COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA: L’ITALIA E’ UNA REPUBBLICA (ART. 1), UNA E INDIVISIBILE (ART. 5). LA SUA BANDIERA E’ IL TRICOLORE (ART. 12)... E IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA E’ IL CAPO DELLO STATO E RAPPRESENTA L’UNITA’ NAZIONALE (ART. 87)
di Federico La Sala
Il premier torna a usare Canale 5 per smentire le tensioni con il Quirinale
Ma poi precisa: "La Carta fondamentale non è un moloch, anche la sinistra la vuole cambiare"
Berlusconi: "Attacco alla Costituzione? Non c’è niente di più falso"
ROMA - Silvio Berlusconi, ospite di Maurizio Belpietro a Panorama del giorno su Canale5, ripete di non aver "mai attaccato né il Capo il Stato né la Costituzione" a proposito del decreto, poi ritirato, sul caso Englaro. "Non c’è niente di più falso - afferma il premier - ho una cordialità di rapporti con Napolitano e il presidente del Consiglio non ha alcun interesse" a che questo rapporto con il Capo dello stato si incrini.
Berlusconi sostiene anche di non aver mai attaccato la Costituzione, in cui difesa oggi pomeriggio il Partito democratico scenderà in piazza: "Io non ho mai attaccato la Costituzione, anzi semmai l’ho difesa". Subito dopo ribadisce quanto già detto nei giorni scorsi: "La Costituzione non è un moloch" e "i cassetti del Parlamento sono pieni di progetti per cambiarla fatti dalla sinistra" che, secondo il Cavaliere, "ancora una volta mistifica la realtà per nascondere la mancanza di progetti credibili per l’Italia e per la Sardegna".
Il presidente del Consiglio, sfruttando ancora una volta come megafono la sua televisione dopo appena una settimana dall’intervista concessa a "Mattino 5", torna anche sul futuro del disegno di legge sul testamento biologico. "Il Parlamento - dice - varerà in breve una legge che, oltre a vietare qualsiasi forma di eutanasia, introdurrà norme di civiltà come il testamento biologico e il divieto di non somministrare alimentazione e idratazione per chi non sa provvedere a se stesso".
Berlusconi nel suo intervento tocca poi temi di politica estera, affermando che "Obama ha intenzione di rafforzare la presenza in Afghanistan con 30mila soldati in più e ha chiesto agli alleati di dare una mano". "Noi - prosegue - non ci tireremo indietro. Nei prossimi mesi ci sono le elezioni e tutti devono concorrere affinché le votazioni siano sicure e democratiche".
* la Repubblica, 12 febbraio 2009
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!! Un appello al Presidente Napolitano
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
STORIA D’ITALIA, 1994-2011: LA COSTITUZIONE, LE REGOLE DEL GIOCO, E IL "MENTITORE" ISTITUZIONALIZZATO ... CHE GIOCA DA "PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA" CON IL LOGO - PARTITO DI "FORZA ITALIA" E DI "POPOLO DELLA LIBERTA’"!!!
(...) I margini di successo sono tanto più ridotti, come ha rilevato il Presidente della Repubblica, dopo anni di contrapposizione e di scontri nella politica nazionale" (...)
STORIA D’ITALIA (1994-2011): HO FATTO, FACCIO, E FARO’ "CAUSA ALLO STATO"!!! Signor Presidente del Consiglio, "perché vuol fare causa allo Stato?". Ma devo ancora dirlo: chi è il "vero" Presidente della Repubblica?! IO: "Forza Italia"!, Viva il "Popolo della libertà"!!
(...) c’è anche un significato simbolico. Da questo punto di vista, non si tratta solo di una strategia processuale, ma, ancora una volta, di una esplicita dichiarazione di guerra contro il vero nemico politico e culturale di Berlusconi: lo Stato. Non questo o quel potere o ordine, non i magistrati comunisti, non i partiti avversari. No. Il nemico è lo Stato in quanto tale, in quanto organizzazione di potere sovrano e rappresentativo (...)
BERLUSCONI (CON I SUOI COM-PARI) RUBA LE CHIAVI DI CASA DELL’ITALIA INTERA, REALIZZA UN COLPO DI STATO, E IL PARLAMENTO E IL CAPO DELLO STATO PERMETTONO A 17 ANNI DI DISTANZA ANCORA L’ESISTENZA DEL SUO PARTITO!?!
DUE PRESIDENTI (1994-2011) GRIDANO "FORZA ITALIA"!!! E si pensa ancora che sia tutto una barzelletta!!! (fls)
di Gaetano Azzariti (il manifesto, 10.02.2011)
«Farò causa allo Stato», sarebbe questa la reazione di Berlusconi alla richiesta di rito abbreviato presentata dalla Procura di Milano. Vista la nota propensione a raccontar barzellette del nostro Presidente del Consiglio si può pensare che si sia trattato solo di una malriuscita battuta di spirito.
Se, invece, si dovesse prendere sul serio l’affermazione riportata dalle agenzie di stampa, essa apparirebbe sintomatica di una concezione premoderna dei rapporti tra poteri, estranea alla nostra cultura democratica e costituzionale, lontana dalla realtà dello Stato contemporaneo e dall’evoluzione che, dai tempi di Montesquieu, ha portato a conformare lo Stato come un’entità divisa.
Una barzelletta se s’immagina il «Capo» del governo che fa causa a se medesimo, chiedendo magari al «suo» ministro della giustizia il risarcimento per i danni subiti dal tentativo di svolgere i processi che lo vedono coinvolto. Vedere accanto la vignetta-copertina di Vauro, certamente illuminante più di ogni discorso su una simile schizofrenia dissociativa.
A noi non rimane che prendere sul serio quanto è stato detto. La dichiarazione è grave e inquietante perché tende a negare ogni autonomia ai poteri dello Stato, a quello giudiziario in particolare. Se si ha un minimo di rispetto per la divisione dei poteri (carattere fondativo della civiltà costituzionale moderna) si dovrebbe sapere che compete ai giudici l’esercizio della giurisdizione nei confronti di ogni soggetto di diritto, di ogni persona. La minaccia di «far causa» perché il giudice svolge le sue indagini ha come scopo quello di negare l’autonomia e l’indipendenza del potere, mira a delegittimare l’ordine della magistratura nel suo complesso.
Nulla può valere a giustificare le affermazioni del premier, neppure le sue eventuali ragioni «processuali». Non si può escludere allo stato, infatti, che la Procura di Milano stia interpretando male le regole processuali, né si può escludere che in sede dibattimentale le ragioni della difesa prevalgano su quelle dell’accusa, venendosi così a dimostrare la non perseguibilità penale per le imputazioni mosse. Ma ciò dovrebbe indurre Berlusconi a partecipare al processo che lo vede indagato, non a minacciarne un altro «eguale e contrario».
Deve essere chiaro che la Procura sta esercitando le sue funzioni d’indagine nel rispetto delle regole processuali. Ha presentato, infatti al Gip la richiesta di rito immediato ai sensi degli art. 453 e segg. del Codice di procedura penale. Spetterà ora al Giudice verificare la sussistenza dei presupposti.
Ci sono alcuni profili giuridici che dovranno essere valutati con attenzione e pacatezza: quelli concernenti la possibilità di procedere per via breve, oltre che per il reato di concussione, anche con riferimento all’accusa di sfruttamento della prostituzione minorile; quello riguardante la competenza della procura milanese; quello relativo al carattere comune ovvero funzionale del reato di concussione posto in essere - secondo l’accusa - dal Presidente del Consiglio. Questioni delicate, che si dovrebbero sviluppare secondo la normale dialettica processuale, nel contraddittorio delle parti, in base a quanto stabilisce la legge.
Ma chi ha mai detto che è facile fare i processi? Anche le accuse dovranno essere provate. In fondo proprio a questo servono i processi. Sono le «sante inquisizioni» i riti d’indagine che non servono a nulla, avendo sin dall’inizio già formulato una condanna. Per fortuna il medioevo giuridico è alle nostre spalle, sebbene il Presidente Berlusconi non sembra essersene accorto. Noi, che siamo sempre stati garantisti, con tutti e in ogni caso, non indietreggiamo: è nel processo che si provano le accuse e può farsi valere l’innocenza di ciascun indagato.
Per cortesia Cavaliere, si faccia processare. Dimostri, se può, in quella sede la sua innocenza, almeno la non rilevanza penale dei suoi comportamenti privati: l’onore del paese ne verrebbe sollevato. Se è convinto che la procura di Milano non abbia «né la competenza territoriale né quella funzionale» faccia come tutti: lo dica al giudice che dovrà valutare l’operato della procura, eserciti i suoi diritti di difesa. Ma non fugga dal processo, non è più il tempo antico del «diritto sovrano». E poi, signor Presidente se lo faccia dire: se proprio non crede alla giustizia perché vuol far causa allo Stato?
Linea d’ombra
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 26 gennaio 2011)
Viviamo, da ormai quasi un ventennio, nella non-politica. Della politica abbiamo dimenticato la lingua, il prestigio, la vocazione. Dicono che a essa si sono sostituiti altri modi d’esercitare l ’autorità: il carisma personale, i sondaggi, il kit di frasi e gesti usati in tv. Ma la spiegazione è insufficiente, perché tutti questi modi non producono autorità e ancor meno autorevolezza.
Berlusconi ha potere, non autorevolezza. Non sono le piazze a affievolirla ma alcune istituzioni della Repubblica. evidentemente non persuase dalle sue ingiunzioni. Le vedono come ingiunzioni non di un rappresentante dello Stato, ma di un boss terribilmente somigliante al dr Mabuse, che nel film di Fritz Lang crea un suo stato nello Stato. Alle varie istituzioni viene intimato di ubbidire tacendo, e già questo è oltraggio alla politica e alla Costituzione.
Specialmente sotto tiro è la magistratura, che incarna il diritto. Un gran numero di magistrati si trova alle prese con un leader-non leader, sospettato di crimini di cui la giustizia indipendente non può non occuparsi. Le sue peripezie sessuali lo hanno minato ulteriormente, essendo forse connesse a reati, e hanno accresciuto la sua inaffidabilità. Questo è il dilemma. Il carisma che ha avuto e ha presso gli elettori non ha prodotto che subalternità o resistenza. Il potere gli dà una parvenza di autorità, ma l’autorevolezza, che è altra cosa, gli manca. Non incarna la legge, il servizio su cui la politica si fonda, perché questi ingredienti non sono per lui primari.
L’autorevolezza del leader è riconosciuta non solo dall’elettore ma dai pari grado e dai poteri chiamati per legge a controbilanciare il suo. Il conflitto tra il Premier e la giustizia non avviene fra due poteri irrispettosi dei propri limiti, come ha detto lunedì il cardinale Bagnasco. Avviene perché il premier indagato non va in tribunale, non accetta l’obbligatorietà dell’azione penale costituzionalmente affidata ai pm (art. 112). I pari grado esigono da chi comanda capacità di comunicare senza di continuo mentire e smentirsi. Esigono un equilibrio psichico che non sfoci in aggressività, in punizioni a tal punto fuori legge che sempre occorre scriverne di nuove.
A questo dovrebbe servire la politica non tirannica: a governare i conflitti nel loro sorgere, a non intimidire. Berlusconi disconosce tali virtù, per il semplice motivo che non sa - non vuol sapere - quel che significhino la politica e il comando. Non il merito e l’autonomia individuale sono stati da lui rafforzati, come tanti italiani s’attendevano, ma l’appartenenza ai giri di potere anti-Stato descritti da Gustavo Zagrebelsky (Repubblica 26-3-10). Non stupisce la contiguità fra i giri e le associazioni malavitose. Ambedue hanno potere di nuocere o favorire, non autorevolezza.
Anche il carisma non è politica alta. Il primo è personale e labile, la seconda essendo un impasto di regole s’innalza sopra il contingente, non si mimetizza nelle voglie della folla, guarda più lontano. La politica alta è distrutta quando i cittadini dimenticano che solo le istituzioni durano. Lo disse Jean Monnet dopo l’ultima guerra, vedendo i disastri commessi dagli Stati e progettando l’Europa sovranazionale: «Solo le istituzioni son capaci di divenire più sagge: esse accumulano l’esperienza collettiva, e da questa esperienza, da questa saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse regole potranno vedere non già il cambiamento della propria natura, ma la graduale trasformazione del proprio comportamento». Solo l’istituzione ben guidata ha il carisma, il «dono» di operare per il bene comune indipendentemente da chi governa.
In Joseph Conrad, la scoperta delle capacità di comando è il momento in cui il capo della nave oltrepassa la linea d’ombra e apprende il compito come servizio (il compito di portare nave e passeggeri sani e salvi in porto). È scritto in Tifone: «Pareva si fossero spente tutte le luci nascoste del mondo. Jukes istintivamente si rallegrò di avere vicino il Capitano. Ne fu sollevato, come se quell’uomo, con la sola sua comparsa in coperta, si fosse preso sulle spalle il peso maggiore della tempesta. Tale è il prestigio, il privilegio e la gloria del comando. Ma da nessuno al mondo il capitano Mac Whirr avrebbe potuto attendere un simile sollievo. Tale è la solitudine del comando».
Berlusconi è rimasto al di qua della linea d’ombra. La prova che dall’adolescenza ci immette nella maturità, non l’ha superata.
Ma il problema non è solo Berlusconi. Al di qua della linea d’ombra è restata l’idea stessa che in Italia ci si fa della politica. La politica non è associata a competenza e disinteresse personale, e chi non entra nelle beghe di quella che in realtà è non-politica, viene chiamato un tecnico o un ingenuo. Non è associata alla verità, ritenuta quasi un attributo pre-politico. È dominio fine a se stesso, e così degenera. Lo Stato funziona se gli ordini vengono eseguiti, ma a condizione che sia custodito il bene comune. Che il potere si nutra di legalità, oltre che della legittimità data dalle urne. Che il privato non prevalga sul pubblico.
La vera corruzione italiana comincia qui: nelle teste, prima che nei portafogli. Non che sia scomparso il politico vero, ma spesso di lui si dice: «È uno straniero in patria». Sono i falsi politici a considerarlo estraneo ai giri, alla loro «patria». L’Italia ha conosciuto la politica alta: quella della destra storica nata dal Risorgimento; quella dei costituenti di destra e sinistra; quella di Luigi Einaudi. In uno scritto del 1956, il secondo Presidente della Repubblica invitò gli italiani a non illudersi: «Nessuno Stato può esistere e durare se non sono saldi i pilastri fondamentali» che sono la difesa, la sicurezza, il diritto, l’ordine pubblico. Senza tali pilastri «gli Stati sono cose fragili, che un colpo di vento fa cadere e frantuma». Al capo politico spetta salvaguardarli, poiché spetterà a lui «dire la parola risolutiva, dare l’ordine necessario».
Difficile dire la parola risolutiva, quando tutto traballa. Quando la linea d’ombra non è riconosciuta e il capo vive o cade nella pre-adolescenza. Uno dei motivi per cui da anni ci arrovelliamo sul potere berlusconiano - è un Regime? un autoritarismo nuovo? - è questa sua incapacità di dire parole credibili. L’ubbidienza al politico, scrive ancora Einaudi, è possibile solo se «gli uomini a cui è affidata l’osservanza della legge non mettono se stessi al di sopra della legge». Se i capi civili «sapranno di essere confortati dal consenso di cittadini, convinti che nessuno Stato dura, che nessuna proprietà, nessuna sicurezza di lavoro, nessuna certezza di avvenire sono pensabili, se tutti non siano decisi ad osservare i principii vigenti del diritto e dell’ordine pubblico».
La sinistra ha scoperto tardi la forza delle istituzioni, dello Stato. Anch’essa ha spesso considerato il sapere tecnico, la legalità, il parlar-vero, come non-politica. Politica era conquista di posti, più che servizio. Non era apprendere la prudenza insegnata nel ‘600 da Baltasar Gracián: la prudenza di chi non si scorda che «c’è chi onora il posto che occupa, e chi invece ne è onorato». Per questo l ’opposizione appare vuota, a volte perfino più incompetente di alcuni governanti, non meno indifferente ai meriti, non meno interessata a lottizzare poteri. Lo stesso Veltroni sfugge la politica quando invita a «viaggiare in mare aperto». C’è bisogno di porti, non fittizi. C’è bisogno di capire che non cresceremo più come prima. Che non è straniero in patria chi elogia l’invenzione delle tasse o del Welfare: questo strumento che crea comunità solidali strappandole alla legge del più forte.
È vero, l’Italia ha bisogno di una rivoluzione democratica. Dunque: di una rivalutazione della politica. È la politica che deve vagliare i dirigenti e impedire all’indegno di entrarvi, senz’aspettare la magistratura. Non è solo la sinistra a poter incarnare simile rivoluzione. Possono farla anche le destre, a lungo identificate con Berlusconi. Fini è il primo a riscoprire la politica, e anche la destra storica. C’è una tradizione riformatrice in quella destra, evocata su questo giornale da Eugenio Scalfari nell’88, nello stesso anno in cui denunciò l’ascesa del potere televisivo berlusconiano: la tradizione di Marco Minghetti, di Silvio Spaventa, che esalta la politica come servizio pubblico. Sinistra e destra debbono ritrovarla, come seppero fare dopo il ventennio fascista.
Obiettivi primari: legittimo impedimento e Lodo congela-processi
Resta difficile l’incastro per definire l’iter parlamentare dei procedimenti
Da Arcore Silvio chiede le leggi-scudo
ma crescono i dubbi di costituzionalità
Il processo breve potrebbe essere successivamente spogliato della veste ad personam
di LIANA MILELLA *
ROMA - Essere magnanimi sì, ma solo a tempo debito. Mostrare il viso d’angelo sulla giustizia e sulle riforme che Napolitano auspica condivise "solo" quando i processi del Cavaliere Mills e Mediaset avranno perso la sostanza dell’incubo e saranno diventati un problema del futuro. Allora, e solo allora, Berlusconi potrà spogliare il processo breve della veste di legge ad personam e farlo diventare il grimaldello della futura riforma della giustizia, lo strumento per accorciare i tempi dei processi.
La strategia del 2010, in questi giorni di ritiro forzato ad Arcore, è stata individuata e comunicata ai più stretti collaboratori. Non consente deroghe. Prima il leader del Pdl deve portare a casa il legittimo impedimento e, subito dopo, incardinare al Senato il nuovo lodo congela-processi, il lodo ter dopo quelli firmati da Schifani e Alfano - e bocciati dalla Consulta - ottenendo la garanzia che marci indisturbato verso i molteplici passaggi parlamentari. Poi potrà offrire all’opposizione, Pd e Udc, una nuova veste del processo breve. Che non servirà più per chiudere d’un colpo il dibattimento Mills, che ha sforato i due anni concessi - non a caso - dal processo breve ai dibattimenti di primo grado.
Questi sono gli ordini del Cavaliere. Ma le incognite sono molte. L’incastro parlamentare difficile. Le diatribe tra le varie anime del Pdl forti. I dubbi pure. Soprattutto sul rischio che il legittimo impedimento, la prima carta del castello di carte da mettere in difficile e precario equilibrio, sia quella che potrebbe rovinare per prima e far cadere la debole impalcatura creata per garantire a Berlusconi una temporanea immunità. Di questo si ragionava prima di Natale quando al Senato si è deciso di non presentare più, rinviandoli a dopo le feste, i due articoli del lodo per congelare i processi delle alte cariche. Spingeva il vice capogruppo del Pdl Gaetano Quagliariello che con gli esperti della fondazione Magna Carta aveva messo a punto il testo. Frenava il Guardasigilli Angelino Alfano che voleva dire l’ultima parola sul futuro lodo, ma soprattutto non gradiva un dibattito tra Natale e l’Epifania che lo avrebbe visto fuori gioco per via delle sue vacanze alle Maldive. Frenava pure Niccolò Ghedini, che stavolta si è visto scippare la paternità di una nuova norma salvapremier dopo gli insuccessi delle precedenti.
Ma la paura che ha continuato a ingigantirsi in questi giorni riguarda l’effettiva compatibilità tra legittimo impedimento e lodo congela-processi. Soprattutto la costituzionalità della legge ordinaria rispetto a quella che richiede i due terzi dei voti. La prima è una norma ponte in vista della seconda. Per 18 mesi può consentire al premier di far valere sempre i suoi impegni istituzionali come necessari e improrogabili per rinviare le udienze. È "il male minore", dice il centrista Michele Vietti, che ha scritto la norma con il pidiellino Enrico Costa. Ma è una norma, ragiona l’opposizione, che viola la Costituzione perché garantisce al premier vantaggi in contrasto col principio di uguaglianza. Quindi Napolitano non dovrebbe firmarla. Qualora lo facesse, i giudici dovrebbero ricorrere alla Consulta e bloccare la legge. Ma potrebbe andare peggio: i magistrati potrebbero ignorarla, e andare avanti nei processi del premier. Che resterebbe di nuovo "nudo" e con il lodo ter in alto mare.
Peggio del 2008 e del 2009. Con il retaggio della bisaccia vuota della giustizia. Il 2010 comincia così. Con la minaccia di fare da soli, ma con le esitazioni e le divisioni interne su cosa fare e come farlo. Con il premier tuttora stritolato dai processi che si è cercato di fermare con la norma blocca processi, con il lodo Alfano, con il processo breve, ora con il legittimo impedimento grazie all’intercessione Udc. Nel frattempo le vantate riforme della giustizia, elencate e chieste con insistenza dal presidente della Camera Gianfranco Fini, sono rimaste sulla carta. Se ne lamentano magistrati e avvocati. Ma il governo pensa a come ingraziarsi il primo presidente della Cassazione Vincenzo Carbone, aumentando l’età pensionabile e dando un anno in più di carriera giusto alla toga che, tra pochi giorni, dovrà decidere se assegnare alle sezioni unite, come chiedono i legali, il processo contro David Mills. Lo stesso in cui era coimputato Berlusconi prima che il lodo Alfano lo bloccasse. Se la Suprema corte bocciasse la sentenza, le riforme della giustizia sarebbero assai meno necessarie.
© la Repubblica, 3 gennaio 2010
Per il presidente della Camera "si tratterebbe di una questione
di rispetto dell’esecutivo nei confronti del parlamento"
Finanziaria, Fini: "No alla fiducia
su maxiemendamento governo"
E respinge il ’presidenzialismo di fatto’: "Lusso che non possiamo permetterci"
"Serve equilibrio tra i poteri dello Stato, senza mortificare alcun ruolo" *
ROMA - No del presidente della Camera Gianfranco Fini a una eventuale fiducia alla legge finanziaria utilizzando il solito meccanismo del maxiemendamento: "Il presidente della Camera sarebbe in grossa difficoltà se la fiducia non fosse posta su un testo che esce dalla commissione ma su un maxiemendamento del governo", afferma la terza carica dello Stato.
Presentando un libro nella Sala del Mappamondo alla Camera, in vista dell’imminente esame della manovra finanziaria, Fini ha spiegato che se il governo ponesse la fiducia su un maxiemendamento questo significherebbe "per il Parlamento non poter svolgere il suo compito. Non tutte le fiducie hanno lo stesso impatto politico, in questo caso si tratterebbe di una questione di rispetto del governo nei confronti del parlamento".
Riforme. Fini respinge dunque qualunque ipotesi di "presidenzialismo di fatto": "E’ vero, da qualche tempo c’è una sottolineatura del ruolo dell’esecutivo: io non considero questo negativo, non sono un cultore dell’assemblearismo, ma se si accentua il ruolo dell’esecutivo dobbiamo anche rafforzare il controllo parlamentare e il ruolo del parlamento".
"Non possiamo stare così come siamo adesso, è un lusso che non ci possiamo permettere - ha concluso Fini -. Io non inorridisco davanti alla parola presidenzialismo, una democrazia deve essere rappresentantiva ma anche governante, mi rifiuto di mettere in contrapposizione questi due termini. A un capo dell’esecutivo forte deve corrispondere un Parlamento forte, non si stabilisce un equilibrio se si mortifica il ruolo dell’uno o dell’altro".
* la Repubblica, 25 novembre 2009
La rivolta dei poeti: «Berlusconi, giù le mani dalla democrazia»
di Pietro Spataro *
Tanto, dicono, sopravviene rapido e crudo l’oblio». È un verso della poesia di Roberto Roversi che pubblichiamo qui accanto. Una delle tante che compongono questa «antologia della ribellione » che gira sull’on line da qualche giorno e sta suscitando grande interesse.Unastranezza nell’Italia di oggi. Trenta poeti (giovani e vecchi, del Nord e del Sud) si mettono al lavoro e scrivono versi per protesta: contro la minaccia incostituzionale di Berlusconi, per difendere il valore della resistenza e della memoria. Sembrava un’impresa impossibile. Quando Davide Nota, che è un giovane poeta di ventotto anni pieno di passione, ha cominciato a telefonare a noi più anziani, in pochi avremmo scommesso sulla riuscita. Pensavamo a Pasolini e misuravamo la distanza tra il suo grido e questa «Italia rotta» di oggi. Racconta Davide: «Tutto è cominciato quando Berlusconi ha proposto di cambiare nome alla Festa della Liberazione. Ne abbiamo parlato io e Gianni D’Elia e all’inizio si pensava a una cosa così, duepoesie contro l’oblio». Poi invece le poesie sono diventate di più: per la precisione quarantadue.
I poeti sono trenta e sono diversi tra loro: ci sono i «grandi vecchi » come Roberto Roversi, quelli della generazione di mezzo come Gianni D’Elia, Maurizio Cucchi e Franco Buffoni. Ma poi soprattutto ci sono tantissimi giovani: quelli che sono lanuova generazione che esprimeforse la rabbia più fresca e battagliera. Questa antologia insomma è un altro segno che qualcosa si muove nel mondo della cultura. «Si tratta di una rivolta della coscienza - spiega Gianni D’Elia - Assistiamo a un attacco al diritto che fa spavento. È ilmomentodi farecomediceva Dante: “Così gridai con la faccia levata”. Nonpossiamo permettere che la cultura sia travolta dalla tv». Aggiunge Franco Buffoni: «Cerchiamo di far sentire un fiato civile in un’epoca di disinteresse. Siamo noi i veri liberali, mica loro».
Nata per difendere la Costituzione e i valori dell’antifascismo la raccolta strada facendo ha assunto anche un taglio diverso. È diventata il grido di dolore contro la decadenza dell’Italia. «Un tentativo di resistenza contro l’orrore che abbiamo attorno - dice Maria Grazia Calandrone - Abbiamo il dovere di batterci contro questa catastrofe, cominciando dalla scuola che deve fornire gli strumenti per capire. Siamo circondati da una cultura della paura e del sospetto che fa venire i brividi». Aggiunge Flavio Santi: «Questa destra è pericolosa. Noi tentiamo di scalfire il muro di silenzio. I poeti ci sono ancora, questo vogliamo dire: per fermare l’omologazione per cui tutto va bene e tutto è uguale». È la prima volta forse nella storia d’Italia che trenta poeti si mettono insieme per gridare più forte. L’antologia sta girando nei vari social metwork, appare su alcuni siti importanti (Micromega, Reset italia, Nazione Indiana e daoggi anche sul sito dell’Unità). È una piccola cosa, ma spesso dalle piccole cose viene il meglio. È un modo per dire no a quello che Leopardi chiamava «il servilismo verso l’imperio dell’autorità». E oggi purtroppo in giro se ne vede un bel po’. Servirà? Direbbe Franco Fortini: «La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi».
Un appunto in prosa di poesia
Roberto Roversi
Largisce pace la pace
e la guerra di guerra risuona.
La guerra dice la pace fiacca e induce
all’ozio l’uomo calcolatore.
La guerra dice che la guerra è
inevitabile furore
e il grido degli uomini in battaglia
strappa nel cielo penne e penne agli angeli
peccatori.
Tanto, dicono, sopravviene rapido e crudo l’oblio
on mazza e scudo
a scalciare il sudario dei ricordi
che hanno acidula voce
e sono bagnati nel fiume di sangue degli anni
(senza pietà)
Ma i pensieri di ferro rovente non sono la rana
buttata in un fosso sperduto.
Il furore a Cassino
Varsavia Stalingrado
Dresda Coventry Berlino
tutta Italia spianata
porte d’inferno aperte ogni giornata.
Calpestare l’oblio
il viaggio dei ricordi non è mai finito
là c’ero anch’io.
Golpe sottile
Giuliano Scabia
Si aggira nelle menti, nei media,
un golpe sottile, un assopimento
spettacolare indotto da paura
e dissolversi delle visioni. L’ora
è venuta di lasciare il novecento
con le sue catastrofi e bellezze,
ma dicendo: siamo orgogliosi
di ciò che fu fatto per il bene,
non lo rinneghiamo: voi, col vostro
Gran Porcone e le sue Madonne
velinose andate pure alle glorie
delle falsate storie. Dignità e valore
è libertà, durezza e verità, amore
delle città, non tresca, non truffa,
non menzogna. Ciò che bisogna
adesso è: SVEGLIA ITALIA!
Scrollati dal fango che t’ammalia!
Nella piatta illusione del tempo
Maurizio Cucchi
Nella piatta illusione del tempo,
Nella comunità precaria
Dei morti e dei vivi,
Non si cancella l’offesa, non si modifica
Il senso della storia. Nel presente
Totale la vittima
E l’assassino conservano
Espressioni diverse, facce
Opposte: il nero
Resta nero e la storia
Non lo stinge, non lo sbiadisce.
Mai.
La Liberazione
Gianni D’Elia
Sciagurata sineddoche d’Italia,
la parte per il tutto del peggiore
carattere affarista, Smisuralia
d’iniquo e ingiusto, sovrano e signore.
Italiano del Duemila, tutta aria
di denaro e potere, il solo amore,
bassa statura, che animo non varia,
di riccastro ed impresario in calore.
Insigne erede di sozza fazione,
ossessa forza, che il Paese caria
dagli schermi e dai fogli del padrone,
liberaci di te, ci manca l’aria.
Per quanto studi per l’eterna azione
cammini già la tua vita mortuaria,
sei già nel tuo pacchiano Partenone,
sciagurato diffuso in terra ed aria.
S’aspetta che tu vada, odioso clone,
Primo, Secondo e Terzo Berluscone,
tu, già fuori della Costituzione,
contro i cives e la Costituzione,
tu e la tua burlesca Liberazione!
Credono di essere il paese
Lina Salvi
Credono di essere il paese,
ma sono fuori dallo Stato,
appiccando il fuoco con viso
coperto, a tradimento, alle baracche
di quei nomadi, che con un euro
comprano tre mattoni
per una casa nel loro paese,
i nostri sono scappati incuranti,
nelle auto ritoccate, i bambini
a decine chiedono notizie
dei loro compagni, perplessi,
in un’altra storia.
Altra preghiera
Pietro Spataro
Liberaci dal vuoto del potere
dall’ideologico concorrere violento
dai tribunali di partito, dall’erosione
del libero discorrere degli uomini
allontanaci dalle urla di governo
dagli elenchi fraudolenti dei nemici
dall’odio che scava a fondo e lascia
lungo la via un’aspra solitudine
forma essiccata del pensiero
decadenza inarrestabile, inquietudine
Soprattutto e con ogni forza
Raimondo Iemma
Metto in comune un bicchiere.
Sorrido a uno sconosciuto
cerco altre parole
telefono a un amico
di cui da tempo non ho notizie
riconosco la voce di sua madre.
Quanto più sgomenta
la sofferenza di ogni uomo
per la ferocia dei suoi pari
quanto più subdolo diventa
il nuovo vocabolario
di inchiostro bianco cenere
non smetterò di credere nella felicità e nel domani
nell’idea che queste due parole
abbiano tanti significati
quanti sono gli uomini.
Soprattutto e con ogni forza
non cederò alla tentazione
di opporre disprezzo al disprezzo
nonostante tutto vorrò praticare il coraggio e
l’amore.
Ho voglia di stare al mondo e lottare.
Aprile
Davide Nota
Se ne vanno, la notte, silenziosi,
in lenta carovana, gli occhi al suolo,
i morti che di noi ancora sono
morti e se ne vanno silenziosi.
Il vento tra le foglie del castagno,
il passo tra le felci, il legno franto,
il canto delle rane nello stagno,
il pianto scivoloso del canale...
Scompaiono, di notte. Torneranno
come le pietre che la terra inuma?
Sapere i loro segni che consuma
la pioggia non ci basta a ricordare
che vivi ci sognarono e son morti.
* l’Unità, 25 novembre 2009
La sovranità ad personam
di Carlo Galli (la Repubblica, 24 novembre 2009)
L’accorato appello di Carlo Azeglio Ciampi ci porta - con la sua altissima risonanza emotiva - a una stagione morale della politica che sembra ormai remota: la stagione della democrazia costituzionale e della repubblica parlamentare. Ci riporta al suo pathos per la libertà e al suo ethos di rispetto delle istituzioni, presidi della vita collettiva e del suo ordinato svolgimento secondo l’uguaglianza e il diritto (per non parlare della decenza). Una stagione che si pretende trascorsa e ormai finita, sostituita da un’altra, nuova e ormai alle porte, di cui si celebra l’avvento; una stagione che andrebbe riconosciuta nella sua ineluttabilità, e che meriterebbe il sacrificio della costituzione formale, ormai obsoleta, che dovrebbe essere adeguata alla splendida aurora della nuova costituzione materiale. Il cui contenuto fondamentale sarebbe un innovativo esercizio - libero, diretto e costituente - della sovranità popolare, che potrebbe oggi finalmente esprimersi senza la mediazione soffocante delle istituzioni, senza il vincolo della Legge, senza l’ossessione per l’ordine costituito.
E l’occasione per questo spontaneo manifestarsi del popolo e della sua volontà sovrana sarebbe data dalla persona empirica e singolare di Silvio Berlusconi, il presidente del Consiglio che appellandosi a essa intende sottrarsi - con tutti i mezzi che la fantasia dei suoi avvocati e dei suoi ministri può escogitare - alla legge ordinaria, alla comune uguaglianza giuridica che lega tutti i cittadini di una nazione democratica. Una eccezionalità, una straordinarietà, che gli sarebbero dovute in virtù del suo essere primus super pares fra i ministri (qualunque cosa ciò significhi), nonché direttamente votato dal popolo non come deputato - che rappresenta tutta la Nazione, come ogni altro parlamentare eletto - ma direttamente come capo del governo. Un cortocircuito fra potere esecutivo e popolo, dunque, che taglia fuori il potere legislativo, il Parlamento, spodestandolo, nella gerarchia dei poteri dello Stato, dal primo posto che gli compete nelle costituzioni moderne. Un cortocircuito, soprattutto, che dovrebbe sollevare il primus, l’Eletto, oltre l’ordinamento giuridico normale, garantendogli un’esenzione speciale dalla Legge; non importa se con norma ordinaria o costituzionale, se agendo sulla durata dei processi o sulla prescrizione: l’importante è che il cittadino Berlusconi, l’imprenditore privato di enorme successo e di immensa ricchezza, non venga toccato da processi.
Insomma, il potere del popolo - terribile e irresistibile fondamento di ogni legittimità politica - si condensa in un’unica epifania, in una manifestazione gloriosa strettamente individuale; il potere costituente, che rade al suolo gli ordinamenti costituiti e ne crea di nuovi, deve incaricarsi di ridisegnare l’equilibrio dei poteri dello Stato per il vantaggio di una sola persona; il caso d’eccezione deve diventare permanente, quotidiano e al contempo perenne, e garantire lo sfondamento dell’ordinamento a beneficio di uno solo. C’è, evidentemente, una sproporzione grottesca tra la causa e l’effetto, fra i principi e la realtà. Da una parte si evocano le categorie più forti della filosofia politica e della scienza giuridico-costituzionale moderna - appunto, la sovranità popolare, il potere costituente, il caso d’eccezione; chissà, la stessa rivoluzione - ; dall’altra l’obiettivo è tutto sommato modesto: una vicenda personale che il rilassarsi della democrazia e lo spregiudicato populismo di Berlusconi stanno trasformando in una tragedia repubblicana.
È questo squilibrio a mostrare, da solo, l’inconsistenza delle tesi che intendono nobilitare con motivazioni storico-politiche i frenetici tentativi di parte della maggioranza di salvare Berlusconi dai suoi processi (che non sono più di cento, ma meno di venti) che da anni subisce come imprenditore e che da anni contrasta con innumerevoli leggi a proprio vantaggio (come questo giornale ha documentato inoppugnabilmente). Tutti i superamenti dell’ordinamento formale e del potere liberale di cui si parla, tutte le potenze concrete, i momenti materiali della politica, hanno senso se hanno a che fare con obiettivi pubblici, universali: se anche la destra vuole diventare rousseauiana e mostrare un improvviso amore - forse sospetto e certamente pericoloso - per la sovranità popolare nella sua forma assoluta, non sarebbe male si ricordasse che la Volontà generale è tale perché vuole solo ciò che è generale, non perché vuole gli interessi particolari; che il caso d’eccezione è una violazione della Legge per un Valore pubblico supremo (la salvezza dello Stato, la salus populi, o qualche altra motivazione d’emergenza di carattere generale) e non per una vicenda di corruzione in atti giudiziari; che le rivoluzioni sono l’evento più pubblico e politico che ci sia, e che non si fanno per vicende personali.
E infatti nessuno ha inteso rivoluzionare alcunché col votare Berlusconi, ma soltanto eleggere un deputato che in seguito è stato incaricato dal Capo dello Stato di formare un governo, che ha avuto bisogno del voto di fiducia del Parlamento. Si deve contrastare la pretesa che l’on. Berlusconi sia stato eletto dal popolo capo del governo, e che goda perciò di uno status privilegiato: ciò non è vero.
La mitizzazione dei momenti forti in cui si fondano gli ordinamenti è un’evocazione equivoca e fuori posto: la sovranità popolare - valore supremo della democrazia, che nessuno intende discutere
non è a favore di un singolo ma di tutti i cittadini in regime di uguaglianza; non è una coperta da tirare da una parte, ma il presidio della libertà di tutti; non è un fantasma da evocare a piacimento ma un bene da difendere e da garantire attraverso le libere istituzioni della democrazia repubblicana. E la salvezza dello Stato e del popolo non sta nell’infrangere le norme, e nell’inventare modi per sottrarsi ai processi, ma, al contrario, nella determinazione costante di restituire il Paese all’ordine della legalità, che coincide, anziché esservi contrapposto, con l’ordine della legittimità, e di ritornare alla sana distinzione fra privato e pubblico, fra diritto penale e diritto costituzionale, che distingue uno Stato libero da uno Stato patrimoniale, e una nazione di cittadini da una di sudditi.
L’Unità nazionale in pericolo
di Giorgio Ruffolo (la Repubblica, 09.09.2009)
Altri grandi paesi europei non celebrano la loro unità. Per alcuni è troppo remota per avere un significato attuale. Altri come la Francia preferiscono celebrare il loro più grande conflitto storico: la rivoluzione. Tutti considerano l’unità come un fatto acquisito che non ha bisogno di essere celebrato. Per noi non è così. Perciò finiremo per celebrarla controvoglia.
Il fatto è che l’unità italiana è scarsamente sentita dagli italiani. Lo testimonia la svogliatezza con la quale l’attuale governo, pur pressato dal Presidente della Repubblica, ha abbandonato le celebrazioni ormai prossime del centocinquantesimo anniversario alla fantasia burocratica e dissipatrice di Regioni e Comuni. Né maggiore interesse è dimostrato dall’opposizione.
Solo una minoranza politica, diciamo la verità, coltiva il mito del Risorgimento. Per la maggioranza Mazzini e Garibaldi fanno parte del folklore domestico, non certo di una salda coscienza patriottica. C’è anche chi, come un giovane e intelligente studente, addirittura se ne vergogna pubblicamente. E in effetti ragioni, se non di vergogna, di grande perplessità non mancano sul modo in cui quell’unità fu raggiunta: tra l’altro, in forme impreviste e persino indesiderate dai suoi protagonisti.
Tra questi il suo massimo artefice, Cavour, l’aveva fin quasi al suo compimento definita una "sciocchezza" restando all’ipotesi del "Belgio grasso" al Nord e di un Regno del Mezzogiorno al Sud, con una mediazione pontificia al centro: il tutto nell’ambito, al massimo, di una lasca confederazione.
È vero dunque che l’unificazione politica del Paese fu il risultato di una conquista sabauda, non di una patriottica intesa. Se poi si vuole infierire, fu anche il risultato di umilianti sconfitte militari. Ma due cose non sono vere.
La prima è che manchi all’unità del Paese la sua base storica. L’Italia si riconosce non solo nella pizza, nel gioco del pallone e nell’autocompiacenza amatoria, ma in una grande lingua e in una grandissima civiltà. La seconda è che il Risorgimento non fu soltanto conquista effimera e frutto di fortunose sconfitte. Fu anche movimento di popolo. Ci fu certamente il Risorgimento freddo, ma ci fu anche un Risorgimento caldo, fiammeggiante nelle giornate di Milano e di Brescia, nella repubblica romana, nella resistenza di Venezia, nell’avventura garibaldina.
Non soltanto. Contrapposto alla storia che inopinatamente si realizzò, il Risorgimento fu anche un grande disegno alternativo fallito ma ancora oggi carico di significato. Fu il progetto di una Federazione nella quale le realtà storiche del Paese, così ricche di irriducibile "personalità", costruissero, sulla base di una loro gelosa autonomia, una cangiante e meravigliosa unità.
Questo era il grande disegno di Cattaneo, di Salvemini, di Dorso. Un federalismo unitario, come tutti gli autentici federalismi vittoriosi, da quello americano a quello svizzero a quello tedesco. Unitario e patriottico. Niente da spartire con un leghismo protezionistico, tendenzialmente separatista e desolantemente, caro ragazzo, bigotto.
Questo grande disegno alternativo risultò sconfitto con grave danno dell’intero Paese al quale veniva a mancare la dorsale di sostegno: l’integrazione tra il Nord e il Sud d’Italia.
Ciò che ancora i "belgi" del Nord non hanno capito è la diversità sostanziale tra la questione meridionale e quella settentrionale. Quest’ultima è la sacrosanta espressione di interessi locali e di culture specifiche da tutelare. La prima invece è la colonna vertebrale dell’intero Paese.
Ecco perché i grandi meridionalisti hanno sempre mantenuto le distanze da un sudismo becero: hanno parlato non a nome di Palermo e di Napoli, ma dell’Italia e dell’Europa.
La prima vittima della soluzione unitaria-autoritaria è stato proprio il meridionalismo. All’ombra di quella la questione meridionale si è sbriciolata in una poltiglia di pretese locali; la classe politica si è decomposta in una serie di consorterie clientelari; il disegno dell’intervento straordinario, concepito inizialmente come grande progetto unitario di scala nazionale si è sminuzzato in una serie di interventi particolari esposti alle sollecitazioni e pressioni "private".
La tremenda minaccia che si addensa oggi sul Mezzogiorno non è più, come Gramsci denunciava, l’asservimento del Sud agli interessi dominanti del Nord. La depressione politica del Mezzogiorno non si identifica più nel potere della classe agraria e nella sua alleanza subalterna con la borghesia industriale del Nord, ma nel potere di una borghesia mafiosa e nello scambio elettorale tra la garanzia politica che essa assicura al governo centrale e le risorse finanziarie che ne riceve e che gestisce come un gigantesco "pizzo" attraverso i governi locali.
La "tremenda minaccia" è che il governo di quelle risorse sfugga anche a quella intermediazione e cada direttamente nelle mani delle grandi reti della criminalità internazionale.
Non accade già in certe regioni del Sud?
Queste domande ripropongono a centocinquant’anni di distanza il problema dell’unità d’Italia. Non è mai troppo tardi.
Sul presidente della Camera la parola d’ordine è minimizzare
Il premier: nulla di nuovo, è la sua linea
Berlusconi liquida anche la sortita del Carroccio: chiacchiere estive, hanno chiarito *
ROMA - Quello che è certo, è che Silvio Berlusconi non vuole entrarci, né unire la sua voce al «teatrino» della politica versione estiva. Chiuso nella sua villa di Arcore, dalla quale esce solo per fare sopralluoghi alle sue nuove proprietà, fa sapere che per lui le polemiche che stanno animando l’estate altro non sono che «chiacchiere di Ferragosto », robetta buona solo per «riempire i giornali che non saprebbero altrimenti di che parlare...». Si riferisce allo scontro frontale tra la Lega e il Vaticano, il premier, e il suo portavoce Paolo Bonaiuti ci ride su: «Ma quale scontro, non è che se la Padania scrive una cosa, quella è la voce di Bossi. E la Lega ha già spiegato esattamente come stanno le cose». Insomma, la parola d’ordine, nella giornata in cui anche Gianfranco Fini si ritaglia il suo spazio e sul bio-testamento apre un nuovo fronte con la Chiesa, a palazzo Chigi è minimizzare: «Fini? Non ha detto nulla di nuovo, quella è la sua linea...».
Ma le cose, raccontano, non stanno esattamente così. C’è chi assicura che la retromarcia della Lega sia anche frutto dell’intervento di Gianni Letta, irritatissimo dopo il tanto lavoro speso a ricucire i rapporti tra il premier e le gerarchie vaticane. E c’è chi giura che anche Berlusconi ha preso male l’ultima polemica scatenata dagli uomini di Bossi contro quei vescovi con i quali davvero il dialogo è ripreso, e andrà avanti sia domani all’Aquila alla cena tra il premier e il cardinal Bertone, sia in un futuro non troppo lontano con un incontro con il Papa al quale si sta lavorando. «Tutte bugie - ribattono seccamente da palazzo Chigi - nessuno di noi è intervenuto. E Berlusconi ha rapporti eccellenti con Bossi e non è affatto arrabbiato ».
E certamente è vero che il premier non ha intenzione di litigare con l’alleato del quale più si fida e assieme ha pragmaticamente voglia di riprendere a dialogare tranquillamente con la Chiesa, ma il pericolo che vedono alcuni dei suoi è che - senza una sua «zampata» - il nervosismo nel centrodestra superi il livello di guardia. Sì perché tra i cattolici del Pdl cresce il disagio per le posizioni della Lega e per la concorrenza nelle regioni del Nord, sulle quali si sta per giocare una battaglia campale per gli equilibri di maggioranza; e la stessa Lega segnala insieme baldanza ma anche insicurezza quando attacca a testa bassa su tutto, come se fosse - dice un amico del Cavaliere - infastidita dal «sentire il fiato sul collo dell’Udc...». Per questo tutti aspettano parole chiare da Berlusconi. Che quest’estate, finora, si è speso solo per difendere il suo stile di vita privato e quell’Umberto Bossi che «è un amico vero».
Paola Di Caro
* Corriere della Sera, 27 agosto 2009
L’ANALISI / Gli scatti di Antonello Zappadu e la vita privata del capo del governo possono minare la credibilità del paese alla vigilia dell’incontro con Obama e del G8
Perché la storia di quelle foto
cambia il registro di una crisi
di GIUSEPPE D’AVANZO *
CINQUEMILA foto che scrutano la vita del capo di un governo (una vita "disordinata": lo dice la moglie; lo ammettono anche i suoi fedelissimi) possono essere un trascurabile gossip soltanto per teste imprevidenti o vecchi volponi. È più responsabile parlare - per dirlo in modo chiaro - di una crisi della sicurezza nazionale. Può essere questo il nuovo e allarmante approdo di un affare che, in modo bizzarro, ha avuto inizio a una festa di compleanno di una ragazza di Napoli. Si è gonfiato con le ricostruzioni pubbliche di Silvio Berlusconi, presto diventate pubbliche menzogne e impossibilità a rispondere a dieci domande suscitate dalle sue stesse parole, contraddizioni, incoerenze.
Il "caso" è cresciuto con il racconto delle abitudini ambigue del presidente del consiglio che, in un qualsiasi pomeriggio d’autunno, telefona a una minorenne che non conosce (ne ha ammirato le grazie in un book fotografico) per invitarla a conservare la sua "purezza". Fin qui, anche se pochi hanno avuto finora l’interesse o la buona fede per capirlo, eravamo dinanzi a una questione politica che interrogava il divieto o il limite dell’uso della menzogna nel discorso pubblico. L’affare proponeva questioni non dappoco: l’attendibilità del premier e la costruzione di una realtà artefatta che si avvantaggia della debolezza delle istituzioni (il Parlamento); del dominio di chi - come Berlusconi - possiede e governa i media; delle pulsioni gregarie che li abitano.
Il racconto per immagini della vita privata che il capo del governo conduce, con i suoi ospiti, a Villa Certosa (viene detto oggi in cinquemila scatti) muta ora il registro. In queste foto, raccolte nell’arco degli ultimi tre anni, si può scorgere Silvio Berlusconi, circondato da stuoli di ragazze, alcune italiane, altre apparentemente slave, sempre giovanissime.
Il presidente del consiglio è con i suoi ospiti, in alcune occasioni. Sono avanti con gli anni. Hanno i capelli bianchi. Chi sono? Amici personali del presidente o dignitari stranieri? E, in questo caso, di quale Paese? Le fotografie - Repubblica ha preso visione soltanto di una parte - sono caste, ma non innocenti. La loro pubblicazione (vietata in Italia) può senza dubbio danneggiare l’immagine e la reputazione del capo del governo, provocare l’imbarazzo del nostro e di altri governi o comunque dei leader che Berlusconi ha ospitato a Punta Lada. Qui si può scorgere, in due incertezze, l’avvio di una possibile crisi.
Si pensava (lo pensava l’avvocato del premier) che tutte le foto fossero state eliminate dal mercato. Non è così. Ce ne sono altre migliaia in circolazione.
Che cosa ritraggono? Possono trasformare l’imbarazzo di Berlusconi in vergogna e la vergogna in disonore? E ancora, chi oggi può entrare in possesso di quelle foto? Al di là delle immagini delle jeunes filles en fleurs raccolte da Antonello Zappadu, quelle giovani ospiti straniere hanno avuto la possibilità di andar via con qualche scatto, con qualche immagine?
Ecco allora perché un affare nato in modo inatteso in un ristorante della periferia di Napoli, può diventare una minaccia della sicurezza nazionale. Non c’è dubbio che il presidente del Consiglio vive ore di grande debolezza in quanto non è in grado di sapere quali e quante immagini circolino (e non è necessario che siano compromettenti anche se sarebbe oggi avventuroso sostenere, con certezza, che non lo siano). Come non c’è dubbio che chi arraffa, o ha arraffato per tempo, quegli scatti, potrebbe avere un potere di interdizione sui passi del capo del governo.
Si comprende quindi il nervosismo, l’ansia del premier; la pressione che in queste ore muove sui servizi segreti per avere non solo, come pure si è detto, una maggiore protezione per il futuro, ma - e quel che conta - la sterilizzazione di ogni minaccia che viene dal passato e la distruzione di ogni disegno aggressivo che può affacciarsi nel presente.
Questa condizione di precarietà, dicono, avrebbe convinto Berlusconi a chiedere all’intelligence un’azione meno "politica" e discreta, più convinta e determinata per liberare i suoi giorni da ogni possibile ombra. Soprattutto alla vigilia di importati appuntamenti internazionali (l’atteso incontro con Obama, il G8 di luglio a l’Aquila).
Ma, ammesso che ci siano i margini tecnici per mettere in sicurezza la reputazione del presidente del consiglio, nessuno oggi è in grado di dire se non sia già troppo tardi. In questo dubbio, c’è tutta l’asprezza di una crisi che deve ancora trovare il suo vero nome.
* la Repubblica, 12 giugno 2009
Vacuità della politica
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 31/5/2009)
Non è la prima volta che il presidente del Consiglio s’indigna per il trattamento che gli riservano i magistrati che lo processano, o i giornalisti che indagano sulla spregiudicatezza con cui mescola condotte private e pubbliche. S’indigna a tal punto che le due figure - il magistrato, il giornalista - sono equiparate a quella del delinquente: è avvenuto giovedì all’assemblea della Confesercenti. Le tre categorie sono assimilate a loro volta all’opposizione politica. Le accuse che vengono loro rivolte sono essenzialmente due. Primo, l’offesa al popolo sovrano, al consenso che esso ha dato alle urne e che imperturbato rinnova nei sondaggi. Secondo, la natura pretestuosa di tali attacchi antidemocratici: il primato dato alla forma sulla sostanza, ai problemi finti degli italiani su quelli veri, allo show sulla realtà, al gossip sulla politica del leader.
L’accusa va presa sul serio, perché il premier ha costruito il proprio carisma sulla maestria dello show e non ha concorrenti in materia. In particolare sa abbandonarlo, se serve, e presentare l’avversario come vero manipolatore della società dello spettacolo. Come ha scritto Carlo Galli, «il suo vero potere è sul linguaggio e sull’immaginario»: qui è l’egemonia che dagli Anni 80 esercita sul senso comune degli italiani, e che l’opposizione non ha imparato a scalfire (la Repubblica 25 maggio).
Ma qualcosa si va scheggiando, in questo perfetto potere d’influenza, come accade agli apprendisti stregoni che non dominano più interamente i golem fabbricati.
Il gossip, lo show, il privato che fagocita il pubblico, i problemi veri semplificati fino a divenire non-problemi, dunque falsi problemi: questi i golem, e tutti provengono dalle officine del berlusconismo. Sono la stoffa della sua ascesa, gli ingredienti della sua egemonia culturale in Italia. Quel che succede oggi è una nemesi: il problema finto divora quello vero, show e gossip colpiscono chi li ha messi sul trono. All’estero la condanna è dura. Non da oggi, certo: l’Economist lo giudicò «inadatto a governare» il 28 aprile 2001, sono passati anni e Berlusconi resta forte. Ma lo sguardo esterno stavolta s’accanisce, perché finzioni e non-verità si accumulano.
Il fatto è che nel frattempo il mondo è cambiato, attorno a lui. Berlusconi è figlio di un’epoca di vacuità della politica: il mercato la scavalcava impunemente, ignorando ogni regola; l’imprenditore-speculatore sembrava più lungimirante e realista del politico di professione. Il liberalismo dogmatico regnò per decenni, e Berlusconi fu una sua escrescenza. Ma questo mondo giace oggi davanti a noi, squassato dalla crisi divampata nel 2008. La regola e la norma tornano a essere importanti, il realismo dei boss della finanza è screditato, la domanda di politica cresce. È quel che Fini presagisce: senza dirlo si esercita in toni presidenziali, conscio del prestigio miracolosamente sopravvissuto del Colle. La crisi del 2007-2008 è sfociata in America nella sconfitta di Bush, ma quel che Pierluigi Bersani ha detto in una recente conferenza è verosimile: «Il capitalismo non finisce, ma finisce una fase ad impronta liberista della globalizzazione. E non finisce perché c’è Obama, ma c’è Obama perché finisce».
Questo spiega come mai Berlusconi - a seguito della sentenza Mills che lo indica come corruttore di testimoni e della vicenda Noemi in cui appare come boss che esibisce private sregolatezze fino a sfidare il tabù della minorenne - irrita più che mai chi ci guarda da fuori. Un’irritazione che si accentua di fronte ai troppi nascondimenti della verità: nel caso Mills la verità di sentenze che non sono tutte di assoluzione ma anche di prescrizione o assenza di prove; nel caso Noemi la verità di incontri poco chiari. Non dimentichiamolo: quando si incolpano le bolle, finanziarie o politiche, è di menzogne e sortilegi che si parla.
Quel che finisce, attorno a noi, è la negligenza dell’imperio della legge, della rule of law. Non tramonta solo il dogma del mercato onnisciente ma la figura del sovrano-boss, eletto per stare sopra le leggi, i magistrati, le costituzioni, le istituzioni. La fusione tra il suo interesse-piacere privato e il suo agire pubblico diventa un male non più minore ma maggiore, perché nelle democrazie c’è sete di regole e istituzioni, dopo lo sfascio, e non di favole ottimiste ma di realtà e verità. C’è bisogno di gesti fattivi e antiburocratici come la presenza in Abruzzo o a Napoli sui rifiuti, ma c’è anche bisogno di cose che durino più di una legislatura e non siano bolle. È utile osservare l’America, oggi: l’immenso sforzo pedagogico che sta compiendo Obama, per convincere i cittadini che il breve termine è letale, che la Costituzione e le norme devono durare più dei politici.
Deve poter durare il sistema di checks and balances innanzitutto: l’equilibrio tra poteri egualmente forti e indipendenti. Il presidente americano sta riconquistando l’egemonia della parola, con linguaggio semplice e vera passione pedagogica. Il suo discorso su Guantanamo e terrorismo, il 21 maggio, lo conferma: «Nel nostro sistema di pesi e contrappesi, ci deve essere sempre qualcuno che controlli il controllore. \ Tratterò sempre il Congresso e la giustizia come rami del governo di eguale rango». Berlusconi va oggi controcorrente: all’estero non ha altra sponda se non quella di Putin, figura tipica di politico-boss.
Tuttavia la società italiana gli crede ancora, e questo consenso varrà la pena studiarlo, con la stessa umile immedesimazione mostrata da Obama. Varrà la pena studiare perché gli italiani somigliano tanto ai russi, come se anch’essi avessero alle spalle regimi disastrosi. Perché tanta sfiducia verso le regole, lo Stato, la res publica. Non esiste una congenita debolezza morale degli italiani, e dunque occorre capire come mai la politica è così profondamente sprezzata, il conflitto così radicalmente temuto. La tesi esposta più di vent’anni fa dallo studioso Carlo Marletti è tuttora valida: è vero che da noi esiste un «eccesso di pluralismo e complessità che le istituzioni legali non semplificano» adeguatamente. E che al loro posto si sono installate auto-organizzazioni informali, claniche o familiste, che non sono arcaiche ma si sono adattate alla modernità meglio di altre. Marletti spiega come lo sviluppo industriale si sia mescolato alla criminalità organizzata e come si siano creati, in assenza di uno Stato che semplifichi la complessità, meccanismi di semplificazione sostitutivi, solidaristico-clientelari, «di tipo nero o sommerso» (Marletti, Media e politica, Franco Angeli, 1984).
Berlusconi prometteva questa fuga nella semplificazione deviante, meno ingarbugliata che ai tempi della Dc. Secondo il filosofo Václav Belohradsky, essa è basata sul prevalere dei fini personali o corporativi sui mezzi che sono le norme prescritte a chi vuol realizzare tali fini. Tra i due elementi è saltata ogni coerenza ed è il motivo per cui l’Italia vive nell’anomia sociale, come fosse fuori-legge.
In Italia accade questo: le mete del singolo sono tutto, le norme nulla. La legalità vale per gli altri (i clandestini), non per noi, scrive Carlo Galli. Per noi le leggi sono d’impedimento: quelle italiane e anche quelle dell’Unione Europea, come ha ripetuto Berlusconi alla Confesercenti. L’opposizione potrebbe ripartire da qui: dalle norme pericolosamente sprezzate, dall’Europa che il governo finge di poter aggirare senza rischi, dalla sovranità nazionale che esso finge di possedere, a cominciare dal clima. La commistione privato-pubblico ha condotto a tutto questo, non è solo la storia di un padre, di una moglie mortificata, dei loro figli. I più preveggenti dicono: dopo la crisi il mondo non sarà più eguale. Berlusconi promette di conservarlo: anche questo è bolla, ed è spinta rivoluzionaria che si sta esaurendo
Dal nulla compare «Berlusconi presidente» *
Il Tg1 delle 20 rilancia le immagini dell’intervista a Silvio Berlusconi sulla Cnn, quella in cui il premier parla del caso Noemi («un boomerang per la sinistra»), dell’imminente voto, del rapporto con l’opposizione, di un prossimo incontro con Obama.
Ma sul video mandato in onda dal canale all news statunitense manca il simbolo del Pdl. E allora? Il telegiornale di Rai 1, in attesa di essere diretto da Augusto Minzolini, provvede, aggiungendo il simbolo con la scritta «Berlusconi presidente» alle spalle del premier. E per fare un lavoro più pulito viene aggiunta anche una bella ombra, lavorata ben bene per creare l’effetto giusto sulle pieghe della tenda.
* l’Unità, 25 maggio 2009 (per vedere le immagini, clicca sul sorro).
«Berlusconi cinico ha troppa fretta di arrivare al Quirinale»
di Jolanda Bufalini *
Sono un vecchio signore di 82 anni, dice Ermanno Rea, autore di “Napoli ferrovia” e di “Mistero napoletano”, fra i firmatari dell’appello lanciato da l’Unità . «Appartengo alla civiltà dell’indignazione e quindi vorrei - di fronte a certi comportamenti corrivi della politica e delle istituzioni - che anche gli altri, molti altri si indignassero. Invece non c’è abbastanza indignazione, non c’è abbastanza ribellione. Ci sono state bugie a non finire, all’opinione pubblica è stata raccontata una creatura florida, che può partorire, non quel corpo provato...».
Come ha vissuto il dramma di Eluana Englaro?
«Siamo in un territorio sconosciuto, io non ho certezze di alcun genere sul coma e sulla sensibilità durante il coma. Ma inorridisco alla contrapposizione fra partito della vita e partito della morte. La tecnica perfeziona la capacità di prolungare l’esistenza. Quello che vale, allora, è la regola della discrezionalità. È libero sia chi accetta quei trattamenti sia chi considera che la vita si esprime in tutta la sua ricchezza e non ridotta a mero respiro. Lo stato deve disciplinare questa discrezionalità».
Per fermare i medici Berlusconi ha pensato a un decreto...
«L’impressione è che Berlusconi abbia agito con cinismo, in modo strumentale, per ricavare dell’utile, altrimenti il salvatore della vita umana avrebbe agito prima».
Ha parlato di Costituzione sovietica
«La Costituzione va custodita e per cambiarla vanno seguite le procedure stabilite dalla stessa Carta. Non si può fare in fretta, anche se un signore che ha più di settanta anni aspira alla carica presidenziale».
Ha apprezzato l’operato del presidente della Repubblica?
«Giorgio Napolitano è un presidente di grande prudenza, anche caratterialmente non è persona dalle “alzate di testa”. Per questo è credibile e indenne da sospetti».
* l’Unità, 12 febbraio 2009