Libro inchiesta
Un popolo così ignorante che non sa di esserlo
di Tomaso Montanari (il Fatto, 07.02.2013)
"Ho visto la scuola pubblica smantellata pezzo per pezzo, la ricerca agonizzare, l’università annichilirsi anno dopo anno. E, in parallelo, questo paese perdere grinta, ambizione, ridursi a una cartolina del passato in cui la cultura viene messa da parte in favore di non si sa bene quale scorciatoia... A una scuola pubblica peggiore può corrispondere solo un paese peggiore”. È intorno a questa lucidissima, terribile pagina di Silvia Avallone che Roberto Ippolito costruisce Ignoranti (Chiarelettere, da oggi in libreria).
Ignoranti non è un lamento, e non è stato scritto da un intellettuale fuori dal mondo: Ippolito è un giornalista economico ed un esperto in comunicazione, e il suo libro dimostra con i numeri e i dati di fatto quanto la constatazione della Avallone sia aderente alla realtà.
L’ITALIA è un paese di ignoranti. “Il 71 per cento della popolazione - scrive il linguista Tullio De Mauro, citato da Ippolito - si trova al di sotto del livello minimo di lettura e comprensione di un testo scritto in italiano di media difficoltà; il 5 per cento non è neppure in grado di decifrare lettere e cifre, un altro 33 per cento sa leggere ma riesce a decifrare solo testi di primo livello su una scala di cinque ed è a forte rischio di regressione nell’analfabetismo, un ulteriore 33 per cento si ferma a testi di secondo livello”. Se qualcuno si chiede come sia possibile che Silvio Berlusconi risalga nei sondaggi settimana dopo settimana grazie a promesse a cui possono credere solo gli analfabeti, ecco la risposta.
Il nesso tra corruzione della politica e ignoranza è fortissimo: “Nel parlamento italiano la percentuale di laureati è scesa dal 91,4 per cento della prima legislatura al 64,8 della quindicesima. Una flessione di 27 punti percentuali, in controtendenza con le altre democrazie: negli Stati Uniti i laureati al Congresso superano il 94 per cento”. E una politica analfabeta impone al Paese un futuro di analfabetismo: l’“attacco continuo alla scuola pubblica” (è il titolo di un paragrafo del libro) ha prodotto la scuola con l’età media degli insegnanti più alta d’Europa. L’89,3% ha più di quarant’anni, e i precari che li dovrebbero sostituire hanno esattamente quell’età media.
ANZIANI, dunque, e drammaticamente sottopagati: “gli stipendi dei docenti italiani sono diminuiti dell’1% tra 2000 e 2009” mentre “nel resto dei paesi Ocse sono aumentati mediamente del 7%”. Per non parlare delle scuole: edifici sporchi, inadeguati, pieni di topi: e nel paese con la retorica dell’infanzia più melensa e irritante del mondo, il 47,5 per cento delle scuole non ha un certificato di idoneità statica, e solo il 24,8 è stato sottoposto a verifica di vulnerabilità sismica.
E gli stessi ministri e presidenti del Consiglio che non hanno fatto assolutamente niente per migliorare la situazione, e anzi l’hanno aggravata con i dissennati tagli lineari (Francesco Profumo e Mario Monti in testa) saranno in prima linea ai funerali delle vittime del prossimo crollo scolastico.
Ma - fa notare Ippolito contro ogni retorica dell’antipolitica - la cultura non è solo “calpestata dalle istituzioni” (così si intitola un altro paragrafo), ma è come rigettata dalla stessa società. A partire dalla classe dirigente in senso più ampio: e Ippolito mette in fila alcuni degli strafalcioni dei giornalisti, della comunicazione ufficiale di Trenitalia, degli idolatrati giocatori di calcio (come non citare il “Rispetto l’omofobia” di Francesco Totti?). E non c’è da stupirsi: “il numero di lettori fra i dirigenti, gli imprenditori e i professionisti in Germania e Francia è grosso modo il doppio” che in Italia (i dati sono di Giovanni Solimine, L’Italia che legge, Laterza 2010).
Ed è devastante dover ammettere che l’intesa tra la politica e i cittadini è spesso giocata proprio sul condiviso sospetto per la cultura. Alessandra Mussolini ringhia che “il nonno ha fatto opere, mica libri”. Rispondendo a Massimo Giletti, Berlusconi ha detto che “Mario Monti è umanamente gradevole, ma è un professore”: una colpa irredimibile. E Matteo Renzi è ben avviato sulla stessa strada. Se deve spiegare che Dante è vivo, specifica che non è “noioso come la spiegazione di un professore arrugginito”.
UN PAESE che accetta e favorisce le differenze basate sul censo e sullo status ereditario, e dunque differenze contro il merito, ma mal sopporta invece l’idea che esista un’élite fondata sulla conoscenza e lo studio: “si è verificato uno scadimento complessivo, un inebetimento”, dice lo scrittore e insegnante Marco Lodoli. Il quale, tuttavia, sente che il vento sta cambiando: “Credo si apra una nuova stagione. Si avverte una diversa atmosfera culturale dopo che i ragazzi e gli adulti hanno vissuto in una specie di circo”.
È da qui che può innescarsi “la scossa possibile” che dà il titolo all’ultimo capitolo del bel libro di Ippolito: “L’Italia ignorante non è l’Italia che può prendere slancio. Non contrasta le diseguaglianze, non favorisce l’avanzamento sociale. Ma i tanti fermenti esistenti, i successi dei talenti italiani... dicono che il sapere può dare la scossa”.
E per invertire la rotta basterebbe ricordare che: “Tagliare il deficit riducendo gli investimenti nell’innovazione e nell’istruzione è come alleggerire un aereo troppo carico togliendo il motore”. In campagna elettorale tutti i nostri politici sarebbero pronti a sottoscrivere questa frase: per rimangiarsela, come sempre, nei fatti, già un minuto dopo la presa del potere. Chi l’ha detta, invece, l’ha anche messa in pratica: ma si chiama Barack Obama.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UNITA’ D’ITALIA E FOLLIA: EMERGENZA LOGICO-MATEMATICA. PER UN CONVEGNO E UNA RIFLESSIONE SUL CONCETTO DI ’UNITA’ E DI SOVRANITA’ (SOVRA-UNITA’). Materiali sul tema
La vita esemplare di Fabio Maniscalco, archeologo in trincea
di Tomaso Montanari (Nazione Indiana, 29 giugno 2016)
Oro dentro. Un archeologo in trincea: Bosnia, Albania, Kosovo, Medio Oriente è un libro che bisognava scrivere: Laura Sudiro e Giovanni Rispoli lo hanno fatto nel migliore dei modi. L’ ‘oro dentro’ del titolo è quello, metaforico, di chi ha il cuore abbastanza grande da spendere la propria vita per salvare un bene comune (proprio quel patrimonio culturale: e cioè la memoria e il futuro, di paesi in guerra). Ma è anche quello, purtroppo letterale, che l’uranio impoverito delle bombe Nato esplose in Kosovo ha fatto penetrare, insieme ad altri metalli, nel corpo in cui batteva quel cuore: fino a ucciderlo. Sono queste le due terribili facce della breve, ma meravigliosa, vita di Fabio Maniscalco.
Se questo Paese avesse ancora un servizio pubblico televisivo, la figura di Fabio (che non ho avuto la fortuna di incontrare di persona, ma che dopo aver letto questo libro mi sembra di conoscere da sempre) dovrebbe essere al centro di un racconto fatto di documentari, rigorose inchieste giornalistiche e (perché no?) anche di fiction capaci di far conoscere a tutti un italiano di cui essere, finalmente, fieri. Un italiano da cui imparare qualcosa.
Questo libro, d’altra parte, fa esattamente questo: anzi, fa qualcosa di più. È sempre raro (ma oggi è rarissimo) che un libro riesca a storicizzare la figura di un contemporaneo senza affogarla nella retorica, o senza ridursi ad un’inchiesta o ad una denuncia. Oro dentro, invece, ci riesce: è come se la materia della nostra vita quotidiana, la nostra cronaca, le nostre esistenze così seriali, simili, piccole e in fondo irrilevanti riuscissero qui ad apparire in una luce esemplare. Si arriva all’ultima pagina commossi, e profondamente turbati: ma soprattutto pieni di una fiducia rinnovata nelle possibilità di ognuno di noi.
Laura Sudiro e Giovanni Rispoli sono riusciti a trasmetterci il messaggio essenziale della vita di Fabio Maniscalco: e quel messaggio è che un singolo individuo può fare la differenza. Sempre: e - pensate! - perfino in Italia. Anche di fronte a sistemi corrotti e impermeabili (la nostra povera università), o ben decisi a non farsi cambiare (l’esercito): e perfino nel fuoco di terribili conflitti armati, mossi spesso da interessi imperscrutabili, giocati così in alto sopra le nostre teste.
Questo libro, dunque, fa quello che dovrebbero fare la scuola, o per l’appunto l’università: farci capire (quando siamo ancora in tempo) che la nostra vita è preziosa, importante. Forse essenziale. Può essere il granello che finalmente inceppa la macchina del sistema. Può essere quel millimetro in più che riesce a fare saltare lo stato delle cose. Può lasciare un segno. Può fare, davvero, la differenza.
Fabio cresce a Napoli, dove la progressiva distruzione del patrimonio artistico pare - come molte altre cose - fatale, irreversibile, immutabile. Se crolla un Lungarno nella mia Firenze (giustamente) il mondo tiene il fiato sospeso: ma se l’ennesima chiesa storica della Napoli in cui ho scelto di insegnare sprofonda nell’ennesima voragine, la notizia non arriva nemmeno al telegiornale regionale. Non inganni la propaganda di Pompei che rinasce e della Reggia di Caserta che risplende: chiunque vive in Campania conosce il vero stato delle cose.
Ma Fabio - che lo conosce come nessuno - non si arrende, e non si abitua: studia, invece. E non per fuggire: ma per cambiare le cose. A Napoli succede. C’è un bellissimo film (La seconda natura, di Marcello Sannino) che racconta l’esperienza di Gerardo Marotta e dell’Istituto di studi filosofici di Napoli. «La rivoluzione si fa studiando»: è questa la frase chiave del film. È questo l’unico modo di uscire dalla nostra condizione servile di uomini ad una sola dimensione - quella economica. L’unico modo di combattere e cambiare una classe dirigente dominata - dice Marotta - dalla «regina Ignoranza».
La voce profetica di Marotta e la testimonianza eroica di Fabio Maniscalco arrivano all’Italia e all’Europa dal luogo da cui meno te lo aspetteresti: dalla Campania, che lo stesso Marotta definisce la pattumiera d’Europa, una regione popolata di ombre, di condannati a morte. È da questa terra - per millenni la più bella e feconda d’Europa -, da questa terra oggi ridotta ad un pozzo di veleni, da questa terra che avrebbe bisogno di tutto, che si alzano queste voci: fragili, e insieme fortissime.
La sua voglia di riscatto spinge Fabio, dopo una laurea in archeologia alla Federico II, ad andare a difendere il patrimonio dove le condizioni sono ancora più estreme: ufficiale a Sarajevo, e poi nel Kosovo. Ed è impossibile non pensare che sia stata la fragilità di Napoli ad insegnare a Fabio l’amore per le fragilità ancora più radicali. A Napoli, uno come Fabio non diventa egoista. Anche se Fabio è tormentato da quello che gli autori chiamano «la spirale del precariato»: una delle abissali vergogne dell’Italia presente. Ma proprio qui, in Italia, Fabio scopre che non ci si salva da soli.
In compenso è da solo, a mani nude, che il tenente archeologo Fabio Maniscalco riesce a fare quello che nessuno Stato sovrano sembra interessato a praticare: attuare l’articolo 7 della Convenzione Internazionale dell’Aja del 1954, che prevede che ogni esercito abbia un nucleo specializzato nella tutela del patrimonio culturale. È un’idea semplice e rivoluzionaria: mettere la conoscenza, la cura, la tutela nell’occhio del ciclone dei conflitti. Frivolezze? Preoccupazioni delle anime belle? No: sacrosanta sollecitudine di chi sa che, passata la guerra, la ricostruzione morale e culturale sarà impossibile se non potrà basarsi su un patrimonio monumentale ancora vivo e condiviso. È la lezione dell’Italia del dopoguerra: e Fabio la ricorda.
Ma Fabio è uno dei pochissimi: sono temi davvero marginali nel discorso pubblico. E la pubblica opinione non ha strumenti per giudicare. Per esempio, i caschi blu dell’arte voluti dal ministro Franceschini e accolti dall’Unesco sono una soluzione, o sono solo l’ennesimo spot? Quanto avrei voluto leggere un editoriale di Fabio Maniscalco, per poterlo capire!
E intanto nessuno ne parla. Fa impressione ricordarlo oggi, di fronte alle devastazioni dei barbari del sedicente Stato Islamico, ma anche gli stati europei - anche l’Italia - hanno contribuito, direttamente o indirettamente, alla distruzione di un’enorme fetta del patrimonio culturale del Kosovo. Lo sappiamo? Esiste qualche organo di stampa che sia interessato a denunciarlo, a documentarlo, a ricordarlo? Pare di no.
Fabio Maniscalco lo sapeva, e per anni ha combattuto con tutte le sue forze: andando sul campo, documentando, fotografando, studiando, fondando osservatori, scrivendo ai governi, mobilitando la pubblica opinione. Un archeologo, uno studioso, un soldato: ma prima un cittadino. Un cittadino esemplare.
Dietro tutto questo c’era una convinzione profonda: lottare per il patrimonio, significa lottare per i diritti fondamentali, per la salute psichica e fisica delle persone. Anche questa è una lezione imparata a Napoli: il veleno nella terra e la distruzione dei monumenti sono due facce della stessa medaglia. Quando dalla terrazza della Reggia di Carditello, devastata fino a poco tempo fa dalle razzìe della Camorra, si alza lo sguardo verso la campagna si vede un turbine di gabbiani: che non segnala il mare, ma la discarica di Maruzzella, criminalmente realizzata su un terreno acquitrinoso in cui il percolato penetra fino alla falda, avvelenando i frutteti circostanti, e compromettendo per decenni la catena alimentare, e dunque l’uomo. In questa distruzione simultanea dell’ambiente, del paesaggio, e del patrimonio storico e artistico pare di scorgere davvero «il cadavere della patria» (per usare un’espressione che Raffaello adoperò per descrivere la Roma classica devastata dai pontefici medioevali), cioè il volto sfigurato dell’Italia.
Fabio Maniscalco l’aveva capito: la lunga guerra per l’ambiente (usiamo un’espressione di Elena Croce), la lunga guerra per il patrimonio culturale, è anche la guerra per la nostra salute fisica e mentale. Come in un mito antico e crudele, Fabio ha sperimentato questa intima unione sulla propria pelle, fino a morirne: non basta essergli grati, bisogna proseguire il suo lavoro.
Aver scritto questo libro è stato il primo passo per farlo. Ora tocca a noi.
Se il lavoro non c’è, perché andare a scuola?
di Giuseppe Caliceti (il manifesto, 8 febbraio 2013)
Perché si va a scuola? Per trovare un lavoro da grandi. Sì, certo, ma se poi da grandi il lavoro non c’è perché siamo in piena crisi del mercato del lavoro, andare a scuola, allora, cosa serve? Risposta: a niente. O meglio: a tenere buoni alunni e studenti. Possibile? Sembra proprio così.
Dunque, andiamo con ordine: negli ultimi venticinque anni si è fatta strada in Italia l’idea che la funzione principale dell’università e dell’intero sistema formativo sia fornire forza-lavoro al mondo del lavoro e dell’economia. Un’idea forte, che ha messo al centro dei processi educativi il concetto di formazione (a breve termine), mettendo nell’ombra quello di educazione (a lungo termine). È un’idea derivata dall’unione fondamentalmente economica dell’Europa. Che ha trovato diversi adepti anche tra pedagogisti e politici, non solo legati al centrodestra ma anche al centrosinistra. Potremmo chiamarla un’idea di politica scolastica di matrice neoliberista.
Anche il linguaggio dell’amministrazione scolastica è cambiato: si è parlato di scuola-azienda, con tutto ciò che questo comporta in termini didattici e pedagogici. Si sono ripetute parole d’ordine come meritocrazia, sorvolando sulla funzione sociale e di uguaglianza delle opportunità di un sistema scolastico statale. Si è provato in ogni modo a proporre test sulla qualità delle scuole e della formazione utili più a ricerche di mercato che a e nuove strategie educative; ricordiamoci sempre che l’Ocse che misura i nostri ragazzi è un organismo economico, non filosofico o pedagogico.
La domanda che pongo è questa: che fine fa la visione di un’università e di una scuola che hanno come stella polare quello di creare forza-lavoro nel tempo della crisi del mercato del lavoro? Dove magari, come accade in Italia, il cui tessuto economico è fatto in gran parte di piccole aziende semiartigianali, il laureato specializzato è meno attraente di un lavoratore non specializzato, magari d’origine straniera e a basso costo?
Non sono domande nuove: negli Stati Uniti e in Inghilterra, quel sistema scolastico anglosassone che noi oggi cerchiamo di replicare fuori tempo massimo in Italia, è già sotto accusa e si sta correndo ai ripari. Intanto il risultato delle cattive politiche scolastiche messe in atto dagli ultimi governi italiani ha portato ai primi cattivi frutti. Uno: la scuola primaria italiana che era prima per qualità in Europa nel 2008, dopo la controriforma Gelmini è precipitata in classifica. Due: oltre 50.000 immatricolazioni universitarie in meno negli ultimi dieci anni; che è assurdo attribuire solo al calo demografico.
Occorre riflettere, specie nel centrosinistra italiano, sulla visione di scuola e università che vogliamo. Magari rivalutando quella pedagogia popolare italiana del Novecento non togata, che va da Gianni Rodari a don Milani a Loris Malaguzzi, che parlavano più di educazione - permanente, civile, della persona - che di formazione temporanea. E che mettevano la scuola al centro della vita sociale e democratica di un Paese, come suo cuore pulsante, piuttosto che subordinarla acriticamente a un mercato o a ideologie.
Comunicato stampa di Domenico Pantaleo, Segretario generale della Federazione Lavoratori della Conoscenza CGIL. *
MIUR E MEF, ministeri dell’inefficienza e dell’arroganza
I Ministri dell’Istruzione e del Tesoro - pur Ministri tecnici - meritano senz’altro il titolo di Ministri dell’inefficienza e dell’arroganza.
Ministri dell’inefficienza perché, invece di predisporre i servizi informatici di trasmissione dati per il pagamento delle supplenze (il provvedimento che prevedeva ciò risale a luglio), ad oggi non hanno saputo fare di meglio che varare un sistema che non funziona mandando in tilt il lavoro delle scuole.
Ministri dell’inefficienza perché non hanno trovato di meglio che predisporre un sistema che programma il pagamento a ben due mesi di distanza dal lavoro svolto.
Ministri dell’inefficienza e dell’arroganza perché, con un puro atto amministrativo, unilaterale ed arbitrario, impongono la sottrazione dalle tasche dei lavoratori dei giorni di ferie maturati corrispondenti ai periodi di sospensioni delle lezioni a partire da gennaio e non da settembre 2013 (come prevede chiaramente la norma).
Il risultato, inaccettabile e inqualificabile, è che un gran numero di supplenti attende di essere pagato da novembre, il lavoro svolto sarà costantemente pagato dopo due mesi, ai lavoratori saranno ingiustamente sottratte delle risorse, anzitempo, in spregio della stessa legge. E le segreterie nel frattempo sono precipitate nel caos organizzativo.
La FLC CGIL diffida dal proseguire su questa linea.
Ogni azione, anche a carattere legale, a tutela dei supplenti e della dignità del lavoro delle scuole, e per il rispetto della legge, sarà messa in campo dalla nostra Organizzazione sindacale.
Lo smantellamento della scuola pubblica è un’amara realtà che interessa tutti gli ordini di scuola e un iter avviato da coloro che hanno reso l’ignoranza il caposaldo del loro agire politico. La risalita nei sondaggi di Berlusconi suggerisce il relativo livello culturale di una fetta della popolazione ed esplicita perché “Il nesso tra corruzione della politica e ignoranza è fortissimo”.
Montanari nel suo apprezzabile tentativo di evidenziare una situazione paradossale, dimentica tuttavia di riflettere sulle assurde equazioni derivanti da modelli culturali imposti e ritenuti validi secondo il principio A communi observantia non est recedendum, non allontanandosi dunque dall’opinione comune di una ristretta cerchia di “sapienti”. L’ignoranza è considerata nella sua accezione più semplice e riferita al sapere, riducendone così la portata ed escludendo quella èlite di intellettuali, che ne costituisce l’essenza.
L’affermazione “Nel parlamento italiano la percentuale di laureati è scesa dal 91,4 per cento della prima legislatura al 64,8 della quindicesima" perpetua un’equazione sbagliata: laurea = conoscenza e sminuisce il valore del contributo di chiunque. Berlusconi e Profumo hanno risolto qualche problema reale? La dottoressa Fornero è riuscita, in un solo colpo, a fare più danni di un bambino capriccioso. Si può essere ignoranti pur essendo laureati, gli esempi sono tantissimi. Il titolo non affranca dall’ignoranza e volendo considerare le lauree attuali si potrebbe aprire un’ampia discussione a tal proposito. Chi è abituato a sviscerare le questioni per esigenze di sopravvivenza, come molti italiani, anche se analfabeta, saprebbe sicuramente offrire un contributo valido alla soluzione di alcuni problemi del paese.
"Negli Stati Uniti i laureati al Congresso superano il 94 per cento”.
Non si può certo dire che gli Stati Uniti siano il vertice della "sapienza". Quella "cultura" posseduta dal 94 % del Congresso sembra sia stata usata per impacchettare una demo-crazia fasulla che non ha mai dimostrato di voler realizzare il potere del popolo. Come si può erigere a modello un paese che cura e istruisce solo chi è in grado di pagare, che non accetta le sentenze dei tribunali internazionali, che usa la guerra come strumento economico e dove vige ancora la pena di morte?
"Alessandra Mussolini ringhia che “il nonno ha fatto opere, mica libri”. Rispondendo a Massimo Giletti, Berlusconi ha detto che “Mario Monti è umanamente gradevole, ma è un professore”.
Seppur sarcastiche e pregne di ignoranza le due affermazioni evidenziano il bisogno di una dimensione terza che dia corpo al sapere e che in questo paese sembra essere diventata un tabù: il fare attraverso l’esperienza. Bisogna ammetterlo, i professori, soprattutto quelli universitari vivono perlopiù nell’iperuranio, dimentichi che la realtà è altrove e molto spesso non coincide con le loro fantastiche idee. Identificano il sapere con la conoscenza e lo perpetuano. Nel loro girovagare tra teorie e assiomi trascinano purtroppo, quando chiamati ad occupare importanti scranni, anche la popolazione. Chi è più ignorante tra colui che dall’alto del suo sapere determina, in maniera consapevole e sconsiderata, gli indirizzi politici, sociali ed economici di un paese e la popolazione che è costretta a fare esperienza di quell’ agire?
L’equazione titolo = sapere è vera solo se riferita alle nozioni e se applicata a quel principio vuoto che è la meritocrazia, ma diventa falsa quando le si attribuisce il valore di titolo = conoscenza.
Ci vuole ben altro per trasformare il sapere in CONOSCENZA: l’intenzione di conoscere, l’esperienza, il fare, la creatività, la relazione, la consapevolezza di chi sono io e come sono collegato a tutto il resto, la solidarietà. Ciò non si insegna a scuola e tantomeno nelle università. Interessante sarebbe introdurre una nuova equazione nella selezione di qualsiasi candidato: CONOSCENZA = funzione svolta, ben diverso dall’ipocrita meritocrazia basata sul sapere.
Purtroppo e ahimè la scuola tutta ha delle responsabilità per questo stato di cose. Il vulnus che ha contribuito a creare dovrebbe diventare il cuore di un dibattito nuovo teso a ridefinirne la funzione, il modello educativo, la didattica, l’organizzazione e le offerte formative. L’istituzione scolastica deve abbandonare il modello del sapere per abbracciare quello della CONOSCENZA che rende liberi e consapevoli. Solo in questo modo diventerà utile investire nell’istruzione, diversamente l’attuale “cimitero”, di professori, studenti, intellettuali e cittadini, continuerà ad espandersi.
Antonio C.