parlava di incubi, in passato, intendeva cose spiacevoli che succedevano nel suo cervello. Ora, è come se fossero venuti fuori da lui che egli percepiva una mano armata di uno strofinaccio bagnato che, passata sul suo viso da una megera, si sforzava di svegliarlo, o intollerabili pizzicori sulle anche, o la collera - perché Bergotte aveva mormorato dormendo che guidava male - di un vetturino infuriato che si gettava sullo scrittore e gli mordeva le dita, gliele segava.
Infine, non appena nel suo sonno l’oscurità era sufficiente, la natura inscenava una specie di prova generale dell’attacco di apoplessia che l’avrebbe portato via: Bergotte entrava in carrozza sotto l’atrio del nuovo palazzo degli Swann, voleva scendere. Una vertigine fulminante lo inchiodava al sedile, il portiere cercava di aiutarlo a scendere, egli restava seduto, non riuscendo ad alzarsi, a sollevare le gambe. Cercava di aggrapparsi al pilastro di pietra che aveva davanti, ma non vi trovava un appoggio sufficiente per mettersi in piedi. Consultò i medici che, lusingati d’esser chiamati da lui, videro nelle sue virtù di grande lavoratore (da vent’anni non faceva nulla), nel suo affaticamento, la causa dei suoi malesseri. Gli consigliarono di non leggere storie terrificanti (non leggeva niente), di approfittare di più del sole “indispensabile alla vita” (aveva dovuto alcuni anni di relativo miglioramento solo alla sua reclusione), di alimentarsi di più (cosa che lo fece dimagrire e alimentò soprattutto i suoi incubi). Uno dei suoi medici dotato di spirito di contraddizione e di dispetto, non appena Bergotte, vedendolo in assenza degli altri e per non urtarlo, gli sottoponeva come idee proprie i consigli degli altri medici, il medico polemico, credendo che Bergotte cercasse di farsi ordinare qualcosa che gli piaceva, subito gliela proibiva, e sovente con ragioni inventate lì per lì per i bisogni della causa, sicché davanti all’evidenza delle obiezioni materiali che adduceva Bergotte, il dottore polemico era obbligato nella stessa frase a contraddire se stesso, ma, per ragioni nuove, riconfermava lo stesso divieto. Bergotte tornava da uno dei primi medici, uomo che si piccava d’essere di spirito, soprattutto davanti a un maestro della penna e che, se Bergotte insinuava: “Mi sembra però che il dottor X mi avesse detto - in passato, beninteso - che ciò poteva congestionarmi il rene e il cervello...”, sorrideva maliziosamente, alzava il dito e sentenziava: “Ho detto usare, non ho detto abusare. Beninteso, ogni rimedio, se si esagera, diventa un’arma a doppio taglio”.
C’è nel nostro corpo un certo istinto di quel che ci è salutare, come nel cuore di quel che è il dovere morale, e di cui nessuna autorizzazione del dottore in medicina o in teologia può fare le veci. Sappiamo che i bagni freddi ci fanno male, ma li amiamo, troveremo sempre un medico per consigliarceli, ma non per impedire che ci facciano male. Da ciascuno di questi medici Bergotte prese quello che, per saggezza, si era proibito da anni. Dopo poche settimane, i disturbi di un tempo erano riapparsi, i recenti s’erano aggravati. Sconvolto da una sofferenza di tutti i minuti, alla quale si aggiungeva l’insonnia interrotta da brevi incubi, Bergotte non fece più venire i medici e provò con successo, ma con eccesso, differenti narcotici, leggendo con fiducia il prospetto che accompagnava ciascuno di essi, prospetto che proclamava la necessità del sonno ma insinuava che tutti i prodotti che lo procurano (salvo quello contenuto nel flacone che esso avvolgeva e che non procurava mai intossicazione) erano tossici e per questo rendevano il rimedio peggiore del male. Bergotte li provò tutti. Certi sono d’una famiglia diversa da quella cui siamo abituati, derivati, per esempio, dall’amile e dall’etile. Si ingerisce il prodotto nuovo, di una composizione tutta diversa, solo con la deliziosa attesa dell’ignoto. Il cuore batte come a un primo appuntamento. Verso che forme ignote di sonno, di sogni, ci porterà il nuovo venuto? Ora è dentro di noi, ha preso la guida del nostro pensiero. In che modo ci addormenteremo? E una volta che saremo addormentati, per quali strani vie, su quali cime, in che abissi inesplorati il padrone onnipotente ci condurrà? Quale nuovo raggruppamento di sensazioni conosceremo in questo viaggio? Ci porterà al malessere? Alla beatitudine? Alla morte? Quella di Bergotte sopravvenne alla vigilia di quel giorno, e in cui s’era così affidato a uno di quegli amici (amico? nemico?) troppo potente.
Morì nelle circostanze seguenti: a causa di una crisi di uremia abbastanza leggera, gli avevano prescritto il riposo. Ma poiché un critico aveva scritto che nella Veduta di Delft di Vermeer (prestata dal museo dell’Aja per una mostra di pittura olandese), quadro che egli adorava e pensava di conoscere a fondo, una piccola ala di muro giallo (che non si ricordava) era dipinta così bene da sembrare, se la si guardava isolatamente, una preziosa opera d’arte cinese, di una bellezza che sarebbe bastata a se stessa, Bergotte mangiò un po’ di patate, uscì ed entrò alla mostra. Sin dai primi gradini che ebbe da salire, fu preso da mancamenti. Passò davanti a molti quadri ed ebbe l’impressione dell’aridità e dell’inutilità di un’arte così artificiosa, e che non valeva le correnti d’aria e di sole di un palazzo di Venezia, o di una semplice casa in riva al mare.
Infine si trovò davanti al Vermeer che si ricordava più splendente, più diverso da tutto quel che conosceva, ma dove, grazie all’articolo del critico, notò per la prima volta dei piccoli personaggi in blu, che la sabbia era rosa, e infine la preziosa materia della piccolissima ala di muro giallo. I suoi mancamenti aumentavano; egli fissava lo sguardo, come un bambino su una farfalla gialla che vuole catturare, sulla preziosa piccola ala di muro.
“È così che avrei dovuto scrivere, diceva. I miei ultimi libri sono troppo scarni, sarebbe stato necessario passare parecchi strati di colore, rendere la frase in se stessa preziosa, come questa piccola ala di muro giallo”. Tuttavia la gravità dei suoi capogiri non gli sfuggiva. In una bilancia celeste gli appariva, su uno dei piatti, la sua stessa vita, mentre l’altro conteneva la piccola ara di muro dipinta così bene di giallo. Sentiva di aver dato incautamente la prima per la seconda. “Non vorrei però, si disse, essere per i giornali della sera il fatto di cronaca di questa mostra”. Si ripeteva: “Piccola ala di muro giallo con una tettoia, piccola ala di muro giallo”. Intanto si abbatté su un divano tondo; così bruscamente smise di pensare che la sua vita era in pericolo e, ritornando all’ottimismo, si disse: “È una semplice indigestione dovuta a quelle patate non abbastanza cotte, non è nulla”. Un nuovo colpo l’abbatté, rotolò dal divano per terra, accorsero tutti i visitatori e i guardiani. Era morto. Morto per sempre? Chi può dirlo?
Certo, né le esperienze spiritiche né i dogmi religiosi provano che l’anima sopravviva. Quel che si può dire, è che tutto avviene nella nostra vita come se vi entrassimo con il fardello di obblighi contratti in una vita anteriore; non c’è nessuna ragione nelle condizioni della nostra vita su questa terra perché ci sentiamo obbligati a fare il bene, a essere delicati, o anche cortesi, né perché l’artista ateo si creda in dovere di rifare venti volte un pezzo che susciterà un’ammirazione che importerà ben poco al suo corpo mangiato dai vermi, come l’ala di muro giallo che dipinse con tanta abilità e raffinatezza un artista per sempre sconosciuto, appena identificato sotto il nome di Vermeer. Tutti questi obblighi che non hanno sanzione nella vita presente sembra che appartengano a un altro mondo, fondato sulla bontà, sullo scrupolo, sul sacrificio, un mondo completamente diverso da questo, e da cui usciamo per nascere a questa terra, prima forse di ritornarvi, a rivivere sotto l’imperio di quelle leggi ignote a cui abbiamo obbedito perché ne portavamo l’insegnamento in noi, senza sapere chi ve le avesse tracciate, quelle leggi cui ci avvicina ogni lavoro profondo nell’intelligenza e che sono invisibili soltanto - seppure! - per gli sciocchi. Perciò l’idea che Bergotte non fosse morto per sempre non è inverosimile.
Lo seppellirono, ma tutta la notte funebre, nelle vetrine illuminate, i suoi libri, disposti a tre a tre, vegliavano come angeli dalle ali spiegate e sembravano per colui che non era più, il simbolo della sua resurrezione».
* Marcel Proust, "Alla ricerca del tempo perduto", edizione integrale a cura di Paolo Pinto e Giuseppe Grasso condotta sul testo critico stabilito da Jean-Yves Tadié, Newton Compton editori, Roma 2010, pp. 1758-1762 (da I Malpensanti.
STORIA DI NAPOLI, STORIOGRAFIA, E RIFORMA TEOLOGICO-POLITICA (DI IERI E DI OGGI):
LA "NAPOLI POROSA" DI WALTER BENJAMIN E ASJA LACIS *
BENJAMIN
Napoli porosa
WALTER BENJAMIN - ASJA LACIS
a c. di Andrea Cortellessa *
***
Qualche anno fa un sacerdote, per aver infranto il codice morale[1], fu portato in giro per le strade di Napoli su un carretto. La folla lo accompagnava lanciando formule di malaugurio. Quando poi a un angolo s’intravide un corteo nuziale, il sacerdote si levò in piedi e fece segno di benedire. In quello stesso istante, tutti coloro che seguivano il carro si genuflessero.
È così che il cattolicesimo cerca in questa città di ristabilire a ogni occasione il proprio ordine. Se dovesse scomparire dalla faccia della terra, i suoi ultimi sospiri non giungerebbero da Roma, bensì da Napoli. Da nessun’altra parte, infatti, questo popolo potrebbe sopravvivere indenne alla sua ricca, congenita, barbarie, se non nel grembo della Chiesa: il popolo ha bisogno del cattolicesimo, perché con esso una leggenda, il giorno di un martire sul calendario, agiscono come istanza di legittimazione dei suoi eccessi. [...]
Il viaggiatore borghese che fino a Roma aveva sfiorato, come dita sui pali di uno steccato, l’una dopo l’altra le opere d’arte italiane, deve ora fermarsi e abbandonare le sue pretese. [...]
Ma anche il comune viaggiatore non si sente al posto giusto. Persino il Baedeker[2] non riuscirebbe a rabbonirlo. א [(Questo manuale del perfetto viaggiatore è riuscito, in modo così unico nella sua perizia, a proteggere da ogni inconsapevole avventura la borghesia da viaggio europea. Prima ancora che si potesse pensare a una trasformazione del paesaggio in questa direzione, quello già ne calcolava gli effetti con fantasiosa scrupolosità. Nella sua pedanteria si celava la profezia delle autostrade [3]). E tuttavia,] Qui le Chiese non si lasciano trovare, le sculture che sulla guida sono contrassegnaste da stelle[4] sono puntualmente collocate nell’ala del museo chiusa al pubblico, e la parola “manierismo” mette in guardia dalle opere della pittura locale. [...]
Come la pietra, così anche l’architettura di Napoli è porosa. Costruzione e azione si permeano in un susseguirsi di cortili, portici e scaloni. Tutto è fatto per custodire la scena in cui costellazioni sempre nuove, sino ad allora imprevedibili, possano accadere. א [Quando a raggrupparsi in un locale sono i tedeschi, questi devono sempre separare e mettere in fila tavoli e siede. Gli italiani, invece, si spargono ovunque, chiacchierano ai tavoli e reclamano sempre più spazio. Eppure, essi si comportano in modo molto più discreto che non i tedeschi nel loro buon cantuccio.] Si scansa il definitivo, il consolidato. Nessuna situazione, per come essa appare, è pensata una volta per sempre. Nessuna figura reclama il suo “così e non altrimenti”. [...]
Poiché nulla è concluso e fatto per sempre, in angoli come questi si riconosce a malapena fra quel che deve essere ancora costruito e quel che già è caduto in rovina. Porosità significa non solo, o non tanto, l’indolenza meridionale nell’operare, bensì piuttosto, e soprattutto, l’eterna passione per l’improvvisare. All’improvvisazione deve essere in ogni modo riservato lo spazio, deve essere sempre garantita l’occasione. I fabbricati sono usati come teatri popolari permanenti, le cui parti si dividono in una miriade simultanea di palchi animati: balconi, androni, pianerottoli, finestre, scaloni, gli stessi tetti - tutto è, insieme, palcoscenico e platea. Anche l’esistenza più miserabile è sovrana nell’ambigua, oscura consapevolezza di far parte, con tutto il suo degrado, di una di quelle irripetibili scene di vita di strada napoletana; e di poter godere, nel pieno della sua povertà, dell’ozio necessario per il grandioso scenario. [...]
Diffusa, porosa, disseminata è la vita privata. Ciò che distingue Napoli da tutte le altre città ha a che fare con il kraal degli Ottentotti[5]: ogni comportamento e affare privato è inondato dalle correnti della vita pubblica come da una marea. L’esistenza, che per i nordeuropei è la più intima delle faccende, qui a Napoli diventa un fatto collettivo, come nel kraal degli Ottentotti. [...]
Così come l’abitazione si riversa in strada con seggiole, fornacella e altarino, allo stesso modo, ma molto più chiassosamente, la strada irrompe nel basso. Anche quello più misero è pieno di candele, statuine di santi in biscuit, cespi di fotografie alle pareti e brande di ferro, così come la strada lo è di carretti, uomini e luci. La miseria ha portato a un’espansione dei confini, riflesso della più accesa libertà di spirito. Dormire e mangiare sono occupazioni senza orario, spesso prive anche di un luogo. [...]
Come è possibile prendere sonno in una stanza dove si contano tanti letti quanto lo spazio ne consenta? [...] Questo agognato sonno, che anche gli adulti recuperano appena possono in un cantuccio d’ombra, non ha nulla del preservato sonno nordico. Si tratta, ancora una volta, di una porosità, una compenetrazione di giorno e notte, rumore e silenzio, luce esterna e buio interno, strada e domicilio.
Leggi anche il testo di Elenio Cicchini, Porosità.
* Fonte: "Antinomie", 03/05/2020 (ripresa parziale, senza le note).
* STORIA DI NAPOLI, STORIOGRAFIA, E RIFORMA TEOLOGICO-POLITICA (DI IERI E DI OGGI):
A ben rileggere, l’inizio del testo di Walter Benjamin e Asja Lacis, dove si sottolinea che, "[...] Da nessun’altra parte, [...] questo popolo potrebbe sopravvivere indenne alla sua ricca, congenita, barbarie, se non nel grembo della Chiesa: il popolo ha bisogno del cattolicesimo, perché con esso una leggenda, il giorno di un martire sul calendario, agiscono come istanza di legittimazione dei suoi eccessi [...]", a mio parere, è possibile comprendere meglio la portata della "porosità" napoletana e benjaminiana.
Se si riflette su quanto egli dice e si allarga il campo dell’orizzonte storico, forse, è possibile da una parte capire perché, a Napoli (intorno al 1925), a Benjamin il tempo sembra essersi fermato (il fascismo al potere è già sulla via della Conciliazione con la Chiesa) e, al contempo, perché oggi può essere criticamente importante "compenetrare" il filo spezzato dalla svolta autoritaria di Carlo V e don Pedro di Toledo del cattolicesimo riformatore della Napoli e della Salerno di Juan Valdes, del Principe Ferrante Sanseverino, e dell’arcivescovo Girolamo Seripando e ricollegarlo al vicolo cieco del cattolicesimo dell’attuale presente storico.
Se non ora, quando? Non solo per Walter Benjamin, il nemico non ha smesso di vincere...
Federico La Sala
Michelangelo ritratto in uno schizzo a margine di un’antica Divina Commedia: l’incredibile scoperta di James Hall *
06 Settembre 2022 *
Lo storico inglese James Hall lo sostiene con certezza: una vecchia edizione della "Divina Commedia" di Dante Alighieri recherebbe in calce un disegno nascosto che ritrae Michelangelo Buonarotti intento a scolpire. Il prezioso volume è custodito nella Biblioteca Vallicelliana di Roma e risale al XV secolo.
"Lo scultore, finora sconosciuto, può essere identificato con Michelangelo durante o poco dopo il suo trionfale successo nell’intaglio del David (1501-4)", scrive infatti il docente all’University of Southampton, che presenterà la sua ricerca in un volume intitolato "The Artist’s Studio: A Cultural History", che sarà pubblicato dall’editore Thames & Hudson il 21 ottobre in Gran Bretagna.
In un’intervista rilasciata a The Art Newspapers lo studioso ha sottolineato: "Durante una conferenza ho visto brevemente questo disegno straordinario. Mi sono chiesto se avrei potuto includerlo nel mio libro. Dopo alcuni mesi, ho improvvisamente pensato che molti dei pezzi del puzzle sembrano corrispondere a Michelangelo".
“Il disegno mostra un artista al lavoro per scolpire una testa colossale, brandendo un martello. Alle sue spalle si trova una statuetta senza braccia. Il disegno appare nel primo canto dell’Inferno, nel momento in cui Dante decide coraggiosamente di prendere la "via maestra" attraverso l’Inferno. Lo scultore ha abbandonato la statuetta più frivola per scolpire la testa colossale.”
"La testa sembra girarsi sulla spalla, con un sorriso. Credo che debba essere un fauno" spiega Hall, "Mi ricorda molto il fauno che si aggrappa alla gamba del Bacco di Michelangelo (1496-7).
I
noltre, sul soffitto della Sistina, ci sono putti decorativi fissati sull’architettura che fiancheggiano i profeti e le sibille, che sono simili, girando con espressioni sfacciate sui loro volti; sembra molto in quello spirito".
"Le teste hanno uno stile molto classico e questo si adatta anche al passo di Dante in cui, ancora esitante, dice: ’Non sono Enea, né San Paolo’. Quindi Dante sta dicendo che non sono una di queste grandi figure. Ma è quello che diventa quando entra nell’Inferno. Così come Michelangelo quando realizza opere immense che superano l’antichità".
"Si pensava che l’edizione di Dante appartenesse alla famiglia Sangallo, che era composta da architetti e scultori, principalmente di Firenze e Roma. Ma recentemente questa ipotesi è stata messa in discussione perché la grafia delle annotazioni sul libro non sembra corrispondere a quella dei Sangallo", aggiunge Hall intervistato da "The Art Newspaper". "Un artista toscano o anche un dilettante di talento potrebbe aver creato la raffigurazione di Michelangelo", aggiunge Hall.
*Fonte: Il Giornale d’Italia, 06.09.2022
ANTROPOLOGIA, TEOLOGIA, E CRISTIANESIMO. Michelangelo con Francesco d’Assisi e Dante o "con Agostino e Paolo nella mente"?!
CAPPELLA SISTINA
Il montaggio patetico della Salvezza
Giovanni Careri, Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina, Quodlibet: gli affreschi di Michelangelo in una lettura warburghiana, e eisensteiniana, che li restituisce quale organismo vivente attraversato da dialettiche «formule di pathos»
di Corrado Bologna *
«Il buon Dio vive nei dettagli», diceva Aby Warburg. Il suo progetto era di connettere dettagli e affinità, ombre delle idee fermate nei gesti delle opere d’arte, per edificare un atlante iconologico reticolare, capace di restituire un’intera morfologia della civiltà ricostruendo il gioco di energie e di opposizioni dinamiche che dà forma e senso alle immagini. S’innamorò della Ninfa riconoscendola nel movimento seducente della fanciulla che il Ghirlandaio aveva colto al volo come una farfalla nella Cappella Tornabuoni di Santa Maria Novella. Poi lo inseguì per anni, quel gesto, sui sarcofaghi, nei dipinti, in innumerevoli minuzie ricondotte genialmente a «far sistema» in un percorso mentale e culturale vastissimo.
Invece, di Michelangelo, il più grande allievo di Ghirlandaio, Warburg si occupò poco. Però almeno in due tavole dell’ormai celebre Atlante di Mnemosyne, la 53 e la 56, pose implicitamente in rapporto, accostandoli per esaltarne il dinamismo semantico, alcuni dettagli degli affreschi della Sistina, i giovanili Antenati di Cristo nelle lunette della volta (1511-’12) e il maturo Giudizio Universale (1535-’41). In essi intuì forse una traccia di quel maestoso, occulto progetto che Giovanni Careri definisce «fabbrica del corpo glorioso», ricostruendone la vicenda in un libro densissimo, di alto profilo culturale, elegantemente warburghiano nel metodo interpretativo e nell’ampiezza della documentazione (Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina, Quodlibet, pp. 293, € 28,00).
Questo libro affascinante, che «decostruisce» la Cappella smontandone il moto figurativo depositato lungo trent’anni di straordinaria concentrazione da uno dei più grandi artisti di ogni tempo, mi riporta alla memoria un piccolo capolavoro quasi dimenticato (e che conto di riproporre presto), La cattedrale come spazio dei tempi, pubblicato da Friedrich Ohly nel 1972. Ohly propose di «leggere» la Cattedrale di Siena come «immagine architettonica di storia della salvezza che parla attraverso le sue forme foggiate in gradi biblici al pari, su un altro piano, della cronaca universale nella letteratura e della rappresentazione del mondo figurata». Secondo la sua acuta interpretazione quello spazio sacro produce l’«inglobamento del passato e del futuro in un tutto che sta dinanzi agli occhi», recuperando l’effetto emozionale e devozionale di un «processo di visualizzazione» per cui «il fluire della storia diventa un bene stabile». Nella Cattedrale di Ohly, come nella Sistina di Careri, davvero «la storia del mondo si evolve in rappresentazione del mondo»: l’edificio si trasforma nello «spazio figurativo e temporale di una mappa mundi cosmica».
Nella Sistina, invece che la riproduzione dell’universo, il tema è la storia della Salvezza. Giovanni Careri dimostra con erudizione e sottigliezza ermeneutica quali energie spirituali, teologiche, ideologiche, si confrontano e si scontrano in quel luogo straordinario, in cui Michelangelo concentrò uno sforzo titanico, non solo artistico ma anche ermeneutico e teologico, depositandovi un pensiero nutrito dalla corrente degli Spirituali stretti intorno al cardinale Reginald Pole a Viterbo (con lui, a leggere il Beneficio di Cristo, c’erano anche Vittoria Colonna e Sebastiano dal Piombo).
Michelangelo raffigura in cifra, con Agostino e Paolo nella mente, «il passaggio dalla filiazione carnale alla filiazione divina dal punto di vista della storia cristiana, come pure la necessità antropologica di definire l’identità cristiana in rapporto al suo "altro"». Rappresenta così la salvezza dell’umanità che si staglia in un campo di tensione fra il tempo messianico e il paolino katéchon, la frenante forza d’inerzia con cui la temporalità storica incarnata negli Antenati, cioè insieme «gli ebrei "ostinati"» e «il cristiano negligente», ne ritarda l’adempimento. In questo senso la Cappella Sistina è attraversata da energie formidabili, e si trasforma in un teatro della memoria, in un dispositivo mnemotecnico di metamorfosi interiore simile a quello che Giulio Camillo ideò negli stessi anni: il percorso che lo spettatore compie nello spazio vivo, con il suo corpo e il suo sguardo, è un cammino iniziatico. L’«istanza del soggetto» coinvolge sia chi dipinge sia chi osserva, giacché «il corpo glorioso» dell’uomo può venir `fabbricato’ attraverso un’«inclusione» spirituale, che Careri definisce «conformazione per somiglianza» rispetto al corpo di Cristo.
Sono certo che a Warburg, e anche ad Ohly, sarebbe piaciuto questo Michelangelo segreto, colmo di straordinarie Pathosformeln, riportato alla luce da Giovanni Careri. Il metodo con cui è impostata la sua colta, molto documentata e originale «antropologia della Cappella Sistina», si fonda sull’«analisi cinematica della pittura» e sul riconoscimento di un «"montaggio" delle immagini messo a punto da Michelangelo stesso», che «il montaggio di Warburg non fa che riprendere e sviluppare». Questo montaggio è di fatto il cinema mentale dell’artista, che lo storico riporta in vita attraverso un’antropologia dell’immagine, e soprattutto del suo intrinseco dinamismo.
La Sistina è compresa come un organismo vivente, in cui le immagini invitano l’osservatore all’«attualizzazione del significato teologico e devozionale» che accennano, grazie al «montaggio patetico» con cui sono connesse. Proprio di un «montaggio patetico» che coinvolge le percezioni fisiche, le immagini mentali, gli affetti di chi entra nell’opera d’arte con il corpo e con la mente, Giovanni Careri parlava nel suo primo libro, Voli d’amore. Architettura, pittura e scultura nel «Bel composto» di Bernini. E anche allora si richiamava a quello che il grande regista russo Sergej Eizenstejn definiva «il montaggio delle attrazioni», «un’operazione estetica di scomposizione e ricomposizione di un molteplice eterogeneo che si compie nello spettatore».
Rimeditando l’intuizione di Eizenstejn, il quale come Warburg (probabilmente senza conoscerlo) parlava di «formule del pathos», Careri coglie, nel corpo vivente della Sistina, «la dinamica indotta dal passaggio da un sistema all’altro», e rilegge il Giudizio universale, accanto alle pareti di Perugino, Botticelli, Signorelli, Ghirlandaio, «come un’uscita dalle categorie visive della storicità umanista che regolano i cicli degli affreschi quattrocenteschi rispetto ai quali il grande affresco della parete di fondo viene non solo ad aggiungersi, bensì a "montarsi"».
Il Giudizio del Michelangelo maturo è in dialogo anche con la volta del Michelangelo trentenne: e Careri dimostra, con un’argomentazione serrata e molto solida, come gli Antenati, nelle lunette del soffitto, «incarnano il ruolo di contrappeso terreno al movimento d’ascensione e di caduta dei personaggi eroici», mentre il gesto possente del Cristo nel Giudizio, di fronte allo spettatore, diviene «il nucleo generativo di una serie di onde, espressione di una forza che attraversa i corpi, li lega fra loro e dà loro forma». Cristo, con «l’impulso dato dalla furia del movimento», nella serpentina del suo corpo immenso, non solo condanna i reprobi, ma accoglie e salva i giusti. Quel gesto costituisce un vortice ambivalente, fra parousia e terribilità, a cui gli astanti, nel dipinto e nello spazio della cappella, possono corrispondere compiendo l’«assunzione di somiglianza» che otterrà la loro «conformazione» gloriosa. Il tempo del Giudizio è quindi il paolino tempo che resta, «un tempo che si contrae e comincia a finire». E un’immagine dialettica, perfettamente benjaminiana: «corrisponde all’orizzonte temporale verso il quale gli affreschi delle pareti e quelli della volta dispiegavano le loro narrazioni e i loro annunci, ancor prima che il grande affresco della parete dell’altare venisse a dar figura visibile a questo punto di fuga del tempo, sino ad allora implicito». In una simile catastrofe il «punto di fuga del tempo della storia» si rovescia, messianicamente, «nel punto di vista privilegiato per comprenderla».
* Fonte: Quodlibet -«Alias - il manifesto», 25 aprile 2021
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
PER LA PACE PERPETUA. ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO....
MICHELANGELO PER UN RITRATTO A PROUST: UNA ILLUMINANTE INDICAZIONE DI WALTER BENJAMIN.
Federico La Sala
LO "SPIRITO DEL RAGNO", IL "LETTO DI PROCUSTE", E UNA "RIVOLUZIONE COPERNICANA" INCOMPIUTA... **
Proust e Freud: una rivoluzione copernicana
di Mario Lavagetto *
Non è, io credo, un arbitrio cogliere nella parabola creativa di Marcel Proust quello che con una terminologia forse desueta, ma funzionale e cara a Thomas Stearn Eliot, potremmo definire un “correlativo oggettivo” del radicale sovvertimento a cui, negli stessi anni, Freud sottoponeva la concezione pre-analitica dell’io sostituendo ad essa una nozione tanto sconvolgente da meritare, ha detto Lacan, “che si introduca a suo riguardo l’espressione di rivoluzione copernicana...”[1]
Quella nozione o quella funzione era certo stata messa in crisi dalla filosofia con Locke, Kant e - dice ancora Lacan - soprattutto con gli psico-fisici i quali avevano cercato di ridurre a un puro miraggio e di screditare l’idea che l’io fosse una sostanza a cui venissero trasmesse le prerogative (in specie l’immortalità) che, nella visione religiosa, competevano all’anima. E tuttavia il colpo definitivo, destinato a pregiudicare in modo irreparabile quello che potremmo chiamare il primato, o la centralità, dell’io, fu inferto da Freud:
Quella formula Rimbaud l’aveva utilizzata una prima volta in una lettera del 13 maggio 1871 a Izambard: “C’est faux de dire: Je pense: on devrait dire on me pense [...] Je est un autre.”[3] [“È falso dire: Io penso: bisognerebbe dire: mi si pensa. [...] Io è un altro.”]. Trent’anni più tardi all’uomo già sfrattato, dopo Copernico e dopo Darwin, dal centro dell’universo e dal centro della storia naturale, arriverà secondo Freud[4] - e, sulle sue tracce, secondo Lacan - un terzo e definitivo sfratto: una ulteriore, e anche più crudele, ferita al narcisismo originario. La psicoanalisi scopre, registra e notifica insieme il tramonto di ogni prospettiva antropocentrica. D’ora in poi, suggerisce, l’esercizio della conoscenza presuppone l’accettazione di una posizione di margine e la rinuncia a ogni ipotesi di soggetto-perno in grado di compiere periodiche e puntuali esplorazioni per definire i propri territori, censirli e consegnarli a rassicuranti catasti. La coscienza, “un tempo onnipotente” - scrive Freud nella Traumdeutung[5] - si trova dunque ridotta “a un organo di senso” per cogliere “qualcosa che si dà altrove”: a un dispositivo omeostatico, tra il mondo esterno e l’inconscio, situato in una zona di confine che l’anatomia cerebrale, convocata come testimone e garante in Al di là del principio del piacere, colloca nella corteccia[6]. Questa posizione doppiamente periferica, rispetto al “fuori” e rispetto al “dentro”, congiunta alla impossibilità di conservare tracce mnestiche sempre disponibili, sembra determinare un regime di paradossale ed endemica emergenza: je est un autre, je n’est pas moi. L’identità è un residuo, ricostruibile solo partendo dall’altro, da una realtà che si manifesta per segnali enigmatici e intermittenti. “Le ‘Je’ - scriverà Proust il 28 novembre 1920 a Henri de Regnier - est une pure formule ”[7]
“Proust et Freud - aveva tempestivamente avvertito fin dal 1925 Jacques Rivière - inaugurano un nuovo modo di interrogare la coscienza. Rompono con le indicazioni del senso intimo; non vogliono più rimanervi paralleli; aspettano, spiano, anziché i sentimenti, i loro effetti; vogliono capirli solo attraverso i loro segni. L’uomo interiore è qui trattato per la prima volta come un corpo sulla cui composizione non possono ragguagliare se non le reazioni a cui dà luogo.”[8] -Basta rileggere alla luce di queste parole l’episodio della madeleine per averne una conferma. La “verità” deve essere cercata partendo da una posizione di confine tra il mondo esterno che funge da necessario detonatore e il mondo interno dove qualcosa, a grande profondità, sembra “trasalire”: non potrà essere ritrovata nel sapore del tè e del dolce che vi è stato immerso, ma solo quel sapore è capace di evocarla, di determinare l’indispensabile choc, l’urto che potrà disancorarla e riportarla alla luce.
Il passato, risvegliato da un incontro fortuito e sottratto alle opacità della memoria volontaria, si muove, lancia segnali captati da una sorta di osservatorio orbitale dove potranno essere decifrati solo attraverso un cerimoniale preciso, una strategia che consentirà di non disperderli e che preliminarmente richiede di “fare il vuoto” intorno a quei segnali, una rigorosa messa in parentesi per eliminare ogni interferenza. Alla fine, qualcosa che è stato cercato nel mondo interno, e che là era sprofondato, viene a galla in una tazza di tè:
Proprio partendo dall’esame della semiotica disseminata nel testo, Gilles Deleuze - autore di quello che resta, a distanza di anni, il libro più lucido e convincente dedicato a Proust - è arrivato a dar vita a una metafora critica: il narratore della Recherche, ha detto, è un ragno: “Non ha organi, non ha sensazioni, né percezioni, non ha nulla. E’ una specie di corpo nudo, di grande corpo indifferenziato. Qualcuno che non vede nulla, non sente nulla, che non capisce nulla. Quale dunque può essere la sua attività? Credo che chi si trova in quello stato non possa che rispondere a dei segni, a dei segnali. In altri termini, il narratore è un ragno.”[10]
Un ragno in agguato ai margini della sua tela che vibra, gli trasmette messaggi discontinui, gli indica la presenza di una preda: controfigura - se accettiamo un suggerimento di Giacomo Debenedetti e siamo disposti a leggere la biografia di Proust come una sorta di “prova generale” della Recherche[11] - dell’uomo che trascorre lunghi anni in una camera foderata di sughero, lontano da quella realtà di cui cerca di registrare i segnali, anche i più impercettibili, con il solo strumento - la scrittura - di cui dispone. Chi osserva, attraverso le lettere, la vita quotidiana di Marcel Proust e riconosce in essa alcuni dei germi che nella Recherche verranno metabolizzati e sottoposti a un radicale disorientamento[12], ha spesso l’impressione di assistere al formarsi progressivo, sui margini, di una glossa smisurata, antropofaga e invasiva che abolisce ogni possibile firma. “Una lettera - ha detto Forster - nasce dalla superficie: è coinvolta negli eventi o nei progetti quotidiani: è naturalmente firmata. La letteratura tende a non avere firma”[13]: tende all’anonimato, anche se perfino Bourbaki, nome fittizio dietro cui si compie una serie di elaborazioni matematiche, “ha il suo stile e il suo speciale modo di essere anonimo. ”[14]
Un ragno, ma lontanissimo da quello che evocava Sartre in una nota del 1939 dedicata al concetto di intenzionalità nella filosofia di Husserl[15], meritevole ai suoi occhi di averci liberato da ogni illusione alimentare e dallo “spirito ragno” che, secondo gli insegnamenti fallaci e congiunti di realismo e idealismo, attirava “le cose nella sua tela, le ricopriva di una bava biancastra e lentamente le deglutiva”[16]. Immagine suggestiva e forse impropria, certo impropriamente applicata a Proust[17] per cui l’albero - quell’albero, sotto il sole, fermo, immobile, indigeribile[18] - non può in alcun modo essere diluito nella coscienza e poco importa se la verità dovrà poi essere cercata “al di là di quell’albero”[19]: perché solo da quell’albero, da quella madeleine, da quel dislivello del selciato, da quel battere di un cucchiaio contro una tazzina, da quella condotta d’acqua che perde o da quell’improvvisa posizione del corpo il passato, la “verità” che si identifica con la riemergenza del passato e con l’abolizione del tempo, può tornare alla luce. Nell’opera prodigiosa, tentacolare e infinibile di Proust - dove si dice “io” per migliaia di pagine - niente è più labile, precario, condizionato di quell’io: niente è più evasivo e il suo destino, o meglio la sua possibilità di avere un destino da parte del “fantasma che racconta le proprie avventure”[20], è in bilico fino all’ultimo.
Il fallimento - la deriva di Swann che è sospesa sul capo del narratore fino alle intermittenze della matinée - viene scongiurato soltanto alla fine e grazie al verificarsi di una serie di piccoli eventi fortuiti che si susseguono in una abbacinante “illumination à la Parsifal.”[21] “La camera magnifica della vita” - leggiamo in Jean Santeuil - “avrebbe potuto restargli chiusa per sempre e egli avrebbe potuto passarle davanti senza conoscerla.”[22]
È un’immagine che si ripercuoterà nella Recherche. In Sodome et Gomorrhe il nome di Mlle Vinteuil, che affiora improvvisamente sulle labbra di Albertine, è come un “Sesamo”: apre “la porta che si era richiusa dietro di lei” e attorno a cui Je avrebbe potuto accanirsi cento anni “senza sapere in che modo tornare ad aprirla.”[23] Nella Fugitive sono i ricordi ad avere delle “piccole porte nascoste” che spesso non conosciamo e che talvolta ci vengono fortuitamente aperte.[24] Fino al Temps retrouvé dove quell’immagine torna a sancire la salvezza finalmente raggiunta:
È quasi impossibile che un lettore, di fronte a queste parole, possa non ricordarsi della grande parabola che si trova nelle ultime pagine del Processo e dell’uomo che trascorre la sua vita davanti a una porta senza mai varcarne la soglia difesa da un occhiuto guardiano per scoprire poi, alla fine, quando è ormai troppo tardi e sta per spirare, che proprio quella era la sua porta e che era a lui destinata. Qui forse la radice è la stessa e sembra conservare l’eco di antiche tradizioni, ma la coniugazione è diversa: la parabola è a lieto fine.
Il caso ha permesso di riconoscere e di aprire la porta; “il racconto non ha più che da finire - il libro non ha più che da cominciare.”[26] Comincia nel preciso momento in cui l’autore, come ha scritto Bataille, sta per essere “messo a morte dalla propria opera” e in modo così radicale che l’opera, “scritta sul suo letto di morte”, è alla lettera “il suo modo di morire.”[27]
Riferimenti bibliografici [...]
* FONTE: LE PAROLE E LE COSE, 14 NOVEMBRE 2013 (ripresa parziale).
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Note:
LA COMUNE DI PARIGI, IL DESIDERIO DI RIVOLUZIONE, E IL “LADRO DI FUOCO”. Cento anni dopo (!971), una “risposta” alla “Lettera del Veggente” di Arthur Rimbaud (Alfabeta-2, 5 luglio 2019).
#QUESTIONEANTROPOLOGICA #SONNODOGMATICO (#KANT) E #PLUSULTRA. Forse è bene ricordare le metafore classiche di #FrancescoBacone sulle #formiche le #api e i #ragni e non lasciarsi portare al macello sul letto di #Procuste. O no?!
FLS
Michelangelo Buonarroti, Pietà Bandini, 1555 ca, Museo dell’Opera del Duomo di Firenze. Si tratta di una delle ultime sculture prodotte dall’artista, che si pensa inserì nella figura di Nicodemo un proprio autoritratto (...).
Tweet di Il Caffè Letterario@SalaLettura:
Risposta/Tweet:
#CAFFE’ E ILLUMINISMO: #SAPEREAUDE! (#KANT, 1784). Il #ditosullapiaga: non saper distinguere tra #Mosè-#Faraone e il Mosè-#Liberatore (#Freud), #Gesù #figlio dell’##amore di #Giuseppe_e_Maria e Gesù figlio di #Maria e "#Dio"
Federico La Sala
Michelangelo e “La Linea della Bellezza e della Grazia”. La "forma serpentinata" ... *
Una macchina teologico-politica
Conversazione con Giovanni Careri in occasione dell’uscita di “Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina”.
di Francesco Zucconi *
Francesco Zucconi: Il visitatore dei Musei Vaticani arriva nella Cappella Sistina dopo aver attraversato straordinarie sale e corridoi. Nei pochi minuti che trascorre in questo ambiente immersivo, il suo sguardo è come incantato, si sente preso e sospinto. Ma i turni di visita sono troppo brevi per muovere consapevolmente lo sguardo tra i diversi cicli pittorici.
Tu hai trascorso molti anni a studiare gli affreschi realizzati da Michelangelo Buonarroti e la tua ricerca fornisce tanto una forma di orientamento nella Sistina quanto una serie di nuovi percorsi interpretativi. Prima di entrare nel merito di questo libro, appena pubblicato da Quodlibet, vorrei chiederti come nasce l’idea di lavorare su questo oggetto straordinario.
Giovanni Careri: Nel 2003 ho coordinato all’EHESS di Parigi un progetto di ricerca sulla temporalità delle immagini con un antropologo (Carlo Severi), uno storico (Jean-Claude Schmitt), e uno specialista della Grecia antica (François Lissarrague). Lo stimolo a occuparmi della Sistina non è arrivato dalla scoperta di nuove fonti o documenti, ma dalla domanda che avevamo posto a tutti i partecipanti al progetto: il rapporto tra le immagini e le temporalità che le attraversano, l’indagine sulle modalità del “tempo visivo” che le immagini stesse producono.
Il mio contributo riguardava il modo in cui il Giudizio Universale di Michelangelo costruisce un tempo dell’attesa e dell’imminenza, imminenza della fine del tempo della storia, ma anche della ricapitolazione e del bilancio della vita di ognuno. Mi sono in particolare interessato ai “libri della vita” che gli angeli aprono al centro dell’affresco per significare che il tempo del giudizio di sé è giunto per i personaggi rappresentati ma anche per lo spettatore.
Accanto agli angeli si trova un grande dannato, un “disperato” che porta la mano sul volto con un gesto che rinvia inequivocabilmente al dialogo interiore e a quella forma di autobiografia penitenziale che possiamo definire - con Michel Foucault - “soggettivazione”, per articolarla con l’altra determinazione che caratterizza il “soggetto moderno”, quella dell’assoggettamento.
Nella postura di questo monumentale personaggio, le due determinazioni coincidono: il disperato ha appena ammesso la sua colpevolezza nel dialogo con sé stesso mentre demoni e serpenti già lo avvolgono nelle loro spire, eseguendo l’ordine del Cristo Giudice. La condanna del “disperato” è esibita nel rapporto tra la sua situazione e quella di Minosse, il giudice infernale avvolto da un serpente che ne inibisce il movimento.
Il punto di partenza di questo mio lavoro sugli affreschi della Sistina è nel confronto tra le due posture, quella del dannato e quella di Minosse. Il dannato sta diventando simile al demonio, tra poco il suo corpo sarà stretto tra le spire del serpente come è già accaduto per il giudice infernale. In questo rapporto tra due figure e nella processualità del divenire Minosse ho ritrovato uno dei fili essenziali delle mie ricerche: quello della “conformazione” ovvero di un’economia mimetica che fonda la sua semiosi sull’assunzione e/o sulla perdita della somiglianza di un’attitudine o di un gesto.
A partire da tale osservazione, possiamo guardare il Giudizio come a una immensa coreografia: gli eletti e gli angeli si stanno facendo simili al Cristo, imitando e incorporando la sua “forma serpentinata”, mentre i dannati perdono per sempre la somiglianza al figlio di Dio per assumere una somiglianza invertita o “perversa” con Minosse, dove la figura serpentinata che libera il movimento delle figure si muta in un serpente costrittore.
F.Z.: All’interno della Sistina è sintetizzata in forma visiva l’intera storia spirituale dell’Umanità dal punto di vista cristiano: dalla Creazione al Peccato, dalla Redenzione al Giudizio. Il tuo libro si concentra in modo particolare sul Giudizio Universale e sul ciclo degli Antenati di Cristo. Per quale motivo ti sei interessato a queste parti e quale rapporto intercorre tra di loro?
G.C.: La storia dell’arte ha generalmente separato le tre parti che compongono gli affreschi sistini. Sono opere molto distanti nel tempo, realizzate da artisti di generazioni diverse per tre diversi Papi, ognuno dei quali aveva preoccupazioni e interessi particolari. Nel libro non solo ho voluto considerare le tre parti come un insieme, ma ho anche deciso di cominciare dall’analisi dal Giudizio, che è l’ultimo elemento aggiunto cronologicamente. L’ho fatto per varie ragioni. La principale è che le immagini si rispondono tra di loro se sono messe una accanto all’altra, indipendentemente dalla data della loro realizzazione. Quando il Giudizio viene aggiunto agli affreschi preesistenti si producono nuove relazioni e un nuovo senso, esattamente come quando si aggiunge un oggetto in un’istallazione di arte contemporanea.
Nel caso degli Antenati si può dire che la loro spossatezza era già evidenziata, per contrasto, con i corpi eroici e ispirati delle Sibille e dei Profeti. Ma il contrasto con il Giudizio fa apparire la loro fatica come una categoria dell’ideologia cristiana, in una prospettiva che stringe il nesso tra il tempo delle origini (ebraiche) e quello del compimento. Questa costruzione è coerente con il pensiero di san Paolo, senz’altro il più influente tra coloro che hanno immaginato la fine dei tempi, il quale insiste sul fatto che il senso della storia di un individuo come quello dell’umanità tutta intera si rivela solo a partire dalla fine.
F.Z.: Hai appena menzionato la spossatezza delle figure degli Antenati di Cristo, un tema centrale del tuo libro che porta a esiti sorprendenti.
G.C.: L’incongruità che ha subito attratto la mia attenzione davanti alle lunette degli Antenati è il rapporto tra la degna autorità dei nomi, scritti in lettere capitali e incorniciati in tavole di grandi dimensioni, e le figure che non hanno i tratti regali dei patriarchi e dei sovrani ai quali questi nomi si riferiscono. Vi si vedono giovani donne esauste intente a nutrire e accudire i loro bambini e vecchi padri buttati a terra o persi in melanconica meditazione. Di fronte a questa discrepanza, l’iconologia ha trovato soluzioni ingegnose ma fallimentari, come quella di tradurre in latino i nomi ebraici per poi cercare nella vulgata la presenza di tali nomi in situazioni comparabili a quelle che si vedono nelle lunette.
Considerando la lista dei nomi dal punto di vista dell’antropologia della parentela, sono arrivato alla conclusione che vadano mantenuti separati dalle figure o meglio articolati con esse secondo un principio di inclusione/esclusiva.
In altre parole, i nomi incorniciati nelle tavole si fanno carico di innestare la storia cristiana in quella degli ebrei e particolarmente in quella prestigiosa stirpe di Abramo alla quale apparteneva Giuseppe, marito di Maria, madre di Gesù.
Tuttavia, a questa funzione inclusiva si accompagna una funzione esclusiva della quale si fanno carico le figure stesse che esibiscono i tratti di “carnalità” che san Paolo attribuisce agli ebrei che non si convertono in seguaci di Cristo.
Tra questi, il più importante è l’ostinato rifiuto della Grazia di cui si possono riconoscere le conseguenze nelle lunette stesse: l’immersione in una vita limitata alle attività di sussistenza, la generazione e la cura dei figli, la pigrizia, l’avidità, l’erranza e persino la follia.
In breve: mentre i nomi esaltano la continuità tra la storia cristiana e quella degli ebrei, le immagini sono il luogo di produzione della differenza e di un’alterazione che si avvicina alla caricatura, affermando la crisi definitiva alla quale il modello genealogico di trasmissione del sangue da padre in figlio è stato sottoposto dall’inclusione di un figlio che è figlio di Dio e non di suo padre.
Questa rottura autorizza l’apertura della predicazione a tutte le nazioni, separando il “tempo scaduto” della storia veterotestamentaria da quello nuovo del messianismo cristiano. Si delinea così un paradosso che include la “storia genealogica” e al tempo stesso la esclude denunciandola come ormai superata.
F.Z.: Alcuni degli Antenati dipinti da Michelangelo recano i segni della stigmatizzazione antiebraica del XVI secolo. Questo anacronismo è passato inosservato alla storia dell’arte fino a pochi anni fa. Come ti spieghi questa cecità?
G.C.: Nel 2003 la storica dell’arte americana Barbara Wish ha pubblicato un articolo dove rivela la presenza di un segno circolare sulla tunica gialla di uno di personaggi della lunetta che porta il nome di Aminadab. Il restauro che ha reso visibile questo signum si era concluso quasi vent’anni prima e ci si può quindi chiedere cosa ne abbia impedito la visibilità per tutto questo tempo.
Penso che uno dei veli che hanno nascosto la marcatura sia lo statuto di “capolavoro” che la Sistina ha acquisito immediatamente e mai perduto nel corso dei secoli. L’opera di un artista distante da ogni forma di realismo non poteva esibire un tratto “documentario”, la testimonianza di una marcatura infamante. Non si poteva inoltre facilmente ammettere che Michelangelo condividesse con la cultura del suo tempo una precisa forma di antigiudaismo.
Un altro velo è di ordine epistemologico: si trova quello che si cerca. Per dirlo in modo meno meccanico, le domande orientano la ricerca, guidano lo sguardo e, dal dopoguerra fino al 2003, le domande sugli Antenati sono state essenzialmente orientate sul rapporto tra i nomi e le figure. Ho tuttavia incontrato alcuni testi che fanno apparire il carattere semitico delle figure. Tra i più interessanti, quello di Emile Zola che nel suo romanzo Rome (1896) descrive gli Antenati come “la razza punita”, frase che risuona con la sua denuncia dell’antisemitismo francese nell’affaire Dreyfus. Sydney Freedberg, dal canto suo, aveva scritto che in queste figure la dimensione domestica e quella semitica si incontrano e si sovrappongono.
Si trattava, insomma, di cambiare la domanda. Non più “chi sono questi personaggi”? Ma che ruolo assumono nel montaggio della storia che si realizza negli affreschi? Nel libro non pretendo di aver svelato il mistero degli Antenati, ma spero di aver fatto apparire qualcosa che non è spiegabile in rapporto a una fonte scritta: il dialogo che le strane iconografie di queste figure intraprendono con altre iconografie: quella della Santa Famiglia e di Giuseppe in particolare, quella della Madonna del latte, quelle dei cicli dei mesi del Palazzo della Ragione di Padova, quelle, altrettanto “paradigmatiche”, dell’albero di Jesse, ma anche quelle delle stampe antisemite di area germanica.
F.Z.: Negli ultimi anni, la filosofia italiana si è caratterizzata per la capacità di indagare i nessi tra teologia e politica. Penso in particolare ai lavori di Giorgio Agamben e a quelli di Roberto Esposito, citati anche all’interno del tuo libro. Al di là della ricerca filosofica propriamente detta, mi pare che Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina ci inviti ad assumere consapevolezza del “pensiero visuale” che trova espressione nelle opere stesse.
G.C.: Perché ancora un libro sulla Sistina? Per le stesse ragioni che spingono Agamben, Esposito e altri studiosi a rileggere le Lettere di san Paolo. Il paradigma teologico enunciato da san Paolo è corporativo, alla fine dei tempi tutti gli uomini giusti saranno incorporati in un unico corpo del quale il Cristo è la testa e i cristiani le membra.
Come nei miei lavori su Bernini e Caravaggio, anche in questo libro si trova la questione dell’efficacia dell’opera sullo spettatore, qui assoggettato dalla “terribilità” dell’affresco ma anche invitato a giudicare sé stesso, soggettivandosi. Si incontra inoltre, di nuovo, il paradigma della “conformazione”, un principio di “somiglianza” che è al fondamento della teoria cristiana dell’immagine ma che è stato quasi completamente ignorato dalla storia dell’arte. Nel suo Giudizio Universale, Michelangelo mostra la penultima tappa di questo processo di incorporazione attraverso l’assunzione di somiglianza.
Il portato politico di questo modello è considerevole e ancora attuale, se si estende la nozione di conformazione al di là del suo senso sacramentale sul piano della vita sociale e politica. L’idea della nazione come corpo è, d’altra parte, ancora oggi ben presente. Basta pensare ai nazionalismi e alle purificazioni etniche dove si tratta precisamente di espellere le impurità da un corpo collettivo omogeneo.
F.Z.: Si potrebbe dire che la tua ricerca porta alla luce le tracce del discorso antiebraico presente nel ciclo di affreschi e correlato al contesto storico del XVI secolo. Allo stesso tempo, mostri le tracce di una presa di distanza da parte di Michelangelo - o meglio di un’adesione al modello figurativo della “vita secondo la carne” - nei confronti del meccanismo teologico-politico che lui stesso ha contribuito a edificare.
G.C.: La condizione degli ebrei che vivono tra i cristiani all’epoca di Michelangelo è molto diversa da quella del XIX e nel XX secolo. Nel libro ho cercato di evitare ogni generalizzazione astorica: la situazione degli ebrei cambia e si aggrava con il papato di Paolo IV Carafa, ma già durante il Papato di Paolo III la conversione forzata degli ebrei viene presa in considerazione. Gli studi di Adriano Prosperi, di Kenneth Stow e di altri storici hanno rivelato che la “purificazione” della cristianità intensa come un corpo collettivo è sorta nell’ambito dei fautori della Riforma prima di essere messa in atto dai conservatori.
Nelle Storie di Mosè e di Cristo degli affreschi del Quattrocento, la posizione degli ebrei è determinata dal paradigma tipologico: le azioni di Mosè prefigurano quelle di Gesù. Nel ciclo degli Antenati, il paradigma tipologico viene abbandonato perché ad essi sono attribuiti i tratti degli ebrei che hanno rifiutato di convertirsi e non hanno dunque più nulla da annunciare. Nel Giudizio, infine, attorno al Cristo risorto si riconoscono figure di sapienti o profeti ebraici perché la conversione degli ebrei è uno dei segni dell’imminenza della fine dei tempi, insieme all’avvento dell’Anticristo. Questo schema deve pero essere “messo a lavoro”, montando tra di loro le varie parti per mostrare come nel passaggio tra l’una e l’altra non solo cambia il modo di raccontare la storia ma si descrive l’esplosione del modello tipologico e della spazialità prospettica.
La posizione di Michelangelo è davvero singolare, nel senso che riguarda direttamente la sua persona o, meglio, la costruzione sperimentale della propria immagine all’interno del grande costrutto storico-teologico degli affreschi. Non penso che l’artista esprima una distanza rispetto a quel costrutto, ma si serve della figura dell’ebreo per denunciare la tiepidezza della propria fede. Confrontando gli affreschi con i poemi penitenziali dove l’artista si attribuisce i tratti di “negligenza” che si ritrovano nelle figure delle lunette, ho avanzato l’ipotesi che si possa riconoscere sulla Volta sistina un’immagine sperimentale di Michelangelo come Antenato. Questa figure di sé come un ebreo - come anche quella che, nel Giudizio, lo mostra come una pelle scuoiata e pendente - esprime un’inquietudine profonda, percepibile se si associano queste due immagini di sé all’idea di una carnalità che non può essere “conformata”. Tuttavia, se leggiamo con attenzione i poemi di Michelangelo capiamo che l’autore desidera di essere conformato almeno quanto lo teme.
F.Z.: Al di là della Sistina, la mia impressione è che la storia e la teoria dell’arte debbano rendersi sensibili ai dibattiti emergenti, mirati a studiare e riflettere criticamente sulle asimmetrie politiche e visuali consolidatesi nei secoli. Anziché ignorare tali dibattiti o aderirvi superficialmente, quanti si occupano di arti e di immagini possono forse fornire (e mettere in discussione) i propri strumenti per fare in modo che il carattere politico delle rappresentazioni emerga in tutta la sua portata.
G.C.: Di che cosa e in che modo una grande opera del passato parla al nostro tempo? Per rispondere a questa difficile domanda, posta allo storico dell’arte da Walter Benjamin, ci vuole un’elaborazione lunga e complessa. Tra i principali motivi per cui è importante continuare a studiare opere del passato è che attraverso la loro analisi e interpretazione si parla anche dell’oggi.
Personalmente, non sono disposto a rinunciare a questa forma complessa di esegesi, che non ha nulla a che fare con la celebrazione della superiorità dell’Occidente. Tanto è vero che propongo appunto di esporre questo “capolavoro” a uno sguardo antropologico comparatista, sia sul piano del mito che su quello del rito, e pongo al centro dell’analisi la relazione con l’Altro.
Nessuno degli studi sulla Sistina prima del mio aveva considerato gli affreschi come formidabile appropriazione del “passato ebraico” da parte dei cristiani. Una prospettiva di ricerca che è evidentemente informata dai dibattitti contemporanei ai quali ti riferisci. Tuttavia, una volta assunto questo punto di vista, penso che sia importante capire in che modo questa appropriazione si produca tramite il “lavoro delle immagini”, piuttosto che limitarsi a una semplice condanna. L’antropologia si confronta da sempre con fenomeni di appropriazione - più o meno violenti e più o meno riusciti - costitutivi delle dinamiche culturali umane. Il fatto che oggi alcune comunità vogliano farsi carico e riappropriarsi della loro memoria e degli oggetti nei quali essa è depositata fa parte di questa dinamica e ne ridisegna i contorni. È tuttavia importante scongiurare il rischio di una deriva identitaria che, riservando ai soli membri di una comunità il diritto di occuparsi della propria memoria, proietti sugli oggetti culturali del passato un’idea di purezza.
Quanto al sapere depositato nella storia dell’arte, penso che andrebbe profondamente riformulato nel senso che ho indicato prima. Si tratta di mostrare che quel “patrimonio” resta sterile se non si fa apparire ciò che in lui “ci riguarda”. Senza per questo ridurre l’alterità del passato e delle diverse culture che caratterizzano il tempo presente.
* Fonte: Il lavoro culturale, 13 Novembre 2020 (ripresa parziale, senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE": IL "SOGNO" DI MICHELANGELO. Sibille e profeti: sulle tracce di Benjamin
FLS
Profezia di Proust: “La Grande Guerra è feroce fantascienza”
Finalmente digitalizzate e disponibili trenta lettere dello sterminato carteggio dell’autore della “Recherche”, preoccupato per la sorte dei soldati e dei suoi amanti
di Camilla Tagliabue (Il Fatto, 08.12.2018)
A pochi giorni dallo scoppio della Grande Guerra c’era già chi vaticinava: “Milioni di uomini stanno per essere massacrati in una Guerra dei mondi paragonabile a quella di H.G. Wells, solo perché uno sbocco sul Mar Nero è vantaggioso per l’imperatore d’Austria”. Non è un oracolo qualunque, è Marcel Proust, profetico e ieratico come una Pizia nel tempio di Delfi: al pari della sacerdotessa, lo scrittore viveva chiuso in una stanzetta perennemente profumata, non dai vapori dell’alloro ma dai fumi dell’oppio, che - credeva lui - gli alleviavano l’asma e certo gli regalavano il dono della preveggenza.
La previsione non scontata dei milioni di morti e della guerra come feroce romanzo di fantascienza si trova in una lettera al cugino e consulente finanziario Lionel Hauser, una delle trenta lettere digitalizzate e ora disponibili a tutti sulla piattaforma Corr-Proust (proust.elan-numerique.fr/letters/all), nata dalla sinergia tra l’Università dell’Illinois e l’Ateneo di Grenoble. Il prezioso carteggio - tra il 1914 e il 1918 - è solo il primo a essere pubblicato e divulgato online: i ricercatori stanno, infatti, catalogando e digitalizzando le oltre 6.000 missive del grafomane autore della Recherche, prolisso pure nelle private corrispondenze.
A Hauser il 43enne Proust (1871 - 1922) scrive nella notte tra il 3 e 4 agosto 1914: di giorno preferisce dormire, fino alle quattro del pomeriggio circa, senza contare la cagionevole salute, per cui persino “per il mio libro sono stato intervistato a letto”. Oltre a esprimere al banchiere le sue preoccupazioni economiche - la guerra, e il conseguente ribasso delle Borse, gli brucia i risparmi -, Marcel confida le sue paure sui “giorni terribili che stiamo attraversando: i miei poveri interessi mi sembrano del tutto irrilevanti... Spero ancora, io che non sono un credente, in un miracolo che fermi all’ultimo questa macchina letale. Mi chiedo come un cattolico praticante come l’imperatore Francesco Giuseppe possa apparire davanti a Dio dovendogli riferire delle milioni di vite umane sacrificate”.
Con il compositore Reynaldo Hahn, uno dei suoi tanti amorazzi, si lascia andare a confidenze più intime, persino sugli ex: “Ho davvero adorato Alfred (Agostinelli, morto pochi mesi prima pilotando un aereo e probabile modello dell’Albertine della Recherche, ndr). Non è sufficiente dire che l’ho amato, e non so perché lo scrivo al passato perché lo amo ancora... Ma con lui non mi sento obbligato a un dovere come quello che mi lega a te, anche se ti amassi mille volte di meno”. Quanto all’omosessualità, chiede all’amico la massima riservatezza: “Se mai vorrò formulare queste cose sarà con lo pseudonimo di Swann. Quando leggerai All’ombra delle fanciulle in fiore, riconoscerai l’anticipazione e la profezia di ciò che ho vissuto”.
Proust è molto preoccupato, inoltre, per le sorti del fratello Robert (che presta servizio come chirurgo, ma tornerà sano e salvo e verrà insignito anni dopo della Legion d’Onore, ndr): “È partito per Verdun”, scrive a Louis de Robert, “ma sul fronte il fuoco non è mai cessato. Tutti i miei più cari amici sono in prima linea”. Per consolarsi spedisce lettere a un altro spasimante, Lucien Daudet, figlio del più famoso Alphonse: “Tutto può essere tollerato quando pensiamo al martirio dei soldati: siamo così commossi dal loro sacrificio... Spero che tu non abbia troppi amici tra i ‘Morti d’onore sul campo’: piangiamo persino gli estranei”.
Poi manda messaggi a Cocteau per complimentarsi con Picasso; se la prende coi “moderni D’Artagnan”; spettegola sui colleghi che, insensibili alla tragedia, si lanciano in paragoni con le commedie di Molière. Non mancano, infine, le riflessioni sulla letteratura, in tempi in cui l’odio per il nemico straborda dalle trincee alle accademie, ai giornali, alle arti.
Tutti ce l’hanno con Wagner, ma “se invece di essere in guerra con la Germania lo fossimo con la Russia, cosa si direbbe di Tolstoj e Dostoevskij?... Non possiamo privare, non dico i nostri musicisti, ma i nostri scrittori del prodigioso e fecondo ascolto del Tristano, della Tetralogia... Arte e Guerra! Ci viene detto di poesie che fomentano la guerra, ma io non ci credo troppo”.
CRISTO ED EDIPO: LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Un omaggio al lavoro del prof. Romeo De Maio e del prof. Giuseppe Cacciatore...
Recensioni editoriali
Enigma per due: si dice Sfinge, si pensa a Cristo *
È molto presente e non se ne fa accorgere. Sta nelle cattedrali, sui frontespizi degli edifici delle istituzioni, nei dipinti e nelle sculture, nelle illustrazioni dei codici, della Bibbia, nei poemi, nell’inafferrabilità delle migliori musiche. È la Sfinge, questo essere che noi umani chiamiamo mostruoso perché ha artigli al posto delle mani e lo sguardo non sfuggente. Ti guarda, lei, trapassandoti in un attimo, ti consegna al mistero, ai suoi abissi che si fanno domanda, e probabilmente fu proprio quell’attimo che, dieci anni fa, colse lo storico Romeo De Maio nella cattedrale di Bari quando, per la prima volta, si accorse della Sfinge rappresentata sulla finestra absidale del Duomo. C’era stato molte volte, lì, non l’aveva scorta mai. Dietro di lei, raffigurata sopra un carro, i simboli dell’eucarestia. Fu una folgore. Che cosa univa il pagano al sacro? E perché?
Cominciò in quel momento, per lui, “un’esperienza molto simile al poeta Theodor Däubler, che andò in Egitto per la Sfinge e le trovò Cristo accanto”. I risultati di quell’esperienza sono il libro “Cristo e la Sfinge - la storia di un enigma” (Mondadori, 350 pagine), in libreria. Negli ultimi dieci anni De Maio è andato in giro per il mondo (occidentale soprattutto) alla ricerca delle testimonianze che affiancano la Sfinge al Cristianesimo.
Perché? ” Il motivo fu l’impressionante creazione-incisione di Nicolas Poussin, pittore francese dimorato a Roma, per la copia della Bibbia destinata al re di Francia, nel 1642. Il pittore la intitolò “Chiesa e Sinagoga”, e raffigura il Dio Padre che benedice il Vecchio e il Nuovo Testamento. Sulla Bibbia tenuta in mano dal Vecchio c’è, distesa, una Sfinge che guarda da tutt’altro lato, verso est, dove sorge il sole”.
È solo un esempio dei migliaia ritrovati dall’autore. Testimonianze che non si riferiscono all’ufficialità dei documenti nel senso di rogiti, nel senso di carte bollate, nel senso di trattati con le firme apposte in calce. È questo uno dei rari casi in cui si elevano a documento storico, e dunque attendibili come una data con sopra il timbro dell’ufficialità, le espressioni degli artisti. Pittori, scultori, architetti, poeti. Teologi. Musicisti. Dicono la Storia, i suoi limiti, le sue possibilità. Le fanno i connotati.
Donatello, Bernini, Michelangelo, Klimt, De Chirico, Purcell, Giovanbattista Marino, Oscar Wilde, Mantegna, Stravinskij, Kirker, Pico della Mirandola, Cocteau, Mozart, l’abate Kirker, Flaubert. “L’artista - dice De Maio - ha la visione, l’intuizione al pari del Vate. Queste sono indispensabili, fondamentali per la conoscenza. Io ho sottoposto le creazioni artistiche alle regole della filologia e al rispetto dell’esperienza mistica”. In loro la Sfinge non è mai elemento ornamentale. Sia essa alla base di un trono gestatorio, sia riferimento poetico, sia nella scenografia di una rappresentazione teatrale. Così le madonne vegliate dalla Sfinge, da essa protette, i volti spesso uguali: i rimandi poetici, le allusioni cromatiche, la disposizione degli elementi. “Quando gli artisti la dipingono, anche su commissione papale, è per far aprire gli occhi agli ecclesiastici. Per svolgere un mistero, avviare una conoscenza non dogmatica”.
Più di tremila testimonianze ha trovato De Maio, ignorate dalla Chiesa in questi tremila anni. Come dire: volutamente non considerate. Perché è pericoloso ammettere quelle che oggi il linguaggio contemporaneo definirebbe contaminazioni. Perché il Potere Temporale, la sua Legge, non ammette altro Dio. Come avrebbe mai potuto accettare la presenza, accanto al figlio del Padre, accanto alla Madre del Figlio, lo sguardo misterioso e definitivo del simbolo pagano per eccellenza, che ha ispirato il mito tra i più antichi dell’uomo ed esplorati dalla psicanalisi nel secolo appena trascorso, con Freud che ha posto Edipo, e la profezia che a lui fece la Sfinge, tra noi e la vita che conduciamo?
De Maio considera “rivoluzionario” questo lavoro, questo lavoro, il suo “testamento anticipato. Lo avrei potuto anche intitolare “Cristo prima del Cristianesimo”. La Sfinge ci porta verso l’aspetto mistico dell’uomo, di Cristo; aspetto non considerato dal Potere Istituzionale Ecclesiastico nella sua nuda verità”. È un nuovo senso, una nuova possibilità vista da altro punto di vista. Una visione allargata e non ristretta. Senza inquisizioni. Che si apre alla domanda. Basta questa, vuole dirci De Maio, per avere la risposta.
* Fonte: Esonet.org, 14.05.2010
* SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
IL PROBLEMA MOSE’ E LA BANALITA’ DEL MALE: FREUD NELLA SCIA DI KANT (MA NON DEL TUTTO). LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Federico La Sala
ALIAS
Walter Benjamin e le pietre dell’apocatastasi
Ultraoltre. La salvezza di tutti gli esseri attraverso il ritorno allo stato originario
di Raffaele K. Salinari (il manifesto, 21.07.2018)
Ad un certo punto del folgorante saggio sull’opera di Nikolaj Leskov, Walter Benjamin ci introduce alla sua originalissima idea di apocatastasi: la salvezza universale attraverso il ritorno di tutti gli esseri alla pienezza originaria. Il sentiero che invita a percorrere da quel momento è, come spesso nel suo stile, notturno e sotterraneo: pieno di oscure analogie minerali e necriche metafore che però, alla fine, seguendo la mappa tracciata dal suo immaginario messianico, ci porteranno alla luce di una splendente verità.
Come guida naturale del tortuoso cammino, Benjamin staglia dai racconti di Leskov quella particolarissima figura che egli chiama «il giusto». Incarnazione complessa perché estremamente sfaccettata, maschera di volta in volta diversa - il buffone, lo scemo del villaggio, il viaggiatore, l’artigiano, il briccone - il giusto ha, però, un’essenza costante che si trasmette di personaggio in personaggio come in quelle Pathosformel che Warburg cercò di incasellare nel suo favoloso atlante Mnemosyne.
Per distillare questa essenza Benjamin parte da Bloch - che come lui aveva difficili rapporti con i francofortesi - citandone l’interpretazione del mito di Filemone e Bauci, nel quale si descrive la figura del giusto come colui, o colei, che portando con sé un tocco gentile, lo fa amico di tutte le cose. La madre di Leskov stesso ad esempio «che non poteva infliggere una sofferenza a nessuno, neppure agli animali. Non mangiava carne né pesce, tanta era la sua compassione per le creature viventi». Il giusto, conclude Benjamin, è allora il portavoce delle creature ed insieme la sua più alta incarnazione. E così vediamo che la sua essenza immutabile è quella di un essere «favolosamente scampato alla follia del mondo» e che, proprio mercé questa sua caratteristica, è in grado, attraverso i suoi racconti, di portare un annuncio di salvezza, di apocatastasi.
«Apocatastasi» è un termine dalle molteplici accezioni a seconda degli ambiti in cui viene usato. Letteralmente significa «ritorno allo stato originario», oppure «reintegrazione». Nella filosofia stoica, ad esempio, si collega alla «dottrina dell’eterno ritorno»: quando gli astri assumeranno la stessa posizione che avevano all’inizio dell’universo. Per il neoplatonismo, invece, l’apocatastasi è qualcosa di più spirituale, cioè il ritorno dei singoli enti all’unità originaria, all’Uno indifferenziato da cui l’intero insieme delle cose manifestate proviene; è ciò che gli gnostici chiamerebbero il Pleroma. Questa idea si inserisce appieno all’interno del tema, prettamente religioso, della Caduta: l’allontanamento dell’uomo dalla sua originaria comunione con l’Assoluto, col Divino, ma anche di un suo possibile ritorno alla pienezza edenica originaria. Nella teologia dei primi Padri della Chiesa il suo teorico è Origene.
Dice allora Benjamin: «Una parte importante, in questa dogmatica [della chiesa greco-ortodossa], è svolta, com’è noto, dalle teorie di Origene, respinte dalla chiesa romana, sull’apocatastasi: l’ingresso di tutte le anime in paradiso. Leskov era molto influenzato da Origene. Egli si proponeva di tradurre la sua opera Sulle cause prime. In armonia con la fede popolare russa, egli interpretava la resurrezione più che come una trasfigurazione, come la liberazione da un incantesimo, in senso affine a quello della favola». Benjamin, dunque, è qui teso a mettere in rilievo, anzi diremmo a dispiegare pienamente, non tanto il senso teologico, escatologico, del termine, quanto il suo potenziale immaginale, evocativo, metaforico, grazie al quale egli può farci vedere, nei personaggi della narrativa leskoviana, «l’apogeo della creatura» ed allo stesso tempo «un ponte fra il mondo terreno e ultraterreno», costruito attraverso l’atto creativo, poietico, del racconto.
Ma, per la nota verità metafisica secondo cui «ciò che è in alto è come ciò che è in basso», «il giusto» collega sia le vette, gettando un ponte tra il modo terreno e quello ultraterreno, sia le voragini nascoste nelle viscere della terra con ciò che avviene in superficie. «La gerarchia creaturale, che ha nel giusto la sua cima più alta, sprofonda in gradini successivi nell’abisso dell’inanimato. Dove bisogna tener presente un fatto particolare. Tutto questo mondo creaturale non si esprime tanto, per Leskov, nella voce umana, ma in quella che si potrebbe chiamare, col titolo di uno dei suoi racconti, la voce della natura». E dunque eccolo presentarci una di quelle intuizioni che collegheranno la figura del giusto, inteso come interprete della «voce della natura» e della salvezza, alle sue rappresentanze più elementari e sotterranee. «Quanto più Leskov discende lungo la scala della creature, tanto più chiaramente la sua concezione si avvicina a quella dei mistici». Ed a questo punto, con uno dei suoi scarti spettacolari, Benjamin passa a parlare del racconto di una pietra che racchiuderebbe una profezia: l’Alessandrite.
L’Alessandrite e la pulce di acciaio
Il racconto di Leskov citato da Benjamin, si intitola come la pietra che ne è protagonista. Narra di un tagliatore di pietre di nome Wenzel che ha raggiunto nel suo lavoro vette eccelse, paragonabili a quelle degli argentieri di Tule che ferrarono la famosa «pulce di acciaio» capitata nelle mani dello zar Nicola I. Qui una breve digressione è d’obbligo poiché questa pulce, questa «ninfosoria» come viene definita nel racconto, caricabile a molla e di grandezza naturale, pare esista davvero e sarebbe ammirabile nel Museo delle armi in città. Uno scrittore italiano contemporaneo dice di averla vista.
Chi ama Tolstoj conosce Tule, dato che la sua famosa residenza, Jasnaja Poljana e la sua tomba, si trovano da quelle parti. La storia è semplice ma suggestiva: il fratello della zar Nicola I, Aleksàndr Pàvlovic, riceve in dono dagli «inghilesi» questo manufatto, una «ninfosoria» appunto, fatta di acciaio brunito che, mercé una piccola chiavetta inserita nella pancia, può essere caricata e dunque muoversi come una vera. Alla morte del fratello la pulce meccanica passa all’Imperatrice vedova Elisavéta Alekséevna che però, stretta nel suo lutto inconsolabile, decide di inoltrarla al nuovo sovrano. Il novello zar Nicolàj Pàvlovic in un primo tempo la trascura, per impellenti questioni di stato, poi si impunta e cerca di trovare il modo di eguagliare, o meglio, superare la bravura degli odiati «inghilesi». E dunque ordina ad un suo uomo di fiducia di raggiungere i famosi argentieri di Tule, rinomati per la loro maestria, e vedere cosa potessero fare per surclassare l’arte britannica. Dopo qualche tempo la ninfosoria di acciaio brunito torna a palazzo. In apparenza è immutata e lo zar si adira ma, ad una più attenta osservazione microscopica, ecco apparire il prodigio tecnologico: su ogni zampetta della pulce di acciaio è stato addirittura apposto come un ferro di cavallo e, su ognuno, è inciso il nome del mastro argentiere che l’ha forgiato!. L’orgoglio russo è salvo.
Alla stessa dinastia zarista è invece legata la vicenda, anche questa in bilico tra storia e leggenda, dell’Alessandrite. Qui si tratta della scoperta di una pietra singolare che prende il nome dal futuro zar Alessandro II, figlio di Nicola I. La pietra venne, infatti, cavata per la prima volta il giorno della sua nascita, nel 1818. Questo è lo zar dell’epoca in cui si svolge il romanzo Anna Karenina di Tolstoj, un periodo burrascoso e denso di avvenimenti storici rilevanti. Ecco che allora la caratteristica peculiare di questa pietra diviene una sorta di profezia sulla vita e la morte dell’omonimo sovrano. Essa, infatti, è verde alla luce del sole e rossa a quella artificiale. Il fenomeno è dovuto alle inclusioni di cromo, presenti anche nel corindone e nello smeraldo. Ora, nel racconto di Leskov, la casuale scoperta della pietra nel giorno natale del futuro zar, e le sue caratteristiche cromatiche, fanno intessere al narratore la profezia che la vuole metafora della vita di Alessandro II. Verde alla luce del mattino, dunque nella giovinezza e nella maturità dell’imperatore di tutte le Russie, essa diviene color sangue al calar delle tenebre, simboleggiando così la tragica fine che, effettivamente, subì il sovrano.
Il 13 marzo del 1881, infatti, lo Zar si disse disposto a prendere in considerazione le modalità dell’abolizione della servitù della gleba. Ma era già troppo tardi. Lo stesso giorno alcuni cospiratori guidati da Sofja Perovskaja misero in atto un astuto piano per eliminarlo. Alessandro II era già sfuggito più volte alla morte per attentato, ma quella volta il disegno riuscì. Mentre faceva ritorno al Palazzo d’Inverno, la sua carrozza fu colpita da una bomba lanciata da Nikolaj Rysakov, ma egli rimase illeso. Sceso per accertarsi dei danni fu investito dall’esplosione di una seconda bomba. Lo scoppio lo colpì ferendolo mortalmente. La profezia dell’Alessandrite si era avverata.
V.I.T.R.I.O.L.
Ma la poetica di questi elementi naturali, secondo la visione di Benjamin, emana ancor più potentemente da ciò che rimane nella profondità della terra, dando loro addirittura il potere di ricombinare il destino dei vivi con quello dei morti, di salvare eternamente e al tempo stesso gli uni e gli altri. E d’altronde il pensiero dell’eternità non ha sempre avuto la sua fonte principale nella morte? Per attivare questa operazione favolosa egli utilizza allora come Prima Materia del suo athanor immaginale uno degli autori preferiti l’«indimenticabile Johann Peter Hebel». «La morte è la sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare» afferma icasticamente e aggiunge, «dalla morte egli attinge la sua autorità. O, in altre parole, è la storia naturale in cui si situano le sue storie». La morte dunque è l’origine del racconto, la matrice della sua eternità. Come non vedere in questa affermazione la sanzione dell’opera al nero, primo gradino del processo alchemico?
Per Benjamin allora la pietra filosofale, cioè l’incanto salvifico della narrazione, la sua funzione come strumento di una vera e propria apocatastasi, nasce nel crogiolo della storia naturale formandosi da un compost affatto speciale. Ecco l’atmosfera nella quale ci vengono presentati i due grandi protagonisti del racconto di Hebel Insperato incontro: il tempo che dissolve i corpi, ed il suo comprimario che qui, paradossalmente, li coagula, il vetriolo.
La parola vetriolo, dal latino vetriolum, compare per la prima volta intorno al VII-VIII secolo d.C., e deriva dal classico vitreolus. Con questa radice etimologica possiamo pensare che il nome trovi origine dall’aspetto vetroso assunto dai solfati di rame e di ferro cristallizzati. Per quelli di rame è di colore azzurro intenso (per questo detto anche vetriolo azzurro o di Cipro o di Venere, la dea portata verso l’isola dalle azzurre onde del mare, ma anche il pianeta di riferimento del rame) mentre nel solfato di ferro è di colore verde azzurro (vetriolo verde o marziale, perché Marte è il pianeta di riferimento del ferro). Sarà quest’ultimo, lo vedremo tra poco, il vetriolo protagonista del racconto.
Sia il vetriolo di rame che il vetriolo di ferro erano conosciuti ed utilizzati dagli Egizi e dai Greci, anche se non sotto questo nome. Forse il famoso natron, che serviva ad imbalsamare i corpi, ne conteneva una certa quantità. L’immancabile Plinio il Vecchio, nella sua Historia Naturalis, menziona una sostanza che chiama «vetriolo« e ne descrive l’estrazione «dalle acque ramifere». Questo nome comprende, e confonde, in realtà, una vera e propria famiglia di composti. Ecco allora che bisogna chiamare in causa anche l’alchimia poiché esso, chiamato vetriolo filosofico, indica nulla di meno che il Solvente Universale, e cioè tutti quei composti chimici che consentono di avviare la procedura condensata nella nota formula «solve et coagula». Per questo le sue origini si perdono nella notte dei tempi, essendo indicato come tale, ma anche con tantissimi altri nomi, in tutti i trattati di Arte Regia. La prima sintesi del vetriolo come Solvente Universale, cioè come acido solforico, la si deve all’alchimista islamico Ibn Zakariya al-Razi che lo ottenne per distillazione a secco di minerali contenenti ferro e rame.
Per completezza simbolica bisogna citare anche l’acronimo, V.I.T.R.I.O.L., che compare nell’opera Azoth del 1613 dell’alchimista Basilio Valentino. Il suo svolgimento è: «Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem», cioè «Visita l’interno della terra, operando con rettitudine troverai la pietra nascosta». La frase simboleggia la discesa all’interno dell’essere per operare con rettitudine alla ricerca del proprio gioiello interiore.
E allora concludiamo la parabola dell’apocatastasi benjaminiana, con il bel racconto di Hebel di cui il vetriolo marziale è protagonista. Siamo a Falun, in Svezia, presso le miniere di ferro. Due giovani sono innamorati e presto si sposeranno. Lui però è un minatore ed un giorno non torna più: la miniera è crollata. Passano gli anni e la fidanzata gli rimane fedele. Dopo decenni, in cui il tempo lavora sulla materia vivente, ecco che dalla vecchia miniera riemerge il corpo del minatore: è intatto poiché il vetriolo lo ha imbalsamato nel momento della giovinezza. Mentre lo seppellisce esclama: «Dormi in pace adesso, un giorno ancora o forse dieci, in questo fresco letto nuziale, e non ti sembri lungo il tempo. Mi restano soltanto poche cose da fare, e presto verrò, presto sarà di nuovo giorno. Ciò che la terra ha già una volta reso, una seconda non lo tratterrà». Tutto è giusto e perfetto.
IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”. LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI ... *
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. “Questo è il gatto con gli stivali” *
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
Edoardo Sanguineti
* SI CFR. : KARL MARX E WALTER BENJAMIN - “PURGATORIO DE L’INFERNO”: IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”. LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=519#forum3139212
Walter Benjamin, il gioco che rovescia il passato
Scaffale. «Il principio ripetizione» di Marina Montanelli, edito da Mimesis. L’analisi scrupolosa di un complesso lascito intellettuale
di Marco Mazzeo (il manifesto, 10.03.2018)
Non è raro che ai pensatori più innovativi del XX secolo sia riservato un trattamento pessimo. È il caso di Walter Benjamin. A seconda delle circostanze diventa mass-mediologo, mistico esoterico, ben che vada generico teorico della tecnica. A tal proposito, il recente libro di Marina Montanelli (Il principio ripetizione. Studio su Walter Benjamin, Mimesis, pp. 163, euro 16) aiuta a fare non solo chiarezza, ma giustizia. Attraverso l’analisi scrupolosa di un complesso lascito intellettuale, Montanelli rilegge il pensiero del filosofo attraverso una categoria spiazzante, almeno per chi è abituato a letture di maniera.
AL CENTRO DEL PENSIERO di Benjamin vi è la categoria della ripetizione. Questa è una nozione chiave perché, invece che di mass-media, durante l’intera esistenza il filosofo tedesco lavora all’elaborazione di qualcosa che somiglia molto a una antropologia. Benjamin distingue tra due nozioni di ripetizione, simili all’apparenza e invece diverse come le due sponde di un fiume. La prima è la ripetizione di religione e destino: l’eterno ritorno dell’identico, un cerchio che si morde la coda ribadendo senza sosta le proprie leggi. La seconda è una «ripetizione differenziale» che ripetendo trasforma e modifica.
QUESTA RIPETIZIONE, non più mitica ma storica, la si ritrova là non dove meno lo s’immagina. Non solo nei conflitti rivoluzionari o in una tecnica prodigiosa come quella cinematografica, quanto nella stanza del più innocuo degli infanti. È al gioco, infatti, che è dedicata una delle parti decisive del libro. Il mondo ludico, nella semplicità di chi costruisce giocattoli montando parti o li distrugge per separarne le componenti, è la chiave antropologica di un’attività che, proprio perché ripetitiva, si rivela innovativa.
Contro il mito del genio creativo (di moda tanto nelle religioni confessionali che nel marketing pubblicitario), il nuovo nasce secondo Benjamin per mezzo di una ripetizione del passato. A differenza del rito, che ripete un evento al fine di confermarne la validità (la ciclicità del Natale), il gioco non si limita a fare manutenzione. L’attività ludica manomette ciò che è stato (tradizioni, lingue, modalità espressive) nel senso letterale dell’espressione. Montanelli insiste sulla dimensione tattile di una ripetizione che produce futuro.
IL GIOCO, PER BENJAMIN, è il paradigma di attività sofisticate come il montaggio filmico perché non si limita a restaurare una immagine, ma la modifica per senso e struttura. A forza di cavalcarla, la scopa diventa cavallo. Il rapporto tra queste due forme di ripetizione è tutt’altro che pacifico: l’eterno ritorno mitico-religioso è portato a fagocitare l’innovazione che sorge dal gioco; l’attività ludica a propria volta non è irenica. Il giocattolo, ad esempio, è una forma innovativa che nasce da atti distruttivi. Fa a pezzi altri giochi, frantuma materiali, più in generale tende a prendere le distanze dalla tradizione. Il ludico, insiste il linguista Émile Benveniste, proviene dal sacro. Benjamin, chiosa Montanelli, aggiunge un dettaglio tutt’altro che irrilevante: proprio perché hanno un comune luogo d’origine, il gioco non condivide ma contende al sacro il suo campo d’azione. Tra altare e monopattino vige un rapporto d’antagonismo. Se netta è la contrapposizione tra sacro e gioco, massima è l’ostilità tra sacro, gioco e capitalismo.
A PARTIRE DALLA FINE dell’Ottocento, infatti, tra i due litiganti è stato il capitale ad aver preso la scena. Dalla liturgia rituale il regno della merce assume la postura dell’eterno ritorno, un presente dal quale pare impossibile fuggire. L’attuale sistema produttivo ha fatto suo, infatti, pure lo spazio antropologico della festa (la domenica, il carnevale) che, seppur in modo limitato, lasciava un qualche margine di manovra a movimenti innovativi e a gerarchie capovolte.
D’altro canto, il capitalismo ruba anche dal gioco giacché mette al lavoro l’instancabilità del bambino quando dalla bicicletta proprio non vuole scendere anche se ormai, rimprovera l’adulto, si è fatto buio. Quella della merce è un’epoca di lavoro incessante e febbrile: ripete come il sacro ma senza i suoi interstizi; si affanna con stile infantile privo però di possibilità di trasformazione. Nonostante la cupezza della diagnosi, sottolinea il libro, Benjamin non cede alla nostalgia.
PROPRIO A CAUSA della sua aggressività, il capitalismo ha finito con lo spazzar via molte delle abitudini e delle forme reiterative tradizionali. Di fronte a un’antropologia politica sovversiva si staglia una prateria brulla ma immensa. Oggi più che mai la struttura logica del gioco si rivela centrale e liberatoria perché invita a farcela con poco, incoraggia chi costruisce a partire da frammenti, è paradigma del ripetere cambiando.
Walter Benjamin, l’intensità dell’attimo e il tempo discontinuo
«Attraverso la piccola porta», un saggio di Massimiliano Tomba pubblicato per Mimesis
di Mario Pezzella (il manifesto, 16.02.2018)
Si intitola Attraverso la piccola porta (Mimesis, pp. 114, euro 14) il volume che Massimiliano Tomba dedica a Walter Benjamin, presenza cruciale nella filosofia del ’900; il pensiero del filosofo berlinese è l’unica vera alternativa a Heidegger. Partendo da questa chiara posizione, Tomba rilegge i temi decisivi di Benjamin, primo fra tutti l’opposizione fra giustizia e diritto, a partire dal saggio Per la critica della violenza. Nonostante la neutralità che esibisce nelle democrazie rappresentative, il diritto non cancella, ma codifica la violenza fondatrice dello Stato e i rapporti di potere che ne conseguono.
L’uguaglianza statuita dal diritto è solo formale, è una riduzione passiva delle insorgenze egualitarie; riconosciuta come principio, essa non è realizzata. È il caso del lavoro salariato: oggetto di un contratto i cui contraenti sono uguali in astratto e in realtà divisi da un rapporto di sfruttamento.
CONNESSA ALLA CRITICA del diritto è quella alla democrazia parlamentare, in cui il rappresentante agisce in nome di un Popolo-Uno, che è invece diviso in classi e interessi in conflitto ed è un fantasma prodotto dalla rappresentanza stessa, con cui essa cerca di legittimarsi. In effetti la delega si autonomizza, non è più controllata e agisce in nome di una fittizia universalità: «Il popolo, come unità e totalità, è l’assente che viene reso visibile come soggetto politico attraverso il rappresentante che agisce in suo nome». In questo contesto, la violenza della polizia è sempre latente e pronta a emergere, a intervenire in stato di emergenza, al di fuori dei codici stabiliti, con diritto sovrano di vita e di morte. Benjamin pensava agli spartakisti e alla morte di Rosa Luxembourg. La democrazia cela il germe di un regime autoritario, senza che ci sia tra di essi un salto di continuità.
UNO DEI PREGI MAGGIORI del libro è di applicare a Benjamin il suo proprio metodo, creando un corto circuito dialettico tra il testo analizzato e il nostro presente. Così avviene per i termini di violenza mitica e violenza divina. La prima è il «contesto colpevole» in cui il potere chiude la vita: e si riattualizza nella condizione dei migranti oggi, posti di fronte a confini e muri, superando i quali incorrono nella colpa e nella morte: «La violenza mitica emerge ogni qualvolta che viene violato un confine». Tomba attualizza Benjamin alla luce dello stato di emergenza in cui noi stiamo vivendo, collocandolo nel tempo discontinuo delle rivolte e delle brecce di libertà degli oppressi.
La violenza divina si oppone a quella del diritto e dello Stato. La felicità a cui mira ha un aspetto anarchico e nichilista perché - afferma Benjamin nel Frammento teologico-politico - produce il dissolvimento di una legge e di un ordine simbolico divenuti ingiustificabili. Da qui nasce il sentimento di festa e liberazione che accompagna gli inizi di una rivoluzione: questa è un arresto del tempo e non una corsa sfrenata verso il progresso, e solo così spezza il ciclo della violenza mitica e «il continuum violento del diritto». In tale dissolvimento di vincoli giuridici ingiusti, si comprende il rilievo dato da Benjamin allo sciopero generale di Sorel, capace di porre in sospeso le funzioni statali e le relazioni di sfruttamento salariale, fino a produrre una crisi implosiva dell’ordine del capitale: «Per chi è oppresso, felicità può solo essere il passare della presente condizione subalterna». In effetti il «vero politico» di Benjamin non si limita ai possibili presenti in una situazione ma è «colui che sa indicare l’uscita dalla situazione come possibile». Lo sciopero generale è una desistenza generalizzata dalla prassi del capitale.
IL VERO POLITICO apprezza i «differenziali di tempo», la presenza di possibili non codificati, appartenenti a esperienze «altre» nello spazio e nel tempo, anche non occidentali, che è possibile riattualizzare nel multiversum temporale del presente. C’è una «storia invisibile» che riemerge periodicamente dal suo fondo sotterraneo, e si affida al tempo discontinuo dell’intensità dell’attimo, in cui ogni frammento di tempo è la «piccola porta», da cui potrebbe entrare il Messia: «Ogni singola azione ha il ritmo della natura messianica...Si tratta di agire, in ogni singolo atto, come se il Messia fosse già arrivato».
Questa intensità giustifica il sentimento di fratellanza con coloro che nel passato o nel presente hanno partecipato alla lotta contro il dominio. «La fratellanza è un simbolo che investe le generazioni passate, presenti e future». Certo, non abbiamo soluzioni sicure per evitare che il momento festoso e destituente delle rivoluzioni si irrigidisca in nuovi ordini statuali oppressivi. Tuttavia il concetto di fratellanza, che implica ad un tempo il riconoscimento dell’uguaglianza e della irriducibile differenza dell’altro, può essere una buona unità di misura nella lotta per la libertà.
La piccola porta del messia. Walter Benjamin e la storia
di Giorgio Berruto (Joimag, 11 Luglio 2022)
Passato, presente e futuro: attualità della rammemorazione
Che cos’è la storia? Come è possibile descrivere il caos, dare un senso alla massa confusa degli eventi? E gli avvenimenti della storia, propriamente, quando accadono? Nel passato o forse nel presente in cui vengono narrati? Nella poesia La Storia Eugenio Montale allude ironicamente a coloro che della storia hanno una concezione lineare e continua, quelli insomma che fanno della storia la storia del progresso dell’umanità. Eppure la storia, nelle parole del poeta,
non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In ogni caso
molti anelli non tengono.
Il tempo, in altre parole, non è una linea come volevano Hegel e gli hegeliani e poi i positivisti e gli storicisti, marxisti inclusi. La storia è frammentaria, procede a salti,
si sposta di binario
e la sua direzione
non è nell’orario
il suo tempo non è costituito dalla diacronia ma da cesure, sincronie, arresti.
Il 15 luglio 1892 nasceva a Berlino Walter Benjamin. Considerato a lungo voce eclettica e originale della filosofia del Novecento, in particolare per il suo marxismo lontano dall’ortodossia, negli ultimi decenni Benjamin è oggetto di una crescita vertiginosa degli studi nei dipartimenti di filosofia delle università di tutto il mondo. Oggi ogni parola di Benjamin è girata e rigirata, analizzata a fondo, e i suoi scritti, inclusi quelli non strettamente filosofici, sono sempre più influenti. La componente ebraica nella proposta filosofica di Benjamin - componente talvolta esplicita, più spesso implicita - è peraltro essenziale e innerva, tra le altre cose, l’idea di storia fatta propria dall’intellettuale berlinese. Memoria e rammemorazione, messianismo, utopia costituiscono un gomitolo di temi ebraici esplorati per decenni e in particolare nelle Tesi di filosofia della storia, ultima opera prima del suicidio nel settembre 1940 a Portbou, al confine tra la Francia occupata e la Spagna. Un gomitolo ben presente dietro i versi di Montale.
Le granitiche certezze degli storici tedeschi dell’Ottocento - per Leopold von Ranke lo storico ha il compito di descrivere esattamente quello che è successo nel passato - vengono messe in crisi da Benjamin già molto tempo prima delle Tesi di filosofia della storia. Ma allora, se non si occupa di ricostruire come le cose sono andate, che cos’è storia? Nell’Origine del dramma barocco tedesco Benjamin ritiene che a fondamento della modernità vadano poste categorie come la malinconia, l’allegoria e la frattura tra segno e oggetto designato dopo la caduta, frattura da cui sgorgano significati mai conchiusi, sempre aperti. Le forme barocche sono infatti segni che non rinviano ad alcun oggetto, “come un gioco di geroglifici dietro al quale non si nasconde alcun significato” (l’espressione è di Stéphane Mosès, La storia e il suo angelo. Rosenzweig, Benjamin, Scholem, Anabasi). Anziché mettere in relazione i segni e la realtà, con il barocco avviene la separazione degli uni dall’altra; si spalanca allora un abisso, si apre una faglia che fa sì che le parole risultino isolate, impotenti.
La medesima rottura di fronte a cui arretra spaventato un protagonista del teatro viennese fin-de-siècle come Hugo von Hofmannsthal nella Lettera di Lord Chandos. Dopo la caduta dell’uomo, cioè dopo il peccato originale, è perso una volta per tutte il senso originario del mondo. Ma proprio perché il senso originario è ormai irraggiungibile, la cultura barocca della crisi apre a sempre nuovi, transeunti significati. Il teatro, quintessenza del barocco, proietta la storia nello spazio scenico, cioè in uno spazio di finzione che viene continuamente reinventata. La modernità secondo Benjamin rifiuta la logica di Hegel perché non esiste alcun movimento dialettico in grado di comprendere tutti i momenti ciascuno dei quali a propria volta comprende e supera il precedente. Esiste, al contrario, una originaria discontinuità. Il modello della storia non è logico bensì estetico. “Grazie all’arte, anziché vedere un solo mondo, il nostro, noi lo vediamo moltiplicarsi”, scrive negli stessi anni Marcel Proust nell’ultima parte della Ricerca del tempo perduto. Come l’opera d’arte emerge nella propria irriducibile diversità, così il presente storico emerge riassumendo in sé tutto il tempo, irriducibile com’è al passato e al futuro. Le stesse scienze della natura non progrediscono secondo una linea continua ma soltanto attraverso rotture e salti, come mostra Thomas Kuhn nella Struttura delle rivoluzioni scientifiche, caposaldo della filosofia della scienza del Novecento. E allora questo varrà tanto più per la storia.
Dalla seconda metà degli anni venti l’istanza politica penetra nel cuore della riflessione di Benjamin. L’idea che solo l’istante storico presente sia attuale e la distanza dal tempo lineare e oggettivo della storiografia ottocentesca vengono ad approfondirsi in questa nuova luce. L’oggetto della storia non è dato e quindi non può essere recuperato andando a scavare nel passato, ma è costruito nella scrittura della storia, cioè nella storiografia. Lo storico diventa così artefice. Demiurgo, non inventore. Suo obiettivo non è recuperare un passato irrecuperabile, visto che non è dato come oggetto, ma salvarne frammenti. Come Proust, anche lo storico va alla ricerca del tempo perduto. La concezione tradizionale viene così rovesciata, con il punto di partenza che viene trovato nel presente in cui lo storico è calato.
È a questo punto che il modello politico diventa decisivo. Perché se lo storico attualizza il passato e plasma la storia raccontandola, allora è responsabile nei confronti del passato. Ma la storia - Benjamin lo sa bene - è perlopiù diretta dalle istanze, le priorità, le passioni e gli interessi dei forti. Lo storico, allora, deve farsi carico degli ultimi e dei dimenticati, salvare la memoria di vinti e sommersi. L’idea del tempo storico come lineare, continuo, omogeneo e scandito da nessi causa-effetto è una illusione strumentale al potere. A questo modello va contrapposta la storia sotterranea e notturna degli esclusi. La stessa storiografia marxista viene investita dalla critica quando, come ha fatto non di rado, trasforma la storia degli umili in una epopea vittoriosa di progressiva, necessaria liberazione. Quando suo scopo è il monumento che commemora. Ma commemorazione e monumentalizzazione sono anch’esse funzionali alla logica della storia strumento del potere. L’alternativa reale a una storia-progresso che giustifica il dominio è l’attualizzazione, e deriva dalla tradizione ebraica del ricordo e della speranza. Come ha chiarito Yosef Haim Yerushalmi (Zakhor, ma anche Verso una storia della speranza ebraica, Giuntina), il ricordo non è conservazione della memoria del passato ma attualizzazione del passato nel presente. Per limitarsi a un solo esempio, l’uscita dall’Egitto a Pesach non viene evocata ma rivissuta, come prescrive la Haggadà. Il principio speranza è questa idea che il passato non sia chiuso una volta per tutte.
Due principi si fronteggiano. Ripetizione e rivoluzione, cioè continuità e rottura. La rottura, ovvero rottura della ripetizione che perpetua le ingiustizie, avviene per l’insorgere di ciò che è inatteso e imprevedibile: la redenzione. Ma per Benjamin la redenzione non è l’evento degli ultimi giorni, bensì qualcosa che in ogni istante può irrompere nel presente. Il messia della tradizione ebraica disintegra la storia come continuum e costituisce un’utopia che affonda le radici nel momento presente. Benjamin si rifa non tanto all’esegesi moderna che reinterpreta la figura del messia come un punto di fuga, una linea di orizzonte verso cui abbiamo il dovere di dirigere i nostri passi ma che è per definizione irraggiungibile. Questa interpretazione, infatti, rende il messia un futuro il cui valore sta precisamente nel fatto di essere da sempre e continuare a essere ininterrottamente un futuro, senza una vera possibilità di attualizzazione presente. La battuta secondo cui ogni messia che viene è un falso messia spiega questa posizione. Benjamin, al contrario, come ha suggerito l’amico Gershom Scholem, riprende la tradizione mistica ebraica che sa per certo che il messia è prossimo, cioè che proietta l’utopia nel presente. Il messianismo, in altre parole, non è attesa passiva di qualcosa che si verificherà alla fine dei tempi, bensì la possibilità che in ogni momento irrompa l’inaspettato, il nuovo. Dal fatto che la redenzione messianica sia una possibilità reale e attuale consegue il coinvolgimento in prima persona dell’uomo, declinato da alcune correnti mistiche in pratiche teurgiche e di tikkun .
Nella Tesi 9 Benjamin interpreta un quadro di Klee descrivendo il soggetto rappresentato, un angelo, come l’angelo della storia. “Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi”. L’angelo vorrebbe trattenersi, ma “una tempesta spira dal paradiso” e gli impedisce di chiudere le ali. “Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”. Nel tempo storico dell’esperienza, scrive Benjamin nella Tesi 6, “anche i morti non saranno al sicuro”. La cacciata dal paradiso non è un evento compiuto una volta per tutte ma qualcosa che continua a prodursi, nell’ininterrotta ripetizione della medesima tragedia. Il messianismo mette in discussione questo scenario spettrale descritto poco prima della messa a punto del genocidio su base industriale nelle camere a gas. L’onnipotente incedere del potere nella storia viene messo in questione dall’insorgere dell’etica. È l’infinito cioè l’etica, scriverà Emmanuel Lévinas, a bucare la totalità.
Il rapporto utopico con il passato avviene con la rammemorazione, il ricordo che attualizza. Confrontando le tecniche divinatorie degli indovini e la pratica ebraica della rammemorazione, Benjamin nella Tesi 18 ritiene che entrambe attualizzino tempi lontani dal presente nel presente. Ma tra le due c’è anche una differenza enorme, perché per gli indovini esiste un legame necessario tra passato e futuro che viene chiamato fato o destino. La rammemorazione ebraica al contrario non nasce da necessità ma da libera scelta. In questo senso è etica. Le filosofie della storia tradizionali sostituiscono al legame interno del fato quello esterno della causalità, ma esattamente come gli antichi oracoli definiscono un tempo lineare in cui ciò che viene prima determina ciò che viene dopo e lo rende perciò prevedibile, spiegabile. Ma il tempo della storia, come nella poesia di Montale, non è una catena fatta di anelli connessi gli uni agli altri. Il passato può essere modificato nel presente. Perciò nulla è del tutto irreparabile nel passato o inevitabile nel futuro. Sorge in ogni istante un numero incalcolabile di nuove possibilità. Perché nella tradizione ebraica, nelle parole di Benjamin, “ogni secondo era la piccola porta da cui poteva entrare il messia”.