Sibille e profeti: sulle tracce di Benjamin
di Nicola Fanizza *
Il libro di Federico La Sala - Della Terra, il brillante colore, Prefazione di Fulvio Papi, Edizioni Nuove Scritture, Milano 2013 - si configura come un viaggio nei sotterranei della cultura occidentale. Il protagonista del viaggio è il classico flâneur, che ha la straordinaria capacità di cogliere nell’opacità delle immagini del passato la luce che rende visibile le «perle» e i «coralli»: ossia tutto ciò che, sottraendosi al morso del tempo, è destinato all’eternità!
Nella prima parte del suo lavoro, La Sala adopera una sorta di «scandaglio archeologico» per ricostruire la preistoria del presente: ossia la genealogia dei concetti che strutturano tutt’oggi il nostro modo di pensare e di stare nel mondo. Si tratta di una ricostruzione che, pur comportando il rifiuto sistematico della ricerca, non rinuncia tuttavia alla contestualizzazione dei saperi in gioco. L’origine dei modelli del pensiero, infatti, non viene individuata tanto nella tradizionale storia della filosofia, quanto nella storia delle istituzioni totali: ovvero nella dimensione del Sacro, che con i miti e le pratiche rituali permette - ieri come oggi - la comunicazione fra gli individui e dà un senso alla nostra stessa vita.
Il «luogo d’inizio» è la piccola chiesa di S. Maria del Carmine, a Contursi Terme. Qui nel 1989 - in seguito ai lavori di restauro approntati dopo il terremoto del 1980 -, è stato scoperto un poema pittorico di un ignoto carmelitano degli inizi del XVII secolo. La pittura è espressione dell’immaginario rinascimentale che colloca la filosofia e la teologia pagana - Prisca Theologia - in sequenza col Cristianesimo. Il poema pittorico di Contursi descrive il viaggio iniziatico di un pellegrino che, accompagnato da dodici Sibille e dodici Profeti, giunge alla presenza di Maria madre del Cristo. Le Sibille di Contursi vantano parentele illustri: sono presenti nella cattedrale di Siena, nell’appartamento Borgia in Vaticano, nel tempio Malatestiano di Rimini e, infine, nella Cappella Sistina di Michelangelo.
Il rapporto di filiazione fra la teologia cristiana e quella pagana - la tesi che la storia del Cristianesimo cominciava prima di Cristo come attestavano le testimonianze profetiche ebree e pagane - non fu instillato nel movimento umanistico sulla scorta di un semplice fraintendimento: ossia la pubblicazione da parte di Gemisto Pletone degli Oracoli caldaici - risalenti al II secolo dopo Cristo - come scritti precristiani. L’Umanesimo più che recuperare il Mondo Classico nei fatti valorizza la cultura della Tarda Antichità. Non vengono recuperati Platone o Aristotele, ma Plotino, gli Oracoli caldaici, gli Scritti ermetici e gli Scritti degli antichi Teosofi che risalgono per l’appunto al II secolo. La stessa cosa si può dire del movimento nazional socialista. Georges Dumezil ha dimostrato che i nazisti pensavano di ridare vita alle divinità degli antichi Germani mentre di fatto riciclavano materiali mitici risalenti all’età medievale. Tuttavia ciò che ci fa decidere rispetto a un movimento non è tanto il recupero più o meno selettivo di un passato mitizzato - ogni movimento rielabora il materiale mitico della tradizione (il mito è nella sua essenza un portatore di senso nei confronti del presente e, insieme, del passato!) -. Ciò che ci fa decidere sono i nuovi contenuti, ovvero la rivendicazione o negazione di forme di sociabilità più giuste e più libere, di nuove pratiche di liberazione e di nuovi percorsi di conoscenza. Su questo piano, a più di cinquecento anni di distanza, va riconosciuto il valore profetico della cultura del Rinascimento: è un’onda lunga che mantiene intatta la sua pregnanza di significato e il suo vigore!
E’ da questo ultimo spunto che s’origina e si articola il discorso antropologico di La Sala, che scorge una evidente analogia fra il ruolo svolto dalle Sibille nelle pratiche cultuali della religione pagana e la funzione che le «figlie del Sole» svolgono nel poema di Parmenide. Anche qui il viaggio-rivelazione del prescelto è tracciato dalle dee-fanciulle, sono le donne a consentire il transito nei riti di passaggio.
La funzione della donna come viatico del transito nei riti di passaggio pervade l’intero immaginario ellenico. Qui erano presenti due diverse rappresentazioni della vita. Il fantasma della zōé indicava la vita che non contemplava la morte: ossia la vita come specie, la vita infinta, priva di determinazioni, senza accidenti. Viceversa il fantasma della bios indicava la vita che contempla la morte: ovvero la vita che ha un inizio e una fine, la vita determinata con i suoi accidenti. Ebbene nella religione dionisiaca la zōé - la vita indistruttibile! - assume la forma maschile, la genesi delle anime assume, invece, quella femminile. Dioniso e Arianna stanno a indicare - dice Kàroly Kèrenyi -, rispettivamente, l’eterno insorgere e trascorrere della zōé nella nascita e nei diversi stadi della vita. Il ruolo di Arianna non venne, tuttavia, compreso da Nietzsche, il quale negli ultimi anni della sua vita si chiedeva in modo ossessivo: «Chi è Arianna?».
Sta di fatto che il venire alla luce del «soggetto» nel mondo ellenico - un soggetto che si costituisce attraverso il discorso profetico, del saggio, del tecnico e del parresiates - si configura come un’emergenza che riguarda solo gli uomini e giammai le donne. Di fatto la Pizia nell’antica Grecia e le Sibille nel mondo latino sono solo il ventriloquo - un corpo senz’anima! - di cui si servono le diverse divinità per veicolare le loro oscure profezie!
Viceversa nell’immaginario rinascimentale le Sibille assumono, sulla base della rivendicazione dell’uguaglianza fra l’uomo e la donna, l’inedito profilo di avanguardie femminili. Di fatto, nelle immagini cultuali che costellano le chiese rinascimentali, le donne vengono rappresentate per la prima volta come soggette sovrane - le donne rappresentate da Michelangelo sono, per la prima volta, pensose! -, poiché svolgono, allo stesso modo dei Profeti, una funzione messianica. La cifra del Rinascimento, pertanto, va individuata proprio nella parola che sta a evocare, per l’appunto, la Rinascenza del soggetto!
Nonostante la spinta propulsiva della cultura rinascimentale, nei secoli successivi la donna non è tuttavia riuscita a farsi riconoscere come soggetto autonomo della comunicazione, come soggetto che dice il vero.
La storia di questo disconoscimento è costellata dalle tante sofferenze che le donne hanno subito nel corso dei secoli e dalle tante lacrime amare che tutt’oggi versano. Una sofferenza che suscita nell’animo nobile un sentimento di pietà che va comunque custodito attraverso i secoli. Non è inutile qui ricordare: la filosofa e scienziata Ipazia - la prima martire del libero pensiero! -, che nel 415, in Egitto, fu trucidata dagli fondamentalisti cristiani per aver rivendicato il diritto di costituirsi come soggetto che dice il vero; la persecuzione delle Streghe, che ebbe luogo non nel Medioevo ma in Età Moderna e, fra i giudici che le condannavano, Jean Bodin, l’«Aristotele del Rinascimento!»; le disposizioni del regime fascista che vietavano alle donne l’insegnamento della filosofia nelle nostre scuole; e, infine, la negazione dei diritti civili e, insieme, politici delle donne nei Paesi islamici. D’altra parte, va rilevato che fino alla Grande guerra le donne avevano il diritto di voto soltanto in quattro Paesi - Nuova Zelanda, Norvegia, Australia e Finlandia -; in Italia l’hanno ottenuto nel 1946 e in Svizzera solo nel 1974.
Nella seconda parte del suo lavoro, La Sala ritiene che sia auspicabile mettersi alle spalle le forme di sociabilità edipiche che fino ad ora hanno precluso alla maggior parte degli individui - non solo alle donne! - l’accesso alla sovranità: ossia il diritto di costituirsi come soggetti autonomi, il diritto di prendere la parola. Sostiene, inoltre, che le dinamiche relazionali che inibiscono l’autonomia delle donne - dinamiche che signoreggiano tutt’oggi nell’immaginario del modo occidentale - sono riconducibili da una parte all’alleanza tra la madre e il figlio - il mito di Edipo! - che ritroviamo nel mondo ellenico; e, dall’altra, all’alleanza fra il padre e il figlio - Il Vecchio Testamento! - che ritroviamo, invece, nel mondo ebraico.
La liberazione è possibile - dice La Sala - solo se usciamo dall’orizzonte teorico che la tradizione dei nostri padri ci ha trasmesso. Le forme della narrazione, della politica, della retorica, della dialettica, insieme all’esiziale corredo di scissioni (anima e corpo, la ragione e i sensi, ecc.) - tutte invenzioni del genio Mediterraneo - sono state adoperate per troppo tempo e, sempre più, appaiono logore. D’altra parte, i miti e i riti del mondo ellenico, ormai, sono diventati letteratura, ossia oggetto di semplice godimento estetico - non sono portatori di senso! - e, a volte, autentici detriti!
Rousseau, Kant, Feuerbach, Marx e Nietzsche - ciascuno per suo conto e con diverse modalità di pensiero - hanno rivendicato l’esigenza di mediare fra le diverse scissioni. Ciò nondimeno non sono riusciti a produrre un paradigma radicalmente nuovo, poiché hanno continuato a pensare con le categorie del mondo ellenico.
Da qui l’esigenza di pervenire a nuova Rivoluzione copernicana, che è possibile solo attraverso una nuova percezione dello spazio. In questo senso La Sala ci invita ad uscire dalla Terra per collocarci alla giusta distanza. La spazializzazione del soggetto con la sua giusta dose di trascendenza ci permetterà finalmente di vedere la Terra con il suo brillante colore come la Nostra Terra. Nondimeno La Sala è altresì consapevole che un nuovo ordine simbolico del mondo è possibile solo attraverso lo sviluppo dello spazio sociale.
Nell’attesa che ci sia una ripresa dell’effervescenza sociale e, insieme, una rifioritura dei movimenti di liberazione, il flâneur può cogliere già da ora in alcune forme di sociabilità disseminate sull’esergo del sistema la luce di una nuova bellezza, lo splendore che emerge dalle pratiche sociali in cui tutti gli individui signoreggiano come soggetti autonomi della comunicazione.
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Fonte: Nazione Indiana, 10 aprile 2014.
SCHEDA - RECENSIONE IN "BIBLIOGRAPHY OF PHILOSOPHY" (Vol. 44 Fase. 1 p. 14, PARIS 01/03-1997):
L’opera s’inquadra in una antropologia filosofica, che ritiene urgente riproporre la domanda capitale “che cos’è l’uomo?”, a partire da un complesso di filologiche e dotte Note sul "poema " di un ignoto Parmenide carmelitano ritrovato a ContursiTerme, Salerno, nel 1989. Siamo nei luoghi dove la metafisica è nata, con la sua primazia dell’Essere e dell’Uno, nei luoghi degli enigmi parmenidei e della loro sapienza unilaterale; e qui in particolare nella cappella dedicata alle dodici Sibille, che il frate carmelitano del primo Seicento accosta, nel suo poema pittorico, all’alleanza di Dio Padre con la Figlia, Maria mediatrice di nuovo pensiero profetico per l’uomo nuovo, ma ribadendo, nell’assetto figurale, una volta di più l’esclusione della Donna dalla creazione, dal sacro e dal Pensiero che è solo Padre, e onnipotente Maschio-Padrone.
Da questo viluppo di grecità e cristianesimo l’autore riesamina globalmente nel suo excursus filosofico, che solca anche l’eclettismo ermetico- cabalistico-neoplatonico rinascimentale, le radici del pensiero moderno ritrovando fin nell’uomo del presente quella mutilazione della comunione complessa e assolutamente originaria Uomo-Donna. Padre-Madre, che ha mutilato il pensiero e l’esperienza dell’uomo stesso, che storicamente non ha potuto costruirsi e gioire di ciò che veramente è : un Terzo cui ha dato nascita un Due, un Padre e una Madre e un Figlio, generatore a sua volta in armonia circolare di nuova storia debitrice pariteticamente sia alla Madre che al Padre.
Occorre, di conseguenza, nel pensare, oltre che in ogni esperienza vitale, compiere un salto : quel salto che, accantonando grecità esclusiva e cattolicità esclusiva, e traendo l’uomo dal suo stato di minorità, permetta di riconoscere la filosofia (e le religioni) come maschile e femminile, patema e materna, e così la terra come l’armonia movente e commovente che congiunge le donne e gli uomini e i figli e le figlie. R. G.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
VICO OGGI. Un’indicazione per uscire fuori dallo "stato di minorità", senza cadute in uno "stato di super-io-rità"....
"NOVA SCIENTIA TENTATUR": VICO E "IL DIRITTO UNIVERSALE".
"PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA ...
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITA’ POMPOSA. Alcune note su un testo del Muratori
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA. Un breve saggio di Federico La Sala, con prefazione di Riccardo Pozzo.
FLS
Un esercizio audace e creativo per ispirare uno stile sinodale «dal basso».
Le Sibille e la narrazione sinodale.
di Paolo Scarafoni - Filomena Rizzo *
Il popolo di Dio torni a parlare nella Chiesa! Sembra che balbetti con problemi che vanno dalla afasia, potrebbe parlare ma non sa; alla disartria, saprebbe parlare ma non può. Lo sforzo iniziale del sinodo per recuperare il popolo di Dio sarebbe quello di una rieducazione alla comunicazione, magari con dei mediatori?
Papa Francesco raccomanda di non perdere il «filo rosso» del Convegno ecclesiale di Firenze, dove invitava a ricominciare «dal basso», «dalle piccole comunità, dalle piccole parrocchie» affinché «esca la saggezza del popolo di Dio». Si tratta di «porsi al servizio di questa grande opera di raccolta delle narrazioni delle persone: di tutte le persone, perché in ciascuno opera in qualche misura lo Spirito; anche in coloro che noi riterremmo lontani e distratti, indifferenti e persino ostili» (CEI 12.10.2021). La rieducazione è al contrario. È il nostro ascolto che si deve aprire a comprendere parole nuove. Il percorso sinodale di questo biennio nella dimensione della narrazione «è per sua natura alla portata di tutti, anche di coloro che non si sentono a loro agio con i concetti teologici» (CEI 29.09.2021).
È a noi cara la cittadina di Contursi Terme, in provincia di Salerno, dove trascorriamo parte dell’estate. La sua suggestiva chiesetta del Carmine ci ha stimolato a riconoscere alcuni percorsi di fede propri di quella comunità. È il nostro «caso serio», di Balthasariana memoria. È un esercizio audace di creatività che non vuole dettare un programma, ma ispirare uno stile sinodale «dal basso» per l’evangelizzazione (Evangelii gaudium 33).
Di fronte agli accomodamenti e alle storture che iniziavano ad attenuare la fiamma cristocentrica accesa dal Concilio, Von Balthasar scriveva della vergine e martire Cordula, modello della accoglienza della novità irrinunciabile di Cristo. Noi facciamo riferimento alle dodici vergini Sibille dipinte a tempera sulle pareti della «piccola cappella sistina» del Carmine, che sono patrimonio della vita di fede dei contursani. Sono percorsi meno ufficiali e linguaggi creativi, nei quali molti potrebbero riconoscersi come persone che si appartengono in ragione della chiamata di Dio e riscoprire l’identità della Chiesa particolare per aprire nuove prospettive e orizzonti, non soltanto in vista del contributo da inviare alla segreteria del sinodo.
I Padri della Chiesa hanno trovato alleate preziose nelle Sibille, grazie alle loro profezie, come lampade che illuminano il cammino dell’umanità pagana verso il cristianesimo. I profeti annunciavano il Messia al popolo d’Israele, le Sibille il Salvatore ai pagani.
Varrone e Lattanzio enumerarono dieci Sibille, per lo più collocate in oriente. Nel 1481 il domenicano Filippo Barbieri all’elenco ne aggiunge due, con il proposito di riequilibrare geograficamente la loro presenza nel mondo occidentale e raggiungere il numero simbolico di 12, segno di pienezza sacra nell’ebraismo e nel cristianesimo.
Nel 1608 un ignoto frate carmelitano, con l’aiuto di modesti artisti, «scrisse» pittoricamente un poema sulla «nascita della fede». Rappresentando le Sibille ha saputo raccogliere le istanze pietistico devozionali di quel tempo del popolo contursano, sensibile ai doni divini, circondato da bellezze naturali, con numerose e abbondanti sorgenti di acque benefiche e terapeutiche. Esse sono un patrimonio che attraversa le generazioni, in quella pietà popolare sana, nella consuetudine di stare con Dio.
Il popolo di Contursi Terme, molto attento e attivo riguardo alle problematiche civili, può attingere anche a questa ricchezza per cementare il senso di comunità. Le Sibille aiutano a pensare modelli ecclesiali più liberi, per riattivare la circolarità delle relazioni come nella Chiesa nascente, rispetto alla visione di un’armata, o di una istituzione ingessata d’altri tempi.
Le Sibille erano donne del Mediterraneo, libere, voci profetiche del paganesimo greco, del monoteismo giudaico, della religione politeista romana e del cristianesimo, in diretto collegamento con lo Spirito divino. Un importante esercizio narrativo, quando si partecipa «alle celebrazioni, alla preghiera, ai dialoghi, ai confronti, agli scambi di esperienze e ai dibattiti», sarebbe quello di ricordare le donne della comunità, non soltanto le più prestigiose, ma tutte quelle significative nelle singole famiglie e a livello di paese. Si tratta della memoria che penetra nel quotidiano e nei piccoli gesti, che costruiscono la vera santità comunitaria (Gaudete et exultate 16); ma non solo, sarebbe un esercizio che serve a tutti per superare una mentalità patriarcale, dare il giusto valore alle donne, costruttrici di quella comunità, ed educare a relazioni positive e paritarie, che non si prestino alla violenza di genere.
I nomi delle Sibille ricordano la fratellanza dei popoli perché sono derivati dal luogo che la tradizione assegna loro come patria, e rivelano il ruolo della loro missione nelle nazioni. La comunità potrebbe riflettere sull’accoglienza delle numerose famiglie di stranieri che ormai ne fanno parte e dei tanti turisti che ogni anno visitano le terme, per purificare stereotipi e pregiudizi. Aiuterebbe fare riferimento all’alleanza di Noè o dei popoli, alla quale è legata la Sibilla, spesso identificata con quella Cumana, che sarebbe salita sull’arca per essere salvata, quale moglie di uno dei figli del patriarca (Oracoli sibillini I, 211; III, 827).
Nella fratellanza e nell’accoglienza c’è sempre lo spezzare il pane insieme. La Sibilla Persica vaticinava che Cristo avrebbe moltiplicato il pane e i pesci per sfamare il popolo (Oracoli sibillini I,357; VI,15), a sostegno anche oggi della moltiplicazione di esperienze solidali, della cura per gli altri, che «viene dal basso e in piena gratuità».
Il territorio di Contursi è in prevalenza a vocazione agricola. Fa parte di quelle «aree interne» del Meridione d’Italia. Ora è seriamente minacciato dal dislocamento di industrie inquinanti. Le comunità della valle dei fiumi Sele e Tanagro sono chiamate ad intervenire con spirito libero e amore per il creato sul proprio futuro. La comunità sta reagendo con tante iniziative per diventare protagonista di una nuova stagione di sviluppo sostenibile.
Le Sibille superano la cultura maschilista del conflitto e del profitto perché hanno un aspetto cosmico messo in evidenza già da Plutarco: come donne sono legate alla vita, alla fertilità, la loro morte è una non morte. Il loro corpo insepolto valica i confini spazio-temporali, con «una sorta di metamorfosi del corpo, che si assimila alla terra, alle erbe, agli animali, anch’essi portatori dello pneuma profetico», ai quali dona capacità mantiche.
Ecco perché da sempre sono simbolo della «cura del creato» e della «forza dello Spirito». La loro presenza nelle nostre chiese, accolta nel tempo, avrebbe dovuto agevolare il processo di recezione dei contenuti del Sinodo sull’Amazzonia e degli appelli di Querida Amazonía, ed evitare polemiche sterili e pretestuose. Profondo è il collegamento con le culture amazzoniche, che presentano la Madre Terra, che mai potrebbe essere confusa con la Madre di Dio, alla quale proprio le Sibille dedicano tanti versi. Il più bello è forse quello della Libica o italica: «Uterus Matris erit statera cunctorum. L’utero della Madre sarà la bilancia dell’umanità».
Il magistero sul creato di Papa Francesco potrebbe rafforzare la consapevolezza della comunità locale per giungere a decisioni di bene comune per il proprio futuro. L’esercizio del «discernere insieme» proposto dalla Chiesa, potrebbe essere di aiuto e di ispirazione, senza invadere gli spazi e le competenze, in un reciproco scambio di doni eliminando definitivamente i vecchi schemi di contrapposizione ideologica. A sua volta il cammino sinodale locale si arricchirebbe di contributi a contatto con le problematiche reali che vive la comunità.
La Chiesa non rinunci ad essere un presidio, un «ospedale da campo». Il coinvolgimento civile, rispettoso e libero, da parte dei cristiani, che si sforzano di essere testimoni credibili, potrebbe risvegliare in molti il desiderio di conoscere Gesù e il ritorno ad una più autentica vita sacramentale: anche la tradizione liturgica è ricca di riferimenti alle Sibille. In pieno Medioevo, nella celebrazione della Vigilia di Natale, nell’elenco dei «Profeti di Cristo» (Ordo Prophetarum) era compresa anche la Sibilla Eritrea, chiamata ad annunciare con il canto il ritorno del Signore nel Giorno del Giudizio. Come non ricordare la devozione popolare che è confluita nella liturgia romana funebre con la sequenza Dies irae: «Dies irae, dies illa, Solvet seclum in favilla, Teste David cum Sibylla».
Le Sibille possiedono in germe i tre tratti dell’umanesimo cristiano «umiltà, disinteresse, beatitudine», che stentiamo ancora a riconoscere nella società e perfino nella Chiesa. Sono fortemente auspicati dal Concilio Vaticano II, e possiamo augurarci di ritrovarli seminati in mezzo al popolo. Quelle vergini non sono ossessionate dal «potere» e dalla ricchezza, hanno uno stile di vita sobrio. Non sono sacerdotesse, non vivono in templi ma in grotte e presso corsi d’acqua accessibili a chiunque. I loro vaticini non si rivolgono all’interesse dei singoli, dei potenti, ma riguardano tutti, l’intera comunità, non sono astratti né ideologici. Indicano un cammino che porta a Cristo, cambiamenti profondi nell’umanità, e mettono in guardia contro il male. Papa Francesco invita a ritrovare la gioia di «annunciare il Vangelo in un tempo di rigenerazione» partendo dalle realtà locali. È il momento favorevole per questo esercizio, possibile in tante piccole comunità cristiane in Italia, che de vono riscoprire il loro «caso serio», e trovare elementi di ispirazione per incarnare il Vangelo.
Michelangelo Buonarroti, Pietà Bandini, 1555 ca, Museo dell’Opera del Duomo di Firenze. Si tratta di una delle ultime sculture prodotte dall’artista, che si pensa inserì nella figura di Nicodemo un proprio autoritratto (...).
Tweet di Il Caffè Letterario@SalaLettura:
Risposta/Tweet:
#CAFFE’ E ILLUMINISMO: #SAPEREAUDE! (#KANT, 1784). Il #ditosullapiaga: non saper distinguere tra #Mosè-#Faraone e il Mosè-#Liberatore (#Freud), #Gesù #figlio dell’##amore di #Giuseppe_e_Maria e Gesù figlio di #Maria e "#Dio"
Federico La Sala
“CHI” SIAMO NOI, IN REALTÀ.
Sull’invito di Epicuro a "salpare l’ancora" ripreso da Nicola Fanizza ("Nazione Indiana", 04.03.2021).
PER non perdere il filo e uscire con Dante fuori dall’inferno (come sollecitava anche Marx!), è bene ricordare che la tesi di laurea di Karl Marx è proprio su “Democrito e Epicuro” (1841/1842) e che, oggi, la tradizione critica (ricordando Walter Benjamin) è del tutto immersa nella palude hegeliana della “dialettica” della liberazione (1969), forse, non è meglio - dopo l’epocale “crollo del muro di Berlino” (1989) - interrogarsi ancora e di nuovo su “Chi siamo noi in realtà?” (come voleva Nietzsche) e “SALPARE L’ANCORA”. O no?!
Salpa l’ancora ragazzo!
di Nicola Fanizza ("CIAO MONDO yes we can", 19 novembre 2012)
Sin dalla prima ora di filosofia ho saputo che nella mia vita non avrei fatto altro. Il mio professore di filosofia al Liceo ci affascinava con le sue affabulazioni e le sue conoscenze. Sapeva rispondere in modo esaustivo a tutte le nostre domande. Era davvero bravo! Durante le sue lezioni il prestigio derivante dalla sua immensa cultura diventava il fuoco dai cui si originava uno splendore numinoso che si irradiava sui nostri volti accecati dalla meraviglia. L’esercizio della filosofia e il suo insegnamento mi apparvero, allora, come rituali magici, capaci di aumentare la mia potenza e il mio sex appeal nei confronti delle ragazze. Va da sé che un approccio così ingenuo alla filosofia è esposto a tutti i contraccolpi che la durezza e la fatica dello studio provoca sull’immaginazione. Da qui la delusione che si sperimenta di fronte alle prime difficoltà: leggevo il manuale di filosofia, senza capirci molto; il mio primo docente di filosofia fu chiamato all’Università e, pertanto, rimasi senza il mio cattivo maestro.
Durante la frequenza del Corso di Laurea in Filosofia, le cose non sono cambiate. I docenti veicolavano certezze e mai dubbi; erano sussiegosi e supponenti. Guardavano con diffidenza gli studenti stravaganti e si circondavano di adulatori.
Tuttavia, sulla scorta di una lenta impazienza e di un lungo noviziato - mediato dal pathema e, insieme, dal mathema -, ho messo da parte il mio adolescenziale delirio di onnipotenza. Ho capito, finalmente, che chi insegna filosofia - allo stesso modo di chi insegna tutte le altre discipline - lo fa per essere amato.
I docenti di filosofia con cui ho avuto a che fare, negli anni Sessanta e Settanta - sia nell’Università sia nei Licei - erano per lo più dei nipotini di Geymonat. Uno dei topoi del loro immaginario era che per fare i filosofi ci voleva la laurea in Matematica. Di quelli che presero anche la laurea in Matematica, alcuni si ammalarono di scientismo, altri utilizzarono quel titolo come chiave d’accesso all’università, nessuno diventò filosofo!
Ah che tempi! Ed erano davvero bei tempi! Certo, si dice così perché erano i nostri tempi. E comunque ci conviene crederlo! Erano gli anni in cui il movimento del ‘68 si fece promotore di nuove forme di sociabilità e di nuove pratiche di liberazione che consentirono agli operai e agli studenti di prendere per la prima volta la parola.
A fronte della massificazione della scuola, gli insegnanti più motivati si misero in gioco nella prospettiva di creare una scuola critica, capace di formare cittadini sovrani. Gran parte dei docenti di filosofia erano, a quei tempi, per lo più organici ai partiti e per di più avevano una fiducia cieca nelle categorie della vulgata marxista, che sembravano dar conto dell’ordine o disordine presente nella società. Tale fiducia è venuta meno solo col movimento del ’77, che ha consentito, tuttavia, ai filosofi di ritornare a pensare.
A partire dalla fine degli anni Settanta - dopo gli arresti del 7 aprile -, quegli stessi docenti che negli anni precedenti facevano studiare Marx, Lenin e Mao in un baleno e in massa misero nei loro programmi il nazista Heidegger, il pastore dell’essere che voleva trasferire l’immaginario tragico nella Foresta nera, senza rendersi in alcun modo conto che il branco nazista con la sua cieca e feroce violenza non aveva nulla a che fare con la comunità ellenica. Erano convinti - sulla scorta del loro cattivo e maestro - che per pensare in filosofia bisogna farlo in tedesco. Da qui la fascinazione per una lingua «mistica» e, insieme, «magica», capace di trasformarli in filosofi della mutua in cura ascetica.
La filosofia egemone di quegli anni perde i suoi legami con la società, l’economia, la sociologia, la psicologia e diventa discorso consolatorio, rinuncia a cambiare il mondo; tende, pertanto, a disconoscere il conflitto.
Tale disconoscimento è diventato esplicito in questi ultimi anni, grazie agli epigoni della filosofia analitica. Di fatto, oggi, il discorso filosofico rischia di trasformarsi in un discorso squisitamente tecnico.
Non è inutile rilevare che i vescovi nell’età medievale non erano episcopi - ispettori -, poichè il loro compito era, invece, quello di valorizzare la luce che si manifestava nelle nuove forme di sociabilità, attivate dai movimenti che nascevano dal basso. L’homo religiosus (il filosofo di allora) riteneva che la peggiore disperazione era proprio quella di non avere nessuna disperazione; l’accesso alla verità era possibile solo attraverso la cura di sé; l’esperienza tradizionale (il pathema d’animo) aveva una valenza conoscitiva, la stessa bellezza (l’arte) era legata alla verità. Insomma il soggetto si costituiva attraverso una molteplicità di discorsi che dicevano il vero; il discorso profetico, del saggio, del tecnico, dell’artista, del poeta e del parresiates.
Quando, invece, la filosofia diventa solo epistemologia o gnoseologia, finisce col perdere il suo legame con la vita. Si può accedere alla verità solo attraverso la cura di sé e degli altri, solo attraverso le pratiche sociali, solo addomesticando la distanza fra gli uomini. Insomma la filosofia non è solo amore della scienza ma anche scienza dell’amore. Di fatto, nell’economia della nostra vita, gli affetti sono importanti allo stesso modo dei concetti.
Ebbene i filosofi, oggi, - allo stesso modo dei vescovi di allora - sono chiamati a valorizzare le nuove pratiche di liberazione e, insieme, ad attivare nuovi percorsi di conoscenza. Una filosofia che non parli della nostra disperazione, della nostra collera, della nostra vita è una filosofia algida, una filosofia che non vale niente. Allo stesso modo una cultura che non sia capace di evitare la guerra - e noi siamo entrati in guerra contro l’Afghanistan e la Libia - non vale niente. «Salpa l’ancora, ragazzo - diceva Epicuro -: e abbandona ogni cultura [paideia]».
Ritengo, tuttavia, che un nuovo ordine simbolico del mondo - caratterizzato da un senso nuovo e più largo di umanità - possa affermarsi solo attraverso lo sviluppo dello spazio sociale. Nell’attesa che ci sia una ripresa dell’effervescenza sociale e, insieme, una rifioritura dei movimenti di liberazione, è comunque possibile cogliere già da ora in alcune forme di sociabilità disseminate sull’esergo del sistema la luce di una nuova bellezza, lo splendore della contraddizione non risolta in modo violento.
SALPARE L’ANCORA!: UN’ESORTAZIONE SULLA STRADA DELL’ILLUMINISMO KANTIANO. Una nota a "Salpa l’ancora ragazzo!" (di Nicola Fanizza - "Narrazione Indina", 04.03.2021) *
Ad elogio della memoria critica del parlar chiaro e in prima persona (e del Michel Foucault svegliatosi dal “sonno dogmatico”), è bene riprendere la citazione di Epicuro (tramandata da Diogene Laerzio), nel suo senso più preciso: “Salpa l’ancora, ragazzo, e fuggi ogni forma di cultura [paideia]” (cfr. Francesco Adorno, “La filosofia antica”, Feltrinelli, Milano 1991).
Ritengo la “cosa” degna di molta attenzione, per il suo profondo significato antropologico e filosofico: a) per la sua centralità nel più generale problema della “paideia”, b) per la sua “kantiana” sollecitazione al "ragazzo"ad aver il coraggio di servirsi della sua propria intelligenza, e, ancora, c) perché è salutare andare "a vedere se di là è meglio” (come recita il primo paragrafo del libro dello stesso Fanizza sulla figura dell’ebreo portoghese “Miguel Vaaz. Il conte di Mola”, pubblicato dalla Casa Editrice Cacucci di Bari nel 2020).
Michelangelo e “La Linea della Bellezza e della Grazia”. La "forma serpentinata" ... *
Una macchina teologico-politica
Conversazione con Giovanni Careri in occasione dell’uscita di “Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina”.
di Francesco Zucconi *
Francesco Zucconi: Il visitatore dei Musei Vaticani arriva nella Cappella Sistina dopo aver attraversato straordinarie sale e corridoi. Nei pochi minuti che trascorre in questo ambiente immersivo, il suo sguardo è come incantato, si sente preso e sospinto. Ma i turni di visita sono troppo brevi per muovere consapevolmente lo sguardo tra i diversi cicli pittorici.
Tu hai trascorso molti anni a studiare gli affreschi realizzati da Michelangelo Buonarroti e la tua ricerca fornisce tanto una forma di orientamento nella Sistina quanto una serie di nuovi percorsi interpretativi. Prima di entrare nel merito di questo libro, appena pubblicato da Quodlibet, vorrei chiederti come nasce l’idea di lavorare su questo oggetto straordinario.
Giovanni Careri: Nel 2003 ho coordinato all’EHESS di Parigi un progetto di ricerca sulla temporalità delle immagini con un antropologo (Carlo Severi), uno storico (Jean-Claude Schmitt), e uno specialista della Grecia antica (François Lissarrague). Lo stimolo a occuparmi della Sistina non è arrivato dalla scoperta di nuove fonti o documenti, ma dalla domanda che avevamo posto a tutti i partecipanti al progetto: il rapporto tra le immagini e le temporalità che le attraversano, l’indagine sulle modalità del “tempo visivo” che le immagini stesse producono.
Il mio contributo riguardava il modo in cui il Giudizio Universale di Michelangelo costruisce un tempo dell’attesa e dell’imminenza, imminenza della fine del tempo della storia, ma anche della ricapitolazione e del bilancio della vita di ognuno. Mi sono in particolare interessato ai “libri della vita” che gli angeli aprono al centro dell’affresco per significare che il tempo del giudizio di sé è giunto per i personaggi rappresentati ma anche per lo spettatore.
Accanto agli angeli si trova un grande dannato, un “disperato” che porta la mano sul volto con un gesto che rinvia inequivocabilmente al dialogo interiore e a quella forma di autobiografia penitenziale che possiamo definire - con Michel Foucault - “soggettivazione”, per articolarla con l’altra determinazione che caratterizza il “soggetto moderno”, quella dell’assoggettamento.
Nella postura di questo monumentale personaggio, le due determinazioni coincidono: il disperato ha appena ammesso la sua colpevolezza nel dialogo con sé stesso mentre demoni e serpenti già lo avvolgono nelle loro spire, eseguendo l’ordine del Cristo Giudice. La condanna del “disperato” è esibita nel rapporto tra la sua situazione e quella di Minosse, il giudice infernale avvolto da un serpente che ne inibisce il movimento.
Il punto di partenza di questo mio lavoro sugli affreschi della Sistina è nel confronto tra le due posture, quella del dannato e quella di Minosse. Il dannato sta diventando simile al demonio, tra poco il suo corpo sarà stretto tra le spire del serpente come è già accaduto per il giudice infernale. In questo rapporto tra due figure e nella processualità del divenire Minosse ho ritrovato uno dei fili essenziali delle mie ricerche: quello della “conformazione” ovvero di un’economia mimetica che fonda la sua semiosi sull’assunzione e/o sulla perdita della somiglianza di un’attitudine o di un gesto.
A partire da tale osservazione, possiamo guardare il Giudizio come a una immensa coreografia: gli eletti e gli angeli si stanno facendo simili al Cristo, imitando e incorporando la sua “forma serpentinata”, mentre i dannati perdono per sempre la somiglianza al figlio di Dio per assumere una somiglianza invertita o “perversa” con Minosse, dove la figura serpentinata che libera il movimento delle figure si muta in un serpente costrittore.
F.Z.: All’interno della Sistina è sintetizzata in forma visiva l’intera storia spirituale dell’Umanità dal punto di vista cristiano: dalla Creazione al Peccato, dalla Redenzione al Giudizio. Il tuo libro si concentra in modo particolare sul Giudizio Universale e sul ciclo degli Antenati di Cristo. Per quale motivo ti sei interessato a queste parti e quale rapporto intercorre tra di loro?
G.C.: La storia dell’arte ha generalmente separato le tre parti che compongono gli affreschi sistini. Sono opere molto distanti nel tempo, realizzate da artisti di generazioni diverse per tre diversi Papi, ognuno dei quali aveva preoccupazioni e interessi particolari. Nel libro non solo ho voluto considerare le tre parti come un insieme, ma ho anche deciso di cominciare dall’analisi dal Giudizio, che è l’ultimo elemento aggiunto cronologicamente. L’ho fatto per varie ragioni. La principale è che le immagini si rispondono tra di loro se sono messe una accanto all’altra, indipendentemente dalla data della loro realizzazione. Quando il Giudizio viene aggiunto agli affreschi preesistenti si producono nuove relazioni e un nuovo senso, esattamente come quando si aggiunge un oggetto in un’istallazione di arte contemporanea.
Nel caso degli Antenati si può dire che la loro spossatezza era già evidenziata, per contrasto, con i corpi eroici e ispirati delle Sibille e dei Profeti. Ma il contrasto con il Giudizio fa apparire la loro fatica come una categoria dell’ideologia cristiana, in una prospettiva che stringe il nesso tra il tempo delle origini (ebraiche) e quello del compimento. Questa costruzione è coerente con il pensiero di san Paolo, senz’altro il più influente tra coloro che hanno immaginato la fine dei tempi, il quale insiste sul fatto che il senso della storia di un individuo come quello dell’umanità tutta intera si rivela solo a partire dalla fine.
F.Z.: Hai appena menzionato la spossatezza delle figure degli Antenati di Cristo, un tema centrale del tuo libro che porta a esiti sorprendenti.
G.C.: L’incongruità che ha subito attratto la mia attenzione davanti alle lunette degli Antenati è il rapporto tra la degna autorità dei nomi, scritti in lettere capitali e incorniciati in tavole di grandi dimensioni, e le figure che non hanno i tratti regali dei patriarchi e dei sovrani ai quali questi nomi si riferiscono. Vi si vedono giovani donne esauste intente a nutrire e accudire i loro bambini e vecchi padri buttati a terra o persi in melanconica meditazione. Di fronte a questa discrepanza, l’iconologia ha trovato soluzioni ingegnose ma fallimentari, come quella di tradurre in latino i nomi ebraici per poi cercare nella vulgata la presenza di tali nomi in situazioni comparabili a quelle che si vedono nelle lunette.
Considerando la lista dei nomi dal punto di vista dell’antropologia della parentela, sono arrivato alla conclusione che vadano mantenuti separati dalle figure o meglio articolati con esse secondo un principio di inclusione/esclusiva.
In altre parole, i nomi incorniciati nelle tavole si fanno carico di innestare la storia cristiana in quella degli ebrei e particolarmente in quella prestigiosa stirpe di Abramo alla quale apparteneva Giuseppe, marito di Maria, madre di Gesù.
Tuttavia, a questa funzione inclusiva si accompagna una funzione esclusiva della quale si fanno carico le figure stesse che esibiscono i tratti di “carnalità” che san Paolo attribuisce agli ebrei che non si convertono in seguaci di Cristo.
Tra questi, il più importante è l’ostinato rifiuto della Grazia di cui si possono riconoscere le conseguenze nelle lunette stesse: l’immersione in una vita limitata alle attività di sussistenza, la generazione e la cura dei figli, la pigrizia, l’avidità, l’erranza e persino la follia.
In breve: mentre i nomi esaltano la continuità tra la storia cristiana e quella degli ebrei, le immagini sono il luogo di produzione della differenza e di un’alterazione che si avvicina alla caricatura, affermando la crisi definitiva alla quale il modello genealogico di trasmissione del sangue da padre in figlio è stato sottoposto dall’inclusione di un figlio che è figlio di Dio e non di suo padre.
Questa rottura autorizza l’apertura della predicazione a tutte le nazioni, separando il “tempo scaduto” della storia veterotestamentaria da quello nuovo del messianismo cristiano. Si delinea così un paradosso che include la “storia genealogica” e al tempo stesso la esclude denunciandola come ormai superata.
F.Z.: Alcuni degli Antenati dipinti da Michelangelo recano i segni della stigmatizzazione antiebraica del XVI secolo. Questo anacronismo è passato inosservato alla storia dell’arte fino a pochi anni fa. Come ti spieghi questa cecità?
G.C.: Nel 2003 la storica dell’arte americana Barbara Wish ha pubblicato un articolo dove rivela la presenza di un segno circolare sulla tunica gialla di uno di personaggi della lunetta che porta il nome di Aminadab. Il restauro che ha reso visibile questo signum si era concluso quasi vent’anni prima e ci si può quindi chiedere cosa ne abbia impedito la visibilità per tutto questo tempo.
Penso che uno dei veli che hanno nascosto la marcatura sia lo statuto di “capolavoro” che la Sistina ha acquisito immediatamente e mai perduto nel corso dei secoli. L’opera di un artista distante da ogni forma di realismo non poteva esibire un tratto “documentario”, la testimonianza di una marcatura infamante. Non si poteva inoltre facilmente ammettere che Michelangelo condividesse con la cultura del suo tempo una precisa forma di antigiudaismo.
Un altro velo è di ordine epistemologico: si trova quello che si cerca. Per dirlo in modo meno meccanico, le domande orientano la ricerca, guidano lo sguardo e, dal dopoguerra fino al 2003, le domande sugli Antenati sono state essenzialmente orientate sul rapporto tra i nomi e le figure. Ho tuttavia incontrato alcuni testi che fanno apparire il carattere semitico delle figure. Tra i più interessanti, quello di Emile Zola che nel suo romanzo Rome (1896) descrive gli Antenati come “la razza punita”, frase che risuona con la sua denuncia dell’antisemitismo francese nell’affaire Dreyfus. Sydney Freedberg, dal canto suo, aveva scritto che in queste figure la dimensione domestica e quella semitica si incontrano e si sovrappongono.
Si trattava, insomma, di cambiare la domanda. Non più “chi sono questi personaggi”? Ma che ruolo assumono nel montaggio della storia che si realizza negli affreschi? Nel libro non pretendo di aver svelato il mistero degli Antenati, ma spero di aver fatto apparire qualcosa che non è spiegabile in rapporto a una fonte scritta: il dialogo che le strane iconografie di queste figure intraprendono con altre iconografie: quella della Santa Famiglia e di Giuseppe in particolare, quella della Madonna del latte, quelle dei cicli dei mesi del Palazzo della Ragione di Padova, quelle, altrettanto “paradigmatiche”, dell’albero di Jesse, ma anche quelle delle stampe antisemite di area germanica.
F.Z.: Negli ultimi anni, la filosofia italiana si è caratterizzata per la capacità di indagare i nessi tra teologia e politica. Penso in particolare ai lavori di Giorgio Agamben e a quelli di Roberto Esposito, citati anche all’interno del tuo libro. Al di là della ricerca filosofica propriamente detta, mi pare che Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina ci inviti ad assumere consapevolezza del “pensiero visuale” che trova espressione nelle opere stesse.
G.C.: Perché ancora un libro sulla Sistina? Per le stesse ragioni che spingono Agamben, Esposito e altri studiosi a rileggere le Lettere di san Paolo. Il paradigma teologico enunciato da san Paolo è corporativo, alla fine dei tempi tutti gli uomini giusti saranno incorporati in un unico corpo del quale il Cristo è la testa e i cristiani le membra.
Come nei miei lavori su Bernini e Caravaggio, anche in questo libro si trova la questione dell’efficacia dell’opera sullo spettatore, qui assoggettato dalla “terribilità” dell’affresco ma anche invitato a giudicare sé stesso, soggettivandosi. Si incontra inoltre, di nuovo, il paradigma della “conformazione”, un principio di “somiglianza” che è al fondamento della teoria cristiana dell’immagine ma che è stato quasi completamente ignorato dalla storia dell’arte. Nel suo Giudizio Universale, Michelangelo mostra la penultima tappa di questo processo di incorporazione attraverso l’assunzione di somiglianza.
Il portato politico di questo modello è considerevole e ancora attuale, se si estende la nozione di conformazione al di là del suo senso sacramentale sul piano della vita sociale e politica. L’idea della nazione come corpo è, d’altra parte, ancora oggi ben presente. Basta pensare ai nazionalismi e alle purificazioni etniche dove si tratta precisamente di espellere le impurità da un corpo collettivo omogeneo.
F.Z.: Si potrebbe dire che la tua ricerca porta alla luce le tracce del discorso antiebraico presente nel ciclo di affreschi e correlato al contesto storico del XVI secolo. Allo stesso tempo, mostri le tracce di una presa di distanza da parte di Michelangelo - o meglio di un’adesione al modello figurativo della “vita secondo la carne” - nei confronti del meccanismo teologico-politico che lui stesso ha contribuito a edificare.
G.C.: La condizione degli ebrei che vivono tra i cristiani all’epoca di Michelangelo è molto diversa da quella del XIX e nel XX secolo. Nel libro ho cercato di evitare ogni generalizzazione astorica: la situazione degli ebrei cambia e si aggrava con il papato di Paolo IV Carafa, ma già durante il Papato di Paolo III la conversione forzata degli ebrei viene presa in considerazione. Gli studi di Adriano Prosperi, di Kenneth Stow e di altri storici hanno rivelato che la “purificazione” della cristianità intensa come un corpo collettivo è sorta nell’ambito dei fautori della Riforma prima di essere messa in atto dai conservatori.
Nelle Storie di Mosè e di Cristo degli affreschi del Quattrocento, la posizione degli ebrei è determinata dal paradigma tipologico: le azioni di Mosè prefigurano quelle di Gesù. Nel ciclo degli Antenati, il paradigma tipologico viene abbandonato perché ad essi sono attribuiti i tratti degli ebrei che hanno rifiutato di convertirsi e non hanno dunque più nulla da annunciare. Nel Giudizio, infine, attorno al Cristo risorto si riconoscono figure di sapienti o profeti ebraici perché la conversione degli ebrei è uno dei segni dell’imminenza della fine dei tempi, insieme all’avvento dell’Anticristo. Questo schema deve pero essere “messo a lavoro”, montando tra di loro le varie parti per mostrare come nel passaggio tra l’una e l’altra non solo cambia il modo di raccontare la storia ma si descrive l’esplosione del modello tipologico e della spazialità prospettica.
La posizione di Michelangelo è davvero singolare, nel senso che riguarda direttamente la sua persona o, meglio, la costruzione sperimentale della propria immagine all’interno del grande costrutto storico-teologico degli affreschi. Non penso che l’artista esprima una distanza rispetto a quel costrutto, ma si serve della figura dell’ebreo per denunciare la tiepidezza della propria fede. Confrontando gli affreschi con i poemi penitenziali dove l’artista si attribuisce i tratti di “negligenza” che si ritrovano nelle figure delle lunette, ho avanzato l’ipotesi che si possa riconoscere sulla Volta sistina un’immagine sperimentale di Michelangelo come Antenato. Questa figure di sé come un ebreo - come anche quella che, nel Giudizio, lo mostra come una pelle scuoiata e pendente - esprime un’inquietudine profonda, percepibile se si associano queste due immagini di sé all’idea di una carnalità che non può essere “conformata”. Tuttavia, se leggiamo con attenzione i poemi di Michelangelo capiamo che l’autore desidera di essere conformato almeno quanto lo teme.
F.Z.: Al di là della Sistina, la mia impressione è che la storia e la teoria dell’arte debbano rendersi sensibili ai dibattiti emergenti, mirati a studiare e riflettere criticamente sulle asimmetrie politiche e visuali consolidatesi nei secoli. Anziché ignorare tali dibattiti o aderirvi superficialmente, quanti si occupano di arti e di immagini possono forse fornire (e mettere in discussione) i propri strumenti per fare in modo che il carattere politico delle rappresentazioni emerga in tutta la sua portata.
G.C.: Di che cosa e in che modo una grande opera del passato parla al nostro tempo? Per rispondere a questa difficile domanda, posta allo storico dell’arte da Walter Benjamin, ci vuole un’elaborazione lunga e complessa. Tra i principali motivi per cui è importante continuare a studiare opere del passato è che attraverso la loro analisi e interpretazione si parla anche dell’oggi.
Personalmente, non sono disposto a rinunciare a questa forma complessa di esegesi, che non ha nulla a che fare con la celebrazione della superiorità dell’Occidente. Tanto è vero che propongo appunto di esporre questo “capolavoro” a uno sguardo antropologico comparatista, sia sul piano del mito che su quello del rito, e pongo al centro dell’analisi la relazione con l’Altro.
Nessuno degli studi sulla Sistina prima del mio aveva considerato gli affreschi come formidabile appropriazione del “passato ebraico” da parte dei cristiani. Una prospettiva di ricerca che è evidentemente informata dai dibattitti contemporanei ai quali ti riferisci. Tuttavia, una volta assunto questo punto di vista, penso che sia importante capire in che modo questa appropriazione si produca tramite il “lavoro delle immagini”, piuttosto che limitarsi a una semplice condanna. L’antropologia si confronta da sempre con fenomeni di appropriazione - più o meno violenti e più o meno riusciti - costitutivi delle dinamiche culturali umane. Il fatto che oggi alcune comunità vogliano farsi carico e riappropriarsi della loro memoria e degli oggetti nei quali essa è depositata fa parte di questa dinamica e ne ridisegna i contorni. È tuttavia importante scongiurare il rischio di una deriva identitaria che, riservando ai soli membri di una comunità il diritto di occuparsi della propria memoria, proietti sugli oggetti culturali del passato un’idea di purezza.
Quanto al sapere depositato nella storia dell’arte, penso che andrebbe profondamente riformulato nel senso che ho indicato prima. Si tratta di mostrare che quel “patrimonio” resta sterile se non si fa apparire ciò che in lui “ci riguarda”. Senza per questo ridurre l’alterità del passato e delle diverse culture che caratterizzano il tempo presente.
* Fonte: Il lavoro culturale, 13 Novembre 2020 (ripresa parziale, senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE": IL "SOGNO" DI MICHELANGELO. Sibille e profeti: sulle tracce di Benjamin
FLS
NICOLA FANIZZA RIABILITA MICHELE VAAZ, ODIATO DAI MOLESI DEL SUO TEMPO E SGRADITO AGLI STORICI LOCALI
Nel suo nuovo libro, “Miguel Vaaz”, il conte di Mola”, lo storico molese va controcorrente: con un’ampia documentazione tratteggia un ritratto alternativo e inedito del feudatario che governò Mola agli inizi del Seicento.
di Piero Fabris ("MOLA-libera" - 21 Maggio 2020)
Un testo denso e puntuale che inquadra con chiarezza la figura di Miguel Vaaz De Andrade, il conte di Mola, uno dei più grandi mercanti di grano europei, vissuto a Napoli, sua patria di adozione, per circa quaranta anni, ricordato per la sua spregiudicata intraprendenza e astuzia e per per aver salvato Napoli da una terribile carestia. Nicola Fanizza
Un lavoro quello di Nicola Fanizza che sgombra il campo dai luoghi comuni con i quali è ricordato il lusitano.
L’autore offre pagine rigorose su un uomo che è invece per la collettività sinonimo di strozzino; essere spregevole capace di ogni tipo di violenza.
Lo storico Giuseppe De Santis col suo “Racconti storici di Mola di Bari” del 1880 ne alimentò l’idea di uomo senza scrupoli.
L’approccio del Fanizza offre del portoghese una visione diversa e per certi versi inedita, frutto di dati acclarati da documenti sulle azioni compiute dall’arguto conte di Mola.
Questo lavoro è di fatto concepito come ossequio al vero, un atto necessario che a differenza del mal vezzo di troppi “amanti della storia”, figli di “politiche di bandiera”, più adatti ad amplificare “leggende sui corsari”, ripercorre la vita del “Sefardita” o “novello Cristiano” con razionalità scientifica, realizzando uno scritto appassionato e scorrevole che, in pochi tratti traccia, anche atmosfere di corte, nobili ambiziosi, nidi di falchi bellicisti e colombe pacifiste in “competizione”.
Lo studioso mettendosi sulle tracce di Miguel Vaaz senza pregiudizi, leggendo i documenti, piuttosto che affidarsi a “Ricordi Nebulosi” scopre e delinea nell’uomo audace la visione della realtà oserei dire: “cartesiana”, il coraggio del combattente che non è passato inosservato, le doti intellettuali, nonchè la competenza in ambito economico, divenuta utili consigli ai Viceré per politiche di risanamento finanziario.
L’autore del testo non esita a mostrar le sue carte, lasciando al lettore la possibilità di riflettere, di approfondire prima di opinare.
Il Portoghese di origine ebraica è delineato dalle azioni che lo hanno reso protagonista del suo tempo, non da congetture, tantomeno dall’invidia che semina il sospetto! Il libro editato da Cacucci editore (pagg. 200, € 20,00), composto da tre parti, non manca di una appendice di una cinquantina di pagine, che sono un ottimo complemento alle note, e rimandano a una corposa bibliografia segno dell’onestà intellettuale del ricercatore, la cui fatica ci aiuta a comprendere la radice di certi pensieri intransigenti così floridi, specie in questo tempo dove i riferimenti alla purezza del sangue e alla razza superiore alimentano le differenze e veicolano le separazioni tra i popoli.
Nel raccontare la storia di un uomo di origine ebraica, di un marrano che suscita diffidenza, il sospetto che in segreto fosse rimasto fedele alla religione dei suoi avi, attraverso le righe di Nicola Fanizza ritroviamo un benefattore, un uomo devoto a San Michele, un uomo che ha edificato una chiesa, forse per non cadere nella rete dell’inquisizione che mai dimenticò la Puglia con i suoi mandorli, olivi e carrubi, la terra fertile di Mola di cui era Conte.
Nicola Fanizza (Nato a Mola di Bari 1951) dopo essersi laureato in filosofia col massimo dei voti presso l’Università di Bari si è trasferito a Milano dove ha insegnato nei Licei. E’ stato redattore della rivista “La Balena Bianca”, “Pellicani”, “InOltre”, “Jaca Book”. Nel 1995 ha pubblicato il saggio: “La dolce immaturità. Il transito nell’identità e nella comunità” (Colibrì). Nel 2011 ha pubblicato con G. Laterza editore il saggio: “Piero Delfino Pesce e la rinascenza mediterranea nel centenario della nascita della rivista Humanitas (1911 - 1924). Nel 2016 ha pubblicato il volume: “Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini. La storia d’amore che il duce voleva cancellare (Edizioni dal Sud). Scrive su riviste come: “L’Acropoli”, “Alfabeta2”, “Nazione Indiana”. Dirige il sito: www.centrodocumentazionepierodelfinopesce.it/.
CRISTO ED EDIPO: LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Un omaggio al lavoro del prof. Romeo De Maio e del prof. Giuseppe Cacciatore...
Recensioni editoriali
Enigma per due: si dice Sfinge, si pensa a Cristo *
È molto presente e non se ne fa accorgere. Sta nelle cattedrali, sui frontespizi degli edifici delle istituzioni, nei dipinti e nelle sculture, nelle illustrazioni dei codici, della Bibbia, nei poemi, nell’inafferrabilità delle migliori musiche. È la Sfinge, questo essere che noi umani chiamiamo mostruoso perché ha artigli al posto delle mani e lo sguardo non sfuggente. Ti guarda, lei, trapassandoti in un attimo, ti consegna al mistero, ai suoi abissi che si fanno domanda, e probabilmente fu proprio quell’attimo che, dieci anni fa, colse lo storico Romeo De Maio nella cattedrale di Bari quando, per la prima volta, si accorse della Sfinge rappresentata sulla finestra absidale del Duomo. C’era stato molte volte, lì, non l’aveva scorta mai. Dietro di lei, raffigurata sopra un carro, i simboli dell’eucarestia. Fu una folgore. Che cosa univa il pagano al sacro? E perché?
Cominciò in quel momento, per lui, “un’esperienza molto simile al poeta Theodor Däubler, che andò in Egitto per la Sfinge e le trovò Cristo accanto”. I risultati di quell’esperienza sono il libro “Cristo e la Sfinge - la storia di un enigma” (Mondadori, 350 pagine), in libreria. Negli ultimi dieci anni De Maio è andato in giro per il mondo (occidentale soprattutto) alla ricerca delle testimonianze che affiancano la Sfinge al Cristianesimo.
Perché? ” Il motivo fu l’impressionante creazione-incisione di Nicolas Poussin, pittore francese dimorato a Roma, per la copia della Bibbia destinata al re di Francia, nel 1642. Il pittore la intitolò “Chiesa e Sinagoga”, e raffigura il Dio Padre che benedice il Vecchio e il Nuovo Testamento. Sulla Bibbia tenuta in mano dal Vecchio c’è, distesa, una Sfinge che guarda da tutt’altro lato, verso est, dove sorge il sole”.
È solo un esempio dei migliaia ritrovati dall’autore. Testimonianze che non si riferiscono all’ufficialità dei documenti nel senso di rogiti, nel senso di carte bollate, nel senso di trattati con le firme apposte in calce. È questo uno dei rari casi in cui si elevano a documento storico, e dunque attendibili come una data con sopra il timbro dell’ufficialità, le espressioni degli artisti. Pittori, scultori, architetti, poeti. Teologi. Musicisti. Dicono la Storia, i suoi limiti, le sue possibilità. Le fanno i connotati.
Donatello, Bernini, Michelangelo, Klimt, De Chirico, Purcell, Giovanbattista Marino, Oscar Wilde, Mantegna, Stravinskij, Kirker, Pico della Mirandola, Cocteau, Mozart, l’abate Kirker, Flaubert. “L’artista - dice De Maio - ha la visione, l’intuizione al pari del Vate. Queste sono indispensabili, fondamentali per la conoscenza. Io ho sottoposto le creazioni artistiche alle regole della filologia e al rispetto dell’esperienza mistica”. In loro la Sfinge non è mai elemento ornamentale. Sia essa alla base di un trono gestatorio, sia riferimento poetico, sia nella scenografia di una rappresentazione teatrale. Così le madonne vegliate dalla Sfinge, da essa protette, i volti spesso uguali: i rimandi poetici, le allusioni cromatiche, la disposizione degli elementi. “Quando gli artisti la dipingono, anche su commissione papale, è per far aprire gli occhi agli ecclesiastici. Per svolgere un mistero, avviare una conoscenza non dogmatica”.
Più di tremila testimonianze ha trovato De Maio, ignorate dalla Chiesa in questi tremila anni. Come dire: volutamente non considerate. Perché è pericoloso ammettere quelle che oggi il linguaggio contemporaneo definirebbe contaminazioni. Perché il Potere Temporale, la sua Legge, non ammette altro Dio. Come avrebbe mai potuto accettare la presenza, accanto al figlio del Padre, accanto alla Madre del Figlio, lo sguardo misterioso e definitivo del simbolo pagano per eccellenza, che ha ispirato il mito tra i più antichi dell’uomo ed esplorati dalla psicanalisi nel secolo appena trascorso, con Freud che ha posto Edipo, e la profezia che a lui fece la Sfinge, tra noi e la vita che conduciamo?
De Maio considera “rivoluzionario” questo lavoro, questo lavoro, il suo “testamento anticipato. Lo avrei potuto anche intitolare “Cristo prima del Cristianesimo”. La Sfinge ci porta verso l’aspetto mistico dell’uomo, di Cristo; aspetto non considerato dal Potere Istituzionale Ecclesiastico nella sua nuda verità”. È un nuovo senso, una nuova possibilità vista da altro punto di vista. Una visione allargata e non ristretta. Senza inquisizioni. Che si apre alla domanda. Basta questa, vuole dirci De Maio, per avere la risposta.
* Fonte: Esonet.org, 14.05.2010
* SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
IL PROBLEMA MOSE’ E LA BANALITA’ DEL MALE: FREUD NELLA SCIA DI KANT (MA NON DEL TUTTO). LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Federico La Sala
SCHEDA EDITORIALE *
Sessantotto. La festa della contestazione
di Agostino Giovagnoli
C’è chi esalta il Sessantotto, identificandolo con la propria gioventù, e chi gli imputa colpe pesanti, compreso il terrorismo rosso degli anni di piombo. In realtà la stagione della contestazione fu molto breve, dal Free Speech Movement di Berkeley nel 1965 al maggio francese del 1968.
In questo libro se ne raccontano alcuni momenti significativi: la mobilitazione per i diritti civili negli Stati Uniti, le lotte degli studenti di Sociologia a Trento, la "battaglia" di Valle Giulia a Roma, l’occupazione della Sorbona... E se ne ricostruiscono le radici. Attraverso i canali sotterranei delle avanguardie artistiche come i beat o il rock’n’roll ballato da milioni di persone, i giovani percepirono che, grazie ai nuovi processi di globalizzazione, ’The times they are a-changin’, come cantava Bob Dylan. Dal conflitto nucleare alla decolonizzazione, dalla lotta contro il razzismo in America del Nord alle rivoluzioni in America del Sud, dalla guerra del Vietnam alla corsa alla conquista dello spazio.
Il Sessantotto è stato un movimento antiautoritario e anti-istituzionale che ha scosso il mondo degli adulti. Ma se ha potuto farlo è perché quel mondo era già in crisi.
La contestazione non fu una rivoluzione ma, anzitutto, una festa. Una travolgente esperienza collettiva di incontri con l’"altro" che superavano barriere sociali e culturali o differenze etniche e ideologiche, confini rigidi tra sanità e malattia o separazioni secolari tra pubblico e privato. Fu una reazione al progressivo svuotamento di legami familiari, sociali, istituzionali e una risposta alle ardue sfide dell’individualismo radicale imposto dalla società consumista. Preparato da mutamenti profondi, come quelli fatti emergere dal Vaticano II all’interno del cattolicesimo, il Sessantotto rivelò anche un’apertura al trascendente che però non venne compresa e ascoltata.
50 anni dopo
Il Sessantotto. Agostino Giovagnoli (storico): “Profondo legame con il Concilio che ne ha anticipato alcuni tratti”
diGiovanna Pasqualin Traversa (Agenzia SIR, 26 aprile 2018)
I legami tra Concilio Vaticano II e Sessantotto sono più profondi di quanto si sia portati a ritenere. Il Concilio ha infatti "preparato" in certa misura il terreno al grande movimento di contestazione. Intervista a tutto campo con lo storico Agostino Giovagnoli
Gli anni Settanta hanno rappresentato un passaggio cruciale nella vita della Chiesa in Italia. Sono gli anni della recezione del Concilio e sono al tempo stesso attraversati da tensioni e polarizzazioni legate al Sessantotto. Fede e politica intrecciate fra loro? Se sì su quali premesse e con quali sviluppi? Lo abbiamo chiesto ad Agostino Giovagnoli, docente di storia contemporanea all’Università cattolica di Milano
Fra le trasformazioni della Chiesa cattolica legate al Vaticano II e gli eventi del ‘68 c’è stato un intreccio?
Sì; più profondo, soprattutto in Italia, di quanto abitualmente si ritenga.
La contestazione del 1968 si è intersecata in modi diversi con un’evoluzione del mondo cattolico italiano già in corso da tempo.
Non è strettamente sul livello politico che si è sviluppato l’influsso del Concilio sulla società e sulle sue trasformazioni. Il Concilio ha in realtà toccato questioni di grande rilievo, ha aperto una riflessione di fondo sull’organizzazione istituzionale della Chiesa cattolica all’interno di un’ampia trasformazione della società europea e occidentale che stava mettendo in discussione le proprie istituzioni ecclesiastiche, politiche, sociali e familiari. Il ‘68 è stato soprattutto una contestazione anti-istituzionale ed è su questo terreno che è ravvisabile il nesso che lega i due fenomeni.
Il Concilio ha dunque “preparato in qualche modo il terreno” al Sessantotto?
La Chiesa cattolica ha anticipato una trasformazione che poi si è presentata in modo convulso nel 1968, nel senso di un ridimensionamento del peso delle istituzioni all’interno della società. Da questo punto di vista il dissenso cattolico ha rappresentato un fenomeno specifico e forse anche marginale. Ha ripreso alcune modalità della contestazione studentesca ma non è qui il cuore più profondo del rapporto che investe aspetti più globali.
Qual è stata l’intuizione di Giovanni XXIII?
L’avere compreso che la Chiesa aveva bisogno di mettersi in ascolto del mondo e di se stessa. Nella modalità conciliare ha in qualche modo superato la rigidità istituzionale che l’aveva caratterizzata per cinque secoli sul modello tridentino. In questo senso il Concilio ha avviato un processo di cui ravviso alcuni tratti anche nel 1968.
Lo storico gesuita Michel de Certeau, che ha partecipato al “maggio francese” a Parigi, ha scritto che nel ’68 “è stata presa la parola come nel 1789 è stata presa la Bastiglia”. Un’immagine metaforica che sottolinea la liberazione della parola, tipica di quel movimento. L’analogia è profonda perché il Vaticano II ha a modo suo “liberato” la parola, in questo caso la Parola di Dio, da una Chiesa che l’aveva rinserrata all’interno di schemi organizzativi e istituzionali che la rendevano in certa misura marginale e l’ha riportata al centro della vita ecclesiale. E’ dalla Parola di Dio che rinasce la Chiesa.
In che modo il ’68 ha influito su associazioni e movimenti del laicato cattolico?
Per l’Azione cattolica un cambiamento importante è cominciato con il pontificato di Giovanni XXIII e soprattutto con l’elezione di Paolo VI nel 1963. La nomina di mons. Franco Costa quale assistente ecclesiastico generale e di Vittorio Bachelet quale presidente nazionale segnano il definitivo distacco dal modello geddiano. Il rinnovamento si è realizzato pienamente con il nuovo statuto (1969) che ha prodotto una vasta riorganizzazione e ha soprattutto affermato “la scelta religiosa” dell’Ac, espressione che sottolinea la fine di ogni collateralismo con qualsiasi partito politico. L’impatto del Sessantotto sull’Ac è stato soprattutto indiretto e probabilmente ha influito sul calo degli iscritti che dal 1964 al 1974 passano da 3,5 milioni a 600mila.
E per quanto riguarda le Acli?
Anche qui si deve parlare di un impatto indiretto. La trasformazione delle Acli era cominciata all’inizio degli anni Sessanta, in stretto rapporto con l’evoluzione economico-sociale della realtà italiana e il nuovo ruolo assunto dai sindacati. Un’ulteriore svolta è avvenuta a seguito dell’“autunno caldo” nelle grandi fabbriche italiane del 1969 con l’adozione della cosiddetta ipotesi socialista alla quale seguì una richiesta di chiarimenti da parte della presidenza della Cei, una presa di posizione critica del Pontefice e il ritiro dell’assistente ecclesiastico. La contestazione del ’68 ha invece riguardato in modo più diretto Gioventù studentesca, ramo dell’Ac che aveva iniziato un percorso originale, soprattutto in Lombardia, a seguito dell’iniziativa assunta da don Luigi Giussani nel 1954. In questo contesto nasce Comunione e Liberazione.
Il Sessantotto ha dunque interferito con un’evoluzione in atto nell’associazionismo cattolico degli anni Sessanta?
Sì. Forse l’impatto maggiore ha riguardato le grandi questioni internazionali con particolare riferimento al terzo mondo: guerra in Vietnam, Cuba, Biafra, lotte per i diritti civili degli afroamericani negli Usa. I membri dell’associazionismo cattolico, soprattutto giovani, furono molto sensibili a queste cause e, più in generale, a quella della pace.
Su questo terreno maturarono una sensibilità simile a quella di molti altri giovani di altra provenienza culturale e ideologica, che fece cadere molti steccati tradizionali.
Ci furono infine esperienze nuove che nacquero al di fuori dall’associazionismo cattolico o del rapporto con la Dc, nel clima del Sessantotto, come la Comunità di Sant’Egidio a Roma, segnata fin dall’inizio da un forte rapporto con il Vangelo e i poveri.
Che giudizio ha del Sessantotto?
Ha avuto peso non tanto quale fenomeno politico, ma piuttosto come istanza culturale e sociale di “inventare” un mondo nuovo affrontando le grandi sfide del tempo, le sfide di un mondo terrorizzato dall’arma atomica e in cerca di pace, che vuole dare la parola a tutti, che affronta le gravi disuguaglianze economiche e sociali. Si è disperso di fronte a forze più grandi; in fondo è stato un movimento di studenti, non avrebbe potuto cambiare il mondo, però ci ha provato ed è questa la sua eredità più preziosa.
Pensare al ’68 ci fa bene perché ci ricorda che possiamo anche non subire il mondo in cui viviamo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL PAPA [GIOVANNI XXIII, 1962] HA DECISO DI DARE IL VIA AD UN NUOVO CONCILIO, AL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II. PACE E E DIALOGO SU TUTTA LA TERRA, TRA TUTTI GLI ESSERI UMANI, TUTTE LE RELIGIONI, TUTTI I CREDENTI E I NON CREDENTI. QUESTA LA DICHIARAZIONE DI APERTURA
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
UNA MEMORIA DI "VECCHIE" SOLLECITAZIONI. Il cardinale Martini, da Gerusalemme, dalla “città della pace”, lo sollecita ancora!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Edgar Morin
Torno a raccontare il Sessantotto. La rivoluzione non è finita
dii Mario Baudino (La Stampa, 13.05.2018)
Edgar Morin pubblica per Cortina una raccolta di scritti sul ’68 e la intitola La breccia. È la metafora che il grande sociologo francese usò fin da subito, cronista in diretta del Maggio, antropologo della rivolta studiata dall’interno, in due lunghi articoli su Le Monde. Ora, a distanza di cinquant’anni, lui che nato Edgard Nahoum nel 1921 ha vissuto adolescente il ’36 e la esaltante vittoria delle sinistre nella Francia pre-bellica, ha combattuto nella Resistenza (trasformano il suo nome di battaglia in cognome anagrafico), ha partecipato ai movimenti che contestavano la guerra d’Algeria e soprattutto non ha mai smesso di studiare le dinamiche sociali e culturali, è convinto che quella breccia non si è ancora chiusa.
In che senso, professore?
«Nel senso che il Maggio francese non fece certo crollare la società borghese e forse non la cambiò di molto, ma aprì una breccia sotto la linea di galleggiamento di quel transatlantico magnifico che sembrava avviato verso un radioso futuro. La nave della società pareva solidissima, e invece scoppiò una rivolta generazionale. Gli adolescenti rivendicarono un’utopia libertaria, che contagiò tutti, gli operai, i borghesi, gli intellettuali. Finì presto, con la ricomposizione del vecchio sistema sociale e la deriva marxista leninista, ma quel che accadde fra il 3 e il 13 maggio rappresenta una delle rare estasi della storia, in cui tutti improvvisamente stanno benissimo, nessuno va da più dallo psicanalista o dal medico, nessuno ha più problemi nervosi».
Una sospensione improvvisa, ludica e fragilissima, del freudiano disagio della civiltà?
«Le cui tracce, oggi, si vedono però nel volontariato, nel mondo dell’economia solidale, nella volontà di una vita migliore senza inquinamento e senza sopraffazione. Questa è la breccia ancora aperta, la vera eredità, anche se la società è cambiata da allora. Pensi al mito del progresso».
In quel momento, non solo in Francia ma un po’ in tutto il mondo, una generazione di giovanissimi cominciò a dubitarne.
«Negli Anni Sessanta si era formata una bio-classe, con una cultura comune, valori condivisi, persino un certo modo di vestire. La loro fu una rivolta contro gli adulti, che coinvolse e trascinò con sé gli adulti. Il fenomeno non si è più ripetuto. E oggi, in tutti i Paesi, sappiamo che la legge del progresso non è più vera. Il futuro non significa automaticamente un miglioramento, ma semmai incertezza e angoscia. Le conquiste sociali di un tempo non esistono più, il dubbio coinvolge persino l’idea di democrazia e dei suoi valori. Tutto questo, senza che i più ne avessero la percezione, è cominciato allora».
Nostalgia?
«No, nostalgia mai. Ma ricordo la prima delle giornate del Maggio, il clima di festa, di libertà, di originalità. Il Super-Io dello Stato e della società si erano paralizzai, erano spariti. Sono momenti speciali, rarissimi. Ne ho vissuti anche altri: la liberazione di Parigi nel ’44, la rivoluzione dei garofani in Portogallo nel ’74, la caduta del Muro nell’89»
Le primavere arabe?
«Nei primi giorni, anche se poi, a differenza di questi altri momenti storici, si sono drammaticamente trasformate nel loro contrario».
Una lettura in prospettiva dal ’68 a oggi sembra dirci che l’utopia libertaria è destinata a essere sconfitta dal ritorno della politica e dell’ideologia.
«Oggi c’è la necessità di ripensare la politica, di lavorare alla ricostruzione di un pensiero politico: guardi i nostri due Paesi. Macron, con la sua avventura personale, ha decomposto la vecchia politica, ma non è riuscito nella ricomposizione di un pensiero nuovo. In Italia siete alla compiuta decomposizione dei partiti storici, e anche qui la necessità di una ricomposizione è evidente, anche se al momento non se ne vede la prospettiva. In gran parte dell’Europa trionfano forze di destra, revansciste, nazionaliste, populiste».
Nel suo Insegnare a vivere (uscito due anni fa sempre per Cortina) lei punta sull’insegnamento. Non su una ennesima riforma della scuola o dell’Università, ma su un nuovo orizzonte che superi la barriera tra saperi tecnologico-scientifici e formazione umanistica.
«Ci sono molte vie d’uscita dalla nostra attuale situazione, ma questa resta per me la principale».
Anche contro chi rivendica la propria ignoranza come un valore?
«Viviamo in una società di illusioni, come quella che ha appena citato. Un solo fatto è certo: la vera educazione per vivere non esiste ancora. Neppure io so quale sia. Ho scritto un libro. Spero che la si scopra insieme».
Afferrare la vita
di Nicola Fanizza *
Sono passati quasi cinquant’anni da quel lontano settembre del 1969, in cui il «Comitato Marinai Studenti» si fece promotore un’azione di lotta contro gli armatori che coinvolse l’intera marineria del mio Paese, Mola di Bari. Ciò che mi resta dell’atmosfera di quel crepuscolo dell’estate è il sapore del tempo. Si trattava di un tempo qualitativamente diverso, insolito, dilatato e, insieme, sospeso.
Una nuova socialità
A noi studenti e ai giovani marinai venne offerta la possibilità di vivere una seconda infanzia: proprio perché non avevamo niente da fare o da progettare, ci abbandonavamo all’istinto e all’effervescenza magmatica del momento; vivevamo una dimensione di tempo senza tempo. Le nuove forme di socialità come le assemblee, il fumare assieme la stessa sigaretta e, in modo coestensivo, l’antico rituale dei giochi di birra, contribuivano ad addomesticare la distanza fra noi studenti e i marinai.
Molti allora presero la parola per la prima volta, altri, invece, ascoltavano. Nondimeno eravamo comunque tutti convinti di poter cambiare il mondo! L’esito di quella lotta fu positivo. I pescatori ottennero un nuovo contratto che prevedeva: una nuova e più equa ripartizione del pescato fra armatori e marinai; il salario minimo garantito; e, infine, il diritto di fruire delle ferie.
In quell’inedito spazio sociale il filo dei rapporti amicali consentì la produzione di un tessuto di relazioni che continuò per alcuni anni. Di fatto a quella lotta avevano partecipato - accanto ai pescatori che erano imbarcati sui pescherecci che operavano nel Canale di Sicilia e ai pescatori dediti alla pesca locale - un cospicuo numero di giovani marittimi che in seguito si tennero in contatto con i membri più anziani del comitato. I leader del «Comitato Marinai Studenti» - Carlo Moccia e Rodolfo Vaccarelli - avevano rapporti epistolari con molti marinai imbarcati sulle navi nonché con i pescatori presenti sui pescherecci che operavano a Siracusa, Mazara del Vallo, Ancona, ecc. Tuttavia col passare del tempo quel filo si spezzò soprattutto per la difficoltà di individuare l’identità del nemico da combattere, poiché il mondo dei pescatori è un mondo composito e variegato: accanto agli armatori possessori di molte barche, vi sono piccoli proprietari di natanti a gestione familiare.
La partecipazione a quell’evento fu per me e per i miei compagni l’occasione per afferrare la vita.
Più che prendere il potere, volevamo perderlo
Il movimento del ’68 era composto per lo più da studenti che non volevano studiare solo ciò che stava nei programmi e da operai che rifiutavano ogni forma di lavoro che non fosse opera viva. Era un movimento «impolitico» che negava l’esistente nel senso che dava voce a tutto ciò che si agitava sull’esergo del sistema, alle forme di socialità che stazionavano nell’atmosfera del dono. Lo slogan «Il privato è politico» esprimeva per l’appunto l’esigenza di porre all’ordine del giorno alcuni temi - gli affetti, il senso della vita - che la politica non riconosceva. Da qui la contestazione nei confronti dell’autoritarismo dei docenti e dei loro programmi. La filosofia - si diceva allora - doveva essere non solo amore della scienza, bensì anche e soprattutto scienza dell’amore, poiché gli affetti erano importanti allo stesso modo dei concetti.
Eravamo giovani ribelli - anticonformisti, stravaganti e originali - che avevamo troppa fame per essere critici nei confronti della società dei consumi. Più che prendere il potere, volevamo perderlo. Volevamo nutrire il nostro desiderio, volevamo tutto. Eravamo affamati di sesso, di sigarette, di cose buone. Volevamo vivere la nostra vita come una festa, come una festa senza fine.
Di fatto nel movimento italiano del ’68, come in tutti i movimenti, vi erano diverse anime. Si trattava di un movimento composito e anche contraddittorio. La sua cifra va individuata nella sua capacità di proporsi come una festa. E, come tutti sappiamo, la festa è il momento dell’effervescenza magmatica, della creatività, dell’esuberanza, ed è anche il momento in cui si portano i doni. Tuttavia il potere di allora, si rifiutò di riconoscere e accogliere le nuove istanze di liberazione - i doni - e scatenò la repressione.
Chi è integrato è perduto
Tutto ciò - dopo la strage di Piazza Fontana del dicembre 1969 - favorì il ritorno del «vitello d’oro». Il vecchio immaginario dei marxisti leninisti - divenuto più tardi delirio con la deriva della lotta armata - prese subito il sopravvento sulle istanze movimentistiche che volevano cambiare la vita e da allora quelli che prima erano gli «integrati» - i padri di famiglia, gli operai che non si ribellavano, ecc. - cominciarono a essere stigmatizzati con l’epiteto di «piccolo borghesi».
A tale proposito, è opportuno tener presente che Luciano Bianciardi nel 1959 aveva pubblicato il romanzo autobiografico L’integrazione, in cui aveva stigmatizzato la deriva che, partendo da Milano, stava per investire l’intera società italiana: «Bastano pochi mesi perché chiunque si trasferisca qui si svuoti dentro, perda linfa e sangue, diventi guscio: tra 20 anni tutta Italia si ridurrà come Milano».
Da qui la connotazione negativa della parola integrazione. Di fatto, a partire dalla metà degli anni Sessanta, il termine «integrato» cominciò a essere utilizzato nel linguaggio giovanile per indicare gli individui che si riconoscevano nel discorso canonizzato della polis. Si trattava di individui conformi ai valori dominanti, di individui che per lo più appartenevano ai diversi ceti.
Nondimeno, oggi, quelli che rivendicano l’integrazione per gli immigrati - ossia l’obbligo di svuotarsi completamente della loro cultura, delle loro radici - fino a che punto - quando fosse loro richiesto - sarebbero disposti a rinunciare alle loro tradizioni, alle loro radici, alla loro cultura?
Si può essere felici soltanto tutti insieme
Ritornando a alle dinamiche del ‘68, possiamo dire che a un’esplosione libertaria, che modificava lo spazio sociale - i rapporti fra le persone, il ruolo della donna -, seguì un irrigidimento dogmatico di una parte non trascurabile del movimento.
Ciò nondimeno è pur sempre vero che attraverso il ’68 siamo pervenuti a una maggiore consapevolezza di noi stessi, alla nostra autonomia. Dopo di allora il Mondo non è più stato lo stesso. Fu allora che i «senza storia» presero per la prima volta la parola; fu allora che si cominciò a coltivare l’idea che si poteva afferrare la vita, che si poteva essere felici soltanto tutti assieme, coniugando, diversamente, la vita con la politica!
IL MAGGIORASCATO (NON "PATRIARCATO"!). La crisi epocale dell’ordine simbolico di "mammasantissima" (alleanza Madre-Figlio) ...*
Del femminismo liquido
di Rossella Ghigi (Il Mulino, 08 marzo 2018)
Le vicende elettorali offuscheranno solo parzialmente lo spazio mediatico ogni anno occupato dalla Giornata della donna. Anche quest’anno, infatti, alcuni must non potranno mancare all’appuntamento dell’otto marzo: chi celebrerà le virtù delle donne, ricordando quanto esse “sappiano farcela” anche in condizioni difficili perché “hanno una marcia in più” (per non dire, con le solite espressioni, quanto siano mirabili se hanno “gli attributi” maschili anche propriamente detti, il che è tutto dire sul sessismo di questa figura retorica).
Chi vorrà ricordare l’importanza di una giornata nata con un martirio, quello di operaie americane bruciate vive in un incendio perché il proprietario della fabbrica newyorkese dove questo avvenne (la Triangle? La Cotton? Le versioni non combaciano mai) le teneva lì rinchiuse. E chi osserverà come sono cambiati i tempi, quanto lontani fossero i cortei delle donne sulle strade a rivendicare diritti e libertà e come oggi sembri svuotata questa ricorrenza dalle allegre cene tra amiche, magari corredate dalla artificiosa ironia dello spogliarello maschile (perché “le giovani generazioni non sanno, hanno trovato tutto già pronto”).
Il riferimento agli scandali sessuali e a forme più o meno glamourizzate o addomesticate del femminismo d’oltreoceano probabilmente sarà la novità mediatica di quest’anno, con riferimenti spesso immemori di una riflessione quasi secolare su questi temi. Sono tutti discorsi a cui siamo ormai assuefatti. E non si tratta, in fondo, semplicemente di decostruirne le basi - osservando, per esempio, che il mantra per cui le donne “ce la fanno” può finire per giustificare le lacune del welfare, o che il mito dell’incendio è stato contestato dalla storiografia (si veda il lavoro di Tilde Capomazza e Marisa Ombra a questo riguardo) ed è un’origine che “non impegna”, o che contraddizioni proprie di un contesto di circolazione di merci, informazioni e di persone globale, di catene transnazionali della cura e di digitalizzazione del dissenso vedono sì l’articolazione dei temi di genere in modalità nuove, intersezionali, attente alle istanze del Sud del mondo, ma anche il rifiorire di forme più tradizionali di contestazione di piazza (a cominciare dallo sciopero globale di oggi).
Si tratta di capire, piuttosto, quanto del femminismo sia oggi effettivamente patrimonio comune, superando le facili critiche all’emancipazionismo da tastiera, al commercialismo del femvertising o alla spettacolarizzazione hollywoodiana, per aprirsi a una riflessione sulle potenzialità di forme inedite di condivisione delle esperienze come il #metoo o il movimento Non una di meno. Quanto di esso sia invece sdoganato - purché lo si annacqui un po’ e non lo si chiami con questo nome - e quanto sia invece tradito, laddove ormai nessuno, a destra come a sinistra, sembra sottrarsi all’elogio dell’uguaglianza nella differenza, della parità nella meritocrazia, della libertà nell’autoaffermazione individuale.
La filosofa Nancy Fraser si è pronunciata in proposito con una lettura molto chiara: i temi del femminismo sono stati fagocitati dal neoliberismo, allo stesso modo in cui, secondo Slavoj Žižek o Luc Boltanski, l’ambientalismo o la critica sociale del 68 lo sono stati dal capitalismo, trasformando cioè istanze di autenticità e giustizia in merci da consumare e in sistemi da riprodurre. Tuttavia, aggiunge Fraser, alcune condizioni strutturali emergenti possono permettere di non rimanere vittime delle seduzioni individualiste del capitalismo e di riprendere il filo di un altro discorso del femminismo di seconda ondata per molti versi abbandonato: quello della solidarietà sociale, della politicizzazione del personale e del rifiuto dell’economicismo.
Riprendere quel filo significa ripartire dalla struttura, dal tessuto economico e sociale, tralasciando affermazioni di principio più o meno liquide, ma osservando la materialità delle asimmetrie nel loro farsi quotidiano. Le dimensioni in cui questo avviene sono molte. Rielaborando la proposta di un classico testo degli anni Settanta, La condizione della donna di Juliet Mitchell (Einaudi, 1972), Raewyn Connell (2011) propone ad esempio di analizzare la asimmetria tra uomini e donne secondo quattro dimensioni.
La prima, quella della produzione, del consumo e della accumulazione. La divisione sessuale del lavoro, la segregazione occupazionale, la discriminazione, i vari soffitti e labirinti di cristallo che separano uomini e donne lungo assi verticali e orizzontali della gerarchia lavorativa rappresentano la principale dimensione delle asimmetrie di genere riconosciuta nelle scienze sociali.
La seconda, quella del potere, è stata un elemento cruciale nella analisi del funzionamento del sistema patriarcale elaborata dal femminismo radicale. Il potere dei mariti sulle mogli e dei padri sulle figlie è stato al centro di una riflessione critica dell’esperienza di sopraffazioni e violenze vissuta entro le mura di casa, riflessione che si è poi estesa ad ambiti extradomestici e forme più tacite di subordinazione, anche simbolica.
La terza, la dimensione emotiva, comprende le asimmetrie nelle aspettative che una società costruisce intorno all’espressione e alla gestione delle emozioni sulla base del genere, da cui discendono anche le attribuzioni di una diversa attitudine alla cura e alla dipendenza dagli altri: a seconda che siamo uomini o donne veniamo socializzati non soltanto a comportamenti e stati emotivi diversi, ma a una diseguale considerazione in termini di controllo di sé, degli altri e dell’ambiente.
La quarta, infine, è la dimensione culturale e discorsiva: in contesti che vanno dal linguaggio alle rappresentazioni visive, dal diritto alla religione, maschilità e femminilità vengono continuamente evocate e riprodotte, ribaltate e contestate, in condizioni di visibilità e accesso alle risorse che sono però asimmetriche e discriminanti (basti spesso invertire mentalmente i ruoli di donne e uomini per far emergere elevazioni e degradazioni simboliche degli uni e delle altre).
Liberamente ispirandoci a questa classificazione, proviamo qui a ricordare alcuni elementi che possano far riflettere sul senso di una Giornata della Donna in un Paese come il nostro, in cui molti indicatori suggeriscono che molta strada c’è ancora da fare. Per la prima dimensione, tratteremo delle diseguaglianze nel mercato del lavoro. Abbiamo già avuto modo, in questa rivista, di conoscere le difficoltà della conciliazione dovute alle carenze nei servizi (si veda Naldini e Santero); si tratta di osservare qui quali difficoltà le donne incontrino in termini di entrata e permanenza nel mercato del lavoro, specie quando decidono di essere madri.
Per la seconda dimensione, ricorderemo i dati sulla violenza di genere e sulle forme che essa sta prendendo in un Paese dove una donna ogni due giorni viene uccisa per mano del partner o dell’ex partner (e il contrario non accade, è bene ricordarlo) e dove c’è ancora una forte carenza e disomogeneità nelle strutture di accoglienza e rifugio contro la violenza.
Per la terza, si vedranno i dati riguardanti il permanere delle asimmetrie nella cura e nel lavoro domestico anche in epoca di “nuove paternità” e di “padri affettivi”, all’interno di un quadro della divisione del lavoro domestico particolarmente disequilibrato rispetto ad altri Paesi europei.
Per la quarta, infine, proporremo i dati di una recente indagine internazionale sulle donne nell’informazione di tv, radio e giornali, dalla quale emerge come l’Italia sia ancora lontana da una rappresentazione di genere fedele alla distribuzione delle competenze riconosciute in seno alla società.
Tutti i dati, naturalmente, risentono sempre dei limiti del contesto per cui sono prodotti e gli elementi che qui si mettono sul piatto non sono esenti dalle ambivalenze su cui ci allertava Fraser. Ma rappresentano dei tasselli per una presa d’atto del modo in cui, in questo paese, la differenza si fa disuguaglianza. Una consapevolezza da cui partire il nove marzo, liquidando facili enunciazioni di principio.
* Sul tema nel sito, si cfr.:
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO".
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO". Una riflessione di Massimo Cacciari su "cosa significa ereditare il passato"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Michelangelo precursore di Copernico ...
Michelangelo precursore di Copernico
di Antonio Rocca (la Repubblica, 15.01.2018)
Alcuni studi attestano che nel dipingere il Cristo del “Giudizio universale” Buonarroti abbia offerto una figurazione dell’eliocentrismo. E ciò anche per iniziativa del papa Clemente VII
Trovatosi a constatare la stringente analogia tra la rivoluzione copernicana e la rivoluzione iconografica con la quale Michelangelo impone un Cristo-Apollo nel cuore del Giudizio sistino, Charles de Tolnay scrive che il Buonarroti «giunge a una visione dell’universo curiosamente anticipante quella del suo contemporaneo Copernico. L’idea della composizione di Michelangelo precede di sette anni la pubblicazione dell’astronomo di Thorn (uscita a stampa nel 1543)».
Mancano documenti ad attestare un rapporto diretto tra l’astronomo e l’artista, pertanto Tolnay è costretto a utilizzare il termine “curiosamente”, ma il legame è evidente e con l’intento di colmare tale lacuna si è mossa Valerie Shrimplin. La studiosa britannica ha ricostruito il quadro che tiene assieme i due, sottolineando l’importanza di un episodio del 1533.
In giugno Clemente VII invita Albert Waldstadt affinché, nei giardini del Vaticano e di fronte a un ristretto cenacolo di cardinali, gli illustri il modello copernicano.
Quella visione eliocentrica, disposta nel solco del neoplatonismo fiorentino, appassionò il Medici che donò al Waldstadt un prezioso manoscritto. Secondo la Shrimplin il papa maturò allora la decisione di realizzare il Giudizio.
La commissione al Buonarroti si concretizzò già alla fine dell’estate del 1533 e la morte del pontefice non bloccò il progetto, che fu immediatamente ripreso da Paolo III Farnese.
La memoria dei processi a Giordano Bruno e Galileo Galilei sembra gettare un’ombra sulla possibilità che due papi potessero concepire la realizzazione di un colossale manifesto eliocentrico nel cuore della cristianità, tuttavia dobbiamo ricordare che siamo negli anni trenta del ‘500 e che la difesa del sistema tolemaico s’impone solo nel secolo successivo. Il De revolutionibus orbium coelestium fu messo all’Indice nel 1616. Avversione peraltro incerta come dimostrano le simpatie per Galilei del cardinal Barberini, divenuto in seguito Urbano VIII, e l’affresco di Andrea Sacchi in palazzo Barberini, che all’eliocentrismo allude.
Ipotesi antica, quella eliocentrica, che aveva conosciuto una fase di svolta con la pubblicazione del De Sole di Marsilio Ficino. Riprendiamola da questo momento, osservandola dalla prospettiva dei protagonisti della nostra storia, allora solo tre ragazzi. È il 1493, Copernico ha vent’anni e studia astronomia a Cracovia, il De Sole è libro di testo; Michelangelo gode della protezione di Piero de’ Medici, cui il De Sole è dedicato; Alessandro Farnese, già studente di Ficino, si appresta a diventare cardinale.
Il trattato esprime pochi concetti con grande chiarezza: il sole, immagine di Dio, occupa una posizione centrale nell’universo e rappresenta la giustizia divina. «La giustizia, regina di tutte le cose», scrive Ficino, «si diffonde attraverso il tutto a partire dal trono del Sole, e tutto dirige, quasi sia il Sole a guidare tutte le cose».
Copernico prese allora a cercare una via per allineare matematica, astronomia e platonismo. Nel corso del suo pluridecennale lavoro non ottenne risultati decisivi perché i suoi calcoli furono inficiati da assiomi interni al platonismo. Così, a dispetto di ogni dato empirico, il polacco non intese mai rinunciare alla perfetta circolarità delle orbite planetarie.
Concetti pitagorici che Copernico insegnava nelle sue lezioni romane del 1500, cui pare partecipassero anche Michelangelo e Alessandro Farnese. Col senno di poi, sapendo che Paolo III sarà il committente finale del Giudizio e che a lui è dedicato il De revolutionibus, si è portati a ritenere che sin da allora, sin dal principio del secolo, tra i tre si fossero instaurati dei rapporti diretti. Troppo stretti i giri, nella Roma agostiniana e neoplatonica, per immaginare che simili personaggi s’ignorassero, tuttavia ciò che qui interessa è osservare come l’artista, lo scienziato e l’uomo di chiesa, abbiano saputo inverare concetti astratti appresi in gioventù.
Diventati anziani uomini di successo, il Farnese, Michelangelo e Copernico declinarono i principi ficiniani, attribuendogli sostanza e creando un panorama culturale coerente. Intanto, però, tutto era cambiato. Il Giudizio e il De revolutionibus sono inattuali, nascono già vecchi o pregni di un futuro che li rende incomprensibili. Nel presentare il suo lavoro, Ficino aveva scritto che il libro andava letto in modo allegorico e anagogico, non dogmatico. La traduzione in immagine di quel testo vedeva la luce nel momento in cui la chiesa di Roma puntava a bandire modelli di lettura figurale, a vantaggio di una precisa rappresentazione dei dogmi formulati a Trento.
Il conflitto era inevitabile, sia sul piano formale che su quello del merito. Michelangelo aveva posto tra i beati una donna che esibisce un copricapo ebreo, due indios e una coppia d’infedeli, afferrati da un angelo per mezzo di un rosario a cento grani, tipico dei musulmani. Decisamente troppo per Paolo IV, il pontefice del ghetto, dell’indice dei libri proibiti e dell’Inquisizione.
Fortunatamente l’affresco restò intatto, seppure dovette subire qualche limitato intervento censorio. Integro ma incompreso, reso opaco e preso a tenaglia da pedanti cattolici e dalle favole protestanti di una Roma pagana, nella quale gli idoli greci avevano preso il posto di Dio. Del resto cosa poteva apprezzare un uomo come Lutero, vagamente iconoclasta e avversario di Copernico?
Ma ciò che ha fatto più danno è stata la Modernità o, meglio, la ricostruzione apologetica delle origini della Rivoluzione scientifica. Progresso scientifico e anticlericalismo col tempo presero a divenire quasi sinonimi.
Si ricostruì la narrazione di una faticosa e costante riemersione alla luce ottenuta per mezzo della lotta contro l’oscurantismo cattolico, fatto di libri proibiti, processi, abiure, torture e condanne.
Episodi reali, ma infilati su di un percorso unilineare nel quale sono trascurati l’eliocentrismo del vescovo Cusano, del sacerdote Ficino e l’ortodossia del canonico agostiniano Copernico. Tutti loro, come il domenicano Bruno, osservavano la volta celeste perché, come recita il Salmo 18, «i cieli narrano la gloria del Signore». Oltre la Modernità, dopo aver preso congedo dai miti solari di ogni Illuminismo, è più facile riconoscere che il Giudizio non è un’incongrua esaltazione della bellezza pagana e che Copernico non era un precursore del libero pensiero.
Leggiamo nel De revolutionibus: «La macchina dell’universo è stata creata per noi dal migliore e più perfetto artefice (...) E in mezzo a tutto sta il Sole.
Chi infatti, in tale splendido tempio, disporrebbe questa lampada in un altro posto o in un posto migliore, da cui poter illuminare contemporaneamente ogni cosa? Non a sproposito quindi taluni lo chiamano lucerna del mondo, altri mente, altri regolatore. Trismegisto lo definisce il dio visibile, l’Elettra di Sofocle colui che vede tutte le cose. Così il Sole, sedendo in verità come su un trono regale, governa la famiglia degli astri che gli fa da corona». La Cappella Sistina, che ha le stesse dimensioni del tempio di Gerusalemme, è quel tempio.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO.
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. In memoria di Kurt H. Wolff.
Salviamo il convento di San Marco (Firenze) dal nuovo provvedimento di chiusura
Al Maestro Generale dell’Ordine Domenicano Bruno Cadoré
Dopo quattro anni la situazione è tornata al punto di partenza: il Capitolo Provinciale dei Frati Domenicani dell’Italia Centrale ha nuovamente deciso, nel luglio 2017, di chiudere il Convento di San Marco a Firenze; rimarrà aperta la parte del convento che è Museo statale e la chiesa, ma non ci sarà più una comunità di frati e un convento senza frati non è più un vero convento.
Dopo la grande mobilitazione - di popolo, di artisti, di intellettuali - per salvare il convento, concretizzata in varie iniziative e soprattutto nella Petizione su www.change.org l’arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori e il Maestro Generale dell’Ordine Domenicano, Padre Bruno Cadoré, avevano stipulato un accordo che impegnava i domenicani a tenere aperto il convento almeno fino al termine del processo di beatificazione di Giorgio La Pira, celebre sindaco di Firenze, legato per tanti motivi al convento di San Marco.
Ma la Provincia Domenicana, incurante di questo accordo, ha domandato al Generale di chiudere il convento, proprio come quattro anni fa. Il cardinale Betori ha cercato di rimediare contattando il Generale Cadoré, è nato un dialogo da cui è emersa la disponibilità del Generale a non chiudere il convento. Tale disponibilità però non si è tradotta in decisioni concrete e il convento (e i frati che vi risiedono) permane in una situazione di incertezza totale.
Domandiamo al Generale di trovare quanto prima una soluzione, affinché nel convento di San Marco risieda una comunità con un congruo numero di frati, in grado di valorizzare ed incrementare le sue attività.
Ricordiamo qui l’importanza unica del convento: San Marco dal XV secolo fa parte integrante della storia e dell’identità di Firenze, San Marco è il convento domenicano più famoso al mondo e uno dei più ricchi di opere d’arte, uno dei principali centri del Rinascimento, un laboratorio dove si sono fecondate a vicenda la religione cattolica, la cultura e l’arte.
Nel corso di quasi sei secoli moltissimi personaggi illustri (nella santità, nella cultura, nell’arte, nella politica) hanno abitato il convento oppure lo hanno frequentato assiduamente. Ancora oggi, benché rimasto con pochi frati, il convento è un punto di riferimento per le tante persone che desiderano un contatto con l’Ordine Domenicano, per gli studiosi di religione e arte che frequentano la chiesa, la biblioteca di spiritualità e le conferenze organizzate dai frati.
Firenze, 20 dicembre 2017
Il testo completo della petizione può essere letto su questa pagina di change.org.
*fonte: marcovannini
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA .... *
All’anima di Michelangelo
Un libro indaga la complessa religiosità michelangiolesca, e allarga il campo a iconografia e Riforma
di Giulio Busi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 03.09.2017)
È nell’orto di casa, la notte è serena. Prega. Quando alza gli occhi, nel cielo c’è una stella. Grande, enorme, con tre code. Il raggio d’oriente ha colore dell’argento. O forse è una spada lucente, torta alla sommità come un uncino? L’altro raggio, quello che si proietta su Roma, è vermiglio come il sangue. Il terzo strale s’incunea tra settentrione e occidente. È così lungo che arriva di sicuro fino a Firenze. In cima si biforca, ed è infuocato. Lui corre in casa, prende un foglio, torna fuori nell’orto, butta giù un’immagine. Disegnare è il suo mestiere.
Vorreste vederlo, questo schizzo misterioso? Il frate Benedetto Luschini, che ha raccontato tutta la storia, ci indica dove andare: «Se pure tu ti contenti di vederlo, va et truova el decto scultore, che al presente si truova et lavora in Firenze. Et lui benignamente ti mostrerrà la cosa, et humilmente ti dirà la verità del tucto, et così resterai satisfacto et troverrai che io non t0ho decto alcuno mendacio». Chi è lo scultore? Ha un nome facile da ricordare. Michelangelo.
Frate domenicano, grande sostenitore di Girolamo Savonarola, Luschini ha avuto guai con la giustizia. Mentre scrive, s’è già fatto un bel po’ d’anni di prigione per un omicidio, sembra preterintenzionale. È autentica la storia della stella, e il disegno, lo ha visto davvero? Sappiamo così poco, sul mondo interiore di Michelangelo, soprattutto durante la giovinezza e la prima maturità, che ogni indizio è prezioso.
Attese e paura di punizione celeste, speranze di trasformazione epocale. Le prediche dell’ossuto Savonarola, Michelangelo le ha sentite con le proprie orecchie, prima di partire per l’Urbe nel giugno 1496. Come quasi tutti i fiorentini, ne è rimasto impressionato, esaltato, turbato. Un’esaltazione di cui ancora si ricorderà nella vecchiaia, ma che non gli ha impedito di starsene al sicuro a Roma, e di lavorare per cardinali e banchieri, proprio mentre la stella di Savonarola, tanto più fragile della cometa celeste, sale al dominio della città e poi cade a precipizio, fino alla morte sul rogo.
La religione di Michelangelo è un tema profondo e contradditorio come tutto l’uomo. Generoso e taccagno, idealista e crudamente pragmatico, malinconico e ironico. Della sua tendenza a dar credito a profezie e attese millenariste si fanno beffe i familiari. E lui, permaloso, si risente: «Io non vo drieto a favole e non sono però pazzo afacto chome voi credete», scrive polemico, nel 1515, al fratello Buonarroto, che lo ha accusato di lasciarsi prendere da «frati e favole».
Favole - se le vogliamo chiamare così - ma quali? Al voluminoso dossier sulla religiosità michelangiolesca, Ambra Moroncini aggiunge ora un’indagine su poesia, iconografia e Riforma. La triade del titolo disegna il percorso di tutto il libro. Spirituali, evangelici, luterani, eretici: le possibili sfumature lessicali e storiche sono molte, ma il significato di fondo è univoco. È la ricerca di un Michelangelo che, nascostamente, fra amici - Vittoria Colonna, innanzitutto - o dietro il velo simbolico delle proprie opere, è in polemica con la Chiesa del potere e della pompa ed è lambito, o preso in pieno, dal grande vento che ha cominciato a soffiare a Wittenberg, il 31 ottobre 1517, quando Lutero ha deciso di proporre alla discussione pubblica le sue 95 tesi sulle indulgenze.
E poiché le date, per i visionari, contano, eccovi una coincidenza importante. Il 31 ottobre 1541, per i vespri alla vigilia d’Ognissanti, papa Paolo III inaugura, nella Cappella Sistina, il Giudizio Universale di Michelangelo. Ottobre è il più crudele dei mesi? No, il più eretico.
Secondo Moroncini, dietro l’apoteosi di santi e dannati, tutti egualmente svestitissimi, sotto la procace galassia di corpi che vortica attorno al Cristo risorto del Giudizio sistino, vi sono le simpatie evangeliche di Michelangelo, la sua polemica anti-ecclesiastica. Sulla scorta del commento al Vecchio e Nuovo Testamento del luterano Antonio Brucioli, s’ipotizza nel volume che i nudi vogliano rappresentare la condizione di peccato, dal quale la sola fede può salvare e non l’umana ipocrisia e le cerimonie esteriori della Chiesa.
Vien da chiedersi se sia questa l’unica spiegazione possibile per la fastosa, e provocatoria, nudità del Giudizio. Che l’esibizione di carni desse ad alcuni subito fastidio, è risaputo, giacché le prime critiche sono dello stesso 1541, e provengono dall’ambiente di due potenti cardinali e futuri papi, Marcello Cervini (Marcello II) e Gian Pietro Carafa (Paolo IV). Alla fine, ma solo più d’un ventennio più tardi, la revanche copritiva avrà la meglio, e all’ottimo allievo e amico di Michelangelo, Daniele da Volterra, detto poi il Braghettone, verrà affidato il compito di stendere pietose pennellate pudiche.
Non ci voleva però la Riforma protestante per far dipingere sodi e sensuali corpi al Buonarroti. Già qualche anno dopo l’affrescatura michelangiolesca sul soffitto della Sistina, papa Adriano VI aveva storto il suo naso fiammingo, e aveva definito la Volta, proprio per quelle pudende bene in vista, «una stufa d’ignudi», o bagno termale che dir si voglia.
Perché, allora, i nudi? E perché proprio nella cappella pontificia? È domanda religiosa d’importanza. Quali le ragioni, oltre, naturalmente, alla coerenza dell’artista, che comincia a scolpire nudi da ragazzo, nella Zuffa dei centauri, e mai si ferma per tutta la sua lunghissima vita? Credo carnis resurrectionem, dice il catechismo cattolico. Carnis, della carne, e non in tunica e camicia. Ma anche a voler azzardare qualche fonte più particolare, basta prendere una predica, tenuta nel Duomo di Firenze durante l’Avvento del 1493 (Michelangelo è quel giovanotto in fondo, tra la folla?) e poi pubblicata in volgare: «Nella resurrettione noi saremo nudi et semplici, cioè spogliati di queste superfluità del mondo». Chi è il predicatore? Ha un nome facile da ricordare. Savonarola.
SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO.
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL.
La rivincita della socialità del Sud
di Amador Fernández-Savater *
di Amador Fernández-Savater *
Negli anni ’70, il regista italiano Pier Paolo Pasolini propose di considerare il conflitto politico come uno scontro fondamentalmente antropologico: tra diversi modi di essere, diverse sensibilità e idee di felicità. Una forza politica non è niente (non ha alcuna forza) se non è radicata in un “mondo” che compete con quello dominante, in termini di forme di vita desiderabili.
Mentre gli “uomini politici” della sua epoca (dirigenti di partito, militanti di avanguardia, teorici critici) guardavano al potere statale come al luogo privilegiato per avviare una trasformazione sociale (si prende al potere e si cambia la società dall’alto) Pasolini avvertiva - con sensibilità poetica, sismografica - che il capitalismo stava avanzando attraverso un processo di “omologazione culturale” che stava logorando i “mondi altri” (contadini, proletari, sottoproletari), contagiando i valori e i modelli di consumo “orizzontalmente”: attraverso la moda, la pubblicità, l’informazione, la televisione, la cultura di massa ecc.
Il nuovo potere non emana, irradia o discende da un punto centrale, si propaga invece “indirettamente, nel vissuto, nell’esistenzale, nel concreto” diceva Pasolini. Nei vestiti e nelle posture, nella serietà e nei sorrisi, nei gesti e nei comportamenti, il poeta decifrava i segni di una “mutazione antropologica” in corso: la rivoluzione del consumo. Frenarla dal potere politico sarebbe stato come tentare di contenere un’inondazione con un piccolo tubo. Non è possibile imporre altri contenuti o finalità all’interno di un contesto inalterato di accumulazione e crescita. Piuttosto è il contrario: sarà il modo di produzione-consumo a determinare i margini di manovra del potere politico. Una civiltà si ferma solo con l’arrivo di un’altra. -Sono necessari altri vestiti e altre andature, un’altra serietà e altri sorrisi, altri gesti e altri comportamenti.
La contesa politica (che non è un semplice gioco di troni) esprime un “disaccordo etico” tra diverse idee di vita o, ancor meglio, di buona vita. Non sono idee fluttuanti, enunciate in maniera retorica, ma idee pratiche incarnate, materializzate, contenute nei gesti e nei dispositivi più quotidiani (Facebook, Uber o Airbnb sono figure del desiderio, da qui deriva la loro forza). Che cosa potrebbe svelarci sulla politica uno sguardo antropologico? Quali sono i mondi in collisione oggi? A quali disaccordi etici sulla buona vita potrebbero giungere delle azioni politiche trasformatrici?
Il vecchio spirito del capitalismo
Facciamo prima un passo indietro. Dove è nata l’idea di organizzare la vita intera attorno al lavoro, l’efficienza e la produttività? Secondo Max Weber, la cultura borghese trova le sue origini, il suo motore e il suo combustibile nell’etica protestante (soprattutto il protestantesimo ascetico). Attraverso la ri-concettualizzazione del lavoro come “professione” e la teoria della predestinazione (solo nel successo terreno è possibile riconoscere i segni della nostra salvezza), si produce una soggettività che mette al centro della vita il denaro e l’arricchimento, che aspira alla “razionalizzazione” dell’intera esistenza (la relazione con il tempo, il corpo, l’onore, l’educazione dei figli), che condanna la povertà ad essere il peggiore di tutti i mali (“scegliere la povertà è come scegliere la malattia”), ecc.
Questa soggettività non è un “riflesso automatico” dell’oggettività economica, ma un elemento decisivo della “cultura capitalista” senza la quale semplicemente non c’è il capitalismo. Solo un nuovo tipo di immaginario e di soggettività (una nuova organizzazione del desiderio) poteva avere la forza necessaria per frantumare la “mentalità tradizionalista” (allora imperante) secondo la quale non si vive per lavorare (che sarebbe assurdo), ma si lavora per vivere e, se si dispone di ricchezza (per lavoro proprio, altrui o per puro caso), ci si dedica allora alla contemplazione o alla guerra, al gioco o alla caccia, a dormire tranquilli o al godimento sensuale della vita, ma non ci passerebbe mai per la testa di reinvestirla per continuare ad accumulare.
La cultura borghese nasce pertanto dalla potenza di un immaginario religioso, che viene successivamente abbandonato, laicizzando i suoi valori: il senso di responsabilità individuale, il self made man, la meritocrazia, il credito, il progresso, la sensibilità puritana e severa, ecc. La modernità è stata in misura predominante una “cultura del Nord” : anglosassone, maschile, bianca e protestante. Il dominio di questo immaginario (vivere per lavorare, investire i guadagni per ottenerne degli altri, sottomettere tutti gli aspetti della vita a un controllo regolamentato e sistematico, ecc.) non è però mai stato del tutto completo.
La socialità del Sud
Secondo il sociologo (della vita quotidiana) Michel Maffesoli, una “socialità del Sud” è sempre esistita, da sempre persiste e resiste. È una socialità diffusa, sommersa e occulta, difficile da vedere, ma presente, capace di ribellarsi e attivarsi quando si sente minacciata. Una dinamica informale (forme di legame, di appartenenza soggettiva, di fare nella pratica) determinante nella vita di tutti i giorni, come un substrato o uno “strato freatico“ dell’esistenza collettiva.
In cosa consiste questa socialità del Sud? È prima di tutto un impulso vitale, a-razionale. È una volontà di vivere, un voler vivere. Non di vivere come capita, ma affermando invece un tipo di legame, un tipo di esistenza, una certa idea di felicità: uno stare-insieme antropologico. È anche un insieme di saperi e di strategie per riprodurre quegli stessi legami e forme di vita.
Questo “Sud” originariamente e storicamente si riferisce ai paesi mediterranei e latinoamericani, ma nell’opera dell’autore diventa un concetto più versatile, che allude più a “valori” e “climi affettivi“, che a una localizzazione geografica. In questo senso, ci sarebbe un “Sud nel Nord”, così come un “Nord nel Sud”. Colonia (vivace, allegra, loquace, proletaria) sarebbe il “Sud” in Germania mentre la Francoforte della finanza sarebbe il “Nord”.
Possiamo dedurre cinque “valori” (ciò che conta) per questa socialità del Sud:
• In primo luogo, il presente: la vita non si proietta “verso avanti” (un futuro di salvezza, di perfezione), ma si afferma “ora”. Questa leggerezza verso il domani non esclude (paradossalmente?) un’ostinazione a riprodursi e a durare. La temporalità della socialità del Sud è intensa e non estesa, ma non si impegna a “perseverare nel suo essere”.
• In secondo luogo, il legame: la vita c’è in continuità con gli altri, intersecata con gli altri, intrecciata con gli altri. Non solo per necessità, ma anche per il piacere di condividere. Il legame più apprezzato è quello vicino, prossimo, a portata di mano (il tatto è un valore). Questo “qui” non ci separa da ciò che sta “lì” (cioè che è lontano), al contrario: a partire da ciò che viviamo “qui”, ci può suonare familiare qualcosa “lì”.
• In terzo luogo, l’aspetto tragico: la consapevolezza dell’anarchia di ciò che c’è, di ciò che è. Non si tratta di “risolvere” o “ superare” ciò che è dato (incerto, buio, molteplice), ma piuttosto di sapersi “destreggiare” in esso. Un’altra relazione quindi con il male, il rischio o la morte, che non sono qualcosa da sradicare (secondo le logiche imperanti di controllo, sicurezza e totale prevedibilità), ma sono invece un aspetto della vita (e possono anche essere forza, leva, se siamo capaci di ingegnarci).
• In quarto luogo, l’aspetto dionisiaco: non è la vita chiusi in sé stessi (lavoro, successo, progresso), ma una vita “estatica” che cerca di uscire da sé attraverso il pieno godimento del corpo, il gusto per la maschera e il travestimento (le apparenze), la fusione con l’altro nelle celebrazioni collettive (musicali, sportive, religiose), ecc. Eccesso, spreco, vertigini, abnegazione, distruzione: l’aspetto dionisiaco è un tentativo di approccio con l’alterità.
• Infine, il doppio gioco: non la passione per ciò che è dritto, frontale ed esplicito, ma per la deviazione, l’astuzia, l’improvvisazione, l’ingegno, la fatica, la duplicità, la dissimulazione, il gioco con la legge e la norma, le strategie non convenzionali di conservazione e sopravvivenza (mia e dei miei). Non la passione di correggere e indirizzare, ma di tirare a sorte, contrattare, dribblare e burlarsi.
La crisi come occasione
Gli economisti neoliberali offrono la loro lettura “antropologica” del mondo e concludono che la crisi economica del 2008 ha a che vedere con “l’insufficiente mobilità geografica”, il “limitato spirito imprenditoriale”, “la famiglia come ancora di sicurezza”, il “lavoro informale” o “l’indifferenza (o persino il rifiuto) verso l’arricchimento”, aspetti che caratterizzano ancora troppo i paesi del Sud (i cosiddetti PIGS: Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, nessuno dei quali, per altro, è un paese protestante). Alla luce di queste analisi, vediamo come opera la socialità del Sud.
È possibile leggere la gestione neoliberale della crisi come un tentativo di sopprimere in ultima istanza tutte queste “inadeguatezze culturali” e accelerare in questo modo “il divenire mondo del capitale” (Laval e Dardot)? La crisi del debito sarebbe in questo senso l’occasione perfetta per scatenare la “distruzione creativa” di tutto ciò che, dentro e fuori di noi, ci fa diffidare dei pensieri e delle azioni che ci vogliono semplici atomi sociali, particelle egocentriche svincolate, macchine del calcolo egoista. Abitudini e vincoli, affetti e solidarietà.
Eliminando le protezioni sociali, indebolendo i diritti associati al lavoro, favorendo l’indebitamento generale di studenti e famiglie, allargando la precarietà, riducendo i salari e la spesa sociale, non si fa altro che fomentare il “si salvi chi può” e distruggere tutto quello che garantiva alle persone un certo margine di libertà rispetto al mercato. Tutto ciò che c’è “tra” i viventi e che li rende qualcosa di più che semplici “particelle elementari” in competizione: legami di ogni sorta, diritti conquistati, luoghi vivi, risorse pubbliche e comuni, reti di solidarietà e mutuo soccorso, circuiti non commerciali di beni e servizi, ecc. La base materiale di qualsiasi autonomia. Governare oggi consiste esattamente nel corrodere questo “tra”, questa trama densa di legami, affetti, mutuo aiuto...
Ma proprio quando si vorrebbe “estirpare”, ecco che la socialità del Sud si tende e si attiva. Nella Spagna della crisi sono proliferati, per esempio, dei micro-gruppi informali di solidarietà e mutuo soccorso (familiari, di vicinato, tra amici) che hanno mitigato gli effetti devastanti della gestione neoliberale della crisi: paura, solitudine e abbandono. Una proliferazione che racchiude in sé il paradigma liberal-individualista: “ognuno ha la propria vita”.
Proprio quando ci hanno detto che “avevamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” e che si doveva espiare e pagare, i valori del Sud si prendono una rivincita, affermando e diffondendo altre idee di ricchezza e felicità: basate più nel presente che nel futuro, più nei legami che nella solitudine, più nel tempo disponibile che nella vita per il lavoro, più nell’empatia che nella concorrenza, più nel godersi la grazia che nell’espiare la colpa per il debito.
Il nuovo spirito del capitalismo
Ancora più difficile. Secondo alcuni autori, oggi staremmo attraversando il passaggio verso il superamento (intensificazione, radicalizzazione?) del vecchio “spirito” del capitalismo, di cui Weber studiò le origini.
Per esempio, secondo Franco Berardi (Bifo), la borghesia “viveva ancora nei legami” (con una comunità, dei luoghi, dei beni fisici, una classe lavoratrice che non poteva sopprimere, la relazione tra valore e tempo del lavoro). Tuttavia, il capitalismo finanziario è molto più astratto: non si identifica con un luogo, con una popolazione concreta, con una classe lavoratrice, con una regola, anche se le sue decisioni hanno conseguenze (devastanti) su luoghi, popoli, lavoratori, ecc.
D’altra parte, secondo Christian Laval e Pierre Dardot, questa logica di accumulazione infinita del capitale è diventata oggi una “modalità soggettiva”. Cosa vuol dire questo? Significa che l’“homo œconomicus” (definito per la sua prudenza, la sua ponderazione, l’equilibrio negli scambi, la felicità senza eccessi, il bilanciamento tra sforzi e piaceri) è stato sostituito “dall’imprenditore di sé stesso” (definito per la competizione e l’auto-superamento continuo: vivere nel rischio, andare oltre i propri limiti, avere uno squilibrio costante, non riposare o fermarsi mai, riversare tutto il piacere nell’auto-superamento). Esiste un’espressione, secondo gli autori francesi, che riassumerebbe il tratto soggettivo del capitalismo attuale: “sempre di più”. Il piacere di non avere limiti.
In questa trasformazione bisognerebbe rivalutare la resistenza della “socialità del Sud”, oggi che, per esempio, la cultura capitalista non esige più la repressione dell’aspetto affettivo/passionale, ma piuttosto una sua completa strumentalizzazione al servizio della logica del guadagno: la strumentalizzazione dell’intimo. Senza dubbio, l’espressione “una vita che basta a sé stessa” continua ad essere assolutamente sovversiva (oggi più che mai?). Una vita che non vuole estrarre e accumulare “sempre di più”, ma che vive nel piacere di prendersi cura e di condividere, il più vicino possibile, ciò che ci è stato dato, qui e ora. L’insurrezione della socialità del Sud consisterebbe nell’affermare politicamente quest’altra idea di felicità, questa potenza sotterranea, questo mare di fondo.
Riferimenti bibliografici:
Cartas luteranas (Trotta) y Escritos corsarios (Ediciones del Oriente y el Meditarráneo), de Pier Paolo Pasolini.
A nuestros amigos y Ahora (ambos en Pepitas de Calabaza), del Comité Invisible.
La ética protestante y el “espíritu” del capitalismo (Alianza), de Max Weber.
La sublevación (ediciones castellanas en Hekht y Artefakt), de Franco Berardi,Bifo.
La pesadilla que nunca acaba (Gedisa), de Christian Laval y Pierre Dardot.
El tiempo de las tribus (Icaria), La tajada del diablo (Siglo XXI) y La transfiguración de lo político (Herder), de Michel Maffesoli.
Articolo pubblicato su El diario. es con il titolo: Una vida que se basta a sí misma: la revancha de los “valores del sur”
Traduzione per Comune-info: Sofia Begotto
* Comune-info, 18 luglio 2017 (ripresa parziale - senza immagini)).
SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
"GUERCINO A PIACENZA". Fulcro di tutta la manifestazione sarà ovviamente la Cattedrale, con lo straordinario ciclo di affreschi realizzato da Guercino tra il 1626 e il 1627 ...
Il ’600 di Guercino tra Sacro e Profano
Dal 4/3 a Piacenza si visiteranno anche affreschi cupola Duomo
di Nicoletta Castagni *
PIACENZA - Una mostra dei suoi capolavori a Palazzo Farnese e la possibilità di poter ammirare da vicino, per la prima volta, il ciclo di affreschi della cupola della Cattedrale: dal 4 marzo Piacenza celebra Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino, e il suo sublime ’600, di cui, tra immagini sacre e raffigurazioni profane, il pittore di Cento fu uno degli indiscussi protagonisti. Fino al 4 giugno, la rassegna presenterà infatti una ventina di opere tra oli e disegni, mentre una serie d’iniziative di grande suggestione e rilevanza storico-artistica accompagneranno l’ascesa all’interno della cupola decorata dal maestro emiliano con le storie dall’Antico e Nuovo Testamento.
Intitolato ’Guercino a Piacenza’, il progetto espositivo è stato promosso dalla Fondazione Piacenza e Vigevano, dalla Diocesi di Piacenza-Bobbio e dal comune di Piacenza, con il patrocinio della Regione Emilia Romagna, del Mibact e col contributo della Camera di Commercio di Piacenza, Apt Servizi Regione Emilia Romagna, Iren (main sponsor Credit Agricole Cariparma). Fulcro di tutta la manifestazione sarà ovviamente la Cattedrale, con lo straordinario ciclo di affreschi realizzato da Guercino tra il 1626 e il 1627 e che si presenterà in tutta la sua bellezza grazie alla nuova illuminazione realizzata da Davide Groppi.
Tra i vertici assoluti della sua arte, le pitture della cupola sono suddivise in sei scomparti raffiguranti le immagini dei profeti Aggeo, Osea, Zaccaria, Ezechiele, Michea, Geremia. Nelle le lunette ecco dunque alcuni episodi dell’infanzia di Gesù (Annuncio ai Pastori, Adorazione dei pastori, Presentazione al Tempio e Fuga in Egitto) che si alternano alle immagini di otto Sibille e il fregio del tamburo.
Chiamato per primo a dipingere i Profeti nella volta della Cattedrale, fu nel 1625 Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, che ne realizzò due, Davide e Isaia, ma morì appena ultimati i primi due spicchi, notevoli per cromia e impianto. Quindi, nel 1626 gli subentrò il Guercino, che completò entro l’anno successivo gli altri sei scomparti della cupola e le lunette.
Per preparare all’ascesa della cupola, il visitatore sarà invitato, come prima tappa del percorso espositivo, all’interno delle sagrestie superiori della Cattedrale, dove verrà allestita una sala multimediale circolare che conterrà un grande videowall di oltre 10 m di lunghezza.
Il filmato di impatto spettacolare, condurrà virtualmente nella storia, al momento in cui il Vescovo Linati invita Guercino a Piacenza per decorare la cupola secondo i canoni imposti dal Concilio. Grazie all’impiego delle più attuali tecnologie, a una base scientifica che poggia su documenti d’archivio e disegni preparatori, alle foto ad altissima risoluzione del ciclo pittorico, lo spettatore potrà comprendere i tempi, le tecniche di lavorazione e le difficoltà riscontrate nella realizzazione di quello che la critica ha definito uno dei maggiori capolavori del maestro di Cento.
Sempre dal 4 marzo, la Cappella ducale di Palazzo Farnese ospiterà la bella mostra curata da Daniele Benati e Antonella Gigli, che insieme (e con il supporto di un comitato scientifico composto da Antonio Paolucci, Fausto Gozzi e David Stone) hanno selezionato 20 capolavori del Guercino, capaci di restituire la lunga parabola creativa che lo ha portato a divenire uno degli artisti del ’600 italiano più amati a livello internazionale. I dipinti scelti, infatti, testimonieranno la ’poetica degli affetti’ con cui il pittore, lungo l’arco cronologico della sua operosa attività artistica, ha realizzato sia i temi sacri sia quelli profani.
Tra i capolavori esposti ci saranno in prevalenza pale d’altare, ma non mancheranno i quadri ’da stanza’ a soggetto profano, in modo da scoprire il vero volto di Guercino e apprezzarne la straordinaria qualità e le prerogative messe a punto prima e dopo la grande impresa della volta piacentina. Il percorso espositivo illustrerà quindi le prime esperienze pittoriche a Cento, paese natale, svolte nel segno di una romantica adesione al linguaggio di Ludovico Carracci e indagherà la sua maturazione artistica avvenuta durante i lunghi soggiorni a Bologna e quindi a Roma. Fino ad arrivare all’ultima fase, quando, pur rimanendo inconfondibile, il suo linguaggio si apre a nuove sollecitazioni di tipo classicheggiante, incontrando il favore dei più illustri committenti.
STORIA E STORIOGRAFIA. "In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla" (W. Benjamin):
Guida al nuovo occidente che ha perduto l’idea di futuro
Il saggio di Massimo Cacciari e Paolo Prodi analizza la crisi della società attraverso il declino di due categorie fondamentali: “profezia” e “utopia”
di Roberto Esposito (la Repubblica, 13.09.2016)
Il saggio di Massimo Cacciari e Paolo Prodi analizza la crisi della società attraverso il declino di due categorie fondamentali: “profezia” e “utopia”. In molti oggi parlano di crisi dell’Europa e dell’Occidente. Ma ben pochi risalgono alla sua origine scavando tanto a fondo nel corpo della nostra tradizione, come fanno Massimo Cacciari e Paolo Prodi nel loro Occidente senza utopie (il Mulino). Ciò che, pur nella diversità degli strumenti, incrocia i loro sguardi è da un lato il rifiuto di categorie lineari come quella di laicizzazione; dall’altra il coraggio di dichiarare il fallimento del progetto moderno.
La grande tradizione che è nata dalla tensione tra Atene e Gerusalemme e che, attraverso Roma, è sfociata nel diritto pubblico europeo, è arrivata a termine e non è possibile riattivarla, se non passando per la piena consapevolezza di quanto è accaduto. Se non si ha la forza, come scrive Paul Valéry, di fissare gli spettri che ci lasciamo alle spalle, non basteranno incontri di vertice o rifondazioni istituzionali per riprendere quel cammino interrotto.
I due paradigmi su cui gli autori misurano la distanza che separa il presente dalle sue radici, sono quelli di profezia e di utopia. Senza la potenza critica che hanno sprigionato nei secoli, alla nostra civiltà mancherebbe un lievito decisivo. Eppure il loro orizzonte è stato profondamente diverso.
La profezia - al centro del saggio di Prodi - ha espresso una critica del potere che ha aperto lo spazio di libertà per la creazione della democrazia. È lo spirito profetico che per la prima volta, in Israele, ha separato il sacro dal politico, rompendo l’identificazione teologico- politica tra potere e legge. Profeta è colui che, da un punto marginale, ha l’autorità per contestare il potere regale e sacerdotale. Il divieto ebraico di pronunciare il nome di Dio va inteso anche come difesa da ogni indebita sacralizzazione del potere. Ma anche la distinzione cristiana tra quel che è di Cesare e quel che è di Dio conserva, fino a un certo momento, la distinzione. Tuttavia la figura del profeta non resiste a lungo. Già ridotta nel Medioevo a quella del predicatore, è presto espulsa fuori dall’“accampamento” cristiano, nelle frange ereticali. Tradotta in un impossibile progetto politico da Savonarola, a partire da fine Settecento si fa da un lato anelito rivoluzionario e dall’altro contatto personale con Dio. Dopo la parentesi dei totalitarismi, interpretabili come forme perverse di religione politica, nell’attuale dominio della finanza globale sembra venuto meno ogni impulso profetico. E con esso l’anima stessa dell’Occidente.
Un percorso diverso, ma altrettanto esaurito, quello dell’utopia, ricostruito genealogicamente da Cacciari. Intanto essa non va confusa con le mitologie, antiche e medioevali, di ritorno alle origini. L’utopia si strappa dal passato per radicarsi nel proprio tempo con la potenza di un progetto volto al futuro. Da qui il rilievo che in essa hanno la scienza e la tecnica. Se si passa dall’Utopia di Moro alla Città del sole di Campanella, alla Nuova Atlantide di Bacone, questo elemento costruttivo, sistematico, viene sempre più in primo piano. Organizzazione economica, incremento del sapere e tolleranza religiosa sono le precondizioni di una società armonica e pacifica. Ma è proprio questo progetto di neutralizzazione dei conflitti a entrare presto in contrasto con la realtà altamente conflittuale dell’Europa moderna. Non solo la politica, ma anche lo sviluppo dell’economia e della scienza passano per un continuo susseguirsi di crisi che rompono ogni immagine di armonia.
Se le utopie ottocentesche di Fourier e Proudhon presuppongono la crisi della forma-Stato, Marx mette impietosamente a nudo il carattere ideologico dell’utopia. Mentre ancora Bloch persegue una proiezione salvifica verso il futuro, Benjamin revoca in causa ogni modello progressivo. Contro il principio- speranza di Bloch e la coscienza di classe di Lukács, egli nega che la redenzione possa passare per la prassi. Solo l’irrompere del divino nella storia può produrre novità radicale. Ormai l’idea di rivoluzione implode su se stessa insieme a quella di riforma. La via per il futuro è sbarrata. E dunque cosa resta da fare? La risposta di Cacciari, già da tempo avanzata, è quella di un dualismo assoluto. Autonomia del politico, sempre più ridotto a tecnica amministrativa, da un lato. E attesa di un Dio impossibile dall’altro. Weber e Wittgenstein: limpidezza dello sguardo e sobrietà delle parole. Tra i due, l’ascolto dei segni enigmatici con cui il Nuovo può sempre annunciarsi.
Gli 80 anni del papa
Papa Francesco che cammina sulle tracce di Agostino
di EUGENIO SCALFARI (la Repubblica, 17 dicembre 2016)
COMPIE ottant’anni papa Francesco e li porta molto bene, sia fisicamente e sia spiritualmente. Viaggia continuamente nel mondo intero e nelle parrocchie romane. Di Roma è vescovo e questa qualifica la rivendica spesso perché gli consente di definirsi come “primus inter pares” e lui è consapevole di quanto sia utile a quella Chiesa missionaria da lui realizzata.
Personalmente ho avuto la fortuna di diventargli amico ancorché io non sia un credente. Papa Francesco aveva bisogno di un non credente che approvasse la predicazione di quello che lui chiama Gesù Cristo ed io chiamo Gesù di Nazareth figlio di Maria e di Giuseppe della tribù di David, cioè era figlio dell’uomo e non di Dio. Ma su questo modo di considerare Cristo papa Francesco è d’accordo: il Figlio di Dio quando decide di incarnarsi diventa realmente un uomo con tutte le passioni, le debolezze, le virtù d’un uomo. Francesco racconta spesso la settimana della Passione che ha il suo inizio con l’ingresso quasi trionfale di Gesù a Gerusalemme, seguito da molti dei suoi fedeli e naturalmente dei suoi apostoli. Ma a Gerusalemme trova anche quelli che lo temono e lo odiano. Soprattutto la gerarchia ebraica del Tempio che si sente minacciata nei suoi privilegi.
A quell’epoca Israele era sotto la "protezione" dell’impero di Roma e l’imperatore era Tiberio che nulla sapeva di quanto avvenisse in province assai lontane. Papa Francesco ricorda gli ultimi giorni di quella che poi fu chiamata la "Via Crucis", l’ultima cena e poi quel che avvenne nell’orto di Getsemani. Gli apostoli a quella cena erano tredici ma uno di loro, Giuda Iscariota, lo aveva già tradito e quando Gesù cominciò a parlare abbandonò quel tavolo e andò via. Restarono in dodici e fu lì che Gesù condivise il pane e il vino identificandoli con il suo corpo e il suo sangue. Il Signore era già stato battezzato da Giovanni nelle acque del Giordano e battesimo ed eucarestia furono i soli due Sacramenti; gli altri vennero dopo. La natura umana del Cristo si ha nei racconti dei Vangeli, nel Getsemani e poi sulla Croce. Nell’orto, dove sarà poi arrestato dai soldati romani guidati dall’Iscariota, Gesù entra in contatto con il Padre e dice: «Se tu puoi allontana da me questo amaro calice ma se non vuoi lo berrò fino in fondo». Sulla Croce, negli ultimi istanti prima della morte dice: «Padre, perché mi hai abbandonato?». Quindi era un uomo, l’incarnazione era stata reale.
Papa Francesco è affascinato da questi racconti. Mi sono chiesto e gli ho chiesto il perché del fascino che esercitano su di lui e la risposta è stata che nel mistero trinitario Cristo rappresenta l’amore in tutte le sue manifestazioni. L’amore verso Dio che si trasforma in amore verso il prossimo. «Ama il prossimo tuo come te stesso» è una legittimazione dell’amore all’individuo e alla comunità, in cerchi concentrici: la famiglia, il luogo dove vive e soprattutto la specie cui appartiene.
Francesco indica i poveri, i bisognosi, gli ammalati, i migranti. Francesco sa bene quello che dice la Bibbia: «I ricchi e i potenti debbono passare per la cruna d’un ago per guadagnare il Paradiso». Occorre dunque che i popoli si integrino con gli altri popoli. Si va verso un meticciato universale che sarà un beneficio, avvicinerà i costumi, le religioni.
Il Dio unico sarà finalmente una realtà. È questo che Francesco auspica. «È ovvio che sia unico, ma finora non è stato così. Ciascuno ha il suo Dio e questo alimenta il fondamentalismo, le guerre, il terrorismo. Perfino i cristiani si sono differenziati, gli Ortodossi sono diversi dai Luterani, i protestanti si dividono in migliaia di diverse confessioni, gli scismi hanno accresciuto queste divisioni. Del resto noi cattolici siamo stati invasi dal temporalismo, a cominciare dalle Crociate e dalle guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa e l’America del Nord e del Sud. Il fenomeno della schiavitù e la tratta degli schiavi, la loro vendita alle aste. Questa è stata la realtà che ha deturpato la storia del mondo».
Quando papa Francesco ha partecipato alla celebrazione di Martin Lutero e della sua Riforma ha colto l’essenza delle tesi luterane: l’identificazione dei fedeli con Dio non ha bisogno dell’intermediazione del clero ma avviene direttamente.
Questo ci conduce al Dio unico e assegna al sacerdozio un ruolo secondario. Così avveniva nei primi secoli del cristianesimo, quando i Sacramenti erano direttamente celebrati dai fedeli e i presbiteri facevano soltanto il servizio. Francesco è d’accordo su queste tesi luterane che coincidono con quanto avvenne nei primi secoli.
Ma quali sono i Santi che il nostro Papa predilige? Gliel’ho chiesto e lui mi ha risposto così: «Il primo è naturalmente Paolo. È lui ad aver costruito la nostra religione. La Comunità di Gerusalemme guidata da Pietro si definiva ebraico-cristiana, ma Paolo consigliò che bisognava abbandonare l’ebraismo e dedicarsi alla diffusione del cristianesimo tra i Gentili, cioè ai pagani. Pietro lo seguì in questa sua concezione anche se Paolo non aveva mai visto Gesù. Non era un apostolo, eppure si considerò tale e Pietro lo riconobbe. Il secondo è San Giovanni Evangelista, che scrisse il quarto Vangelo, il più bello di tutti. Il terzo è Gregorio, l’esponente della Patristica e della liturgia.
Il quarto è Agostino, vescovo di Ippona, educato adeguatamente da Ambrogio vescovo di Milano. Agostino parlò della Grazia, che tocca tutte le anime e le predispone al bene compatibilmente con il libero arbitrio. La libertà accresce il valore del bene e condiziona il suo eventuale abbandono.
Ebbene, sembrerà che io esageri ma ne sono fermamente convinto: dopo Agostino viene papa Francesco. L’intervallo temporale è enorme, ma la sostanza è quella. L’ho definito, quando l’ho conosciuto, rivoluzionario e profetico ma anche modernissimo.
In uno dei nostri incontri gli chiesi se pensava di convocare un nuovo Concilio e lui rispose: «Un Concilio no: il Vaticano II, avvenuto cinquant’anni fa, ha lasciato una precettistica che in buona parte è stata applicata da Giovanni Paolo II, da Paolo VI e da Benedetto XVI. Ma c’è un punto che non ha fatto passi avanti ed è quello che riguarda il confronto con la modernità. Spetta a me colmare questa lacuna. La Chiesa deve modernizzarsi profondamente nelle sue strutture ed anche nella sua cultura».
Santità - ho obiettato io - la modernità non crede nell’Assoluto. Non esiste la verità assoluta. Lei dovrà dunque confrontarsi con il relativismo. «Infatti. Per me esiste l’Assoluto, la nostra fede ci porta a credere nel Dio trascendente, creatore dell’Universo. Tuttavia ciascuno di noi ha un relativismo personale, i cloni non esistono. Ognuno di noi ha una propria visione dell’Assoluto da questo punto di vista il relativismo c’è e si colloca a fianco della nostra fede».
Buoni ottant’anni, caro Francesco. Continuo a pensare che dopo Agostino viene Lei. È una ricchezza spirituale per tutti, credenti o non credenti che siano.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Né con Roma né con Lutero
L’amore di Erasmo per Cicerone non gli impedì di stilare un pamphlet contro la retorica della curia con la quale fu persino più duro dei protestanti
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 04.12.2016)
Il dialogo Ciceronianus di Erasmo fu pubblicato a Basilea nel marzo del 1528; l’anno dopo ne comparvero altre due edizioni e una quarta nel ’30. Un immediato successo, come in genere accadeva a tutti gli scritti del grande umanista olandese, maestro delle bonae litterae in ogni angolo d’Europa. Lo era da tempo, del resto, almeno dalla pubblicazione degli Adagia (1500), la raccolta di proverbi antichi più volte arricchita e ristampata, come molti dei suoi scritti, cui erano poi seguiti l’ Enchridion militis christiani (1503), l’Elogio della Follia (1511), il testo critico del nuovo Testamento in greco e l’ Institutio principis christiani (1516), i Colloquia (1517), la Querela pacis (1521), i commenti biblici, le monumentali edizioni dei Padri della Chiesa, le antologie di lettere, per citare solo le opere più celebri.
Tutto era cambiato però negli ultimi dieci anni, dopo che nel 1517 Martin Lutero aveva affisso sulla porta del castello di Wittenberg le sue 95 tesi. L’unità della respublica christiana, vale a dire lo stesso spazio fisico, storico, culturale e religioso del magistero erasmiano, si veniva infatti disgregando in un crescendo di polemiche, di controversie, di odii inestinguibili, di condanne, di persecuzioni. Lo stesso Erasmo aveva finito con il trovarsi nell’occhio del ciclone, accusato dagli uni di essere stato la gallina che aveva deposto le uova poi covate da Lutero, e dagli altri di aver vilmente rinunciato al suo impegno per la riforma della Chiesa e di essersi alla fin fine schierato a fianco di quei monaci corrotti, di quei frati ignoranti, di quel papato simoniaco che in passato non aveva perso occasione di mettere alla gogna.
In realtà, dopo la comparsa in scena di quel monaco sassone sempre più irruento e tonante, lontanissimo dal suo modo di essere e di pensare, Erasmo aveva taciuto, aveva lasciato correre, aveva fatto finta di non vedere, consapevole che contribuire a spegnerne gli ardori avrebbe anche comportato la fine di ogni speranza di riforma della Chiesa. Per questo non aveva preso posizione quando Lutero aveva pubblicato i suoi grandi trattati del 1520, anche quando aveva denunciato nel pontefice di Roma la bestia dell’Apocalisse, né quando aveva dato alle fiamme la bolla di condanna di Leone X e il Corpus iuris canonici nel ’21, né quando - sempre in quell’anno - aveva rifiutato di piegarsi e ritrattare le sue dottrine di fronte a Carlo V.
Aveva aspettato sino al ’24, senza intervenire sulle questioni che più infervoravano gli animi da ambo le parti, sulle indulgenze, sul ruolo dei preti, sul purgatorio, sui sacramenti. Per sfidare Lutero aveva scelto la questione tutta umanistica del libero arbitrio, e con essa della dignità dell’uomo: una questione cruciale che investiva il modo stesso di essere cristiani, contrapponendo a una fede tutta teologica, fondata sulla parola di Dio e i suoi insondabili misteri, una fede tutta morale, fondata invece sulla capacità del vangelo di ispirare carità, giustizia, concordia. Fu Lutero stesso, che pure detestava con tutte le sue forze quel raffinato letterato, incapace di capire e accettare lo scandalo della fede, a riconoscerne la grandezza, dandogli atto di essere stato il solo capace di morderlo alla gola.
Tutto ciò, naturalmente resta tra le righe del Ciceronianus, ma ne costituisce al tempo stesso una cornice imprescindibile. Contribuisce cioè a far capire come Erasmo, grande ammiratore di Cicerone, decidesse poi di prenderne le distanze. Non perché avesse cambiato idea, tutt’altro, anzi proprio per essere fedele al modello autentico di Cicerone, alla sua capacità di mettere l’eloquenza al servizio degli obiettivi che perseguiva, e dunque di adattarsi alle circostanze, di mirare all’utile e all’efficace, tutt’altro che bloccata in un algido purismo che ne tradiva profondamente lo spirito.
Non era Cicerone, insomma, l’obiettivo polemico di questo libro, ma i ciceroniani, e in particolare i letterati romani che quello stile avevano eretto a modello esclusivo non solo delle esercitazioni retoriche con cui celebravano la Roma papale quale erede della Roma imperiale e la esaltavano come Geusalemme eterna in cui si era realizzata una sorta di suprema sintesi tra civiltà classica e cristianesimo di cui essi erano i rappresentanti e i sacerdoti.
Una cultura sterile e vacua, tanto compiaciuta di se stessa da ignorare la torbida decadenza in capite et in membris che infettava la Chiesa a partire dalla curia papale, insensibile a ogni proposta di rinnovamento e sorda alle istanze religiose che trovavano in Erasmo e Lutero due pur diversi rappresentanti. Una cultura tutta letteraria, ridotta a pedissequa imitazione e quindi incapace di rinnovamento, intrisa di neopaganesimo, che presumeva di aver raggiunto il culmine nel riprodurre nella lingua di Cicerone la stessa dottrina cristiana, i suoi misteri, le sue liturgie, dando vita a quella che è stata definita come una «teologia retorica», intessuta di citazioni classiche, come nel Liber sententiarum di Paolo Cortesi (1504), per esempio, in cui i santi diventavano heroes, Tommaso d’Aquino l’Apollo christianorum, i sacerdoti flamines, l’inferno Orcus e così via.
Primo volume di una collana Corona Patrum Erasmiana (di cui altri sono imminenti) promossa dal Centro europeo di studi umanistici «Erasmo da Rotterdam», questa eccellente traduzione con testo latino a fronte e un dotto commento in apparato si apre con un’introduzione che contestualizza finemente lo scritto erasmiano sia negli sviluppi del suo pensiero e del suo modo di intendere valore e significato della cultura sia nella specifica tradizione umanistica cui faceva riferimento (Ermolao Barbaro, Lorenzo Valla, Angelo Poliziano, Giovan Francesco Pico) e quindi delle polemiche che investivano il presente.
Se proprio in quegli anni il grande successo della stampa, l’affermarsi degli Stati assoluti, la frattura religiosa in atto contribuivano all’inarrestabile affermazione delle lingue volgari, Erasmo rimaneva fedele a quel latino che era e restava lo strumento linguistico di una comunicazione europea; ma lungi dall’imbalsamarlo in un vacuo perfezionismo formale, lo riproponeva come una lingua viva e vitale, talora anche frettolosa proprio in quanto funzionale anzitutto ai contenuti che trasmetteva, ai principi che difendeva, agli scopi che si proponeva, all’azione concreta che stimolava nei termini propriamente politici di una appassionata militanza culturale e religiosa. Di qui i continui interventi di Erasmo sulle nuove edizioni dei suoi scritti, per migliorarli e correggerli laddove necessario, e soprattutto per riproporne un continuo aggiornamento in funzione delle esigenze del presente.
Per capire il Ciceronianus, del resto, occorre tener presente che esso fu scritto all’indomani del terribile sacco di Roma del 1527, quando i lanzi imperiali avevano fatto scempio della città papale in un indicibile crescendo di violenze, saccheggi, sopraffazioni, atrocità d’ogni genere. Segnò la fine della grande stagione rinascimentale dei pontificati borgiani, rovereschi e medicei, delle Stanze di Raffaello e della Sistina di Michelangelo. L’Europa tutta ne restò sconvolta, e dovunque si volle vedere in quella tragedia una giusta punizione di Dio per la corruzione della curia papale.
Ma tra i letterati si diffuse anche lo sgomento per i danni incalcolabili che quei soldatacci avrebbero potuto arrecare all’ineguagliabile patrimonio culturale di cui Roma era erede. Lo stesso braccio destro di Lutero a Wittenberg, Filippo Melantone, si disse preoccupatissimo per le biblioteche romane, custodi di un sapere e di una civiltà cui la Germania stessa era debitrice.
Al contrario il mite Erasmo da Rotterdam, anziché deprecare quanto era accaduto volle pubblicare quel Ciceronianus che condannava senza appello i letterati romani, «più ricchi di letteratura che di pietà». Non proprio un Erasmo moderato, insomma, un Erasmo convinto apologeta del cattolicesimo romano, un Erasmo opportunista e infingardo, «anguilla», «vir duplex», come lo definì Lutero e come ancora molti lo presentano; ma un Erasmo tanto coraggioso da combattere le sue battaglie culturali e religiose sull’uno e sull’altro fronte in difesa di un cristianesimo serio, operoso, moralmente responsabile, avverso al fasto mondanizzato della gerarchia ecclesiastica così come alle inutili dispute teologiche, utili solo a creare divisioni e conflitti. «Summa nostrae religionis est pax et unanimitas», scriveva nel ’23. Si capisce benissimo, quindi, perché i luterani lo detestassero cordialmente e i cattolici si affrettassero a inserire nell’Indice dei libri proibiti i suoi Opera omnia.
Papa in Svezia a commemorare 500 anni Riforma Lutero
Bergoglio partito da Fiumicino, per il 17.mo viaggio internazionale del pontificato
di Redazione ANSA *
Papa Francesco è partito per la Svezia. L’airbus A321 di Alitalia è decollato alle 8.25 dall’aeroporto di Fiumicino. L’arrivo è previsto per le 11 all’aeroporto internazionale di Malmoe.
Il Papa parte per il 17.mo viaggio internazionale del pontificato che lo porta in Svezia: è stato invitato dalla Federazione luterana mondiale (LWF) a partecipare alla cerimonia di commemorazione dei 500 anni della Riforma di Martin Lutero. Il viaggio ha questa forte connotazione ecumenica, e quando papa Francesco ha accolto il desiderio della piccola comunità cattolica svedese e dei paesi vicini, di celebrare una messa, ha voluto che avvenisse in un altro giorno e in un altro luogo rispetto alle celebrazioni ecumeniche, proprio per rimarcare l’importanza e la specificità di queste.
Oggi dunque avrà due incontri ecumenici - un rito nella cattedrale di Lund e un evento con testimonianze nella Malmo Arena - e domani, festa di Ognissanti, celebrerà la messa presso lo stadio di Malmo, alla quale sono invitati anche gli esponenti della LWF. Durante il viaggio in Svezia il Papa pronuncerà quattro interventi pubblici, tra omelie, discorsi e Angelus, ed è previsto che parli in spagnolo.
La Svezia ha già accolto un papa nel 1989, quando Giovanni Paolo II ha compiuto un viaggio in Scandinavia. Papa Francesco dunque, arriverà alle 11 all’aeroporto di Malmo, dove ci sarà l’accoglienza ufficiale ai piedi della scaletta, da parte del premier svedese, Stefan Lofven e del ministro della Cultura, signora Alice Bah-Kuhnke. Ci saranno anche altre autorità e alcuni membri della LWF. L’accoglienza è semplice e non ci saranno discorsi. Subito dopo, nella sezione Vip dell’aeroporto, papa Bergoglio incontrerà privatamente il premier e il ministro della Cultura.
Subito dopo, trasferimento in macchina per circa 42 chilometri a Igelosa, dove presso una grande struttura di ricerca medica che ha già ospitato gli incontri della Conferenza episcopale svedese, papa Francesco alloggerà durante questo viaggio. Percorsi circa dieci chilometri in automobile, il Pontefice raggiungerà Lund, dove presso il Palazzo Reale renderà alle 13,35 una visita di cortesia al re Carlo Gustavo XVI e alla regina Silvia. Con i reali, poi, il Papa percorrerà i centro metri che separano la Residenza reale dalla cattedrale di Lund.
Qui alle 14,30 ci sarà la preghiera ecumenica comune comune, e sia il Papa che il presidente della LWF, Munib Younan, pronunceranno un discorso. Alla fine, percorrendo in pullmino 28 chilometri, i leader religiosi si recheranno alla Malmo Arena, dove, introno alle 16,40, è previsto un evento ecumenico con l’ascolto di quattro testimonianze di impegno comune tra LWF e Caritas internationalis.
Prima dell’evento, i leader religiosi si incontreranno nella Green Room della Arena. Alle 18,10 nella Malmo Arena, poi, il Papa e il segretario generale della LWF, Martin Junge e il presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, card. Kurt Koch, saluteranno individualmente i 30 capi delle delegazioni cristiane presenti alla commemorazione dei 500 anni della Riforma. Alle 19 papa Francesco sarà a Igelosa, per la cena e la notte.
Domattina l’arrivo allo stadio di Malmo per la messa è fissato alle 9,15 e, dopo la messa e l’Angelus papa Francesco ripartirà dall’aeroporto di Malmo alle 12,45, e l’arrivo a Roma Ciampino è previsto intorno alle 15,30.
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Il Papa apre ai luterani, imparare da loro: Riforma e Scrittura
Alla vigilia del viaggio in Svezia: ’E’ un passo di vicinanza’
di Redazione ANSA *
"Riforma e Scrittura" sono le due "parole" che vengono in mente al Papa, interpellato da C.Cattolica su cosa i cattolici potrebbero imparare dalla tradizione luterana". "All’inizio quello di Lutero era un gesto di riforma in un momento difficile per la Chiesa". E "Lutero ha fatto un grande passo per mettere la Parola di Dio nelle mani del popolo". E nelle "Congregazioni prima del conclave la richiesta di una riforma" è stata "sempre viva e presente".
"Mi vengono in mente - ha risposto il Papa a Civiltà cattolica - due parole: ’riforma’ e ’Scrittura’. Cerco di spiegarmi. -La prima è la parola ’riforma’. All’inizio quello di Lutero era un gesto di riforma in un momento difficile per la Chiesa. Lutero voleva porre un rimedio a una situazione complessa. Poi questo gesto - anche a causa di situazioni politiche, pensiamo anche al ’cuius regio eius religio’ (la norma per cui i popoli dovevano professare la stessa confessione dei loro principi, ndr) - è diventato uno ’stato’ di separazione, e non un ’processo’ di riforma di tutta la Chiesa, che invece è fondamentale, perché la Chiesa è ’semper reformanda’.
La seconda parola - ha proseguito papa Francesco - è ’Scrittura’, la Parola di Dio. Lutero ha fatto un grande passo per mettere la Parola di Dio nelle mani del popolo. Riforma e Scrittura sono le due cose fondamentali che possiamo approfondire guardando alla tradizione luterana. Mi vengono in mente adesso - ha aggiunto - le Congregazioni Generali prima del Conclave e quanto la richiesta di una riforma sia stata viva e presente nelle nostre discussioni".
Il Papa invita a proseguire sulla strada del dialogo teologico, e per i cattolici che vivono in Svezia (alla vigilia del viaggio nel Paese) pensa a ’una sana convivenza, dove ognuno può vivere la propria fede ed esprimere la propria testimonianza vivendo uno spirito aperto ed ecumenico’.
Anniversari storici (1517 - 2017)
Annus lutheranus
L’incontro di papa Francesco con il vescovo (donna) primate di Svezia apre le celebrazioni della riforma di Lutero
di Gianfranco Ravasi (Il Sole-24 ore, Domenica, 30.10.2016)
Domani papa Francesco varcherà la soglia della chiesa più antica e importante di Svezia, la Domkyrkan della città di Lund, sede della prestigiosa università verso la quale era diretto il vecchio professor Isaac Borg per ricevere il premio a suggello della sua carriera, come ricordano tutti coloro che hanno visto e amato Il posto delle fragole, lo stupendo film che Bergman girò nel 1957. All’interno di quel capolavoro dell’architettura romanica nordica - che i turisti ammirano soprattutto per il trecentesco orologio astronomico della facciata con la sua sfilata di Magi a ogni battere d’ora - ad accogliere il papa sarà l’arcivescovo di Uppsala, primate luterano di Svezia, che attualmente è una donna, Antje Jackelén. Precedentemente questa teologa occupò proprio la sede episcopale di Lund ove era anche docente presso la già citata università: io stesso ho avuto occasione di incontrarla varie volte e di svolgere con lei un importante dialogo nell’Accademia delle Scienze di Stoccolma.
Come è noto, la data scelta per questo atto ecumenico è legata a quel mercoledì 31 ottobre 1517 quando Martin Lutero affisse (secondo una tradizione non strettamente documentata) le celebri 95 tesi alle porte della chiesa del castello di Wittenberg, cittadina sull’Elba in Sassonia, ideale manifesto del protestantesimo. In realtà, come dice il titolo dell’editio princeps, quelle asserzioni ruotavano attorno alla questione dibattuta delle indulgenze, Disputatio pro declaratione virtutis indulgentiarum, ma già vi si intravedevano i germi della futura Riforma.
Col gesto ecumenico di papa Francesco si apre l’anno dedicato a Lutero e alla sua opera, ma si manifesta in modo incisivo la distanza che intercorre rispetto alla tensione e alla divisione che imperavano cinquecento anni fa e nel prosieguo dei secoli successivi.
Naturalmente avremo occasione di rievocare ancora questo centenario che domani ha il suo avvio. Ci accontentiamo ora solo di qualche segnalazione bibliografica recente, per certi versi marginale. Una particolare sottolineatura merita subito il breve saggio di un cardinale tedesco noto teologo, Walter Kasper, che fu per più di un decennio a capo del dicastero vaticano per la promozione dell’unità dei cristiani. Il suo è un ritratto di Lutero in “prospettiva ecumenica”, posto all’insegna del dialogo: infatti, «abbiamo bisogno di un ecumenismo accogliente, in grado di imparare gli uni dagli altri» e non di esorcizzarci a vicenda, frapponendo subito il muro delle differenze dottrinali ed ecclesiali che pure devono essere riconosciute.
Proprio per questo è necessaria un’opera di contestualizzazione perché Lutero è intimamente intrecciato nei fili aggrovigliati di un’epoca storica ove religione e politica si arruffavano e si azzuffavano, un grembo oscuro ma fecondo dal quale sarebbe nata la modernità. Il grande riformatore, perciò, si rivela certamente rivestito degli abiti consunti di un passato ormai remoto, ma al tempo stesso svela un’attualità intima profonda, anche perché egli «con inaudita energia pone al centro la più centrale di tutte le questioni, la questione su Dio» e, di conseguenza, «la questione teologica decisiva del rapporto tra teonomia e autonomia». Il suo impulso primario non era quello di fondare una Chiesa separata ma di rinnovare la cristianità, riportandola alla sua matrice, cioè la gloria e la grazia di Dio e la fede dell’uomo.
Come scrive Kasper, al di là della vis polemica, di cui pure non difettava, e delle derive a cui fu costretto dal contesto socio-politico e dall’infausta e dura reazione cattolica, «il vangelo per Lutero ... era un messaggio vivo che interpella esistenzialmente la persona, un incoraggiamento e una promessa pro me et pro nobis. Era il messaggio della croce, il solo che dona pace».
Per cogliere questa temperie spirituale radicale di un uomo dal fascino magnetico, che talora era persino rozzo e brutale ma che sapeva essere anche mistico e delicato, può essere utile - all’interno dell’immensa sua produzione teologica - ritagliare alcune sue preghiere. È ciò che hanno fatto un teologo valdese, Fulvio Ferrario, e una funzionaria consolare, Berta Ravasi, con una suggestiva selezione di invocazioni che coprono l’arco intero dei momenti spirituali e liturgici della giornata dall’alba alla sera, della contemplazione e della tentazione, del peccato e del perdono, del matrimonio e della famiglia, della vita ecclesiale e di quella civile, per approdare all’ultima ora, quando la morte, spesso evocata, verrà abbracciata perché essa conduce all’incontro con l’amato Signore e alla sua pace infinita.
Certo, la Riforma protestante va oltre il suo primo artefice e si rivela più complessa e non sempre facilmente accessibile. Un docente di storia di un’università americana, Glenn S. Sunshine, propone allora un profilo un po’ “impressionistico” della Riforma «per chi non ha tempo», puntando soprattutto su quella traiettoria storica dalle mille ramificazioni che giunge alla pace di Vestfalia quando, il 24 ottobre 1648, tutte le potenze europee coinvolte nell’aspra guerra politico-religiosa dei Trent’anni giunsero a un accordo, facendo calare il sipario sul Sacro Romano Impero.
Il percorso, necessariamente semplificato, accompagnato dalle vignette un po’ grossolane di Ron Hill, è delineato da un’angolatura protestante ma sostanzialmente equilibrata e lineare e si allarga a tutto l’orizzonte europeo comprendendo perciò lo scisma di Enrico VIII, le scelte radicali di Zwingli, l’opera di Calvino e anche quella Svezia da cui siamo partiti (nella imponente cripta della cattedrale di Lund, sorretta da 28 colonne, riposa l’ultimo arcivescovo cattolico, Birger, morto nel 1519 e artefice del restauro di quel tempio), mentre un’appendice di Carlo Papini si interessa anche del protestantesimo italiano.
Un protestantesimo minoritario costretto a confrontarsi, spesso aspramente, con la prevalente cattolicità. Senza voler entrare in questo territorio accidentato, vorremmo proporre solo un curioso documento recentemente pubblicato dal Comitato Edizioni Gobettiane. Si tratta di un breve saggio sulla Rivoluzione protestante (e il titolo è significativo) di un amico di Gobetti, il noto pensatore antifascista sostenitore di un liberalismo progressista: è il calabrese Giuseppe Gangale (1898-1978), prima cattolico, poi ateo, successivamente massone e infine convertito al protestantesimo, con un forte impegno intellettuale e sociale e un’esperienza di esilio in paesi protestanti.
Ebbene, la sua analisi lo conduce ad assumere, tra l’altro, una delle componenti della visione protestante, il richiamo alla coscienza individuale, per abbozzare una “rivoluzione” da far serpeggiare nel terreno sociale italiano, contaminato da quella sorta di zizzania che era ai suoi occhi il cattolicesimo, definito senza esitazione «il male d’Italia». Si propone, così, come osserva uno dei nostri maggiori teologi protestanti, Paolo Ricca, nella sua puntuale postfazione critica, una religione (e una concezione civile) in cui «l’uomo è sacerdote a se stesso e l’autorità non è più esteriore ma interiore, fondata sulla coscienza autonoma e non più eteronoma». Da queste pagine si riesce a intuire per contrasto quanto sia complesso ma necessario un serio dialogo in tutte le sue forme, per evitare fraintendimenti e stereotipi, semplificazioni ed equivoci, ma scoprire anche coincidenze e valori comuni.
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI --- LE SIBILLE, I PROFETI, E IL SERPENTE DI BRONZO: MICHELANGELO, ABY WARBURG, E UN ANAGRAMMA!!!
NOTE A MARGINE DI UN RICCO E BRILLANTISSIMO LAVORO di ARMANDO POLITO:
SERPENTE? PRESENTE! Proprio un brillantissimo (http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/04/serpente-presente/) excursus!!! In segno di ringraziamento, mi permetto di rendere onore a Ermete Trismegisto (cfr. note al seguente art.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/06/10/iapige-fantomatico-progenitore-salentini/) e di aggiungere - a questa del prof. Polito - un’altra tessera al "mosaico sempre in fieri".
RICORDANDO CHE "l’abitudine non può rendere insipida la varietà infinita della bellezza" - prodotta dalla LUCE - e, RENDENDO OMAGGIO alla "Analisi della Bellezza" di Hogarth, metto a disposizione della riflessione alcune note di "epistimologia geneSica" (dove la "S", maiuscola, sta a dire proprio della "serpentina" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5794) e della necessità di aprire gli occhi e saper distinguere (cfr. note all’art.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/26/la-terra-dotranto-mappa-delleuropa-del-secolo-xvi/) tra la "serpentina" di "Salomone" e le "serpentine" di salsicce di "Salamone".
*
I MIEI PIù VIVI COMPLIMENTI ALL’AMICO SERPENTE, AL PROF. ARMANDO POLITO, E AL LAVORO DELLA FONDAZIONE!!!
Federico La Sala
CRUCIVERBA ed ENIGMISTICA.
"Dal metodo non nasce niente": un omaggio a Edipo, "Il mancino zoppo" (Michel Serres)
Pur sapendo a quali "pericoli" ("So benissimo...") andava incontro, il prof. Polito, ha aggiunto CORAGGIOSAMENTE al "mosaico sempre in fieri" (vale a dire, in cammino!) una "tessera" e, pur sapendo di ERMETE TRISMEGISTO, ha aperto - SENZA VOLERLO - non solo (come ha fatto alla fine dell’articolo) la porta della CATTEDRALE DI SIENA, ma anche la porta della CAPPELLA SISTINA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5195)!!!
CON un semplice ANAGRAMMA ("Serpente? Presente!": http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/04/serpente-presente/) ha sollecitato a riconsiderare e a riguardare tutte le tessere del MOSAICO. A questo punto, però, non è più solo un "gioco di parole"! Ora, non si sono solo Apollo, Pitone, le Sibille, e le Muse, c’è anche MOSÈ e MICHELANGELO - e FREUD ("L’uomo Mosè e la religione monoteistica": http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829).
C’è il richiamo a tutto l’immaginario biblico e, in particolare, alla interpretazione di Michelangelo della vicenda del SERPENTE DI BRONZO, racchiuso nel "pennacchio" della Volta della Cappella Sistina - https://it.wikipedia.org/wiki/Serpente_di_bronzo_(Michelangelo): il richiamo a un ALTRO serpente, "all’amico serpente" - "al sulfureo amico" -"all’amico ritrovato"!!!
ENIGMI: CRUCI-VERBA!!! A MEMORIA, e ad evitare EQUIVOCI, è BENE ricordare che i "verba volant"!!! Se, e solo se, le parole, i "VERBA" sono agganciati alla croce ("CRUCI"), al "palo", al "bastone" - alla "colonna vertebrale" della propria persona, diventano "scripta", parole scritte, parole degne di essere ricordate - scrittura, Scrittura!!! Altrimenti, sono solo parole al vento di serpenti impazziti - in un mare di sabbia!!!
Federico La Sala
***
Aby Warburg
Il rituale del serpente
Una relazione di viaggio *
Aby Warburg è stato forse l’uomo che più ha influenzato, in questo secolo, la nostra visione della storia dell’arte. Attraverso i suoi studi egli ha indicato la via che consente di ritrovare nelle arti figurative la concrezione di una intera civiltà, con tutte le sue oscure tensioni psichiche. Ma lo stesso Warburg, mentre sviluppava la sua opera grandiosa, era periodicamente colpito da crisi nervose, che lo obbligavano a prolungati soggiorni in clinica.
Nel 1923, al termine di uno di questi soggiorni, per dimostrare la propria guarigione, egli tenne ai pazienti e ai medici della casa di cura di Kreuzlingen un «discorso d’addio» - la celebre conferenza sul Rituale del serpente, apparsa poi nel 1939 sul «Journal» del Warburg Institute con una pudibonda nota che la diceva pronunciata per la prima volta «davanti a un pubblico non specialistico». Di fatto, quel discorso era insieme una confessione e un testamento.
In poche pagine, prendendo spunto da una sua spedizione presso gli indiani Pueblo, Warburg risale alle origini del paganesimo e della magia. E illumina il potere stesso - innanzitutto psichico - delle immagini, il loro potere di ferire e di guarire, stabilendo così un circuito fulmineo fra il serpente dell’arcaico rito dei Pueblo e quello che Mosè invitava a innalzare nel deserto.
Per comprendere un testo fondamentale come Il rituale del serpente occorre considerarne in ogni dettaglio la genesi e le allusioni: compito che qui assolve il prezioso saggio di Ulrich Raulff.
* SCHEDA EDITORIALE: ADELPHI (Risvolto - copertina).
DIBATTITI. Pubblicato un rovente
scambio epistolare
tra Kristeller
e Lowinsky,
entrambi studiosi
del Rinascimento colpiti
dalle leggi antisemite,
sul coinvolgimento
di intellettuali
e professori
con il regime di Hitler
Due giudizi
storici diversi,
tra responsabilità
collettiva
e scelte individuali
Nazismo, fu colpa o pregiudizio?
di Paolo Simoncelli (Avvenire, 28.09.2016)
La colpa della Germania, la Shoah, la vita universitaria tedesca..., d’improvviso appaiono come fotogrammi spericolatamente divaricanti dall’incontrovertibile immagine politico-morale dei fatti. La sorpresa viene da un breve, intenso carteggio tra due grandi intellettuali ebrei tedeschi rifugiati negli Stati Uniti: il grande storico della filosofia rinascimentale, Paul Oskar Kristeller (Berlino 1905 - New York 1999), e l’altrettanto famoso musicologo rinascimentalista, Edward Lowinsky (Stoccarda 1908 - Chicago 1985).
Più noto Kristeller che, allievo di Heidegger, nel ’33 poté rifugiarsi nell’Italia fascista al pari di altri ebrei suoi connazionali grazie a Gentile e insegnare tedesco alla Normale di Pisa fino al ’38. Lowinsky lasciata parimenti la Germania nel ’33, si trasferì in Olanda, da dove nel ’39 emigrò in America. Vite diverse congiunte dal conseguimento del dottorato a Heidelberg (rispettivamente nel ’29 e ’33), dal rifugio e poi dall’insegnamento universitario negli Stati Uniti.
Il loro lungo carteggio, avviato nel ’43 e concluso alla morte di Lowinsky, testimonia un’amicizia salda improvvisamente a rischio di una traumatica lacerazione politica.
Ce la indicano alcune loro lettere straordinarie scambiate tra il dicembre 1982 e l’aprile 1983, ora edite da uno storico statunitense del Rinascimento, Antony Molho, in una miscellanea di studi offerta a Riccardo Fubini ( Il laboratorio del Rinascimento, a cura di Lorenzo Tanzini, Le Lettere, pagine 294, euro 28.00).
Kristeller ebbe l’onore d’essere invitato a Heidelberg a festeggiare il cinquantesimo del suo dottorato; una cerimonia ufficiale cui presero parte le massime autorità accademiche, durante la quale tenne la lezione Philosophie und Gelehersamkeit [erudizione].
Prestigiosa, normale cerimonia universitaria; ma a distanza di alcuni anni Lowinsky, avuto già il testo della lezione dell’amico, il 17 dicembre ’82 gli scrisse garbatamente eccependo che vi mancava il ricordo dei tanti ebrei che non erano sopravvissuti, che non si poteva né doveva dimenticare il tracollo morale delle Università tedesche all’avvento del nazismo, e che gli sarebbe sembrato doveroso un pubblico ringraziamento agli Stati Uniti per quanto fatto per tutti loro.
Una settimana dopo Kristeller rispondeva essere vicende note a ognuno e che non aveva mosso accuse ai nazisti non essendovene alcuno presente a quella cerimonia; comunque il suo primo libro del dopoguerra (voluto pubblicare in italiano, Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino) l’aveva dedicato alle vittime del nazismo; infine, in merito all’atteggiamento delle Università tedesche, Kristeller evocava il cedimento, senza alcun rischio, dei professori americani alla pressione (e alla moda) della contestazione degli anni ’60: come fatto sì dai professori tedeschi nel ’33, ma di fronte a ben gravi rischi. Il diverbio sale di tono e s’allarga a temi diversi e connessi.
Lowinsky replica il 5 gennaio ’83, profilando una responsabilità collettiva tedesca (un popolo coraggioso militarmente, non civilmente), ricordando per contro il rettore dell’Università di Leida, Johan Huizinga che, occupata l’Olanda dai tedeschi, piuttosto che subirne controlli e norme discriminatorie, preferì chiudere l’Università finendo (e morendo) in prigione a De Steeg (Arnhem); invece Karl Jaspers nel ’33 aveva iniziato i suoi corsi di filosofia ad Heidelberg col saluto a Hitler (finendo comunque sollevato dalla cattedra nel ’37).
Il 13 seguente, la replica di Kristeller, noto liberal-conservatore, è platealmente not politically correct: glielo consentiva la sua drammatica storia personale e familiare (morti i genitori nel lager di Theresienstadt nel ’42, ad Auschwitz i parenti della moglie). Rievoca allora un caleidoscopio di intellettuali tedeschi che avevano marcato la vita culturale europea negli anni ’20 e ’30, weimariani, nazisti e non nazisti, noti e meno noti, giovani studiosi o professori affermati, affollando la lettera di richiami a Cassirer e Panofsky, Nussbaum e Klibansky, ebrei abilitati all’insegnamento negli anni ’20, poi Walter Bulst, Ernst Hoffmann, Herbert Dieckmann che addirittura recensì il Supplementum ficinianum dell’ebreo Kristeller sulle ’Romanische Forschungen’ del ’39.
Lo stesso Heidegger, ricorda Kristeller, lo aveva ripetutamente aiutato. E in proposito aggiunge un’attendibile testimonianza (« good testimony ») che dava Heidegger distaccato dal nazismo ai primi del ’36 se non già nel ’35; nel dopoguerra, dopo lunghe esitazioni, Kristeller aveva quindi ripreso i contatti con lui.
Kristeller procedeva dunque contro un’inaccettabile genericità di giudizi, in particolare da parte di intellettuali e ricercatori: la cultura tedesca non aveva prodotto il razzismo, né quindi lui credeva in una “colpa collettiva” della Germania. Il che non significava ridurre il portato delle atrocità commesse dai nazisti; i civili tedeschi accampavano improbabili scuse di non sapere dei lager e di ciò che vi accadeva, pure, in qualche caso, davvero non sapevano.
Ma altrettanto vere e inescusabili erano le atrocità occorse che, scrive Kristeller, non avevano avuto uguali né precedenti; paragoni recenti per Kristeller potevano essere il trattamento inferto dai turchi ad armeni e greci, e quello subìto dalle popolazioni tedesche orientali alla fine della guerra.
E tornando a parlare ancora della vita universitaria americana (e della sottostima delle scienze umanistiche) ricordava la confidenza di un suo collega che di fronte alla contestazione studentesca riteneva opportuno adeguarsi per salvare il salvabile: parli come i professori tedeschi nel ’33, era stata la replica.
Nell’ultima lettera ora edita, Kristeller volle testimoniare in modo bruciante come la sua inesausta battaglia per tenere la filosofia e la storia lontane dalle falsificazioni indotte dall’ideologia, fosse stata persa quando in America, la new left aveva introdotto la politica nelle aule e con essa la pretesa di sostituirsi alla serietà degli studi. Aveva conosciuto e combattuto invano la sostanza di ogni totalitarismo, brutale o sofisticato: il conformismo della cultura.
GRECITA’ ED ETA’ DI GOETHE: I GRECI CON GLI OCCHI DI WINCKELMANN, IL FONDATORE DEL MITO DELLA CLASSICITA’ E DELLA GERMANIA COME LA NUOVA ELLADE DELL’EUROPA MODERNA ...
DIALOGHI
Le lettere di Winckelmann, il tedesco padre dei greci
Maria Fancelli ha curato per l’Istituto Italiano di Studi Germanici i tre volumi delle «Lettere» di Winckelmann: la rete di relazioni per il fondatore del mito della classicità
di CLAUDIO MAGRIS (Corriere della Sera, 22.09.2016)
«È grigia qualunque teoria, ma verde è l’albero della vita», dice nel Faust Mefistofele burlandosi di uno studente che vorrebbe spendere la sua vita fra i libri e gli studi eruditi. Questa contrapposizione tra vita e cultura, nata soprattutto nella Germania dello Sturm und Drang e del Romanticismo, è presto divenuta un diffuso luogo comune, sino all’esaltato vitalismo dilagante tra fine Ottocento e primo Novecento. A essere celebrata è la vita nel suo scorrere, morire e rifiorire come una pianta, ma presto sarà la vitalità ad apparire distruttiva e angosciosa, come un’indomabile radice che affiora squarciando il terreno e devastando la rassicurante casa costruita su quel terreno dall’uomo e dalla sua ragione. Nell’ultimo e più affascinante dei suoi libri, il vecchio Croce è sgomento dinanzi alla «vitalità verde» che sconvolge il classico e solido edificio dei concetti e delle categorie filosofiche.
Quella contrapposizione è seducente ma falsa e pochi la smentiscono come Winckelmann, infaticabile e geniale studioso fondatore di quel mito della grecità, indagato con precisione antiquaria e appassionata partecipazione sensuale, che avrebbe rivoluzionato non solo la storia dell’arte ma in generale lo spirito, il gusto, la sensibilità, lo stile della Germania e dell’Europa. La sua Storia dell’Arte nell’Antichità è una monumentale opera storiografica e un canone di bellezza assoluta, non soggetta ai mutamenti della Storia.
Bellezza della classicità greca - conosciuta da lui peraltro non nei capolavori originali, bensì nelle copie romane - che è modello della bellezza universale umana, perfetta sintesi di «nobile semplicità e serena grandezza». Serenità dell’anima e armonia del corpo rispecchiate dall’insondabile serenità del mare, dalla trasparente lievità dell’acqua non increspata e dalla perfezione del marmo pario. Una minuziosa ricerca erudita e un’inesausta passione vitale, permeata di eros omosessuale, porta Winckelmann a formulare il primato assoluto dell’arte e dunque dell’umanità greca - la perfezione dell’Ercole Farnese, l’Apollo del Belvedere «sopra ogni cosa» - e a vedere nella Germania la nuova Ellade dell’Europa moderna.
Filologia e passione, archivi e biblioteche e sogno del mare ellenico, enorme lavoro a tavolino e una rete di relazioni con personalità di tutto il mondo, che esigono e creano un epistolario ricco come un’enciclopedia e affascinante come un romanzo; anzi che è pure un vero romanzo epistolare, come scrive Maria Fancelli che ha pubblicato, insieme a Joselita Raspi Serra, tre fondamentali volumi di Lettere (1742-1768), in un lavoro di anni.
Lavoro filologico, storico e letterario che rappresenta un evento di eccezionale importanza nella cultura italiana. Edita dall’Istituto Italiano di Studi Germanici, l’eccellente traduzione delle lettere in tedesco - molte Winckelmann le scrisse in italiano - è dovuta a Bianca Maria Bornmann, Barbara Di Noi, Paolo Scotini, Francesca Spadini e Delphina Fabbrini, col coordinamento di Fabrizio Cambi.
Per realizzare quest’opera, di una ricchezza culturale e di una chiarezza classica degne del grande autore studiato, è sceso dunque in campo uno Stato maggiore della germanistica italiana. Maria Fancelli, formatasi alla grande scuola fiorentina di Vittorio Santoli da lei originalmente proseguita, è autrice di studi fondamentali (per esempio In nome del classico, 1979; Il secolo d’oro della drammaturgia tedesca; l’edizione italiana del Werther).
I suoi saggi - su Goethe, Kleist, Heine, Stifter o Benn - e la sua ventennale direzione di una notevolissima collana di classici tedeschi per l’editore Marsilio e il suo impegnato e creativo insegnamento le hanno valso una laurea ad honorem presso l’Università di Bonn, che ha premiato una singolare simbiosi di rigore filologico e originale e generosa intelligenza critica, una sanguigna e fresca comprensione delle cose e delle persone e una innovativa attività di scambio culturale che coinvolge Italia, Germania e Francia.
Joselita Raspi Serra, storica dell’arte allieva del grande Cesare Brandi, ha curato tra l’altro l’edizione in quattro volumi Il primo incontro di Winckelmann con le collezioni romane (2002-2005) e ha scritto il saggio La Fortuna di Paestum e la memoria moderna del Dorico 1750-1830, importante per la comprensione di quel mito dorico così presente e talora inquietante nella cultura tedesca.
Come nasce - chiedo a Maria Fancelli - l’idea di questa edizione? Cosa significano queste lettere per un lettore di oggi?
Maria Fancelli - A parte l’occasione del duplice giubileo di Winckelmann, la nascita a Stendal e la tragica morte a Trieste, l’idea nasce anzitutto per rendere accessibile agli italiani un’opera che è insieme un grandioso affresco culturale sovranazionale e un appassionante romanzo di vita vissuta, uno spaccato di grande storia europea e italiana, in cui sfilano protagonisti dell’arte, della cultura e della politica di vari Paesi, vicende di danaro, di passione, di accorta diplomazia, di indomabile entusiasmo, mentre grazie a Winckelmann, alle verità e alle menzogne della sua vita, nasce una nuova storia dell’arte e un nuovo senso dell’arte e nasce una nuova Germania, rinnovatrice ed erede della civiltà e dell’arte greca. - Uno dei grandi libri che hanno indagato questo binomio di Grecità ed Età di Goethe - come dice il titolo, Griechentum und Goethezeit - l’ha scritto non a caso il grande germanista che ha curato la prima edizione di queste Lettere di Winckelmann, Walther Rehm, che del resto tu hai conosciuto e frequentato...
Claudio Magris - Sì, quando studiavo a Freiburg im Breisgau, in quei semestri 1962-63 che sono stati fondanti per il mio percorso germanistico, ho seguito in modo particolare le lezioni di Walther Rehm, anche perché il mio Maestro Lionello Vincenti, che era suo amico, mi aveva per così dire un po’ affidato a lui. E Rehm - credo fosse il suo ultimo anno di insegnamento - parlava proprio di Grecità e Germania goethiana, riprendendo e rinnovando i suoi antichi studi. È stata per me un’esperienza molto importante, in quella piccola vivacissima Freiburg nella Selva Nera, in cui c’erano anche Heidegger e ogni tanto compariva Celan, che però non ho mai visto, nonostante fossi legato a un altro germanista, più giovane, Gerhart Baumann, che era molto vicino a quella cultura così radicalmente diversa da quella classica. Ma è a Freiburg che, per così dire, ho incontrato la classicità tedesca e anche Winckelmann. Ma Winckelmann fonda forse non tanto il Classico, la Classicità tedesca, quanto il Neoclassicismo - che differenza c’è tra i due?
Maria Fancelli - La nozione di Classico è estesa e antica, ha molte variazioni di senso e spesso si definisce per opposizione (classico-romantico), è difficile da definire sinteticamente, e lo stesso vale per Neoclassico. Comunque, classico è ciò che è divenuto esemplare, che è riconosciuto quale modello e che dispiega la sua esemplarità nel corso delle generazioni e della lunga durata. Questo termine raggiunge il suo massimo potenziale a metà Settecento, quando classico diventa idea portante di un progetto, aspirazione a un sapere organico e unitario, mito fondativo del nuovo. - Classico indica l’esemplarità del mondo greco nella sua fase più alta ma anche la potenzialità più autentica e più duratura del moderno. Classico per eccellenza è il prodigioso decennio della collaborazione tra Goethe e Schiller (1795-1805), straordinario cantiere della modernità. Neoclassico indica piuttosto movimenti definibili in senso temporale e spaziale, legati a un’epoca o a un periodo storico nel quale si torna a sentire l’esemplarità dei valori etici, formali ed estetici del Classico, il bisogno del decoro e della misura. Epoche in cui le speranze del rinnovamento politico paiono meno forti e prevale il ritorno a modelli antichi più imitati che ricreati, forme levigate e nobili, Antonio Canova, il Foscolo de Le grazie.
Claudio Magris - Forse Winckelmann è il padre di entrambi, classico e neoclassico... Nei mesi trascorsi a Firenze tra il 1758 e il 1759, si è occupato pure di arte etrusca, come testimonia la mostra in corso (fino al 30 gennaio 2017) al Salone del Nibbio del Museo Archeologico di Firenze, curata da Giovannangelo Camporeale e Stefano Bruni. Quale significato ha questa sua esperienza nella sua vita e nella sua opera?
Maria Fancelli - La mostra lascerà un segno nel campo degli studi winckelmanniani e, quel che più conta, susciterà domande e nuove ricerche: sulla malinconia degli Etruschi, sulla linea che lega gli Etruschi all’arte di Michelangelo. Lo dimostra il prestigioso catalogo uscito in versione italiana e tedesca a cura di Barbara Arbeid, Stefano Bruni e Mario Iozzo per l’Ets di Pisa. Pur affascinato dagli Etruschi, che comunque conosceva solo in parte, Winckelmann scrive che alla loro arte mancava «la grazia», un concetto chiave del Neoclassicismo. Sì, forse Winckelmann è stato il padre del Classico e del Neoclassico, ma è stato soprattutto il fondatore di quell’età che sarà detta classica per eccellenza e che altri renderanno, per sempre, «esemplare», da Goethe a Schiller a Hölderlin. Una classicità non certo levigata ma vitale, inquietante, anche esplosiva.
di Marino Niola (la Repubblica, Il Venerdì, 09.09.2016)
La paura degli attentati, la polemica sul burkini, l’emergenza migranti, le discussioni sulla poligamia, il velo trasformato in simbolo identitario, la demagogia xenofoba montante. Le cronache di quest’estate hanno tutte come minimo comune denominatore il rapporto sempre più problematico tra noi e gli altri. Perché da un po’ di tempo la differenza genera diffidenza. E ogni alterità appare come una minaccia alla nostra identità.
Fino a qualche anno fa ci sembrava di essere in grado di assorbire i problemi posti dal multiculturalismo incipiente e di poterne godere i vantaggi, soprattutto economici. Ma oggi i processi di integrazione che sembravano, sia pur faticosamente, avviati, sembrano invece in stand by. E su questo impasse il terrorismo getta benzina sul fuoco, spingendo le teste calde d’Europa verso una radicalizzazione che trova nell’integralismo religioso simboli, parole d’ordine e ideologie per esprimere un antagonismo che in altri tempi avrebbe preso strade diverse.
E quel che emerge in maniera preoccupante è che non ci siamo per nulla attrezzati a governare le differenze con le quali conviviamo gomito a gomito. Perché? Semplice, perché non abbiamo imparato a conoscerle. Ma, come avrebbe detto il maestro Manzi, alfabetizzatore televisivo dell’Italia in bianco e nero, non è mai troppo tardi.
E oggi, proprio come allora, c’è bisogno di una nuova educazione alla convivenza con chi è diverso. In una parola un’alfabetizzazione all’antropologia culturale. Che è l’unico sapere specializzato nello studio delle altre culture e, soprattutto delle compatibilità tra tradizioni, modi di vita, usi e costumi dei diversi popoli. Insomma è urgente avviare un iter formativo che vada dalla scuola all’università alla società.
E proprio per porre all’ordine del giorno questa emergenza pedagogica, gli antropologi europei, riunitisi di recente a Milano rispondendo alla chiamata delle due associazioni italiane, Anuac (Associazione nazionale universitaria degli antropologi culturali) e Aisea (Associazione italiana per le scienze etno-antropologiche), hanno lanciato un appello alle istituzioni scolastiche perché introducano l’antropologia in tutti i percorsi educativi come arma per combattere razzismo, integralismo e intolleranza.
È assurdo e anacronistico che in un mondo sempre più globalizzato, dove credenze, valori, consuetudini antitetiche coabitano in una prossimità sempre più conflittuale, sia clamorosamente latitante proprio una materia come l’antropologia che, dello studio dei modi di fare, pensare e sentire degli altri ha fatto la sua mission conoscitiva.
Figlia primogenita dell’umanesimo e dell’illuminismo occidentale.
Non a caso, come diceva il celebre etnologo Claude Lévi-Strauss, solo l’Occidente ha prodotto antropologi, anche come controcanto critico, e autocritico, del colonialismo. E fa riflettere il fatto che proprio nei Paesi islamici da cui provengono, direttamente o indirettamente, i terroristi di Daesh,l’antropologia sia addirittura bandita dai programmi d’insegnamento. Perché mettendo sullo stesso piano tradizioni, religioni e valori, revoca radicalmente quella superiorità di alcuni popoli sugli altri sancita dal Corano. Una ragione in più per diffondere nelle nostre classi scolastiche e universitarie questo insegnamento doppiamente fondamentale. Sia per i ragazzi di cultura europea sia per i migranti di seconda e terza generazione che, sempre più spesso, reagiscono negativamente all’impatto con il Paese ospitante. Col risultato di rinchiudersi nella propria apartheid identitaria. E di radicalizzare la propria origine, o il proprio credo, trasformandoli in un’arma politica a disposizione del fondamentalismo.
La sfida dell’educazione delle giovani generazioni richiede innanzitutto l’alfabetizzazione degli alfabetizzatori, ovvero la formazione degli insegnanti. Che devono fare propri gli strumenti dell’antropologia «per educare i loro allievi al confronto positivo con le diversità, da quelle di genere, a quelle culturali, fino a quelle religiose».
A dirlo è Cristina Papa, dell’Università di Perugia e presidente dell’Anuac che, insieme a Mario Bolognari, professore a Messina e leader dell’Aisea, sottolinea le possibilità innovative offerte dalla legge 107, la cosiddetta riforma Giannini. Che, tra le competenze trasversali, ritenute indispensabili per tutti i docenti, indipendentemente dalla disciplina che insegneranno, prevede anche quelle antropologiche.
Purché, sottolinea Papa «i decreti attuativi, che sono in via di elaborazione a livello ministeriale, rispondano pienamente agli obiettivi della legge e diano uno spazio adeguato all’antropologia in tutte le fasi della formazione». Si tratta di problemi che Paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Canada affrontano da tempo. Ricorrendo all’aiuto di celebri antropologi per impostare i loro programmi educativi.
Per esempio la grande Margaret Mead (1901-1978), docente alla Columbia University, fu a lungo consulente del Ministero dell’educazione Usa nell’elaborazione di strategie scolastiche per contrastare razzismo, bullismo e disuguaglianze di genere. E Lévi-Strauss (1908-2009) elaborò per conto dell’Unesco progetti educativi contro il razzismo e i pregiudizi etnici. Mentre, nel corso del secondo conflitto mondiale,
Ruth Benedict (1887-1948) docente alla Columbia, e Clyde Kluckhohn (1905-1960), fondatore del dipartimento antropologia di Harvard, collaborarono con il Pentagono e con il generale Mc Arthur per aiutare i comandi americani a capire il sistema di valori dei nemici giapponesi. Il caso più recente è quello della statunitense Montgomery McFate, che nel 2006 venne messa a capo del discusso programma Human Terrain Systems, un esperimento tra ricerca e intelligence condotto in Afghanistan e Iraq per coadiuvare le truppe nella lotta al terrorismo.
A sostenere l’indispensabilità degli antropologi nei teatri di guerra fu il generale David Petraeus, capo dell’US Army in Iraq e poi direttore della Cia, convinto della necessità di una svolta culturale fondata sulla conoscenza dei valori e delle forme di vita delle popolazioni locali, per evitare incomprensioni e malintesi.
Secondo il colonnello Martin Schweitzer l’impiego degli studiosi ha consentito una diminuzione delle operazioni militari del 60 per cento. «Gli antropologi ci hanno liberato dall’ossessione del nemico e aiutato a capire meglio le culture degli altri». A dire il vero sul progetto sono piovute critiche per la sua militarizzazione del sapere.
E in effetti non è questa l’antropologia che ci auguriamo di mettere in campo. Molto meglio le proposte didattiche elaborate nel nostro Paese. Un esempio per tutti, i Laboratori di antropologia educativa proposti dal progetto RibaltaMente, guidato da Giulia Cerri e Gianmarco Grugnetti. Insomma solo una corretta formazione antropologica ci salverà da due errori simmetrici e opposti. Il buonismo beota e il razzismo idiota.
Le donne, il piacere: cosa è successo
La pillola, legale in Italia da 45 anni, ha rivoluzionato la sessualità femminile. Ma la strada è ancora lunga, tra conquiste ed errori . Quanto ha contribuito il movimento femminista alla liberazione sessuale? Ne parleremo in Triennale l’11 settembre
di Elena Tebano (Corriere della Sera, 05.09.2016)
La sessualità femminile in Italia ha una data di nascita ufficiale (e recente): 1971. È il 16 marzo di 45 anni fa quando la contraccezione smette di essere un reato - contro la stirpe, per altro: la Corte Costituzionale dichiara illegittimo l’articolo 553 del Codice penale introdotto dal Fascismo che puniva chiunque incitasse all’uso degli anticoncezionali. La pillola, comparsa nelle borse delle donne già dagli Anni 60, diventa legale e permette alle italiane di far sesso per il piacere di farlo senza rischiare di avere figli che non vogliono.
L’estate di quello stesso anno Carla Lonzi, raffinata (e oggi spesso dimenticata) teorica del femminismo, pubblica «La donna clitoridea e la donna vaginale» per la casa editrice del gruppo Rivolta Femminile. Sessantaquattro pagine in cui sostiene che il vero orgasmo è quello che si ottiene con la stimolazione del clitoride e non quello che deriva dalla penetrazione, e afferma che la cultura maschile ha intrappolato le donne in un mito per molte irraggiungibile. Una distinzione che fornisce un grimaldello psicologico alla lotta delle donne: il clitoride «diventa l’organo in base al quale “la natura” autorizza e sollecita un tipo di sessualità non procreativa», scrive Lonzi, che denuncia «nella colonizzazione sessuale la condizione di base dell’indebolimento e dell’assogettamento della donna». La critica della sessualità e la ricerca di una sua espressione autentica diventano uno dei cardini del movimento femminista, articolate e rivissute quotidianamente nei gruppi di autocoscienza. È una rivoluzione copernicana.
La negazione del desiderio (femminile)
«Prima del femminismo una donna per bene non doveva provar piacere: doveva adeguarsi a quello maschile e magari diventare madre. Se perseguiva il proprio piacere era considerata perduta. La generazione di mia madre parlava del sesso come un fastidio inevitabile che si poteva superare perché ci si voleva bene - racconta Barbara Mapelli, studiosa e scrittrice che a quella stagione ha preso parte -. Per noi, che avevamo tutte tra i 20 e i 30 anni e avevamo già avuto figli, era ovvio partire da lì: ci rendevamo conto che la sessualità socialmente e culturalmente imposta negava il nostro desiderio».
Quarantacinque anni sono poca cosa nella storia dell’umanità, eppure quei tempi non potrebbero sembrare più lontani. Che cosa resta adesso di quel tentativo? Il movimento femminista ha davvero contribuito alla liberazione sessuale delle donne? E c’è ancora bisogno di una riflessione sulle forme e i modi della sessualità? Se da un lato nessuno (almeno in Italia e in Occidente) può più mettere in discussione il diritto delle donne al piacere nel sesso, dall’altro sembrano ormai altrettanto inaccettabili alcuni eccessi di quegli anni. «Il nostro errore - spiega ancora Mapelli - è stato pensare che con il pensiero si possano immediatamente mutare i comportamenti. Noi li cambiavamo ma così finivamo per esasperarli e perdevamo autenticità».
La prestazione anche nel sesso
Oggi è dunque scomparsa l’idea che esista un tipo più vero (o libero) di orgasmo. Ed è sparita anche quella - sostenuta dalle teoriche radicali americane degli Anni 70 Catharine MacKinnon e Andrea Dowrkin - che le donne nel sesso vengano inevitabilmente ridotte a oggetti del piacere maschile, una reificazione che le priverebbe di umanità e da lì finirebbe per definire tutta la condizione femminile. Su questo tema ha scritto pagine bellissime la filosofa Martha Nussbaum che in un saggio del 1995 «Persona oggetto» (pubblicato in Italia due anni fa da Erickson) spiega come in condizioni di parità e di rispetto reciproco uno degli aspetti «meravigliosi» del sesso sia trattarsi a vicenda come oggetti di desiderio e piacere e perdere l’autosufficienza e il controllo che caratterizzano gli altri ambiti della nostra esistenza.
Ma se le donne godono di maggiore libertà non significa che la sessualità sia «finalmente» libera o autentica. Il problema è soprattutto quello che Roberto Todella, sessuologo e presidente del Centro interdisciplinare per la ricerca e la formazione in sessuologia chiama «modello prestazionale» su cui uomini e donne tendono a valutare se stessi e ciò che fanno a letto. «L’attenzione al piacere, anche da parte delle donne, è diventata centrale, ma sempre più spesso viene misurata sull’immaginario della pornografia con la sua insistenza su posizioni, intensità, ruoli stereotipati - dice Todella -. In questo scenario la donna è sempre disponibile e sembra godere qualunque cosa le venga fatta, l’uomo deve essere prima di tutto forte, prestante, impositivo. Se il sesso diventa imitazione di un repertorio precostituito, però, non è più un’esperienza, non passa attraverso la conoscenza di sé e si deforma per aderire a un copione scritto da altri. Smette di rappresentarci».
Desideri e sexy shop
Una tendenza evidentissima secondo Yasmin Incretolli, scrittrice 22enne che in «Mescolo tutto» (Tunuè, 2016) ha raccontato anche la centralità del sesso (spesso mal vissuto) nella sua generazione. «La rivoluzione sessuale ormai è sdoganata - afferma -, ma spesso il sesso viene vissuto come se fosse un mantra, in modo ritualistico ed estremizzato».
Anche perché manca una vera educazione alle sessualità a scuola e da parte di molti genitori: «L’insegnante per i maschi è Internet, la pornografia. I maestri delle ragazze sono i ragazzi che si scelgono: anche per loro c’è un nesso con il porno, filtrato però dai gusti del loro compagno, che è anche peggio. Il sesso dovrebbe essere scoperta di sé, non un’ospitata nel mondo maschile».
Non è un caso che tra i temi dei nuovi femminismi ci sia la riappropriazione in chiave emancipatoria della pornografia: «I movimenti del post-porno hanno dimostrato che è possibile una pornografia diversa, che non riproduca le medesime strutture di potere della società che mette a nudo, in cui l’uomo sta sopra e la donna sotto, in tutti i sensi», dice Barbara Bonomi Romagnoli, autrice di «Irriverenti e libere. Femminismi nel nuovo millennio» (Eir, 2014).
È solo uno dei tentativi delle nuove generazioni femministe di riprendere la questione sessuale, «che rimane rilevante e viene declinata da vari punti di vista - rileva Bonomi Romagnoli -, dalle ragazze del Sexishock che nel 2001 mettono al centro del loro discorso politico la parola “desiderio” e aprono il primo sexy shop autogestito da donne per donne in Italia, ai femminismi più radicali che pongono in maniera problematica la questione dell’identità sessuale, sostenendo che è fluida e non classificabile una volta per sempre.
Il femminismo d’altronde non può non occuparsi di sesso, perché di fatto un sesso ha ancora potere su un altro, perché si continua a voler dettare norme sulle sue pratiche (vedi il «fertilityday») e perché le relazioni e i rapporti sociali ci sono a partire dai rapporti di forza fra i generi. Affinché siano sane è necessario che la sessualità attenga alla consapevolezza e autodeterminazione dei singoli». Con una consapevolezza nuova rispetto agli Anni 70: la ricerca di una sessualità più autentica è una liberazione non solo per le donne ma anche per gli uomini
L’APPUNTAMENTO IN TRIENNALE
Elena Tebano affronterà l’argomento al Tempo delle Donne cercando di rispondere alla domanda: Quanto ha contribuito il movimento femminista alla liberazione sessuale delle donne? Oggi il loro piacere è davvero più diffuso e riconosciuto nelle relazioni come nella cultura comune?
L’appuntamento è al Triennale Lab, domenica 11 settembre, alle ore 11.30
LA DONNA CLITORIDEA AI TEMPI DI YOUPORN
Il Femminismo e la rivoluzione sessuale: un bilancio
Con Barbara Mapelli, coautrice di Infiniti amori (EDS), Barbara Bonomi Romagnoli, autrice di Irriverenti e libere (EIR), e Yasmin Incretolli, autrice di Mescolo tutto (Tunuè)
A partire da un saggio di Zolla riflessioni su un mito antichissimo che resiste ancora oggi
Dioniso il ritorno del dio che in realtà non è mai morto
La nostra società si è riappropriata della divinità dell’uguaglianza in termini non più esoterici ma espliciti
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 31.08.2016)
Quando il ragazzo esce all’alba dalla discoteca, stordito dalle droghe e dall’alcol, e con la luce del mattino lo assale lo stupore dell’infanzia; quando nella campagna greca il contadino, assaggiato il vino nuovo, si alza e accenna tra le viti la lenta danza in tondo; quando il poeta scrive che «perciò sussurrando ci incorona i capelli il dio comune / e fonde in uno le coscienze come perle di vino»; quando fra lo squittìo delle scimmie il suono del tabla annuncia l’inizio di un rave sulla spiaggia di Goa; quando, passeggiando, incontriamo lo sguardo immobile di un animale e ci specchiamo nella sua divinità - allora, e molte altre volte, Dioniso si manifesta.
Dioniso, il dio che Ovidio chiamava Puer Aeternus, si appropria della nostra vita all’improvviso, schiacciando le leggi e le abitudini, infrangendo l’identità personale, spezzando le dualità - conscio-inconscio, persona-cosmo -, come spiega Elémire Zolla in uno dei suoi scritti più belli, Dioniso errante, ora integralmente leggibile nel sesto volume dell’opera omnia, curata con abnegazione e sapienza da Grazia Marchianò (Marsilio, pagg. 622, 24 euro).
Il dio dell’ebbrezza, del confondersi dell’anima, come scandisce il coro delle Baccanti di Euripide, il dio divorato, smembrato come i grappoli della vite, il dio plurale e “produttore di tutte le pluralità”, come lo definì Proclo nel commento al Timeo di Platone, il dio dai molti nomi (tra i più noti Bacco, ma anche Iacco, “ululante” nei misteri eleusini, Libero, “liberatore”, senza contare le ipòstasi stellari che lo innalzano al massimo fulgore nella giostra del cielo eternando le sue storie mitiche nel ritorno degli astri), il dio della maschera e del fallo, dai volti maschili e femminili oltreché umani e ferini (infante, uomo barbuto, dama velata, capro, asino, pantera), fu, come racconta Nonno di Panopoli, un mescolatore di popoli, un liberatore di oppressi ma soprattutto un affrancatore delle donne: dalle contadine che per accorrere al richiamo del ditirambo abbandonavano la segregazione domestica alle matrone degli affreschi dionisiaci della Villa dei Misteri a Pompei.
In questa emergenza matriarcale “più civile di quella delle Amazzoni”, come illustrò Bachofen, Dioniso fece della donna la guida del tìaso e la depositaria dei suoi più profondi stati estatici. Le mènadi, a imitazione del movimento vorticoso impresso al tirso, roteavano il capo come dervisci, tenendolo inclinato di fianco come avrebbero fatto nelle loro estasi le mistiche cristiane, da Caterina a Teresa.
Dai soldati della spedizione di Alessandro in India Dioniso fu assimilato, non a torto, a Shiva, «dio dell’hashish, dell’impeto del toro e del fallo, del fremito che scuote chi è solo nella foresta di notte ». E infatti Novalis lo invoca nell’Inno alla notte: «Dal fascio di papaveri / in dolce ebbrezza / fai crescere le pesanti ali del cuore ». Ma era insediato in Grecia fin dall’età minoica, e anche se verso l’India il suo carro trainato da tigri portò Arianna dall’isola di Nasso dov’era stata abbandonata da Teseo (o forse lo aveva abbandonato lei stessa, rapita in un sonno che già preludeva al ratto dionisiaco), a Creta, patria del labirinto, i riti, descritti in seguito da Filone di Alessandria, portavano gli adepti «a uscire da sé e scorgere l’oggetto del desiderio ».
Il grande dio Pan è morto, annunciava Plutarco quando il politeismo dovette cedere il passo al monoteismo dell’eresia giudaica che presto avrebbe dominato il mondo conosciuto. Ma non accadde lo stesso, non proprio, a Dioniso. Il nuovo dio dei cristiani aveva e via via avrebbe assunto tratti del “dio comune”, come lo aveva chiamato Hölderlin.
Al termine della polimorfa vicenda mitologica che lo avvince, Dioniso scese nell’Ade e ne tornò, «con la morte sconfiggendo la morte», come recita l’inno pasquale dell’ortodossia, «sfilando alla morte il suo pungiglione», come scrisse san Paolo: la resurrezione è “il contrassegno di Dioniso”, che non solo la compì (tre volte), ma salì in cielo e sedette alla destra del Padre (Zeus). Fiumi di scrittura sono stati dedicati al dionisismo cristiano, dagli antichi padri della chiesa ai moderni storici delle religioni, provocati da Schelling, che esplicitamente assimilerà Dioniso a Cristo.
Se Gesù è in Giovanni 15, 1-2 “la vera vite” e gli apostoli devono attaccarglisi come i grappoli al tralcio, se il miracolo di Cana è un tipico prodigio dionisiaco (il più noto precedente in Pausania), il sacrificio dell’uomo-vite nell’eucarestia (***) ricalca la tradizione della mitografia dionisiaca (dove il vino è già chiamato “il dolce sangue” e il potere di trasmutare in pane e in vino è già concesso da Dioniso, stando alle Metamorfosi di Ovidio, alle sue fedeli). Se il calendario cristiano si appropriò di date sacre anche a Dioniso, come il 6 gennaio, la Pentecoste ha, sottolinea Zolla, caratteri di festa dionisiaca.
Come scrisse Gregorio di Nazianzo, uno dei massimi teologi bizantini: «Ecco, Gesù nuovamente è qui e insieme a lui è qui un mistero. Ma non è più un mistero dell’ebbrezza, bensì un mistero che proviene dall’alto». Forse per questo fu attribuito a lui uno dei più plateali prodotti del sincretismo bizantino, il Christus patiens, di età più probabilmente posticonoclasta, dove l’uccisione di Gesù è accostata a quella di Penteo da parte delle baccanti. Seguendo le suggestioni di studiosi neogreci, Zolla congettura, forse giocosamente, la persistenza a Bisanzio, e ancora durante la turcocrazia, di tìasi o confraternite segrete dionisiache, contigue a eresie dualiste cristiane i cui adepti portavano tatuata in fronte l’antica foglia di edera.
Al di là delle sopravvivenze, la sostanza della percezione cristiana era antitetica a quella dionisiaca. Con la sua visione antropocentrica e la sua stretta ragion pratica, come avrebbe compreso Nietzsche, il cristianesimo negò il dionisismo, il suo «sprofondamento nella vita animale e vegetale per non dire nella sostanza minerale, la libertà con tutti i suoi rischi». L’escatologia cristiana soppresse il tempo ciclico, sospese l’«abrogazione dionisiaca della coscienza storica», per introdurre a una promessa di giudizio finale e progresso lineare, a una liberazione oltre la vita.
Il grande dio Pan era morto, ma Dioniso, clandestino e represso dalla morale cristiana, fu reimportato dai neoplatonici di Bisanzio e risorse nel Rinascimento anzitutto fiorentino, alla prima corte dei Medici, quando - come intuito da Pound - i bizantini dettavano e Ficino descriveva con precisione «l’estasi e l’abbandono di menti sgombre, che miracolosamente trasformate superano i limiti dell’intelligenza e si inebriano di un’incommensurabile gioia».
Inoculato nel Quattrocento platonico, Dioniso filtrò nella cultura visiva europea, abitò nel nuovo genere pittorico dei baccanali (Bellini e Correggio, Caravaggio e Tiziano), nel più esoterico mistero che pervase i quadri di Leonardo; riemerse nella letteratura dei romantici tedeschi e dei dionisiaci inglesi e francesi (Coleridge e De Quincey oltre a Baudelaire), da cui saranno influenzati, fra gli altri, gli studi di Bachofen, Rohde, Frazer, Otto, Kerenyi.
È Dioniso che nel Novecento ha ispirato la rivoluzione psichedelica, forse quella sessuale, certo la liberazione delle donne, Arianne rapite via dai vincoli borghesi sul suo carro guidato da tigri. La corona della razionalità, gettata in alto, si è impressa come il diadema di Arianna nel cielo notturno della psiche quando l’Es, con la psicoanalisi, ha riconquistato il suo dominio. Dioniso ci ha riconvocato in India, ci ha riproposto la consapevolezza dell’impermanenza, ci ha reinsegnato il mondo animale e la natura vegetale.
Non è solo il carattere orgiastico che nel dissolversi delle religioni esclusive e del folklore tradizionale hanno assunto la sessualità o i riti della vita associata. Non è solo il ritmo del reggae, lo spirito della musica come lo chiamava Nietzsche, che fa da colonna sonora alla tragedia del massacro globale, nel riacutizzarsi della ferocia delle guerre del mondo. È che la nostra società, nella ruota dell’eterno ritorno, si è riappropriata del dio dell’uguaglianza universale in termini non più esoterici ma espliciti e di massa. E se questo ci inquieta, Dioniso ha raggiunto il suo scopo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
NIETZSCHE, L’UOMO FOLLE. Non abbiamo capito il Crocifisso e pretendiamo di aver capito Dioniso. (Forse è meglio rileggere il "poema celeste" sia di Dante sia di Iqbal). Una nota di Pietro Citati sulle "Lettere da Torino"
L’ULTIMO PAPA CEDE IL PASSO A ZARATHUSTRA: "CHI AMA, AMA AL DI LA’ DEL PREMIO E DELLA RIVALSA". Una pagina di Nietzsche
Per volere di papa Francesco il 22 luglio, per la prima volta, si celebra la festa di santa Maria Maddalena, che sino a oggi era memoria obbligatoria. La storia di questa donna nelle parole dei Vangeli e nei commenti di Gianfranco Ravasi, Carlo Maria Martini, Cristiana Dobner e Timothy Verdon
Lo scorso 3 giugno la Congregazione per il Culto Divino ha pubblicato un decreto con il quale, «per espresso desiderio di papa Francesco», la celebrazione di santa Maria Maddalena, che era memoria obbligatoria, viene elevata al grado di festa. Il Papa ha preso questa decisione «per significare la rilevanza di questa donna che mostrò un grande amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata», ha spiegato il segretario del Dicastero, l’arcivescovo Arthur Roche. Ma chi era Maria Maddalena, che Tommaso d’Aquino definì «apostola degli apostoli»?
Magdala
Nei Vangeli si legge che era originaria di Magdala, villaggio di pescatori sulla sponda occidentale del lago di Tiberiade, centro commerciale ittico denominato in greco Tarichea (Pesce salato). Qui, negli anni Settanta del Novecento è stata condotta un’estesa campagna di scavi dai francescani dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme: è venuta alla luce una vasta porzione del tessuto urbano comprendente, fra gli altri, una grande piazza a quadriportico, una villa mosaicata e un completo complesso termale. Con successivi scavi i francescani hanno riportato alla luce anche importanti resti di strutture portuali. In un’area adiacente, di proprietà dei Legionari di Cristo, una campagna di scavi avviata nel 2009 ha invece permesso di rinvenire la sinagoga cittadina, una delle più antiche scoperte in Israele: per la sua posizione, sulla strada che collega Nazaret e Cafarnao, si ritiene che probabilmente sia stata frequentata da Gesù.
Gli equivoci sull’identità
Maria Maddalena fa la sua comparsa nel capitolo 8 del Vangelo di Luca: Gesù andava per città e villaggi annunciando la buona notizia del regno di Dio e c’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità e li servivano con i loro beni. Fra loro vi era «Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni». Come ha scritto il cardinale Gianfranco Ravasi, «di per sé, l’espressione [sette demoni] poteva indicare un gravissimo (sette è il numero della pienezza) male fisico o morale che aveva colpito la donna e da cui Gesù l’aveva liberata. Ma la tradizione, perdurante sino a oggi, ha fatto di Maria una prostituta e questo solo perché nella pagina evangelica precedente - il capitolo 7 di Luca - si narra la storia della conversione di un’anonima “peccatrice nota in quella città”, che aveva cosparso di olio profumato i piedi di Gesù, ospite in casa di un notabile fariseo, li aveva bagnati con le sue lacrime e li aveva asciugati coi suoi capelli». Così, senza nessun reale collegamento testuale, Maria di Magdala è stata identificata con quella prostituta senza nome.
Ma c’è un ulteriore equivoco: infatti, prosegue Ravasi, l’unzione con l’olio profumato è un gesto che è stato compiuto anche da Maria, la sorella di Marta e Lazzaro, in una diversa occasione (Gv 12,1-8). E così, Maria di Magdala «da alcune tradizioni popolari verrà identificata proprio con questa Maria di Betania, dopo essere stata confusa con la prostituta di Galilea».
La liberazione dal male
Afflitta da un gravissimo male, di cui si ignora la natura, Maria Maddalena appartiene dunque a quel popolo di uomini, donne e bambini in molti modi feriti che Gesù sottrae alla disperazione restituendoli alla vita e ai loro affetti più cari. Gesù, nel nome di Dio, compie solo gesti di liberazione dal male e di riscatto della speranza perduta. Il desiderio umano di una vita buona e felice è giusto e appartiene all’intenzione di Dio, che è Dio della cura, mai complice del male, anche se l’uomo (fuori e dentro la religione) ha sempre la tentazione di immaginarlo come un prevaricatore dalle intenzioni indecifrabili.
Sotto la croce
Maria Maddalena compare ancora nei Vangeli nel momento più terribile e drammatico della vita di Gesù. Nel suo attaccamento fedele e tenace al Maestro Lo accompagna sino al Calvario e rimane, insieme ad altre donne, ad osservarlo da lontano. È poi presente quando Giuseppe d’Arimatea depone il corpo di Gesù nel sepolcro, che viene chiuso con una pietra. Dopo il sabato, al mattino del primo giorno della settimana - si legge al capitolo 20 del Vangelo di Giovanni - torna al sepolcro: scopre che la pietra è stata tolta e corre ad avvisare Pietro e Giovanni, i quali, a loro volta, correranno al sepolcro scoprendo l’assenza del corpo del Signore.
L’incontro con il Risorto
Mentre i due discepoli fanno ritorno a casa, lei rimane, in lacrime. E ha inizio un percorso che dall’incredulità si apre progressivamente alla fede. Chinandosi verso il sepolcro scorge due angeli e dice loro di non sapere dove sia stato posto il corpo del Signore. Poi, volgendosi indietro, vede Gesù ma non lo riconosce, pensa sia il custode del giardino e quando Lui le chiede il motivo di quelle lacrime e chi stia cercando, lei risponde: «“Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”» (Gv 20,15-16).
Il cardinale Carlo Maria Martini al riguardo commentava: «Avremmo potuto immaginare altri modi di presentarsi. Gesù sceglie il modo più personale e il più immediato: l’appellazione per nome. Di per sé non dice niente perché “Maria” può pronunciarlo chiunque e non spiega la risurrezione e nemmeno il fatto che è il Signore a chiamarla. Tutti però comprendiamo che quell’appellazione, in quel momento, in quella situazione, con quella voce, con quel tono, è il modo più personale di rivelazione e che non riguarda solo Gesù, ma Gesù nel suo rapporto con lei. Egli si rivela come il suo Signore, colui che lei cerca».
Il dialogo al sepolcro prosegue: Maria Maddalena, «si voltò e gli disse in ebraico: “Rabbunì!”, che significa: “Maestro!”. Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Maria di Magdala andò ad annunziare ai discepoli: “Ho visto il Signore!” e anche ciò che le aveva detto» (Gv 20, 16-18).
La maternità della Maddalena
«La Maddalena è la prima fra le donne al seguito di Gesù a proclamarlo come Colui che ha vinto la morte, la prima apostola ad annunciare il gioioso messaggio centrale della Pasqua», osserva la teologa Cristiana Dobner, carmelitana scalza. «Ella esprime la maternità nella fede e della fede ossia quella attitudine a generare vita vera, una vita da figli di Dio, nella quale il travaglio esistenziale comune ad ogni uomo trova il suo destino nella risurrezione e nell’eternità promesse e inaugurate dal Figlio, «primogenito» di molti fratelli (Rom 8,29). Con Maria Maddalena si apre quella lunga schiera, ancor oggi poco conosciuta, di madri che, lungo i secoli, si sono consegnate alla generazione di figli di Dio e si possono affiancare ai padri della Chiesa: insieme alla Patristica esiste anche, nascosta ma presente, una Matristica.
La decisione di Francesco è un dono bello, espressione di una rivoluzione antropologica che tocca la donna e investe l’intera realtà ecclesiale. L’istituzione di questa festa, infatti, non va letta come una rivincita muliebre: si cadrebbe stolidamente nella mentalità delle quote rosa. Il significato è ben altro: comprendere che uomo e donna insieme e solo insieme, in una dualità incarnata, possono diventare annunciatori luminosi del Risorto».
Nella storia dell’arte: la mirofora
Maria Maddalena, nel corso dei secoli, è stata raffigurata principalmente in quattro modi: «Anzitutto - afferma monsignor Timothy Verdon, docente di storia dell’arte alla Stanford University e direttore del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze - è spesso ritratta come una delle mirofore, le pie donne che la mattina di Pasqua si recarono al sepolcro portando gli unguenti per il corpo del Signore. Fra loro la Maddalena è riconoscibile per il fatto che, a partire dalla fine del Medioevo, viene raffigurata con lunghi capelli sciolti, spesso biondi: questo fa capire che gli artisti, secondo una tradizione affermatasi in Occidente (e non condivisa nell’Oriente cristiano), la identificavano con la donna peccatrice che aveva asciugato i piedi di Gesù con i propri capelli. I capelli lunghi sono quindi un’allusione a questo intimo contatto e alla condizione di prostituta: le donne per bene non andavano in giro con i capelli sciolti».
La penitente
Nell’arte del tardo Medioevo Maria Maddalena compare anche come penitente perché - spiega Verdon - secondo una leggenda ella era una grande peccatrice che, dopo la conversione e l’incontro con il Risorto, era andata a vivere come romitessa nel sud della Francia, vicino a Marsiglia, dove annunciava il vangelo: «Il culto della Maddalena penitente ha affascinato molti artisti, che l’hanno considerata il corrispettivo femminile di Giovanni Battista. In genere viene raffigurata con abiti simili a quelli del Battista oppure è coperta solo dai capelli. La bellezza esteriore l’ha abbandonata, il volto è segnato dai digiuni e dalle veglie notturne in preghiera, ma è illuminata dalla bellezza interiore perché ha trovato pace e gioia nel Signore. La statua della Maddalena penitente di Donatello, scolpita per il Battistero di Firenze, è un autentico capolavoro».
L’addolorata
Sovente la Maddalena è ritratta anche ai piedi della croce: una delle opere più significative, a giudizio di Verdon, è un piccolo pannello di Masaccio (esposto a Napoli) nel quale la Maddalena è ritratta di spalle, sotto la croce, le braccia protese a Cristo, i lunghi capelli biondi che cadono quasi a ventaglio su un enorme mantello rosso: «Un’immagine di forte drammaticità. Non di rado il dolore composto della Vergine è stato contrapposto a quello della Maddalena, quasi senza controllo. Si pensi ad esempio, alla Pietà di Tiziano, nella quale la donna avanza come volesse chiamare il mondo intero a riconoscere l’ingiustizia della morte di Gesù, che giace fra le braccia di Maria; oppure si pensi al celebre gruppo scultoreo di Niccolò dell’Arca, nel quale fra le molte figure la più teatrale è proprio quella della Maddalena che si precipita con la forza di un uragano verso il Cristo morto».
Chiamata per nome
Vi sono inoltre molte raffigurazioni dell’incontro con il Risorto: «Esemplari e magnifiche sono quelle di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni, e del Beato Angelico nel convento di san Marco», conclude Verdon. «Maria Maddalena ha vissuto un’esperienza di salvezza profonda per opera di Gesù: quando si sente chiamata per nome in lei si accende il ricordo dell’intera storia vissuta con Lui: c’è tutto questo nell’iconografia della scena che chiamiamo “Noli me tangere”».
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fonte: Vatican Insider, articolo di Cristina Uguccioni del 20/07/2016 (senza foto)
DALL’ECO DELLE SIBILLE, LA VOCE DELLA PROFEZIA
di Chiara Magaraggia*
Sono le creature più misteriose della storia della salvezza: non sono nominate nella Bibbia, non sappiamo quante siano,vengono dalla notte dei tempi, vengono dai quattro angoli del mondo allora conosciuto, vengono da quei confini inconoscibili in cui storia e leggenda si fondono, in cui mondo pagano e mondo cristiano si saldano. Sono donne, sono sapienti e sono la voce del Verbo. La loro parola è capace di scrutare segni di secoli remoti e leggerli in un’ottica di salvezza futura; la loro immagine è da sempre legata al rotolo o al libro, in cui questa parola un tempo oscura e misteriosa si imprime, diventando finalmente chiara solo nella pienezza dei tempi.
Creature affascinanti, le Sibille: un tempo vergini dotate di virtù profetiche ispirate dal dio Apollo, nel mondo cristiano le profetesse di Cristo, le facce femminili della profezia.
E’ vero che la Sacra Scrittura ci presenta alcune profetesse: Maria sorella di Mosè, Debora, Anna. Nessuna di loro, però, ha conseguito la popolarità delle Sibille, né ha avuto la loro fortuna. L’arte cristiana si è impossessata di loro a piene mani, la poesia e la musica hanno loro riservato una posizione privilegiata in pagine rimaste immortali.
“Dies irae, dies illa / solvet saeculum in favilla / teste Davide cum Sibylla”. La celebre sequenza duecentesca attribuita a Tommaso di Celano, in cui, con immagini di forte impatto emotivo e figurativo, viene rappresentata la grandiosa scena del Giudizio Universale - il terribile giorno in cui il mondo e il tempo saranno ridotti in cenere - collega la profezia biblica di Davide con quella di origine classica delle Sibille: pagani e cristiani, uomini e donne, ovunque abbia alitato lo spirito di Dio, hanno profetizzato “dies illa”, quel giorno. Dalla musica raccolta degli antichi monasteri alla sublime solennità dell’ultimo Mozart fino alla travolgente grandiosità di Verdi, ovunque il Requiem con la sequenza del “Dies irae” ha scandito la colonna musicale di secoli e secoli, così che, come scrive Dante nell’ultimo canto del Paradiso “al vento nelle foglie lievi si perde la sentenza di Sibilla” (Par. 33, vv. 65-66).
Amatissime nell’arte di ogni tempo, con i loro volti dai mille lineamenti a seconda dei luoghi, delle epoche, dei contesti, della sensibilità degli artisti, fanno capolino dai posti più impensati. Potremmo quasi affermare che le mutevoli Sibille incarnino l’immagine stessa della donna, che si trasforma senza sosta per rendere continuamente nuova l’antica attesa dell’avvento di Dio nel mondo. Ci vengono incontro leggiadre e piene di grazia in un luogo veramente particolare: il Collegio del Cambio di Perugia, affrescato, negli ultimi anni del Quattrocento dal pittore umbro Perugino, forse con la collaborazione del giovane allievo Raffaello.
Un luogo davvero inconsueto: la sede ufficiale dei cambiavalute perugini, in cui si stabiliva il valore delle monete del tempo per renderle più competitive negli scambi commerciali e in cui si tentava di controllare la diffusione del prestito ad usura. Una piccola Borsa rinascimentale. Ma perché proprio qui, nel tempio degli affari, si sono dipinte le Sibille?
La lunetta peruginesca della Sala dell’Udienza (la stanza in cui si prendevano le decisioni più importanti), sullo sfondo di un verde, luminoso paesaggio umbro ci mostra due distinti gruppi di personaggi: da un lato sei Profeti (Isaia, Mosè, Daniele, Geremia, Davide, Salomone) dal volto grave e ispirato, dall’altro le sei Sibille (Eritrea, Persica, Cumana, Libica, Tiburtina, Delfica) dai visi dolci, botticelliani e gli sguardi assorti di chi più che sul presente, è concentrato sul futuro; i capelli sono acconciati secondo i dettami del tempo, gli abiti leggeri, sobri, dalle delicate sfumature cromatiche, i piedi atteggiati a passo di danza, le mani dai gesti “parlanti”. Profeti e Sibille sono avvolti da filatteri con brani allusivi alla prima e all’ultima venuta di Cristo. Il Padre Eterno benedicente, circonfuso da una mandorla dorata, sovrasta i due gruppi.
Nella parete opposta della Sala, Perugino dipinge le Virtù di cui uomini e donne devono rivestirsi: la venuta di Cristo, dunque, dovrà originare nuove creature, dotate di quelle virtù che sole possono guidarci nella realizzazione concreta del progetto divino.
In questo affresco, dipinto in pieno Umanesimo, è celebrata la dignità dell’uomo: il pittore l’ha qui rappresentato così come Dio l’ha creato, maschio e femmina, senza distinzioni di provenienza, biblica o pagana, anche nella profezia. Ognuno è inserito nel progetto divino, ne è non solo testimone, ma attore e responsabile in prima persona. Sembrano riecheggiare qui le splendide parole con cui in questi stessi anni Giovanni Pico della Mirandola ha tessuto forse il più bell’elogio alla dignità e al libero arbitrio dell’essere umano: “Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale perché sia tu stesso, quasi libero e sovrano, a plasmarti secondo la tua libera decisione: potrai annullarti in terra come le creature brute, potrai sollevarti fino alle cose più alte che sono divine”. Così un mestiere come quello del cambiavalute, inviso nel Medioevo perché a contatto col denaro considerato materiale impuro e ora rivalutato nell’ottica dei nuovi tempi e delle profonde trasformazioni, esercitato con prudenza, con giustizia, con sobrietà, guidato dalla fede, dalla speranza, dalla carità, sarà nella società strumento di cambiamento positivo per tutti e perciò degno della benedizione divina.
Dal centro dell’Italia alla ricca città di Gand. Siamo nelle Fiandre del primo Quattrocento, una delle aree più ricche dell’Europa: i mercanti, i banchieri, i borghesi attivi nei piccoli liberi centri stanno creando un mercato economico dove transitano merci di ogni tipo, con investimenti e profitti che segnano l’alba del capitalismo europeo. Fasto e splendore in breve rendono splendide Bruges, Gand, Anversa. E proprio a Gand opera il maggiore pittore del Rinascimento nordico: Jan Van Eyck. Per la cattedrale di San Bavone egli realizza un grandioso polittico in 20 pannelli in legno di quercia, in cui, attraverso 250 figure dai colori squillanti, sviluppa la storia della Redenzione dal peccato originale al trionfo finale di Cristo. E lì, sopra la scena dell’Annunciazione, avvolta in vesti sontuose, la Sibilla Cumana dà il suo vaticinio: “Verrà il tuo Re dei secoli futuri”. Parole che precedono e sottolineano il sottostante annuncio dell’angelo a Maria. Ciò che colpisce nella Sibilla fiamminga è lo splendido copricapo trapuntato da una reticella di candide perle e il verde mantello di pesante velluto con le maniche e il collo di preziosa pelliccia. E’ la moda con cui le ricche dame del nord si riparavano dai geli invernali. Colpiscono quel volto intenso e meditativo, quelle mani dai gesti così femminili: una sul grembo, come farà Maria, a sottolineare che quel Re verrà proprio da un corpo di donna, l’altra sorregge l’abito, nel gesto di alzarsi in piedi, stupita, ancora una volta come Maria, da un annuncio tanto solenne. Eppure la Sibilla sembra comunicarci dell’altro col suo viso pensoso: quel re non nascerà avvolto in velluti e pellicce, né sarà coccolato da banchieri e mercanti. Chi lo accoglierà? E come?
Il dialogo dai quattro confini del mondo si fa stringente e drammatico. Le risposte ci riportano ancora in Italia, nella città di Siena. La Cattedrale dedicata all’Assunta domina la città del Palio dal colle più alto. Ci accoglie con la facciata dai bianchi marmi, ci apre la porta guidando gli occhi verso la splendida vetrata multicolore con cui Duccio di Buoninsegna celebra Maria. Ma ciò che subito attira l’attenzione è lo straordinario pavimento, che in 56 grandi tarsìe di marmi bianchi, neri, colorati compone con un originale programma teologico la storia del tempo, dell’uomo, della salvezza. E’ come se il fedele si mettesse lui stesso in cammino per arrivare, col suo fardello di dolori, di speranze, di errori a Cristo che dall’altare tutti accoglie, sotto la luminosa custodia di Maria. Può qui mancare la voce delle Sibille? Le loro figure occupano i 10 riquadri delle navate laterali, con un effetto di bianche statue classicheggianti, ciascuna con la propria profezia. Ma, sorpresa, la prima Sibilla, quella Libica “di cui parla Euripide” ha il viso, le mani, i piedi neri. L’immagine è di assoluta novità: è una delle prime raffigurazioni di un personaggio femminile di pelle nera nella storia della salvezza e nell’arte in senso generale. Da una donna nera viene una delle profezie più drammatiche, che risponde in modo spiazzante ai dubbi della Sibilla fiamminga. Mostra nelle pagine del volume aperto alla sua destra la scritta latina che annuncia: “Ricevendo pugni tacerà”, che si collega alla tabella sorretta da un vaso fiorito a cui s’attorcigliano due serpenti: “Capiterà in mani malvagie. Daranno a Dio schiaffi a piene mani. Misero e vergognoso recherà speranza ai miseri”. Che sia proprio una donna nera, da sempre negletta, da sempre umiliata e battuta, a pronunciare la profezia della Passione è un fatto sconvolgente. E’ un’immagine che perfora i secoli e che per noi, oggi, assume un significato ulteriormente nuovo. Nella certezza consolante che dopo la Passione c’è la Resurrezione.
Certo, fra tutte le Sibille, l’immaginario di tutti non può non volare a Roma, nella Cappella Sistina, lo scrigno del genio di Michelangelo. Come i cicli in mosaico delle antiche basiliche, quello della Sistina è l’esempio più alto dell’arte al servizio della parola: un credo per immagini capace di tradurre in forme concrete, comprensibili a tutti, le verità che per tanto tempo erano appannaggio solo dei sapienti. Occorreva però che, accanto ad artisti pur grandi (Perugino, Botticelli, ecc.) che avevano affrescato le pareti laterali se ne aggiungesse un altro capace di imprimere unità e organicità al ciclo. Siamo nel 1508: Michelangelo riceve da papa Giulio II l’incarico di affrescare la volta, un lavoro immane (680 mq di superficie). Sette anni di lavoro massacrante, solo con i suoi tormenti e la sua immaginazione, con i pennelli e i colori ad ideare le nove scene della Genesi, dalla Separazione delle tenebre dalla luce al Diluvio e all’Ebbrezza di Noè, simbolo di un’umanità ineluttabilmente schiava degli istinti, degli errori, della perdizione. Occorreva far irrompere la speranza, riecheggiando le parole di Paolo: Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo trionfo?
Ed ecco, nel cornicione che affianca le nove scene, le figure dei Profeti e delle Sibille: tutti ispirati da Dio, ma in modo diverso, hanno il presentimento della Redenzione: se i primi la prevedevano con certezza, le Sibille, dal confuso orizzonte del mondo pagano, hanno saputo farsi interpreti del perpetuo anelito al rinnovamento dell’uomo, al di là delle tenebre. Sembrano compresse in troni troppo piccoli, le Sibille di Michelangelo, esponenti di un’umanità quasi asessuata, primordiale, colta nel momento di un improvviso risveglio, quasi una faticosa percezione della profezia, che suscita faticose, titaniche torsioni, in uno sforzo immane per uscire da una materia che sembra opprimerle: lo sforzo tutto michelangiolesco di una verità nascosta, di uno spirito incatenato che si dibatte per liberarsi e sprigionarsi.
La Sibilla Cumana della Sistina è agli antipodi della ricca signora dipinta da Van Eyck: non c’è grazia, non c’è femminilità in quelle forme gigantesche e mascoline della corporatura, in quel braccio poderoso che sorregge il libro, che sembrano contrastare con i tratti marcati e rugosi di un volto di vecchia. Le vesti sono disadorne, essenziali, spoglie; una sacca appesa al sedile sembra suggerire che non è propria dell’uomo la stabilità, che siamo tutti eterni pellegrini nel tempo della salvezza. Eppure, a questa donna così fuori dai canoni della femminilità ideale, è affidata, partendo dalle parole del poeta latino Virgilio, la profezia della nascita di un bambino generato da una vergine, che avrebbe aperto agli uomini un’era di pace e di felicità. Virgilio, primo secolo avanti Cristo, si salda idealmente alle parole del più antico Isaia, che, non a caso, Michelangelo ha affrescato proprio accanto alla Cumana: “Ecco, la Vergine concepirà e partorirà un figlio che si chiamerà Emmanuele”.
La grazia di Perugino, l’eleganza pensosa di Van Eyck, la pelle nera di Siena, la vecchiaia quasi deforme di Michelangelo: ritratti di donne di mondi diversi, capaci di andare oltre, di guardare lontano... in ognuna di esse possiamo trovare qualcosa di noi. Tanti accordi che si uniscono in un’unica grande voce. La voce delle Sibille capace di vincere di mille secoli il silenzio.
* Chiara Magaraggia
*FONTE. Congregazione delle Suore Orsoline del Sacro cuore di Maria (ripresa parziale - senza immagini).
La Sibilla cumana accompagna Enea nell’oltretomba come Beatrice conduce Dante in Paradiso
di Emanuela Boccassini *
Nel VI libro dell’“Eneide” di Virgilio e nel XVI libro delle “Metamorfosi” di Ovidio la Sibilla cumana ha il duplice compito di profetessa e di guida. In entrambe le opere latine, Enea si rivolge a lei, dopo aver dato i suoi «crudi ed oscuri responsi», per essere condotto nel regno dei morti.
Sin dalle prime battute la Sibilla mostra un carattere deciso e forte “sfoggiando” intransigenza e ammonendo Enea, che indugia dinanzi ai rilievi delle porte del tempio (VI; 35-41). A breve distanza lo riprende perché tarda a interrogare il dio. Beatrice, ugualmente, nel XXX canto del “Purgatorio”, quando incontra Dante, ancor prima che lui riesca a rivolgerle la parola, lo rimprovera in quanto non lo reputa “degno” di trovarsi sul monte del Paradiso e di godere di una felicità dalla quale si è allontanato. Nel momento in cui la donna si rivolge al poeta lo chiama per nome «in tono di fiero rimprovero».
Beatrice, guida materna ma intransigente
Dante, dapprima emozionato e smarrito per la visione angelica, dopo le sue parole prova vergogna e abbassa la testa. Non è una donna soave che si rivolge con parole amorevoli, ma è «inquisitrice, ammonitrice», sarcastica e minacciosa, paragonata a un ammiraglio che ha l’atteggiamento fiero e imperioso.
Beatrice, che per tutto il percorso svolge il suo incarico di guida e maestra, è, tuttavia, spinta da un affetto che assume un tono impietoso e amaro, quasi materno di sostegno e aiuto nei confronti del “figlio” rimproverato per il proprio bene (vv. 79-81):
«così la madre al figlio par superba,
com’ella parve a me; perché d’amaro
sente il sapor de la pietade acerba».
La Sibilla, inflessibile custode della legge divina
La Sibilla è inflessibile per adempiere al proprio compito: accompagnare Enea nei campi Elisi e farlo incontrare col padre Anchise. La Sibilla nel canto ovidiano acquisisce un aspetto umano e indulgente per l’avversa sorte toccata all’eroe troiano, lo distrae parlandogli di sé e della ragione della sua lunga vecchiaia, per rendere meno faticoso il cammino. In quello virgiliano sembra essere distaccata e frettolosa, per esempio quando «ammonì brevemente» (v. 538) Enea per il suo dilungarsi con l’amico Deìfobo, - il quale si risente e le dice «Non ti sdegnare» (v. 544). Quando il figlio d’Anchise le pone delle domande, la Sibilla risponde con «succinte parole» (v. 321), non si dilunga in spiegazioni, ma limita le frasi allo stretto necessario. Mentre Beatrice adopera estrema pazienza con Dante, lo comprende e spesso previene i desideri del poeta riuscendo persino a leggergli dentro e a soddisfare le richieste ancor prima che lui parli.
La Sibilla mantiene sino alla fine il suo inflessibile atteggiamento di guida e di custode della legge divina, mostrandosi pronta e inesorabile nell’impedire a Palinuro di entrare insepolto nel regno ultraterreno, così come prende le difese di Enea contro Caronte che ne disturba il transito.
Alla fine dei canti latini, la Sibilla sparisce senza congedarsi e l’eroe riprende il suo cammino senza voltarsi indietro. Beatrice, anche se lascia il posto a San Bernardo, riappare per un attimo a Dante rivolgendogli un “sorriso d’assenso”.
Il mito della Sibilla
Nella religione greca (e romana) Sibilla era il nome di donne, vergini e vecchie, fornite di capacità profetiche e collegate ad Apollo. Lo scrittore latino Varrone ne identificò dieci, la più famosa era proprio quella cumana. Da Virgilio si apprende che la Sibilla cumana è Deifobe, figlia di Glauco - pastore divinatore della Beozia, mutato in dio dopo la morte -, profetessa di Apollo, vigila sul tempio dedicato alla divinità nella città campana.
Nelle “Metamorfosi” (vv. 130-148), la Sibilla narra a Enea la sua storia. Apollo, invaghitosi di lei, le concede di esprimere un desiderio. La giovane e bella donna chiede al dio di vivere tanti anni quanti granelli di sabbia può contenere la sua mano. Però commette l’errore di non chiedere anche la giovinezza. Il nume le accorda la possibilità di variare il suo desiderio se si concede a lui.
«[...]. Disprezzato il dono di Febo,
eccomi qui, ancora nubile. Ma ormai l’età più bella
mi ha voltato le spalle, e a passi incerti avanza un’acida vecchiaia,
[...]. Vedi sette secoli
son già vissuta [...]».
La Sibilla continua a invecchiare sino a quando le sue membra si riducono talmente tanto da lasciare di lei solo la voce. Nel “Satyricon” vi è la conferma di questa leggenda: Petronio sostiene che la Sibilla è oramai ridotta a un essere minuscolo e, confinata in una gabbia, invoca soltanto la morte.
Approfondimenti
Bibliografia
Anthony S. Mercatante, “Dizionario universale dei miti e delle leggende”, Mondadori, 2001.
Publio Virgilio Marone, “Eneide”, a cura di Giuseppe Vergara, 1986.
Dante Alighieri, “La Divina Commedia. Il Purgatorio”, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, 1988.
Dante Alighieri, “La Divina Commedia. Il Purgatorio”, a cura di Ernesto Bignami, 1995.
Ovidio P. Nasone, “Metamorfosi”, 2005.
* "Ripensandoci" (anno II, n. 9, settembre 2009 - Superstizioni, miti, leggende)
MOZART, Requiem (K 626):
DIES IRAE (Coro)
(dal "Requiem")
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Movimenti improvvisi
di Lea Melandri *
Dell’ “erba voglio” si dice proverbialmente che non cresce neppure nel giardino del re. Eppure c’è stato un tempo, una stagione «breve, intensa ed esclusiva», in cui è comparsa nei luoghi più impensati: dalla scuola alle fabbriche, agli interni di famiglia.
Tra gli anni Sessanta e Settanta, nella fase di massima espansione della società dei consumi, che prometteva cibo in cambio di una dipendenza incondizionata, due “soggetti” tenuti per secoli ai margini della storia - i giovani e le donne - hanno dato prova di una straordinaria «creatività generativa», destinata a cambiare il volto della politica e dell’idea stessa di rivoluzione.
Con loro hanno fatto ingresso nella polis le categorie del “desiderio” e della “felicità”, guardate con sospetto dalla sinistra parlamentare ed extraparlamentare perché ritenute meno materialistiche di quella del bisogno, e hanno aperto prospettive inedite al “tragico” dualismo che ha diviso e contrapposto privato e pubblico, individuo e società, natura e cultura, destino del maschio e della femmina.
Elvio Fachinelli, originale interprete del ’68, in un articolo uscito sui Quaderni piacentini nel febbraio dello stesso anno, così definiva il «desiderio dissidente»: una «diversa logica di comportamento rispetto al reale e al possibile, contrapposta alla logica del soddisfacimento dei bisogni fino allora dominante».
Il desiderio e la dissidenza oggi sembrano essersi inabissati nella bocca vorace di una civiltà che, pur dando segni di visibile decadenza, macina ogni segnale di cambiamento, ogni forma nuova di socializzazione, ogni sapere che non sia funzionale alla sua conservazione.
Il venir meno dei confini tra vita e politica, anziché portare all’evidenza i nessi, che ci sono sempre stati, tra due poli astrattamente divisi dell’esperienza umana, sembra aver prodotto un amalgama difficile da districare, ma proprio per questo destinato a muovere resistenze, prese di distanza individuali e collettive.
A lasciare aperta la speranza è ancora una volta la lettura che Fachinelli fece dell’“utopia” di Walter Benjamin: «esigenze radicali», di cui si può dire che rappresentino in un particolare momento storico il «possibile attualmente impossibile», e che per questa stessa ragione si ripropongono nel tempo a venire, chiedendo risposte e soluzioni.
Che la crisi economica sia anche la crisi di un modello di sviluppo e di una civiltà che ha avuto come protagonista unico il sesso maschile, che la sessualità sia parte essenziale non riconosciuta della vita pubblica, dei suoi poteri, della sue istituzioni, dei suoi linguaggi, sono acquisizioni oggi presenti nelle coscienze di uomini e donne, più di quanto la generazione del ’68 potesse immaginare. Il «primum vivere», che viene dalle teorie e pratiche originali del femminismo, trova paradossalmente nell’orizzonte chiuso di chi dice di non avere futuro, la sua spinta più forte e più convincente.
Chi ha seguito un’altra logica, un altro ritmo, non può fallire e scomparire per sempre. Attualità e inattualità, presente e passato, continuità e imprevisto, intelligenza personale ed elaborazione collettiva, non ubbidiscono a «passaggi meccanici». Il rimando reciproco non è quello di causa-effetto e del discorso lineare, ma dei movimenti improvvisi, della frattura.
A tenerli insieme è la possibilità della “ripresa” aperta a nuove, impensate soluzioni. Non resta che sperare che la logica del desiderio, come la “passione” di Marx, la spinta ad autorealizzarsi da parte dell’uomo, lavori sotterraneamente, da vecchia talpa, e torni a sorprenderci, quando meno ce lo aspettiamo.
* Comune-info, 10 luglio 2016 (ripresa parziale)
La vita esemplare di Fabio Maniscalco, archeologo in trincea
di Tomaso Montanari (Nazione Indiana, 29 giugno 2016)
Oro dentro. Un archeologo in trincea: Bosnia, Albania, Kosovo, Medio Oriente è un libro che bisognava scrivere: Laura Sudiro e Giovanni Rispoli lo hanno fatto nel migliore dei modi. L’ ‘oro dentro’ del titolo è quello, metaforico, di chi ha il cuore abbastanza grande da spendere la propria vita per salvare un bene comune (proprio quel patrimonio culturale: e cioè la memoria e il futuro, di paesi in guerra). Ma è anche quello, purtroppo letterale, che l’uranio impoverito delle bombe Nato esplose in Kosovo ha fatto penetrare, insieme ad altri metalli, nel corpo in cui batteva quel cuore: fino a ucciderlo. Sono queste le due terribili facce della breve, ma meravigliosa, vita di Fabio Maniscalco.
Se questo Paese avesse ancora un servizio pubblico televisivo, la figura di Fabio (che non ho avuto la fortuna di incontrare di persona, ma che dopo aver letto questo libro mi sembra di conoscere da sempre) dovrebbe essere al centro di un racconto fatto di documentari, rigorose inchieste giornalistiche e (perché no?) anche di fiction capaci di far conoscere a tutti un italiano di cui essere, finalmente, fieri. Un italiano da cui imparare qualcosa.
Questo libro, d’altra parte, fa esattamente questo: anzi, fa qualcosa di più. È sempre raro (ma oggi è rarissimo) che un libro riesca a storicizzare la figura di un contemporaneo senza affogarla nella retorica, o senza ridursi ad un’inchiesta o ad una denuncia. Oro dentro, invece, ci riesce: è come se la materia della nostra vita quotidiana, la nostra cronaca, le nostre esistenze così seriali, simili, piccole e in fondo irrilevanti riuscissero qui ad apparire in una luce esemplare. Si arriva all’ultima pagina commossi, e profondamente turbati: ma soprattutto pieni di una fiducia rinnovata nelle possibilità di ognuno di noi.
Laura Sudiro e Giovanni Rispoli sono riusciti a trasmetterci il messaggio essenziale della vita di Fabio Maniscalco: e quel messaggio è che un singolo individuo può fare la differenza. Sempre: e - pensate! - perfino in Italia. Anche di fronte a sistemi corrotti e impermeabili (la nostra povera università), o ben decisi a non farsi cambiare (l’esercito): e perfino nel fuoco di terribili conflitti armati, mossi spesso da interessi imperscrutabili, giocati così in alto sopra le nostre teste.
Questo libro, dunque, fa quello che dovrebbero fare la scuola, o per l’appunto l’università: farci capire (quando siamo ancora in tempo) che la nostra vita è preziosa, importante. Forse essenziale. Può essere il granello che finalmente inceppa la macchina del sistema. Può essere quel millimetro in più che riesce a fare saltare lo stato delle cose. Può lasciare un segno. Può fare, davvero, la differenza.
Fabio cresce a Napoli, dove la progressiva distruzione del patrimonio artistico pare - come molte altre cose - fatale, irreversibile, immutabile. Se crolla un Lungarno nella mia Firenze (giustamente) il mondo tiene il fiato sospeso: ma se l’ennesima chiesa storica della Napoli in cui ho scelto di insegnare sprofonda nell’ennesima voragine, la notizia non arriva nemmeno al telegiornale regionale. Non inganni la propaganda di Pompei che rinasce e della Reggia di Caserta che risplende: chiunque vive in Campania conosce il vero stato delle cose.
Ma Fabio - che lo conosce come nessuno - non si arrende, e non si abitua: studia, invece. E non per fuggire: ma per cambiare le cose. A Napoli succede. C’è un bellissimo film (La seconda natura, di Marcello Sannino) che racconta l’esperienza di Gerardo Marotta e dell’Istituto di studi filosofici di Napoli. «La rivoluzione si fa studiando»: è questa la frase chiave del film. È questo l’unico modo di uscire dalla nostra condizione servile di uomini ad una sola dimensione - quella economica. L’unico modo di combattere e cambiare una classe dirigente dominata - dice Marotta - dalla «regina Ignoranza».
La voce profetica di Marotta e la testimonianza eroica di Fabio Maniscalco arrivano all’Italia e all’Europa dal luogo da cui meno te lo aspetteresti: dalla Campania, che lo stesso Marotta definisce la pattumiera d’Europa, una regione popolata di ombre, di condannati a morte. È da questa terra - per millenni la più bella e feconda d’Europa -, da questa terra oggi ridotta ad un pozzo di veleni, da questa terra che avrebbe bisogno di tutto, che si alzano queste voci: fragili, e insieme fortissime.
La sua voglia di riscatto spinge Fabio, dopo una laurea in archeologia alla Federico II, ad andare a difendere il patrimonio dove le condizioni sono ancora più estreme: ufficiale a Sarajevo, e poi nel Kosovo. Ed è impossibile non pensare che sia stata la fragilità di Napoli ad insegnare a Fabio l’amore per le fragilità ancora più radicali. A Napoli, uno come Fabio non diventa egoista. Anche se Fabio è tormentato da quello che gli autori chiamano «la spirale del precariato»: una delle abissali vergogne dell’Italia presente. Ma proprio qui, in Italia, Fabio scopre che non ci si salva da soli.
In compenso è da solo, a mani nude, che il tenente archeologo Fabio Maniscalco riesce a fare quello che nessuno Stato sovrano sembra interessato a praticare: attuare l’articolo 7 della Convenzione Internazionale dell’Aja del 1954, che prevede che ogni esercito abbia un nucleo specializzato nella tutela del patrimonio culturale. È un’idea semplice e rivoluzionaria: mettere la conoscenza, la cura, la tutela nell’occhio del ciclone dei conflitti. Frivolezze? Preoccupazioni delle anime belle? No: sacrosanta sollecitudine di chi sa che, passata la guerra, la ricostruzione morale e culturale sarà impossibile se non potrà basarsi su un patrimonio monumentale ancora vivo e condiviso. È la lezione dell’Italia del dopoguerra: e Fabio la ricorda.
Ma Fabio è uno dei pochissimi: sono temi davvero marginali nel discorso pubblico. E la pubblica opinione non ha strumenti per giudicare. Per esempio, i caschi blu dell’arte voluti dal ministro Franceschini e accolti dall’Unesco sono una soluzione, o sono solo l’ennesimo spot? Quanto avrei voluto leggere un editoriale di Fabio Maniscalco, per poterlo capire!
E intanto nessuno ne parla. Fa impressione ricordarlo oggi, di fronte alle devastazioni dei barbari del sedicente Stato Islamico, ma anche gli stati europei - anche l’Italia - hanno contribuito, direttamente o indirettamente, alla distruzione di un’enorme fetta del patrimonio culturale del Kosovo. Lo sappiamo? Esiste qualche organo di stampa che sia interessato a denunciarlo, a documentarlo, a ricordarlo? Pare di no.
Fabio Maniscalco lo sapeva, e per anni ha combattuto con tutte le sue forze: andando sul campo, documentando, fotografando, studiando, fondando osservatori, scrivendo ai governi, mobilitando la pubblica opinione. Un archeologo, uno studioso, un soldato: ma prima un cittadino. Un cittadino esemplare.
Dietro tutto questo c’era una convinzione profonda: lottare per il patrimonio, significa lottare per i diritti fondamentali, per la salute psichica e fisica delle persone. Anche questa è una lezione imparata a Napoli: il veleno nella terra e la distruzione dei monumenti sono due facce della stessa medaglia. Quando dalla terrazza della Reggia di Carditello, devastata fino a poco tempo fa dalle razzìe della Camorra, si alza lo sguardo verso la campagna si vede un turbine di gabbiani: che non segnala il mare, ma la discarica di Maruzzella, criminalmente realizzata su un terreno acquitrinoso in cui il percolato penetra fino alla falda, avvelenando i frutteti circostanti, e compromettendo per decenni la catena alimentare, e dunque l’uomo. In questa distruzione simultanea dell’ambiente, del paesaggio, e del patrimonio storico e artistico pare di scorgere davvero «il cadavere della patria» (per usare un’espressione che Raffaello adoperò per descrivere la Roma classica devastata dai pontefici medioevali), cioè il volto sfigurato dell’Italia.
Fabio Maniscalco l’aveva capito: la lunga guerra per l’ambiente (usiamo un’espressione di Elena Croce), la lunga guerra per il patrimonio culturale, è anche la guerra per la nostra salute fisica e mentale. Come in un mito antico e crudele, Fabio ha sperimentato questa intima unione sulla propria pelle, fino a morirne: non basta essergli grati, bisogna proseguire il suo lavoro.
Aver scritto questo libro è stato il primo passo per farlo. Ora tocca a noi.
Un nuovo Rinascimento nel nome della bellezza
Gli ultimi cento anni non hanno prodotto alcuna civiltà: è tempo che la cultura non sia più una merce, bisogna tornare all’esperienza umana, ai sentimenti, alla vita
di Gao Xingjian (La Stampa, 29.06.2016)
In quest’epoca di globalizzazione, un’epoca in cui la politica e la propaganda commerciale occupano tutti gli spazi, persino la cultura è piegata alle leggi dell’economia di mercato. Arte e letteratura possono non degenerare nel consumismo culturale, e difendere la loro intrinseca autonomia spirituale e totale libertà creativa? [...]
Un nuovo Rinascimento è realizzabile? Se ci slegassimo dalla visione storica del mondo artistico-letterario fondata sulla modernità, instaurata dal XX secolo, se poi gettassimo nella spazzatura la teoria della perenne negazione e con essa tutte le provocazioni e gli esibizionismi, e se poi riesaminassimo la storia dell’arte e della letteratura, non tarderemmo a scoprire che questi ultimi cent’anni e più non hanno prodotto una nuova civiltà, anzi, non hanno fatto altro che involgere l’umanità in un circolo vizioso. L’Oriente ha intrapreso la strada già battuta dall’Occidente, e l’Occidente quella già battuta dall’Oriente, e quindi ora si sono scambiati le direzioni. Questo mondo è talmente assurdo...
Tornare al bello
Lasciamo da parte la follia della sovversione estetica e delle campagne di moda, e così un nuovo Rinascimento verrà da sé. Liberandoci dai banali interessi materiali capiremo che l’arte e la letteratura non sono un’arma né uno strumento, né tantomeno una merce. Torniamo quindi al loro scopo originario, torniamo a osservare l’umanità, torniamo alla natura umana e ai sentimenti umani, torniamo alla ricerca del bello. E tutto ciò non è affatto un’illusione. Solo con una piena consapevolezza, artisti e scrittori possono riuscire a padroneggiare la creazione.
Un tale Rinascimento, com’è prevedibile, non viene promosso da uno Stato-nazione, il cui unico scopo è quello di portare la creazione artistico-letteraria nelle mani del potere politico, rendendola una sorta di incarto ufficiale del nazionalismo. Se prima c’era il realismo socialista, sbandierato dall’Unione Sovietica, e poi il motto maoista di «arte e letteratura al servizio degli operai, dei contadini e dei soldati», ora è il momento delle varie identità etniche, dei discorsi politici che portano l’arte e la letteratura ad arrendersi all’odierna politica di partito e di voto.
Un tale Rinascimento può soltanto sorgere dalla cognizione personale di artisti e scrittori. Non deve seguire le politiche culturali formulate, avviate e sviluppate dagli organismi di governo. Al contrario, richiede la distensione e la tolleranza sociale; e sarebbe molto meglio se le istituzioni della cultura in mano al governo fossero gestite dal popolo, e quanto più possibile varie e diversificate. Un tale Rinascimento, pur necessitando del sostegno di fondazioni culturali no-profit, in prima istanza si fonda sulla consapevolezza individuale. Artisti e scrittori devono lanciare un appello capace di destare l’attenzione, devono far risuonare la propria voce dapprima nei circoli culturali, perché poi si propaghi come un eco. E questa è l’unica possibilità di suscitare una sorta di coscienza comune. [...]
La crisi
Un tale Rinascimento, ai nostri giorni non può essere circoscritto a certi Stati o certe aree del mondo, come fu per l’Italia del ’400 e del ’500, o per la Francia del ’700. In quest’epoca di globalizzazione, la situazione di ogni artista e scrittore è pressoché identica. Tuttavia, ora, dietro la crisi economica e il declino culturale vi è una crisi di pensiero e una prostrazione spirituale. La dottrina della rivoluzione sociale o il liberalismo, come pure il nazionalismo e tutte le altre ideologie, non hanno salvato l’uomo dalla sua triste condizione. L’umanità ha bisogno di un pensiero nuovo, prodigioso, che arrivi all’orecchio dei sordi e sulla bocca dei muti. Ma dove sta questo pensiero?
Queste sono le basi dell’appello a un nuovo Rinascimento. È chiaro che questo nuovo pensiero a cui mi riferisco non possa fare affidamento su esperti della politica di partito, tantomeno sugli economisti che ogni giorno compaiono sui media con i loro sproloqui, o su sondaggi d’opinione e statistiche. Ci troviamo in un’epoca di povertà d’animo e di miseria filosofica, in cui la riflessione filosofica è degenerata in uno sterile gioco di analisi linguistica, a causa di tutte le teorie della sovversione che hanno svuotato di senso ogni cosa. Non serve profetizzare il futuro dell’uomo. Lasciamo da parte queste promesse utopistiche che rievocano l’incubo del XX secolo, ancora vivo nella memoria. Torniamo piuttosto al momento presente e alla reale condizione dell’uomo. Il principio della mens sana in corpore sano ideato dal vecchio umanesimo è senza fondamento, come pure le idee sulla libertà e sui diritti umani innati: nulla di tutto ciò è conferito a titolo gratuito.
Il disagio umano
Al contrario, l’individuo, debole e vivo, è sempre immerso nei tormenti dell’esistenza terrena, e del destino del genere umano non è dato sapere. Appurato che la speculazione filosofica non è in grado di guarire il disagio dell’uomo contemporaneo, all’uomo non resta che affidarsi alla letteratura e all’arte per poter affermare se stesso, in questa vita sconcertante.
Filosofia, religione e arte e letteratura sono tre diversi metodi per acquisire conoscenza della propria esistenza. La filosofia ricorre alla speculazione, la religione conduce alla fede, mentre l’arte e la letteratura si rivolgono all’estetica, e attraverso l’estetica offrono all’uomo un’affermazione del sé. Quest’epoca è segnata dal declino della religiosità, ma in compenso è devota al materialismo. E l’ideologia, che continua a corteggiare il potere politico, ha compromesso gravemente la condizione della filosofia, che in origine era incorrotta. Arte e letteratura - strette dalla morsa della politica e del mercato - non di rado sono state private dell’intrinseco giudizio estetico. Mentre il mercato governa il consumo culturale, ormai il potere sfrutta il principio del «politicamente corretto». Ma lanciare un appello a un nuovo Rinascimento significa ritornare all’esperienza del bello, ritornare alla natura umana e ai sentimenti umani, ritornare alla vita.
La coscienza morale
Un tale Rinascimento poggia sulla coscienza morale innata e sulla consapevolezza di artisti e scrittori. È naturale che non possa limitarsi a pochi Paesi o aree del mondo, né ad alcuni lingue o forme espressive; al contrario invece, un tale Rinascimento può avvenire in ogni angolo della Terra. Solo una volta acquisita una piena e lucida cognizione della realtà e dell’uomo, artisti e scrittori danno inizio ad una propria ricerca espressiva. Un tale Rinascimento è realizzabile. Difatti, la storia ha già attraversato momenti bui, ma alla fine s’è squarciata l’oscurità e rotto il silenzio, il cielo è tornato a splendere e la voce a risuonare. E vantando anche di queste esperienze come punto di riferimento, l’uomo d’oggi perché mai non potrebbe riuscirci?
[Traduzione di Simona Gallo]
Donne costituenti e diritti
di Eliana Di Caro (Il Sole-24 Ore, Domenica, 12.06.2016)
Il 10 marzo 1946 le donne italiane compiono un gesto rivoluzionario. È domenica, si mettono in fila accanto a mariti, fratelli o sconosciuti per prendere una scheda sulla quale tracceranno una X, esercitando per la prima volta lo stesso diritto fondamentale dei vicini di coda. Non c’è più distinzione di sesso nel partecipare alla cosa pubblica, attraverso il più classico degli strumenti: il voto.
Meno di tre mesi dopo, il 2 giugno, vanno ancora alle urne per l’appuntamento che abbiamo tutti appena festeggiato e che Patrizia Gabrielli, docente di Storia contemporanea e di genere all’Università di Siena-Arezzo, rievoca in Il primo voto. Lo fa marcando il salto di qualità, il passaggio dalle amministrative alle politiche e, soprattutto, dalla monarchia alla Repubblica. Una rivoluzione nella rivoluzione.
L’autrice ricorda tutto questo facendo rivivere quell’atmosfera, descrivendo l’approdo delle 21 costituenti al più alto livello della politica accanto a 535 uomini che le guardavano con un certo paternalismo. Preziosi sono i resoconti che calano il lettore nel dibattito di allora e dai quali emerge la tenacia delle protagoniste, destinate a scrivere la storia dei diritti delle donne.
Maria Federici, Nilde Iotti, Teresa Mattei, Lina Merlin, Teresa Noce, per nominarne alcune, sono state determinanti nel disegnare l’architrave costituzionale che sancisce l’equità e la pari dignità uomo-donna. Basti pensare alla specificazione “di sesso” aggiunta nell’articolo 3 («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua...»), che si deve alla cocciutaggine di Lina Merlin. O alla legge sulla maternità, una delle più avanzate del mondo, che porta la firma di Teresa Noce. O alla lunga e animata discussione dell’Assemblea sulla famiglia, di cui si definiscono i principî cardine, poi sviluppati nella riforma del 1975 per la quale fu in prima linea Nilde Iotti.
Proprio su quest’ultimo tema, sottolinea l’autrice, le divergenze furono forti tra i costituenti e all’interno della stessa «pattuglia femminile»: la famiglia rimane centrale, nel dopoguerra, indipendentemente dai colori politici.
Il concetto dell’indissolubilità del matrimonio, in un Paese come l’Italia, non sembrava superabile e invece per soli tre voti (complice una sospetta assenza di 32 democristiani) ne fu votata l’estromissione dalla Carta, aprendo la strada al percorso per il divorzio che nel 1970 adeguerà la nostra legislazione a quella dei maggiori Paesi occidentali.
Ma anche quando comuniste, cattoliche o socialiste erano in disaccordo, prevaleva la tensione verso una sintesi, un obiettivo comune. Fu così per «diritto al lavoro e accesso alle professioni, parità salariale e garanzie alla lavoratrice madre», scrive Gabrielli nel sottolineare l’approccio delle costituenti: «ribadirono concordi che non si trattava di definire norme di tutela, ispiratrici dell’assistenzialismo fascista, quanto di fondare un nuovo diritto».
Utili, nella seconda parte del volume, i brevi profili biografici di ciascuna di queste donne oggi così poco conosciute (14 di loro laureate, altre operaie e impiegate e dunque direttamente conoscitrici di molti problemi e iniquità) cui tutti siamo debitori.
I maestri del disprezzo per le donne
di Daniela Monti (Corriere della Sera, 08.06.2016)
Nel 1929 Virginia Woolf, nel saggio Una stanza tutta per sé, inventa una storia: quella di Judith, ipotetica sorella di William Shakespeare, stessa genialità, stessa irrequietezza, stessa voglia di fare del fratello. Per seguire il proprio talento, Judith si istruisce come può, leggendo il poco che trova per casa (ma appena i genitori se ne accorgono, le tolgono i libri e le mettono in mano delle calze da rammendare), rifiuta il matrimonio spezzando il cuore al padre, scappa per inseguire il sogno di fare teatro e viene accolta da un impresario che la schernisce e da un agente teatrale che, impietosito, la mette incinta. Alla fine, non trova altra via di uscita che uccidersi.
Mentre il talento del fratello è celebrato, il suo non vale niente: ha sfidato l’ordine naturale delle cose che la vuole debole, inferiore, indegna di ricevere un’istruzione e, insieme, selvaggia e ingestibile, una a cui mettere fin da subito il guinzaglio; si è illusa di potersi esprimere da donna e artista, senza neppure ricorrere all’espediente di camuffarsi da uomo, che pure è una strada battuta; ha sbagliato tutto, è andata fuori ruolo e infatti non c’è nessuno disposto ad ascoltarla. Così Judith «giace sepolta a un certo incrocio, lì dove ora gli autobus si fermano nei pressi di Elephant and Castle». Potessimo posare una lapide mortuaria, sopra ci sarebbe scritto: coraggiosa e ingenua Judith Shakespeare, vittima di due millenni di pregiudizi contro le donne.
Perché quello contro il genere femminile, «a conti fatti, appare come il più antico, radicato, diffuso pregiudizio che la vicenda umana è stata in grado di produrre», scrive Paolo Ercolani nel suo Contro le donne (Marsilio, pp. 318, e 17,50), resoconto dettagliato di come, dalle origini della società occidentale, scrittori, filosofi, intellettuali abbiano alimentato un dibattito «tutto fra uomini» - le donne sembrano assenti dalla filosofia, se non come oggetto del discorso dei filosofi maschi - «per arrivare a stabilire l’inferiorità inemendabile e irrecuperabile dell’essere femminile». I grandi filosofi greci, i padri della Chiesa, gli illuministi, i rivoluzionari, i filosofi idealisti, persino quel campione della causa femminile che fu John Stuart Mill: un’operazione culturale a senso unico che affonda le radici nella presunta «deficienza fisica» delle donne per poi esportare tale mancanza in altri campi, quelli dell’etica, della morale, dell’organizzazione politica della società.
Fu nell’Atene democratica, «tanto esaltata dalla tradizione occidentale, che si diffuse il costume di imporre alle donne il velo di fronte a situazioni pubbliche e a uomini scapoli, al contrario di quello che accadeva a quel tempo in Persia o in Siria», scrive Ercolani, aprendo il fronte della globalizzazione del pregiudizio, il quale, come le malattie contagiose, è riuscito a infettare culture lontane e all’apparenza inconciliabili, stringendole in un unico blocco misogino.
E loro, le donne? «Molto spesso sono le donne stesse a sminuirsi rispetto al maschio, in una sorta di autofobia indotta da secoli di indottrinamento», scrive Ercolani. Il femminismo, che pure è una delle grandi narrazioni della modernità, resta ai margini del lungo excursus, diventando esso stesso un bersaglio quando «negando l’esistenza di una specificità femminile (differente dal maschio) e prefigurando irrealistici scenari di individui a-sessuati ha finito con il fare da sponda al pensiero misogino».
La via d’uscita proposta sta nel ridefinire i canoni dell’identità e soggettività umana, al di là del «narcisismo di genere». Come scriveva Caterina Botti nel suo Prospettive femministe (Mimesis), «fino a relativamente poco tempo fa l’assenza delle donne dalla filosofia non era considerata una questione degna di nota. Oggi invece lo è».
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
Quando Bologna abolì la schiavitù
di Federico Fioravanti *
Il 3 giugno 1257 Bologna abolì la schiavitù. Nell’Archivio di Stato cittadino è conservato un prezioso codice che anticipa di almeno 600 anni le moderne carte dei diritti umani: si chiama Liber Paradisus, in omaggio alla prima parola del testo del documento, scritto in latino.
Il grande capolettera, una “P” ornata di disegni filigranati, precede una frase bella e solenne: “Paradisum voluptatis plantavit dominus Deus omnipotens a principio, in quo posuit hominem, quem formaverat, et ipsius corpus ornavit veste candenti, sibi donans perfectissimam et perpetuam libertatem”.
“In principio il Signore piantò un paradiso di delizie, nel quale pose l’uomo che aveva formato, e aveva ornato il suo stesso corpo di una veste candeggiante, donandogli perfettissima e perpetua libertà”.
L’atto di liberazione è motivato da ragioni teologiche: Dio ha creato l’uomo libero e poiché la disobbedienza originale di Adamo lo ha reso schiavo del peccato, lo ha riscattato tramite suo figlio, Gesù Cristo, che si è fatto uomo.
Il documento notarile rese ufficiale la “manumissio”, una emancipazione resa possibile da un riscatto in denaro.
Il decreto fu firmato un anno prima, il 25 agosto del 1256, dal Podestà e dal Capitano del Popolo nel corso di una cerimonia pubblica alla quale presero parte migliaia di persone festanti. Le trattative furono lunghe e complesse. Ma dopo un anno, il 3 giugno 1257, l’atto diventò operativo. Il Comune pagò tre rate per complessive 53.014 lire per indennizzare i proprietari di 5.855 persone: erano tutti i servi della gleba che risiedevano all’interno del territorio bolognese. Soltanto la famiglia Prendiparte, proprietaria dell’omonima torre cittadina, “possedeva” più di 200 servi. A ogni bambino fu attribuito un valore di 10 lire. Chi aveva più di 14 anni fu riscattato con 10 lire d’argento.
I servi della gleba erano considerati tali per nascita, incatenati per tutta la vita alla zolla di terra (gleba in latino) che non potevano abbandonare, per nessuna ragione, senza il consenso del padrone del terreno.
Una condizione umana senza via d’uscita, di poco migliore di quella degli schiavi dell’antica Roma. I servi della gleba potevano essere venduti, insieme alla terra alla quale erano legati. Possedevano solo piccoli beni mobili e potevano sposarsi soltanto con persone che vivevano, come loro, all’interno della proprietà.
Il padrone dei fondi era, di fatto, anche il signore assoluto delle loro esistenze. Alle famiglie proprietarie l’uso del terreno andava pagato con il raccolto dei campi e con tutta un’altra serie di corvées. I servi dovevano versare anche le “decime” per il mantenimento del clero. E avevano mille altri obblighi e limitazioni.
Il Liber Paradisus, per legge, mutò questo stato sociale. Diede speranza ai manenti, i coloni di condizione servile legati da un contratto alle terre padronali. E anche ai cosiddetti “servi di masnada”, che costituivano i piccoli eserciti signorili.
Quattro notai stilarono quattro elenchi, uno per ogni quartiere, con quattro preamboli.
Regista di tutta l’operazione fu Rolandino de’ Passaggeri (1215 - 1300), uno dei più celebri giuristi medievali, massima autorità nella scienza e tecnica del documento notarile, di cui rinnovò i formulari con un grande rigore scientifico.
Nel documento si possono leggere importanti dichiarazioni di principio. Una su tutte: “Nella nostra città possano vivere solo uomini liberi”. Si prendono impegni solenni: “Spezzare le catene della servitù”. Si parla, a più riprese, di “restituire alla libertà originaria uomini che da principio la natura generò liberi e il diritto delle genti sottopose poi al giogo della schiavitù...”.
Bologna all’epoca era una delle più grandi città d’Europa, sede della prima è più importante università del mondo, frequentata da più di duemila studenti che non producevano ma consumavano. Il denaro fresco muoveva l’economia. Nacquero allora i nuovi mercati cittadini e i canali navigabili.
La città aveva addosso gli occhi del mondo. Nel palazzo del Podestà, dopo la battaglia di Fossalta del 1249, viveva prigioniero Enzo, figlio dell’imperatore Federico II di Svevia. L’economia della città e del suo contado stava mutando pelle rapidamente insieme alla società feudale di derivazione carolingia, fino ad allora sostenuta dalle attività agricole dei castelli, indipendenti l’uno dall’altro. Ma il lavoro autonomo rendeva la famiglia contadina assai più produttiva grazie alla selezione di nuove sementi e a diverse innovazioni tecniche.
La liberazione proclamata nel Liber Paradisus non fu solo un “beau geste” del governo cittadino. Servì a sanare molte situazioni giuridiche causate dai matrimoni misti tra cittadini liberi e servi.
Più cittadini liberi voleva dire anche più contribuenti. Era il prezzo della libertà. Non a caso, il Comune vietò ai servi liberati di spostarsi fuori dal territorio delle diocesi di appartenenza. In alcuni casi i servi vennero raccolti in località “franche”, libere dalla giurisdizione delle grandi famiglie. Si svilupparono così, al confine del territorio, in prossimità delle aree controllate dalla nemica Modena, paesi come Castelfranco, ai quali la città di Bologna concesse particolari condizioni fiscali.
Il riscatto dei servi rafforzava il Comune. E il mantenimento delle famiglie contadine sui campi garantiva la produttività dei terreni. In città arrivava una maggiore quantità di prodotti.
Bologna fu il primo Comune in Italia ad attuare la liberazione dei servi della gleba.
Altre città, come Vercelli, Assisi e Parma, si mossero nella stessa direzione. A Vercelli, come in altri luoghi, per legge, “la città dava la libertà”: la posizione dei servi della gleba che si rifugiavano nel centro abitato veniva regolarizzata dopo un certo periodo di tempo. Lo stesso avveniva a Parma, dove i nuovi cittadini venivano accolti come uomini liberi dopo 10 anni di permanenza .
Oggi la piazza che ospita palazzo Bonaccorso, la nuova sede del Comune di Bologna, si chiama “Piazza Liber Paradisus”. L’edificio porta il nome del podestà Bonaccorso da Soresina che redasse i documenti raccolti nel Liber.
Un affresco di Adolfo De Carolis esposto nel salone del Palazzo del Podestà ricorda ai bolognesi e ai turisti lo storico affrancamento dei servi.
In Russia la servitù della gleba venne abolita nel 1861, dallo zar Alessandro II, circa 50 anni più tardi rispetto al resto d’Europa. La fine della pratica della schiavitù degli esseri umani fu certificata dalla Costituzione degli Stati Uniti soltanto nel 1865. Il Brasile arrivò invece alla fatidica decisione nel 1888, con la “Lei Áurea” promulgata dalla principessa reale Isabella.
Per milioni di altri vecchi e nuovi schiavi, a distanza di secoli, il Paradiso è invece ancora un sogno lontano.
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FONTE: FESTIVAL DEL MEDIOEVO (ripresa parziale - senza immagini)
DELLA LINGUA E DELLA POLITICA D’ITALIA. DANTE: L’UNIVERSALE MONARCHIA DEL RETTO AMORE. Per una rilettura del "De Vulgari Eloquentia" e della "Monarchia". *
Il testo del Liber Paradisus (Bologna, 1257):
Dio onnipotente piantò un piacevole Paradiso (giardino) e vi pose l’uomo, il cui corpo ornò di candida veste donandogli una libertà perfettissima ed eterna. Ma l’ uomo, misero, immemore della sua dignità e del dono divino, gustò del frutto proibito contro il comando del Signore. Con questo atto tirò se stesso e i suoi posteri in questa valle di lagrime e avvelenò il genere umano legandolo con le catene della schiavitù al Diavolo; cosi l’ uomo da incorruttibile divenne corruttibile, da immortale mortale, sottoposto a una gravissima schiavitù. Dio vedendo tutto il mondo perito (nella schiavitù) ebbe pietà e mandò il Figlio suo unigenito nato, per opera dello Spirito Santo, dalla Vergine madre affinché con la gloria della Sua dignità celeste rompesse i legami della nostra schiavitù e ci restituisse alla pristina libertà. Assai utilmente agisce perciò chi restituisce col beneficio della manomissione alla libertà nella quale sono nati, gli uomini che la natura crea liberi e il diritto delle genti sottopone al giogo della schiavitù.
Considerato ciò, la nobile città di Bologna, che ha sempre combattuto per la libertà, memore del passato e provvida del futuro, in onore del Redentore Gesù Cristo ha liberato pagando in danaro, tutti quelli che ha ritrovato nella città e diocesi di Bologna astretti a condizione servile; li ha dichiarati liberi e ha stabilito che d’ora in poi nessuno schiavo osi abitar nel territorio di Bologna affinché non si corrompa con qualche fermento di schiavitù una massa di uomini naturalmente liberi.
Al tempo di Bonaccorso di Soresina, podestà di Bologna, del giudice ed assessore Giacomo Grattacello, fu scritto quest’atto, che deve essere detto Paradiso, che contiene i nomi dei servi e delle serve perché si sappia quali di essi hanno riacquistato la libertà e a qual prezzo: dodici libbre per i maggiori di tredici anni, e per le serve: otto libbre bolognesi per i minori di anni tredici (...)
*
L’Arca dell’Alleanza del Logos e il codice di Melchisedech.
La Fenomenologia dello Spirito... dei “Due Soli”. Ipotesi di rilettura della “Divina Commedia”.
*15 GIUGNO 2009: ALLA DOTTA BOLOGNA, NELLA CATTEDRALE DI SAN PIETRO, LA "DEUS CARITAS EST" (UN FALSO FILOLOGICO E TEOLOGICO).
“Al cuore delle cose. Scritti politici (1967-1989)” di Elvio Fachinelli a cura di Dario Borso, una raccolta di testi che offrono una chiave inedita per affrontare le questioni politiche
di Delia Vaccarello (l’Unità, 1 giugno 2016)
Psicanalisi e politica: due volti per un solo “cuore”. C’è un nesso stretto tra la psicanalisi che considera l’inconscio un “ospite interno”, straniero eppure intimo, e una visione secondo la quale «il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia». Due volti e una voce, quella di Elvio Fachinelli nella veste di giornalista che giunge a noi grazie alla raccolta Al cuore delle cose.
Scritti politici (1967-1989) a cura di Dario Borso (DeriveApprodi). Pagine attraversate da uno slancio che vede il pensiero, la clinica e la pratica politica in grado di lavorare per azzerare barriere ed esclusioni. Fachinelli crea, anticipa, interroga con quel coraggio che al contrario di Don Abbondio «uno se lo può dare». La sua politica, che vuole uscire dai problemi «tutti insieme», trova radici nelle innovazioni da lui proposte in psicanalisi. Ed è legata all’uso di una parola che è atto in grado di cambiare la realtà sia nelle stanze di analisi (quando il setting funziona) che nella politica degna di questo nome.
Nelle riflessioni “Sulla spiaggia”(“la mente estatica”, Adelphi) Fachinelli abbandona la psicanalisi come difesa pignola da un presunto pericolo interno, come fabbrica di armi ben appuntite e di corazze, per volgersi all’accoglimento dell’inconscio, a un modo «femminile» di andare al cuore delle cose. L’inconscio, ancora prima di esaminarlo, diventa un «ospite» da accogliere. Ma se il sistema di vigilanza-difesa è collegato con la impostazione virile, «allora accogliere: femminile? Il femminile sarebbe allora nel cuore, il cuore di molte e diverse esperienze». Sarebbe esporsi all’estasi laica e alla gioia, rinunciando all’illusione di padronanza. Tematica ripresa dalla «fachinelliana» Cristiana Cimino nel suo Il discorso amoroso (manifestolibri, del quale abbiamo parlato in queste pagine) dove proprio a partire dalla «posizione femminile», che implica l’accantonamento del primato della coscienza ed è strada praticabile da maschi e femmine senza prerogative di genere, c’è una possibilità di uscire da sé per intrecciare un legame intimo.
Con Fachinelli giornalista è come se ci trovassimo alla radice di un doppio registro: se non mi difendo dall’Altro che mi abita dentro, cioè dall’inconscio, ma lo accolgo, posso aprire gli occhi anche sull’Altro fuori di me e prendermi cura del legame sociale. Il cambiamento rispetto all’inconscio diventa «visione». Così una psicanalisi che è atto etico nei confronti dell’Altro può ispirare una politica che si muova nella stessa direzione. Messaggio attualissimo.
Pensiamo alla necessità di rapportarci agli esclusi di oggi, i migranti, che sono in mezzo a noi ma “estranei”, in cerca di casa e lavoro, ma sempre di passaggio. Ospiti. Specchio di una precarietà esistenziale che suscita inquietudine e angoscia. Sarebbe vitale una politica dell’immigrazione ispirata dall’etica di una vulnerabilità che riguarda tutti. I migranti di oggi sono, negli scritti politici di Fachinelli, i ragazzi che scrivono Lettera a una professoressa con Don Milani, e saranno tra le urgenze che lo spingeranno a immergersi nel ’68. «Trovai in quel libro», dice, «un richiamo alla eguaglianza delle condizioni e una prima denuncia delle deficienze della istituzione scolastica».
Di 56 alunni, dopo gli anni dell’obbligo, ne erano rimasti 16. Richiamo che lo portò nell’asilo autogestito di porta Ticinese ad analizzare il sorgere della società fascista o mafiosa: se manca la figura dell’adulto, a fare legge è la prepotenza, dice Fachinelli, o meglio “Elvio cacato”, come per un periodo fu chiamato da quei bimbi molti dei quali immigrati del nostro Sud. Articolo dopo articolo vediamo la psicanalisi offrire chiavi alla politica. Così ne Il desiderio dissidente, scritto comparso in Quaderni piacentini proprio nel ’68, «la società che soddisfa il bisogno ruba l’identità».
Allora, essenziale per i gruppi di giovani che si stavano formando proprio in quel momento è alimentare uno stato nascente: «il gruppo impara sempre meglio che essenziale per la sua sopravvivenza non è l’oggetto del desiderio ma lo stato di desiderio», laddove il desiderio appagato muore trascinando con sé il gruppo. Occhio ad incarnare il desidero nella figura del leader - che sia persona o valore -perché altrimenti si entra nella fissità del bisogno. Osservazioni fertili anche oggi se pensiamo alla trasformazione dei movimenti nati grazie al web in nome di una modalità orizzontale di rappresentanza e gestiti poi dalle logiche del leaderismo. Anni dopo, nel 1988, in “estasi metropolitane” la condizione estrema della mente, nella sua accezione laica diviene accessibile a tutti grazie al gusto della «velocità per la velocità» che attrae in quanto stravolgimento del tempo.
Una metropoli come New York permette l’estasi della promiscuità, l’appartenenza a una dimensione più vasta e la gioia. Se la voce di Fachinelli si fa graffiante e interrogante dinanzi al «suo paziente più complicato» che fu l’Italia, come sottolinea l’ottimo curatore , non è priva dei toni dell’indignazione e dello scacco. Una delle chiavi va trovata nell’uso del termine «prudenza», cioé viltà. Con i ragazzi di Barbiana Fachinelli concorda: si accettano consigli «purché siano per la chiarezza, si rifiutano i consigli di prudenza». Nel ’75 analizzando il nuovo rapporto tra operai e imprenditori, gli uni “pro tetti” gli altri “assistiti”anticipa la fisionomia della futura classe dirigente: «ne deriva un nuovo potere costretto a concentrare politica, economia e controllo sociale».
Così come una società frenata, immobile, che taccia di “imprudenza” i piccoli gruppi capaci di cambiamento: le femministe, i radicali per l’aborto. Toccante, infine, l’ultimo scritto della raccolta, Don Abbondio, “il vittorioso”. Fachinelli nota che Manzoni, mostrando il cuore nero (e avaro) dell’universo umano, ha cancellato dal lessico del curato viltà e coraggio, e «al posto della prima troviamo la prudenza». E’ il 1989, Fachinelli sta per morire, lasciandoci un buon itinerario per andare al «cuore delle cose» . E tutto il suo coraggio.
I tre anniversari del 2 giugno
di Carlo Smuraglia, presidente nazionale dell’Anpi
Da tempo contestiamo che il 2 giugno possa risolversi in una parata militare o poco più. Abbiamo, nel tempo, accentuato il connotato di anniversario fondamentale per la vita del Paese; in seguito, abbiamo collegato al 2 giugno il tema della Costituzione, dando luogo anche a manifestazioni molto partecipate, d’ intesa con la CGIL.
Quest’anno, è impossibile celebrare il 2 giugno senza ricordare che nel 2016 si concentrano ben tre anniversari: la Repubblica, il voto alle donne e la nascita della Costituente. Tre anniversari che imprimono un carattere particolarmente significativo ad una Festa che, per noi, ha sempre avuto un’importanza del tutto particolare. A fronte di un interrogativo che alcuni si sono posti, se il 2 giugno abbia rappresentato il punto di arrivo della crisi che portò il Paese fuori dal fascismo e dalla guerra, oppure il primo passo di un nuovo possibile cambiamento, ho personalmente ritenuto - sempre - che il tema fosse mal posto, perché in realtà, la vera fase conclusiva del periodo della dittatura fu l’8 settembre, che segnò anche l’inizio della fase di riscatto. Il 2 giugno fu il giorno della scelta decisiva, influenzata solo in parte dal comportamento dei Savoia: la scelta se restare ancorati ai modelli del periodo prefascista, oppure avviare con determinazione il cammino, magari non facile, verso una democrazia, in cui i cittadini assumessero finalmente il ruolo - chiave, attraverso la partecipazione.
Per chi ha partecipato alla Resistenza, una simile scelta non aveva alternative, perché in realtà ciò che si era voluto, tutti, era la fine della dittatura e la nascita di un sistema democratico, che andasse oltre, anche rispetto all’esperienza del periodo liberale.
Molti di noi, il 2 giugno 1946, non ebbero dubbi, sembrandoci impossibile non trarre le conseguenze logiche e necessarie dell’esperienza che avevamo vissuto e dei sogni che avevamo coltivato. Del resto, nelle famose ”aree libere”, quando vi fu la possibilità concreta di sperimentare la democrazia, talora in forma poco più che primitiva, la definizione a cui si pensò, fu quella di “repubblica partigiana”. La Repubblica fu, dunque, per molti, la speranza di un futuro diverso, nel quale non ci fosse più posto per qualsiasi forma di autoritarismo e tanto meno di “sudditanza” dovendo il popolo diventare, finalmente, il vero protagonista della scena politica.
Non a caso, del resto, nel 1946, si decise, finalmente, di riconoscere alle donne il diritto di votare e di essere elette; ed anche questo era frutto di un’aspirazione certo lontana nel tempo (i movimenti femministi risalgono alla fine dell’800 ed alla parte iniziale del ‘900), ma consolidata con l’irruzione delle donne sulla scena politica, negli anni della seconda guerra mondiale e soprattutto tra il 1943 e il 1945, con l’assunzione di inedite responsabilità e compiti, come staffette, come partigiane, come protagoniste della Resistenza non armata, infine come componenti dei “gruppi di difesa della donna”.
È nel 1946 che si concretizza quello che per molto tempo era stato il sogno impossibile e che ora, dopo la Resistenza, appariva come imprescindibile, al di là di ogni pregiudizio e di ogni timore. E non è un caso, che sempre nel 1946, e proprio a seguito del voto del 2 giugno, fu eletta l’Assemblea Costituente, si diede vita - cioè - al percorso che doveva creare le condizioni di vita e di rapporti politici e sociali (anch’essi sognati nella Resistenza e finalmente avviati alla realizzazione ) creando la struttura di quella che diventerà poi la nostra Costituzione, destinata a durare nel tempo.
Per tutto questo, oggi il 2 giugno non può essere festeggiato solo come l’anniversario di una scelta, pur decisiva, ma deve essere considerato nel contesto di tutti gli anniversari che si celebrano nel 2016, perché fra di essi vi è un legame strettissimo e indissolubile (Repubblica, voto alle donne, Costituente), riconducibile ad un’unica matrice, la Resistenza ed alla volontà di riscatto del popolo italiano.
Forse, nella mente dei vincitori del voto del 2 giugno, vi fu solo in parte questa consapevolezza complessiva; forse si coltivavano perfino speranze eccessive, al limite delle illusioni. Ma intanto il dado era tratto, con la forma di Stato, col riconoscimento del diritto universale di voto, con le basi gettate - con la Costituente - per una Costituzione radicalmente innovativa, che fosse di rottura netta col passato, ma anche di premessa ed impegno per un futuro socialmente, politicamente e democraticamente diverso.
Tutto questo significa, dunque, oggi, il 2 giugno; e come tale lo festeggeremo, anche se attraversiamo una fase non facile ed anche se è in atto uno scontro proprio sulla Costituzione. Ma siamo intenti a “celebrare” la ricorrenza, non tanto sulla base del ricordo storico, quanto e soprattutto sulla base della conoscenza e della riflessione: per capire meglio chi siamo e da dove veniamo e per guardare ad un futuro che potrà essere ancora incerto, ma non potrà mai prescindere dalle scelte di settant’anni fa e di ciò che hanno rappresentato e rappresentano tuttora nella vita e nei sentimenti del nostro Paese.
di DARIO BORSO e ELVIO FACHINELLI *
Premessa
di Dario Borso
1. Una psicanalisi della domanda invece che della risposta: questo fu in sintesi l’indirizzo che perseguì Elvio Fachinelli nella sua breve vita[1]. Quindi fondamentalmente interrogò - non solo i soggetti in analisi, e neanche solo gli individui in genere, interrogò la «realtà», quel fantasma che Jacques Lacan amava ridicolizzare e invece lui prendeva assai sul serio. Così il paziente suo più complicato fu l’Italia, e il trattamento più lungo fu della realtà italiana - esattamente dal 1966, appena conclusa con il decano Cesare Musatti l’analisi didattica, all’anno di morte 1989.
Di Musatti, ergo di Freud, Fachinelli adottò lo sguardo obliquo, lo scarto del cavallo che spiazzato sa spiazzare. E perciò dell’Italia, quasi fosse un quadro, seppe cogliere i particolari illuminanti, gli imprestiti da esperienze altrui, le persistenze di uno stile nell’alternarsi dei periodi: tre decenni tondi, che nella sua attività «giornalistica» sezionò e ricompose con sapiente tempestività.
Ciò che è noto, l’elenco intendo (rivolta studentesca, lotte operaie, speranze e accelerazioni negli anni Sessanta; terrorismo, derive autoritarie, progetti di autonomia, delusioni e tracolli nei Settanta; riflusso edonistico, innovazioni tecnologiche e nuove forme di sopravvivenza negli Ottanta), viene riscritto da Fachinelli per chiavi e spie assolutamente inedite, per brevi rilievi sismografici che segnalano pur senza spiegarla (senza risposta cioè) una realtà in continuo movimento, ossia un sommovimento. Non quindi storia, e men che meno enciclopedia - piuttosto un mosaico, o più ancora un puzzle.
2. Da presto egli aveva intuito che con Freud «si apre il campo di una ricerca sui rapporti interindividuali: comincia una sorta di nexologia umana (dal latino nexus: legame, intreccio), che include il corpo come parte in causa e interlocutore»[2]. Per Fachinelli dunque non si trattava né di integrare il dettato freudiano ibridandolo ad altre «scienze», né di restaurarlo nella sua ortodossa purezza, bensì di aprirlo, allargarlo. E se nexologia è la scienza a venire, la ricerca di nessi fu conoscenza in fieri, per vie varie e vieppiù complesse, ma sempre animata da: curiositas, Lebensinstinkt, eros[3].
Solo assai tardi, invece, capì di essersi staccato in qualche modo da Freud, seppure per completarlo: vide cioè che, essendosi Freud perlopiù impegnato a smantellare barriere psichiche, il suo apparato teorico aveva assunto i contorni analoghi di una fortezza, idonea più a controllare che ad accogliere[4].
Lo stacco ovviamente era stato progressivo, anzi si originava da una sua forma mentis, anteriore in quanto tale a ogni «teoria». Logico perciò che a coglierla, più che i lettori o i pazienti, siano stati i promiscui nella vita: colleghi, compagni di strada e soprattutto amici. Uno lo intervistò poco prima della morte. Gli chiese dei suoi inizi con Musatti, ed ebbe per risposta:
Dopodiché fu l’amico a evocare gli inizi del loro rapporto, Milano 1974, l’anno in cui Fachinelli aveva allestito un gruppo aperto di autoformazione, salvo poi scioglierlo in fretta: «quando, in privato, gli chiesi perché, mi rispose candidamente “non mi divertiva più!”»[6].
Ecco, lo spettro ampio di significati impliciti nel verbo «divertire», che va dall’imprevisto al gioco, basta a classificare l’attitudine di Fachinelli verso il reale, ovvero la sua forma mentis. Così, se Freud fu maestro nel «tenere fermo al mortuum», sulla sua scia lui fu più aperto al vivum, tant’è che la realtà gli si presentò infine come regalo:
Da questo punto di vista, il détournement predicato dai situazionisti è, prima che un enunciato teorico, un tentativo di recuperare e praticare il gesto infantile del gioco. E come nelle attività di provocazione situazionista, il bambino usa le occasioni della vita quotidiana, più che il mondo dei giocattoli a lui espressamente destinato dagli adulti. Cos’è mai il telefonino gracchiante di plastica rispetto al telefono in persona, misterioso organo tubante che secondo ogni verosimiglianza contiene in sé tante persone, delle quali lascia uscire soltanto la voce? Se guardiamo senza paraocchi i bambini più piccoli, meno addomesticati, li vedremo accorrere, nonostante i divieti, verso gli infiniti tasti bottoni pulsanti da premere, chiavi e chiavette da girare, rubinetti da aprire e chiudere, verso gli innumerevoli comandi che da vicino o da lontano spargono luci e suoni in ogni punto della nostra vita quotidiana. Mentre ci affanniamo a costruire per loro un universo fittizio, facsimile ridotto e talora grottesco, sempre insufficiente, del nostro mondo, e questo mondo ci appare difficile, inquinato ed esplosivo, i bambini aprono gli occhi sul più meraviglioso Paese dei Balocchi che si sia mai visto[7].
* * *
Destra e Sinistra [i]
di ELVIO FACHINELLI
Mi sia consentito di partire, per fissare i pochi punti del mio intervento, da un’osservazione storica a prima vista marginale, o tutt’al più laterale. Come certamente molti sanno, e come si legge nei testi di scienze politiche, la distinzione parlamentare tra destra e sinistra sembra risalire all’assemblea detta Costituente, durante la Rivoluzione francese: i rivoluzionari moderati sedevano alla destra del presidente, i rivoluzionari accesi alla sua sinistra. Rilevo questo particolare: i due lati erano e sono tuttora individuati rispetto al capo o centro dell’assemblea.
Non sarà allora azzardato supporre che in questa distribuzione spaziale abbia inconsapevolmente giocato un riferimento simbolico ben noto in tutto l’Occidente e singolarmente coerente sia nella tradizione greco-romana che in quella ebraico-cristiana. Alla destra del presidente: come alla destra del Signore stanno i santi e gli eletti; la destra, ossia il lato, secondo Eschilo, del braccio che brandisce la lancia; il lato maschile di Adamo, secondo i commenti rabbinici che vedevano nel primo uomo un androgino; il lato divino e diurno, secondo i teologi medievali; il lato dei buoni presagi, dell’abilità e del successo, secondo gli indovini romani. E la sinistra? Si può notare come i suoi principali predicati simbolici si dispongano fondamentalmente in opposizione a quelli della destra: la sinistra è il lato dei dannati e dell’inferno, di Satana e della notte; il lato femminile di Adamo; il lato dei cattivi presagi e degli insuccessi: sinister è passato a significare, in alcune lingue tra cui la nostra, l’incidente o la sciagura. È questa «assonanza», questo aparentamiento che Fidel Castro, pochi giorni fa, ha fatto notare a Enrico Berlinguer. Ma non si tratta di assonanza, o di affinità etimologica; si tratta di correlazione simbolica - e il simbolico è molto più ampio del verbale, e per sbarazzarsene non basta dichiarare, come ha dichiarato Berlinguer, che la gente sa distinguere[ii].
Se infatti la destra siede alla destra del Presidente-Signore, nella piena luce del successo virile e legittimo, a sinistra si dispongono gli altri, la massa confusa e tenebrosa di coloro che dicono di no, di coloro che sono votati allo scacco o che nel loro essere testimoniano, come una piaga, di una debolezza femminea. Nell’ambito di una società patriarcale, non mi par dubbio che la sinistra abbia assunto simbolicamente il posto della manchevolezza, quando non del Male che eternamente si oppone al Bene, del Male che eternamente dà l’assalto al cielo e ne viene ricacciato...
Si dirà che di questa collocazione simbolica non vi è traccia in alcuna delle definizioni che la sinistra politica ha dato o cercato di se stessa, comprese quelle che in questi giorni molti di noi stanno cercando. Ma se nessuno, a quel che so, ha evocato la coppia simbolica a cui ho accennato, è la storia stessa della sinistra da un centinaio d’anni che testimonia come essa ne abbia incarnato uno dei termini nel modo più intenso e radicale. Quando Marx circolava ancora sotto le bandiere rosse delle grandi sfilate, probabilmente pochi tra le centinaia di migliaia sapevano che oltre al Marx del Capitale c’era il Marx che aveva parlato del «comunismo dell’invidia»[iii] - e che cos’è l’invidia se non l’attacco maligno, anzi l’attacco del Maligno al Bene che lo sovrasta al punto da accecarlo? Pochi lo sapevano, ma nelle loro lotte quotidiane e persino nei loro più intimi pensieri essi erano nelle file del popolo di Satana o, se volete, dal lato della parte mancante.
Ciò che questo popolo si proponeva risulta chiaro: era la tramutazione in valori di quei disvalori che la simbolica della destra continuamente espelle da sé. La debolezza espulsa dalla forza doveva diventare solidarietà comune e giustizia; la fragilità femminile davanti alla virilità fallica doveva tramutarsi in delicatezza e finezza; l’oscurità rispetto al giorno doveva acquistare profondità così come, rispetto al centro, doveva prevalere l’eccentrico e al posto dell’uomo riuscito doveva comparire lo spostato, lo sbagliato, il nuovo protagonista di una inedita uguaglianza.
Che questo tentativo di rivincita nel simbolico si trovi oggi davanti a una situazione di grave scacco, risulta mi pare evidente a ciascuno di noi. Ed è appunto la situazione odierna che ce ne offre ripetute conferme. Nel campo politico in senso stretto, la polarità sinistra-destra è andata perdendo via via la sua forza di tensione ed è ormai adibita in prevalenza a operazioni di localizzazione spaziale, per così dire, di ripartizione e classificazione dell’esistente. Di sinistra è perciò quel che viene fatto o avviene nell’ambito di uno spazio politico occupato da forze di sinistra. Ciò che prevale insomma è un’attività nomenclatoria essenzialmente tautologica: sinistra è sinistra è sinistra[iv]...
Il depotenziamento della polarità sinistra-destra avviene dunque attraverso una sua prevalente spazializzazione e la perdita dell’incisività temporale. La sinistra rimedia, lavora nel presente, non è più in grado di operare in un orizzonte più ampio e lontano. E la sua spazialità è immobile, definita, coartata. Un indizio di questa situazione è facilmente leggibile nel terrore della mobilità che di fatto, a vari livelli, e con risultati indubbiamente notevoli, ha contraddistinto in Italia l’azione delle forze politiche di sinistra negli ultimi anni.
Se usciamo dall’ambito della politica in senso stretto, ci accorgiamo di come lo scacco nel simbolico si manifesti essenzialmente come un regime di sdoppiamento nei rapporti sociali, interpersonali e, di sicuro, anche intrapersonali: mentre in profondo si fa avanti la simbolica tradizionale della destra, in superficie prevale un luogo comune di sinistra, talmente esteso da ricoprire settori tradizionalmente estranei se non ostili alla problematica della sinistra.
Potrei moltiplicare gli esempi, ma per non superare i limiti di un intervento concludo in tre punti, che mi sembrano essenziali:
1. Come operazione preliminare di ogni compito intellettuale significativo, propongo il non uso, esplicito e implicito, della polarità sinistra-destra. Attenzione! Non ne propongo l’abolizione, sarebbe assurdo, trattandosi appunto di una polarità nel simbolico. Ne propongo il non uso, perché ciò che si è svolto nell’ambito della sinistra si è disegnato quasi per intero dentro un negativo, un disvalore complessivo disegnato dalla destra e, entro questi limiti, si è concluso con uno scacco. L’impiego attuale è puramente locativo, detemporalizzato e quindi profondamente paralizzante.
2. In via del tutto provvisoria, propongo l’uso implicito e il privilegio, in ogni valutazione intellettuale, di qualcosa che si potrebbe chiamare creatività-generatività, contrapposta a non creatività e a non generatività. Sarà facile notare come il valore simbolico della creatività-generatività sia fondamentalmente estraneo alla coppia sinistra-destra, che è dominata dall’elemento della potenza virile e dalle varie opposizioni a essa. La creatività-generatività esorbita da quest’ambito e si pone come criterio valutativo di esso. Inoltre, e soprattutto, essa costituisce uno spostamento nel campo simbolico: parlo di spostamento, e non intendo una creazione velleitaria di uno o pochi individui, perché questa coppia simbolica è già o è già stata attiva in masse storiche recenti.
3. Per una riflessione intellettuale e non, propongo di esaminare la necessità tragica, in cui si è trovata finora gran parte della specie, di ricorrere a una serie di polarità in forte tensione, di dicotomie simboliche che, variando di sostanza e figura, hanno sempre svolto un ruolo fondamentale nella storia. Basterà pensare alla dicotomia fedele-infedele, credente-non credente nell’ambito religioso; oppure alla dicotomia razza eletta-razza reietta nel successo della propaganda hitleriana. Ed è caratteristico di queste polarità il loro spostarsi spesso, con sempre maggiore intensità e crudezza, ad ambiti via via più ristretti e selezionati. Ci basti qui pensare alle scissioni che hanno successivamente segmentato tutto l’ambito della sinistra politica. Ma tale tipo di polarizzazione non risparmia nessun campo culturale se è vero, come sosteneva Freud, che si potrebbero avere guerre in nome della scienza[v]. Vi è qui un ambito di ricerche che può estendersi dalla scissione detta schizoparanoide nel bambino che succhia il latte, secondo le ipotesi di Melanie Klein[vi], fino al manicheismo adulto, sicuro di sé e in apparenza correttamente razionale.
NOTE
[1] Cfr. E. Fachinelli, Che cosa chiede Edipo alla Sfinge?, In «Quaderni piacentini», aprile 1970 (subito tradotto in francese su «Topique»).
[2] Continua: «Di essa, la psicanalisi comunemente intesa è solo un momento parziale, limitato, anche se di grande fecondità. La sua prima linea di sviluppo, non l’unica, è in direzione dell’analisi della struttura familiare», E. Fachinelli, Il deserto e le fortezze (parte II), in «L’erba voglio», aprile 1972, poi ripreso col titolo Il paradosso delle ripetizione in Id., Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli, Milano 1974.
[3] Nell’accezione anche hegeliana («Vita è la connessione della connessione e della non-connessione») che da un punto di vista culturale Fachinelli integrò col concetto kierkegaardiano di Gjentagelse (cfr. S. Kierkegaard, La ripetizione, a cura di D. Borso, Guerini, Milano 1991).
[4] Il riferimento qui è a E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989.
[5] Pubblicata postuma da Sergio Benvenuto col titolo Sull’impossibile formazione degli analisti in Aa.Vv., La bottega dell’anima, a cura di S. Benvenuto e O. Nicolaus, F. Angeli, Milano 1990.
[6] S. Benvenuto, La «gioia eccessiva» di Elvio Fachinelli, in E. Fachinelli, Intorno al ’68, a cura di M. Conci e F. Marchioro, Massari, Bolsena 1998.
[7] E. Fachinelli, Un regalo? La realtà, su «L’Espresso» del 16 dicembre 1984. [i] «Lotta continua», 27 ottobre 1981. Comunicazione presentata al convegno Il concetto di sinistra, Roma, 20-22 ottobre 1981. (Poi in Aa.Vv., Il concetto di sinistra, Bompiani, Milano 1982, pp. 21-24.)
[ii] La visita all’Avana del segretario nazionale del PCI si svolse a inizio ottobre 1981.
[iii] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1949, p. 104: «L’idea di ogni proprietà privata come tale è rivolta contro la proprietà privata più ricca sotto forma di invidia e di tendenza al livellamento, tanto che questa stessa invidia e questa stessa tendenza al livellamento costituiscono l’essenza della concorrenza.Il comunista rozzo non è che il compimento di questa invidia e di questo livellamento».
[iv] Qui Fachinelli fa il verso a Rose is a rose is a rose is a rose di Gertrude Stein.
[v] Cfr. S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte (1915), in Id., Opere, cit., VIII.
[vi] Cfr. M. Klein, Invidia e gratitudine (1957), Martinelli, Firenze 1969.
Benjamin, un flâneur in biblioteca
In un saggio scritto nel 1931 il grande studioso racconta i suoi scaffali e soprattutto la sua passione per i libri Idee e consigli ancora validi nell’era degli ebook
di Paolo Mauri (la Repubblica, 01.06.2016)
Nel 1931 Walter Benjamin scrive un breve saggio che si intitola “La mia biblioteca”. A Benjamin interessa far luce sulla figura del collezionista, cioè, come subito ammette, di se stesso. «Avete già sentito parlare di persone che si sono ammalate per la perdita dei propri libri» continua. Già in “Infanzia berlinese” si era soffermato sulla sua storia di lettore: nel capitolo “Vecchi libri” ricorda appunto i volumi che gli passava il maestro a scuola e nel capitolo “Armadi” ecco il piccolo Benjamin, rimasto solo in casa, frugare prima nell’armadio della biancheria e poi proprio in quello dei libri. «Spalancavo i battenti, cercavo a tastoni il volume che non era allineato con gli altri, ma stava nascosto dietro, nel buio; lo sfogliavo febbrilmente fino a trovare la pagina dov’ero rimasto e, inchiodato sul posto, divorando le pagine davanti all’armadio spalancato, mi studiavo di trarre il massimo profitto dal tempo che mi separava dal ritorno dei miei. Di ciò che leggevo, nulla capivo. Voci di fantasmi, rintocchi di mezzanotte, anatemi...».
Non possiamo immaginare che cosa avrebbe detto Benjamin se avesse potuto squarciare il velo del futuro e vedere questa nostra epoca in cui tutti scrivono (e si scrivono) grazie a strumenti molto sofisticati e insieme di semplice gestione. Certo è che anche il libro come contenitore di scrittura è destinato sempre più a misurarsi con la scrittura che corre liquida in rete e in ogni computer. I nuovi mezzi di comunicazione si chiamano “social”, ma in realtà consentono di mettere in primo piano (esibire?) il proprio privato e di “spiare” quello altrui, esprimendo pareri in forma talvolta di stereotipato geroglifico.
Nel ricordare The Old Wives’ Tale, un romanzo di Arnold Bennett uscito per la prima volta venticinque anni prima, cioè agli inizi del Novecento (se ne parla in questo volumetto alla pagina 35), Benjamin apre il suo discorso all’insegna di Oscar Wilde. «Di Oscar Wilde si racconta che una volta si trovò in una cerchia di persone e che la conversazione era caduta sulla noia. Ciascuno aveva espresso una sua piccola sentenza; Wilde tacque sino alla fine. Lo guardarono impazienti per l’attesa. Allora disse: “Quando mi annoio, prendo un buon romanzo, mi siedo presso il fuoco del camino e lo osservo con attenzione” ». Spesso non ci si rende conto che il come (e il dove) si legge ha una sua notevole importanza. Non tutti oggi possono godere del fuoco del camino, metafora del calore che viene dalle vicende narrate nel romanzo stesso, anche se parla di morte e di destino.
Ma un libro è un oggetto che ha una sua perfezione. Come il cucchiaio, scrisse una volta Umberto Eco, intendendo dire che ci sono oggetti che si inventano una volta sola e durano per sempre. Robinson aveva con sé una Bibbia. Se avesse avuto un qualunque congegno elettronico, questo si sarebbe fatalmente scaricato e sarebbe in breve diventato inservibile. «Non c’è nulla di più bello che stare sdraiati su un sofà e leggere un romanzo» scrive Benjamin introducendo il suo discorso sul teatro epico di Brecht, che vede invece gli spettatori partecipare collettivamente a quanto accade in scena. Il fatto è che Benjamin si preoccupa di illuminare, come si è già detto, il futuro, dove l’opera d’arte si vale di tecniche riproduttive che permettono una sorta di creatività e fruizione collettiva. Rispetto a Benjamin noi viviamo già quel futuro e possiamo trarre qualche conclusione forse non del tutto provvisoria.
Benjamin ricorda che durante la rivoluzione del 1848 Dumas pubblicò un appello agli operai di Parigi in cui si presentava come un loro simile. In vent’anni, diceva, aveva scritto quattrocento romanzi e trentacinque drammi, aveva dato pane a 8160 persone: correttori e tipografi, macchinisti e guardarobiere, senza dimenticare neppure la claque.
È raro ma non impossibile che uno scrittore produca come una fabbrica: Balzac, Simenon, Wilbur Smith, Camilleri e tanti altri sono lì a dimostrarlo, e la tendenza dell’industria culturale è quella di arruolare scrittori prolifici nella fabbrica del bestseller, in una catena di montaggio che vede intrecciarsi autore, editore e pubblico senza più soluzione di continuità. Una scrittura originale e magari un po’ ostica è un vero tormento per il grande pubblico, e va decisamente controcorrente.
Per tornare all’immagine di Benjamin, quando erano in pochi a scrivere e in pochi a leggere il rapporto tra creazione e consumo era più semplice e diretto: chi scriveva somigliava a chi leggeva. E le biblioteche personali contenevano pochi libri fondamentali. In una società di massa può capitare che un lettore legga per tutta la vita senza mai incontrare un’opera degna di questo nome. In fondo non fa altro, questo ipotetico lettore, che adeguarsi al canone provvisorio che l’industria culturale prepara per lui giorno dopo giorno. Ma sull’industria culturale è già stato scritto tutto, nel bene e nel male. A mio parere, essendo produttrice di beni di consumo in grande quantità, è certamente una ricchezza per tutti, purché prima o poi si impari a consumare, così come si impara ad usare il cucchiaio stando a tavola. Tanto più il cucchiaio- libro.
Uno dei difetti dei pensatori troppo affascinati dai paradisi che verranno è quello di trascurare l’intervento diretto sul Presente, cercando di correggere quello che è possibile correggere. Per esempio, aiutati anche dal comportamento del mercato, possiamo pretendere che i libri, almeno in una certa misura, rimangano quello che sono da qualche secolo. Se ci piacciono così, perché dovremmo accettare l’idea che scompaiano? In fondo l’avvento delle automobili non ha eliminato le biciclette, dunque l’ebook può anche convivere a lungo con il libro di carta. E il piacere del testo di Roland Barthes si può incrociare con il piacere di leggere evocato da Benjamin.
«Come si spiega un grande successo editoriale?» si chiede Benjamin (il testo è qui alla pagina 43) ragionando non su un romanzo, ma su un libriccino dedicato alle erbe medicinali svizzere. Un manuale, insomma. «Al critico, cui i denti sono diventati traballanti dopo tanta pappa di romanzi, essi possono mostrare cosa ci vorrebbe ». Essi si basano infatti su una antica antitesi, quella tra luce e tenebre. Nel nostro caso si sta tra erbe ed erbacce, ma l’assunto è chiaro: bisogna saper toccare il cuore del problema, dove si nasconde la grande poesia.