PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE. CARO PRESIDENTE NAPOLITANO, CREDO CHE SIA ORA DI FARE CHIAREZZA. PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI ...
Materiali sul tema (24.05.2012):
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
COSTITUZIONE ED EDUCAZIONE CIVICA. LA LEZIONE DI GAETANO FILANGIERI, IL PARTITO DI "FORZA ITALIA" E IL COLPO DI STATO DI SILVIO BERLUSCONI.
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI
L’ANNO DEL GIUDIZIO Il manifesto 27 gen 2017 |
"VICISTI, GALILAEE" (L’IMPERATORE GIULIANO): STORIA, METASTORIA, E LAVORI STORIOGRAFICI IN CORSO.
CULTURA E SOCIETA’. Alla luce dell’approssimarsi del 17mo #anniversario del I Concilio di Nicea (325 - 2025), guIdato dall’imperatore Costantino, FORSE, è BENE RICORDARE anche e unitariamente le "dimissioni" date dall’ultimo imperatore romano non cristiano, Flavius Claudius Julianus, ovvero Giuliano l’Apostata e riorganizzare e verificare le attuali "carte nautiche" per ben #navigare con il #PianetaTerra nell’#oceanoceleste, come da omaggio e "sollecitazioni" di #Keplero a #Galileo #Galilei (1611).
P. S. - SVEGLIARSI DAL #SONNO DOGMATICO (#KANT, 1724-2024). "GALILEO, HAI VINTO" ("VICISTI, GALILAEE"): PER KEPLERO (1611), LA VITTORIA DI GALILEO NON SOLO E’ SCIENTIFICA, MA E’ ANCHE LA VITTORIA "RELIGIOSA" DEL "GALILEO" ("CRISTO") - CONTRO LA CHIESA ATEA E DEVOTA ("APOSTATA") DELL’#EUROPA DEL #TEMPO! «This was sometime a paradox, but now the time gives it proof» (#Shakespeare, "#Amleto", III. 1).
Mattarella: "Costituzione, inno e bandiera i riferimenti che ci guidano"
Il Presidente nel messaggio per l’Unità d’Italia: "La Carta garantisce risorse per sfide complesse"
di Redazione ANSA (17 marzo 2023->https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2023/03/17/mattarella-costituzione-inno-e-bandiera-i-riferimenti-che-ci-guidano_c7b81537-523c-4aee-9fa1-81087ae76988.html])
ROMA. "Viviamo oggi, con il conflitto scatenato dalla Federazione Russa in territorio ucraino, un’aperta minaccia che ci impone una ferma risposta unitaria in seno alla comune identità europea e atlantica, affinché venga posta fine ai combattimenti e si raggiunga un duraturo accordo di pace".
Lo afferma il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in un messaggio in occasione dell’anniversario dell’Unità Nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera.
Con lui - tra gli altri - il presidente del Senato, Ignazio La Russa, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli e la presidente della Corte Costituzionale, Silvana Sciarra. Il capo dello Stato ha deposto una corona d’alloro sulla tomba del Milite Ignoto.
"La Repubblica, in innumerevoli prove e, da ultimo, durante la pandemia, ha confermato sentimenti di unità e coesione stringendosi ai valori costituzionali. Gli stessi che, ispirando la nostra società, garantiscono le risorse morali necessarie a fronteggiare le sfide complesse che la contemporaneità ci mette innanzi", afferma Mattarella nel messaggio.
"La Repubblica, in innumerevoli prove e, da ultimo, durante la pandemia, ha confermato sentimenti di unità e coesione stringendosi ai valori costituzionali. La Costituzione, l’Inno degli italiani e la Bandiera sono i riferimenti che ci guidano nell’impegno comune di consolidare un’Italia fondata su pace, libertà e diritti umani" prosegue il capo dello Stato.
"Celebriamo oggi - prosegue il Capo dello Stato - l’anniversario dell’Unità d’Italia, che è "Giornata dell’Unità Nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera". 162 anni fa, sotto il Tricolore, con i plebisciti popolari si espressero la sovranità e la volontà che, attraverso l’opera risorgimentale, avevano portato alla costituzione dello Stato italiano. Il primo pensiero va alle generazioni che hanno accompagnato questo traguardo, a quanti, con il loro operato, hanno contribuito alla nascita e alla crescita del nostro Paese, promuovendo quei valori di civile convivenza, quegli ideali di libertà e democrazia, di pace e di partecipazione allo Stato di diritto e alla comunità internazionale, che hanno trovato consacrazione nella nostra Costituzione. Viviamo oggi, con il conflitto scatenato dalla Federazione Russa in territorio ucraino, un’aperta minaccia a questi valori che ci impone una ferma risposta unitaria in seno alla comune identità europea e atlantica, affinché venga posta fine ai combattimenti e si raggiunga un duraturo accordo di pace". "La Repubblica - conclude Mattarella - in innumerevoli prove e, da ultimo, durante la pandemia, ha confermato sentimenti di unità e coesione stringendosi ai valori costituzionali. Gli stessi che, ispirando la nostra società, garantiscono le risorse morali necessarie a fronteggiare le sfide complesse che la contemporaneità ci mette innanzi. La Costituzione, l’Inno degli italiani e la Bandiera sono i riferimenti che ci guidano nell’impegno comune di consolidare un’Italia fondata su pace, libertà e diritti umani".
"Oggi l’Italia celebra la Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera, le fondamenta robuste sulle quali la nostra comunità si erge e dalle quali essa prende ispirazione". Lo afferma in una nota la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. "Il 17 marzo di 162 anni fa iniziava il cammino dell’Italia come Stato unitario e si realizzava l’auspicio di un giovane genovese, visionario e ribelle, come Goffredo Mameli: poter vedere gli italiani non più "calpesti e derisi" e "divisi", bensì raccolti in "un’unica bandiera". Il 17 marzo è la solennità nazionale più unificante che abbiamo e nel corso della quale quale siamo chiamati a ricordare le ragioni del nostro stare insieme. Perché, come ha spiegato Ernest Renan, la Nazione è una "grande solidarietà, un plebiscito che si rinnova ogni giorno e che si fonda sulla dimensione dei sacrifici compiuti e di quelli che ancora siamo disposti a compiere". Questa è la sfida che abbiamo davanti, è l’impegno che dobbiamo onorare ogni giorno: riannodare i fili di ciò che ci unisce e riscoprirci una comunità. Solo così possiamo liberare le migliori energie della Nazione e dimostrare che nessuna meta è preclusa all’Italia. Buon 17 marzo a tutti gli italiani!"
AGENZIA ANSA
FdI: speriamo di festeggiare l’unità d’Italia già il 17 marzo 2024 - Politica
Con la proposta di legge che chiede di istituire il 17 marzo come festa nazionale dell’unità d’Italia, Fratelli d’Italia spera che il 17 marzo del 2024 si possa già festeggiare. (ANSA)
Ruby ter, il caso è chiuso?
Nello Stato di diritto la verità processuale non coincide con la verità storica. La sentenza giudiziaria sul processo Ruby ter dunque non chiude ma riapre il giudizio storico, politico e morale sui fatti da cui quel processo nasce.
di IDA DOMINIJANNI (CRS - Centro per la Riforma dello Stato, 16 Febbraio 2023)
Lo Stato di diritto è Stato di diritto, e nel diritto la forma è sostanza. E dunque, se la sentenza di un tribunale invalida l’impianto di un processo per un consistente vizio di forma, bisogna prenderne atto non con rassegnazione ma con soddisfazione. La sentenza di primo grado del tribunale di Milano sul processo Ruby ter, quello in cui Berlusconi era imputato di corruzione delle testimoni e le testimoni erano accusate di falsa testimonianza, ha stabilito che “il fatto non sussiste” e dunque tutti vanno assolti, perché l’intero processo è costruito su un errore formale: le ragazze che partecipavano alle “cene eleganti” di Arcore non andavano trattate come testimoni, in quanto tali soggette all’obbligo di dire la verità, ma come indagate in procedimenti connessi, in quanto tali non soggette a quell’obbligo (e aventi diritto a un avvocato difensore). Il vizio formale non è da poco, l’accusa cade e la palla, nonché l’onere della prova, torna alla procura responsabile della costruzione dell’impianto processuale. Si vedrà in appello, se ricorso in appello ci sarà. Diversamente, il caso è chiuso?
Nello Stato di diritto, la verità processuale non coincide con la verità storica. Riguarda esclusivamente l’accertamento che un fatto costituisca o non costituisca un reato e che chi l’ha commesso sia o non sia colpevole; non riguarda il giudizio complessivo, politico e morale, su quel fatto e su chi l’ha commesso, il quale giudizio complessivo non spetta ai giudici e ai tribunali ma a tutti - l’opinione pubblica, la società, i testimoni dell’epoca in cui il fatto è accaduto, gli storici che lo valuteranno in futuro. La sentenza giudiziaria sul processo Ruby ter dunque non chiude ma riapre il giudizio storico, politico e morale sui fatti da cui quel processo nasce.
Così almeno dovrebbe essere in uno Stato di diritto che fosse riconosciuto e interiorizzato come tale dai suoi cittadini e dalla sua classe politica. Il che purtroppo non è il caso dell’Italia che fu (e resta) berlusconiana né di quella che fu (e resta) antiberlusconiana. La prima non si è mai rassegnata ad accettare che vita e politica, pur eccedendo il diritto, devono sottostare al controllo di legalità. La seconda non si è mai convinta che il berlusconismo andava (e va ancora) sconfitto nella politica e nella vita e non, o non solo, nelle aule dei tribunali. Sulla sentenza Ruby ter la farsa si ripete stancamente: assolto giudiziariamente, Berlusconi si sente indebitamente assolto anche politicamente dal sexgate mentre non lo è affatto, e il fronte antiberlusconiano si sente gabbato giudiziariamente mentre dovrebbe rilanciare politicamente il giudizio su quella stagione. Che però non è mai stato capace di inquadrare nelle sue dimensioni e nei suoi significati reali.
Il sexgate che per tre anni, dal 2009 al 2011, ha tenuto sotto sequestro la politica e l’immaginario collettivo di questo paese, compromettendone altresì la reputazione all’estero, non è stato solo una sequela di scandali sessuali - Noemi e Ruby, stuoli di escort, “cene eleganti” e bunga-bunga - aventi come protagonista un premier in carica uso a frequentazioni hard di giovani donne talvolta minorenni. È stata l’epifania di un sistema di scambio fra sesso, potere e danaro (prestazioni sessuali retribuite in contanti, regalie, appartamenti, comparsate televisive, in qualche caso candidature politiche), a sua volta emblematico del più complessivo sistema di potere e di conquista del consenso che ha assicurato a Silvio Berlusconi un’egemonia ventennale sul corpo e sull’anima della società italiana. Lo sfondamento del confine fra pubblico e privato, la trasgressione sistematica della norma, l’etica e l’estetica del godimento, l’ostentazione della ricchezza e l’idea che tutto sia comprabile, la percezione di un sé smisurato e onnipotente, il sodalizio fra potere politico personalizzato e servitù volontaria acquiescente: tutti questi pilastri del berlusconismo trovarono nel sexgate un concentrato, potenziato da una concezione drogata della virilità e da una concezione mercificata del corpo e della libertà femminili, entrambe capaci di sedurre l’immaginario nazionale ben aldilà dei confini politici ed elettorali del centrodestra.
La politicità del sexgate stava per l’appunto in questa sua emblematicità del sistema di potere a cui strappava la maschera. Ma proprio questa emblematicità, unita alla difficoltà di mettere a fuoco l’impatto sulla sfera pubblica di una materia incandescente come la sessualità, suscitò reazioni anch’esse emblematiche dei tic del bipolarismo politico: nel centrodestra - lesionato tuttavia proprio in quegli anni dalla rottura fra Berlusconi, Fini e una parte di An - l’arroccamento sulla trincea della difesa della “vita privata” del capo e delle sue pretese verità, compresa l’identità della “nipote di Mubarak” votata in Parlamento; nel centrosinistra, l’ondeggiamento fra moralismo e giustizialismo di fronte a un fatto che richiedeva un salto di cultura politica. Non per caso il meglio dell’analisi venne dalla cultura femminista e da quella psicoanalitica, più attrezzate a navigare ai confini fra personale e politico e fra razionalità, immaginario e inconscio che il sexgate domandava di attraversare. Fu soprattutto grazie ad alcune donne - per prima Veronica Lario, l’allora moglie del premier - che lo scandalo scoppiò, fu soprattutto grazie alle centinaia di migliaia di donne, scese in piazza in massa contro un regime intollerabilmente sessista, che si aprì una voragine nel consenso finallora solidissimo del Cavaliere. E fu soprattutto grazie alle donne, e ad alcuni uomini che seppero cogliere l’occasione per uscire a loro volta dai binari di un ruolo maschile prescritto, se il livello del dibattito pubblico si arricchì per alcuni mesi di argomenti, prospettive e punti di vista inimmaginabili nell’asfissia mediatica di prima e di dopo.
Oggi che l’assoluzione di Berlusconi fa tornare tutto nei ranghi prevedibili dello schiamazzo contro l’uso politico della giustizia da un lato e del rispetto per le sentenze giudiziarie senz’altro aggiungere dall’altro c’è da chiedersi che cosa sia rimasto, nella società e nella politica, di quella turbolenta ma feconda stagione che strappò il regime del dicibile e dell’indicibile. Poco o nulla, è la risposta. Sul piano politico, quando Berlusconi, indebolito dal sexgate, fu costretto dalla crisi dello spread a farsi da parte, la consegna dello scettro al governo tecnico di Mario Monti, voluta dall’alto e senza ricorso alle urne, segnò un cambio di stagione netto dal carnevale berlusconiano alla quaresima dell’austerity, ma senza una sepoltura simbolica del berlusconismo che il rito elettorale avrebbe almeno agevolato; e infatti Berlusconi, nel frattempo condannato per frode fiscale, è sempre lì, azzoppato, depotenziato e senz’aura, eppure convinto fino a un anno fa di poter conquistare il Quirinale.
Sul piano del rapporto fra i sessi, la spinta femminista è stata spuntata e assorbita a sinistra da un rivendicazionismo paritario e vittimista che non ha portato frutti, mentre a destra Giorgia Meloni - che all’epoca votò in Parlamento che sì, Ruby era la nipote di Mubarak, e che nella sua autobiografia liquida il sexgate come “una condotta privata di Berlusconi un po’ spregiudicata” - ha costruito la sua resistibile ascesa sull’orgoglio di essere donna sì, ma nell’inedita declinazione reazionaria della donna-madre, donna-nazione, donna-cristiana. E vale ricordare che quando, nel 2016 e sotto un Trump per tanti versi emulo di Berlusconi, il “me too” americano e mondiale portò all’attenzione della sfera pubblica globale un catalogo di questioni analogo a quello sollevato dal sexgate, nessuno nella sfera pubblica italiana si ricordò di quello che da noi era successo solo cinque anni prima.
Quanto alla qualità del dibattito pubblico, oggi si avvita più semplicemente sui baci fra Fedez e Rosa Chemical e sui monologhi moraleggianti delle co-conduttrici di Sanremo, sotto l’occhio censorio di una destra sicuramente più perbene e altrettanto sicuramente più illiberale di Berlusconi, che vede dappertutto nemici che l’assediano e dichiara ogni giorno una guerra culturale contro il fantasma di una sinistra che non c’è. Tocca dare ragione ancora una volta a Veronica Lario, che a un certo punto, durante il sexgate, si lasciò scappare che il peggio non era suo marito ma quello che sarebbe venuto dopo.
Il presidente Mattarella a Sanremo: colpaccio di Amadeus. C’è pure Benigni. La confessione di Chiara Ferragni
di Cinzia Marongiu, inviata a Sanremo *
Sanremo parte col botto perché all’Ariston arriva nientemeno che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ad annunciarlo è lo stesso Amadeus che trattiene a stento l’emozione quando annuncia il colpaccio tra gli applausi di tutta la sala stampa: “Ho il piacere e l’onore di annunciare che per la prima volta nella storia del festival stasera ci sarà il presidente Mattarella. E’ un segno importante di vicinanza al mondo dello spettacolo da parte del presidente".
Roberto Benigni farà uno show sulla Costituzione
Solo il tempo di prendere fiato ed ecco il secondo colpaccio: "Avere con noi Mattarella è l’occasione per celebrare il 75/o anniversario della Costituzione Italiana e non c’era modo migliore di farlo invitando Roberto Benigni". Insomma, un uno-due micidiale che lancerà gli ascolti di Sanremo verso nuovi record. E come se non bastasse questo è anche il giorno di miss 28 milioni e mezzo di followers, Chiara Ferragni. Si presenta vestita di rosso, i capelli raccolti con la coda e tanta semplicità ne raccontarsi.
L’applauso a Chiara Ferragni che racconta quando ha subito la violenza
Le domande dei giornalisti sono quasi tutte per lei che è un po’ un marziano al Festival visto che come spiega Gianni Morandi “tutti noi siamo abituati a vederla sul cellulare ma non in carne e ossa”. E Chiara si prende anche un applauso dai giornalisti. Succede proprio quando l’imprenditrice digitale più potente del mondo risponde alla domanda di Tiscali Spettacoli: la sua scelta di devolvere l’intero cachet sanremese a favore dell’associazione D.I.R.E. che lotta contro la violenza sulle donne infatti è stata motivata da un’ammissione, e cioè di essere stata lei stessa vittima di quella violenza, della forma più subdola perché più difficile da individuare e cioè la violenza psicologica. “Della violenza psicologica si parla in questi termini da troppo poco tempo. Io stessa l’ho capito a posteriori rispetto ad alcune relazioni che ho avuto nel passato. Tante volte mi sono trovata a pensare questa relazione non fa per me, però cercavo di dare delle motivazioni a degli atteggiamenti completamente sbagliati che non avrei mai dovuto accettare da parte del mio partner: eccessiva gelosia, possessività, il fatto di voler decidere per te ma anche solo il fatto di cercarti di farti sentire da meno. L’idea che tu non potevi spiccare il volo perché sennò il tuo compagno ci sarebbe rimasto male, si sarebbe sentito da meno. Mi è successo in diverse relazioni e poi a un certo punto ho capito che non funzionava questa relazione. Non ho mai pensato che si trattasse di violenza psicologica. Non avevo proprio le conoscenze adeguate per rendermi conto di che si trattava comunque di una forma di violenza. Un paio di anni fa su Instagram se ne è parlato per la prima volta di questo genere di violenza e si citavano alcuni degli atteggiamenti tipici di questo genere di violenza. A quel punto mi sono riconosciuta in tanti di quegli atteggiamenti e parlandone con le mie amiche e con gli affetti femminili che ho attorno ci siamo rese conto che è successo praticamente a tutte. È un fenomeno veramente diffuso. Succede a tutti quanti però non ce ne rendiamo conto. E continuiamo a giustificare certi atteggiamenti che invece vanno condannati.
La domanda di Tiscali e l’applauso per Chiara Ferragni
La Ferragni si è presentata con molta umiltà chiarendo di non essere certo nel suo ruolo: “Sono molto emozionata e molto onorata di essere qui. Non sono una conduttrice, non sono un’attrice: cercherò di portare me stessa e di mettercela tutta. Penso sarà un bello spettacolo”. All’invito di Gianni Morandi a cantare insieme, Ferragni però ha detto di no: "Ve lo risparmio. Se lo sapessi fare, lo avrei già fatto, ma davvero no". E poi rivolgendosi al direttore artistico: "Grazie Ama, di avermi voluta qua".
In realtà Amadeus l’avrebbe voluta anche negli anni scorsi, ma Ferragni aveva sempre declinato l’invito. “Mi si rompeva il cuore a dire no ad Ama ma il fatto è che non mi sentivo pronta. Poi Ama ha rivoluzionato il Festival, lo ha reso trasversale a tutti e ho pensato di doverne fare parte. Forse è il momento giusto per mettermi mentalmente in gioco”.
i retroscena della presenza di Mattarella all’Ariston
Intanto la notizia -bomba della presenza all’Ariston di Mattarella ha scatenato tantissima curiosità tra i giornalisti nel tentativo di capire come si sia giunti a questo risultato clamoroso. È Amadeus a rispondere: “Da tempo Lucio Presta e Giovanni Grasso, consigliere per la stampa e la comunicazione del Quirinale, lavoravano a questo risultato”. Poi è stato lo stesso Grasso a intervenire e a dare qualche dettaglio in più sulla presenza del presidente della Repubblica
"Quest’anno è il 75/o anniversario della Costituzione italiana, e il presidente ha già cominciato a partecipare a iniziative che riguardano questo anniversario, per esempio con il Giorno della Memoria. Ci sembrava giusto, visto che la Costituzione parla di promozione della cultura, un omaggio alla cultura, non solo quella alta, anche se non mi piacciono queste distinzioni, ma anche alla cultura popolare, e sicuramente Sanremo è il festival della cultura popolare. Il presidente sarà accompagnato dalla figlia Laura e tornerà stanotte stessa a Roma”. Non è prevista dalla scaletta nessuna interazione con Mattarella. Ma Roberto Benigni potrà rinunciare dal cercare di travolgerlo con il suo irrefrenabile entusiasmo?”.
Il giallo Anna Oxa
Si è parlato anche dell’assenza sul green carpet di Anna Oxa, unica tra gli artisti in gara a non percorrere il tappeto di prato davanti all’Ariston per la consueta sfilata collettiva. A chiarire il giallo è lo stesso Amadeus: “Anna Oxa non è stata bene. Credo abbia avuto la febbre, ha preso l’antibiotico per dirla tutta. Il suo timore era quello di stare all’aperto e ieri non faceva proprio caldo".
* Fonte: Tiscali, 7 febbraio 2023 (ripresa parziale, senza allegati).
ITALIA 1922-2022.
ITALIA 1922-2022. Che storia! E che storiografia! E che scuola! E che educazione civica e linguistica... Ma dove sta la logica e il diritto? E la filologia? A quando un bel convegno costituzionale sulla #mistica del PNF, del Partito Nazionale Fascista?!
Quando si parlerà dell’universalismo sovranista 1 (una parte che si è fatto Partito della Nazione e continua a cantare: forza...Italia) e dell’universalismo sovranista 2 (una parte che si è fatto Partito della Nazione e continua a cantare l’Inno della Nazione: fratelli di ...Italia)?
Ancora "Avanti, o popolo"!?
Cosa si aspetta la fine della storia? Ma la #critica del "platonismo per il popolo" non ha con-vinto e il #muro non è crollato?! Era solo una illusione?!
Forse è meglio uscire dal #letargo (Par. XXXIII, 94) .... e riattivare la #memoria: la rivoluzione copernicana è iniziata da tempo (1543) e il "Crepuscolo degli idoli" (1889), come l’ "Interpretazione dei sogni! (1899), è già stato scritto!
Federico La Sala
FILOLOGIA E STORIOGRAFIA DELLA STORIA D’ITALIA E "LA GENTE DALLA DOPPIA TESTA" (PARMENIDE).
DI COSA PARLANO GLI STORICI E LE STORICHE DELL’ITALIA QUANDO PARLANO E SCRIVONO DI STORIA D’ITALIA?
Parlano di "Dio" o di Dio, di "Patria" o di Patria, di "Famiglia" o di Famiglia? Siamo fratelli tutti, ma di quale famiglia, di quale patria e di quale Dio - quello di Italia o di "Italia"?
Archeologia, Antropologia, Giustizia, e Costituzione: "Homo pontifex" (MichelSerres). Per uscire dall’orizzonte del mentitore, forse, è opportuno ritornare a Elea e rivisitare la città di Parmenide e Zenone: la cosiddetta "Porta Rosa" non è affatto una "porta", ma è un viadotto, un ponte...
Il discorso della senatrice a vita Liliana Segre
L’apertura della seduta a Palazzo Madama per il voto del presidente
di Redazione Ansa*
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Ecco il testo del discorso della senatrice a vita Liliana Segre che ha aperto a Palazzo Madama la seduta per il voto del presidente
Colleghe Senatrici, Colleghi Senatori,
rivolgo il più caloroso saluto al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e a quest’Aula. Con rispetto, rivolgo il mio pensiero a Papa Francesco.
Certa di interpretare i sentimenti di tutta l’Assemblea, desidero indirizzare al Presidente Emerito Giorgio Napolitano, che non ha potuto presiedere la seduta odierna, i più fervidi auguri e la speranza di vederlo ritornare presto ristabilito in Senato.
Il Presidente Napolitano mi incarica di condividere con voi queste sue parole: “Desidero esprimere a tutte le senatrici ed i senatori, di vecchia e nuova nomina, i migliori auguri di buon lavoro, al servizio esclusivo del nostro Paese e dell’istituzione parlamentare ai quali ho dedicato larga parte della mia vita”.
Rivolgo ovviamente anch’io un saluto particolarmente caloroso a tutte le nuove Colleghe e a tutti i nuovi Colleghi, che immagino sopraffatti dal pensiero della responsabilità che li attende e dalla austera solennità di quest’aula, così come fu per me quando vi entrai per la prima volta in punta di piedi.
Come da consuetudine vorrei però anche esprimere alcune brevi considerazioni personali.
Incombe su tutti noi in queste settimane l’atmosfera agghiacciante della guerra tornata nella nostra Europa, vicino a noi, con tutto il suo carico di morte, distruzione, crudeltà, terrore...una follia senza fine.
Mi unisco alle parole puntuali del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “la pace è urgente e necessaria. La via per ricostruirla passa da un ristabilimento della verità, del diritto internazionale, della libertà del popolo ucraino”.
Oggi sono particolarmente emozionata di fronte al ruolo che in questa giornata la sorte mi riserva.
In questo mese di ottobre nel quale cade il centenario della Marcia su Roma, che dette inizio alla dittatura fascista, tocca proprio ad una come me assumere momentaneamente la presidenza di questo tempio della democrazia che è il Senato della Repubblica.
Ed il valore simbolico di questa circostanza casuale si amplifica nella mia mente perché, vedete, ai miei tempi la scuola iniziava in ottobre; ed è impossibile per me non provare una sorta di vertigine ricordando che quella stessa bambina che in un giorno come questo del 1938, sconsolata e smarrita, fu costretta dalle leggi razziste a lasciare vuoto il suo banco delle scuole elementari, oggi si trova per uno strano destino addirittura sul banco più prestigioso del Senato!
Il Senato della diciannovesima legislatura è un’istituzione profondamente rinnovata, non solo negli equilibri politici e nelle persone degli eletti, non solo perché per la prima volta hanno potuto votare anche per questa Camera i giovani dai 18 ai 25 anni, ma soprattutto perché per la prima volta gli eletti sono ridotti a 200.
L’appartenenza ad un così rarefatto consesso non può che accrescere in tutti noi la consapevolezza che il Paese ci guarda, che grandi sono le nostre responsabilità ma al tempo stesso grandi le opportunità di dare l’esempio.
Dare l’esempio non vuol dire solo fare il nostro semplice dovere, cioè adempiere al nostro ufficio con “disciplina e onore”, impegnarsi per servire le istituzioni e non per servirsi di esse.
Potremmo anche concederci il piacere di lasciare fuori da questa assemblea la politica urlata, che tanto ha contribuito a far crescere la disaffezione dal voto, interpretando invece una politica “alta” e nobile, che senza nulla togliere alla fermezza dei diversi convincimenti, dia prova di rispetto per gli avversari, si apra sinceramente all’ascolto, si esprima con gentilezza, perfino con mitezza.
Le elezioni del 25 settembre hanno visto, come è giusto che sia, una vivace competizione tra i diversi schieramenti che hanno presentato al Paese programmi alternativi e visioni spesso contrapposte. E il popolo ha deciso.
È l’essenza della democrazia.
La maggioranza uscita dalle urne ha il diritto-dovere di governare; le minoranze hanno il compito altrettanto fondamentale di fare opposizione. Comune a tutti deve essere l’imperativo di preservare le Istituzioni della Repubblica, che sono di tutti, che non sono proprietà di nessuno, che devono operare nell’interesse del Paese, che devono garantire tutte le parti.
Le grandi democrazie mature dimostrano di essere tali se, al di sopra delle divisioni partitiche e dell’esercizio dei diversi ruoli, sanno ritrovarsi unite in un nucleo essenziale di valori condivisi, di istituzioni rispettate, di emblemi riconosciuti.
In Italia il principale ancoraggio attorno al quale deve manifestarsi l’unità del nostro popolo è la Costituzione Repubblicana, che come disse Piero Calamandrei non è un pezzo di carta, ma è il testamento di 100.000 morti caduti nella lunga lotta per la libertà; una lotta che non inizia nel settembre del 1943 ma che vede idealmente come capofila Giacomo Matteotti.
Il popolo italiano ha sempre dimostrato un grande attaccamento alla sua Costituzione, l’ha sempre sentita amica.
In ogni occasione in cui sono stati interpellati, i cittadini hanno sempre scelto di difenderla, perché da essa si sono sentiti difesi.
E anche quando il Parlamento non ha saputo rispondere alla richiesta di intervenire su normative non conformi ai principi costituzionali - e purtroppo questo è accaduto spesso - la nostra Carta fondamentale ha consentito comunque alla Corte Costituzionale ed alla magistratura di svolgere un prezioso lavoro di applicazione giurisprudenziale, facendo sempre evolvere il diritto.
Naturalmente anche la Costituzione è perfettibile e può essere emendata (come essa stessa prevede all’art. 138), ma consentitemi di osservare che se le energie che da decenni vengono spese per cambiare la Costituzione - peraltro con risultati modesti e talora peggiorativi - fossero state invece impiegate per attuarla, il nostro sarebbe un Paese più giusto e anche più felice.
Il pensiero corre inevitabilmente all’art. 3, nel quale i padri e le madri costituenti non si accontentarono di bandire quelle discriminazioni basate su “sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali”, che erano state l’essenza dell’ancien regime.
Essi vollero anche lasciare un compito perpetuo alla “Repubblica”: “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Non è poesia e non è utopia: è la stella polare che dovrebbe guidarci tutti, anche se abbiamo programmi diversi per seguirla: rimuovere quegli ostacoli !
Le grandi nazioni, poi, dimostrano di essere tali anche riconoscendosi coralmente nelle festività civili, ritrovandosi affratellate attorno alle ricorrenze scolpite nel grande libro della storia patria.
Perché non dovrebbe essere così anche per il popolo italiano? Perché mai dovrebbero essere vissute come date “divisive”, anziché con autentico spirito repubblicano, il 25 Aprile festa della Liberazione, il 1° Maggio festa del lavoro, il 2 Giugno festa della Repubblica?
Anche su questo tema della piena condivisione delle feste nazionali, delle date che scandiscono un patto tra le generazioni, tra memoria e futuro, grande potrebbe essere il valore dell’esempio, di gesti nuovi e magari inattesi.
Altro terreno sul quale è auspicabile il superamento degli steccati e l’assunzione di una comune responsabilità è quello della lotta contro la diffusione del linguaggio dell’odio, contro l’imbarbarimento del dibattito pubblico, contro la violenza dei pregiudizi e delle discriminazioni.
Permettetemi di ricordare un precedente virtuoso: nella passata legislatura i lavori della “Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza” si sono conclusi con l’approvazione all’unanimità di un documento di indirizzo. Segno di una consapevolezza e di una volontà trasversali agli schieramenti politici, che è essenziale permangano.
Concludo con due auspici.
Mi auguro che la nuova legislatura veda un impegno concorde di tutti i membri di questa assemblea per tenere alto il prestigio del Senato, tutelare in modo sostanziale le sue prerogative, riaffermare nei fatti e non a parole la centralità del Parlamento.
Da molto tempo viene lamentata da più parti una deriva, una mortificazione del ruolo del potere legislativo a causa dell’abuso della decretazione d’urgenza e del ricorso al voto di fiducia. E le gravi emergenze che hanno caratterizzato gli ultimi anni non potevano che aggravare la tendenza.
Nella mia ingenuità di madre di famiglia, ma anche secondo un mio fermo convincimento, credo che occorra interrompere la lunga serie di errori del passato e per questo basterebbe che la maggioranza si ricordasse degli abusi che denunciava da parte dei governi quando era minoranza, e che le minoranze si ricordassero degli eccessi che imputavano alle opposizioni quando erano loro a governare.
Una sana e leale collaborazione istituzionale, senza nulla togliere alla fisiologica distinzione dei ruoli, consentirebbe di riportare la gran parte della produzione legislativa nel suo alveo naturale, garantendo al tempo stesso tempi certi per le votazioni.
Auspico, infine, che tutto il Parlamento, con unità di intenti, sappia mettere in campo in collaborazione col Governo un impegno straordinario e urgentissimo per rispondere al grido di dolore che giunge da tante famiglie e da tante imprese che si dibattono sotto i colpi dell’inflazione e dell’eccezionale impennata dei costi dell’energia, che vedono un futuro nero, che temono che diseguaglianze e ingiustizie si dilatino ulteriormente anziché ridursi. In questo senso avremo sempre al nostro fianco l’Unione Europea con i suoi valori e la concreta solidarietà di cui si è mostrata capace negli ultimi anni di grave crisi sanitaria e sociale.
Non c’è un momento da perdere: dalle istituzioni democratiche deve venire il segnale chiaro che nessuno verrà lasciato solo, prima che la paura e la rabbia possano raggiungere i livelli di guardia e tracimare.
Senatrici e Senatori, cari Colleghi, buon lavoro!
* Fonte: ANSA, 13 ottobre 2022 (ripresa parziale, senza immagini).
Intervista. Gerardo Bianco: elezione del capo dello Stato? Rischio svolta autoritaria
L’ex ministro Dc sulla proposta del centrodestra: presidenzialismo stravolge la Costituzione. Serve un risveglio dei cattolici, le parole del Papa in Canada erano rivolte a noi
di Angelo Picariello (Avvenire, martedì 2 agosto 2022)
«Il presidenziasmo? Sarebbe uno stravolgimento della Costituzione. In nome del populismo si seppellisce la nostra democrazia parlamentare, e potrebbe diventare l’avvio di una svolta autoritaria». Gerardo Bianco, passati i 90 anni, dedica la sua vita alla lettura e a tenersi informato. Nella gloriosa Dc è stato tante cose (capogruppo alla Camera più volte, ministro della Pubblica istruzione) e poi è stato segretario del Partito popolare.
Considerato uno degli storiografi più autorevoli di questa cultura politica, oggi ai margini dalle proposte politiche che vanno per la maggiore, si dice preoccupato per una «carenza di consapevolezza » che registra fra i cattolici, una sorta di mix di delusione e diserzione. -Il suo ragionamento parte da lontano. Da quello che il Papa ha inteso dirci con la sua visita in Canada: «Al di là della rappresentazione mediatica poco più che folkloristica, essa è stata un rivolgersi a noi, come San Paolo ai Colossesi, un invito a tutto l’Occidente a non smarrire sé stesso. Proprio la nostra crisi di identità ha consentito a Putin di scatenare la sua offensiva, un tentativo di disgregazione in atto che è di carattere culturale prima che bellico».
E questo c’entra con la campagna elettorale?
C’entra eccome, perché nei confronti di un popolo che sembra aver smarrito la sua identità la politica rispolvera il vecchio motto latino panem et cicencences, con proposte prive di una visione solidale, d’insieme, volte solo a catturare fasce di consenso sociale. La tradizione politica dei cattolici è un’altra cosa, non può nemmeno rifugiarsi in un’acritica idolatria del Pil, mentre ancora una volta il Papa ci sollecita a superare un consumismo sfrenato, indifferente al futuro del pianeta.
Che cosa occorre invece?
Serve un risveglio dei cattolici. Una nuova presa di coscienza. I grandi assenti sono i temi delle ultime Settimane sociali, delle grandi encicliche. Manca una vera consapevolezza del ruolo svolto dai cattolici nell’unità d’Italia, e nella promozione del progetto europeo.
Forse un momento così difficile lo si può paragonare solo al primo dopoguerra e agli anni di piombo.
Quella uscita dalla guerra era un’Italia poverissima, che seppe aprire una prospettiva di crescita, non basata su un’idea di benessere per il benessere, ma sulla sua forza morale. Penso al ruolo, umile ma dignitoso, svolto sul piano internazionale da De Gasperi nell’opera di ricostruzione; penso al sacrificio di Moro e al suo insegnamento negli anni di piombo, ma penso soprattutto al ruolo svolto da grandi costituenti come Dossetti, La Pira, Mortati, Fanfani, lo stesso Moro. Che seppero imprimere alla nostra Carta costituzionale il principio della centralità della persona umana. E ai movimenti anti-sistema seppero opporre la centralità dei corpi intermedi, un concetto di cui vedo scarsa consapevolezza, anche fra i cattolici.
Ma il problema della governabilità richiede, e non da oggi, una riforma delle istituzioni.
Se l’obiettivo fosse davvero questo sono altre le proposte da prendere in esame: ad esempio il modello del cancel-lierato, molto più compatibile con il nostro impianto costituzionale, e la sfiducia costruttiva, che imporrebbe a chi mette in crisi un governo di indicare contemporaneamente una soluzione alternativa.
E il presidenzialismo?
Si muove in tutt’altra direzione, mira proprio al superamento dei corpi intermedi su cui si basa il nostro assetto istituzionale. Un concetto mutuato dalla Dottrina sociale cristiana, richiamato già dalla Rerum novarum, di cui pochi si ricordano, in diretto collegamento alla centralità della persona umana che in questi organismi sviluppa la sua libertà, anche in nome del principio di sussidiarietà inserito nella nostra Carta costituzionale. Si vorrebbe ora passare a un modello, il presidenzialismo, che ha mostrato ovunque i suoi limiti: lo si è visto negli Usa, ma nell’America del Sud è stata la strada che ha aperto a una deriva istituzionale gravissima, che pari pari rischia di ripetersi in Italia.
Il centrodestra ha vinto già altre volte, in Italia.
Stavolta a vincere non sarebbe il centrodestra, ma la destra. E il vero rischio che vedo è lo stravolgimento della Costituzione, se avesse i numeri per poterlo fare da sola.
A sinistra quali rischi vede, invece?
Vedo il rischio del riproposi di modelli ormai superati, che hanno poco a che vedere con un’impostazione come la nostra. Mentre trovo giusto, invece, che essa porti alla luce le istanze dei ceti più deboli, come è naturale che altre forze portino avanti soprattutto quelle dei ceti produttivi. Poi toccherebbe a noi, come cattolici, il favorire - in nome del bene comune - che si tenga conto di tutti i fattori in gioco, senza idolatrare nessuna ideologia o classe sociale. Ma perché ciò avvenga c’è bisogno di una nuova presenza, e di un nuovo protagonismo, da mettere in campo.
IL PROBLEMA DELL’UNO (DELL’ONU) E DEI MOLTI: USCIRE DAL LETARGO.
PARMENIDE, IL PONTE DI ELEA, E LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA.
"IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS": UNA QUESTIONE LOGICA EPOCALE...
Costituzione e Società. Se in una Repubblica democratica (dove "tutti i giornali sono uguali" o "tutti i partiti sono uguali") viene fondato e registrato un giornale (o un partito) con un Nome più "uguale degli altri giornali" o, anche, "più uguale degli altri partiti" (es. "La Repubblica", "La Nazione", "La Verità", ecc.), già #solo il Nome non dice qualcosa di ermetico del programma comunicativo o politico di un tale giornale o di un tale partito?
Filosofia e ... Archeologia. "Cum grano salis", una domanda: ma non c’è un vizio logico-politico e psicoanalitico nel mettersi dietro lo scudo di un giornale battezzato "la Repubblica" (!) e raccontare a chi legge la storiella che la propria porta (in senso spaziale e figurato), attraverso cui passa l’acqua di un fiume di opinioni, sia il ponte repubblicano e costituzionale che permette di attraversarlo?
Non è meglio ritornare a Elea-Velia (da Parmenide e Zenone), seguire le inDICazioni della Giustizia (DIKe). e riprendere il cammino sul viadotto, sul ponte della cosiddetta "Porta Rosa" (https://it.wikipedia.org/wiki/Porta_Rosa)?
Federico La Sala
Quirinale, Mattarella rieletto presidente della Repubblica
Letta: ’Ha fatto una scelta di generosità’. Draghi: ’E’ opportuno per il bene e la stabilità del Paese’
di Redazione ANSA *
Sergio Mattarella è stato rieletto presidente della Repubblica con 759 voti su un totale di 983 presenti e votanti.
Non supera dunque il record registrato da Pertini che fu eletto con 832 voti ma diventa il secondo capo dello Stato più votato.
Ciampi infatti fu eletto con 707 voti. Nel 2015 Mattarella ottenne 665 voti su un totale di 995 grandi elettori votanti.
Dopo il raggiungimento del quorum della maggioranza assoluta è scattato in Aula l’applauso durato quattro minuti.
"La rielezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica è una splendida notizia per gli italiani. Sono grato al Presidente per la sua scelta di assecondare la fortissima volontà del Parlamento di rieleggerlo per un secondo mandato". Così il presidente del Consiglio Mario Draghi.
"Avevo altri piani ma io sono rispettoso del Parlamento", ha detto il presidente confermando il suo sì dopo l’intesa raggiunta in un vertice di maggioranza sul suo nome.
Il capo dello Stato dovrebbe fare un breve discorso dopo la proclamazione.
Da Sergio Mattarella "una scelta di generosità", ha detto il leader del Pd Enrico Letta. Il governo e Draghi, ha aggiunto "ne escono rafforzati". La richiesta di convergere su una Presidente donna, "per noi non era una mera formalità ma una battaglia vera tant’è che nel tavolo del negoziato alla fine sono rimaste due canditure di donne di assoluta eccellenza, profilo e competenza" Così il Presidente M5s Giuseppe Conte in conferenza stampa dove aggiunge: "sulla possibilità di avere una Presidente donna, non ha perso Conte o la comunità M5s ha perso il Paese. Questo senza nulla togliere al fatto che ci accingiamo a questa votazione per sostentere Mattarella per un nuovo settennato ".
"Con Draghi ho chiesto un chiarimento: non possiamo limitarci ad assicurare la stabilità del governo, dobbiamo essere promotori di un confronto per siglare un patto per i cittadini nell’ambito del quale individuare quali possano essere le priorità" per il Paese.
"Sono felice che Mattarella abbia accettato con senso di responsabilità l’intenzione del Parlamento di indicarlo alla presidenza della Repubblica. Dimissioni? Per affrontare questa nuova fase serve una messa a punto: il Governo con la sua maggioranza adotti un nuovo tipo di metodo di lavoro che ci permetta di affrontare in maniera costruttiva i tanti dossier, anche divisi, per non trasformare quest’anno in una lunghissima, dannosa campagna elettorale che non serve al paese". Così il ministro dello sviluppo Giancarlo Giorgetti al termine di un incontro con il segretario delle Lega Salvini. I due hanno chiesto un incontro a Draghi. "Sono felice che la Lega sia stata protagonista della chiusura di questa settimana di veti e conto che da lunedì in un incontro a tre Draghi-Giorgetti-Salvini ci siano tutti i chiarimenti necessari". Così il leader della Lega Matteo Salvini. "Sono sollevato perchè si rischiava di andare avanti tra veti litigi e beghe. E sono tranquillo ho fatto tutte le proposte possibili, soprattutto sul fronte femminile". "Domani il parlamento torna a fare il Parlamento, il governo fa il governo: serve normalità. I litigi di questi giorni sul Colle non si riversino sul governo".
Mattarella "ha riconosciuto che vi sarebbe stata la possibilità di eleggere personalità di alto livello ma ha ancora una volta ribadito il profondo senso delle istituzioni che lo ha pervaso e ci ha detto che farà del suo meglio". Lo dice Debora Serracchiani in conferenza stampa dopo l’incontro al Colle. Simona Malpezzi, capogruppo Pd al Senato, aggiunge: "Mattarella è un uomo delle istituzioni: ci ha accolto, ascoltato e ha accolto le istanze di un Parlamento che ha raccolto a sua volta le istanze di un Paese, con la sua solita capacità di comprendere i momenti che il Paese sta vivendo".
E’ opportuno che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella resti al Quirinale "per il bene e la stabilità del Paese". E’ quanto avrebbe detto il premier Mario Draghi - si apprende da fonti autorevoli - al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e ai leader politici, che sta sentendo in queste ore. La decisione è nelle mani del Parlamento, è la consapevolezza del premier, ma l’auspicio espresso ai leader sarebbe quello di garantire la stabilità chiedendo a Mattarella di restare.
Oggi Draghi ha avuto un colloquio di circa mezz’ora con il presidente Mattarella, a margine del giuramento di Filippo Patroni Griffi a giudice della Corte Costituzionale. Si è anche avuta notizia anche di una telefonata fra Salvini e Draghi.
"Oggi pomeriggio rieleggeremo un grande presidente. #Mattarella #Quirinale". Lo scrive su Twitter il senatore Pd Andrea Marcucci. "Si può andare finalmente verso la chiusura. In questi minuti si stanno creando le condizioni trasversali per recepire i chiari segnali del Parlamento. Non perdiamo altro tempo, serve stabilità". E’ quanto scrive sui social il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia.
Lunga e affettuosa telefonata tra Berlusconi e Mattarella. Il presidente Berlusconi ha assicurato al presidente Mattarella il sostegno di Forza Italia per la sua rielezione.
"Questo è il momento dell’unità e tutti dobbiamo sentirlo come un dovere. Ma l’unità oggi si può ritrovare soltanto intorno alla figura del Presidente Sergio Mattarella, al quale sappiamo di chiedere un grande sacrificio, ma sappiamo anche che glielo possiamo chiedere nell’interesse superiore del Paese, quello stesso che ha sempre testimoniato nei 7 anni del suo altissimo mandato." Così Silvio Berlusconi, dal San Raffaele di Milano dove è ancora ricoverato.
"Consideriamo che non sia più serio continuare con i no e i veti incrociati e dire al presidente di ripensarci". Così il segretario della Lega Matteo Salvini in un ragionamento su Sergio Mattarella. "Una parte del Parlamento non vuole trovare un accordo, allora chiediamo a Mattarella di restare, e così la squadra resta così, Draghi resta a Palazzo Chigi", spiega Salvini aggiungendo che "l’importante è che Mattarella non sia percepito come un ripiego".
"Mi sembra che Mattarella dimostri un’altra volta di essere un uomo dello Stato. L’ho trovato determinato e la sua ulteriore disponibilità è segno della sua grande responsabilità". Lo ha detto il presidente della Conferenza stato regioni Massimiliano Fedriga uscendo dal quirinale.
Durante il vertice di maggioranza vi sarebbe stato fino alla fine un duello tra veti incrociati sui nomi. Salvini avrebbe proposto il nome di Cartabia ricevendo però un rifiuto. Quindi - riferiscono fonti parlamentari - gli alleati avrebbero riproposto al leader leghista la soluzione Casini ma stavolta sarebbe stato Salvini a dire di no. Infine è emersa come unica soluzione uniaria quella del Mattarella bis.
"Salvini propone di andare tutti a pregare Mattarella di fare un altro mandato da Presidente della Repubblica. Non voglio crederci". Così Giorgia Meloni su twitter.
"L’Italia non può ulteriormente essere logorata da chi antepone le proprie ambizioni personali al bene del paese. Certamente io non voglio essere tra questi. Chiedo al Parlamento, di cui ho sempre difeso la centralità, di togliere il mio nome da ogni discussione e di chiedere al presidente della Repubblica Mattarella la disponibilità a continuare il suo mandato nell’interesse del paese". Così Pier Ferdinando Casini, intercettato dall’ANSA.
"Tutti i passaggi politici hanno dimostrato, nel momento più difficile in assoluto, che il campo largo esiste grazie al nostro lavoro. Siamo riusciti a tenere tutti attorno", ha detto il segretario Pd Enrico Letta all’assemblea con i grandi elettori alla Camera. "Si riparte con un elemento in più: il centrodestra si è formalmente spaccato. Politicamente è un punto essenziale". Lo ha detto il segretario Pd Enrico Letta all’assemblea con i grandi elettori alla Camera. "L’intero sistema politico-istituzionale si regge attorno al Capo dello Stato e al capo del Governo, che sono sopra la mischia", ha aggiunto Letta. "Quel fragilissimo equilibrio retto attorno a due personalità straordinarie può essere modificato solo se c’è una intesa complessiva che tiene e, affinché ci sia, c’è bisogno della nostra logica del né vincitori né vinti. Questa logica per adesso ispira noi, ma non tutti gli altri". "Altrimenti, il Parlamento ha una sua saggezza e mi sembra che si stia esprimendo. Assecondare questa saggezza è anche questa democrazia".
*Fonte: ANSA ROMA, 29 gennaio 2022 (ripresa parziale).
IMPARARE A CONTARE! "UNO. IL BATTITO INVISIBILE". Note a margine del libro di Giulio Busi *
RICOMINCIARE DA CAPO, DALLA COSTITUZIONE: UNO NON EQUIVALE UNO (=1), MA RENDE POSSIBILE E FONDA OGNI - UNO (= 1). IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS, NON UN LOGO! TRACCE PER UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA....
NONOSTANTE GIOACCHINO DA FIORE, NONOSTANTE DANTE ALIGHIERI (E LA DIVINA COMMEDIA) , NONOSTANTE GIOVANNI BOCCACCIO (E LA MEMORIA DI MELCHISEDEC E DEI TRE ANELLI), NONOSTANTE MICHELANGELO (E IL SUO TONDO DONI), NONOSTANTE LESSING (E IL SUO ELOGIO DEL SAGGIO NATHAN), NONOSTANTE FREUD E NONOSTANTE EINSTEIN ....
...SI VIVE ANCORA NEL REGIME DELL’UNO (= 1) E DELLA "DOTTA IGNORANZA" (1440) E DELLA COSMOTEANDRIA PLATONICA?!
"Dio non gioca a dadi" ma, dopo la lezione di Georges de La Tour (cfr. Giulio Busi, "Uno. Il battito invisibile": [...] A Preston Hall, nella grande serra in vetro e ferro trasformata in museo, i "Giocatori di Dadi" di Georges de la Tour accolgono i visitatori con il loro sorprendente mistero. Tre lanci, un unico risultato... I tre lanci hanno dato lo stesso risultato. Uno [...]"), l’Uno è ancora il più sfuggente e misterioso tra i numeri? Ogni essereu mano è un uno, ma ancora non si sa chi è l’Uno? Ma a che gioco giochiamo?! La storia è sempre e solo fatta da Uno (=1) solo? E i tre moschettieri lavorano ancora per il solito Uno (=1)?!
UNO. IL BATTITO INVISIBILE: "L’Uno ci avvolge, pulsa in noi. Troviamolo. L’Uno è stupore, incompletezza, mistero. A tratti, in una grande sventura o in una gioia profonda, per caso o dopo avere cercato a lungo, ci rendiamo conto d’essere parte di un tutto che ci sovrasta, ci avvolge e allo stesso tempo si sottrae alla nostra #comprensione. Lo sentiamo, il tutto, senza poterlo distinguere con esattezza. Sebbene non ci sia consentito misurarlo con la #ragione, ci pare quasi di toccarlo, tanto è vicino, intimo.
Vecchie storie bibliche, sogni di mistici, saggezza indiana, inquietudini dei filosofi greci, poesia del Novecento. Sono i bracci di un fiume immenso e segreto, che questo libro risale passo dopo passo in cerca dell’Uno, del suo fulgore, del suo battito lieve, profondo, invisibile. L’Uno, il più sfuggente e misterioso tra i numeri" (G. Busi, "Uno. Il battito invisibile", Il Mulino).
QUATTRO PROFETI (1+1+1+1) O DUE PROFETI + DUE SIBILLE?! Nella cornice del Tondo Doni di Michelangelo, secondo gli esperti della Galleria degli Uffizi, "Vi sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di quattro profeti" (https://www.uffizi.it/opere/sacra-famiglia-detta-tondo-doni)? Non è bene, forse, rianalizzare il quadro e la cornice e ri-verificare la situazione, data la strettissima connesione anche con il lavoro portato avanti nella Cappella Sistina?!
... IMPARARE A CONTARE E USCIRE da interi millenni di labirinto (Nietzsche) e riprendere la diritta via (Dante2021), comporta un globale capovolgimento del puntodivista e, con Freud, l’aprire gli occhi (tutti e due) e guardare finalmente "da dove veniamo"... e lo straordinario sorgere della Terra, come è apparso ai primi esploratori del cosmo ...
DANTE2021, QUESTIONE ANTROPOLOGICA (ECCE HOMO) E
GIOCO DELLA TUNICA:
QUATTRO SOLDATI, TRE GIOCATORI DI DADI E PROBLEMA DELL’UNO.
A CHE GIOCO GIOCHIAMO?! Ancora al Grand Tour della cosmoteandria?
FLS
CINEMA, FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA
IL SORGERE DELLA TERRA E "IL GRANDE PASSO" DELL’UmaNITÀ.
Una lezione della regista Cristina Comencini ... *
Quirinale, l’ironico appello di Cristina Comencini: "Noi donne cediamo il passo: ora un uomo alla presidenza della Repubblica"
La provocazione della regista sulla prossime elezione del nuovo capo dello Stato: "Bisogna dire che siamo state generose e abbiamo già ceduto a qualche singolo rappresentante del genere maschile delle responsabilità ma ora è il momento di fare il grande passo"
di Cristina Comencini (la Republica, 16 Gennaio 2022)
"Le donne italiane chiedono a gran voce finalmente un presidente della Repubblica uomo. Dall’alto della loro secolare esperienza al potere le donne dicono che è l’ora di cedere il passo agli uomini almeno per un tentativo, per una prima volta. Se l’esperienza deluderà, li si escluderà ancora per qualche decennio dalla carica, finché si saranno dimostrati pronti a esercitare con soddisfazione la più alta responsabilità dello Stato. Bisogna dire che siamo state generose e abbiamo già ceduto a qualche singolo rappresentante del genere maschile delle responsabilità ma ora è il momento di fare il grande passo. Ma non abbiate paura, non diamo loro una fiducia cieca, un mandato senza condizioni. Poniamo invece delle caratteristiche e dei valori precisi che non siamo ancora certe siano caratteristiche del loro genere".
"Prima di tutto una grande e estesa cultura, avere esperienza della politica ma anche competenze giuridiche e costituzionali, avere conquistato una stima e un apprezzamento ampio ben oltre i confini di un’area politica, essere in una rete di relazioni pubbliche ma anche nella società civile, avere capacità di mediazione e di pacatezza. Insomma saranno considerati solo i molto meritevoli e non saranno accettati perché uomini ma perché avranno dimostrato di essere eccellenti. D’altronde non cediamo volentieri il potere esercitato per tanto tempo a chiunque, ma siamo obbligate almeno a proporlo, è un fatto di civiltà, non si può aspettare ancora. Siamo d’accordo, in via di principio, che un uomo prenda il posto di una donna, ma intendiamoci non è obbligatorio. Noi siamo talmente forti ed esperte che sarà difficile trovare un uomo all’altezza. Siamo legate una all’altra in un patto d’acciaio consolidato nei secoli. Ma intanto nessuno potrà rimproverarci di non averlo dichiarato, di non essere al passo con i tempi. Allora diciamolo senza paura, tanto non succederà: un uomo alla presidenza della Repubblica. Bisogna guardare il rovescio per capire il dritto".
* IL SORGERE DELLA TERRA E "IL GRANDE PASSO" DELL’UmaNITÀ. Una lezione della regista Cristina Comencini...
Brillante sollecitazione ...
BENE, BENE! “Bisogna guardare il #rovescio per capire il #dritto" - e il DIRITTO. La COSTITUZIONE e l’antropologia, non l’andrologia!
...UN FATTO DI CIVILTÀ. Che si cominci: si tratta di riequilibrare antropo-logica-mente la bilancia stessa dell’esistenza e uscire dall’orizzonte tragico della cosmoteandria - come da indicazioni di Dante 2021 (e da Virgilio-Freud: dall’ Acheronta Movebo, fin nel più alto dei cieli).
EARTHRISE (24 dicembre 1968). Che si sappia e si abbia, finalmente, la visione del Sorgere della Terra...
Che l’Italia viva!
CRONACHE MARZIANE.
Ma come sono intelligenti (questi esseri umani terrestri d’Italia): non sanno proprio nulla della fattoria né di Platone né di Orwell. Hanno approvato una Legge che dice:tutti i partiti sono uguali, ma un partito è più uguale degli altri! E si apprestano a nominare Presidente della loro Repubblica, il presidente (o chi per lui) di questo partito. Il giogo e il gioco è già in atto da più di un ventennio!
Sono proprio intelligenti e sportivi questi terrestri italiani: con il loro nuovo presidente, tutti e tutte gridano e agitano le bandiere del partito: "forza italia". Tutto il loro mondo è diventato uno stadio e, finalmente, il loro Presidente è l’Arbitro di tutti i partiti e di tutte le partite!!!
Federico La Sala
Messaggio di fine anno del Presidente Mattarella *
Care concittadine, cari concittadini,
ho sempre vissuto questo tradizionale appuntamento di fine anno con molto coinvolgimento e anche con un po’ di emozione.
Oggi questi sentimenti sono accresciuti dal fatto che, tra pochi giorni,come dispone la Costituzione, si concluderà il mio ruolo di Presidente.
L’augurio che sento di rivolgervi si fa, quindi, più intenso perché,alla necessità di guardare insieme con fiducia e speranza al nuovo anno, si aggiunge il bisogno di esprimere il mio grazie a ciascuno di voi per aver mostrato, a più riprese, il volto autentico dell’Italia: quello laborioso, creativo, solidale.
Sono stati sette anni impegnativi, complessi, densi di emozioni: mi tornano in mente i momenti più felici ma anche i giorni drammatici, quelli in cui sembravano prevalere le difficoltà e le sofferenze.
Ho percepito accanto a me l’aspirazione diffusa degli italiani a essere una vera comunità, con un senso di solidarietà che precede, e affianca, le molteplici differenze di idee e di interessi.
In questi giorni ho ripercorso nel pensiero quello che insieme abbiamo vissuto in questi ultimi due anni: il tempo della pandemia che ha sconvolto il mondo e le nostre vite.
Ci stringiamo ancora una volta attorno alle famiglie delle tante vittime: il loro lutto è stato, ed è, il lutto di tutta Italia.
Dobbiamo ricordare, come patrimonio inestimabile di umanità,l’abnegazione dei medici, dei sanitari, dei volontari. Di chi si è impegnato per contrastare il virus. Di chi ha continuato a svolgere i suoi compitinonostante il pericolo.
I meriti di chi, fidandosi della scienza e delle istituzioni, ha adottato le precauzioni raccomandate e ha scelto di vaccinarsi: la quasi totalitàdegli italiani, che voglio, ancora una volta, ringraziare per la maturità e per il senso di responsabilità dimostrati.
In queste ore in cui i contagi tornano a preoccupare e i livelli di guardia si alzano a causa delle varianti del virus - imprevedibili nelle mutevoli configurazioni - si avverte talvolta un senso di frustrazione.
Non dobbiamo scoraggiarci. Si è fatto molto.
I vaccini sono stati, e sono, uno strumento prezioso, non perché garantiscano l’invulnerabilità ma perché rappresentano la difesa checonsente di ridurre in misura decisiva danni e rischi, per sé e per gli altri.
Ricordo la sensazione di impotenza e di disperazione che respiravamo nei primi mesi della pandemia di fronte alle scene drammatiche delle vittime del virus. Alle bare trasportate dai mezzi militari. Al lungo, necessario confinamento di tutti in casa. Alle scuole, agli uffici, ai negozi chiusi. Agli ospedali al collasso.
Cosa avremmo dato, in quei giorni, per avere il vaccino?
La ricerca e la scienza ci hanno consegnato, molto prima di quanto si potesse sperare, questa opportunità. Sprecarla è anche un’offesa a chi non l’ha avuta e a chi non riesce oggi ad averla.
I vaccini hanno salvato tante migliaia di vite, hanno ridotto di molto- ripeto - la pericolosità della malattia.
Basta pensare a come l’anno passato abbiamo trascorso le festività natalizie e come invece è stato possibile farlo in questi giorni, sia pure con prudenza e limitazioni.
La pandemia ha inferto ferite profonde: sociali, economiche, morali. Ha provocato disagi per i giovani, solitudine per gli anziani, sofferenze per le persone con disabilità. La crisi su scala globale ha causato povertà,esclusioni e perdite di lavoro. Sovente chi già era svantaggiato è stato costretto a patire ulteriori duri contraccolpi.
Eppure ci siamo rialzati. Grazie al comportamento responsabile degli italiani - anche se tra perduranti difficoltà che richiedono di mantenere adeguati livelli di sicurezza - ci siamo avviati sulla strada della ripartenza;con politiche di sostegno a chi era stato colpito dalla frenata dell’economia e della società e grazie al quadro di fiducia suscitato dai nuovi strumenti europei.
Una risposta solidale, all’altezza della gravità della situazione, che l’Europa è stata capace di dare e a cui l’Italia ha fornito un contributo decisivo.
Abbiamo anche trovato dentro di noi le risorse per reagire, per ricostruire. Questo cammino è iniziato. Sarà ancora lungo e non privo di difficoltà. Ma le condizioni economiche del Paese hanno visto un recupero oltre le aspettative e le speranze di un anno addietro. Un recupero che è stato accompagnato da una ripresa della vita sociale.
Nel corso di questi anni la nostra Italia ha vissuto e subito altre gravi sofferenze. La minaccia del terrorismo internazionale di matrice islamista, che ha dolorosamente mietuto molte vittime tra i nostri connazionali all’estero. I gravi disastri per responsabilità umane, i terremoti, le alluvioni. I caduti, militari e civili, per il dovere. I tanti morti sul lavoro.Le donne vittime di violenza.
Anche nei momenti più bui, non mi sono mai sentito solo e ho cercato di trasmettere un sentimento di fiducia e di gratitudine a chi era in prima linea. Ai sindaci e alle loro comunità. Ai presidenti di Regione, a quanti hanno incessantemente lavorato nei territori, accanto alle persone.
Il volto reale di una Repubblica unita e solidale.
È il patriottismo concretamente espresso nella vita della Repubblica.
La Costituzione affida al Capo dello Stato il compito di rappresentare l’unità nazionale.
Questo compito - che ho cercato di assolvere con impegno - è stato facilitato dalla coscienza del legame, essenziale in democrazia, che esiste tra istituzioni e società; e che la nostra Costituzione disegna in modo così puntuale.
Questo legame va continuamente rinsaldato dall’azione responsabile,dalla lealtà di chi si trova a svolgere pro-tempore un incarico pubblico, a tutti i livelli. Ma non potrebbe resistere senza il sostegno proveniente dai cittadini.
Spesso le cronache si incentrano sui punti di tensione e sulle fratture. Che esistono e non vanno nascoste. Ma soprattutto nei momenti di grave difficoltà nazionale emerge l’attitudine del nostro popolo a preservare la coesione del Paese, a sentirsi partecipe del medesimo destino.
Unità istituzionale e unità morale sono le due espressioni di quel che ci tiene insieme. Di ciò su cui si fonda la Repubblica.
Credo che ciascun Presidente della Repubblica, all’atto della sua elezione, avverta due esigenze di fondo: spogliarsi di ogni precedente appartenenza e farsi carico esclusivamente dell’interesse generale, del bene comune come bene di tutti e di ciascuno. E poi salvaguardare ruolo,poteri e prerogative dell’istituzione che riceve dal suo predecessore e che - esercitandoli pienamente fino all’ultimo giorno del suo mandato - deve trasmettere integri al suo successore.
Non tocca a me dire se e quanto sia riuscito ad adempiere a questo dovere. Quel che desidero dirvi è che mi sono adoperato, in ogni circostanza, per svolgere il mio compito nel rispetto rigoroso del dettato costituzionale.
È la Costituzione il fondamento, saldo e vigoroso, della unità nazionale. Lo sono i suoi principi e i suoi valori che vanno vissuti dagli attori politici e sociali e da tutti i cittadini.
E a questo riguardo, anche in questa occasione, sento di dover esprimere riconoscenza per la leale collaborazione con le altre istituzioni della Repubblica.
Innanzitutto con il Parlamento, che esprime la sovranità popolare.
Nello stesso modo rivolgo un pensiero riconoscente ai Presidenti del Consiglio e ai Governi che si sono succeduti in questi anni.
La governabilità che le istituzioni hanno contribuito a realizzare hapermesso al Paese, soprattutto in alcuni passaggi particolarmente difficili e impegnativi, di evitare pericolosi salti nel buio.
Ci troviamo dentro processi di cambiamento che si fanno sempre più accelerati.
Occorre naturalmente il coraggio di guardare la realtà senza filtri di comodo. Alle antiche diseguaglianze la stagione della pandemia ne ha aggiunte di nuove. Le dinamiche spontanee dei mercati talvolta produconosquilibri o addirittura ingiustizie che vanno corrette anche al fine di un maggiore e migliore sviluppo economico. Una ancora troppo diffusa precarietà sta scoraggiando i giovani nel costruire famiglia e futuro. La forte diminuzione delle nascite rappresenta oggi uno degli aspetti più preoccupanti della nostra società.
Le transizioni ecologica e digitale sono necessità ineludibili, e possono diventare anche un’occasione per migliorare il nostro modello sociale.
L’Italia dispone delle risorse necessarie per affrontare le sfide dei tempi nuovi.
Pensando al futuro della nostra società, mi torna alla mente lo sguardo di tanti giovani che ho incontrato in questi anni. Giovani che si impegnano nel volontariato, giovani che si distinguono negli studi, giovani che amano il proprio lavoro, giovani che - come è necessario - si impegnano nella vita delle istituzioni, giovani che vogliono apprendere e conoscere, giovani che emergono nello sport, giovani che hanno patito a causa di condizioni difficili e che risalgono la china imboccando una strada nuova.
I giovani sono portatori della loro originalità, della loro libertà. Sono diversi da chi li ha preceduti. E chiedono che il testimone non venga negato alle loro mani.
Alle nuove generazioni sento di dover dire: non fermatevi, non scoraggiatevi, prendetevi il vostro futuro perché soltanto così lo donerete alla società.
Vorrei ricordare la commovente lettera del professor Pietro Carmina, vittima del recente, drammatico crollo di Ravanusa. Professore di filosofia e storia, andando in pensione due anni fa, aveva scritto ai suoi studenti: “Usate le parole che vi ho insegnato per difendervi e per difendere chi quelle parole non le ha. Non siate spettatori ma protagonisti della storia che vivete oggi. Infilatevi dentro, sporcatevi le mani, mordetela la vita, non adattatevi, impegnatevi, non rinunciate mai a perseguire le vostre mete, anche le più ambiziose, caricatevi sulle spalle chi non ce la fa. Voi non siete il futuro, siete il presente. Vi prego: non siate mai indifferenti, non abbiate paura di rischiare per non sbagliare...”.
Faccio mie - con rispetto - queste parole di esortazione così efficaci, che manifestano anche la dedizione dei nostri docenti al loro compito educativo.
Desidero rivolgere un augurio affettuoso e un ringraziamento sincero a Papa Francesco per la forza del suo magistero, e per l’amore che esprime all’Italia e all’Europa, sottolineando come questo Continente possa svolgere un’importante funzione di pace, di equilibrio, di difesa dei diritti umani nel mondo che cambia.
Care concittadine e cari concittadini, siamo pronti ad accogliere il nuovo anno, ed è un momento di speranza. Guardiamo avanti, sapendo che il destino dell’Italia dipende anche da ciascuno di noi.
Tante volte abbiamo parlato di una nuova stagione dei doveri. Tante volte, soprattutto negli ultimi tempi, abbiamo sottolineato che dalle difficoltà si esce soltanto se ognuno accetta di fare fino in fondo la parte propria.
Se guardo al cammino che abbiamo fatto insieme in questi sette anni nutro fiducia.
L’Italia crescerà. E lo farà quanto più avrà coscienza del comune destino del nostro popolo, e dei popoli europei.
Buon anno a tutti voi!
E alla nostra Italia!
Roma, 31/12/2021
*
Fonte: Presidenza della Repubblica.
Politica
Stato-mafia, se trattativa c’è stata «non è un reato»
Ribaltando la sentenza di primo grado la Corte d’Assise d’appello di Palermo assolve l’ex senatore dell’Utri e gli ex ufficiali dei Ros
di Red. Int. (il manifesto, 24.09.2021)
ROMA. Se c’è stata una trattativa tra lo Stato e la mafia per mettere fine alle stragi dei primi anni ’90, non è un reato. Tre anni dopo la decisione con cui la Corte d’Assise di Palermo aveva accolto le richieste dell’accusa riconoscendo l’esistenza di un «patto scellerato» tra una parte delle istituzioni e i boss mafiosi, la Corte d’Assise d’appello del capoluogo siciliano capovolge quella sentenza e assolve gli uomini delle istituzioni. A partire dagli ex ufficiali dei Ros Mario Mori, Antonio Subranni, condannati in primo grado a 12 anni, e Giuseppe De Donno (8 anni), assolti con la formula perché il «fatto non costituisce reato» e dall’ex senatore di Forza Italia Marcello dell’Utri (12 anni in primo grado) «per non aver commesso il fatto». Confermate, invece, le condanne per il boss Leoluca Bagarella (27 anni invece dei 28 del primo grado) e del capomafia Nino Cinà (12 anni). Confermata anche la prescrizione delle accuse al pentito Giovanni Brusca.
«Sono soddisfatto e commosso. E’ un peso che ci togliamo. Il sistema giudiziario funziona», è stato il commento di Dell’Utri dopo la lettura della sentenza. Per l’avvocato Basilio Milo, che difende il generale Mori, «la sentenza stabilisce che la trattativa non esiste. E’ una bufala, un falso storico». Secco, invece, il commento del procuratore generale Giuseppe Fici: «Aspettiamo le motivazioni e leggeremo il dispositivo».
Per la procura di Palermo tra il 1992 e il 1993 gli uomini dello Stato avrebbero trattato con i vertici di Cosa nostra al fine di mettere fine alla stagione delle stragi cominciata con l’attentato ai giudici Falcone e Borsellino e proseguita poi con le bombe a Roma, Milano e Firenze. Sempre secondo l’accusa, rappresentata nel processo di primo grado dai pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi, «i carabinieri dei Ros avevano avviato una prima trattativa con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, che avrebbe consegnato un ’papello’ con le richieste di Totò Riina per fermare le stragi». Accusa sempre respinta dagli imputati.
Diversa la posizione di Marcello Dell’Utri. Le accuse all’ex senatore di Forza Italia facevano riferimento al periodo del governo Berlusconi, ovvero il 1994. Secondo i pm, inoltre, il dialogo che gli ufficiali dei Ros, tramite Ciancimino e godendo di coperture istituzionali, avviarono con Cosa nostra avrebbe rafforzato i clan spingendoli a ulteriori azioni violente contro lo Stato. Sul piatto della trattativa, in cambio della cessazione delle stragi sarebbero state messe concessioni carcerarie ai mafiosi detenuti al 41 bis e un alleggerimento dell’azione di contrasto alla mafia.
Diverse, e di segno opposto, le reazioni. «Rispetto il giudizio dei magistrati - ha detto il sindaco di Palermo Leoluca Orlando - , tuttavia questa sentenza rischia di non diradare, anche in virtù di una sentenza di primo grado che ha messo in fila fatti inquietanti, le tante zone d’ombra su uno dei periodi più oscuri della nostra Repubblica e sul rapporto perverso tra mafia, politica e istituzioni che ha scandito a suon di bombe la storia italiana».
Soddisfazione per l’esito del processo d’appello è stata espressa invece sia da Matteo Renzi che da Matteo Salvini. Per il leader di Italia viva «oggi si scrive una pagina di storia giudiziaria decisiva. Viene condannato il mafioso e assolti i rappresentanti delle istituzioni. Ciò che i giustizialisti hanno fatto credere in talk show e giornali era falso: non c’è reato. Ha vinto la giustizia, ha perso il giustizialismo». Amaro, infine, il commento di Salvatore Borsellino: «In Italia non c’è giustizia», ha detto il fratello del giudice assassinato dalla mafia.
Trattativa Stato-mafia: assolti carabinieri e Dell’Utri
Pena ridotta al boss Bagarella, condannato il capomafia Cinà *
La corte d’assise d’appello di Palermo ha assolto al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e il senatore Marcello Dell’Utri, accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato. In primo grado erano stati tutti condannati a pene severissime.
Dichiarate prescritte le accuse al pentito Giovanni Brusca. Pena ridotta al boss Leoluca Bagarella. Confermata la condanna del capomafia Nino Cinà.
Per Bagarella i giudici hanno riqualificato il reato in tentata minaccia a Corpo politico dello Stato, dichiarando le accuse parzialmente prescritte. Ciò ha comportato una lieve riduzione della pena passata da 28 a 27 anni. Confermati i 12 anni a Cinà. Gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno sono stati assolti con la formula perché il "fatto non costituisce reato", mentre Dell’Utri "per non aver commesso il fatto". Confermata la prescrizione delle accuse al pentito Giovanni Brusca. L’appello, nel corso del quale è stata riaperta l’istruttoria dibattimentale, è cominciato il 29 aprile del 2019. Nel corso del processo è uscito di scena, per la prescrizione dei reati, un altro imputato, Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito, che rispondeva di calunnia aggravata all’ex capo della polizia Gianni De Gennaro e concorso in associazione mafiosa.
A rappresentare l’accusa in aula sono stati i sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera che hanno chiesto la conferma della sentenza di primo grado. Al termine del primo dibattimento, la Corte d’Assise aveva inflitto 28 anni a Bagarella, 12 a Dell’Utri, Mori, Subranni e Cinà e 8 a De Donno e Ciancimino. Vennero poi dichiarate prescritte le accuse rivolte al pentito Giovanni Brusca. Sotto processo, ma per il reato di falsa testimonianza, era finito anche l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino che venne assolto. La Procura non presentò appello e quindi l’assoluzione diventò definitiva. Per la cosiddetta trattativa è stato, infine, processato separatamente e assolto, in abbreviato, l’ex ministro Dc Calogero Mannino. "Uomini delle istituzioni, apparati istituzionali deviati dello Stato, hanno intavolato una illecita e illegittima interlocuzione con esponenti di vertice di Cosa nostra per interrompere la strategia stragista.
La celebrazione del presente giudizio ha ulteriormente comprovato l’esistenza di una verità inconfessabile, di una verità che è dentro lo Stato, della trattativa Stato-mafia che, tuttavia, non scrimina mandanti ed esecutori istituzionali perché o si sta contro la mafia o si è complici. Non ci sono alternative", aveva detto l’accusa durante la requisitoria del processo d’appello, al termine della quale aveva chiesto la conferma di tutte le condanne del primo grado. Secondo i pm, il dialogo che gli ufficiali del Ros, tramite i Ciancimino e godendo di coperture istituzionali, avviarono con Cosa nostra durante gli anni delle stragi per interrompere la stagione degli attentati, avrebbe rafforzato i clan spingendoli a ulteriori azioni violente contro lo Stato. Sul piatto della trattativa, in cambio della cessazione delle stragi, sarebbero state messe concessioni carcerarie ai mafiosi detenuti al 41 bis e un alleggerimento nell’azione di contrasto alla mafia. Il ruolo di Mori e i suoi, dopo il ’93, sempre nella ricostruzione dell’accusa, sarebbe stato assunto da Dell’Utri che nella sentenza di primo grado venne definito "cinghia di trasmissione" tra i clan e gli interlocutori istituzionali.
"E’ un film, una cosa inventata totalmente - dice Marcello Dell’Utri, in una telefonata con Bruno Vespa a Porta a Porta -. Io questo processo non l’ho neanche seguito. Mi sono sentito quando sono andato a Palermo all’udienza come un turco alla predica, non capivo di cosa stessero parlando. Questa cosa era inesistente però purtroppo avevo paura che potessero avallare queste cose inventate servendosi dei soliti pentiti che hanno bisogno di dire cose per avere vantaggi, e di molta stampa che affianca le procure e soprattutto la procura di Palermo. Questo mi preoccupava, ma speravo intimamente nell’assoluzione".
"Non abbiamo mai dubitato dell’estraneità del Generale Mario Mori e degli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni e Giuseppe De Donno alla vicenda per la quale per anni sono stati inchiodati e additati come traditori dello Stato. Questa sentenza ci obbliga ad una lettura radicale della narrazione di questi anni. La riforma della giustizia e in particolare la responsabilità civile sono una impellente necessità". Lo dichiarano Maurizio Turco e Irene Testa, Segretario e Tesoriere del Partito Radicale.
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, MESSAGGIO EVANGELICO, COSTITUZIONE, E SIMBOLI.... *
I simboli e i singoli, laicità e buon senso.
Ma la libertà non è negativa
di Giuseppe Anzani (Avvenire, venerdì 10 settembre 2021)
Il crocifisso torna davanti ai giudici. È toccato alla Corte suprema di Cassazione a Sezioni unite dire se quel simbolo può stare appeso o no alle pareti di un’aula scolastica. Regolamenti, leggi, sentenze? L’orizzonte si apre a temi più grandi, irrompono parole come libertà religiosa, laicità dello Stato, cultura e tradizione e comune sentire e individuale dissentire; e infine sullo sfondo, volere o no, resta quel mistero immenso che due millenni fa ha spaccato in due la storia del mondo.
E dire che l’origine del caso è un episodio in apparenza banale: l’assemblea di classe degli studenti delibera l’esposizione del crocifisso nell’aula, un docente non lo vuole e lo stacca fisicamente durante le sue ore di lezione; riceve una sanzione disciplinare, la impugna. La causa percorre tutti i gradi e approda alle Sezioni unite, che decidono sostanzialmente così: l’aula può accogliere il crocifisso, quando la comunità scolastica decide in autonomia di esporlo; ciò non comporta discriminazione; il docente dissenziente non ha nessun potere di veto; deve tuttavia cercarsi una soluzione che rispetti la sua «libertà negativa di religione». Come a dire, in sottinteso, da ultimo: usate il buon senso.
L’avversione al crocifisso scoppia episodicamente per iniziativa solitaria di individui dei quali è difficile capire se soffrano di allergia al senso religioso altrui o perseguano un disegno demolitore. Sono casi rari, ma eclatanti.
Quello dello scrutatore elettorale, quello del giudice che rifiutava di tenere udienza, quello della donna atea che per far togliere il crocifisso dalla scuola portò il caso fino alla Corte europea dei Diritti umani (2011); e ne ebbe sentenza che l’esposizione del crocifisso «non è sufficiente a condizionare e comprimere la libertà di soggetti adulti e a ostacolare l’esercizio della funzione docente».
Bisognerà dunque riflettere sulla autenticità di simili dichiarate ’allergie’; la legge fondamentale sulla scuola (decreto legislativo n. 297/1994) garantisce ai docenti «autonomia didattica e libera espressione culturale», ma nel «rispetto della coscienza civile e morale degli alunni». Sono gli alunni, infatti, il corpo vivo della comunità scolastica; è in funzione di loro che si fanno cattedre, e non viceversa. Il gesto di togliere a forza, da sé, il crocifisso voluto dagli alunni non pare esattamente un atto educativo.
Libertà? Colpisce la frase «libertà negativa» usata dalla Corte. Se ne intuisce l’intento protettivo, ma il rispetto del ’negativo’ può imporre di azzerare ogni positivo? La libertà del no può annientare la libertà altrui del sì? Libertà è essenzialmente una dimensione positiva della persona umana, è un «agere licere».
La libertà è espressione, non compressione. Se ha un limite, esso è dato dalle contigue libertà, e il suo traguardo è l’armonia. Così la libertà religiosa trova presidio in un concetto di laicità che è tutto il contrario di una asfaltatura dei simboli religiosi per non turbare gli irreligiosi. Chi non s’intona al canto è libero di non cantare, ma non può pretendere di zittire il coro. Una laicità castrante non è nella nostra civiltà, non è nella nostra legge, non è nella nostra libertà. Ma infine, per chi ha fede, il nocciolo non è neppure il crocifisso-arredo. È il Crocifisso, il Vivente, e nessuno può toglierlo dal mondo, e nessuno ce lo stacca dal cuore.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
Federico La Sala
DANTE (1321-2021): L’ANTROPOLOGIA, L’ANDROLOGIA, E LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO" ... *
I 100 anni di Pax Romana.
Quel fertile e globale luogo di dialogo tra chiesa e società
di Stefano Ceccanti (Avvenire, mercoledì 21 luglio 2021)
I cento anni di Pax Romana, associazione internazionale degli universitari cattolici. Caro direttore, una vecchia foto sul sito di Pax Romana ci riporta al luglio 1921, quando nacque l’associazione internazionale degli universitari cattolici. Per la Fuci c’era Giuseppe Spataro, di lì a poco ai vertici del Ppi. In quel primo periodo fu molto attivo anche Pier Giorgio Frassati, che vedeva in questa apertura delle associazioni e delle istituzioni un vaccino importante rispetto ai nazionalismi.
Il nome riecheggiava il verso di Dante che richiamava all’universalità del cristianesimo («quella Roma onde Cristo è Romano») oltre a ricordare i circa duecento anni di pace in cui si collocò anche la nascita di Gesù. Pax Romana svolse un primo congresso a Bologna nel 1925, insieme a quello della Fuci. Un terreno minato: quattro anni prima della Conciliazione la Fuci lo aveva posto sotto il patrocinio del Re per proteggersi dalle minacce fasciste, ma ciò creò un serio problema col Vaticano, che si risolse affidando a Giovanni Battista Montini e a Igino Righetti la guida della Federazione, Per gli anni successivi vi fu una grande prudenza sui rapporti internazionali per non sfidare il regime nazionalista. Però Montini ebbe lo stesso un’influenza chiave, insieme a Maritain. L’impostazione era quella che troviamo nel volumetto del 1930 ’Coscienza Universitaria’.
La Chiesa aveva perso influenza nelle università e nel mondo della cultura; se voleva riacquisirla doveva pensare in termini di rapporto biunivoco, ossia essa aveva certo da dare a questi ambienti, ma aveva anche da ricevere. In particolare ciò richiedeva un attento discernimento dei vari aspetti della modernità e una rilettura positiva della democrazia. «La verità non è folgorazione d’un lampo; è progressivo, graduale, quasi inavvertito albeggiare di luce», scriveva Montini. E per Maritain andava superata «la scissione fra principio democratico e principio cristiano in Europa, dove gli animi sono divisi tra un cristianesimo irriducibilmente formato nella sua struttura e nella sua dottrina, ma per troppi anni isolato dalla vita del popolo, e l’infedeltà aperta e militante o l’odio per la religione». Nel 1947, seguendo lo stesso schema italiano che aveva fatto sorgere dalla Fuci il Movimento Laureati, Pax Romana si arricchì di un secondo ramo.
Nelle giornate fondative, Étienne Gilson pose come obiettivo quello di «organizzare nel mondo intero la fraternità degli spiriti che pongono l’intelligenza al servizio di Dio», ribadendo il collegamento tra fede e ragione e l’apertura internazionalista. Non fu quindi per caso se persone con questa impostazione e che si erano abituate ad assemblee internazionali, utilizzando più lingue e con complesse procedure democratiche, si siano trovate al centro dei lavori conciliari: sia gran parte degli uditori laici (lo spagnolo Ruiz-Giménez, l’esule catalano Sugranyes de Franch, l’australiana Goldie) sia molti teologi che erano stati assistenti (Guano, Murray) o comunque vicini (Chenu, Congar, il neo-cardinale Journet). Lo stesso per l’impegno politico nelle nuove democrazie: per limitarci solo alla guida dei Governi europei sia in Portogallo (Pintasilgo e poi Antonio Guterres, attualmente segretario Onu) sia in Polonia (Mazowiecky) erano stati esponenti di primo piano di Pax Romana. Anche nella Chiesa del postconcilio il contributo è stato ampio e universale: basti solo pensare al Perù, dove sono stati assistenti nazionali Gutierrez e l’attuale arcivescovo di Lima, Castillo. Questi sono alcuni dei nomi più noti, ma molti sono stati coloro che si sono posti come nani sulle spalle dei giganti, tra Chiesa e società, in tutto il mondo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!!
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Contro la distrazione di massa.
Il ritorno di Greta. Mentre il pianeta va a fuoco il parlamento italiano vota il ponte sullo Stretto
di Guido Viale (il manifesto, 10 luglio 2021)
Greta Thunberg è tornata a dare il meglio di sé al vertice sul mondo austriaco promosso da Arnold Schwarzenegger, che si è svolto il 1° luglio, con, tra gli altri, Angela Merkel, Antonio Guterres. Rivolgendosi ancora una volta a tutti i potenti del mondo, ma per farsi ascoltare da tutti coloro che potenti non sono, Greta ha rimarcato che nei sei anni che ci separano dal vertice di Parigi, politici, finanzieri e grandi industriali (la crème di Davos) ci hanno riempiti di parole, ma non hanno fatto niente per avvicinarci agli obiettivi di decarbonizzazione fissati. Anzi, hanno fatto, stanno facendo e si apprestano a fare l’opposto: la loro lotta per il clima serve a mascherare la continuazione di una politica fondata sui fossili, che altro non è che la ricerca di nuove occasioni di business.
L’accusa coglie in pieno anche il Pnrr italiano, il suo padre, il Recovery Fund della Commissione europea, e la sua madre, il programma NextgenerationEU, che altro non sono che armi di distrazione di massa, finalizzate a fissare l’attenzione intorno a misure inconsistenti, se non controproducenti, mentre il pianeta va a fuoco. A fuoco: nello stesso giorno in cui si registravano a Vancouver 50 °C, il Parlamento italiano ha votato, alla Camera, il ponte sullo stretto di Messina (da finanziare non con il Pnrr, bensì con un “fondone” che Draghi ha aggiunto, a debito, ai fondi del Pnrr, anch’essi di fatto tutti a debito, per “non lasciare indietro nessuno”: in questo caso la lobby del cemento). D’altronde, il Senato italiano, anni fa, aveva votato che il cambiamento climatico non esiste.
Tra le parole contraddette dai fatti di cui parla Greta spicca l’istituzione in Italia di un Ministero della Transizione ecologica. Ma quella transizione implica un cambiamento radicale: l’abbandono del mito fasullo e letale della “crescita” (termine con cui oggi si indica l’accumulazione del capitale) e non può non coinvolgere profondamente comportamenti, stili di vita e assetti sociali di tutta la popolazione; oltre, ovviamente, alla determinazione di che cosa, con che cosa, per chi e come si produce. Il primo compito di un Ministero della Transizione ecologica dovrebbe essere, quindi, una grande campagna di informazione: sul perché di una svolta così radicale, sui rischi che corrono il pianeta, il paese e la vita di ciascuno; e la conseguente apertura di un grande confronto (non era certo tale la kermesse del secondo Governo Conte a villa Pamphili), coinvolgendo tutte le istanze della “società civile” - associazioni, comitati, sindacati, scuole e Università, centri di ricerca, mondo della cultura - sulle alternative che abbiamo di fronte sia a livello planetario che locale. Se si vogliono ottenere dei risultati non si può che procedere che così.
E se il governo non lo fa, di promuovere quel confronto dobbiamo farci carico noi. Chi? Tutti, dove e come si può. Mettendo al centro non la crescita ma la cura delle persone, del vivente e della Terra. Ma invece di una campagna di informazione e di un grande confronto ci siamo ritrovati le continue esternazioni del ministro Cingolani, peraltro in frequente contraddizione tra loro, ma che, sostanzialmente, mirano a rassicurare che non c’è da cambiare gran che: il gas sostituirà - un po’ per volta - il petrolio come “combustibile di transizione” (verso che?), costruendo nuovi impianti e pipeline la cui vita utile va ben al di là del 2050, anno in cui il gas dovrebbe scomparire; l’idrogeno verde deve aspettare (non è ancora maturo); con le rinnovabili non c’è fretta, tanto arriverà la fusione nucleare, o anche la fissione in “piccoli impianti” distribuiti sul territorio; la dieta proteica è essenziale, quindi largo agli allevamenti industriali; l’agricoltura sostenibile si fa con l’agrofotovoltaico (pannelli in alto e ortaggi sotto), ecc.
Ma se il ministro della Transizione sembra sensibile soprattutto alla lobby del gas (Eni ed Enel), il Pnrr, nel suo insieme, destina il giusto tributo anche a quella del cemento e delle Grandi opere: il piano pullula di autostrade, aeroporti e Alta velocità, chiamati infrastrutture, tutti finanziati a spese del trasporto locale (compreso il Tav Torino-Lione, ricompreso nel Pnrr, senza nominarlo, nelle vesti del fallito Ten-T).
E qui, anche senza entrare nei dettagli (che peraltro il Pnrr evita), la prima e fondamentale domanda da fare, se si aprisse, come si dovrà aprire, ma dal basso, un dibattito sulla transizione ecologica è: ma serve un treno ad alta velocità, o un ponte di quattro chilometri, per collegare regioni devastate dagli incendi, dove, di questo passo, si dovrà reggere a temperature di 50°C come a Vancouver (che è molto più a nord della Sicilia), per portare dei turisti su spiagge ormai sommerse dall’innalzamento del livello del mare? O serve portare altro gas in Italia cercando di seppellirne le emissioni sottoterra, in una regione già sconvolta da un terremoto di dubbia origine, lasciando in eredità alle future generazioni, ma forse anche a questa, una bomba di Co2 sotto pressione, pronta ad aprirsi un varco verso la superficie per restituire all’atmosfera tutta la Co2 fittiziamente sottrattale? O queste cose non dobbiamo chiedercele.
Recovery: Draghi in Parlamento: ’Disponiamo di 248 miliardi. Prepariamo l’Italia di domani’
Oggi presenta il piano alla Camera, domani la replica
di Redazione ANSA *
ROMA. "Sbaglieremmo tutti a pensare che il Pnrr pur nella sua storica importanza sia solo un insieme di progetti, di numeri, scadenze, obiettivi. Nell’insieme dei programmi c’è anche e soprattutto il destino del Paese".
Lo dice il presidente del Consiglio Mario Draghi nelle comunicazioni in Aula alla Camera sul Recovery.
Nel Pnrr c’è "la misura di quello che sarà il suo ruolo nella comunità internazionale, la sua credibilità e reputazione come fondatore Ue e protagonista del mondo occidentale. E’ questione non solo di reddito e benessere, ma di valori civili e sentimenti che nessun numero e nessuna tabella potrà mai rappresentare", aggiunge il presidente del Consiglio
L’INTERVENTO
Secondo il premier, "nel realizzare progetti, ritardi, inefficienze e miopi visioni di parte peseranno sulle nostre vite soprattuto su quelle dei più deboli, i figli e nipoti e forse non ci sarà piu tempo per porvi rimedio".
"Il Recovery ha 3 obiettivi - spiega ancora Draghi -: il primo con un orizzonte ravvicinato è riparare i danni della pandemia, che ci ha colpito più dei nostri vicini europei, il pil caduto è dell’ 8,7, i giovani e le donne hanno sofferto di più il calo dell’occupazione. Le misure di sostegno hanno attutito l’impatto sociale ma questo si è sentito sulle fasce più deboli", ha detto ancora Draghi
248 MILIARDI A DISPOSIZIONE
"Oltre al Pnrr da 191,5 miliardi e al Piano complementare da 30,6 miliardi "sono stati stanziati, inoltre, entro il 2032, ulteriori 26 miliardi da destinare alla realizzazione di opere specifiche". "È poi previsto il reintegro delle risorse del Fondo Sviluppo e Coesione, utilizzate nell’ambito del dispositivo europeo per il potenziamento dei progetti ivi previsti per 15,5 miliardi. Nel complesso potremo disporre di circa 248 miliardi di euro". A tali risorse, si aggiungono poi quelle rese disponibili dal programma REACT-EU che vengono spese negli anni 2021-2023. Fondi per ulteriori 13 mld".
26 MILIARDI ALLE OPERE
"Sono stati stanziati entro il 2032, ulteriori 26 miliardi da destinare alla realizzazione di opere specifiche. Queste includono la linea ferroviaria ad Alta Velocità Salerno-Reggio Calabria - che diventerà una vera alta velocità - e l’attraversamento di Vicenza relativo alla linea ad Alta Velocità Milano-Venezia".
22 MILIARDI SUL LAVORO, FOCUS AL GAP DI GENERE
"La quinta Missione è destinata alle politiche attive del lavoro e della formazione, all’inclusione sociale e alla coesione territoriale. I fondi destinati a questi obiettivi superano nel complesso i 22 miliardi. Ulteriori 7,3 miliardi di interventi beneficeranno delle risorse di React-Eu. Sono introdotte misure a sostegno dell’imprenditorialità femminile e un sistema di certificazione della parità di genere che accompagni e incentivi le imprese ad adottare politiche adeguate a ridurre il gap di genere"
IMPEGNO PER LA PROROGA AL 2023 DEL SUPERBONUS
"Per il Superbonus al 110% sono previsti, tra PNRR e Fondo complementare, oltre 18 miliardi, le stesse risorse stanziate dal precedente governo. Non c’è alcun taglio. La misura è finanziata fino alla fine del 2022, con estensione al giugno 2023 solo per le case popolari (Iacp). È un provvedimento importante per il settore delle costruzioni e per l’ambiente. Per il futuro, il governo si impegna a inserire nel disegno di legge di bilancio per il 2022 una proroga dell’ecobonus per il 2023, tenendo conto dei dati relativi alla sua applicazione nel 2021".
ASSEGNO UNICO STRUMENTO PER IL SOSTEGNO ALLE FAMIGLIE
"Grazie all’azione di questo Parlamento, l’assegno unico diventerà lo strumento centrale e onnicomprensivo per il sostegno alle famiglie con figli, in sostituzione delle misure frammentarie fino ad oggi vigenti. È una riforma che rappresenta un cambio di paradigma nelle politiche per la famiglia e a sostegno della natalità".
GARANZIA DI STATO AI GIOVANI CHE COMPRANO CASA
"Oltre al piano agli asili nido, di cui ho già parlato, i giovani beneficiano dalle misure per le infrastrutture sociali e le case popolari. E in un prossimo decreto, di imminente approvazione, sono previsti altre risorse per aiutare i giovani a contrarre un mutuo per acquistare una casa. Sarà possibile non pagare un anticipo, grazie all’introduzione di una garanzia statale".
ASSISTENZA A CASA AL 10% DEGLI OVER 65 NON AUTOSUFFICIENTI
Nel Pnrr "è previsto un significativo incremento delle prestazioni un’assistenza domiciliare. Fino a prendere in carico entro il 2026 il 10% delle persone sopra i 65 anni che necessitano di assistenza oltre alle persone affette da patologia cronica". Lo dice il presidente del Consiglio Mario Draghi nelle comunicazioni in Aula alla Camera sul Recovery. "Introduciamo un’importante riforma per la non autosufficienza, con l’obiettivo primario di offrire risposte ai problemi degli anziani", spiega Draghi che sottolinea: "Dopo le sofferenze e le paure di questi mesi di pandemia, non possiamo dimenticarci di loro"
I GIOVANI TRA I MAGGIORI BENEFICIARI DEL PIANO
"I giovani saranno tra i principali beneficiari di tutto il Piano. Gli investimenti e le riforme sulla transizione ecologica creeranno principalmente occupazione giovanile. La creazione di opportunità per i giovani nel mondo del lavoro sarà anche l’effetto naturale degli interventi sulla digitalizzazione che, tra l’altro, consentiranno di completare la connettività delle scuole".
LA CRESCITA DEL MEZZOGIORNO UNA PRIORITA’
"La crescita del Mezzogiorno rappresenta l’altro aspetto prioritario trasversale al Piano. Il potenziale del sud in termini di sviluppo, competitività e occupazione è tanto ampio quanto è grande il suo divario dal resto del Paese. Non è una questione di campanili: se cresce il sud, cresce anche l’Italia. Più del 50 per cento del totale degli investimenti in infrastrutture - soprattutto l’alta velocità ferroviaria e il sistema portuale - è diretto al sud"
GIU’ I TEMPI DEL PROCESSO CIVILE
"Il Governo intende ridurre l’inaccettabile arretrato presente nelle aule dei tribunali, e creare i presupposti per evitare che se ne formi di nuovo. Questo è uno degli impegni più importanti ed espliciti che abbiamo preso verso l’Unione europea. L’obiettivo finale che ci proponiamo è ambizioso, ridurre i tempi dei processi del 40 per cento per il settore civile e almeno del 25 per cento per il penale"
ENTRO MAGGIO IL DECRETO PER L’ATTUAZIONE DEL PNRR
"Entro maggio presentiamo un decreto che interviene con misure di carattere prevalentemente strutturale volte a favorire l’attuazione del PNRR e del Piano complementare. Oltre a importanti semplificazioni negli iter di attuazione e di valutazione degli investimenti in infrastrutture, si procede a una semplificazione delle norme in materia di appalti pubblici e concessioni".
HO FIDUCIA NEGLI ITALIANI, ATTUEREMO AL RECOVERY
"Sono certo che riusciremo ad attuare questo Piano. Sono certo che l’onestà, l’intelligenza, il gusto del futuro prevarranno sulla corruzione, la stupidità, gli interessi costituiti. Questa certezza non è sconsiderato ottimismo, ma fiducia negli Italiani, nel mio popolo, nella nostra capacità di lavorare insieme quando l’emergenza ci chiama alla solidarietà, alla responsabilità"
* ANSA, 26.04.2021 (RIPRESA PARZIALE).
Responsabili da accertare.
Le carte sul ponte Morandi pesano come pietre su tutti
di Marina Corradi (Avvenire, venerdì 23 aprile 2021)
Il ponte era malato da molto tempo. I fumi dell’inquinamento, la salsedine e l’intensissimo traffico ne insidiavano lentamente le strutture portanti. Poi, gli anni passando, molte parti del Morandi hanno cominicato a mostrare segni allarmanti di usura. Come è possibile però che un enorme ponte crolli di colpo, sulle case su cui sta arditamente sospeso? La domanda continua a perseguitarci. La Procura di Genova ha chiuso le indagini sulla tragedia del 14 agosto 2018, 43 morti. Non è una sentenza, non è ancora il rinvio a giudizio per i 69 indagati, oltre ad Autostrade e alla controllata Spea, responsabile della manutenzione. Ma sono pagine che sgomentano chi le legge.
Incoscienza, negligenza, immobilismo, comunicazioni fuorvianti, sono le espressioni usate dalla Procura, sulla base delle perizie commissionate. Sembra di assistere alla lenta agonia di quel colosso sulla città a un passo dal mare. Come una serie di cigolii prima sommessi, poi di ’crac’ netti, ma senza apparenti conseguenze. Quasi in una moviola l’inchiesta ripercorre gli accertamenti, le parziali manutenzioni, i sopralluoghi. Gli anni scorrono. Gli italiani, e noi stessi, passavamo sul ponte di Genova chiedendoci a volte se non avessero paura, gli abitanti di quei palazzi, a dormire con un simile mostro sulla testa. Ma certo, ci dicevamo, se il ponte è aperto è perché la stabilità è assoluta.
Ci dicevamo. Invece dalle carte delle perizie emerge un’incredibile sequela di silenzi e omissioni. Con la privatizzazione di Autostrade, si afferma, le spese di manutenzione calano del 98%. Le falle nella struttura e soprattutto nella pila 9, quella del crollo, si allargano. Ci sono agli atti intercettazioni in cui responsabili della manutenzione si chiedono se a fare i controlli ’ci mandano i ciechi’. Si chiedono come è possibile fare gli accertamenti di notte, alla luce delle torce, pur di non fermare il traffico di giorno. Così che tutti si continua, serenamente, a passare sul Morandi. Un video della telecamera di un’azienda sotto al ponte mostra esattamente l’istante in cui lo strallo d’acciaio si spezza: l’attimo in cui anche il cemento e il metallo cedono infine alla fatica. Non l’avremmo mai creduto possibile, noi che ci fidavamo. Diamine, non si tiene aperto un ponte, se non si è matematicamente certi che sta in piedi. È questo l’impietrimento che l’inchiesta della Procura, non ancora rinvio a giudizio e nemmeno sentenza, già lascia addosso. Il sospetto che non si possa fare un totale affidamento su quell’’altro’ che si occupa di un grande elemento della vita di un Paese: la sicurezza delle strade, vale a dire qualcosa di fondante, come la potabilità dell’acqua negli acquedotti. Qualcosa che crediamo di poter dare per scontato.
Ci preoccupiamo di quanto possano correre in auto i nostri figli, ma non certo dei ponti o dei viadotti. Quelli sono una forma del bene comune, che dovrebbe stare a cuore a tutti. Forse certi indagati che probabilmente andranno a processo a Genova non hanno figli, ti domandi. Perché se ne hanno, come facevano, sapendo dello stato del Morandi, nei week end estivi, sapendoli diretti al mare di Genova, a dormire tranquilli? Il ponte dentro le sue colonne portanti si corrodeva. Nel quartiere Polcevera i bambini andavano a dormire, abituati ormai al rombo dei Tir così vicini. Non si poteva credere che il gigante veramente cedesse: si chiama fiducia nel prossimo, si chiama società civile.
Quanto sarebbe costato mettere in sicurezza il Morandi? Quanto avrebbe pesato sui bilanci? Smarriscono, le pagine della Procura di Genova, come se un elemento essenziale venisse a mancare nell’aria che respiriamo. Come se contasse per qualcuno ormai solo l’adesso, solo il ritorno economico, e niente invece la responsabilità verso gli altri, e anche verso i figli che verranno. Come importasse a qualcuno solo l’immediato tornaconto: e il prossimo, e il futuro, e chi verrà dopo, per niente. Se anche tutto è vero, ci diciamo, sarà successo solo, tragicamente, a Genova. Non ci possiamo credere, non vogliamo. Perché poche altre cose sono, di un mondo, così forti segni di declino. Se tutto fosse vero, il nuovo elegante ponte di Genova non basterebbe affatto, e men che meno i risarcimenti per le vittime. Se tutto fosse vero bisognerebbe che ci guardassimo bene in faccia fra noi: per ritrovarci, per ricominciare.
La marcia su Roma.
Il dovere di evitare gli errori del 1921
di Giorgio Campanini (Avvenire, mercoledì 7 aprile 2021)
Sta passando sotto silenzio - anche per il ’blocco’ di non poche ricerche derivante dal tragico fenomeno epidemico che sta aggredendo il nostro Paese - il centenario del 1921 che, apparentemente, è solo parente povero del fatidico 1922, dell’anno, cioè, della cosiddetta ’marcia su Roma’ (che, come noto, marcia non fu...).
Ma non è fuori luogo - non solo per gli storici di professione, bensì per chiunque abbia a cuore le sorti della democrazia nel nostro Paese - riandare a quel 1921 che per molti aspetti può essere considerato non solo l’anticamera ma il ’brodo di cultura’ del successivo avvento al potere del fascismo. Il 1921 è stato l’anno delle radicali incomprensioni, da parte di pressoché tutti i componenti la classe dirigente di allora, della subdola pericolosità del fascismo.
Da ogni parte ci si illuse che si trattasse di un fenomeno passeggero, che sarebbe stato ben presto spazzato via e si sottovalutò fortemente il diffuso senso di disagio, e talvolta la vera e propria ’fuga dalla politica’ di vaste componenti di un Paese prostrato da una lunga guerra, vittoriosa, certo, sul piano militare ma prosciugatrice delle sue energie di base. Il 1921 è stato l’anno dei «veti incrociati»; il ’no’ dei socialisti ai liberali, dei popolari nei confronti degli uni quanto degli altri, sullo sfondo delle incertezze di una Monarchia incapace di rappresentare una guida per il Paese e in contesto di vita sociale caratterizzata da diffuse inquietudini, da continui scioperi, da persistenti aggressioni, dall’affermarsi di fazioni l’una contro l’altra armate...
È impossibile paragonare il 1921 con l’attuale situazione del Paese Italia? Vorremmo sperarlo, con le ’ragioni del cuore’, ma non così è per le ’ragioni della ragione’. Queste ultime ci dicono che l’esasperata conflittualità delle forze politiche - all’esterno fra loro, all’interno fra le varie correnti - non riesce a essere temperata nemmeno dall’obbligo di sostenere uno stesso governo: ancora oggi nulla è più lontano da un sereno confronto fra le opinioni, da un misurato ragionare sulle cose da fare e sui problemi da affrontare, da una valutazione obiettiva delle questioni sul tappeto, indipendentemente dagli interessi elettorali di ciascuna delle parti.
La forte frammentazione delle forze in campo - stando almeno alle indagini sondaggistiche, pur con tutti i limiti che le caratterizzano - è davanti agli occhi di tutti. Al pacato dialogo sta succedendo, anche all’interno dei partiti, grandi o piccoli che siano, una sorta di rissa continua. Un solo esempio: le condizioni del Pd sottolineate dalle dimissioni di Nicola Zingaretti dalla carica di segretario appaiono, alla luce delle riflessioni rapidamente svolte, veramente emblematiche: le risse interne hanno raggiunto un livello che vorrebbe essere di ’non ritorno’, ma che quasi certamente non sarà tale, nonostante il piglio con cui il nuovo segretario Enrico Letta ha preso il timone.
È arbitrario evocare, su questo sfondo, lo spettro del 1921? È ben vero che milita a favore dell’ottimismo una Carta costituzionale ben delineata e ferma, a differenza di uno Statuto, quello vigente del 1921, arcaico e superato; non vi è dubbio che la coscienza civile degli italiani è, nonostante tutto, più matura che non un secolo addietro; e non si vedono all’orizzonte, per fortuna, ’uomini forti’ della statura di un Lenin, di un Mussolini, di un Hitler. E tuttavia la storia del Novecento rivela quanto siano stati numerosi - e talora di assai modesto livello, come un Franco o un Pètain - i leader politici che hanno goduto di vasta popolarità e gestito, talvolta assai a lungo, il potere. Non ci si illuda, dunque, che si possa continuare all’infinito in una ’lotta continua’ tra partiti diventati spesso un’accozzaglia di ’fazioni’ fra loro contrapposte.
La storia del 1921 sta lì ad ammonire che la democrazia è per la sua stessa natura sempre a rischio. La lezione del passato - pur in un contesto profondamente diverso - non può essere dimenticata da chi dovrebbe battere la via dell’interesse del Paese e non quello personale e del proprio partito. Per questo, e non solo per i fondi del grande piano europeo di ripresa dopo la pandemia, il governo Draghi è un’occasione seria.
«Il Mose è lo scandalo mondiale sulle opere pubbliche più grande della nostra storia recente»
Disastro annunciato: hanno pagato, si fa per dire, i corrotti. Ma gli incompetenti non saranno chiamati a risponderne
di Massimo Cacciari (L’Espresso, 05 Aprile 2021) 05 Aprile 2021
Occorre purtroppo continuare a parlare del Mose poiché si tratta del più grande scandalo mondiale in tema di lavori pubblici nell’intera storia del secondo dopoguerra. E di una vergognosa devastazione di risorse del nostro Paese che dura ormai da un trentennio. La parte destinata a corruzione e tangenti, passata quasi in giudicato, è quella quantitativamente meno rilevante. Sono le deficienze complessive del progetto, sotto tutti i profili, che sono costate miliardi di euro e continueranno a costarli, se si vuole in qualche modo «salvare» l’opera, almeno nel senso che di quando in quando le paratoie possano sollevarsi. Di tutto potrei stupirmi fuorché della denuncia della dottoressa Ramundo e del professor Paolucci.
Loro illustri colleghi avevano già ricordato cose analoghe fin da quando il progetto delle dighe mobili venne approvato. Che dico approvato! Esaltato, magnificato, sostenuto contro ogni evidenza da tutti i governi e tutti i ministri dei Lavori Pubblici succedutisi nel Bel Paese tra anni ’90 e nuovo millennio. Con la complicità della totalità o quasi dei media nazionali. E contro le posizioni, i documenti, le analisi, gli studi promossi dalle Amministrazioni comunali che ho diretto, 1993-2000, 2005-2010. Chi è interessato, può facilmente rintracciare tutta la documentazione, presentata a Comitati tecnici, Consigli superiori dei Lavori Pubblici, Corte dei Conti, provveditori e ministri di ogni colore. Tutti sapevano, o sarebbero stati tenuti a sapere.
Votai contro, unico, in Comitato inter-ministeriale per la salvaguardia di Venezia, mettendo agli atti le ragioni del mio radicale dissenso, e mi arresi. Il fronte era invincibile, dal Governo alla Regione, Galan e Zaia, dalle Associazioni di categoria tutte, alla Confindustria, alla stragrande maggioranza di tecnici impiegati dal Consorzio, a tv e giornali (con la lodevole eccezione della Nuova Venezia),e via cantando. Capitolo ben triste della storia civile patria.
Il problema della corrosione, drammatico come si evince dalle parole di Ramundo e Paolucci, è uno dei tanti irrisolti. Vi è quello del traffico portuale. Vi è quello del soggetto che dovrebbe gestire il sistema e decidere del suo funzionamento in condizioni critiche. Vi è quello straordinario della manutenzione in generale.
Quando il sottoscritto chiedeva disperatamente ne venisse esplicitato il costo, si parlava di 30-40 milioni all’anno, ora questa cifra dovrà essere almeno raddoppiata. Chi scoverà queste risorse per i prossimi anni, nella situazione in cui si trova il Paese? E senza manutenzione il Mose semplicemente si disfa, come risulta chiaro dalle lettere di dimissioni dei due ex consulenti. Chi dovrà pagare per questo annunciato disastro? Finora hanno pagato, si fa per dire, soltanto corrotti e corruttori. Ma incompetenti lautamente remunerati e compagnia bella non devono pagare? Chi ha fatto il collaudo non si è accorto della qualità dei materiali utilizzati? Chi doveva dirigere il tutto non ha avuto notizia della mancata manutenzione? Come salvare il salvabile?
Un’unica via: trovare i soldi necessari per fare tutto quello che Ramundo e Paolucci direttamente e indirettamente richiedono e affidare a loro o a gente seria come loro, che non deve obbedire a nient’altro che alla propria coscienza, il lavoro da fare e la gestione dell’opera.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
FLS
Le parole contro Gratteri pesano come macigni
di Paola Militano (Corriere della Calabria, 29/03/2021)
Gli attacchi continui alla Procura di Catanzaro non sono solo legittime critiche, ma nascondono il pericoloso tentativo di minare la credibilità di un magistrato assai scomodo come Nicola Gratteri, in lizza per il posto di procuratore capo di Milano. È giusto che si sappia, perché c’è tutto un fitto e popoloso sottobosco intenzionato a non fermarsi neppure davanti al serio rischio di delegittimare tutta la magistratura calabrese impegnata a contrastare dominio e poteri criminali, di mettere in pericolo la vita di magistrati e giudici nel regno delle ‘ndrine dove non a caso da Siderno a Cutro (qui) fino a Vibo (qui) si progettano attentati e si pensa di ingaggiare sicari per eliminare Nicola Gratteri e dove le cimici registrano (qui) l’intenzione di fermare Pier Paolo Bruni.
Lo dico subito e senza infingimenti: non sono una fan di Nicola Gratteri e non faccio nemmeno parte di quel “Comitato spontaneo di prossimità” che - radunatosi davanti alla Procura di Catanzaro (qui) - all’indomani di “Rinascita Scott” manifestava sete di giustizia e oggi, invece, chissà perché tace.
Non ho mai tifato per questo o quel magistrato e resto semplicemente inorridita dinanzi alle verità emerse dalle intercettazioni che vedono come protagonista Luca Palamara: di un partito di giudici diviso in correnti, di taciti patti tra magistrati e politici, di rapporti viziati tra pm e giornalisti, insomma di un (anti)sistema che andrebbe riformato subito per recuperare fiducia nel sistema giudiziario, una fiducia seriamente compromessa dagli stessi togati.
Ma faccio questo lavoro da troppo tempo per non ricordare che la ‘ndrangheta, alzando il tiro, ordina gli omicidi di tre liberi, onesti e coraggiosi giudici calabresi: nel 1975 Francesco Ferlaino, nel 1983 Bruno Caccia e nel 1991 Antonino Scopelliti. Tutti e tre ammazzati perché nemici, avversari dei clan e servitori dello Stato. E non dimentico nemmeno le tante vittime giustiziate o quelle strangolate dal capillare reticolo di potenti cosche, da quell’arrogante potere criminale che si arricchisce soffocando e deprimendo da sempre questa terra, che s’insinua tra le maglie delle istituzioni, che paga poliziotti e magistrati infedeli, che si avvale di potenti avvocati massoni, che costringe i figli di Calabria ad emigrare perché qui non c’è futuro.
Ecco perché la martellante campagna denigratoria nei confronti di Gratteri, questo che in fondo è un tentativo di isolarlo, è un gioco fin troppo pericoloso che pesa come un macigno sull’attività della magistratura inquirente: oggi a Catanzaro, domani a Reggio, a Vibo, a Crotone e nel Cosentino. In tutti quei territori in cui si stanno infliggendo duri colpi ai potenti clan Piromalli, Pesce, Mancuso, Grande Aracri, Muto. Dove si combatte in prima linea contro cosche e ‘ndrine che oscurano le bellezze di questo territorio, pregiudicandone lo sviluppo culturale ed economico.
Ora per i calabresi è arrivato il momento di decidere da che parte stare.
Ricordiamo i nostri #Padri e le nostre #Madri #Costituenti:
"Una vera #paritàdigenere non significa un farisaico rispetto di #quoterosa richieste dalla #legge"
(#MarioDraghi).
e
dall’#immaginario
di una zoppa e cieca #antropologia.
A #ContursiTerme (#Salerno), almeno del 1989 è ripreso
il dibattito sulla #paritadigenere
grazie alla #memoria
di #Michelangelo e di #TeresadAvila
Dieci punti per il Piano di Rilancio
Ricostruire l’Italia, con il Sud
Se si vuole davvero avviare la ricostruzione del Paese, il Piano di Rilancio deve coniugare sviluppo e coesione sociale, riducendo le disparità e valorizzando il Mezzogiorno.
di AA.VV. (Il Mulino, 09-03.2021) *
L’Italia si trova di fronte all’occasione irripetibile di avviare la sua «ricostruzione» coniugando sviluppo e coesione sociale, per giocare un ruolo di primo piano nell’Europa del prossimo decennio.
Per tale ragione, a nostro avviso, l’obiettivo di ridurre le disparità di genere, generazionali e territoriali - per molti aspetti strettamente collegate nelle aree più deboli del Paese - dev’essere al centro del Piano di Rilancio e di tutti i suoi interventi, coerentemente con la complessiva impostazione comunitaria del programma Next Generation EU.
Dunque, lo sviluppo del Mezzogiorno dev’essere un grande obiettivo del Piano: per la rilevanza dei divari interni al Paese, che in base ai criteri di riparto comunitari hanno determinato la dimensione del finanziamento destinato all’Italia; per motivi di uguaglianza fra i cittadini e di rispetto del dettato costituzionale; per motivi di efficienza economica: gli investimenti nel Mezzogiorno hanno un moltiplicatore più elevato e determinano impatti sull’attività produttiva dell’intero sistema nazionale.
Il recupero del ritardo accumulato dall’Italia in Europa si supera tenendo insieme le parti del Paese in una strategia di sviluppo comune. Come nella logica del Next Generation EU, il Piano deve valorizzare le complementarità e le interdipendenze produttive e sociali tra i Nord e i Sud, riconoscendo che i risultati economici e il progresso sociale dei Nord dipendono dal destino dei Sud e viceversa. Nella sua attuale formulazione il Piano non dà garanzia che le sue risorse saranno investite con questo indirizzo, e ancor meno che ci saranno effetti sulla riduzione delle disparità e sulla crescita del Mezzogiorno e quindi dell’intero Paese. Per questo, a nostro avviso, il Piano dovrebbe essere riformulato:
La semplice allocazione di risorse non garantisce tuttavia il cambiamento del Sud e del Paese. Pertanto, a nostro avviso, il Piano dovrebbe anche:
Senza una migliore capacità amministrativa e coerenti politiche ordinarie i risultati conseguiti con il Piano non potranno essere mantenuti nel tempo, l’Italia non sarà davvero «ricostruita» e non potrà contare in Europa.
*
Laura Azzolina, Università di Palermo / Luca Bianchi, economista / Carlo Borgomeo, Fondazione con il Sud / Luciano Brancaccio, Università Federico II Napoli / Luigi Burroni, Università di Firenze / Domenico Cersosimo, Università della Calabria / Leandra D’Antone, storica / Paola De Vivo, Università Federico II Napoli / Carmine Donzelli, editore / Maurizio Franzini, Università La Sapienza Roma / Lidia Greco, Università di Bari / Alessandro Laterza, editore / Flavia Martinelli, Università Mediterranea Reggio Calabria / Alfio Mastropaolo, Università di Torino / Vittorio Mete, Università di Firenze / Enrica Morlicchio, Università Federico II Napoli / Rosanna Nisticò, Università della Calabria / Emmanuele Pavolini, Università di Macerata / Francesco Prota, Università di Bari / Francesco Raniolo, Università della Calabria / Marco Rossi-Doria, maestro / Isaia Sales, Università S. Orsola Benincasa Napoli / Rocco Sciarrone, Università di Torino / Carlo Trigilia, Università di Firenze / Gianfranco Viesti, Università di Bari
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E POLITICA: RIPENSARE COSTITUZIONE CITTADINANZA E SOVRANITA’. -Uscire dal letargo : "Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge"(Mario Draghi).
Quale sovranità?
C’è chi chiede più sovranità, intendendo più autonomia di decisione, ma anche chi vorrebbe più iniziativa collettiva
di Andrea Ruggeri (Il Mulino, 04 marzo 2021)
E se fossimo tutti sovranisti? C’è chi inarcherebbe il sopracciglio al solo pensiero di essere paragonato ai sovranisti nazionalisti. Ma c’è confusione su cosa si intende per sovranità. Sia chiaro, quest’ambiguità non è né strettamente un fenomeno italiano, né di sviluppo recentissimo.
Queste note esplorano due domande, una analitica - cosa intendiamo per sovranità? - e una critica - possiamo illuderci che una sovranità condivisa, anziché solitaria, non abbia rischi?
Boris Johnson e Donald Trump - ma anche Matteo Salvini con il suo «prima gli italiani» - sono sovranisti che sostengono che «riprendersi il controllo» del processo decisionale sia sufficiente per tornare a essere pienamente sovrani e dare forma in maniera autonoma al futuro del proprio Paese. Sovranità intesa, dunque, come mantenimento delle decisioni dentro i confini nazionali: si è sovrani, se si è indipendenti nel decidere. E poi c’è chi crede che la sovranità si debba declinare come controllo delle politiche e degli effetti delle stesse. Per loro non è centrale il luogo ove si decide, ma essere sovrani è governare la politica o almeno influenzarla. Dunque, per (ri)prendere il controllo si deve non solo partecipare, ma anche pesare, nelle organizzazioni sovranazionali e multilaterali. Macron e Draghi potrebbero dunque rappresentare coloro che interpretano la sovranità anche come condivisone della stessa.
Ma, dunque, cosa intendiamo per sovranità? Nello studio della politica internazionale il concetto di sovranità è centrale, ma la sua ambiguità è palese, non solo poiché spesso si usa il termine per descrivere azioni sia di politica interna sia di politica estera, ma anche perché alcuni pensano che la sovranità si possa unicamente delegare, mentre altri che la si possa anche condividere. Alcuni si illudono che il concetto di sovranità sia chiaro e netto, per via del «mito fondativo» della sovranità legato alla pace di Vestfalia (1648). La sovranità vestfaliana, forse all’insaputa di molti oratori, è quella più utilizzata nei discorsi pubblici e che tendiamo a etichettare frettolosamente come sovranismo. Stephen Krasner definiva questa forma di sovranità come «un assetto istituzionale per l’organizzazione della vita politica che si basa sulla territorialità e sull’autonomia. Gli Stati esistono in territori specifici. All’interno di questi territori, le autorità politiche nazionali sono gli unici arbitri del comportamento legittimo». Altre caratteristiche chiave, spesso riportate, configurano la sovranità come eguaglianza formale fra Stati e indivisibilità della stessa.
Tuttavia, tantissimi autori hanno evidenziato come eguaglianza e indivisibilità della sovranità sono sfidati quotidianamente nel campo delle relazioni internazionali. David Lake, infatti, scrive che «la sovranità è divisibile e dividerla in passato non ha portato a un’erosione inesorabile del principio». Però, Krasner ha notato come oltre al concetto vestfaliano di sovranità, vi siano almeno altri tre concetti di sovranità, prossimi ma diversi. Primo, il grado di controllo esercitato dagli enti pubblici e dall’organizzazione dell’autorità entro i confini territoriali. Se l’autorità statale non riesce a proiettare il potere centrale, non c’è sovranità. Secondo, il grado di controllo esercitato dall’autorità interna sui movimenti transfrontalieri. L’incapacità di regolare il flusso di merci, persone e idee attraverso i confini territoriali è stata descritta come una perdita di sovranità. Terzo, la sovranità intesa come diritto di alcuni attori a concludere accordi internazionali, concetto sviluppato e utilizzato principalmente dagli studiosi di diritto internazionale. Gli Stati sovrani possono stipulare trattati. Ecco un’ambiguità analitica: la sovranità può essere intesa come controllo della politica interna, ma anche come relazione esterna fra entità sovrane. Tuttavia, John Agnew, coniando il termine «la trappola territoriale», faceva giustamente notare che la politica interna, e dunque la sovranità interna, non è indipendente dalla politica esterna ed estera: ci illudiamo che i confini possano difenderci da scelte esterne e cadiamo nella fallacia di dividere nettamente tra politica interna ed estera.
Kenneth Waltz, acuto analiticamente ma con un punto di vista parziale e profondamente americano, scriveva che fra Stati sovrani «nessuno ha il diritto di comandare; nessuno deve per forza obbedire». Ma quest’eguaglianza è chiaramente solo formale. Un fatto è dirsi sovrano perché si hanno personalità giuridica e organi decisionali, un altro è essere liberi dalle scelte e dalle politiche adottate da altri Paesi. Infatti, sebbene l’istituzione della sovranità affermi il principio di non intervento negli affari di altri Stati, l’intervento è sempre stato una caratteristica degli affari internazionali. Dunque, Krasner definì la sovranità vestfaliana come un’«ipocrisia organizzata», una pratica contraddittoria dove si afferma l’inviolabilità dei confini territoriali, ma si continua a intervenire negli affari altrui. Questa sovranità ipocrita, in un mondo meno globalizzato e con alleanze internazionali ben salde, era meno problematica per Paesi come l’Italia. Oggi, invece, l’influenza e gli effetti di soggetti esteri sono più forti, soprattutto se si rimane ancorati solamente a una visione della sovranità vestfaliana.
David Lake sottolinea un’ulteriore differenza analitica importante: si può delegare sovranità a un’organizzazione internazionale, ma vi può anche essere il raggruppamento della sovranità in sede internazionale. Nel delegare sovranità alle organizzazioni internazionali, gli Stati concedono loro porzioni di sovranità per eseguire determinati compiti limitati. Mettendo in comune l’autorità - raggruppamento della sovranità - all’interno delle organizzazioni internazionali, gli Stati trasferiscono l’autorità di prendere decisioni vincolanti da se stessi a un corpo collettivo di Stati all’interno del quale possono esercitare più o meno influenza. Oggi, secondo Lake, gran parte delle preoccupazioni riguarda la messa in comune di sovranità, piuttosto che la sua delega. E aggiunge che quando si parla di Unione europea più che cedere sovranità, si raggruppa sovranità.
A scopo esplicativo, per elaborare quanto scritto sopra sul concetto di sovranità, riprendo alcuni interventi recenti nel dibattito pubblico da parte di due presidenti del consiglio: Giuseppe Conte e Mario Draghi. Nel suo discorso alla Camera per la fiducia nel giugno del 2018, Conte dichiarava: «Le forze politiche che integrano la maggioranza di governo sono state accusate di essere populiste e antisistema. Se populismo è attitudine ad ascoltare i bisogni della gente, allora lo rivendichiamo». Per Conte il nodo centrale della sovranità è dove essa risiede, nel popolo. Nel suo discorso di fronte all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York nel settembre 2018, Conte, per respingere alcune accuse contro il governo giallo-verde, ribadiva l’importanza di chi detiene la sovranità: «quando qualcuno ci accusa di sovranismo e populismo amo sempre ricordare che sovranità e popolo sono richiamati dall’articolo 1 della Costituzione italiana, ed è in quella previsione che interpreto il concetto di sovranità e il suo esercizio da parte del popolo». Dimenticava, Conte, la seconda parte dell’articolo 1, «che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Dove i membri della costituente chiaramente intesero, dopo un tragico conflitto mondiale, la possibilità e necessità di poter delegare sovranità per guadagnarne in cooperazione. Conte espresse allora un sostegno al concetto di sovranità come indipendenza decisionale, focalizzandosi sull’aspetto procedurale - chi decide e dove - ma recentissimamente ha condiviso l’idea che vi sono situazione e circostanze in cui si può cedere sovranità a organizzazioni sovranazionali.
Conte, nella sua lectio all’ateneo fiorentino del 26 febbraio 2021, sembra dunque parzialmente rivedere cosa si debba fare con la sovranità: «Abbiamo sempre più integrato i nostri sistemi economici, i nostri modelli educativi, le nostre legislazioni sociali, cedendo spazi di sovranità e trasferendo competenze via via sempre più importanti dagli Stati all’Unione». La sovranità rimane nazionale, ma parziali deleghe possono avvenire per poter affrontate sfide contemporanee. Non è dunque esplicitata una necessità di sovranità collettiva, ma un’esigenza -dato il contesto - semmai di delega.
Draghi, invece, è tetragono sul valore di una sovranità condivisa, o, come Lake direbbe, di «raggruppamento della sovranità», che si concentra di più sul risultato delle politiche, anziché sul processo decisionale. Draghi, nel suo discorso a Bologna nel 2019 per il conferimento di una laurea ad honorem, così definiva chiaramente la sua idea di sovranità: «La vera sovranità si riflette non nel potere di fare leggi - come vorrebbe una definizione giuridica - ma nella capacità di controllare i risultati e rispondere ai bisogni fondamentali delle persone. [...] La capacità di prendere decisioni indipendenti non garantisce ai Paesi tale controllo. In altre parole, l’indipendenza non garantisce la sovranità».
Ed ecco che il passaggio succinto sulla sovranità nel suo discorso per la fiducia del suo esecutivo, forse in questo contesto può guadagnare ulteriore chiarezza: «Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa [...] Non c’è sovranità nella solitudine. C’è solo l’inganno di ciò che siamo, nell’oblio di ciò che siamo stati e nella negazione di quello che potremmo essere».
Sembra chiaro che il vulnus stia nel credere che «riprendere il controllo» e poter decidere indipendentemente si traducano nel poter plasmare il proprio futuro. In questo caso la sovranità viene declinata essenzialmente come processo decisionale, interno ai confini nazionali, anziché come effetto delle decisioni stesse. Ci si illude che potendo dire quel che si vorrebbe fare od ottenere - senza confrontarsi con altri - porti a fare e ottenere ciò che si vuole. Oggi, un’Italia che mirasse a una sovranità solitaria, in realtà non sarebbe sovrana perché sarebbe alla mercé della potenza egemone di turno. Oggi gli Stati Uniti, domani forse la Cina.
Se un sovranismo vestfaliano, di stampo indipendentista o nazionalista, è solamente frutto di un’ambiguità analitica o di un malinteso storico - o al massimo di una miopia retorica e strumentale- possiamo illuderci che una sovranità condivisa, anziché solitaria, non abbia rischi? L’interdipendenza economica di oggi è una realtà consolidata e le sfide globali, dal terrorismo transnazionale alle pandemie globali, fino al cambiamento climatico, non possono essere risolte dai singoli Paesi. Dunque, si può puntare al rafforzamento della sovranità - intesa come capacità di controllare i risultati - raggruppando autorità e risorse in organizzazioni sovranazionali, in primis, come l’Unione europea.
Tuttavia, anche in questo caso si rischia di cadere in una fallacia sovranista, ma di delega. La politica e dunque l’importanza della sovranità, è decidere «chi ottiene cosa, quando e come», come sosteneva Harold Lasswell. E dunque mettere insieme risorse per affrontare un’arena internazionale sempre più complessa e attori sempre più competitivi non può giustificare una delega in bianco, senza sviluppare al contempo e ulteriormente istituzioni e strumenti di controllo e partecipazione da parte della cittadinanza. Ma devono essere chiari ai cittadini quali benefici e politiche si potranno guadagnare e perseguire attraverso questa sovranità condivisa. E i benefici ottenuti dovranno essere diffusi e condivisi. La questione centrale non è dunque essere per il sovranismo o essere contro di esso, ma quale sovranità si vuole ottenere e come gestirla collettivamente, non solo in Europa, ma anche in qualità di cittadini.
Alla Camera.
Fiducia-bis per il governo Draghi: 535 sì, 56 contrari
A favore Pd, Lega, Fi, Leu e la maggioranza del M5s, tranne 16 deputati dissidenti. Espulsione per i senatori 5 stelle che mercoledì sera hanno votato no alla fiducia
di Eugenio Fatigante (Avvenire, giovedì 18 febbraio 2021)
Draghi ha parlato di legalità e sicurezza "base per attirare investimenti", mentre "la corruzione è disincentivante sul piano economico per gli effetti depressivi sulla competitività e la concorrenza", è tornato sul tema della giustizia civile e penale per arrivare a un "processo giusto e di durata ragionevole in linea con la media degli altri paesi", ha ricordato quanto già affermato ieri sul turismo, che "merita sostegno", così come lo sport, un settore che ha sofferto e che deve ripartire. POi ha chiuso con questo auspicio: "Spero condividiate questo sguardo costantemente rivolto al futuro, che confido ispiri lo sforzo comune verso il superamento di questa emergenza sanitaria e della crisi economica. E che certamente caratterizzerà, nelle mie ambizioni, l’azione di questo governo".
Draghi ha seguito il dibattito seduto ai banchi del governo, tra i ministri degli Esteri e dell’Interno, Luigi Di Maio e Luciana Lamorgese.
Infine la votazione, con l’esito alle 21.45:
il governo Draghi ha incassato la fiducia con 535 sì. I voti contrari sono stati 56 e 5 sono state le astensioni.
Si è trattato di un’altra votazione scontata, anche se quella di questa sera, come già mercoledì sera al Senato, non ha consentito a Draghi di superare il recente primato di voti, che resta saldamente nelle mani di Mario Monti: il nuovo esecutivo si è fermato infatti in Senato a 262 sì, a fronte dei 281 che ottenne il professore della Bocconi nel novembre del 2011, mentre a Montecitorio ottenne 556 sì. Draghi si posiziona al terzo posto per voti favorevoli al suo governo, dopo Monti e il governo Andreotti IV (del 1978) che ottenne 545 sì. Rispetto al primo esecutivo Conte, che nel 2018 ebbe 350 sì, quello di Draghi vanta 185 consensi in più. Lo scarto con il Conte bis (votato positivamente da 343 deputati) è oggi di 192 voti in più.
Alla Camera oggi 16 deputati pentastellati hanno votato contro la fiducia, altri 4 si sono astenuti e 12 non hanno partecipato al voto.
Hanno votato a favore Pd, Lega, Fi, Leu, i gruppi parlamentari più piccoli e la stragrande maggioranza del M5s. Hanno votato no FdI e il drappello di grillini dissidenti.
L’ampia fiducia del Parlamento al governo Draghi fa registrare la soddisfazione di Sergio Mattarella, che ha visto così accolto il suo "appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un Governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica".
Sedici giorni dopo questo appello risuonato al Quirinale, seguito al fallimento dell’esplorazione del presidente della Camera Roberto Fico, il governo è ufficialmente operativo.
Domani, venerdì, Draghi parteciperà al vertice dei leader del G7, poi nel weekend completerà la squadra di governo con le nomine i viceministri e sottosegretari.
La votazione al Senato
Al Senato hanno pesato, oltre ai 17 assenti (8 dei quali tra le file pentastellate), i 40 no: i 19, scontati, dell’intero gruppo di Fratelli d’Italia, l’unico all’opposizione, più 4 del misto, 2 di Liberi e Uguali e i 15 del Movimento 5 stelle, fra i quali l’ex ministro del Sud, Barbara Lezzi, Nicola Morra, attuale presidente della commissione Antimafia, ed Elio Lannutti.
E qui c’è da registrare la novità più forte della mattinata: dei 15 senatori grillini in questione è stata annunciata, su Facebook, l’espulsione dal Movimento da parte del capo politico reggente, Vito Crimi, per il quale con il loro gesto «si collocano, nei fatti, all’opposizione. Per tale motivo non potranno più far parte - ha proseguito Crimi - del gruppo parlamentare del Movimento al Senato. Ho dunque invitato il capogruppo a comunicare il loro allontanamento, ai sensi dello Statuto e del regolamento del gruppo». I diretti interessati già minacciano di rivolgersi ai tribunali per adire le vie legali.
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#STORIA #STORIOGRAFIA E #DRAGHI: USCIRE DAL #LETARGO (#DANTE2021). #Tracce per una #svolta_antropologica e una #transizione_ecologica. #Dante, la #crisi culturale e #politica dell’#Europa e "l’#antropologia d’#ancien régime" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5908).
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Un altro deus ex machina sul piano inclinato della crisi
Draghi e non solo. La via tecnocratica, costruita con sofisticata ingegneria istituzionale, per ricondurre a «ordine» l’anomalia del voto del 2018, ridisegnando il sistema di governo
di Marco Revelli (il manifesto, 16.02.2021)
La Banca sopra la Politica, il Nord sopra il Sud, i maschi sopra le donne. Questa appare, ridotta all’essenziale, la struttura architettonica del nuovo governo: una fotografia perfetta dello stato di cose esistente e delle sue inamovibili gerarchie.
Non può sfuggire a nessuno, intanto, che l’ex governatore di Bankitalia e della Bce ha riservato a sé e ai propri fedelissimi il controllo della cassaforte, in primis del «tesorone» in arrivo dall’Europa, perché la gestissero con l’unica logica che gli uomini di banca conoscono: quella del denaro che rispetta solo se stesso (e che va dove già ce n’è).
E che poi abbia affidato per così dire «d’ufficio» un certo numero di ministeri chiave a quella che può essere considerata un’élite del sapere tecnico. Quasi volesse «mettere in sicurezza» il «cuore dello stato», o del sistema, da una politica malata, per certi versi comatosa, che nelle convulsioni dell’ultimo bimestre ha mostrato a nudo la propria incapacità di venire a capo della crisi che essa stessa aveva scatenato, riservandole un parterre tanto ampio quanto poco qualificato.
Uno spazio di tutti (e del contrario di tutti) da popolare secondo i dettami del manuale Cencelli, in cui le scarse competenze e l’esuberante litigiosità potessero in qualche misura offrire un simulacro di «copertura politica» senza rischiare di danneggiare i gangli vitali del sistema (più che commissariamento, «confinamento» si potrebbe dire).
Questo deve essere stato il pensiero congiunto di Draghi e Mattarella: la via tecnocratica, costruita con sofisticata ingegneria istituzionale, attraverso cui ricondurre a «ordine» l’anomalia selvaggia inaugurata col voto del 2018, ridisegnando il sistema di governo sulla mappa gerarchica del potere reale rispettandone con certosina attenzione le isobare.
Ed è esattamente quel criterio che ha portato a premiare il Nord (18 ministri) a scapito del Sud (appena 4), tanto che verrebbe da dire che, parafrasando la Moratti, i «posti» sono stati assegnati territorialmente in base al Pil: ben 9 ministri vengono dalla Lombardia, 4 dal Veneto, nessuno dalle isole...
Mentre per le donne - 8 su 24 - non è cosa nuova, è l’antropologia d’ancien régime che ha parlato.
Funzionerà? Si può davvero pensare di venire a capo di una grave «crisi di sistema» - quale quella che effettivamente l’Italia vive - con espedienti ingegneristici o con la logica del deus ex machina?
È per lo meno la terza volta che si tenta questa via - la prima con Ciampi, la seconda con Monti, ora con Draghi, peraltro figure assai simili per competenze e profilo tecnico-culturale - e ogni volta se ne è usciti con uno scatto in avanti sul piano inclinato della crisi istituzionale e sociale.
Il governo Ciampi, non dimentichiamolo, fu l’ultimo della Prima Repubblica. Dopo la sua fine dilagò il berlusconismo, espressione di una metamorfosi regressiva dell’elettorato nel suo complesso. Quindici anni più tardi, dopo diciassette mesi di governo Monti emerse il corpaccione grillino al centro di un sistema politico terremotato e sulla superficie di un corpo sociale martoriato, diventato addirittura nel 2018 maggioranza relativa, con una percentuale simile alla vecchia Dc.
Un altro terremoto che sconvolse vecchi e nuovi poteri, istituzionali ed economici, che infatti si misero subito all’opera per ricuperare centralità e controllo. E che oggi festeggiano il ritorno alla casella di partenza in questo gioco dell’oca che già ha percorso due giri a vuoto, nella speranza di fare, finalmente, l’en plein, e di poter sovrapporre al disordine di quel voto «obsoleto» un nuovo ordine venuto dall’alto di un’Europa non più matrigna.
È un’impresa arrischiata. Anche per poteri abituati da sempre a vincere. E nella sua sostanza opaca. Non perché violi, in qualche modo, la lettera della Costituzione: tutto è avvenuto entro i canoni degli articoli 92 e 94 (peraltro molto sobri). Ma perché sfida la «costituzione materiale» di una democrazia rappresentativa nella quale la volontà di rottura di continuità espressa, sia pur in modo convulso e contraddittorio, nell’ultima elezione generale viene neutralizzata (le convulsioni dei 5Stelle, ma anche il triplo salto mortale della Lega, lo testimoniano), per essere infine piegata a una deriva iper-continuista (che difficilmente, pur collocandosi in un’Europa diversa, e pur disponendo degli euro del Recovery, sanerà le ferite sociali e il malessere che produssero la rivolta nelle urne del ’18).
E poi perché crea un governo ibrido, in cui l’élite tecnica siede su un tappeto di macerie costituite da un sistema dei partiti profondamente lesionato dove ogni forza politica si presenta negando una parte di se stessa e ogni cultura politica appare dissolta, rendendo assai improbabile l’efficacia del confinamento.
Un governo che, come tutti i governi omnibus, ospita una pletora di partecipanti, ognuno dei quali non rinuncerà a usare il »posto a tavola» ottenuto come megafono per regolare i conti col proprio vicino: i «polli di Renzo», anzi di Renzi potremmo dire, di cui già Salvini e compagni offrono un bell’esempio usando il podio che l’altro Matteo gli ha offerto per aprire una campagna elettorale permanente.
Fin dall’inizio dei miei studi in Scienza politica ho dovuto imparare che per il buon funzionamento di una democrazia moderna, è necessario che tra il livello della Società e quello delle Istituzioni esista una solida Società Politica, a svolgere il ruolo di canale di comunicazione e di fattore di legittimazione. Se questa avvizzisce o muore, avvizzisce e muore la democrazia.
In questo senso il «miracoloso» governo di Mario Draghi rischia di sfidare le leggi fisiche della politica, con esiti potenzialmente infausti.
La frase con cui Giovanni Agnelli commentò il governo Ciampi - «dopo il governatore, c’è solo un generale, o un cardinale» - potrebbe ritornare di attualità non se Draghi fallisse ma se, completato il mandato, la politica si presentasse ancora nuda alle elezioni del ‘23.
La crisi di sistema
IL FALLIMENTODEGLI UOMINI NUOVI
DI GUIDO CRAINZ (L’Espresso, 07 febbraio 2021)
Neppure il pessimismo più cupo poteva immagi-nare un’implosione così radicale, un crollo cosìprivo di dignità, una abdicazione così totale del"sistema dei partiti" (odi quel che ne resta). Eppure è difficile stupirsi: quante volte abbiamo dovuto interrogarci sulla crisi sempre più grave della politica e dei suoi attori, dei suoi contenutie del suo modo di essere? E quando abbiamo iniziato ad avvertire le derive?
Solleviamo per un attimo lo sguardo dalle misere e drammatiche dinamiche dei giorni scorsi, vi è sul lontano sfondo qualcosa di profondo: uno spartiacque d’epoca avvertito sin dagli anni 80. Iniziano ad emergere allora le trasformazioni destinate ad erodere gli scenari del Novecento: con la crisi delle ideologie e il progressivo incrinarsi dei partiti dimassa fondati sulla militanza e l’appartenenza. Con il modificarsi dei soggetti sociali: si pensi al progressivo uscir di scena della "classe operaia", fulcro della realtà e dell’immaginario della sinistra. E con radicali trasformazioni delle forme della politica, nel delinearsi dei "partiti personali" e della "democrazia del pubblico".
Con la trasformazione cioè della comunità dei cittadini in una platea di telespettatori, in rapporto diretto con il leader: si erode anche per questa via l’insediamento sociale dei partiti e si delineano progressivamente, per dirla con Ilvo Diamanti, leader senza partiti e partiti senza società. Si rivedano le intense immagini dei funerali di Enrico Berlinguer, nel 1984: fotografano un punto alto e al tempo stesso l’inizio del declino del "popolo comunista". E oggi ci appaiono anche un inconsapevole e commosso addio ai grandi partiti del Novecento, già incrinati nei loro tratti ideologici e nel loro radicamento territoriale.
Pochi mesi prima il leader comunista erastato fischiato al Congresso di Verona del Psi che aveva riconfermato Craxi per acclamazione: «la più radicaleantitesi dell’elezione democratica», annotava Nor-berto Bobbio. Il primo annuncio dei "partiti perso-nali", e nelle scenografie dei congressi socialisti di allora è facile intravedere anche l’avanzare della"politica-spettacolo".
Naturalmente non è solo italiana la crisi delle forme novecentesche della politica. Per certi versi, ha osservato Sabino Cassese, l’indebolimento del partito-organizzazione può essere anche «un passo avanti perla democrazia - consente di rompere le fortificazioni erette intorno ad essa - ma produce un vuoto di educazione civica e di selezione della classe dirigente al quale bisogna porre rimedio». In quel vuoto aumentò invece nei nostri anni 80 la deformazione di partiti di governo portati a surrogare il calo dei consensi con l’uso dissennato del denaro pubblico, sempre più intrecciato a fenomeni corruttivi. E a trasformarsi così in «federazioni di correnti, di camarille, ciascunacon un boss e dei sotto-boss»: era parsa estrema, nel 1981, la denuncia di Berlinguer.
Dieci anni dopo Edmondo Berselli annotava che quel ceto politico sembrava attraversato e scosso, ormai, «da due spinte esattamente opposte: l’istinto di conservazione e una oscura volontà di autoannientamento». E in quella "immobilità parossistica" cresceva una «perfida combinazione di crisi economica conclamata e di marasma politico pericolosamente vicino al collasso del sistema».
II collasso verrà presto e travolgerà i partiti di governo ben oltre la bufera di Tangentopoli, ma non trionferà una sinistra ex comunista che era rimasta in larga parte estranea ai processi corruttivi ma non era stata capace di ripensarsi realmente. E veniva identificata così con il vecchio sistema politico.
Ebbe gioco facile, allora, il populismo di un "uomo nuovo" cresciuto neimedia, nelle culture e nelle deformazioni degli anni Ottanta. Intriso di insofferenza alle regole e di antistatalismo, di sostanziale disprezzo per le istituzioni e di illusionismo («un nuovo, straordinario miracolo italiano»). E i peggiori umori sedimentati nel decennio precedente troveranno larga rappresentanza nelle fila di Forza Italia e della Lega di Bossi (sono eloquenti le cronache parlamentari di allora).
Sembrò declinare dopo pochi mesi la stagione berlusconiana, ma poté prolungarsi poi per un ventennio grazie alla incapacità della sinistra di rifondarsi: eppure forme di "buona politica" erano pur emerse allora, dall’elezione diretta dei sindaci alle "primarie". Non trovarono vero ascolto però le istanze ad aprirsi più profondamente alla società civile: l’esigenza di una «politica restituita ai cittadini» è «un mito estremista» tuonò Massimo D’Alema, e chiuse il discorso. Riemersero così vecchi vizi e il centrosinistra vedrà progressivamente isterilirsi il proprio ceto politico, le proprie rappresentanze e le proprie dinamiche interne.
Vedrà moltiplicarsi microbaronie locali, e sarà sempre più po-vero di ideali e idee. Maturò così la rivincita berlusconiana del 2001, nonostante i risultati positivi rilievo pur conseguiti dal centrosinistra. E di lì a poco la spinta al rinnovamento dei "girotondi" non trovò ascolto in un ceto politico sempre più chiuso in se stesso. Sempre più "casta", come denunciava un libro di enorme successo del 2007: e in quello stesso anno Beppe Grillo occupò la scena con il primo Vaffa.
Esplodeva in quel torno di tempo una crisi finanziaria internazionale destinata a lasciare segni profondissimi. A rendere sempre meno credibile l’illusionismo berlusconiano e a rendere ineludibili nodi irti. Le ferite della globalizzazione avrebbero imposto, ad esempio, un ripensamento profondo del welfare, già incrinato dai mutati rapporti fra ceti e generazioni, ma quel ripensamento non vi fu.
Un’altra prova fallita dalla politica, mentre l’insicurezza era alimentata dal crescere impetuoso dell’immigrazione (e dall’incapacità di dare ad essa risposte reali) e dal comparire all’orizzonte del terrorismo islamico. Affondava in quello scenario il ventennio berlusconiano, lasciando inaspriti e sperduti milioni di italiani che in quell’illusionismo avevano pur creduto. Esposti ora al disincanto e al rancore.
Ben poco sapeva parlare ad essi la retorica bersaniana dell’"usato sicuro", inevitabilmente travolta dall’antipolitica urlata di Beppe Grillo: e in Parlamento irruppero nuove, improbabili schiere di "uomini nuovi" (si rileggano anche in questo caso le cronache dì allora).
Iniziò in quello scenario la breve stagione di Matteo Renzi, e iniziò con un impegno importante: «cambiare la politica e cambiare il Pd». Mai impegno fu più disatteso (eppure era desolante lo "stato del partito" fotografato allora da Fabrizio Barca), e lo stesso appuntamento alla Leopolda diventò la caricatura di un rinnovamento programmatico.
Prendeva corpo inoltre, grazie anche ad altri attori, una "democrazia del leader" segnata non dallo strapotere del capo ma dalla sua fragilità, come ha osservato Mauro Calise: dal suo essere «esposto alla spirale delleaspettative crescenti, dei sondaggi incombenti e delle decisioni impellenti. Con un circuito di legittimazione costantemente sull’orlo di una crisi di nervi».
Crollò così anche la stagionedi Renzi, ridotto ora alla irresponsabile caricatura di se stesso: sarebbe stato (ed è) necessario affrontare radicalmente i nodi che ne avevano provocato al tempo stesso l’ascesa e la caduta.
Sarebbe stato (ed è) necessario avviare, almeno, un ripensamento radicale sulle modalità di formazione del ceto politico,e dare corpo a cantieri reali di riflessione e di proposta suigrandi temi che incombono (dall’Europa al Mezzogiorno, dall’istruzione al lavoro e al welfare). Sarebbe necessaria e urgente, insomma, una vera stagione congressuale, impegno pur preso - a parole - dal segretario attuale del Pd. A parole,appunto, come aveva fatto Matteo Renzi.
La scheda.
Da Bianchi a Messa, tutti gli uomini e le donne del presidente
Quindici ministri sono politici, 8 tecnici. Il 33% sono donne. Gli esordienti sono 6
di Redazione Internet (Avvenire, venerdì 12 febbraio 2021)
Sono 23 i ministri del governo Draghi: otto le donne, 15 gli uomini. Otto ministri sono tecnici, gli altri politici. Sette del governo Conte bis vengono confermati nel governo Draghi, che registra quindi 16 new entry. Tra i 23 ministri, 17 hanno già ricoperto ruoli di governo mentre sei sono esordienti (Marta Cartabia, Daniele Franco, Roberto Cingolani, Patrizio Bianchi, Vittorio Colao e Cristina Messa).
Sono 4 i ministri del M5S del governo Draghi, tre quelli del Pd, di Forza Italia e della Lega uno di Leu ed uno di Italia Viva. In particolare sono del M5S Luigi Di Maio, Stefano Patuanelli, Fabiana Dadone e Federico D’Incà. Del Pd sono Andrea Orlando, Lorenzo Guerini e Dario Franceschini. Di Forza Italia sono Renato Brunetta, Mariastella Gelmini e Mara Carfagna. Della Lega sono Erika Stefani, Giancarlo Giorgetti e Massimo Garavaglia. Di Iv è espressione Elena Bonetti. Di Leu è espressione Roberto Speranza.
E se il governo Conte bis era a trazione meridionale, questo ha ben otto ministri lombardi nella squadra. E tre settentrionali su quattro.
Fabiana Dadone alle Politiche giovanili
Fabiana Dadone viene confermata ministro nel nuovo governo Draghi, in quota politica assegnata al Movimento 5 Stelle, ma passa dalla pubblica amministrazione alle politiche giovanili, terreno sicuramente fertile per chi, come lei, è entrata in politica da giovanissima. Classe 1984, Dadone è approdata per la prima volta al ministero nel 2019 a soli 35 anni, allora seconda solo a Luigi Di Maio nella graduatoria dei ministri più giovani. Piemontese, nata a Cuneo, ha fatto esperienza politica in commissione Affari Costituzionali della Camera, dove è stata anche capogruppo M5s. Il suo ingresso in Parlamento risale alle elezioni del 2013. Allora aveva 29 anni, figurando tra le più giovani parlamentari del M5s elette. Faceva ingresso a palazzo Montecitorio con in tasca una laurea in giurisprudenza, forte dell’impegno come volontaria nel sociale. Come ministro della Pubblica amministrazione è stata lei ad occuparsi nel corso dell’emergenza Covid del passaggio obbligato dei dipendenti pubblici allo smart working, necessario per non far cessare l’erogazione dei servizi pubblici. In seguito alla fase di emergenza, Dadone ha infatti aperto una nuova fase del lavoro agile nel settore pubblico con l’introduzione, nel decreto rilancio, del Pola (Piano organizzativo del lavoro agile), che dovrà essere adottato da ogni amministrazione pubblica entro il 31 dicembre di ciascun anno. Dadone ha avuto il suo secondo figlio durante la carica di ministro, a giugno scorso. L’ex premier, Giuseppe Conte, l’ha elogiata per aver partecipato ad una riunione di governo sul decreto semplificazione in diretta dall’ospedale.
Luciana Lamorgese all’Interno
Nel Governo Draghi, mantiene alla guida del Viminale Luciana Lamorgese, ex prefetta e consigliere di Stato richiamata nello scorso Esecutivo dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella per raffreddare la temperatura delle polemiche dopo la gestione ’muscolarè e fortemente politica del suo predecessore al ministero dell’Interno, Matteo Salvini. E di doti diplomatiche e di equilibrio ci sarà bisogno nella delicata posizione di chi guida le forze di polizia e tratta temi delicati - immigrazione in primis - con alle spalle una maggioranza così composita. Potentina, 68 anni a settembre, due figli, laurea in Giurisprudenza, Lamorgese è entrata in carriera al Viminale nel lontano 1979 e lì ha fatto tutta la trafila fino ad occuparne la poltrona più prestigiosa. Tra i vari ruoli ricoperti è stata prefetta di Venezia, capo di Gabinetto del ministro dell’Interno e prefetto di Milano come ultimo incarico prima di concludere il servizio nel 2018. L’esperienza da prefetto, con la vocazione alla mediazione ed alla concertazione tra tutti i soggetti coinvolti le sono state utili nel Conte II per disinnescare polemiche all’interno della maggioranza tra M5S, Pd e Iv. Alla sua paziente opera di ’ricuciturà si devono due dei provvedimenti più complicati dell’ultimo Governo: il superamento dei dl Salvini e la regolarizzazione dei lavoratori in nero.
Roberto Cingolani a Ambiente e Transizione ecologica
Fisico milanese di levatura internazionale, genovese di adozione, studi di perfezionamento alla Normale di Pisa ed esperienze in Germania al Max Planck Institut, in Giappone e negli Usa oltre che alla guida dell’Istituto Italiano di Tecnologia: con Roberto Cingolani, 59 anni, arriva un vero e proprio scienziato - esperto di robot e nanotecnologie - sulla plancia del nuovo superministero dell’Ambiente e della Transizione ecologica, un dicastero che assorbe anche le competenze energetiche ora al Mise. Avrà anche il compito di presiedere il comitato interministeriale per il coordinamento della transizione ecologica. Sarà in pratica l’uomo decisivo per l’utilizzo delle risorse ’green’ previste dal Piano nazionale di Ripresa e Resilienza, il cosiddetto Recovery Fund. Cingolani sale alla ribalta nazionale proprio quando nel 2005 diventa il primo direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia. Cingolani lo plasma come una sorta di amministratore delegato, ne è anzi l’anima: quando lo lascia nel 2019 l’istituto ha 11 centri di ricerca e oltre 1.700 scienziati provenienti da 60 paesi, un migliaio di brevetti, 24 startup già create e altre decine in cantiere. Giovane, visionario, Cingolani risponde alle polemiche con un entusiasmo vulcanico per la tecnologia, e un vero e proprio talento da divulgatore. Una star mondiale nelle scienze dei materiali, è nanotecnologo - non poche le iniziative a Genova sul grafene - dà impulso al progetto per l’umanoide iCub, il robot simbolo dell’Iit. Mostra doti manageriali anche quando lascia il segno nel progetto per una cittadella di Scienze della vita di Milano, lo Human Technopol. Nel 2019 diventa il capo dell’Innovazione in Leonardo (chief Technology and Innovation Officer), il gruppo aerospaziale a controllo pubblico. Tra le prime iniziative, portare in Italia, e proprio a Genova, uno dei supercomputer più potenti esistenti, per far entrare il Paese "nel club del supercalcolo mondiale" con almeno l’1% della potenza. Senza dimenticare che la nuova sfida, spiega proprio presentando il progetto, che la tecnologia sostenibile è la nuova sfida dell’innovazione: "non è pensabile fare cose nuove e scaricarne il peso sui nostri nipoti". "La sostenibilità deve diventare un parametro".
Patrizio Bianchi ministro dell’Istruzione
Un curriculum denso quello di Patrizio Bianchi, neo ministro all’Istruzione, in cui l’indubbio spessore accademico incrocia anche l’impegno amministrativo. Bianchi è stato assessore a scuola, università e lavoro della Regione Emilia-Romagna e di recente ha guidato la task force di esperti, voluta dalla ministra dell’Istruzione uscente Lucia Azzolina, per pianificare tempi e modi della ripartenza delle scuole durante la pandemia da coronavirus. Nato a Copparo (Ferrara), 68 anni, Bianchi è sposato con Laura Tabarini e ha due figli, Lorenzo e Antonio. È professore ordinario di economia applicata all’Università di Ferrara e titolare della cattedra Unesco ’Educazione, crescita e uguaglianza’. Si è laureato all’Università di Bologna con Romano Prodi, a cui è legato da un’amicizia di lunga data, e ha seguito un percorso di specializzazione alla London School of Economics and Political Sciences in Economia e politica industriale. Ha insegnato negli atenei di Trento, Udine e Bologna, dove è tornato come ordinario di politica economica nel 1991. Nel 1998 ha fondato la Facoltà di Economia dell’Università di Ferrara, è stato rettore dell’ateneo della città estense fino al 2010 e ha guidato la Fondazione della Conferenza dei rettori delle università italiane. Per due mandati ha ricoperto l’incarico di assessore della Regione Emilia-Romagna a scuola, università e lavoro gestendo anche la ripartenza delle attività didattiche dopo il terremoto del 2012, coordinando il Patto per il lavoro per lo sviluppo della Regione e dirigendo le attività per la progettazione e l’attivazione del Tecnopolo di Bologna, sede del centro dell’Agenzia europea per le previsioni meteo e del Centro europeo di supercalcolo scientifico. Dal gennaio 2020 è direttore scientifico della Fondazione internazionale Big Data e intelligenza artificiale per lo sviluppo umano.
Daniele Franco all’Economia
Per Daniele Franco, il neo ministro dell’Economia e Finanze, l’ingresso nel governo che lo porterà a varcare il portone di via XX settembre rappresenta un "ritorno". Esperto di conti pubblici, attuale direttore generale di Bankitalia, è stato Ragioniere Generale dello Stato, un ruolo dal quale ha svolto un ruolo di garanzia. Il suo curriculum garantisce a Draghi competenza e rigore professionale, e conoscenza capillare dei meandri e dei meccanismi del bilancio pubblico e di una pubblica amministrazione da semplificare. L’esperienza di Franco, veneto classe 1953 di Trichiana, nel bellunese, dopo la laurea, master in economia in Gran Bretagna, poi una carriera, scandita da incarichi accademici, fra Bankitalia, dagli esordi dopo la laurea al rientro con Draghi Governatore, la Commissione europea dove è advisor della DG Affari economici, la collaborazione con la Bce. Fino alla nomina a Ragioniere generale dello Stato, nel 2013, e nel 2019 l’arrivo ai vertici di Bankitalia e, dal 2020, la nomina a numero due del Governatore e la presidenza dell’Ivass. Le sue idee le ha ribadite in un intervento alla Giornata mondiale del risparmio, lo scorso novembre. Un’Italia che già "fatica strutturalmente a crescere" colpita duramente - specie nei settori come turismo o ristorazione - da una pandemia in cui "è difficile rovesciare le aspettative" perché il problema sono i contagi. Con un debito pubblico che andrà ridotto con "molta continuità" perché gli interventi della Bce non dureranno per sempre. E una crescita da recuperare puntando su giovani, istruzione, investimenti, innovazione: un programma tagliato apposta per l’esecutivo Draghi.
Elena Bonetti alle Pari opportunità
Elena Bonetti, l’esponente di Italia Viva rinconfermata alle Pari Opportunità, con le sue dimissioni, insieme alla collega di partito Bellanova, ha di fatto posto fine al Governo Conte. Mantonava, 47 anni, madre di due figli, alla sue prima esperienza come ministro è riuscita a far approvare il Family Act quella che ha definito "l’unica riforma approvata dal Governo Conte II" che dal luglio prossimo prevede un assegno unico per tutte le famiglie con figli, in base alle condizioni economiche. Lo stanziamento attuale è di 3 miliardi e poco meno di 6 a regime che si aggiungeranno al riordino dei fondi ora destinati alle famiglie, dai vari bonus alle detrazioni dei figli a carico. La Bonetti ha più volte lamentato che la sua riforma "nata alla Leopolda" era stata finanziata "per la sola parte dell’assegno", mentre il Family Act "andava ben oltre: con l’investimento sulle giovani coppie, sulla conciliazione tra l’esperienza familiare e quella lavorativa" e soprattutto sul lavoro femminile. Matematica, professore associato di Analisi, un passato nell’Agesci come Matteo Renzi che nel 2017 volle Bonetti nella segreteria dem. Scelta che destò sorpresa, considerato che non era una politica in senso stretto, e per di più iscritta da poco al Pd. Da ministro durante la pandemia si è sempre dichiarata a favore della scuole aperte ed ha ritenuto un grosso errore "mettere al 100% la Dad nelle superiori". Tra le sue battaglie anche quella contro la violenza sulle donne, e tanti provvedimenti per sostenere il lavoro e l’imprenditoria femminile. Bonetti ha sostenuto e promosso l’emendamendo che proroga e rafforza la legge Golfo-Mosca per la presenza delle donne nei cda delle società quotate, con l’obiettivo di quota 40%.
Stefano Patuanelli all’Agricoltura
Dal ministero dello Sviluppo Economico arriva alle Politiche agricole Stefano Patuanelli. 47 anni, tre figli, laureato in ingegneria, è nato a Trieste, dove nel 2005 è stato tra i primi ad animare il gruppo Beppe Grillo, Patuanelli, è da sempre fedelissimo di Di Maio e rappresenta l’area moderata dei 5 Stelle. Eletto consigliere e tesoriere dell’Ordine degli Ingegneri nel 2009, nel 2011 ha ritenuto corretto dimettersi, pur senza formale incompatibilità delle cariche, perché eletto in Consiglio comunale, dove ha lavorato per 5 anni, approfondendo lo studio dell’amministrazione pubblica e dei servizi pubblici. Durante il mandato si occupa di pianificazione territoriale, edilizia, ambiente, infrastrutture e trasporti. "È stata una esperienza che mi ha fatto capire quanto poco basterebbe per migliorare la qualità della vita dei cittadini", scrive sul suo profilo sul sito del Mise. Alle elezioni politiche nazionali del 2018 viene eletto senatore nella circoscrizione Friuli Venezia Giulia e successivamente scelto come capogruppo al Senato. Presta giuramento di fronte al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 5 settembre 2019 come Ministro dello Sviluppo Economico. Nella sua vita non c’è solo la politica, scrive di amare lo sport in generale ed in particolare la pallacanestro e l’atletica.
Vittorio Colao all’Innovazione tecnologica
Da sempre, ad ogni nuovo traguardo di un lunga carriera da supermanager, Vittorio Colao è stato inquadrato nella scalata al successo del vivaio milanese dei ’McKinsey Boys’. Bresciano, classe 1961, famiglia con un ramo di origini calabresi, bocconiano con un master a Harvard, nel 2014 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano gli ha conferito l’onorificenza di Cavaliere del Lavoro. Sempre serio, atteggiamento schivo, cortese e determinato, il suo autoritratto può essere sintetizzato in un episodio che, tempo dopo, lui stesso ha raccontato. Nel 2018 aveva così spiegato la scelta di non lasciare il suo lavoro di capo azienda per un incarico al Governo: "È vero che in passato mi hanno offerto di fare il ministro, ma avevo un lavoro bello e importante da completare, dipendevano da me più di 100mila persone. Credo che gli impegni di lavoro vadano conclusi". La società che non aveva voluto lasciare era un colosso mondiale, il gruppo delle tlc Vodafone che ha guidato dal 2008 al 2018 in un intenso lavoro di riorganizzazione e di crescita. Quel percorso era iniziato nella seconda metà degli anni ’90, in Italia prima di volare a Londra, prima come direttore generale poi amministratore delegato di Omnitel che diventerà Vodafone Italia. Aver domato le sfide del settore delle tlc, negli anni della fine dei monopoli e delle gare per l’inseguirsi delle nuove tecnologie della rivoluzione del mobile, è forse la sua esperienza più vicina al ruolo che si accinge ad assumere nel Governo di Mario Draghi: ministro per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale. È stato poi alla guida di Rcs MediaGroup. Lo scorso aprile è arrivata la chiamata a cui non poteva dire di no, dal Governo Conte, per la sfida più grande: guidare la la task force per la ripartenza dell’Italia, di un Paese e di una economia travolti dall’emergenza del Covid-19. A lui ha fatto riferimento il lavoro del gruppo di ’alto livellò di giuristi, economisti, esperti, incaricato di mettere a fuoco le sfide di una emergenza senza precedenti e di studiare le strade per uscire dalla crisi.
Erika Stefani alla Disabilità
Avvocata vicentina, classe 1971, Erika Stefani è la nuova ministra alle politiche per la disabilità del governo Draghi. Stefani è entrata in politica alle amministrative del 1999 come consigliera del Comune di Trissino e dopo una lunga carriera è approdata in Parlamento nel 2013. A giugno del 2018 è stata nominata ministra del primo governo gialloverde guidato da Giuseppe Conte e ora torna alla carica per occuparsi del delicato tema delle disabilità in quota Carroccio. Si è occupata molto di giustizia e autonomie. Nata il 18 luglio 1971 a Valdagno, nel Vicentino, Stefani ha studiato giurisprudenza all’università di Padova. È entrata in politica alle amministrative del 1999 con una lista civica come consigliera del Comune di Trissino. Da questo momento in poi, la sua è stata una lunga carriera maturata a livello amministrativo e territoriale. E l’avvicinamento alla Lega è arrivato in corsa. Alle elezioni Comunali del 2009 si è presentata come candidata del Carroccio a Trissino, è stata eletta e ha ricoperto le cariche di vicesindaca e assessore all’Urbanistica. Nel 2013, quando alle politiche è stata eletta senatrice con la coalizione di centrodestra. Durante la legislatura, è stata vicepresidente del gruppo Ln-Aut dal 15 luglio 2014, membro della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, componente della commissione Giustizia. Inoltre, ha fatto parte della commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e su ogni forma di violenza di genere; del Comitato parlamentare per i procedimenti di accusa; della commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza. Era anche membro della commissione di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro. Alle elezioni del 4 marzo 2018 è stata rieletta nel collegio uninominale di Vicenza. Poi è approdata, con Giuseppe Conte, al ministero chiamato ad occuparsi dei rapporti con le Regioni. Ora torna in campo con Draghi.
Lorenzo Guerini alla Difesa
Lorenzo Guerini è stato confermato alla guida del ministero della Difesa. Nell’ultimo anno, più delle missioni internazionali, le Forze armate sono state impegnate soprattutto nella lotta al Coronavirus e Guerini ha gestito la trasformazione dello strumento militare in una sorta di struttura parasanitaria che ha messo a disposizione caserme, uomini, mezzi e reclutato medici e infermieri per contrastare la pandemia. Guerini è stato attivo sia sul versante dell’industria della Difesa - nelle settimane scorse ha siglato con Svezia e Gb un accordo per lo sviluppo del nuovo sistema aereo avanzato Tempest, destinato a sostituire l’Eurofighter - e delle relazioni internazionali, consolidando i rapporti con i tradizionali partner europei, della Nato e, soprattutto, con gli Usa. Dunque un’attività governativa piuttosto intensa, che si è accompagnata a quella politica in senso stretto, essendo Guerini uno dei leader (con Luca Lotti) di Base Riformista, la corrente ex renziana del Pd che esprime il maggior numero di parlamentari. Ex presidente del Copasir, il Comitato parlamentare sui Servizi, Guerini - nato a Lodi nel 1966 - è laureato in Scienze Politiche. Assicuratore di professione, ha militato tra gli anni ’80 e ’90 nella Democrazia Cristiana ed è stato presidente della sua Provincia nel 1995. Dopo due mandati fu eletto sindaco di Lodi in quota Margherita e nel 2012 è stato eletto come deputato con il Pd. Fin dai tempi dell’Anci, quando Guerini era sindaco, ha consolidato i suoi rapporti con Matteo Renzi, all’epoca primo cittadino di Firenze. È da sempre considerato, nel suo partito, un abile mediatore e tessitore di compromessi. Prima di essere eletto presidente del Copasir nel 2018, Guerini - già deputato - aveva assunto ruoli nella segreteria nazionale del Pd. Nel febbraio del 2014 affiancò il presidente del Consiglio incaricato Renzi durante le consultazioni istituzionali per la formazione del nuovo governo, compreso il faccia a faccia che l’ex premier ebbe con Beppe Grillo. Tra il 2014 e il 2017 è stato vicesegretario del Pd assieme a Debora Serracchiani.
La scheda.
Da Bianchi a Messa, tutti gli uomini e le donne del presidente
Quindici ministri sono politici, 8 tecnici. Il 33% sono donne. Gli esordienti sono 6
di Redazione Internet (Avvenire, venerdì 12 febbraio 2021)
Roberto Speranza alla Salute
Confermare Roberto Speranza sulla poltrona più importante di Lungotevere Ripa per Mario Draghi deve essere stata una scelta di garanzia: la macchina dell’emergenza contro l’epidemia funziona, e nonostante le critiche arrivate nell’ultimo anno nei momenti più difficili della pandemia, il ministro ha ricevuto valutazioni positive anche nei sondaggi, risultando tra i più popolari. E il gradimento non è sceso neppure quando è esplosa furibonda la polemica sul piano pandemico. Certo, il giorno in cui Speranza prese il posto della pentastellata Giulia Grillo non si sarebbe neppure lontanamente aspettato che sulle sue spalle potesse cadere la gestione di una catastrofe. Lo stato d’emergenza, il blocco dei voli, il lockdown, la chiusura delle discoteche: misure pesanti per l’intera popolazione, al centro di feroci scontri nel cuore dell’esecutivo. Per il ministro della Salute, poco più che quarantenne, negli ultimi 12 mesi è stato come trovarsi dentro ad uno tzunami. La via continua ad essere in salita. Almeno fino a quando buona parte della popolazione non sarà vaccinata.
Cristina Messa all’Università
È una carriera da manager della ricerca, quella di Cristina Messa, che prima dell’incarico di rettore dell’Università di Milano Bicocca è stata vicepresidente del Consiglio nazionale delle Ricerche (Cnr), ed è delegata del ministero dell’Istruzione, l’Università e la Ricerca nel programma Horizon 2020 ed è membro del Comitato Coordinatore di Human Technopole (2016-in corso). Nata a Monza l’8 ottobre 1961, Messa si è laureata in Medicina e Chirurgia nel 1986 e si è specializzata in Medicina Nucleare presso l’Università di Milano. Dopo aver studiato per un periodo all’estero, negli Stati Uniti e poi in Gran Bretagna, ed è al rientro in Italia, dopo essere stata ricercatrice all’Istituto San Raffaele di Milano, nel 2001 è diventata professore associato nell’Università di Milano Bicocca e ordinario nel 2013. Dal 2005 al 2012 ha diretto l’unità operativa di medicina nucleare dell’ospedale San Gerardo di Monza, che attualmente fa parte della Fondazione Technomed dell’Università di Milano-Bicocca, e dal 2012 al 2012 ha diretto il dipartimento di Scienze della Salute della stessa università. Dal 2013 al 2019 è stata rettore dell’Università di Milano-Bicocca, prima donna di un ateneo milanese e quarta in Italia. Ha fatto parte della Giunta della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (Crui) con la delega alla Ricerca. Dal 2016 fa parte del Comitato Coordinatore di Human Technopole e dal 2017 è membro dell’Osservatorio nazionale della formazione medico specialistica del ministero. Autrice di oltre 180 pubblicazioni scientifiche, nel 2014 ha ricevuto il premio Marisa Bellisario, "Donne Ad Alta quota".
Federico D’Incà ai Rapporti con il Parlamento
Riconfermato per un secondo mandato al ministero per i Rapporti con il Parlamento, il bellunese Federico D’Incà, era stato "promosso" nell’esecutivo Conte II dopo essersi fatto notare come uomo della mediazione nel Movimento. Deputato pentastellato della vecchia guardia, eletto con il M5s già nel 2013, è stato prima capogruppo del Movimento e successivamente, presidente del gruppo parlamentare. Nel 2016 ha ricoperto il ruolo di vice presidente della Commissione Parlamentare di inchiesta per la digitalizzazione della Pubblica amministrazione. Rieletto nel 2018, D’Incà è stato anche questore della Camera. Con questo incarico ha dato direttive per il contenimento dei costi che hanno portato a un risparmio di 52 milioni di euro annui nella gestione dell’assemblea, che sommati a 48 milioni di euro di avanzi di amministrazione precedenti, costituiscono una restituzione complessiva al bilancio dello Stato di 100 milioni di euro, la più alta di sempre. È stato anche componente della Commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione, del Comitato per la Comunicazione e l’Informazione Esterna, del Comitato di Vigilanza sull’Attività di Documentazione, del Comitato per gli Affari del Personale, del Comitato per la Sicurezza. Nato il 10 febbraio 1976, sposato e con una figlia, laureato in Economia e Commercio all’università di Trento, D’Incà ha un passato da analista di sistemi informatici e quindi da caposettore in una società della grande distribuzione. Il suo ingresso in politica risale a prima del boom del M5S, quando si presentò nella località in cui risiedeva, Trichiana, con una lista civica. Quindi, l’abbraccio con il Movimento di Beppe Grillo e l’elezione nel 2013 a Montecitorio. Nel 2017, in Veneto, si fa notare come uno dei promotori in prima linea del referendum per l’Autonomia. Quando nel 2018 viene rieletto alla Camera, si schiera tra quanti nel Movimento erano critici del governo giallo-verde.
Dario Franceschini ministro della Cultura
Nel febbraio del 2014, fresco di giuramento al Quirinale, Dario Franceschini, avvocato di formazione, politico di professione, ma anche appassionato romanziere, stupì i cronisti definendo i beni culturali che si accingeva a guidare "un ministero dell’economia". Un assunto che nei quasi quattro anni del suo primo mandato e poi nei 18 mesi circa del secondo (nel quale alla cultura si era aggiunto il turismo) ha cercato in tutti i modi di mettere in pratica. Con una rivoluzione nel mondo dei musei che - almeno fino all’arrivo della pandemia e quindi dei lockdown - ha fatto crescere di molto i visitatori, creando pure polemiche e più di una insofferenza tra i ranghi del dicastero fondato nel 1975 da Giovanni Spadolini, tanto che ultimamente, sottolineando il record dei suoi ben 1707 giorni in carica da ministro della cultura, c’è chi non ha esitato a definirlo "Re Sole". Tant’è, i suoi interventi per lo spettacolo, per il cinema prima di tutto con la nuova legge e tanti interventi di defiscalizzazione, gli hanno garantito appoggio e lealtà di un settore di forte peso. Protagonista di primissimo piano nel governo Conte e poi nei giorni della crisi, non ha di fatto mai lasciato le sue stanze ai beni culturali, dove teneva moltissimo a ritornare per completare il progetto, avviato ormai 7 anni fa, che dovrebbe fare davvero del Collegio Romano un dicastero economico a tutti gli effetti. Libero dai nodi del turismo, che Draghi ha affidato a Massimo Garavaglia, Franceschini dovrà impegnarsi per i teatri "da troppo tempo chiusi", come gli ha ricordato ieri il maestro Muti. Franceschini, in politica dai tempi della scuola, papà partigiano bianco poi deputato della Dc e grande ammirazione per Pierluigi Castagnetti, è stato spesso definito ’uomo del dialogo’. Ferrarese, classe 1958, padre di tre figlie amatissime, appassionato di jazz, il neo ministro della cultura è sposato in seconde nozze con Michela Di Biase, ex consigliere pd in Campidoglio e alla Regione Lazio.
Mara Carfagna al Sud
Una donna meridionale per il ministero del Sud e della Coesione sociale. La salernitana Mara Carfagna, 45 anni, esponente ormai storica di Forza Italia, torna al governo dopo 10 anni: era stata ministro delle Pari opportunità nel quarto governo Berlusconi dal 2008 al 2011. Dal 2018 è vicepresidente della Camera, nella quale è deputata ininterrottamente dal 2006, tra Forza Italia e Popolo delle Libertà. Laureata in legge, Carfagna ha esperienze giovanili in tv e nel mondo dello spettacolo, come valletta, presentatrice e modella. Ha anche partecipato a Miss Italia nel 1997, vincendo il titolo di Miss Cinema. Nel 2004 esordisce in politica come coordinatrice del movimento femminile di Forza Italia in Campania. Nell’ottobre 2007 è nominata Coordinatrice Nazionale di Azzurro Donna. Nella sua attività parlamentare Carfagna ha legato in particolare il proprio nome alla legge che ha introdotto il reato di stalking, della quale è stata la principale promotrice. In generale si è occupata a lungo di violenza contro le donne e di mutilazioni genitali femminili, guadagnandosi stima e consensi anche fuori della sua parte politica, il centrodestra. Nel 2009 Carfagna ha realizzato la campagna "Nessuna differenza", la prima contro l’omofobia e la violenza legata all’orientamento sessuale mai realizzata da un Governo in Italia. Il 3 aprile 2019 la Camera dei Deputati approva l’emendamento di Carfagna al disegno di legge "Codice Rosso", che introduce in Italia il reato di matrimonio forzato e l’istituzione di un fondo per le famiglie affidatarie di orfani di femminicidio. Il 19 giugno dello stesso anno Silvio Berlusconi la sceglie assieme al Presidente della Liguria Giovanni Toti come coordinatori di Forza Italia con l’incarico di redigere una proposta di modifica dello statuto del partito. Ma pochi mesi dopo il leader azzurro nomina un nuovo coordinamento di 5 persone, tra cui la deputata, che però non accetta l’incarico. Alla fine del 2019 Carfagna fonda l’associazione ’Voce Libera’ all’interno di Forza Italia, alla quale aderiscono diversi colleghi parlamentari moderati e del Sud, oltre a Stefano Parisi, Antonio Martino come presidente onorario, il costituzionalista Alfonso Celotto e l’economista Carlo Cottarelli.
Enrico Giovannini alle Infrastrutture e Trasporti
Una lunga carriera internazionale ai vertici dell’Ocse, la presidenza dell’Istat, il ministero del Lavoro, e da anni la battaglia quotidiana per coniugare sviluppo, uguaglianza e sostenibilità come cofondatore e portavoce dell’ASviS, l’Alleanza dello Sviluppo sostenibile. Ad Enrico Giovannini, 64 anni, ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti è ora affidato il complicato compito di gestire quei quasi 32 miliardi (31,98 miliardi di euro per l’esattezza) che il Recovery destina al capitolo Infrastrutture, tenendo conto della necessità di ammodernamento del Paese da conciliare con la grande battaglia dello sviluppo sostenibile. Romano, classe ’57, laurea in statistica alla Sapienza, il neoministro alle Infrastrutture ed i Trasporti è conosciuto come un riformatore "cortese ma risoluto": da direttore generale dell’Ocse dal 2001 al 2009 ha realizzato una profonda riforma complessiva sistema statistico dell’Organizzazione e lo stesso è avvenuto alla guida dell’Istat dal 2009 al 2013 dove ha realizzato numerosi progetti innovativi. Suo, tra l’altro, proprio l’avvio del progetto per la misura del "Benessere Equo e Sostenibile (BES)". Da ministro del Lavoro, con sguardo attento alla disoccupazione giovanile ha avviato, tra l’altro la riforma degli ammortizzatori in deroga e disegnato Garanzia giovani, concentrando anche l’attività di indirizzo del ministero sulla lotta alla povertà e al lavoro nero e ribadendo più volte agli imprenditori la necessità di investire "sul capitale umano". Docente di statistica economica a Tor Vergata, ha cofondato l’Alleanza dello Sviluppo sostenibile nata nel 2016 che riunisce 270 tra società, istituzioni e reti della società civile con lo scopo di promuovere i temi dell’Agenda 2030 e lo sviluppo sostenibile."
Andrea Orlando al Lavoro
Andrea Orlando, vicesegretario del Pd, è il nuovo ministro del Lavoro e delle Politiche sociali del governo Draghi. Prende il posto di Nunzia Catalfo (M5s). Nato a La Spezia, classe 1969, maturità scientifica, ha iniziato da giovanissimo l’attività politica e ha già rivestito incarichi da ministro. Dal 28 aprile 2013 al 22 febbraio 2014 è stato alla guida dell’Ambiente, tutela del territorio e del mare del governo Letta, e dal 22 febbraio 2014 al 12 dicembre 2016 è stato ministro della Giustizia del governo Renzi, riconfermato nel governo Gentiloni, fino al 31 maggio 2018. Il suo esordio in politica risale al 1989 come segretario provinciale della Fgci. Nel 1990 la prima elezione a Consigliere comunale nella sua città con il Pci, carica che mantiene, divenendo poi capogruppo al Consiglio comunale, con il Pds alle successive elezioni. Nel 1995 segretario cittadino del Partito e nel 1997 diviene assessore prima alle Attività produttive ed in seguito alla Pianificazione territoriale. Nel 2000 entra nella segreteria regionale dei Ds come responsabile degli enti locali, e nel 2001 è segretario provinciale. Nel 2003 è nella direzione nazionale del Partito come vice responsabile dell’organizzazione e poi come responsabile degli enti locali (2005) e nel 2006 è responsabile nazionale del partito. Viene eletto deputato dell’Ulivo nel 2006. Confluito nel Partito democratico allo scioglimento dei Ds, nell’aprile 2007, ne diviene responsabile dell’organizzazione. Rieletto nel 2008 per il Pd alla Camera, nello stesso anno viene nominato portavoce del partito da Walter Veltroni, incarico che mantiene anche nella segreteria di Dario Franceschini. Nominato nel 2009 da Pierluigi Bersani presidente del Forum Giustizia del partito, diviene membro della commissione Giustizia della Camera (2010). Nel gennaio 2011 commissario del Pd a Napoli. Alle elezioni politiche del 2018 viene rieletto alla Camera e dal 2019 è vicesegretario del Pd.
Giancarlo Giorgetti ministro dello Sviluppo economico
Numero due della Lega e braccio destro di Matteo Salvini, Giancarlo Giorgetti è considerato il mediatore che ha favorito la svolta del leader della Lega alla virata europeista, ma ritenuto da mesi uno strenuo sostenitore di un eventuale governo Draghi. Il suo endorsement è arrivato forte e chiaro all’indomani dell’incarico dato all’ex presidente della Bce dal Capo dello Stato: "Draghi è un fuoriclasse come Ronaldo. Uno come lui non può stare in panchina". Approda al Ministero dello Sviluppo economico al posto di Stefano Patuanelli segnando la sua seconda volta al Governo. La prima esperienza è stata sempre in una posizione forte, come sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri nel Conte I, un ruolo chiave nel quale ha gestito tutti i più importanti dossier dopo che si era distinto anche allora come uomo in grado di mediare tra le diverse forze politiche, uno dei protagonisti della trattativa per la costituzione dell’esecutivo giallo-verde. Già uomo macchina della Lega Nord di Umberto Bossi, Giorgetti è stato segretario nazionale della Lega Lombarda dal 2002 al 2012, nonché capogruppo per la Lega Nord alla Camera nella XVII legislatura dal 2013 al 2014 e nella XVIII. Nato a Cazzago Brabbia (Varese) il 16 dicembre 1966, si è diplomato perito aziendale e laureato alla Bocconi, diventando commercialista e revisore contabile. Ma è l’attività politica, targata Lega Nord, a coinvolgerlo già prima dei 30 anni. Entra in Parlamento nel 1996 e non vi esce più, ricoprendo il ruolo di presidente della commissione Bilancio della Camera dal 2001 al 2006 e dal 2008 al 2013. Di fatto è nella Lega tra gli uomini che conoscono meglio i conti pubblici e l’economia. Schivo, riflessivo, pontiere nato, Giorgetti si occupa da decenni dei rapporti della Lega con gli altri partiti ma ne è anche un po’ l’ambasciatore presso le più alte istituzioni e le sedi diplomatiche stranieri, facendo da contraltare, in questi ultimi anni, al ben più impulsivo Salvini.
Marta Cartabia alla Giustizia
Marta Cartabia, chiamata a guidare la Giustizia, rappresenta il tecnico perfetto, per profilo accademico e istituzionale. Riservata, mai sopra le righe ma assertiva sulla sue posizioni. Giurista cattolica, allieva di Valerio Onida, è originaria della provincia di Milano, sposata, con tre figli. A fine 2019 ha rotto "il tetto di cristallo", come opportunamente ha sottolineato lei stessa al momento dell’insediamento, diventando la prima donna presidente della Corte Costituzionale. Cartabia è arrivata alla Corte Costituzionale nel 2011, a solo 48 anni, chiamata da Giorgio Napolitano, è la terza donna a farne parte e la prima a diventare presidente. Può contare sulla stima del presidente Mattarella, maturata nel comune lavoro come giudici delle leggi. I due sono stati anche vicini di casa, dirimpettai, alla foresteria della Consulta. Alla Consulta è stata relatrice di importanti sentenze su questioni che spaccano l’opinione pubblica, come quella sui vaccini, con la quale la Corte ha stabilito che l’obbligo non è irragionevole. Ha dato una speranza ai detenuti, proseguendo il viaggio per portare la costituzione nelle carceri italiane. Dagli incontrati nelle carceri ha imparato che "ogni storia e ogni uomo ha alle spalle qualcosa di unico, per questo la pena non deve dimenticare l’unicità di ciascuno". Era da poco tornata alla vecchia passione, l’insegnamento, in piena emergenza Covid.
La scheda.
Da Bianchi a Messa, tutti gli uomini e le donne del presidente
Quindici ministri sono politici, 8 tecnici. Il 33% sono donne. Gli esordienti sono 6
di Redazione Internet (Avvenire, venerdì 12 febbraio 2021)
Luigi Di Maio agli Esteri
Ancora molto giovane, ma già un veterano. Con la conferma anche nel governo Draghi, il 34enne Luigi Di Maio sarà l’unico politico ad aver fatto parte degli ultimi tre esecutivi. Rimanendo alla Farnesina Di Maio avrà già sul suo tavolo i dossier più importanti della politica estera italiana: dal rapporto con i partner Ue alle relazioni con gli Usa della nuova amministrazione Biden, passando per la crisi in Libia. Nato il 6 luglio 1986 ad Avellino, Di Maio brucia le tappe della politica. Nel 2007 apre il meetup di M5S, a Pomigliano d’Arco (dove risiede la sua famiglia), e da quel momento inizia un’ascesa che lo porta in Parlamento del 2013, diventando vicepresidente della Camera a 26 anni. A settembre del 2017 gli iscritti della piattaforma Rosseau lo incoronano capo politico del M5s, con la benedizione del fondatore Beppe Grillo, che vede in lui la guida ideale per mettere insieme le varie anime. E mentre Alessandro Di Battista interpreta le pulsioni barricadere del movimento, Di Maio ha un profilo istituzionale, sempre in completo scuro e cravatta: sono i due esponenti più popolari dei 5S, in termini di consenso, e molto ’social’. La sua leadership gli vale un incarico di peso nel primo governo Conte, a maggioranza Lega-5S: Di Maio diventa vicepremier e superministro dello sviluppo economico, lavoro e Welfare, a 31 anni. Con la rottura di Matteo Salvini e il passaggio al Conte II a trazione giallo-rossa, Di Maio diventa il più giovane ministro degli Esteri della Repubblica, a 33 anni, rubando il primato a Federica Mogherini (vi arrivò a 40 anni). Alla Farnesina, tra i primi dossier, Di Maio affronta da quello dell’immigrazione. E si batte in sede europea perché l’Ue non lasci l’Italia da sola nel farsi carico dei profughi in arrivo sui barconi dal Nord Africa. Nel frattempo, continua a lavorare sulla Cina, dopo aver seguito da vicino l’accordo sulla Nuova Via della Seta al Mise. L’intesa con Pechino provoca non pochi mal di pancia tra i partner europei e gli Usa, ma Di Maio rivendica il diritto di un paese esportatore come l’Italia di trovare nuovi mercati. Senza per questo rinnegare la centralità del legame transatlantico. Senza più la Lega al governo, inoltre, Di Maio completa il riavvicinamento con la Francia dopo la crisi dei gilet gialli.
Renato Brunetta alla Pubblica amministrazione
Torna al ministero della pubblica amministrazione Renato Brunetta, l’economista di Forza Italia fedelissimo di Berlusconi. Siederà nel governo Draghi della cui nascita è stato un appassionato promotore fin dallo scoppio della pandemia, quando richiamava alla necessità di un governo di unità nazionale. E aveva fatto anche il nome dell’ex presidente della Bce per guidarlo, dopo il suo intervento sul Financial Times lo scorso marzo. Brunetta, classe 1950, professore di economia del lavoro all’Università di Roma Tor Vergata oltre che deputato e alla Camera per Forza Italia, è già stato ministro della Pubblica amministrazione nell’ultimo governo Berlusconi, dal maggio 2008 a novembre 2011. Degli anni a palazzo Vidoni è rimasta la riforma che porta il suo nome e che ha sintetizzato come l’applicazione del principio "premiare i lavoratori meritevoli e punire i fannulloni", anche con il licenziamento. La riforma punta su responsabilità dei dirigenti, premi per il merito e accelerazione sull’e-government. Ancora prima l’economista era stato consigliere economico in un altro governo tecnico-politico, quello di Carlo Azeglio Ciampi, e prima di lui dei presidenti del Consiglio Giuliano Amato e Bettino Craxi.
Maria Stella Gelmini agli Affari regionali
Fedelissima di Berlusconi fin dalla discesa in campo del Cav, Maria Stella Gelmini torna al governo 10 anni dopo l’ultima esperienza, quella da ministro dell’Istruzione, e va a sedersi in un ministero senza portafoglio che in questo anno di emergenza dovuta alla pandemia ha avuto un ruolo fondamentale nel raccordo tra lo Stato e le Regioni: quello degli Affari regionali e autonomie. Nata a Leno, in provincia di Brescia, il 1 luglio del 1973, liceo classico in una scuola di preti, la capogruppo di Forza Italia alla Camera si è laureata in giurisprudenza specializzandosi in diritto amministrativo. E subito dopo habruciato le tappe della politica: presidente del club azzurro di Desenzano dal ’94; nel 1998 prima degli eletti alle amministrative ricoprendo, fino al 2002, la carica di Presidente del consiglio del comune di Desenzano; dal 2002 assessore al territorio della provincia di Brescia; nell’aprile 2005 entra nel consiglio regionale della Lombardia; il mese dopo Berlusconi decide di nominarla coordinatrice regionale di Forza Italia in Lombardia, carica che ha ricoperto fino a quando nel maggio del 2008 a 35 anni è diventata ministro, il più giovane responsabile dell’Istruzione che ci sia stato in Italia. Tra il 2008 e il 2010 firma la riforma della scuola, quella che introduce tra l’altro il maestro unico alle elementari e due nuovi licei, scienze umane e musicale e coreutico.
Massimo Garavaglia al Turismo
Con il lombardo Massimo Garavaglia, classe ’68, viceministro dell’economia nel primo governo Conte, il ministero del Turismo, che per la prima volta assume una sua connotazione autonoma, torna ad essere amministrato da un esponente della Lega come fu nel governo giallo verde, quando ad occuparsi delle politiche turistiche, accorpate a quelle agricole, fu Giampaolo Centinaro. Sindaco per due mandati del suo comune di residenza, Marcallo con Casone ( Milano), Garavaglia è un leghista della prima ora vicino all’ala moderata di Giorgetti, in Parlamento dal 2006 con il record di senatore più giovane della Repubblica nel 2008 (aveva 40 anni), a lungo capogruppo della Lega nord in commissione bilancio. Sposato e padre di due ragazze, Garavaglia ha natali semplici, papà operaio e mamma casalinga. Ma dopo la maturità scientifica ha portato a casa due lauree, una in economia alla Bocconi l’altra in Scienze politiche alla Statale, inanellando anche una serie di corsi di formazione. Consulente aziendale specializzato in controllo di gestione, qualità e sistemi informativi, è stato anche membro dal 2013 del consiglio di amministrazione della Cassa depositi e prestiti in rappresentanza del settore delle regioni. È convinto assertore della flat tax. Di turismo si è occupato più che altro quando era impegnato nella politica locale, come assessore all’economia crescita e semplificazione in Lombardia.
Roberto Garofoli sottosegretario alla Presidenza del Consiglio
Nato a Taranto, classe 1966, Roberto Garofalo è un magistrato, giudice del Consiglio di Stato, ed è stato capo di Gabinetto al Mef. Magistrato ordinario fino al 1999, impegnato in processi anche di mafia, e giudice amministrativo dal 2000, è stato capo di Gabinetto del Ministero dell’Economia con Pier Carlo Padoan ministro, nei Governi Renzi e Gentiloni, e poi con Giovanni Tria nel Governo Conte I. La sua è stata una lunga esperienza nelle stanze del Governo: da fine 2011 con l’Esecutivo Monti, poi segretario Generale della Presidenza del Consiglio con Enrico Letta e prima ancora capo ufficio Legislativo del ministero degli esteri con Massimo D’Alema nel governo Prodi II. Come capo di gabinetto del ministro Tria, Garofoli è stato tra gli alti funzionari dello Stato al centro delle polemiche contro i "burocrati" accusati dal Movimento 5 Stelle di essere "servitori dei partiti e non dello Stato" (fecero rumore, tra l’altro, le critiche ai tecnici del Tesoro in un audio del portavoce della Presidenza del Consiglio, Rocco Casalino). Contro di lui c’era stato anche un attacco diretto: sua ’la maninà - è stata la tesi dei 5 Stelle - era stata giudicata ’colpevole’ di aver inserito nel Dl Fiscale due commi per destinare 84 milioni in tre anni alla "gestione liquidatoria dell’ente strumentale alla Croce Rossa Italiana". Fermissima fu la difesa di Giovanni Tria: nessuna manina, solo "una soluzione tecnica" a tutela dei lavoratori, per pagare il Tfr, aveva detto il ministro liquidando l’attacco come "privo di fondamento e irrazionale". Ma il clima era tale che Garofoli decise di dare le dimissioni. Autore di numerose opere e collane su temi giuridici ed economici, condirettore della Treccani Giuridica, è stato nominato dal Presidente Giorgio Napolitano Grande Ufficiale della Repubblica italiana.
Editoriale
Arriva Draghi. Missione compiuta
di Norma Rangeri (il manifesto, 03.02.2021)
Missione fallita, missione compiuta.
Matteo Renzi ha ottenuto l’obiettivo che si era prefisso: distruggere la maggioranza di governo, annientare il centrosinistra e tirare la volata a un governo di unità nazionale, consegnando il paese nelle mani di un salvatore della patria che ha un nome e cognome: Mario Draghi, incaricato, ieri sera, dal presidente Mattarella, di formare un ministero di salute pubblica.
Sono ore drammatiche, sottolineate dal tono e dalle parole del Capo dello Stato che, parlando in diretta televisiva, ha informato il paese delle sue determinazioni.
Mattarella ha spiegato perché le elezioni anticipate non sono ritenute un’alternativa possibile in questo momento e perché è invece necessario avere subito un governo capace di affrontare la situazione sanitaria e dunque di centrare l’obiettivo del Recovery fund.
Siamo di fronte se non a un azzeramento certamente a una micidiale riduzione degli spazi democratici, a un vero e proprio commissariamento del paese, come capitò con Monti e come non capita in nessun paese europeo, e segnatamente in una congiuntura storica come quella che stiamo vivendo.
Si annullano le differenze politiche e si affidano le sorti del nostro paese a un illustre economista. Che solo il paravento di una falsa coscienza può definire un tecnico.
E quando la politica fa un passo indietro per lasciare il campo a uomini della finanza, vuol dire che la democrazia gode di una cattiva, pessima salute.
Un motivo in più per tenere alta la guardia.
La crisi.
Convocato al Quirinale. Nuova missione per «Supermario», ecco chi è Draghi
Caratterialmente è riservato e cordiale, fermo - ne sanno qualcosa persino i "falchi tedeschi"-, ma non freddo. E profondo conoscitore dei meccanismi della finanza internazionale
di Marco Girardo (Avvenire, mercoledì 3 febbraio 2021)
È già passato alla storia, non solo economica, per aver salvato con quell’ormai famoso «whatever it takes» la moneta unica e quindi l’Europa. Ora Mario Draghi proverà a tenere insieme l’Italia. Ci si sofferma sempre sulla prima parte della frase pronunciata il 26 luglio 2012, a Londra, durante una conferenza dall’allora presidente della Bce; ma tutto il credito istituzionale che il banchiere centrale poteva allora sfoderare stava in quello che disse subito dopo: «And believe me, it will be enough», «e credetemi, sarà abbastanza».
Un conto è difendere l’euro dalla speculazione fosse anche geopoliticamente pilotata, altro un Paese come il nostro dalle sue fragilità politiche. Ci proverà con il suo curriculum non politico, ma da servitore civile, l’unico abito che Draghi si sente di indossare e che può indossare.
Di quei panni un po’ più larghi di quelli da tecnico puro si é vestito per larga parte della sua vita professionale. Nato nel 1947 (ha 73 anni), studi al prestigioso istituto Massimiliano Massimo, la severa scuola dei gesuiti della capitale dove come tutti giocava anche a calcio (istituto che ha formato anche figure come l’imprenditore Luca Cordero di Montezemolo e l’ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro), allievo di Federico Caffè alla Sapienza di Roma e specializzazione al Mit di Boston, negli anni Novanta entra ai vertici tecnici del Tesoro come direttore generale e poi, dopo un breve passaggio alla Goldman Sachs, nel 2005 diventa il nono governatore di Bankitalia, succedendo ad Antonio Fazio, costretto alle dimissioni.
Ha ricoperto i ruoli di presidente del Financial Stability Board e del Financial stability forum, mentre dal 2011 al 2019, ultimo incarico di altissimo prestigio, ha guidato la Banca centrale europea diventando, nelle cronache economiche, "super Mario".
Keynesiano di formazione e profondo conoscitore dei meccanismi della finanza internazionale per professione, Mario Draghi é caratterialmente riservato e cordiale, fermo - ne sanno qualcosa persino i "falchi tedeschi"-, ma non freddo.
Al chiuso della sua casa ai Parioli, quartiere elegante di Roma, ha sempre lasciato trapelare poco della sua vita privata, a partire dalla giovane età in cui perse entrambi i genitori e si prese cura dei fratelli. Anche se fece apparire la moglie in una celebre battuta che fece lasciando la Bce alla guida della Lagarde: «Il futuro? Chiedete a mia moglie, ne sa di più lei», disse; ovvero chiedete a Maria Serenella Cappello, esperta di letteratura inglese, pare di origini nobili (è imparentata alla lontana con i granduchi di Toscana). La coppia ha due figli: Federica e Giacomo, ambedue laureati. In casa c’è poi un bracco ungherese, il cane a cui Draghi è molto affezionato.
Defilatissimo rispetto alla politica, il banchiere ha la capacità di mantenere grande equilibrio, senza mai nascondere le sue opinioni. La sua maturità precoce ne ha sviluppato la personalissima religione del lavoro in cui la puntualità é un comandamento: il suo orologio, come racconta la biografia di Jana Randow e Alessandro Speciale, é regolato con cinque minuti di anticipo.
Non basteranno certo le lancette di Draghi a garantire che l’Italia rispetti il suo appuntamento con il Next generation Ue, ma é sicuro che il civil servant convocato dal presidente della Repubblica per l’alto e arduo compito di salvaguardare la tenuta economica e sociale del Paese nel bel mezzo dell’emergenza pandemica farà «whatever it takes».
QUI IL SUO INTERVENTO AL MEETING DI RIMINI DEL 2020
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! --- NUOVE SFIDE. “In Europa si va avanti insieme nella libertà”. Il discorso integrale di Mario Draghi ("Premio De Gasperi") (13.09.2016).
FLS
Dichiarazione del Presidente Mattarella al termine dell’incontro con il Presidente della Camera Fico *
«Ringrazio il Presidente della Camera dei Deputati per l’espletamento - impegnato, serio e imparziale - del mandato esplorativo che gli avevo affidato.
Dalle consultazioni al Quirinale era emersa, come unica possibilità di governo a base politica, quella della maggioranza che sosteneva il Governo precedente. La verifica della sua concreta realizzazione ha dato esito negativo.
Vi sono adesso due strade, fra loro alternative.
Dare, immediatamente, vita a un nuovo Governo, adeguato a fronteggiare le gravi emergenze presenti: sanitaria, sociale, economica, finanziaria. Ovvero quella di immediate elezioni anticipate.
Questa seconda strada va attentamente considerata, perché le elezioni rappresentano un esercizio di democrazia.
Di fronte a questa ipotesi, ho il dovere di porre in evidenza alcune circostanze che, oggi, devono far riflettere sulla opportunità di questa soluzione.
Ho il dovere di sottolineare, come il lungo periodo di campagna elettorale - e la conseguente riduzione dell’attività di governo - coinciderebbe con un momento cruciale per le sorti dell’Italia.
Sotto il profilo sanitario, i prossimi mesi saranno quelli in cui si può sconfiggere il virus oppure rischiare di esserne travolti. Questo richiede un governo nella pienezza delle sue funzioni per adottare i provvedimenti via via necessari e non un governo con attività ridotta al minimo, come è inevitabile in campagna elettorale.
Lo stesso vale per lo sviluppo decisivo della campagna di vaccinazione, da condurre in stretto coordinamento tra lo Stato e le Regioni.
Sul versante sociale - tra l’altro - a fine marzo verrà meno il blocco dei licenziamenti e questa scadenza richiede decisioni e provvedimenti di tutela sociale adeguati e tempestivi, molto difficili da assumere da parte di un Governo senza pienezza di funzioni, in piena campagna elettorale.
Entro il mese di aprile va presentato alla Commissione Europea il piano per l’utilizzo dei grandi fondi europei; ed è fortemente auspicabile che questo avvenga prima di quella data di scadenza, perché quegli indispensabili finanziamenti vengano impegnati presto. E prima si presenta il piano, più tempo si ha per il confronto con la Commissione. Questa ha due mesi di tempo per discutere il piano con il nostro Governo; con un mese ulteriore per il Consiglio Europeo per approvarlo. Occorrerà, quindi, successivamente, provvedere tempestivamente al loro utilizzo per non rischiare di perderli.
Un governo ad attività ridotta non sarebbe in grado di farlo. Per qualche aspetto neppure potrebbe. E non possiamo permetterci di mancare questa occasione fondamentale per il nostro futuro.
Va ricordato che dal giorno in cui si sciolgono le Camere a quello delle elezioni sono necessari almeno sessanta giorni. Successivamente ne occorrono poco meno di venti per proclamare gli eletti e riunire le nuove Camere. Queste devono, nei giorni successivi, nominare i propri organi di presidenza. Occorre quindi formare il Governo e questo, per operare a pieno ritmo, deve ottenere la fiducia di entrambe le Camere. Deve inoltre organizzare i propri uffici di collaborazione nei vari Ministeri.
Dallo scioglimento delle Camere del 2013 sono trascorsi quattro mesi. Nel 2018 sono trascorsi cinque mesi.
Si tratterebbe di tenere il nostro Paese con un governo senza pienezza di funzioni per mesi cruciali, decisivi, per la lotta alla pandemia, per utilizzare i finanziamenti europei e per far fronte ai gravi problemi sociali.
Tutte queste preoccupazioni sono ben presenti ai nostri concittadini, che chiedono risposte concrete e rapide ai loro problemi quotidiani.
Credo che sia giusto aggiungere un’ulteriore considerazione: ci troviamo nel pieno della pandemia. Il contagio del virus è diffuso e allarmante; e se ne temono nuove ondate nelle sue varianti.
Va ricordato che le elezioni non consistono soltanto nel giorno in cui ci si reca a votare ma includono molte e complesse attività precedenti per formare e presentare le candidature.
Inoltre la successiva campagna elettorale richiede - inevitabilmente - tanti incontri affollati, assemblee, comizi: nel ritmo frenetico elettorale è pressoché impossibile che si svolgano con i necessari distanziamenti.
In altri Paesi in cui si è votato - obbligatoriamente, perché erano scadute le legislature dei Parlamenti o i mandati dei Presidenti - si è verificato un grave aumento dei contagi.
Questo fa riflettere, pensando alle tante vittime che purtroppo continuiamo ogni giorno - anche oggi - a registrare.
Avverto, pertanto, il dovere di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un Governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica
Conto, quindi, di conferire al più presto un incarico per formare un Governo che faccia fronte con tempestività alle gravi emergenze non rinviabili che ho ricordato.
Grazie e buon lavoro».
FONTE: QUIRINALE.
Trump sospeso dai social, Cacciari: "E’ pazzesco"
di Redazione Adnkronos *
"C’è un problema di fondo, che è al di là e al di fuori di Trump. E’ inaudito che imprenditori privati possano controllare e decidere loro chi possa parlare alla gente e chi no. Doveva esserci un’autorità ovviamente terza, di carattere politico che decide se qualche messaggio che circola in rete è osceno, come certamente sono quelli di Trump". E’ l’opinione di Massimo Cacciari, filosofo, professore ed ex sindaco di Venezia, che interviene con l’Adnkronos sulle polemiche che ha suscitato l’eliminazione dei post di Trump da parte di Twitter e la sospensione dell’account da parte di Facebook, Instagram e altri social in seguito all’assalto al Congresso.
"Che sia l’imprenditore a farlo, che è il padrone di queste reti, è una cosa semplicemente pazzesca. E’ uno dei sintomi più inauditi del crollo delle nostre democrazie. Non c’è dubbio alcuno. Perché come oggi è Trump, domani potrebbe essere chiunque altro, e lo decide Zuckerberg. E’ una cosa semplicemente pazzesca", incalza Cacciari.
Che spiega meglio nel merito: "Dovrebbe esserci una forma di autorità politica che decide. Esattamente così come c’è l’Autorità per concorrenza, per la privacy, che decide ’questi messaggi in rete sono razzisti, sono sessisti, incitano alla violenza’ e cosi via. E tu, Zuckerberg, li devi cancellare. Cioè deve essere l’autorità che dice a Zuckerberg cosa cancellare, invece qui è lui che decide. E’ una cosa dell’altro mondo".
* Fonte: Adnkronos, 08/01/2021 10:31 (ripresa parziale).
La bustina di minerva
Il Cavaliere, il mugnaio, l’Italia
"C’è un giudice a Berlino" è un vecchio modo di dire nato dalla vicenda di un poveraccio, in Germania, rimasto senza mulino ma che alla fine ebbe giustizia. Ora possiamo dire, con orgoglio, che c’è un giudice anche a Roma di Umberto Eco * ’Ci deve pur essere un giudice a Berlino’ è espressione che, anche quando se ne ignora l’origine, molti usano per dire che ci deve essere una giustizia da qualche parte. Il detto è così diffuso che l’aveva citato anche Berlusconi (noto estimatore delle magistrature), quando nel gennaio 2011 aveva visitato la signora Merkel con la curiosa idea di interessarla ai suoi guai giudiziari. La signora Merkel (con un tratto di humour che una volta avremmo definito all’inglese - ma anche i popoli si evolvono) gli aveva fatto osservare che i giudici ai quali lui pensava non erano a Berlino ma a Karlsruhe, nella Corte Costituzionale, e a Lipsia nella Corte di Giustizia. Non potendo girare per tutte le città tedesche a cercare soddisfazione, Berlusconi se n’era tornato a casa coi pifferi di Hamelin nel sacco, ma aveva continuato a ignorare che, senza fare dispendiosi viaggi all’estero, si sarebbero potuti trovare giudici corretti (e non corruttibili) anche a Roma.
Come nasca e come si diffonda la storia del giudice a Berlino è faccenda complessa. Se andate su Internet vedrete che tutti i siti attribuiscono la frase a Brecht, ma nessuno dice da quale opera. Comunque la cosa è irrilevante perché in tal caso Brecht avrebbe semplicemente citato una vecchia vicenda. I bambini tedeschi hanno sempre trovato l’aneddoto nei loro libri di lettura, della faccenda si erano occupati vari scrittori sin dal Settecento e nel 1958 Peter Hacks aveva scritto un dramma ("Der Müller von Sanssouci"), di ispirazione marxista, dicendo che era stato ispirato da Brecht, ma senza precisare in qual modo.
Se proprio volete avere un resoconto di quel celebre processo, che non è per nulla leggenda, come molti siti di Internet, mendaci per natura, dicono, dovreste ricuperare un vetusto libro di Emilio Broglio, "Il Regno di Federico di Prussia, detto il Grande", Roma, 1880, con tutti i gradi di giudizio seguiti per filo e per segno. Riassumendo, non lontano dal celebre castello di Sanssouci a Potsdam, il mugnaio Arnold non può più pagare le tasse al conte di Schmettau perché il barone von Gersdof aveva deviato certe acque per interessi suoi e il mulino di Arnold non poteva più funzionare. Schmettau trascina Arnold davanti a un giudice locale, che condanna il mugnaio a perdere il mulino.
Ma Arnold non si rassegna e riesce a portare la sua questione sino al tribunale di Berlino. Qui all’inizio alcuni giudici si pronunciano ancora contro di lui ma alla fine Federico il Grande, esaminando gli atti e vedendo che il poveretto era vittima di una palese ingiustizia, non solo lo reintegra nei suoi diritti ma manda in fortezza per un anno i giudici felloni. Non è proprio un apologo sulla separazione dei poteri, diventa una leggenda sul senso di equità di un despota illuminato, ma il "ci sarà pure un giudice a Berlino" è rimasto da allora come espressione di speranza nell’imparzialità della giustizia.
Che cosa è successo in Italia? Dei giudici di Cassazione, che nessuno riusciva ad ascrivere a un gruppo politico e di cui si diceva che molti fossero addirittura simpatizzanti per un’area Pdl, sapevano che qualsiasi cosa avessero deciso sarebbero stati crocifissi o come incalliti comunisti o come berlusconiani corrotti, in un momento in cui (si badi) persino la metà del Pd auspicava una soluzione assolutoria per non mettere in crisi il governo. Ma, lavorando solo su elementi di diritto e giurisprudenza, indipendentemente dai loro desideri o passioni, e ignorando ogni pressione politica, i giudici hanno scelto di attenersi alla legge, riconoscendo che la sentenza della corte d’appello di Milano non poteva essere annullata (e i particolari sulla durata dell’interdizione erano solo un contentino). Il mugnaio avrebbe detto "Ci sono dunque ancora dei giudici a Berlino". E che ci siano anche a Roma dovrebbe accenderci d’orgoglio. Eppure la cosa ci sconvolge a tal punto che parliamo di tutto meno che di questo. Tra i tanti sciacallaggi politici non riusciamo ad accettare l’idea che al mondo ci siano ancora delle persone per bene.
* Fonte: L’Espresso, 12 agosto 2013
Sul "caso del mugnaio Arnold",, si cfr. anche: Alessandro Barbero, Federico il Grande, Sellerio, Palermo 2007, pp. 119-121.
Politica
E adesso tutti dicono «meno male che Silvio c’è»
Strane maggioranze. Tra calcoli immediati e ipotesi per il futuro, Forza Italia torna al centro della scena
di Andrea Colombo (il manifesto, 10.07.2020)
In un Senato deserto il ministro della Giustizia risponde all’interrogazione di uno dei capigruppo della sua maggioranza. Faraone, Idv, chiede cosa il Guardasigilli intenda fare in merito alla registrazione in cui il magistrato Amedeo Franco, nel frattempo deceduto, parlava di «plotone d’esecuzione» per la sentenza contro Berlusconi, di cui lui stesso era stato relatore. Bonafede svicola.
Nella replica il capogruppo renziano apre alla commissione d’inchiesta parlamentare sul caso: «Eravamo contrari ma se il ministero rifiuta di fare chiarezza bisogna considerare l’inchiesta parlamentare». È un segnale, più preciso di come non si può.
Un altro segnale era arrivato 24 ore prima, quando nella commissione Giustizia di palazzo Madama era passata, con il voto della destra e di Iv, l’istituzione della «Giornata della memoria» per le vittime della giustizia. Una mazzata se si tiene conto che in questo modo le vittime della giustizia vengono equiparate a quelle della mafia o del terrorismo.
In mezzo c’era stata la bomba di Romano Prodi: «L’ingresso di Forza Italia in maggioranza non è certo un tabù». E su Berlusconi: «La vecchiaia porta saggezza». Il vecchio saggio ovviamente declina con una nota di Fi: «La disponibilità alla collaborazione istituzionale non ha in alcun modo il significato di un atteggiamento benevolo, oggi o in futuro, verso l’attuale maggioranza . Non vi è alcuna disponibilità a sostenere Conte». Capitolo chiuso? Certo che no. Prodi non è nato ieri e certo non si aspettava risposta diversa. L’importante era lanciare il segnale, come già aveva fatto lo stesso Conte e come ha fatto poi ieri, aggiungendosi al coro, il capogruppo del Pd Marcucci: «Le idee e i valori di una parte di Fi possono essere di grande utilità». E poi: «Prodi invita tutti gli europeisti a stare dalla stessa parte. Sono d’accordo».
Probabilmente, se si cerca un minimo comun denominatore nelle diverse motivazioni che giustificano questo tripudio di apprezzamenti per Berlusconi bisogna guardare alle ultime parole di Marcucci. Certo, a breve prevalgono calcoli di più corto respiro. La speranza di poter contare su una rete di salvataggio al Senato, dove i numeri sono quelli che sono. Il tentativo di allettare alcuni senatori azzurri per spingerli a cambiare campo e rinsaldare la maggioranza.
La necessità per Renzi di giocare nella maggioranza vantando una sponda con l’opposizione e anche la possibilità di conquistare la prossima settimana qualche presidenza di commissione in più grazie a quei rapporti. L’esigenza di Conte di tenersi ogni possibilità aperta incluse quelle più improbabili, come un divorzio tra Berlusconi e il resto della destra, nell’eventualità di un terremoto in autunno.
Però l’obiettivo di fondo è a più lungo raggio. Fino a settembre, salvo sempre possibili incidenti, non succederà niente. Nessuno vuole la crisi, neppure la destra che ha avuto col voto sulle missioni, due giorni fa, un’occasione d’oro per affibbiare una mazzata alla maggioranza dimostrando che senza l’opposizione non esisterebbe e ha evitato di coglierla non convocando in aula tutti i suoi senatori.
I giochi veri, e il conto alla rovescia per il governo, inizieranno dopo l’approvazione della nuova legge elettorale, proporzionale e con sbarramento abbassato quasi certamente al 3%. A quel punto, in un quadro politico tutto diverso, l’eventualità di una forza centrista staccata dalla destra e composta anche da Fi diventerà di massimo interesse per tutti. Soprattutto per chi potrà invocare la comune ispirazione europeista con quel nuovo centro.
La potenza mediatica contro la sentenza Mediaset
Berlusconi. La prova della falsità dell’insinuazione: il fascicolo è stato iscritto alla cancelleria della Corte di Cassazione dopo l’arrivo del carteggio dalla Corte di appello
di Domenico Gallo (il manifesto, 02.07.2020)
Il giudicato, secondo un antico brocardo del diritto romano, facit de albo nigro, aequat quadrata rotundis. Cioè il giudicato ha una forza tale che può trasformare il bianco in nero e rendere i quadrati uguali ai cerchi. In tempi in cui l’autorevolezza delle sentenze passate in giudicato appare piuttosto gracile, dobbiamo constatare che la funzione iperbolica che i romani attribuivano al giudicato è passata di mano. Oggi è la potenza di un sistema mediatico che può rovesciare una realtà e il nero in bianco.
Solo così si può spiegare l’attacco temerario contro la sentenza della Cassazione che, nell’agosto del 2013, ha reso definitiva la condanna di Berlusconi per frode fiscale. Il cosiddetto “audio shock” trasmesso da una Tv di Berlusconi, poi rilanciato con commenti al vetriolo contro la magistratura dalla galassia dei media del Cavaliere ed utilizzato dai politici di Forza Italia per avanzare le richieste più strampalate (come la nomina di Berlusconi senatore a vita), è un documento che testimonia l’esatto contrario di quanto vorrebbero fargli dire coloro che l’hanno diffuso.
Il tenore del colloquio esprime chiaramente l’esigenza del giudice Amedeo Franco di dissociarsi dalla decisione assunta dal Collegio giudicante. Se poi guardiamo il contenuto delle “rivelazioni” del giudice Franco, vediamo che l’unico appiglio utilizzato come prova di disegno di pilotare il processo a danno di Berlusconi, è la questione dell’affidamento del processo alla Sezione feriale. Il comunicato emesso ieri dalla Corte di Cassazione ha dimostrato la falsità dell’insinuazione. Il fascicolo è stato iscritto presso la cancelleria centrale della Corte il 9.7.2013, dopo l’arrivo del relativo carteggio dalla Corte di appello di Milano.
“In ragione della rilevata urgenza dovuta all’imminente scadenza del termine di prescrizione dei reati durante il periodo feriale, il processo, (..) venne assegnato alla Sezione feriale, e quindi ad un collegio già costituito in data anteriore all’arrivo del fascicolo alla Corte di cassazione, dunque nel pieno rispetto del giudice naturale precostituito per legge.”
Quanto all’insinuazione sulla “malafede” del Presidente del Collegio giudicante, che, a detta di Franco, avrebbe ricevuto pressioni dalla Procura di Milano per il fatto che il figlio, anch’egli magistrato, era indagato dalla stessa Procura per... “essere stato beccato con droga a casa di...”, anche in questo caso la circostanza della droga evocata è completamente falsa.
Essendo del tutto false l’insinuazione sull’attribuzione del processo ad un Collegio ad hoc e quella su presunte pressioni della Procura di Milano sul Presidente del Collegio, tutto il resto non è altro che una giaculatoria volta a dimostrare all’illustre imputato che lo stesso Franco non condivideva la decisione. Anche l’espressione “plotone di esecuzione”, riferita al Collegio giudicante, seppur riprende un linguaggio comune delle difese mediatiche, caro all’orecchio del Commendatore, non arreca alcun elemento fattuale di conoscenza, esprimendo una mera opinione. D’altra parte la cosa più significativa che emerge nel corso del colloquio è il fatto che Amedeo Franco confessa la sua fedeltà a Berlusconi: “Dall’inizio sono sempre stato un suo ammiratore (..) non dell’ultima ora”.
Dobbiamo allora chiederci: per quale motivo un giudice, violando il segreto della Camera di Consiglio, sente l’esigenza di discolparsi con l’imputato per l’esito a lui non favorevole del processo?
Una risposta a questa domanda avrebbe potuto darla soltanto il procedimento penale (e disciplinare) che inevitabilmente sarebbe stato aperto se il protagonista non fosse deceduto. Non è un caso, pertanto, che questa “prova” della iniquità del processo sia stata diffusa dopo la morte dell’interessato. Indubbiamente un comportamento così inusitato per un giudice, costituisce indizio di un rapporto non trasparente con l’imputato e quindi di una perdita di imparzialità.
In definitiva questo colloquio registrato lungi dall’essere un elemento significativo di una persecuzione giudiziaria in danno di Berlusconi, costituisce una prova del rapporto opaco che Berlusconi intratteneva con taluni magistrati. Forse qualcuno dovrebbe spiegare al cittadino comune che questa sensazionale rivelazione, non rivela nulla se non il fascino che il sistema di potere berlusconiano esercitava, e forse esercita ancora, nei confronti di una frangia di magistrati, ma rivela anche che, fin qui, il sistema indipendenza della magistratura, ha sostanzialmente retto assicurando il controllo di legalità nei confronti dei potentati economici e politici, a garanzia dei diritti dei cittadini. Ma domani è un altro giorno.
#iorestoacasa, Forza Italia!
di Italo Mastrolia (Linkedin, 9 aprile 2020)
Storia di un marchio pubblico
In questi giorni di forzata permanenza in casa sto imparando a prestare attenzione alle cose; specialmente a quelle che, nella vita “ordinaria”, avrebbero meritato maggiore considerazione e tutela, ma che - nella distrazione generale - abbiamo tutti accettato e “subìto” nel tempo senza alcuna resistenza. Mi è capitato di leggere un commento su FB; si trattava di una considerazione relativa ad un programma televisivo: «Ma è proprio necessario che lo spot di Rai Sport finisca con “Forza Italia”»? L’interrogativo, che voleva essere soltanto ironico, è di un eccellente e famoso giornalista, il quale sollecitava una sorta di ’par condicio’, auspicando una analoga versione della sigla televisiva utilizzando la denominazione “Italia Viva”.
Ho ripensato a quando, in gioventù, lo slogan più diffuso (condiviso ed universale - specialmente nello sport -) era appunto “Forza Italia”: era il grido di tutti gli italiani che sostenevano le nostre squadre nelle competizioni internazionali (specialmente la nazionale di calcio); e ho pensato che, da quando è stato fondato quel partito politico che ha assunto proprio questa esatta denominazione, non abbiamo più potuto gridare o scrivere questa “esclamazione” in modo spontaneo . Ovviamente nessuno ce lo avrebbe impedito, ma ... insomma, abbiamo tutti avvertito un senso di imbarazzo (o addirittura di contrarietà); oppure - più semplicemente - abbiamo preferito non correre il rischio di essere fraintesi.
Insomma, all’improvviso quello storico ed universale slogan non è stato più utilizzato, ed è scomparso dal vocabolario della tifoseria sportivo. Nulla era più come prima.
Ho svolto una rapida ricerca: il nome si ispirava allo slogan Forza Italia! utilizzato nella campagna elettorale della Democrazia Cristiana del 1987, curata dal pubblicitario e accademico Marco Mignani. Ma il nuovo partito pensò di registrare il marchio presso l’Ufficio Marchi e Brevetti: i primi due depositi risalgono al 24 giugno 1993 - attraverso una società di Milano -; assicuravano la tutela dei marchio d’impresa per ben 13 classi di merci e servizi. Sono seguiti ulteriori 11 depositi integrativi, fino al 2008, attraverso i quali le classi merceologiche sono arrivate fino a 21.
Mi sono chiesto se la registrazione di quel marchio con l’indicazione geografica (Italia) potesse essere vietata (secondo l’art. 13 Codice Proprietà Industriale). Niente da fare; non sarebbe stato possibile impedirlo: tale divieto, infatti, non è assoluto. È consentito registrare un nome geografico che, in relazione al servizio o al prodotto, non si presenti come indicazione di provenienza, ma come nome di fantasia. Quindi, sulla base di questa disposizione normativa, “Forza Italia” (con il quale il partito non intendeva indicare la provenienza geografica dei proprio “prodotti”) venne considerato come denominazione di fantasia, e - in quanto tale - legittimo ed utilizzabile.
Però (ho obiettato) quelle due parole costituiscono uno “slogan” collettivo, un modo di dire, una locuzione condivisa da tutto il popolo... niente da fare un’altra volta: secondo la giurisprudenza dell’Unione Europea il ‘marchio-slogan’ è sempre registrabile purché abbia carattere distintivo: a prescindere dal suo significato promozionale, infatti, deve avere qualcosa che permetta al pubblico di percepirlo come indicatore dell’origine commerciale dei prodotti o dei servizi che lo stesso contraddistingue. In effetti, l’articolo 4 del Regolamento sul marchio UE prevede che “Possono costituire marchi UE tutti i segni, come le parole, compresi i nomi di persone o i disegni, le lettere, le cifre, i colori, la forma dei prodotti o del loro imballaggio e i suoni”.
Quindi nulla vieta di registrare come marchio uno slogan pubblicitario.
Insomma, sembra proprio che la registrazione del marchio-slogan “Forza Italia” sia stata del tutto legittima, frutto di un’abile e geniale operazione giuridica con la quale, profittando del rigore formale della normativa vigente, si è trovato il modo (legittimo) per sottrarre alla collettività una frase appartenente a tutti, e attribuirla ad un partito politico per contraddistinguere i propri beni e servizi su cui poter ‘apporre’ il marchio (ripeto ... per ben 21 classi merceologiche!).
Però è innegabile che quelle due parole messe insieme hanno sempre costituito uno slogan collettivo, una storica esortazione popolare che - richiamando la nostra nazione - può essere ricondotta al concetto di res publica e - senza esagerare - a quello di patrimonio culturale immateriale. La questione merita un ben diverso approfondimento.
Nonostante tutto questo, è bello vedere che le persone - attraverso varie forme espressive - iniziano spontaneamente a “riappropriarsi” di quella storica esortazione sportiva; c’è un ritrovato orgoglio nazionale che, facendo vincere gli imbarazzi, mostra una tardiva reazione di sdegno a quella (seppur legittima) “sottrazione” del nostro grido più amato. A partire dal quella sigla del programma RAI, fino al web e agli striscioni sui balconi, finalmente ricompare senza imbarazzi la scritta “Forza Italia”!
A nessuno viene in mente, però, di usare la frase “Italia Viva”. In sincerità, la scelta di assegnare ad un partito questa locuzione è stata molto meno astuta e del tutto ’innocua’ per la collettività; vedremo se la registrazione di quel marchio verrà autorizzata dall’Ufficio Marchi e Brevetti (la domanda è stata depositata il 26.9.2019 ed è ancora in fase di esame).
IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO....
Addio al giurista e polemista. Franco Cordero, il più scomodo di tutti gli eclettici
A 91 anni scomparso il giurista e polemista, capace di spaziare dal diritto al romanzo, con forte inclinazione anticlericale
di Francesco D’Agostino (Avvenire, domenica 10 maggio 2020)
Personalità fuori dal comune, quella di Franco Cordero (scomparso due giorni fa a Roma a 91 anni): uomo poliedrico, capace di spaziare con sicurezza dalla giurisprudenza alla storia, dalla filosofia alla teologia, dall’antropologia alla politica; polemista memorabile, romanziere di notevole originalità, anche se di ardua leggibilità, inventore di stilemi linguistici suggestivi. Se su queste sue doti non c’è da dubitare, su altre probabilmente è difficile che si trovi un accordo tra i suoi colleghi, i suoi studiosi ed i suoi lettori.
È stato davvero, come alcuni sostengono, uno dei massimi giuristi italiani del Novecento? Sicuramente è stato un giurista fuori dal comune, che ha nobilitato la sua disciplina (il diritto processuale penale) oltre ogni aspettativa. Ma è stato anche vittima della sua intelligenza labirintica, della sua rigidità ideologica, della sua carenza di flessibilità. Ordinario da anni nell’Università Cattolica di Milano, entrò in tensione con il paradigma culturale che la governava e di cui egli aveva perfetta consapevolezza: non ebbe il buon senso (di cui ad esempio diede prova il filosofo Emanuele Severino) di chiedere il trasferimento ad altro Ateneo, che pure avrebbe immediatamente ottenuto; privato tra mille polemiche del necessario nulla-osta all’insegnamento, attivò un duro braccio di ferro con le autorità accademiche, che volle portare fino al giudizio della Corte Costituzionale.
Era ovviamente un suo diritto ricorrere alle vie legali, ma fu molto sgradevole vedere come il suo ricorso si saldasse con un anticlericalismo sempre più aspro, polemico e in definitiva sterile, che egli cercò faticosamente di nobilitare arrivando perfino a scrivere un fitto commento all’Epistola ai Romani di San Paolo.
È difficile dire se il suo anticlericalismo giunse infine a trasformarsi in un vero e proprio anticattolicesimo; è certo però che alla fine logorò anche la pubblica opinione, al punto che, per mantenere comunque un contatto col “suo” pubblico, Cordero trovò uno sfogo cominciando a scrivere numerosi romanzi, dedicando a Savonarola una sterminata biografia, e insinuandosi abilmente nel dibattito politico del tempo (fu lui a forgiare il soprannome di “caimano” per Berlusconi , soprannome che ebbe un certo successo, anche perché ripreso da Nanni Moretti in un suo film omonimo).
Gira la notizia che una nuova e brillante casa editrice starebbe per pubblicare un suo ultimo romanzo e che sarebbe anche in progettazione una nuova edizione di un suo importante testo di molti decenni fa, Gli Osservanti, del 1967, l’opera con la quale Cordero intendeva radicare definitivamente il suo pensiero nella filosofia del diritto. Gli Osservanti è un libro, pieno di riferimenti, provocazioni, citazioni, allusioni, polemiche; un libro col quale l’Autore voleva presentare ai suoi lettori nuovi e rivoluzionari paradigmi dottrinali. Ma si trattava anche di un libro troppo difficile e troppo costoso per divenire popolare tra gli studenti sessantottini e contestatori e troppo farraginoso per conquistare la platea dei giuristi di professione. Se esso, nella sua nuova edizione, avrà successo, ne sarò lieto, perché è pieno di intelligenza. Ma non si tratta di intelligenza né giuridica, né filosofica, ma di intelligenza polemica: ammirevole, ma sterile.
Morto Franco Cordero, il giurista che inventò il "Caimano"
Raffinato uomo di legge, anticlericale, intellettuale militante si è spento a 92 anni. Indimenticabili le sue polemiche contro Berlusconi al quale dedicò il soprannome
di ROBERTO ESPOSITO (la Repubblica, 08 maggio 2020)
Con Franco Cordero scompare una delle figure più raffinate e poliedriche della cultura italiana contemporanea. Ma anche un intellettuale militante, impegnato in battaglie civili contro il lato oscuro del potere politico ed ecclesiastico italiano. Nato a Cuneo nel 1928, ha attraversato l’ultimo secolo, lasciando una traccia indelebile non solo nel campo del diritto di cui è stato riconosciuto maestro, ma anche in quelli della riflessione filosofica, teologica, antropologica. E infine nella letteratura con una serie di romanzi - tra i quali Opus, Bellum civile, L’armatura - di lettura non semplice, ma scritti con uno stile personalissimo che gli assegna un ruolo non secondario nella letteratura degli ultimi decenni.
Allievo di Giuseppe Greco, ha insegnato in diverse Università italiane, tra cui Trieste, Torino, Roma, dove ha chiuso nel 2002 la propria brillante carriera accademica. Ma certamente l’esperienza che più lo ha segnato, diffondendo il suo nome anche all’estero, è stato l’insegnamento alla Cattolica di Milano, allora diretta da Agostino Gemelli, iniziato nel 1960. Entrato in conflitto per la sua posizione di intransigente polemica nei confronti della parte più retriva della gerarchia ecclesiastica, è stato espulso dalla Cattolica, scatenando quello che, sulle pagine dei quotidiani italiani e stranieri, ha assunto il nome di "caso Cordero". L’occasione dello scontro, non cercato ma neanche evitato da Cordero, è stata la pubblicazione del testo intitolato Gli osservanti (1967) ma soprattutto il successivo romanzo Genus che nel 1969 gli costerà l’allontanamento dalla cattedra. Accusato di eterodossia e attaccato frontalmente dalla destra cattolica, Cordero ha risposto con altrettanta nettezza, scatenando una polemica arrivata perfino alla Corte Costituzionale.
Da allora la sua persona è diventata occasione di continue controversie. Attaccato dagli ambienti confessionali, è diventato per altri una bandiera di indipendenza e di libero pensiero. I suoi scritti, alcuni memorabili, vanno dalla tecnica giuridica - il suo manuale di procedura penale, ristampato più volte, costituisce ancora riferimento essenziale per gli studi di diritto - alla filosofia, alla teologia, all’antropologia. Ciò che di essi colpisce è la straordinaria miscela di erudizione e originalità, di filologia e di spregiudicatezza ermeneutica.
Se la sua monumentale biografia di Savonarola in quattro volumi contiene ancora una miniera di informazioni per gli studiosi, il suo Commento alla Lettera ai Romani di Paolo di Tarso continua a sorprenderci per la radicalità della sua interpretazione, allo stesso tempo fedele ed estrema. Oggi, in una cultura accademica sempre più proclive a uno specialismo senza nerbo, la vastità e la poliedricità del suo sapere restano una sorta di unicum con cui è difficile stabilire confronti.
Ma questa molteplicità di interessi e di linguaggi non sfocia mai in una sorta di vacuo eclettismo, tanto meno in divulgazione. Al contrario il suo stile di scrittura, a volte denso fino all’ermetismo, costituisce per il lettore una sfida che non può lasciare indifferenti. Si può anzi dire che, nonostante l’ampiezza di orizzonti della sua cultura, tutti i suoi testi sembrano convergere verso un fuoco centrale, al contempo teoretico ed etico-politico.
La forza - nel senso pieno del termine - di Cordero stava nel rifiutare ogni compromesso, ogni risposta troppo facile a questioni complesse, come quella del rapporto tra sacro e profano, teologia e politica, eternità e tempo. Tra di essi, per Cordero, non c’è possibilità di sintesi dialettica. Ma continua tensione tra poli irriducibili, necessari l’uno ad illuminare l’altro non per analogia, ma per contrasto. Egli c’insegna che le grandi contraddizioni, nella vita e nel pensiero, non hanno mai soluzioni facili.
Il suo - potremmo dire - è un pensiero teologico-politico consapevole del rischio di ogni sovrapposizione tra teologia e politica. Come è impossibile fondare razionalmente il sacro, così va evitato ogni sacralizzazione del potere. Che anzi è ciò che Cordero ha combattuto per tutta la vita.
Alla fine dell’insegnamento universitario Cordero ha potenziato il proprio impegno politico attraverso una serie di interventi, articoli, polemiche rimaste insuperate per la loro radicalità e anche fantasia semantica. Come dimenticare le vere e proprie invenzioni lessicali, come quelle indirizzate contro Berlusconi, identificato ora con il "Caimano", ora con un Mackie Messer contemporaneo? Le sue polemiche nei confronti del collasso della cultura politica italiana dei due ultimi decenni hanno avuto un tono aspro e duro, come era il suo carattere.
Oggi forse non sono più di moda. Ma basta rileggere alcuni suoi titoli - da Nere lune d’Italia a Morbo italico - per accorgersi che quei libri parlano ancora di noi. La sua etica, lucida e disperata, è una luce della quale c’è ancora bisogno. Il suo discorso, leopardiano, sopra lo stato presente dei costumi italiani non ha smesso di interpellarci. Esso attende ancora una risposta e una promessa di riscatto all’altezza delle sue domande
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI")
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI ?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA" !!!
Federico La Sala
Consulta.
Cartabia, "Costituzione bussola nell’emergenza. No a leggi speciali"
Nella relazione sull’attività della Corte costituzionale, la presidente sottolinea come "la chiave per superare la crisi" sia "la leale collaborazione di tutte le istituzioni"
di Antonio Maria Mira (Avvenire, martedì 28 aprile 2020)
"La piena attuazione della Costituzione richiede un impegno corale, con l’attiva, leale collaborazione di tutte le Istituzioni, compresi Parlamento, Governo, Regioni, Giudici. Questa cooperazione è anche la chiave per affrontare l’emergenza". È uno dei passaggi principali della relazione della Presidente Marta Cartabia sull’attività della Corte costituzionale nel 2019. -Solitamente letta alla presenza del Capo dello Stato, ma quest’anno diffusa solo online a causa dell’emergenza Covid-19, che trova molto spazio nel documento. La relazione si apre proprio con un "pensiero di sentita partecipazione al dolore per la scomparsa di migliaia di nostri concittadini e di sincera gratitudine" per tutti coloro che in questo "non facile frangente assicurano i servizi essenziali della Repubblica con competenza, coraggio e generosità". Parole molto sentite dalla presidente della Consulta che è stata contagiata ma è guarita.
E nella parte conclusiva Cartabia torna sul tema. Ricorda che "la Costituzione non contempla un diritto speciale per i tempi eccezionali, e ciò per una scelta consapevole, ma offre la bussola anche per “navigare per l’alto mare aperto” nei tempi di crisi, a cominciare proprio dalla leale collaborazione fra le istituzioni, che è la proiezione istituzionale della solidarietà tra i cittadini”. La nostra Repubblica ha attraversato varie situazioni di crisi, a partire dagli anni della lotta armata, "senza mai sospendere l’ordine costituzionale", ma modulando i principi sui criteri di "necessità , proporzionalità , bilanciamento, giustiziabilità e temporaneità" .
E oggi "l’intera Repubblica e tutte le sue Istituzioni - politiche e giurisdizionali, statali, regionali, locali - stanno indefessamente lavorando nella cornice europea per il comune obiettivo di servire al meglio le esigenze dei singoli cittadini e dell’interacomunità".
Una strada che dev’essere assolutamente perseguita perchè "i momenti di emergenza richiedono un sovrappiù di responsabilità ad ogni autorità e in particolare agli operatori dell’informazione, che svolgono un ruolo decisivo per la vita sociale e democratica". Un indiretto riferimento all’attualità emerge anche nel passaggio relativo a giustizia e carcere. "Perseguire le finalità rieducative del condannato, senza trascurare, al tempo stesso, le esigenze della sicurezza della collettività , ma calibrando ogni decisione sul percorso di ciascun detenuto, alla luce di tutte le circostanze concrete". È il percorso che la presidente della Corte indica alla magistratura di sorveglianza. Parole particolarmente significative dopo le polemiche per le scarcerazioni di boss della mafia.
Bilanciamento e collaborazione sono concetti che ritornano più volte nella Relazione, in particolare nei confronti del Parlamento e delle Regioni. La presidente invita così a "recuperare una virtuosa collaborazione, nel rispetto dei rispettivi ambiti di competenza", tra la Consulta e il legislatore statale. Cartabia pone la sua attenzione su due casi emblematici : la legittimazione del singolo parlamentare a far valere i vizi del procedimento legislativo, attivando un giudizio per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, nel caso dell’approvazione della legge di bilancio ; e la vicenda sul fine vita, su cui "la Corte costituzionale ha atteso per un anno che il necessario intervento arrivasse per via legislativa, per poi dover risolvere il caso autonomamente".
A questo proposito per la presidente "il terreno su cui si fa urgente, direi improcrastinabile, la cooperazione da parte del legislatore è quello delle cosiddette "sentenze monito", o più propriamente inviti". Infatti, ricorda,, "accade frequentemente che nelle motivazioni delle sentenze della Corte costituzionale di accoglimento, di rigetto o di inammissibilità, si incontrino espressioni che sollecitano il legislatore a intervenire su una determinata disciplina, allorché la Corte individui aspetti problematici che sfuggono alle sue possibilità di intervento e che richiedono invece un’azione delle Camere". Spesso, osserva Cartabia, "i "moniti" danno luogo al fenomeno delle cosiddette "doppie pronunce" : in un primo momento, la Corte Costituzionale indica al Parlamento i punti problematici che richiederebbero una modifica legislativa ; ma se il problema persiste e continua ad essere portato all’esame della Consulta, questa non può che porre essa stessa rimedio, utilizzando gli strumenti normativi a disposizione".
E un altro richiamo, molto attuale, è alla collaborazione fra Stato centrale e Regioni. "A volte - osserva criticamente Cartabia - tale collaborazione manca, altre volte arriva troppo tardi : molti giudizi di legittimità in via principale, portati all’esame della Corte costituzionale dallo Stato o dalle Regioni, si risolvono con la cessazione della materia del contendere o l’estinzione del giudizio, in seguito a modifiche apportate alla normativa impugnata durante la pendenza del giudizio spesso all’esito di negoziazioni tra Stato e Regioni. Ciò - ricorda - è accaduto ben 35 volte nel 2019". La Consulta "non può che rallegrarsi se, dopo che è sorta una controversia tra Stato e Regioni, si riesce a trovare una composizione politica in nome della collaborazione mancata in precedenza". Tuttavia, denuncia Cartabia, in questo modo il giudizio davanti alla Consulta "finisce per essere utilizzato come uno strumento di pressione in vista di ulteriori valutazioni ed eventuali accordi, con un inutile cospicuo investimento di tempo, energie e risorse" da parte della Corte.
Resistere ancora, a distanza di settantacinque anni
di Teresa Simeone *
La domanda, che ritorna ogni anno, con periodica vis polemica, “Che senso ha celebrare la Festa della Liberazione? E liberazione da cosa, se ormai viviamo in una democrazia?” chiama ancora in causa la nostra concezione di libertà e di società e rimanda a eventi che, sia pure storicamente collocati, continuano a interrogarci come cittadini e soggetti eticamente connotati.
Non è certo un falso il consenso altissimo di cui per lungo tempo il regime riuscì a godere, almeno fino al 1938, anche presso raffinati intellettuali della cui adesione si servì per legittimare, in campo internazionale, la propria continuità. Tale consenso poi, lentamente, iniziò a scendere per dissolversi nell’impietosa conta giornaliera dei morti in guerra: rinnegata dai suoi stessi capi in quel luglio del ’43, l’ideologia fascista non cessò di esistere ma si autoconfinò in un’area del Nord, lì ridotta a patetico ologramma del Terzo Reich. Dal tragico 8 settembre, com’è storia, iniziarono l’occupazione nazista, le massicce deportazioni di ebrei verso i campi di sterminio e si consumarono le stragi di civili più feroci che il territorio italiano abbia vissuto. Stragi che raggiunsero il culmine intorno alla metà del ’44, con il consolidarsi delle formazioni resistenziali, finalizzate a spezzare il legame tra la popolazione e i partigiani italiani, che avevano unito la propria alle voci dei migliaia che combattevano nel resto d’Europa. E, finalmente, quel 25 aprile, scelto come data simbolica della rinascita, si poté festeggiare.
Tre giorni dopo, ha scritto Norberto Bobbio, quando i partigiani entrarono a Torino e i tedeschi, seguiti dai fascisti, furono messi in fuga, “Fu come se un vento impetuoso avesse spazzato d’un colpo tutte le nubi e alzando gli occhi potessimo rivedere il sole di cui avevamo dimenticato lo splendore; o come se il sangue avesse ricominciato a scorrere in un cadavere, risuscitandolo. Un’esplosione di gioia si diffuse rapidamente in tutte le piazze, in tutte le vie, in tutte le case. Ci si guardava di nuovo negli occhi e si sorrideva.” Si poteva ricominciare a sperare. “Eravamo ridiventati uomini con un volto solo e un’anima sola. Eravamo di nuovo completamente noi stessi. Ci sentivamo di nuovo uomini civili. Da oppressi eravamo ridiventati uomini liberi.”[1]
Quella libertà, per tutti, per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro, come disse in seguito Arrigo Boldrini, non fu un regalo né un miracolo, ma la conquista di chi, contro ogni calcolo sulla sproporzione delle forze, aveva creduto nell’“ottimismo della volontà” e con coraggio aveva scelto da che parte stare. Lo fece in giorni bui, in cui decidere non era ininfluente per la propria vita. E questo avvenne in tutta Europa. Chi contesta la Resistenza dovrebbe dire, con onestà, cosa avrebbe fatto in quei giorni e cosa avrebbe voluto: la vittoria della Germania nazista? L’estensione del potere hitleriano sull’Europa intera? I campi di sterminio per quanti non rientrassero nel concetto di “normalità” fisica, sociale, religiosa, politica, stabilita dal fuhrer? O forse avrebbe preferito che non sorgesse, dalla coscienza dei popoli, un movimento di ribellione e che si lasciasse ai soli eserciti in campo la difesa della propria libertà? Che non si sentisse il dovere di reagire, quel dovere che solo ha consentito di salvare la dignità di cittadini e di esseri umani? Che permise ad Alcide De Gasperi nel ‘46, alla conferenza di Parigi, di non piegare la testa e di pronunciare parole autenticamente importanti perché di un antifascista convinto, portavoce di un paese che aveva saputo liberare se stesso dal regime e rivendicare una presenza proprio grazie alla lotta di liberazione. Facendo pesare, perché ce ne erano stati a migliaia, i morti di questa battaglia di civiltà.
Tanti uomini e tante donne vi avevano partecipato, ciascuno a suo modo: imbracciando le armi; organizzando la difesa; aiutando i gruppi partigiani; ciclostilando volantini; anche solo tacendo e non tradendo; nascondendo chi era braccato; procurandogli documenti falsi; rifiutando di allearsi con il nemico e di lavorare per lui, come fecero gli oltre 600.000 IMI, troppo a lungo ai margini della storiografia, forse perché simbolo di una sconfitta, di una tragedia che il paese voleva dimenticare in fretta, ma di cui la ricerca sui documenti sta faticosamente ricostruendo il dramma. Costoro, intenzionalmente non equiparati dai nazisti a prigionieri di guerra e dunque privati delle tutele loro dovute, “invitati” a collaborare, rifiutarono di arruolarsi nelle forze armate tedesche e repubblichine, pagando nei lager con condizioni durissime, spesso con la vita, la loro “resistenza passiva”.
Resistenza armata, Resistenza disarmata, Resistenza civile: forme diverse assunse la Resistenza, ma ci fu. E dev’essere ricordata perché fu storia di tanti. Non di tutti, certamente. E anche di questo non sarebbe giusto chiedere conto. Erano tempi difficili, di scelte tragiche cui, per fortuna, non siamo più chiamati: la massiccia e pervasiva azione d’indottrinamento fascista, dall’atto del concepimento (la campagna demografica entrava anche nelle stanze da letto) fino all’età adulta, con quella che Philip V. Cannistraro ha definito la fabbrica del consenso, il controllo dell’informazione e la repressione di ogni forma di dissenso e una liturgia che puntava all’adesione quasi religiosa, sicuramente mistica, rendeva gli effetti dell’apparato propagandistico difficilmente eludibili. La comprensione della difficoltà di sottrarvisi, però, non deve esonerarci dal chiederci “cosa sarebbe successo se...”. I denigratori della Resistenza tendono a sottovalutarne il peso e a riportare al solo contributo degli alleati la conquista della libertà. Questo non corrisponde al vero, ma solo a ciò che una parte politica non avrebbe voluto che fosse accaduto, e cioè la presa di coscienza di chi non accettava il fascismo.
In un celebre discorso che Gustavo Zagrebelsky tenne a Torino il 25 aprile del 2015, si chiese: “E se la guerra si fosse conclusa esclusivamente con la conquista da parte degli eserciti degli Alleati? Se le autorità militari anglo-americane non avessero avuto a che fare con il Corpo Volontari della Libertà, con i Comitati di Liberazione Nazionale e con i rinati partiti politici che ai Comitati avevano dato vita? La sconfitta del III Reich e della repubblica di Salò non fu certo determinata soltanto, e nemmeno prevalentemente, dalle forze della Resistenza interna. Ma, se questa non ci fosse stata, la parola adatta a descrivere la situazione del nostro Paese sarebbe “debellatio”, annichilimento. Gli Alleati trovarono un popolo che lottava per la sua identità, oltre che per il proprio onore e il proprio futuro.” E ancora: “In ogni caso, la Resistenza in Italia, a differenza di ciò che accadde in Germania, fu ciò che permise al nostro Paese di salvaguardare la propria autonomia, di sedere nel contesto internazionale tra le nazioni libere e di ricominciare a prendere nelle nostre mani l’opera della ricostruzione. Il primo passo fu l’Assemblea Costituente, il primo parlamento democratico, eletto a suffragio universale, del nostro Paese; il primo frutto fu la Costituzione.”
Ed è proprio intorno alla Costituzione che si è formato un nuovo concetto di identità e di comunanza nazionale, una memoria condivisa, un sentimento diffuso di appartenenza con la fedeltà che la Costituzione richiede, come ci ricorda il presidente emerito dell’ANPI , Carlo Smuraglia, in un omaggio che ha voluto farle nel libro “Con la Costituzione nel cuore. Conversazioni su storia, memoria e politica.”, e come l’attuale presidente, Carla Nespolo, prima donna e prima non partigiana a ricoprire tale incarico, dopo la svolta di Chianciano del 2006, i quali, a più riprese, invitano all’unità e al dialogo tra le diverse voci che sono confluite nel testo fondativo della nostra Repubblica.
Se si resta al facile binomio, cui ricorrono pretestuosamente in molti, antifascista/comunista, si darà sempre spazio alle semplicistiche riduzioni ad unum di coloro che, per denigrare il moto resistenziale, preferiscono considerarlo un monolite comunista.
A smentire tale lettura è la semplice analisi dei gruppi che combatterono, dal momento che il CNL (al di fuori del quale è giusto ricordare altre brigate come quelle anarchiche), riuniva esponenti di tutti i partiti antifascisti che si erano organizzati nell’estate del ’43 e, oltre quelli del Partito comunista, del Partito liberale, del Partito repubblicano, del PSIUP, della Democrazia Cristiana, del Partito d’Azione, del Partito democratico del lavoro. Molte di tali formazioni, insieme ad altre che nacquero nel dopoguerra, confluirono nell’Assemblea Costituente.
La Costituzione, perciò, ha un’anima plurale. Ma, questo sì, irriducibilmente antifascista. Non c’è bisogno di citare un articolo preciso né far riferimento soltanto alla XII Disposizione transitoria, più correttamente finale, in essa contenuta. -Come ha chiaramente affermato il nostro presidente della Repubblica, Mattarella, in occasione del Giorno della Memoria di due anni fa: “La Repubblica Italiana, nata dalla Resistenza, si è definita e sviluppata in totale contrapposizione al fascismo. La nostra Costituzione ne rappresenta, per i valori che proclama e per gli ordinamenti che disegna, l’antitesi più netta.”
Eppure si continua a evitare di pronunciare, in tante occasioni, il termine “antifascismo” perché divisivo. Divisivo? E certo che lo è: divide chi è a favore di una dittatura da chi non lo è! In realtà, anche quelle formazioni che fanno continuamente appello al rispetto della Costituzione, rivendicando per sé una libertà di espressione comodamente “elastica”, nel rifiutarsi di celebrare la Festa della Liberazione dimenticano questa indiscutibile verità. Non riconoscono, cioè, il significato civile di una giornata che ricorda la fine dell’oppressione e la rinascita alla dignità e alla libertà del popolo italiano, almeno del popolo che si riconosce in quei valori. Appunto.
In tale ottica, la Resistenza non è mai finita: se lo è come moto storico, continua a essere viva come resistenza civile a tutto ciò che degradi la condizione sociale a quella servile. E poiché tale pericolo esiste, sotto ogni latitudine e dentro ogni sistema politico e si slatentizza nelle situazioni di crisi in cui più forte è la tentazione di delegare i propri diritti personali, bisogna essere pronti a coglierne e interpretarne i segni, per neutralizzarne gli effetti. Le parole con cui Camus chiude La peste, efficace metafora del morbo nazifascista che contagiò l’Europa civile, e che ricordano come il bacillo si annidi, silente, negli armadi e tra gli indumenti, pronto a riattivarsi, restano un monito sempre valido per allertare alla vigilanza intelligenze e sensibilità.
Il fascismo è sempre presente nel tessuto della nostra società: lo è in forme diverse, è ovvio. Non più col fez e in camicia nera, ma in abiti civili. Un fascismo eterno, come l’ha definito Umberto Eco. Quotidiano e, per questo, più strisciante e insidioso, come è ampiamente trattato nel prossimo numero di Micromega, in uscita il 30 aprile.
Qual è la possibile copertura difensiva, al di là di un apparato legislativo potente quale quello contenuto nella citata Disposizione della Costituzione, nella legge Scelba del 1952 e nella legge Mancino del 1993? Probabilmente ancora una lenta, progressiva e paziente azione culturale, di ricerca storica e di studio faticoso, l’unica speranza di vivere onoratamente, come scrisse Gramsci, e di formarci una coscienza democratica che consenta la piena, irrinunciabile vita civile che ciascuno di noi ha il diritto di realizzare e il dovere di perfezionare.
[1] Norberto Bobbio, Eravamo ridiventati uomini. Testimonianze e discorsi sulla Resistenza, Einaudi, e-book, posiz. 325-330-335
* MicroMega, 24 aprile 2020.
Editoriale
Le menzogne, il censore e il premier
James Bond. Conte aveva, e ha, tutto il diritto di replicare alle falsità che inondano i media ad ogni ora del giorno. In particolare le ultime, proprio sul Mes, al centro del confronto-scontro in sede europea e in Italia
di Norma Rangeri (il manifesto, 12.04.2020).
Qualche domanda: quante volte il premier Conte è stato attaccato in diretta tv, e sul circuito mediatico delle opposizioni, sul piano personale? E senza alcun contraddittorio? La leader che guida Fratelli d’Italia non ha forse accusato Conte di essere addirittura un “criminale”, con nessun conduttore o direttore di tg che replicasse “no, questo non si può dire in diretta tv”?
Quando mai Mentana si è indignato per le parole pesanti indirizzate al premier? E non è da censori affermare - come lui ha detto - che non avrebbe mandato in onda le accuse di Conte a Salvini e Meloni se avesse saputo?
Nemmeno gli fosse arrivata una cassetta registrata di Berlusconi come ai vecchi tempi, quando l’appello al popolo, via Vhs, veniva trasmesso da Arcore ai prediletti tg di famiglia e naturalmente a quelli della Rai plaudente. La famosa Rainvest a reti unificate.
Conte aveva, e ha, tutto il diritto di replicare alle falsità che inondano i media ad ogni ora del giorno. In particolare le ultime, proprio sul Mes, al centro del confronto-scontro in sede europea e in Italia. Il diritto e il dovere di rispondere alle sonore bugie che abbeverano l’opinione pubblica grazie a una informazione molto lacunosa, se non subalterna e connivente. Il dovere di ricordare che il Mes non lo riguarda.
E infatti la Ue ha fatto presente erga omnes che l’accordo sul salva-stati passò nel 2011 durante il governo Berlusconi IV, con Meloni giovane ministra. La stessa persona che oggi vuol giocare il ruolo della vittima insieme a Salvini, proprio lui che ha usato e abusato del ruolo istituzionale di ministro dell’interno e che ora, senza pudore, si appella addirittura al Capo dello Stato, dopo aver inondato di fango e fake news Conte e il suo governo.
Le opposizioni d’altronde, giocano le loro carte. Noi che conosciamo bene il ruolo dell’opposizione, e lo teniamo in gran conto, non abbiamo mai usato le menzogne, gli insulti personali. Le destre di oggi ne fanno invece pratica quotidiana. E alla disperata, perché sanno di essere ininfluenti in questa crisi.
E alla disperata, perché sanno di essere ininfluenti in questa crisi. Oltretutto quello che sta emergendo nelle Regioni sotto la loro guida conferma responsabilità e colpevoli incapacità nell’emergenza della lotta alla pandemia.
Alzano il tiro perché ogni giorno che passa si solleva il velo su una condotta al centro di accertamenti giudiziari. Il direttore del Pio Albergo Trivulzio, indagato per epidemia e omicidio colposo, dipende dal governo di destra lombardo. E gettare la palla fuori campo serve a distrarre gli italiani dalla tragedia che stanno vivendo migliaia di famiglie per aver perso i loro cari a causa di scelte sanitarie molto pericolose per la vita dei malati.
Al contrario, chi appoggia direttamente o indirettamente questo governo, dovrebbe apprezzare un presidente del Consiglio che parla in modo chiaro, diretto, che non nasconde la realtà ai cittadini, che non si piega alle pressioni confindustriali, che non fa da sponda alle forze politiche che lo sostengono, che soprattutto non propala bufale. Forse avrebbe dovuto ricostruire meglio il caso Mes, perché non tutti sanno, anzi, ma una risposta agli italiani era necessaria.
La critica che invece va mossa riguarda proprio la coalizione di governo. Perché appare chiaro che la tragicità della situazione che attraversa ogni cellula della vita sociale, non può essere cancellata da un “vogliamoci bene”, che continua a nascondere la polvere sotto il tappeto. Tra Pd e M5S riaffiorano rivalità, visioni diverse, contrapposizioni capaci di minare il fragile terreno sul quale poggia la coalizione.
Rivedendo Conte in tv emergeva un certo nervosismo, solo in parte dovuto allo stress del momento. Nato contro i pieni poteri reclamati dalle destre, costruito in difesa di un clima democratico messo in crisi dall’odio, dal razzismo, dalla xenofobia, sempre di più questa maggioranza deve dimostrare di essere all’altezza di una proposta politica in grado di avviare la ricostruzione del paese, sgovernato da un sistema che ne ha fatto il regno europeo delle diseguaglianze.
Perché quel cambiamento verso uno stato sociale e di diritto (per i lavoratori come per gli immigrati e per i carcerati), dentro una battaglia europea cruciale e inimmaginabile senza la micidiale opera distruttrice del virus, non ammette rinvii, né concederà repliche
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI. Un invito e un appello a fare luce, a fare giorno
FLS
Messaggio di Mattarella nell’XI° anniversario del terremoto de L’Aquila*
Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha inviato al Sindaco de L’Aquila, Pierluigi Biondi, il seguente messaggio:
«Il ricordo della notte del 6 aprile di undici anni or sono è impresso con caratteri indelebili nelle menti e nei cuori dei cittadini de L’ Aquila e di tutti gli italiani. Un terribile terremoto portò morte e devastazioni, gettò numerose famiglie nella sofferenza e talvolta nella disperazione, rese inaccessibili abitazioni, edifici, strade, costringendo a un percorso fortemente impegnativo, prima di sopravvivenza, poi di ricostruzione.
Nel giorno dell’anniversario desidero rinnovare i sentimenti di vicinanza e solidarietà a tutti gli aquilani, a quanti nei paesi e nei borghi limitrofi hanno condiviso sia quei momenti tragici sia gli affanni della ripartenza, ai nostri concittadini di numerosi altri territori del Centro Italia che, nel breve volgere di pochi anni, si sono trovati a vivere drammi analoghi e ora sono impegnati, come a L’Aquila, per restituire a se stessi e all’Italia la pienezza della vita sociale e i valori che provengono dalla loro storia.
La ricorrenza di quest’anno si celebra in un contesto eccezionale, determinato da una pericolosa pandemia che siamo chiamati a fronteggiare con tutta la capacità, la responsabilità, la solidarietà di cui siamo capaci. Un’emergenza nazionale e globale si è sovrapposta a quell’itinerario di ricostruzione che gli aquilani stanno percorrendo, che ha già prodotto risultati importanti ma che richiede ancora dedizione, tenacia e lavoro.
La ricostruzione de L’Aquila resta una priorità e un impegno inderogabile per la Repubblica. I cittadini hanno diritto al compimento delle opere in cantiere, al ritorno completo e libero della vita di comunità, alla piena rinascita della loro città.
Di fronte agli ostacoli più ardui possiamo avere momenti di difficoltà ma l’Italia dispone di energia, di resilienza e di una volontà di futuro che ha radici antiche e che, nei passaggi più difficili della nostra storia, è sempre stata sostenuta da una convinta unità del popolo italiano. Oggi questo senso di solidarietà e di condivisione rappresenta un patrimonio prezioso a cui attingere per superare l’emergenza di questi giorni».
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Fonte: Sito della Presidenza della Repubblica, Roma, 06/04/2020
PER I 700 ANNI DALLA MORTE DI DANTE.... *
Dante, l’appello di Franceschini alle imprese
"Poste finanzia, altri li seguano". La Rai rilanci all’estero
(ANSA) - ROMA, 10 GEN - "Grazie a Poste Italiane, che hanno offerto il loro sostegno per le celebrazioni, nel 2021, dei 700 anni dalla morte di Dante", ma "vorrei che quello di Poste fosse un esempio per le altre imprese italiane che non si possono sottrarre a fare qualcosa per Dante". Il ministro di Cultura e Turismo Dario Franceschini presenta a Roma, insieme con il presidente del Comitato per i 700 anni dalla morte di Dante, Carlo Ossola e con la presidente Maria Bianca Farina e l’ad Matteo Del Fante di Poste Italiane un progetto di valorizzazione che coinvolgerà decine di comuni italiani (70 al momento ma potrebbero diventare di più) e approfitta per lanciare un appello al mondo delle imprese: "Dante è di tutti - dice - tutte le nostre imprese quando vanno all’estero hanno dietro il supporto dell’Italia e Dante per noi italiani è identitario.
Tutti dovrebbero fare qualcosa". E aggiunge: "Vorrei vedere Dante sui treni, sui voli Alitalia, dappertutto". Non solo: "Vorrei che la Rai , so che ci sono ragionamenti aperti in questo senso, producesse cose da far circolare non solo in Italia ma nel mondo". Un appello, quello del ministro Pd, rivolto in ultima analisi al Paese a tutto tondo: "Dante è di tutti, è identitario, coinvolge, è stato anche uno dei primi ad aver parlato di Europa. - sottolinea il capo delegazione Pd al governo - Celebrare i 700 anni dalla sua morte è lavorare per l’unità e il nostro Paese ha molto bisogno di unità. E’ anche orgoglio e il Paese ha bisogno di orgoglio". (ANSA).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DELLA LINGUA E DELLA POLITICA D’ITALIA. DANTE: L’UNIVERSALE MONARCHIA DEL RETTO AMORE ("charitas"). Per una rilettura del "De Vulgari Eloquentia" e della "Monarchia"
Federico La Sala
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
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A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
BENEDETTO XVI/ Per fare politica occorre il “cuore” di Salomone
Ieri, presso la Biblioteca del Quirinale, è stato presentato il volume “La legge di Salomone. Ragione e diritto nei discorsi di Benedetto XVI”.
Ne parla ANDREA SIMONCINI *
L’idea di questo libro nasce da una constatazione: oggi la Chiesa è accusata spesso di entrare “a gamba tesa” nei dibattiti politici ovvero nelle discussioni di tipo giuridico; da più parti si ritiene che le gerarchie cattoliche pretendano di dettare ex cathedra i contenuti del dibattito democratico, distorcendo, così, tale dibattito. Un’accusa del genere è fondata? Questa obiezione nasce dalla vera posizione della Chiesa sulle questioni politiche e giuridiche? Davvero il Papa e la Chiesa intendono entrare in questi dibattiti “dettando” ai politici ed alle istituzioni cosa dovrebbero dire o fare?
Cosí è nato il progetto che Marta Cartabia ed io abbiamo curato, quello cioè di raccogliere assieme e ripubblicare cinque grandi discorsi pubblici che il Papa emerito Benedetto XVI ha tenuto dinanzi ad istituzioni civili, politiche o accademiche (Regensburg, Westminster, Collège des Bernardins, Nazioni Unite e Bundestag); chiedendo poi ad un gruppo di autorevoli esperti nel campo delle scienze giuridiche e politiche, espressivi delle più diverse sensibilità religiose, geografiche, culturali, accademiche e istituzionali, di proporne un commento.
Il risultato è andato al di là delle più ottimistiche previsioni. I nomi che hanno accettato di partecipare sono davvero tra gli studiosi più autorevoli e chi vorrà acquistare il libro potrà scorrerne l’elenco completo.
Cattolici, ebrei, protestanti, musulmani, agnostici, tutti hanno accettato di paragonarsi con questo pensiero. Alcuni hanno posto domande o sollevato interrogativi, altri hanno sottolineato la fecondità della posizione della Chiesa soprattutto dinanzi alle sfide che vive la società umana contemporanea. Tutti, comunque, hanno accettato questo dialogo con il Papa emerito come un interlocutore all’altezza delle sfide e dei valori in gioco, rifiutando così la riduzione caricaturale cui molto spesso viene sottoposta la posizione del magistero cattolico.
Ma il punto più interessante è che questo dialogo sta proseguendo oltre le pagine del libro.
La giornata di ieri lo dimostra: un panel d’eccezione ha accettato di proseguire la discussione lanciata dal volume, riprendendo le tesi di fondo del pontefice emerito e sviluppandone ulteriormente le potenzialità. Il dibattito è stato ricchissimo di contributi interessanti; un punto tra gli altri è emerso sinteticamente: le idee riguardanti il pensiero politico-giuridico della dottrina cattolica molto spesso sono stereotipi.
Per dimostrare questa conclusione proviamo un esperimento mentale: se oggi invitassimo un campione casuale di uomini politici o di responsabili di istituzioni pubbliche a stilare una lista dei temi toccati dal Papa emerito in questi suoi discorsi pubblici, prima di leggerli, è molto probabile che nell’elenco troveremmo: difesa della vita, eutanasia, contraccezione, divorzio, fecondazione assistita e così via. Rimarremmo, perciò, molto sorpresi nel non trovare nessuno di questi argomenti nei testi. Attenzione! Non che al Papa o alla Chiesa non interessino quei temi, anzi! Ma in questi discorsi, in cui il tema è il fondamento dell’ordine giuridico, il punto di attacco è molto più profondo e radicale. La preoccupazione non è dire alla politica cosa deve fare, ma − più alla radice − riconoscere da cosa nasce la politica.
«Nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto. Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, maiun ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto - ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio».
In questo passaggio del discorso pronunciato al Bundestag di Berlino è racchiuso il cuore del pensiero di Benedetto XVI: non la rivelazione, ma «la ragione e la natura nella loro correlazione» costituiscono «la fonte giuridica valida per tutti».
Dunque, il problema non è dire ai governanti cosa debbono fare, ma come far sì che essi usino correttamente la propria ragione nelle scelte che debbono fare.
In questo senso è davvero sorprendente l’unitarietà della traiettoria che lega il Papa emerito a Papa Francesco. Questa battaglia per un’idea non ridotta di ragione e di verità che costituisce il più grande contributo civile e laico della Chiesa.
Come ha detto Papa Francesco nella lettera inviata ad Eugenio Scalfari, “Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la accoglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: «Io sono la via, la verità, la vita»? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt’uno con l’amore, richiede l’umiltà e l’apertura per essere cercata, accolta ed espressa”.
La verità, quindi, chiede umiltà e apertura e qui non possiamo non riconoscere la eco di quel “cuore docile, che sappia rendere giustizia al suo popolo e sappia distinguere il bene dal male” che chiede Salomone a Dio e che il papa emerito ha additato a modello per i politici di qualsiasi credo.
* Fonte: Il Sussidiario.net, 31.01.2014
POLITICA
Sardine, Prodi: Chiedono toni civili *
"Discutere in politica con toni anche più civili? Certo, ma questo è abbastanza scontato. La gente è perplessa sulle tensioni che ci sono. D’altra parte non avevo mai visto in vita mia una grande manifestazione che inneggia alla civiltà dei toni. Questo quindi vuol dire che la durezza del dibattito, indipendentemente dai contenuto del dibattito, comincia a stancare". Lo ha detto l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi parlando delle ’sardine’ con i giornalisti a Firenze al termine del convegno dal titolo "Carlo Azeglio Ciampi ministro del Tesoro e l’adesione all’Euro", organizzato dalla Scuola Normale di Pisa a Palazzo Strozzi.
"Non è mica necessario in politica mangiarsi, azzannarsi l’uno con l’altro. Si può anche dibattere come stamattina. Oggi non sento dibattito su contenuti veri. Noi questa mattina abbiamo dibattuto sui contenuti, sulla sostanza della politica, ed è quello che io vorrei che si ritornasse a fare, perchè abbiamo bisogno di discutere sull’avvenire del Paese e quindi sulle grandi decisioni da prendere. E qui invece si lavora sui puntigli, sulle recriminazioni: è proprio una marcia indietro", ha aggiunto.
All’incontro, che ha visto relazioni sul ruolo di Ciampi nel primo governo Prodi (1996-98), a cui ha assistito il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, hanno partecipato il senatore a vita Mario Monti, l’ex ministro dell’Economia Vittorio Grilli, l’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco e gli economisti Alessandro Petretto, Pierluigi Ciocca e Giangiacomo Nardozzi.
* ADNKRONOS, 03/12/2019 19:33 (ripresa parziale).
Politica
Nino Di Matteo a Mezz’ora in Più: "O cambiamo noi magistrati o saremo normalizzati"
Il magistrato ricorda: "Ci sono sentenze definitive sul patto tra mafia e Silvio Berlusconi" *
“O cambiamo noi, o ci cambiano altri, magari a colpi di riforme con lo scopo di normalizzare la magistratura”. Lo ha detto il consigliere del Consiglio Superiore della magistratura Nino Di Matteo, ospite di Mezz’ora in Più su Rai Tre. L’inchiesta di Perugia “ci deve indignare ma non sorprendere, soprattutto non piegare. Non dobbiamo rassegnarci all’idea di una magistratura malata. La magistratura italiana ha scritto pagine altissime nella nostra storia”. “Sono certo che sotto la guida del presidente Mattarella il Csm saprà emendarsi per le cose passate. Dobbiamo reagire e impegnarci per recuperare. Nel momento in cui avevano perso prestigio è prevalsa in me la volontà di dare una mano e un contributo al recupero dell’autorevolezza” ha aggiunto.
“Evidentemente questo paese sconta deficit di memoria su questi fatti. Voglio riferirmi alla sentenza di Cassazione che ha condannato il senatore Dell’Utri per concorso in associazione mafiosa. In quella sentenza viene consacrato un dato: nel 1974 venne stipulato un patto tra le più importanti famiglie mafiose palermitane e l’allora imprenditore Berlusconi, questo patto è stato rispettato almeno fino al 1992 da entrambe le parti. Dell’Utri è stato condannato come intermediario di quel patto che ha visto protagonista anche l’allora imprenditore Berlusconi””, ha poi ricordato Di Matteo.
“Sulle stragi del ’92 e ’93, e anche sul fallito attentato allo stadio Olimpico del ’94, si sa molto ma non si sa tutto”, ha detto.
“L’ergastolo è l’unica vera pena detentiva a spaventare i capimafia. Riina diceva ai suoi, ci dobbiamo giocare i denti per evitare l’ergastolo. Secondo il mio parere il legislatore deve stabilire che tipo di prova ci vuole per far accedere anche gli ergastolani ai premi, come l’assenza di rapporti con con i clan. Non può dipendere solo dal comportamento perché è noto che i capimafia normalmente in carcere si comportano meglio di tutti gli altri”, ha detto Di Matteo a proposito delle sentenze Cedu e Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo.
Di Matteo ha poi aggiunto di essere favorevole alla legge che blocca la prescrizione che entrerà in vigore a gennaio, mentre è contrario a qualsiasi intervento in tema di intercettazioni, come la legge Orlando che dovrebbe entrare in vigore a partire dal 2020. Infine, sulla liberalizzazione delle droghe leggere, il magistrato si è detto contrario.
* www.huffingtonpost.it, 03.11.2019.
Un governo per difendere la Costituzione
M5S-Lega. Il dovere delle forze democratiche è quello di dar vita a un governo che ripari i guasti prodotti proprio da chi quelle politiche velenose contro la vita e la dignità delle persone ha praticato e intende riproporre con più forza ove vincesse le elezioni
di Luigi Ferrajoli (il manifesto, 25.08.2019)
C’è una ragione di fondo che impone alla sinistra la formazione di un governo giallo-rosso: la necessità, prima di porre termine alla legislatura, di disintossicare la società italiana dai veleni in essa immessi da oltre un anno di politiche ferocemente disumane contro i migranti. La Lega di Salvini intende «capitalizzare il consenso» ottenuto a tali politiche pretendendo nuove elezioni e chiedendo al popolo «pieni poteri».
L’idea elementare della democrazia sottostante a questa pretesa - poco importa se per analfabetismo istituzionale o per programmatico disprezzo delle regole - è la concezione anticostituzionale dell’assenza di limiti alla volontà popolare incarnata dalla maggioranza e, di fatto, dal suo capo: dunque, l’esatto contrario di quanto voluto dalla Costituzione, cioè la negazione del sistema di vincoli, di controlli e contrappesi da essa istituito a garanzia dei diritti fondamentali delle persone e contro il pericolo di poteri assoluti e selvaggi.
Non dimentichiamo quanto scrisse Hans Kelsen contro questa tentazione del governo degli uomini, e di fatto di un capo, in alternativa al governo delle leggi: «la democrazia», egli scrisse, «è un regime senza capi», essendo l’idea del capo al tempo stesso non rappresentativa della complessità sociale e del pluralismo politico, e anti-costituzionale perché in contrasto con la soggezione alla legge e alla Costituzione di qualunque titolare di pubblici poteri.
Di fronte a queste pretese, il dovere delle forze democratiche - di tutte quelle che si riconoscono non già nell’idea dell’onnipotenza delle maggioranze ma in quella dei limiti e dei vincoli ad esse imposte dalla Costituzione - è quello di dar vita a un governo che ripari i guasti prodotti proprio da chi quelle politiche velenose contro la vita e la dignità delle persone ha praticato e intende riproporre con più forza ove vincesse le elezioni.
Dunque un governo di disintossicazione dall’immoralità di massa generata dalla paura, dal rancore e dall’accanimento - esibito, ostentato - contro i più deboli e indifesi.
Non un governo istituzionale o di transizione, che si presterebbe all’accusa di essere un governo delle poltrone, ma al contrario un governo di esplicita e dichiarata difesa della Costituzione che ristabilisca i fondamenti elementari della nostra democrazia costituzionale: la pari dignità delle persone, senza differenze di etnia o di nazionalità o di religione, il diritto alla vita, il rispetto delle regole del diritto internazionale, prima tra tutte il dovere di salvare le vite umane in mare, il valore dei diritti umani e della solidarietà, il rifiuto della logica del nemico, come sempre identificato con i diversi e i dissenzienti e immancabilmente accompagnato dal fastidio per la libera stampa e per i controlli della magistratura sull’esercizio illegale dei poteri.
Su questa base non ha nessun senso condizionare il governo di svolta a un no a un Conte-bis o alla riduzione del numero dei parlamentari.
L’alternativa possibile è un governo Salvini, preceduta dalla riduzione dei parlamentari ad opera di una rinnovata alleanza giallo-verde, e poi chissà quante altre e ben più gravi riforme in tema di giustizia, di diritti e di assetto costituzionale.
Una probabile maggioranza verde-nera eleggerebbe il proprio capo dello Stato e magari promuoverebbe la riforma della nostra repubblica parlamentare in una repubblica presidenziale. Di fronte a questi pericoli non c’è spazio per calcoli o interessi di partito.
"Pd-5 Stelle, il male minore: salvare il Paese dalla destra"
Dialogo tra il filosofo Aldo Masullo e lo storico Aurelio Musi: gli scenari aperti dalla crisi di governo e le prospettive dell’Italia
"Le urne un azzardo da evitare"
di AURELIO MUSI (La Repubblica/Napoli, 31 agosto 2019)
Musi: Il segretario del Pd Nicola Zingaretti lo ha chiamato «nuovo governo» per sottolinearne la discontinuità, la svolta rispetto al passato, non il “Conte bis”. «Un governo per il diritto al futuro», «il coraggio di tentare», «fine della stagione dell’odio e della paura», «l’Italia bella a cui vogliamo dare voce», equità, diritti civili, nuovi valori nella politica economica: sono queste le altre dichiarazioni di Zingaretti dopo le consultazioni al Quirinale. Ma l’abbraccio fra populisti e sinistra è davvero il male minore per il nostro Paese? Si può parlare di una conversione al populismo della sinistra o di una sinistra populista? Ne parlo con il filosofo Aldo Masullo, siamo entrambi appassionati osservatori e interpreti delle vicende politiche, soprattutto ora che, in Italia e nel mondo, sembrano dominate più dall’irrazionalità e dalla spinte emotive, che dalla logica. Masullo riflette a lungo, soppesa le parole.
Masullo: «Non mi impiccherei alle forme e alle formule», dice. «È un problema di sostanza e di processi storici. L’Italia è ridotta in condizioni miserevoli: e l’immiserimento è soprattutto nello spirito. Una democrazia parlamentare suppone una società coesa, in cui sia diffusa la cultura civile che invece è andata deperendo. È venuta meno la condizione primaria di una democrazia parlamentare. La crisi della democrazia italiana è la crisi della nostra società. Detto questo, è evidente che ci siamo cacciati in una condizione di necessità. Siamo tra Scilla e Cariddi. Questo nuovo governo da un lato è il tradimento di una democrazia di sinistra. D’altro lato, se rifiutiamo la possibilità del nuovo governo, corriamo il rischio che la Lega riesca a vincere le prossime elezioni. La responsabilità verso il Paese è il fine primario che ci dobbiamo porre. Chi perde non è il singolo partito, ma un popolo intero. Se invochiamo il principio di responsabilità, dobbiamo respingere l’azzardo delle urne".
"L’alternativa è offerta dallo stesso avversario che ci minaccia. Bisogna quindi scegliere la carta del male minore: essa non rappresenta la garanzia di una vera ricostruzione democratica, che viene rinviata ad un secondo tempo. Responsabilmente non possiamo giocare d’azzardo. Dobbiamo cogliere l’occasione e stringere le fila».
Musi: "Il Pd coltiva l’illusione di poter gestire e “disciplinare”, per così dire, i 5 Stelle. L’obiettivo forse sarebbe raggiungibile solo con un partito coeso, con una sola anima, non diviso fra gruppi, fazioni, partitini. Lo scontro Renzi-Zingaretti, l’uscita di Calenda e l’ipotesi di un’ ulteriore scissione non rinviano forse ad una sorta di coazione a ripetere le divisioni, vera maledizione della sinistra?".
Masullo: «Calenda non mi preoccupa, perché il personaggio, pur intelligente, è sempre disposto a mettersi all’opposizione stando dentro o fiancheggiare punzecchiando. Mi preoccupano altri personaggi: Renzi e il gruppo renziano, naturalmente. Si dovrà verificare la loro serietà. Dovranno rendersi conto che incombe una grande responsabilità verso intere generazioni. Il Movimento 5 Stelle è come un piccolo serpente, divorato da un grande serpente, la Lega. È un insieme diversificato senza un legame che l’unisca. Il Pd con i 5 Stelle si allea con un partito pericoloso per la sua friabilità. La variabile è dunque la fermezza e l’unità del Pd. È invece pericolosa la spaccatura interna al P d. È un partito con le stampelle che deve imparare a camminare con i propri piedi. È una società di partiti diversi. Oggi ci troviamo di fronte a un gioco in cui decide in ultima istanza la responsabilità di ognuno».
Musi: "Democrazia diretta e democrazia rappresentativa, populismo Lega, populismo 5 Stelle, piattaforma Rousseau: qui sta forse la profonda incompatibilità tra un soggetto politico che crede fermamente nelle istituzioni e nella democrazia rappresentativa e un altro che, come ha dimostrato durante la fase di alleanza con la Lega, è andato a rimorchio del suo populismo".
Masullo: «Il populismo non è il potere al popolo ma il potere di alcuni che seducono il popolo. La compagnia in cui è costretto a collocarsi il Pd non rappresenta tanto un pericolo in positivo, quanto in negativo. Non la forza, ma la fiacchezza dei 5 Stelle è il vero rischio. La società attuale è una società deformata che ha perduto la fiducia in se stessa, il senso della lotta per la giustizia, che è un vero progetto politico. Tutto allora ritorna sulla stabilità del Pd».
Musi: "Destra/sinistra: esiste ancora la diade, la dicotomia formulata molti anni fa da Norberto Bobbio?".
Masullo: «È un gioco di nomi, di parole. In senso lato esiste ancora un sentimento di destra: la conservazione, senza se e senza ma, della posizione che si ha. Il sentimento di sinistra aiuta gli altri a conquistare una posizione che non hanno. Questo è il motivo dell’unità della destra rispetto alla disunità della sinistra. L’impegno è allora quello di unire i diversi».
Musi: "Forse la sinistra italiana deve tornare sui territori, ricomporre un rapporto lacerato con la società, gettare le basi per costruire un nuovo blocco sociale, come si sarebbe detto una volta...".
Masullo: «Tutto quello che le ho detto prima si potrebbe sintetizzare così: trasformare i molti desideri in un unico progetto. Questa è un’occasione propizia. Se si mette in moto questo processo col nuovo governo, il Pd può iniziare a costruire il progetto unitario. Le sezioni di partito sono deserte. La ricostruzione, di cui abbiamo bisogno, non è solo politico-funzionale, ma di carattere sociale. Una volta c’era la classe operaia con un interesse comune, visibile. Oggi il precariato diffuso accentua divisioni e incompatibilità. Non avendo una base unitaria capace di sorreggere il progetto, bisogna sostituirla con una pratica politica, capace di mettere in piedi le istituzioni barcollanti e creare nuove reti sociali. La politique d’abord: Nenni aveva ragione».
Musi: "Quali le ricadute su Napoli e la Campania del nuovo equilibrio politico nazionale? Non c’è vera svolta senza un rinnovamento delle classi dirigenti locali del Pd. Il limite di Renzi e gli effetti sulla situazione attuale della Campania sono stati soprattutto la scarsa attenzione alle periferie, la conservazione degli equilibri preesistenti, un partito autoreferenziale, tutto dentro le istituzioni, assente nella società civile, ripiegato nei rapporti di potere interni, in preda alla guerra per bande".
Masullo: «La Campania è un deserto politico, immobile, non ci sono forze capaci di costruire un progetto in grado di parlare alla società. Dobbiamo prendere atto con grande amarezza di questo. La Campania deve pregare Iddio che il corso nazionale sia così forte da trascinare quelle poche energie disponibili a mettere in discussione gli equilibri attuali e lavorare per il cambiamento».
Musi: "Un’ultima domanda riguarda il rapporto di lunga durata tra l’intellettuale, il filosofo Masullo e la politica: una sorta di “recherche” sul suo vissuto".
Masullo: «È una domanda che mi fa male, nel senso che a guardare indietro mi rendo conto del fatto che ho rinunciato alla mia attività culturale e scientifica per correre dietro alla politica. Ciò non è dipeso dalla cattiveria della politica, ma semplicemente dal fatto che un intellettuale non può svolgere insieme il lavoro culturale e agire politicamente. Un agire che esige il tuffarsi, l’immergersi totalmente nella politica. Sono rimasto sospeso tra la ricerca scientifica e l’attività politica. Questa non si può ridurre ad un’azione pedagogica: lezioni e conferenze agli operai del Pci, in cui parlavo un linguaggio diverso da quello dei funzionari di partito; interventi al Senato, svolti non in politichese, eccetera. Inevitabilmente ho scontato un deficit di azione politica. Ma non ho corso il rischio di diventare un cinico alla pura ricerca del potere».
Conte si è dimesso, furia contro Salvini: "Irresponsabile". Al via le consultazioni
Il premier a palazzo Madama: ’Interessi di parte compromettono interesse Italia
di Redazione Ansa (21.08.2019)*
"L’azione del governo si arresta qui". E’ quasi a metà del suo intervento nell’aula di palazzo Madama che ieri il premier Giuseppe Conte ha messo la parola fine ai 14 mesi di governo gialloverde aprendo ufficialmente la crisi, con le dimissioni rassegnate al presidente Mattarella che ha avviato le consultazioni a partire dalle 16. Un intervento in cui il presidente del Consiglio difende quanto fatto - "abbiamo lavorato fino all’ultimo giorno" -, ricorda ancora il lavoro da fare, ma soprattutto ne approfitta per lanciare un duro affondo contro Matteo Salvini. Il premier è una furia e non usa giri di parole nel bollare Salvini come "irresponsabile" per aver aperto una crisi solo per "interessi personali e di partito". Un crescendo di accuse che arriva dopo mesi passati a dosare e mediare ogni parola.
Conte ora è senza filtri. Ripercorre i mesi del governo elencando tutti i problemi creati dal leader della Lega, ultimo appunto la decisione di aprire una crisi con il rischio, ricorda Conte, che senza un nuovo esecutivo il Paese andrà in esercizio provvisorio e ci sarà l’aumento dell’Iva: "I comportamenti del ministro dell’Interno rivelano scarsa sensibilità istituzionale e una grave carenza di cultura costituzionale". Il capo del governo che in diverse occasioni si rivolge a Salvini chiamandolo Matteo (Conte è seduto in mezzo ai due vicepremier) lo accusa di aver oscurato quanto fatto dall’esecutivo: "hai macchiato 14 mesi di attività mettendo in dubbio anche quanto fatto dai tuoi ministri". Ma ad un certo punto, il capo del governo arriva a definirsi "preoccupato" da chi "invoca piazze e pieni poteri". L’affondo non si ferma solo alla decisione di mettere fine all’esperienza gialloverde ma tocca anche dossier delicati come il Russiagate.
Conte gli imputa di non essere andato in Aula e di aver creato problemi allo stesso presidente del Consiglio. Il capo del governo non tiene fuori nulla dal suo intervento nemmeno il ricorso che Salvini all’uso di simboli religiosi. Si tratta per Conte di "uso incosciente di simboli religiosi".
L’INTERVENTO DI SALVINI - "Grazie e finalmente: rifarei tutto quello che ho fatto", ha detto il vicepremier, Matteo Salvini, intervenendo nell’Aula del Senato. "Non ho paura del giudizio degli italiani". Sono qua "con la grande forza di essere un uomo libero, quindi vuol dire che non ho paura del giudizio degli italiani, in questa aula ci sono donne e uomini liberi e donne e uomini un po’ meno liberi. Chi ha paura del giudizio del popolo italiano non è una donna o un uomo libero". "Se qualcuno da settimane, se non da mesi, pensava a un cambio di alleanza, molliamo quei rompipalle della Lega e ingoiamo il Pd, non aveva che da dirlo. Noi non abbiamo paura", ha detto ancora Salvini.
"La libertà non consiste nell’avere il padrone giusto ma nel non avere nessun padrone", ha detto Matteo Salvini citando Cicerone. "Non voglio una Italia schiava di nessuno, non voglio catene, non la catena lunga. Siamo il Paese più bello e potenzialmente più ricco del mondo e sono stufo che ogni decisione debba dipendere dalla firma di qualche funzionario eruopeo, siamo o non siamo liberi?". "Gli italiani non votano in base a un rosario, ma con la testa e con il cuore. La protezione del cuore immacolato di Maria per l’Italia la chiedo finchè campo, non me ne vergogno, anzi sono ultimo e umile testimone". "Voi citate Saviano, noi San Giovanni Paolo II.., lui diceva e scriveva che la fiducia non si ottiene con la sole dichiarazioni o con la forza ma con gesti e fatti concreti se volete completare le riforme noi ci siamo. Se volete governare con Renzi auguri...".
L’INTERVENTO DI RENZI - "Sarebbe facile assistere allo spettacolo sorridendo ma la situazione impone un surplus di responsabilità. Lei oggi presidente del consiglio si dimette ed il governo che lei ha definito populista ha fallito e tutta l’Ue ci dice che l’esperimento populista funziona in campagna elettorale ma meno bene quando si tratta di governare". "No si è mai votato in autunno, c’è da evitare l’aumento dell’Iva e serve un governo non perchè noi ci vogliamo tornare ma perchè l’aumento dell’Iva porta crisi dei consumi non è un colpo di Stato cambiare il governo ma un colpo di sole aprire la crisi ora ora, questo è il Parlamento non il Papeete". Le parole di Conte sono "da apprezzare" ma c’è il "rischio di una autoassoluzione", ha detto in una nota il Segretario del Pd Nicola Zingaretti. Per questo "qualsiasi nuova fase politica non può non partire dal riconoscimento di questi limiti strutturali di quanto avvenuto in questi mesi".
* http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2019/08/20/governo-in-senato-e-il-giorno-di-conte_57d1a36a-11ff-48b7-ba74-d2380fb14a93.html (ripresa parziale - sena immagini e allegati).
Il capo carismatico e l’identificazione con l’oppressore
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 27.07.2019)
Dalle elezioni politiche del 2013, il paese uscì quasi equamente diviso in tre poli: il centrosinistra, il centrodestra e il M5S. Bersani, il segretario del Pd di allora, cercò di aprire la prospettiva di un dialogo con i “grillini”. Il suo progetto, per niente ingenuo, anzi lungimirante, fallì, anche per l’arroganza dei suoi interlocutori (che ne pagano ora le conseguenze). Un’alleanza tra il centrosinistra e il centrodestra portò ai governi di Letta, di Renzi e di Gentiloni. Questi governi non sono riusciti a risolvere nessuno dei problemi strutturali del paese o a porre le basi di una soluzione futura. La disgregazione delle alleanze socioculturali che sostenevano il centrosinistra si è consolidata e le elezioni di un anno fa l’hanno marginalizzato.
Il fenomeno M5S non è mai stato espressione di un processo trasformativo. La sua presenza è, nondimeno, manifestazione, pur confusa e dispersivamente protestataria (e manipolabile), del disagio stagnante e impotente del popolo, in particolare dei ceti sociali che la sinistra dovrebbe rappresentare. Eppure si persevera nel rifiutare di riconoscere che non essendo il centrosinistra autarchico, né potendo esserlo nel prossimo futuro, qualcosa dovrebbe muoversi sul piano del confronto con i 5S. Dopo la scelta catastrofica di spingerli tra le braccia di Salvini, di cui tutti gli “opinion leader” del centrosinistra, che ora non sanno che pesci pigliare, ripetendo slogan stantii, hanno una responsabilità enorme, il nuovo segretario del Pd, un uomo politico decente, ha definito il partito concorrenziale al M5S e “alternativo” alla Lega.
È così difficile percepire l’evidente? La sinistra non è alternativa, nell’ambito di un’“alternanza” democratica, a un partito razzista, retrogrado e profondamente autoritario come la Lega. Non offre soluzioni alternative (è meglio la frittella o il gelato di prima mattina?) a quelle barbariche di Salvini, ma opposte, nell’ambito di un’incompatibilità totale, la stessa che esiste tra democrazia e autoritarismo totalitario.
Nel campo di questa opposizione fondamentale, da cui dipende il futuro democratico del paese, la concorrenza necessaria con il M5S deve includere la prospettiva di un’alleanza, altrettanto necessaria, almeno con una sua parte e soprattutto con gli interessi reali, mal rappresentati, del suo elettorato tendente ora a disperdersi nell’astensionismo.
Salvini è stato fortemente avvantaggiato dall’essergli stato permesso di andare al governo. Com’era prevedibile, sta procedendo, usando tutti i mezzi a disposizione, complice la scarsa opposizione da parte delle istituzioni democratiche di controllo, a una doppia fidelizzazione. Quella dei funzionari dello stato più sensibili alla demagogia del potere (il piacere sadomasochistico di sentirsi forti con i deboli e deboli con i forti). Quella delle masse disorientate e scollegate dai legami solidali che investendo il capo carismatico e autocratico, incarnano in lui un principio di deresponsabilizzazione: ciò da una parte li fa sentire,
llusoriamente, liberi e, dall’altra, li fa pensare non colpevoli, non punibili in un mondo di repressione, punizione. Nella doppia fidelizzazione, di cui Salvini è insieme vittima (pericolosa) e promotore, gioca un ruolo fondamentale l’“identificazione con l’aggressore”: l’identificazione con le forze minaccianti la propria umanità, trovatasi in condizione di precarietà, che crea un senso di invulnerabilità, al prezzo di una grave alienazione. Con tutte le perplessità che si possono avere nei loro confronti, i 5S sono perlopiù periferici a questo processo e piuttosto che cercare di omologarli ad esso è meglio cercare di recuperarli.
L’intervento
Dante, simbolo dell’Italia molto prima della sua unità
Il presidente della Società Dante Alighieri sostiene l’iniziativa di una Giornata dedicata al poeta della «Commedia». Il Dantedì sarà una festa per gli italiani e chi ama l’Italia
di ANDREA RICCARDI *
La proposta di dedicare a Dante una giornata celebrativa, avanzata da Paolo Di Stefano sul «Corriere della Sera», incontra l’interesse di tanti. Dante dà nome alla Società Dante Alighieri, fondata nel 1889 da Giosue Carducci per difendere l’identità degli emigrati nel mondo. La Società lavora in questo senso da 130 anni e conta oggi circa 400 comitati e tante scuole ovunque. La sua missione resta l’insegnamento dell’italiano non solo agli emigrati e ai loro figli, ma anche a chi è attratto dalla lingua e dal vivere all’italiana.
Abbiamo sempre festeggiato la Giornata di Dante in tutti i nostri comitati il 29 maggio, scegliendo questa tra le possibili date di nascita del poeta, uno degli ultimi giorni del mese indicato nel commentario di Boccaccio. Questi afferma che Dante morì dopo aver passato il cinquantaseiesimo anno «dal preterito maggio». Ma la data non è importante. Quel che conta è l’esperienza positiva di una giornata dedicata al Sommo Poeta da parte della nostra Società lungo gli anni.
Sono quindi d’accordo sul Dantedì. Infatti Dante è un simbolo del «mondo italiano», molto prima dell’unità politica del Paese, che però si proietta verso il futuro e rappresenta un giacimento di poesia, umanità e mondo spirituale, ancora in parte da esplorare. È simbolo, in qualche modo, di «preveggenza», di un rapporto positivo tra passato e futuro: il poeta immagina la redenzione del Purgatorio, dando forma letteraria alla speranza di poter «rimediare» agli errori e ai limiti, in un modo che pochi decenni prima non esisteva. Dante ha fondato la visione di un’umanità più giusta e positiva. È una visione «italiana» in senso profondo. Del resto si celebrano le identità culturali associate alla grande poesia di autori come Cervantes o Shakespeare.
Dante è con Shakespeare nel cosiddetto «canone poetico occidentale». Molti lo conoscono. Tuttavia bisogna conoscerlo sempre meglio, perché la ricchezza letteraria della sua opera non si esaurisce e non si sintetizza. È come una Bibbia, che va letta e riletta: allora si scoprono messaggi e significati nuovi. Insegna una lettura che è un metodo per fare cultura, anche per i non specialisti. Lo si vede nel Paradiso, summa delle conoscenze concluse nel simbolo della rosa candida, che è un raffinato esempio di come insegnamenti alti e complessi possano essere incastonati in un testo poetico e letterario. La rosa, simbolo caro a poeti e mistici, è il fiore del mese di maggio, quando celebriamo la Giornata di Dante.
Qualunque sarà la data prescelta, la proposta di un Dantedì non deve cadere nel vuoto. La giornata sarà significativa non solo per la Dante Alighieri, da cinque generazioni impegnata nella salvaguardia della cultura italiana nel mondo. Sarà soprattutto una «festa» per gli italiani e per quanti guardano con simpatia al «mondo italiano» in tutto il suo spessore. Questo mondo vive anche fuori dalla penisola. Abbiamo dato come titolo al nostro prossimo congresso di Buenos Aires, che raccoglie italiani e amici dell’italiano: Italia, Argentina, mondo: l’italiano ci unisce. La nostra lingua non è egemonica, non s’impone ma attrae: unisce i tanti «pezzi d’Italia», come diceva il manifesto fondatore della nostra Società, guardando agli italiani e ai simpatizzanti per l’Italia nel mondo.
Dante non è solo il simbolo dell’Italia. È voce mondiale e patrimonio dell’umanità. L’Italia (e forse l’Europa) non sarebbero quel che sono nella cultura e nel seguir «virtute e canoscenza», se non ci fosse stato Dante, il quale non è solo, come molti credono, la sintesi del Medioevo, ma è l’anticipatore dell’umanesimo ancora prima di Petrarca, grazie al colloquio fertile con i classici, nonché il profeta del futuro con una visione moderna dell’esistenza e in una simbiosi di vita e arte, mai così intensa prima né dopo di lui. Per questo il Dantedì rappresenta, in questo sconfinato mondo globale dei nostri tempi, una salda radice e un’apertura al futuro.
L’Emilia-Romagna appoggio al progetto e l’evento a Ravenna al festival Dante2021
La regione Emilia-Romagna sostiene la mobilitazione per il Dantedì. In una risoluzione il consigliere Gianni Bessi (Partito Democratico) impegna la giunta «ad attivarsi presso il governo e il parlamento affinché si istituisca, tramite percorsi legislativi e normativi, anche formalmente la giornata del Dantedì». Al progetto di una Giornata mondiale per Dante è dedicato un evento del festival Dante2021 a Ravenna il prossimo 13 settembre. Con lo scrittore e giornalista Paolo Di Stefano, che in un articolo del 24 aprile sul «Corriere» aveva lanciato il Dantedì, intervengono il sindaco della città Michele de Pascale, Carlo Ossola (presidente del Comitato nazionale per i 700 anni dalla morte di Dante), Francesco Sabatini (presidente onorario dell’Accademia della Crusca), Wafaa El Beih (direttrice del dipartimento di Italianistica dell’Università di Helwan-Il Cairo), i traduttori René de Ceccatty e José María Micó e il tedesco Harro Stammerjohann, socio straniero della Crusca.
* Corriere della Sera, 15.07.2019 (ripresa parzale - senza immagini).
Giovanni Maria Flick: "Voltare pagina al Csm senza dimenticare"
Intervista all’ex Presidente della Consulta: "Ma non vorrei se ne approfittasse per limare le unghie ai giudici"
di Stefano Baldolini (The Huffington Post, 21.06.2019)
“Adesso voltare pagina davvero, ma senza cancellare tutto subito. Questa vicenda è stata una ferita molto grave, attenti ai propositi di “vendetta” contro i giudici indeboliti”. Il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick, già giurista e ministro, interviene sul caos nomine nella giornata in cui il presidente Mattarella, in un plenum straordinario del Csm, parla di “quadro sconcertante e inaccettabile”.
“Non si può non essere d’accordo con l’impostazione del Presidente. Ciò che è emerso è sconcertante. Soprattutto è sconcertante l’indifferenza, l’abitudine a un malcostume praticato abitualmente. Tendo a pensare che si praticasse anche in passato, magari non in modo così impudico”.
“Oggi si volta pagina”, ha detto il capo dello Stato al Palazzo dei Marescialli.
“Sì, adesso voltare pagina, ma che non vuol dire dimenticare”.
“Quanto avvenuto - ha aggiunto Mattarella - ha prodotto conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza non soltanto di questo Consiglio ma anche per il prestigio e l’autorevolezza dell’intero Ordine Giudiziario”
“E’ stata una ferita molto grave alla credibilità e alla fiducia della magistratura, che può legittimare propositi di “vendetta” verso i giudici che hanno messo troppe volte il naso in affari di corruzione e commistione della politica. Non vorrei se ne approfittasse per limare le unghie ai giudici”
Secondo il vicepresidente del Csm Ermini “la ferita non ha colpito le fondamenta del Csm”.
Non mi intendo di architettura, ma, come detto, il Csm esce abbastanza sfregiato da questa vicenda.
Veniamo così al tema della riforma del Csm. Ermini la definisce “necessaria”, ma di competenza del Parlamento.
Assolutamente. E chi altro la deve fare? Io non credo all’autoriforma, come non credo all’autosospensione.
Per il vicepremier Salvini il Csm “va riformato tutto” e va fatta una “seria riforma della magistratura”. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha annunciato le riforme del Csm, del processo penale e civile “entro l’anno”. Fattibile?
Distinguiamo le riforme del processo penale e civile con gli interventi che vanno fatti al più presto. Sono cose diverse, metterle insieme confonde le acque e si rischia che non si faccia nessun passo concreto, lasciando spazio solo alla stigmatizzazione e all’ipocrisia, ma ripeto, senza che ne conseguano passi concreti.
E quali sono i passi concreti possibili?
Occorre intervenire al più presto sui due punti deboli evidenziati da questa vicenda. L’elezione dei membri del Csm e la designazione dei capi ufficio per garantire il corretto funzionamento del Consiglio. Ma non basta, bisogna dire con forza che è vietato infrangere le norme disciplinari e deontologiche della categoria. Tenere distinto il tema dei reati dal tema dell’illecito disciplinare. Sui primi, se ce ne sono, indagheranno le procure. Ma d’altro canto non ha senso dire “cosa ho fatto di male se non c’è reato...” se comunque si sono infrante tutte le regole etiche.
Molti hanno puntato il dito contro l’associazionismo e il correntismo nella magistratura.
Anche qui, distinguiamo i problemi. L’associazionismo può avere una funzione positiva, sviluppare una vita sociale. Il correntismo, come abbiamo visto, invece può essere fonte di possibili degenerazioni. Ho contato ben 4 riforme del Csm, con altrettanti disastri. Ora cambiare registro davvero, interrompere il legame incestuoso che finisce per crearsi tra politica e correnti. Ho sentito di soluzioni come il sorteggio, che comporterebbero cambiamenti nella Costituzione, mi limiterei a eliminare le liste e a proporre la presentazione di candidature individuali. Ogni magistrato che vuole essere eletto al Csm, si presenti da solo.
Ce ne sono state di degenerazioni? Oppure come oggi ha detto uno degli intercettati, il deputato Cosimo Ferri, il confronto tra politica e giudici è cosa abituale e in questa vicenda c’è stata molta ipocrisia?
Premettendo che commento quello che ho letto sui giornali, non mi sembra che la scelta a tavolino, in una stanza d’albergo, di magistrati graditi possa essere ammessa. Mi sembra che non abbia nulla a che vedere con il fisiologico confronto tra magistrati e politici. Poi, ma a tempo debito, ci sarebbe da dire qualcosa sull’utilizzabilità di uno strumento investigativo potente come il trojan, che rischia di travolgere i limiti propri delle intercettazioni, minando il diritto inviolabile alla segretezza e alla libertà delle proprie comunicazioni, come prescritto dall’art.15 della Costituzione. Ma ripeto, ora non è il momento di preoccuparsene. Come priorità c’è la questione della riforma del Consiglio.
E dunque questa politica è in grado di fare una riforma giusta ed efficace? Non potrebbe approfittare della debolezza dei giudici e, come da Lei detto, prendersi le sue rivincite?
Questo discorso va fatto esclusivamente dal Parlamento. Nella misura in cui la politica “alta” dovrebbe decidere le linee fondanti della riforma del Csm. Con trasparenza, con concretezza, senza riscrivere la storia d’Italia.
Salvini chiede anche che i magistrati che entrano in politica “si dimettano per sempre”.
Occorre bloccare definitivamente le porte girevoli. Chi fa una scelta politica non deve poter rientrare nel modo più assoluto.
Bufera sul Csm.
Mattarella: «Oggi si volta pagina»
Severo monito del capo dello Stato Sergio Mattarella, durante il plenum straordinario del Consiglio superiore della magistratura, dopo la bufera suscitata dall’inchiesta di Perugia su favori e nomine
di Vincenzo R. Spagnolo (Avvenire, venerdì 21 giugno 2019)
È un severo monito e, al tempo stesso, una scossa sferzante per il futuro quella che arriva dal capo dello Stato Sergio Mattarella, durante il plenum straordinario del Consiglio superiore della magistratura. Un plenum indetto per colmare le carenze in organico dopo le dimissioni di cinque consiglieri togati presenti a incontri con magistrati e politici per favorire le nomine in alcune procure. «Oggi si volta pagina nella vita del Csm», incalza il presidente della Repubblica, manifestando «grande preoccupazione. Quel che è emerso, da un’inchiesta in corso, ha disvelato un quadro sconcertante e inaccettabile».
L’inchiesta di Perugia
Il riferimento del capo dello Stato è alle indagini della procura di Perugia, che vedono indagati per corruzione il pm di Roma (ed ex consigliere del Csm) Luca Palamara, un imprenditore e un avvocato, e per rivelazione di segreto d’ufficio un altro pm capitolino, Stefano Rocco Fava, e un consigliere del Csm, Luigi Spina, ora dimessosi dall’incarico. Le intercettazioni hanno rivelato l’esistenza di cene e incontri serali in cui si discuteva di assegnazioni di incarichi di vertice - fra cui quello di procuratore di Roma - avvenute fra lo stesso Palamara, i deputati del Pd Cosimo Ferri (magistrato in aspettativa) e Luca Lotti (ex ministro, indagato a Roma nell’inchiesta Consip) e almeno 5 consiglieri del Csm, ora dimissionari. «Quanto avvenuto - è la valutazione del presidente Mattarella - ha prodotto conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza non soltanto di questo Consiglio ma anche il prestigio e l’autorevolezza dell’intero ordine giudiziario; la cui credibilità e la cui capacità di riscuotere fiducia sono indispensabili al sistema costituzionale e alla vita della Repubblica». Il capo dello Stato stigmatizza con forza quel «coacervo di manovre nascoste, di tentativi di screditare altri magistrati, di millantata influenza, di pretesa di orientare inchieste e condizionare gli eventi, di convinzione di poter manovrare il Csm, di indebita partecipazione di esponenti di un diverso potere dello Stato, si manifesta in totale contrapposizione con i doveri basilari dell’ordine giudiziario e con quel che i cittadini si attendono dalla magistratura».
La scossa del Colle
Nei giorni peggiori della bufera su Palazzo dei Marescialli, mentre le rivelazioni di fonte giudiziaria portavano all’autosospensione e poi alle dimissioni dei consiglieri coinvolti, il presidente della Repubblica (che secondo Costituzione presiede il Csm) non ha fatto mancare mai sostegno e consiglio al vicepresidente David Ermini. E anche adesso, nella sala intitolata a Vittorio Bachelet e davanti a sedie ancora vuote nel plenum, Mattarella non pronuncia solo parole di costernazione, ma anche di sprone e di fiducia nel necessario rafforzamento del Consiglio, che ha gli anticorpi necessari e che ora più che mai sarà chiamato ad essere una "casa di vetro": «La reazione del Consiglio ha rappresentato il primo passo per il recupero della autorevolezza e della credibilità cui ho fatto cenno e che occorre sapere restituire alla Magistratura italiana. Di essa i cittadini ricordano i grandi meriti e i pesanti sacrifici anche attraverso l’esempio di tanti suoi appartenenti e hanno il diritto di pretendere che quei meriti e quei sacrifici non siano offuscati».
Riforme necessarie e urgenti
Ora «viene annunciata una stagione di riforme sui temi della giustizia e dell’ordinamento giudiziario, in cui il Parlamento e il Governo saranno impegnati», osserva Mattarella (riferendosi alle modifiche normative annunciate dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede) «ritenute opportune e necessarie, in conformità alla Costituzione». Il Quirinale seguirà l’evolversi del processo legislativo, ma nella consapevolezza che tocca «ad altre istituzioni discutere ed elaborare eventuali riforme che attengono a composizione e formazione del Csm». Nel frattempo, è la richiesta del capo dello Stato, il Consiglio non dovrà stare con le mani in mano: «Il Csm può - ed è, più che opportuno, necessario - provvedere ad adeguamenti delle proprie norme interne, di organizzazione e di funzionamento, per assicurare, con maggiore e piena efficacia, ritmi ordinati nel rispetto delle scadenze, regole puntuali e trasparenza delle proprie deliberazioni».
Ermini: «Basta con logiche spartitorie»
Dopo il capo dello Stato, sono intervenuti altri membri del Consiglio, ringraziandolo per il sostegno e la guida «irrinunciabile». Il vicepresidente David Ermini ha ricordato «la ferita profonda e dolorosa», derivante dall’inchiesta perugina e che «potrà guarire soltanto all’esito di un percorso lungo e faticoso». Ma si è detto «certo di poter affermare che essa non ha colpito le fondamenta del Consiglio superiore». Tuttavia, la pronta reazione alle condotte dei singoli componenti è stata necessaria, ma non è sufficiente. E «nel prossimo futuro il Csm sarà chiamato a dimostrare che in grado di affermare la propria legittimazione agli occhi della magistratura e dei cittadini», assumendo ogni determinazione nell’interesse generale della giurisdizione e «al riparo dall’influenza di interessi particolari e da logiche spartitorie e non trasparenti».
Le nuove nomine e il caso Roma
Il plenum ha convalidato l’elezione dei due nuovi consiglieri togati, Giuseppe Marra e Ilaria Pepe (entrambi di Autonomia e Indipendenza, il gruppo di Piercamillo Davigo), che subentrano a Gianluigi Morlini e Corrado Cartoni, dimessisi dopo le rivelazioni su cene e incontri nel maggio scorso con Palamara e Lotti, in cui si discuteva anche di indicazioni sul possibile successore di Giuseppe Pignatone a capo della procura di Roma. Sempre a maggio, la commissione Direttivi del Csm ha assegnato, per la nomina in questione, 4 voti al pg di Firenze Marcello Viola e uno ciascuno a Giuseppe Creazzo e Francesco Lo Voi, attuali capi della procura fiorentina e di quella palermitana. La votazione della commissione «è valida», ha precisato il vicepresidente del Csm Ermini ai cronisti al termine del Consiglio, e dunque ora «passa al Plenum e il Plenum è sovrano».
CRONACA
"Una ferita profonda e dolorosa", un "passaggio delicato" che richiede una reazione forte e immediata: o si riscatta "con i fatti il discredito che si è abbattuto su di noi o saremo perduti". E’ affidato alle parole del vicepresidente David Ermini il senso di una crisi istituzionale senza precedenti che ha scosso il Consiglio superiore della magistratura per effetto dell’Inchiesta di Perugia, nella quale sono indagati Luca Palamara, e Stefano Rocco Fava, pm a Roma, e il togato dimissionario del Csm Luigi Spina. Ma la sua non era l’unica sedia vuota ieri pomeriggio nell’aula Bachelet dove si è riunito un plenum straordinario convocato a seguito della bufera che ha travolto il Consiglio e l’interra magistratura italiana: quattro togati si sono autosospesi.
Lunedì sera Corrado Cartoni e Antonio Lepre, di Magistratura Indipendente, non indagati ma che avevano preso parte a incontri con gli esponenti del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri per discutere della nomina del procuratore di Roma, e ieri, annunciandolo poco prima del plenum, Gianluigi Morlini, di Unicost, e Paolo Criscuoli di Mi. Ma dall’assemblea di Palazzo dei Marescialli, insieme alla presa d’atto della gravità della situazione, arriva anche una forte assunzione di responsabilità e un richiamo alla compattezza: con un documento approvato all’unanimità tutti i consiglieri, laici e togati, si dicono "sgomenti e amareggiati", denunciano comportamenti da cui "prendere con nettezza le distanze" e richiamano la necessità di "un radicale percorso di autoriforma. E da più parti arriva il riconoscimento al vicepresidente Ermini di una gestione saggia, ferma e responsabile della situazione e al valore imprescindibile della guida del capo dello Stato, Sergio Mattarella, che del Csm è il presidente.
Di "un giorno cupo come pochi altri" per il Csm parla il togato di Autonomia &indipendenza Piercamilo Davigo, che esprime apprezzamento per la posizione unitaria su cui tutti i consiglieri si sono ritrovati facendo prevalere allo "spirito di appartenenza o di fazione" la "tutela dell’Istituzione". Michele Ciambellini, di Unicost, invita il Consiglio a dare "una risposta seria energica senza ambiguità e a percorrere insieme una strada che riaffermi il prestigio dell’Istituzione". Da Giuseppe Cascini, di Area, il paragone forte del momento "grave e drammatico" con i tempi dello scandalo della P2. Invita a una "generale presa di coscienza" il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Mammone, che esprime l’auspicio che "la consapevolezza costituisca un valido deterrente a che ulteriori comportamenti individuali vengano adottati in violazione delle regole fondamentali della deontologia".
Il laico M5S Fulvio Gigliotti si dice certo che il Csm "continuerà a mantenere quell’alto livello di garanzia e credibilità istituzionale" attraverso "il più attento rigore e la massima fermezza" nelle funzioni che tutti i componenti sono chiamati a esercitare. Al centro delle riflessioni di Ermini, inevitabilmente, anche il tema delle nomine ai vertici degli uffici che devono essere "trasparenti", compiute "fuori da logiche spartitorie", e preservate dalle "degenerazioni correntizie" e dai "giochi di potere" che sono emersi dall’inchiesta dei pm perugini. E ogni determinazione del Consiglio deve essere assunta "al riparo da interessi esterni" e "al solo fine di assicurare l’efficienza e la conformità alla costituzione dell’attività giurisdizionale" il tutto sotto la "guida illuminata" del Capo dello Stato. Il plenum ha anche preso atto delle dimissioni di Spina e ha deliberato il suo rientro in ruolo alla procura di Castrovillari, suo ufficio di provenienza.
Il linguaggio della Costituzione
di Giovanni Sabbatucci (La Stampa, 26.04.2019)
«La storia insegna che quando i popoli barattano la propria libertà in cambio di promesse di ordine e di tutela, gli avvenimenti prendono sempre una piega tragica e distruttiva». È uno dei passaggi centrali del discorso che Sergio Mattarella ha tenuto ieri a Vittorio Veneto, a conclusione delle celebrazioni del 25 aprile: l’ultimo di una serie di interventi in cui il presidente della Repubblica sembra aver tracciato una sorta di perimetro ideale della legittimità democratica e dell’etica repubblicana. Qualcosa di simile avevano fatto i suoi predecessori, soprattutto gli ultimi due. Ma in questo caso il riferimento è più puntuale e tutt’altro che neutro, visto che cade in una fase di accesa conflittualità politica: una fase in cui il dibattito pubblico tende a tracimare dall’alveo del fisiologico confronto fra idee e programmi per investire i principi di fondo in base ai quali siamo soliti definire le democrazie.
Vista in tale contesto, l’esortazione del capo dello Stato a non subordinare la difesa degli spazi di libertà alla ricerca di una maggiore tutela, o l’invito a non cedere alle sirene del nazionalismo sovranista (già evocato e condannato in numerosi interventi presidenziali) non possono non richiamare come modello negativo le democrazie illiberali e i regimi securitari dell’Est Europa. Ma il discorso suona anche come ammonimento implicito alle forze politiche italiane (Lega e Fratelli d’Italia) che a quei modelli dichiaratamente si ispirano.
Vanno nello stesso senso - anche se i destinatari politici del messaggio non coincidono specularmente - la condanna della violenza, seppur consumata in uno scenario bellico e in risposta ad altre violenze, e del ricorso alla giustizia sommaria, sempre incompatibile con la democrazia. Un accenno non casuale, in un discorso pronunciato nel giorno della liberazione dell’Italia dal nazifascismo, in una terra di confine già teatro di conflitti e di violenze e in un paese che ricorda col suo nome la vittoria italiana nella prima guerra mondiale, riproponendo quel filo di continuità (simbolica più che storica) fra Risorgimento, Grande Guerra e Resistenza che già fu caro a Carlo Azeglio Ciampi. Ma è difficile non cogliere in quella condanna anche un’eco delle recenti polemiche politiche sull’uso delle armi e sulla legittima difesa.
Non credo sia il caso di spingersi troppo oltre nella lettura in chiave politica degli ultimi interventi di Sergio Mattarella. O di ipotizzare anche per il suo settennato - come per quelli dei suoi predecessori, da Francesco Cossiga a Giorgio Napolitano - un secondo tempo di accentuato interventismo, che seguirebbe un primo tempo caratterizzato da stretto riserbo istituzionale. Certo la stessa situazione che l’Italia sta vivendo, segnata da una doppia conflittualità fra maggioranza e opposizione e all’interno della stessa maggioranza, potrebbe determinare, quasi per legge fisica, un ulteriore allargamento degli spazi di intervento presidenziale. Finora, però, Mattarella si è tenuto rigorosamente nei limiti del suo mandato. Ha espresso pareri e formulato giudizi anche gravi, ma sempre usando il lessico della democrazia liberale ed evitando ogni riferimento esplicito al confronto fra i partiti e all’azione di governo.
La Costituzione repubblicana, del resto, non si limita a condannare le dittature e i fascismi propriamente detti. Ma contiene in alcuni suoi articoli (vanno ricordati almeno il 9 sulle norme del diritto internazionale e sulla condizione degli stranieri e il 10 sulla guerra e sull’adesione agli organismi internazionali) norme difficilmente compatibili con i modelli nazionalisti e sovranisti. Finché non sarà cambiata, andrà rispettata nello spirito oltre che nella lettera.
POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO... *
Prodi
"Al Pd serve un padre. Zingaretti può diventarlo. Decisivo votare alle primarie"
L’ex premier invita a recarsi in massa ai gazebo: “Sarà fondamentale, un leader prende forza dal suo popolo. Importante il segnale delle Regionali: alle Europee va fermata la tendenza nazionalista e autoritaria dei populisti”
Intervista di Andrea Bonanni (la Repubblica, 07.02.2019)
BOLOGNA «Da ormai troppo tempo ci si azzuffa nel governo e nel Pd. Eppure l’Italia e il Pd avrebbero tanto bisogno di un padre: è un sentimento che vedo crescere in tutti gli italiani.»
Presidente Prodi, ma il padre del Pd non sarebbe lei?
«Al massimo io sono un nonno. Uno che fa molte prediche e cerca di ispirare buoni comportamenti E tale voglio rimanere».
Quali buoni comportamenti?
«Il primo è quello di andare assolutamente a votare alle primarie. L’affluenza ai gazebo avrà un’importanza enorme. Il numero degli elettori dovrà essere così elevato da dimostrare che il Partito democratico si pone come un’alternativa credibile: oggi è l’unica alternativa possibile. Andare a votare significa affermare la nostra identità. E il vincitore del confronto deve essere il leader indiscusso del partito. Basta leadership per interposta persona».
Un padre, dice?
«Certo. Usciamo da anni in cui sia il partito, sia il Paese, si sono estenuati in diatribe continue, rancori, isterismi, proclami ignoranti e liste di proscrizione. Per il Paese, spero che il padre non sia qualcuno che ha sempre bisogno di mettersi in divisa per apparire forte. Per il Partito democratico c’è bisogno di una figura autorevole, che sappia finalmente ascoltare, riconciliare, tranquillizzare ma anche decidere».
Questa figura può essere Zingaretti?
«Se intensifica il lavoro di allargamento e di pacificazione che ha iniziato, le sue possibilità sono molte, ma lo dovranno decidere le centinaia di migliaia di cittadini che voteranno alle primarie. Un leader prende forza dal suo popolo. E per dare forza alle primarie saranno di grande importanza i segnali che manderanno le elezioni in Abruzzo e in Sardegna. Il Pd ha in entrambi i casi i candidati più autorevoli: sono fiducioso proprio perché sento che si sta esaurendo il tempo nel quale competenza ed esperienza sono visti come un valore negativo. E poi, naturalmente, ci saranno le europee».
Le elezioni europee si avvicinano mentre i due partiti populisti al governo polemizzano con Bruxelles, con Parigi, con Berlino e perfino con l’Olanda. E invece il campo progressista stenta a ritrovarsi sotto la bandiera europea. Dovunque governino gli antieuropeisti, dalla Gran Bretagna all’Ungheria alla Polonia, le bandiere dell’Europa sventolano in piazza come segno di protesta. Qui da noi non sventola nulla...
«Le vedremo, le bandiere dell’Europa. Forse non si è ancora riflettuto abbastanza sull’importanza di ritrovarci sotto simboli comuni. Per questo ho lanciato l’idea che il 21 marzo in tutte le case si esponga la bandiera europea accanto a quella italiana. L’Unione europea è indispensabile per il nostro benessere e per il nostro futuro di cittadini liberi. Dobbiamo capirlo e dobbiamo dirlo con forza».
Invece gli italiani sembrano diventati euroscettici...
«Quando abbiamo fatto l’euro e quando abbiamo voluto l’allargamento, gli italiani erano i più decisi sostenitori di quelle scelte. E sa perché? Perché capivano che l’Europa prendeva decisioni per il futuro di tutti. Ma da allora questa capacità di prender decisioni si è indebolita nell’Ue. Con la bocciatura del progetto di Costituzione da parte dei francesi, il potere è passato dalla Commissione al Consiglio. È ritornato agli stati membri. Non si guarda più al bene collettivo ma all’interesse nazionale. I populisti vorrebbero accentuare ancora questa rinazionalizzazione del nostro destino. Le prossime elezioni europee devono ribaltare questa tendenza».
Che valore politico ha, oggi, la bandiera europea?
«Innanzitutto rappresenta il nostro futuro, quello dei nostri figli e dei nostri nipoti. Come ripeto sempre agli studenti, gli italiani sono quelli che meglio dovrebbero capirlo. Nel Rinascimento l’Italia dominava il mondo. Ma gli staterelli italiani divisi furono spazzati via dalla prima globalizzazione della storia: la scoperta dell’America. Oggi, con la globalizzazione totale, neppure la Germania, da sola, ha la forza di costruire le nuove caravelle, che si chiamano Google, Amazon, Alibaba, Tencent, Microsoft. Dobbiamo fare l’Europa prima che l’intelligenza artificale e la rete 5G ci distruggano completamente».
Non sembra proprio l’aria che tira, presidente. Tantomeno in Italia...
«Questa maggioranza ha dovuto intanto prendere atto che chiedere l’uscita dall’euro e dall’Unione europea sarebbe un suicidio, anche se non perde occasione per sparare sulla Francia, sulla Germania e persino sull’Olanda, per soffiare sul fuoco del nazionalismo come ha fatto su quello del razzismo e della xenofobia. Vogliono un’Europa debole e divisa perché vogliono una società debole anche in Italia.
Si tratta di forze che praticano una politica autoritaria e verticale, dall’alto verso il basso, ignorando i corpi intermedi e la società civile, che siano i sindacati, gli enti locali, le imprese o la stampa. Persino il Parlamento è stato svuotato della sua funzione, violando nei fatti il dettato costituzionale. Certo, quello dell’autoritarismo è un vento che soffia su tutto il mondo.
Ma la complessità e la ricchezza del tessuto democratico sono gli elementi costitutivi dell’Europa e della nostra libertà. Anche per questo dobbiamo difenderla».
E invece nel Pd sono riusciti a produrre due manifesti sull’Europa: quello di Calenda e quello degli eurodeputati. Non le sembra un po’ troppo?
«I valori, i concetti e i programmi dei due manifesti sono identici e condivisi da tutti. Le divergenze sono su come applicarli».
Grande coalizione europeista o liste separate che corrono in parallelo?
«Ma è proprio questo il punto. Si tratta di decisioni solo pragmatiche, da prendere tenendo in considerazione che esiste il sistema proporzionale ma esiste anche la soglia di sbarramento del 4 per cento. Gli europeisti devono muoversi in modo da ottimizzare il loro risultato complessivo. E queste decisioni spettano al nuovo leader del Partito democratico. Per questo deve ricevere una investitura popolare forte, tale da conferirgli di fatto la paternità non solo del partito ma di quella maggioranza di italiani che continua a credere nell’Europa. Come me».
Consigli al presidente del Lazio? Intensificare il lavoro di allargamento e di pacificazione che ha iniziato L’Europa è la garanzia della nostra libertà, dobbiamo farla prima che intelligenza artificiale e rete 5G ci distruggano
Il professore
Romano Prodi, 79 anni, due volte presidente del Consiglio, ha guidato la Commissione europea dal 1999 al 2004
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. In Parlamento (ancora!) il Partito al di sopra di tutti i partiti.
Federico La Sala
Mappe
Gli italiani vogliono il leader forte, piace la democrazia senza partiti
Oramai soltanto l’8% esprime fiducia nelle formazioni partitiche. Quattro su 10 pensano che la democrazia possa funzionare anche senza di loro. Un mutamento iniziato nel 1994
di Ilvo Diamanti (la Repubblica, 27.01.2019)
La "nostra" democrazia sta cambiando. Non da oggi. Ma, da qualche tempo, i segni del mutamento appaiono più evidenti. In Italia come (e più che) altrove. Mi riferisco, specificamente, alla democrazia "rappresentativa". E, in particolare, al declino dei partiti. Il principale canale della rappresentanza. La "democrazia dei partiti", che abbiamo conosciuto nel corso del dopoguerra, si è trasformata in "democrazia dei leader". Anzitutto, perché i partiti si sono "personalizzati".
Soprattutto, a partire dagli anni Novanta, dopo il crollo della Prima Repubblica. E dei partiti che l’avevano accompagnata. La svolta, allora, venne segnata da Silvio Berlusconi.
L’imprenditore dei media, presidente del Milan, che divenne imprenditore politico.
Giusto 25 anni fa, nel 1994, "scese in campo", mutuando tecniche e linguaggi dall’impresa e dal calcio. Fondò "Forza Italia" e denominò "azzurri" i suoi elettori. FI apparve subito un "partito personale" - come lo definì Mauro Calise. Ideologia, organizzazione, dirigenti: tutti espressi da Berlusconi.
Riconducibili alla sua persona.
Alle sue aziende. Forza Italia era - e rimane - il "partito di Berlusconi". Il Partito del Capo (definizione di Fabio Bordignon). Un modello riprodotto da altri soggetti politici. Con alterno esito. Ma, in una certa misura, tutti i partiti, dopo quella fase, si sono "personalizzati". Fino a divenire, talora, "personali". In-distinguibili dalla persona del Capo.
Basti pensare, per primo, al partito, anti-berlusconiano, per definizione. L’Italia dei Valori. Il partito "di" Antonio Di Pietro. Magistrato simbolo di "Mani pulite". Censore implacabile dei conflitti di interesse del Cavaliere. L’IdV agisce in simbiosi con Di Pietro. A sua immagine. Mentre "scendono in campo" altri "partiti personali".
Su basi diverse. Alleanza Nazionale, ad esempio, nasce nel 1995. A destra. Per superare il retroterra e il marchio post-fascista del MSI. Per andare oltre, Fini "personalizza" il partito. Lo trasforma nel Partito di Fini.
Lo stesso percorso avviato, successivamente, da Mario Monti. Dopo l’esperienza di governo, dal novembre 2011 al dicembre 2012, si presenta alle elezioni del 2013 a "capo" di una coalizione centrista, de-nominata: "Con Monti per l’Italia". Intorno a "Scelta Civica". Il suo "partito personale".
Gli unici partiti "im-personali", fino a pochi anni fa, erano quelli con radici storiche più profonde. In primo luogo, il Partito Democratico. Sorto nel 2007. Dalla convergenza della Margherita e dei DS. Post-Democristiani e Post-Comunisti. Insieme. Un Post-Partito, per echeggiare un testo di Paolo Mancini. Confluenza di due partiti "condannati", nella Prima Repubblica, a guidare il governo e l’opposizione. L’uno contro l’altro. Fino alla caduta del muro.
Anche la Lega proviene dalla Prima Repubblica. Sorta dalle Leghe regionaliste, negli anni Ottanta e, soprattutto, dalla Lega Nord per l’indipendenza della Padania, negli anni Novanta. Guidata da Bossi e, quindi, da Maroni. Tuttavia, nell’ultimo decennio, entrambi, PD e Lega, si sono "personalizzati". Il PD è divenuto PDR. Il Partito di Renzi. Mentre la Lega si è trasformata "radicalmente". Matteo Salvini l’ha de-territorializzata. La Lega Nord è divenuta Nazionale. E sovranista. Ha occupato lo spazio lasciato vuoto, a Destra, da FI e da AN. E Salvini le ha dato il suo volto.
Infine, c’è il M5s. L’ultimo arrivato. Un non-partito. Collettore dei ri-sentimenti politici. Privo di una specifica connotazione "personale". L’unica figura in grado di identificarla è (stato) Beppe Grillo. Un anti-politico per definizione. Leader della "comunicazione" post-televisiva. Della dis-intermediazione, prodotta da internet e dai Social.
Così, è possibile leggere la storia recente della politica e della democrazia in Italia come un percorso "oltre" i partiti. Orientato dall’ascesa dei leader.
Oggi i "partiti" sono largamente declinati. Solo l’8% degli italiani esprime fiducia nei loro riguardi. Mentre oltre il 40% pensa che la democrazia possa funzionare anche senza i partiti.
E quasi 6 elettori su 10 (sondaggio di Demos, dicembre 2018) sostengono la necessità di "un leader forte a guidare il Paese". I più convinti: gli elettori della Lega: oltre 8 su 10. Poi, gli elettori di Forza Italia (76%).
Ispirati dall’inventore del modello. Quindi: la base del M5s. Un non-partito, che non dispone di "un leader forte". Ma beneficia del sentimento anti-partitico diffuso. Mentre i suoi elettori si affidano all’unico vero "leader forte" al governo. Matteo Salvini. Si spiega anche così il loro ripiegamento elettorale, in questa fase.
Il Pd, infine, soffre della crisi post-PdR. Doppiamente. Perché è difficile, per non dire impossibile, per una base elettorale che ha memoria dei "partiti di massa" sentirsi a casa in un partito personale. Il PdR. E perché nessuno degli attuali candidati, in corsa alle Primarie, appare in grado di "personalizzarlo". (Per fortuna...).
Così, la nostra democrazia si sta trasformando alle fondamenta. I partiti, vecchi e nuovi, si stanno personalizzando. E, per questo, l’intero sistema politico è divenuto instabile. Perché i partiti personali sono legati ai leader. Sorgono e affondano assieme a loro. Com’è avvenuto a IdV, Scelta Civica, AN. Alla stessa FI. Mentre il PD ha sofferto e soffre della propria mutazione in PdR. Quanto al M5s, risente del "minor tasso di personalità" rispetto alla Lega di Salvini. E la stessa Lega: cosa (ne) sarà dopo Salvini?
In generale, è evidente che la democrazia italiana si sia personalizzata. Insieme ai partiti. Spinta dai media. Vecchi e ancor più nuovi. Dalla TV, dalla rete, dai social. Così, stiamo diventando una "Repubblica personale". Di fatto. In modo im-personale e in-consapevole.
Così l’Uomo Nuovo abbatte il sapere delle élite decadute
Come si è arrivati alla scissione tra classe dirigente e popolo? Perché si perde fiducia nella rappresentanza? Come la politica è arrivata al suo grado zero? Riflessioni dopo l’intervento su “Repubblica” di Alessandro Baricco
di EZIO MAURO (la Repubblica, 11 Gennaio 2019)
La prima domanda, leggendo il breve saggio di Alessandro Baricco, è se possiamo vivere senza un’élite. La seconda è quanto tempo impiegheremo a considerare élite questa nuova classe di comando che ha spodestato la vecchia. E la terza, quella che conta, è dove, come e quando ha sbagliato il ceto dirigente del Paese, fino a suicidarsi nella disapprovazione generale del cosiddetto popolo ribelle. Fino a trasportare il termine élite [...].
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IN UNO "STATO" SONNAMBOLICO, IL CONTINUO RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI ITALIANI...
DALL’ILIADE ALL’ODISSEA: ALESSANDRO BARICCO, IL CIECO OMERO DEL "CAVALEONTICO" ULISSE DI ARCORE. Un omaggio critico (8 dicembre 2004).
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
ITALIA!!! TUTTI. MOLTI. POCHI: E NESSUNA COGNIZIONE DELL’UNO, DELL’UNITA’!!! L’Italia e le classi dirigenti
Federico La Sala
Così l’Uomo Nuovo abbatte il sapere delle élite decadute
Come si è arrivati alla scissione tra classe dirigente e popolo? Perché si perde fiducia nella rappresentanza? Quando la politica è arrivata al suo grado zero? Riflessioni dopo l’intervento su "Repubblica" di Alessandro Baricco
di Ezio Mauro (la Repubblica, 12.01.2019)
La prima domanda, leggendo il breve saggio di Alessandro Baricco, è se possiamo vivere senza un’élite. La seconda è quanto tempo impiegheremo a considerare élite questa nuova classe di comando che ha spodestato la vecchia. E la terza, quella che conta, è dove, come e quando ha sbagliato il ceto dirigente del Paese, fino a suicidarsi nella disapprovazione generale del cosiddetto popolo ribelle. Fino a trasportare il termine élite nell’inferno delle parole dannate.
La teoria classica delle élite presuppone che sia sempre una minoranza a governare i sistemi complessi, nell’interesse generale. La massa dei governati, dunque, non può invocare il criterio di quantità per delegittimare le élite, in quanto il principio democratico della rappresentanza trasferisce ogni volta con il voto il potere dai molti ai pochi, che dovrebbero governare in nome di tutti. La guida di una società politica da parte dell’élite non è quindi di per sé in contrasto con il principio democratico, naturalmente a due condizioni: che esista una contrapposizione e una contendibilità permanente del potere, e non un blocco elitario unico, impermeabile e permanente, e che la formazione stessa dell’élite sia trasparente, aperta, dinamica, accessibile e revocabile, basata su criteri di merito riscontrabili e giudicabili dalla pubblica opinione.
Sono esattamente i due punti- cardine del meccanismo che ha messo in crisi l’élite davanti ai cittadini. Ovviamente c’è stato nell’ultimo quinquennio un forte criterio distintivo tra forze e storie diverse all’interno del parlamento e degli altri corpi elettivi e decisionali che amministrano il Paese. Ma al di là delle appartenenze, degli schieramenti e delle tradizioni differenti, il " pensiero" - e, direi, la postura, il linguaggio, il costume, dunque l’antropologia - della classe politica nazionale è stato percepito come omogeneo, unificato, parificato, soprattutto teso a sostenere una lettura della fase che il Paese stava vivendo sostanzialmente omogenea.
E nello stesso tempo, la classe dirigente italiana non è mai riuscita a diventare un vero establishment, capace di coniugare i legittimi interessi particolari con l’interesse generale, piegandosi in una serie di network autopromossi, autoriferiti, autogarantiti, capaci di perpetuarsi ma non di rigenerarsi, intrisi come sono di familismo, di corporativismo, avviluppati nei vincoli di relazione, nello scambio reciproco di garanzie.
Una bolla chiusa, dentro la quale - affinché nessuno si senta facilmente assolto - sono precipitati pezzi interi di quella società che continuiamo automaticamente a chiamare civile, vale a dire intellettuali, professori, giornalisti, imprenditori, vescovi, artisti e infine scienziati, tutti considerati portatori per quota di un privilegio elitario per aver contribuito a formare una cultura di vertice, e dunque tutti chiamati senza distinzione a rendere conto della funzione dirigente che hanno esercitato, ma più ancora - ognuno per la sua quota - dell’egemonia culturale che l’esercizio di quel potere d’influenza ha disteso sul Paese.
Colpevoli per definizione, dunque, non per come hanno esercitato il potere intellettuale, ma per averlo fatto. Trattandosi non di una rivoluzione, ma comunque di un moto, la spinta di questo assalto alle élite nasce da un’emozione più che da una teoria. Potremmo definirlo il sentimento della confisca. C’è come la sensazione diffusa ( non importa che sia fondata: trattandosi di un turbamento basta che agisca) di un esproprio di un pezzo di realtà, di una parte del meccanismo decisionale, di una quota di rappresentanza. Un atto abusivo, quasi un furto, comunque un’interposizione illegittima. Si potrebbe dire in termini giuridici: un abuso di posizione dominante, l’esercizio di un monopolio sull’interpretazione del reale, sulla rappresentazione del contemporaneo. Come se dal basso fosse salita improvvisamente questa denuncia: chi vi ha dato il diritto di sceneggiare il presente e di immaginare il futuro per noi?
L’élite, nel suo tempo libero dai compiti primari, in fondo fa proprio questo, e ovunque nel mondo libero: diffonde modelli di società, piega alla sua lettura la storia e la interpreta, detta le mode, fissa le consuetudini, costruisce un paesaggio indicando i libri, i film, la musica ( e oggi bisogna aggiungere i cibi) da seguire, stabilisce cosa è " in" e ciò che è " out", deposita la tela di una tradizione. Tuttavia non è una banale guida alle tendenze, ma molto di più. Col suo agire egemonico di vertice, fissa ogni giorno il metro che misura il divenire della società, disegna una razionalità del percorso collettivo indicando anche le nicchie in cui può sfogarsi l’irrazionale, costruisce cioè un’idea in continuo movimento di normalità, così come arbitra ogni effimera modernità, distinguendo tra ciò che va conservato e ciò che può essere speso, decretando fortune e oblio.
C’è un’unica cosa che l’élite non ha saputo fare: prendere la temperatura del Paese. Non ha ascoltato l’eco del Big Bang clamoroso tra la società più aperta della storia umana e la chiusura imposta dalla crisi economica più lunga del secolo. In questo, è uscita fuori dalla dialettica governanti- governati, si è separata, impegnata come spiega Baricco a proteggere se stessa dalle conseguenze della crisi.
Quella dialettica si è interrotta e si è sventrata, e non producendo più uno scambio politico si è bloccata su un’altra coppia: dominantidominati. Ecco dove nasce la sensazione della confisca. Per elaborare la sua lettura della fase e della società, all’élite infatti non basta il comando. E questa è una buona notizia per la democrazia: occorre il consenso, una relazione costante con la cittadinanza, un dispositivo continuamente operante di riconoscimento reciproco. Sempre i classici spiegano che l’élite siede ( si suppone scomoda) in cima alle tre piramidi della ricchezza, della deferenza e della sicurezza, che formano la cuspide del comando, e lo legittimano. Ma la ricchezza si è spostata tutta nel vertice della prima piramide, e l’élite non ha saputo tutelarla per tutti, e redistribuirla per molti. Insieme, se n’è andata la sicurezza, perché la crisi attaccando il presente si mangia il futuro, arriva la paura, i fenomeni globali sono talmente ingovernabili da scavalcare il ruolo guida delle élite, svuotandolo, e diffondendo la sensazione di un mondo fuori controllo, con la politica - tutta - fuorigioco. In queste condizioni, può resistere la deferenza? Non c’è più il riconoscimento di un ruolo, per l’élite, perché salta la condivisione della sua funzione.
La posizione che occupa appare quindi nuda, giustificata solo da se stessa. Appunto, una rendita di posizione. Un moderno patriziato. Un’aristocrazia dopo l’abolizione dei titoli nobiliari. Il venir meno di questa interpretazione riconosciuta e accettata del momento, da parte dell’élite, e della sua trasformazione in pensiero comune, genera il passaggio da cittadino a individuo, la solitudine repubblicana dei singoli, alimentata dall’unico sentimento collettivo superstite, il risentimento, che però per definizione si consuma in privato.
Il risultato è che ognuno si sente autorizzato a pensare per sé, sciolto dai vincoli del sociale, libero non in quanto capace di esprimere al massimo le sue facoltà e i suoi diritti, ma in quanto liberato da ogni obbligazione di comunità, nei confronti degli altri. Un superstite solitario, dopo il naufragio collettivo della crisi. Ma con la convinzione di aver accumulato un credito politico che non riuscirà mai a riscuotere, e che appunto per questo si porta in tasca come una lunghissima cambiale di rancore privato, da sventolare ogni giorno in pubblico. Col rancore non si costruisce un progetto politico: ma il rancore autorizza a presentare a chiunque il saldo delle insoddisfazioni, a chiedere conto dei fenomeni incontrollabili che ci sovrastano, soprattutto a dare una colpa universale alla classe generale che ha governato la crisi. E autorizza il populismo a ingigantire questa resa dei conti, ideologizzandola e mettendola a base non solo della sua politica, ma della sua natura. Così l’élite diventa responsabile di tutto, al di là dei suoi limiti, dei suoi errori e delle sue colpe.
Soprattutto, poiché l’individuo ribelle vuole essere trasportato nel luogo immaginario del " Punto Zero", dove non c’è contaminazione col passato e tutto può essere reinventato sul momento, l’élite è colpevole della custodia della memoria e della trasmissione di una cultura che nasce dalla storia e dal divenire del Paese, e le interpreta. Tutto questo nel mondo nuovo in cui stiamo entrando è sospetto. Come è sospetto il sapere, la vera e fondamentale causa dello spodestamento delle élite. Il racconto dell’inganno permanente delle classi dirigenti, del loro autogolpe perenne, rende infida la scienza, pericolosa la perizia, nociva la cognizione. Se tutto quel sapere - ragiona l’uomo nuovo - non è servito a proteggere le mie condizioni di vita, ma viene consumato soltanto nella cerchia dei sapienti e dei garantiti, allora è una sorta di bitcoin a circolazione limitata e protetta, una valuta di riserva di cui soltanto l’élite conosce l’uso.
Il sapere suscita diffidenza perché è il linguaggio dell’élite, dunque ha un riflesso castale, quindi viene dal demonio. Il concetto di " nuovo" diventa vecchio. Bisogna andare oltre, fino all’uomo- vergine, incontaminato perché digiuno di politica, garantito perché viene dalla luna: innocente perché ignorante, nel senso più alto del termine, abitante dell’Anno Zero, senza vincoli di storia, di ideologia, di inclinazioni a destra o a sinistra.
Asettico e spoglio di qualsiasi eredità, di qualunque coscienza del bene e del male che hanno segnato la vicenda del Paese, di ogni eredità pubblica e di ogni tradizione comune, è l’Uomo Qualunque del nuovo secolo, soggetto ideale per una politica ribaltata dove il carisma si è spostato nell’indistinto e chiunque può scendere in campo se fin lì lo porta l’onda del sovvertimento generale. Lo aveva già detto vent’anni fa Bourdieu: la forza degli uomini nuovi della politica sta proprio nella mancanza dei requisiti specifici che di solito definiscono la competenza, dando così garanzie a tutti.
È il rovesciamento dell’élite: oggi la garanzia viene dal non sapere, dal non essere conformi al linguaggio degli esperti. Così si bruciano, insieme coi vizi dell’élite, un deposito di conoscenza, un accumulo di sapienza repubblicana, una riserva di esperienza, una provvista di conoscenza. La figura politica che nasce da questo impasto è un governante d’opposizione, il tribuno romano che Max Weber fondava proprio sulla rottura, addirittura sull’illegittimità, senza alcun legame con lo Stato, e tuttavia " sacrosantus" perché protetto dall’indignazione e dalla vendetta popolare, oltre che dagli dei, corrivi. Ma in fondo, avevamo già visto tutto nell’età democristiana, con la vecchia polemica contro il Palazzo. E allora, anche per la nuova élite rivoluzionaria vale la pena di ricordare la profezia di Pasolini: « I potenti che si muovono dentro il Palazzo agiscono come atroci, ridicoli, pupazzeschi idoli mortuari, in quanto potenti essi sono già morti e il loro vivere è un sussultare burattinesco » .`
Il Divo che commise il reato di associazione con la mafia
di Gian Carlo Caselli ( Il Fatto, 07.01.2019)
Subito dopo la morte di Falcone e Borsellino ho chiesto il trasferimento a Palermo. Ho avuto l’onore di guidare la procura di questa città per quasi sette anni. Nel contrasto all’ala militare di Cosa nostra i risultati sono stati imponenti: basti ricordare gli innumerevoli processi contro mafiosi “doc” conclusi con condanne per 650 ergastoli e un’infinità di anni di reclusione. Ma la mafia (tutti son bravi a dirlo, pochi a trarne le conseguenze sul piano investigativo) non è solo “coppola e lupara”. È anche complicità e collusioni assicurate da “colletti bianchi”. Ecco quindi vari processi contro imputati “eccellenti”. Fra gli altri Marcello Dell’Utri e Giulio Andreotti. Del primo (condannato in via definitiva a sette anni di reclusione) non si parla, se non quando vengon fuori i suoi problemi di salute. Del secondo è stata calpestata e fatta a pezzi la verità che emerge chiara dagli atti.
In primo grado c’è stata assoluzione, sia pure per insufficienza di prove. In Appello (mentre per i fatti successivi è stata confermata tale assoluzione) fino alla primavera del 1980 l’imputato è stato dichiarato colpevole, per aver commesso (sic!) il reato di associazione a delinquere con Cosa nostra. Il reato commesso è stato dichiarato prescritto, ma resta ovviamente commesso. La Cassazione ha confermato la sentenza d’appello e quindi anche la penale responsabilità dell’imputato fino al 1980. Processualmente è questa la verità definitiva ed irrevocabile. Ed è evidente che chi parla di “assoluzione” è fuori della realtà. Non esiste in natura, è una bestemmia la formula “assolto per aver commesso il reato”.
La corte d’Appello si è basata su prove sicure e riscontrate. Ad esempio, ha ritenuto provati due incontri del senatore con il “capo dei capi” di allora , Stefano Bontade, per discutere il caso di Pier Santi Mattarella, integerrimo capo della Dc siciliana, che pagò con la vita il coraggio di essersi opposto a Cosa nostra. La corte sottolinea tra l’altro che l’imputato ha “omesso di denunziare elementi utili a far luce [sull’omicidio] di cui era venuto a conoscenza in dipendenza dei suoi diretti contatti con i mafiosi”. Secondo la corte d’Appello, Andreotti ha contribuito “al rafforzamento della organizzazione criminale , inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale. Così realizzando “una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa apprezzabilmente protrattasi nel tempo”.
Chi ha nascosto o stravolto la verità - oltre a truffare il popolo italiano in nome del quale si pronunziano le sentenze - non ha voluto elaborare la memoria di ciò che è stato, perché teme il giudizio storico su come in una certa fase, almeno parzialmente, si è formato il consenso nel nostro Paese. Ma in questo modo si rende un pessimo servizio alla qualità della democrazia. Perché si finisce per legittimare (ieri, oggi e domani) la politica che ha rapporti con la mafia.
Il segno di Belzebù indelebile sul Paese
Imperitura memoria - L’impronta lasciata sul seggio di Palazzo Madama da Giulio Andreotti, in Senato dal ‘91 al 2013 dopo 45 anni passati alla Camera
di Pino Corrias (Il Fatto, 07.01.2019)
Come le mani disegnate in rosso sulle parete delle caverne ci dicono che l’uomo del Pleistocene passò da lì, così la gobba di Giulio Andreotti incisa sul cuoio della sua sedia al Senato ci ricorda che in un tempo remoto della Repubblica siamo stati tutti democristiani - volenti o nolenti, eretti o quadrumani - lungo un’era che gli archeologi del nostro tempo chiamano per l’appunto Andreottiana.
Il capostipite era più alto di quanto oggi si possa immaginare. Aveva un pallore da sagrestia su un volto senza labbra, le orecchie aguzze, il passo veloce e scivoloso. Dormiva poco. Usciva ogni mattina all’alba per la Messa. Faceva l’elemosina ai mendicanti raccolti sul sagrato. Mangiava in bianco. Vestiva oscuri completi Caraceni col panciotto. Soffriva di emicrania e di persistente disincanto. Nel raro tempo libero giocava a gin-rummy e collezionava campanelli. Nell’ampio tempo del lavoro accumulava nemici e segreti.
I nemici li ha seppelliti quasi tutti. I segreti invece sono diventati la nostra storia e il suo leggendario archivio, nutrito per molto più di mezzo secolo, da quando la sua giovinezza fu rinvenuta tra le mura vaticane da Alcide De Gasperi, futuro plenipotenziario della Democrazia Cristiana, più o meno mentre le bombe degli angloamericani violavano il sacro suolo di Roma città aperta, estate 1943, impolverando la stola di papa Pio XII.
A 24 anni Giulio stava già nel posto giusto, tra gli inchiostri dell’eterno potere e al cospetto della grande Storia, intraprendendone da allora i cospicui labirinti che lo condussero, tra maldicenze e applausi, a indossare 27 volte i panni di ministro, 7 volte la corona di presidente del Consiglio.
Per poi passare, a intermittenza, dalle luci dello statista alle ombre del grande vecchio, 27 volte inquisito dalla magistratura e 27 volte salvato dalle Camere che a maggioranza negavano l’autorizzazione a procedere. Salvo soffriggere, udienza dopo udienza, sul banco degli imputati del tribunale di Palermo, anno 1995, per il celebre bacio a Totò Riina, e poi su quello di Perugia, dove era accusato di essere il mandante dei quattro colpi di pistola con cui venne cancellato il giornalista romano Mino Pecorelli, suo acerrimo nemico, le sue imminenti rivelazioni sul caso Moro e su certi assegni finiti tra i velluti e i sughi della sua corrente, detta anche lei andreottiana.
Inciampi giudiziari mai davvero prescritti e che hanno nutrito la sua leggenda nera - passata per Piazza Fontana, i Servizi deviati, lo scandalo petroli, il Banco Ambrosiano, Gladio, la morte solitaria del generale Dalla Chiesa sull’asfalto di Palermo - ma anche il suo fatalismo romanesco di eterno sopravvissuto al suo stesso danno: “Preferisco tirare a campare che tirare le cuoia” come recitava la sua massima preferita, che poi era anche il cuore della sua politica, talmente malleabile da rendersi disponibile a destra e a sinistra, purché immobile sotto l’ombrello angloamericano e in cambio di un costante incasso elettorale che gli garantivano, guarda caso, i collegi del Lazio e della Sicilia. Oltre naturalmente alla benevolenza della Chiesa, i sette papi che conobbe in vita, lasciandosi ispirare da una fede mai troppo intransigente, disponibile all’umano peccato purché con l’Avemaria sempre incorporata. “Quando andavano insieme in chiesa - scrisse Montanelli - De Gasperi parlava con Dio, Andreotti con il prete”.
La zia, i libri, la chiesa e la proposta al cimitero
A dispetto del molto che avrebbe intrapreso, Giulio nasce fragile il 14 gennaio del 1919. Orfano di padre, cresce cagionevole aiutato da una vecchia zia e dalla piccola pensione della madre. Fa il chierichetto e lo studente modello. Si laurea in Giurisprudenza. Alla visita militare il medico lo scarta e gli pronostica sei mesi di vita. Racconterà: “Quando diventai la prima volta ministro gli telefonai per dirgli che ero ancora vivo, ma era morto lui”.
Diventa sottosegretario con De Gasperi nel 1947, entra in Parlamento l’anno dopo. Ci rimarrà per sempre. Sotto ai suoi governi è nata la Riforma sanitaria, è stato legalizzato l’aborto, firmato il Trattato di Maastricht. E dentro alla sua ombra l’Italia è diventata un Paese industriale, alfabetizzato, un po’ più europeo, un po’ meno cialtrone, al netto del clamoroso debito pubblico e delle quattro mafie.
A trent’anni si sposa, dichiarandosi a Donna Livia “mentre passeggiavamo in un cimitero”. Avrà quattro figli. Una sola segretaria, la mitica Enea. Una sola vocazione: “Non ama le vacanze - dirà la figlia Serena - non ama il mare, non ama le passeggiate. La verità è che se non fa politica si annoia”.
Amici scomodi e nemici uccisi sempre col sorriso
Diventandone il prototipo incorpora tutti i pregi e i difetti dei democristiani. Conosce la pazienza e la prudenza. Uccide gli avversari con estrema gentilezza e sorride per buona educazione. È in confidenza con Kissinger e ammira Arafat. Si commuove alla morte di Paolo VI e a quella di Alberto Sordi, che poi sarebbero il sacro e il profano della sua esistenza. Maneggia il potere in silenzio, come un gioco di prestigio. E i cattivi come fossero i buoni. Tra i banchieri d’avventura predilige il piduista Michele Sindona, quello del crack della Banca Privata, a cui aveva appena conferito il titolo di “salvatore della lira”, per poi guardarne imperturbabile il naufragio dentro a un caffè avvelenato, nella cella singola di San Vittore, detenuto per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli.
Non ha amici, ma soci momentanei di cordata, mai Fanfani e De Mita, qualche volta Forlani, più spesso Cossiga che lo nominerà senatore a vita. Educa Gianni Letta a fargli da scudiero per poi affidargli il giovane pupillo piduista Luigi Bisignani. Tutti i suoi sottocapi sono tipi da prendere con le molle: Vittorio Sbardella, detto “lo squalo” mastica per lui il Lazio. Ciarrapico è il re del saluto romano, delle acque minerali e degli impicci da sbrogliare. Franco Evangelisti è il faccendiere di “A Fra’ chette serve?”. Cirino Pomicino, detto “’O ministro” digerirà a suo nome 42 processi e 40 assoluzioni. E naturalmente Salvo Lima, il suo alter ego in Sicilia, morto sparato tra i cassonetti di Mondello per ordine dei corleonesi, la mattina del 12 marzo 1992, alba della stagione delle stragi.
Esecuzione che cancellò il suo unico sogno inconcluso, quello di salire al Quirinale, indossare finalmente i panni di presidente della Repubblica e (forse) sistemare gli scheletri del suo notevole armadio. Cominciando dallo scandalo fondante, anno 1963, il tentato golpe di un certo generale De Lorenzo, capo dei servizi segreti, e la scomparsa dei fascicoli che aveva accumulato sui protagonisti della vita pubblica italiana. Archivio quanto mai avvelenato e formidabile arma di ricatto che proprio Andreotti, all’epoca ministro della Difesa, era incaricato di distruggere. E che invece sarebbe riemerso nelle molte nebbie future e persino nei dossier di Licio Gelli, il finto o vero titolare della loggia massonica P2, forse a fondamento di un suo potere sussidiario esercitato per conto (proprio) di chi li aveva maneggiati per primo.
Da Moro agli anni di B.: è lui il capo dei diavoli
“Livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria”, gli avrebbe scritto Aldo Moro dalla prigione brigatista, colmo di rancore e di rassegnazione per il nulla che il governo di solidarietà nazionale riuscì a fabbricare nei 55 giorni impiegati da Mario Moretti a eseguire la sentenza.
Bettino Craxi lo battezzo Belzebù, il capo dei diavoli. Lo temeva e forse lo ammirava, ma non imparò nulla dalla sua quieta imperturbabilità nelle aule di Giustizia e una volta inquisito da Mani pulite, strillò così tanto, da dichiararsi colpevole, pretendere l’impunità e finire latitante.
A differenza di quasi tutti, Andreotti non si lasciò sfiorare dalla volgarità delle tangenti, che lasciò volentieri alle mandibole dei suoi. Né dall’incantesimo delle notti romane. Una sola volta una nobildonna provò a trascinarlo sulla pista da ballo: “Non ho mai danzato con un presidente del Consiglio”, gli disse lei leziosa. “Neanch’io” rispose lui secco, allontanandosi. Non capì il bianco e nero di Berlinguer e non prese mai sul serio i troppi colori di Berlusconi. Sopravvisse alla morte della Dc e di due repubbliche. Scrisse migliaia di pagine senza mai rivelare un segreto. Sembrava eterno. Sembrava un destino. Invece anche lui, uscendo di scena a 94 anni, incollato alla sedia e in piena luce, è diventato un altro anniversario del nostro buio.
Mattarella debole e gli sfasciacarrozze della Costituzione
Governo/Parlamento. Le convulsioni del dopo 4 marzo accentuano la centralità degli organi di equilibrio e garanzia: Presidente della Repubblica, Corte costituzionale. Per questo il discorso di fine anno di Mattarella è condivisibile, ma non del tutto soddisfacente. Ha un senso di ordinaria amministrazione, in un contesto per nulla ordinario. È minimale il richiamo alle forze politiche a ridiscutere a cose fatte sulla legge di stabilità, anche se capiamo la pressione per promulgare comunque. È un equilibrismo il richiamo alla sicurezza e agli immigrati, ma non all’accusa di violare i diritti umani che molti hanno rivolto all’Italia
di Massimo Villone (il manifesto, 03.01.2019)
È risuonata alta la protesta contro l’incostituzionale bavaglio applicato al parlamento con l’approvazione della legge di stabilità. Come scrive Azzariti su queste pagine, nell’esperienza passata molto era già accaduto. E il voto imposto senza uno straccio di discussione è stato solo l’ultimo e più evidente strappo. Ma bisogna essere consapevoli che il più ampio rispetto del galateo parlamentare non avrebbe, con ogni probabilità, prodotto una legge significativamente diversa. La domanda è: come si può fare utilmente argine?
La forza di un’assemblea elettiva è data dalla forza dei soggetti politici collettivi che in essa entrano con i propri rappresentanti. La debolezza del parlamento oggi viene dalla debolezza complessiva del sistema dei partiti. Salvo uno: la Lega. E questo ne spiega la capacità di assumere una posizione dominante nella compagine di governo e il trend dei sondaggi. Non c’è competizione tra un partito vero con un progetto politico, e un non-partito che va a palazzo Chigi con un non-programma, ma con un paniere di proteste variamente raccolte.
Le convulsioni del dopo 4 marzo accentuano la centralità degli organi di equilibrio e garanzia: Presidente della Repubblica, Corte costituzionale. Per questo il discorso di fine anno di Mattarella è condivisibile, ma non del tutto soddisfacente. Ha un senso di ordinaria amministrazione, in un contesto per nulla ordinario. È minimale il richiamo alle forze politiche a ridiscutere a cose fatte sulla legge di stabilità, anche se capiamo la pressione per promulgare comunque. È un equilibrismo il richiamo alla sicurezza e agli immigrati, ma non all’accusa di violare i diritti umani che molti hanno rivolto all’Italia.
Terreno anche giuridicamente minato, come dimostra lo scontro in atto tra il sindaco Orlando e il ministro Salvini. Non si menziona l’attacco alla stampa e all’informazione. Si allude in modo del tutto criptico - richiamando l’unità della Repubblica come comune destino - alla secessione leghista strisciante attraverso l’art. 116. Eppure, l’attacco all’unità è ormai pubblicamente discusso e viene rafforzato da minacce di crisi di governo. Mentre la Costituzione chiama il Capo dello Stato a rappresentare l’unità nazionale (art. 87). Persino Conte si è auto-nominato garante.
Si può opporre che il Capo dello Stato si è anche già espresso altrove. Ma nel discorso di fine anno parla direttamente a tutti gli italiani. È un messaggio non mediato, di efficacia comunicativa non comparabile con l’esternazione in sedi più ristrette, come gli incontri con la stampa parlamentare o benemerite associazioni.
È possibile che il ruolo del Capo dello Stato, già difficile, lo diventi ancor più. Analoga considerazione vale per la Corte costituzionale. Il 9 gennaio deciderà preliminarmente sulla ammissibilità del ricorso Pd per la legge di stabilità, e potrebbe negarla. Ma è indiscutibile la indebita compressione della funzione dei parlamentari - non rileva se considerati individualmente o come gruppo - nelle ore convulse che hanno preceduto il voto sulla fiducia e l’approvazione. Quanto alla successiva decisione sul merito, però, un rigetto del ricorso - anche guardando ai precedenti - è più probabile, soprattutto per l’argomento che esistono garanzie e rimedi nell’ordinamento interno dell’assemblea. Nel confronto politico proprio di un’assemblea elettiva violazioni molteplici sono in ogni momento possibili, e una linea giurisprudenziale di apertura senza filtri rischierebbe di rendere la Corte sede di appello per contrasti e dissensi, individuali e di gruppo. Nel caso specifico, poi, potrebbe provocare uno tsunami politico, istituzionale e finanziario. Volendo scommettere, sì per l’ammissibilità, no nel merito del ricorso.
Bisogna rimanere in campo, ma sapendo che non ci sono scorciatoie o demiurghi. Il paese si rinsalda con soggetti politici stabilmente e solidamente strutturati, assemblee ampiamente rappresentative, parlamentari liberamente eletti e non vincolati al mandato di chicchessia.
Un percorso né facile né breve. Scalfari su Repubblica legge nel discorso di Mattarella la nazione perfetta. Più modestamente, noi vorremmo porre al riparo da strappi il tessuto artigianale complesso e raffinato della Costituzione, tornando ai fondamentali e fermando gli sfasciacarrozze.
Il messaggio di Mattarella.
Un discorso «all’Italia che ricuce»
Ecco le parole-chiave di Mattarella, che considera gli altri un valore e recupera il senso della comunità. Oltre l’invito a riportare il Parlamento al centro
di Angelo Picariello (Avvenire, martedì 1 gennaio 2019)
Un discorso all’«Italia che ricuce», che considera gli altri un valore e recupera il senso della comunità. Un tema, quest’ultimo, che Mattarella richiama sovente nei suoi interventi e che il presidente della Repubblica mette al centro anche di questo delicatissimo discorso di fine anno, che arriva all’indomani di una approvazione in tempo limite della legge di Bilancio, appena in tempo per evitare l’esercizio provvisorio. E proprio citando i social, i luoghi di una politica spesso incattivita e aggregata per rivalità, Mattarella parte: «Siamo - dice - nel tempo in cui molti vivono connessi in rete e comunicano di continuo ciò che pensano e anche quel che fanno nella vita quotidiana...». E proprio i social sono la più grande novità nei dati di ascolto. Sono stati oltre 10 milioni e mezzo i telespettatori in Tv, a fronte dei 9 milioni e 700mila dello scorso anno, per il messaggio del capo dello Stato, ma la vera notizia è il pieno raggiunto dal discorso sul Web, con un dato - in continua evoluzione - di circa 2 milioni e mezzo di visualizzazioni, praticamente triplicate rispetto allo scorso anno.
L’ITALIA CHE RICUCE. Un «augurio, caloroso», lo rivolge a papa Francesco: «Lo ringrazio, ancora una volta, per il suo magistero volto costantemente a promuovere la pace, la coesione sociale, il dialogo, l’impegno per il bene comune». Quello di Mattarella è soprattutto un grazie all’Italia impegnata a costruire, a unire, e non ad alimentare odi e paure, come una recente ricerca del Censis ha portato alla luce.
Un grazie a quell’«“Italia che ricuce” e che dà fiducia», lo rivolge, in chiara sintonia con le parole più volte usate dal presidente della Cei, il cardinale Gualtierio Bassetti. «Spesso - spiega - la società civile è arrivata, con più efficacia e con più calore umano, in luoghi remoti non raggiunti dalle pubbliche istituzioni». Ricorda chi «negli ospedali o nelle periferie e in tanti luoghi di solitudine e di sofferenza dona conforto e serenità».
IL SENSO DELLA COMUNITA’. Inaugurato da Luigi Einaudi «non è un rito formale», ricorda Mattarella, il messaggio di fine anno. E replica così in modo garbato e indiretto ai vari tentativi di contro-messaggi in atto. Sottolinea «l’esigenza di sentirsi e di riconoscersi come una comunità di vita», il «bisogno di unità, raffigurata da chi rappresenta la Repubblica che è il nostro comune destino», perché «“comunità” significa condividere valori, prospettive, diritti e doveri. Significa “pensarsi” dentro un futuro comune, da costruire insieme. Significa responsabilità».
SICUREZZA COME RISPETTO. Ma è sulla sicurezza che batte maggiormente, Mattarella. Per mettere in risalto che è proprio un ritrovato senso della comunità l’antidoto più efficace ai rischi che si manifestano per la tranquilla convivenza. «Battersi, come è giusto, per le proprie idee», rimarca. Ma, auspica, occorre «rifiutare l’astio, l’insulto, l’intolleranza, che creano ostilità e timore». E, sottolinea, non è «retorica dei buoni sentimenti», non si può sostenere che «la realtà è purtroppo un’altra; che vi sono tanti problemi e che bisogna pensare soprattutto alla sicurezza». La sicurezza, insiste, non consiste in un difendersi dagli altri, ma si fonda proprio su questo sentirsi parte di un’unica comunità, di «un ambiente in cui tutti si sentano rispettati e rispettino le regole del vivere comune».
MAFIA: NO A ZONE FRANCHE. E, a pochi giorni da un inquietante segnale venuto da Pesaro con l’uccisione di uno stretto congiunto di un pentito di ‘ndrangheta, Mattarella torna su un altro tema a lui caro da sempre anche per ragioni di tragica biografia familiare: la lotta alla mafia. La vera insidia alla nostra sicurezza, ricorda, non viene da un elemento esterno al nostro Paese, ma dal male irrisolto della criminalità organizzata: «La domanda di sicurezza è particolarmente forte in alcune aree del Paese, dove la prepotenza delle mafie si fa sentire più pesantemente. E in molte periferie urbane dove il degrado favorisce il diffondersi della criminalità». E scandisce: «Non sono ammissibili zone franche dove la legge non è osservata e si ha talvolta l’impressione di istituzioni inadeguate, con cittadini che si sentono soli e indifesi».
NO A TASSE SULLA BONTA’. Poi, con nettezza, entra nel merito di una brutta polemica che ha caratterizzato il dibattito “strozzato” sulla Manovra: l’odioso raddoppio dell’Ires per gli enti Non profit. Il ripensamento che ne è venuto, anche dopo le prese di posizione chiare da parte della Chiesa italiana, per ora è solo un impegno. La misura è stata infatti inserita nella legge approvata dal Parlamento. «Vanno evitate “tasse sulla bontà”», avverte Mattarella. «Le realtà del Terzo Settore, del No profit rappresentano una rete preziosa di solidarietà», ricorda il presidente. «Realtà che hanno ben chiara la pari dignità di ogni persona e che meritano maggiore sostegno da parte delle istituzioni, anche perché, sovente, suppliscono a lacune o a ritardi dello Stato negli interventi in aiuto dei più deboli».
RIPORTARE IL PARLAMENTO AL CENTRO. Non c’era tempo di intervenire, per evitare l’esercizio provvisorio, ma è un impegno di tutti, ora, quello di riportare il Parlamento al centro, proprio a partire dal varo delle misure previste in Manovra. «Ieri sera - ricorda Mattarella - ho promulgato la legge di Bilancio nei termini utili a evitare l’esercizio provvisorio, pur se approvata in via definitiva dal Parlamento soltanto da poche ore». Bene il faticoso risultato raggiunto: «Avere scongiurato la apertura di una procedura di infrazione da parte dell’Unione Europea per il mancato rispetto di norme liberamente sottoscritte è un elemento che rafforza la fiducia e conferisce stabilità». Ma segnala «la grande compressione dell’esame parlamentare e la mancanza di un opportuno confronto con i corpi sociali». E formula un augurio, che è anche un monito, «che il Parlamento, il Governo, i gruppi politici trovino il modo di discutere costruttivamente su quanto avvenuto; e assicurino per il futuro condizioni adeguate di esame e di confronto».
LA VERA CITTADINANZA. Fra le piaghe da debellare, invece, quella degli «ultras violenti degli stadi di calcio, estremisti travestiti da tifosi». E «l’alto debito pubblico che penalizza lo Stato e i cittadini e pone una pesante ipoteca sul futuro dei giovani». Problemi complessi per risolvere i quali «non ci sono ricette miracolistiche», avverte, ma solo «il lavoro tenace, coerente, lungimirante produce risultati concreti», senza mettere a rischio i traguardi raggiunti dalle precedenti generazioni. Ricorda i quarant’anni del Servizio sanitario nazionale, «grande motore di giustizia, un vanto del sistema Italia. Che ha consentito di aumentare le aspettative di vita degli italiani, ai più alti livelli mondiali». E ricorda che «l’universalità e la effettiva realizzazione dei diritti di cittadinanza» su scuola, salute, assistenza, sono state «grandi conquiste della Repubblica».
UN’EUROPA SENZA CONFINI. Si rivolge ai familiari di Antonio Megalizzi, il giornalista morto nell’attentato di Strasburgo, per richiamare il senso di un’Europa amica, non ostile, che veda di nuovo l’Italia - Paese fondatore - come protagonista. «Come molti giovani si impegnava per un’Europa con meno confini e più giustizia. Un’Europa dei diritti, dei cittadini e dei popoli, della convivenza, della lotta all’odio, della pace». E il pensiero va all’imminente competizione europea: «Mi auguro che la campagna elettorale si svolga con serenità e sia l’occasione di un serio confronto sul futuro dell’Europa».
LE DIVISE SONO DI TUTTI. Quando poi ricorda il toccante episodio di Anna, la signora 90enne che la notte di Natale ha telefonato ai Carabinieri per chiedere compagnia, lo fa per richiamare il significato collettivo, sentito da tutti e non di parte, di quelle divise. «La loro divisa, come quella di tutte le Forze dell’ordine e quella dei Vigili del fuoco, è il simbolo di istituzioni al servizio della comunità. Si tratta di un patrimonio da salvaguardare perché appartiene a tutti i cittadini». Un grazie va a loro anche per l’aiuto fornito nelle recenti calamità naturali. Nel ricordare poi il grande contributo che i militari danno alla pace, si schiera, con un chiaro riferimento, con il ministro della Difesa Elisabetta Trenta, contro l’ipotesi di un loro arruolamento per porre rimedio alle buche di Roma: «La loro funzione non può essere snaturata, destinandoli a compiti non compatibili con la loro elevata specializzazione», avverte.
IMMIGRATI “AMICI”. Nell’Italia-comunità gli immigrati, per Mattarella, sono una componente, non una realtà contrapposta. Un saluto finale Mattarella lo rivolge «ai cinque milioni che vivono, lavorano, vanno a scuola, praticano sport, nel nostro Paese». Chiude come aveva aperto, parlando di solidarietà e senso della comunità. E ricorda, citando i volontari del Centro di cura per l’autismo, di Verona i tanti «luoghi straordinari dove il rapporto con gli altri non è avvertito come un limite, ma come quello che dà senso alla vita».
Decalogo per uscire dal buio: mandate le vostre parole *
Parole rifondative: di un progetto, un’identità, una speranza di futuro. Nelle prossime settimane si riuniranno in tanti, a sinistra o da quelle parti, per discutere di nomi, sigle, contenitori, per provare a riempire il vuoto di presenza, il deserto di alternativa visibile. Quello che ancora manca è la battaglia di idee: una sfida politica e culturale, popolare e non elitaria.
L’Espresso, nel solco del dibattito italiano e europeo, ha chiesto ad alcune sue firme, diverse per cultura e esperienza, un decalogo di parole-chiave. Da “Noi e Tu” di Massimo Cacciari a “Tutti” di Francesca Mannocchi, il nostro alfa e omega. E poi Michela Murgia, Aboubakar Soumahoro, Francesca Mannocchi. E Guseppe Genna, Emiliano Brancaccio, Evelina Santangelo, Valeria Parrella, Roberto Castaldi e Chiara Valerio.
Adesso tocca ai nostri lettori. Vi chiediamo di trovare le parole che per voi meglio rappresentano questa sfida, parole che siano davveri un segno di luce per uscire dal buio, spiegando il perché della vostra scelta. Per contribuire al dibattito che troverà spazio nei prossimi numeri del giornale
* L’Espresso, 05.10.2018
http://espresso.repubblica.it/attualita/2018/10/04/news/decalogo-per-uscire-dal-buio-mandate-le-vostre-parole-1.327515?ref=HEF_RULLO
Per uscire dal buio
Decalogo *
Noi e tu
di Massimo Cacciari
Nessun “noi” è autorizzato a parlare a nome del mio “Io”. È questo il detestabile “Noi” cosi volentieri in bocca a leader e pseudo-leader, a detentori di verità o post-verità, ai “veri” rappresentanti del Popolo o della Gente. Si tratta del “Noi” plurale maiestatis, in cui Tutti dovrebbero ritrovarsi e abbracciarsi armoniosamente. A questa figura totalitaria va opposta la comunità degli Io, la ricerca della loro relazione senza confusione, senza che nessuno perda o dimentichi la propria singolarità. Ogni insieme che non si costituisca sulla base di un tale principio è destinato a trasformarsi in un oscuro grumo, manipolabile da qualsiasi pifferaio o burattinaio.
Ma dall’Io in quanto tale non si passa per miracolo alla comunità. Soltanto da quell’Io che è capace di chiamare l’altro col Tu, che non vede nell’altro l’avversario, l’ostacolo, lo scandalo, ma il Tu - che si fa prossimo dell’altro per giungere a chiamarlo Tu. E che con questo nome potrà essere a sua volta chiamato. L’Io è veramente tale quando viene chiamato Tu dall’altro. La singolarità del mio Io è tale quando cosi la scopro comparandomi al Tu dell’altro. Altrimenti non sono questo Singolo, unico nel proprio valore, non scambiabile con nessuno, merce o strumento di nessuno, ma soltanto un punto indistinto, un granello di sabbia nella indifferenza del Tutto. Se e soltanto se ognuno riuscisse a “dare del Tu” all’altro e a ritrovare se stesso proprio in questo dare-donare, saremmo autorizzati a usare il Noi.
Idea che appare semplice e che forse, invece, è in realtà sovrumana. È l’idea che regge l’intera struttura del Paradiso di Dante: tutti santi nel suo amplissimo abbraccio, tutti insieme beati nell’amore contemplativo del Signore e amici gli uni con gli altri, eppure ognuno si manifesta in un suo luogo, eterno nel suo volto proprio, nel suo nome, nella sua opera, ognuno inconfondibile nella sua preziosissima, inalienabile singolarità. È l’Inferno in terra dove la maledetta lupa dell’invidia, dell’avarizia, della libido di dominare, genera continuamente masse, indifferenza, confusioni, grumi. Ma a differenza che in quello di Dante, nel nostro è forse ancora possibile lottare e sperare in nome del Tu.
* l’Espresso, 07.10.2018
Inchieste
Quel «patto sporco» con la mafia
Il magistrato Nino Di Matteo esplora i retroscena della «trattativa con lo Stato»
Il sostituto procuratore affronta una stagione drammatica in una intervista con Saverio Lodato (Chiarelettere)
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 30.09.2018)
Ci si è già dimenticati, in questo Paese senza memoria, della terribile sentenza del 20 aprile di quest’anno, il processo detto della Trattativa tra lo Stato e la mafia? Un pentolone ribollente di brutture, di tradimenti, del sangue di tanti innocenti vittime dell’Italia peggiore? La notizia della grave condanna inflitta dalla Corte d’assise di Palermo agli assassini mafiosi e a uomini delle istituzioni con indosso l’uniforme dell’Arma benemerita della Repubblica sembra già scivolata via lasciando il posto alle notizie piccanti, esse sì di rigore, sui sarti, i cuochi, i portatori di influenze e di sogni.
Per fortuna esistono ancora i libri. Ne è appena uscito uno che fa rabbrividire, Il patto sporco. Il processo Stato-mafia nel racconto di un suo protagonista: Nino Di Matteo, il pubblico ministero più perseguitato del Bel Paese, che analizza le motivazioni della sentenza di condanna e risponde, in una approfondita intervista, alle domande di Saverio Lodato, tra i più agguerriti giornalisti del fenomeno mafioso.
Il libro narra fatti conosciuti e sconosciuti, documentati e rilevanti, vista la fonte, ed è importante per costruire la storia sanguinosa, spesso coperta di mistero di questi anni.
Nino Di Matteo, ora sostituto procuratore alla Direzione nazionale antimafia, non si sente un eroe. Quel che ha fatto l’ha fatto, dice con semplicità, soltanto nel nome dello Stato di diritto, con grandi sacrifici, suoi e della sua famiglia. Sottoposto «al primo livello di protezione eccezionale», non deve esser stato facile vivere in quel modo, lasciato solo anche da chi avrebbe dovuto difenderlo, l’Associazione nazionale magistrati, il Consiglio superiore della magistratura, insultato anche da persone impensabili, accademici, opinionisti, giornalisti, magistrati. Ma lui aveva le prove di quel che faceva: risultano ora con chiarezza dalle 5.252 pagine delle motivazioni della sentenza della Corte d’assise di Palermo presieduta da Alfredo Montalto depositata il 18 luglio scorso.
Ne ha subite di minacce in 25 anni di inchieste e di solitudine Nino Di Matteo. Totò Riina, intercettato nel 2013 nel carcere di Opera mentre all’ora d’aria parla con un mafioso pugliese: «Gli farei fare la fine del tonno. La stessa che ho fatto fare a Falcone», dice commentando con rabbia l’impegno di Di Matteo nel processo sulla Trattativa.
«Lei deve stare attento perché noi siamo molto avanti. Abbiamo già comprato l’esplosivo, abbiamo studiato tutte le sue abitudini», gli dice nel carcere di Parma, nel 2014, il mafioso Vito Galatolo. «Perché?», chiede il magistrato. E il mafioso, levando lo sguardo alla famosa fotografia di Falcone e Borsellino sorridenti, appesa alla parete, in palermitano stretto replica indicando Falcone: «Non comu a chistu, ma come l’autru». E aggiunge: «Ce lo hanno chiesto». (Sono stati differenti, quindi, la matrice e i moventi della strage di via D’Amelio rispetto a quelli della strage di Capaci. Chi chiese, al di fuori della mafia?) E un costruttore palermitano che si era occupato dell’acquisto del tritolo per uccidere Di Matteo, all’ufficiale della Guardia di Finanza che l’arrestava dice: «Per capire dove viene l’esplosivo e che cosa c’è dietro, dovete cercare in alto».
E ancora. Matteo Messina Denaro, l’attuale capo della mafia, latitante da 25 anni, «rampollo di una famiglia con quattro quarti di nobiltà mafiosa» dice che Di Matteo è andato troppo avanti con le sue inchieste. Il magistrato commenta così le ragioni della latitanza del capomafia: «Temo la copertura di ambienti deviati delle istituzioni che hanno ragioni di temere, sapendo di quali terribili segreti è a conoscenza, che un giorno possa decidere di vuotare il sacco».
Un libro di piombo questo Il patto sporco. Quei 200 chili di tritolo comprati in Calabria per uccidere Di Matteo non sono stati trovati. Dove sono nascosti? C’è ancora, da parte della mafia, l’intenzione di usarli? C’è qualcuno che sa dove sono, nelle istituzioni, nei Servizi, «deviati», naturalmente? Una minaccia che pesa.
Questo processo non è fondato, come in una guerra dichiarata tra eserciti nemici che trattano ad esempio su uno scambio di prigionieri: la posta in gioco, invece, è stata discussa alla pari tra uomini dello Stato e i poteri criminali di quello stesso Stato. Il reato contestato è infatti: «Violenza e minaccia a corpo politico dello Stato». I governi del tempo. Una trattativa soltanto politica: «I carabinieri (generali e ufficiali superiori) omettono di lasciare traccia scritta dei loro colloqui (con gli uomini della mafia), omettono di riferire ai vertici dell’Arma e alla magistratura, cercano invece sponde politiche, informando autorità istituzionali e parlamentari».
E ancora: «Non lo hanno fatto perché sapevano che con Vito Ciancimino stavano conducendo una trattativa politica: cosa volevano i mafiosi per far interrompere quella strategia dell’attacco frontale allo Stato e alla politica? Ecco perché, mentre tacevano con chi avrebbe dovuto sapere, riferivano ad autorità politiche e ministeriali», di cui la sentenza fa abbondantemente i nomi e illustra i desideri dei mafiosi, contro i «pentiti», il carcere duro, il 41 bis, il sequestro dei beni, la modifica della legge Rognoni-La Torre, la revisione, attraverso una sentenza della Corte di Strasburgo, degli ergastoli del maxiprocesso del 1986.
E questo - la pressione assassina - seguitando a uccidere: dopo via D’Amelio, le stragi di Firenze, Roma, Milano, del 1993; la bomba non esplosa per il cattivo funzionamento del telecomando nel gennaio 1994 allo stadio Olimpico di Roma che avrebbe ucciso centinaia di carabinieri.
Il libro è ricco di fatti che provano l’esistenza della vergognosa trattativa e anche di interrogativi non tutti con una risposta. Perché Totò Riina, in corso d’opera, decide di cambiare il piano dell’assassinio di Falcone, non più a Roma, ma in Sicilia? E dieci anni prima: chi ha rubato il diario di Carlo Alberto dalla Chiesa nella cassaforte di villa Pajno, a Palermo, subito dopo il suo assassinio in via Carini, poco lontano? (Specialisti di Servizi, non rozzi criminali). Dov’è finita, 1992, l’agenda rossa di Paolo Borsellino sul campo di battaglia di via D’Amelio, passata in più di una mano?
Qual è il vero significato dei foglietti coi numeri di telefono del Sisde di Roma e del capocentro di Palermo trovati dalla Polizia scientifica sul cratere di Capaci? Chi fece sparire quasi del tutto i file informatici di Falcone dopo la sua morte? Quali furono i motivi dell’accelerazione dell’assassinio di Paolo Borsellino? Che cosa aveva scoperto il magistrato nei tragici 57 giorni dopo Capaci? La cattura di Riina, nel gennaio ’93, poi, e la mancata perquisizione del suo covo, sono smaccate prove dell’accordo tra le parti «per evitare che saltassero fuori atti e documenti compromettenti proprio su quella fase della trattativa».
Come mai restò segreta per quasi vent’anni la lettera che i familiari dei detenuti a Pianosa e all’Asinara inviarono nel febbraio 1993 al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro furibonda di minacce contro Nicolò Amato, a capo del Dipartimento delle carceri, e contro Vincenzo Scotti, ministro dell’Interno che si erano mostrati intransigenti nel loro lavoro?
Rappresentavano un ostacolo per ogni accordo sottobanco e vennero rimossi rapidamente dal loro incarico. (Quella lettera segreta fu trovata da Nino Di Matteo e dall’allora pm Antonio Ingroia solo nel 2011 negli archivi del Dipartimento delle carceri). Quando i capimafia oltranzisti e moderati - come in politica - si convinsero che il nascente movimento di Forza Italia, tramite Dell’Utri, rappresentava la carta vincente? Andreotti, ormai aveva fatto il suo tempo, l’assassinio di Lima aveva segnato un’epoca. (Nelle sedute della Commissione antimafia della XII legislatura, il primo governo Berlusconi, nel ’94, si parlava ossessivamente di 41 bis e di «pentiti», la minaccia di cui liberarsi).
Questo amaro libro è anche l’utile specchio di un Paese fragile come il nostro. Popolato però di uomini e donne che fanno il loro dovere e ancor più del loro dovere, con grande passione. Energie positive che restano isolate perché mancano i ponti della buona politica. L’altra Italia.
MA COME RAGIONANO GLI ITALIANI E LE ITALIANE?!
L’Italia e’ diventata la ’casa’ della menzogna... e della vergogna?!
di Federico La Sala *
Elementare!, Watson: Se, nel tempo della massima diffusione mediatica dellapropaganda loggika, l’ITALIA è ancora definita una repubblica democratica e "Forza Italia" (NB: ’coincidenza’ e sovrapposizione indebita con il Nome di tutti i cittadini e di tutte le cittadine d’ITALIA) è il nome di un partito della repubblica, e il presidente del partito "Forza Italia" è nello stesso tempo il presidente del consiglio dello Stato chiamato ITALIA (conflitto d’interesse), per FORZA (abuso di potere, logico e politico!) il presidente del partito, il presidente del consiglio, e il presidente dello Stato devono diventare la stessa persona.
E’ elementare: queste non sono ’le regole del gioco’ di una sana e viva democrazia, ma di un vero e proprio colpo di Stato! (Shemi EK O’KHOLMES).
Intervista
"Ora il Pd si sciolga per far nascere la lista Nuova Europa". L’appello di Massimo Cacciari
«La sinistra è salita sull’Acropoli. Ora bisogna scendere». E per battere i nazionalisti alle elezioni del 2019 occorre rompere con il passato. Perché la vecchia Ue è finita per i suoi tradimenti. La proposta del filosofo
di Marco Damilano (l’Espresso, 05 settembre 2018)
Il 3 agosto Massimo Cacciari ha firmato un appello insieme a Enrico Berti, Michele Ciliberto, Biagio de Giovanni, Vittorio Gregotti, Paolo Macrì, Giacomo Manzoni, Giacomo Marramao, Mimmo Paladino, Maurizio Pollini, Salvatore Sciarrino. Nomi della cultura, dell’università, della ricerca: filosofi, artisti, musicisti. In quel testo si parla di «spirale distruttiva», di «pensiero unico intriso di rancore e di risentimento».
E si trova la richiesta di una discontinuità con il passato: «È indispensabile chiudere con il passato ed aprire nuove strade all’altezza della nuova situazione, con una netta ed evidente discontinuità: rovesciando l’ideologia della società liquida, ponendo al centro la necessità di una nuova strategia per l’Europa», in vista della scadenza decisiva dell’anno che si apre: le elezioni europee della primavera 2019. «C’è il rischio che si formi il più vasto schieramento di destra dalla fine della seconda guerra mondiale. La responsabilità di chi ha un’altra idea di Europa è assai grande. Non c’è un momento da perdere».
L’allarme è stato ripreso da tanti in queste settimane e il primo momento di discussione pubblica sarà a Mestre, dal 6 all’8 settembre, al festival della politica organizzato dalla fondazione Gianni Pellicani. Nel frattempo, tutto quello che è successo nel mese di agosto, dal consenso ottenuto dal governo Salvini-Di Maio dopo il crollo del ponte Morandi al blocco della nave Diciotti nel porto di Catania, dalla sfida nei confronti dell’Europa sui contributi Ue all’attacco sui conti pubblici, conferma quanto è scritto nel testo-appello: «Il popolo è contrapposto alla casta, con una apologia della Rete e della democrazia diretta che si risolve, come è sempre accaduto, nel potere incontrollato dei pochi, dei capi. L’ossessione per il problema dei migranti, ingigantito oltre ogni limite, gestito con inaccettabile disumanità, acuisce in modi drammatici una crisi dell’Unione europea che potrebbe essere senza ritorno».
La nostra conversazione con Massimo Cacciari parte da qui.
«Il nostro appello non va alla ricerca di adesioni formali, è la richiesta di un’assunzione di responsabilità, di un’iniziativa concreta. In alcune università si stanno preparando momenti di dibattito, nel mondo cattolico si sono mosse le Acli, a livello europeo Etienne Balibar sta preparando qualcosa di analogo per la Francia. È un movimento che si attiva a partire da un’urgenza: vogliamo evitare che l’Europa muoia. L’Europa è demograficamente vecchia, ma è necessaria, se non vogliamo un destino popolato da miserabili staterelli sovrastati da quanto decideranno gli Imperi, il ripetersi dei conflitti del Novecento, il ritorno in farsa delle tragedie del vecchio secolo».
Un obiettivo nobile, che rischia di essere fuori tempo massimo. Bisogna evitare che l’Europa muoia, certo. Ma per molti cittadini europei, e italiani, l’Europa è già morta, da tempo, dopo la Brexit, dopo la crisi dell’euro, dopo le crisi dei migranti non governate da nessuno. C’è una vasta letteratura internazionale in materia: penso al dramma in nove atti raccontato dallo studioso indiano Ashoka Mody nel suo “EuroTragedy”, in cui racconta il capovolgimento dell’Europa da continente di pace e sicurezza dopo il secondo conflitto mondiale a terra di divisione. E c’è la crescita dei movimenti sovranisti e populisti, che non hanno una vera prospettiva alternativa, ma si nutrono del tramonto dell’Europa, delle astrattezze, dei tradimenti, del distacco dal popolo con cui è stato portato avanti il processo di integrazione.
«Non è morta l’Europa. È finita l’Europa che si è andata costruendo negli ultimi 20-25 anni. Anni in cui si sono inanellati una serie di errori straordinari. È il punto di partenza di qualsiasi azione: non si possono coprire le immense responsabilità delle classi dirigenti politiche, economiche e intellettuali. L’Europa attuale è una costruzione a-storica, ignorante dello specifico di ogni tradizione, in preda da tempo a una deriva burocratica, centralista, anti-federalistica. La catastrofe finale è arrivata con la crisi economica, quando l’Europa si è mostrata incapace di difendere i suoi cittadini più deboli. È in quel momento che è avvenuto lo strappo tra la coscienza europea e la sua organizzazione. Lo strappo è qui e qui c’è la necessità di una discontinuità radicale con il passato. E quindi: politiche sociali diverse e una costruzione istituzionale di tipo federalista».
Oltre alla crisi economica c’è la questione dei migranti, anche lo spettacolo vergognoso degli ultimi giorni: esseri umani trattati dal governo italiano come arma di ricatto, governi europei incapaci di progettare l’accoglienza e la ricollocazione degli aventi diritto all’asilo, la propaganda scatenata che non incontra resistenze.
«Non si diventa razzisti per opera dello Spirito Santo. Quando nel 1933 i tre quarti dell’elettorato socialdemocratico votarono per Hitler non era arrivato l’Anticristo a sedurre gli uomini, c’era stato un lungo processo storico. Lo stesso vale per quanto accaduto negli ultimi anni. La costruzione centralistica e burocratica e le politiche sociali dominate dal tradimento delle promesse offerte dal vecchio welfare: progresso, benessere. Se rompi questo nesso, i popoli diventano anti-democratici. La crisi ha messo l’Europa a nudo nelle sue debolezze e mancanze e si sono aperte le praterie per le forze anti-europee, ciascuna con le sue particolarità. Per il Front di Marine Le Pen è il sogno di una nuova grandeur francese, nei paesi dell’Est c’è il mito risorgimentale e nazionalista. Per la Lega e il Movimento 5 Stelle in Italia il discorso è diverso, perché fino alla formazione del governo M5S aveva fatto da argine all’elettorato leghista».
Lo storico Timothy Snyder in “La paura e la ragione” (Rizzoli) ha scritto di due narrazioni che si sono confrontate negli ultimi anni. La politica dell’inevitabilità, ovvero l’idea della fine della storia, della globalizzazione come unico orizzonte possibile, è stata sconfitta. E al suo posto c’è la politica dell’eternità: il ritorno ciclico dei miti della razza, del suolo, del territorio, le radici, l’identità.
«Le forze socialiste sono crollate ovunque per la loro subalternità culturale a un modello in cui andava bene tutto: bene l’Europa, bene la moneta unica, bene l’allargamento. Bene, più di tutto, la globalizzazione. Questo spiega perché le forze tradizionali della sinistra europea siano smottate così rapidamente, uno sfaldamento così veloce. Il problema era solo l’Anpassung, come dicono i tedeschi, l’adattamento. Perché, altrimenti, se non ti adattavi, eri fuori dalla storia».
Ricordo il refrain dei congressi, dei convegni, dei politici e degli intellettuali dell’adattamento: dobbiamo gestire la globalizzazione, governarla.
«Magari! Quella era la migliore delle ipotesi, in molti non si ponevano neppure il problema. Per la maggior parte dei leader della sinistra europea la globalizzazione è stata un destino inesorabile, da Tony Blair a Matteo Renzi, vedi l’ammirazione senza sfumature di differenza per il modello Marchionne. E chi non era dentro, chi restava fuori? Era un affar suo, non nostro. La conseguenza è stata una sinistra che vince nei centri storici e perde nelle periferie. Sinistra, hai perso il tuo popolo! Ti sei asserragliata in una acropoli, sotto non esisti più».
Il distacco dal popolo ora è diventato abissale. Il populismo era un risentimento, si è trasformato in un sentimento, popolare.
«Dai leader populisti arriva un messaggio molto semplice: noi difendiamo il nostro popolo. Aprire i confini significa farvi entrare i ladri in casa e noi non lo permetteremo. È una questione che Matteo Salvini usa con grande intelligenza, con grande sagacia, in modo simbolico. Un simbolo enorme: la nostra casa è in pericolo, dobbiamo difenderci. Solo i coglioni, perdonami, dicono che le bandiere e i simboli non contano nulla: contano eccome! Eppure per anni si è detto il contrario, lo ripetevano i Blair e i Renzi. Ma la politica senza simboli, senza un sol dell’avvenire, è ineffettuale. Non produce e non ottiene nulla».
Tutto vero, però anche il vostro appello è stato accusato di intellettualismo, di astrattezza. Qualcuno ha scritto che si punta a far nascere un partito dei sapienti, di poche intelligenze illuminate, i dotti.
«E invece è necessario fare il movimento opposto: scendere dall’acropoli, ricostruire una presenza nella pianura. Il senso del nostro appello è dire a tutti: organizzatevi. Anche perché è evidente che i populisti falliranno e ci porteranno al disastro, per la loro fragilità strategica».
Si può fare prima delle elezioni europee? Con chi?
«In Italia l’unica forza, nel bene e nel male - ora direi soprattutto nel male - è il Pd. Non dà segni di vita, è sordo agli appelli, i suoi esponenti si limitano a dare del barbaro a Salvini, un esercizio sterile. Quando vedo Martina sul molo di Catania, davanti alla nave Diciotti, penso che faccia felice solo Salvini, è un atto di propaganda nei suoi confronti. Perché dietro quel gesto non c’è nessuno. Cosa ti sogni di fare opposizione dopo che da venticinque anni sei al governo o punti ad andarci? Non sei il Pci, come fare l’opposizione a questi l’hanno raccontato i nonni, ma loro non l’hanno mai vista, sono una classe politica che è stata cooptata per andare al governo. Fare l’opposizione in queste condizioni è una cosa comica! Se ci presentiamo così, è finita».
E allora? Va sciolto il Pd e poi cosa?
«La mia idea è fare leva sulla scadenza elettorale del 2019 per costruire un simbolo europeo. Le forze che condividono questo progetto si mettano insieme, in modo transnazionale: Macron in Francia, Ciudadanos in Spagna, Tsipras in Grecia, che è stato bravissimo. Un progetto che si chiami Nuova Europa. Senza questa iniziativa il Pd rischia la liquidazione. O ti ritiri e cavalchi in retromarcia o sfidi i populisti e i sovranisti su questo terreno».
È un progetto che assomiglia al Fronte repubblicano di Carlo Calenda? E che porta al coinvolgimento con il Pd di Forza Italia?
Tra gli intellettuali liberali (Giovanni Orsina, Angelo Panebianco) si discute: arrendersi ai barbari o fare il fronte unico. «Io dico di no. Forza Italia, i conservatori, devono restare fuori. Quello che serve è una forza democratica europea di totale discontinuità con il passato. È questo la Nuova Europa: un progetto di governo nuovo, di rottura con la vecchia interpretazione dell’Europa e in contrasto con i sovranisti».
Il governo di Salvini e di Di Maio arriverà alle elezioni europee?
«La cupiditas dominandi di Di Maio è inarrestabile, sarà difficile che scenda dal governo, M5S potrebbe entrare in difficoltà e sparire. L’unico tranquillo in questo momento è Salvini, con tutti i suoi fronti di sfida, da Fico a Mattarella. Ha un target fortissimo, una bandiera, un simbolo. E ha un nemico, che è essenziale. Le leadership europee sono apparse nemiche dei popoli, è questa la sua forza».
Nelle ultime pagine, in seguito agli articoli di Roberto Esposito sull’Espresso, su cui è intervenuto Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera- La Lettura, si è sviluppato un dibattito sull’identità: l’assenza di un’identità che è stata tra i fattori di debolezza dell’Unione europea. Sei convinto che una formazione come la Nuova Europa che proponi sarebbe in grado di superare questo vuoto? Oppure si rischia di rifare un albero senza radici?
«Tu mi parli di radici, ma è Gesù Cristo che ha detto: sarete riconosciuti dai frutti, su quelli sarete giudicati. E allora: chi siamo? Siamo Salvini o siamo altro? L’identità è qualcosa che si cerca, non è data una volta per tutte. L’identità europea è una ricerca, è qualcosa che si fa nella storia. È stato un errore pensare il contrario: un’Europa senza identità e senza simboli o con un’identità da trovare esclusivamente nel passato. La radice dell’identità non va cercata nel passato, la radice si può individuare solo nel futuro».
Galante Garrone e Calamandrei: il senso della Costituzione
La storia intellettuale e morale di un uomo d’altri tempi, padre della Carta
di Furio Colombo (Il Fatto, 03.09.2018)
L’autore è Alessandro Galante Garrone, un nome che ha fatto da guida e da riferimento a tanti adolescenti torinesi dell’immediato dopoguerra, sul senso e il valore di essere antifacisti. Il libro è dedicato a Calamandrei (Biografia morale e intellettuale di un grande protagonista della nostra storia, Effepi Libri), il personaggio che - dopo avere partecipato alla scrittura della Costituzione - si è impegnato a guidare un’Italia nuova e pulita lungo un percorso nobile di solidarietà fraterna, un Paese senza odio e senza confini, dopo una guerra che ha attraversato le terre desolate della morte a milioni e del deliberato e bene organizzato sterminio di popoli.
Né Galante Garrone né Calamandrei si fidavano dello slancio spontaneo verso il bene di coloro che erano sopravvissuti a una guerra di stragi.
Galante Garrone ha preso subito la bandiera della democrazia, dimostrando che niente vive senza l’impegno (il dovere) e la partecipazione di ciascuno cittadino. Calamandrei ha spinto sulla scena ancora disadorna dell’Italia povera e incerta di allora, i diritti delle persone, i diritti della Costituzione, i diritti umani, i diritti civili che, in seguito, i partiti, con l’unica clamorosa eccezione di Marco Panella, di Emma Bonino, del Partito Radicale, avrebbero tralasciato come se fossero solo l’ornamento, non la materia prima della democrazia.
Ma l’imbarazzo deve essere grande, per chi prende in mano ora questo libro (che è una ristampa da un’Italia lontana) e lo confronti con l’Italia che stiamo vivendo adesso, dove i diritti umani di rom, migranti e poveri vengono non solo trascurati ma deliberatamente e fisicamente offesi perchè i più deboli non contano.
Governare con le false promesse, in un castello di illusioni e invenzioni, ha portato a precipitare in un triste retro-cortile senza cultura, senza storia, senza solidarietà, senza alcun interesse per sentimenti e diritti, dove conta solo il compiacimento del proprio personale potere.
Questo libro arriva dal passato in un tempo in cui si usa lo slogan “prima gli italiani”, che farebbe inorridire chiunque ha combattuto per la libertà, e ha scritto e insegnato la Costituzione italiana. Perciò Galante Garrone e Calamandrei servono oggi all’Italia come le navi ong e la Guardia costiera italiana servono a salvare migranti, benchè l’ordine di questa repubblica sia di voltare le spalle.
La democrazia svanisce se diventa illiberale
di Sabino Cassese (Corriere della Sera, 29.08.2018)
Il vicepresidente del Consiglio dei ministri italiano ha incontrato a Milano il primo ministro ungherese Viktor Mihály Orbán. Quest’ultimo ha dichiarato già da tempo che «i valori liberali occidentali oggi includono la corruzione, il sesso, la violenza» e che «i valori conservatori della patria e dell’identità culturale prendono il sopravvento sull’identità della persona». Ispirato da questi orientamenti, ha poi trasformato la televisione pubblica in un mezzo di propaganda governativa, limitato la libertà di stampa, l’autonomia universitaria e l’indipendenza dell’ordine giudiziario.
Ha inoltre ridisegnato i collegi elettorali, fatto approvare una legge elettorale che gli consente di avere la maggioranza di due terzi dei seggi in Parlamento, con il 45 per cento dei voti, dato una svolta nazionalistica e anti-immigrazione al governo. Il maggiore esperto dei problemi ungheresi, la professoressa Kim Lane Scheppele, dell’Università di Princeton, ritiene che oggi l’Ungheria abbia una «costituzione incostituzionale» e il «Washington Post» qualche mese fa ha intitolato una sua analisi della situazione ungherese «la democrazia sta morendo in Ungheria e il resto del mondo dovrebbe preoccuparsi». Orbán, tuttavia, è stato eletto e rieletto, e gode quindi di un consenso popolare. Perché allora tante voci preoccupate? Basta il voto popolare per legittimare limitazioni delle libertà?
Il primo ministro ungherese ha dichiarato più volte di voler realizzare una «democrazia illiberale». Questo è un disegno impossibile perché la democrazia non può non essere liberale.
La democrazia non può fare a meno delle libertà perché essa non si esaurisce, come ritengono molti, nelle elezioni. Se non c’è libertà di parola, o i mezzi di comunicazione sono nelle mani del governo, non ci si può esprimere liberamente, e quindi non si può far parte di quello spazio pubblico nel quale si formano gli orientamenti collettivi. Se la libertà di associazione e quella di riunione sono impedite o limitate, non ci si può organizzare in partiti o movimenti, e la società civile può votare, ma non organizzare consenso o dissenso. Se i mezzi di produzione sono concentrati nelle mani dello Stato, non c’è libertà di impresa, e le risorse economiche possono prendere soltanto la strada che sarà indicata dal governo.
Se l’ordine giudiziario non è indipendente, non c’è uno scudo per le libertà. Se la libertà personale può essere limitata per ordine del ministro dell’Interno (come è accaduto nei giorni scorsi in Italia), i diritti dei cittadini sono in pericolo. Insomma, come ha osservato già nel 1925 un grande studioso, Guido De Ruggiero, nella sua «Storia del liberalismo europeo», i principi democratici sono «la logica esplicazione delle premesse ideali del liberalismo»: estensione dei diritti individuali a tutti i membri della comunità e diritto del popolo di governarsi. Quindi, «una divisione di province tra liberalismo e democrazia non è possibile». Una «democrazia illiberale» non è una democrazia.
Tutto il patrimonio del liberalismo è parte essenziale della democrazia, così come oggi lo è quello del socialismo. Queste tre grandi istanze che si sono succedute negli ultimi due secoli in Europa e nel mondo, fanno ormai corpo. Il liberalismo con le libertà degli uomini e l’indipendenza dei giudici. L’ideale democratico, con l’eguaglianza e il diritto di tutti di partecipare alla vita collettiva (suffragio universale). Il socialismo con lo Stato del benessere e la libertà dal bisogno (sanità, istruzione, lavoro, protezione sociale). Questi tre grandi movimenti, pur essendosi affermati in età diverse, e pur essendo stati inizialmente in conflitto tra loro (come ha spiegato magistralmente, nel 1932, Benedetto Croce nella sua “Storia d’Europa nel secolo decimonono”) fanno ora parte di un patrimonio unitario e inalienabile come è dimostrato da due importanti documenti internazionali, il Trattato sull’Unione europea e la Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite. Il primo dispone che l’Unione “si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto”. Il secondo che le Nazioni Unite si impegnano a «promuovere la democrazia e a rafforzare il rispetto per tutti i diritti umani e le libertà fondamentali».
L’Italia è ora in un punto di passaggio critico, nel quale si decide il futuro delle sue libertà e la sua collocazione internazionale, tra quelli che sono stati per secoli i nostri «compagni di strada» ed esempi (Francia, Germania, Regno Unito) o nuovi alleati. Che significato possiamo attribuire a un «incontro esclusivamente politico e non istituzionale o governativo», ma tenuto in Prefettura, tra il primo ministro ungherese e un vicepresidente del Consiglio dei ministri italiano?
Crollo del Ponte #Morandi a #Genova, la dichiarazione del Presidente #Mattarella:*
«È una catastrofe quella che ha colpito Genova e l’Italia intera. Su persone e famiglie inermi si è abbattuta una disgrazia spaventosa e assurda.
Il primo pensiero - mio come di tutti gli italiani - va alle vittime, ai feriti, alle sofferenze e alle angosce dei loro familiari. A quanti oggi piangono per i loro cari, desidero esprimere il più sentito cordoglio, la mia vicinanza e, insieme, la solidarietà della Repubblica.
Un caloroso ringraziamento rivolgo a coloro che - sulle strade, tra le macerie, negli ospedali - si sono immediatamente prodigati e tuttora continuano a lavorare in condizioni di difficoltà, per salvare vite e per recuperare i corpi di chi è stato travolto.
Questo è il momento dell’impegno comune, per affrontare l’emergenza, per assistere i feriti, per sostenere chi è colpito dal dolore, cui deve seguire un esame serio e severo sulle cause di quanto è accaduto. Nessuna autorità potrà sottrarsi a un esercizio di piena responsabilità: lo esigono le famiglie delle tante vittime, lo esigono le comunità colpite da un evento che lascerà il segno, lo esige la coscienza della nostra società nazionale.
Gli italiani hanno diritto a infrastrutture moderne ed efficienti che accompagnino con sicurezza la vita di tutti i giorni.
I controlli, la cultura della prevenzione e l’intelligente ammodernamento del sistema delle comunicazioni, devono essere sempre al centro dell’azione delle istituzioni pubbliche e dei concessionari privati, a tutti i livelli».
*Fonte: Presidenza della Repubblica, Roma, 14/08/2018
TWEET: forza, #Genova - forza, #Italia *
DUE VOLTI (E DUE NARRAZIONI) DELL’ITALIA - E DELLA CHIESA. Quale avvenire? *
La deriva della xenofobia
Senza vergogna
di Marco Tarquinio (Avvenire, sabato 4 agosto 2018)
Stiamo attraversando un tempo difficile, duro e bello come ogni tempo difficile, amaro come ogni tempo in cui nel nome di una Legge solo proclamata e di doveri solo parolai, e che ignorano e stritolano i diritti dei più deboli, si mette in questione l’umanità e l’uguaglianza stessa degli esseri umani. Senza vergogna. Ma la fragilità e la dignità della vita, di ogni vita umana, non si riconoscono dal passaporto e non si possono prendere in alcun modo in ostaggio. E le leggi non si applicano solo per stanare e "fermare" lo straniero, ma come ha sottolineato anche la nostra lunga inchiesta sul caporalato per far sì che chi è straniero di origine e italiano di lavoro non venga incluso e integrato soltanto nel (e dal) "lato oscuro" del nostro Paese.
È in tempi proprio come questi che a noi cristiani è chiesto di dare ragione in modo più limpido della nostra speranza. Ma non è un dovere solo nostro. Perché a tutti - ma proprio a tutti - è laicamente chiesto, se vogliamo tener saldo il patto di civile convivenza e la misura comune che contiene le nostre differenze e le compone in armonia, di sentirci impegnati a tener care e preservare le radici (troppo a lungo negate o date per scontate) dell’umanesimo che dà linfa, forza e capacità inclusiva alla nostra civiltà comune.
Questo tempo italiano è specialmente difficile perché ci mette davanti a due volti (e due narrazioni) dell’Italia, che invece o è una o non è.
Perché sarebbe un’Italia umanamente fallita - e del default più sconvolgente: il default della cultura e della fede che l’hanno unita prima di ogni azione politica - quel Paese bifronte che ci si ostina a voler scolpire non nel marmo, ma in grevi nuvolaglie di slogan xenofobi da social network e di parole e atti violenti che si vorrebbe derubricare a «sciocchezze». La «goliardata» che ha sfigurato il viso di Daisy Osakue non è la controprova di un’Italia serena e vaccinata dal razzismo: per rendersene conto, basta leggere ciò che è stato scatenato addosso a questa giovane donna, cittadina italiana di origine nigeriana.
Inqualificabile. Io continuo a vergognarmene. Anche se suo padre, a quanto risulta, non è stato uno stinco di santo e ha pagato il suo debito con la giustizia. E me ne vergogno anche se i tre aggressori a colpi di uova sono "bulli" e non adepti di uno dei manipoli razzisti che sparlano, sputano, menano e sparano (grazie a Dio, quasi sempre a vuoto) in giro per l’Italia.
Non sono l’Italia e non la rappresentano l’Italia. Ma - come ho scritto - ne deturpano i lineamenti, sino a sfigurarli. E allora non si può far finta di niente. Di costoro e per costoro ci dovremmo vergognare tutti, e ancor di più visto che ci viene spiegato e quasi intimato di dire e scrivere che non esistono e che comunque sono la logica reazione alla "violenza portata dagli stranieri". Ma proprio come i poveri, i violenti non hanno passaporto e non hanno patria. Ai poveri patria e passaporto sono negati. Ai violenti interessano solo come arma, e perciò non interessano affatto.
L’Italia non può essere ridotta a un ring di risentimenti etnici. Chi ha responsabilità lavori per evitarlo.
P.S. A quanti in queste settimane hanno ritenuto di ricordarci che i buoni cattolici e i giornali di ispirazione cattolica, prima e invece che delle persone costrette a migrare, dovrebbero preoccuparsi della vita non nata e ancora troppe volte abortita in Italia e in Europa - vita nascente che da appassionati di umanità e di scienza amiamo e rispettiamo sin dal primo istante come testimoniano le pagine del giornale - mi sento di rispondere con parole più grandi di noi: se non siamo capaci di amare e di essere giusti con coloro che vediamo, come potremo mai amare ed essere giusti con coloro che (ancora) non vediamo?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA COSTITUZIONE ITALIANA, IL CRISTIANESIMO, E LA TRADIZIONE DELLA MENZOGNA CATTOLICO-ROMANA.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. In Parlamento (ancora!) il Partito al di sopra di tutti i partiti.
Federico La Sala
POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA. Non è mai troppo tardi .... *
L’ appello
Prepariamoci alle Europee
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 03.08.2018)
La situazione dell’Italia si sta avvitando in una spirale distruttiva. L’alleanza di governo diffonde linguaggi e valori lontani dalla cultura - europea e occidentale - dell’Italia. Le politiche progettate sono lontane da qualsivoglia realismo e gravemente demagogiche. Nella mancanza di una seria opposizione, i linguaggi e le pratiche dei partiti di governo stanno configurando una sorta di pensiero unico, intriso di rancore e risentimento. Il popolo è contrapposto alla casta, con una apologia della Rete e della democrazia diretta che si risolve, come è sempre accaduto, nel potere incontrollato dei pochi, dei capi. L’ossessione per il problema dei migranti, ingigantito oltre ogni limite, gestito con inaccettabile disumanità, acuisce in modi drammatici una crisi dell’Unione europea che potrebbe essere senza ritorno.
L’Europa è sull’orlo di una drammatica disgregazione, alla quale l’Italia sta dando un pesante contributo, contrario ai suoi stessi interessi. Visegrad nel cuore del Mediterraneo: ogni uomo è un’isola, ed è ormai una drammatica prospettiva la fine della libera circolazione delle persone e la crisi del mercato comune. È diventata perciò urgentissima e indispensabile un’iniziativa che contribuisca a una discussione su questi nodi strategici. In Italia esiste ancora un ampio spettro di opinione pubblica, di interessi sociali, di aree culturali disponibile a discutere questi problemi e a prendere iniziative ormai necessarie.
Perché ciò accada è indispensabile individuare, tempestivamente, nuovi strumenti in grado di ridare la parola ai cittadini che la crisi dei partiti e la virulenza del nuovo discorso pubblico ha confinato nella zona grigia del disincanto e della sfiducia, ammutolendoli.
Per avviare questo lavoro - né semplice né breve - è indispensabile chiudere con il passato ed aprire nuove strade all’altezza della nuova situazione, con una netta ed evidente discontinuità: rovesciando l’ideologia della società liquida, ponendo al centro la necessità di una nuova strategia per l’Europa, denunciando il pericolo mortale per tutti i paesi di una deriva sovranista, che, in parte, è anche il risultato delle politiche europee fin qui condotte.
C’è una prossima scadenza, estremamente importante, che spinge a mettersi subito in cammino: sono ormai alle porte le elezioni europee. C’è il rischio che si formi il più vasto schieramento di destra dalla fine della Seconda guerra mondiale. La responsabilità di chi ha un’altra idea di Europa è assai grande. Non c’è un momento da perdere. Tutti coloro che intendono contribuire all’apertura di una discussione pubblica su questi temi, attraverso iniziative e confronti in tutte le sedi possibili, sono invitati ad aderire.
Gli altri firmatari: Enrico Berti Michele Ciliberto Biagio de Giovanni Vittorio Gregotti Paolo Macrì Giacomo Manzoni Giacomo Marramao Mimmo Paladino
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
UNITÀ D’ITALIA E FOLLIA: EMERGENZA LOGICO-POLITICA EPOCALE. PER UN CONVEGNO E UNA RIFLESSIONE SUL CONCETTO DI ’UNITÀ E DI SOVRANITÀ (SOVRA-UNITÀ). Materiali sul tema
Federico La Sala
IL SONNODELLARAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI....
POPULISMO E PRINCIPI COSTITUZIONALI
Perché la nazione ha ancora un senso
Il tema della patria è stato regalato a chi manipolandolo lo ha utilizzato per i propri scopi: è un inganno al quale non basta opporre il progetto europeista
di Ernesto Galli della Loggia *
L’Unione europea è visibilmente in crisi, non riesce a fare alcun passo avanti in quanto soggetto politico (anzi negli ultimi tempi ne ha fatto parecchi indietro), ma l’ideologia europeista almeno un successo importante può continuare comunque a vantarlo. Essere riuscita a delegittimare alla radice la dimensione della nazione in generale. Essere riuscita a farla passare come responsabile di tutte le sciagure novecentesche e come il ricettacolo delle più inquietanti ambiguità ideologiche, tipo quelle messe in circolazione da Matteo Salvini con il suo sciovinismo xenofobo a base di «prima gli italiani» e «padroni in casa nostra». Il risultato è che in pochi Paesi come l’Italia ogni riferimento alla nazione appare, ormai, come il potenziale preludio di una deriva sovranista, di una dichiarazione di guerra antieuropea, come sinonimo di sopraffazione nazionalistica. Non abbiamo forse sentito ripetere fino alla nausea, ad esempio, e dalle cattedre più alte, che gli Stati nazionali significano inevitabilmente la guerra? Come se gli esseri umani avessero dovuto aspettare la Marsigliese, il Kaiser o Mussolini per trovare il motivo di scannarsi. Come se prima dell’esistenza dei suddetti Stati nazionali di guerre non ce ne fossero mai state, e come se i Romani, l’impero turco, gli Aztechi, gli Arabi dell’epoca di Maometto o mille altri non avessero tutti coperto di stragi e di morti ammazzati il proprio cammino nella storia.
Naturalmente l’ostracismo comminato alla nazione ha avuto effetto non tanto sulla gente qualunque, sulla maggioranza dell’opinione pubblica quanto nei confronti delle élites, della classe dirigente. Anche perché l’Italia, si sa, non è la Francia. Da noi la cultura della nazione era già stata messa abbastanza nell’angolo dalla storia: non per nulla la Repubblica, nata e vissuta con l’obbligo di differenziarsi dal fascismo specialmente su questo punto, ha intrattenuto a lungo un rapporto per così dire minimalista con la nazione. Come del resto le sue maggiori culture politiche fondatrici (quella cattolica e quella comunista), il cui sfondo ideologico non aveva certo molto a che fare con la nazione.
Cresciuto per decenni in questa atmosfera, l’establishment italiano - in prima fila l’establishment culturale - si è dunque trovato prontissimo, dopo la fine della Dc e del Pci, a gettarsi nell’infatuazione europeistica più acritica. Trovandovi nuovo alimento non solo alla propria antica indifferenza, al suo disinteresse nei confronti di una dimensione nazionale giudicata ormai una sorta di inutile ectoplasma, ma per spingersi addirittura fino alla rinuncia della sovranità in ambiti delicatissimi come la formazione delle leggi. Mi domando ad esempio quante altre Costituzioni europee siano state modificate come lo è stata quella italiana nel 2001 con la nuova versione dell’articolo 117, che sottomette la potestà legislativa al rispetto, oltre che come ovvio della Costituzione stessa, anche «dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario». (Sulla stessa linea, pur nella sua evidente vacuità prescrittiva, anche il primo comma aggiunto nel 2012 all’art. 97, secondo il quale «le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione Europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico»).
È accaduto così, attraverso queste vie e mille altre, che il tema della nazione sia stato pian piano regalato a chi, manipolandolo ed estremizzandolo, combinandolo con i cascami del populismo, se ne è sempre più servito per i propri scopi agitatori. Espulsa dalla cultura ufficiale del Paese, tenuta in non cale dal circuito della formazione scolastica, non più elemento vivo costitutivo del modo d’essere e di pensare della classe dirigente, la nazione (o meglio la sua caricatura) è fatalmente divenuta patrimonio e strumento di una parte. La quale non ci ha messo molto ad accorgersi della sua capacità di aggregare, di commuovere, e anche di illudere, d’ingannare, se del caso di trascinare alla più vile prepotenza.
Cioè di trasformarsi in nazionalismo, appunto. Ma di chi la colpa principale mi chiedo, se non di coloro che, pur potendo e sapendo, per cecità ideologica hanno omesso di ricordare che cosa ha veramente rappresentato l’idea di nazione? Di illustrare e di far valere nella discussione pubblica la reale portata storica, le innumerevoli conseguenze positive di quell’idea?
Senza la quale, tanto per dirne qualcuna, non ci sarebbero stati il liberalismo e la democrazia moderna, la libertà religiosa, le folle di esclusi e di miserabili trasformate in cittadini, le elezioni a suffragio universale. Senza la quale non ci sarebbe stata la scuola obbligatoria e l’alfabetizzazione di massa, il Welfare e la sanità pubblica, e poi la rottura di mille gerarchie pietrificate, di tante esclusioni corporative. Senza la quale infine - scusate se è poco - non ci sarebbe stata neppure l’Italia. Cioè questo Stato scalcagnato e pieno di magagne grazie al quale, bene o male, però, nel giro di tre o quattro generazioni (una goccia nel mare della storia) un popolo di decine di milioni di persone ha visto la propria vita migliorare, cambiare come dalla notte al giorno, in una misura che non avrebbe mai osato sperare prima.
All’inganno nazionalistico che incalza e che cresce non vale opporre la speranza sbiadita e senza voce, il disegno dai contorni tuttora imprecisi e imprecisabili, del progetto europeistico. Va opposta prima di ogni altra cosa, in tutta la sua forza storica, la cultura della nazione democratica. Che più volte - ricordiamo anche questo - ha dimostrato anche di sapere aprirsi al mondo superando i confini della propria patria con la sua carica emancipatrice volta all’umanità.
* Corriere della Sera, 19 luglio 2018 (modifica il 19 luglio 2018 | 20:30) (ripresa parziale, senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI. Un invito e un appello a fare luce, a fare giorno
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
Federico La Sala
MONDIALE 2018
Italia-Thailandia. Una "partita" di lunga durata e la palla-fiducia che bisogna saper passare **
Sul cavaliere della I-THAILANDIA....
di Federico La Sala *
Caro Direttore,
A mio parere, in tutte le discussioni e le analisi che sono portate avanti sulla situazione italiana è proprio l’analisi del berlusconismo che va approfondita e chiarita. Io non posso concepire, nemmeno in THAILANDIA (cfr. Piero Ottone, IL CAVALIERE DELLA THAILANDIA, La Repubblica del 26.04.2002: "Thaksin ha fondato un partito, Thai Rak Thai, il cui nome significa, a quanto sembra: I thailandesi amano i thailandesi") che in una nazione che si chiama ITALIA, ci possa essere un PARTITO che si chiama "Forza ITALIA"...
Il trucco del NOME ("Forza ITALIA") è da manualetto del... piccolo ipnotizzatore e da gioco da baraccone ...politico! E penso che aver lasciato fare questa operazione, io ritengo, sia stata la cosa più incredibile e pazzesca che mai un popolo (e soprattutto le sue Istituzioni e partiti) abbia potuto fare con se stesso e con i propri cittadini e le proprie cittadine: è vero che stiamo diventando tutti vecchi e vecchie, ma questa è roba da suicidio collettivo!
Questa la mia opinione, se si vuole, da semplice e analfabeta vecchio cittadino italiano e non da "sovietico" comunista della "fattoria degli animali" orwelliana. Mi trovo a condividere e sono più vicino alle opinioni e alla posizione della "mosca bianca" Franco Cordero, che non a quella di molti altri.
LA LEGGE E’ UGUALE PER TUTTI: si tratta solo e sopratutto di non de-ragliare e, umanamente e politicamente, mantenerci (e possibilmente avanzare) sul filo e nel campo della democrazia. Non c’è nessuna demonizzazione da fare: si tratta solo di capire, e, anzi, io trovo la situazione - pur nella sua grande ambiguità e pericolosità - incredibilmente sollecitante nel senso di svegliarsi e reagire creativamente (come sembra che stia avvenendo) alla situazione determinatasi.
Il cavaliere ha lanciato la sua operazione e la sua sfida: possiamo leggere la cosa come una cartina di tornasole per tutta la nostra società. Vogliamo vivere o vogliamo morire: una cosa del genere più o meno, con altre parole, ci sta dicendo il Presidente CIAMPI da tempo.
Se ci facciamo togliere da sotto i piedi il fondamento costituzionale e si rompe la bilancia dei poteri della democrazia non ci sono più cittadini e cittadine ma pecore e lupi e riprende il gioco mai interrotto, come dice il vecchio saggio della giungla, del "chi pecora si fa il lupo se la mangia". Dentro questo clima, chiedere da anonimo stupido ingenuo e illuso e ’idealistico’ cittadino italiano di fare chiarezza e fermare il gioco (truccato, e pericolosamente surriscaldato e non lontano da clima di scontro civile) è solo un invito a tutte e due le parti e non a una sola a riconoscersi come parte della UNA e STESSA Italia.... e a ripristinare le regole del gioco!!!
M. cordiali saluti
Federico La Sala
*Il dialogo, Venerdì, 30 maggio 2003.
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Tito, Héctor e la palla-fiducia che bisogna saper passare
di Mauro Berruto ( Avvenire, mercoledì 11 luglio 2018)
«Tuya, Héctor!». Se vi trovate in Uruguay e qualcuno vi dice così, beh significa che siete degni di stima e fiducia. Colui che sta all’origine di questo modo di dire, è un calciatore, Héctor Pedro Scarone, soprannominato El Mago, primo destinatario di quella frase («Tua, Héctor!»), rivoltagli in un istante destinato a passare alla storia da un suo collega. Era il 13 giugno 1928, giorno della finale del torneo di calcio ai Giochi Olimpici di Amsterdam: Uruguay e Argentina, le finaliste, sono sull’1-1. In campo una parata di stelle fra le quali due, particolarmente brillanti, con la maglia celeste dell’Uruguay.
Si chiamano Héctor Scarone e Tito Borjas. Ragazzi che non conoscono ancora i loro destini: Scarone giocherà anche in Italia e, Giuseppe Meazza, suo compagno di squadra all’Inter dirà di lui che faceva cose che «noi potevamo solo immaginare». Borjas è un giocatore pazzesco, ma la sua carriera e la sua vita finiranno presto, solo tre anni dopo, quando disubbidendo ai medici che gli avevano imposto riposo assoluto dopo un forte dolore al petto sentito mentre giocava una partita, lasciò la propria abitazione per andare sugli spalti a vedere il match decisivo per il titolo dei suoi Wanderers Montevideo e al gol del vantaggio dei compagni di squadra venne stroncato da un infarto.
In quel giugno del 1928, ignari del loro futuro, Héctor e Tito stanno giocando, insieme, la finale olimpica. Tuttavia fra i due non scorre buon sangue, sono troppo forti per stare nella stessa metà campo. In realtà, Héctor e Tito non si parlano proprio, da tantissimo tempo, ma al 28° del secondo tempo, Tito ha la palla fra i piedi, vede Héctor arrivare con un razzo e decide di rompere quel silenzio. Passa la parla e gli urla: «Tua, Hectòr!», come a dire: "Vedi di farcela, voglio fidarmi di te". Héctor segna un gol straordinario da 40 metri.
L’Uruguay diventa campione olimpico ai danni degli odiati rivali argentini e da quel giorno, nel Paese, c’è un nuovo modo di dire quando si vuol trasmettere il senso di una fiducia incondizionata, che va oltre ogni divisione. Parole che vengono alla mente pensando alla incredibile vicenda dei 12 giovani calciatori thailandesi rimasti intrappolati in una caverna insieme ad Aek, il loro 25enne allenatore e liberati definitivamente ieri dopo 17 giorni passati all’inferno.
Si è mobilitato il mondo intero per questa vicenda e il risultato è stato raggiunto grazie a un’enorme capacità di condividere fiducia, anche quando le cose sembravano impossibili. Affidarsi a qualcuno, ci insegna questa storia di cui certamente qualche produttore hollywoodiano si approprierà, può portare alla perdizione e alla salvezza. Aek, l’allenatore orfano che ha passato la sua gioventù in un monastero buddhista aveva preso la decisione di portare i suoi ragazzi in quella grotta per meditare.
Stravolto dai sensi di colpa ha chiesto ripetutamente perdono per quell’idea che le piogge monsoniche stavano per trasformare in tragedia. I genitori di tutti i ragazzi lo hanno perdonato in tempi assolutamente non sospetti, ben prima del lieto fine della vicenda. Anzi, gli hanno ricordato che i loro ragazzi contavano su di lui, laggiù sottoterra come sul campo di calcio. Forse anche per questa iniezione di fiducia Aek è stato decisivo per tenere in vita i suoi ragazzi rinunciando per loro al suo stesso cibo, mantenendoli calmi e gestendo le loro emozioni e paure. E lasciando la grotta per ultimo, da vero coach.
«Sembra impossibile, finché non viene fatto», diceva Nelson Mandela e mentre, in superficie, squadre di calcio di fama planetaria lottano al Mondiale per non tornare a casa, la squadra per cui tutti si augurano il ritorno, finalmente, ce l’ha fatta grazie a una collaborazione di persone provenienti, letteralmente, da ogni parte del mondo. «Tuya, Héctor» anche in memoria di Saman Kunan, il soccorritore unica vittima di questa vicenda. Nel suo ultimo video lo si sente dire: «Porteremo i ragazzi a casa». Aveva ragione.
Borsellino, corte: tra più gravi depistaggi storia Italia
Depositate motivazioni sentenza, "disegno criminoso investigatori"
di Lara Sirignano (ANSA, 01 luglio 2018)
PALERMO. "Uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana" con protagonisti uomini dello istituzioni. La corte d’assise di Caltanissetta che 14 mesi fa concluse l’ultimo processo sulla strage di via d’Amelio non fa sconti. E in una motivazione lunga 1865 pagine, depositata nel tardo pomeriggio di sabato, punta il dito contro i servitori infedeli dello Stato che imbeccarono piccoli criminali, assurti a gole profonde di Cosa nostra, costruendo una falsa verità sugli autori dell’attentato al giudice Borsellino.
Che sarebbe stata una sentenza importante lo si era compreso dalla complessità del dispositivo che, il 20 aprile del 2017, condannò all’ergastolo per strage Salvino Madonia e Vittorio Tutino e a 10 anni per calunnia Francesco Andriotta e Calogero Pulci, finti collaboratori di giustizia usati per mettere su una ricostruzione a tavolino delle fasi esecutive della strage costata l’ergastolo a sette innocenti. Per Vincenzo Scarantino, il più discusso dei falsi pentiti, protagonista di rocambolesche ritrattazioni nel corso di vent’anni di processi, i giudici dichiararono la prescrizione concedendogli l’attenuante prevista per chi viene indotto a commettere il reato da altri.
Ed è a questi "altri" che la Corte si riferisce nelle motivazioni della sentenza. A quegli investigatori mossi da "un proposito criminoso", a chi "esercitò in modo distorto i poteri". La corte d’assise di Caltanissetta, dunque, usa parole durissime verso chi condusse le indagini: il riferimento è al gruppo che indagava sulle stragi del ’92 guidato da Arnaldo la Barbera, funzionario di polizia poi morto. Sarebbero stati loro a indirizzare l’inchiesta e a costringere Scarantino a raccontare una falsa versione della fase esecutiva dell’attentato. Sarebbero stati loro a compiere "una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni e nell’agevolazione di una impropria circolarità tra i diversi contributi dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà se non per la esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la vera fonte".
Ma quali erano le finalità di uno dei più clamoroso depistaggi della storia giudiziaria del Paese? si chiedono i giudici. La corte tenta di avanzare delle ipotesi: come la copertura della presenza di fonti rimaste occulte, "che viene evidenziata - scrivono i magistrati - dalla trasmissione ai finti collaboratori di giustizia di informazioni estranee al loro patrimonio conoscitivo ed in seguito rivelatesi oggettivamente rispondenti alla realtà", e, sospetto ancor più inquietante, "l’occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato".
I magistrati dedicano, poi, parte della motivazione all’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino, il diario che il il magistrato custodiva nella borsa, sparito dal luogo dell’attentato. La Barbera, secondo la corte, ebbe un "ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre". La Barbera è morto, l’inchiesta sulla scomparsa dell’agenda rossa è stata archiviata, ma a Caltanissetta, forze a maggior ragione dopo questa sentenza, si continuerà a indagare. Non si sono accontentati delle verità ormai passate in giudicato i pm della Procura Stefano Luciani e Gabriele Paci che, anche grazie alle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza, hanno riaperto le indagini sulla strage scoprendo il depistaggio. E una nuova inchiesta è già in fase avanzata e riguarda i poliziotti che facevano parte del pool di La Barbera.
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO ...
Il Colle ha fallito? Dipende da noi
«Il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male (Simone Weil)»
di Roberta de Monticelli (Il Fatto, 01.06.2018)
Un filosofo è come il matto di corte, lo si può lasciar parlare. C’è chi vuole far processare per alto tradimento il presidente della Repubblica e chi lancia hashtag in suo sostegno. Ci sono giuristi pronti ad affermare che non ha fatto che il suo dovere (Flick) e altri radicalmente critici (Villone e Carlassare), come ce ne sono di molto perplessi (Onida). Ci sono commentatori che in mancanza d’altre idee attribuiscono lo sconquasso al “circo mediatico giudiziario” che ci avrebbe per troppo anni lavato il cervello facendoci credere che in Italia corruzione e impunità siano maggiori che altrove (Panebianco) - ma non vedono che il lavaggio non è bastato, visto che nessuno (neppure il capo dello Stato) s’è fatto un baffo della circostanza che il candidato ministro dell’Economia da ex presidente dell’Impregilo era incorso in inchieste giudiziarie ben motivate dalle intercettazioni, che gli avrebbero sbarrato in ogni altro Paese civile la porta di quel ministero.
C’è chi sostiene con assoluta convinzione che il gesto del Presidente ha salvato la democrazia assediata dai populismi e chi con convinzione altrettanto assoluta sostiene che ha soffocato la domanda democratica di cambiamento, per asservire lo Stato alla tecno-plutocrazia europea, o peggio al diktat tedesco. Nota a margine: non si percepisce traccia di simili congiure e diktat da quassù - il regno del fool è il vuoto celeste, dove le linee aeree franco-canadesi forniscono una massa di giornali nelle principali lingue europee, e neppure un angolino contiene un commento su queste indebite pressioni, nonostante i titoli ridondino di “crisi istituzionale in Italia” e “l’Italia mette a processo l’Europa”.
Ed ecco lo sragionamento del fool, per chi volesse conoscerlo. Che il gesto del presidente della Repubblica sia o non sia stato un tragico errore, dipende da noi. Nel senso che non sarà stato un errore, e forse sarà stato invece uno di quegli attimi che le generazioni future ricorderanno con ammirata gratitudine, solo se d’ora in poi gli uomini e le donne di buona volontà non si daranno tregua a costruire in due mesi la Parte della Speranza Progressista e Civile, per farla trovare pronta alle elezioni, con a capo i migliori cavalieri delle buone cause sconfitte nell’ultimo quinquennio...
Quanti ce ne sono, e come saranno bravi se somigliano alle idee per cui furono silenziati, in materia di anticorruzione e legalità, di taglio alla spesa, di politica industriale e del lavoro, di lotta alla disuguaglianza, allo scempio dell’ambiente e del paesaggio, di vera politica della scuola, dell’università e della ricerca.
Non contro ma verso gli Stati Uniti d’Europa. Il programma di questa Parte? Sarà buono se si procederà con infinita attenzione ai veri tagli. “Il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male” (Simone Weil).
È questo il taglio sottile da operare, o il groviglio da dirimere. Guardate se non torna, lo sragionamento. Tutto il male che ci circonda viene da questo groviglio! Vorresti difendere, certo, la bandiera italiana dal disprezzo di chi ci tratta da gente che non sa stare ai patti, ma poi guardi quelli che la levano ora sulla piazza e ti accorgi che è sporca, lordata dall’uso che ne fece il demagogo lombardo predecessore dell’attuale. Vorresti accorrere, certo, a difesa della Repubblica e del suo presidente, allinearti a quei poveri corazzieri in alta uniforme, ma ti si stringe il cuore solo a guardarli, tanto svilita è l’idea che difendono, che solo il ricordo di quell’adunata di ceffi e mammole che presiedettero all’elezione del precedente presidente al suo secondo mandato ti riempie di vergogna, come quello delle innumerevoli forzature di un governo che da incostituzionalmente eletto si fa costituente senza averlo mai avuto in alcun programma. Vorresti ripetere anche tu, lo stesso, “sto col presidente”, perché dall’altra parte c’è la prepotenza di chi “se ne frega” di qualunque vincolo etico e giuridico in nome di folle senza volto, di chi addirittura non si vergogna a ripetere “chi si ferma è perduto”. E ti accorgi che il solo sostegno al governo del presidente verrà dai responsabili di tutte quelle forzature che hanno svilito l’uniforme dei miei corazzieri, e anche dal ghigno trionfale di un signore politicamente appena riabilitato, ancora prima che si sia quietato l’effetto di rivolta emetica indotto dalle immagini di Sorrentino in Loro 1 e Loro 2...
Il fool nella sua follia si rivolge anche a molti elettori Cinque Stelle: avete lottato - lo so perché ero con voi - per preservare un po’ di bellezza dove interessi biechi la sconciavano. Ma la bellezza non è un valore, è il nome di tutti i valori, compresa la (pari) dignità di tutte le persone. Come potete ora sostenere anche la bruttezza di parole e gesta di chi la nega? Non sta lì il primo nefasto miscuglio?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
Il caso italiano
Una vicenda del tutto nuova, complessa e non priva di rischi: ma che conferma che la nostra Costituzione è ben presidiata
Il presidente garante
di Enzo Cheli (Il Mulino, 28.05.2018)
Nell’arco della nostra storia repubblicana nessun capo dello Stato si è trovato a dover gestire una vicenda istituzionale così difficile e complessa come quella che il presidente Mattarella ha dovuto affrontare nel corso dell’ultima settimana, conclusasi con la rinuncia da parte di Giuseppe Conte all’incarico di formare il nuovo governo. Una vicenda che sta suscitando polemiche e contrasti, ma che il Quirinale ha gestito con grande equilibrio e una forte attenzione al rispetto dei confini delle proprie prerogative costituzionali.
Ai sensi dell’articolo 92 della nostra Costituzione, tali prerogative affidano, com’è noto, al presidente della Repubblica il compito di nominare il presidente del Consiglio dei ministri su sua proposta (una proposta che la prassi non ha mai ritenuta vincolante) i ministri. Nella dichiarazione rilasciata dinanzi alle telecamere dopo la rinuncia del professor Conte, il presidente Mattarella ha ricostruito puntualmente i passaggi essenziali di questa vicenda che, dopo le elezioni del 4 marzo, ha preso l’avvio con il fallimento dei primi tentativi di trovare una maggioranza in grado di sostenere in Parlamento un governo politico; con l’incarico con riserva conferito a Giuseppe Conte su indicazione del Movimento 5 Stelle e della Lega che avevano raggiunto un accordo intorno a un inedito “contratto di governo”; con la condivisione da parte del presidente Mattarella di tutte le proposte per gli incarichi ministeriali formulata dal professor Conte, ad eccezione della proposta avanzata per il ministero dell’Economia, che veniva a investire un tecnico di sicura competenza e anche di antica fede europeista, ma oggi apertamente schierato a favore di una possibile uscita dall’euro del nostro Paese. Proposta che, trapelata nel corso delle trattative, non aveva mancato di allarmare i mercati europei e mondiali determinando una rischiosa e crescente pressione negativa sia sui titoli del debito pubblico sia sui titoli delle imprese quotate in borsa. Poteva il presidente Mattarella opporsi a questa designazione fino a determinare la rinuncia di Conte all’incarico ricevuto? È questo l’interrogativo che viene oggi a dividere l’opinione pubblica del nostro Paese.
A mio avviso è certo che, nell’opporsi alla proposta ricevuta, il capo dello Stato non ha invaso - come taluni affermano - la sfera dell’indirizzo politico di maggioranza, ma ha soltanto esercitato una competenza connessa alla sfera dei suoi poteri di controllo costituzionale su tale indirizzo, poteri che entrano in gioco - e che il capo dello Stato non solo è legittimato, ma anche tenuto a esercitare - ogni qualvolta l’azione del governo possa aprire la strada alla lesione di interessi di rilevanza costituzionale attinenti alla sfera dell’unità nazionale, come quelli afferenti, in particolare, alla politica estera, alla politica europea e alla politica della difesa, nonché alla politica di bilancio; tutte materie rispetto alle quali le competenze del capo dello Stato, ai sensi della Carta costituzionale, assumono un contenuto non solo formale, ma di sostanza.
Né va sottovalutato il fatto che il presidente Mattarella nel rifiutare la candidatura che gli veniva proposta non ha formulato una propria proposta, ma si è limitato a sollecitare le forze politiche impegnate nella definizione del nostro governo ad avanzare - attraverso il presidente del Consiglio incaricato - proposte alternative.
Cosa che non è avvenuta per l’irrigidimento di una delle forze in campo, particolarmente interessata a passare al più presto a nuove elezioni. Passaggio che viene, peraltro, anch’esso a collegarsi a una prerogativa fondamentale del presidente della Repubblica qual è lo scioglimento delle Camere e che il presidente Mattarella almeno sinora - e fino alla verifica parlamentare sull’assenza di qualunque maggioranza - non ha dato per scontato.
Siamo di fronte a una vicenda del tutto nuova, complessa e non priva di rischi. Ma che ha dato la conferma che la nostra Costituzione risulta ancora oggi ben presidiata.
Mattarella: ’Contropotere Capo Stato per evitare abusi’
Discorso in ricordo di Einaudi. Dopo elezioni 1953 non si avvalse delle indicazioni della Dc
di Redazione ANSA *
"Solo una società libera e robusti contropoteri avrebbero impedito abusi": questa, secondo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, fu una delle "convinzioni più profonde" dello studioso Einaudi che, "sin dal suo messaggio alle Camere riunite in occasione del giuramento ricordò il ruolo di ’tutore’ dell’osservanza della legge fondamentale della Repubblica. Questo un passaggio dell’intervento del Capo dello Stato a Dogliani. Quello del presidente della Repubblica - ha detto - è un ruolo di "tutore dell’osservanza della legge fondamentale della Repubblica".
Einaudi, riferendosi alla prerogativa del sovrano (e, vien da pensare, interrogandosi implicitamente sul ruolo del Presidente della Repubblica), osservava che essa "può e deve rimanere dormiente per lunghi decenni e risvegliarsi nei rarissimi momenti nei quali la voce unanime, anche se tacita, del popolo gli chiede di farsi innanzi a risolvere una situazione che gli eletti del popolo da sé, non sono capaci di affrontare".
"Cercando sempre leale sintonia con il governo e il Parlamento - ha detto ancora - Luigi Einaudi si servì in pieno delle prerogative attribuite al suo ufficio ogni volta che lo ritenne necessario".
"Fu il caso illuminante del potere di nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri, dopo le elezioni del 1953 per la quale non ritenne di avvalersi delle indicazioni espresse dal principale gruppo parlamentare, quello della Dc", aggiunge.
Era "tale l’importanza che Einaudi attribuiva al tema della scelta dei ministri, dal volerne fare oggetto di una nota, nel 1954, in occasione dell’incontro con i presidenti dei gruppi parlamentari della Dc, dopo le dimissioni del governo Pella", ha aggiunto Mattarella. "E’, scrisse nella nota, dovere del Presidente evitare si pongano precedenti grazie ai quali accada che egli non trasmetta al suo successore, immuni da ogni incrinatura, le facoltà che la Carta gli attribuisce".
"Solo una società libera e robusti contropoteri avrebbero impedito abusi": questa, secondo il presidente della Repubblica fu una delle "convinzioni più profonde" dello studioso Einaudi che, "sin dal suo messaggio alle Camere riunite in occasione del giuramento ricordò il ruolo di ’tutore’ dell’osservanza della legge fondamentale della Repubblica.
* ANSA 12 maggio 2018 (ripresa parziale, senza foto).
Stato-Mafia: Pm Di Matteo: ’Dell’Utri tramite dopo il ’92’
’Da Anm e Csm nessuna difesa. Silenzio assordante, chi speravamo ci difendesse ha taciuto’
di Redazione ANSA *
"La sentenza è precisa e ritiene che Dell’Utri abbia fatto da cinghia di trasmissione nella minaccia mafiosa al governo anche nel periodo successivo all’avvento alla Presidenza del Consiglio di Berlusconi. In questo c’è un elemento di novità. C’era una sentenza definitiva che condannava Dell’Utri per il suo ruolo di tramite tra la mafia e Berlusconi fino al ’92. Ora questo verdetto sposta in avanti il ruolo di tramite esercitato da Dell’Utri tra ’Cosa nostra’ e Berlusconi". Lo ha detto il pm della Dna Nino Di Matteo, a proposito della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, in onda sui Rai tre.
La replica dell’Anm, sempre difeso magistrati attaccati - "L’Associazione Nazionale Magistrati ha sempre difeso dagli attacchi l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati". Lo dice il presidente dell’Anm Francesco Minisci. "Lo ha fatto - prosegue - a favore dei colleghi di Palermo e continuerà sempre a difendere tutti i magistrati attaccati, pur non entrando mai nel merito delle vicende giudiziarie".
"Né Silvio Berlusconi, né altri hanno denunciato le minacce mafiose, né prima né dopo" ha anche detto il pm Di Matteo, a proposito della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, su Rai tre. "Nel nostro sistema costituzionale le sentenze vengono pronunciate nel nome del popolo italiano e possono essere criticate e impugnate. Il problema è che quando le sentenze riguardano uomini che esercitano il potere devono essere conosciute", ha aggiunto. "C’è una sentenza definitiva - ha spiegato - che afferma che dal ’74 al ’92 Dell’Utri si fece garante di un patto tra Berlusconi e le famiglie mafiose palermitane. Ora questa sentenza dice che quella intermediazione non si ferma al ’92, ma si estende al primo governo Berlusconi, questi sono fatti che devono essere conosciuti"
"I carabinieri che hanno trattato sono stati incoraggiati da qualcuno. Noi non riteniamo che il livello politico non fosse a conoscenza di quel che accadeva. Ci vorrebbe ’un pentito di Stato’, uno delle istituzioni che faccia chiarezza e disegni in modo ancora più completo cosa avvenne negli anni delle stragi". Lo ha detto il pm della dna Nino Di Matteo, a proposito della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, in onda sui Rai tre.
"Quello che mi ha fatto più male è che rispetto alle accuse di usare strumentalmente il lavoro abbiamo avvertito un silenzio assordante e chi speravamo ci dovesse difendere è stato zitto. A partire dall’ Anm e il Csm". Lo ha detto il pm della Dna Nino Di Matteo, dopo la sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, in onda sui Rai tre a proposito delle critiche subite, negli anni, dal pool che ha coordinato l’inchiesta.
* ANSA,23 aprile 2018 (ripresa parziale, senza immagine).
SENZA PIU’ PAROLA E SENZA PIU’ CARTA D’IDENTITA’. Alla ricerca della dignità perduta...
Le idee. Per una biopolitica illuminista
L’ultima lezione di Stefano Rodotà
di Roberto Esposito (la Repubblica, 31.03.2018)
«Per vivere occorre un’identità, ossia una dignità. Senza dignità l’identità è povera, diventa ambigua, può essere manipolata». Il nuovo libro, postumo, di Stefano Rodotà, Vivere la democrazia, appena pubblicato da Laterza, può essere letto come un ampio e appassionato commento a questa frase di Primo Levi. Tutti e tre i termini evocati da Levi - identità, dignità e vita - s’incrociano in una riflessione aperta ma anche problematica, che ha fatto di Rodotà uno dei maggiori analisti del nostro tempo.
Composto da saggi non tutti rivisti dall’autore, scomparso lo scorso giugno nel pieno del suo lavoro, il libro ci restituisce il nucleo profondo di una ricerca che definire giuridica è allo stesso tempo esatto e riduttivo. Esatto perché il diritto costituisce l’orizzonte all’interno del quale Rodotà ha collocato il proprio lavoro. Riduttivo perché ha sempre riempito la propria elaborazione giuridica di contenuti storici, filosofici, antropologici che ne eccedono il linguaggio. Rodotà ha posto il diritto, da altri irrigidito in formulazioni astratte, a contatto diretto con la vita. E non con la vita in generale, ma con ciò che è diventato oggi la vita umana nel tempo di una tecnica dispiegata al punto da penetrare al suo interno, modificandone profilo e contorni.
Ma cominciamo dalle tre parole prima evocate, a partire dall’identità. Come è noto a chi si occupa di filosofia, l’interrogazione sul significato della nostra identità attraversa l’intera storia del pensiero, trovando un punto di coagulo decisivo nell’opera di John Locke.
Cosa fa sì che il vecchio riconosca sé stesso nel ragazzo, e poi nell’adulto, che è stato nonostante i tanti cambiamenti che ne hanno segnato l’aspetto e il carattere? La risposta di Locke è che a consentire alla coscienza di sperimentarsi identica a se stessa in diversi momenti dell’esistenza è la memoria. Ma tale risposta bastava in una stagione in cui natura, storia e tecnica costituivano sfere distinte e reciprocamente autonome. Una condizione oggi venuta meno. Nel momento in cui politica e tecnica hanno assunto il corpo umano a oggetto del proprio operato tutto è cambiato. Sfidata dalle biotecnologie e immersa nel cyberspazio, l’identità umana si è andata dislocando su piani molteplici, scomponendosi e ricomponendosi in maniera inedita.
È precisamente a questa mutazione antropologica che Rodotà rivolge uno sguardo acuminato. A chi appartiene il nostro futuro? - egli si chiede con Jaron Lanier (La dignità ai tempi di internet, Il Saggiatore) - quando l’identità non è più forgiata da noi stessi, ma modificata, e anche manipolata, da altri? Si pensi a come è cambiato il ruolo del corpo in rapporto alla nostra identificazione. Dopo essere stato centrale, al punto che sulla carta d’identità comparivano, insieme alla foto, colore di occhi e capelli, il corpo è stato in qualche modo soppiantato dalle tecnologie informatiche - password, codici, algoritmi. Per poi tornare, una volta tecnologizzato, come oggetto di attenzione da parte delle agenzie di controllo.
Impronte digitali, geometrie della mano, iride, retina, per non parlare del dna.
Tutto ciò quando la chirurgia plastica è in grado di cambiare i nostri connotati.
E qui entra in gioco il secondo termine del libro, la dignità, assunta non in maniera generica, ma come un vero principio giuridico. Che ha già trovato spazio nella nostra Costituzione e poi nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Ma ciò non basta, se si vuol passare dal tempo dell’homo aequalis a quello dell’homo dignus. Il richiamo alla dignità, che è stato un lascito importante del costituzionalismo del Dopoguerra diventa, per Rodotà, un elemento costitutivo dell’identità personale.
Naturalmente a patto che il concetto stesso di “persona” spezzi il guscio giuridico di matrice romana, per incarnarsi nel corpo vivente di ogni essere umano, senza distinzione di etnia, religione, provenienza.
Anche la questione, largamente discussa, dei beni comuni va inquadrata in questo orizzonte storico, misurata alle drastiche trasformazioni che stiamo vivendo. Solo in questo modo anche il terzo termine in gioco - la vita - può diventare oggetto di una biopolitica affermativa. Rodotà ne offre un esempio illuminante.
Nel 2013 la Corte suprema dell’India ha stabilito che il diritto di una casa farmaceutica di fissare liberamente il prezzo di un farmaco di largo consumo è subordinato al diritto fondamentale alla salute di chi ne ha bisogno. Che prevale sull’interesse proprietario.
Come è noto, a partire dall’entrata in vigore del Codice civile napoleonico, il principio della proprietà è stato sostituito a quello, rivoluzionario, di fraternità, anteponendo la figura del proprietario a quella del cittadino. Che non sia arrivato il momento di riattivare la fraternità ricucendo il filo, spezzato dell’uguaglianza?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
Federico La Sala
L’ultimo colpo di Prodi a Renzi. Sì a Insieme e Gentiloni premier
Il professore: «Con lui Paese più forte». E su LeU: «Sono amici, ma hanno sbagliato»
di Giovanni Stinco (il manifesto, 18.02.2018)
BOLOGNA Era da nove anni che non saliva più sui palchi della politica. Ieri Romano Prodi ha scelto di rompere il digiuno e di dare il suo appoggio a Insieme, la lista ulivista alleata del Pd che ha messo sotto lo stesso simbolo verdi, socialisti e gli orfani di quell’area civica che fu di Pisapia. Prodi lo ha fatto a Bologna, la sua città e la città che vide nascere l’Ulivo. Un appoggio limpido e netto ad una lista che ne ha tremendamente bisogno, visto che i numeri impietosi dei sondaggi la danno inchiodata all’1%, forse anche meno. I numeri sono quelli che sono, ma da Prodi su questo nessun accenno, anzi il professore sul palco della formazione ulivista si è speso per sostenere un’idea da sempre a lui cara: quella per cui non può arrivare nessuna vittoria senza una coalizione di centro sinistra. Il programma minimo di governo? «Minore disuguaglianza e una forte presenza in Europa». Dietro di lui la scritta a caratteri cubitali: «Contrastare le diseguaglianze». Poco più sotto: «L’Ulivo, la nostra ispirazione».
A DARE LA PAROLA al professore dal palco è stato Giuliano Santagata, che di Prodi fu ministro e che ora guida Insieme in compagnia del socialista Enrico Boselli e dell’ecologista Angelo Bonelli. «Sono qui - ha detto Prodi, fondatore del Pd ma da tempo non più iscritto al Partito democratico - per sostenere questa coalizione, per sostenere questa parte della coalizione che è Insieme, perché porta avanti il mio compito, quello di mettere assieme i diversi riformismi». E sono scattati gli applausi a scena aperta del pubblico bolognese ad un Prodi che si è detto emozionato ma che è apparso in forma e deciso. «Il suo è stato davvero un gesto di grande generosità», ha commentato Serse Soverini, collaboratore del Professore ai tempi di Palazzo Chigi e ora candidato di Insieme a Imola.
UN ENDORSEMENT per la lista che nel simbolo ha un piccolo ramoscello d’Ulivo, di certo non un assist al Pd di Matteo Renzi. Semmai la benedizione al Pd e all’idea di coalizione impersonata dal premier uscente Gentiloni. A chiudere l’evento è stato proprio il primo ministro: «Siamo nati come Ulivo sotto la leadership di Prodi con la scommessa di un centrosinistra capace di andare al Governo. Non è che dopo 20 anni ce ne dimentichiamo e facciamo una scelta diversa. Quella rimane la nostra ispirazione e il nostro impegno». Gentiloni nel suo discorso ha ricalcato molti ragionamenti di Prodi, tra i due la sintonia è sembrata profonda, così come la distanza dall’idea renzianissima di un Pd pigliattutto capace di governare da solo. «Abbiamo fatto la scelta per un centrosinistra di governo, questo siamo - ha aggiunto Gentiloni - Non ci accontentiamo delle nostre biografie. Sappiamo che il mondo è complicato e che oggi esercitare un’azione di governo per il centrosinistra è una sfida». L’idea di complessità ha riecheggiato più volte dal palco.
«La democrazia è complessa, e la coalizione è l’unico modo per tenere assieme tutto», ha sottolineato Prodi che anche questa volta, come già successo 15 giorni fa, non ha risparmiato critiche verso gli ex compagni di strada e ora avversari di Liberi e Uguali: «Non sono nella coalizione, li ho chiamati amici, perché abbiamo lavorato lungamente assieme. Sono ancora amici certo, ma hanno profondamente sbagliato perché questo è il momento in cui nello stare insieme si decide il futuro del paese. Soltanto vincendo si determina il futuro del paese. Con la scissione invece LeU ha indebolito enormemente il disegno di unire i riformismi». Anche perché, ha argomentato il professore, non è che sul piano dell’unità gli avversari siano messi meglio: la destra di Forza Italia e della Lega, che pure sono alleate, sull’Europa hanno visioni antitetiche e andranno in tilt appena toccherà loro presentarsi a Bruxelles, quindi «15 giorni dopo il voto». Per il Movimento 5 Stelle Prodi invece ha usato una sola parola: «vaghezza».
INFINE LE NECESSITÀ immediate del paese. A inizio della prossima legislatura bisognerà cominciare a pensare ad una nuova legge elettorale da approvare in fretta, altrimenti l’Italia resterà difficilmente governabile. Così come lo sarebbe stata la Francia «che tutti adoriamo» senza il meccanismo elettorale che ha garantito a Macron una solida maggioranza. Poi ancora l’ennesima sottolineatura del concetto che Prodi dal palco ha ripetuto più e più volte: «Non è che la coalizione sia una cattiveria, è la democrazia di oggi che la richiede».
Lo Stato deve manifestare contro i fascisti
di Maurizio Viroli (Il Fatto, 10.02.2018)
Altro che vietare le manifestazioni, a Macerata deve manifestare lo Stato: manifestare la sua ferma determinazione di combattere i fascisti con tutte le sue forze, nel pieno rispetto della Costituzione e delle leggi. A Macerata deve andare il presidente della Repubblica e parlare, con i corazzieri alle spalle, e con lui sul palco devono esserci il presidente del Consiglio, il ministro degli Interni e quello della Difesa, i presidenti di Senato e Camera, i comandanti militari e delle forze di sicurezza. Devono dire con parole chiare che la Repubblica s’impegna solennemente a non dare tregua ai fascisti e a proteggere la libertà e la sicurezza di tutti, cittadini e non cittadini.
Possibile che le alte cariche dello Stato, uomini e donne colti e saggi, almeno si spera, non si rendano conto che sottovalutare il pericolo neofascista è moralmente ignobile e politicamente suicida? Possibile che non sappiano che lo Stato liberale è crollato nel 1922 perché non volle e non seppe combattere i fascisti, non certo perché i fascisti erano più forti?
Se Vittorio Emanuele III avesse decretato lo stato d’assedio e mandato contro i fascisti l’esercito e i carabinieri, avrebbe salvato lo Stato liberale.
Con tutte le differenze del caso, oggi la Repubblica democratica può sconfiggere il neofascismo soltanto se lo combatte con la massima intransigenza. In Italia il fascismo è un reato, l’antifascismo è un dovere civile. Ha, quindi, perfettamente ragione Giuseppe Civati a sostenere che “Fascismo e Antifascismo non sono in nessun modo paragonabili”. E con lui hanno ragione le associazioni e le organizzazioni che hanno chiesto alle autorità competenti di autorizzare la manifestazione. È un loro dovere ancor prima che loro diritto.
Sarebbe una vergogna tirarsi indietro. Ma i cittadini da soli non possono vincere contro i fascisti, poiché i fascisti usano la violenza: sparano, aggrediscono, intimidiscono. I cittadini non possono e non vogliono scendere sul terreno della violenza.
Soltanto lo Stato può usare la forza legittima e se non lo fa chi lo rappresenta si carica di una responsabilità gravissima. Per giustificare la scelta iniziale - per fortuna ieri rivista - di vietare le manifestazioni non vale l’argomento dell’ordine pubblico.
Lo Stato deve garantire agli antifascisti il diritto di manifestare e proteggerli da aggressioni fasciste. Se vuole, può farlo. Permettere agli antifascisti di manifestare significa non solo fare capire ai fascisti che lo Stato questa volta non è con loro ma contro di loro, ma dare forza alle istituzioni repubblicane. Altrettanto dissennato è l’argomento di chi sostiene che il gesto di Traini è stato un atto di solitaria follia. Chiunque abbia letto qualche libro sulle organizzazioni terroristiche intende perfettamente che quel che ha fatto Traini è puro terrorismo: violenza indiscriminata e a qualunque costo, contro un determinato gruppo sociale. I terroristi, infatti, agiscono anche a rischio della libertà e della vita, quando sanno di poter contare su una comunità che li sostiene. Infatti ecco Forza Nuova che si fa carico delle spese legali e manifesta con Casapound per aiutarlo, ecco Salvini che dichiara che la colpa è di chi ha fatto arrivare gli immigrati, ecco i molti che non parlano ma lo considerano un eroe.
Proprio perché l’atto terroristico di Macerata è segno della forza delle idee fasciste, la risposta deve essere una guerra senza quartiere. Le parole del sindaco di Macerata, Pd, che approva la scelta di vietare le manifestazioni in nome di un silenzio che rispetti le ferite della città sono penose. Qualcuno gli spieghi che il silenzio è atto di rispetto e di pietà per le vittime, ma che il dovere più importante e pressante è fermare gli aguzzini.
Il dato vero che deve preoccupare è che la solidarietà antifascista, che in passato aveva unito liberali, democristiani, repubblicani, socialdemocratici socialisti, comunisti e aveva saputo fare argine valido contro il neofascismo e ogni altra idea che mirasse a destabilizzare lo Stato, oggi non esiste più. Provino Pietro Grasso e Giuseppe Civati a proporre a chi a vario titolo è alla testa degli altri partiti politici (Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, Giorgia Meloni, Luigi Di Maio, Matteo Salvini) di firmare prima del 4 marzo un documento comune in cui ciascuno s’impegna solennemente a combattere il neofascismo. Sarà un fallimento.
Lo scenario che probabilmente ci aspetta è quello di un governo di centrodestra guidato, di fatto, da Berlusconi. Com’è noto Berlusconi in più di un’occasione ha manifestato la sua simpatia per Mussolini, ed è poco incline a combattere i fascisti e felice di bastonare gli antifascisti, che poi per lui sono comunisti camuffati. Così, nel 2022, avremo le piazze piene di fascisti ed essi stessi, o i loro amici, al governo.
I fatti di Macerata rappresentano una svolta fondamentale. Le alte cariche dello Stato possono salvarla o agevolarne la morte. Rinnovo l’appello: vada il presidente Mattarella a Macerata e pronunci le parole giuste per sconfiggere il pericolo fascista, prima che sia tardi.
Il caso italiano
Rischio autoritarismo: rappresentare non basta più, la democrazia sia più efficace
Rinforzare la democrazia
di Romano Prodi (Il Mulino, 08 gennaio 2018) *
Per molti anni, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, ci siamo illusi che l’espansione della democrazia fosse irresistibile. Una speranza alimentata da numerosi rapporti di organismi internazionali dedicati a sottolineare come il numero delle nazioni che affidavano il proprio futuro alle sfide elettorali fosse in continuo aumento. La convinzione di un “fatale” progresso della democrazia veniva rafforzata dalla generale condivisione delle dottrine che sono sempre state i pilastri della democrazia stessa, cioè il liberalismo e il socialismo che, alternandosi al potere, avrebbero sempre garantito la sopravvivenza ed il rafforzamento del sistema democratico. Tanto era forte questa convinzione che divenne dottrina condivisa il diritto (o addirittura il dovere) di imporre il sistema democratico con ogni mezzo, incluse le armi.
La guerra in Iraq e in Libia, almeno a parole, si sono entrambe fondate sulla motivazione di abbattere un tiranno per proteggere, in nome della democrazia, i sacrosanti diritti dei cittadini in modo da arrivare, con la maggiore velocità possibile, a libere elezioni.
La realtà ci ha obbligato invece a conclusioni ben diverse. Le guerre “democratiche” hanno mostrato l’ambiguità delle loro motivazioni e si sono trasformate in tragedie senza fine, mentre le elezioni imposte dall’esterno, soprattutto nei Paesi africani, sono state sempre più spesso utilizzate per attribuire al vincitore un potere assoluto, quasi patrimoniale, sul Paese. Colui che è stato eletto democraticamente si trasforma in proprietario dei cittadini e dei loro beni e la tornata elettorale successiva viene trasformata in una lotta impari se non addirittura in una farsa perché il leader democratico si è nel frattempo trasformato in un dittatore. Guardiamoci quindi dal ritenere che il progresso democratico sia fatale e inevitabile perché la democrazia non si esaurisce nel giorno delle elezioni. Essa si regge non sulle sue regole astratte ma sul rispetto di queste regole e, crollata l’influenza delle ideologie che ne stavano alla base, sui comportamenti e sui risultati delle azioni dei governanti.
Non dobbiamo quindi sorprenderci se, a quasi trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, ci troviamo invece in un mondo in cui il desiderio e la richiesta di autorità crescono a discapito del progresso della democrazia. Lo vediamo a tutte le latitudini: non solo in molti Paesi africani ma in Russia, in Cina, in Vietnam, nelle Filippine, in Turchia, in Egitto, in India, nei Paesi dell’Est Europeo e perfino in Giappone. Un desiderio di autorità che si estende alle democrazie più mature e che lievita perfino negli Stati Uniti pur essendo, in questo grande Paese democratico, temperato dagli infiniti pesi e contrappesi della società americana.
Tutti questi eventi ci hanno portato ad un punto di svolta: la democrazia sta cessando di essere il modello di riferimento della politica mondiale e non si esporta più.
Possiamo simbolicamente collocare il riconoscimento ufficiale di questa svolta nel XIX Congresso del Partito Comunista Cinese dello scorso ottobre. Il presidente Xi, forte dei suoi successi, ha indicato nel sistema cinese lo strumento più adatto per promuovere lo sviluppo ed il progresso non solo della Cina ma anche a livello globale. La proposta della via della seta intende sostituire nell’immaginazione popolare il piano Marshall come modello di riferimento per la crescita globale e, in particolare, dei Paesi in via di sviluppo.
Un compito facilitato dalle fratture fra i Paesi democratici e dalla moltiplicazione dei partiti politici all’interno di questi Paesi, evoluzioni che rendono sempre più complessa la formazione di governi democratici robusti e capaci di durare nel tempo. Il susseguirsi degli appuntamenti elettorali (locali, nazionali ed europei) e le analisi demoscopiche, che rendono di importanza vitale ogni pur piccolo appello alle urne, abbreviano l’orizzonte dei governi che, invece di affrontare i grandi problemi del futuro, si concentrano solo sulle decisioni idonee a vincere le sempre vicine elezioni.
A rendere più difficile e precaria la vita dei governi democratici si aggiunge la moltiplicazione dei partiti, figlia della maggiore complessità della società moderna e della crisi delle grandi ideologie del passato. Ci sono voluti sette mesi di trattative per formare un governo in Olanda e, dopo oltre tre mesi dalle elezioni, non vi è ancora alcun accordo per un governo tedesco.
Di fronte a tutti questi eventi il favore degli elettori si allontana sempre più da una democrazia che “rappresenta” e si sposta verso una democrazia che “consegna”, che opera cioè in modo efficace.
Se non vogliamo vedere crescere in modo irresistibile anche nei nostri Paesi il desiderio di autoritarismo dobbiamo rendere forte la nostra democrazia: è nostro dovere primario rinnovarla e irrobustirla per metterla in grado di “consegnare”.
Quest’obiettivo può essere raggiunto solo adottando sistemi elettorali sempre meno proporzionali e sempre più maggioritari.
Il sistema elettorale non è fatto per fotografare un Paese ma per renderne possibile il governo.
Di queste necessarie trasformazioni l’Italia se ne sarebbe dovuta rendere conto da gran tempo e invece le ha volute ignorare: speriamo che possa metterle in atto fin dall’inizio della prossima legislatura.
* Questo articolo è uscito su «Il Messaggero» del 7 gennaio 2018.
MUSICA, STORIA, E SOCIETA’: IL CANTO DEGLI ITALIANI. Goffredo Mameli, Giuseppe Verdi, il Risorgimento, la tradizione ebraica, il fascismo, e la Repubblica....
“Fratelli d’Italia” diventa ufficialmente inno nazionale
Scelto nel 1946 con un provvedimento provvisorio, nessuna legge lo aveva reso definitivo
Dopo 71 anni di provvisorietà l’Inno di Mameli, o meglio «Il canto degli Italiani», diventa ufficialmente l’Inno della Repubblica Italiana. Dopo svariati tentativi nelle precedenti legislature, il Senato ha approvato definitivamente la legge che rende ufficiale quell’inno che il Consiglio dei ministri del 12 ottobre 1946 adottò provvisoriamente.
«Su proposta del Ministro della Guerra - si legge nel verbale di quel lontano Consiglio dei ministri presieduto da Alcide De Gasperi - si è stabilito che il giuramento delle Forze Armate alla Repubblica e al suo Capo si effettui il 4 novembre p.v. e che, provvisoriamente, si adotti come inno nazionale l’inno di Mameli». Nulla di più definitivo del provvisorio, come spesso accade in Italia, anche perché l’Inno di Mameli entra a tutti gli effetti nell’immaginario collettivo, grazie soprattutto alla nazionale Italiana di Calcio e ai successi che un tempo elargiva. Poi nella legislatura 2001-2005 ecco sia una proposta di legge ordinaria che una costituzionale, che però non vengono approvate. Lo stesso avvenne nelle due successive legislature (2006-2008 e 2008-2013). Curiosamente però una legge del 2012, nata per promuovere il senso di cittadinanza tra gli studenti, prevede che l’Inno di Mameli venga insegnato nelle scuole.
Anche l’attuale legislatura sembrava destinata allo stesso esito e invece la Commissione Affari costituzionali della Camera in poche settimane ha approvato in sede deliberante la legge attesa da anni (di iniziativa di alcuni deputati del Pd), imitata dalla Commissione Affari costituzionali del Senato, che in due settimane ha dato il sì definitivo. «Abbiamo l’Inno» ha commentato Salvatore Torrisi, presidente della Commissione.
«La Repubblica - afferma la nuova legge - riconosce il testo del `Canto degli italiani’ di Goffredo Mameli e lo spartito musicale originale di Michele Novaro quale proprio inno nazionale». Ciò significa che tutte e sei le strofe del testo di Mameli costituiscono l’Inno e non solo le prime due, che tutti conoscono per motivi calcistici. E appare quasi una beffa del destino il fatto che i tifosi non possano cantare l’Inno ai mondiali di calcio per la prima volta dopo 60 anni, proprio dopo la storica approvazione della legge attesa da 71 anni.
Comunque Mameli ha avuta vita difficile anche per la concorrenza di «Va pensiero» il coro dal Nabucco di Giuseppe Verdi, che in passato la Lega propose come Inno alternativo, anche perché esso non parla di Roma, come invece fa «Fratelli d’Italia». E proprio la Lega è stata assente sia al momento dell’approvazione della legge alla Camera che oggi al Senato, anche se Roberto Calderoli assicura che non sia una scelta politica, ma una semplice coincidenza di impegni dei senatori in più Commissioni.
* Fonte: La Stampa, 15/11/2017 (ripresa parziale - senza immagine).
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO , SI CFR.:
VIVA VERDI, VIVA PUCCINI: NESSUN DORMA!!!.
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
Federico La Sala
Conversioni - Il fondatore di “Repubblica” va in tv e si rimangia 20 anni di “guerra al puzzone”: “Preferisco lui a Di Maio”. È la scelta dell’establishment per il 2018
Ora Scalfari vota Berlusconi: “Populista sì, ma di sostanza”
di Daniela Ranieri (Il Fatto, 23.11.2017)
Nelle ore in cui si scaldano le rotative che sforneranno la nuova Repubblica, interamente scritta col carattere tipografico sobriamente ribattezzato “Eugenio”, Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica e autorità morale, è a La7, ospite di Giovanni Floris.
Esordisce dicendo che se il Pd “sta esaurendo il suo ruolo”, nondimeno Renzi è il suo “nipotino” e non si sente “il nonno di nessun altro”. La frecciata è per quelli di Mdp (in particolare per Bersani che, macchiandosi d’ignominia, “fece la corte ai 5Stelle”), colpevoli di aver abbandonato il tontolone neoliberista al suo destino invece di farsi carico della sua prossima, ennesima sconfitta.
I diseredati per Scalfari prenderanno tra l’8 e il 10%, che “è niente” rispetto a quanto prenderà Renzi, peraltro alleandosi con tutte le frattaglie della Repubblica. “Io sono perché si rinnovi il Pd”, dice Scalfari ieraticamente: in questo senso gli pare “notevole il colloquio che Renzi ha avuto con Macron”, due “pilastri dell’europeismo” (Scalfari pensa che Renzi sia Bismarck, ogni tanto lo critica e lo indirizza ma come Machiavelli farebbe col Valentino). Il Fondatore sa bene che Renzi è europeista solo quando gli fa comodo, che in lui convivono lo statista kitsch della portaerei al largo di Ventotene e il bamboccione capriccioso delle bandiere europee tolte dal set di Palazzo Chigi per fare una delle sue gradassate; ciò nondimeno, del figaccio in Scervino apprezza il cinismo, e la tempra per fondare l’unica cosa che per Scalfari conta più della democrazia: l’oligarchia.
A questo punto viene fatto entrare Bruno Vespa, che come tutti sanno è venuto a promuovere il nuovo libro che ancora deve uscire ma è già in classifica (è come la Apple, ogni anno sforna un aggiornamento): si intitola Soli al comando. Da Stalin a Renzi, da Mussolini a Berlusconi, da Hitler a Grillo; titolo che farebbe sorridere se non venisse dallo stesso autore di Donne d’Italia. Da Cleopatra a Maria Elena Boschi (come se uno storico del cinema scrivesse Latin lover. Da Rodolfo Valentino a Er Mutanda).
La serata prosegue con geriatrica lentezza, rassicurante come un documentario di Geo & Geo: l’incontro con B. “quando lui non si occupava di politica ma di televisioni” (“era una delizia”), il giardino con le tombe, il materasso a cuore... Ma l’aneddotica sui mausolei e i bordelli di B. (che peraltro dopo la sfilata delle ragazze a Un giorno in pretura non può più emozionarci) è destinata a interrompersi. La bomba è grossa e Floris sa come innescarla: accertato il decesso del Pd, “tra B. e Di Maio, chi sceglierebbe?”. Scalfari incide su pietra: “Sono tutti populisti tranne il Pd, però il populismo di B. ha una sua sostanza”. Basti pensare alle dentiere e alle am-lire. Soprattutto, “B. è europeista, non sfegatato; mentre Salvini no” (riecco B. argine contro i populisti), ergo “in caso di estrema necessità può allearsi col Pd”, senza Salvini. Senza dimenticare che B. “è un attore-autore, sceglie il tema e lo interpreta, recita il suo testo”. E quindi? Qui Scalfari confessa: “Sceglierei B.”
Ma come? E i 20 anni di antiberlusconismo di Repubblica? E la distanza antropologica? E le 10 domande? E le Se non ora quando?
A noi disillusi, la confessione di Scalfari pare coerente. Logicamente: se non può vincere Renzi, che ha distrutto il Pd e in tre anni di governo ha attuato un programma neoliberista di destra, perché non votare B., che può allearsi con Renzi facendo argine contro gli odiati populisti?
Storicamente: fu lo stesso Scalfari, in occasione degli 80 anni di Berlusconi, a rivelare un retroscena “divertente” della “guerra di Segrate” tra il gruppo Espresso di De Benedetti e il magnate della Tv. Il quale, sconfitto, si rifiutò di pagare le spese legali (si sa come sono fatti questi ricchi quando c’è da pagare). Scalfari: “Dopo molti suoi rifiuti riuscii a persuaderlo promettendogli e dandogli la mia parola d’onore che se lui accettava di pagare le spese legali io l’avrei trattato d’ora in avanti come un socio cioè eventuali notizie che lo riguardassero sarebbero state anzitutto rese note a lui che ne dava la sua interpretazione dopodiché l’inchiesta sarebbe andata avanti”.
Non stupisce che oggi Scalfari difenda l’establishment, rassicurato solo da un’alleanza tra i due migliori, si fa per dire, lazzaroni su piazza. E tutto nel giorno del varo del nuovo font Eugenio! (che a questo punto poteva pure chiamarsi Silvio).
Affari e grandi guerre, il triangolo fra Silvio, il fondatore e l’editore
Dalla battaglia per la Mondadori con le sentenze comprate dal Cavaliere agli ultimi tentavi di fare impresa assieme
di Gianni Barbacetto (Il Fatto, 23.11.2017)
Il triangolo no, Berlusconi non l’aveva considerato. Eppure Eugenio Scalfari è riuscito a fare in tv l’elogio dell’ex Cavaliere. “Il populismo di Berlusconi ha una sua sostanza”, ha detto il Fondatore. E alla domanda di Giovanni Floris, “se dovesse scegliere tra Di Maio e Berlusconi, chi sceglierebbe?”, ha risposto senza esitazioni: “Berlusconi”. Il terzo del triangolo è l’Editore, Carlo De Benedetti, che completa un ménage à trois burrascoso ma intenso, che si dipana in quarant’anni di scontri e incontri e scontri. Grandi guerre e improvvise alleanze. In cui, più che il giornalismo, pesano gli affari.
All’inizio - era il 1979 - ci fu un incarico commerciale affidato a Scalfari dalla famiglia Mondadori: vendere a Berlusconi Rete 4, che stava trascinando nel baratro la casa editrice di Segrate. “Berlusconi ci invitò a cena ad Arcore”, raccontò poi il Fondatore, “e fu quello l’inizio non dico di un’amicizia ma di una conoscenza che col passare dei giorni e dei mesi diventò molto cordiale”.
L’agente commerciale Scalfari portò a compimento il suo mandato: “I contatti durarono a lungo, l’affare Rete 4 fu concluso. Ci vedevamo spesso finché lui cominciò ad occuparsi di politica. Per metà diventò socialista (craxiano ovviamente)... Per l’altra metà diventò democratico cristiano, vicino ad Andreotti e a Forlani”. E allora la quasi-amicizia si interruppe, perché Eugenio preferiva De Mita. Scalfari sparò contro Silvio - era il 1990 - articoli in cui lo paragonò a Mackie Messer, il bandito inventato da Bertolt Brecht. Anche De Benedetti, intanto, aveva incrociato Silvio sulla sua strada. Nel 1985 aveva cercato di portare a casa a buon prezzo la Sme, industria alimentare di Stato. Bettino Craxi chiese a Berlusconi di bloccare a ogni costo l’operazione. Silvio eseguì: gli preparò una cordata concorrente (Barilla, Ferrero, Fininvest) e l’affare sfumò. I due si ritrovarono a fare i duellanti nella “guerra di Segrate”. La Mondadori era diventata di De Benedetti e Repubblica si era integrata nel gruppo. Ma Silvio si era mangiato tutto, anche comprandosi giudici e sentenza. Poi però aveva accettato di spartire il bottino, lasciando Repubblica e L’Espresso a Scalfari e De Benedetti. Ci fu uno strascico: 50 milioni di lire di spese legali.
Non le voleva pagare nessuno, né Berlusconi, né De Benedetti, né Carlo Caracciolo, il principe editore del vecchio Espresso. “A quel punto dovetti intervenire io”, racconta Scalfari, che propose a Berlusconi un baratto. “Riuscii a persuaderlo promettendogli e dandogli la mia parola d’onore che se lui accettava di pagare le spese legali io l’avrei trattato d’ora in avanti come un socio cioè eventuali notizie che lo riguardassero sarebbero state anzitutto rese note a lui che ne dava la sua interpretazione dopodiché l’inchiesta sarebbe andata avanti come sempre accade in tutti i giornali... Il mio impegno durò fino a quando divenne presidente del Consiglio”. Allora sparò un’altra delle sue definizioni: non più Mackie Messer, ma “ragazzo coccodé”, prendendola a prestito da Renzo Arbore.
Nel bel mezzo del ventennio berlusconiano - e dunque anche antiberlusconiano - i duellanti della Sme e della “guerra di Segrate”, De Benedetti e Berlusconi, nemici accerrimi, anche antropologicamente inconciliabili, diventano improvvisamente soci. Nel 2005 De Benedetti fonda la società di investimenti M&C. Mission: salvare imprese in difficoltà. Si diffonde la notizia che vi entrerà, con una quota consistente, anche la Fininvest. La Borsa s’infiamma, il titolo s’impenna, la Consob s’insospettisce e De Benedetti, accusato di insider trading, paga una sanzione di 30 mila euro.
Ma la pubblica opinione, di cui i lettori di Repubblica sono parte, s’indigna: ma come, l’Editore, dopo guerre sanguinose per Sme e Mondadori, fa affari insieme al suo arcinemico? Alla fine Berlusconi si sfila: troppe polemiche, troppe insinuazioni (e forse pochi affari). I duellanti riprendono a duellare. Dopo che una sentenza definitiva stabilisce, nel 2007, che la Mondadori era andata a Berlusconi grazie a una sentenza comprata, De Benedetti avvia una causa civile, chiedendo che Fininvest risarcisca la sua Cir per avergli scippato la casa di Segrate. Porta a casa in primo grado, nel 2009, 745 milioni di euro come “danno patrimoniale da perdita di opportunità di un giudizio imparziale”: a scriverlo è il giudice Raimondo Mesiano, subito messo in ridicolo dalle tv di Berlusconi per via dei suoi imperdonabili calzini azzurri. Nel 2011 il risarcimento a De Benedetti è ridotto a 540 milioni, che diventano 560 con gli interessi. Nel 2013, nuovo ritocco: 494 milioni.
Quando il 29 settembre 2016 Silvio compie 80 anni, Eugenio unisce agli auguri un’autocritica: “Sbagliai, non era affatto il ragazzo coccodé e ce lo ritrovammo sul gobbo per vent’anni. E ancora non è finito”. E allora: “Oggi dovrei fargli gli auguri e infatti glieli faccio anche se non ci parliamo più dal 1994”. Del resto, “debbo dire che invecchiando è migliorato, l’età porta guai ma anche qualche prestigio”. Sarà la comune senescenza a farli tornare più vicini? Ora Eugenio recupera Silvio come populista “di sostanza” contro il populismo senza qualità dei 5stelle. Si chiude il cerchio. Anzi il triangolo.
Costituzione e populismi (ateo-devoto) "di sostanza": W "la Repubblica", W "Forza Italia"!!! ... *
L’inganno sul mio voto a Berlusconi
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 24.11.2017)
Cari Lettori, non cadete nell’inganno di chi sfrutta una domanda paradossale («Chi voterebbe tra Di Maio e Berlusconi?») per sostenere che avrei cambiato posizione su Berlusconi: non l’ho mai votato e ovviamente non lo voterò mai. Martedì scorso ho partecipato alla trasmissione televisiva guidata da Giovanni Floris, dove tornerò martedì prossimo. Rispondendo a una domanda sul tema dell’ingovernabilità, ho detto che in caso di estrema necessità per superare una situazione paralizzante per il Paese il Pd (per il quale io ho sempre votato dai tempi di Berlinguer, dell’Ulivo prodiano e infine di quello costruito da Walter Veltroni) potrebbe essere costretto, come già successo in passato, a un’intesa non di natura politica con Forza Italia, sempreché si separasse da Salvini.
Ipotesi a me sgradita, che è emersa parlando del rischio di ingovernabilità del Paese, tema approfondito ieri sul nostro giornale con molta lucidità da Gustavo Zagrebelsky. Ho poi detto che ai miei occhi sia Di Maio che Berlusconi sono populisti, ma che il populismo del secondo ha perlomeno una sua sostanza. Ma veniamo allo stato attuale dei satti e dei sondaggi, i partiti in corsa sono soprattutto tre: il Pd, i Cinquestelle, la destra di Berlusconi e della Lega di Salvini.
Nelle recenti elezioni siciliane la destra ha largamente vinto, seguita dai grillini e a buona distanza dal Pd, con la sinistra dissidente che aveva presentato una propria lista con risultati lillipuziani. Questa situazione si ripeterà probabilmente nelle prossime elezioni di sine Legislatura che avverranno a marzo o aprile del 2018? Probabilmente sì. Il Pd si rassorzerebbe se la sinistra dissidente e Pisapia e Bonino consluissero sin d’ora nel partito: una sinistra unita probabilmente recupererebbe anche una parte degli astenuti che hanno sentimenti di sinistra lacerati dall’attuale dissidenza. Fassino, incaricato da Renzi, ha tentato in tutti i modi di recuperare la dissidenza, ma non è riuscito. Forse Pisapia, ma è ancora molto incerto.
Il tema dell’ingovernabilità è dunque ancora dominante, se nessuno dei tre maggiori partiti assronterà le elezioni della prossima primavera nella situazione attuale, il Paese non avrà un governo legittimato dal voto. Il Centro si orienterà verso la destra ma anche in quel caso un governo Berlusconi- Salvini non avrà la maggioranza, durerà qualche mese dopodiché le elezioni dovranno ripetersi. Ci troviamo purtroppo nella stessa situazione della Germania di Angela Merkel.
Ma c’è un’altra evidenza da sottolineare: così come sta accadendo per la Germania, anche un’Italia sballottata dall’ingovernabilità non conterebbe più nulla in Europa con tutte le conseguenze del caso. La mia risposta nella trasmissione televisiva a Floris era chiaramente motivata da quanto sta accadendo: se l’ingovernabilità prosegue così come le previsioni e i sondaggi attuali consermano, la maggioranza relativa sarà certamente del centrodestra, Salvini compreso ed anzi preponderante.
Ovviamente io non voterò mai Berlusconi, ma con quel tanto di esperienza che gli anni hanno largamente ampliato, la situazione è quella che ho qui esposto.
Come c’era da aspettarsi sono stato ricoperto di insulti dai grillini rappresentati nel Fatto quotidiano diretto da Marco Travaglio, ma considero quegli insulti come una sorta di Legion d’onore. Quanto alla sinistra dissidente, ci pensi bene prima di risiutare le aperture di Renzi nei suoi consronti. Da parte loro è un litigio di comari, come si diceva un tempo. La politica è la prima delle attività dello spirito. Lo dimostrarono Platone e soprattutto Aristotele. Sarebbe opportuno leggerli. L’ho consigliato a Renzi e spero l’abbia satto. A Berlusconi è inutile suggerirlo, la lettura non sa parte della sua attività. Gli consiglio soltanto di piantare Salvini: meglio soli che in pessima compagnia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GLI APPRENDISTI STREGONI E L’EFFETTO "ITALIA". LA CLASSE DIRIGENTE (INCLUSI I GRANDI INTELLETTUALI) CEDE (1994) IL "NOME" DEL PAESE AL PARTITO DI UN IMPRENDITORE. Che male c’è?! - Materiali sul tema
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
COSTITUZIONE E PENSIERO. ITALIA: LA MISERIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA E LA RICCHEZZA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO ...
BERTRAND RUSSELL: LA LEZIONE SUL MENTITORE (IGNORATA E ’SNOBBATA’), E "L’ALFABETO DEL BUON CITTADINO".
Federico La Sala
Ritorna Berlusconi l’alleato necessario
di Ilvo Diamanti (la Repubblica, 13.11.2017)
IL successo di Nello Musumeci alle Regionali in Sicilia ha posto in evidenza la debolezza del Centrosinistra. Ma anche, ovviamente, la capacità competitiva del Centrodestra. Il diverso rendimento dei due poli si spiega con la differente capacità di coalizione. Prima causa della sconfitta del M5s, irriducibile a ogni alleanza. Mentre sull’altro versante, l’accordo fra il Pd e le diverse formazioni di Sinistra è risultato impossibile. Questa situazione non appare condizionata da specifici fattori territoriali.
MA DETTATA, piuttosto, da difficoltà sostanziali, che riguardano i rapporti tra i leader e le forze politiche di quest’area. Anche il centrodestra appare segnato da rilevanti differenze interne: di progetto e di strategie. Eppure, le distanze tra FI, Lega (NcS: Noi con Salvini), FdI e la stessa UdC, per quanto profonde, non hanno prodotto fratture insuperabili. Da ciò il successo del centrodestra. Che costituisce un precedente significativo. Perché delinea uno scenario che potrebbe riprodursi altrove, soprattutto nel Nord, alle prossime elezioni politiche. Tanto più quando entrerà in vigore la nuova legge elettorale, il cosiddetto Rosatellum (bis), che prevede la possibilità di presentare candidati di coalizione nei collegi uninominali. Diventa, così, probabile l’eventualità che il modello siciliano si riproponga altrove. Nei collegi e in prospettiva nazionale. Con effetti analoghi. Per gli analoghi tipi di relazione fra i partiti. Sulla diversa capacità di coalizione gravano diverse cause. Politiche, ma anche “personali”. Che hanno favorito, fin qui, e potrebbero avvantaggiare - ancora soprattutto - il centrodestra. Fra le altre, vale la pena di sottolinearne una, particolarmente evidente e influente. Il ruolo e la presenza di Silvio Berlusconi.
È infatti lui, il Cavaliere, il principale artefice dell’intesa in Sicilia. E del progetto di coagulare gli altri principali pezzi della destra, ma anche del centro. Per prima: la Lega. Quindi i FdI di Giorgia Meloni. Ma anche l’Udc. Mentre lo stesso Alfano tenta di accodarsi alla compagnia, per non rimanere appiedato - ed escluso - nella prossima legislatura. Silvio Berlusconi, peraltro, è anche l’interlocutore “necessario” per il PdR, il Pd di Renzi. Nella prospettiva di confermare e allargare il programma di riforme avviato negli ultimi anni dal governo. Con il sostegno essenziale di Berlusconi. A partire dal gennaio 2014, quando proprio Renzi e Berlusconi siglarono il Patto del Nazareno. Spezzato e concluso, nel febbraio 2015, dall’elezione di Sergio Mattarella. Ma oggi, meglio: domani, quell’intesa potrebbe divenire nuovamente necessaria. Nella prospettiva - molto realistica - di un Parlamento senza alcuna maggioranza possibile. Perché nessun Partito, nessun Non-partito, nessun Polo (e Non-Polo) pare in grado di affermarsi, alle prossime elezioni. Da solo. E soprattutto di governare. Da solo.
Così, Berlusconi diventa l’alleato necessario, seppure non gradito, per fare le riforme. Istituzionali, ma, ancor prima, economiche, necessarie al Paese per “rimanere in Europa”. L’unico in grado di “coalizzare” - quantomeno, “aggregare” - il centrodestra. O, se si preferisce, le destre di diverso orientamento. Per cercare l’intesa con il centrosinistra e, anzitutto, con il PdR.
La centralità ritrovata - ma, in fondo, mai perduta - di Berlusconi può apparire singolare. Perché il suo partito, FI, attualmente è stimato circa il 14%. Un paio di punti sopra, rispetto a un anno fa. Ma quasi 3 in meno, rispetto alle europee del 2014. E oltre 7, rispetto alle politiche del 2013. Senza risalire al periodo 2008-2009, quando il Pdl si attestò intorno al 35-37%. Mentre Berlusconi stesso, ha visto la fiducia nei suoi confronti, come leader, attestarsi al 30%. In risalita dopo l’uscita dal governo, nel 2011. Ma sostanzialmente stabile, negli ultimi anni.
In altri termini, Silvio Berlusconi si è imposto come tessitore politico proprio mentre lui, “personalmente”, ma soprattutto il suo partito “personale” appaiono deboli. Comunque e sicuramente: “più” deboli che in passato.
Tuttavia, la coincidenza fra i due dati non appare “casuale”. Anzi, in qualche misura è “causale”. Berlusconi, in altri termini, diventa un alleato possibile anche per gli altri, gli avversari politici, perché è più debole che in passato. Personalmente e politicamente.
Perché lui, per primo, ha bisogno di contare, sulle scelte di governo. Per ragioni politiche, personali. E per interessi aziendali. In secondo luogo, nessun soggetto politico, conviene ripeterlo, è in grado di governare da solo. Ma l’area di Centro-Destra, dove si collocano, FI, Udc, Lega e FdI, oggi appare il Polo che attrae maggiori consensi. Oltre un terzo dei voti. È, inoltre, il accreditato nella competizione per conquistare i collegi del Nord.
Ma Berlusconi è, sicuramente, l’unico a poterlo tenere insieme. L’unico in grado di trasformarlo da un’area confusa in un Polo effettivo. Non per caso, intercetta le simpatie dei due terzi degli elettori che si collocano a Centro- destra. Ma convince anche la maggioranza di quelli che si dicono di Destra. Senza “mezzi termini”. Berlusconi, infine, negli ultimi anni, ha visto crescere la fiducia nei suoi confronti presso gli elettori di Centro, ma anche di Centrosinistra.
Per questo oggi si propone, e può agire, come un “mediatore”. Mentre ieri era la bandiera di una “parte”, più che di un partito. E ciò segna un passaggio e un cambiamento significativo, rispetto alla nostra storia recente, segnata dalla sua presenza. Perché, dal 1994 fino a ieri, egli ha segnato la principale frattura del nostro sistema politico. Di più: del sentimento politico del nostro Paese. L’alternativa fra berlusconismo e anti- berlusconismo, infatti, ha rimpiazzato - in parte assorbito - il muro dell’anti-comunismo. Oggi neppure Berlusconi è in grado di erigere muri, intorno a sé. Per volontà e/o debolezza propria. E degli altri. Non importa. Ma il suo muro è divenuto una tela. Così, un’epoca della nostra storia è finita. E non è chiaro cosa ci attenda domani. Anzi: oggi stesso.
Legge elettorale: Attesa per primi voti. Napolitano: "Paradossale voto anticipato"
L’ex Capo dello Stato boccia l’accordo: ’Intesa dei 4 solo convenienza’
di Redazione *
E’ "abnorme" e "paradossale" il voto anticipato, tanto più frutto di un’intesa "extra-costituzionale" legata alla legge elettorale, da parte "di quattro leader di partito che agiscono solo calcolando le proprie convenienze".
Giorgio Napolitano pronuncia un sonoro "no". Nelle ore in cui la Camera, in un’Aula quasi deserta, avvia la discussione del nuovo sistema di voto "tedesco", arriva dall’ex capo dello Stato una netta e autorevole stroncatura dell’accordo siglato da Pd, M5s, Fi e Lega.
Matteo Renzi assicura di non avere "fretta di andare a elezioni". Purché, aggiunge, si continui ad "abbassare le tasse" con una "legge di bilancio che abbia la forza di quella del 2016". Ma le parole di Napolitano fanno sperare i piccoli partiti che, complici anche le incognite del voto segreto, puntano a far saltare la legge e bloccare il ritorno alle urne.
Poco meno di una ventina di deputati, su 630, prende parte alla discussione generale della legge elettorale nell’emiciclo di Montecitorio. Ma a tradire i nervosismi della vigilia delle prime votazioni, previste oggi all’ora di pranzo, c’è un ruvido botta e risposta tra Beppe Grillo e il Pd.
Il leader M5s infatti, parlando con gli operai Ilva a Taranto, dice che la legge elettorale "non la capisce nessuno". Poi si corregge e spiega che il tema è "complicato" ma il lavoro sul testo è "certosino" e il testo che emerge è "costituzionale". Ma il Pd teme che dietro i 15 emendamenti presentati da M5s si celi la voglia di mettere in discussione qualche punto dell’accordo.
E Lorenzo Guerini avverte: "Per noi l’accordo è valido se nessuno si sfila". Se uno dei quattro partiti vota "contro, anche su un punto marginale", sottolinea Ettore Rosato, l’accordo salta. Ma nell’accordo non c’è, assicura Matteo Richetti, il ritorno alle urne: "Nessun automatismo".
Ma è la mancanza di una legge elettorale uniforme l’unico vero ostacolo al ritorno al voto. Perciò i piccoli partiti denunciano che il giorno dopo l’approvazione del "tedesco" i quattro "grandi" saranno pronti a dichiarare finita la legislatura. Pier Luigi Bersani, che con Giuliano Pisapia lavora al non facile percorso per il nuovo soggetto della sinistra, la racconta così: "L’accordo è votare subito. Chi non sta governando pensa di lucrare un po’ di voti, chi sta governando non vuole fare la legge di stabilità: fa impressione l’assenza di responsabilità". La corsa alle urne nasce dai "capricci di uno che vuole tornare a fare il presidente del Consiglio", attacca Enrico Letta con implicito riferimento a Renzi.
E Napolitano dettaglia con durezza le sue critiche: "In tutti i paesi democratici europei si vota alla scadenza naturale delle legislature", mentre le urne nei mesi della manovra rischiano di alimentare "instabilità" e minare la credibilità. Di più, afferma l’ex capo dello Stato: è "extra-costituzionale" il patto a quattro siglato da Renzi, Berlusconi, Grillo e Salvini per una legge che "rende più difficile la governabilità" e il ritorno al voto. Perciò l’ex presidente si augura che al Senato la discussione sia vera. Alle sue parole il Pd sceglie di non replicare, mentre Renato Brunetta da FI le definisce una "sterile polemica".
Angelino Alfano prova intanto a incalzare: il testo è "incostituzionale", anche perché usa i collegi del Mattarellum, disegnati 25 anni fa, nel 1993. Nessuna incostituzionalità, assicura il Pd: "Se ci fosse stato lo sbarramento al 3% Ap sarebbe stato a favore", dice Rosato. Ma proprio sui collegi i quattro grandi partiti stanno ancora lavorando: in Aula il relatore Emanuele Fiano potrebbe presentare un emendamento che modifica quelli del Senato e li riduce dai 112 attuali, ai 100 dell’Italicum. Un altro emendamento, già ribattezzato "salva Mdp", permetterà ai neonati gruppi della sinistra di presentare liste senza raccogliere le firme, come tutti gli altri gruppi. Ma sui cardini dell’intesa, avvertono i Dem, non possono esserci modifiche. Perciò, di fronte alle richieste di M5s di introdurre il voto disgiunto e le preferenze e di fronte alle perplessità di alcuni di Fi sulla parità di genere, i Dem avvertono che se cambia qualcosa salta tutto. Occhi puntati, dunque, sui voti a scrutinio segreto, possibili sui temi più delicati: ne va del destino dell’intera legge.
Renzi pronto a vedere Berlusconi
Legge elettorale, il segretario Pd disponibile a incontrare anche Grillo: “Ora o mai più”
Accelerazione sul modello tedesco e sul voto a fine settembre, ma Alfano punta i piedi
di Carlo Bertini Ugo Magri (La Stampa, 26.05.2017)
Non di nascosto ma alla luce del sole, Matteo Renzi è pronto a incontrare tutti gli altri leader. Tutti: compreso Silvio Berlusconi e, perché no, Beppe Grillo (se i Cinquestelle volessero farsi guidare da lui nella trattativa). Per parlare di legge elettorale e, qualora si delineasse una vasta intesa sul modello proporzionale «alla tedesca», del modo più rapido per concludere questa sfortunata legislatura. Gli incontri si susseguiranno fino a lunedì perché il giorno seguente Matteo vuole andare nella direzione del suo partito, tirare le somme e zittire gli eventuali malpancisti. C’è il clima tipico delle grandi vigilie e delle svolte ineluttabili.
Tutti ci credono
Ufficialmente il Pd tiene ancora vivo il «Rosatellum», mezzo maggioritario e mezzo proporzionale, con Renzi che chiederà ai suoi interlocutori cosa ne pensano. Ma conosce già la risposta: tutto il peggio possibile. Per cui passerà subito alla sostanza, cioè quel «tedesco» che ha sempre più ammiratori perché, come segnala la vecchia volpe Franceschini, «è l’unico treno capace di arrivare alla meta». Oltre a Pd , Forza Italia e Mdp, per un motivo o per l’altro non sono ostili M5S e Lega. Unico irriducibile rimane Alfano, che vede nella soglia del 5 per cento un sopruso ai suoi danni. Potrà da solo rappresentare il classico granello che blocca l’ingranaggio? In casa Renzi qualche ansia si coglie, perché l’alleato di governo non può essere preso a pedate. E poi, i tempi sono terribilmente stretti.
Per votare il 24 settembre, insieme con la Germania, le Camere andrebbero sciolte entro luglio. Per quella data ci vorrebbe una legge elettorale già in «Gazzetta Ufficiale» e con i collegi ridisegnati: impresa da Guinness. Al momento la discussione si svolge in commissione alla Camera. Ben che vada, la legge arriverà in aula il 10 giugno. Poi passerà in Senato. Per rispettare la tempistica, l’intesa dovrebbe essere non solo blindata, ma fatta rispettare con la precisione di un cronografo elvetico. Il rischio che salti tutto è presente allo stesso Matteo: «Se a luglio dovesse essere bocciata la riforma, non se ne farebbe più nulla». Toccherebbe andare alle urne con le due leggi amputate dalla Consulta, previo un mini-decreto correttivo delle parti più inconciliabili. A Renzi tutto sommato non dispiacerebbe, perché con i «consultelli» il Pd ci guadagna. Ma è proprio questo che tiene sulle spine il Cav.
I dubbi di Silvio
Berlusconi ha due timori. Il primo è che Salvini e Meloni lo prendano di mira accusandolo di «inciucio» coi «comunisti». Per questo già mette le mani avanti e nega Patti del Narareno (Renzi, con più ironia, si scrolla i sospetti citando «Cara ti amo» di Elio e le Storie Tese: qualunque cosa lui dica, agli altri non sta mai bene). Berlusconi poi sospetta che l’altro tenti nuovamente di buggerarlo: questa volta sfruttando l’esca del sistema tedesco (che a Forza Italia fa gola) per andare al voto con l’altro sistema. Nonostante questi fantasmi, il clima tra i due eserciti è cameratesco. Rosato (capogruppo Pd) procede a braccetto con l’ex nemico Brunetta, il testo della legge lo stanno limando insieme. E casomai non si dovesse fare in tempo a votare il 24 settembre, già spunta un’altra data: il 22 ottobre. Il Colle teme che non ci sarebbe più tempo per approvare la Finanziaria entro l’anno, scatenando l’ira di Bruxelles. Per Renzi, è un problema che non esiste: pure Germania e Austria votano in autunno, ma con loro nessuno ha da ridire...
Da “delinquente naturale” ad alleato abituale del Pd: ricordate chi è Berlusconi?
Amnesie - Il Caimano torna sulla scena come interlocutore dell’ex rottamatore per fare la legge elettorale e da argine al “populismo”. Ma il suo passato è tutto una macchia
di Gianni Barbacetto (Il Fatto, 25.05.2017)
Silvio torna. Sì, Berlusconi si prepara a essere di nuovo al centro della vita politica italiana. Come leader del suo schieramento, che non ha trovato un “federatore”. Ma anche come interlocutore privilegiato, anzi unico, del centrosinistra di Matteo Renzi, per fare la legge elettorale. Intendiamoci: nel centrosinistra per vent’anni hanno ripetuto che non bisognava demonizzarlo. Ma allora almeno qualcuno c’era a ricordare ogni giorno i conflitti d’interessi, le amicizie pericolose, le indagini penali. Del resto, occupava la scena politica e parlare con lui, se non trattare con lui, poteva apparire scelta obbligata.
Oggi invece il sistema politico di cui Berlusconi era diventato il perno è saltato, la scena è cambiata, le sue forze si sono ridotte, le sue schiere sfrangiate, il bipolarismo non c’è più. Eppure c’è chi cerca un nuovo patto del Nazareno. Il leone è invecchiato, ha incassato sonore sconfitte, si è indebolito politicamente, è stato sostituito da nuovi narcisismi a Palazzo Chigi. Ma tutto questo sembra valergli una sanatoria generale, una amnistia della memoria. Il Caimano è dimenticato, oggi Silvio è un partner strategico con cui Renzi può fare argine al male assoluto: il “populismo”. Forse vale però la pena di fare un esercizio di memoria e di ricordare chi è Silvio Berlusconi, il politico unfit all’estero, pregiudicato in Italia.
La sentenza che lo butta fuori dalla scena politica (per ora) è del 1 agosto 2013: la Corte di cassazione conferma 4 anni di pena per frode fiscale. Perché ritiene provato al di là di ogni ragionevole dubbio che Berlusconi, quando già era in politica e formalmente non più alla guida delle sue società, abbia nascosto cifre imponenti al fisco italiano e agli altri azionisti di Mediaset. La condanna riguarda “solo” 7,3 milioni di euro, occultati negli anni 2002 e 2003. Altri 6,6 milioni (del 2001) sono stati cancellati dalla prescrizione. Ma in totale, scrivono i giudici, “le maggiorazioni di costo realizzate negli anni” sono di ben “368 milioni di dollari”. Nella sentenza di primo grado, i giudici scrivono che l’imputato ha una “una naturale capacità a delinquere”. Può essere richiamato in scena, come alleato politico, un personaggio che ha nascosto al fisco 368 milioni di dollari?
Ma è lunga la storia imprenditoriale e politica di Berlusconi, che spesso coincide con la sua storia giudiziaria: 35 procedimenti penali, sette prescrizioni, una amnistia, due proscioglimenti per leggi modificate su misura in corso d’opera, quattro processi ancora in corso. Tra questi, il Ruby 3, per aver pagato testimoni affinché mentissero al processo Ruby 1 (per concussione e prostituzione minorile, nel quale è stato assolto anche grazie al cambiamento della legge sulla concussione).
Certo è stata ormai dimenticata la sentenza che condanna il suo vecchio avvocato, Cesare Previti, per aver comprato la sentenza che ha fatto diventare proprietà di Berlusconi la Mondadori, la più grande casa editrice italiana. Per lui è arrivata la prescrizione, grazie alle attenuanti generiche: ma che la sentenza sia stata comprata da Previti, per Berlusconi e con i soldi di Berlusconi, è provato, al di là di ogni ragionevole dubbio.
Per non andare troppo indietro nel tempo, della Prima Repubblica possiamo qui ricordare solo una delle mazzette che hanno fatto la storia di Tangentopoli: ma è la mazzetta più grande pagata a un singolo uomo politico, 23 miliardi di lire a Bettino Craxi, segretario del Psi e gran protettore del Silvio Berlusconi diventato padrone unico delle tv private italiane. Il processo All Iberian si è concluso con un’ennesima prescrizione (grazie alla generosità del giudice che gli ha concesso le attenuanti generiche, dimezzando così i termini), ma il finanziamento illecito dei 23 miliardi è stato riconosciuto provato. Delicato il capitolo palermitano della irresistibile ascesa dell’imprenditore diventato politico.
È in carcere per mafia Marcello Dell’Utri, braccio destro di Berlusconi e ideatore di Forza Italia, condannato nel 2014 a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, per aver fatto da mediatore tra Silvio Berlusconi e Cosa Nostra, a cui giungevano finanziamenti da Arcore. Ma già una sentenza irrevocabile del 1997 stabiliva, condannando per associazione mafiosa l’uomo d’onore Pierino Di Napoli, che certamente la Fininvest di Silvio Berlusconi versava ogni anno 200 milioni di lire a Cosa Nostra per la “protezione delle antenne tv in Sicilia”. I soldi passavano da Dell’Utri al suo amico Gaetano Cinà, che poi li consegnava a Pierino Di Napoli, il quale andava dal boss Raffaele Ganci con un sacchetto di plastica e gli diceva: “Raffaele, questi i soldi delle antenne”. Poi - dice la sentenza - Ganci si presentava da Totò Riina e gli consegnava il pacchetto: “Zu’ Totuccio, vedi che Pierino ha portato i soldi delle antenne”. (Particolare temporale: i versamenti sono continuati anche dopo il 1992, anno della strage in cui è morto Giovanni Falcone, di cui ora Berlusconi si dice tifoso. Tanto tifoso da continuare a versare 200 milioni ai suoi assassini).
Una volta arrivato ai cieli della politica, Silvio ha anche comprato un paio di senatori, nel 2008, per far cadere Romano Prodi e tornare al governo. Una lunga carriera, quella di Silvio, ieri “delinquente naturale”, oggi naturale alleato. Matteo Renzi intanto se la cava con una battuta: “Andrei a cena con Berlusconi, Salvini e D’Alema? Certo avrei delle cose da chiedere a tutti e tre, a Berlusconi del Patto del Nazareno... Ma sono a dieta”.
Giovanni Falcone, chi lo chiamava “cretino” e chi non lo votò al Csm: ecco i nemici del giudice ucciso nella strage di Capaci
Dalle offese di Carnevale agli attacchi in diretta televisiva fino all’ultima provocazione di Berlusconi. A 25 anni dalla strage di Capaci ecco i nomi di chi ha provato in tutti i modi a rendere difficile l’esistenza del magistrato palermitano. Come Lino Jannuzzi che ai tempi della Superprocura definiva lui e De Gennaro "i maggiori responsabili della débâcle dello Stato di fronte alla mafia. Una coppia la cui strategia ha approdato al più completo fallimento"
di Giuseppe Pipitone *
C’è chi non si è pentito delle offese lanciate persino quando l’avevano già assassinato, ma anche chi ha chiesto scusa. Chi ha fatto delle scelte poi rivelatesi errate e adesso porta in tribunale i giornali che le ricordano, chi non ha mai più commentato certe critiche lanciate a favor di telecamera e chi invece nega persino le sue stesse parole. Sono i nemici di Giovanni Falcone, quelli che lo hanno osteggiato in vita rendendogli impossibile l’esistenza. Una categoria che non viene mai - o quasi mai - citata nelle decine di eventi organizzati ogni anno per commemorare il giudice palermitano.
“I nemici principali di Giovanni furono proprio i suoi amici magistrati. Tanti furono gli attacchi e le sconfitte tanto che fu chiamato il giudice più trombato d’Italia e purtroppo lo è stato ed è stato lasciato solo”, ha ricordato la sorella Maria alla vigilia dell’anniversario numero 25 della strage di Capaci. Un quarto di secolo dopo quel maledetto 23 maggio del 1992, tante, tantissime cose sono cambiate: a cominciare dalla stessa Cosa nostra e dall’Antimafia, fenomeni che negli anni sono addirittura arrivati a confondersi e compenetrarsi. Un gioco di specchi di cui sono piene le cronache degli ultimi anni e che soltanto nell’isola dei paradossi poteva andare in scena.
I nemici di Falcone - Confusa tra mille riflessi è stata anche la figura stessa di Falcone: la storia del giudice più trombato d’Italia, per citare la sorella Maria, è stata trasformata - spesso dai suoi stessi detrattori - in quella perfetta del magistrato sempre appoggiato da superiori e opinionisti lungo la sua intera esistenza. Venticinque anni dopo la sua morte, il ricordo del giudice siciliano è finito annacquato da fiumi di retorica: oggi sembra quasi che Falcone sia stato in vita un uomo amato da tutti, mai attaccato o ostacolato da nessuno. E pazienza se i fatti siano andati in maniera diversa. D’altra parte la figura del magistrato palermitano viene usata oggi come una sorta di santino: un nome da citare per dare solidità a qualsiasi tipo di ragionamento o di ragionatore.
Solo per fare un esempio, rivendica di aver conosciuto Falcone persino quello che è considerato il capo dei capi di Mafia capitale. “Una volta mi accollarono un reato in Sicilia (il delitto di Piersanti Mattarella ndr), presi l’avvocato e andai da Falcone, il giudice Falcone a Palermo”, dice in un’intercettazione Massimo Carminati. “Ma Falcone lo hai conosciuto di persona te?”, gli chiedono i suoi compari, come racconta il giornalista Lirio Abbate. “Mi ha interrogato. Persona intelligentissima, si vedeva proprio, aveva l’intelligenza che che gli sprizzava dagli occhi. Era anche una persona amabile nei modi”, risponde il Cecato dando vita a un dialogo grottesco.
Sono al limite dell’imbarazzo, invece, le ultime dichiarazioni di Silvio Berlusconi.”Falcone è il simbolo di come dovrebbe essere un magistrato”, ha detto l’ex cavaliere, intervistato dal Foglio. Chi magari pensava che il magistrato simbolo per Berlusconi dovesse somigliare al corrotto Vittorio Metta è dunque rimasto deluso. Ma l’ex premier ha addirittura rilanciato: “Al pensiero di Falcone si ispirano molte delle nostre idee sulla giustizia”. Il magistrato siciliano purtroppo non può replicare. In alternativa avrebbe respinto al mittente qualsiasi connessione con la ex Cirielli, il lodo Alfano, e la depenalizzazione del falso in bilancio, solo per citare qualche “idea sulla giustizia” di Forza Italia, partito fondato da Marcello Dell’Utri, detenuto a Rebibbia dopo la condanna in via definitiva per concorso esterno. Vale la pena di ricordare che Berlusconi - tra le altre cose - è stato lungamente indagato come mandante a volto coperto delle stragi del 1992 e 1993. “So che ci sono fermenti di procure che ricominciano a guardare a fatti del ’92, ’93, ’94: follia pura. Quello che mi fa male è che c’è chi sta cospirando contro di noi“, disse invece il leader di Forza Italia da presidente del consiglio in carica, quando la procura di Caltanissetta riaprì le indagini sulla strage di via d’Amelio, depistate dal falso pentito Vincenzo Scarantino.
D’altra parte è sempre uno dei governi di Berlusconi che nel 2003 inserì un comma in Finanziaria per concedere al giudice Corrado Carnevale di essere reintegrato, recuperando gli anni di contributi pensionistici persi a causa delle inchieste a suo carico. Carnevale era stato lo storico presidente della prima corte di Cassazione che nel 1992 avrebbe dovuto giudicare le sentenze del primo Maxi processo a Cosa nostra. Per il gran numero di annullamenti decisi negli anni precedenti si era guadagnato un soprannome evocativo: l’Ammazzasentenze. Ed è per evitare di ammazzare pure gli ergastoli del primo Maxi processo che Falcone - nel frattempo approdato alla direzione degli Affari Penali del ministero della Giustizia - ottenne l’applicazione di un criterio di rotazione per i casi di mafia approdati alla Suprema corte. Carnevale non la prese bene. “I motivi per cui me ne sono andato non sono quelli di pressione di quel cretino di Falcone: perché i morti li rispetto, ma certi morti no“, diceva in una conversazione l’8 marzo del 1994, a meno di due anni dalla strage di Capaci. Un’intercettazione in cui il giudice non risparmia neanche la moglie di Falcone, Francesca Morvillo. “Io sono convinto che la mafia abbia voluto uccidere anche la moglie di Falcone che stava alla prima sezione penale della Corte d’Appello di Palermo per farle fare i processi che gli interessavano per fregare qualche mafioso“, dirà senza un minimo di compassione per la coppia appena assassinata da Cosa nostra.
Il risentimento dell’Ammazzasentenze - Quando il 10 novembre dello stesso anno gli investigatori gli danno lettura di quelle conversazioni, l’Ammazzasentenze confida: “Devo ammettere che io ho avuto del risentimento nei confronti del dottor Falcone”. Gli chiedono: “Neppure dopo la morte di Falcone si è placato quel suo grave risentimento?”. “No, devo ammettere di no”. Processato per concorso esterno, Carnevale è stato assolto in primo grado, condannato in appello a sei anni, prosciolto definitivamente in Cassazione. Dopo l’assoluzione torna a fare il giudice della corte di Cassazione, pensa di ricandidarsi come presidente della prima sezione ma lascia perdere. Poteva rimanere in servizio fino al 2015, ma decide di andare in pensione nel 2013 quando ha ormai 83 anni. Alcuni mesi dopo va a testimoniare al processo Capaci bis - quello nato dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza - e dice incredibilmente: “Non ho mai parlato di Falcone, non avevo motivo per farlo”. Ai giornalisti del Foglio e del Giornale che lo vanno a trovare a casa per intervistarlo invece racconta: “La casta a cui appartengo fin dal primo momento non mi ha visto di buon occhio. Temevano che potessi salire tanto in alto da influire sul loro lassismo. È la logica dell’invidia“.
Ha azzerato praticamente gli interventi mediatici Vincenzo Geraci, altro nome che ha un ruolo nella carriera di Giovanni Falcone, perché insieme al magistrato siciliano era presente ai primi interrogatori di Tommaso Buscetta. Anni dopo Geraci è tra i consiglieri del Csm che la sera del 19 gennaio del 1988 bocciano la nomina di Falcone a capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Era lo stesso posto ricoperto da Antonino Caponnetto, l’inventore del pool antimafia: sembrava scontato che la successione toccasse a Falcone. “Se da un lato, infatti, le notorie doti di Falcone e i rapporti personali e professionali che coltivo con lui mi indurrebbero a preferirlo nella scelta, a ciò mi è però dì ostacolo la personalità di Meli, cui l’altissimo e silenzioso senso del dovere, costò in tempi drammatici la deportazione nei campi di concentramento della Polonia e della Germania, dove egli rimase prigioniero per due anni. In tali condizioni vi chiedo pertanto di comprendere con quanta sofferenza e umiltà mi sento portato ad esprimere il mio voto di favore”, dirà Geraci annunciando il suo sostegno alla candidatura dell’anziano Antonino Meli: di mafia sapeva poco o nulla ma era stato internato dai tedeschi. Venne nominato consigliere istruttore con 14 voti a favore, 10 contrari (tra i quali Gian Carlo Caselli) e 5 astenuti.
“Un giuda ci ha traditi” - “Quando Giovanni Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il Csm, con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Csm ci fece questo regalo. Gli preferì Antonino Meli”, si sfogherà Paolo Borsellino, nel suo ultimo intervento pubblico il 25 giugno del 1992. Borsellino non indicherà mai chi fosse quel Giuda: venne ucciso, infatti, meno di tre settimane dopo quell’intervento. Molti anni dopo, quindi, quando il giornalista Rino Giacalone tirerà in ballo Geraci, quest’ultimo lo querelerà per diffamazione. Oggi Geraci è procuratore generale aggiunto della Cassazione: in pratica è il vice di Pasquale Ciccolo, titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati.
Il Corvo senza nome - Sempre per rimanere nel campo delle toghe non si può non citare il famoso caso del Corvo di Palermo, l’anonimo autore di lettere in cui si accusava Falcone di avere gestito illegalmente il pentito Totuccio Contorno: addirittura di averlo chiamato a Palermo per mandarlo a caccia dei boss del clan dei corleonesi. Accusato di essere il Corvo fu il giudice Alberto Di Pisa, condannato in primo grado a un anno a sei mesi e poi assolto definitivamente nel 1993. L’identità del Corvo non sarà mai individuata mentre tra i detrattori di Falcone si possono annoverare anche personaggi estranei alla magistratura. A cominciare magari da semplici e normali privati cittadini.
“Spostate i magistrati in periferia” - La Palermo in cui ha vissuto Giovanni Falcone era molto diversa dalla Palermo che si è svegliata dopo quello che i mafiosi battezzarono come l’Attentatuni. Un esempio? Una lettera pubblicata dal Giornale di Sicilia negli anni ’80. A scriverla è una donna che abita nelle vicinanze del condominio in cui Falcone fa ritorno ogni sera, blindato dalle auto della scorta. Il motivo della missiva? “Regolarmente tutti i giorni, al mattino, nel primissimo pomeriggio e la sera, vengo letteralmente assillata da continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora mi domando: è mai possibile che non si possa eventualmente riposare un poco nell’intervallo del lavoro? O quanto meno seguire un programma televisivo in pace?”; scriveva la vicina di casa del giudice che poi lanciava un invito: “Perché i magistrati non si trasferiscono in villette alla periferia della città, in modo tale che sia tutelata la tranquillità di noi cittadini lavoratori e l’incolumità di noi tutti, che nel caso di un attentato siamo regolarmente coinvolti senza ragione”. Parole che fanno un certo effetto. Soprattutto oggi che l’albero Falcone - nei pressi dell’abitazione del magistrato - sarà invaso da persone arrivate a Palermo da tutta Italia.
L’attacco in diretta tv - Le cose per Falcone non andavano meglio quando accettava di partecipare a qualche trasmissione televisiva. Nota, anzi notissima, è la puntata che Michele Santoro e Maurizio Costanzo dedicano in tandem alla memoria dell’imprenditore Libero Grassi, ucciso nell’agosto del 1991. In studio tra gli ospiti c’è il giudice palermitano, attaccato più volte in quell’occasione da personaggi che avranno storie future completamente diverse. “Falcone ha dichiarato che è notorio che l’onorevole Salvo Lima utilizzava la macchina degli esattori Salvo”, è l’intervento - in collegamento da Palermo - di Leoluca Orlando. “C’era bisogno che lo dicessi io perché si sapesse dei rapporti tra i Salvo e i Lima”, risponde Falcone, raccogliendo la replica dell’allora leader della Rete. “Ecco un’ulteriore conferma“, dice in diretta televisiva Orlando, che in pratica accusava Falcone di non aver perseguito volontariamente l’europarlamentare della Dc. Quelle accuse a Falcone saranno rinfacciata per anni al primo cittadino palermitano, il quale chiederà poi scusa per le sue parole.
Quella trasmissione, però, è passata alla storia anche per l’intervento di Totò Cuffaro. “Ho assistito ad una volgare aggressione alla classe migliore che abbia la Democrazia Cristiana in Sicilia. Il giornalismo mafioso che è stato fatto stasera fa più male di dieci anni delitti”, è una parte dello sfogo del futuro governatore della Sicilia, poi condannato in via definitiva per favoreggiamento alla mafia. Per il video di
quell’intervento - intitolato su youtube “Totò Cuffaro aggredisce Giovanni Falcone” - l’ex presidente siciliano ha querelato Antonio Di Pietro, che lo aveva postato sul suo blog: il tribunale gli ha dato ragione.
“Giovanni vattene da Roma” - E se oggi tutti concordano nel valutare come un salto di qualità nella lotta alla mafia il passaggio di Falcone a Roma per dirigere gli Affari Penali del ministero di Grazia e Giustizia, così non era in quel 1992. “Secondo me Falcone farebbe bene ad andarsene il più presto possibile dai palazzi ministeriali, perché l’aria non gli fa bene proprio“, disse l’avvocato Alfredo Galasso nella stessa puntata del Maurizio Costanzo Show, nota per l’esordio televisivo di Cuffaro. “Questo mi sembra scarso senso dello Stato. Al ministero di Grazia e Giustizia ci sono posti espressamente previsti per i magistrati”, fu la replica di Falcone, attaccato spesso per il suo trasferimento a Roma anche in altre salotti televisivi. “Noi abbiamo imparato a conoscerla quando viveva barricato laggiù e forse l’abbiamo un po’ mitizzata. Adesso che sta al ministero e che scrive editoriali sulla Stampa, le sue posizioni sembrano più morbide, più sfumate. Non vorrei dire che ci ha un po’ deluso negli ultimi tempi ma sicuramente è cambiato: lei lo sa? Ne è consapevole?”, gli chiede il 12 gennaio del 1992 Corrado Augias durante una puntata di Telefono Giallo. Una trasmissione che passa alla storia soprattutto per la domanda posta da una componente del pubblico. “Lei - chiederà una donna a Falcone - dice nel suo libro che in Sicilia si muore perché si è soli. Giacché lei fortunatamente è ancora con noi: chi la protegge?” La reazione del magistrato è amara: “Questo vuol dire che per essere credibili bisogna essere ammazzati?”
Critiche asprissime arriveranno a Falcone nello stesso periodo anche sulla stampa. È il momento in cui il magistrato siciliano è candidato a dirigere la cosiddetta Superprocura (cioè la procura nazionale antimafia) e il poliziotto Gianni De Gennaro la Dia. Lino Jannuzzi, però, sul Giornale di Napoli li indicherà come i “maggiori responsabili della debacle dello Stato di fronte alla mafia... una coppia la cui strategia, passati i primi momenti di ubriacatura per il pentitismo e i maxi-processi, ha approdato al più completo fallimento. Da oggi, o da domani, dovremo guardarci da due Cosa Nostra, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma. E sarà prudente tenere a portata di mano il passaporto”.
Jannuzzi in seguito sarà senatore di Forza Italia per ben due legislature. In precedenza, tra l’altro - lo ricorda Caselli sul Fatto Quotidiano di qualche giorno fa - erano stati altri due futuri parlamentari di centrodestra ad attaccare Falcone dalle colonne del Giornale e del Giornale di Sicilia: Ombretta Fumagalli Carulli e Guido Lo Porto. Nei loro articoli il maxi-processo viene definito un “un processo-contenitore abnorme, un meccanismo spacciato come giuridico”, mentre i procedimenti genericamente contro Cosa nostra vengono bollati come “messinscene dimostrative, destinate a polverizzarsi sotto i colpi di quel po’ che è rimasto dello Stato di diritto”, “montature” allestite dai “registi del grande spettacolo della lotta alla mafia”.
“Un mediocre pubblicista” - Gli opinionisti non saranno teneri neanche quando Falcone darà alle stampe un libro - Cose di Cosa nostra - scritto alla fine del 1991 insieme a Marcelle Padovani. “Scorrendo il libro-intervista di Falcone, “Cose di cosa nostra”, s’avverte (anche per il concorso di una intervistatrice adorante) proprio questo: l’eruzione di una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi”, scriverà Sandro Viola in un’editoriale durissimo pubblicato da Repubblica il 9 gennaio del 1992. “A Falcone non saranno necessarie, ma a me servirebbero, invece, due o tre particolari illuminazioni: così da capire, o avvicinarmi a capire, come mai un valoroso magistrato desideri essere un mediocre pubblicista“, sarà la chiusa di quell’articolo, che oggi è quasi introvabile online. Come i nemici di Falcone: attivissimi quando il giudice era vivo, evaporati dopo il botto di Capaci. E in qualche caso diventati amici intimi del magistrato assassinato. Ma - ovviamente - soltanto post mortem.
*Il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
IL POPULISMO DELLA POST-VERITA’, EPIMENIDE, E LA LEZIONE ITALO-AMERICANA. In memoria di Italo Calvino***
Siamo nella post-verità da sempre, a quanto pare!
SIAMO PROPRIO CONCIATI MALE, MALISSIMO!
Dopo ventanni di berlusconismo stiamo ancora a commentare i giochini di mentitori istituzionalizzati. E a riflettere sulle “spine del C17 - spine nel fianco di un pingue potere” (https://www.alfabeta2.it/2017/01/21/c17-spine-nel-fianco-un-pingue-potere/).
DOPO IL 1917, E DOPO IL 1922, ANCORA NON SAPPIAMO NULLA DELLA “MORTE NERA” (cfr.: Massimo Palma,”Waler Benjamin, l’inquilino in nero; cfr.: https://www.alfabeta2.it/2017/01/11/walter-benjamin-linquilino-nero/) E DELLA MISTICA FASCISTA (cfr.: mia nota a “Infanzia salentina”, pagine del lavoro di Nicola Fanizza, “Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini” - https://www.nazioneindiana.com/2017/01/21/infanzia-salentina/).
Tanto tempo, in un’isola del Mediterraneo, un tale chiamato EPIMENIDE (con questo nome è rimasto nella storia, come persona degna di essere ricordata per la sopravvivenza della stessa isola), indignato contro i suoi stessi concittadini (che evidentemente lo accusavano di chissà quali malefatte), fece il primo passo nella terra della post-verità, gridò infuriato: “Tutti i cretesi mentono”! Se molti risero, altrettanto molti lo applaudirono.
Qualche anno dopo, sempre in quell’isola, ci furono le elezioni: tra i partiti (quello che la storia non ci ha tramandato) comparve uno strano partito, con il nome “Forza Creta”, e il leader era proprio il vecchio EPIMENIDE!
CONQUISTATO IL POTERE LEGALMENTE, IL SUO GRIDO AI CRETESI CHE AVEVANO RISO DELLA SUA “BATTUTA” FU QUASI SIMILE A QUELLO DI BRENNO CONTRO I ROMANI SORPRESI NEL SONNO, ANZI, NEL SONNAMBULISMO: “GUAI AI VINTI”!
SOLO CHE A ROMA CI FURONO LE OCHE CHE SVEGLIARONO UN POCO TUTTI E I GALLI FURONO CACCIATI, MA A CRETA ALLA FINE NESSUNO PIU’ OSO’ RIDERE E ... “TUTTI I CRETESI MENTONO” ANCORA!!! A MEMORIA (E A VERGOGNA) ETERNA.
Federico La Sala
LA ’NAZIONALIZZAZIONE’ DEL MENTITORE
Il paradosso della Costituzione
Difesa oggi dagli antipartito, 70 anni fa nel mirino degli “apolitici” dell’Uomo Qualunque. Bobbio li definiva il “pantano in cui finirà per impaludarsi il rinnovamento democratico”
di Giovanni De Luna (La Stampa, 09.12.2016)
Il paradosso del referendum del 4 dicembre è questo: la Costituzione del 1948 è stata vittoriosamente difesa dalle forze politiche che ne hanno sempre criticato il carattere «comunista» (Berlusconi e la Lega) o denunciato la fissità «talmudica» (così Grillo, nel 2011 sul suo blog). Il paradosso è anche più evidente se lo si confronta con le polemiche che - tra il 1945 e il 1947 - accompagnarono il varo della Carta Costituzionale.
Allora, il passaggio dalla dittatura alla democrazia fu accolto con sospetto e diffidenza da una larga fetta dell’opinione pubblica, abituata da venti anni di fascismo a considerare la politica una pratica «inconcludente» e incline a guardare agli uomini dei partiti con la diJffidenza dovuta a chi svolgeva «non un’attività disinteressata al servizio della collettività e della nazione, cercando invece di procurare potere, ricchezza, privilegi a sé stesso, alla propria famiglia, fazione, clientela elettorale». Queste frasi - tratte da uno dei tanti rapporti dei carabinieri che allora funzionavano come oggi i sondaggi di opinione - fotografavano un diffuso sentimento «antipartito» che si tradusse negli impetuosi successi elettorali dell’Uomo Qualunque.
La nuova Repubblica
Anche tra le file del Partito d’Azione - al quale oggi viene attribuita la paternità della Costituzione - all’inizio la forma partito era vista con sospetto. La nuova Repubblica che nasceva dalla Resistenza avrebbe dovuto puntare direttamente sugli uomini (con un rinnovamento della classe dirigente) e sulle istituzioni (con un allargamento della partecipazione politica fondata sulle autonomie e sull’autogoverno). Lo scriveva un giovane Norberto Bobbio (non aveva ancora 40 anni): «Una responsabilità pubblica ciascuno può assumerla dentro o fuori dei partiti, secondo le sue capacità e le sue tendenze, e magari meglio fuori che dentro».
Ma proprio i suoi articoli di allora sul quotidiano Giustizia e Libertà ci consentono oggi di capire che intorno alla Costituzione la partita si giocò essenzialmente tra la politica e l’antipolitica, meglio - come si diceva a quel tempo - tra gli «apolitici» e gli uomini dei partiti. Il qualunquismo nascondeva dietro la maschera della «apoliticità» e dell’«indipendenza» una lotta senza quartiere ai partiti del Cln, giudicati come il lascito più significativo e più pericoloso della Resistenza. BJobbio lo diceva esplicitamente: «gli indipendenti [...] non sono né indipendenti, né apolitici. Sono politici, ecco tutto, di una politica che non è quella dei comitati di liberazione o del fronte della Resistenza».
«Vizi tradizionali» italiani
L’«apoliticismo» (per Bobbio «l’indifferenza o addirittura l’irrisione per ogni pubblica attività in nome dell’imperioso dovere di lavorare senza ambizioni né distrazioni per la famiglia, per i figli e soprattutto per sé») si traduceva in una critica alla «politica di partito» che, scriveva, «lusinga e quindi rafforza inveterate abitudini, vizi tradizionali del popolo italiano, incoraggia gli ignavi, fa insuperbire gli ottusi e gli inerti [...], offre infine a tutti gli apolitici un motivo per allearsi, facendo di una folla di isolati una massa organica, se non organizzata, di persone che la pensano allo stesso modo e hanno di fronte lo stesso nemico [...] generando di nuovo quel pantano in cui finirà per impaludarsi lo sforzo di rinnovamento democratico dello Stato italiano».
Per gli uomini della Resistenza il nemico era quindi diventato quella «sorta di alleanza dei senza partito», «scettica di quello scetticismo che è proprio delle classi medie italiane», alimentata «da un dissenso di gusti, un disaccordo di stati d’animo, uno scontro di umori, una gara di orgogli, dai quali null’altro può derivare che invelenimento di passioni, impacci all’azione ricostruttrice».
La Carta strumentalizzata
Sembra che Bobbio parli proprio di quell’estremismo di centro che caratterizza oggi una parte della società italiana e un movimento come quello di Grillo. Allora fu un passaggio decisivo per l’approdo a una sua convinta adesione alla «democrazia dei partiti», frutto di una riflessione approfondita su un «modello», quello inglese, che, partendo dai capisaldi fondamentali delle origini (la divisione dei tre poteri, la monarchia costituzionale e il governo parlamentare), era stato in grado di rinnovarsi, spostando progressivamente verso il basso, verso il corpo elettorale, rappresentato e diretto dai partiti, il baricentro del sistema politico.
Le cifre del referendum del 4 dicembre ci dicono come l’elettorato dei movimenti più tipicamente antipartito (Cinque Stelle e Lega) abbia votato massicciamente per il No (l’80%), affiancato da una ristretta fascia di elettori appartenenti al Pd (23%) o alle varie sigle accampate alla sua sinistra. Essere salvata da quelli che volevano affossarla, adesso come nel 1948: da questo duplice paradosso cronologico la Costituzione esce come schiantata, degradata a puro pretesto, con una torsione innaturale che la espone, in futuro, a ogni tipo di uso strumentale.
Il confronto con l’esito del referendum costituzionale del 2006
di Salvatore Settis (la Repubblica, 07.12.2016)
IL DATO più rilevante nei risultati del 4 dicembre emerge dal confronto con l’esito del referendum costituzionale del 2006. In ambo i casi il voto popolare ha respinto una riforma costituzionale assai invasiva (54 articoli modificati nel 2006, 47 nel 2016), approvata a maggioranza semplice da una coalizione di governo che ostentava sicurezza per bocca di un premier (allora Berlusconi, ora Renzi) in cerca di un’investitura plebiscitaria.
Le due riforme abortite non sono identiche, ma vicine in aspetti cruciali (la fiducia riservata alla sola Camera e il nebbioso ruolo del Senato). Se guardiamo ai numeri, il confronto è impressionante: nel 2006 i No furono il 61,29%, nel 2016 il 59,25; quanto ai Sì, si passa dal 38,71% (2006) al 40,05 (2016). Un rapporto di forze simile, che diventa più significativo se pensiamo che l’affluenza 2016 (68,48%) è molto superiore a quella del 2006 (52,46%): allora votarono 26 milioni di elettori, oggi ben 32 milioni, in controtendenza rispetto al crescente astensionismo delle Europee 2014 e delle Regionali dello stesso anno.
Eppure, dal 2006 ad oggi il paesaggio politico è completamente cambiato, per l’ascesa dei 5Stelle, la frammentazione della destra berlusconiana, le fratture di quella che fu la sinistra. Più affluenza oggi di dieci anni fa, un cambio di generazioni, con milioni di giovani che votavano per la prima volta a un referendum costituzionale: eppure, nonostante i mutamenti di scenario, un risultato sostanzialmente identico, con un No intorno al 60%.
Una notevole prova di stabilità di quel “partito della Costituzione” che rifiuta modifiche così estese e confuse. Esso è per sua natura un “partito” trasversale, come lo fu la maggioranza che varò la Costituzione, e che andava da Croce a De Gasperi, Nenni, Calamandrei, Togliatti. Il messaggio per i professionisti della politica è chiaro: non si possono, non si devono fare mai più riforme così estese e con il piccolo margine di una maggioranza di parte.
Nel 2006 e nel 2016, due governi diversissimi hanno cercato di ripetere il discutibile “miracolo” del referendum 2001, quando la riforma del Titolo V (17 articoli) fu approvata con il 64% di Sì contro un No al 36%: ma allora l’affluenza si era fermata al 34% (16 milioni di elettori). Si è visto in seguito che quella riforma, varata dalle Camere con esiguo margine, era mal fatta; e si è capito che astenersi in un referendum costituzionale vuol dire rinunciare alla sovranità popolare, principio supremo dell’articolo 1 della Costituzione.
Per evitare il ripetersi (sarebbe la terza volta) di ogni tentativo di forzare la mano cambiando la Costituzione con esigue maggioranze, la miglior medicina è tornare a un disegno di riforma costituzionale (nr. 2115), firmato nel 1995 da Sergio Mattarella, Giorgio Napolitano, Leopoldo Elia, Franco Bassanini. Esso prevedeva di modificare l’art. 138 Cost. nel senso che ogni riforma della Costituzione debba sempre essere «approvata da ciascuna Camera a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti», e ciò senza rinunciare alla possibilità di ricorrere al referendum popolare.
Questo l’art. 4; ma anche gli altri di quella proposta troppo frettolosamente archiviata sarebbero da rilanciare. L’art. 2 prevedeva che la maggioranza necessaria per eleggere il Presidente della Repubblica debba sempre essere dei due terzi dell’assemblea (l’opposto della defunta proposta Renzi-Boschi, che avrebbe reso possibile l’elezione da parte dei tre quinti dei votanti, senza computare assenti e astenuti); e che qualora l’assemblea non riesca ad eleggere il Capo dello Stato «le funzioni di Presidente della Repubblica sono provvisoriamente assunte dal Presidente della Corte Costituzionale». L’art. 3, prevedendo situazioni di stallo nell’elezione da parte del Parlamento dei membri della Consulta di sua spettanza, prevedeva che dopo tre mesi dalla cessazione di un giudice, se il Parlamento non riesce a eleggere il successore «vi provvede la Corte Costituzionale stessa, a maggioranza assoluta dei suoi componenti». Previsione lungimirante: è fresco il ricordo del lungo stallo delle nomine alla Corte, finché nel dicembre 2015 si riuscì a nominare tre giudici dopo ben 30 tentativi falliti.
In quelle proposte, come si vede, la Corte Costituzionale aveva un ruolo centrale, e il rafforzamento delle istituzioni passava attraverso un innalzamento delle maggioranze necessarie per passaggi istituzionali cruciali, come le riforme costituzionali o l’elezione del Capo dello Stato. In un momento di incertezza come quello che attraversiamo, quella lezione dovrebbe tornare di attualità, anche se molti firmatari di quella legge sembrano essersene dimenticati.
La riforma Renzi-Boschi è stata bocciata, ma fra le sue pesanti eredità resta una cattiva legge elettorale, l’Italicum, che la Consulta potrebbe condannare tra poche settimane, e che comunque vale solo per la Camera. Compito urgente del nuovo governo, chiunque lo presieda, sarà dunque produrre al più presto una legge elettorale finalmente decorosa, e compatibile (si spera) con riforme costituzionali come quelle sopra citate. Le prossime elezioni politiche, anticipate o no, dovranno portare alle Camere deputati e senatori liberamente eletti dai cittadini e non nominati nel retrobottega dei partiti.
Il referendum da cui veniamo è stato un grande banco di prova per la democrazia: ma ora è il momento di mostrare, per i cittadini del No e per quelli del Sì, che sappiamo essere “popolo” senza essere “populisti”. Che per la maggioranza degli italiani la definizione di “popolo”, della sua sovranità e dei suoi (dei nostri) diritti coincide con quella della Costituzione, la sola che abbiamo. Il “ritorno alla Costituzione” che ha segnato i mesi scorsi e che ha portato all’esito del referendum mostra che è possibile.
Smuraglia: è un No per attuare la Costituzione
"Al referendum non hanno vinto i partiti", dice il presidente dell’Anpi. "Leggere la vittoria referendaria del 4 dicembre solo sul terreno del confronto politico è un modo per ridimensionare il risultato popolare"
intervista di Andrea Fabozzi (il manifesto, 7.12.2016)
Carlo Smuraglia, presidente dell’Associazione nazionale partigiani, si aspettava questo successo del No?
Onestamente no. Immaginavo il paese spaccato a metà e speravo in una vittoria con il minimo distacco. Avevo indicazioni molto positive dalle nostre manifestazioni, in particolare l’ultima a Roma al teatro Brancaccio. Ma l’esperienza mi insegna a non fidarmi di quello che si vede nelle piazze e nei teatri, perché è la gente silenziosa che decide il risultato. E c’era da temere la propaganda del governo, le promesse, le proposte e le minacce del presidente del Consiglio, la complicità della stampa con il Sì...
E invece.
Mi ha sorpreso felicemente la grande partecipazione. Avevamo captato questo desiderio di capire e di partecipare, ma forse l’abbiamo persino sottovalutato. Evidentemente i cittadini che si sono informati sulla riforma, l’hanno compresa bene e giudicata male, sono stati la maggioranza. Anche se questa parte ragionata del No, adesso, mi pare messa del tutto tra parentesi, rimossa.
Non le piace come viene raccontata la vittoria del No?
Mi sorprende che tra le tante ragioni della sconfitta del Sì, la più elementare - e cioè che la riforma è stata bocciata nel merito - sia finita nell’ombra. Tutte le analisi sono sul terreno politico, tornano a farsi sentire come vincitori partiti che in campagna elettorale avevamo visto poco. Io credo che leggere il 4 dicembre esclusivamente sul terreno del confronto tra partiti sia un modo per ridimensionare lo straordinario risultato popolare.
Lei invece ci legge il segnale di una speranza? Si può ricominciare a parlare di attuazione della Costituzione?
Noi ne parliamo da sempre e lo abbiamo fatto anche in questa campagna elettorale. Alla fine dei miei incontri c’era sempre chi mi chiedeva “ma se vince il No cosa facciamo?”. E io rispondevo “Prima brindiamo, poi diciamo che invece di cambiarla la Costituzione bisogna attuarla”. A quel punto arrivava l’applauso più forte. Perché tutti vedono l’enorme contrasto che c’è tra i principi fondamentali della Carta e la realtà. Non voglio illudermi, ma credo che dentro questo 60% di No ci sia anche questa richiesta di attuazione.
Insieme a un voto contro il governo, non le pare?
Non per quanto ci ha riguardato. L’ho detto anche a Renzi nel nostro confronto di settembre a Bologna. Non ci è mai interessata la sorte del governo, volevamo solo difendere la Costituzione da uno strappo. Mi pare che lei non sia rimasto contento del modo in cui è stato raccontato quel confronto alla festa dell’Unità. Non sono rimasto contento che sia stato oscurato. Evidentemente non si era concluso come giornali e tv si auguravano, con la vittoria di Renzi.
Secondo lei, adesso, come si viene fuori dalle dimissioni del presidente del Consiglio?
La richiesta di votare presto mi pare infondata. Mancano molti presupposti, innanzitutto la legge elettorale: ne abbiamo due diverse per camera e senato e la prima è attesa al giudizio della Consulta. In più tutti i partiti dicono di volerla cambiare. La corsa alle urne è ingiustificata, il presidente della Repubblica, anche di fronte alle dimissioni di Renzi, ha molti strumenti prima di accettare le elezioni anticipate, provvederà con saggezza.
Questo No mette fine ai tentativi di riscrivere la Costituzione, almeno per un po’?
La Costituzione non è mai messa sufficientemente al riparo e bisogna stare sempre in guardia. Ma un No di questa entità ha anche un valore di ammonimento molto forte, si è capito che la Costituzione non è una legge ordinaria e non si può modificarla a cuor leggero, ma solo quando ce n’è effettivamente bisogno. E con il massimo di consenso.
In campagna elettorale si è parlato molto delle divisioni dell’Anpi. Vicenda chiusa? Lascerà qualche segno tra voi?
I segni sono stati più esterni che interni. Ogni piccola cosa è stata ingigantita e presa per buona, noi non abbiamo mai allontanato né sanzionato nessuno. Abbiamo solo chiesto ai nostri iscritti di non fare campagna per il Sì nel nome dell’Anpi, visto che la nostra posizione era opposta. La verità è che ha dato molto fastidio che l’Anpi si fosse schierata per il No. La nostra associazione è portatrice di valori in cui tutti devono riconoscersi, e dunque a molti abbiamo fatto fare almeno un pensierino.
L’imprevisto
di Ida Dominijanni ( Internazionale, il 5/12/2016)
L’imprevisto è il sale della politica: quello che all’improvviso la costringe a fare il salto da ciò che c’è a ciò che può essere, ridandole per ciò stesso vita e senso. Diciotto e passa punti di scarto fra il no e il sì alla riforma governativa della Costituzione non se li aspettava nessuno, né fra chi aveva scelto il sì né fra chi aveva scelto il no. Che questa sorpresa sia la molla per un salto di immaginazione politica è l’augurio del day after che dobbiamo farci tutti, rispondendo con la fiducia nella democrazia a chi insiste tristemente a vederci un salto nel buio.
Bisogna andare con la memoria molto indietro nel tempo, forse ai referendum sul divorzio e l’aborto, per trovare dei precedenti a un no di tale chiarezza e tale potenziale forza propulsiva. Inutile e nevrotico, invece, leggerlo con in mano il pallottoliere delle sigle di partito, delle minoranze di partito, dei transfughi di partito, dei “fronti” coerenti o incoerenti. E’ un no di popolo che ha respinto lo stravolgimento della costituzione, la retorica da cui è stato accompagnato, il metodo con cui è stato tentato, e non ultimo il coro dell’establishment economico e mediatico che l’ha sostenuto.
Soprattutto, è un no che respinge con la pratica della partecipazione una riforma tutta tarata sulla fine della partecipazione. E con il peso di una eclatante maggioranza il tentativo di riscrivere il patto fondamentale in base alle convenienze di una minoranza di governo.
Inutile anche infierire sugli errori, madornali, di Matteo Renzi: la sua arroganza, il suo gusto incosciente per le scommesse, la sua spregiudicatezza nell’elargizione delle mance, la sua bandierina della rottamazione e il suo arroccamento fra i ragazzi del muretto della Leopolda, il suo uso fuor di misura (e controproducente) dei media. Quando si gioca così, a vincere o a perdere tutto, prima o poi si perde tutto: è la regola del gioco d’azzardo, che troppi, anche a sinistra, hanno scambiato per coraggioso decisionismo prendendo lucciole per lanterne.
Meglio interrogarsi sugli errori dei renziani di complemento, ben piazzati nei giornali, nei telegiornali e nei talk show, che per mesi hanno rilanciato lo storytelling del governo preconizzando l’apocalisse in caso di vittoria del no, agitando lo spettro della Brexit a ogni stormir di fronda di un’opposizione sociale prima che politica, regalando l’arco del no al populismo di destra e cancellandone la componente, forte e decisiva, di sinistra.
Sarebbe bastato portare le telecamere una sola volta in uno dei mille dibattiti sul territorio che hanno animato la vera campagna referendaria per capire che quest’ultima stava funzionando come un romanzo di formazione politica per migliaia di giovani, che giovani e meno giovani considerano la Carta del ‘48 un argine minimo contro la devastazione neoliberale e non un cane morto, che attorno alla critica della riforma si stava ritrovando a sinistra il filo di una cultura politica persa per strada. Ma le telecamere vanno solo per palazzi, politici e finanziari, e il risultato è stata la fantomatica “rimonta del sì” inventata per tutta l’ultima settimana: un altro boomerang.
Dodici ore dopo la chiacchiera mediatica è già tutta concentrata sulla composizione del nuovo governo, quando è lapalissiano che questo è il problema secondario, quello primario essendo la quadratura da trovare fra il bisogno di elezioni politiche e la necessità di indirle con una legge elettorale adeguata a rappresentare i cambiamenti intervenuti nella società e nel sistema politico dopo la fine del ventennio bipolare berlusconiano.
Anche un cieco vede che il voto di ieri chiude il quinquennio nefasto iniziato nel novembre 2011, quando si mise il tappo del governo tecnico sulla fine di Berlusconi sacrificando il rito democratico del suffragio sull’altare dello spread. Errore fatale, che tuttora paghiamo. La storia non si fa con i se, ma se allora quell’errore non fosse stato fatto ci saremmo evitati la stagione penitenziale e depressiva dell’austerity, l’exploit conseguente dei 5 Stelle, l’implosione del Pd bersaniano, un governo insediatosi al grido di “Enrico stai sereno” e benedetto dall’alto come “governo costituente”. C’è un solo sconfitto più di Matteo Renzi dal voto di ieri, e si chiama Giorgio Napolitano.
Caro Scalfari, con il Sì passa un’espropriazione di sovranità
di Gustavo Zagrebelsky *
Caro Eugenio Scalfari, ieri mi hai chiamato in causa due volte a proposito del mio orientamento pro-No sul referendum prossimo venturo e, la seconda volta, invitandomi a ripensarci e a passare dalla parte del Sì. La "pessima compagnia", in cui tu dici ch’io mi trovo, dovrebbe indurmi a farlo, anche se, aggiungi, sai che non lo farò. Non dici: "non so se lo farà", ma "so che non lo farà", con il che sottintendi di avere a che fare con uno dalla dura cervice.
I discorsi "sul merito" della riforma, negli ultimi giorni, hanno lasciato il posto a quelli sulla "pessima compagnia". Il merito della riforma, anche a molti di coloro che diconono di votare Sì, ultimo Romano Prodi, appare alquanto disgustoso. Sarebbero piuttosto i cattivi compagni l’argomento principale, argomento che ciascuno dei due fronti ritiene di avere buoni motivi per ritorcere contro l’altro.
Un topos machiavellico è che in politica il fine giustifica i mezzi, cioè che per un buon proposito si può stare anche dalla stessa parte del diavolo. Non è questo. Quel che a me pare è che l’argomento della cattiva compagnia avrebbe valore solo se si credesse che i due schieramenti referendari debbano essere la prefigurazione d’una futura formula di governo del nostro Paese. Non è così. La Costituzione è una cosa, la politica d’ogni giorno un’altra. Si può concordare costituzionalmente e poi confliggere politicamente. Se un larghissimo schieramento di forze politiche eterogenee concorda sulla Costituzione, come avvenne nel ’46-’47, è buona cosa. La lotta politica, poi, è altra cosa e la Costituzione così largamente condivisa alla sua origine valse ad addomesticarla, cioè per l’appunto a costituzionalizzarla. In breve: l’argomento delle cattive compagnie, quale che sia la parte che lo usa, si basa sull’equivoco di confondere la Costituzione con la politica d’ogni giorno.
Vengo, caro Scalfari, a quella che tu vedi come un’ostinazione. Mi aiuta il riferimento che tu stesso fai a Ventotene e al suo "Manifesto", così spesso celebrati a parole e perfino strumentalizzati, come in quella recente grottesca rappresentazione dei tre capi di governo sulla tolda della nave da guerra al largo dell’isola che si scambiano vuote parole e inutili abbracci, lo scorso 22 agosto. C’è nella nostra Costituzione, nella sua prima parte che tutti omaggiano e dicono di non voler toccare, un articolo che, forse, tra tutti è il più ignorato ed è uno dei più importanti, l’articolo 11. Dice che l’Italia consente limitazioni alla propria sovranità quando - solo quando - siano necessarie ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Lo spirito di Ventotene soffia in queste parole. Guardiamo che cosa è successo. Ci pare che pace e giustizia siano i caratteri del nostro tempo? Io vedo il contrario. Per promuovere l’una e l’altra occorre la politica, e a me pare di vedere che la rete dei condizionamenti in cui anche l’Italia è caduta impedisce proprio questo, a vantaggio d’interessi finanziario-speculativi che tutto hanno in mente, meno che la pace e la giustizia. Guardo certi sostegni alla riforma che provengono da soggetti che non sanno nemmeno che cosa sia il bicameralismo perfetto, il senato delle autonomie, la legislazione a data certa, ecc. eppure si sbracciano a favore della "stabilità". Che cosa significhi stabilità, lo vediamo tutti i giorni: perdurante conformità alle loro aspettative, a pena delle "destabilizzazioni" - chiamiamoli ricatti - che proprio da loro provengono.
Proprio questo è il punto essenziale, al di là del pessimo tessuto normativo che ci viene proposto che, per me, sarebbe di per sé più che sufficiente per votare No. La posta in gioco è grande, molto più grande dei 47 articoli da modificare, e ciò spiega l’enorme, altrimenti sproporzionato spiegamento propagandistico messo in campo da mesi da parte dei fautori del Sì. L’alternativa, per me, è tra subire un’imposizione e un’espropriazione di sovranità a favore d’un governo che ne uscirebbe come il pulcino sotto le ali della chioccia, e affermare l’autonomia del nostro Paese, non per contestare l’apertura all’Europa e alle altre forme di cooperazione internazionale, ma al contrario per ricominciare con le nostre forze, secondo lo spirito della Costituzione. Si dirà: ma ciò esigerebbe una politica conforme e la politica ha bisogno di forze politiche. E dove sono? Sono da costruire, lo ammetto. Ma il No al referendum aprirà una sfida e in ogni sfida c’è un rischio; ma il Sì non l’aprirà nemmeno. Consoliderà soltanto uno stato di subalternità.
Questa, in sintesi, è la ragione per cui io preferisco il No al Sì e perché considero il No innovativo e il Sì conservativo.
Ti ringrazio dell’attenzione. A cose fatte avremo tempo e modo
Raniero La Valle risponde a Michele Serra: Votare “sì” non è di sinistra
di Raniero La Valle *
Sulla “Repubblica” di domenica scorsa Michele Serra ha ripreso il mio intervento pubblicato su MicroMega dal titolo: “Il vero quesito: approvate il superamento della democrazia parlamentare?”. Egli si mostra d’accordo con la mia “spiegazione” secondo cui la Costituzione renziana è il punto d’arrivo di una restaurazione consistente nel trasferire la sovranità dal popolo ai mercati, concetto da lui definito “folgorante” per quanto è vero. Ma poiché ciò si sarebbe già realizzato da tempo, segnando una sconfitta della sinistra, nella quale lo stesso Serra si annovera, i trenta-quarantenni di oggi non farebbero che prenderne atto.
Secondo questa tesi la riforma Boschi-Renzi non farebbe che tradurre in norme questa nuova realtà, e questa sarebbe la ragione di votare “sì” a questa innocente proposta. Ne verrebbe dunque confermato che il popolo non è più sovrano, sovrani sono i mercati e la nuova Costituzione invece di permettere e promuovere la riconquista della sovranità al popolo, la consegnerebbe, irrevocabile, al Mercato. E poiché le Costituzioni sono destinate a durare, questa è la scelta che noi, sconfitti, lasceremmo a determinare la vita delle generazioni future.
È molto sorprendente che questa posizione (implicita ma negata nella propaganda ufficiale) sia ora resa esplicita e formalizzata sulla pagina più autorevole della “Repubblica”. Certo, non c’è niente di disonorevole in una sconfitta politica. Ma nel passaggio dello scettro dal popolo ai signori del Mercato non c’è solo la sconfitta della sinistra, c’è la sconfitta di tutto il costituzionalismo moderno e dello stesso Stato di diritto: il popolo sovrano è il cardine stesso della democrazia e della Costituzione.
Mettere super partes la nuova realtà per cui esso è tolto dal trono, sottrarre questo mutamento alla lotta politica, accettarlo come un fatto compiuto e finale, non è solo un efficientismo da quarantenni, è una scelta. E se a farlo è la sinistra, non è solo una sconfitta, è una caduta nella “sindrome di Stoccolma”, è un suicidio, ma col giubbotto esplosivo addosso, che distrugge insieme alla sinistra la politica, la democrazia e la libertà.
Dopo Mattarella Scalfari ci dirà che anche il papa vota Sì
di Valentino Parlato (il manifesto, 25.10.2016)
È bene che i lettori di la Repubblica lo sappiano: il giornale che comprano tutti i giorni sostiene Matteo Renzi e il Sì al referendum del 4 dicembre. Eugenio Scalfari, fondatore del giornale, ha iniziato da tempo questa campagna a favore di Renzi con i suoi attacchi all’amico Zagrebelsky.
Esaltando l’«oligarchia democratica» e l’utilità e necessità che «pochi siano al volante». Tutto questo era già chiaro da quando Scalfari scriveva (una tattica efficace, bisogna riconoscerlo) di non avere ancora deciso tra il Sì e il No anche se era facile capire la sua scelta per il Sì.
Poi, con l’editoriale di domenica scorsa 23 ottobre ha messo in gioco per il Sì anche l’attuale Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, scrivendo: «Il Presidente è favorevole al referendum istituzionale che pone fine al bicameralismo perfetto». E mi pare ovvio che il Presidente non può far altro che tacere, poiché una sua eventuale smentita potrebbe significare che intende votare No e Mattarella, con il suo silenzio, ha voluto tenersi fuori da questa brutta faccenda della nostra sofferente democrazia.
Così, dopo Obama, Scalfari schiera anche Mattarella tra i sostenitori del Sì e del nostro Renzi, attivo rottamatore della Repubblica democratica. Ci manca solo che Scalfari, che ama raccontarci delle sue telefonate con personaggi di primo piano, non ci venga a dire che anche il Papa lo ha confortato dicendogli che voterà Sì.
Dobbiamo prendere atto di questa impegnata campagna di Repubblica a favore di Renzi e del Sì al referendum, chissà cosa ne pensano i lettori del quotidiano.
Per concludere vorrei dire che come giornalista del manifesto e antico lettore dell’Espresso e di Repubblica, questi ultimi due una volta non governativi, faccio appello alla resistenza (questa parola ci torna in mente) contro questa deriva antidemocratica e autoritaria: «Solo pochi al volante» e tutti gli altri passeggeri che pagano il biglietto, ma non hanno voce in capitolo.
DIECI COLTELLATE. MINIMA UNA GUIDA AL REFERENDUM *
Intitolare questi brevi ragionamenti "dieci coltellate" e’ un espediente retorico: a indicare la necessita’ e l’urgenza di squarciare la cortina delle menzogne ed uscire dalla subalternita’ al discorso dominante che e’ il discorso falso e fraudolento della classe dominante che tutte e tutti ci opprime.
Indicheremo qui di seguito tre trappole in cui non cadere (la trappola delle velocita’, la trappola del risparmio, la trappola della governabilita’), formuleremo tre elogi (del perfetto bicameralismo, della rappresentanza proporzionale, del costituzionalismo nemico dell’assolutismo), dichiareremo tre beni irrinunciabili (la repubblica parlamentare; lo stato di diritto, ovvero la separazione e il controllo dei poteri; la democrazia, ovvero la sovranita’ popolare) e giungeremo a una conclusione che ci sembra coerente e doverosa: il 4 dicembre votare No al golpe degli apprendisti stregoni; difendiamo la Costituzione della Repubblica italiana.
E valga il vero.
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1. La trappola della velocita’
Quando si prendono decisioni importanti non si discute mai abbastanza. Quando si fanno le leggi, piu’ ci si pensa e meglio e’. La democrazia e’ un processo decisionale lento e paziente; come scrisse Guido Calogero si contano tutte le teste invece di romperle. Solo le dittature sono veloci, velocissime, e il frutto di quella velocita’ e’ sempre e solo la schiavitu’ e la morte di innumerevoli esseri umani.
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2. La trappola del risparmio
Da quando in qua per risparmiare quattro baiocchi occorre massacrare la Costituzione, che e’ la legge a fondamento di tutte le nostre leggi, la base del nostro ordinamento giuridico e quindi della nostra civile convivenza? Da quando in qua per risparmiare quattro baiocchi occorre distruggere la forma istituzionale repubblicana del nostro paese e sostituirla con la dittatura del governo, ovvero con la dittatura del capitale finanziario transnazionale di cui il governo in carica e’ servo sciocco? Per ridurre i costi dell’attivita’ parlamentare basterebbe una legge ordinaria che riduca gli emolumenti a tutti i parlamentari portandoli a retribuzioni ragionevoli.
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3. La trappola della governabilita’
Cio’ che si nasconde dietro la parola magica - ovvero la cortina fumogena - della "governabilita’" altro non e’ che il potere dei potenti di imporre la loro volonta’ e i loro abusi senza opposizioni e senza controlli. La governabilita’ non e’ ne’ un valore ne’ un bisogno in nome del quale devastare la democrazia, lo stato di diritto, i diritti civili, politici e sociali che ad ogni persona appartengono.
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4. Elogio del perfetto bicameralismo
In un parlamento due camere sono meglio di una: se nell’una si commette un errore l’altra puo’ correggerlo; se nell’una prevale un’alleanza di malfattori, l’altra puo’ contrastarla. Due camere si controllano reciprocamente. Cosi’ si sbaglia di meno. Benedetto sia il bicameralismo perfetto.
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5. Elogio della rappresentanza proporzionale
In una democrazia il potere e’ del popolo che lo esercita attraverso i suoi rappresentanti. Il parlamento che fa le leggi in nome del popolo deve essere rappresentativo di esso in modo rigorosamente proporzionale. Se invece una minoranza si appropria della maggioranza dei seggi quel parlamento non e’ piu’ democratico, diventa solo la foglia di fico di un regime oligarchico. E se il governo si sostituisce al parlamento nella sua funzione legislativa non solo quel parlamento diventa una foglia di fico a tentar di occultare l’oscenita’ del potere reale, ma quel potere non e’ piu’ ne’ democratico ne’ repubblicano, e’ diventato un’autocrazia. Benedetta sia la rappresentanza proporzionale.
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6. Elogio del costituzionalismo, nemico dell’assolutismo
Il fine e il senso di ogni Costituzione e’ impedire o almeno limitare gli abusi dei potenti. Nelle societa’ divise in classi di sfruttatori e sfruttati, di proprietari ed espropriati, di governanti e governati, chi esercita funzioni di governo e’ costantemente esposto alla forza corruttiva del potere. Nessun potere deve essere assoluto, ogni potere deve avere limiti e controlli. Benedetto sia il costituzionalismo, nemico dell’assolutismo.
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7. Una repubblica parlamentare, non una dittatura
Se il governo attraverso la riforma costituzionale, la riforma elettorale ed il loro "combinato disposto" (ovvero l’effetto sinergico delle norme contenute nelle due riforme) mutila ed esautora il parlamento e si appropria di fatto del potere legislativo e lo somma a quello esecutivo che gia’ detiene, viene meno la repubblica parlamentare. Ma per noi la repubblica parlamentare e’ un bene irrinunciabile.
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8. Uno stato di diritto, ovvero la separazione e il controllo dei poteri
Se il governo attraverso la riforma costituzionale, la riforma elettorale ed il loro "combinato disposto" (ovvero l’effetto sinergico delle norme contenute nelle due riforme) si appropria di fatto del potere legislativo e lo somma a quello esecutivo che gia’ detiene, annienta la separazione e il controllo dei poteri, che sono il fondamento dello stato di diritto. Ma per noi lo stato di diritto, ovvero la separazione e il controllo dei poteri, e’ un bene irrinunciabile.
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9. Una democrazia, ovvero la sovranita’ popolare
Se il governo attraverso la riforma costituzionale, la riforma elettorale ed il loro "combinato disposto" (ovvero l’effetto sinergico delle norme contenute nelle due riforme) riduce il parlamento a un giocattolo nelle sue mani, si fa un senato non piu’ eletto dal popolo, si fa una camera dei deputati in cui una minoranza rapina la maggioranza assoluta dei seggi, si appropria di fatto del potere legislativo e lo somma a quello esecutivo che gia’ detiene, la sovranita’ popolare e’ annichilita e con essa la democrazia. Ma per noi la democrazia, ovvero la sovranita’ popolare, e’ un bene irrinunciabile.
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10. No al golpe, difendiamo la Costituzione della Repubblica italiana
Nel referendum del 4 dicembre si vota per dire si’ o no al golpe. Chi vota si’, come vuole il governo degli apprendisti stregoni, accetta il golpe che distrugge il parlamento eletto dal popolo, lo stato di diritto, la democrazia costituzionale. Chi vota no, contro la volonta’ del governo degli apprendisti stregoni, difende il parlamento eletto dal popolo, lo stato di diritto, la democrazia costituzionale, e quindi si oppone al golpe. No al golpe. No al fascismo. No alla barbarie. Al referendum votiamo No. Senza odio, senza violenza, senza paura. Difendiamo la Costituzione della Repubblica italiana.
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Peppe Sini, responsabile del "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" di Viterbo
Viterbo, 21 ottobre 2016
Mittente: "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" di Viterbo, strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, -e-mail: nbawac@tin.it, centropacevt@gmail.com, centropaceviterbo@outlook.it
Ricorso di Sinistra Italiana e M5S al Tar del Lazio contro il testo del quesito del Referendum.
Ricorso al Tar contro il quesito del referendum: "è uno spot". Grillo: "Non ho dubbi vinca no"
Lo hanno presentato Sinistra Italiana ed M5s
di Redazione *
E’ di nuovo scontro sul referendum del 4 dicembre sulle riforme costituzionali. Sinistra Italiana ed M5s hanno fatto ricorso contro il quesito referendario che, ad avviso dei ricorrenti si tradurrebbe in "una sorta di spot". I ricorrenti, tra l’altro, chiamano in causa il decreto della presidenza della Repubblica di inidizione della consultazione popolare ma il Colle replica che la formulazione è stata ammesso dalla Cassazione. Intanto Beppe Grillo lasciando Roma parla con i cronisti e si dice certo della vittoria del no.
IL RICORSO AL TAR - Ricorso di Sinistra Italiana e M5S al Tar del Lazio contro il testo del quesito del Referendum. A parere dei ricorrenti, infatti, "il quesito così formulato finisce per tradursi in una sorta di ’spot pubblicitario’, tanto suggestivo quanto incompleto e fuorviante, a favore del Governo che ha preso l’iniziativa della revisione e che ora ne chiede impropriamente la conferma ai cittadini, che non meritano di essere ingannati in modo così plateale". Il ricorso al Tar Lazio è dunque contro il Decreto del Presidente della Repubblica con cui, indicendo il referendum per il prossimo 4 dicembre, "è stato tra l’altro stabilito il quesito che dovrebbe comparire sulla scheda di votazione". A presentarlo sono stati gli avvocati Enzo Palumbo e Giuseppe Bozzi (che attualmente difendono i ricorrenti messinesi dinanzi alla Consulta nel giudizio per l’incostituzionalità dell’Italicum), nella loro qualità di elettori e di esponenti del Comitato Liberali x il NO e del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, e i senatori Vito Claudio Crimi (M5S) e Loredana De Petris (Sinistra Italiana-SEL).
LA REPLICA DEL COLLE - In relazione a quanto affermato in una nota di ricorrenti al Tar Lazio, in cui impropriamente si attribuisce alla Presidenza della Repubblica la formulazione del quesito referendario, negli ambienti del Quirinale si precisa che il quesito che comparirà sulla scheda è stato valutato e ammesso, con proprio provvedimento, dalla Corte di Cassazione, in base a quanto previsto dall’art 12 della legge 352 del 1970, e riproduce il titolo della legge quale approvato dal Parlamento.
GRILLO E LA VITTORIA DEL NO - "Non ho dubbi, vincerà il ’No’, leggete il Financial times e vedete chi vince. Io la penso come il Financial Times, perché siamo in mano a dei bluffisti, dei giocatori d’azzardo". "Dire ’No’ - ha aggiunto - è bellissimo, anche voi dovete dire di ’No’".
* Redazione ANSA ROMA 05 ottobre 2016 (ripresa parziale).
“Napolitano mente” *
"LO DICO con dispiacere ma le affermazioni di Giorgio Napolitano sul futuro del parlamento se vincerà il Sì sono incredibili - scrive Alfiero Grandi, vice presidente del comitato per il No - Come si fa a dire che il futuro parlamento avrebbe più ruolo con la vittoria del Sì? Se questa disgraziata modifica della Costituzione dovesse andare in porto e l’Italicum rimanesse la legge elettorale il parlamento perderebbe del tutto la sua autonomia, anziché essere il centro della rappresentanza dei cittadini. Diventerebbe subalterno al governo, che diventerebbe così il vero dominus della vita politica per 5 anni, tanto più che il nome del futuro presidente del consiglio sarebbe indicato sulla scheda elettorale, cioè verrebbe di fatto eletto direttamente, una forma che l’attuale Costituzione non prevede in alcun modo".
"Come si può non vedere che il Senato sarebbe composto da nominati - prosegue il comitato - e con l’incapacità di esercitare effettivamente i poteri attribuitigli che per di più riguardano modifiche costituzionali, diritti delle minoranze linguistiche, ecc.? Materie che mantengono il bicameralismo paritario tra Camera e Senato che però sparisce dal quesito referendario (un quesito che mente) e che non sarebbe più eletto dai cittadini. Parità di poteri ma non di elettività, uno squilibrio evidente. Quanto alla Camera, unica sede per la fiducia, non solo dovrebbe subire lo strapotere del governo sul parlamento con i decreti legge a valanga ma dovrebbe subire anche la nuova norma costituzionale che prevede l’obbligo di approvare le proposte di legge del governo in 70 giorni.
* Il Fatto, 03.10.2016
TWEET (18.09.2016). L’ITALIA CONTESA DA "DUE" PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA E IL MANCATO " GIUDIZIO DI SALOMONE":
UN OMAGGIO A #Ciampi. A sua memoria. RIPARTIRE DALL’#Italia: VIVA L’ITALIA, VIVA LA #Costituzione ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=913
#Ciampi LA #BIBBIACIVILE e il #Giudizio di #SALOMONE (la #Cortecostituzionale senza #coscienza e #sapienza) ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5171
ESATTAMENTE COME IN CILE NEL 1988 ***
Ahime’, sono la persona che da tempo sostiene che al prossimo referendum costituzionale occorre votare No esattamente come in Cile nel 1988, "senza odio, senza violenza, senza paura".
Il paragone con il Cile del 1988 e’ tutto li’, e mi sembra che sia difficile negare l’analogia: in Cile nel 1988 votando No la popolazione abbatte’ la dittatura di Pinochet; in Italia votando No al prossimo referendum si difendera’ la Costituzione democratica e antifascista da un vero e proprio golpe che ne distrugge le fondamenta stesse.
Non sono certo io, povero vecchierello (anzi: vecchierello povero), che ho voluto trasformare il referendum in un plebiscito sul Presidente del Consiglio dei Ministri, ma il Presidente stesso, e tardi si e’ accorto dell’errore commesso.
Ma occorre votare No alla riforma costituzionale non (non solo) per la torsione plebiscitaria voluta dal Presidente del Consiglio, ma precisamente per respingere la sostanza della riforma.
E se posso riprodurre il testo di un "appello nonviolento per il No" che con alcune persone amiche abbiamo elaborato e diffuso nelle scorse settimane, i motivi sono i seguenti.
E’ tutto qui. Per questo al referendum sulla riforma costituzionale voluta dal governo votiamo No.
Senza odio, senza violenza, senza paura.
*
Dimenticavo: io me lo ricordo bene il golpe cileno, ero gia’ un militante politico della sinistra italiana allora, e naturalmente prendevo parte alle iniziative del movimento che cercava di aiutare le vittime. Continuo ancora oggi, cercando di aiutare le vittime delle dittature e delle guerre, di tutte le dittature e di tutte le guerre, anche quelle di cui il governo italiano e’ criminale complice.
***
Peppe Sini, responsabile del "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani"
Viterbo, 13 settembre 2016
Mittente: "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani", strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532,
e-mail: nbawac@tin.it, centropacevt@gmail.com, centropaceviterbo@outlook.it
Italicum fatto e disfatto, con la regia dell’ex
Legge elettorale. Napolitano adesso vede i difetti della «sua» legge. Renzi è pronto a cambiarla. Guardando alla Consulta. L’ex capo dello stato ha nominato cinque giudici costituzionali, compresi presidente e relatore
di Andrea Fabozzi (il manifesto, 11.09.2016)
ROMA Il giorno in cui il suo successore al Quirinale Sergio Mattarella firmò, molto velocemente, la nuova legge elettorale, Giorgio Napolitano dal suo studio di senatore a vita commentò: «È un raggiungimento importante, era inevitabile approvare l’Italicum che del resto non è arrivato in un mese ma in oltre un anno». Tutti i giornali riportarono con evidenza questa benedizione dell’ex capo dello stato e nessuno ci trovò niente di strano. Era stato lui con i suoi discorsi pubblici contro le «zavorre», le «paralisi» e i «frenatori» a spingere il parlamento ad approvare questa riforma elettorale assieme alla legge di revisione costituzionale.
Era stato lui a voltarsi dall’altra parte quando il governo forzava i lavori parlamentari, sostituiva parlamentari «dissidenti» in commissione e quando le opposizioni salivano al Colle per protestare o gli rivolgevano pubblici appelli. Ed era stato ancora lui, nel gennaio 2015, ad aiutare il governo ritardando di due settimane le sue annunciate dimissioni, in modo da consentire - prima dell’elezione di Mattarella in seduta comune e prima dunque della rottura tra Renzi e Berlusconi - il decisivo e delicato passaggio dell’Italicum in senato.
Ieri Giorgio Napolitano ha spiegato al direttore di Repubblica che ci sono diversi aspetti dell’Italicum che «meritano di essere riconsiderati». Non solo. Ha invitato Renzi ad assumere un’iniziativa, «una ricognizione tra le forze parlamentari per capire quale possa essere il terreno di incontro per apportare modifiche alla legge elettorale». Ha sottolineato il difetto secondo lui principale dell’Italicum: «Si rischia di consegnare il 54% dei seggi a chi al primo turno ha preso molto meno del 40% dei voti». E ha indicato una possibile soluzione: «C’è in questo momento una sola iniziativa sul tappeto, è di esponenti di minoranza del Pd tra i quali Speranza». Si tratta di una proposta per modificare il vecchio Mattarellum in senso ulteriormente maggioritario. Ma si tratta della stessa minoranza Pd che aveva contrastato all’epoca l’Italicum, sentendo il presidente della Repubblica Napolitano tuonare contro le «spregiudicate tecniche emendative» in difesa dell’integrità dei testi del governo.
Durante l’ultimo passaggio dell’Italicum alla camera dei deputati, tra l’aprile e il maggio dello scorso anno, i bersaniani del Pd tentarono di introdurre nella legge elettorale un quorum minimo per accedere al ballottaggio, di recuperare gli apparentamenti al secondo turno, di cancellare le pluricandidature. Con l’appoggio delle opposizioni avrebbero potuto farcela. Il momento era delicato. Il senatore a vita Napolitano si fece risentire con poche parole: «Guai se si ricomincia da capo». Il governo mise la fiducia - mossa clamorosa e secondo molti costituzionalisti illegittima - la legge elettorale passò nella forma che Napolitano, oggi, vuole modificare.
E vuole modificare perché, ha spiegato a Repubblica, «rispetto a due anni fa lo scenario politico è mutato... nuovi partiti in forte ascesa hanno rotto il gioco di governo tra due schieramenti» si rischia «che vada al ballottaggio chi al primo turno ha ricevuto una base troppo scarsa di legittimazione col voto popolare». Ed è così: la legge pensata per il bipolarismo e sull’onda del Pd al 40% alle elezioni europee del 2014, può essere sperimentata per la prima volta (perché è applicabile da appena un paio di mesi, malgrado sia stata imposta al parlamento a tappe forzate) in un quadro pienamente tripolare. Ha ragione l’ex capo dello stato, solo che il bipolarismo che era fortissimo all’epoca della sua prima elezione al Quirinale, nel 2006, era già completamente svanito all’epoca della sua seconda, nel 2013. I 5 Stelle erano una realtà forte quanto e anzi molto di più del centrodestra anche prima che Napolitano inaugurasse la sua regia sulle riforme, con il Letta e con Renzi. Napolitano non se n’era accorto? Può darsi, del resto era stato lui stesso a negare l’evidenza del successo grillino alle amministrative precedenti. «Non vedo nessun boom» fu la sua frase celebre.
L’intervento di Napolitano, malgrado tutto, potrebbe essere ancora una volta decisivo. Il presidente del Consiglio, che fino a qui aveva aperto timidi spiragli, concede immediatamente la sua piena e «sincera» disponibilità a cambiare la legge. Lo fa con un’intervista al TgNorba (era a Bari, a inaugurare la fiera del Levante). «L’Italicum non piace? E che problema c’è - dichiara lo stesso Matteo Renzi che sull’Italicum ha messo la fiducia - discutiamolo, approfondiamola, ma facciamo una legge elettorale migliore di questa». Dietro di lui, e dietro Napolitano, è come se si aprissero le cateratte del cielo. Un po’ tutti gli esponenti di maggioranza che l’anno scorso giuravano sulla perfezione dell’Italicum, sono prontissimi a cambiarlo - si notano in particolare i ministri Franceschini e Alfano - e tutti lo fanno raccomandando un dibattito «non strumentale». Ma è evidente l’interesse del governo, che di certo non riuscirà a cambiare la legge elettorale prima del referendum, ma che in questo modo offre l’impressione di una disponibilità che può aiutarlo a recuperare consensi per il Sì.
E poi c’è un altro aspetto: il punto che - adesso - Napolitano critica della legge elettorale è proprio uno dei due che la Corte costituzionale sarà chiamata a giudicare il 4 ottobre. Se le questioni di incostituzionalità avanzate dagli avvocati coordinati da Besostri dovessero essere accolte dalla Corte, la legge sarebbe migliorata eppure resterebbe una brutta legge. Il compromesso è evidentemente appoggiato da Napolitano, che quando era al Quirinale ha nominato cinque degli attuali giudici costituzionali (un terzo), compresi presidente (Grossi) e relatore (Zanon).
Referendum, Giovanni Maria Flick: "Renzi ha sbagliato a personalizzare il voto, ora non basta la scolorina"
di Barbara Acquaviti (L’Huffington Post, 17/08/2016)
Molte cose da dire in punta di diritto costituzionale, qualche reticenza in più se la si butta in politica. Quando parla del ddl Boschi, e del referendum di novembre, Giovanni Maria Flick preferisce più vestire i panni del giudice della Consulta indossati per nove anni che quelli di ministro della Giustizia del governo Prodi, carica ricoperta dal ’96 al ’98. "Questa riforma - sostiene - è sbagliata nel metodo e nel merito".
Ma ci sono un paio di cose, meno tecniche e più politiche, che proprio non gli vanno giù. La prima, spiega, è stato il tentativo di Renzi di "trasformare in plebiscito" la consultazione: fatto che ormai ha condizionato il dibattito nonostante - dice - la "scolorina" che in un secondo tempo il presidente del Consiglio ha usato.
E poi, c’è la posizione assunta da alcuni giornali economici internazionali "espressione del mercato" che considerano l’eventuale vittoria del no peggiore della Brexit: "Sconcertante", è l’aggettivo che sceglie. Ma se gli si chiede se questa non può essere considerata una "riforma dell’Ulivo", Flick torna subito molto istituzionale: "quello che esprimo - ci tiene a sottolineare - è il parere di un normale cittadino". Il che non gli impedisce di notare come Romano Prodi sia "tirato per la giacchetta".
Lei dice che questa riforma è sbagliata nel metodo e nel merito. Cominciamo dal metodo, cosa non va?
Questa è una riforma fatta in modo disorganico, con una maggioranza ’pur che sia’, con soluzioni work in progress, con eccessiva fretta. Stesso errore che fu commesso con la riforma del Titolo V nel 2001: alla fine era talmente sbagliata che è stato necessario un intervento correttivo, che alla fine si è rivelato eccessivo in senso opposto.
Passiamo alle questioni di merito. Non è vero che con questa riforma si semplifica il processo legislativo?
Ora anche taluni fautori del sì ammettono che alcune correzioni sono necessarie, ma dicono che si possono fare dopo. Io penso sia sbagliato. Se ci sono errori non capisco come si possa chiedere di votare prima per il sì. Quanto al procedimento legislativo, e alla presunta semplificazione che ne deriverebbe, dico solo una cosa: attualmente in Costituzione quel procedimento è spiegato in una riga e mezzo, nella nuova formulazione servono due colonne in gazzetta ufficiale per descrivere sette-otto procedimenti diversi.
Cos’altro non va?
La nuova struttura e identità del Senato è ambigua e confusa. Il meccanismo di designazione è affidato ai consigli regionali e a una indicazione popolare che non si sa bene come sarà regolata . Inoltre, se prima si è decentrato troppo oggi si riaccentra troppo sullo Stato. E’ facile prevedere molti conflitti al pari di quelli che vi saranno tra Camera e Senato sul nuovo procedimento legislativo.
C’è una parte della minoranza Pd che lega il suo sì alla riforma alle modifiche dell’Italicum. Secondo lei cambiare la legge elettorale è dirimente?
È indubbio che il collegamento con l’Italicum peggiora i problemi di una riforma che però è già sbagliata nel suo contenuto. Vedremo cosa dirà la Corte costituzionale sull’Italicum, se si eliminasse il nodo delle soglie troppo basse per il premio di maggioranza, dei capilista bloccati e della soglia per il ballottaggio, di certo si diminuirebbero i problemi di funzionamento. Ma i guasti della riforma rimarrebbero tutti. Riforma e legge elettorale sono due cose diverse, anche se reciprocamente funzionali.
L’opposizione, compresa quella interna al Pd, sostiene che ci sia anche una informazione, soprattutto quella della Rai, troppo schierata a favore del sì? E’ d’accordo?
Non ho il cronometro per contare i secondi. Posso dire che finora sono stato intervistato soltanto da Rainews24 e una volta da un Tg regionale. Ma certo, io sono un professore noioso, capisco che non mi chiamino. Per il resto, mi sembra che ci sia una preferenza per le ragioni del sì piuttosto che del no. Il problema davvero importante è che la gente non conosce il contenuto e il merito del referendum, l’accavallarsi della polemica politica impedisce un discorso serio.
Si riferisce a Matteo Renzi?
All’inizio il governo ha trasformato la consultazione in un plebiscito sulle sue sorti. Ora è stata fatta una marcia indietro e io dico meno male. Però gli strascichi restano. Anche perché ora la verve è quella di dire che se non passa il referendum è un cataclisma. Io dico che se la riforma non passa si può lavorare a una riforma che possa passare, come le altre trenta varate con successo nei 70 anni di vita della Costituzione.
Secondo i retroscena Renzi potrebbe annunciare le sue dimissioni prima, a prescindere dall’esito. Questo aiuterebbe a svelenire il clima?
Ben venga la spersonalizzazione. Ma una volta che il referendum è stato personalizzato non basta la scolorina. A me pare che continuare a legare la riforma alle sorti del governo, anche in questo modo, sia sbagliatissimo. Però mi lasci dire una cosa: leggere che alcuni giornali economici internazionali ci dicono che la vittoria del no sarebbe peggio della Brexit è singolarmente curioso. Io comprendo che gli altri Paesi siano interessati alla riforma della giustizia, della pubblica amministrazione o alle leggi contro la corruzione, ma che ci debbano dire come dobbiamo cambiare la Costituzione a me sembra sconcertante. Ed evito di dire offensivo.
In tutto questo dibattito, chi tace è Romano Prodi. Lei lo conosce da tempo. Che idea si è fatto?
Questo dovete chiederlo a lui. Io mi limito a constatare che lui non ha detto una parola, nè in un senso nè nell’altro, nonostante qualcuno lo tiri per la giacchetta e sebbene alcuni autorevoli esponenti dell’Ulivo, come Parisi, si siano schierati per il sì.
Insomma, per lei questa è o non è una riforma ’dell’Ulivo’?
Io sono stato ministro nel primo governo Prodi e poi per nove anni giudice della Corte costituzionale. Parlo in base all’esperienza che ho fatto in questi anni, ma parlo soprattutto da semplice cittadino. E voglio ribadire una cosa: la Costituzione prima di cambiarla, bisogna rileggerla. Qualcuno dovrebbe addirittura leggerla.
Se la democrazia è incompatibile con il mercato
di Andrea Colombo (il manifesto, 27.05.2016)
Il pronunciamento netto a favore della riforma istituzionale col quale ieri Vincenzo Boccia ha inaugurato il mandato alla guida di Confindustria non è uno dei tanti pareri che piovono in questi giorni, in seguito alla scelta renziana di aprire la campagna referendaria con mesi di anticipo.
Sul sì degli industriali, che verrà ufficializzato il 23 giugno dal Consiglio generale dell’associazione, non c’erano dubbi. Le motivazioni dell’entusiasta sostegno degli industriali alla riforma meritano tuttavia di essere considerate con attenzione. Boccia infatti non le manda a dire: le riforme sono benvenute e benemerite perché devono «liberare il Paese dai veti delle minoranze e dai particolarismi», il cui perverso esito è stato «l’immobilismo».
Immobilismo? In un Paese in cui, nel 2011, un governo da nessuno eletto ma imposto dall’Europa e da un capo dello Stato che travalicava di molto i confini del proprio ruolo istituzionale ha stracciato in quattro e quattr’otto diritti e garanzie del lavoro conquistate in decenni, senza che quasi nessuno proferisse verbo? Con un governo che nella sua marcia ha incontrato un solo serio ostacolo, costituito non dalle minoranze e dai particolarismi ma da una parte integrante della truppa del premier, i cosiddetti catto-dem? Dal giorno dell’ascesa a palazzo Chigi di Renzi, anche lui senza alcun voto popolare, il loro è stato l’unico no che il governo ha dovuto ingoiare ma è improbabile che a questo alludesse Boccia. Per il resto nessuna minoranza e nessun particolarismo hanno trovato ascolto alle orecchie del gran capo.
Il problema è che gli industriali, proprio come la grande finanza e le centrali del potere europeo, stanno mettendo le mani avanti. Non hanno bisogno di intervenire sul presente, che dal 2011 gli va benone così com’è, ma sul futuro. Devono impedire che la democrazia, dissanguata in nome della crisi dei debiti e del voto del 2013, reclami domani diritti che sulla carta ancora avrebbe. Si tratta, non certo per la prima volta nella storia italiana, di rendere un’emergenza permanente.
Quello degli industriali non è un endorsement tra i tanti: è la vera chiave della riforma, la sua ragion d’essere. Per smontare la retorica sui guasti del bicameralismo che costringerebbe le leggi a transitare come anime in pena tra Montecitorio e Palazzo Madama basterebbero i dati sui tempi di approvazione delle leggi in Europa. L’Italia è nella media.
Da quel punto di vista il bicameralismo non desta preoccupazioni. I tempi diventano biblici solo quando leggi spinose vengono chiuse nel cassetto e lì dimenticate. Nulla, nel nuovo assetto disegnato dalla riforma, impedirebbe di farlo ancora, sia pure in una sola camera.
I poteri economico-finanziari, però, si sono convinti che produzione ed economia possano prosperare solo in una situazione di democrazia decurtata e in virtù di governi autoritari, tali cioè da non doversi misurare con «le minoranze e con i particolarismi», in concreto, con un libero Parlamento.
Come quasi tutti gli orientamenti imposti dall’Europa e dai poteri economico-finanziari si tratta di un dogma. Anche a voler accettare il prezzo salatissimo dello scambio tra democrazia e produttività, nulla garantisce che i risultati arriverebbero, anche solo in termini di efficienza produttiva. Proprio il caso dell’Italia, dove la democrazia parlamentare è soffocata da ormai cinque anni senza risultati apprezzabili, dovrebbe dimostrarlo, ma tant’è. Questa è la strada decisa da chi deve decidere per tutti.
Questo ha detto nel suo primo discorso il presidente di Confindustria. Scusate se è poco.
“Sindacati sale della democrazia. Così è nato l’asse con la Camusso”
Brunetta (Forza Italia): altro che cani e gatti, difendiamo i lavoratori
intervista di Ugo Magri (La Stampa, 05.05.2016)
«I nemici dei miei nemici sono miei amici», mette subito in chiaro Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia, «sarà anche banale, ma in politica funziona così».
Quindi è per via del comune nemico a Palazzo Chigi che lei ha accolto a braccia aperte Susanna Camusso, leader Cgil?
«Nella battaglia di opposizione è giusto parlare con tutti, se occorre perfino con il diavolo. E la Camusso non è certo il diavolo. Tanto più quando viene a discutere un’idea intelligente, su come rinnovare lo Statuto dei lavoratori. Ma un laburista come me, che è nato socialista riformista, che è professore ordinario di Economia del lavoro, che considera i sindacati una risorsa collettiva, anzi una ricchezza della vita pubblica, figurarsi se può dire alla Cgil “no, con voi io non parlo”. A voler rottamare i sindacati, semmai, sarà qualcun altro...».
Chi, Renzi?
«Il presidente del Consiglio sta attuando un piano di distruzione del sindacato e di tutti i corpi intermedi che giudico pernicioso, inaccettabile. In quanto vuol azzerare il conflitto fisiologico, la complessità sociale. Perché significa meno democrazia, meno libertà, più autoritarismo e più egemonismo».
Però questi corpi intermedi che lei difende, Brunetta, sono un ostacolo a chi governa, un freno alle decisioni...
«Sono una seccatura, lo so bene io. Pensi che nei tre anni e mezzo in cui fui ministro, la Cgil mi proclamò contro ben 13 scioperi generali del pubblico impiego, tutti falliti perché gli statali davano retta a me anziché a loro. Però i sindacati, anche quando sbagliano, e sbagliano spesso, restano il sale della vita democratica. Discutere con loro è un dovere. Renzi invece vorrebbe interloquire direttamente con i cittadini elettori, cerca il loro voto in cambio di qualche mancia, aumentando il debito. Come faceva a Napoli Achille Lauro, come Peron in Argentina».
O come più di recente Berlusconi, non trova?
«Falso, sbagliatissimo. Berlusconi e i suoi governi hanno seguito come metodo il dialogo sociale, sempre. Cercando soluzioni di compromesso alto ai conflitti, a costo di fare passi indietro come sull’articolo 18 dopo la manifestazione sindacale al Circo Massimo. E sa perché lo facevamo, noi?».
Per debolezza.
«No, perché Forza Italia era in quella fase il più grande partito operaio italiano. Mica penserà che 15-16 milioni di voti fossero tutti dei super-ricchi, delle partite Iva e dei padroni. Non ne esistono così tanti di capitalisti in Italia, purtroppo. Se il Pdl arrivò al 37-38 per cento fu proprio perché inglobava la gran parte dei “colletti blu”. E le pare che Berlusconi non tenesse conto?».
Forza Italia non è più quella di allora.
«Ma la cultura di fondo rimane identica. Per cui non deve stupire se mettiamo in campo un nuovo protagonismo politico e sociale. E se, accanto ai giusti diritti dei cani e dei gatti, difendiamo con ben altra storia e ben altre motivazioni le ragioni dei lavoratori, tutti».
Questione immorale
di Norma Rangeri
(il manifesto, 05.05.2016)
Almeno il fatto che in Italia c’è una questione morale, che poi, profanamente, potrebbe essere la traduzione del settimo comandamento (non rubare), è una banale constatazione. La diagnosi di una malattia grave sulla quale è difficile non convenire anche se poi si può chiamare in tanti modi.
Buttarsi in politica per fare affari, è, purtroppo un malcostume nazionale. Lo ha spiegato bene Stefano Rodotà scrivendo di «una proterva controetica esibita senza pudore anche in sedi governative e parlamentari». Lo ripete il presidente dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone, in un’intervista all’Unità quando sostiene che «va evitata la commistione, specie a livello locale, tra attività economiche e attività politiche». Forse sarà per questo che in Italia non si riesce a fare una legge sul conflitto di interessi mentre si piazzano imprenditori al ministero dello Sviluppo. E dire che abbiamo avuto al governo, per vent’anni, il conflitto di interessi in persona (altra semplice constatazione, difficilmente confutabile).
Conflitto di interessi, familismo amorale, cronica carenza di senso civico disegnano un quadro d’insieme disastroso. Specialmente se il politico ricopre un ruolo istituzionale, alla periferia come al centro del potere. Lo stiamo verificando nella vicenda delle recenti nomine del governo, con gli amici del premier candidati a ruoli di governo delicati e importanti.
Una volta diagnosticato il pessimo stato di salute dell’articolo 54 della Costituzione a proposito delle funzioni pubbliche da adempiere con «disciplina e onore», di tutto il resto si può discutere. Si può discutere se finire in galera perché si è un po’ taroccato un appalto per una piscina comunale sia eccessivo. Sicuramente lo sembra, probabilmente anche perché siamo un paese dove su una popolazione carceraria in crescita i detenuti per reati fiscali o finanziari nessuno li ha visti.
Sull’arresto del sindaco di Lodi è anche arrivato puntuale l’autogol del Pd con la richiesta dell’apertura di una pratica contro le magistrate che hanno mandato in carcere il sindaco piddino. Non stupisce che a chiedere un provvedimento disciplinare sia stato un componente del Csm iscritto al Pd, Giuseppe Fanfani, esponente di un blasonato casato politico aretino (salvo poi, scaricato da Renzi, fare marcia indietro). Tutta acqua al mulino dei 5Stelle.
Con un fenomeno di corruzione strutturale che investe la politica come la società, è difficile non arrivare ai ferri corti tra politici e magistrati. Ai rappresentanti del popolo non fa piacere ricevere l’accusa di essere i protagonisti del brutto film sul vasto mondo di corrotti e corruttori. Ed è vero che, fatalmente, i magistrati incontrando sulla loro strada professionale così tanti politici, finanzieri e imprenditori difficilmente riescono ad evitare collisioni di interessi e di poteri.
Il fatto è che tra un mese gli italiani di molte città saranno chiamati alle urne per decidere chi le deve amministrare. E il buon senso consiglia a Renzi di tenersi lontano dagli zelanti alleati del gruppo di Verdini. Che parlano di “complotto dei magistrati” mentre si coprono di ridicolo nel vano tentativo di smentire la loro partecipazione alla riunione di ieri con il ministro Orlando per definire la linea del governo sulla prescrizione. Renzi getta acqua sul fuoco («il complotto? ma de’ che»), ma se il Pd non si cura della qualità della sua classe dirigente (come ha fatto a Roma dopo Mafia-Capitale) rischia l’autocomplotto.
Il presidente-segretario, che già annuncia di schierare diecimila renziani per i porta a porta referendari, sa che ben prima, solo tra qualche settimana, deve affrontare le insidiose urne del 5 giugno. E l’unico boato che si ascolta per strada di questi tempi è l’intenzione di andare al mare.
Piercamillo Davigo: "I politici non hanno smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsi"
Ansa *
I politici "non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi. Rivendicano con sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto. Dicono cose tipo: "Con i nostri soldi facciamo quello che ci pare". Ma non sono soldi loro; sono dei contribuenti".
Lo afferma al Corriere della Sera, Piercamillo Davigo, presidente dell’Anm, spiegando che "prendere i corrotti è difficilissimo. Nessuno li denuncia, perché tutti hanno interesse al silenzio: per questo sarei favorevole alla non punibilità del primo che parla. Il punto non è aumentare le pene; è scoprire i reati. Anche con operazioni sotto copertura".
Alla domanda se quindi si ruba più di prima, Davigo spiega: "Si ruba in modo meno organizzato. Tutto è lasciato all’iniziativa individuale o a gruppi temporanei. La corruzione è un reato seriale e diffusivo: chi lo commette, tende a ripeterlo, e a coinvolgere altri. Questo dà vita a un mercato illegale, che tende ad autoregolamentarsi: se il corruttore non paga, nessuno si fiderà più di lui. Ma se l’autoregolamentazione non funziona più, allora interviene un soggetto esterno a regolare il mercato: la criminalità organizzata".
Dopo Mani Pulite, prosegue Davigo, "hanno vinto i corrotti, abbiamo migliorato la specie predata: abbiamo preso le zebre lente, le altre sono diventate più veloci".
A fermare quel pool "cominciò Berlusconi, con il decreto Biondi; ma nell’alternanza tra i due schieramenti, l’unica differenza fu che la destra le fece così grosse e così male che non hanno funzionato; la sinistra le fece in modo mirato. Non dico che ci abbiano messi in ginocchio; ma un pò genuflessi sì".
Il governo Renzi? "Fa le stesse cose - dice Davigo -. Aumenta le soglie di rilevanza penale. Aumenta la circolazione dei contanti, con la scusa risibile che i pensionati non hanno dimestichezza con le carte di credito".
Sulla responsabilità civile dei magistrati, il presidente dell’Anm parla di norme ridicole: "L’unica conseguenza è che ora pago 30 euro l’anno in più per la mia polizza: questo la dice lunga sulla ridicolaggine delle norme. Tutti abbiamo un’assicurazione. Non siamo preoccupati per la responsabilità civile, ma per la mancanza di un filtro. Se contro un magistrato viene intentata una causa, anche manifestamente infondata, gli verrà la tentazione di difendersi; ma così non farà più il processo, e potrà essere ricusato. È il modo sbagliato per affrontare un problema serio: perché anche i magistrati sbagliano". Sul rapporto tra toghe e Palazzo, Davigo osserva: "I magistrati avendo guarentigie non sono abituati al criterio di rappresentanza: per questo sovente sono pessimi politici".
L’Unità contro l’Anpi, ossia l’imbarbarimento della politica *
di Il Comitato nazionale ANPI (14 Aprile 2016) *
In relazione al commento di Fabrizio Rondolino, pubblicato nei giorni scorsi sull’Unità, dopo la presa di posizione della Segreteria nazionale dell’Anpi, ecco ora un documento del Comitato nazionale dell’Associazione partigiani riunitosi il 13 aprile 2016.
"Il Comitato Nazionale dell’ANPI rileva che ancora una volta siamo di fronte ad un episodio rivelatore dell’imbarbarimento della politica.
I fatti: il Presidente nazionale dell’ANPI, Carlo Smuraglia, in occasione della sua presenza al Congresso provinciale di Palermo, riceve la richiesta, da un corrispondente de “Il Fatto Quotidiano”, di concedere una breve intervista. Essa si svolge nei tempi rapidi disponibili e il giorno seguente viene pubblicata tale e quale, senza ulteriori commenti e con l’aggiunta di un “profilo” del Prof. Smuraglia, a lato.
Questa semplice pubblicazione provoca l’indignazione del giornalista Fabrizio Rondolino, che scrive un articolo, sull’Unità, chiaramente diffamatorio per il presidente Smuraglia e per l’ANPI; l’articolo viene pubblicato, senza intervento alcuno del Direttore. A quest’ultimo si rivolge la Segreteria nazionale con una lettera, di cui si chiede la pubblicazione.
Il Direttore risponde privatamente cercando di dissipare gli interrogativi posti nella lettera, ma non la pubblica. La lettera apparirà, in seguito, solo sul sito del quotidiano, in cui verrà ospitata anche una sorta di replica di Rondolino, che - senza fare alcun passo indietro - tenta di impartire una vera e propria lezione di “politica” all’ANPI. Viene anche proposta a Smuraglia, dal Direttore, un’intervista (ma su cosa? Per difendersi dagli insulti?), oppure un incontro; soluzioni palesemente improponibili se non precedute da un esplicito e pubblico chiarimento.
Intanto, praticamente tutta l’ANPI (impossibile riportare gli innumerevoli e appassionati messaggi: citiamo per tutti gli ordini del giorno approvati nei Congressi provinciali di Milano, Genova e Roma e i comunicati del Comitato regionale della Sardegna e dei Comitati di Torino, Pisa, Palermo, Reggio Emilia, Varese e Bruxelles) insorge, protesta per l’attacco, non solo al suo Presidente, con cui solidarizza, ma all’ANPI nel suo complesso. Innumerevoli sono le manifestazioni di solidarietà, anche personali, a Smuraglia.
Importante il fatto che alcune di queste come quella che proviene da un Istituto dell’Università di Milano, giungano anche da docenti in dichiarato dissenso rispetto alle opinioni del Presidente dell’ANPI in tema di riforme. Ma l’Unità continua a tacere, non formula scuse per il vergognoso attacco e non pubblica altro.
A questo punto il quadro è chiaro; gli interrogativi posti nel comunicato della Segreteria trovano tutti una risposta evidente. Non si tratta di un episodio casuale; vi è stato e vi è un inqualificabile attacco alla persona del Presidente Smuraglia, per conoscere il quale basta uno sguardo al suo curriculum; ma l’attacco non è di un singolo, è sostanzialmente condiviso dalla testata giornalistica che un tempo fu gloriosa e che ancora si permette di richiamarsi alla figura di Gramsci. Ed è un attacco a tutta l’ANPI.
A tutto questo rispondiamo, con estrema fermezza, che nessuno riuscirà a frenare e tanto meno ad intimidire la nostra Associazione, che procederà per la via intrapresa, quella della difesa e della applicazione dei valori nati dalla Resistenza e trasfusi nella Carta costituzionale, oltreché dei valori morali tipici di una società civile.
Ringraziamo tutti coloro che hanno manifestato solidarietà ed indignazione (non tutti e solo appartenenti all’ANPI), oltretutto perché ci confermano l’idea che sono ancora in tanti a non piegarsi e sottostare al conformismo e al degrado. Lavoreremo, dunque, anche per loro, per risanare l’Italia e per restituirle quella dignità e quella correttezza che troppo spesso appare smarrita.
Perché tutti possano giudicare e valutare, abbiamo pubblicato sul nostro sito, sulla nostra pagina Fb e sull’odierna newsletter l’intervista del Presidente Smuraglia a “Il Fatto Quotidiano”, l’articolo di Rondolino sull’Unità e la lettera della Segreteria nazionale. Non abbiamo pubblicato la risposta del Direttore visto che la stessa Unità ha ritenuto di non farlo. Con ciò, per quanto ci riguarda, la polemica è chiusa. Anche se non la dimenticheremo. Continueremo ad impegnarci nella campagna referendaria e nella intransigente difesa dei valori e dei principi costituzionali, con fermissima determinazione e nella convinzione altrettanto ferma che la dialettica politica debba sempre ispirarsi a criteri e metodi di democrazia e civiltà.
Roma, 13 Aprile 2016
Mattarella, io custode Costituzione
di Redazione *
ROMA. Nella Costituzione "ogni parola è importante, la formulazione precisa di ogni articolo è importante, ogni parola è pesata". Lo ha sottolineato il presidente Sergio Mattarella incontrando un gruppo di studenti delle elementari al Quirinale. Il capo dello Stato ha ricordato di essere stato prima insegnante di diritto costituzionale, poi in Parlamento dove ha "rispettato" la Carta, quindi alla Consulta dove ha "verificato" il rispetto della Costituzione ed oggi al Quirinale "custode rappresentativo della Costituzione".
"Il mio sogno a occhi aperti? - ha detto parlando con i bambini - sogno un mondo di pace, senza guerre, senza bambini che soffrono la fame o che annegano in mare fuggendo dalla guerra". Sergio Mattarella si "apre" ad un gruppo di bambini, studenti delle elementari, che oggi al Quirinale lo hanno interrogato sul suo privato, dall’adolescenza alla sua elezione al Quirinale. Un efficace "botta e risposta" con il presidente della Repubblica di oltre mezzora al quale Mattarella non si è sottratto.
Roberto Saviano decifra Salvo Riina: "Ha mandato un messaggio alla nuova mafia. Bruno Vespa non se n’è accorto"
di Redazione (L’Huffington Post, 09/04/2016)
Non la promozione di un libro bensì un messaggio chiaro dalla vecchia mafia ai nuovi dirigenti di Cosa Nostra. Per Roberto Saviano l’intervista di Salvo Riina a "Porta a Porta" è stata soprattutto una occasione storica della "vecchia guardia mafiosa" per parlare agli esponenti della criminalità organizzata che davvero oggi detengono il potere.
"Quella a Riina è l’intervista più pregna di messaggi mafiosi degli ultimi anni. E Bruno Vespa non se n’è accorto", commenta Saviano durante la trasmissione "TvTalk", Rai3. "Se un mafioso accetta una intervista televisiva è soltanto perché vuole lanciare degli avvertimenti", prosegue l’autore di Gomorra, che non contesta la scelta di dialogare con il figlio di Totò Riina: "Se parli con il male devi riuscire a codificarlo, senza diventare un megafono". Ed è ciò che secondo lo scrittore è successo durante la puntata di "Porta a Porta" che ha sollevato un enorme polverone sulla Rai.
Saviano ritiene che la scelta di Salvo Riina di apparire in televisione non è legata al libro che ha scritto sulla propria famiglia. "Non è vero, come ha introdotto Vespa, che i Riina sono la famiglia più potente della mafia. Lo sono stati, ormai appartengono alla vecchia guardia mafiosa che parla alla nuova mafia come Matteo Messina Denaro".
Il messaggio: "Salvo Riina ha fatto capire che la vecchia mafia, con i codici e le regole di una volta, non esiste più. Ma rivendica che la loro era la vera mafia", spiega Saviano, riferendosi alla parte dell’intervista nella quale il giovane Riina ha parlato di una famiglia unita, con valori tradizionali.
"La vecchia mafia non poteva sopportare relazioni extra-coniugali, l’omosessualità, il divorzio. Atteggiamenti e scelte che invece ora appartengono ai nuovi esponenti mafiosi". Inoltre, continua Saviano, Salvo Riina "non ha mai fatto riferimento a nessun avvenimento legato alla mafia, tranne poi dare un giudizio molto negativo sui pentiti": anche questo, dice lo scrittore, è un avvertimento a coloro che in questi anni nelle carceri stanno cominciando a collaborare: "Non pagheremo le vostre colpe, mio padre non sarà mai un pentito".
Un padre di famiglia
di Giuseppe Di Lello (il manifesto, 07.04.2016)
Un padre e una madre, sposati in chiesa con rito concordatario e poi la prole: quella di Totò Riina è una vera famiglia italiana secondo gli stringenti canoni formali dei partecipanti al family day. Come tale si comporta anche nella sostanza, con il marito attento all’educazione dei figli, premuroso e sempre presente, specialmente la sera a cena quando la famigliola si ritrova intorno al desco, non sappiamo quanto frugale.
Poi, come in ogni famiglia normale, tutti insieme si guarda anche la Tv e ci si aggiorna col telegiornale.
Scorrono le immagini delle stragi di Capaci o di Via D’Amelio e il patriarca, forse tra sé e sé, o forse ad alta voce, perché nelle famiglie normali non ci debbono essere segreti, pensa che sarebbe stato molto più gratificante essere sui luoghi al momento di quelle esplosioni, dato che era stato lui a deciderle, programmarle e farle eseguire: poi però, per qualche contrattempo, avrebbe potuto far tardi per la cena familiare e questo non se lo poteva permettere.
La mia è una ricostruzione fantasiosa del menage familiare dei Riina, ma non troppo azzardata, posto che il rampollo ospitato dalla Tv di stato a «Porta a porta» ne ha propagandato più o meno una immagine abbastanza simile. Il suddetto ha ovviamente escluso ogni riferimento a Cosa nostra che senza dubbio nelle conversazioni familiari doveva ricorrere spesso, viste le dure condanne per mafia collezionate da tutti i maschi e, certo, non a loro insaputa.
Ogni anno non vi è scuola che non organizzi un corso sulla legalità e contro le mafie, giornate del ricordo, messe di suffragio, cortei e chi più ne ha, ne metta: poi la Tv di stato ci regala una patetica performance per dirci che i valori della famiglia, quella normale secondo concordato, possono essere coltivati anche in quella di un mafioso come Totò Riina, che si prende somma cura dei suoi figli, anche se poi, fuori dalle sue mura domestiche, ha fatto ammazzare decine di figli degli altri: questo purtroppo è il messaggio che passa.
Non c’è dubbio che non è «informazione», anche se censurarla sarebbe arduo perché solo nei regimi autoritari ci sono canoni standard ai quali adeguare le «opere dell’ingegno».
La Tv di stato, però, pur essendo libera di mandare in onda il Riina junior show, avrebbe dovuto spiegare che era una fiction, dato che nella realtà si trattava non di una famiglia normale, ma di una famiglia mafiosa.
Scandalo Vespa? Ma no, Vespa è il padrone della televisione e fa quello che vuole, anche perché tutto il mondo politico, trasversale quanto mai, sbava per sprofondarsi nelle poltrone del suo salotto consapevole che chi non è invitato non conta granché.
Per una sera questa massa di ipocriti si strapperà le vesti per l’offesa al sentimento antimafioso degli italiani e alle vittime di Totò Riina, ma poi, da domani, tornerà a chiedersi ansiosa quando arriverà il sospirato invito.
SALVO RIINA DA BRUNO VESPA
Il figlio di Riina a Porta a Porta
«Amo mio padre e non lo giudico»
La mafia cos’è? «Non me lo sono mai chiesto, non so cosa sia. Oggi la mafia può essere tutto e nulla. Omicidi e traffico di droga non sono soltanto della mafia»
di Salvatore Frequente (Corriere della Sera, 06.04.2016) *
«Sono figlio di Totò e non del capo dei capi». Si presenta così Salvo Riina, 38enne e una condanna per mafia (già scontata) alle spalle, nella contestata puntata di Porta a Porta. Da Bruno Vespa il figlio di Totò, capo di Cosa Nostra, racconta la vita della famiglia del padre-boss in occasione dell’uscita del suo libro «Riina, family life».
Falcone e Borsellino? «Ho rispetto per tutti i morti»
«Io ho sempre rispetto per i morti, per tutti i morti», dice Salvo quando parla dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Riina Junior osserva con sguardo impassibile le immagini storiche di quelle stragi ordinate dal padre. «Io non giudico Falcone e Borsellino, qualsiasi cosa io dico sarebbe strumentalizzata», dice da Bruno Vespa il figlio di Totò Riina che ricorda così il 23 maggio del 1992 giorno dell’attentato a Falcone: «Ricordo il fatto, avevo 15 anni, eravamo a Palermo e sentivamo tante ambulanze e sirene - aggiunge Riina Jr. - abbiamo cominciato a chiederci il perché e il titolare del bar ci disse che avevano ammazzato Falcone, eravamo tutti ammutoliti. La sera tornai a casa, c’era mio padre e non mi venne mai il sospetto che lui potesse essere dietro quell’attentato».
«La mafia non so cosa sia»
Lui che la condanna per associazione mafiosa a 8 anni e 10 mesi l’ha interamente scontata, con un papà e un fratello condannati all’ergastolo (e al «41 bis») alla domanda «La mafia cos’è?» risponde così: «Non me lo sono mai chiesto, non so cosa sia. Oggi la mafia può essere tutto e nulla. Omicidi e traffico di droga non sono soltanto della mafia». Nato mentre il padre era ricercato, ha vissuto anche lui cambiando sempre abitazione ma quando parla della sua famiglia la descrive solamente come «diversa»: «A casa nostra - dice Riina Jr. a Porta a Porta - abbiamo vissuto sempre nella massima tranquillità. Non ci siamo mai chiesti perché non andavamo a scuola. Mai fatto queste domande, la nostra era una sorta di famiglia diversa». «C’era - prosegue - una sorta di tacito accordo familiare, noi eravamo bambini particolari, il nostro contesto era diverso, abbiamo vissuto anche in maniera piacevole, nella sua complessità è stato come dire un gioco».
«Amo mio padre». L’arresto? «Non lo condivido»
Quel Totò Riina che, per la sua ferocia sanguinaria, è stato soprannominato «la belva», dal figlio viene descritto come un padre affettuoso: «Amo mio padre e la mia famiglia, al di fuori di ciò che gli viene contestato, giudico ciò che mi hanno trasmesso: il bene e il rispetto, se oggi sono quello che sono - dice Salvo da Bruno Vespa - lo devo ai miei genitori. Perché devo dire che mio padre ha sbagliato? Per questo c’è lo Stato, non tocca a me». E lo Stato? «È l’entità in cui vivo» di cui «magari non condivido determinate leggi o determinate sentenze»,dice il figlio di Totò Riina, rispondendo ad una domanda di Bruno Vespa. «Rispetta la condanna contro suo padre?», gli chiede il conduttore: «No, perché è mio padre. A me ha tolto mio padre». Nessun riferimento ai crimini commessi dal padre, nessuna condanna da parte del figlio: «Il quarto comandamento dice: "onora e rispetta sempre i tuoi genitori", e io così faccio», ha detto Salvo. Ma quando Bruno Vespa ribatte citando il quindi comandamento «Non uccidere», Riina ribadisce: «Non devo essere io a giudicare».
L’attacco ai pentiti
Ma il figlio di Totò Riina si spinge anche a parlare dei collaboratori di giustizia. «Negli altri Paesi democratici non accade. Solo in Italia un pentito, che dice di aver commesso centinaia di omicidi, non fa neppure un giorno di carcere, mandano gli altri in carcere e poi loro tornano in giro a fare quello che facevano». I pentiti di mafia, aggiunge Riina Jr., «sono stati sicuramente usati dallo Stato. Non si accusano le persone solo per un tornaconto, ci sarà sempre un giorno in cui dovrai pentirti davanti a Dio».
Le polemiche
Un’intervista che ha fatto discutere prima della messa in onda. A sollevare le polemiche per la presenza di Riina jr. era stata proprio Rosy Bindi, presidente della Commissione Antimafia. «Mi auguro che in Rai ci sia un ripensamento. Ma se questa sera andrà in onda l’intervista al figlio di Totò Riina, avremo la conferma che Porta a Porta si presta ad essere il salotto del negazionismo della mafia e chiederò all’Ufficio di Presidenza di convocare in Commissione la presidente e il direttore generale della Rai», aveva detto Bindi. Poco dopo, l’annuncio di Pier Luigi Bersani di non partecipare alla trasmissione. E dopo ore di polemiche incalzanti arriva la conferma: la puntata andrà in onda. «Tra poco trasmetteremo l’intervista a un mafioso. È Salvo Riina, il figlio di Totò Riina, il capo dei capi della mafia», dice Bruno Vespa lanciando all’inizio del programma Porta a Porta l’intervista del figlio di Totò Riina e sottolineando: «Un ritratto sconcertante, certo, ma per combattere la mafia bisogna conoscerla. E per conoscerla meglio c’è bisogno a nostro avviso anche di interviste come questa».
Maria Falcone: «Fatto indegno»
«La Rai ha deciso di andare avanti e di mandare in onda il figlio di Totò Riina? Vuol dire che non ha avuto la forza di tornare indietro. La sua presenza nel servizio pubblico è un’offesa per tutti, un fatto indegno», ha commentato Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso dalla mafia. E la Commissione parlamentare Antimafia ha convocato per domani, giovedì 7 aprile, alle ore 16, la presidente della Rai, Monica Maggioni e di direttore generale Antonio Campo Dall’Orto, per un’audizione urgente sulla vicenda.
Salvatore Borsellino
Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso dalla mafia guidata da Totò Riina, affida a un post di Facebook il suo sfogo: «Noi familiari delle vittime di mafia eventi di questo tipo significano ancora una volta - scrive - una riapertura delle nostre ferite, ove mai queste si fossero chiuse, ma ormai purtroppo questo, dopo 24 anni un cui non c’è stata ancora né Verità né Giustizia, è una cosa a cui ci siamo abituati, ma mai rassegnati».
Il no di Fnsi e Usigrai
Anche l’Usigrai, il sindacato dei giornalisti di Viale Mazzini, e la Federazione nazionale della stampa sono contrari alla messa in onda dell’intervista: «Dopo i Casamonica, stasera a Porta a Porta la famiglia Riina. La Rai Servizio Pubblico non può diventare il salotto di famiglie criminali. Chi strumentalmente vuole invocare presunte volontà censorie, ci dica perché non si dedica almeno lo stesso spazio alle giornaliste e ai giornalisti minacciati». Scrivono così il segretario generale e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, e il segretario dell’Usigrai, Vittorio Di Trapani.
I familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili
Interviene nella polemica anche l’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili: «Possibile che siamo costretti a subire una offesa così grave, senza poter far nulla? Ma che Paese è quello che consente a conduttori televisivi di emittenti di Stato di insultare le vittime di Cosa nostra per mere ragioni che ci rifiutiamo di prendere in considerazione?», chiede la presidente Giovanna Maggiani Chelli.
Grasso: «Non guarderò Porta a Porta»
Sulla questione è intervenuto anche Pietro Grasso. Il presidente del Senato commenta su Twitter: «Non mi interessa se le mani di #Riina accarezzavano i figli, sono le stesse macchiate di sangue innocente. Non guarderò @RaiPortaaPorta».
«In 20 anni di Porta a Porta Vespa non si è mai occupato del delitto di Piersanti Mattarella e non ha mai invitato in studio il fratello, oggi presidente della Repubblica. Adesso invita il figlio del carnefice. È questo il nuovo servizio pubblico?», si chiede il deputato del Pd e segretario della commissione di Vigilanza Rai Michele Anzaldi. Interviene anche Ernesto Magorno, deputato Pd e componente dell’Antimafia: «La Rai ascolti l’appello della presidente Bindi e ci ripensi. La presidente e il direttore generale della Rai intervengano. C’è il rischio che proprio dalla prima rete del servizio pubblico il figlio del boss mandi messaggi e segnali di natura inquietante e inaccettabile. Siamo sicuri che sia questo il tipo di giornalismo di cui ha bisogno il servizio pubblico?».
* Corriere della Sera, 6 aprile 2016 (modifica il 7 aprile 2016 | 07:50) (ripresa parziale - senza video).
di FRANCESCO MERLO (la Repubblica, 17 marzo 2016)
TORNANO le parole fascista, comunista, stalinista... non solo come "vecchi soprannomi per anziani" ma anche come gli stilemi di un’usurata comicità italiana che non fa più ridere, di un sottosopra logico che è diventato triste. "I leghisti di Roma sono tutti ex fascisti" ha ieri denunziato l’indomabile comandante partigiano Silvio Berlusconi in difesa del fido Bertolaso che, come un eroe della Resistenza, dovrà ora affrontare la Decima Mas di Salvini, le legioni della Meloni, i manipoli della deputata ex missina Barbara Saltamartini, la quale, com’è ovvio, tiene il coltello tra i denti alla maniera del feroce Ettore Muti.
E, a fare pendant, intervistato sul Corriere da Aldo Cazzullo, Massimo D’Alema aveva dato dello stalinista a Matteo Renzi e di nuovo la parola aveva fatto cortocircuito con la sua storia. Perché anche "stalinista" non è un insulto qualsiasi, come per esempio populista o sleale o autoritario, ma è una grammatica politica, un codice etico, è la cassetta degli attrezzi che Massimo D’Alema ha giustamente relegato nella propria soffitta ideologica, la vecchia antropologia che modellò il suo carattere di duro e formò la sua selvatica personalità.
Ma veniamo a noi, che alla parola "fascisti" ancora ci armiamo di vigilanza democratica. Ieri mattina, ascoltando l’intervista che gli faceva Maurizio Belpietro, noi abbiamo cercato di capire chi sono i camerati, i cuori neri che fanno vibrare di indignazione liberale l’antifascista Berlusconi. Di sicuro non ce l’ha con Gasparri, Alemanno, Storace, Matteoli e con tutti quegli altri ex fascisti che lui ha fatto, nel corso degli anni, ministri, sindaci, presidenti di regioni, quelli che stavano nel Fuan e nel Fronte della Gioventù e lui ha messo a sedere al tavolo delle presidenze, nelle partecipate, nel sottogoverno, ha chiamato ad esercitare il potere, ha promosso classe dirigente del Paese, sino a nominare ministro della Difesa il futurista Ignazio La Russa, che sembrava l’incarnazione della caricatura del gerarca, con i suoi completi militari, le collezioni di soldatini, i voli dannunziani sopra Kabul... Insomma Berlusconi non può certo avercela con tutti gli ex giovani camerati che - Giovinezza Giovinezza - nel giorno in cui la destra berlusconiana fece eleggere Alemanno sindaco di Roma, lo salutarono sui gradini del Campidoglio con il saluto romano e il grido Eia eia alalà.
È vero che quando non lo soddisfacevano li chiamava ingrati, soprattutto Gianfranco Fini "il quale - disse nel 2009 all’agenzia Ansa - senza di me starebbe ancora dove stavano tutti loro sino al 1994" e voleva dire nelle fogne dello slogan ("fascisti carogne/ tornate nelle fogne"). Per la verità già un anno prima Berlusconi lo aveva tirato fuori dal sottosuolo della Storia. Non era ancora sceso in campo, quando Fini il fascista si candidò proprio a sindaco di Roma contro Rutelli. Ebbene, al cronista che gli domandava per chi avesse votato, l’imprenditore a sorpresa rispose: "Certamente Gianfranco Fini". Fu un lampo, un’epifania, probabilmente il suo scandalo più bello, un merito che la storia di sicuro gli riconoscerà: avere dato alla destra italiana lo ius soli nella democrazia. Fini fu battuto ma raggiunse il 47 per cento e mai sconfitta fu più vincente di quella. Berlusconi infatti lo aveva smacchiato. Con il paradosso però che, da quel momento, più Fini si allontanava dalla destra e più Berlusconi si spostava a destra. E più Fini si sfascistizzava e più, agli occhi di Berlusconi, ritornava fascista, come vuole il vecchio adagio secondo cui bisogna fare il giro del mondo per ritrovare la propria casa.
Ecco, appunto, Berlusconi in un’intercettazione con Lavitola lamentarsi che Fini gli bocciava uno dei suoi tanti lodi perché, secondo lui, subiva le lusinghe della sinistra: "non me l’approvano i fascisti, Fini non ci sta". E la cronaca racconta che non solo Berlusconi pagò 600 milioni per far nascere Fratelli d’Italia, ma che anche La Destra di Storace aveva avuto la sua concreta benedizione: "Ah, quando c’era la buonanima" disse mostrando a Storace il volume dell’editore Dino con il faccione del Duce sbalzato in oro. E Storace, che era a capo di una delegazione di fascisti sociali e dunque poveri: "Beato lei che ce l’ha, noi no, perché costa troppo".
Berlusconi fascista? Berlusconi antifascista? Nessuno meglio di noi, che lo abbiamo studiato per 20 anni, sa che Berlusconi non è stato niente, o se preferite è stato tutto e il contrario di tutto. Ci fu quello che difese Mussolini perché "non ha mai ammazzato nessuno e mandava la gente in vacanza al confino", e ci fu quell’altro che il 25 aprile del 2009 si annodò un fazzoletto rosso al collo e tenne un comizio ricordando la sua eroica mamma antinazista. Ci fu un Berlusconi che scelse la giornata della memoria per raccontare barzellette sugli ebrei e ce ne fu uno che, in tv, annunziò che sarebbe andato ad incontrare il papà dei fratelli Cervi senza neppure sentire Bertinotti che gli ripeteva: "guardi che papa Cervi è morto".
Nell’Italia del trasformismo, Berlusconi non è certo l’unico ad avere adattato le convinzioni alle convenienze, ma davvero oggi ha solo un suono acido la parola fascista usata dal vecchio sdoganatore dei fascisti. Allo stesso modo suona acida la parola stalinista usata dall’ultimo nipotino degli stalinisti. Sono solo parole morte che appartengono alla storia, un po’ come Orazi e Curiazi, turchi e mori, achei e troiani. Tanto più che Bertolaso, forse forse, in queste elezioni romane, è quello che della fascisteria parodiata - da affrontare con Ugo Tognazzi e non certo con Ferruccio Parri - esibisce di più i connotati: la virilità, gli attributi, la stessa spavalderia che mostrava sulle macerie dell’Aquila quando si vestiva da guerrigliero geologico, da capitano coraggioso. Cos’altro poteva dire alla Meloni incinta se non "vai a fare la mamma "? Spiace solo che, nelle polemiche, lo abbiano davvero trattato come se fosse l’uomo italiano medio, il rappresentante del maschio italiano, promuovendo lui e offendendo tutti gli altri.
Le parole impazziscono un attimo prima degli uomini. Ma non fanno tabula rasa. Remember è il titolo di un intelligente film tedesco che Berlusconi e D’Alema dovrebbero andare a vedere insieme, per ritrovare quel tanto che hanno in comune. Racconta di un vecchio che ha perso la memoria e va a caccia di nazisti. Senza ricordare che il nazista era lui.
Il governo della nazione
Il premier e l’ampia maggioranza per vincere la sfida di ottobre
di Francesco Verderami (Corriere della Sera, 30.01.2016)
È nato il governo della nazione, retto alle Camere da una maggioranza per la nazione, che non darà vita al Partito della nazione ma (forse) all’Alleanza per la nazione.
Il rompicapo è più semplice di quanto appaia, così come il rimpasto è più importante di quanto non appaia. Perché è dalla «ristrutturazione» dell’esecutivo che si comincia a delineare la strategia del premier, due anni dopo la presa di Palazzo Chigi e due anni prima dell’esame elettorale. Gli innesti nella squadra di governo, intanto, sono stati il modo in cui il leader del Pd ha instaurato una sorta di «pax renziana» nel vasto territorio che controlla: ha rinsaldato il patto con la minoranza dialogante del suo partito, ha soddisfatto un pezzo di mondo cattolico progressista legato alla comunità di Sant’Egidio, ha lanciato un segnale alla Cgil tenendo ai margini la «ditta», ha dato un upgrading a Scelta civica, e soprattutto ha riconosciuto un ruolo da alleato ad Alfano ma senza impegnarsi sul futuro.
Il risultato è la nascita del governo della nazione, se è vero che nello stesso gabinetto ora convivono l’erede di una famiglia liberale come il neoministro Costa, e un eretico della Rifondazione comunista come il neosottosegretario Migliore. Un melting pot che per gli avversari di Renzi ha i caratteri di un’operazione trasformista, ma che per Renzi è un tentativo di veder remare tutti i coalizzati nello stesso verso in vista del referendum costituzionale. E poco importa se i dubbi sulla composizione dell’equipaggio non hanno smesso di tormentarlo, se non è mai profondamente convinto delle scelte: dall’inizio della sua avventura al governo va così, anche stavolta c’è stato un rimpasto nel rimpasto.
Il governo della nazione serve ai suoi obiettivi e in fondo rispecchia l’immagine della maggioranza alle Camere, che è cambiata da quando ottenne la fiducia. Perché non c’è dubbio che il baricentro si stia sempre più spostando da sinistra verso il centrodestra, che al Senato - dove i voti non si pesano ma si contano - i parlamentari provenienti dal disciolto Pdl sono ormai la metà di quelli espressi dal Pd. E a fronte di una lenta emorragia nelle file democratiche si assiste a un travaso di ex e post-berlusconiani, «che fanno la fila» come ha detto Renzi nell’ultimo discorso a palazzo Madama, e che «aumenteranno» come ha preannunciato Verdini.
È vero che il capo del gruppo Ala - primo esempio di adozione politica a distanza - non è stato ancora accolto in casa. Ma è come se già ci fosse, sta lì sul pianerottolo: è con lui che in Parlamento ha preso corpo la maggioranza per la nazione. Toccherà al premier decidere se questa formula di Palazzo sarà proposta un giorno al giudizio del Paese. Di certo non è nelle intenzioni del premier dar vita al Partito della nazione, come ieri ha ripetuto il ministro Boschi, sebbene Verdini teorizzi che «Renzi potrebbe essere costretto dagli eventi a cambiare i propri piani». In prospettiva resta comunque valida un’altra opzione, che diventerebbe realtà se il leader del Pd accedesse all’idea di cambiare la legge elettorale e di restituire il premio di maggioranza a una coalizione, non più a una lista. È lì che nascerebbe l’Alleanza per la nazione e il cerchio si chiuderebbe in modo clamoroso.
Renzi finora ha fatto muro sull’Italicum, o meglio non ha mostrato le sue carte. La scelta peraltro arriverà solo alla vigilia del voto, sarà il frutto di un’analisi del risultato referendario, sarà l’effetto di un calcolo costi-benefici, dovrà scontare variabili che al momento non possono essere valutate. Il percorso è troppo lungo, se davvero le urne si aprissero nel febbraio del 2018, così come il premier non smette di ripetere in pubblico e in privato.
L’Alleanza per la nazione resta dunque sullo sfondo, mentre in Parlamento si consolida la maggioranza per la nazione. La quotidianità dei voti nelle Aule del Parlamento, insieme alla battaglia referendaria, potrebbero fare da innesco al cambio di sistema. Rimane da capire come si assesterà l’area che un tempo era nel centrodestra, «e che resta di centrodestra», sottolinea Schifani: «Noi non saremo una nuova Margherita». La scommessa contempla una sola puntata, e proprio l’uomo dei numeri di Berlusconi avvisa che «non possiamo sbagliarla»: «Studio i flussi elettorali, conosco il rapporto che c’è tra un leader e l’opinione pubblica di riferimento. Perciò - dice Verdini - sono il primo a non farmi illusioni. Ma ritengo che questa area, garantendo l’elettorato di centrodestra sulla bontà delle scelte di governo di Renzi, possa arrivare al 10%». «Giocatevi le vostre carte poi si vedrà»: così ha detto il premier che non dà garanzie sull’Alleanza per la nazione. Ma intanto si tiene stretti il governo della nazione e la maggioranza per la nazione.
Francesco Verderami
Per il consenso si abdica al bene comune
di Luigi La Spina (La Stampa, 15.01.2016)
È vero che la democrazia è fondata sul consenso, ma il modo con il quale i nostri politici interpretano questa esigenza corre il rischio di danneggiare gravemente gli interessi degli italiani, tradendo il mandato per cui hanno ottenuto i voti dai cittadini, cioè la ricerca del «bene comune».
Sia la rinuncia all’abolizione del reato di immigrazione clandestina, sia la vicenda della riforma costituzionale costituiscono i più illuminanti esempi di come sia così assoluta l’ossessione per quel consenso, così prevalente lo scrupolo di non turbare l’alleato di turno, così esasperata la valorizzazione dell’immagine mediatica del leader da travolgere qualsiasi razionale esame sul merito delle questioni che si affrontano. Con l’implicita e, qualche volta persino esplicita, ammissione della resa al fondamentale compito di un politico, quello di indirizzare l’opinione pubblica verso quelle soluzioni che si ritengono più efficaci e più giuste.
Clamoroso sintomo della consapevolezza di tale incapacità a esercitare il ruolo che dovrebbe competere a un politico sono state le dichiarazioni di due ministri, Boschi e Alfano, sul reato di immigrazione clandestina. Tutti e due, con una sciagurata confessione pubblica, hanno ammesso candidamente di condividere l’opinione generale di coloro che, magistrati e forze dell’ordine, tutti i giorni si trovano ad affrontare il difficilissimo problema dell’immigrazione di massa nel nostro territorio: lo sbandieramento dell’accusa di reato davanti a questo esodo della disperazione non solo è inutile, ma è un ostacolo grave a una accoglienza più controllata di tali flussi immigratori. Ma all’abolizione di questo reato non si può provvedere «perché gli italiani non capirebbero», interpretando il provvedimento come un’apertura incondizionata e senza regole delle nostre frontiere.
A parte l’offesa immeritata alla generale maturità intellettiva dei connazionali, i due ministri hanno avuto il merito di non nascondere ipocritamente i motivi di una precipitosa marcia indietro rispetto a un’abolizione opportuna e urgente, ammettendo la loro inadeguatezza a spiegare agli italiani le buone ragioni di tale mossa e, con ciò, la loro scarsa credibilità e autorevolezza rispetto all’elettorato. Risultato: agli italiani è stato arrecato il danno della rinuncia a un provvedimento utile a fronteggiare meglio l’immigrazione per l’incapacità di esercitare i compiti propri di una classe politica in democrazia.
Un uguale sprezzo della ragione e del merito delle questioni si è manifestato nella vicenda della riforma costituzionale e nell’avvio della campagna elettorale per il referendum sulla nuova legge che dovrebbe tenersi in autunno. Con l’aggravante di una questione di grande rilevanza per il buon funzionamento delle nostre istituzioni.
I parlamentari di Forza Italia, dopo aver votato in prima lettura la nuova legge imperniata sulla riforma del Senato, hanno cambiato idea solo perché, dopo la fine del cosiddetto patto del Nazareno col Pd, «si deve mandare a casa Renzi». Con l’incredibile conseguenza di trovare buona compagnia tra i promotori del referendum, proprio gli storici, acerrimi nemici di Berlusconi. Una ammucchiata sconcertante di «no», tenuta insieme evidentemente solo dal desiderio di cacciare il leader Pd da Palazzo Chigi e aiutata dallo stesso Renzi, voglioso di trasformare un giudizio su una legge in un plebiscito a favore o contro di lui.
Gli esempi citati del «malo modo» con il quale si fa politica in Italia potrebbero facilmente moltiplicarsi. Basti pensare alla legge Fornero sulle pensioni, approvata da un largo schieramento parlamentare durante il governo Monti come l’unica, benché molto amara, medicina per garantire il salvataggio dei conti dell’Inps e, ora, senza un partito che riconosca di averla votata. Oppure al ridicolo balletto sull’abolizione della tassa sulla prima casa, con una inversione del giudizio di volta in volta, solo secondo chi l’ha decisa.
La distorsione strumentale e miope, ormai senza più limiti, di un serio esame del merito delle questioni e, soprattutto, della valutazione dei concreti risultati delle leggi che sono state approvate dal Parlamento si è allargata anche fuori dal recinto della politica per invadere tutto il discorso pubblico nazionale. Un esempio, tra i tanti, la vicenda della riforma del mercato del lavoro. Sintomatici i commenti dei sindacati dopo la diffusione, da parte dell’Istat, degli incoraggianti dati sull’occupazione in Italia. Invece di accogliere con compiacimento i risultati del cosiddetto Jobs Act, magari esprimendo un condivisibile timore per le possibili conseguenze negative della futura riduzione degli incentivi alle aziende per le assunzioni, i leader delle confederazioni sono sembrati quasi dispiaciuti che la realtà sconfessasse le loro funeste previsioni sui concreti effetti del provvedimento.
Gli italiani avrebbero il diritto di non vedere così sacrificati i loro interessi da un mediocre gioco politicista in Parlamento, in tv e sulle piazze. Come il diritto di conoscere il contenuto delle leggi che si propongono per poter giudicare sul merito delle questioni e non sui vantaggi elettorali di chi le approva. Così potrebbero premiare la coerenza delle posizioni invece che la prontezza con cui le si cambiano. Soprattutto, avrebbero il diritto di pretendere il rispetto della loro intelligenza.
Parla l’ex giudice Giuliano Turone: troppe vicende ancora da chiarire
di Paolo Colonnello (La Stampa, 17/12/2015)
Milano
«Grande Burattinaio» o semplice «burattino»? Il mistero di Licio Gelli, morto l’altra sera ad Arezzo, rischia di rimanere sepolto per sempre nella sua stessa tomba. «Gelli in un certo senso non era né “burattino” né “burattinaio”. Meglio: più che altro fu un “burattinone”, custode e notaio di un meccanismo che garantiva a un certo potere la possibilità che le grandi decisioni venissero prese passando per percorsi deviati, paralleli, occulti...».
Così racconta Giuliano Turone, oggi scrittore e attore di teatro, ma all’epoca, insieme all’ex pm Gherado Colombo, uno dei due giudici istruttori che scoprì e rivelò le trame della P2 cavandoli dal nascondiglio di Castiglion Fibocchi. Per capire chi era Gelli, il venditore di materassi diventato «maestro venerabile» di una loggia massonica «segreta», la Propaganda 2, alla quale risultarono iscritti potenti di ogni tipo all’inizio degli Anni 80, bisogna fare un lungo salto nel tempo, fino al patto di Yalta che divise il mondo in due blocchi, assegnando all’Italia un posto di confine. «Altrimenti non si può capire nulla della sua storia e del suo ruolo», spiega Turone. Un «burattinone» al servizio di chi? «Gelli rispondeva a una logica che andava al di là della sua persona.
La relazione di Tina Anselmi, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta, a un certo punto parlò della P2 come di una doppia piramide: una era la base solida, quella che trovammo noi con gli elenchi degli iscritti P2 a Castiglion Fibocchi; poi c’era la piramide superiore, quella più occulta, la cui lista probabilmente è rimasta nascosta in qualche giardino di Montevideo».
Chi faceva parte di questo “meccanismo superiore” che muoveva i fili di Gelli?
«Noi arrivammo a Gelli investigando sull’omicidio Ambrosoli e sul finto sequestro Sindona. La documentazione relativa al nascondiglio segreto di Gelli ci arrivò all’ultimo momento grazie agli americani “buoni”, che a loro volta avevano incriminato Sindona negli Usa. Vi fu un’enorme collaborazione a quell’epoca, primi Anni 80, tra il nostro ufficio istruzione e la Procura di Brooklyn... Sembra un film, ma non lo è».
Se c’erano gli americani «buoni», c’è da supporre vi fossero quelli «cattivi»...
«C’erano quelli ossessionati dal fattore “K” e dall’esigenza di tenere in vita quest’incubo del comunismo e della guerra tra i blocchi per continuare a muoversi nell’ombra. Gelli rispondeva a queste logiche».
Dunque «il Venerabile» si porta nella tomba ancora dei segreti?
«Le cose che non sono state chiarite sono ancora una caterva. Pensiamo ad esempio alla strage di Bologna, vicenda per la quale Gelli e uomini dei servizi piduisti furono condannati per depistaggio. Ci sono stati tre giovanotti condannati, ma probabilmente ci sono responsabilità di altri rimaste nel buio».
Gelli ha mandato messaggi fino all’ultimo: come quando comparve in tv rivendicando i diritti d’autore sui progetti politici dell’ex premier Berlusconi, che non a caso fu tra gli iscritti della P2.
«Sì, Gelli rivendicava i diritti d’autore sul cosiddetto Piano di Rinascita Democratica che riteneva applicabile da Berlusconi: bavagli per la stampa, autonomia limitata della magistratura... Ma siamo sempre lì: non è che Gelli fosse il deus ex machina di tutto, diciamo che gestiva certe esigenze politiche, alcune delle quali passarono anche da quel famigerato “piano”».
Il suo ex collega Gherado Colombo ha sostenuto che se l’inchiesta sulla P2 non fosse stata portata a Roma - e lì lasciata ad ammuffire per anni -, Mani Pulite sarebbe emersa con dieci anni d’anticipo. Concorda?
«Certamente se la documentazione che portammo alla luce fosse stata investigata adeguatamente, certe verità, certe storture del sistema, sarebbero emerse ben prima».
Giuliano Turone: "Ma di quella loggia lui era il notaio, non la vera mente"
Il giudice che scoprì l’archivio: "Nelle carte che trovammo c’erano i misteri della storia d’Italia. Per questo ne facemmo tre copie subito"
di EMILIO RANDACIO (la Repubblica, 17 dicembre 2015)
MILANO. Ma chi e stato Licio Gelli? Cosa ha rappresentato il gran Maestro della Loggia Massonica P2? Per rispondere, forse, non ci sono parole migliori se non quelle di Giuliano Turone, il giudice di Milano che insieme a Gherardo Colombo, nel marzo del 1981 ordinò alla Guardia di Finanza di perquisire Castiglion Fibocchi, dove venne trovata la lista della P2. Gelli? "Il grande notaio di un sistema di potere occulto".
Cosa ricorda di quel giorno, dottor Turone?
"Quando la Finanza ci chiamò per dirci cosa aveva trovato, la nostra prima reazione fu di estrema attenzione, perché non pensavamo di trovare tutto quel materiale. Stavamo indagando sull’omicidio di Ambrosoli e sul rapimento "fasullo" di Michele Sindona. I contatti tra il banchiere e Arezzo erano stretto, e da qui la perquisizione".
Cosa venne sequestrato quel giorno?
"Una quantità di carte impressionante. C’erano le liste della P2, certo, ma non solo. C’erano buste sigillate con la sigla di Gelli che contenevano documenti con dentro i misteri della storia d’Italia, molti dei segreti di cui Gelli era il grande custode".
Fino a quel giorno cosa si sapeva della loggia P2?
"Si sapeva che esisteva una loggia di cui faceva parte sia Gelli che Sindona, ma non di questa importanza. Quando abbiamo scoperto che nell’elenco comparivano ministri e capi dei Servizi, abbiamo deciso di comunicarlo a Palazzo Chigi".
Quando avete scoperto l’importanza di quel ritrovamento, cosa avete fatto?
"Il giorno stesso abbiamo deciso di trasferire immediatamente a Milano le carte per fotocopiarle una a una in tre copie, tutte autenticate a mano da un cancelliere. Ci sono voluti giorni per completare il lavoro. Ricordo che per evitare depistaggi o sottrazioni, chiudemmo tutte le copie in tre diverse casseforti dell’ufficio istruzione. In agosto, l’inchiesta passò per competenza a Roma, ma nessuno, poi, riuscì mai a smentire nulla sulla genuinità di quei documenti".
Ma cosa è stata la P2, da quello che avete scoperto attraverso la vostra inchiesta?
"Uno strumento principe per creare meccanismi di potere occulti che prendeva decisioni di rilievo per le sorti del Paese. Questo non lo diceva solo la nostra inchiesta milanese, ma fa anche parte delle conclusioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, presieduta da Tina Anselmi".
E Licio Gelli e stato il direttore di questo strumento?
"Gelli era il custode, non il grande capo. Lui era stato designato come il notaio di questo meccanismo".
Chi aveva interesse che il potere venisse gestito in questo modo occulto?
"Bisogna ricordare cosa è stato questo paese nel dopoguerra. Dallo sbarco degli alleati in Italia, c’é stata una sorta di investitura da parte degli americani in Sicilia, di uomini di Cosa nostra. Sono stati insediati anche sindaci che appartenevano a Cosa nostra e alla ’ndrangheta. Questo perché c’era il timore che l’Italia diventasse un paese sotto il controllo di Mosca. Gli Usa, in questo senso hanno obiettivamente rafforzato Cosa nostra, che era intimamente collegata sia a Sindona che a Gelli. Dalle carte di processi dei primi anni ’90, sappiamo che Licio Gelli dialogava con i capi palermitani della mafia".
Censis: il Paese è in letargo esistenziale collettivo, la ripresa è affidata all’inventiva personale
di Andrea Gagliardi (Il Sole - 24 Ore, 4 dicembre 2015)
Nell’Italia «dello zero virgola», in cui le variazioni congiunturali degli indicatori economici sono ancora minime, «continua a gonfiarsi la bolla del risparmio cautelativo e non si riaccende la propensione al rischio». Ma c’è «una piattaforma di ripartenza del Paese che gioca sul driver dell’ibridazione di settori e competenze tradizionali, che così si trasformano: è il nuovo Italian style». Sono alcuni dei passaggi più significativi del 49° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese. Un rapporto nelle cui «Considerazioni generali» si parla di «letargo esistenziale collettivo», di «pericolosa povertà di progettazione per il futuro, di disegni programmatici di medio periodo», di «prevalere dell’interesse particolare e dell’egoismo individuale», nonché di «crescita delle diseguaglianze, con una caduta della coesione sociale e delle strutture intermedie di rappresentanza che l’hanno nel tempo garantita».
Propensione al risparmio in crescita
Nel corso dell’anno i principali indicatori economici hanno cambiato segno ed evidenziano movimenti verso l’alto nell’ordine di qualche decimale di punto percentuale. Ma nell’Italia «dello zero virgola» continua a gonfiarsi la bolla del cash cautelativo. «Lo dimostra - scrive il Censis - il tasso di inflazione, inchiodato intorno allo zero nonostante il poderoso sforzo della Bce con il quantitative easing, così come gli investimenti nulli». Ammonta a più di 4.000 miliardi di euro il valore del patrimonio finanziario degli italiani. «In quattro anni (giugno 2011-giugno 2015) ha registrato un incremento di 401,5 miliardi: +6,2% in termini reali.
Negli anni della crisi la composizione del portafoglio delle attività finanziarie delle famiglie ha sancito il passaggio a una opzione fortemente difensiva degli italiani: il contante e i depositi bancari sono saliti da una quota pari al 23,6% del totale nel 2007 al 30,9% nel 2014, mentre sono crollate le azioni (dal 31,8% al 23,7%) e le obbligazioni (dal 17,6% al 10,8%). Negli ultimi dodici mesi (giugno 2014-giugno 2015) si conferma l’opzione cautelativa degli italiani, con un incremento di 45 miliardi di euro della liquidità (+6,3%) e di 73 miliardi in assicurazioni e fondi pensione (+9,4%), e con la rinnovata contrazione di azioni e partecipazioni (10 miliardi in meno, pari a una riduzione dell’1,2%). D’altro canto, il risparmio è ancora la scialuppa di salvataggio nel quotidiano, visto che nell’anno trascorso 3,1 milioni di famiglie hanno dovuto mettere mano ai risparmi per fronteggiare gap di reddito rispetto alle spese mensili.
Riguardo agli investimenti, il mattone ha ricominciato ad attrarre risorse. Lo segnala il boom delle richieste di mutui (+94,3% nel periodo gennaio-ottobre 2015 rispetto allo stesso periodo del 2014) e l’andamento delle transazioni immobiliari (+6,6% di compravendite di abitazioni nel secondo trimestre del 2015 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente). E si diffonde la propensione a mettere a reddito il patrimonio immobiliare: 560.000 italiani dichiarano di aver gestito una struttura ricettiva per turisti, come case vacanza o bed & breakfast, generando un fatturato stimabile in circa 6 miliardi di euro, in gran parte sommerso. In questa fase, l’esigenza della riallocazione del risparmio in modo più funzionale all’economia reale si lega strettamente alla richiesta di scongelare quote del proprio reddito aspirate dalla fiscalità: il 55,3% degli italiani vuole il taglio delle tasse, anche a costo di una riduzione dei servizi pubblici.
Il rimbalzo occupazionale dopo la lunga crisi
Dall’entrata in vigore del Jobs Act, il mercato del lavoro «ha visto rimbalzare l’occupazione di 204.000 unità». Ma, segnala il Censis, «siamo ancora lontani dal recuperare la situazione pre-crisi, dato che nel terzo trimestre dell’anno, rispetto allo stesso periodo del 2008, mancano all’appello 551.000 posti di lavoro». La disoccupazione si riduce all’11,9%, «una cifra molto lontana però dal 6,7% del 2008». Per quanto riguarda i giovani (15-24 anni) si registra un crollo dell’occupazione, proseguito anche nel 2015, «con un recupero ora di appena 9.000 unità rispetto al primo trimestre. Il loro tasso di disoccupazione è praticamente raddoppiato in sei anni, con un picco del 42,7% nel 2014 e poi un calo di 1,4 punti tra il primo e il terzo trimestre di quest’anno».
L’occupazione femminile, invece, «ha guadagnato 64.000 posti di lavoro in sei anni e si registra ancora un incremento di 35.000 occupate tra il primo e il terzo trimestre del 2015». E se nel 2008 i lavoratori più anziani (55-64 anni) «erano poco meno di 2,5 milioni, nel 2014 erano diventati 3,5 milioni e continuano a crescere, con un aumento di 91.000 unità nei primi sei mesi dell’anno».
Si consolida la presenza nel mercato del lavoro della componente straniera, «che ha superato i 2,3 milioni di occupati, con un incremento di 604.000 unità tra il 2008 e il 2014 e di 77.000 nella prima metà dell’anno”. Intanto, permangono criticità che rischiano di cronicizzarsi: «i giovani che non studiano e non lavorano (i Neet) sono 2,2 milioni, la sottoccupazione riguarda 783.000 addetti, il part time involontario 2,7 milioni di occupati e la Cassa integrazione ha superato nel 2014 la soglia del miliardo di ore concesse, corrispondenti a circa 250.000 occupati equivalenti».
Il driver vincente dell’ibridazione
Per il Censis «la piattaforma di ripartenza del Paese gioca sul driver dell’ibridazione di settori e competenze tradizionali». Oggi il «primo fattore di riposizionamento dei vincenti è il rapporto con la globalità, profondamente modificato dall’abbattimento delle barriere e dei costi di ingresso grazie al digitale». Chi negli anni delle ristrettezze interne «ha vinto ogni pulsione protezionista o di pura trincea, ed è andato verso l’esterno assumendosene i rischi e accettando le sfide, adesso incassa il dividendo di tale scelta». Le esportazioni valgono il 29,6% del Pil. «Nonostante il contraccolpo causato dalla crisi dei mercati emergenti, hanno continuato a crescere anche negli anni della crisi e nei primi nove mesi dell’anno segnano un +4,2% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente». Vincono i produttori di macchine e apparecchiature, con un surplus di 50,2 miliardi di euro nel 2014, e «l’Italia oggi è leader nella produzione di macchinari per produrre altri macchinari.
Vince l’agroalimentare, che nell’anno dell’Expo fa il boom di esportazioni (+6,2% nei primi otto mesi del 2015) e riconquista la leadership nel mercato mondiale del vino (con oltre 3 miliardi di export). Vincono i comparti consolidati dell’abbigliamento (+1,4% di export nei primi otto mesi dell’anno), della pelletteria (+4,5%), dei mobili (+6,3%), dei gioielli (+11,8%). E vince un settore trasversale per vocazione come quello creativo-culturale, con 43 miliardi di export.
Ma il vero «X factor» sta «in una rinnovata ibridazione di settori e competenze tradizionali che produce un nuovo stile italiano». «Il risultato di questa ibridazione è una trasformazione dei settori tradizionali. Il design e la moda ne sono l’archetipo (ibridazione di qualità, saper fare artigiano, estetica, brand)» E oggi il successo della gastronomia italiana «ha agganciato lo sviluppo della filiera agroalimentare, legandola anche al turismo, alle bellezze paesaggistiche e culturali del Paese, grazie anche al volano delle piattaforme digitali».
Ritrovata nei beni durevoli: auto ed elettrodomestici
Il Censis segnala inoltre lo stop al ciclo declinante del consumo di beni durevoli, che, partito dal 2007, si è protratto fino al 2013. Dalla seconda metà del 2014 e per tutto il 2015 - scrive il Censis - sono proprio i beni durevoli a trainare la ripresa dei consumi familiari. Tra coloro che in famiglia assumono la responsabilità degli acquisti principali, la quota di chi dichiara di avere fiducia nel futuro (il 39,8%) supera quella di chi non vede segnali positivi (il 22,4%), mentre la parte restante (il 37,8%) è ancora incerta. Questa ritrovata fiducia si riflette sulle intenzioni di acquisto: il 5,7% delle famiglie (più del doppio rispetto all’anno scorso) ha intenzione di comprare un’auto nuova (se andrà così, si avranno nel 2016 circa 1,5 milioni di immatricolazioni, come non si vedeva dal 2008), il 5,7% nuovi mobili per la casa, l’11,2% nuovi elettrodomestici (quasi 3 milioni di famiglie), il 9,2% ha intenzione di ristrutturare l’immobile. Sono potenzialità nei consumi da scongelare.
Verso nuovi stili di consumo digitali e relazionali
Il Censis stima in 15 milioni gli italiani che fanno acquisti su internet, 2,7 milioni hanno comprato prodotti alimentari in rete negli ultimi dodici mesi e l’home banking è praticato dal 46,2% degli utenti del web. E il successo della sharing economy rende ancora più evidente i nuovi stili di consumo. Nell’ultimo anno il 4% degli italiani (circa 2 milioni) ha utilizzato il car sharing, ma tra i giovani la percentuale sale all’8,4%.
L’immigrazione e i processi di integrazione
Gli stranieri in Italia seguono una traiettoria di crescita verso la condizione di ceto medio, differenziandosi così dalle situazioni di concentrazione etnica e disagio sociale che caratterizzano le banlieue parigine o le “inner cities” londinesi, dove l’islam radicale diventa il veicolo del rancore delle seconde e terze generazioni per una promessa tradita di ascesa sociale. Tra il 2008 e il 2014 in Italia i titolari d’impresa stranieri sono aumentati del 31,5% (soprattutto nel commercio, che pesa per circa il 40% di tutte le imprese straniere, e nelle costruzioni, per il 26%), mentre le aziende guidate da italiani diminuivano del 10,6%.
Politica e società ancora fuori sincrono
Quest’anno il Censis registra un «generoso impegno a ridare slancio alla dinamica economica e sociale del Paese attraverso il rilancio del primato della politica, con un folto insieme di riforme di quadro e di settore, e la messa in campo di interventi tesi a incentivare propensione imprenditoriale e coinvolgimento collettivo rispetto al consolidamento della ripresa». Ma questo impegno «fatica a fomentare nel corpo sociale una reazione chimica, un investimento collettivo, la necessaria osmosi tra politica e mondi vitali sociali». L’elemento oggi più in crisi è la dialettica socio-politica, che «non riesce a pensare un progetto generale di sviluppo del Paese a partire dai processi portanti della realtà ed esprime una carenza di élite». Così, la cultura collettiva «finisce per restare prigioniera della cronaca (scandali, corruzioni, contraddittorie spinte a fronteggiarli, ecc.)». Resta un deficit di fiducia nei cittadini. Gli italiani si distinguono per un livello di fiducia accordato alle diverse istituzioni politiche più basso di quello espresso dai concittadini europei: solo quote minime hanno fiducia nei partiti politici (9%), nel Governo (16%), nel Parlamento nazionale (17%), e la percentuale di quanti ripongono fiducia nell’operato delle autorità regionali e locali (il 22%) è meno della metà di quanto si riscontra in media nel resto del continente (47%). Bassi anche i giudizi di fiducia su Commissione europea (39%) e Bce (35%).
I processi di sviluppo reale del Paese
Oltre la pura cronaca e il volontarismo della politica restano «i processi di sviluppo reale del Paese». È uno sviluppo fatto di «basi storiche, capacità inventiva e processi vincenti». Esempio ne sono i giovani che vanno a lavorare all’estero o tentano la strada delle start up, le famiglie che accrescono il proprio patrimonio e lo mettono a reddito (con l’enorme incremento, ad esempio, dei bed & breakfast), le imprese che investono in innovazione continuata e green economy, i territori che diventano hub di relazionalità (la Milano dell’Expo come le città e i borghi turistici), la silenziosa integrazione degli stranieri nella nostra quotidianità. A ciò si accompagna anche un’evoluzione più strutturata, con il nuovo made in Italy che si va formando nell’intreccio tra successo gastronomico e filiera agroalimentare, nell’integrazione crescente tra agricoltura e turismo (con l’implicito ruolo del patrimonio paesaggistico e culturale), nel settore dei «macchinari che fanno macchinari» (la vera punta di diamante della manifattura italiana).
La società del «resto»
Nelle fasi di sviluppo precedenti, la domanda di riconoscimento della società era rivolta al mondo della rappresentanza sociale, alla dialettica socio-politica e al potere statuale. Ma oggi sono tre chiamate in causa cui è difficile dare seguito, «perché sono tre realtà in crisi». Si esprime invece «in quella dinamica spontanea descritta sopra, che però è considerata residuale: un «resto» rispetto ai grandi temi che occupano la comunicazione di massa». Ma il «resto», che finora non è entrato nella cronaca e nel dibattito socio-politico, «comincia ad affermare una sua autoconsistenza».
«Cosa resta oggi del grande processo di globalizzazione vista come occidentalizzazione del mondo? Il policentrismo di tanti diversi sviluppi e la crescita faticosa di una poliarchia» ha detto Giuseppe De Rita, presidente del Censis, illustrando il Rapporto annuale dell’istituto. E ha spiegato: «Nella nostra storia, il resto del mito della grande industria e dei settori avanzati è stata l’economia sommersa e lo sviluppo del lavoro autonomo. Il resto del mito dell’organizzazione complessa e del fordismo è stata la piccola impresa e la professionalizzazione molecolare. Il resto della lotta di classe nella grande fabbrica è stata la lunga deriva della cetomedizzazione. Il resto dell’attenzione all’egemonia della classe dirigente è stata la fungaia dei soggetti intermedi e la cultura dell’accompagnamento. Il resto del primato della metropoli è stato il localismo dei distretti e dei borghi. Il resto della spensierata stagione del consumismo (del consumo come status e della ricercatezza dei consumi) è la medietà del consumatore sobrio. Il resto della lunga stagione del primato delle ideologie è oggi l’empirismo continuato della società che evolve».
Un saggio di Sergio Flamigni denuncia la collaborazione tra ex Br ed esponenti del potere democristiano
Segreti e bugie
quel patto occulto sul caso Moro
di Benedetta Tobagi (la Repubblica, 26.10.2015)
“Patto di omertà“(Kaos) è molto più di un nuovo (ennesimo) libro sul caso Moro: è una lezione di metodo e una pietra d’inciampo. L’autore, Sergio Flamigni, ex senatore del Pci in cui ha militato sin dalla giovinezza, partigiano prima, poi giovanissimo dirigente forlivese, è il massimo esperto della vicenda, a cui si dedica da una vita, da quando entrò nella prima Commissione parlamentare d’inchiesta sul delitto (1979-‘83).
Instancabile “cercatore di verità”, come ama definirsi, fondatore del principale archivio italiano sul terrorismo, otto libri all’attivo (il più noto “La tela del ragno”), torna sulla vicenda e ripercorre le carte alle luce delle acquisizioni più recenti. Perché - ecco il metodo- nel proliferare incontrollabile di pubblicistica interessata, memorie contraddittorie e dichiarazioni tardive, spesso su funzionari dello Stato ormai defunti (lo storico Gotor ha ben analizzato come il proliferare di narrazioni e testimonianze, solo in parte veritiere, comunque verosimili, sia funzionale all’oscuramento della verità sugli aspetti più indicibili del delitto), i documenti restano il riferimento imprescindibile, e vanno riletti e ristudiati nel tempo, con pazienza e umiltà.
C’è stato (e ancora resiste) un patto di omertà, tra ex esponenti di vertice delle Brigate Rosse e del potere democristiano: questa la tesi di fondo, ampiamente documentata, di Patto d’omertà . Lo scopo? Impedire una ricostruzione completa e veritiera del sequestro e omicidio di Aldo Moro, in cui trovino risposta i quesiti ancora aperti (Flamigni stila un elenco circostanziato delle lacune, gravissime: basti ricordare che ancora non si conosce l’identità di tutte le persone che spararono in via Fani).
Al posto della verità, a partire dalla metà degli anni Ottanta, la collaborazione sotterranea tra figure chiave delle due parti (mentre all’esterno si sbandierava strumentalmente la retorica della “riconciliazione”, ricordate?) ha confezionato una ricostruzione lacunosa e in più punti falsa del caso Moro da dare in paso all’opinione pubblica, le cui architravi sono:
(1) la strage di via Fani e i 55 giorni sono stati eseguiti e gestiti solo dalle Br, senza aiuti e complicità esterne;
(2) non vi furono omissioni e manovre occulte all’interno degli apparati dello Stato durante i 55 giorni;
(3) non vi furono trattative occulte.
Una versione di comodo sia per gli ex Br, perché salvaguardava i loro miti identitari della “purezza rivoluzionaria” e della “geometrica potenza”, sia per la Dc (Cossiga e Andreotti in testa), perché contrastava con le evidenze di un’insufficiente impegno governativo per salvare Moro. L’architrave della versione ufficiale, sdoganata grazie alla compiacenza, ahimè, di vari esponenti della magistratura coinvolti nei processi Moro, è il cosiddetto “memoriale Morucci” (passato dalla scrivania dell’allora presidente Cossiga prima di pervenire ai magistrati), che tradisce la propria natura mistificatoria sin dal nome: bisognerebbe chiamarlo infatti “memoriale Morucci-Cavedon”, perché è frutto di molti colloqui tra l’ex Br dissociato e Remigio Cavedon, giornalista, direttore del quotidiano Dc Il popolo e consulente personale di politici del calibro di Mariano Rumor, al punto che Morucci ammise di non saper più distinguere con precisione cosa fosse esclusivamente farina del proprio sacco (indigna leggere che il magistrato, anziché approfondire il punto, abbia lasciato correre).
La parte più consistente e appassionante del saggio di Flamigni è la meticolosa analisi testuale del documento, che mette in luce omissioni e falsità sulla base delle innumerevoli fonti scritte e orali accumulatesi nei decenni. L’altra sezione “scandalosa” e illuminante riguarda il contesto internazionale in cui maturò il delitto Moro: una dimensione senza cui esso è condannato a restare inintelligibile.
Ha il pregio della chiarezza, il libro di Flamigni. Grazie alla limpida cronologia sinottica degli avvenimenti e delle indagini dalla mattina del 16 marzo 1978 al ’97, quando l’ex capo delle Br Moretti ottenne la semilibertà, fornita in apertura, si presta ad essere letto e compreso anche da chi sa poco o nulla. Circoscrive le lacune e le omissioni documentali per poter ribadire quanto invece sappiamo per certo, a dispetto delle menzogne governative e brigatiste.
Per anni Flamigni è stato deriso, denigrato come un pazzo visionario, osteggiato con cause per diffamazione (da cui è sempre uscito vincente, anche contro Cossiga), adesso, dopo che i fatti gli hanno dato ragione su tutto (dalle carte rimaste nascoste in via Montenevoso all’esistenza di un “quarto uomo”, solo per citare le più clamorose “anticipazioni” scaturite dalle sue ricerche), il rischio è che la sua voce limpida sia sommersa dal rumore.
Mentre la nuova Commissione Moro, agli occhi degli addetti ai lavori, sembra dedita principalente a confondere le acque e sfornare scoop di dubbia fondatezza con pretese di scientificità (clamorosa la “ricostruzione 3D” della strage di via Fani che fa a pugni con le perizie) che non a far procedere le conoscenze e dove, a dispetto delle direttive altisonanti del Governo sugli archivi del terrorismo, ancora non sono saltati fuori i verbali delle riunioni del comitato di crisi interforze attivo durante il sequestro (e pieno di affiliati alla P2), questo saggio è una preziosa pietra d’inciampo.
Sappiamo moltissimo, del caso Moro, e ciò che non sappiamo getta luce sull’“anatomia del potere italiano” (per citare un saggio di Gotor, altro caposaldo sulla vicenda) e le caratteristiche del terrorismo in Italia: Patto di omertà consolida e approfondisce il patrimonio di verità, insegna a ragionare e a non cedere allo scetticismo.
di Fabrizio d’Esposito (Il Fatto quotidiano, 10 ottobre 2015) *
Il professore Alberto Asor Rosa, icona degli intellettuali di sinistra, è stato il primo a usare la definizione di mutazione genetica nel linguaggio politico. Accadde nella Prima Repubblica, con il Psi di Bettino Craxi. Trent’anni dopo la stessa metafora scientifica accompagna, nella vulgata giornalistica, il Pd renziano nel suo grottesco viaggio verso la destra peggiore di questo Paese, quella degli ex berlusconiani Denis Verdini e Angelino Alfano, futuri inquilini o alleati del Partito del la nazione.
Professore, che cosa sta diventando il Pd di Renzi?
«Un partito nuovo che non ha più una base di massa, rispon de al comando di un leader in contrastato e ha un gruppo dirigente conservatore di destra».
È una perfetta definizione accademica, senza fronzoli. Un partito di destra, nemmeno di centro.
«È un dato di fatto che l’attuale vertice del Pd ha escluso dal gruppo dirigente ogni erede della tradizione comunista, ma anche progressista o riformista. Sono tutti ex democristiani».
Una nuova Dc.
«No, perché ai vecchi democristiani non sarebbe mai venuto in mente di proclamare il Partito della nazione. L’obiettivo del Pdn è l’ulteriore perfezionamento in termini di destra di questa tradizione centrista, che non ha ritegno a considerare interlocutori Alfano e Verdini».
Risultato: Verdini non è il mostro di Loch Ness (Renzi dixit) ma Marino sì.
«La liquidazione di Marino può essere annoverata tra le molteplici iniziative di Renzi e del renzismo di avere sull’Italia un controllo totale. Quando questo controllo non c’è si ricorre all’aggressività».
Marino ci ha messo del suo.
«Il sindaco di Roma non ha rivelato quella tempra di condottiero necessaria, ma non ho dubbi che abbia prevalso, contro di lui, una spinta eversiva e catastrofica proveniente da tante parti».
Com’è possibile che il Partito di Loch Ness nasca a sinistra, anziché a destra?
«La risposta è facile. Per mettere in moto questo processo occorreva che la forza trainante fosse una parvenza di sinistra dietro cui nascondersi, altrimenti ci sarebbe stato un coro di sghignazzamenti, se non di manifestazioni di piazza».
Quindi il berlusconismo è stato meno pericoloso del renzismo.
«Sì, “Silviuccio” non era in grado di elaborare culturalmente una simile invenzione. E politicamente la piazza glielo avrebbe impedito».
A Renzi no, invece.
«Può fare quello che sta facendo perché il Pd è mutato nelle sue radici e la mutazione genetica ha investito anche i suoi elettori. Non dimentichiamo che lui arriva dopo una sequela pluridecennale di fallimenti del centrosinistra e la gente ha pensato: “Almeno questo fa qualcosa”».
Il fatidico 40 per cento alle Europee.
«Renzi ha un consenso vasto anche se il punto culminante del suo successo è già alle nostre spalle».
All’orizzonte c’è però l’autoritarismo della nuova Costituzione.
«Qualsiasi atto del presidente del Consiglio mira al restringimento della democrazia, in termini di spazi e di base del consenso. Contano solo i vertici del potere, dalle rappresentanze politiche al presi de-manager della scuola. Per renzismo, intendo questo».
Combattere il renzismo dall’interno del Pd non sembra possibile.
Sulla minoranza del Pd, in questi giorni, mi sono venute in mente solo due parole».
Quali?
«Ridicola e penosa. Ridicola perché ha fatto ridere la battaglia su alcuni particolari della riforma Boschi. Penosa perché il risultato ha dimostrato che la minoranza non conta nulla. Poi ha superato anche il limite etico-politico perché non si è vergognata di votare con Verdini».
Fuori dal Pd c’è un deserto a sinistra?
Deserto mi pare eccessivo. Ci sono tanti pezzetti sparsi ma non c’è nessuno in grado di convogliare queste forze verso la stessa direzione.
Un effetto collaterale della mutazione genetica?
«Dalla crisi dei grandi partiti di massa nati dall’antifascismo e dalla Resistenza non c’è stata nessuna vera scintilla».
Come si qualifica una mutazione?
«Quando cambiano natura, vocazione e cultura».
Nel Pd renziano?
«Si parte dall’idea che i conflitti sociali siano dannosi per cui i sindacati diventano il nemici. Così la cultura della nazione impone una ratio comune che è quella del grande capitale e della grande finanza. Il terzo punto è il restringimento della democrazia. Il Partito della nazione, sviluppato sino in fondo, comprenderà anche Berlusconi e i berlusconiani, non solo Verdini e Alfano» .
* EDDYBURG. Nell’intervista di Fabrizio D’Esposito ad AAR un’illustrazione ineccepibile della parabola discendente e del definitivo approdo del più grande partito della sinistra italiana del secolo scorso. Un errore nel titolo: la destra autoritaria c’è già.
IN ITALIA
Renzismo e berlusconismo
La vera “riforma epocale”
di MICHELE DI SCHIENA*
Gli sviluppi della politica italiana dimostrano come il renzismo non sia altro che la riedizione, rinfrescata e emendata da certi eccessi, del berlusconismo dal quale ha mutuato anche quel modus operandi fatto di annunci spettacolari che puntano tutto sul futuro per distogliere l’attenzione dal presente, di allettanti promesse e di un ostentato ottimismo che non è “ottimismo della ragione” e neppure “della volontà”, ma lo strumento di una spiccata abilità comunicativa inteso ad alimentare una perenne “fata morgana”.
Il patto del Nazareno è quindi destinato a sopravvivere a tutte le sue morti apparenti perché Renzi non ha in alcun modo “cambiato verso” alla politica del nostro Paese ma sta facendo il “verso” dell’ex Cavaliere con le sue riforme istituzionali ed elettorali che rischiano di alterare i connotati della nostra democrazia, con una politica in materia di lavoro (Jobs act e art. 18) che precarizza ulteriormente il lavoro stesso senza promuovere una vera lotta alla disoccupazione, con la nuova legge sulla scuola che accresce a dismisura i poteri dei vertici dirigenziali e riduce quello degli organi collegiali e con le riforme della Rai e della PA anch’esse guidate dall’idea che occorre accentrare le funzioni di comando a scapito delle forme di partecipazione di base.
In linea con il berlusconismo si palesa anche l’inadeguatezza della lotta alla corruzione e all’evasione fiscale; talune scelte rivelatrici dell’insofferenza al controllo di legalità della Magistratura e certi ricorrenti tentativi di mettere a freno il controllo sociale dei sindacati e quello democratico
degli organi di informazione. Per non parlare poi del grande annuncio della riduzione delle tasse, la cui compatibilità con le disponibilità finanziarie e i vincoli di bilancio è tutta da verificare, mentre il Senato ha già approvato pesanti tagli della spesa sanitaria tali da mettere a rischio ricoveri ospedalieri ed esami strumentali necessari con un grave ridimensionamento della prevenzione. E ciò mentre nulla si muove per la lotta alla povertà. Né può sfuggire che le affinità tra l’ex Cavaliere e Renzi investono anche la politica estera: in Europa la supina giocosità berlusconiana ha ceduto il posto alla non meno accondiscendente seriosità renziana baldanzosa solo a uso interno.
Renzismo e berlusconismo sono quindi due facce della stessa medaglia ma il fatto è che le maggiori forze di opposizione non si dimostrano in grado di elaborare credibili progetti alternativi improntati a criteri di giustizia e di equità: una considerazione che nulla toglie ai meriti di alcune battaglie del movimento pentastellato centrate su problemi specifici e scandalose vicende.
Le sensibilità alternative al patto del Nazareno (che Berlusconi sembra intenzionato a risuscitare anche formalmente in vista dell’ipotizzato Partito della Nazione) premono indubbiamente a sinistra dentro e fuori il Pd ma non sembrano in grado di svolgere un ruolo di rilievo nell’interesse dei ceti sociali più deboli e soprattutto della nostra zoppa democrazia che rischia di languire nell’angosciante recinto degli equilibri consolidati e degli squilibri accettati. Occorre quindi il risveglio di una sinistra che, ispirandosi alla cultura socialista e al solidarismo cristiano, ponga al primo posto, nella politica economica, non la generica “crescita” ma una lotta senza quartiere alle inaccettabili disuguaglianze sociali.
Ma occorre che facciano la loro parte anche le forze di tradizione illuminista e di cultura liberal-progressista che nei momenti difficili hanno sempre contribuito al rilancio della democrazia.
È necessario insomma il concorso di tutte quelle espressioni politiche e di quei movimenti che si riconoscono, per dirla con il grande giornalista Jan Daniel, nei valori universali che sono «il dato comune tra la saggezza greca, la cultura romana, il messaggio dei 10 comandamenti, il sermone della montagna, l’eredità delle rivoluzioni americana e francese, la morale universale di Kant, la dichiarazione dei diritti dell’Uomo e la Carta delle Nazioni Unite». E, non ultima, l’esortazione del papa che nell’Evangelii Gaudium denuncia le iniquità del modello economico dominante e della cultura dello «scarto» che lo sostiene affermando che non si tratta più del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione ma di qualcosa di nuovo, perché con l’esclusione resta colpita l’appartenenza alla società in cui si vive.
Abbiamo quindi un inestimabile patrimonio di valori che hanno anche ispirato e dato corpo alla nostra Costituzione la quale ha saputo tradurli in istituzioni democratiche, modelli di comportamento, direttive politiche e precetti volti a fare del nostro Paese una “grande potenza” di solidarietà, di giustizia e di pace. Un tesoro di saggezza al quale si fa riferimento solo in occasione di talune ricorrenze o per sostenere questa o quella tesi ovvero questa o quella polemica senza mai ricorrere ad esso per farne la stella polare di progetti il cui metodo sia la partecipazione democratica e gli obiettivi la tutela della dignità della persona, la promozione del diritto al lavoro e una economia indirizzata a fini sociali.
* Presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione
* Adista/Segni nuovi, 12 SETTEMBRE 2015 • N. 30
Dominijanni, Ida.
Il trucco. Sessua lità e biopolitica nella fine di Berlusconi.
Roma: Ediesse, 2014. Pp. 251. ISBN 9788823019171. € 14.00 (paperback).
Nell’imponente quantità di pubblicazioni sul berlusconismo, Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, di Ida Dominijanni , è finora l’unica solida riflessione teorica e femminista che ne analizzi gli aspetti fondativi, simbolici e strategici, mettendoli in relazione con la storia culturale e politica italiana degli ultimi quaranta anni e con la dimensione transnazionale.
Con profonda consapevolezza teorica, l’analisi della filosofa, femminista della differenza, saggista e storica editorialista del Manifesto , parte dalla nozione lacaniana dell’ “evaporazione del padre”- cioè la crisi dell’ordine simbolico incarnato dalla legge edipica - e si misura con il pensier o di Foucault, Arendt, Butler, Lonzi, Ž i ž ek , e Recalcati, per citare solo i riferimenti più eclatanti.
Ambizioso obiettivo del libro è la riconfigurazione teorica e storica del berlusconismo nel periodo che prende il via dalla stagione del “lungo sessantotto italiano” (33) e del femminismo, estenden dosi alla contemporaneità.
Dominijanni contesta le interpretazioni mainstream : la prima, che vede il berlusconismo come un’anomalia italiana del modello liberal democratico e un attacco ai principi costituzionali; la seconda, che insiste sulla realizzazion e politica della debordiana “società dello spettacolo”; la terza, infine, che denuncia una strategia politica di identificazione con un preciso blocco sociale che mira a difendere i propri interessi socio - economici, sullo sfondo del modello neoliberale e i ndividualista della postmodernità.
Queste tre linee interpretative colgono alcuni dei tratti salienti del regime berlusconiano, nota Dominijanni, ma ne offrono una visione parziale. Il trucco capovolge i discorsi sul berlusconismo, riportando al centro d ell’analisi l’azione dirompente che la sessualità, il corpo e gli affetti esercitano sulla politica. Discutendo il berlusconismo come un’“inedita forma di governamentalità biopolitica e post- patriarcale” (27) fondata sullo scambio di sesso, potere e denaro , la studiosa analizza la sfera della sessualità nella sua funzione, innanzi tutto, di strumento di codificazione del “regime del godimento” (25), basato sull’autoimprenditorialità del corpo e della sua libera offerta come merce di scambio negli ambiti soc io- culturali ed economici del neoliberalismo.
D’altra parte, è proprio la sessualità, sostiene Dominijanni, ad aver delegittimato il berlusconismo attraverso la denuncia dell’immagine fallace e strategica del sovrano.
Si tratta di una vera e propria ribell ione all’ordine simbolico post- patriarcale che prende forma nella presa di parola delle donne del sexgate e rivela la natura del “trucco” che dà il titolo al libro, cioè la fondamentale “impotenza” (17) del sovrano.
Tesi di fondo del libro è che la ventenn ale egemonia del berlusconismo sia stata neutralizzata non tanto sul terreno economico, quanto per l’appunto su quello della sessualità.
Dopo una premessa metodologica e un’introduzione teorica (“ Dalla fine . Spettri di Berlusconi”), l’analisi si snoda in nove serrati capitoli che discutono i tratti fondanti del berlusconismo nella loro valenza simbolica e storica.
Il rigore dell’argomentazione e l’originale storicizzazione dei fatti si intersecano con la vivacità giornalistica e lo spirito polemico dell’au trice, che sollecita una rilettura del presente alla luce dei dispositivi di potere messi in atto dal berlusconismo. Dominijanni decostruisce i concetti- chiave, le figure e le retoriche del berlusconismo, adottando un criterio di analisi deliberatamente sp iazzante ed efficace, quello degli spostamenti strategici “che hanno consentito alle ‘guerre culturali’ neoconservatrici degli ultimi decenni di costruire egemonia sopra e contro lo stesso terreno arato dalle rivoluzioni degli anni Sessanta e Settanta” (14 5) .
Questi spostamenti sono semantici, retorici, culturali e simbolici e comportano rilevanti conseguenze politiche.
Lo spostamento valoriale analizzato nel primo capitolo (“La partita della libertà”) investe il concetto di libertà.
Un esempio fra tutti. A llo scopo di auto- legittimarsi come “padre fondatore” (37), Berlusconi si è appropriato della Festa della Liberazione, liturgia fondativa della patria basata sull’eredità culturale e politica della Resistenza antifascista, riformulandola come “Festa della Libertà” (38), cioè una celebrazione unitaria e popolare, tesa ad includere tutte le posizioni politiche.
Con una simile deviazione semantica, Berlusconi ha trasformato il partito in “Popolo delle Libertà ,” affermando la propria identificazione con un’idea astratta di popolo e ufficializzando l’inclusione dell’Italia nell’area valoriale della politica liberale.
Dominijanni sottolinea che questo “slittamento semantico” ha condotto a uno “slittamento politico di prima grandezza” (40), in quanto Berlusconi int erpreta il termine “libertà” in modo ambivalente: da un parte, come volontà di trasgredire le norme stabilite dalla costituzione e, dall’altra, come affermazione della libertà imprenditoriale e consumistica imposta dal neoliberalismo.
In questo contesto, l a libertà diviene un’esperienza negoziabile e flessibile, che si realizza ai confini della legalità e può configurarsi sia come affermazione di un diritto che come consenso servile.
Altri spostamenti sono esaminati nel libro. Centrale è la discussione co ndotta nel terzo capitolo (“Parole che contano”), in cui l’autrice discute la funzione destrutturante della parola femminile nei discorsi delle donne coinvolte nel sexgate.
La presa di parola si articola infatti in modalità che vanno oltre le retoriche e i cliché rappresentati dalle donne “parlanti,” cioè l’intellettuale (Ventura), la moglie (Lario) e la prostituta (D’Addario e le altre). Lario, ad esempio, non solo denuncia il tradimento coniugale, ma il sistema di potere che usa le donne per potenziare il corpo del capo e provocare l’identificazione con la popolazione maschile.
Perfino le conversazioni “impietose” delle Olgettine ridicolizzano il corpo del capo, rendendolo una “copia comica e farsesca di se stesso ” (85).
Dominijanni fa notare come la politica berlusconiana abbia messo in atto il “dispositivo dell’internamento” contro queste donne, stigmatizzandole, censurandole e relegandole ai margini del discorso politico.
Questo ulteriore spostamento è strettamente con nesso a strategie retoriche e simboliche che Dominijanni analizza in altri capitoli del libro: lo “sconfinamento” (104) del pubblico nel privato , la ridefinizione in chiave libertina del conce t to di privacy (“Privato e pubblico, personale e politico”) e lo slittamento del rapporto fra morale e politica (“Penale, morale, politico”), in cui l’autrice discute lo “scarto di senso” (141) della narrazione berlusconiana, fondato sulla ridefinizione del rapporto tra libertà, potere politico e legge.
Particolarme nte originale è l’inquadramento storico del berlusconismo a partire dal Sessantotto e dal femminismo, un’intuizione che la studiosa articola nel sesto (“Papi e il nome del padre”) e nel settimo capitolo (“‘Veri’ uomini, ‘vere’ donne”).
Contestando le coord inate cronologiche del ventennio berlusconiano, Dominijanni vede nel berlusconismo la risposta “perversa” (33) e “regressiva” (175) alle istanze innescate dalla stagione del Sessantotto e del femminismo.
Il berlusconismo non ha realizzato quelle istanze, m a le ha invertite, trasformando la domanda di creatività, l’affermazione della liberazione sessuale, il bisogno di democrazia e il conflitto fra i sessi in regime del godimento, mercificazione, populismo mediatico e strategia di assoggettamento e ri- natura lizzazione dei ruoli di genere. In altre parole, il capitalismo neoliberale di cui il berlusconismo è la realizzazione italiana, ha marginalizzato le domande di ribellione e reso ambivalente la nozione di libertà femminile, secondo la quale la “vera” donna è figlia “ sia della rivoluzione femminista sia dell’egemonia neoliberale, e porta dunque sia il segno politico della libertà femminile, sia il segno della sua traduzione nella lingua economica della ‘libera scelta’ e dell’au toimprenditorialità” (194).
Un altro spostamento , quindi, forse il più rilevante sul piano socio- culturale e politico. L’analisi dei dispositivi di potere del berlusconismo elaborata da Dominijanni permette alla studiosa di interrogarsi sulla possibilità di nuovi spazi di soggettivazio ne e pratiche femministe.
Pur tralasciando la prospettiva queer, Dominijanni si confronta con una grande varietà di posizioni critiche contemporanee, fra cui il postfemminismo anglosassone, e contesta le rivendicazioni neo- femministe incentrate sulla lotta al femminicidio, la denuncia del sessismo dei comportamenti e del linguaggio e la richiesta di quote rosa (specie negli ultimi due capitoli: “Dopo il patriarcato. Femminismo e questione maschile” e “Dispositivo di sessualità, regime politico”).
Contro una riflessione critica che aspira semplicemente all’intercambiabilità di genere e non promuove pratiche diverse da quelle imposte dal post- patriarcato, Dominijanni riporta al centro del “conflitto politico fra i sessi” (27) la sfera della sessualità, che si pone come “tecnica del potere [...] decisiva per la soggettivazione” (27).
Il trucco è un libro provocatorio e coinvolgente, che sollecita nuovi interrogativi non solo sull’età berlusconiana, ma anche e soprattutto sul ruolo del femminismo nella vita culturale, sociale e politica della società contemporanea.
NICOLETTA MARINI-MAIO
Dickinson College
Lo Stato vittima e complice
di Alberto Mingardi (La Stampa, 06.06.2015)
«Mafia Capitale» sta tutta in un’intercettazione di Salvatore Buzzi. «La mucca tu la devi mungere, però gli devi dà da mangià». Metafora leggermente imperfetta: a mangiare, più che la mucca (lo Stato), sono i pastori (la classe politica). Ma ci siamo capiti.
Parlando ai Giovani Industriali, il presidente dell’autorità anti-corruzione Raffaele Cantone ha detto che «la classe imprenditoriale italiana si nasconde dietro la corruzione per creare un sistema anti concorrenziale». Per fortuna la classe imprenditoriale italiana è anche e soprattutto altro: una galassia di aziende (piccole, medie, grandi) che giorno dopo giorno si guadagnano la fiducia dei consumatori. E tuttavia, non c’è dubbio che se a qualcuno viene garantita una rendita di posizione, farà quanto possibile per «mungerla» fino in fondo. La concorrenza è faticosa, dura, perennemente incerta. Dedicarsi alla mucca è tanto più facile.
Torniamo a un’altra intercettazione di Salvatore Buzzi, formidabile teorico del sistema, uscita sui giornali qualche mese fa. «Con gli immigrati si guadagna più che con la droga». Sottinteso: la droga è un mercato concorrenziale. Esistono multinazionali della droga e artigiani dello spaccio. I clienti sono fedeli fino a un certo punto. Prezzi più bassi o prodotti nuovi possono convincerli a cambiare fornitore. Che fatica.
Il «mondo di mezzo» funziona in un’altra maniera, una maniera che conosciamo sin troppo bene. E’ un mondo più semplice. La classe politica ha a disposizione risorse (che ha prelevato dai nostri redditi con le tasse) per svolgere tutta una serie di funzioni. Le può svolgere attraverso organizzazioni sottoposte direttamente al suo controllo: la burocrazia, nelle sue diverse articolazioni. O le può svolgere facendo ricorso ai privati. Questo accade non perché la pubblica amministrazione abbia sperimentato negli ultimi anni una svolta «liberista». Almeno in Italia, lo Stato non ha «esternalizzato» per sudditanza psicologica nei confronti del privato. Semmai è vero il contrario. La classe politica ha stabilito di essere il miglior fornitore possibile di tutta una serie di servizi. Ha dovuto coinvolgere i privati semplicemente per stare al passo delle sue promesse.
Questi privati stabiliscono col pubblico un rapporto perverso. Non vendono «prodotti» che il consumatore può portarsi a casa o lasciare sugli scaffali. La vita o la morte delle loro imprese è appesa alle decisioni discrezionali di pochissime persone, che peraltro spendono denaro non loro. La loro priorità diventa allora convincere quelle persone a spendere a loro vantaggio i quattrini del contribuente.
Di soluzioni semplici non ne esistono. Non è immaginabile che lo Stato faccia, «in house», tutti i servizi che è andato monopolizzando con gli anni. E nemmeno si può pensare che bastino più controlli e più controllori. E’ difficile sostenere che l’Italia sia un Paese in cui mancano le norme per sanzionare certi comportamenti.
Si può cercare, certamente, di automatizzare quanto più possibile i processi. Se un’autorizzazione me la dà un essere umano in carne ed ossa, gli posso allungare una bustarella. I computer pare siano impermeabili a queste lusinghe. Riducendo gli spazi di discrezionalità dei decisori, le regole somigliano di più ai computer: non ammettono eccezioni. Bisognerebbe soprattutto far dimagrire la mucca: che dia latte solo quando assolutamente necessario.
L’accoglienza agli immigrati è probabilmente una funzione pubblica insopprimibile. Si può però provare a ridurre l’intermediazione. Anziché dare i soldi a chi poi da da mangiare agli immigrati, tanto varrebbe darli all’immigrato che poi provveda a nutrirsi come vuole. Piuttosto che affittare le case per i richiedenti asilo, si potrebbe dar loro un voucher per scegliersi il padrone di casa che preferiscono.
Tante altre funzioni pubbliche non è affatto detto debbano essere tali. Il «mondo di mezzo» si è abituato a rifornirsi alla mangiatoia in cinquant’anni di para-Stato. Per fargli passare l’abitudine, bisogna restringere il perimetro pubblico: lo spazio in cui quel «sistema anticoncorrenziale» di cui parla Cantone mette radici, si sviluppa, prospera.
Regionali:Antimafia, 16 ’impresentabili’
Quattro sono candidati in Puglia, il resto in Campania
di Redazione ANSA, 29 maggio 2015 - 20:44
(ANSA) - ROMA, 29 MAG - E’ formata da 16 nomi la lista dei candidati "impresentabili" alle prossime regionali resa nota oggi dalla Commissione parlamentare Antimafia presieduta da Rosy Bindi, al termine dell’Ufficio di presidenza e della seduta plenaria della Commissione.
I nomi appartengono a candidati nelle regioni Puglia (4) e Campania. Nella lista c’è anche il candidato presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca.
Ecco i nomi segnalati come impresentabili dalla Commissione parlamentare Antimafia.
Casi di giudizio pendente in primo grado per reati rientranti nel codice di autoregolamentazione: Ambrosio Antonio, Passariello Luciano, Ladisa Fabio, Nappi Sergio, De Luca Vincenzo, Errico Fernando, Lonardo Alessandrina, Plaitano Francesco, Scalzone Antonio, Viscardi Raffaele.
Casi di prescrizione per reati rientranti nel codice con giudizio definitivo: Elefante Domenico, Palmisano Enzo, Copertino Giovanni.
Casi di assoluzione per reati rientranti nel codice con giudizio ancora pendente: Oggiano Massimiliano, Grimaldi Carmela. -Casi di condanna per reati rientranti nel codice con giudizio ancora pendente: Gambino Alberico.
Il coraggio non cancella la paura
Per Nino Di Matteo la guerra si vince se non si scende a patti con il nemico (né con se stessi)
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 27.05.2015)
«Io resto al mio posto, non mi rassegno a questo stato di cose. Soffro tremendamente le limitazioni della mia libertà, nel tempo divenute sempre più pressanti, ma ho anche buoni motivi per reagire allo scoramento e alla stanchezza mentale». A esprimersi così è Nino Di Matteo, pubblico ministero del processo sulla trattativa Stato-mafia in corso a Palermo, l’uomo più odiato da Cosa nostra, il magistrato che Totò Riina vuole morto.
Con il giornalista Salvo Palazzolo, Nino Di Matteo è autore di Collusi. Perché politici, uomini delle istituzioni e manager continuano a trattare con la mafia, appena pubblicato dalla Bur (pagine 186, e 16,50). Il libro è un documento prezioso non soltanto per conoscere a fondo le pratiche della trattativa con i poteri criminali, comportamento devastante per uno Stato di diritto, anche se non sembra che il dibattimento in corso venga seguito con la dovuta attenzione dall’opinione pubblica. Collusi è anche una lezione di umiltà così com’è costruito, capace però di prendere alla gola per il dramma che raccontano le sue pagine, per le storie sanguinanti che hanno lacerato e seguitano a minacciare un Paese civile come il nostro.
Di Matteo ha mostrato di avere la schiena diritta, anche se il coraggio, confessa, non cancella la paura. Ma chi potrà ripagarlo di quel senso di solitudine, di isolamento e di spaesamento che tanti fedeli servitori dello Stato, prima di lui, soffrirono in quel Palazzo dei veleni di Palermo?
Non si contano le minacce, i propositi di ucciderlo, gli ossessivi ordini di morte di Totò Riina. Ne parlò in carcere, all’ora d’aria, registrato da una telecamera, con il boss pugliese Alberto Lorusso. Le testimonianze dei «pentiti», poi: Vito Galatolo, di una temibile famiglia stragista, ha confessato pochi mesi fa a Di Matteo che a Palermo era arrivato l’esplosivo, duecento chili di tritolo, tutti per lui (pare, speriamolo, che il magistrato sia ben protetto. Giovanni Bianconi ha scritto sul Corriere che, oltre alle normali misure di sicurezza per la sua tutela, è in funzione anche il bomb jammer che serve a rilevare gli ordigni attivati a distanza).
«Se si vuole vincere la guerra, e non semplicemente le battaglie, non si deve scendere a patti con il nemico. E nemmeno dargli la sensazione di scendere a patti»: è il leitmotiv di Collusi. Se Cosa nostra fosse soltanto una normale organizzazione criminale sarebbe stata ovviamente annientata, in un secolo e mezzo di esistenza, dalle forze di polizia. Sono state e sono proprio le sue connessioni con il potere politico e finanziario e con l’ambiguità di uomini corrotti delle istituzioni ad aver fatto della mafia il mostro che è.
I politici imputati davanti alla Corte d’Assise di Palermo non rispondono del «reato di trattativa», scrive Di Matteo. Quel che viene contestato agli uomini delle istituzioni è di aver «consapevolmente assunto il ruolo di cinghia di trasmissione tra Cosa nostra e il governo nel prospettare i desiderata dell’organizzazione mafiosa, così concorrendo al vero e proprio ricatto che i boss stavano portando avanti nei confronti delle istituzioni». È nata così la contestazione «del reato di concorso in violenza o minaccia al corpo politico dello Stato».
Di Matteo analizza gli anni focali dell’ultimo Novecento, il 1982, l’assassinio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa; il 1992, l’assassinio del dc Salvo Lima, gran luogotenente di Sicilia, punito perché non rispettò i patti con la mafia e, nello stesso anno, gli assassinii di Falcone e di Borsellino. Le zone d’ombra mai cadute, le domande senza risposta, i sospetti sulla trattativa sono ancorati a quegli anni. L’estate delle lenzuola bianche di Palermo - il popolo della città visse allora ribelle nelle strade - finì presto, per stanchezza, delusione. Poi la controffensiva della mafia, il 1993, e l’oscura stagione delle stragi-ricatto di quella primavera-estate a Roma, Firenze, Milano. Non sono stati sufficienti i processi, le indagini, le condanne di personaggi di rilievo a dire la verità su quanto accadde. E non ha certo contribuito alla chiarezza il conflitto tra la Procura di Palermo e il Quirinale, con le imbarazzanti telefonate tra Nicola Mancino e l’allora presidente della Repubblica, nel 2011-2012, di cui tutto si doveva sapere.
Collusi è una miniera di documenti, fatti, giudizi che fa capire il mondo della mafia anche a chi crede di conoscerlo. Qualche tema affrontato nel libro: la sottigliezza delle strategie criminali dell’organizzazione che non è più quella dei disegni di Bruno Caruso, coppola e lupara. I patti di scambio tra mafia e politica: elettorali, economici, imprenditoriali. Le mani sugli ingenti stanziamenti pubblici. La figura dell’intermediario insospettabile. I boss che non hanno più bisogno di farsi avanti, è lo Stato che li cerca. Il riscatto della Chiesa, l’importanza di papa Francesco. Le talpe nelle istituzioni. Il rischio delle fonti confidenziali. La prudenza e la pavidità di non pochi magistrati e i pericoli quotidiani che vivono invece coloro che «vanno troppo oltre». Il ruolo di certa massoneria. La troppo lunga latitanza di Matteo Messina Denaro che fa sospettare si voglia proteggere chi custodisce segreti inconfessabili sulle stragi. Un libro importante, Collusi. Soprattutto utile in un Paese senza memoria.
Scuola
Rodotà: «Dalla scuola all’Italicum la pedagogia del Capo mina la democrazia»
Riforma Scuola. Intervista. Stefano Rodotà a tutto campo su Matteo Renzi: «Con il preside manager trasferisce la sua visione del potere all’intera società». «La scuola dovrebbe impedire diseguaglianze, il Ddl spinge invece verso la segmentazione sociale». «Chi si oppone al renzismo dovrebbe creare forme di auto-organizzazione e di agire politico per riequilibrare la forte concentrazione di potere istituzionale»
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 21.05.2015)
«Fino ad oggi ci siamo concentrati sul modello di organizzazione istituzionale emerso dal combinarsi dell’Italicum e della riforma del Senato - afferma Stefano Rodotà - La riforma della scuola approvata ieri alla Camera mostra un elemento radicale: l’idea che Renzi ha della società».
Possiamo farne un profilo alla luce delle leggi sul lavoro, della riforma elettorale e di quella costituzionale?
La scuola è la parte più importante del Welfare tradizionale. In un momento in cui aumentano disoccupazione e povertà si dovrebbe investire sul suo ruolo di inclusione per impedire il riprodursi delle disuguaglianze. Invece la riforma disconosce che la scuola sia un corpo sociale composto da soggetti differenziati e ribadisce una fortissima spinta verso la segmentazione sociale. Attacca il contratto nazionale, esclude i corpi intermedi, e in particolare i sindacati, non riconosce la partecipazione democratica espressa dagli insegnanti e dagli studenti che si stanno opponendo. Sono gli elementi già emersi nel Jobs Act che ha portato l’abolizione dell’articolo 18 per i nuovi assunti. In questo modello di società non c’è spazio per la coesione sociale.
Nel Ddl scuola approvato dalla Camera c’è lo «School Bonus», un credito d’imposta al 65% per il biennio 2015 - 2016 e del 50% per 2017, riconosciuto a chi farà donazioni in denaro per le scuole pubbliche o private. Cosa ne pensa?
È una forte spinta verso l’outsourcing. Questa norma è un incentivo a far uscire la scuola dall’ipoteca del pubblico per affidarla ai privati che la gestiranno come meglio credono. È come incentivare a farsi una previdenza privata oppure una sanità privata.
Contrasta con l’articolo 33 della Costituzione che prevede l’esistenza di scuole private «senza oneri per lo Stato»?
Sono stato ostile alla legge sulle scuole paritarie approvata nel 2000. Ci vedevo l’escamotage per aggirare proprio questo articolo. Quando l’hanno scritto, i costituenti non avevano preclusioni ideologiche ma intendevano riconoscere la priorità degli investimenti nella scuola pubblica di ogni ordine e grado. Lo Stato deve in primo luogo permettere che la scuola pubblica funzioni al meglio. Solo quando questa condizione sarà soddisfatta, si potrà pensare di dare un euro anche ai privati. Nel Ddl di Renzi non c’è alcuna una risorsa aggiuntiva ai privati. I fondi a loro destinati sono sottratti alla scuola pubblica.
È stato detto che questa norma rispecchia il pluralismo e, in più, rappresenti la fine di un tabù ideologico della sinistra.
Altro che abbattere un tabù. Ne costruisce un altro: la distinzione tra scuole per abbienti e per non abbienti, di serie A e di serie B. Chi sostiene queste posizioni crede che il ruolo della scuola pubblica sia in contrapposizione con quella dei preti, come si diceva secoli fa quando ero un ragazzino. Il problema è un altro: la scuola pubblica, come spazio pubblico di riconoscimento e confronto, è irrinunciabile perché qui posso costituirmi come cittadino. Se invece dico che ognuno può farsi la propria scuola religiosa, etnica, territoriale o culturale innesco un conflitto. La scuola non è più un luogo dove si apprende a riconoscere l’altro in base alle sue diversità, ma un luogo dove si adempie una funzione pubblica per un numero tendenzialmente riducibile di persone. Tutto questo è in conflitto con l’idea di una società aperta e plurale dove l’uguaglianza esiste nella misura in cui viene riconosciuta la diversità delle opinioni.
Crede che Renzi abbia attribuito al «preside manager» un’importanza paragonabile alla leadership politica che lui intende svolgere in politica e nello Stato?
Certamente. È rivelatore di questo atteggiamento il fatto che abbia scelto di usare la lavagna e il gessetto: voi siete gli scolari e io il maestro che vi spiega la riforma. Dopo avere usato tweet e slide ha cambiato la sua comunicazione e si è messo nella posizione di chi parla dall’alto. È la rappresentazione tangibile della concentrazione dei poteri nella figura del presidente del consiglio, prima ancora che nell’esecutivo, che si vuole realizzare con le riforme istituzionali. Con questo disegno di legge Renzi tende a trasferire questa visione del potere a tutti i livelli della società. Alle figure apicali dei presidi affida la missione della scuola, quella di produrre buona cultura, uguaglianza e rispetto dell’altro. Sono d’accordo con chi ha definito questa politica come una «pedagogia del Capo».
Renzi sostiene invece che il preside-manager sarà libero di decidere e di rendere più efficiente la scuola.
Ma il problema della responsabilità dirigenziale non può tradursi nell’accentramento del potere e soprattutto nella possibilità di selezionare i docenti. È lo stesso meccanismo visto all’opera nel Jobs Act: all’imprenditore sono stati concessi sgravi fiscali, l’abolizione dell’articolo 18, per facilitare le assunzioni. In questo modo i diritti dei lavoratori sono stati subordinati al suo potere sociale. Con la riforma della scuola si crea un centro di potere per gestire un istituto con una logica tutta imprenditoriale e ad esso si subordina la partecipazione nella scuola.
Chi si oppone a questa politica è accusato di essere corporativo o un relitto della storia. Come si smonta questa retorica?
Dicendo che quella in atto non è un’opera di sburocratizzazione della società, ma di concentrazione del potere in una sola persona. Nei settori dove questo è accaduto, ad esempio nelle opere pubbliche, sono venuti meno i meccanismi di controllo, di partecipazione e trasparenza. Il potere è stato usato in maniera discrezionale e la corruzione si è moltiplicata.
In Italia è innegabile il problema della burocrazia, non crede?
Ma non lo si risolve aumentando diseguaglianze e ingiustizie. Man mano che si introduce la logica privatistica e l’accentramento della gestione si indeboliscono le possibilità di controllo e di partecipazione. Queste funzioni sono essenziali anche nella vita della scuola il cui scopo è garantire l’inclusione sociale, non la competizione tra le persone.
Perché, fino ad oggi, chi si richiama alla Costituzione non ha prodotto una politica capace di affrontare la sfida di Renzi?
Si è pensato che, tutto sommato, ci sarebbe stato il tempo necessario per aggiustare le cose. Quando poi si sono compresi gli effetti istituzionali e sociali della sua politica è stato troppo tardi. La politica ufficiale non è stata in grado di contrapporsi a Renzi. Questo vale per chi sta nel Pd, ma anche per chi oggi critica l’accentramento dei poteri nell’esecutivo. Questi elementi erano presenti sin dall’inizio e adesso le resistenze sono tardive. Non voglio dire che avevo ragione, quando ci chiamavano «professoroni», né voglio fare la parte della Cassandra. Per me è un elemento di autocritica.
Cosa è mancato a questa opposizione?
La visione alternativa di una società dove la politica è stata ridotta all’amministrazione e all’economia. Oggi chi si oppone a Renzi dovrebbe creare forme di auto-organizzazione e di agire politico per riequilibrare la forte concentrazione di potere che si sta realizzando a livello istituzionale. La società deve riconquistare il suo ruolo nel momento in cui lo spazio nelle istituzioni si restringe. Rimettere in movimento questi meccanismi oggi è un problema politico che si devono porre anche chi sta nelle istituzioni. Non si può fare politica solo attraverso gli emendamenti. Quella può permettere di salvarsi l’anima solo quando si discute una legge.
Quell’idea dominante
di Franco Cordero (la Repubblica, 18.03.2015)
CORRE voce che l’Italia, soggetto politico, goda d’una stella fortunosamente buona. Adolf Hitler la nomina domenica 7 dicembre 1941 nella Tana del Lupo: fallita l’offensiva su Mosca, l’aggressore rischia un’irrimediabile disfatta; l’umore è cupo tra i commensali ma a mezzanotte irrompe l’addetto stampa Heinz Lorenz; una radio americana ha annunciato l’attacco giapponese a Pearl Harbour. «The turning point», la svolta, esclama il Führer (in tedesco, è monoglotta), e uscendo dal Bunker nel gelo della foresta, porta la notizia ai tirapiedi Keitel e Jodl (morranno impiccati a Norimberga). Ormai è impossibile perdere questa guerra. Il Reich ha due alleati: in tremila anni il Sol Levante non ha mai subito sconfitte; e l’Italia le incassa sistematicamente ma alla fine siede tra i vincitori (David Irving, Hitler’s War 1939-4-2, Macmillan, London 1977, 352).
Tale massima trovava conferme nella storia otto-novecentesca. Le Parche diranno fin dove viga ancora. Non è motivo d’orgoglio che gli ultimi ventun anni abbiano la figura egemone in un titano d’arti fraudolente: solo lui e pochi intimi sanno l’origine dei primi miliardi; poi favori venali gli portano un impero mediatico; monopolista delle televisioni commerciali, plagia le platee corrompendo pensiero, sentimenti, gusto (un’epidemia italiana, cinque secoli dopo i morbi ispanico e gallico).
Caduti i protettori, raccoglie l’eredità fingendosi uomo nuovo. La sua fortuna sta negli avversari dalle ginocchia molli: avendo vinto (aprile 1996), gli garantiscono sotto banco le aziende, arnesi d’un colossale conflitto d’interessi, e lo riqualificano come partner d’una commissione chiamata a rifondare lo Stato nelle norme fondamentali; muore ignobilmente sabotato ab intra un secondo governo del centrosinistra, 1996-98. Ha dalla sua il Quirinale: Giorgio Napolitano predica «larghe intese», ossia apporti subalterni alla politica governativa; e gli presta manforte nella ricerca d’una impensabile immunità giudiziaria.
Qui l’astrologo vede influssi celesti: saremmo una monarchia caraibica se l’Olonese, stravinte le elezioni (aprile 2008), non portasse l’Italia a due dita dalla bancarotta, costretto quindi a dimettersi (novembre 2011); e sarebbe sparito se fossero sciolte le Camere, come la congiuntura richiede, senonché Neapolitanus Rex lo salva ibernandole; aperte finalmente le urne (febbraio 2013), il redivivo sfiora una quarta vittoria. Moltiplicano l’effetto intrighi notturni nei Ds: l’assemblea unanime acclama Romano Prodi, candidato al Quirinale; Deo gratias ma 101 elettori ipocriti gli negano il voto; e risale al Colle il patrono delle «larghe intese», nel segno d’una parentela (Enrico Letta, premier transigente Ds, è nipote dell’omonimo Gianni, plenipotenziario nei supremi affari berlusconiani).
Le stelle decidono diversamente: arriva in Cassazione uno dei processi dai quali usciva indenne perdendo tempo, affinché il delitto s’estinguesse (s’era abbreviato i termini): frode fiscale, quattro anni inflitti dalla corte d’Appello milanese; e passando in giudicato la condanna, decade dal Senato. Berlusco furiosus pretende la grazia su due piedi e comanda ai suoi d’uscire dal governo: stavolta qualcuno disubbidisce invocando interessi superiori; rinsavito, espia la pena nei servizi sociali.
Intanto sopravviene una mutazione in casa Ds. Malato cronico, perdeva voti ogni volta, sottomesso al pirata, e dopo avvilenti esperienze era prevedibile che alle primarie (essendo in palio la direzione politica) il giovane sindaco fiorentino sbaragliasse vecchi oligarchi nonché juniores professionisti d’una squallida politica (non basta chiamarsi «giovani turchi»).
Era parola d’ordine disfarsi dei rottami. Dalla segreteria l’occupante critica il governo in pose tra Savonarola e Robespierre: viene dai boy-scouts, campione d’oratorio e politicante precoce; inter alia vanta un ragguardevole successo alla Ruota della Fortuna, ordalia televisiva su Canale 5. Punta alla premiership e la via giusta sarebbe sciogliere le Camere, in cerca d’uno schieramento elettorale meno diviso, ma è dogma quirinalesco che restino quali sono, imponendo accordi a destra. Matteo Renzi presidente del Consiglio sceglie a colpo sicuro il partner d’un programma governativo: confabula con Berlusco Magnus nel Nazareno, santuario Ds; e spira «profonda sintonia».
Non ha ripulsioni ideologiche né etiche: da allora il Sire d’Arcore fornisce voti al governo; ed è presumibile che il legame empatico includa interessi Mediaset. S’è formata una quasi diarchia. Saltano agli occhi profonde differenze ma non è pura fantasia che l’ex boy-scout capti l’elettorato sul quale sinora regnava divus Berlusco, ormai fallito nel sogno del partito unico.
Emergono due punti: primo, il disinganno tra quanti investivano fiducia nel sindaco fiorentino contro le mummie transigenti; secondo, che almeno altrettanti lo guardino dall’area moderata, ma conversioni simili implicano il patronato d’interessi incompatibili con un partito vagamente orientato a sinistra. Sinora il funambolo evitava scelte traumatiche (appariva dubbio il senso dell’avere virtuosamente sostenuto la candidatura Mattarella: contro, complottavano esponenti della minoranza Ds; ed era certamente malvista dai berluscones).
La conclusione suona ovvia: l’Italia sarebbe affossata da un partito dominante che lasci le cose quali sono; modificarle significa colpire corruttori, corrotti, parassiti, evasori fiscali, una criminalità infiltrata nello Stato. Partita ardua. L’analista patologo avrà molto da dire perché le equazioni economiche eclissano l’astro italico, refrattarie a illusionismi, inni, pantomime, dove eccelle l’omonimo dello sventurato notaio romano (1313-54: era anche ingegnoso scenografo, con un Ego vorace).
Non è vostra proprietà
di Sergio Mattarella
Signor Presidente, tra la metà del 1946 e la fine del 1947, in quest’aula, si è esaminata, predisposta ed approvata la Costituzione della Repubblica. Con l’attuale Costituzione, che vige dal 1948, l’Italia è cresciuta, nella sua democrazia anzitutto, nella sua vita civile, sociale ed economica. In quell’epoca, vi erano forti contrasti, anche in quest’aula. Nell’aprile del 1947 si era formato il primo governo attorno alla Democrazia cristiana, con il Partito comunista e quello socialista all’opposizione. Vi erano contrasti molto forti, contrapposizioni che riguardavano la visione della società, la collocazione internazionale del nostro paese. Vi erano serie questioni di contrasto, un confronto acceso e polemiche molto forti. Eppure, maggioranza e opposizione, insieme, hanno approvato allora la Costituzione. Al banco del governo, quando si trattava di esaminare provvedimenti ordinari o parlare di politica e di confronto tra maggioranza e opposizione, sedevano De Gasperi e i suoi ministri. Ma quando quest’aula si occupava della Costituzione, esaminandone il testo, al banco del governo sedeva la Commissione dei 75, composta da maggioranza e opposizione.
Il governo di allora, il governo De Gasperi, non sedeva ai banchi del governo, per sottolineare la distinzione tra le due dimensioni: quella del confronto tra maggioranza e opposizione e quella che riguarda le regole della Costituzione. Questa lezione di un governo e di una maggioranza che, pur nel forte contrasto che vi era, sapevano mantenere e dimostrare, anche con i gesti formali, la differenza che vi è tra la Costituzione e il confronto normale tra maggioranza e opposizione, in questo momento, è del tutto dimenticata.
Le istituzioni sono comuni: è questo il messaggio costante che in quell’anno e mezzo è venuto da un’Assemblea costituente attraversata - lo ripeto - da forti contrasti politici. Per quanto duro fosse questo contrasto, vi erano la convinzione e la capacità di pensare che dovessero approvare una Costituzione gli uni per gli altri, per sé e per gli altri.
Questa lezione e questo esempio sono stati del tutto abbandonati. Oggi, voi del governo e della maggioranza state facendo la “vostra” Costituzione. L’avete preparata e la volete approvare voi, da soli, pensando soltanto alle vostre esigenze, alle vostre opinioni e ai rapporti interni alla vostra maggioranza. Il governo e la maggioranza hanno cercato accordi soltanto al loro interno, nella vicenda che ha accompagnato il formarsi di questa modifica, profonda e radicale, della Costituzione.
Il governo e la maggioranza - ripeto - hanno cercato accordi al loro interno e, ogni volta che hanno modificato il testo e trovato l’accordo tra di loro, hanno blindato tale accordo. Avete sistematicamente escluso ogni disponibilità a esaminare le proposte dell’opposizione o anche soltanto a discutere con l’opposizione. Ciò perché non volevate rischiare di modificare gli accordi al vostro interno, i vostri difficili accordi interni.
Il modo di procedere di questo governo e di questa maggioranza - lo sottolineo ancora una volta - è stato il contrario di quello seguito in quest’aula, nell’Assemblea costituente, dal governo, dalla maggioranza e dall’opposizione di allora. Dov’è la moderazione di questa maggioranza? Non ve n’è! Dove sono i moderati? Tranne qualche sporadica eccezione, non se ne trovano, perché la moderazione è il contrario dell’atteggiamento seguito in questa vicenda decisiva, importantissima e fondamentale, dal governo e dalla maggioranza. Siete andati avanti, con questa dissennata riforma, al contrario rispetto all’esempio della Costituente, soltanto per non far cadere il governo. Tante volte la Lega ha proclamato e ha annunziato che avrebbe provocato la crisi e che sarebbe uscita dal governo se questa riforma, con questa profonda modifica della Costituzione, non fosse stata approvata. Ebbene, questa modifica è fatta male e lo sapete anche voi.
Con questa modifica dissennata avete previsto che la gran parte delle norme di questa riforma entrino in vigore nel 2011. Altre norme ancora entreranno in vigore nel 2016, ossia tra 11 anni. Per esempio, la norma che abbassa il numero dei parlamentari entrerà in vigore tra 11 anni, nel 2016! Sapete anche voi che è fatta male, ma state barattando la Costituzione vigente del 1948 con qualche mese in più di vita per il governo Berlusconi. Questo è l’atteggiamento che ha contrassegnato questa vicenda.
Ancora una volta, in questa occasione emerge la concezione che è propria di questo governo e di questa maggioranza, secondo la quale chi vince le elezioni possiede le istituzioni, ne è il proprietario. Questo è un errore. È una concezione profondamente sbagliata. Le istituzioni sono di tutti, di chi è al governo e di chi è all’opposizione. La cosa grave è che, questa volta, vittima di questa vostra concezione è la nostra Costituzione.
In attesa del referendum ecco il Ddl Boschi
il Fatto 11.03.2015
ADDIO AL BICAMERALISMO perfetto e largo a un senato di nominati (con indennità). In più, corsia preferenziale per i disegni di legge del governo. Sono i punti principali della riforma costituzionale approvata ieri in prima lettura dalla Camera, che ora dovrà tornare in Senato per la votazione che chiuderà il primo passaggio.
In base all’articolo 138 della Carta, la riforma va votata in doppia lettura dalle due Camere, e nella seconda votazione dovrà essere approvata con la maggioranza assoluta (maggioranza dei componenti). Alla fine dei passaggi parlamentari si terrà un referendum. I cittadini potrebbero esprimersi su un ddl che abolisce il bicameralismo perfetto. Non più due rami del Parlamento con eguali poteri, ma una Camera “forte” che potrà approvare da sola gran parte delle leggi. Il Senato diventa un organo per lo più consultivo, con “funzione di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica".
Soprattutto, diventa un ente ad elezione indiretta, ovvero composto da 100 senatori (prima erano 315): 95 scelti tra consiglieri regionali e sindaci, votati dai Consigli regionali, a cui questi si aggiungono i 5 senatori nominati dal Capo dello Stato, in carica per 7 anni, ed eventualmente gli ex presidenti della Repubblica. I membri del nuovo Senato non percepiscono indennità parlamentari, ma godono dell’immunità. Palazzo Madama può chiedere di esaminare i ddl approvati dalla Camera, e suggerire modifiche, ma il via libera definitivo lo darà comunque Montecitorio.
Rimangono alcune materie per cui è obbligatorio il sì delle due Camere: le riforme e le leggi costituzionali, le leggi elettorali del Parlamento e degli enti locali, le ratifiche dei trattati internazionali e le leggi sui referendum popolari. Previsto il voto a data certa, grazie a cui il governo può chiedere un ddl essenziale per l’attuazione del programma venga approvato entro 70 giorni dalla delibera della Camera. Cambiano i quorum. Quello per l’elezione del Capo dello Stato, dopo il quarto scrutinio, prevede la maggioranza dei tre quinti dei parlamentari (prima bastava la maggioranza assoluta) e quella dei tre quinti dei votanti dopo il settimo. Referendum abrogativo: se a chiederlo sono 800 mila cittadini, può passare con la maggioranza dei votanti alle ultime Politiche (e non più degli aventi diritto al voto).
A verbale
Ecco i 357 che distruggono la Costituzione
il Fatto, 11.03.2015
Alle 12:33 di ieri, l’aula di Montecitorio ha approvato il ddl costituzionale sulla riforma del Senato. Al momento della votazione erano presenti in 489. Hanno votato in 482: 347 hanno detto “sì”, 125 “no”, 7 si sono astenuti. Di seguito i nomi di chi ha voluto modificare la Costituzione.
AP (NCD/UDC) Ferdinando Adornato, Angelino Alfano, Gioacchino Alfano, Dorina Bianchi, Paola Binetti, Antonino Bosci, Raffaele Calabrò, Luigi Casero, Giuseppe Castiglione, Andrea Causin, Angelo Cera, Fabrizio Cicchitto, Enrico Costa, Giampiero D’Alia, Nunzia De Girolamo, Vincenzo Garofalo, Beatrice Lorenzin, Maurizio Lupi, Antonino Minardo, Dore Misuraca, Alessandro Pagano, Vincenzo Piso, Sergio Pizzolante, Eugenia Roccella, Gianfranco Sammarco, Rosanna Scopelliti, Paolo Tancredi, Raffaello Vignali.
FI Gianfranco Rotondi
GRUPPO MISTO Aniello Formisano, Edoardo Nesi, Renata Bue-no, Daniel Alfreider, Renate Gebbhard, Mauro Ottobre, Albrecht Plangger, Manfred Schullian, Marco Di Lello, Oreste Pastorelli.
PD Luciano Agostini, Roberta Agostini, Luisella Albanella, Tea Albini, Maria Amato, Vincenzo Amendola, Sesa Amici, Sofia Amoddio, Maria Antezza, Michele Anzaldi, Ileana Argentin, Tiziano Arlotti, Anna Ascani, Pier Paolo Baretta, Cristina Bargero, Davide Baruffi, Lorenzo Basso, Alfredo Bazoli, Teresa Bellanova, Gianluca Benamati, Paolo Beni, Marco Bergonzi, Marina Berlinghieri , Giuseppe Berretta, Pier Luigi Bersani, Stella Bianchi, Rosy Bindi, Caterina Bini, Franca Biondelli, Tamara Blazina, Luigi Bob-ba, Sergio Boccadutri, Gianpiero Bocci, Antonio Boccuzzi, Paola Boldrini, Paolo Bolognesi, Lorenza Bonaccorsi, Fulvio Bonavitacola, Francesco Bonifazi, Francesca Bonomo, Michele Bordo, Enrico Borghi, Ilaria Borletti Dell’Acqua, Maria Elena Boschi, Luisa Bossa, Chiara Braga, Giorgio Brandolin, Alessandro Bratti, Gianclaudio Bressa, Vincenza Bruno Bossio, Giovanni Mario Salvino Burtone, Vanessa Camani, Micaela Campana, Emanuele Cani, Salvatore Capone, Sabrina Capozzolo, Ernesto Carbone, Daniela Cardinale, Renzo Carella, Anna Maria Carloni, Elena Carnevali, Mara Carocci, Marco Carra, Pier Giorgio Carrescia, Floriana Casellato, Franco Cassano, Antonio Castricone, Marco Causi, Susanna Cenni, Bruno Censore, Khalid Chauki, Eleonora Cimbro, Laura Coccia, Matteo Colaninno, Miriam Cominelli, Paolo Coppola, Maria Coscia, Paolo Cova, Stefania Covello, Filippo Crimì, Diego Crivellari, Magda Culotta, Gianni Cuperlo, Luigi Dallai, Gian Pietro Dal Moro, Cesare Damiano, Vincenzo D’Arienzo, Alfredo D’Attorre, Umberto Del Basso De Caro, Carlo Dell’Aringa, Andrea De Maria, Rogeder De Menech, Marco Di Maio, Vittoria D’Incecco, Titti Di Salvo, Marco Di Stefano, Marco Donati, Umberto D’Ottavio, Guglielmo Epifani, David Ermini, Marilena Fabbri, Luigi Famiglietti, Edoardo Fanucci, Davide Faraone, Gianni Farina, Marco Fedi, Donatella Ferranti, Alan Ferrari, Andrea Ferro, Emanuele Fiano, Massimo Fiorio, Giuseppe Fioroni, Cinzia Maria Fontana, Paolo Fontanelli, Filippo Fossati, Gian Mario Fragomeni, Dario Franceschini, Silvia Fregolent, Gianluca Fusilli, Maria Chiara Gadda, Giampaolo Galli, Guidi Galperti, Paolo Gandolfi, Laura Garavini, Francesco Saverio Garofani, Daniela Matilde Gasparini, Federico Gelli, Manuela Ghizzoni, Roberto Giachetti, Anna Giacobbe, Antonello Giacomelli, Federico Ginato, Dario Ginefra, Tommaso Ginobile, Andrea Giorgis, Gregorio Gitti, Fabrizia Giuliani, Giampiero Giulietti, Marialuisa Gnecchi, Sandro Gozi, Gero Grassi, Maria Gaetana Greco, Monica Gregori, Chiara Grimaudo, Giuseppe Guerini, Lorenzo Guerini, Mauro Guerra, Maria Tindara Gullo, Itzhak Yoram Gutgeld, Maria Iacono, Tino Iannuzzi, Leonardo Impegno, Antonella Incerti, Wanna Iori, Luigi Lacquaniti, Francesco La Forgia, Francesca La Marca, Enzo Lattuca, Giuseppe Lauricella, Fabio Lavagno, Donata Lenzi, Enrico Letta, Danilo Leva, Emanuele Lodolini, Alberto Losacco, Luca Lotti, Maria Anna Madia, Patrizia Maestri, Ernesto Magorno, Gianna Malisani, Simona Flavia Malpezzi, Andrea Manciulli, Massimiliano Manfredi, Irene Manzi, Daniele Marantelli, Marco Marchetti, Maino Marchi, Raffaella Mariani, Elisa Mariano, Siro Marrocu, Umberto Marroni, Andrea Martella, Pierdomenico Martino, Michela Marzano, Federico Massa, Davide Mattiello, Matteo Mauri, Alessandro Mazzoli, Fabio Melilli, Marco Meloni, Michele Meta, Marco Miccoli, Gennaro Migliore, Emiliano Minnucci, Anna Margherita Miotto, Antonio Misiani, Michele Mognato, Francesco Monaco, Colomba Mongiello, Daniele Montroni, Alessia Morani, Roberto Morassut, Sara Moretto, Antonino Moscatt, Romina Mura, Delia Murer, Alessandro Naccarato, Martina Nardi, Giulia Narduolo, Michele Nicoletti, Nicodemo Oliverio, Matteo Orfini, Andrea Orlando, Alberto Pagani, Giovanna Palma, Valentina Paris, Dario Parrini, Edoardo Patriarca, Vinicio Peluffo, Caterina Pes, Paolo Petrini, Liliana Cathia Piazzoli, Teresa Piccione, Flavia Piccoli Nardelli, Giorgio Piccolo, Salvatore Piccolo, Nazareno Pilozzi, Giuditta Pini, Barbara Pollastrini, Fabio Porta, Giacomo Portas, Ernesto Preziosi, Francesco Prina, Lia Quartapelle, Fausto Raciti, Michele Ragosta, Roberto Rampi, Ermete Realacci, Francesco Ribaudo, Matteo Richetti, Andrea Rigoni, Maria Grazia Rocchi, Giuseppe Romanili , Andrea Romano, Ettore Rosato, Paolo Rossi, Anna Rossomando, Michela Rostan, Alessia Rotta, Simonetta Rubinato, Angelo Rughetti, Giovanni Sanga, Luca Sani, Francesco Sanna, Giovanna Sanna, Daniela Sbrollini, Ivan Scalfarotto, Gian Piero Scanu, Gea Schirò, Chiara Scuvera, Angelo Senaldi, Marina Sereni, Camilla Sgambato, Elisa Simoni, Roberto Speranza, Nico Stumpo, Luigi Taranto, Mino Taricco, Assunta Tartaglione, Veroni Tentori, Alessandro Terrosi, Marietta Tidei, Irene Tinagli, Mario Tullo, Valeria Valente, Simone Valiante, Franco Vazio, Silvia Velo, Laura Venittelli, Liliana Ventricelli, Walter Verini, Rosa Calipari, Sandra Zampa, Alessandro Zan, Giorgio Zanin, Giuseppe Zappulla, Diego Zardini, Davide Zoggia.
PI-CD Roberto Capelli, Federico Fauttilli, Gian Luigi Gigli, Carmelo Lo Monte, Mario Marazziti, Gaetano Piepoli, Domenico Rossi, Milena Santerina, Mario Sberna, Bruno Tabacci.
SC Alberto Bombassei, Mario Catania, Antimo Cesaro, Angelo D’Agostino, Stefano Dambruoso, Giovanni Falcone, Adriana Galgano, Gianfranco Librandi, Andrea Mazziotti di Celso, Bruno Molea, Roberta Oliaro, Giuseppe Quintarelli, Mariano Rabino, Giulio Cesare Sottanelli, Pier Paolo Vargiu, Andrea Vecchio, Valentina Vezzali, Paolo Vitelli, Enrico Zanetti.
Binetti e D’Attorre Ansa, Dlm
Sinistrati
Minoranza Pd, gente senza dignità
Obbedite sempre e comunque al capo di turno
di Maurizio Viroli (il Fatto, 11.03.2015)
Persone senza dignità, senza intelligenza politica, senza senso di responsabilità repubblicana: questa è la minoranza del Pd (della maggioranza non merita neppure discorrere). Senza dignità perché dignità impone coerenza fra pensiero e azione, e dunque se avete dichiarato, come avete dichiarato, (vero Bersani?) che la riforma renziana della Costituzione, accompagnata dalla nuova legge elettorale rompe l’equilibrio democratico e poi votate l’una e l’altra siete persone indegne. Non sono affatto sorpreso del loro comportamento. Bersani e gli altri vengono dal Pci, che tutto era fuorché una scuola di schiene dritte (nobili eccezioni a parte). Li hanno abituati ad obbedire al segretario perché il segretario è il segretario. Sono ancora così.
Non avrei mai immaginato di dover giungere ad una conclusione siffatta, ma devo riconoscere che se in Italia avessero vinto i comunisti avremmo avuto un regime autoritario per la semplice ragione che i “bersani” sono servi della peggior specie, quelli che obbediscono al capo di turno perché è il capo. Senza intelligenza politica: perché non capiscono che oggi già non contano nulla e domani, a riforma approvata, conteranno ancora meno. Renzi non riconoscerà loro alcunché. Vuole servi docili, non servi che si permettono qualche mugugno . Si sente onnipotente perché sa che vincerebbe le elezioni e dunque ritiene che gli sia dovuta obbedienza assoluta. Diventato padrone delle liste elettorali, li butterà fuori e nessuno dirà una parola in loro difesa perché non lo meritano. A onor del vero un riconoscimento lo meritano. I Bersani, i D’Alema, i Veltroni, i Fassino e i loro corrispettivi locali una grande opera politica l’hanno realizzata, quella di distruggere la tradizione del socialismo in Italia.
Non c’era riuscito il fascismo, non c’era riuscita la Cia, non c’era riuscita la Dc, ce l’hanno fatta loro con le loro fredde intelligenze, capaci di minuziosi calcoli senza mai l’ombra di un principio, di un’idea nobile, di una visione politica. Congratulazioni vivissime. Senza responsabilità repubblicana: capisco che il concetto di responsabilità repubblicana risulti ostico per chi è passato dalle Frattocchie ai talk show. Ma provo a spiegarlo.
Responsabilità repubblicana vuol dire che voi avete soltanto un dovere, quello di servire la nazione, cioè la forma repubblicana descritta dalla Costituzione. Ogni altra considerazione è del tutto irrilevante. Se dunque con il vostro voto devastate, per vostra stessa ammissione, la forma repubblicana, venite meno al vostro primo dovere. Le vostre parole sulla lealtà di partito, o addirittura alla “ditta” fanno soltanto pena e ribrezzo.
Il nuovo inquilino e la casa comune
di Guido Crainz (la Repubblica, 20.01.2015)
C’È QUALCOSA che sembra mancare, nel dibattito sul futuro presidente della Repubblica: la piena consapevolezza del ruolo che dovrà svolgere in un quadro costituzionale destinato a mutare, poiché stiamo andando verso un superamento del bicameralismo paritario.
CON questo superamento, connesso ad un sistema elettorale fortemente maggioritario, diventano ancor più importanti le figure e gli organi di garanzia: in primo luogo il capo dello Stato e la Corte costituzionale. Se così è, fra l’altro, appare fondata l’ipotesi di inserire nella riforma costituzionale l’innalzamento del quorum necessario per l’elezione del presidente.
L’alternarsi dei nomi possibili non deve dunque oscurare la vera questione che è in gioco, esattamente come lo è nel dibattito sul bicameralismo: la possibilità stessa di rimodellare la Repubblica. E la assoluta responsabilità che è necessaria nel metter mano alla casa comune. In questo scenario, diverso dal passato, si colloca dunque la discussione sulla qualità e il profilo del futuro presidente, ma si colloca anche - o si do- vrebbe collocare - un mutamento radicale nella mentalità e nei comportamenti dei “grandi elettori”. Senza sciogliere questo nodo affonderebbero anche buone candidature: e il far prevalere logiche di corrente o altri fini, se non ritorsioni, sarebbe un vero attentato alla Costituzione che si pensa di riscrivere.
La partita che si è aperta è indubbiamente difficile, e qualcosa accresce il senso di insicurezza: nella tormentata transizione iniziata nel 1994 sono stati fondamentali tre presidenti che hanno respirato l’aura della fondazione della Repubblica, intrisi della cultura che ha presieduto ad essa. O meglio, delle diverse culture che l’hanno ispirata e ne hanno garantito l’attuazione: la cultura cattolica, quella laica e azionista, e quella comunista (del comunismo italiano, capace di assumere progressivamente la Costituzione come valore primario).
Oggi questa preziosa risorsa si è inevitabilmente esaurita, ed è legittimo sentirne la mancanza: tanto più che in settant’anni il ruolo del presidente è indubbiamente mutato. Certo, non ha svolto quasi mai quel ruolo di “notaio” che Luigi Einaudi aveva incarnato e che periodicamente viene invocato: non è stato così, ad esempio, in una gran parte della “prima repubblica” (da Gronchi a Pertini, per tacere di Segni o di Cossiga).
Con il suo crollo poi il quadro cambia profondamente e di fronte all’anomalo centrodestra berlusconiano, poco rispettoso e talora estraneo alle regole, è diventato sempre più importante il ruolo di garanzia del presidente. Ben lungi dal poter esser “notarile” esso ha comportato invece un impegno attivo, talora di contrasto a misure illegittime o confliggenti con lo spirito e la lettera della Carta.
Sin dall’inizio, sin dalla lettera che Oscar Luigi Scalfaro inviò nel 1994 a Berlusconi, incaricato di formare il suo primo governo: lo impegnava al rispetto della Costituzione e dell’Italia “una e indivisibile”, oltre che delle alleanze internazionali e della “politica di pace”.
Lettera senza precedenti, ma resa necessaria dagli umori secessionisti cavalcati allora dalla Lega e dalla richiesta di rompere il trattato di Osimo sul nostro confine orientale avanzata dal Movimento Sociale.
E fu provvidenziale anche il veto posto a Cesare Previti come ministro della Giustizia. Era solo l’inizio di una storia ventennale in cui presidenza della Repubblica e Corte costituzionale si sono trovate a fronteggiare le iniziative di Berlusconi che più apertamente stridevano con la Costituzione: del resto la considera scritta da «forze ideologizzate che hanno guardato alla Costituzione russa come a un modello» (parole sue).
Non andrebbero mai dimenticati i non lontani tempi delle leggi ad personam sul sistema televisivo e sulla giustizia (sino ai lodi di Schifani e di Alfano), e c’è proprio da sperare che non ritornino. Che non sia necessario porre continui argini ad anomalie e a pretese anticostituzionali ma sia possibile davvero rimodellare le istituzioni della Repubblica. Prendendo avvio dal primo fondamento: il senso di responsabilità istituzionale di coloro che sono chiamati a farlo. Questo Parlamento ha la possibilità di dare al Paese il segno di una svolta, dopo le pessime prove di due anni fa: auguriamoci tutti che ne sia capace.
Mafiosi anche senza le lupare
di Francesco La Licata (La Stampa, 05.12.2014)
Certo, non si troveranno né coppole né lupare nella cupola politico-mafiosa che gestiva i grandi affari della Capitale. Nessun giuramento con sangue e santino sarà stato imposto ai componenti il vasto e trasversale sodalizio criminale. Ma questo non vuol dire che il sistema scoperchiato dal procuratore Pignatone e dai suoi collaboratori non sia di tipo mafioso.
E i primi a crederci sembrano essere proprio i magistrati inquirenti che nei provvedimenti restrittivi non si sono limitati a fare ricorso all’«aggravante mafiosa», ma hanno addirittura ipotizzato il «416 bis», cioè l’associazione per delinquere di tipo mafioso. E questo proprio perché, per concretizzarsi il reato, non è necessario il controllo del territorio attraverso il ricorso alle bombe o alla violenza bruta. No, l’intimidazione mafiosa può funzionare anche solo in presenza di un «accordo» non scritto: tu politico sai da dove arriva la richiesta e conosci quali potrebbero essere le conseguenze di un diniego, ma soprattutto hai interesse ad esaudire ogni richiesta perché il mittente è utile al conseguimento e al mantenimento del potere. Il mafioso ed anche gli imprenditori del «sistema» avranno l’unica cosa che interessa loro, cioè i soldi, naturalmente pubblici.
C’è poco, dunque, da ironizzare sulla «mafiosità» della banda romana: non si tratta di ladruncoli né di mariuoli di antica memoria. Siamo di fronte a delinquenti che nulla hanno da invidiare ai più pubblicizzati, questo sì, colleghi siciliani.
E non mancano somiglianze e analogie con vicende archiviate, a Palermo, col marchio definitivo della politica mafiosa. Sarebbe lungo l’elenco delle storie che si potrebbero ricordare. Una su tutte, anche per il tipo di atteggiamento difensivo scelto dai protagonisti («traditi dagli amici»), potrebbe essere la vicenda che ha portato alla condanna definitiva dell’ex governatore di Sicilia, Totò Cuffaro. All’apparenza poteva sembrare una storia di ordinaria corruzione, se non fosse che l’imprenditore della sanità coinvolto nell’inchiesta, l’ing. Michelangelo Aiello, era sospettato - con qualche motivo - di essere addirittura prestanome del boss Bernardo Provenzano. Anche in quel caso la «rete» mafiosa non ha avuto bisogno di esercitare particolare violenza: tutto andava liscio grazie alla benevola attenzione dei burocrati della sanità e di politici non di primissimo piano, ma non per questo poco efficaci. Certo c’è un abisso tra Carminati e Provenzano, ma i «piccioli», i soldi, non sottilizzano sulla portata dei boss.
Non è casuale, poi, che l’inchiesta siciliana sulla corruzione abbia avuto un risvolto di mafiosità non indifferente, visto che si è scoperto che c’erano investigatori (poliziotti, finanzieri e carabinieri) che informavano in tempo reale Aiello, e dunque Provenzano, dello stato delle indagini. Addirittura chi piazzava le microspie per conto della procura, provvedeva - immediatamente dopo - a bonificare gli ambienti, vanificando il lavoro investigativo. Proprio come i poliziotti che avvertivano Carminati delle indagini in corso. A proposito di indagini, risulta che Alemanno avesse pensato di prevenire tentativi di infiltrazioni delinquenziali affidandosi alla consulenza non gratuita del prefetto Mario Mori. Neppure lui si è accorto di nulla?
La linea nera, una storia sporca
di Gianni Barbacetto (il Fatto, 05.12.2014)
Erano esclusi dal potere. Ed erano puliti. Adesso, invece, li troviamo neri e sporchi, alla guida del “mondo di mezzo” di Mafia Capitale. Sono gli eredi della destra, un tempo duri e puri, beccati oggi a manovrare un sistema criminale pervasivo e trasversale. Ma siamo proprio sicuri che ci sia stata una svolta, una rottura? “Vivevano nel mito delle mani pulite, che potevano esibire anche per mancanza di occasioni. Vent’anni dopo, il fallimento è spettacolare, verrebbe da dire wagneriano”: così Mattia Feltri. Ancor più forte la nostalgia di Marcello Veneziani, per “una destra che per anni si è vantata della sua diversità, che propugnava l’alternativa al sistema e ripeteva con Almirante che dalle tasche di Mussolini appeso in piazzale Loreto non è caduto un soldo”. Ma esisteva davvero la “diversità” nera? O non c’è piuttosto una sotterranea continuità criminale?
IL MITO della destra esclusa & pulita (e anche antimafia) si nutre delle storie di tanti militanti onesti, ancorché fascisti, e anche di figure limpide come quella di Paolo Borsellino. Ma non fa i conti con una realtà ben più articolata. Intanto il “polo escluso” (così il politologo Pietro Ignazi ha definito l’area politica che ruotava attorno al Msi) era in realtà un “polo occulto”. Quasi del tutto fuori dai circuiti del potere visibile, la destra di fede fascista ha in realtà sempre cogestito una larga fetta di “potere invisibile”. Il Msi è stato infatti coinvolto fin dalla sua nascita nella gestione dello Stato, dentro i suoi apparati più segreti e le sue operazioni più sotterranee. Forze armate, ministero dell’Interno, servizi segreti hanno sempre avuto rapporti stretti con il Movimento sociale e i suoi uomini. È esistito dunque in Italia anche un invisibile consociativismo di destra, in cui i “neri” hanno gestito una parte importante di delicatissimi apparati dello Stato, assumendosi spesso il compito di fare i “lavori sporchi” del sistema.
Guardavano al Msi i generali più importanti delle Forze armate negli anni Sessanta, a cominciare da Giuseppe Aloja, il capo di Stato maggiore che istituisce i “corsi d’ardimento” per formare “migliaia di uomini particolarmente addestrati contro la guerra sovversiva”, secondo la testimonianza di due personaggi coinvolti in quell’operazione, Pino Rauti e Guido Giannettini. Un uomo-chiave dei servizi segreti, Vito Miceli, termina la sua carriera in Parlamento, nei seggi del Movimento sociale, dopo essere stato capo del Sid, il servizio segreto militare, negli anni cruciali della strage di piazza Fontana (1969) e dei tentati golpe Borghese (1970) e Rosa dei venti (1973). Approdano nelle file del Msi molti altissimi ufficiali: dal generale Giovanni De Lorenzo (quello del Piano Solo, 1964) all’ammiraglio Gino Birindelli. E quanti uomini della destra lavorano, apertamente o in maniera “coperta”, per i servizi segreti, da Miceli a Rauti, da Giannettini a Stefano Delle Chiaie, da Giano Accame a Piero Buscaroli.
I militanti neri, sempre in bilico tra Msi e gruppi extraparlamentari (principalmente Ordine nuovo e Avanguardia nazionale), sono per decenni il serbatoio da cui attingere personale, sotto lo sguardo attento dei servizi di sicurezza, da impiegare nelle operazioni della “guerra non ortodossa”, teorizzata nel 1965 nel convegno al Parco dei Principi e passata attraverso il fuoco delle stragi, da piazza Fontana a Bologna.
Solo militanza politica (o politico-militare)? No. L’incrocio con gli affari, la politica e la corruzione (e anche con la mafia) è una costante di questa storia nera. Licio Gelli era già un perno della “terra di mezzo”, in contatto, sopra, con i Sindona, i Calvi, i Berlusconi e, sotto, con le bande dei neri toscani e i gruppi romani in cui s’incontravano eversione, servizi, malavita e mafia.
La banda della Magliana era già Mafia Capitale, commistione “perfetta” di affari, politica e criminalità. Altro che “cuori neri”, altro che destra dura e pura. A parole proclamava ideali alti, ancorché fascisti; in pratica li tradiva ogni giorno in un balletto di spioni, informatori, infiltrati e traditori sempre pronti a vendere i camerati.
A parole era antimassonica; ma molti esponenti di primo piano del Msi erano in segreto iscritti alla P2: Birindelli, ex presidente del partito (tessera numero 1670), i deputati Giulio Caradonna (2192) e Sandro Saccucci, il senatore Mario Tedeschi (2127), oltre a Vito Miceli (1605). A parole erano anche antimafiosi; ma la pratica, nel Paese dei patti sotterranei e delle alleanze inconfessabili, è diversa dalla teoria. Così la destra non ha esitato a trattare e collaborare con le mafie. Con Cosa Nostra in occasione del golpe Borghese; con la ’ndrangheta durante e dopo la rivolta di Reggio; con entrambe durante la trattativa del 1992-93.
P2 E MAGLIANA restano gli eterni modelli di una commistione affari/politica/criminalità/mafia che ha attraversato tutta la storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Il “mondo di mezzo” di Massimo Carmina-ti, milanese, detto “er Cecato”, ora è una versione di certo innovativa di quel modello, ma dentro una tenace continuità che non riescono a vedere soltanto i nostalgici di un mitico fascismo duro e puro che in Italia non è mai esistito.
Il Paese che vive nella Terra di mezzo
di Roberto Saviano (la Repubblica, 05.12.2014)
SU“ Mafia capitale” sappiamo tutto, abbiamo letto le cronache dell’operazione condotta dai Ros del generale Parente e dalla Procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone, abbiamo letto l’ordinanza del gip Flavia Costantini, ma non so se è chiaro a tutti cosa sia accaduto a Roma. ECOSA molto probabilmente sta accadendo altrove in Italia. Succede alla politica italiana ciò che sta accadendo alla società civile che guarda alla politica con schifo, senza riuscire a percepire le proprie responsabilità. Accade che in politica ci si venda, si ipotechi la propria anima per pochi spiccioli (ci sono mazzette da 750 euro prese senza la reale percezione della gravità della situazione come una legittima e piccola regalia). Accade che la politica non abbia autorevolezza e idee proprie, accade che la politica venga percepita come una occasione di guadagno, un mestiere che arriva senza dover studiare, senza curriculum ed esperienza.
La domanda è: ma come fanno personaggi che definiremmo “dalla storia ambigua”, come Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, a diventare artefici, attori, protagonisti di vicende che assumono connotazioni grottesche? Un assassino e un ex terrorista, ex Nar, organico alla banda della Magliana. Il primo, Buzzi, aveva scontato la sua pena, il secondo Carminati era stato assolto, ma su di lui esistono pagine e pagine di informative e una stretta osservazione. Ebbene Buzzi e Carminati in qualsiasi altro Paese condurrebbero la loro vita lavorativa sotto una strettissima sorveglianza, dovrebbero avere un comportamento talmente ligio da provare che si può uscire diversi dal carcere, da dimostrare che le assoluzioni sono opportunità di reinserimento e non salvacondotti. E invece a Buzzi e Carminati la politica dà massima fiducia senza chiedere in cambio nessuna trasparenza. Ci si fida di loro, ciecamente. Vi siete chiesti come sia stata possibile una tale idiozia? In questi giorni il mantra è: colpevole è non solo chi è consapevole, ma anche chi non vuole vedere. E allora noi da che parte stiamo? Tra i colpevoli o tra quelli che non vogliono vedere? Dobbiamo scegliere, perché una terza via non esiste.
Come possono personaggi come Carminati e Buzzi apparire “affidabili”? Possono farlo perché siamo in Italia. Possono farlo perché in Italia ciò che si rifiuta e rifugge non è il rapporto con chi tutto sommato è peggio di noi, ma con chi è meglio. Con chi ha una immagine pulita si fa il tiro al bersaglio: il gioco è far cadere il simbolo positivo dal piedistallo. Ed ecco che chi si distingue per professionalità e rettitudine in una giunta comunale viene allontanato, con maggiore o minore clamore mediatico, a seconda delle circostanze, ma se intralci i giochi sei fuori. I politicanti utilizzano e si legano a personaggi che non sono figure da poter demolire e che non vogliono cambiare il sistema e che abitano quel “mondo di mezzo” che Carminati, ha preso in prestito da Tolkien. «Ci stanno i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo. E allora vuol dire che ci sta un mondo, un mondo in mezzo, in cui tutti si incontrano. Anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno. Questa è la cosa... e tutto si mischia». Non è da leggere come è stato fatto sino ad ora come una “cerniera” tra teppa criminale e colletti bianchi. Questa è una vera e propria sintesi di filosofica economica.
Si parla chiaramente di un luogo trasversale dove ci si affida a chi “sa fare le cose”, chiunque egli sia. E qui arriva Salvatore Buzzi con le sue cooperative di disperati, di marginali, ex detenuti, immigrati che in un’Italia che non produce nulla, in un’Italia in cui le aziende muoiono, in un’Italia strangolata da un sistema fiscale irrazionale che in larga parte deve sopperire ai costi enormi e agli sprechi della politica, diventano una miniera d’oro.
In Italia è inevitabile che le emergenze diventino vere e proprie occasioni di profitto. La crisi dei rifiuti a Napoli ha irrorato la politica, la camorra e l’imprenditoria per oltre un decennio. Mare nostrum è stata una tragedia per tutti tranne che per Carminati e Buzzi. Per loro i barconi della speranza piuttosto che emergenza umanitaria, sono diventati un’enorme opportunità. «Ci fanno guadagnare più della droga», dicono. Quindi l’organizzazione mafiosa con a capo Carminati non guadagna con attività che tradizionalmente sono considerate criminali, ma con attività che invece godono di un’aura di nobiltà. Attività intoccabili, insospettabili. Ma di umanitario e ideologico non è rimasto proprio nulla: l’ideologia non c’entra, gli affari sui rom, sull’emergenza case, sugli immigrati, li fanno paradossalmente proprio gli uomini di Alemanno, coloro i quali hanno partecipato alla giunta che meno si è distinta per solidarietà verso gli ultimi, verso i bisognosi e i disperati. Non c’è più colore politico, ecco perché verso gli estremisti della prima e dell’ultima ora non posso fare a meno di provare pena; non c’è colore: basti pensare che Carminati che proviene dalla estrema destra, si sceglie Buzzi come braccio destro, un uomo che proviene dalla estrema sinistra.
E poi ancora: dal momento che a predisporre e coordinare l’emergenza migranti è il tavolo di coordinamento nazionale presieduto dal ministero degli Interni, lì deve sedere un uomo che sia al soldo del duo Carminati-Buzzi. Quest’uomo è Luca Odevaine, che ricorda Mister Wolf di Pulp Fiction, il problem solver. Luca Odevaine è stato vice capo di Gabinetto della giunta Veltroni, poi capo della Polizia provinciale, poi capo della protezione civile con Zingaretti e infine al tavolo di Coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti asilo. È lui, per intenderci, che prende in gestione la capitale quando muore Giovanni Paolo II. La trasversalità del sistema si basa su una macchina oleata fatta di mazzette grandi e piccole. Odevaine, secondo l’accusa, avrebbe percepito una mazzetta da cinquemila euro al mese.
Ma la cosa più interessante è che leggendo le carte dell’inchiesta si ha la sensazione che nessuno abbia reale consapevolezza del proprio status di corrotto. Quello che molti hanno preconizzato, ovvero che Tangentopoli fosse solo il punto di partenza di un’apocalisse politica e sociale definitiva si sta avverando. Ora i corrotti non solo si sentono legittimati a commettere illeciti, ma non hanno neanche più la consapevolezza della gravità dei loro comportamenti.
In tutto questo Matteo Renzi arriva tardi a commissariare il Pd di Roma. Prima della magistratura, la politica dovrebbe avere occhi, orecchie, dovrebbe ascoltare ogni sussulto, ogni sospiro. I segnali c’erano. E invece Renzi, che aveva tutti gli strumenti per sapere e per azzerare il Pd romano prima di questo terremoto giudiziario, lo fa dopo. Dall’altra parte - o dalla stessa parte anche se sembra si facciano guerra - c’è una destra sempre più disinvolta nell’occupare posizioni per trarne vantaggio, per condizionare la democrazia, anche usando la stampa locale che si presta al gioco, come è successo con Il Tempo diretto da Chiocci, che è arrivato a incontrare Carminati.
Mafia capitale è solo l’inizio. Altre inchieste in altre città dimostreranno che Roma non è un caso isolato. In altri Paesi europei esiste la corruzione, ma la corruzione non arriva a compromettere l’istituzione stessa: il corrotto è espulso dall’istituzione che è percepita come sacra e va salvaguardata. In Italia l’istituzione invece è utilizzata, lordata e non viene difesa.
Ma perché questo accade? Perché ormai si è impadronita di chiunque una consapevolezza: senza brigare non si va da nessuna parte. Senza forzature non succede niente, non cambia niente. Quindi in fondo la posizione bipartisan sembra essere questa: è inutile fingere di essere al di fuori o al di sopra. Tutti dobbiamo compromettere una parte del nostro lavoro, della nostra integrità, per ottenere qualcosa. Questa è la logica che emerge da “Mafia capitale”. Questa è la teoria del “Mondo di mezzo” di Carminati non portata alle estreme conseguenze, ma applicata a tutti noi. Da questo meccanismo nessuno si senta escluso, le mazzette trovate nelle buste con il logo di Roma Capitale ci riguardano, perché Roma Capitale siamo noi.
In questo Paese che non è capace di difendere il talento e l’impegno, dove tutti odiano tutti, dove tutti detestano chi ce la fa, in questo Paese tra il mondo dei vivi che sta sopra e il mondo dei morti che sta sotto, in mezzo ci siamo noi.
In mezzo c’è l’intero Paese che non riesce a reagire.
Onesto a chi?
di Antonio Padellaro (il Fatto, 23.11.2014
Maurizio Landini ha sbagliato a dire che Matteo Renzi “in questo Paese non ha il consenso delle persone oneste”, e infatti se n’è scusato. Non ha invece fatto ammenda per l’errore davvero imperdonabile che ha commesso pronunciando la parola “onestà”, una caduta di stile insopportabile come gli fanno notare illustri editorialisti su autorevoli quotidiani, ma a nostro sommesso avviso senza la necessaria durezza. A questo sindacalista che si ostina ad alzare la voce e a gesticolare ogniqualvolta si parla di lavoratori in esubero o in attesa di nuova collocazione (lui li chiama “disoccupati”, termine dal suono piuttosto volgare) bisognerebbe insegnare oltre alla buona creanza un uso più accorto della lingua italiana.
Onestà è un’espressione intrisa di quel moralismo e di quella morale (ultimo rifugio dei farabutti parafrasando Samuel Johnson quando parlava del patriottismo) che fino dai tempi di Enrico Berlinguer hanno fuorviato intere generazioni con una visione settaria e violenta che non a caso trova le sue radici “nella mistica della ghigliottina tanto cara a Robespierre”, come acutamente ha notato Pierluigi Battista sul Corriere della sera.
Chi siamo noi, per distinguere l’onesto dal disonesto poiché se è opinabile definire qualcuno, per esempio, corrotto (anche se fosse colto mentre intasca una tangente sarebbe colpevole, ricordiamolo, solo dopo il terzo grado di giudizio e sempre che non scatti una legittima prescrizione o qualche benedetto indulto), siamo sicuri caro Landini che i suoi presunti “onesti” lo siano per davvero e non nascondano, per dire, qualche multa non pagata e che al bar richiedano sempre lo scontrino?
E poi, come opportunamente si chiede Cesare Martinetti, sulla Stampa, chi è per Landini “chi lavora? ”. “Gli iscritti alla Fiom? ”. “Tutti? ”. Eh, eh, ci siamo capiti...
Davvero intollerabile, infine, è la discriminazione quasi razzista della dicotomia landiniana tra buoni e cattivi: non siamo forse tra i paesi al mondo dove girano più mazzette (superiamo perfino il Ghana) senza contare il record planetario dell’evasione fiscale e l’impunità assicurata a tutti coloro che possono permettersi un bravo avvocato anche se, per ipotesi, avessero mandato al creatore tremila persone avvelenandole con l’amianto? E delle mafie che comunque danno lavoro a tante brave persone, che ne vogliamo fare?
Lo sa il virtuoso Landini che l’economia illegale tiene a galla gran parte della nostra meravigliosa penisola? Vuole forse le barricate per le strade in nome di un astratto concetto di etica con cui, diciamolo non si mai sfamato nessuno (caso mai è il contrario)?
Quindi caro segretario della Fiom, faccia la cortesia, riponga nel cassetto certe visioni passatiste e demagogiche. Per dirla con il pragmatico Giuliano Ferrara “la smetta di farci perdere tempo”, si rassegni al nuovo che avanza ed eviti di dare spago “a una questione morale, o meglio moralistica che autorizza il rilancio di un’atmosfera girotondina che la difficile situazione sociale sta rendendo sempre più avventuristica e drammatica” (Martinetti).
Lasci lavorare in pace il nostro amato premier che sta “rivoluzionando il Paese da sinistra” (Repubblica). E la smetta di usare parole che possono essere delle vere bombe. Dia retta, se anche gli onesti esistessero, per ragioni di alta politica e di ordine pubblico andrebbero chiamati diversamente disonesti. O meglio ancora “cosi”, come ci insegna il compagno Lotito.
Il testimone Napolitano
La Corte d’Assise di Palermo ha deciso: il Capo dello Stato dovrà chiarire sugli “indicibili accordi” solo accennati dal suo consigliere Loris D’Ambrosio
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (il Fatto, 26.09.2014)
Il Pd Luciano Violante, oggi in corsa per uno scranno alla Consulta con la benedizione del Quirinale, l’aveva definita una trovata “originale” dei giudici di Palermo, ma ora la Corte d’Assise lo ha stabilito con chiarezza: la citazione del presidente della Repubblica, in qualità di testimone, nel processo sulla trattativa Stato-mafia, non è “né superflua né irrilevante”, dunque “deve darsi corso alla testimonianza”. E Napolitano, con una nota diffusa dall’ufficio stampa del Colle, ha dato prova di grande aplomb istituzionale: “Non ho alcuna difficoltà a rendere al più presto testimonianza - ha fatto sapere - secondo modalità da definire, sulle circostanze oggetto del capitolo di prova ammesso”.
SI CHIUDE COSÌ una controversia politico-giudiziaria che per circa un anno ha tenuto col fiato sospeso la diplomazia del Quirinale e ha arroventato il processo che fa fibrillare il cuore delle istituzioni. Ieri mattina, alla riapertura del dibattimento dopo la pausa estiva, il presidente Alfredo Montalto ha respinto le istanze di alcuni difensori che chiedevano un ripensamento sul coinvolgimento diretto del capo dello Stato nel dibattimento, e ha annunciato che la Corte di Palermo è pronta alla trasferta sul Colle: Napolitano deporrà in un salone ovattato del Quirinale, in base all’articolo 502 del Codice di procedura penale, che disciplina i casi di testi impossibilitati a recarsi in udienza e che sono ascoltati a domicilio. Per questo motivo, nella sala che verrà adibita alla testimonianza, scatterà “l’esclusione della presenza, oltre che del pubblico, anche degli imputati e delle altre parti, che saranno rappresentate dai rispettivi difensori”.
“Prendiamo atto della decisione”, commenta il pm Nino Di Matteo, “d’altra parte noi avevamo già illustrato i motivi per i quali ritenevamo rilevante la testimonianza del capo dello Stato, e la Corte d’assise aveva già ammesso la prova”’. Prima delle vacanze estive, il procuratore aggiunto Vittorio Teresi aveva ribadito l’istanza di sentire Napolitano, osservando che “la lettera inviata dal presidente alla Corte non può essere intesa come sostitutiva della sua testimonianza”.
L’ALLUSIONE è alla lettera spedita il 31 ottobre 2013 con la quale il capo dello Stato fece sapere che sarebbe stato “ben lieto di dare un utile contributo all’accertamento della verità processuale”, indipendentemente dalle riserve sulla costituzionalità dei suoi predecessori, “ove ne fosse in grado”. Nella missiva, praticamente, Napolitano faceva capire che non intendeva sottrarsi alla deposizione, ma nello stesso tempo raffreddava notevolmente le aspettative, esponendo quelli che definiva “i limiti delle sue reali conoscenze”.
Ieri, però, la Corte ha deciso che “il contenuto rappresentativo” di quella lettera “non è utilizzabile nel processo, in assenza di un accordo delle parti, accordo che nella fattispecie non è intervenuto”. Montalto ha poi concluso che anche se si volesse “prendere atto del diniego di conoscenze già espresso dal teste”, non è venuto meno “l’interesse della parte richiedente ad assumere la testimonianza, anche soltanto per acquisire la dichiarazione negativa di conoscenza”. Il capo dello Stato, in sostanza, deve deporre perchè “non si può di certo escludere il diritto di ciascuna parte di interrogare un testimone su fatti rilevanti, solo perché quel testimone ha escluso di essere informato su quei fatti”.
A nulla sono valsi, insomma, i “limiti” preventivi posti dall’inquilino del Quirinale, che nei prossimi giorni sarà chiamato a rispondere su un tema ben preciso: le preoccupazioni che il consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio riversò nella lettera a lui indirizzata il 18 giugno 2012, poco prima di morire stroncato da un infarto, alludendo a “indicibili accordi” che lo avrebbero visto agire come un “utile scriba”, tra l’89 e il ’93. L’ipotesi della procura di Palermo è che nel ‘93, quando lavorava con Liliana Ferraro all’Ufficio studi degli Affari Penali, D’Ambrosio potrebbe aver avuto un ruolo nelle manovre che portarono alla nomina di Francesco Di Maggio ai vertici del Dap, l’ufficio chiamato a gestire l’applicazione del 41 bis: una nomina ritenuta cruciale nell’ambito del dialogo tra i boss e le istituzioni.
Il riferimento a «indicibili accordi»
Gli interrogativi dei Pm sulla lettera di D’Ambrosio
di Nino Amadore (Il Sole-24 Ore, 26.09.2014)
PALERMO Lo hanno detto e ridetto: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano deve deporre al processo per la cosiddetta trattativa Stato-mafia. Perché loro, i pubblici ministeri che sostengono l’accusa in questo controverso processo (Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi) ritengono che il capo dello Stato debba chiarire alcuni aspetti. Sanno di doversi muovere in un ambito limitato. Non possono, per esempio, fare domanda alcuna sulle telefonate fatte dal consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio (morto d’infarto), al capo dello Stato nel momento in cui l’ex presidente del Senato Nicola Mancino, imputato in questo processo, chiedeva con insistenza un intervento sul coordinamento delle indagini sulla Trattativa.
Ma è pur sempre la vicenda che riguarda D’Ambrosio a interessare i pm palermitani: in particolare il contenuto della lettera che il consigliere giuridico del Quirinale ha inviato al capo dello Stato il 18 giugno del 2012, successivamente pubblicata per volontà dello stesso Giorgio Napolitano.
C’è un passaggio che i magistrati palermitani vogliono approfondire: la frase in cui D’Ambrosio - turbato dalla pubblicazione sui giornali delle intercettazioni telefoniche dei suoi colloqui con Mancino, ricordando ciò che ha scritto su richiesta della sorella di Giovanni Falcone, Maria, a proposito del periodo 1989-1993, trascorso in servizio all’Alto commissariato per la lotta alla mafia e poi al ministero della Giustizia - scrive: «Lei sa che non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e mi fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi - solo ipotesi - di cui ho detto anche ad altri, quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi».
A quali indicibili accordi si riferisce D’Ambrosio? Forse alla Trattativa Stato-mafia? E il presidente della Repubblica è a conoscenza di queste ipotesi? Domande scontate cui Napolitano però ha già risposto nella lettera inviata al presidente della Seconda sezione della Corte d’assise Alfredo Montalto il 31 ottobre dell’anno scorso in cui scrive di non avere «alcuna conoscenza utile al processo, come sarei ben lieto di poter fare se davvero ne avessi da riferire». E nel successivo paragrafo della lettera il presidente ha poi spiegato: «L’essenziale è comunque il non aver io in alcun modo ricevuto dal dottor D’Ambrosio qualsiasi ragguaglio e specificazione circa le "ipotesi" - "solo ipotesi" - da lui "enucleate" e il "vivo timore", cui il mio Consigliere ha fatto generico riferimento sempre nella drammatica lettera del 18 giugno. Né io avevo modo e motivo di interrogarlo su quel passaggio della sua lettera. Né mai ebbi occasione di intrattenermi con lui su vicende del passato».
Con l’ordinanza di ieri la Corte presieduta da Montalto ha «preso atto della richiesta formulata dal pubblico ministero nell’udienza del 17 luglio 2014, affinché si proceda all’esame testimoniale del presidente della Repubblica, già ammessa con ordinanza del 17 ottobre 2013, sciogliendo la riserva formulata nell’udienza del 28 novembre 2013». Per Montalto «non si può di certo escludere il diritto di ciascuna parte di chiamare e interrogare un testimone su fatti rilevanti per il processo sol perché quel testimone abbia in una precedente deposizione testimoniale, escluso di essere informato dei fatti medesimi».
Patto del Nazareno, Corriere: “Odore di massoneria, siano pubblici i contenuti”
di Redazione (Il Fatto Quotidiano, 24 settembre 2014)
Una squadra di governo “in qualche caso di una debolezza disarmante“, in cui “la competenza appare un criterio secondario“, composta da ministri “scelti per non fare ombra al premier”. Ma sopratutto un patto del Nazareno che eleggerà il nuovo capo dello Stato e che è in “odore di massoneria“. Nel giorno in cui il Corriere della Sera lancia il restyling della versione cartacea, il direttore Ferruccio de Bortoli esprime un giudizio netto sul premier, sul suo operato e sull’accordo alla base delle riforme istituzionali stretto con Silvio Berlusconi. Il direttore affida il proprio pensiero all’editoriale che inaugura il nuovo corso grafico, un editoriale in cui l’eleganza delle espressioni non nasconde un giudizio negativo sulla scelta dei ministri e il modo in cui Matteo Renzi concepisce e affronta il proprio mandato.
La sentenza è contenuta nelle prime battute dell’articolo: “Devo essere sincero: Renzi non mi convince“, esordisce De Bortoli che ha avverte il premier: “Se vorrà veramente cambiare verso a questo Paese dovrà guardarsi dal più temibile dei suoi nemici: se stesso”. Perché se è vero che “una personalità egocentrica è irrinunciabile per un leader”, quella del presidente del Consiglio “è ipertrofica”. E non tanto questione di personalità, quanto di contenuti: la sua “muscolarità tradisce a volte la debolezza delle idee, la superficialità degli slogan”. Perché “l’oratoria del premier è straordinaria, nondimeno il fascino che emana stinge facilmente nel fastidio se la comunicazione, pur brillante, è fine a se stessa” e “un profluvio di tweet non annulla la fatica di scrivere un buon decreto”. ”In Europa - avverte il direttore del Corriere - meno inclini di noi a scambiare la simpatia e la parlantina per strumenti di governo, se ne sono già accorti”.
I tratti della personalità del presidente del Consiglio non sono il suo unico limite. Secondo il direttore del quotidiano di via Solferino, a pesare negativamente è la composizione della squadra di governo, infarcita di fedelissimi e composta in base al criterio della toscanità: “Renzi ha energia leonina, tuttavia non può pensare di far tutto da solo. La sua squadra di governo è in qualche caso di una debolezza disarmante. Si faranno, si dice. Il sospetto diffuso è che alcuni ministri siano stati scelti per non far ombra al premier. La competenza appare un criterio secondario. Circondarsi di forze giovanili è un grande merito - continua De Bortoli - lo è meno se la fedeltà (diversa dalla lealtà) fa premio sulla preparazione, sulla conoscenza dei dossier. E se addirittura a prevalere è la toscanità, il dubbio è fondato“. Una gestione applicata anche al Partito Democratico: “Le controfigure renziane abbondano anche nella nuova segreteria del Pd, quasi un partito personale, simile a quello del suo antico rivale, l’ex Cavaliere”.
Ma “l’interrogativo più spinoso”, come lo chiama De Bortoli, sorge qualche riga dopo: “Il patto del Nazareno finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, forse a inizio 2015. Sarebbe opportuno conoscerne tutti i reali contenuti. Liberandolo da vari sospetti (riguarda anche la Rai?) e, non ultimo, dallo stantio odore di massoneria”. De Bortoli parla di “sospetti”, ma l’accusa è netta e il giudizio impietoso: alla vigilia dei decisivi passaggi parlamentari delle riforme costituzionali e della legge elettorale che costituiranno il nuovo architrave istituzionale dello Stato, il direttore del Corriere punta i fari contro le molte contraddizioni alla base dell’accordo tra il Partito Democratico e Forza Italia. Un termine forte “massoneria”, difficilmente usato da De Bortoli soltanto per indicare la natura segreta dell’accordo. Un patto che, è il secondo interrogativo sollevato, riguarderebbe anche la televisione pubblica, primo produttore culturale del Paese, storicamente al centro degli interessi della politica e ora oggetto di un’intesa dai contenuto opachi tra il capo del governo e quel Silvio Berlusconi già padrone incontrastato dell’offerta televisiva privata.
Il Corriere affonda Renzi: puzza di massoni dietro il patto con B.
Editoriale durissimo del direttore De Bortoli che denuncia l’arroganza del premier e la debolezza dei ministri
di Stefano Feltri (il Fatto, 25.09.2014)
Perché il direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli attacca così frontalmente il premier Matteo Renzi? Perché evoca la troika, i segreti del patto del Nazareno e, a questo proposito, sente lo “stantio odore della massoneria”? Spiegazione giornalistica: ieri il Corriere ha cambiato formato e grafica, ci voleva un editoriale del direttore e De Bortoli è riuscito a scriverne uno che ha reso imperdibile la lettura del giornale.
Ma il Corriere è anche il giornale dei poteri (un tempo) forti, quello che la loggia P2 comprò con i soldi del banco Ambrosiano di Roberto Calvi e nel cui azionariato tormentato tuttora si scontrano gli ultimi frequentatori dei salotti della finanza, Diego Della Valle contro Giovanni Bazoli di Intesa e la Fiat di Sergio Marchionne e John Elkann. E se il Corriere sfiducia il governo - a cui non ha mai riconosciuto grandi meriti - nei palazzi romani si passa la giornata a cercare il mandante o almeno un’interpretazione.
DE BORTOLI PARLA di “muscolarità che tradisce debolezza” e di una squadra di ministri “di una debolezza disarmante” (tranne Pier Carlo Padoan all’Economia), uomini e donne scelti in base alla fedeltà invece che alla competenza. Osservazioni molto condivise in quei settori di impresa e finanza che hanno accolto con entusiasmo Renzi ma ora non vedono alcun miracolo.
Basta leggere il Sole 24 Ore di Confindustria o gli editoriali di Wolfgang Munchau sul Financial Times. Soltanto Sergio Marchionne, che si prepara ad accogliere Renzi alla Chrysler a Detroit e invoca la riforma dell’articolo 18, rimane decisamente renziano: “L’editoriale del Corriere? Normalmente non lo leggo”. Parole che evocano quelle che usò Silvio Berlusconi nel 2008 quando suggerì a Giulio Anselmi della Stampa e a Paolo Mieli del Corriere di “cambiare mestiere”. I due direttori furono cacciati. De Bortoli non corre lo stesso rischio perché è già stato licenziato, se ne andrà in primavera come da accordi con l’azienda, dopo ripetuti scontri con l’amministratore delegato Pietro Scott Jovane. Per lunghi mesi, quindi, De Bortoli sarà al comando ma libero - più del solito - di dire quello che vuole.
E allora avanti con le suggestioni, a metà tra fantapolitica e analisi. Renzi aveva attaccato in Parlamento, con toni intimidatori, proprio il Corriere, reo di aver dato notizia dell’indagine per corruzione internazionale su Claudio Descalzi, il manager scelto dal governo per la guida dell’Eni. E il premier, il 16 settembre, alla Camera attacca: “Non permettiamo a un avviso di garanzia citofonato sui giornali o a uno scoop di cambiare la politica industriale nazionale”. E allora, zac, De Bortoli risponde alle minacce con l’editoriale “Il nemico allo specchio”. Il sito Dagospia riferisce anche che il premier avrebbe protestato perché da via Solferino avevano mandato un inviato nell’albergo delle vacanze presidenziali a Forte dei Marmi.
Ma queste sono minuzie che non appassionano chi preferisce vedere disegni più vasti dietro l’attacco del Corriere. Tipo: Mario Draghi ha ormai deciso di lasciare la Bce l’anno prossimo per andare al Quirinale, dove Renzi non lo vuole perché si troverebbe commissariato, De Bortoli supporta Draghi e asseconda quei poteri che sarebbero rassicurati dal vedere il banchiere centrale al vertice della politica italiana (peccato che non è affatto detto che Draghi voglia e possa andarsene da Francoforte senza destabilizzare i mercati mondiali). Infine l’ipotesi più ardita: il direttore del Corriere pensa alla politica, ma non come sindaco di Milano (ipotesi di cui si discute da anni), bensì come portabandiera di uno schieramento alternativo al Pd renziano. I salotti non hanno più un loro uomo, visto che l’ambizioso Corrado Passera convince poco.
FANTAPOLITICA a parte, resta quel riferimento sorprendente alla massoneria. Forse De Bortoli ha indiscrezioni su indagini fiorentine? Siti e personaggi dalla discutibile attendibilità sostengono che ci siano legami tra Tiziano Renzi, il papà, Denis Verdini (Forza Italia) e logge toscane. Illazioni mai dimostrate. Dall’America Renzi commenta solo così: “Auguri al Corriere per la nuova grafica”. In privato si limita a dire: “Se c’è una cosa che è lontana da me e da mio padre è la massoneria”. Vedremo se De Bortoli e i suoi cronisti produrranno elementi per smentirlo.
di Roberto Mancini (Altraeconomia.it, 04 settembre 2014)
Gli anni della menzogna. I vent’anni da Berlusconi a Renzi. In tale periodo l’Italia è stata avvolta in un’oscura nube tossica che ha tolto lucidità ad ampi strati della società. In questa situazione può essere utile un promemoria sulle riforme vere che sarebbero urgenti. Ricordando, intanto, che le cosiddette “riforme” del governo Renzi si inseriscono nel quadro del doppio errore mortale dell’Unione europea, risalente alla fine degli anni 70. L’errore sta nell’aver risposto alla globalizzazione in modo nevrotico e stolto: da una parte rilanciando i nazionalismi dei Paesi più forti e dall’altra identificandosi con la volontà dei Mercati. Il contrario esatto di quello che serviva. L’intreccio di nazionalismi e neoliberismo è stato ed è micidiale. In tale scenario i governi e i partiti italiani non potevano che fare del loro peggio.
Le perle di Renzi sono, nell’ordine: una riforma costituzionale che stravolge in senso oligarchico la funzione del Senato e quella delle Province con il pretesto di un finto risparmio e soprattutto di una maggiore “governabilità”; una legge elettorale che riduce ulteriormente la possibilità che la volontà dei cittadini abbia rappresentanza reale; una riforma del mercato del lavoro che coltiva la precarizzazione sopprimendo tutele e diritti; una riforma della pubblica amministrazione tutta incentrata sulla mobilità dei dipendenti e sul maggiore ricorso alle procedure on line; una riforma della scuola che si risolverà nell’aumento delle ore di lavoro per gli insegnanti; una riforma fiscale che si traduce nell’invio del modello 730 precompilato a casa. Le riforme autentiche sono ben diverse.
Qui mi limito a elencare le dieci principali:
1) un piano globale per l’economia nazionale che garantisca i diritti ai lavoratori, riapra il credito alle imprese e promuova la rilocalizzazione favorendo le attività tipiche dei nostri territori (dalla cultura al turismo, dal tessile all’alimentare e così via). Il governo dovrebbe sostenere le imprese disposte a praticare un’economia sana attraverso le leve della defiscalizzazione, del credito agevolato, degli appalti pubblici e della collaborazione delle università nel campo della ricerca scientifica necessaria a un’economia avanzata. A ciò si aggiungerà la riforma fiscale in senso proporzionale e patrimoniale. La direzione di fondo della riforma dell’economia nazionale dovrà delinearsi nel passaggio dalla logica della crescita alla logica dell’armonizzazione, dall’economia dello sviluppo all’economia della cura;
2) una riforma della politica sociale e dei diritti che porti a misure strutturali tanto per sostenere i singoli e le famiglie colpiti dalla diffusione dolosa della povertà a causa della conduzione liberista dell’economia, quanto per dare una risposta di dignità alla condizione dei migranti, dei profughi, dei detenuti e di quanti sono marginalizzati o respinti;
3) una riforma che tuteli l’indipendenza della magistratura e dia impulso sistematico alla lotta contro le mafie;
4) una riforma che affronti il conflitto di interessi e ridisegni la normativa che regola la proprietà dei media;
5) una riforma che tuteli radicalmente i diritti delle donne e assicuri i diritti civili di chiunque, senza discriminazioni dovute alle preferenze sessuali;
6) una riforma della sanità pubblica che risponda alle esigenze dei territori e ne elevi la qualità da Nord a Sud;
7) una riforma della scuola e dell’università che dia impulso alle dinamiche interculturali e interdisciplinari e che consideri gli studenti protagonisti, assicurando nel contempo ai docenti le migliori condizioni per unire didattica e ricerca (provvedendo al tempo stesso alla manutenzione sistematica degli edifici);
8) una riforma che porti alla gestione sapiente dell’assetto idrogeologico del Paese e che tuteli l’ambiente;
9) un nuovo orientamento della politica estera che -in modo diretto e in modo indiretto, cioè a livello dell’Unione europea- costruisca un quadro di relazioni solidali, di cooperazione e di disarmo dal Mediterraneo a ogni area del mondo;
10) una riforma che fissi le regole vincolanti per la democrazia interna nei partiti o nei movimenti politici e cancelli privilegi e immunità per chi ha cariche pubbliche, introducendo sia limiti temporali di esercizio che percorsi di formazione.
Prima di trovare un governo pronto a fare queste riforme si dovranno trovare molti, nelle istituzioni e nella società, che siano disposti non a “metterci la faccia”, ma a metterci la testa. A metterla fuori dalla nube tossica che spegne l’intelligenza politica.
La Costituzione come statuto di una maggioranza
di MASSIMO VILLONE (il manifesto, 17 Luglio 2014
Una valanga di 7000 emendamenti può sembrare un ostacolo insormontabile per la riforma Renzi-Boschi. Ma è un’illusione. Regolamento e prassi conoscono raffinate tecniche anti-ostruzionistiche. Per le regole in atto, un ostruzionismo di minoranza che blocchi l’assemblea non è possibile. Siamo di fronte a qualche giorno di lavoro parlamentare, niente che non si possa gestire accorciando (di poco) le vacanze. A meno che la maggioranza riformatrice non si dissolva. Per questo è decisiva la tenuta del patto Renzi-Berlusconi, difeso dai due stipulanti a spada tratta, accada quel che accada.
In qualche misura l’esito rimane incerto, essendo stata pura rappresentazione teatrale la soporifera assemblea di Renzi con i parlamentari Pd, e rimanendo alta la febbre in Fi. C’è da sperare che la migliore politica ritrovi fiato e iniziativa. Perché il testo approvato in commissione prefigura un’architettura istituzionale distorta e priva di equilibrio. Si è parlato di blando autoritarismo, si è richiamato il progetto Gelli-P2. Di certo, si può temere una riduzione degli spazi di democrazia.
Come? Vediamo alcuni punti salienti. Azzeramento della rappresentatività e del peso politico-istituzionale del senato con il carattere non elettivo e il taglio dei poteri; riduzione della camera a obbediente braccio armato del governo attraverso una legge elettorale che riduce la rappresentatività, taglia le voci in dissenso, crea una artificiale maggioranza numerica, garantisce la fedeltà al capo attraverso le liste bloccate; potere di ghigliottina permanente del governo, che può strozzare a suo piacimento il dibattito imponendo il voto a data certa su un testo proposto o comunque accettato dal governo; innalzamento del numero di firme richiesto per l’iniziativa legislativa popolare a 250.000 (ora 50.000); innalzamento delle firme richieste per il referendum abrogativo a 800.000 (ora 500.000).
Un colpo grave ed evidente alla rappresentanza politica da un lato, alla partecipazione dall’altro. Sono poco più che una foglia di fico le disposizioni che rinviano ai regolamenti parlamentari la garanzia dell’iniziativa legislativa popolare, o riducono in qualche misura il requisito del quorum strutturale per il referendum. Assai più contano altri effetti, magari indotti e non immediatamente visibili, delle modifiche proposte. Ad esempio, il Capo dello Stato viene eletto da deputati e senatori. Ma la riduzione drastica del numero dei senatori, rimanendo immutato quello dei deputati, lascia in sostanza la elezione del capo dello stato nelle mani della sola camera, consegnata alla maggioranza di governo dalla legge elettorale, con l’aggiunta di una manciata di sindaci e consiglieri regionali amici. Basterà aspettare il nono scrutinio per avere un capo dello stato di maggioranza, rimanendo mero flatus vocis che sia rappresentante dell’unità nazionale, e garante della costituzione. E non dimentichiamo che il capo dello stato presiede il Csm, organo di autogoverno della magistratura. E che per gli stessi componenti elettivi del Csm vale il discorso appena fatto. Mentre i tre membri della Corte Costituzionale eletti dalla camera sono rimessi alla scelta della maggioranza garantita dal premio, con qualche sostegno sottobanco che non si nega a nessuno. Per non dire della revisione della Costituzione ancora rimessa alla maggioranza di governo della camera, e agli equilibri politici del tutto occasionali e imprevedibili del senato. In quali mani finiranno diritti e libertà? La Costituzione come statuto di una maggioranza?
Una struttura priva di equilibrio. Dove sono i checks and balances? Invece, molto altro si poteva fare. Come ad esempio l’impugnativa ex ante davanti alla Corte Costituzionale di leggi non limitata alla legge elettorale, da parte di una minoranza parlamentare (come in Francia); o il ricorso diretto del cittadino alla stessa Corte in materia di diritti e libertà (Germania e altri paesi); o il referendum popolare approvativo automatico in caso che l’iniziativa legislativa popolare venga disattesa dal legislatore (Svizzera); o l’anticipo del giudizio di ammissibilità della Corte sul referendum in base all’avvenuta raccolta di un numero inferiore di firme rispetto al totale di quelle richieste (ad esempio, centomila), in modo da consentire ai promotori di raccogliere le restanti firme a quesiti ammessi.
Né va dimenticato il contesto più generale, e l’indebolimento di partiti politici, sindacati, associazioni. Si pensi alla cancellazione del finanziamento pubblico, alla diatriba sui contratti nazionali di lavoro, al rifiuto di concertazione. La stessa ascesa di Renzi è stata la negazione della funzione tipica e propria di un partito politico. In sostanza, nelle primarie Renzi ha usato il voto dei non iscritti contro il voto degli iscritti, per conquistare il partito degli iscritti.
Un tempo, se qualcuno voleva metter mano alla costituzione si parlava di ingegneria istituzionale. Ma almeno si presupponeva una laurea. Capiamo bene che oggi è chiedere troppo. Ma almeno dateci un geometra o un capomastro.
Re Giorgio
Napolitano, un presidente interventista oltre i limiti della decenza istituzionale
di Maurizio Viroli (Il Fatto, 12.07.2014)
Il presidente Napolitano ripetutamente interferisce sulle prerogative del Parlamento intervenendo mentre è in corso il processo deliberativo in palese violazione del principio cardine dell’ordinamento repubblicano in base al quale “quando il Parlamento parla, il presidente tace” come dichiarò a suo tempo Arrigo Levi, consigliere di Ciampi. Più grave ancora è stata l’offesa inflitta alla Repubblica quando ha accettato il secondo mandato.
Quattordici anni configurano un mandato più lungo di quello (nove anni) che la Costituzione assegna ai giudici di Corte costituzionale. In un ordinamento repubblicano più alta è la funzione di garanzia, più lungo è il mandato, come attesta ad esempio il caso americano ove i giudici della Supreme Court sono nominati a vita. Un presidente con mandato più lungo dei giudici pone il presidente in questione al di sopra dei giudici della Corte costituzionale.
Anche in questo caso si vede bene la differenza fra un presidente di formazione comunista (Napolitano ) e un presidente di formazione azionista (Ciampi). Invitato a servire per un secondo mandato Ciampi rispose infatti(cito a memoria) “mal si confà in ordinamento repubblicano il rinnovo di un mandato già così lungo come quello del Presidente della Repubblica. Per Napolitano (altro segno della sua formazione comunista) lo Stato è in primo luogo governo, all’esistenza di un governo, possono essere sacrificate le più elementari considerazioni di decenza. Né è prova l’invenzione e il sostegno ai governi di larghe intese con delinquenti conclamati quali Berlusconi, senza che nessuna situazione d’emergenza lo imponesse.
Al quale Berlusconi, in spregio del principio del governo della legge, Napolitano non ha mancato di esprimere comprensione dichiarando, l’indomani della sentenza definitiva di condanna, che era opportuna la riforma della giustizia.
Più dell’etica conta la politica: ecco allora la lettera di solidarietà alla vedova Craxi nella quale il presidente parla addirittura(cito a memoria e devo verificare, di ‘accanimento giudiziario’ contro lo ‘statista’ morto latitante. Ed ecco pure lettera alla moglie di Almirante elogiato per la sua lealtà costituzionale.
La democrazia autoritaria
di Marco Travaglio (il Fatto, 06.07.2014)
Ecco cosa accadrà se le “riforme” di Renzi, Berlusconi & C. entreranno in vigore: un regime da “uomo solo al comando” senza opposizioni né controlli né garanzie.
1. CAMERA. Con l’Italicum e le sue liste bloccate, sarà ancora composta da 630 deputati nominati dai segretari dei partiti più grandi. Quelli medio-piccoli saranno esclusi da soglie di accesso altissime. Il primo classificato (anche col 20%) avrà il 55% e potrà governare da solo, confiscando il potere legislativo, che di fatto coinciderà con l’esecutivo a colpi di decreti e fiducie.
2. SENATO. Con la riforma costituzionale, sarà formato da 100 senatori non eletti: 95 scelti dai consigli regionali (74 tra i consiglieri e 21 tra i sindaci) e 5 dal Quirinale. Sarà dominato dal primo partito e comunque non potrà più controllare il governo: niente fiducia né voto sulle leggi (solo pareri non vincolanti, salvo per le norme costituzionali).
3. OPPOSIZIONE. I partiti di opposizione saranno decimati dall’Italicum. I dissenzienti dei partiti governativi potranno essere espulsi e sostituiti in commissione (vedi Mauro e Mineo). La “ghigliottina” entra in Costituzione: corsia preferenziale per le leggi del governo da approvare in 2 mesi, con divieto di ostruzionismo e emendamenti strozzati.
4. CAPO DELLO STATO. Se lo sceglierà il capo del governo e del primo partito dopo il terzo scrutinio, quando la maggioranza dei 2/3 scende al 51%. Col 55% dei deputati, gli basteranno 33 senatori. Dopo il precedente presidenzialista di Napolitano, il Colle potrà arrogarsi enormi poteri d’interferenza in tutti i campi, giustizia in primis.
5. CORTE COSTITUZIONALE. Il governo controllerà 10 dei 15 “giudici delle leggi”: i 5 nominati dal Parlamento e i 5 scelti dal capo dello Stato (gli altri 5 li designano le supreme magistrature). Difficile che la Consulta possa ancora bocciare leggi incostituzionali o dar torto al potere politico nei conflitti con gli altri poteri dello Stato.
6. CSM E MAGISTRATI. Anticipando la pensione delle toghe da 75 a 70 anni, il governo decapita gli uffici giudiziari. I nuovi capi li nominerà il nuovo Csm, con 1/3 di laici vicini al governo e un presidente e un vice fedelissimi al governo, previo ok del Guardasigilli. Progetto di dirottare i giudizi disciplinari dal Csm a un’Alta Corte per 2/3 politica, cioè governativa.
7. PROCURATORI E PM. Dopo la lettera di Napolitano e il voto del Csm sul caso Bruti-Robledo, il procuratore capo diventa padre-padrone dei pm, privati dell’autonomia e dell’indipendenza “interne”. Per assoggettare Procure e Tribunali, basterà controllare un pugno di capi, senza più il bilanciamento del “potere diffuso” dei singoli pm.
8. IMMUNITÀ. Superata dai tempi e screditata dagli abusi, l’immunità parlamentare da arresti e intercettazioni rimane financo per i senatori non più eletti. Il voto a maggioranza semplice consente al governo di mettere in salvo i suoi uomini alla Camera e di nominare senatori “scudati” i sindaci e i consiglieri regionali nei guai con la giustizia.
9. INFORMAZIONE. Senza abolire la Gasparri né toccare i conflitti d’interessi, la tv rimane proprietà dei partiti: il governo domina la Rai (rapinata di 150 milioni e indebolita dall’evasione del canone) e B. controlla Mediaset. I giornali restano in mano a editori impuri: aziende perlopiù ricattabili dal governo e bisognose di aiuti pubblici per stati di crisi e prepensionamenti.
10. CITTADINI. Espropriati del diritto